Saggio sul cinema Italiano del dopoguerra 147106686X, 9781471066863

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Saggio sul cinema Italiano del dopoguerra
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Table of contents :
1. Il cinema fascista (1922-1943)
1.1 Il contesto storico degli anni 40/43
1.2 Segni premonitori
2. La rinascita del cinema
2.1 Il contesto storico degli anni della Resistenza
2.2 La cultura neorealistica
2.3 Il nuovo cinema italiano
3. Il centrismo e la fine del neorealismo
3.1 La restaurazione censoria
4. La terra trema e il nuovo cinema neorealista
5. Maccartismo italiano e fine del centrismo degasperiano
5.1 La crisi e il superamento del neorealismo
5.2 Il cinema di Antonioni
5.3 Vittorio De Sica
5.4 Carlo Lizzani
5.5 Luchino Visconti
5.6 Giuseppe De Santis
5.8 Il neorealismo rosa
5.9 Alcuni dati
5.10 Il cinema di Federico Fellini
6. Altri film degli anni ‘50
6.1 La situazione dell’industria cinematografica
6.2 Il cinema di Franco Rossi e Francesco Rosi
7. La delicata situazione della seconda legislatura
7.1 La crisi industriala del 1956 e la ripresa del ’58-‘63
7.2 La crisi politica e i tentativi eversivi del 1960
7.3 La cultura del consumo
7.4 Il nuovo corso del cinema italiano
7.5 Rocco e i suoi fratelli e La dolce vita
7.6 La trilogia di Antonioni
8. L’Italia del ’60 e oltre
8.1 Francesco Maselli
8.2 Valentino Orsini
8.3 Valerio Zurlini
8.4 Vittorio DeSeta
8.5 Lina Wertmüller
8.6 Luigi Magni
8.7 Salvatore Samperi
8.8 Tinto Brass
8.9 Nelo Risi
8.10 Sergio Citti
8.11 Franco Brusati
8.12 Gianfranco Mingozzi
8.13 Liliana Cavani
8.14 Mauro Bolognini
8.15 Leonardo Pieraccioni
9. Cinema altro - Autori oltre i confini temporali
9.1 Pier Paolo Pasolini
9.2 Federico Fellini
9.3 Luchino Visconti
9.4 Michelangelo Antonioni
9.5 Francesco Rosi
9.6 Elio Petri
9.7 Gillo Pontecorvo
9.8 Giuliano Montaldo
9.9 Giuseppe Ferrara
9.10 Marco Ferreri
9.11 Ettore Scola
9.12 Marco Bellocchio
9.13 Nanny Loy
9.14 Damiano Damiani
9.15 Bernardo Bertolucci
9.16 Paolo e Vittorio Taviani
9.17 Ermanno Olmi
9.18 Nanni Moretti
9.19 Gianni Amelio
9.20 Gabriele Salvatores
9.21 Roberto Benigni
9.22 Giuseppe Tornatore
9.23 Sergio Leone
9.24 Carmelo Bene
9.25 Dario Argento
9.26 Maurizio Ponzi
9.27 Emanuele Crialese
11. Bibliografia
12. Notizie sull’Autore
13. Altre opere dello stesso Autore

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Maurizio Massa

Saggio sul cinema italiano del dopoguerra

Saggio sul cinema italiano del dopoguerra

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Nota dell’autore Questo saggio è stato scritto all’inizio degli anni settanta, mentre compivo insieme al regista Beppe Ferrara un’esaltante esperienza cinematografica gestita in forma corale e con spirito cooperativistico. Esperienza che ci

portava ad avere contatti con l’intellettualità presente a Roma e in altre città d’Italia (sceneggiatori, registi, scrittori, pittori, scultori, musicisti, ma anche politici aperti e progressisti e altri illuminati uomini di cultura) per trovare aiuto, anche economico, nell’organizzazione di un lavoro assai complesso che solo così vide la luce. Gli ideali sociali che ci ispirarono - e che furono i principi ispiratori del neorealismo - sono anche alla base di questo saggio. Oggi ne propongo una versione aggiornata che prende in considerazione gli anni sessanta ma anche i successivi, senza disconoscere le tesi allora formulate e gli spunti imprescindibili che devono guidare un’esposizione critica: l’inquadramento storico dei fatti, gli effetti sulla cultura del momento e le influenze reciproche che ne determinano le forme e il linguaggio. Scrive Björn Larsson: “Uno si crede originale, forse soprattutto come artista, mentre in realtà è impregnato dello spirito del tempo, delle atmosfere, delle idee, delle correnti e delle tendenze che fluttuano in modo imperscrutabile in giro per il mondo” (“La saggezza del mare, Da Capo dell’Ira alla Fine del Mondo”, traduzione di Katia De Marco, Iperborea 2003/2008). Nella Critica dell'economia politica, come ho annotato da qualche parte nel saggio, Marx scriveva: "Il fatto artistico crea un pubblico in grado di capire l'arte e di godere della sua bellezza. Pertanto la produzione produce non soltanto l'oggetto per il soggetto, ma anche il soggetto per l'oggetto". Ciò è vero solo nella misura in cui il prodotto ha in sé la capacità di creare il suo pubblico, tenendo conto del principio fondamentale cui l’arte deve ispirarsi e, cioè, di quella forma spettacolare della bellezza capace di calamitare l’attenzione dello spettatore e, quindi, di condurlo a sé, facendogli maturare le capacità culturali necessarie per comprenderne forma, espressione, linguaggio e saper vedere al di là di tutto questo. Sergio Leone, uno dei più grandi cineasti italiani, ebbe a dire: ”Il cinema dev'essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole”. È tuttavia vero quanto asseriva Bela Balash “Il cinema, arte del vedere, è nelle mani di coloro che hanno molto da nascondere”. Le manipolazioni politiche e anche clericali della cultura erano presenti ai tempi del regime fascista come sono state presenti negli anni del potere democristiano e sono presenti oggi. Riprendere in mano un lavoro scritto quarant’anni prima è come rubarlo all’autore, fare un’opera di sciacallaggio che non mi sento di fare neppure su

me stesso. In quest’ottica, pur nella consapevolezza che oggi avrei scritto questo saggio in modo diverso, mi limito ad aggiornarlo, conscio del fatto che potrebbe sembrare scritto a due mani, da due autori diversi. Non mi voglia nessuno per siffatta incoerenza. Sono gli scherzi della mia nuova età.

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SOMMARIO 1. Il cinema fascista (1922-1943) 1.1 Il contesto storico degli anni 40/43 1.2 Segni premonitori 2. La rinascita del cinema 2.1 Il contesto storico degli anni della Resistenza 2.2 La cultura neorealistica 2.3 Il nuovo cinema italiano 3. Il centrismo e la fine del neorealismo 3.1 La restaurazione censoria 4. La terra trema e il nuovo cinema neorealista 5. Maccartismo italiano e fine del centrismo degasperiano 5.1 La crisi e il superamento del neorealismo 5.2 Il cinema di Antonioni 5.3 Vittorio De Sica 5.4 Carlo Lizzani 5.5 Luchino Visconti 5.6 Giuseppe De Santis 5.7 Il film-verità 5.8 Il neorealismo rosa 5.9 Alcuni dati 5.10 Il cinema di Federico Fellini 6. Altri film degli anni ‘50 6.1 La situazione dell’industria cinematografica

6.2 Il cinema di Franco Rossi e Francesco Rosi 7. La delicata situazione della seconda legislatura 7.1 La crisi industriala del 1956 e la ripresa del ’58-‘63 7.2 La crisi politica e i tentativi eversivi del 1960 7.3 La cultura del consumo 7.4 Il nuovo corso del cinema italiano 7.5 Rocco e i suoi fratelli e La dolce vita 7.6 La trilogia di Antonioni 8. L’Italia del ’60 e oltre 8.1 Francesco Maselli 8.2 Valentino Orsini 8.3 Valerio Zurlini 8.4 Vittorio DeSeta 8.5 Lina Wertmüller 8.6 Luigi Magni 8.7 Salvatore Samperi 8.8 Tinto Brass 8.9 Nelo Risi 8.10 Sergio Citti 8.11 Franco Brusati 8.12 Gianfranco Mingozzi 8.13 Liliana Cavani 8.14 Mauro Bolognini 8.15 Leonardo Pieraccioni 9. Cinema altro - Autori oltre i confini temporali 9.1 Pier Paolo Pasolini 9.2 Federico Fellini 9.3 Luchino Visconti 9.4 Michelangelo Antonioni 9.5 Francesco Rosi 9.6 Elio Petri 9.7 Gillo Pontecorvo 9.8 Giuliano Montaldo 9.9 Giuseppe Ferrara 9.10 Marco Ferreri 9.11 Ettore Scola 9.12 Marco Bellocchio

9.13 Nanny Loy 9.14 Damiano Damiani 9.15 Bernardo Bertolucci 9.16 Paolo e Vittorio Taviani 9.17 Ermanno Olmi 9.18 Nanni Moretti 9.19 Gianni Amelio 9.20 Gabriele Salvatores 9.21 Roberto Benigni 9.22 Giuseppe Tornatore 9.23 Sergio Leone 9.24 Carmelo Bene 9.25 Dario Argento 9.26 Maurizio Ponzi 9.27 Emanuele Crialese 11. Bibliografia 12. Notizie sull’Autore 13. Altre opere dello stesso Autore ***** 1. Il cinema fascista (1922-1943) Furono gli anni in cui si discuteva animatamente se il cinema fosse arte o no. Dal 28 ottobre 1922 al 25 luglio del '43 nell'Italia fascista, il cinema italiano è riorganizzato sotto il controllo del regime che in esso vede una potente arma di propaganda. Il fascismo sopprime il cinema d'arte e crea tutte le strutture tecniche per la realizzazione di una cinematografia di Stato mirata alla formazione culturale e politica della gente. Nascono l'Istituto Nazionale LUCE (La Unione Cinematografica Educativa), la Direzione Generale per la Cinematografia, l’ENIC (Ente Nazionale Industrie Cinematografiche), l’ECI (Esercizio Cinematografico Italiano), la Cines e, infine, il Centro Sperimentale. La finalità dell’Istituto Luce è la produzione di documentari in genere e, in particolare, dei famosi "giornali Luce" che osannano le opere e le guerre

fasciste. Lo scopo per cui nasce la Direzione Generale per la Cinematografia (direttamente dipendente dal Sottosegretario per la Stampa e Propaganda Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, che nomina Direttore generale Luigi Freddi, uomo di partito) è quello di mantenere il diretto controllo sulla produzione nazionale. L'ENIC nasce per la distribuzione cinematografica sul territorio nazionale. Cinecittà è dotata di teatri di posa (i più attrezzati d'Europa) e degli strumenti necessari a tutte le lavorazioni richieste dal cinema professionale. L'ECI nasce per l’esercizio ed è realizzato con l'acquisto delle sale del circuito dei fratelli Leoni. La Cines nasce per la produzione di film a lungometraggio. Infine, il Centro Sperimentale è fondato per la formazione dei quadri tecnici e dei registi. Grazie all'opera svolta dal critico e teorico Umberto Barbaro e dallo storico Pasinetti, non avrà l’indirizzo politico auspicato dal regime (Una funzione di formazione ideologico - culturale ostile al regime in quegli anni viene svolta anche dai GUF (Gruppi Universitari Fascisti), molto meno favorevoli a Mussolini di quanto non lasci supporre il nome). A completamento dell’opera, è riorganizzato anche il meccanismo economico per la promozione industriale nel campo cinematografico. Sono così istituite delle provvidenze in favore della produzione cinematografica, pari al 25% dell'incasso lordo al botteghino del singolo film, riconoscendo ufficialmente un "premio" tanto più alto quanto più il film risulta commerciale (cioè d'evasione). I film d'arte che, in assenza di una preparazione culturale del pubblico, incassano poco e maggiormente avrebbero bisogno d’incentivazioni, sono penalizzati ricevendo un "premio" molto basso, al fine di scoraggiare i produttori da questo tipo d’investimento. Con decreto legge del settembre 1938 è affidato all’ENIC il monopolio delle importazioni dei film; ciò produce l'aumento degli incassi della produzione nazionale (dai 58 film prodotti nel 1938, si passa ai 118 del 1942) e il ritiro, per protesta, di tutti i film americani dal territorio italiano. È così eliminata la concorrenza americana. Con questo metodo a ciclo chiuso, il regime produce esclusivamente quel cinema che sostiene il suo sistema politico. La qualità delle pellicole si deteriora sempre più fino ad annullare completamente quel cinema che era stato definito il primo del mondo

(Georges Sadoul, "Storia del cinema mondiale", vol. I "Dalle origini alla fine della II guerra mondiale", Feltrinelli Editore, Varese 1972). Siamo agli anni definiti dei “telefoni bianchi” e la nuova cinematografia nazionale è ora composta da film rosa, commedie sentimentali e colossi in costume. In quegli anni sono prodotti solo film dichiaratamente politici, promossi e premiati dal regime stesso, o di pura evasione. Intorno agli anni '40-'43, a dispetto dell’enorme quantità di mezzi impiegati dal fascismo a sostegno della propria cultura, inizia però la produzione di un cinema alternativo, capace di esprimere i primi dissensi dal regime. In quegli anni, infatti, comincia a maturare negli Italiani una coscienza critica e la situazione politica inizia a evolversi in senso inverso a quello voluto dal fascismo. La filmografia più significativa di quegli anni è sinteticamente riportata appresso: 1926: Maciste all’inferno e Maciste nella gabbia dei leoni, ambedue di Brignone; 1928: Beatrice Cenci, di Negroni; 1930: Rotaie, di Camerini; 1932: Gli uomini che mascalzoni, di Camerini; 1933: Acciaio, di Ruttmann; Camicia nera, di Forzano; Ti amerò sempre, di Camerini. 1936: Squadrone bianco, di Genina; Ma non è una cosa seria, di Camerini. 1937: Scipione l’Africano, di Gallone; Il signor Max, di Camerini. 1938: Luciano Serra Pilota, di Alessandrini; Batticuore, di Camerini. 1939: L’assedio dell’ Alcazar, di Genina; Grandi Magazzini, di Camerini. 1940: La corona di Ferro, di Blasetti; Una romantica avventura, di Camerini. 1941: I promessi sposi, di Camerini; Uomini sul fondo, di De Robertis; La nave Bianca, di Rossellini; Piccolo mondo antico, di Soldati. 1942: Giarabub, di Alessandrini; Alfa Tau, di De Robertis; L’uomo della croce, di Rossellini; Zaza, di Castellani; Gelosia, di Poggioli. 1943: Un pilota ritorna, di Rossellini. 1.1 Il contesto storico degli anni 40/43

Il 10 giugno 1940 Mussolini, persuaso che la Germania sta già per vincere la guerra, annuncia agli Italiani, dal balcone di palazzo Venezia, la dichiarazione di guerra, assumendo personalmente l'alto comando delle truppe operanti su tutti i fronti. Pietro Nenni, esule in Francia, annota sul suo diario: "È una guerra senza ragione, senza scusa, anche senza onore. Senza ragione perché non è in gioco alcun reale interesse italiano. Senza scusa, perché una vittoria tedesca in questa guerra importerebbe a noi, come al resto d'Europa, l'intollerabile e brutale egemonia di Hitler. Infine senza onore, perché Mussolini attacca una Francia già invasa e agonizzante, facendo assumere all'Italia la parte dello sciacallo". Si rileva, tuttavia, che già sul finire del 1938, soprattutto tra i giovani s’intensifica la stanchezza di vivere in un continuo clima di fanatismo e di retorica. Negli stessi Littoriali - organizzati come rassegne annuali delle forze intellettuali universitarie - si evidenziano quelle esigenze di opposizione e di rinnovamento morale che il fascismo ha per tanti anni soffocato. Si tratta, in un primo tempo, di una resistenza ideologica "nel sistema", che poi si allarga "al sistema" quando i rovesci d'Africa, Grecia e Russia favoriscono i "fenomeni di osmosi tra i gruppi potenzialmente antifascisti presenti nei GUF e comunque gravitanti ancora intorno al mondo universitario e i quadri dei movimenti antifascisti e clandestini" (Massimo Ganci, "L'Italia antimoderata", Guanda Editore, Parma 1968). Gli stessi fascisti sono già in crisi, senza alcuna possibilità di comunione cordiale e umana con la gente. 1.2 Segni premonitori In questo clima, da una parte è incrementata la produzione di propaganda fascista, dall'altra però si cominciano ansiosamente ad accendere le speranze di un possibile cambiamento e si realizzano i primi lavori del dissenso. Sono segnali molto timidi ma, inquadrati nel particolare clima di tensione, sono interpretati dagli spettatori come un "segno". Subito dopo la guerra d'Abissinia, sulla falsa riga di Scipione l'Africano realizzato nel '37 da Carmine Gallone, mobilitando elefanti ed enormi masse di comparse, si producono La corona di ferro di .Blasetti; Uomini sul fondo di

De Robertis; La nave bianca di Rossellini; Giarabub di Alessandrini; Alfa Tau di De Robertis; L'uomo della croce di Rossellini; Un pilota ritorna di Rossellini, e altri analoghi film di regime. Si distingue un po’ dagli altri La corona di ferro (del 1941) che ha enorme successo alla Mostra di Venezia e vince la Coppa Mussolini. È la storia dello scontro tra popolazioni pagane per la conquista di una corona magica rubata. Tuttavia, lo spirito pacifista pervasivo della pellicola, alle soglie dell’ingresso dell’Italia in guerra, fa vedere a Goebbels, Ministro della Cultura e Propaganda nazista, una pericolosa forza eversiva. Intanto, si assiste alla nascita anche di un cinema più apertamente del dissenso, i cui titoli più rilevanti sono: Quattro passi tra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica, Ossessione di Visconti (tutti del '42, anno in cui è più acuta la crisi del regime). Quattro passi tra le nuvole è una graziosa commedia che racconta la storia di un uomo sposato che, prima in treno e successivamente in bus, incontra casualmente una ragazza incinta. Questa non osa tornare a casa perché teme le reazioni del padre e convince l'uomo a fingersi suo marito. Alla fine, dopo una serie di equivoci divertenti, sarà perdonata e accolta dai suoi genitori. Sceneggiato con la collaborazione di Cesare Zavattini, il film è denso di sottintesi e di critiche al regime, certamente voluti dallo sceneggiatore. Gli interpreti (Gino Cervi nel ruolo del viaggiatore, Adriana Benetti in quello della ragazza incinta, Umberto Sacripante in quello del padre contadino della ragazza) imprimono un carattere vivace e spigliato alla commedia. Le trovate del film - tratte in parte dalla commedia americana - rappresentano la prima intelligente satira contro il fascismo che trova come sfondo non un'Italia piena di fastosità e di fragore bellico, con le strade grandi e i palazzi nuovi e i treni in perfetto orario, ma un paese povero, pieno di problemi, che ha anche le strade di periferia e le case modeste e, soprattutto, un paese in cui esistono anche gli "individui" con i loro problemi quotidiani. L'importanza di questo film non è tanto nell'opera in se stessa, quanto nel fatto che, forse senza intenzione dell'autore, gli spettatori vedono in esso un celato simbolismo ricco di segnali di un vicino mutamento storico. Altro film di successo è I bambini ci guardano, tratto dal racconto "Pricò" di Cesare Giulio Viola. Pricò è un bambino costretto a vivere,

involontariamente, le vicende dei "grandi": la madre, per l'amante, abbandona marito, casa e figlio, ma poi, pentita, torna. Non passa molto tempo che abbandona di nuovo tutto, ma questa volta con drammatiche conseguenze sul resto della famiglia perché il marito, infatti, si uccide. Il film, sceneggiato dallo stesso De Sica in coppia con Cesare Zavattini, mostra senza falsi toni per la prima volta il mondo piccolo-borghese con i suoi malesseri. Scrutando la crisi di una famiglia, attraverso gli occhi ancora innocenti di un bambino, De Sica valica il tema del "nucleo familiare" inteso come unione di tutti i componenti della famiglia, concetto tanto caro alla Chiesa ma propagandato anche dal regime, e lo generalizza per riproporci una realtà ben diversa. Con il suo pronunciamento morale su una famiglia piccoloborghese, arriva a coinvolgere tutta una classe. Terzo film di cui molto si discute in quegli anni è Ossessione, tratto dal racconto di James Cain "Il postino suona sempre due volte" (ridotto e sceneggiato per lo schermo da Antonio Pietrangeli, Giuseppe De Santis, lo stesso Visconti, Mario Alicata, Gianni Puccini), narra la storia di una ragazza che diventa l'amante di un vagabondo (Gino) e lo convince a uccidere con la propria complicità l'anziano marito. Dopo una paurosa corsa in automobile, per un incidente, Giovanna perderà la vita, mentre Gino sarà arrestato "ingiustamente". Con questo film del 1942 Visconti, al suo primo lavoro cinematografico, anticipa il neorealismo italiano, esprimendo in esso tutto un proprio mondo, senza lasciarsi influenzare dalla letteratura americana né dalle reminiscenze del cinema francese. "Ossessione - scrive Fabio Carpi - sta al cinema di allora, come Conversazione in Sicilia sta alla narrativa dello stesso periodo. Due opere e due artisti che diventano anche due manifesti e due guide, non tanto per quel che chiaramente dicevano, quanto per quel che indirettamente suggerivano. Né, d'altra parte, Visconti e Vittorini avrebbero potuto esprimersi più apertamente senza incappare nella censura o nella galera fascista". Il film, alla sua prima uscita, fa scandalo, perché rappresentava poveri ambienti e cose reali, un adulterio e un omicidio impuniti, tutti argomenti vietati dal fascismo. Ambientata tra l'Emilia e le Marche, la pellicola mostra le strade delle città e il temperamento popolare del proletariato e del sottoproletariato, portatori di violenti eccessi amorosi e di collere istintive. La trama del film è

splendidamente sintetizzata in un articolo di Pietrangeli, collaboratore alla sceneggiatura: "Davanti a un distributore di benzina che si leva lungo la strada come un palo di frontiera, vediamo immobilizzarsi una lunga carrellata alla Renoir. E di colpo, con una rottura lirica, così brusca da togliere il fiato, un movimento della macchina da presa serve a introdurre in modo regale un personaggio nostro, un personaggio ancora senza volto, con un panciotto strappato sulla pelle bruciata dal sole, col passo stanco ed esitante di chi sgranchisce le gambe dopo aver dormito a lungo su un autocarro. Vogliamo battezzare noi stessi il Gino di Ossessione? Chiamiamolo, se volete, il neorealismo italiano". Con questo film, ritirato poco dopo l'uscita dai fascisti, il cinema italiano rinascerà rinnovato. E non è affatto un caso se proprio nel '42, dopo la realizzazione dei tre film sopra descritti, nascono in Italia i primi movimenti artistici spontanei del settore, per opera di alcuni giovani documentaristi che testimoniano il cambiamento in atto. Ci si riferisce, in particolare, a Il pianto delle zitelle di Giacomo Pozzi Bellini e a Comacchio di Fernando Cerchio. ***** 2. La rinascita del cinema 2.1 Il contesto storico degli anni della Resistenza Il 1943 inizia sotto il segno della sconfitta: massicci bombardamenti di aerei alleati sulle maggiori città italiane ed europee indicano la ferma volontà degli Anglo-americani di colpire a morte sia le truppe combattenti sia le popolazioni civili. Per l'Italia, ormai ai limiti delle proprie possibilità di resistenza, si profila un'unica via d'uscita: lo sganciamento immediato dalla Germania e un riavvicinamento agli alleati. Con lo sbarco in Sicilia, la caduta del fascismo e l'armistizio dell'8 settembre, l’Italia si trasforma in un campo di battaglia. Il paese è tragicamente diviso tra due governi, lacerato nella sua unità territoriale e spirituale. Proprio in questi drammatici momenti ogni cittadino si prepara a costruire una nuova realtà e a dare il proprio contributo alla liberazione del paese.

Al movimento di rivolta al nazifascismo partecipano cittadini di tutti i ceti sociali, uniti dalla comune volontà di combattere e lottare in difesa dei propri ideali. Dal settembre '43 all'aprile ‘45 il "Vento del Nord" sembra dover spazzar via le remore del passato, portando il rinnovamento nelle vecchie strutture dello Stato; ma allo slancio rivoluzionario si frappongono le insanabili divergenze fra i vari gruppi della Resistenza che finiscono per sbarrare la strada agli sforzi di rinnovamento profondo del paese. "Sapevamo benissimo - scrive Carlo Levi - (...) che quelli erano avvenimenti decisivi, che il futuro d'Italia per molti anni ne sarebbe dipeso; che si trattava di decidere se quello straordinario movimento popolare che si chiamava Resistenza avrebbe avuto uno sviluppo nei fatti, rinnovando la struttura del paese; o se sarebbe stato respinto tra i ricordi storici, rinnegato come attiva realtà, relegato tutt'al più nel profondo della coscienza individuale, come un'esperienza morale senza frutti visibili, piena soltanto delle promesse di un lontano futuro" (Carlo Levi, "L'orologio", Mondadori, Milano 1962). 2.2 La cultura neorealistica Nella storia della cultura italiana l'anno 1945 segna una data fondamentale: la nascita di quel movimento che la critica suole definire "neorealismo". È uno stato d'animo collettivo che deriva, fondamentalmente, dall'esigenza di rinnovamento materiale e spirituale della nazione e della struttura dello Stato, da compiere attraverso un prioritario dibattito ideologico, politico e culturale. È una cultura realistica e popolare non rivolta a un'élite di specialisti bensì a tutti; è uno strumento "rivoluzionario" che, attraverso il dibattito tra le diverse ideologie confluite nella Resistenza, ha lo scopo di elaborare i nuovi contenuti della storia comune. Giaime Pintor, interpretando il pensiero di tutto il movimento, invita gli intellettuali perché, rinunciando ai loro privilegi, contribuiscano alla liberazione di tutti. E gli intellettuali, facendo proprie queste affermazioni, riscoprano l'opera di Gramsci. Gramsci, infatti, aveva teorizzato il concetto di arte come rapporto osmotico tra forme e contenuti, arrivando a ipotizzare una nuova forma di

letteratura "nazional-popolare", nella quale esistesse un’identità di concezione del mondo tra scrittori e popolo. Da qui la nascita del nuovo intellettuale permanentemente immerso nel problema della lotta di classe, intesa come un continuo misurarsi con la classe capitalistica per la formazione di nuovi valori e di una civiltà nuova. La lezione gramsciana assumeva un valore ideale e pragmatico nella lotta che in quegli anni la cultura italiana intraprendeva per la soluzione di vari problemi quali la liquidazione del passato fascista; la rinascita del Mezzogiorno; la scuola e l'analfabetismo; i conflitti fra capitale e lavoro; il rapporto fra individuo e collettività, intellettuale e popolo, cultura e società. Naturalmente un simile processo di rinnovamento avveniva in modi e in tempi diversi secondo il carattere specifico delle varie arti: l’abbattimento del vecchio per la ricostruzione del nuovo avveniva più rapidamente nel cinema, perché, essendo un'arte giovane, non doveva fare i conti con una tradizione culturale, in ciò aiutato dalle opere teoriche dei grandi maestri russi Pudovkin ed Ejzenstejn. Fu l'esperienza cinematografica che riuscì a influenzare profondamente la letteratura facendo sì che il romanzo fosse riportato a dimensioni "storiche" avvalendosi della "cronaca" e abbandonando definitivamente i tabù borghesi. I nuovi archetipi erano rappresentati dalle lezioni di Freud, Joyce, Kafka, Musil e dall'esistenzialismo contemporaneo. Il linguaggio diveniva anti-letterario, filtrato attraverso la riabilitazione del patrimonio linguistico dialettale, mentre i temi dell'antifascismo, delle lotte operaie e contadine e partigiane divenivano l'oggetto della narrazione, nella convinzione che fosse possibile un effettivo, radicale rinnovamento della società italiana. La sincera adesione dello scrittore alla nuova realtà si rilevò soprattutto nella produzione narrativa di Francesco Jovine e Ignazio Silone, di Calvino e Fenoglio, di Carlo e Primo Levi. Nelle arti figurative il neorealismo esplodeva come reazione al formalismo dell'arte astratta: l'arte era così ricondotta a forme d’immediata comunicazione e a contenuti più storicamente attuali, poiché la cultura italiana era uscita dalle lotte della Resistenza con una chiara qualificazione ideologica alla quale corrispondevano le speranze di un rinnovamento radicale. Il grande maestro cui guardare era Picasso, all'interno di un'opera di recupero critico dei movimenti della prima metà del secolo: il nuovo linguaggio delle arti

figurative derivava dal cubismo e con esso era espressa la realtà attraverso gli elementi più drammatici. Alla formula neo-cubista si opponeva quella realista, che trovava la sua più alta espressione nell'opera di Renato Guttuso. La terza tendenza artistica trovava espressione in Italia nel formalismo puro che, attraverso le opere del gruppo Forma Uno, costituito dai pittori Dorazio e Perilli e dallo scultore Consagra, suggeriva la necessità di intervenire nel processo di trasformazione della società rifacendosi alle tesi formalistiche filtrate attraverso l'opera di De Stijl e della Bauhaus. 2.3 Il nuovo cinema italiano La situazione dell'industria cinematografica negli anni successivi alla fine della guerra era quasi drammatica: il governo Parri, abrogate tutte le leggi fasciste che regolavano la cinematografia italiana, trascurò il circuito chiuso di Freddi; Cinecittà, vuota e saccheggiata dai Tedeschi e dai fascisti, che avevano trasportato tutti i materiali e i macchinari in Germania, ospitava nei suoi teatri di posa migliaia di profughi. I produttori si spaventavano di finanziare film senza poter contare sui contributi dello Stato, perché il rischio era enorme, e lo Stato aveva ben altri impegni economici per la ricostruzione del Paese. Nel 1944 nasceva l'ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini), alla quale si aggregavano subito tutte le aziende dei vari settori cinematografici, ma nel frattempo il cinema americano riprendeva con rinnovata energia l'invasione dei nostri mercati, proiettando su tutti gli schermi pellicole di modesto valore artistico. Eppure, da questo caos economico e legislativo ebbe origine il cinema neorealista. Scriveva De Sica: "Ognuno viveva per conto suo, pensava e sperava per conto suo. E tuttavia il cinema neorealista stava nascendo come un vasto movimento collettivo, di tutti. Non è che un giorno ci siamo seduti a un tavolino di via Veneto, Rossellini, Visconti, io e gli altri, e ci siamo detti: adesso facciamo il neorealismo. Addirittura ci si conosceva appena. Un giorno mi dissero che Rossellini aveva ricominciato a lavorare: "Un film su un prete", dissero, e basta. Un altro giorno vidi lui e Amidei seduti sul gradino di ingresso di un palazzo di via Bissolati. "Che fate?", domandai. Si strinsero nelle spalle: "Cerchiamo soldi. Non abbiamo soldi per tirare avanti il film...".

"Che film?". "La storia di un prete. Sai, Don Morosini, quello che i Tedeschi hanno fucilato..."(De Sica, “Gli anni più belli della mia vita”, in Tempo, a. XVI, n. 50, Milano 16 dicembre 1954, pag. 21). Nasceva così Roma, città aperta. Rossellini, nel 1956, dichiarava: "Abbiamo cominciato il nostro film due mesi soltanto dopo la liberazione di Roma, nonostante la povertà di pellicola. Abbiamo girato negli ambienti naturali in cui si erano svolti i fatti da noi ricostruiti. Per potere dare inizio al lavoro ho dovuto vendere il mio letto, un cassettone, un armadio (...). Roma, città aperta fu in origine un film muto, non per gusto, ma per necessità. La pellicola costava 60 lire al metro al mercato nero, e se avessimo dovuto registrare anche i suoni, avremmo dovuto spendere per ogni scena un certo numero di lire supplementari. Senza contare che le autorità alleate ci avevano soltanto dato il permesso per girare un documentario. Quando il film fu montato e finito, gli attori doppiarono se stessi". Il film è tratto da un episodio di cronaca di quegli anni. Roma, nel '43, viene unilateralmente dichiarata città aperta, pur restando sotto il controllo delle truppe tedesche e della Gestapo. Manfredi (l'attore Marcello Pagliero), comunista, trova rifugio in casa di un amico operaio. Quest'ultimo è arrestato dai Tedeschi e portato via, mentre la moglie, incinta, (Anna Magnani) assistendo disperata alla scena, resta uccisa da una raffica di mitra. Anche Manfredi, tradito dalla sua amante, muore sotto le atroci torture tedesche. E muore anche un altro resistente, un sacerdote (Aldo Fabrizi), che si rifiuta di collaborare con i nazifascisti. La scena finale, la fucilazione del prete, si accosta in modo sensazionale alla realtà. Salvatore Morosini, fratello del sacerdote ucciso dai Tedeschi, descrive, infatti, così la cronaca: "Forte Bravetta. Il plotone della guardia di Finanza è pronto, ma irrequieto. Presso il terrapieno è preparata una sedia. Due ufficiali tedeschi sono là, in disparte, lontano, silenziosi: il giustiziere e il medico; vicino ad essi un agente della P.A.I.. Don Morosini, assorto, prega... Sono le sette e mezzo. Le guardie del plotone hanno il viso terreo e congestionato...

La scarica non lo colpì a morte: i soldati avevano sparato in aria, o di fianco. Allora il comandante del plotone scaricò due colpi della sua pistola sul capo di Don Morosini" (Salvatore Morosini, "Mio fratello Don Giuseppe", Roma 1954). Nel film non esiste un vero e proprio protagonista; è un racconto corale nel quale ogni personaggio ha un suo preciso spazio, una dimensione e una collocazione nella storia. La storia è la protagonista del film. L'opera mostra al mondo le possibilità della cultura di inserirsi nella lotta rivoluzionaria della società, come un film (o un libro, o un dipinto) possano cooperare alla ricostruzione. È abbandonato il linguaggio falso e aristocratico del vecchio cinema ed è adoperato un nuovo modo di esprimersi, rifiutando il lirismo e il decadentismo in favore dell'immediatezza, rispettando il ritmo degli avvenimenti senza esasperarlo o alterarlo. Lo spettatore non può, in questo modo, immedesimarsi in un personaggio vivendo i suoi sentimenti ma resta estraneo agli avvenimenti, fruendo così del film criticamente, dall'esterno, appunto da "spettatore". Con Roma città aperta nasce il neorealismo cinematografico che, con linguaggio asciutto, descrive la realtà dell'Italia di quegli anni, dei suoi "stracci", dei suoi disastri, ma anche del desiderio collettivo di mutamento radicale. Nel 1946, un secondo film, anch'esso di Rossellini, segna l'apice dell'arte neorealistica. Si tratta di Paisà. Con esso l'autore raggiunge il massimo della purezza, scardinando completamente il vecchio linguaggio cinematografico, rinunciando persino all'interpretazione di attori professionisti. Tutte le unità di misura - al di fuori della storia - venngono cancellate: sia quella narrativa, sia quella spaziotemporale. Il film, a episodi, non si cura della continuità del tempo, ma solo della scoperta del fatto storico. Si snoda per tutta l'Italia, dal Sud (che non aveva conosciuto la guerra di liberazione) al Nord (che dovette subire sia la violenza nazista, contro di cui combatteva, sia quella degli alleati, al cui fianco combatteva), dal 1943 (lo sbarco in Sicilia) al 1945 (il proclama Alexander).

Il primo episodio si svolge in Sicilia, durante lo sbarco delle truppe alleate che incontrano i civili, rifugiati all’interno di una chiesa, in un'atmosfera piena di diffidenza e di ostilità. Alcuni li vorrebbero aiutare, ma i più sono legati al fascismo. Carmela è scelta come guida e tra lei e Robert, un G.I., nasce un'amicizia che viene tragicamente interrotta da un colpo di fucile. Il corpo di Carmela, sfracellato sui sassi, è scoperto dalla macchina da presa che suggerisce la caduta nel dirupo scendendo fino a lei. Il secondo episodio si svolge a Napoli e tratta dell'amicizia di Joe, un G.I. negro, con uno scugnizzo, uno sciuscià. Questi, in effetti, considera Joe come la sua preda, merce di scambio, mentre l'americano vede nel fanciullo un interlocutore al quale raccontare il suo sogno di ritorno a casa. Quando lo sciuscià ruba le scarpe al G.I., questi lo insegue nelle vie più nascoste della città, trovando la miseria e comprendendo finalmente tutto, il ragazzo, il furto, la città, l'Italia del Sud... Lascia cadere le scarpe che tiene in mano e si allontana seguito dallo sguardo sorpreso e incuriosito del ragazzo. Il terzo episodio si svolge a Roma. Un G.I., Fred, scopre in una prostituta, Francesca, la ragazza che aveva incontrato il giorno della liberazione. È l'episodio più sentimentalistico, nel quale l'autore tenta di indagare sui perché della prostituzione in un'Italia corrotta dai soldi americani e dalla falsa agiatezza. Il quarto episodio si svolge a Firenze. È la storia di un Inglese alla ricerca di un amico. La città è divisa in due dall'Arno: da una parte la libertà, dall'altra l'oppressione nazista. Questo episodio della Resistenza fu quello che fece veramente comprendere agli alleati quanto bisogno avessero gli Italiani dei Comitati di Liberazione. È inserito, intelligentemente, a chiarimento del "fatto storico". Il quinto episodio si svolge in un convento della Romagna. È un momento di pace che è vissuto in un mondo lontano dalla guerra che entra nel convento con l'entrare dei soldati, del cappellano protestante, del Rabbino, della lettera al Reverendissimo Padre Provinciale: "con l'aiuto della Divina Provvidenza, siamo tutti salvi". Il sesto e ultimo episodio si svolge sul delta del Po: paracadutisti e partigiani, abbandonati a se stessi dopo il proclama Alexander (che invitava i resistenti a tornare alle loro case), vengono massacrati dai Tedeschi. Sadoul definisce Paisà "un diario in sei capitoli della guerra in Italia". "Per girare Paisà- ha dichiarato Rossellini - ho cominciato con lo stabilirmi insieme con l'operatore nel mezzo del paese dove mi proponevo di

realizzare un episodio del film. I curiosi si sono raccolti intorno a me e così ho potuto scegliere i miei attori nella folla. Amidei e io non abbiamo mai scritto la sceneggiature prima di arrivare sul posto. Le circostanze, gli interpreti scelti ci hanno spesso indotto a modificare il canovaccio primitivo. I dialoghi e il loro tono sono stati determinati dagli attori non professionisti. Paisà è stato quindi un film senza attori nel vero senso della parola". In questo film, che può essere definito il manifesto del neorealismo, Rossellini storicizza su schema didascalico gli avvenimenti della realtà italiana riportati sullo schermo e, guardando semplicemente la realtà, la colora con la ragione, senza mistificazioni, solo registrando il susseguirsi dei dati nella loro unicità e irripetibilità. In quello stesso anno usciva un altro film di Rossellini, iniziato nel 1943. Infatti, il regista, molto impressionato da Ossessione di Visconti, aveva ideato uno Scalo Merci di cui girò gli esterni in Abruzzo, ma fu interrotto dalla guerra. Un attore che aveva lavorato per Roma città aperta, nel 1946, riprese la pellicola e riuscì a ultimare la lavorazione, curandone il montaggio. Uscito sugli schermi col titolo Rinuncia, il film fu bloccato dalla censura e, riveduto e corretto, fu rimesso in circolazione col titolo definitivo di Desiderio. Narra la storia di Paola, una ragazza di provincia che, per fuggire a una relazione subita più che voluta e nella speranza di rifarsi una vita, si trasferisce a Roma, lasciandosi dietro chiacchiere e pettegolezzi. Nella capitale, però, si ritrova coinvolta in un losco giro di ragazze di vita. Conosce Giovanni, un onesto floricultore sinceramente innamorato di lei, che le fa conoscere il rispetto. Paola torna al paese per dimenticare la sua vecchia vita e ricominciarne una nuova, sotto il segno dell'amore schietto di Giovanni. Ma in provincia i pettegolezzi sul suo conto non si sono mai spenti e, al suo riapparire, riprendono vita incontrollati: il padre non le rivolge la parola, la gente mormora malignamente e Riccardo, l'antico amante ora sposato con una vedova, la ricatta. Quando la ragazza viene a sapere che Giovanni ha deciso di andarla a trovare per presentarsi ai suoi genitori, è presa dallo sconforto e sprofonda in uno stato di grande prostrazione. Le cose si complicano quando il cognato, Nando, invaghitosi della bellezza di Paola, suscita la gelosia della moglie provocando una violenta lite fra le due sorelle. È così che la ragazza cede ai ricatti di Riccardo. Circostanza, questo, che genera una violenta lite tra l'antico amante e Nando. Umiliata, giunta allo stremo della sopportazione, Paola si uccide gettandosi da un ponte. Il suo cadavere è scoperto dai

carabinieri proprio mentre Giovanni, appena giunto da Roma, si dirige verso la sua casa. Il film è percorso da un'indubbia atmosfera di sensualità, senza però raggiungere mai i toni espressivi e lirici di Ossessione o le novità linguistiche di Roma città aperta. Molte sequenze sono girate in esterni, al di fuori dei teatri di posa, nelle vere strade e nelle vere case dell'Italia di allora. S’inizia a evidenziare lo svincolo dalle schematizzazioni. Nello stesso anno dell'uscita di Desiderio, Francesco Pagliero realizza Roma, città libera, che esce sugli schermi nel 1948. È un film diverso, fra la favola e il neorealismo, che narra le storie parallele di diversi personaggi (un ladro, un intellettuale spiantato, una ragazza povera che vuole prostituirsi, un ministro che ha perso la memoria) che s’incontrano, si perdono e si rincontrano in una Roma notturna povera e piena di Americani. Il film, grazie alla sceneggiatura di Ennio Flaiano, di Suso Cecchi d'Amico, di Cesare Zavattini e di Pino Mercanti risultò alla fine una godibilissima commedia con una comicità surreale, un'eccezione al cinema italiano del primo dopoguerra. In quegli anni, i registi della vecchia guardia osservano attentamente il mercato alla ricerca di un nuovo "filone" da seguire ciecamente e ottusamente. Il neorealismo induce i vecchi mestieranti a seguire la strada tracciata da Rossellini, per rinnovare in qualche modo il loro cinema e non passare in seconda linea. È il caso di Camerini e di Blasetti che realizzano rispettivamente Due lettere anonime (1945) e Un giorno nella vita (1946). I due film affrontano con superficialità i temi della Resistenza, usando un tono sensibile insieme a un linguaggio artigianale che dimostra, soprattutto per quanto riguarda Blasetti, l'esaurirsi di un'ottima vena artistica. E, infatti, nel 1947, quest'ultimo realizza Fabiola, un film in costume che s’incanala nel genere il cui progenitore è Cabiria. Anche Mario Soldati, in quegli anni, realizza film di modesta fattura estetica e strutturale che non riescono a uscire dai limiti del prodotto commerciale, come anche Renato Castellani che gira Mio figlio professore, interpretato da Mario Soldati, con cui tenta di accostarsi timidamente al neorealismo, senza raggiungere risultati accettabili. Il sole sorge ancora, di Aldo Vergano, prodotto nel 46, suscitò all'epoca entusiasmi di pubblico e consensi di critica al Festival di Venezia, facendogli

meritare l'appello di "documento storico della Resistenza italiana". Tuttavia, una sua rivisitazione, fa apparire l'opera come il risultato di una forzosa programmazione schematica che non fornisce un completo ed esauriente quadro storico della realtà italiana di quegli anni. Narra la storia di un disertore che, alla fine della guerra, fingendosi un bracciante, trova rifugio in una cascina della Padana. Qui, dopo alcune esperienze amorose con la figlia di un operaio resistente e con la padrona dell'azienda agricola, il giovane si unisce ai partigiani. Il prete della chiesetta e un partigiano comunista sono fucilati (è la sequenza più famosa del film: Carlo Lizzani, collaboratore alla sceneggiatura, interpreta lui stesso la parte del prete, mentre la folla scandisce, progressivamente più forte, le litanie del rosario, un'ora pro nobis che può equipararsi al grido di giustizia e di ribellione di tutti quelli che la fucilazione degli ostaggi doveva intimorire), ma attraverso questo sacrificio si arriva alla liberazione del villaggio. La storia è sapientemente universalizzata attraverso la creazione di un'intelligente struttura, che sposta l'attenzione dal disertore per puntarla sulla folla, protagonista di un film finalmente corale. Il 1946 è l'anno di esordio per registi come Germi e Lattuada, che in quell'anno realizzarono i loro primi lavori e, precisamente, Il testimone il primo e Il bandito il secondo. L'anno successivo, Germi realizza Gioventù perduta e, nel 1948, Lattuada Senza pietà: opere tutte dignitose che rivelano al pubblico e alla critica due autori impegnati e coscienziosi che non trascurano le interazioni con le opere letterarie (di cui il cinema è una sorta di linguaggio, per dirla con Pasolini) né lo spettacolo. Nello slancio di rinnovamento rivoluzionario del cinema italiano, accanto a Rossellini, si pone in evidenza la coppia De Sica - Zavattini. Nato da padre napoletano (un magistrato) e da madre romana, De Sica trascorre i suoi primi anni a Napoli, trasferendosi poi a Roma dove si diploma in ragioneria. Si accosta fin da piccolo al teatro, recitando prima nel teatrino parrocchiale, poi nella compagnia filodrammatica del reggimento. Quasi per caso si accosta al cinema e la sua carriera è velocissima, rendendolo uno degli attori più popolari del periodo 1930-1940. È l'attore preferito di Camerini, dal quale apprende il gusto per il cinema brillante e delicato.

Esordisce come regista con film romantici, quali Rose Scarlatte, Maddalena zero in condotta, Teresa Venerdì e, in parte, Un garibaldino al convento. Nel 1943, anticipando la grande stagione del neorealismo, realizza I bambini ci guardano e La porta del cielo, opere minori che tuttavia hanno il merito di farlo notare come regista sensibile e impegnato. Tuttavia De Sica, così come lo abbiamo conosciuto, non sarebbe forse mai esistito senza Zavattini che, nella coppia, rappresenta la robusta e razionale capacità di giudizio morale. Ciò tuttavia non impedisce, alla fine, che il regista prevalga sullo sceneggiatore, trasformando l'elegia poetica in sentimentalismo incontrollato e il linguaggio cinematografico in calligrafia: del neorealismo, nelle pellicole successive a questi anni d'oro, restano solo le strade bagnate, le albe, i funerali..."Il neorealismo si mette a copiare se stesso. Perfino l'impegno sociale finisce col naufragare nella genericità della poetica che è appena crepuscolare" (Fabio Carpi, "Cinema italiano del dopoguerra", Schwarz editore, Milano 1958). Nel 1946, anno in cui la cultura italiana fu veramente prolifica, esce sugli schermi Sciuscià. La parola sciuscià deriva dall'inglese shoe-shine, parole che i ragazzi gridavano agli Americani, dopo la guerra, per chieder loro se volevano lustrate le scarpe. Il film narra la storia di due piccoli lustrascarpe che sognano di possedere un cavallo bianco, ma coinvolti in un furto, sono arrestati e rinchiusi in prigione. Uno dei due ragazzi riesce a evadere, ma trova tragicamente la morte. La fragile storia è, di fatto, un pretesto per introdurre gli spettatori nel mondo degli sciuscià, in un'indagine acuta svolta, attraverso le vie di Napoli, sulle condizioni umane e sociali di vita di un Terzo Mondo che esisteva proprio sotto casa. Non vi è una razionale denuncia, ma l'elegia dei sentimenti, in simbiosi con i contenuti reali e con la ricerca di giustizia sociale, crea il fulcro del film. Moltissime in questo film sono le scene in cui l'alta poetica del regista si trasforma in crudo realismo: l'arresto dei ragazzi e il loro interrogatorio, la separazione dei due amici e le torture psicologiche subite in carcere, la mancanza di umanità dei sorveglianti...

L'infanzia profanata dalla realtà riflette il paesaggio del paese appena uscito da un'esperienza traumatizzante e occupato da forze armate straniere. Molte inquadrature, pur essendo intrise di violenta realtà, sono tanto cariche di poesia da ricordare memorabili sequenze di Tempi moderni di Chaplin, da cui De Sica mutua la visione lirica di filtro alla realtà. La situazione dell'industria è nel frattempo peggiorata ancora: sono, infatti, aumentati i costi di produzione e aggravate le tasse erariali, mentre le sovvenzioni statali sono abolite o comunque ridimensionate notevolmente. A fronte dell'aumento degli incassi di botteghino da 1 a 10, i costi di produzione salgono da 1 a 20. I film americani hanno di nuovo invaso gli schermi e, nonostante gli interventi dell'ANICA e dell'AGIS nei confronti degli esercenti tendenti a incrementare la distribuzione del prodotto nazionale, i film italiani stentano a trovare ospitalità nelle sale. Eppure proprio in quegli anni il nostro cinema neorealista riscuote parecchi consensi internazionali di critica e di pubblico. Gli Americani, dal canto loro, non hanno alcun interesse a fare uscire il settore dal caos in cui versa: su 419 pellicole straniere, nel '46, ben 276 sono, infatti, americane e, nel '47, 507 su 800. Gli incassi dei 50 film italiani di quest'ultimo anno ammontano a circa un decimo di quello che il pubblico spende per il cinematografo. Alcide De Gasperi, successo al breve periodo unitario di Parri, nomina nuovo Sottosegretario allo Spettacolo Giulio Andreotti (in carica dal maggio 1947 al gennaio 1954) che, in tutto quel periodo, nulla fa per risollevare le sorti del cinema italiano sempre più compresso dai problemi economici tipici di una nazione in ricostruzione e ormai privato delle contribuzioni statali. Il gioiello costruito da Luigi Freddi durante il fascismo, ora che poteva funzionare come vera struttura cinematografica al servizio della cultura e di uno Stato moderno e liberale, in alternativa agli interessi della Confindustria cinematografica privata (l'ANICA) e alle speculazioni americane, è represso insieme all'ultimo moto della Resistenza. Nel 1947, nel clima di tensione che aleggia per aria, De Santis realizza Caccia tragica; un film che si svolge nella zona del delta del

Po. Un bandito, che ha commesso diversi delitti con la complicità di una donna, è braccato dai soci di una cooperativa agricola che, però, alla fine lo lasciano fuggire. È la rivelazione del regista De Santis, le cui opere, pur venate di romanticismo, si mostrano cariche di una ricchezza stilistica legata sempre alla realtà fotografata, ripresa sempre con intelligenza, sensibilità e psicologia. Il giovane regista, tra l'altro, precorre i tempi, mostrando un volto nuovo del cinema italiano che potrà esprimersi al meglio solo nei film degli anni '70 e, cioè, quello erotico-sociale (la Mangano, travestita da mondina, in calze nere), tipico della cultura e della letteratura più autenticamente popolare. All'inizio del film, una folla di contadini nelle campagne coperte di nebbia ci conduce inequivocabilmente nel clima storico post-bellico. Tutta la storia che si snoda dopo fa ricorso a uno stile popolare di presa immediata, un po' melodrammatico, forse, e fumettistico; ma al regista più che la storia raccontata interessa il clima in cui la stessa si svolge e le tensioni emotive che quell'atmosfera provoca nello spettatore. Germania anno zero è il terzo capolavoro di Rossellini. Il film riassume le esperienze dei due precedenti (Paisà e Roma città aperta), integrando la condizione umana espressa nel primo con l'introspezione psicologica del secondo. La struttura di quest'opera non è episodica ma realizzata in modo da mantenere lo spettatore freddamente obiettivo nella visione, pur partecipando coralmente al dramma che si vive sullo schermo. La storia si svolge a Berlino, tra le rovine della guerra. Protagonista è un ragazzo, Edmund, che dietro consiglio del suo poco raccomandabile maestro pederasta (per la prima volta il cinema, senza ipocrisie, tratta questo tema), avvelena il proprio padre, considerato una "bocca inutile" e poi, preso dal rimorso, si uccide. Lo sguardo del regista è concentrato sui problemi più intimi del protagonista e della sua famiglia e, attraverso l'analisi del personaggio centrale, riesce a eseguire un'attenta anatomia della Germania di quei tempi. Lo spostamento del quadro dall'Italia del dopoguerra alla Germania dello stesso periodo è la risposta del regista che aveva inventato il neorealismo italiano, carico di nebbie, asfalti bagnati e straccetti nostrani, agli autori meno fantasiosi che non comprendevano che, attraverso la cultura neorealistica, la

realtà poteva essere espressa in un qualunque quadro di riferimento, anzi era meglio cercare nuove atmosfere per esprimere nuove realtà. Continua la registrazione storica delle immagini del dopoguerra, ma impastata dei sentimenti nuovi che in quei giorni cominciavano ad affiorare. Rossellini, come molti altri intellettuali, subisce in quel periodo le grandi delusioni di ordine morale e politico derivanti dalle prime contraddizioni dell'antifascismo e della Resistenza (che nel '48 esploderanno con l'estromissione dei comunisti dal governo) e dai primi tentativi di restaurazione. Il disorientamento psicologico determina nel film un'atmosfera molto diversa da quella di Roma Città aperta e di Paisà nei due film "italiani", infatti, tutti i personaggi vivono con la speranza e nell'attesa di un domani migliore, per cui tutti concorrono alla ricostruzione del Paese, in Germania anno zero, invece, vi è un'atmosfera stagnante, nella quale il paesaggio è avvolto da un'aria senza sbocchi, come se tutto fosse ormai già avvenuto e avesse estinto la speranza. Berlino è presentata come una città di macerie: i palazzi diroccati, la carcassa di un cavallo sul selciato, la poca gente che si muove tra le strade e le vie distrutte accrescono la gelidità delle immagini fotografiche. La medesima atmosfera che avvolge quelle immagini è trasferita dall'autore nei suoi personaggi: Edmund chiuso e angosciato, il padre legato a certi valori e ossessionato da questi, il fratello imboscato e teso da una rabbia feroce, la sorella preoccupata e impietosita, i vicini diffidenti, il maestro omosessuale e nazista, i coetanei viziosi e furbi... In questa atmosfera Edmund matura precocemente (proprio come lo scugnizzo napoletano di Paisà, ma senza la sua allegria, che derivava anche dal diverso stato d'animo del regista, ancora fiducioso in un migliore futuro) e stabilisce una sua etica che lo porterà all'omicidio del padre. E lo farà in conformità a un ragionamento, non perché trascinato da uno stato d'animo momentaneo. Il padre fa un ultimo discorso sulla perduta grandezza dei valori di cui parla sempre; il fratello, non casualmente, in quel preciso momento, decide di uscire da casa. L'ipocrisia dei vicini che compiangono, l'orrore del maestro per Edmund dopo averlo spinto a quel gesto, la disperazione della sorella sono atti dovuti, quasi scontati che servono a respingere il mostruoso atto compiuto dal ragazzo.

Quindi la solitudine di Edmund e il conseguente suicidio... Tutto secondo una logica che nasconde la macchina della guerra trascorsa, la Germania di quegli anni, la follia che tutti trascinò... Un camion carico di bare fermo davanti alla porta di casa è il segno definitivo della ineluttabile morte. Il suicidio è registrato senza sentimentalismi, con immagini asciutte di pura cronaca (il ragazzo, dopo essersi aggiustato la giacchetta, si butta dall'alto di un edificio in rovina mentre sotto passa un tram). La crudezza fotografica si arresta solo alla visione della morte (è mostrato il corpo del ragazzo suicida mentre fa da sfondo il pianto anonimo di una donna). ***** 3. Il centrismo e la fine del neorealismo Mentre in Italia l'Assemblea Costituente prosegue l'elaborazione della carta costituzionale, va peggiorando la situazione internazionale: in tutta l'Europa orientale sono instaurati dei regimi comunisti; la Germania è sottoposta a un’occupazione mista (sovietica, francese, inglese e statunitense) ed è divisa in una repubblica federale, entro l'orbita occidentale, e in una repubblica "democratica", entro l'orbita orientale. Il presidente americano Truman, di fronte all'enorme avanzata comunista, che ha il suo trionfo nella grande vittoria cinese dell'esercito popolare di MaoTse-Tung nel 1948 e dei vari movimenti di liberazione e d’indipendenza dei popoli di colore in Asia (Corea, Vietnam, Cambogia, Laos), e di fronte alla lotta per il monopolio delle armi atomiche e per la conquista dello spazio, dichiara che il suo governo si opporrà all'espansione violenta del comunismo. Comincia la "guerra fredda". Gli Americani, per imporre il proprio dominio sui paesi occidentali, varano un piano di "aiuti economici" per l'Europa. La guerra fredda genera un clima di tensione generale che certamente non influisce positivamente sull'opera di riappacificazione, facendo anzi sorgere continuamente la preoccupazione di un possibile terzo conflitto mondiale.

Con l'inizio dell'era postbellica, infatti, il mondo è diviso in due blocchi: da una parte l'Unione Sovietica che è riuscita a costruire sul proprio modello tutti i Paesi danubiani e balcanici liberati dall'Armata rossa (solo la Jugoslavia di Tito si pone in posizione autonoma), dall'altra gli Stati Uniti che cercano di diffondere il proprio modello politico con metodi "psicologici". Nel 1947, in una situazione economicamente molto difficile e politicamente incerta, De Gasperi insieme a Menichella della Banca d'Italia, si reca in America. Siamo all'inizio della "guerra fredda". Dall'incontro con Truman sono ottenuti crediti per 150 milioni di dollari e l'assicurazione di un aiuto (Libero Pierantozzi, "Trenta anni di scudo crociato", in Almanacco del PCI, Roma 1973). Dopo il ritorno dall'America, De Gasperi mette in crisi il governo Parri e ne forma uno nuovo monocolore democristiano integrato da cinque tecnici. La coalizione viene appoggiata dall'esterno da tutta la destra (liberali, qualunquisti e monarchici) e conta al proprio interno sul pensiero e sull'opera di illustri liberali indipendenti, quali Einaudi. Si giunge alle prime elezioni politiche in un clima di restaurazione. Dall'America giungono i famosi pacchi-dono, mandati dagli emigrati, che scrivono a parenti e amici implorando di votare per un governo democristiano amico dell'America e contrario al comunismo. Anche la Chiesa interviene, facendo appelli drammatici alle comunità religiose perché non disperdano i loro voti favorendo il comunismo. 3.1 La restaurazione censoria La ricostruzione dell'industria cinematografica passa attraverso il ripristino degli organismi legislativi del regime. Con legge del 1947, il cinema italiano, anziché venire affidato - come da molte parti si sperava - al Ministero dell'Istruzione, viene posto alle dirette dipendenze del Consiglio dei Ministri che lo controlla attraverso l'Ufficio Centrale per la Cinematografia che molto somiglia alla defunta Direzione Generale di Luigi Freddi. Riguardo alle sovvenzioni statali è riconosciuta una quota pari al 10% lordo degli incassi di botteghino ai film nazionali proiettati per un periodo di quattro anni dalla data della prima proiezione in pubblico, con una aggiunta di un ulteriore 6% a titolo di premio ai film che ne siano riconosciuti meritevoli per il loro valore culturale e artistico.

Riguardo alla censura la legge stabilisce che è in facoltà del produttore di sottoporre la sceneggiatura alla preventiva approvazione degli organi competenti, ridando vigore, in pratica, alla censura preventiva dei copioni. Come ultimo elemento di influenza, infine, la legge decreta l'istituzione della Sezione Autonoma per il Credito Cinematografico presso la Banca Nazionale del Lavoro che ha il compito fondamentale, prima di concedere il credito, di vagliare attentamente tutta la documentazione produttiva, tra cui naturalmente la sceneggiatura. L'unico elemento positivo della legge è l'obbligo, per gli esercenti cinematografici, di proiettare film nazionali per almeno 80 giorni l'anno. Nel dicembre del 47 trentasei autori cinematografici scrivono una lettera all'Unità, accusando la censura di svolgere azione politica: "...da qualche tempo, nell'ambiente cinematografico, si ha la sensazione dell'approssimarsi di un pericolo. Negli uffici ministeriali comincia a manifestarsi una tendenza a ripristinare la consuetudine fascista di controllare la produzione di film. Non si tratta di offese al buon costume, incitamenti al disordine, vituperio della religione, denigrazione dell'onore nazionale o di potenze straniere... Non si tratta, cioè, di infrazioni alle norme contemplate nel regolamento di P.S. del 24 settembre 1923, n. 3287, unico testo legale tuttora in vigore. Si tratta bensì di una vera e propria censura di carattere ideologico e politico, il cui stile filisteo noi tutti riconosciamo e ricordiamo molto bene... Vogliamo soltanto richiamare l'attenzione sulle disastrose conseguenze che questo attentato alla libertà avrebbe sul nostro cinematografo... Le riviste, le rubriche cinematografiche dei quotidiani inglesi, francesi, americani, sono pieni di articoli su Roma città aperta, Sciuscià, Vivere in pace... A parte il valore artistico di questi film, bisogna riconoscere che il segreto del loro successo sta in quell'aria di sincerità che vi spira, irrefrenabile reazione a venti anni delle anzidette censure. I nostri migliori ambasciatori sono stati questi nostri film, che hanno portato in mezzo alle popolazioni straniere l'immagine viva delle nostre sofferenze e della nostra umanità; ed hanno capovolto, in molti casi, l'opinione pubblica in nostro favore. Questo magnifico inizio, questa promettente apertura di credito sul mercato cinematografico internazionale rischia di venire stroncata. Man mano che l'illegale censura di cui abbiamo parlato interviene nella nostra produzione, si chiudono lentamente, quasi insensibilmente, porte e finestre alla fresca aria della realtà, la nostra ispirazione è soffocata, il nostro lavoro manca di motivo e di scopo.

Continuando così, molto più presto di quanto non si creda, il nostro riconoscimento cinematografico sarà un ricordo...". Tra i trentasei autori spiccano i nomi di Camerini, Blasetti, Soldati, De Sica, Rossellini, Visconti, Zampa, Germi, Lattuada, Comencini, Antonioni, Fellini. Persino Anni difficili di Zampa è oggetto di un’interrogazione in Parlamento da parte del senatore Persico, che chiede allo Stato una maggiore vigilanza e un più rigido intervento censorio. Il Sottosegretario allo Spettacolo, Giulio Andreotti, risponde che l'intervento dello Stato, in quel momento, avrebbe potuto mortificare le iniziative artistiche e produttive dei privati senza conseguire alcun beneficio di ordine morale. "Noi dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissima e nello stesso tempo attraente, che può degnamente inserirsi nella corrente della nuova scuola italiana" (Giulio Andreotti, in "Documenti, "Bianco e Nero", dicembre 1948). Con decreto legislativo dell'aprile del 48 è costituito il Ministero per lo Spettacolo, il Turismo e lo Sport. Non è quello che richiedono gli autori e gli operatori del settore, ma è una promessa di autonomia. Promessa non recepita dagli operatori economici del settore che, disorientati dalla burocrazia crescente che tarda a restituire i "premi governativi", spaventati dalla minaccia censoria e attratti dal credito a basso tasso della Sezione Autonoma della BNL, istituiscono un nuovo filone meloneorealista, più apprezzato negli ambienti ministeriali e bancari. Al fianco della cinematografia autentica, che affonda le sue radici nella cultura popolare resistenziale e che riscuote enorme successo in tutti i paesi dell'estero, portando il cinema italiano in primo piano nella storia della cultura mondiale (come lo era stato solo ai tempi del muto), comincia a coesistere il cinema sentimentalistico e melodrammatico (del tipo Grand Hotel), o fumettistico e provinciale o volgarmente comico. Il neorealismo, in quegli anni, conosce la sua più alta espressione con Visconti che realizza, proprio nel 1948, La terra trema. ***** 4. La terra trema e il nuovo cinema neorealista

Nelle intenzioni di Visconti, il film doveva essere una sorta di documentario facente parte di una trilogia siciliana del lavoro: i pescatori di un villaggio in provincia di Catania, i lavoratori delle zolfare in provincia di Caltanissetta e i contadini di un paesino dell'interno in lotta per l'occupazione delle terre. Per le difficoltà economiche del momento, tuttavia, il produttore Salvo D'Angelo limitò la realizzazione della trilogia al solo episodio del mare che, peraltro, aveva assunto le dimensioni di un consistente lungometraggio. Il film racconta dei tentativi di un giovane pescatore di liberare sé e i suoi familiari dallo sfruttamento dei grossisti del pesce. Antonio Valastro, dopo aver venduto tutto ciò che possiede, ipotecando anche la casa, si mette in proprio creando una piccola azienda di pesce salato. La sua barca fa però naufragio, al largo del golfo. Travolta dalla miseria e dalla rapacità feroce dei grossisti, la famiglia si sgretola e Antonio pare vinto dai prepotenti sfruttatori. Dopo un primo momento di scoraggiamento, il giovane riprende a lavorare continuando a nutrire l'idea di una futura possibile liberazione, non solo per lui ma anche per gli altri pescatori, suoi compagni di fatica e di miseria. Già dai tempi di Ossessione Visconti è attratto dalla questione meridionale. In un articolo dell'ottobre 1960, l'artista scrive: "La sola letteratura narrativa alla quale, nel quadro del romanzo italiano, sentivo di potermi riaccostare, dopo le letture giovanili, nel momento in cui col primo film affrontavo, sia pure entro i limiti imposti dal fascismo, un tema contemporaneo alla vita italiana, era quella di Mastro Don Gesualdo e de I Malavoglia. Devo dire che fino da allora maturai il progetto di fare un film da questo romanzo. Poi venne la guerra, con la guerra la Resistenza e con la Resistenza la scoperta, per un intellettuale della mia formazione, di tutti i problemi italiani come problemi di struttura sociale oltre che di orientamento culturale, spirituale e morale". Il film, profondamente verghiano, si addentra nei drammi psicologici della rappresentazione del "fallimento", dei "vinti", senza però perdere di vista il conflitto economico che è fonte dello svolgimento drammatico. La passione umana e sentimentale dei singoli individui protagonisti della vicenda è filtrata impietosamente nella problematica sociale e nella storia, come Verga è filtrato nella lettura di Gramsci. Le affermazioni di Visconti circa l'estemporaneità nell'invenzione dei dialoghi appare poco credibile, se si confrontano i dialoghi del film con quelli

de I Malavoglia di Verga (le parole del libro "Compare Rocco ha il cuore contento" diventano nel film "Janu ci avi u cori contentu"; ancora "Non ce l'avete il cuore contento voi?" diventa "E bui nun ci l'avite u cori cuntentu, Nicola?" e così via). È invece credibile che l'autore non abbia utilizzato una sceneggiatura rigida, ma abbia rimanipolato continuamente una bozza di sceneggiatura, con l'aiuto "dialettale" degli interpreti e facendo nascere momento per momento le scenografie e le tensioni drammatiche dall'osservazione diretta dei luoghi in cui le vicende si svolgevano. Quello che differenzia il romanzo dell'autore siciliano dal film di Visconti è, di fatto, la diversa visione della vita: in Verga prevale, infatti, l'atteggiamento pietistico nei confronti dei suoi personaggi, che restano solo dei "vinti"; in Visconti, spirito attivo e antifascista forte dell'esperienza resistenziale e della lettura gramsciana prevale la collera per l'ingiustizia che non genera un fatale destino, bensì uno spirito di rivolta per raggiungere libertà e indipendenza. La conclusione de La terra trema rappresenta, infatti, l'impossibilità di un riscatto individuale e la necessità della solidarietà di classe. Lo spirito storico di Visconti, di fatto, rifiuta quindi l'idea verghiana del "destino" rifacendosi alla cultura gramsciana e alle esperienze resistenziali. Il film si apre con una lunga didascalia che vuole risolvere i problemi d’interpretazione ideologica dei fatti narrati: "I fatti rappresentati in questo film accadono in Italia e precisamente in Sicilia, nel paese di Acitrezza. La storia che il film racconta è la stessa che nel mondo si rinnova da anni in tutti quei paesi dove uomini sfruttano altri uomini. Le case, le strade, le barche, il mare, sono quelli di Acitrezza. Tutti gli attori del film sono stati scelti fra gli abitanti del paese: pescatori, ragazze, braccianti, muratori, grossisti di pesce. Essi non conoscono lingua diversa dal siciliano per esprimere ribellioni, dolori, speranze. La lingua italiana non è in Sicilia la lingua dei poveri". Le maggiori critiche alla pellicola hanno riguardato il linguaggio filmico utilizzato che, soprattutto nei momenti più drammatici, può apparire incomprensibile a molti. Per quanto, infatti, l'autore si rifaccia ai temi neorealistici (non bisogna dimenticare che la parola “neorealismo” fu usata per la prima volta proprio per un film di Visconti, Ossessione), Visconti mutua le vicende che racconta da un romanzo ottocentesco e le narra con un tono alquanto aristocratico. Tuttavia non vi è formalismo né calligrafismo nella ricerca dell'inquadratura. Anzi, al contrario, ogni spostamento di macchina, ogni carrellata, ogni dissolvenza, ogni taglio di montaggio ha una sua precisa

funzionalità e motivazione nell'intelligente costruzione del racconto del film. Per l'autore non esiste un personaggio che si muova in un anonimo luogo che faccia soltanto da sfondo, al contrario ognuno è immerso nell'ambiente in cui vive. Prima è presentato l'ambiente e poi, quasi conseguentemente, è mostrato che in quell'ambiente si muore. D'altra parte non può negarsi assolutamente l'importanza che, per il dramma tutto, assumono i luoghi: il villaggio, la casa e soprattutto il mare. È il mare in bufera a far naufragare la barca; la casa con i suoi oggetti a permettere ad Antonio, ipotecandola, di montare l'azienda di pesce salato; è il villaggio, con i suoi silenzi di comprensione, coi suoi sguardi pietistici, con la sua muta solidarietà di classe a ridare fiducia al protagonista. Visconti, con la medesima attenzione che punta sui personaggi e sulle loro reazioni, guarda all'ambiente storicizzando attraverso questo la sicilianitudine. Si pensi alle inquadrature lunghe e ai montaggi lenti delle scene di mare, allorquando i pescatori sulle barche, la largo del golfo, si scambiano richiami da lontano, da una barca all'altra: l'autore ce le mostra piccolissime sperdute nell'enorme e minacciosa acqua del mare ed è questa ad assumere la funzione di protagonista. Tutto ciò quasi ad indicare l'atavicità e l'ancestralità di quei gesti, di quei segni, di quelle parole, sempre uguali nei giorni, negli anni, nei secoli. Il ritmo diventa poi invece incisivo e veloce, con tagli di montaggio serrati e convulsi, quando si arriva alla rivolta dei pescatori, e a tagli rapidi e senza indugi quando la gente si unisce in casa di Antonio per parlare di un nuovo lavoro non più sfruttato da nessuno. La stessa immagine, criticatissima, della donna ritta sugli scogli, lo sguardo fisso sul mare in tempesta, coperta da neri scialli agitati dal vento, in attesa del rientro di 'Ntoni sembra ripresa quasi per scoprire lo stato d'animo del personaggio. Tutto lascia pensare che Visconti utilizzi il linguaggio come elemento rivelatore di tempi che sarebbe stato difficile introdurre. Lo stato corale della struttura, infine, è dato dalle diverse storie che s’intrecciano alla vicenda di Antonio e che la completano, convergendo nell'unica visione poetica. Il film di Visconti non è un fatto isolato, anche se è l'unico a trattare i problemi sociali dal punto di vista della lotta di classe. Nel 1948 De Sica realizza Ladri di biciclette, il film forse più importante del dopoguerra per l'enorme influenza che ebbe sul piano internazionale. Ladri di biciclette racconta la storia di un disoccupato che, per essere assunto come attacchino, deve possedere una bicicletta. Per acquistarla si

impegna tutto ciò che trova in casa, con la certezza di poter ritirare tutto molto presto col guadagno del suo lavoro. Quasi subito, però, la bicicletta gli viene rubata. Insieme al figlio si mette alla ricerca del ladro e, alla fine, disperato, ruba a sua volta un'altra bicicletta. Il proprietario lo scopre e, con l'aiuto di una folla rabbiosa, lo acciuffa. Per pietà verso il bambino lo lascerà andare senza consegnarlo al vicino commissariato. "Che cos'è una bicicletta?" - scrive Zavattini. "A Roma ci sono tante biciclette quante mosche. Ogni giorno se ne rubano decine e decine senza che i giornali neppure ne facciano cenno. Ma forse i giornali sono in grado di stabilire la gerarchia dei fatti? Nel caso di Antonio, per esempio, avrebbero dovuto annunciare il furto della sua bicicletta con un titolo su sei colonne, poiché essa rappresentava per lui un provvidenziale strumento di lavoro". Attraverso il filtro poetico tipico della coppia De Sica - Zavattini, l'occhio della cinepresa cala nella realtà postbellica romana: la miseria, la disoccupazione, il disinteresse della gente sono i temi centrali di questo nuovo film. L'autore ce li mostra facendo una panoramica attraverso le situazioni in cui si trova il protagonista: il freddo ambiente dell'ufficio di collocamento, la miseria dell'appartamento del disoccupato, il monte di pietà dove l'uomo porta le lenzuola per ritirare la bicicletta, il furto che avviene quando Ricci sta affiggendo il manifesto del film Gilda (un film americano del '45 che riscosse molto successo; il manifesto mostrava l'interprete femminile, Rita Hayworth, scollacciata e in guanti neri), la freddezza angosciante del commissariato a cui Ricci si rivolge per denunciare il furto subito, il mercato di Porta Portese, l'inutile inseguimento del ladro e lo scoraggiamento, la rabbia (lo schiaffo dato al figlio quasi senza un perché), il tentativo di distrarsi (fa la pace col figlio dopo lo schiaffo con parole frettolose e vanno insieme in una trattoria dove prendono una pizza), il ritorno alla realtà e la disperazione di non trovarne una via d'uscita (la veggente a cui si rivolge Ricci per ritrovare la sua bicicletta), il secondo incontro con il ladro e l'inseguimento nella casa della prostituta e, dopo, per le strade di Roma finché riesce a prenderlo ma gli si leva contro tutto il quartiere, l'arrivo della polizia, la visita nell'appartamento del ladro, la miseria di quest'altra casa, la difesa della madre, il ritiro della denuncia. Siamo alla fine. È domenica. Da uno stadio in cui sta terminando una partita di calcio giungono le urla del pubblico: l'egoismo di una società indifferente. Se non trova la bicicletta, il Ricci perde il posto e là, sotto i suoi occhi, c'è una bicicletta...

La situazione raccontata in questo film è poi stata ripresa da molti altri autori in molti altri paesi. L'interprete del film non è un attore professionista, ma è diretto col massimo rigore e la sua recitazione è altamente professionale. La medesima rabbia, ma con toni meno corali e, direi, più pietistici, può ritrovarsi in un'altra opera filmica di quell'anno: Anni difficili di Luigi Zampa. La pellicola racconta la storia di un "piccolo uomo", un impiegato in mezze maniche che è costretto da un superiore fascista a iscriversi al fascio per non perdere il posto. Dopo varie vicissitudini (tra cui la perdita del figlio in guerra) viene il giorno della liberazione e, mosso dalla pietà, aiuta il suo superiore a reinserirsi nella nuova società ormai libera. Sarà questi tuttavia a fargli perdere il posto accusandolo agli alleati, durante una delle epurazioni, di essere stato un tesserato fascista. Il film è pervaso di spirito antifascista ed è profondamente provocatorio nei confronti della politica DC postbellica, accusata di scarsa efficienza nell'opera di epurazione dai vecchi gerarchetti e di risanamento morale. Il risorgere del fascismo attraverso la legittimazione offerta dalle autorità alla condotta degli uomini già fedeli al regime è denunciato con lucido coraggio dall'autore, al di fuori di qualsiasi schematismo politico. In questo senso, questo film può essere accostato, come molti hanno fatto, a I Vicerè di De Robertis. Nella produzione del 1948 non si trovano altri esempi di cinema di qualità, a prescindere dalle operazioni di stile realizzate da grossi nomi che, tuttavia, rappresentano un cedimento al "commerciale": parliamo di film come Fuga in Francia di Mario Soldati, Sotto il sole di Roma di Renato Castellani, Campane a martello di Luigi Zampa e dello stesso Senza pietà di Alberto Lattuada. Quest'ultimo, in particolare, partendo da un'idea narrativa tipica dei temi neorealistici (è la storia di un soldato americano negro, disertore, che tenta un "colpo" pericoloso per evitare che la sua amica si dia alla prostituzione ma, avendone provoca la morte per mano dei suoi complici, si suicida) vorrebbe essere una denuncia contro il razzismo, ma cade nel fumettistico (malgrado che la sceneggiatura sia firmata da Fellini e Pinelli e la musica da Nino Rota). Il resto della produzione appartiene al nuovo filone "patetico drammatico" sorto sulla spinta della nuova rivista (nata nel 1947) "Grand

Hotel", un pamphlet di cattivo gusto che pubblica fotoromanzi di invito alla incultura sul sogno di ambizioni impossibili. Fanno parte di questo filone tutti i film realizzati dai produttori più allineati alla politica governativa di allora: Monaca santa di Brignone, Madunnella di Amoroso, Catene di Matarazzo. Quest'ultimo, in particolare, costruito appositamente sulla figura dell'attore Amedeo Nazzari, sembra inserirsi più degli altri nel fenomeno di costume lanciato da Grand Hotel: il film, infatti, realizzò incassi superiori ai 700 milioni di lire, in un periodo in cui l'incasso medio si aggirava intorno ai 100 milioni! Tutto ciò, per molti intellettuali, indicava la precisa volontà politica di mantenere le masse nell'ignoranza, oppiandole con inutili sentimentalismi e lusinghe di evasioni impossibili dalla vita quotidiana. Grand Hotel riesce non soltanto a invadere un mercato di incolti sentimentali, ma diviene un fenomeno di costume perché alimentato dal disinteresse della politica. Uno dei concetti chiave dei governi dittatoriali riguardava proprio il rapporto tra opera artistica e cultura di fruizione. Non per nulla Goebbels, nel 1945, annotava nel suo diario: "Ho dato ordini molto precisi perché i Francesi non producano che film leggeri, vuoti e possibilmente stupidi. Penso che se ne accontenteranno". Nulla, in quegli anni, era fatto per frenare quell'ondata di incultura che si abbatteva sul più interessante cinema del mondo, ottenendo di fatto un effetto sterilizzatore sulle possibilità creatrici del cinema italiano. Negli anni 49/51, sull'onda di questo nuovo costume, sono realizzati film tragico-patetici. È il caso di Riso amaro di Giuseppe De Santis. Il film tratta il problema delle mondine, prendendo spunto dalle vicende d'amore di una di queste con un ladro che lei nasconde alla giustizia. Alla fine, la ragazza, dopo avere ucciso il ladro, si toglie la vita. Le questioni delle mondine (le ragazze che lavorano nelle risaie della pianura padana) sono trattate in modo riduttivo e semplicistico, attraverso gli occhi di una ragazza carica di erotismo e di assurde fantasie. Il film ebbe il merito di rivelare tre grandi attori (Gassman, la Mangano e Raf Vallone) e trovò un enorme successo in America (superiore a quello ottenuto da Paisà e Sciuscià). Insieme a queste iniziative in parte commerciali, tuttavia, sono realizzati anche film di spettacolo piacente, come Molti sogni per le strade di Camerini,

Il cielo rosso di Claudio Gora, È primavera di Castellani, Guardie e ladri di Steno e Monicelli. Alcuni film, in particolare, trattavano temi ancora legati al neorealismo, ma con toni più distaccati, più paternalistici. È il caso di In nome della legge di Pietro Germi che tratta il tema del banditismo e della mafia attraverso la storia di un giovane che, scontratosi con un proprietario terriero, riesce alla fine a far trionfare la giustizia con l'aiuto di un pretore e del capomafia del paese (sic!). Nettamente migliore ci sembra Il mulino del Po del regista Alberto Lattuada, che in quest'opera dimostra grande attenzione e sensibilità. Ambientato nella pianura lombarda alla fine del secolo scorso, è la cronaca corale delle lotte contadine di quegli anni. Il romanzo di Bacchelli è riproposto nella pellicola con le stesse atmosfere che si respirano nelle pagine del libro, ma in più Lattuada ribalta la lettura storica degli avvenimenti ai nostri giorni, eseguendo un'operazione politico-culturale di grande pregio e realizzando un'opera corretta e di solido mestiere. Anche il vecchio Genina, il regista del film fascista L'assedio dell'Alcázar, tenta la riabilitazione mostrando il suo grande talento di mestierante. Su una sceneggiatura ben costruita da De Sica e Suso Cecchi d'Amico e servendosi del fotografo di Visconti, G.R. Aldo, realizza infatti il film Cielo sulla palude, interpretato da attori non professionisti secondo lo stile migliore del neorealismo. In quegli anni anche Rossellini appare in crisi e stenta a trovare un nuovo stile. I suoi nuovi film affondano lo sguardo nella psicologia e nella teologia e la poetica dell'umanità sociale diviene poetica dell'amore. Dopo Amore, del 1950, realizza Francesco giullare di Dio, Stromboli terra di Dio, L'invidia (episodio del film I sette peccati capitali), Dov'è la libertà?, Viaggio in Italia, un episodio di Amori di mezzo secolo, Giovanna D'Arco al rogo e La paura (Non credo più all'amore). Francesco giullare di Dio narra della vita del santo e dei suoi confratelli in undici episodi. Lo stile, in alcuni episodi è semplice e aderente alla semplicità della filosofia francescana, mentre in altri appare più ricercato e meno immediato.

Stromboli terra di Dio narra del trasferimento nell'isola di Stromboli di una coppia. Karin (questo il nome della donna) mostra fin dall'inizio di nutrire una terribile repulsione nei confronti di tutto l'ambiente che la circonda, compresa la popolazione che sente ostile e diversa da lei. In tutto il film si avverte una crescente tensione che trova il suo apice nell'eruzione del vulcano e nella fuga in barca di notte. Il superamento dell'ostilità sarà trovato dall'incontro con la religione e la preghiera. Il regista tenta di superare il proprio smarrimento realizzando Europa '51, un'opera in cui l'autore, cercando la propria catarsi, affronta il problema della crisi dei valori umani, sociali, economici e politici dell'Europa del 1951. Narra la storia di una americana residente a Roma che, perso il figlio in tragiche circostanze (si suicida), abbandona la casa e va a vivere con una prostituta cercando di dare un senso alla propria esistenza e finirà rinchiusa in un manicomio. La pellicola pecca di troppa superficialità nella trattazione dei temi e nell'approfondimento psicologico dei personaggi, mai tratteggiati con sufficiente mestiere. Dopo il fallimento del surrealista La macchina ammazzacattivi, realizza ancora un pamphlet di cattivo gusto (Dov' la libertà?) con un Totò non guidato nella recitazione e poi Viaggio in Italia. È quest'ultimo un film molto più interessante, nel quale è affrontato il problema della coppia. Narra la storia di due coniugi inglesi che fanno un viaggio in auto fino a Napoli per vendere una proprietà ereditata. Il viaggio è l'occasione, per i due, per conoscersi, per stare vicini e aprirsi l'un l'altro. Quando sembra che stiano per lasciarsi, durante una visita a Pompei il passaggio di una processione li fa sentire improvvisamente di nuovo vicini. Il tema della incomunicabilità, con risultati assai diversi, sarà trattato quello stesso anno da un altro autore, Michelangelo Antonioni, che realizza La signora senza camelie e Tentato suicidio. ***** 5. Maccartismo italiano e fine del centrismo degasperiano Dopo le elezioni del 1948, la DC, pur potendo governare da sola, invita liberali, socialdemocratici e repubblicani ad entrare nel nuovo

governo. Inizia l'epoca del "centrismo". Agli inizi degli anni cinquanta l'Italia è in piena ricostruzione dai danni causati dalla guerra. I problemi politici sono innumerevoli e tutti urgenti; debbono essere stabiliti soprattutto gli indirizzi politici per assegnare delle priorità precise agli interventi. E proprio allora il governo De Gasperi mostra le proprie debolezze: dal punto di vista economico e produttivo sono tralasciate le attività primarie come ad esempio l'agricoltura che in quegli anni rappresenta circa il 30% del prodotto nazionale lordo - in favore delle attività secondarie e terziarie. Dal punto di vista sociale non è inoltre garantito nessun miglioramento generale delle condizioni di vita pesantemente aggravate dalla guerra (ospedali, mezzi di comunicazione, scuole) se non guardando verso le industrie del Nord. Attorno a queste vengono costruite strade, scuole, case e tutte le infrastrutture indispensabili, ivi compreso il sistema di comunicazione. Laddove non vi è invece possibilità immediata di evoluzione tecnologica, nel Sud che vive di agricoltura, lo Stato è assente e si avverte un atteggiamento di abbandono. Riprendono le agitazioni sociali: al Sud, dove i contadini danno vita a un movimento rivendicativo con l'occupazione delle terre; al Nord dove gli operai scioperano rivendicando miglioramenti delle condizioni di lavoro. Il governo De Gasperi risponde con le cariche della polizia di Scelba, speciali corpi addestrati appositamente per fronteggiare i movimenti popolari con duri interventi repressivi. Non infrequenti sono i casi di dimostranti uccisi durante gli scontri. Mentre negli Stati Uniti nasceva il maccartismo dal timore di una svolta a sinistra per l'opera che gli intellettuali svolgevano nel Paese, promuovendo la caccia alle streghe contro quelli appena sospetti di simpatizzare col comunismo, De Gasperi inizia, con sempre maggiore frequenza, a parlare della necessità che le libertà venissero salvaguardate e difese. Sono proposte in Italia delle leggi eccezionali nell'intento di ridimensionare le libertà sindacali, di sciopero e di stampa che maggiormente minano la solidità del governo centrista. Contemporaneamente si lasciano lettera morta quegli articoli della costituzione che chiaramente si avvertivano come i più innovatori e illuminati. La struttura dello Stato, di fatto, resta quella fascista e si applicano gli stessi metodi (anche il codice Rocco resta quasi totalmente in piedi); d'altra parte, gli organi destinati a garantire la realizzazione delle norme costituzionali sono istituiti con molto ritardo (la Corte Costituzionale nel '56 e il Consiglio Superiore della Magistratura nel

'58) e non è dato spazio alle autonomie locali (le Regioni sono realizzate solo nel '70, dopo furiose lotte parlamentari che vedono la sinistra schierata compatta contro il conservatorismo di destra e della DC). In questo clima risorge apertamente la destra fascista e monarchica che esplode soprattutto nel Sud, dove maggiore è il malcontento e più facilmente può attecchire nei substrati sociali del sottoproletariato. Nel napoletano è un ricco armatore, Lauro, che costituisce e finanzia un partito monarchico riuscendo a formarsi una solida base elettorale con distribuzione di scarpe e pacchi di pasta e a crearsi il controllo di alcune amministrazioni comunali e provinciali. De Gasperi tenta il salvataggio della posizione egemonica della DC attraverso la proposizione di una nuova legge elettorale (poi battezzata "legge truffa") che garantiva alle liste "apparentate" che ottenessero, tutte insieme, più della metà dei voti una sorta di "premio di maggioranza", riservando loro circa i due terzi dei seggi. La sinistra apre una strenua battaglia con la tecnica dell'ostruzionismo e persino i partiti della maggioranza (come nel caso dell'adesione alla NATO) sono disorientati e si presentano non compatti con De Gasperi. La proposta è respinta dagli elettori per poche migliaia di voti: i partiti della coalizione centrista, infatti, alle elezioni del 1953, non riescono ad ottenere la metà dei voti. La DC scende dal 48,5% del '48 al 40,1%; di contro le sinistre recuperano i voti perduti alle precedenti elezioni a causa delle influenze vaticane e americane. De Gasperi, reincaricato alla formazione del governo, nonostante gli sforzi consumati nelle consultazioni con tutti i partiti, è battuto alla Camera, decretando con ciò, di fatto, la fine della linea maccartista italiana. Sarà nominato segretario della DC, ma già il Congresso di Napoli del '54 pone termine al suo predominio. Dopo un periodo in cui si succedono a breve scadenza governi monocolore apertamente appoggiati dalla destra o riedizioni del quadripartito, iniziano a intravedersi all'orizzonte fiduciose alternative in un'aria di rinnovamento che spira nel PSI.

Dopo la sconfitta del Fronte Popolare del '48, infatti, il PSI presenta nel '53 liste autonome e separate dal PCI, pur restando in vita il patto di unità di azione. Ciò perché quella sconfitta era gravata soprattutto su questo partito, organizzativamente più debole del PCI. 5.1 La crisi e il superamento del neorealismo Il clima di apparente ricerca di una identità politica e di incomunicabilità, si riflette innanzitutto sulle arti figurative che danno luogo all'arte informale. Gli artisti si pongono il problema della ricerca di una nuova dimensione estetica attraverso la quale potessero dar sfogo alla convinzione che fosse impossibile il rapporto tra arte e società. Nasce così la poetica dell'informale che, partendo dal presupposto che la comunicazione fosse possibile solo attraverso il linguaggio, abolisce quest'ultimo per tagliare ogni possibile dialogo con gli uomini. Di là dal linguaggio resta la ferma determinazione operativa e la certezza dell'esistenza. Anche gli autori più illustri della narrativa italiana si pongono il problema della comunicabilità tra gli uomini. Italo Calvino, che continua a mantenere un costante interesse per la realtà, pur attraverso le pagine ironiche delle sue favole, cerca di spiegarsi tale fenomeno attraverso un’attenta ricostruzione storico-culturale. Per l'autore, infatti, l'incomunicabilità deriva dalla sfiducia dell'uomo come attore di una storia che ha provocato sia la divisione politica del mondo in due blocchi, sia la riduzione dei rapporti tra uomo e natura a causa dello sviluppo della tecnica. Di fronte ad una realtà che il neocapitalismo in ascesa e la politica centrista di restaurazione rendono sempre più complessa e contraddittoria, svaniscono le speranze del rinnovamento sociale e politico e inizia una crisi che contrappone l'incomunicabilità alla passione ideologica che aveva animato le coscienze critiche del dopoguerra. All'arte come specchio di vita, si contrappone adesso una narrativa che esprime solo temi esistenziali, di largo consumo perché rispondente alle esigenze del mercato e del sistema. Nascono romanzi di grande pregio che, tuttavia, non guardano più alla realtà umana storicamente intesa, ma si volgono a una rappresentazione esistenziale, alla presentazione del dolore e della solitudine; si risolvono in

lamento sulla condizione umana ontologicamente intesa, sulla legge di inutilità e di sfaldamento cui le vicende dell'uomo soggiacciono. È tale la produzione di Cassola (Il taglio del bosco del 1954), di Bassani (Il giardino dei Finzi-Contini del 1962) e di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Il Gattopardo del 1956). Permane ancora in altri autori la volontà di attestare la realtà, ma questa è comunque problematica, pregna di dolore, carica di violenza e la sua testimonianza non può che essere di delusione più che di fiducia nell'impegno di lotta. È la rappresentazione di una situazione di crisi. È questo il caso di Pasolini (il primo romanzo, Ragazzi di vita, è del 1955). Questi, in particolare, si presenta come una delle figure più complesse della cultura del dopoguerra ed essendo anche regista cinematografico (oltre che poeta, critico, filologo, romanziere) si avrà modo di parlare di lui più avanti. E, in un certo senso, è anche il caso di Leonardo Sciascia, che traduce nelle sue opere la lezione del neorealismo attraverso l'attenta rappresentazione storica e umana della realtà, sempre vista attraverso il suo mondo meridionale della Sicilia. Anche nei suoi romanzi, tuttavia, sulla speranza del riscatto sociale prevale la fatalità. Il cinema non fa eccezione alla regola della crisi culturale della sinistra italiana: alla scoperta dolente della realtà subentra lentamente il bozzetto, la ricerca del colore e del folclore. È l'epoca di Pane amore e fantasia di Comencini (1953). Già nel gennaio del 1949 la situazione dell'industria cinematografica è ormai giunta al collasso. L'ANICA protesta attraverso il famoso "memoriale Gualino": gli esercenti sono accusati di non rispettare gli 80 giorni di programmazione obbligatoria del film italiano, il governo viene accusato di voler mantenere per opportunità politica la libera importazione del cinema americano. Il 20 febbraio si tiene un comizio a Piazza del Popolo, in cui i lavoratori dello spettacolo, gli autori e gli attori fanno il punto della situazione in cui versa l'industria cinematografica italiana a causa delle errate scelte di governo. Alla fine del comizio si forma un corteo di manifestanti che viene sciolto dalla Celere (Per la manifestazione a Piazza del Popolo, cfr. Il Messaggero del 21 febbraio 1949; per il memoriale Gualino, cfr. Cinema, a. II n. 10, 15 marzo 1949).

In Parlamento sono fatte alcune interpellanze: l'on. Semeraro, esercente cinematografico, attacca duramente gli 80 giorni di programmazione obbligatoria e tutto il cinema neorealista "che mette in mostra le vergogne". L'on. Andreotti è costretto a prendere più volte la parola ma cerca di parare le accuse che gli si muovono da ogni parte rispondendo con discorsi ambigui e sibillini: annuncia la prossima ricostruzione dell'industria cinematografica di Stato e, contemporaneamente, propone soluzioni di finanziamenti del cinema privato che farebbero dipendere maggiormente il cinema italiano dall'economia americana. Alla fine di quell'anno viene promulgata la nuova legge che, in buona sostanza, ricalca la precedente: viene confermato l'obbligo di programmazione degli 80 giorni e, inoltre, si prevedono sanzioni (chiusura del cinema fino a 15 giorni) a carico degli esercenti inadempienti; si conferma il contributo fisso del 10% sugli incassi a favore della produzione e viene elevato dal 6 all'8% il premio ulteriore riservato ai film più meritevoli per particolari valori artistici. Peggiorano invece con la legge i meccanismi burocratici: in essa è, infatti, prevista un’apposita commissione consultiva per l'assegnazione del premio dell'8% e, per quello del 10%, è previsto che prima il Ministero effettui accertamenti più complessi per assicurarsi della nazionalità italiana del film. Inoltre la stessa commissione consultiva deve occuparsi degli scambi cinematografici con l'Estero, della vigilanza sugli enti, sulle attività e sulle manifestazioni cinematografiche con carattere di interesse pubblico o finanziati direttamente dallo Stato. In effetti, con l'attività svolta dall'Ente di Stato, si sarebbe dovuto dare una indicazione culturale sulle scelte di produzione, ma i titoli realizzati in quegli anni dall'Ente confondono amaramente: Femmine di lusso, La fiammata, Cento anni d'amore, Altri tempi, Tempi nostri, Amici per la pelle... Infine inizia un triste periodo di coercizione anticulturale attraverso lo strumento della censura: si danno consigli prima e durante la lavorazione del film, si concedono i nulla-osta preventivi e obbligatori per il credito alla BNL, si operano tagli e si bloccano interi film non graditi, si ritirano dalla circolazione, su semplice denuncia di un cittadino, film a cui è già stato concesso il nulla-osta, si concedono permessi per l'apertura di nuove sale cinematografiche con forti discriminazioni (le sale parrocchiali aumentano da 2.500 nel '48 a 4.500 nel '54). La nuova legge, chiamata "Legge Andreotti", entra in vigore il 1° gennaio del '50 e sferra un duro colpo a chi ancora crede alle ideologie innovatrici

scaturite dalla Resistenza. I produttori italiani cominciano a rivolgersi verso un nuovo cinema. In un'intervista rilasciata a Cinespettacolo, Dino De Laurentiis afferma: "Basta con gli attori presi dalla strada, vanto dei registi del cosiddetto neorealismo e causa prima, invece, della non sempre cordiale accoglienza dei film italiani da parte del nostro pubblico. Occorre creare divi italiani... Io non credo negli estetismi, non credo negli intellettualismi; credo soltanto nei film che piacciono al pubblico e mi dispiace purtroppo costatare che giovani registi, dotati d’ingegno, sensibilità e ottima preparazione tecnica, fuorviati da presupposti estetico-intellettualistici, nulla facciano per riportare il film italiano al pubblico italiano". A influenzare ulteriormente le scelte dei produttori intervengono i noleggiatori, ossia gli intermediari tra esercenti cinematografici e produttori. Appoggiati dal governo (la BNL, per finanziare un progetto di film, pretende anche il contratto di noleggio), manipolano le sceneggiature, regalano consigli ad autori e registi, impongono certi attori... Con il sistema dei contributi stabiliti dalla legge sono concessi 216 milioni a Don Camillo e 16 milioni a Umberto D. In questi stessi anni entra tuttavia in crisi anche il cinema americano e ciò provoca importanti riflessi sulla nostra produzione. Durante e subito dopo la guerra, gli incassi dei film statunitensi sono al massimo vertice di una parabola che, dal 1949, comincia a discendere. Le frequenze nelle sale che oscillavano intorno ai 90 milioni di spettatori settimanali, calano nel '49 a 70 milioni e nel '50 a 60 milioni, con una perdita netta annua di circa 200 milioni di dollari. Le cause sono da ricercarsi fondamentalmente in tre fattori: 1. il cedimento dei grossi monopoli ai forti urti degli indipendenti antitrust; 2. il diffondersi crescente della televisione; 3. le persecuzioni politiche derivanti dalla caccia alle streghe promossa dal senatore Mc Carty. Già dal 1938 i produttori indipendenti si erano riuniti in un'associazione, l'IMPPA (Indipendent Motion Picture Producers Association), iniziando una lotta contro il monopolio delle grosse società. Avendo dalla loro una legge contro la formazione dei monopoli (legge Sherman), riescono ad ottenere un intervento a loro favore del Dipartimento della Giustizia. E, per quanto le

cinque maggiori società americane, nel 1940, concedessero un accordo col governo concedendo qualche piccolo spazio agli indipendenti, non possono più evitare le sentenze dei processi e sono disintegrate in società separate. Nel 1949 le società di Hollywood si cominciano a separare in produzioni, distribuzioni ed esercizi. Tali separazioni continuano fino al 1955. A questo primo duro colpo sull'industria cinematografica americana, si aggiunge la improvvisa e massiccia diffusione della televisione. Basta leggere i seguenti dati: nel 1946 gli apparecchi televisivi venduti ammontano a 11.000; nel '50 aumentano d'un balzo a 5.100.000; nel '52 a 14.000.000 e così via negli anni successivi. Infine a tutto questo va aggiunto che la qualità del cinema americano intorno agli anni cinquanta prende a deteriorarsi, proprio quando il senatore Mc Carty scatena la sua campagna anticomunista. Ciò anche perché il cinema è al centro dell'attenzione in questa campagna. Registi e attori sembrano fare a gara nello slancio delatorio e di denuncia, soprattutto dopo alcune condanne inflitte ad alcuni registi e produttori, ad attori e sceneggiatori perché si rifiutano di fare nomi. E così registi come Elia Kazan, Edward Dmytrik, Sam Wood, Leo Mc Carey e attori come John Wayne, Robert Taylor, Gary Cooper iniziano a fornire informazioni o liste di nomi da perseguitare. Ben presto, nel mondo cinematografico, cominciano a rarefarsi gli intellettuali e la qualità delle pellicole ne risente immediatamente. La conseguenza della crisi del cinema americano è, in Italia, il risollevamento dell'industria cinematografica locale. Purtroppo, però, a causa delle incertezze della politica governativa che non voleva inimicarsi noleggiatori e grossi produttori, la qualità del nuovo cinema è scadente. I produttori sentono e dichiarano la necessità di realizzare film da trattenimento che assicurino alti incassi. E i costi medi di una pellicola, che deve essere sempre più spettacolare e tecnicamente perfetta, salgono alle stelle. Ne consegue, considerata l'impossibilità di coprire i costi con i soli incassi nazionali, la necessità di rivolgersi ai mercati internazionali, mutilando di fatto uno stile nazionale in favore di un disistile internazionale. La nuova linea è palesemente condensata nell'attività di Pietro Germi. Egli, infatti, realizza nel 1950 il film Il cammino della speranza, che narra del viaggio attraverso l'Italia di un gruppo di braccianti siciliani in cerca di lavoro, fino alla loro decisione di espatriare in Francia.

La pellicola poteva rappresentare un secondo film Paisà, trattando il tema della disoccupazione italiana del dopoguerra in uno spaccato di tutta la penisola. Tuttavia non riesce a uscire dal bozzettismo e dal melodramma. Con il 1951 inizia in Germi un periodo di crisi espressiva che lo porta sempre più distante dall'impegno professionale dei suoi primi film (Il testimone del 1946 e Gioventù perduta del '47). Nascono in questi anni: La città si difende (1951), interpretato da Gina Lollobrigida, Il brigante di Tacca di Lupo (1952), tratto da Bacchelli e interpretato da Amedeo Nazzari e Cosetta Greco, raccontato in modo rigoroso e con accurata ambientazione storica, La presidentessa (1952), interpretato da Silvana Pampanini e Gelosia (1953), prodotto meramente commerciale. Accanto a questa cinematografia, per meno di registi non sempre minori, nascono coevamente altri film ancora più vicini ai desiderata dei noleggiatori: I fuorilegge (1950) di Vergano, Anna (1951) di Lattuada, Prima comunione (1950) di Blasetti... e altri ancora nei quali il linguaggio e i contenuti neorealistici sono fatti convivere con elementi edulcorati di evasione per fare spettacolo ad ogni costo: è tale la cinematografia di quegli anni del regista Lattuada: La lupa (1953) e La spiaggia (1954), con esclusione del solo film Il cappotto del 1951 che resta uno dei suoi migliori lavori. Dal dramma di Gogol era già stato tratto un film in Russia nel 1926, per mano di due registi sovietici. Tratta il tema della burocrazia autoritaria. Nell'opera di Lattuada la storia è trasferita in una città italiana del Nord e il protagonista (Akaki Akakievic nel libro) diventa Carmine De Carmine nel film ed è interpretato, in modo magistrale, da Renato Rascel. Il maggior pregio della pellicola consiste nel superamento, in positivo, del linguaggio neorealistico attraverso l'inserimento dell'elemento "fantastico" nelle immagini che rispecchiano rigorosamente la realtà. Altre opere degne di citazione sono i film Non c'è pace tra gli ulivi di De Santis (1950), Processo alla città di Zampa (1952), La provinciale di Soldati (1953) e Giulietta e Romeo di Castellani (1954), che si allontanano dal linguaggio sociale neorealistico per avvantaggiare l'estetica. Non c'è pace tra gli ulivi narra la storia di un soldato che, finita la guerra, torna alle sue terre e scopre che un ricco contadino l’ha derubato dei suoi greggi e tenta di portargli via anche la fidanzata. Denunciato il furto, è arrestato e, riuscito a evadere, si dà alla macchia e porta a compimento la sua vendetta.

Gli intenti narrativi sono disturbati dalla ricerca calligrafica dell'immagine che contrasta nettamente con il violento dramma che si svolge in crescente tensione. Processo alla città narra di un magistrato napoletano, di inizio secolo, che indaga su un delitto, scoprendo i forti legami esistenti tra la camorra e l'intera città. Anche qui gli intenti narrativi di coraggiosa denuncia (sono fin troppo ovvii i riferimenti alla realtà contemporanea) sono traditi dallo stile ricercato del tratto estetico che mal si accoppia con la storia narrata. La provinciale è uno spaccato della vita italiana. Narra la storia di una ragazza che sposa un professore ma, attratta dalla figura di una contessa rumena, si lascia facilmente convincere a farsi un amante. Ricattata dalla contessa la ragazza non esita ad ucciderla. Il marito tuttavia la perdona, mettendo a tacere ogni bisbiglio. Il film si basa sulla tecnica del ricordo facendo largo uso del "flash-back". L'enorme ricercatezza stilistica lo rendono forse il miglior film di Soldati che fornisce prova del suo grande mestiere e, tuttavia, proprio per l'accuratezza estetica utilizzata fa perdere il senso del "reale". Giulietta e Romeo è tratto dal dramma shakespeariano. Il film è notevole dal punto di vista estetico, ma è molto discutibile il risultato finale dell'opera trattata in chiave neorealistica. 5.2 Il cinema di Antonioni L'anno 1950 segna l'esordio di Antonioni nel cinema a lungometraggio con Cronaca di un amore. Con quest'opera ha inizio la felice produzione di una nuova letteratura filmica che, costruita con rigorosa tecnica e con stile nuovo e originale, fa conseguire un salto di qualità alla cinematografia nazionale aprendola a tematiche universali e internazionalizzandola. Il tema trattato, per la prima volta, dipinge un dramma dell'alta borghesia: un ricco industriale fa condurre da un investigatore privato delle ricerche sul passato della moglie e, casualmente, attraverso l'indagine, provoca l'incontro della donna col suo antico amante con il quale ella riallaccia la relazione. L'industriale muore, ma la circostanza provoca una frattura nei rapporti dei due amanti.

Il tema è importante per l'autore che, attraverso il susseguirsi degli avvenimenti, innesca una ricerca introspettiva dei personaggi mai condotta così a fondo in precedenza dal cinema italiano. L'estetica non è mai fine a se stessa, ma serve per elaborare la ricerca psicologica dei personaggi che sono scrutati dalla macchina da presa fino all'ossessione, vengono "rivoltati", aperti, analizzati. E questa stessa analisi non serve per entrare all'interno del personaggio - che, tutto sommato, poco interessa in se stesso al regista - ma per mostrare la società borghese e, attraverso questa, il mondo come lo vede l'artista. Tutto è visto da lontano, con una tecnica di "distanziazione" (come la definisce lo stesso autore) che lascia percepire chiaramente il pudore del regista nei confronti dei temi trattati. Il personaggio è seguito dalla macchina da presa fintanto che Antonioni non sente la necessità di lasciarlo, ridando valore alla recitazione attraverso l'inquadratura della macchina da presa. In un colloquio con gli allievi del Centro Sperimentale, lo stesso regista osserva: "Quando ho cominciato Cronaca di un amore ... non mi ero prefisso di girare il film in quel modo, cioè la mia non era una tecnica preordinata, studiata a tavolino. Ma quando ho cominciato a montare sul "dolly", a seguire i personaggi nelle prime scene, ho visto che lo stacco non era necessario, e allora ho continuato. Proprio per questo bisogno ... di seguire i personaggi fin nei momenti meno importanti e apparentemente secondari. Perché evidentemente - e questa è una scoperta che ho fatto solo adesso - mi pareva di sentire che avrei espresso meglio i loro pensieri, i loro stati d'animo seguendoli fisicamente con la macchina da presa" ("La moralità dei sentimenti", colloquio con Michelangelo Antonioni, in Bianco e Nero, n. 2/3, febbraio/marzo 1961). Antonioni sposta il centro focale dell'indagine che aveva svolto in quegli anni la cultura neorealistica dai problemi della sopravvivenza, propri dell'Italia del dopoguerra, a quelli propri della borghesia, di cui egli fa parte. E li mostra senza falsi pudori, nella loro complessità: non problemi materiali (perché la borghesia conduce una vita materialmente più agiata), ma solo spirituali. È un nuovo modo di dire le stesse cose di chi in quegli anni ha esposto il problema di una bicicletta rubata, del tetto sopra la testa, del lavoro: Antonioni costruisce un metodo di ricerca introspettiva, sulle basi definite dal cinema neorealista, riproducendo non più la realtà esterna, ma ciò che questa realtà ha provocato nel nostro "io". Tutto questo narrato con uno stile nuovo e un nuovo linguaggio: la solitudine dei personaggi pesa sugli spettatori con lunghe inquadrature (il

cosiddetto "montaggio lungo"), lunghi dialoghi, lunghe pause, occhiate, volti, silenzi... senza mai "staccare", realizzando immagini di lunghissima durata cui ben si accompagna la musica di Fusco. Dal punto di vista narrativo, inoltre, Antonioni ha il pregio di reinventare la letteratura "gialla", rovesciandone i concetti: a mano a mano che l'azione procede, la storia perde interesse ed emerge, con un impeto sempre maggiore, la crisi psicologica e sentimentale dei personaggi. Per realizzare il suo secondo film, Antonioni dovrà attendere due anni, fino al 1952, anno in cui girerà I vinti e inizierà La signora senza camelie (terminato l'anno successivo). In ordine cronologico poi verranno: Tentato omicidio (episodio del film L'amore in città), Le amiche e, nel 1956, Il grido. I vinti è un film-inchiesta sui giovani (gli stessi giovani di "gioventù bruciata"). Il giovane italiano, di famiglia borghese, si lascia coinvolgere in una storia di contrabbando e viene ucciso dalla polizia; il giovane inglese è uno psicopatico che uccide una vecchia prostituta per mitomania; i giovani francesi uccidono un compagno, durante una gita, per fare una nuova esperienza. L'episodio italiano, taglieggiato dalle forbici della censura, non ha più nessun significato e risulta molto brutto. L'episodio francese è tradizionale anche nello stile. Il più efficace, a questo punto, è quello inglese. In un saggio apparso in Filmcritica, è fatto un parallelo tra questo episodio de I vinti e il racconto I due galanti, contenuto in Gente di Dublino di James Joyce. "Con la differenza - osserva l'autore - che i mezzi sintattici di Joyce illimpidiscono la parola e la purificano fino a un risultato purissimo di espressione, mentre Antonioni "gira" attorno ai suoi personaggi e preferisce non riscattarli abbandonandoli al loro destino" (Giuseppe Turroni, L'Antiaccademia: James Joyce e il terzo episodio de I vinti, Filmcritica n. 34/35, maggio-aprile 1954). Nel racconto di Joyce i protagonisti sono due amici sfaccendati che trascorrono una grigia esistenza, piatta, monotona, vuota. Vivono di espedienti, scommettendo al biliardo e accettando soldi dalle donne che frequentano. I loro nomi sono Corley (il più furbo e povero, mantenuto dalla famiglia), che domina l'amico, e Lanehan. Il racconto narra una serata trascorsa dai due: Corley ha un appuntamento con una cameriera, Lanehan lo accompagna per strada e si danno appuntamento per un po’ più tardi. Quando si rincontrano, Corley continua a camminare come ignorando la presenza

dell'amico, ma poi, con un sorriso istrionico, gli mostra sul palmo della mano una moneta d'oro. Antonioni al posto di Corley pone la società, nei cui riguardi il protagonista (l'attore Peter Reynolds) si mostra sprezzante, ma al tempo stesso servile. Ne La signora senza camelie, Clara (l'attrice Lucia Bosè) è un'attricetta che vuole far strada nel mondo del cinema. Ci riuscirà sposandosi con un uomo ricco, matrimonio che, tuttavia, rappresenterà anche la sua "fine", la sua "solitudine", il fallimento dei sentimenti. Clara cercherà di superare la crisi allacciando una relazione sentimentale con un diplomatico, ma ciò non le servirà a niente. La sua solitudine avrà il sopravvento portandola alla disperazione in uno splendido finale nel quale la nostra si accorge di essere materialmente tra la folla di Cinecittà che le è spiritualmente lontanissima. Tentato suicidio fu girato da Antonioni per non rifiutare un piacere al suo amico Marco Ferreri. È un episodio del film Amore in città, nato da un'idea centrale di Cesare Zavattini che pensò anche al filo conduttore che univa i vari episodi (Agenzia matrimoniale di Fellini, Gli Italiani si voltano di Lattuada, L'amore che si paga di Lizzani, Storia di Caterina di Maselli con la collaborazione diretta di Zavattini, Paradiso per quattro ore di Dino Risi e Tentato suicidio di Antonioni). Il film è un'inchiesta nella quale sono protagonisti le medesime persone che avevano preso parte ai fatti veri raccontati. Nel film Le amiche, Clelia, venuta a Torino per aprire una sartoria, diviene amica di un’indossatrice, Rosetta, di una ceramista, Nene, di un’oziosa e ricca borghese, Momina, e di un arredatore, Franco Fabrizi. Rosetta, la più giovane delle amiche, si uccide per una delusione d'amore avuta dal pittore Lorenzo. Clelia abbandona la città. In questo film si rendono evidenti i forti legami di Antonioni con Cesare Pavese e, in particolare, le influenze che sul regista ha avuto il romanzo Tra donne sole. In quest'ultimo romanzo è trattata una crisi interiore propria di un mondo, quello femminile nel momento della propria crescita e della propria emancipazione economica e morale; nel film di Antonioni, la crisi coinvolge la classe borghese. Per la sceneggiatura del film Alba de Céspedes cura la riduzione dei dialoghi del romanzo di Pavese. Tuttavia, la personalità del regista rende il film opera autonoma e originale. Basti pensare che nel romanzo di Pavese

esiste il solo mondo femminile, mentre nel film di Antonioni è inserito a forza anche quello maschile (la storia d'amore con il pittore Lorenzo). Nel film Il grido, un operaio, Aldo, abbandonato dall'amante (non appena questa riceve la notizia della morte del marito) che gli confessa di amare un altro uomo, se ne va di casa. Vaga per la pianura padana cercando un vecchio amore, Elvia, poi va a vivere con una benzinaia, Virginia, quindi incontra una prostituta... Torna dall'amante che non sa dimenticare e si uccide gettandosi dalla torre di una fabbrica. È uno dei migliori film di Antonioni, uno dei più riusciti. La critica italiana, all'uscita del film, non lo accolse favorevolmente per l'anticonformistico modo di trattare l'argomento "operaio". Moravia scrisse: "Aldo è un operaio, ma ha dell'operaio soltanto il giubbone e i pantaloni schizzati di fango. Antonioni, poco sensibile al fatto sociale, ha voluto fare la storia di un'anima; per esprimersi lo fa attraverso i caratteri sociali, anzi quanto più marcati questi, tanto più forte la generica umanità che, attraverso e in contrasto con essi, si libera e rivela. D'altra parte non siamo qui in un ambiente borghese nel quale è possibile e legittimo, perché prodotto in secondo grado dalla cultura (o dalla mancanza di cultura), un accadimento soltanto sentimentale; siamo tra il popolo, ossia nel mondo della necessità più diretta e rigorosa ... È un personaggio poco articolato descritto in maniera molle e crepuscolare". Umberto Barbaro: "Assomiglia solo esteriormente a un operaio; ...il suo comportamento è piuttosto quello di un intellettuale decadente che non quello di un lavoratore autentico". E Gobetti, nell'Unità del 16 luglio 1957: "Quel che non ci pare conosca abbastanza - e che del pari non conoscono soggettisti e sceneggiatori e dialoghisti - è il modo di pensare, di agire e reagire di un operaio, la forma per esprimersi, il pudore o la volgarità del suo linguaggio. E tanto meno la sua coscienza di classe, le sue caratteristiche sociali. Antonioni si è preoccupato molto, per far vivere sullo schermo i suoi personaggi, di conoscere i discorsi, le storie, le disavventure di operai della bassa Padana. È stato nelle osterie e in giro ad ascoltarli, è stato nelle fabbriche a conoscerli. Ma non è riuscito a comprenderli a fondo, ad afferrare davvero l'essenza della loro personalità per tradurla poi artisticamente sullo schermo. La insufficiente conoscenza del mondo operaio da parte di Antonioni si rivela poi particolarmente evidente nel finale dove la manifestazione di protesta contadina e lo sciopero di solidarietà degli operai rimangono assolutamente sullo sfondo come elementi estranei alla vicenda". Lo stesso giudizio è ripreso

da Casiraghi nell'Unità di Milano del 27 settembre 1957 e da Aristarco in Cinema Nuovo n. 116 del 15 ottobre 1957. In effetti, i sentimenti di un operaio non vedo come possano essere diversi da quelli di un borghese: egli può viverli con intensità emotive diverse, perché diversa è la cultura delle due classi e diversi sono gli approcci che esse hanno con le vicende umane e sociali, ma la natura intima dei sentimenti (l'amore non corrisposto, la solitudine, l'incomunicabilità, la disperazione) non può certo farsi influenzare dalla coscienza di classe. Irma riceve la notizia della morte del marito, ma invece di legalizzare i suoi legami con Aldo, col quale vive da sette anni, gli comunica ciò che egli sospettava già: ama un altro. Questo cambiamento di sentimenti non volutamente è motivato, né si vede mai il rivale di Aldo. Ciò che interessa è che i sentimenti cambiano. Dal cambiamento nasce la problematica di Antonioni: la solitudine, l'incomunicabilità tra Aldo e gli altri, il vuoto interiore, la disperazione. E comincia lento il vagare del protagonista. Aldo sarà passivo spettatore dei suoi nuovi rapporti sentimentali (o meglio sessuali) con le altre donne (la sorella di Irma, la benzinaia, la prostituta), dei suoi scontri con i problemi sociali (lo sciopero: Aldo incontra i contadini che rivendicano il diritto alla terra episodio che ricorda Il cammino della speranza di Germi, in cui gli emigranti, per poco, non diventano crumiri - ma la lotta per la terra non è collegata al binario che sta seguendo Aldo nel suo vagare, e passa attraverso la folla senza confondersi con essa spiritualmente), o i suoi legami (privati) con il mondo esterno (il rapporto con la figlia): tutto lo troverà assente. 5.3 Vittorio De Sica Tra il 1951 e il 1952 Vittorio De Sica realizza i suoi ultimi due capolavori: Miracolo a Milano e Umberto D. Inizia poi il suo periodo di decadenza artistica, in cui ripiega sul commerciale. Nascono film stupidi come Stazione Termini (1953), o folcloristici come L'oro di Napoli (1954). È interessante notare che alla regia Vittorio De Sica continuava in quegli anni affiancare il mestiere di attore, interpretando film come Cameriera bella presenza offresi, Buongiorno elefante!, Pane amore e fantasia, Villa borghese, Cento anni d'amore, Il letto, Il matrimonio, Gran varietà, Vergine moderna, Allegro squadrone, Racconti romani, ecc.

Miracolo a Milano narra la vicenda di un ragazzo, un "martinitti", Totò il buono, trovato sotto un cavolo da una vecchia signora che lo alleva amorevolmente. Totò fa conoscenza con i disoccupati di Milano, dal momento in cui muore la sua madre adottiva e si ritrova solo. Conosce questi "folletti" che vivono in un villaggio di baracche e li guida nella lotta contro un ricco industriale, Mobbi, proprietario del terreno in cui le baracche sorgono, che vuole scacciarli perché in quel terreno è stato trovato il petrolio. Il film si chiude con un finale fantastico e allusivo in cui i poveri, a cavallo delle scope degli spazzini, da piazza del Duomo salgono in cielo seguendo gli angeli (le colombe). Il contenuto è metaforico: da una semplicissima fiaba moderna, con momenti lirici, di alta poesia, De Sica ottiene un'opera di violenta polemica sociale. Per quanto il racconto sia inserito in una collocazione spaziale e temporale (la Milano delle baracche del periodo post-bellico), come tutte le fiabe supera lo spazio e il tempo, Milano diviene la città "fantastica" di Bamba che ci descrive Zavattini nel suo racconto e il tempo resta un tempo indeterminato che non trova il suo valore solo nel periodo post-bellico. Non per niente il film inizia con la classica e precisa didascalia "C'era una volta". Il racconto è un inno all'amore, al rispetto degli altri, alla semplicità, quasi un invito tradotto da De Sica in una poesia colma di eccezionale vena lirica. Un esempio di questa poetica fantastica è la morte della vecchina, all'inizio del film, e il triste funerale nella deserta e silenziosa Milano; il corteo funebre cui partecipa solo il ragazzo; il carro funebre nero e squadrato che scivola sulle strade bagnate, avvolte da una leggera foschia. Il ladro che si affianca a Totò fingendo di piangere, per far perdere le proprie tracce alle guardie che lo inseguono. Immagini che ricordano Brueguel e anche Chaplin. O ancora, l'imbroglione che vuol far pagare per assistere allo spettacolo del sole che tramonta; il capo della polizia di Mobbi che canta un brano lirico quando vuole ordinare la carica ai suoi uomini per sgomberare le baracche; il raggio di sole sotto cui tutti i baraccati si raggruppano per ricevere un po' di calore, con un sospiro di gioia che assume la dimensione di un canto; la triste bimbetta che Totò ripara dalla pioggia; la partenza sui manici di scopa. La realtà entra nel film di soppiatto, quasi incidentalmente: il treno lussuoso che passa sui binari accanto al poverissimo villaggio di baracche; il

contrasto delle case e degli uffici degli eccentrici ricchi (che tengono fuori delle finestre uomini per barometri) con la vita dei poveri disoccupati… Anche Umberto D potrebbe essere definito una fiaba. È la fiaba dell'amore e del rispetto reciproco di due vecchi: un pensionato e un cane, restati soli al mondo. È il capolavoro per eccellenza della coppia De Sica-Zavattini. Realizzato su sceneggiatura del solo Zavattini, racconta le vicende del pensionato che vive in un appartamento insieme al cane, solo e unico amico suo. I pochi soldi bastano appena per tirare avanti, finché, non potendo pagare l'affitto, viene sfrattato dalla padrona. Per un momento il vecchio pensa di togliersi la vita gettandosi sotto un treno, ma il pensiero di lasciare il cane solo al mondo lo distoglie dall'idea. "Mi venne in mente il titolo Umberto D. - spiega lo stesso Zavattini come mi sarebbe potuto venire in mente Antonio D.. Poi cercai di giustificarlo con una brevissima scena sul Campidoglio in cui Umberto doveva dare il proprio nome e cognome ai dimostranti che avevano scelto casualmente lui con altri quattro o cinque per recarsi dal sindaco a protestare in nome dei proprietari di cani troppo tassati; e Umberto modestamente diceva: "Umberto Domenico Ferrari... ma può scrivere Umberto D. Ferrari... basta". Quando sostituii il corteo di padroni di cani con il corteo dei pensionati, riallacciandomi all'idea del soggetto, misi una situazione quasi identica nell'ospedale dove gli scioperanti della fame raccoglievano firme di solidarietà: infatti, il vecchio diceva agli agitati raccoglitori di firme: "Basta Umberto D. Ferrari". Ma lo sciopero fu uno dei tagli grossi che De Sica e io decidemmo di fare dopo che il film fu girato". Il film fu immediatamente accusato di essere pessimistico e, quindi, non costruttivo. Rappresentava invece una protesta sociale per l'inadeguatezza di certe pensioni, ma soprattutto un grido di allarme sul piano umano per denunciare il dramma della solitudine dei vecchi. "La tragedia di questi personaggi, esclusi da un mondo che hanno tuttavia contribuito a costruire - spiega De Sica - è una tragedia che si nasconde nella rassegnazione e nel silenzio, ma che esplode a volte in manifestazioni impressionanti o spinge a spaventosi suicidi. La decisione di morire presa da un giovane è certamente cosa grave, ma che dire del suicidio di un vecchio, d'un essere già naturalmente vicino alla morte? È una cosa orribile. Una società che permette una cosa simile è una società perduta".

Il realismo di Umberto D. bandisce pure completamente la concessione alla fantasia che domina invece Miracolo a Milano; potrebbe sembrare, quindi, che il primo film non avesse nulla in comune con il secondo. Esistono invece strettissimi legami tra Sciuscià, Ladri di biciclette, Miracolo a Milano e Umberto D.. Lo stesso Zavattini li definisce "un appello alla solidarietà del pubblico"; sono, in effetti, qualcosa di più: trattano, in modi diversi, temi sociali affini che riguardano sempre la povertà, ma ciò che interessa di più agli autori è la reazione psicologica dei personaggi di fronte agli avvenimenti esterni. Umberto D. potrebbe definirsi il film di chiusura di una trilogia composta con Sciuscià e Ladri di biciclette; Miracolo rappresenterebbe la nota esplicativa del sentimento che anima le tre pellicole. Il filo di unione sta anche nelle diverse età rappresentate: l'infanzia in Sciuscià, l'uomo in Ladri di biciclette e il vecchio in Umberto D.. Miracolo compendia, nella coralità dei suoi personaggi, tutte le età. Il legame tra il protagonista e il coprotagonista in tutte le pellicole (con aspetti corali in Miracolo) è visto sempre in antitesi con il sentimento d’indifferenza dell'ambiente esterno: Umberto e il cane, Pasquale e Giuseppe, Ricci e Bruno, sempre anteposti alla società. L'evolversi delle sensazioni procede sempre in un crescendo quasi affannoso, imponendo all'attenzione il dramma della solitudine: soli sono Pasquale e Giuseppe di fronte all'asprezza della società; soli Ricci e Bruno nella disperata ricerca della bicicletta; solo Umberto e il cane di fronte alla fine della vita. Quest'ultimo aspetto, ben vero, non è certamente presente in Miracolo, dove al contrario i protagonisti non sono mai soli. Il rigore stilistico, scarno e senza fronzoli, con cui è trattato l'argomento, non consente agli autori di fare concessioni ai "gusti del pubblico": la narrazione scorre lentamente come lentamente scorre la vita del protagonista, che non è il simpatico vecchino cui siamo abituati dal cinema. Ciò portò a un notevole insuccesso economico del film, su cui fecero subito leva produttori e distributori. L'on. Andreotti scrive una lettera aperta a De Sica: "...Se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia della metà del secolo ventesimo, De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria, che è anche la patria di Don Bosco, del Forlanini e di una progredita legislazione sociale. È stato detto in

questo dopoguerra che la cinematografia deve realisticamente configurarsi al vero, non rappresentando una società irreale, bugiarda e caramellata. Principio in sé accettevole per un tipo di produzione, ma sempre con il limite di equilibrio, di oggettività e di proporzioni; senza il quale ci si perde nelle vie disgregatrici dello scetticismo e della disperazione... Non dispiaccia a De Sica se noi lo preghiamo di non dimenticare mai questo minimo impegno di un ottimismo sano e costruttivo che aiuti veramente l'umanità a sperare e a camminare" (Giulio Andreotti, Piaghe sociali e necessità di redenzione, in Libertas n. 7, gennaio 1952). Successivamente, De Sica non trovò più la sua vena artistica e cadde nel commerciale, realizzando commediole confezionate appositamente su divi di grosso calibro. Nacquero così tediose storie sul modello holliwoodyano, costruzioni letterarie di sentimentalistiche vicende d'amore o di folcloristici racconti popolani o di disimpegnate storielle sociali. 5.4 Carlo Lizzani Nel 1951 Carlo Lizzani, dopo essere stato critico cinematografico, sceneggiatore e aiuto regista, debutta nella regia con Achtung banditi!, film dal contenuto ideologico comunista rigorosissimo, realizzato con intelligenza, ma con troppa freddezza, quasi a tavolino, storicizzando i fatti fino all'inverosimile e, quindi, schematizzandoli. Il momento politico, come si è già ricordato, non era per nulla favorevole al rinnovamento delle esperienze neorealistiche originali e il film, per essere realizzato, fu finanziato da una cooperativa di spettatori. "Si può facilmente immaginare - scrive lo stesso Lizzani - quanto difficoltosa sia la strada e quanto duro e aspro sia il lavoro per quei giovani che, formatisi alla scuola del neorealismo come collaboratori dei registi più anziani o maturati attraverso personali esperienze documentaristiche, sentano il bisogno di allargare il loro campo di azione e di passare alle prove più complesse del lungometraggio a soggetto". L'esperimento del finanziamento popolare, definito allora da Lizzani "straordinariamente importante e ricco di sviluppi", era invece stato accolto con indifferenza dai diversi ambienti culturali e si doveva attendere ancora molto il momento del suo effettivo sviluppo (se mai questo sviluppo ci fu). Il film narra le vicende di un gruppo partigiano che, sceso dalle montagne, organizza la resistenza in una fabbrica di Genova, covo di nazisti.

La scelta del ritorno al tema della Resistenza antifascista nasceva dalle obiettive difficoltà politiche della situazione nazionale che vedevano lo spostamento dell'asse politico in senso conservatore con l'imposizione, tra l'altro, di una censura esplicita e preventiva all'informazione cinematografica che si realizzava mediante l'arma della burocrazia. Da ciò nacque il ripensamento critico del rapporto passato/presente che si tradusse in una traduzione delle contraddizioni storiche del passato nelle problematiche del presente. I risultati di quest’operazione culturale non furono però dei più felici e diedero alla luce opere troppo didascaliche, distaccate e fredde, che nascevano dalla volontà di affrontare temi politici che, sebbene fossero sorti a seguito delle vicende narrate, ne risultavano troppo distanti per effettuarne un collegamento non "ragionato". Il suo secondo film, Cronache di poveri amanti, appare meno distaccato, pur partendo dai medesimi presupposti. Tratto dall'omonimo romanzo di Vasco Pratolini, il film tratta della vita di una strada della Firenze del 1925, dove nascono amori tra giovani, vengono consumate aggressioni fasciste e si assiste alla lotta partigiana. L'atmosfera che si respira non è, tuttavia, quella del romanzo di Pratolini che descriveva con grande puntualità il popolo fiorentino e il fatto storico, nel suo complesso, non è colto appieno. È però grande merito di Lizzani l'avere intuito che l'evoluzione del cinema italiano risedeva nel passaggio dal neorealismo al realismo e dalla cronaca al romanzo . Sulla strada tracciata da Lizzani, nel 1954 Nelli realizza Pattuglia sperduta, tentando di cogliere la maturazione unitaria e democratica dell'Italia del 1849, dopo la battaglia di Novara. Il film risente tuttavia degli stessi limiti di Cronache di poveri amanti e i soldati piemontesi risultano tali solo di nome. 5.5 Luchino Visconti Altra bellissima prova dà invece Visconti nel 1951 con Bellissima. Narra la storia di una popolana, Maddalena, che conduce la propria figlioletta a un concorso di bellezza indetto da Blasetti per una parte in un suo film, sognando un roseo avvenire per la bambina. Viene così a contatto con il mondo del cinema corrotto e falso e, alla fine, pur vincendo il concorso, rinuncia al contratto.

È un altro film di critica sociale. Maddalena è il centro focale che interessa a Visconti: il personaggio tenta di compensare le proprie delusioni scaricando sulla figlia tutte le ambizioni che in lei erano state represse. Visconti, come già in La terra trema, realizza il film curando tutto nei minimi particolari, dalle scenografie alle musiche, dalla recitazione alla fotografia... il suo stile viene a galla prepotentemente. Ferrara, nel descrivere la fotografia di Bellissima (attribuendola erroneamente a G.R. Aldo anziché a Piero Portalupi), coglie il senso che questa assume: "Di rado il nobile volto della Magnani, nella sua recitazione istintivamente popolaresca, eppur così colma di vibrazioni, era stato dipinto dalla luce con tanta intensità - forse nemmeno in Città aperta - per quelle ombre diffuse lateralmente, che conferiscono al personaggio una femminilità morbida e calda, col prevalere dei grigi bellissimi che sfumando in gradazioni potenziano i neri. Ogni tono bianco o freddo è eliminato (difficilmente il sole dardeggia in un esterno di Bellissima) e i bruni vengono a sovrapporsi e a precisare il calore umano della donna, nelle sue reazioni più varie: si ricordi una delle sequenze finali, la madre che piange stringendo al seno la bambina, su quella panchina solitaria, dove le ombre della notte riempiono intense la punta più critica del dramma, e si capirà in che senso Visconti guidi fotografia e recitazione. Queste esulano sempre dal circoscrivere, dal fare il vuoto intorno al personaggio. All'inverso gli attribuiscono un'infinità di relazioni, un'effusione continua e scambio sull'ambiente, dandoci la portata precisa della carica di vitalità che Maddalena Cecconi dovrà affondare sull'arco della sua crisi (perché il film, come disse Visconti, è la "storia di una crisi"), attraverso l'immediato contatto colla realtà 1951" (Giuseppe Ferrara, Il nuovo cinema italiano, Edizioni Le Monnier, Firenze 1957). La crisi di una donna, che rappresenta il centro di un nucleo familiare, raggiunge il suo culmine quando questa sta per lasciarsi sedurre da un giovane, cadendo nelle maglie di una società egoistica e frantumatica, quasi accettandone le regole del gioco. Ma è a questo punto che Maddalena prende coscienza di se stessa e rifiuta l'ingrato compromesso d'integrazione sociale cui stava per soccombere a causa di una falsa aspirazione. E attraverso questo rifiuto, questa presa di coscienza, Visconti dà il suo giudizio storico sul nostro tempo. Anche in questo film, come ne La terra trema, i personaggi minori e l'ambiente di sfondo non sono in semplice funzione scenografica, ma rappresentano il protagonista corale che trasforma il caso personale in un

evento universale. Il dissolvimento dei valori individuali esplode nella condizione subalterna della protagonista Maddalena nei confronti delle ambizioni "indotte", non proprie, rappresentate dal miraggio di una migliore condizione economica e dal mito della "diva". Tra il '53 e il '54 Visconti, non finendo di stupire, realizza il suo quarto capolavoro: Senso. È uno dei più bei film italiani in senso assoluto. Racconta la storia di una contessa veneziana sposata che s’innamora di un ufficiale austriaco (sono impersonati rispettivamente da Alida Valli e Farley Granger). Si ritrovano durante la campagna italiana contro l'Austria dell'estate del 1866. La contessa riesce, corrompendo i responsabili, a farlo riformare, ma lui l'abbandona. Lei indignata lo denuncia come disertore e lo fa fucilare. Il film, a differenza di altri che vedevano la storia come sfondo, affonda le sue radici in essa, facendola riflettere anche attraverso i suoi personaggi senza tuttavia limitarli: la contessa, avvilita dalla passione e dal suo stesso carattere melodrammatico, e l'ufficiale austriaco, cinico, spietato e ignobile, continuano a vivere la loro vita privata tormentati dalle proprie passioni. Centro del film doveva essere la battaglia di Custoza e la dolorosa sconfitta italiana, con la scena in cui il cugino Ussoni (Massimo Girotti) della contessa Livia Serpieri chiedeva invano ai superiori di potere utilizzare le forze popolari (queste scene furono purtroppo tagliate dalla censura - da notare sempre come le forbici del censore danneggino le opere nelle loro parti più direttamente ideologiche - e lo squilibrio pesa irrimediabilmente sul film). Le scene di Custoza ci sono date senza alcun commento, realizzando "il sogno più voluttuosamente accarezzato da ogni storico antifilosofico che si rispetti: rivivere il passato Ut sic così com'esso si dovette effettivamente svolgere" (Raffaello Franchini, Il cinema e la storia, in Filmcritica, a. V, n. 33, febbraio 1954). E ciò senza divagare dal dramma centrale, ma anzi confrontandone e giustificandone l'esito e le premesse, in quanto, come già detto, la storia è rivissuta soprattutto filtrata attraverso il carattere e la psicologia dei personaggi, i loro dialoghi, i luoghi in cui vivono. Non a caso Sadoul scrive: "Gli ambienti naturali dell'Italia del nord partecipano continuamente a quest’alto melodramma: le vecchie Calli di Venezia che la contessa percorre furtiva per recarsi dall'amante; lo splendido castello che ospita i loro amori e in cui i personaggi degli affreschi sembrano contemplarli; i bastioni in mattoni di Verona davanti ai quali il tenente è condotto a passo di marcia per esservi immediatamente fucilato" (Georges Sadoul, I film, Sansoni editore, Firenze

1968). O sentiamo Ussoni dire: "La guerra. Decine di migliaia di uomini decisi a uccidersi gli uni con gli altri"; o, proprio all'inizio del film, quando alla Fenice di Venezia la rappresentazione dell'opera di Verdi dà origine alla manifestazione degli Italiani contro gli Austriaci. Visconti smitizza il Risorgimento italiano, presentandoci una battaglia di Custoza che tutti hanno lodato per antiretorica con un’interpretazione di precisa derivazione marxiana, mettendo i personaggi a nudo da quell'alone romantico che li aveva sempre circondati. Cimentarsi nel romanzo storico d’impostazione decisamente realistica rappresenta per Visconti, tra l'altro, il suo modo di sviluppare la ricerca culturale e artistica per il superamento del neorealismo.

5.6 Giuseppe De Santis In quegli stessi anni, anche De Santis realizza un film di indubbia fatturazione artistica, Roma ore 11. Prendendo lo spunto da un fatto di cronaca avvenuto nel 1950 che indusse Zavattini a intraprendere un'inchiesta (condotta da Elio Petri) sull'avvenimento, tratta il tema della disoccupazione femminile. Sui risultati di questa fu costruita un'intelligente ed equilibrata sceneggiatura. Duecento donne, tra cui una prostituta, la moglie di un disoccupato, una ragazza incinta, una servetta, la ricca amica di un pittore squattrinato si ritrovano davanti alla porta di un pianerottolo, affollandosi per le scale, richiamate da un annuncio economico che offriva una buona occupazione. La scala crolla e diverse vittime sono trasportate all'ospedale. Già nel 1951 Augusto Genina ne aveva tentato una riproduzione cinematografica con il film Tre storie proibite, ma aveva ottenuto un prodotto assai mediocre. Diverso è il risultato di questo Roma ore 11 in cui si snodano (forse non sempre amalgamate in modo sufficientemente felice) le storie delle varie ragazze che si ritroveranno poi sulle scale, fino a far convergere i diversi destini nel punto focale ricercato da De Santis: il crollo e la conseguente catastrofe. Nella seconda parte del film seguono le scene dell'ospedale, che suscitano commozione senza tuttavia cadere nel cattivo gusto lacrimevole e melodrammatico o nel fumetto. Dopo questo film De Santis cede alle pressioni commerciali realizzando opere di dubbia validità artistica, fumettistiche e romanticopopulistiche. 5.7 Il film-verità L'evoluzione del neorealismo, perlomeno così come gli uomini di cultura allora si attendevano, verso il cinema-verità viene chiaramente intuita da Cesare Zavattini, che firma la sceneggiatura del film Amori in città. È questo un film-inchiesta portato all'esasperazione dallo stesso autore che è anche l'anima di tutto il film. La struttura è a episodi e la regia di ciascuno di essi è affidata a un diverso autore.

Lattuada dirige l'episodio Gli Italiani si voltano, riprendendo le reazioni degli uomini quando per strada incontrano una donna; Maselli realizza Storia di Caterina, le vicende di una ragazza-madre che è costretta ad abbandonare il proprio bambino perché le mancano i mezzi di sussistenza; Antonioni gira Tentato suicidio, un'inchiesta sui suicidi falliti (o non voluti) condotta intervistando i veri protagonisti degli autentici tentati suicidi; Risi realizza Paradiso per quattro ore, in cui fa vedere come in una balera si sciolgano dopo appena quattro ore le coppie formatesi; Lizzani dirige L'amore che si paga, un'inchiesta sulla prostituzione; Fellini, infine, dirige Agenzia matrimoniale, che narra dell'incontro tra un giornalista e una ragazza che è in procinto di sposarsi con un ricco e ripugnante ammalato. Gli episodi non sono tutti ben amalgamati fra loro, ma l'importanza del lavoro consiste soprattutto nell'avere saputo intuire la strada dell'evoluzione del cinema neorealistico, strada in cui riponevano le speranze tutti i migliori autori del dopoguerra e che si concretizzerà solo negli anni sessanta. L'episodio di Maselli, in particolare, rappresenta il primo lavoro non documentaristico dell'autore, che in esso già esprime una spiccata personalità artistica. Dovrà, tuttavia, attendere fino al 1956 per realizzare il suo primo lungometraggio, Gli sbandati. 5.8 Il neorealismo rosa Il via ai lavori lo diede il film di Castellani Due soldi di speranza del 1951. Questo lavoro risulta importante perché riesce a mettere in moto un meccanismo commerciale già auspicato dai "padroni del vapore", che richiedevano la realizzazione di opere più "vicine ai gusti popolari" e, in definitiva, spettacolari ma dolciastri e vuoti di contenuti. Due soldi di speranza racconta la storia di un ragazzo disoccupato che tenta tutti i mestieri e, infine, si sposa con una ragazza irrequieta, allegra e irriflessiva come lui. Stelio Martinici racconta come fu realizzato questo film, basando l'azione sui racconti di un popolano di Teano che poi interpretò la parte del protagonista: "Per sei mesi lasciò che raccontasse tutto ciò che gli veniva in mente, storie vere o inventate di sé e del suo paese, personaggi, macchiette, tradizioni, modi di dire, esclamazioni. Una stenografa prese nota di tutto"

(Stelio Martini, I versetti di Castellani, in Il mondo, a. VI, n. 40, 5 ottobre 1954). Attingendo in questo modo dalla realtà popolare, il regista doveva realizzare un'opera di autentico tessuto popolano. Eppure, egli non riesce a svincolarsi dal suo sentimento paternalistico nei confronti della storia e dei personaggi che la vivono. Ne viene fuori un "pasticcio" nel quale sono mescolati la sincerità di vita condotta dai protagonisti Antonio e Carmela al folclore popolano. Il vizio è fondamentalmente estetico, di forma. Castellani guarda tutto dall'alto, mostrando costumi lontani dalla sua civiltà che, sembra dire, è più seria e più matura di quella visitata nel film. Non mancano le belle sequenze, come quella dell'attesa dei disoccupati sulla piazza, o quella del cinemino di Napoli, o ancora quella in cui Totò spoglia Carmela tra la gente gridando: "Voglio solo te! Nuda come t'ha fatto tua madre!" e alla madre che grida di pensare a quello che fa: "Ohi, mà! E che avimmo aspettà, pè mangià 'sto pane fresco!" Gli attori sono tutti non professionisti, scelti tra la popolazione di Boscotrecase e si muovono sullo sfondo (vago e lontano) di una tragica miseria. Il successo commerciale del film non sfugge ad altri autori e, nel 1953, è prodotto Pane, amore e fantasia (collaboratore alla sceneggiatura Ettore Maria Margadonna, uno degli ideatori del soggetto di Due soldi di speranza). Interpretato da Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida, Tina Pica, Marisa Merlini, il film si svolge in un folcloristico Sud, misero ma felice perché in esso esistono l'amore e la fantasia: un volemose bene generale senza gusto e senza idee, una farsetta a carattere consolatorio ed evasivo. Luciano Emmer, dopo il suo garbato Domenica d'agosto del 1949, realizza Parigi è sempre Parigi (1951), Le ragazze di Piazza di Spagna (1952), Terza liceo (1953), Camilla (1954), Il bigamo (1956). Camilla si distingue dagli altri per la sua maggiore drammaticità e i più profondi contenuti che sono anche puntualmente studiati dal punto di vista psicologico. Per il resto, nonostante lo sforzo di mantenere un garbo stilistico che è il vero tratto dell'autore, i risultati sono certo più scadenti di quello che poteva aspettarsi dall'autore di buoni documentari d'arte. In seguito, Emmer alterna ai film a soggetto alcuni documentari di indubbio risultato spettacolare, fino a realizzare, nel 1960, il film La

ragazza in vetrina, in cui si trova tutto lo slancio drammatico e sincero che era proprio dei suoi documentari. Eduardo De Filippo, nel 1950, realizza Napoli milionaria, un film con degli ottimi spunti, ma nel quale l'attore De Filippo prevale sempre sul regista; nel 1951 dirige Filumena Marturana che resta il suo lavoro migliore; nel 1952 gira lo scadente Ragazze da marito e nel '54 Napoletani a Milano, non migliore del precedente. Negli anni successivi la sua vena artistica riesplode con Questi fantasmi (1954), interpretato da Renato Rascel, nel quale il regista dimostra un'attenzione eccezionale. Alessandro Blasetti, dopo Prima comunione (1952), film prettamente commerciale, apre la strada del filone dei film a episodi realizzando Altri tempi, confermando le sue ottime qualità artistiche e narrative. Non diversi da quest'ultimo sono Tempi nostri (1954) e Peccato che sia una canaglia (1955) che, tuttavia, già soffre di mancanza di originalità. Claudio Gora, dopo avere realizzato nel '50 Il cielo è rosso, dall'omonimo romanzo di Giuseppe Berto, ottenendo discreti risultati che si ripeteranno poi in Febbre di vivere del 1953 (un film che affrontava, con sufficiente attenzione e con vigore drammatico, il tema della crisi dei valori nelle ultime generazioni), si abbandona poi al cinema commerciale realizzando opere di scarso interesse, come L'incantevole nemica del 1954. Nel 1953: - Cesare Zavattini scrive La passeggiata, Piovuto dal cielo, Donne proibite, Un marito per Anna Zaccheo, La voce del silenzio, Stazione Termini, Siamo donne (tutti film che si commentano da soli); - Carlo Lizzani dirige il discutibile Ai margini della metropoli; - Dino Risi realizza stancamente una commediola sul mondo del cinema, Viale della speranza, nel quale ripropone, con una tecnica standardizzata, temi vecchi e superati; - Alberto Lattuada dirige La lupa, inserendosi nel filone neorealistico edulcorato. 5.9 Alcuni dati Anni di caos nei quali si susseguono in modo alterno opere impegnate ad altre di scarso livello artistico e culturale per mano dei

medesimi registi (cfr. Risi e Lattuada), sulla scia di una produzione rosa di cui sono esemplari i film di Franciolini (Le signorine dello 04, Racconti romani) e di Camerini (la serie dei Pane, amore e…). Per aumentare ulteriormente la confusione che regnava in quegli anni in Italia (e non soltanto negli ambienti culturali), Camerini realizza la riedizione ammodernata di due suoi vecchi film: Gli uomini che mascalzoni (del 1932) e Il cappello a tre punte (del 1934), quest'ultimo con il titolo di La bella mugnaia. E ancora si assiste alla produzione di pellicole nelle quali è fatto sfoggio di un forte nazionalismo e si tenta la giustificazione o, peggio, la glorificazione della recente guerra. E i soliti film epici tratti da Omero o dalla storia Assiro-babilonese… Non si tratta, però, di crisi di idee, quanto piuttosto del logoramento delle resistenze fino allora mostrate dalla cultura ai forti tentativi di restaurazione. Per quanto riguarda il settore del documentario, la situazione italiana è, a dir poco, sconcertante: la legge Andreotti del 1949 stabiliva, infatti, che fosse riservato un contributo pari al 3% dell'incasso ottenuto da un film a lungometraggio, al produttore del documentario abbinato a tale film. Poche società così, cedendo delle percentuali alle ditte di noleggio, riuscirono a monopolizzare il mercato a fini prettamente speculativi. Per quanto riguarda il settore del lungometraggio, l'ANICA (l'associazione dei produttori italiani), contrariamente allo spirito del memoriale Gualino del 1949, stipula un patto con l'MPAA (l'associazione dei produttori americani), nel 1951, in cui si stabilisce che il 50% degli incassi effettuati in Italia dalla proiezione di pellicole prodotte in America sia investito in produzioni o coproduzioni di film in Italia, contro l'assicurazione di effettuare ogni pressione sul governo per evitare restrizioni all'importazione e distribuzione di pellicole americane. Ciò provoca, in un mercato già instabile, un'invasione di film americani e un notevole abbassamento degli incassi italiani. Ciò ha comportato il confarsi della produzione italiana allo standard hollywoodiano, con la proliferazione delle produzioni spettacolari ma prive di contenuti, come Ulisse di Camerini (1954),

Elena di Troia di Leonard (1954), Guerra e pace di Vidor (in coproduzione tra Italia e Stati Uniti)... Una serie di "colossal" le cui spese non potranno mai essere coperte con i soli incassi italiani. Si pensi che Guerra e pace è costato, nel 1955, cinque miliardi e i risultati sono stati quelli di un superbo spettacolo, colorato e movimentato, con ottime interpretazioni, ma che nulla conserva del libro di Tolstoj, né lo spirito né il respiro, nonostante gli enormi mezzi utilizzati per la realizzazione (fu girato in Italia e in Jugoslavia). L'industria cinematografica italiana fa registrare incrementi di deficit di circa sei miliardi annui, mentre non viene colmato il vuoto legislativo (i benefici della legge del 1949 vengono prorogati fino al dicembre 1955, ma dopo questa data non viene approvata nessuna nuova legge). Nel 1954, anche Renato Castellani realizza un'opera discutibile leggendo un dramma shakespeariano, Giulietta e Romeo, in chiave neorealistica, non tenendo conto delle evoluzioni che frattanto andavano maturando nella cultura cinematografica italiana. 5.10 Il cinema di Federico Fellini Negli anni '50 debutta alla regia Federico Fellini. Aveva mosso i suoi primi passi nel cinema come sceneggiatore, insieme a Rossellini (Roma città aperta, Paisà, l'episodio Miracolo del film L'amore, Francesco giullare di Dio, Europa '51). L'ultimo film sceneggiato per l'amico Rossellini, Europa '51, è del 1952, dello stesso anno, cioè, in cui realizza il suo primo lungometraggio, Lo sceicco bianco. Seguiamo i suoi lavori fino al 1956 per tentare di scoprire la complessa realtà di questo artista così interessante. Il primo film che Fellini gira è Luci del varietà, ma è in coregia con Alberto Lattuada. È un film che tratta di guitti e, precisamente, del tentativo di tradimento sentimentale condotto da un capocomico (Peppino De Filippo) ai danni della sua fidanzata (Giulietta Masina), con una giovane contadina che, tuttavia, a lui preferisce il benestante impresario (Folco Lulli).

L'universo di Fellini gira vorticosamente intorno alle immagini del film, ma ancora non riesce a imporsi prepotentemente e definitivamente, spazzando via personaggi e vicende non utili alla catarsi dell'autore. Il mondo dei guitti è visto con una tenerezza, una tristezza, un'ironia e un amore mai visti prima sullo schermo: il neorealismo è superato d'un balzo per essere sostituito grottescamente da allucinanti immagini barocche scaturite tutte dalla fantasia del regista. Prepotentemente i suoi personaggi diventano "figure" e protagonista diviene il tempo, che fa un balzo a ritroso, filtrando attraverso la fantastica immaginazione dell'autore, i suoi ricordi contorti e mostruosi. L'atmosfera magica non smette mai di fremere, in tutto il film, accusando la presenza imponente di un artista che, come un intruso, entra di peso sulla scena, trasferendovi tutto se stesso e la sua psicologia. Fellini sostituisce al difficile e problematico giudizio, la fiducia per il proprio intuito, accettando solo se stesso al posto della realtà. Così, mentre Rossellini accettando in toto la realtà rifiutava di guardare a se stesso, al contrario Fellini, accettando in toto se stesso, finisce per respingere e annullare tutta la realtà. Lo sceicco bianco tratta il tema dei fotoromanzi. Brunella Bovo è una ragazza di provincia che, in viaggio di nozze, arriva a Roma col marito (Leopoldo Trieste) e inizia a ricercare l'eroe del suo fotoromanzo preferito, lo sceicco bianco. Quando lo trova (è impersonato da Alberto Sordi) ne rimane tuttavia molto delusa scoprendo in lui un istrione alquanto meschino. Giulietta Masina compare nel film nella parte di una delle due prostitute avvicinate dal marito di Brunella abbandonato in viaggio di nozze dalla moglie. Il mondo del fumetto e dei miti che vi si annidano è un tema tipico del neorealismo ma Fellini non si cura del mondo dei provinciali e dei loro problemi; a lui interessa seguire la costruzione poetica della propria filosofia soggettivistica. Il tema affrontato (il fotoromanzo e i danni che esso procura nell'animo della povera gente; il falso mito del divismo) resta solo la cornice del quadro intimistico e barocco che l'autore ci dipinge a grossi tratti, frugando nel retroterra personale, come un cantastorie libero ma drogato, che deforma grottescamente la realtà (per esprimere il proprio mondo), evocando i fantasmi del proprio passato. Ne I vitelloni l'autore vuole ritrarre la passiva nullità dei figli di papà residenti in provincia, che conducono una vita stupidamente oziosa e vuota.

Fellini stesso li definisce così: "Arrivano oltre la trentina, vantando e ripetendo le loro imprese di monellacci. Brillano durante la stagione del mare, la cui attesa li occupa per tutto il resto dell'anno. Sono i disoccupati della borghesia, i "cocchi di mamma". Ma sono anche amici a cui voglio bene. Flaiano, Pinelli e io ci siamo messi a parlarne ed, essendo tutti quanti degli ex vitelloni, ciascuno di noi ha avuto un mucchio di cose da raccontare. Dopo tutta una serie di storie bizzarre, ci prese la malinconia e ne facemmo un film" (Federico Fellini, dal Sadoul, I film, Sansoni editore, Firenze 1968). Questo film segue il discorso iniziato con Luci del varietà e condotto avanti con Lo sceicco bianco. Ciò che conta non è l'intreccio e neppure i personaggi, ma l'atmosfera generale, lirica e fantastica, grottesca e deformata, che resta sempre un minuzioso romanzo autobiografico felliniano, dove per autobiografia non deve intendersi una identità dei fatti raccontati con quelli vissuti dall'autore, ma una somiglianza dei conflitti che si determinano tra i personaggi e quelli che si erano andati innescando nell'animo del regista. Ciò che conta è il sentimento, che unendo i personaggi, vi aleggia sopra, come un incubo. L'adolescenza riminese di Fellini è presente in tutti gli episodi. La noia della vita cittadina, le avventure sentimentali o i ricordi di queste, le notti passate in vuote conversazioni, le chiacchiere, le passeggiate invernali lungo la spiaggia in attesa della stagione balneare, ma più di tutto, la festa di carnevale finale, per la quale Alberto si traveste da donna e alla fine della quale il mattino lo coglie quasi di sorpresa facendogli scoprire la fissa nullità della sua condizione. Questo film, insieme all'episodio Agenzia matrimoniale di Amore in città, chiude il primo ciclo dei film di Fellini, un ciclo in cui il neorealismo, anche se solo marginalmente o come sfondo del romanzo lirico, resiste alle pressioni dell'artista che lo vogliono svuotato della sua purezza ideologica. Si apre, da questo momento, un nuovo ciclo che comincia con La strada, dove il romanzo fantastico e allegorico soppianta la cronaca, il

messaggio sostituisce il racconto, la poesia e il gusto per il barocco e il grottesco polverizzano la realtà. Da La strada in poi, Fellini mostra chiaramente le sue intenzioni di mettere alla luce uno stato di disagio largo e diffuso, rappresentandolo in chiave intimistica. Sono crisi di cui egli non vede né gli sbocchi né le origini sociali e ideologiche; di cui anzi egli non vuole trovare alternative. La strada è la storia drammatica di una ragazza venduta a un saltimbanco. Conosciuto un equilibrista, trova in questi una persona con la quale riesce a comunicare più di quanto non faccia con il saltimbanco. Quest'ultimo, ingelosito, ucciderà l'equilibrista e abbandonerà la ragazza, ricevendo poi notizia della sua morte. Di questo film Fellini ebbe a dire: "A volte, un film che, prescindendo da riferimenti più precisi a una realtà storico-politica, incarna, quasi in figure mitiche, il contrasto dei sentimenti contemporanei in una dialettica elementare, può riuscire tanto più realistico di un altro dove ci si riferisca ad una precisa realtà sociale - politica in cammino" (Federico Fellini, L'uomo pubblico, in Il contemporaneo, a. II, n. 22, 28 maggio 1955). È il primo film di un nuovo ciclo nel quale emergono in primo piano le figure degli sradicati tanto cari alla fantasia di Fellini. Qua sono girovaghi, altrove bidonisti o prostitute, ma tutti rappresentano il ricordo dell'infanzia dell'autore, o delle sue paure nascoste, o dei suoi problemi intimi sopiti, o delle sue frustrazioni e follie rimosse. È presentato sullo schermo un paesaggio povero e miserabile, composto di gente genuina ma crudele (forse anzi crudele perché genuina), gente che esce dai ricordi dell'autore per entrare a viva forza dentro lo spettatore, risvegliando le immagini intimistiche di creature-mostro che ognuno ha represso all'ombra della famiglia e della vita sociale. Il simbolo occupa il posto della realtà e ogni immagine diviene spettacolo. "Seppure a livello mediocre e provinciale, La strada è comunque un film chiave per capire i successivi sviluppi del regista e la confusione e incertezza di tutto un periodo. Nel discorso de La strada convergevano, infatti, diversi fattori, oggettivi e personali: il ripiegamento elusivo del cinema italiano e la ricerca irrequieta di nuove ipotesi che, come spesso accade, finiva col riscovare antiche suggestioni; la poetica di memoria e la trasposizione lirica dei brandelli del neorealismo assunti come brani di

realtà balenanti tra sogni, allucinazioni e ricordi; l'autobiografismo del regista e le sue ascendenze e coperture letterarie. La strada approdava, infatti, a una sorta di neorealismo magico che si traduceva in un raccontare per metafore e parabole, lontanissimo dalla severità di Bresson o dal sarcasmo liberatorio di un Buñuel, e incline piuttosto a risolversi nei modi di una cronaca intrisa di facile lirismo. Di qui la frattura fra immagine e idea. Il simbolo diventa la stilizzazione novecentesca di una mancanza di ideali gravida di spessori sentimentali, di cedimenti elegiaci, di toni adolescenziali. E la religiosità primitiva, di cui Fellini aveva tanto parlato alla vigilia del film, non era altro che demagogia battezzata di santità" (Adelio Ferrero, Storia del cinema, parte V^, Il cinema italiano, Edizioni Accademia). I messaggi che ci giungono sono tanti, perché tante sono le chiavi di lettura dei simboli. Per esempio, una critica sulla condizione della donna, passivo oggetto nello stato di conflitto dei complessi rapporti tra le persone; o un canto sulla solitudine. I personaggi, per quanto legati l'uno all'altro da complessi rapporti, sono soli con se stessi e di fronte al "Mistero", all'universale (la scena dell'incontro di Gelsomina con la bambina costretta all'immobilità e l’espressione di questa che vede nella prima un'intrusa, in una stanza dove il peso della solitudine raggiunge quasi un tono magico). O, ancora, un inno alla morte (la presenza della morte pesa quasi in tutto il film, anche se in modo talmente lirico da non apparire neppure la fine della vita), una contestazione alla nullità dell'uomo di fronte ad avvenimenti che non riesce ad afferrare, l'impossibilità di riuscire a cambiare o a modificare questi avvenimenti (l'equilibrista, prima di morire ucciso dal saltimbanco, vede il suo orologio fracassato e non lo potrà mai più riparare e non perché sta morendo lui stesso, ma perché non ne è capace). La figura di Gelsomina, magistralmente interpretata da una Giulietta Masina giovane e spigliata, ricorda molto da vicino il personaggio chapliniano, forse per simboleggiare il candore e l'ingenuità che muoiono schiacciati da un mondo crudele e spietato, e in questo senso trasferisce il discorso sul piano morale di timbro cattolico sullo stampo del suo maestro Rossellini. Il bidone racconta la storia (amara e disperata, contrariamente a ciò che potrebbe far pensare il titolo) di tre "bidonisti", tre truffatori fannulloni che vivono a Roma sfruttando l'ingenuità e la credulità del prossimo. Il bidone di cui parla il titolo è quello messo in atto dai compagni al loro capo che,

ormai incapace di svolgere il proprio mestiere, viene lasciato morire ai margini di una strada, senza tuttavia che quelli ne siano consapevoli. Il film non è tra i migliori di Fellini, ma rappresenta un ripiegamento dell'autore verso la realtà, con toni drammatici e al tempo stesso nostalgici. I personaggi grotteschi e fantastici del maestro ricompaiono nel terzo film della trilogia, Le notti di Cabiria. È la storia di una prostituta romana, Cabiria (interpretata da Giulietta Masina) che pensa di aver trovato l'amore nella relazione sentimentale stretta con un impiegato. Quando, tuttavia, lei gli affida tutti i suoi risparmi, lui l'abbandona rubandole tutto e, per di più, tenta di ucciderla. Cabiria torna sulla strada, ma sempre sostenuta da un'incrollabile fede nella vita e nell'umanità. Un personaggio tutto positivo, come Gelsomina de La strada, cui si ispira, ricordando ancora gli atteggiamenti chapliniani che nel primo film, come in questo, avevano precisi riferimenti simbolici. La crudeltà spietata della società è vista sempre con l'occhio candido e pulito della prostituta, mescolando sacro e profano in un'ambiguità voluta, anch'essa simbolo di una confusione culturale che Fellini denuncia. Il discorso di fondo del film è sul costume. Da questo punto di vista la figura più persuasiva è quella dell'impiegato serio, perbene, gentile che nasconde in sé un carattere duro e impietoso, il tipico "mostro" della galleria di personaggi immaginario - reali dell'autore. Il finale de Le notti di Cabiria è l'archetipo del decadentismo felliniano, astrattamente consolatorio: l'incontro con i ragazzi, il buonasera della ragazza, il saluto di uno di loro, con uno strano cappellino, rivolto a Cabiria con una tromba. Il movimento della vita riprende, ma viene a mancare nel personaggio la logica maturazione. Qui è evidenziata la scissione netta tra l'io e il mondo: questo è talmente sentito come alterità da impedire qualsiasi partecipazione sociale, sia pure sotto forma di rivolta. Qui traspare in modo chiaro e inequivocabile che il cordone ombelicale che univa l'uomo alla società si è definitivamente spezzato: è lo scacco esistenziale. *****

6. Altri film degli anni '50 Simile, in un certo senso, ai film di Fellini per quella strana apoliticità che traspare dall'opera, è il nuovo film di Visconti del 1957, Le notti bianche, ispirato liberamente all'omonimo racconto di Dostoevskij. Il film è definito dal suo stesso autore come una proposta di "neoromanticismo", tuttavia appare come un risultato intermedio della crisi ideologica che in quegli anni aveva preso tutti gli intellettuali. Anni facili, una satira contro la corruzione burocratica e governativa, eredità del costume fascista ancora vivo in certi ambienti è realizzato da Luigi Zampa nel 1954. Evidentemente, il conformismo degli anni Cinquanta non era riuscita a intaccare la grinta sarcastica di quest’autore, né vi era riuscita la censura governativa che, al contrario, lo aveva spinto a realizzare per reazione opere come L'onorevole Angelina, La romana, L'arte di arrangiarsi e le satire di costume sociale e politico Anni difficili e Anni facili. In seguito a quest'ultimo film, tuttavia, anche la vena artistica di Zampa comincia a scadere. Negli anni seguenti il regista realizza, infatti, film scadenti e in linea con i prodotti commerciali richiesti dai produttori del momento: La ragazza del palio (1957), Ladro lui ladra lei (1958), Il magistrato (1959), Il vigile (1960), Anni ruggenti (1962), Frenesia dell'estate (1963), ecc. Gli sbandati (1955) rappresenta l'esordio nella regia di un lungometraggio di Francesco Maselli. Con rigore narrativo e approfondita ricerca psicologica, il giovane regista narra un episodio della resistenza italiana, superando il "cliché" neorealistico che in quegli anni era divenuto moda. In un periodo in cui i codici standardizzati dell'industria e la grossolana opinione censoria boicottavano qualsiasi lavoro che fuoriuscisse dagli schemi di un conformismo consumato che prendeva forma concreta nel bozzetto e nel folclore dialettale, già la scelta narrativa di Maselli è prova d’indiscutibile coraggio. Assistente di Antonioni e di Visconti, risente notevolmente dell'influsso dei due maestri, ma trasferisce nel suo primo lavoro anche alcune imperfezioni dovute all'inesperienza, cedendo all'intellettualismo e alla pretesa di far stile. Il tetto è prodotto tra il '55 e il '56 direttamente da Vittorio De Sica.

Sembra un film nato da Due soldi di speranza di Castellani: dove finisce quello (Totò e Carmela che decidono di sposarsi) comincia questo (una giovane coppia di sposi alla disperata ricerca di un "tetto"). Alcuni brani sono esempio di bellissima letteratura filmica, come la scena dell'intimità coniugale notturna, interrotta improvvisamente dalla presenza degli "altri", che costringono i due novelli sposi a cercare la propria intimità nel cortile fuori di casa; la paura che ha lei di restare incinta, quando la miseria, la mancanza di un tetto, la non trovata intimità familiare stessa non consentono questo lusso; il tentativo di costruirsi una baracca, le spese per l'acquisto del materiale, la spia che chiama la guardia... Quest'ultima sequenza, in particolare, richiama in mente le bellissime immagini di Miracolo a Milano, sostituendo però il surreale con il reale, la miseria con la tristezza. Di Miracolo qui resta solamente la poesia desichiana. Il film è di grande attualità. Le immagini contrastanti dei nuovi palazzi in costruzione, con la bandiera che sventola sul tetto di un palazzo appena terminato, e delle baracche misere dove vivono proprio quegli operai che i palazzi costruiscono, sono l'immagine dell'Italia del '56 in ricostruzione: che dà lavoro con la ripresa edilizia, ma non impedisce l'esistenza della miseria. Molto indicativa è in tal senso la sequenza della televisione che annuncia che entro il 1967 l'uomo sarebbe arrivato sulla luna, mentre il protagonista commenta che sarebbe stato meglio prima sistemare le cose sulla terra. Questo lavoro assume importanza decisiva rappresentando la reazione desichiana alle imposizioni sdolcinate del mercato e ai tagli censori, che trovò seguito nelle opere realizzate da altri autori. Sulla stessa scia, infatti, si muove Pietro Germi che, nel 1956, realizza Il ferroviere, lavoro presentato al Festival di Cannes insieme a quello di De Sica. In Germi, tuttavia, ciò che in De Sica può definirsi poetica, diviene sdolcinato romanticismo deamicisiano. 6.1 La situazione dell'industria cinematografica Verso la metà del ‘56, alcune delle più importanti case di produzione e distribuzione italiane chiudevano i battenti, mentre i giornali parlavano di un secondo fallimento storico del cinema italiano.

Mentre si attendeva la nuova legge sulla cinematografia, la stessa associazione dei produttori, l'ANICA, cui avevano nel frattempo aderito diverse affiliate italiane di società americane, faceva pressioni sul governo perché rendesse obbligatoria la verifica preventiva sullo stato finanziario dei produttori che si accingessero a girare un film, attraverso l'accertamento del possesso di almeno un terzo del capitale necessario alla produzione. La manovra danneggiò tutte le piccole società che erano solite lavorare con gli anticipi concessi dai distributori e che erano proprio quelle che avevano realizzato i migliori film del dopoguerra. Le grandi case di produzione, attraverso questo meccanismo, riuscirono a formare un vero e proprio "trust" che monopolizzò il mercato come aveva fatto durante il fascismo la Scalera Film. Da questa situazione nacque, fondamentalmente, il ristagno degli anni '55-'58. In tutto questo periodo prosperò un neorealismo calligrafico svuotato di contenuti e fondato sul melodramma, il folclore dialettale e il bozzetto. Il settimanale L'Espresso pubblica un articolo di Arrigo Benedetti dal titolo "Diario italiano" che fa il punto della situazione: "La nostra cinematografia, dopo avere illustrato le miserie della guerra e del dopoguerra, poteva con coraggio dipingerci la società del delitto Bellentani, dello scandalo Brusadelli, e di quegli altri ambienti che in seguito alla morte misteriosa di Wilma Montesi hanno avuto lo svantaggio di vedere improvvisamente su di loro l'attenzione del Paese. Alcuni registi coraggiosi lo tentarono, ma il nuovo filone d'oro della cinematografia italiana non poté essere sfruttato. L'onorevole Andreotti sa molto meglio di noi quali scoraggiamenti vennero dagli organi della Presidenza del Consiglio. Chi oggi avrebbe il coraggio di finanziare, non diciamo un film sul divorzio, tema per altro attualissimo, ma sui consigli d'amministrazione, sugli evasori fiscali?" Una larga fascia del cinema italiano è occupata in quegli anni a realizzare opere tutte eguali, aldilà della maggiore o minore dignità realizzativa o degli interessi tematici ed espressivi affrontati dagli autori, che si collocano molto al di sotto delle opere realizzate dai grandi maestri e poco al di sopra della produzione unicamente e dichiaratamente commerciale.

Sono questi i film di Castellani, di Blasetti, di Lizzani, di Zampa, di Comencini, di Monicelli, di Pietrangeli, di Marchi e Malerba, di Zurlini, di Brusati e di Loy. L'alibi è quello di sempre: ciò che vuole il pubblico deve essere ciò che realizza l'artista. Scriveva Marx nella Critica dell'economia politica: "Il fatto artistico crea un pubblico in grado di capire l'arte e di godere della sua bellezza. Pertanto la produzione produce non soltanto l'oggetto per il soggetto, ma anche il soggetto per l'oggetto". Il pubblico di questi registi era invece considerato un interlocutore "passivo", capace di grandi emozioni, di scandalizzarsi, di reagire alle provocazioni, ma non certamente in grado di partecipare attivamente alla realizzazione di una svolta culturale, anche attraverso la sola risposta critica che avrebbero richiesto opere politicamente più impegnative. Nascevano così film nei quali la "creazione" artistica era sostituita dalla buona "confezione" artigianale o industriale. Esemplare, in questo senso, appare il film I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, un'opera di ottimo artigianato, realizzata con la massima dignità esecutiva, sulla struttura di una equilibrata sceneggiatura costruita da validi "esperti", su una serie di battute di buon livello. E ancora, il film Estate violenta di Valerio Zurlini, un'opera che si occupa maggiormente dei problemi sociali, con un'attenzione psicologica particolareggiata, in cui appare esplodere in sequenze magnifiche lo sfondo storico, subito represso e respinto nella povera cornice della storia d'amore di cui tratta il film. 6.2 Il cinema di Franco Rossi e Francesco Rosi In questo periodo le prove migliori le danno Rossi e Rosi. Franco Rossi, regista che aveva realizzato commediole e film di costume, opere minori sempre equilibrate e di buon gusto, tecnicamente ineccepibili, ma in linea con le tendenze commerciali del cinema di quegli anni (come, ad esempio, Il seduttore, del 1954, interpretato da Alberto Sordi), realizza due buoni lavori: Amici per la pelle (1955), sul tema dell'amicizia nell'adolescenza, e Morte di un amico (1959), sul mondo delle borgate romane.

Quest'ultimo, in particolare, sceneggiato con Pier Paolo Pasolini, appare influenzato da quest'ultimo autore soprattutto nelle parti che maggiormente mostrano il sottobosco umano delle borgate romane e l'ambiguo rapporto che lega i due giovani amici protagonisti del film. È la storia di due ragazzi, o meglio la storia di due amici (come Amici per la pelle): Bruno è sicuro di sé, senza scrupoli; Aldo è invece solo affascinato dalla spavalderia dell'amico, dal suo modo di fare, e gli ubbidisce come si ubbidirebbe ad un fratello maggiore. Il primo, orfano, si è ritrovato immerso in una società che lo rifiuta; lavoro scarso, duro e mal pagato; si fa mantenere da una prostituta. Con un'amica di quest'ultima, che è rimasta sola dopo che il suo protettore finisce in galera, il secondo ragazzo intreccia una relazione quasi speculare a quella di Bruno. Nel corso di una rapina organizzata da quest’ultimo ai danni del direttore di un'agenzia di pegni, Aldo viene colpito a morte da un colpo di pistola. È l'epilogo del film. Ci si aspetta di vedere Bruno abbandonare l'amico agonizzante e di salvarsi col malloppo, ma nel "magnaccia" gelido e insensibile compare un sentimento di genuina amicizia che gli vieta di lasciare morire chi ormai è scritto che debba morire. È un'opera di schietto sapore realistico: la narrazione è attenta all'indagine psicologica che non è posta in secondo piano rispetto all'analisi sociale. Francesco Rosi, dopo lunghi anni di attesa, debutta alla regia con La sfida. Abbandonati gli studi di giurisprudenza, nel 1944 era entrato nel mondo dello spettacolo collaborando a Radio Napoli e poi assistendo alla regia Ettore Giannini per l'allestimento teatrale de Il voto di Salvatore Di Giacomo. Ora come aiuto regista ora come assistente ora come sceneggiatore, da allora inizia la sua ininterrotta collaborazione a registi come Luciano Emmer (Domenica d'agosto, Parigi è sempre Parigi, Il bigamo), Michelangelo Antonioni (I vinti), Mario Monicelli (Proibito), Ettore Giannini (Carosello napoletano), ed anche per i film d'appendice di Raffaello Matarazzo (Tormento, I figli di nessuno) che intorno agli anni Cinquanta ebbero strepitoso successo di pubblico.

La sua esperienza maggiore la faceva sul set di La terra trema (di cui, peraltro, nel 1949, curò il difficile doppiaggio e l'edizione italianizzata), di Bellissima (di cui scrisse la sceneggiatura insieme a Visconti e Suso Cecchi D'Amico) e di Senso (di cui fu assistente alla regia). "Quel periodo - scrisse in seguito Rosi - è stato veramente fondamentale per me. Prima di tutto ho conosciuto la personalità di Visconti, che è straordinariamente ricca, umanamente oltre che professionalmente. In secondo luogo ho avuto la fortuna di assistere al processo formativo di quello che è uno dei film fondamentali di quella scuola italiana che, nel dopoguerra, ha provocato nel cinema mondiale una vera e propria rivoluzione espressiva. In terzo luogo è stata una scuola durissima, un lavoro serio e intenso (dovevo svolgere contemporaneamente, e sotto la guida di Visconti, che era assai esigente, almeno tre compiti diversi), che ha contribuito senza dubbio alla mia formazione. Se penso a La Terra trema penso come a un'impresa meravigliosa, eroica, in cui noi giovani (c'era anche Franco Zeffirelli, c'era Gianni Di Venanzo), ci saremmo buttati nel fuoco per Visconti, tanto credevamo in quello che si faceva (...). Quello che posso avere appreso da Visconti, a parte avere respirato il rigore artistico, il desiderio di coerenza, la serietà, l'impostazione precisa del suo lavoro, è soprattutto un processo di assimilazione espressiva della realtà vera che vive sotto i nostri occhi, in modo che questa stessa realtà, pur senza alterazioni, senza deformazioni vistose, entri con naturalezza nel discorso artistico" (Da "A colloquio con Rosi", appendice a Francecso Rosi di Giuseppe Ferrara, Collana Mondo del cinema diretta da Massimo D'Avack, Editrice Nanni Canesi, Roma 1965. Si tratta di una conversazione registrata nel giugno del 1964). La sfida narra la storia di un camorrista ambiziosissimo, che affoga nel sangue le sue ambizioni in un regolamento di conti di cui resta vittima tra i banchi del mercato generale di Napoli. L'opera è diretta discendente di Processo alla città, scritto dallo stesso Rosi e diretto da Luigi Zampa. Nessuno, dopo quel film, aveva più ripreso il tema della camorra, delle sue connivenze e delle sue omertà, negli aspetti e nelle implicazioni sociali. Con questo film Rosi inizia un suo discorso sul cinema, intendendolo come impegno morale, sociale e politico, un continuo misurarsi con i problemi "storici" del presente, con estremo rigore di documentazione.

Questo discorso continuerà ininterrottamente (tranne la breve parentesi favolistica di C'era una volta) con film come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il momento della verità, Uomini contro, Il caso Mattei, Lucky Luciano, Cronaca di una morte annunciata. I magliari, suo secondo film, rappresenta invece la sua prova più incerta e meno chiara. È una storia di venditori ambulanti inserita in un contesto socioeconomico neocapitalistico (in Germania occidentale). Sono uomini umiliati e sfruttati, nonostante le loro acrobazie mercantili condotte nel tentativo di affrancarsi dallo sfruttamento, inseguendo il miraggio di una libertà solo apparente. Il punto critico del film è nella scelta - motivata da necessità produttive - di un protagonista troppo invadente (Alberto Sordi), controllato unicamente dalla forte personalità di Rosi. Ma il migliore film di Francesco Rosi sarà realizzato solo nel '61, quando inizia il rilancio storico del cinema italiano, puntando sulle solide basi del cinema post-bellico ed eregendovi sopra un castello che del neorealismo era la chiara eredità. ***** 7. La delicata situazione della seconda legislatura "Il Congresso di Napoli del 1954 e la pratica disintegrazione della maggioranza degasperiana provocarono, sul piano interno, una ristrutturazione dello schieramento di partito che, grosso modo, è quello odierno (...). Sul piano politico, pur considerando la fase interlocutoria dominata dalla vana illusione di Fanfani di riconquistare la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1958, quel congresso può anche essere considerato l'avvio di una politica delle alleanze, egemonizzate ovviamente dalla DC - almeno come parametro politico delle correnti minoritarie democratico-cristiane di sinistra" (Libero Pierantozzi, 30 anni di scudo crociato, in Almanacco del Partito Comunista Italiano del 1973). La gestione fanfaniana della DC opera una ristrutturazione organizzativa del partito, liquidando i residui assetti tradizionali e adoperando nuovi criteri più aderenti alla realtà politica, ma anche

approfondendo la distinzione tra il partito e le pur potenti organizzazioni collaterali. Fanfani non lascia soverchi spazi interpretativi del suo rinnovamento politico all'interno dei confini del vasto panorama delle linee di tendenza conviventi all'interno della DC: liquida immediatamente e drasticamente ogni velleità dossettiana tesa a comporre intese tra le grandi forze popolari per il rinnovamento dello Stato e ripropone la volontà integralista del suo partito rivendicandone l'eredità centrista. Si affacciano, tuttavia, alla ribalta del partito nuove correnti. Lo stesso Fanfani aveva dato inizio nel 1952 all'era delle correnti costituendo quella di "Iniziativa democratica" il cui nome era ripreso da una rivista bolognese del dossettiano Ardigò. Dopo le elezioni del 1953, i sindacalisti e gli aclisti che militavano nella DC avevano poi trasformato la cosiddetta "sinistra sindacale" nella corrente di "Forze sociali" (poi divenuta "Rinnovamento democratico" e infine "Forze nuove"), contando tra le proprie file Pastore, Storti, DonatCattin, Vittorino Colombo e Labor. Infine, tra l'agosto e il settembre del 1953, i malfattiani insieme agli "amici di Mattei" e agli "amici di Cefis" e a coloro che avevano militato nella Resistenza, diedero vita alla corrente di "Base", che avrà come punto di riferimento lo schema Vanoni per l'orientamento politico degli investimenti (disoccupazione e Mezzogiorno). Al Congresso di Napoli l'appoggio di quest'ultima corrente fu decisivo per la vittoria di Fanfani nella battaglia contro il ripristino della proporzionale all'interno della DC, battaglia che era condotta da Gronchi che guidava, più che una corrente, quello che poteva definirsi "un gruppo eterogeneo di amici". Il 1956, intanto, è l'anno decisivo per le sorti della sinistra, e non solo italiana. Durante quest'anno si verificano, infatti, due avvenimenti fondamentali: al XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica Kruscev rivela i retroscena politico-sociali del periodo staliniano e, poco dopo, esplode la rivoluzione ungherese. Il rapporto di Kruscev improvvisamente va a confermare le pesantissime accuse che sui giornali occidentali comparivano di tanto in tanto sulle degenerazioni gravissime della dittatura di Stalin: la mancanza totale dell'indispensabile apporto - inteso come reale partecipazione - della

base sociale alla vita politica del Paese, l'enorme macchina burocratica che si era formata con la dittatura insieme alla piramide gerarchica che lasciava troppi ampi poteri alla polizia politica, i processi e le condanne a morte o ai lavori forzati contro (troppe) persone innocenti, in gran maggioranza partigiani del 1917 e comunque comunisti militanti, il fortissimo culto della personalità imposto durante il periodo della dittatura di Stalin in forme anche grottesche sia all'interno dell'Unione Sovietica che nei Paesi comunisti dell'est europeo satelliti al primo. La crisi è vastissima. Di colpo crollano alcuni fondamentali corollari che la sinistra aveva assunti a dogmi, come la grandezza di Stalin e il paese guida. E mentre ancora regnava la confusione ideologica fra gli intellettuali italiani, ad accrescere questo stato di sbandamento, piombano dall'alto gli avvenimenti ungheresi che aggravano irreversibilmente la situazione: contro il regime di democrazia popolare instaurato nel 1949 in Ungheria, esplode una rivolta di vaste proporzioni alla quale partecipano operai e intellettuali, ma l'Unione Sovietica la stronca intervenendo militarmente. La spiegazione ufficiale è che si trattava di una ribellione attribuita ad alcuni elementi controrivoluzionari che tendevano a restaurare il capitalismo. Soprattutto fra gli intellettuali, si apre un grande dibattito che mette in crisi il PCI. Nel Partito Socialista Italiano questi avvenimenti consentono e favoriscono un serrarsi di una grossa maggioranza intorno alle posizioni nenniane autonomiste, che sostenevano l'esigenza di elaborare una linea autonoma dal Partito comunista. Viene abbandonato il patto di unità d'azione e viene accantonata la prospettiva di una presa del potere con i comunisti, mentre Nenni inizia a discutere apertamente l'ipotesi possibilistica di un'alleanza tra socialisti e cattolici che sposti su posizioni riformiste, a sinistra, l'equilibrio politico del Paese. Le elezioni politiche del 1958, nonostante le defezioni tra i militanti e la grave crisi attraversata, non riescono tuttavia a scalfire le posizioni elettorali del PCI, organizzativamente più solido del PSI, mentre quest'ultimo ottiene solo un incremento marginale. Queste elezioni furono anche una brutta sorpresa per la DC che si aspettava di raggiungere la maggioranza assoluta. Malgrado ciò Fanfani

riesce a mantenere la segreteria politica del partito e ad assumere la presidenza del governo. Nel gennaio del 1959, tuttavia, la corrente di "Iniziativa democratica" subisce una grossa defezione tra coloro che militano nelle sue file: un consistente gruppo, infatti, esce clamorosamente dalla corrente per creare quella "Dorotea". I nomi più rilevanti sono quelli di Segni, Rumor, Colombo, Taviani. Fanfani si dimette dalla segreteria e dalla presidenza del governo. Gli resta fedele solo il 31 per cento dei suoi vecchi amici. Moro, che non aveva partecipato alla defezione, assume la segreteria del partito e passa nella lista dorotea di Firenze, ma già tende a distinguersi con posizioni proprie. Alla presidenza del governo, a Fanfani succede Segni che forma un governo monocolore con l'appoggio della destra. 7.1 La crisi industriale del 1956 e la ripresa del '58-'63 Nel 1956 la CINES, una società produttrice che realizzava solo film commerciali, accusava un deficit di due miliardi di lire ed era posta in liquidazione. Nello stesso anno l'Istituto LUCE presentava un bilancio con un passivo di un miliardo e, per quanto riguarda il circuito ENIC-ECI, l'onorevole Andreotti compiva una delle più scandalose operazioni del dopoguerra che poi fu anche oggetto di un'inchiesta (destinata a non approdare a nulla). In quell'anno, infatti, era nominato amministratore delegato dell'ECI un ex impiegato di vetreria, Torello Ciucci, amico personale di un'alta personalità dello Stato, il Presidente della Repubblica Gronchi. Quando nel '57 Andreotti mette in liquidazione l'Ente, nomina liquidatore proprio Torello Ciucci che, con la sua amministrazione, aveva nel frattempo portato il deficit dell'ECI da quattro miliardi e mezzo a sette miliardi e trecentocinquanta milioni. L'ANICA offre per l'acquisto del circuito una cifra molto bassa (un miliardo e settecento milioni nel luglio del 1960 e due miliardi e centocinquanta milioni nell'agosto dello stesso anno): era il gioco del liquidatore che rifiutò l'offerta dell'ANICA e quella dell'avvocato Donati

che proponeva (non si sa per conto di chi) l'acquisto dell'Ente per due miliardi e seicento milioni. Il ragioniere Ciucci ignorò persino una postilla dell'ANICA alla sua proposta, che diceva che sarebbe comunque stata disposta a pagare l'uno per cento in più di qualunque altra offerta. E nel novembre del 1960 annunciava di aver venduto tutto alla Banca Rasini di Milano per due miliardi, seicentocinque milioni e cento mila lire. Il Ministero del Tesoro aveva intanto pagato il deficit di sette miliardi e ottocento milioni. Lo scandalo, che coinvolse alcuni esponenti del mondo politico fu del tutto inutile. L'operazione riuscì grazie all'abilità del liquidatore e di chi lo manovrava. Il cinema italiano perdeva così in un sol colpo: - a Roma: il Supercinema e il Metropolitan, entrambi con annessi appartamenti e bar, e il 50% del Sistina; - a Trieste il Nazionale; - ad Ancona il Metropolitan; - a Firenze l'Excelsior, con ufficio, appartamenti e negozi; - a Pontinia l'ENIC; - a Castellaneta il Semeraro; - contratti a lunghissima scadenza, di carattere privilegiato, per la gestione di quarantacinque sale in tutta Italia (a Milano il Dal Verme, l'Impero, l'Apollo, l'Odeon; a Roma il Barberini, il Fiamma, il Fiammetta e l'Archimede; e, nelle principali città italiane altre grandi sale di prima e seconda visione). La ripresa delle attività produttive del settore e il progressivo incremento dei film prodotti, intanto, era conseguito con le leggi n. 897 del 31 luglio 1956 e n. 76 del 14 febbraio 1963 che tuttavia, a parte qualche cambiamento formale rispetto alla legge Andreotti del '49 (il "Comitato per la programmazione obbligatoria" diventa "Comitato di esperti"), tendevano solo a diminuire le percentuali dei "premi" che erano assegnate ai film che erano riconosciuti meritevoli per il loro particolare valore artistico (che passarono, in un primo tempo, dal 18% al 16% quale premio unico da assegnare a tutti i film di nazionalità italiana "salvo che non siano forniti dei requisiti minimi di idoneità tecnica ed artistica" e, in un secondo tempo, al 15%.

Evidentemente il rinnovo della legge aveva provocato la nascita di nuove speranze nei produttori italiani, delusi da troppo tempo dal disinteresse mostrato da parte governativa al riordino di questo settore industriale. A giovare alla rinascita del cinema contribuì anche il fallimento di molte case di produzione e distribuzione che pesavano sul bilancio totale dell'attività mediante il credito che riuscivano ad ottenere dalle banche (Informazioni tratte da: Giuseppe Ferrara, Storia dell'industria cinematografica, edizioni Accademia, Roma 1971). Il Presidente dell'ANICA, Eitel Monaco, nel 1961 trasmetteva i seguenti dati: "Duecento film a lungometraggio posti in cantiere nei dodici mesi del '61, oltre trenta film di coproduzione internazionale girati all'estero; centoquarantaquattro pellicole a colori o a grande schermo; trecento documentari e seicento cinegiornali; un notevole impulso nei settori del film didattico, scientifico e di propaganda industriale; un aumento, nei confronti dell'anno precedente, del venti per cento della produzione 1961 ed un aumento ancora più sensibile delle somme investite nella produzione stessa, che ha raggiunto nell'ultimo anno i quaranta miliardi di lire. A questa cifra deve essere aggiunto il controvalore in lire di circa venti milioni di dollari spesi in Italia da produttori stranieri per la lavorazione dei film esteri" (E. Stringa, L'industria cinematografica italiana, in "Cinema italiano", edizioni Cenobio, Lugano 1963). L'atmosfera che si andava creando era da "miracolo economico": i produttori risorgevano e i film d'arte cominciavano a tornare alla ribalta. 7.2 La crisi politica e i tentativi eversivi del 1960 La terza legislatura repubblicana (1958-1963) fu non solo la più travagliata, ma anche la più pericolosa alle istituzioni democratiche che, attraverso una delle più gravi crisi vissute dal Paese, ricevettero duri colpi da un ristretto gruppo di potere politico che manovrava a proprio vantaggio. Tuttavia, quegli anni segnarono anche il passaggio dalla situazione d’immobilismo, che si era venuta a creare con il "centrismo" politico, a

quella di "proiezione" sociale ed economica che l'apertura a sinistra (in quella legislatura solo prospettata) veniva a creare. Si è già detto che questa legislatura inizia con un governo presieduto da Fanfani (che regge fino al 1959), comprendente uno schieramento centrale che, debolmente, apriva a sinistra con l'ingresso nel governo del PSDI. Fanfani è anche Ministro degli Esteri e Segretario della DC. Proprio a causa delle molteplici cariche ricoperte, viene accusato dall'interno stesso del suo partito (dai cosiddetti "franchi tiratori") di volere concentrare intorno alla sua persona la "reggenza" autoritaria del potere politico del partito e del Paese. I franchi tiratori, nelle votazioni a scrutinio segreto, si schierano con i partiti di opposizione contro il governo e Fanfani è costretto a dimettersi, rinunciando anche alla segreteria del partito. Per un certo tempo, inoltre, scompare dalla scena politica. Segni, che succede a Fanfani nella Presidenza del Consiglio, forma un monocolore appoggiato dalle destre, ma di sola normale amministrazione. Da una parte era prolungata la situazione d’immobilismo del governo; dall'altra, questo ristagno politico favorisce il nuovo segretario DC, Moro, nei suoi sondaggi per una reale e concreta apertura a sinistra, convogliando tra le forze politiche del governo anche gli interessi del PSI. All'interno di questo partito, la nuova linea politica democristiana segnata da Moro è accolta favorevolmente, soprattutto dalla maggioranza autonomista nenniana che si era formata e rinforzata dopo il 1956. A questa strategia si opponevano tuttavia gli ambienti dell'alta finanza che si riconoscevano nella Confindustria e in quella parte della Chiesa ancora legata troppo saldamente a interessi economico-finanziari in tutta la penisola. All'inizio del 1960, nell'ambito di questa generale atmosfera di apertura a sinistra, il governo decide di affrontare alcuni importanti problemi che scuotono l'immobilismo. Il riconoscimento, con forza di legge, della validità dei contratti collettivi di lavoro (erga omnes: nei confronti di tutti gli imprenditori e di tutti i lavoratori, aderenti o meno alle categorie sindacali), gli impianti di Gela, la centrale di Carbonia, il nuovo centro siderurgico di Taranto, la legge antitrust e, naturalmente, alcune necessarie modifiche del bilancio di Stato per permettere l'attuazione esecutiva di ciò che il governo deliberava.

In fondo non era altro che un’anticipazione di ciò che il centro-sinistra avrebbe poi realizzato. Il 9 gennaio del 1960, il Presidente della Confindustria, il filofascista De Micheli, lancia il suo veto a questa nuova politica. I liberali approfittano immediatamente della situazione: Malagodi annuncia che il suo partito toglie l'appoggio al governo che, così, resta in minoranza. Segni si dimette. La crisi è una delle più gravi in cui cade il Paese nel dopoguerra. Sono alimentate torbide tentazioni autoritarie, sul modello che in Francia si era fermamente imposto, il regime gollista. Tutte le forze politiche vengono messe sotto accusa dal Presidente del Senato, il democristiano indipendente Merzagora. Si fanno molti nomi e la DC designa altri: Piccioni, Tambroni, Fanfani, ma nessuno riesce a formare il governo. Rinominato Segni, questi si mette all'opera, come se la crisi di governo non fosse mai esistita, per tentare, seppure di malavoglia, un governo di centro-sinistra. Il Vaticano, per il tramite di un'alta personalità, pone il veto ancora una volta e Segni rinuncia. Dal Quirinale interviene Gronchi, che affida l'incarico a Tambroni, un uomo disposto a tutto che, nell'ottobre del 1959, al Congresso di Firenze della DC, si era posto all'estrema sinistra pur di conquistare la fiducia di Gronchi (che da molto battagliava contro Fanfani) per isolare maggiormente l'uomo politico succeduto a De Gasperi nella direzione del partito. Ora, a pochi mesi di distanza, accetta il voto decisivo dell'estrema destra nella fiducia al governo, provocando le dimissioni di Pastore, Bo e Sullo. L'11 aprile di quell'anno, la stessa direzione della DC sollecita le dimissioni di Tambroni. Il nuovo incarico è affidato a Fanfani e succede il parapiglia! Bonomi esortò i contadini a muoversi, la destra democristiana minacciò un'altra "Domus Mariae" (la sede romana in cui si tenne, il 14 marzo 1959, il Consiglio nazionale della DC che, a seguito delle dimissioni di Fanfani da Presidente del Consiglio e da segretario della DC, provocò la spaccatura della corrente di "Iniziativa democratica" e la formazione di una

nuova maggioranza guidata da Segni, Carlo Russo, Taviani, Emilio Colombo e stretta intorno alla corrente "dorotea"). Dopo la rinuncia di Fanfani, Gronchi rinomina Tambroni spinto dallo stato di necessità e Moro, pur tentennando, fa votare in suo favore. "Si susseguono settimane di aspri scontri. L'anima popolare e antifascista del Paese reagiva alle provocazioni di Tambroni. Genova, medaglia d'oro della Resistenza, respinse i fascisti che volevano tenere la loro adunata tra le sue mura. Tambroni colpì sanguinosamente a Porta San Paolo, a Reggio Emilia, in Sicilia. La DC fu isolata e posta sotto accusa. Tambroni operò per rovesciare le istituzioni democratiche, ricattò e minacciò la stessa direzione del suo partito. Moro dormì fuori di casa, temendo l'arresto" (Libero Pierantozzi, Trent'anni di scudo crociato, Roma 1973) Il governo Tambroni è costretto alla caduta il 19 luglio 1960. Il 26 luglio di quello stesso anno Fanfani presenta il monocolore delle "convergenze parallele", votato da DC, PLI, PRI, PSDI, con l'astensione dei socialisti e il voto contrario dei comunisti. Il nuovo equilibrio dell'apertura a sinistra viene nel frattempo sperimentato in alcune amministrazioni provinciali e comunali e all'Assemblea regionale siciliana. Il 27 gennaio 1962 si apre il Congresso della DC a Napoli, con un rapporto di Moro che dura sette ore: è l'atto di nascita della politica di collaborazione tra il partito di maggioranza relativa e il PSI. In quei giorni, al teatro Lirico di Milano, Giorgio Amendola diceva: "Il gruppo di Moro e Fanfani sembra, così, orientato a dare alla crisi italiana una soluzione di centro-sinistra. Soluzione che viene, tuttavia, legata a tre condizioni: 1) continuità della politica della DC; 2) unità di tutta la DC; 3) diritto istituzionale della DC a detenere il potere. L'obiettivo sarebbe dunque di trovare a sinistra una maggioranza di ricambio che permetta alla DC di conservare il monopolio clericale del potere. Il tentativo è perciò di avere anche dal PSI - come nel passato è stato chiesto dalla DC ai partiti minori - un appoggio disinteressato e gratuito. Se il centro-sinistra fosse soltanto questo il discorso sarebbe senz'altro chiuso e noi lo combatteremmo apertamente perché esso risulterebbe null'altro che un mezzo per consentire alla DC di continuare la propria politica a favore dei monopoli".

Proprio nel 1962 è varato il primo governo di centro-sinistra, con l'appoggio esterno del PSI che nelle sue file viveva una crisi abbastanza grossa: la corrente di sinistra si dichiarava irriducibilmente contraria a entrare nel governo e gli autonomisti, Nenni in testa, dovevano solo preoccuparsi a sanare le divergenze interne per mantenere l'unità del partito. "Il programma che Fanfani propone comprende due importanti provvedimenti quali l'istituzione della scuola media unica obbligatoria e la nazionalizzazione dell'industria elettrica (entrambi rivendicati dai socialisti), nonché l'impegno, poi non mantenuto, di realizzare le regioni e di disciplinare l'economia nazionale con la programmazione" (Salvatore Guglielmino, Guida al novecento, Principato editore, Milano 1971). Il panorama politico-parlamentare del Paese non potrebbe dunque spiegare, sul piano delle idee, la rinascita culturale iniziata proprio sul finire degli anni Cinquanta: la prospettiva dettata dalla sinistra riformista della DC all'apertura a sinistra non poteva in ogni caso riaccendere la speranza, proprio negli anni in cui maggiormente venivano minacciate le istituzioni repubblicane. Il fatto è che proprio in quegli anni si assiste in Italia ad una grande trasformazione del tessuto economico e sociale, con tutti i riflessi che questa poteva avere sul piano del costume, della vita, dei miti e, quindi, delle idee. Il processo di transizione (in atto dal dopoguerra) da un paese ad economia prevalentemente agricola com'era l'Italia (nel 1953-54 l'agricoltura ancora rappresenta il 25% del prodotto lordo nazionale) a quello ad economia prevalentemente industriale (nel 1962 l'incidenza dell'agricoltura sul prodotto lordo nazionale scende del 16% a causa dell'incremento della produzione industriale che sale, facendo uguale a 100 l'indice del 1958, a 142 nel 1961, a 156 nel 1962 e a 170 nel 1963), viene accelerato incredibilmente, fino a fare raggiungere all'Italia il settimo posto nella graduatoria dei paesi industriali del mondo. Sale vertiginosamente ogni anno il tasso d’incremento degli investimenti, raggiungendo quota 20,3 nel 1960, rispetto all'anno precedente; le esportazioni nel 1961 sono praticamente il doppio di quelle del 1957; e cambia contemporaneamente la qualità delle esportazioni che ora riguardano soprattutto prodotti industriali. Un altro dato particolarmente significativo è quello delle patenti automobilistiche rilasciate che, in un solo

anno (dal 1961 al 1962), salgono da 719.200 a 1.250.400 (Dati tratti dal citato volume Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino). Sono gli anni che da parte degli economisti e dei politici saranno definiti del "boom economico". I lavoratori riescono ad ottenere un maggiore benessere generale con i rilevanti aumenti salariali, che, tra il 1958 e il 1964, conoscono aumenti pari all'80%, anche se questo incremento è poi parzialmente assorbito dalla contrazione del potere d'acquisto della moneta. Tuttavia, poiché il miglioramento del benessere riguarda prevalentemente il settore industriale, avviene contemporaneamente un grave fenomeno: l'emigrazione in massa dal Mezzogiorno al cosiddetto "triangolo industriale" (Milano-Torino-Genova). Ciò provoca lo spopolamento delle campagne e il depauperamento della manodopera nel meridione, mentre nelle metropoli industriali del Nord insorgono altri gravi problemi connessi all'assorbimento degli immigrati. L'espansione industriale del Nord spinge inoltre sempre di più ad amplificare la diversificazione e il distacco tra il settentrione e il meridione che, già divisi dopo la guerra per le diverse esperienze vissute, ora non riescono più ad amalgamarsi per i diversi problemi che sorgono. In quegli stessi anni, nel campo scolastico, con l'istituzione della scuola media unica obbligatoria e date le migliori condizioni generali del Paese, si raggiunge un indice di frequenza senza precedenti in ogni ordine di studio, compresa l'università. Ciò però urta, purtroppo, con l'inadeguatezza delle strutture scolastiche esistenti nel Paese che non sono sufficienti per ospitare una così ricca popolazione di studenti. In campo internazionale, infine, è da segnalare che in quegli anni alla guerra fredda tra le grandi potenze succede la "coesistenza pacifica", voluta dai due protagonisti politici più emblematici di allora, Kruscev e Kennedy. A queste due figure, per l'importante influenza che la sua politica ebbe sulle masse di tutto il mondo, deve aggiungersi quella del papa Giovanni XXIII°, che aprirà la strada, negli anni Sessanta, all'incontro storico tra cattolici e marxisti, consentendo di fatto la realizzazione del primo centrosinistra. 7.3 La cultura del consumo

Consumismo, persuasori occulti, industria culturale... Sono questi i fenomeni che si accompagnano alla nuova realtà industriale e già messi in luce dalla sociologia americana che aveva eseguito approfonditi studi sulle società che vi erano arrivate anticipatamente rispetto all'Italia. Il maggiore benessere generale accresce il potere d'acquisto di larghe masse di lavoratori, facendo aumentare notevolmente quella che l'economia politica tradizionale chiama "utilità marginale", cioè l'utilità data dal bisogno meno urgente che, mentre prima era sacrificata per soddisfare i bisogni più urgenti (alimentazione, abbigliamento, ecc.), ora può essere parimenti soddisfatta. Si dilatano così i consumi e, fra essi, si diffondono paurosamente le automobili e gli elettrodomestici. Fra questi ultimi vi è un potente e pericoloso veicolo di informazione e di persuasione: la televisione. Attraverso questo canale principalmente, in quegli anni, e utilizzando le scoperte della psicoanalisi già poste in luce dai professionisti del settore americani, la pubblicità riesce a persuadere il consumatore all'acquisto di nuovi prodotti e alla sostituzione di quelli che già possiede con i nuovi modelli, trasformando la mentalità delle famiglie che la politica monetaria aveva con tutti i mezzi plasmato sullo schema "famiglia = risparmio". Insieme agli altri consumi cresce anche quello della cultura in genere. La richiesta di beni culturali non è, infatti, molto diversa da quella di altri beni perché, ad un certo livello, sono anch'essi simbolo di promozione sociale prima ancora che di promozione culturale (non bisogna dimenticare che è stata istituita la scuola media unica obbligatoria): si allarga il mercato dell'arte e l'editoria passa dalla fase artigianale a quella industriale. Il prodotto artistico diventa una merce come tante altre e, come merce, deve seguire le leggi del mercato: la domanda determina l'offerta (cioè la produzione) e il sistema provoca la domanda. Il filosofo tedesco Theodor W. Adorno, il primo ad occuparsi del fenomeno dell'industria culturale, scrive: "l'intera praxis dell'industria culturale non fa che applicare la motivazione del profitto agli autonomi prodotti dello spirito... L'autonomia delle opere d'arte che, è vero, non è quasi mai esistita in maniera pura ed è sempre stata improntata alla ricerca

dell'effetto, si vede al limite abolita dall'industria culturale. Non bisogna accusare di questo una consapevole volontà dei suoi promotori... Sarebbe necessario semmai far derivare il fenomeno dall'economia, dalla ricerca di nuove possibilità di far fruttare il capitale nei paesi molto industrializzati... La cultura che, conforme al suo senso, non solo obbediva agli uomini ma continuava anche a protestare contro la condizione di sclerosi nella quale essi vivono e, in tal modo, per la sua assimilazione totale agli uomini, faceva a essi onore, oggi si trova invece integrata alla condizione di sclerosi; così contribuisce ad avvilire gli uomini ancora di più. Le produzioni dello spirito nello stile dell'industria culturale non sono, ormai, anche delle merci, ma lo sono integralmente". Il fenomeno pone all'artista (e all'uomo di cultura in generale) nuovi interrogativi sul proprio ruolo e la propria funzione, sul condizionamento che subisce, per forza di cose, dall'industria culturale, sulle vie e sui metodi di sperimentazione per non lasciarsi integrare o mercificare. Si fa un'analisi in termini marxiani della situazione politica e si cerca di trarne delle indicazioni che possano servire come strumenti per la nuova lotta. Il capitalismo si era trasformato nel cosiddetto neocapitalismo, dimostrando grande capacità di sviluppo. Invece di adottare la sperimentata tecnica dello scontro frontale col proletariato, ora usa il guanto di velluto facendo comunque sempre pesare la minaccia di un capovolgimento istituzionale - mascherando con la paternalistica preoccupazione per l'utilizzazione del tempo libero e degli svaghi, la logica dello sfruttamento. Nel campo dell'industria culturale vengono così assunti letterati e uomini di cultura per consulenze, collaborazioni nell'editoria, nel giornalismo, nella radio-televisione, ecc. Nasce una produzione "kitsch", cioè un insieme di messaggi di cattivo gusto che il capitalismo fa suoi, strumentalizzando anche i valori dei movimenti di opposizione, per darli in pasto alle masse che sempre più sentono il bisogno di cultura. Intorno al problema culturale, si intensifica il fenomeno pubblicitario che produce premi letterari, strani legami di editori, la nascita dei giudici letterari, dei critici, dei nuovi autori. Questa situazione ripropone il tema dei rapporti fra letteratura e potere, sia pure - come rileva il Manacorda - "in termini diversi da quelli di vent'anni prima. Allora era l'ideologia o il potere politico a minacciare un

condizionamento troppo pesante, mentre ora era il potere economico, meno clamorosamente visibile ma più corruttore, e non soltanto nei confronti dello scrittore o della sua attività, ma nei confronti di chiunque ne venisse a contatto o vi operasse alle dipendenze". Così, proprio negli anni della crisi delle sinistre sul piano della prassi politica e delle ideologie, se ne aggiunge un'altra non meno grave: quella culturale che investe in maggiore misura la critica letteraria e la concezione dell'arte. Si apre così un vasto dibattito culturale, all’inizio aperto proprio da quella parte della cultura più attenta alle trasformazioni, poi via via ripreso dagli altri, che mette in discussione le impostazioni critiche che si rifacevano al neorealismo e ai concetti dell'arte elaborati da Lukacs e dà avvio allo sperimentalismo. Nasce in quegli anni lo strutturalismo linguistico che guarda con enorme interesse ai testi di Gadda e Joyce (di cui nel 1960 viene tradotto l'"Ulisse"). A queste influenze culturali se ne aggiungono altre che negano la comunicazione tra uomo e cose, la cui principale esponente è la "école du regard" teorizzata e messa in pratica da Alain Robbe-Grillet (la sua visione artistica è esposta nel film L'anno scorso a Marinbad, del 1961). Il nouveau roman (école du regard) influisce direttamente su altre forme culturali: nel teatro, ad esempio, le opere di Samuel Beckett, in cui si agitano, nel mondo visto in sfacelo e senza possibilità di intervento, uomini ridotti a larvali presenze; nelle arti figurative, la corrente del cosiddetto informale, che impiega i materiali più diversi (cartelloni pubblicitari, fotobuste cinematografiche, fotografie di giornali e riviste, luci al neon, colori acrilici, plastiche) per bombardare e ossessionare il fornitore con l'oggetto, onnipresente sempre. Alla luce di tutto ciò deve considerarsi la produzione artistica degli anni Sessanta, improntata sulla filosofia della "cosalizzazione" (cioè la riduzione a cosa) e dell'impossibilità di comunicazione, cioè dell'alienazione dell'uomo inserito nella nuova realtà neocapitalistica. 7.4 Il nuovo corso del cinema italiano

Tra non poche fatiche anche il cinema arriva agli anni Sessanta. E naturalmente riflette gli umori e le situazioni nuove dell'Italia dell'epoca: il senso d’instabilità e di confusione alternato da cariche euforiche proprie di un periodo di trapasso tra il vecchio e il nuovo, là dove non si sa ancora bene cosa dovrà cambiare e in che senso, né si è fatta la necessaria critica di ciò che è accaduto prima, di ciò che è stata la Resistenza, dei suoi significati e di ciò che della lezione resistenziale aveva saputo assorbire la cultura. Tradotto nel cinema questo stato d’insicurezza voleva dire soltanto un generico e plateale antifascismo (argomento comunque per molto tempo vietato in Italia), ma soprattutto una progressiva depoliticizzazione degli autori, che si rifugiavano dietro ai temi dell'incomunicabilità, della fine delle ideologie, dell'alienazione, dell'integrazione operaia da una parte, mentre dall'altra tendevano a favorire il processo di osmosi tra cattolici e marxisti, scaricando sui fascisti di ieri e di oggi (ma l'oggi non è molto chiaro) la totale responsabilità dei residui mali italiani, mentre nessuno si preoccupava di approfondire l'indagine sulle cause di questi mali e sulla esistenza perenne dei fascisti in Italia. Il via lo dà Rossellini, lo stesso che aveva dato il via alla nascita del neorealismo. Il film è Il generale della Rovere, che riapre il tema della resistenza per tentare di far riconquistare al pubblico i valori della storia collettiva, accantonati per precisa volontà politica. Il generale della Rovere non è importante per il tema trattato quanto per il ruolo che in quel momento assumeva nell'ambito della cinematografia italiana. Favoriva, infatti, il ritorno al cinema resistenziale, argomento che tutti ormai sembravano essersi rassegnati a considerare proibito, anche se l'impegno tematico è qui più apparente che sostanziale. Ebbe un notevole successo di pubblico e di critica (la giuria della Mostra di Venezia gli assegnò persino - ex aequo con La grande guerra di Monicelli - il Leone d'oro), cosa che influenzò e convinse molti registi vecchi e nuovi a riproporre cinematograficamente il tema della Resistenza con opere mediocri e ambigue che molto spesso erano solo momenti celebrativi di rievocazione. Il film di Rossellini si prefigge due obiettivi: il primo è la grandezza individuale intrinseca a ogni uomo (Rossellini cerca di

dimostrare il primo assioma mostrando come un uomo mediocre, inserito per forza di cose in avvenimenti più grandi di lui, diventa egli stesso grande); il secondo è l'insegnamento che un individuo può ricevere dagli avvenimenti resistenziali (l'ambiente resistenziale - Genova negli ultimi tempi dell'occupazione - risolve l'educazione interiore del protagonista). Il generale della Rovere, tuttavia, limita e restringe i valori resistenziali strozzandoli in un episodio militare: "Non esiste l'insurrezione popolare; senza i generali di carriera, i partigiani si comporterebbero da idioti; folla impaurita, bisognosa di chi la calmi, la istruisca, la conforti. L'intelligenza invece sta ai vertici della gerarchia sociale: presso la contessa Della Rovere, i ricchi borghesi Fassio, madre e figlia, l'ex cavalleggero Bertone, i due alti ufficiali che vanno a morire rasserenati dalla vita del generale prigioniero, il cardinale che raccomanda la comprensione e l'assistenza religiosa dei carcerati politici, ed anche sua eccellenza il pezzogrosso fascista che protesta vibratamente contro l'alleato nazista" (Pio Baldelli, Cinema dell'ambiguità (Rossellini, De Sica/Zavattini, Fellini), La Nuova Sinistra Savonà e Savelli, Roma 1971, pag. 160). In definitiva il film ruba spazio e contenuti politici alla resistenza ed equipara gli antifascisti ai fascisti nel trovare loro un denominatore comune: sono tutti vittime dei nazisti. Inoltre il personaggio del generale Della Rovere è affidato all'interpretazione macchiettistica di Vittorio De Sica, che non è assolutamente in grado di correggere gli squilibri di sceneggiatura, ma al contrario li mette in maggiore evidenza caricando troppo il suo personaggio. D'altra parte anche gli altri film che da questo nacquero avevano più il sapore di una democraticistica volontà di “distensione” - nell'antifascismo generico comune a tutti - che non quello di una precisa volontà di denuncia di connivenze e quindi di lotta sociale impostata in termini di classe. Tra questi ultimi: La ciociara (1960) di De Sica, con Sofia Loren (che racconta il dramma vissuto da una donna durante il periodo della liberazione, mentre è in fuga con la figlia che vede violentata da alcuni soldati marocchini: il tema trattato non appare sufficientemente approfondito e evidenzia un atteggiamento razzista; più che dimostrare qualcosa sembra solo voler sfruttare commercialmente le diverse situazioni illustrate); Era notte a Roma (1960) di Rossellini, in cui l'equivoco si manifesta più palesemente, sebbene molta critica abbia voluto concedervi appoggio e consenso; Il

gobbo (1960) di Lizzani, La lunga notte del 43 (1960) di Florestano Vancini, tratto dalle Storie ferraresi di Bassani. Quest’ultimo film tratta del farmacista della città, paralitico, che fa curare i propri interessi dalla moglie che, così, incontra il suo vecchio amante ristabilendo l'antico legame. Il federale della città, moderato, è intanto fatto uccidere da un suo violento avversario e la sua uccisione è attribuita agli antifascisti. Il farmacista assiste nascosto dietro le persiane al massacro che i fascisti organizzano per rappresaglia dell'uccisione del federale; strage nella quale viene ucciso anche il padre dell'amante di sua moglie. Quest'ultimo emigra in Svizzera, mentre la moglie del farmacista lascerà per sempre la città e il farmacista morirà di lì a poco. L'amante della moglie del farmacista tornerà a Ferrara dopo aver fatto fortuna ed essersi sposato, incontrerà il violento federale che organizzò la strage nella quale morì il padre e gli stringerà la mano. Nella seconda parte del film prende il sopravvento il dramma sentimentale della protagonista e la pellicola scade. Vancini sa cogliere tuttavia il legame esistente tra le ipoteche borghesi sulla Resistenza e i primi germi dei rigurgiti fascisti. Il tratto più incisivo dell'opera sta, infatti, nella figura del protagonista che, in nome di un comune denominatore, l'appartenenza alla classe dei privilegiati del "boom" economico, stringe la mano al fucilatore del padre. Il film merita riguardo perché arriva in un momento in cui si può più facilmente interpretarvi una ribellione contro il tentativo reazionario di Tambroni del luglio '60 e, ancor più, la presa di coscienza del processo evolutivo del capitalismo che, continuando a tenere il fascismo come soluzione di riserva, nel frattempo si garantisce con la restaurazione dell'ordine borghese operata dai governi centristi del dopoguerra. A questo film fa seguito una serie di film che non dispiace a nessuno ma che non chiarisce niente e che assume i connotati del filone (L'oro di Roma, Tiro a piccione, La marcia su Roma, Anni ruggenti, Il processo di Verona, Kap, Tutti a casa, ecc.). Kapò, di Gillo Pontecorvo, narra la storia di una adolescente che vede morire i genitori nel campo di concentramento dove la famiglia è tenuta prigioniera. Si prostituisce per terrore della morte e diviene una Kapò, una guardiana delle sue compagne, tradendo così i suoi amici e se stessa. Innamoratasi poi di un prigioniero russo, nel tentativo di salvarlo, lo aiuta a

fuggire dal campo di concentramento insieme a un gruppo di altri prigionieri, ma i nazisti uccidono tutti e fucilano anche la Kapò. Per quanto spettacolare il film è molto superficiale, perdendosi in ripetizioni e lungaggini non aiutate dalla sceneggiatura. Tutti a casa, di Luigi Comencini, narra la storia di un arruffone che, dopo l'8 settembre, non ricevendo più ordini né istruzioni, decide di tornarsene a casa imbevuto del suo sentimento di qualunquismo. Lungo la strada resta indifferente all'uccisione dei suoi compagni, alla cattura dei suoi amici per mano tedesca. Il padre, arrivato il figlio a casa, non lo capisce più e lui, nell'ultimo tentativo di fuga, vedendo ferito il suo unico amico, imbraccia un mitra e spara sui tedeschi diventando partigiano. È la Resistenza in visione umoristico - qualunquista. Anche i film ideologicamente più lucidi di quegli anni, come Il terrorista (1963) di Gianfranco De Bosio, non contengono riferimenti all'attualità politica né adeguate motivazioni ideologiche e culturali sulle differenze tra l'ieri e l'oggi, tra un passato talmente denso di tensioni politico-culturali e un presente così mediocre e banale. D'altra parte, proprio perché questo nuovo filone è voluto dalla industria culturale, deve per forza di cose rappresentare un tentativo di sintesi tra il cinema prettamente commerciale e il cinema ricercato dai migliori autori del momento che spesso sono coinvolti in proposte ambigue ed equivoche. La mancanza della dimensione corale sulla quale era improntato il cinema neorealista del dopoguerra rende sempre maggiore il distacco dell'uomo dalla realtà, dell'individuo dalla società, dell'Uomo dalla Storia. In queste strane e incerte condizioni ideologico-culturali dell'inizio degli anni Sessanta, sono ancora i tre autori migliori e più rappresentativi del cinema italiano del dopoguerra a darci opere che rappresentano la misura dei cambiamenti avvenuti nella società: Visconti con Rocco e i suoi fratelli, Fellini con La dolce vita, Antonioni con la trilogia L'avventura, La notte e L'eclissi, cui ideologicamente farà seguito Il deserto rosso. 7.5 Rocco e i suoi fratelli e La dolce vita Tratto dal romanzo di Giancarlo Testori "Il ponte della Ghisolfa", il film Rocco e i suoi fratelli esce sugli schermi nel 1960. Alla sua sceneggiatura, oltre a Visconti hanno lavorato Vasco Pratolini, Suso Cecchi

D'Amico, Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa; la musica è di Nino Rota; la fotografia di Giuseppe Rotunno. Racconta la storia di una famiglia del meridione costretta, per cercare lavoro, a emigrare a Milano e, nel violento urto con la metropoli industrializzata, perde l'originaria unità disgregandosi in tante individualità, ognuna delle quali seguirà un suo diverso destino. Rappresenta il ritorno di Visconti al romanzo sociale o, come lo definisce il Sadoul, al "cineromanzo" costituendo indirettamente la continuazione da La terra trema su un tema direttamente sociale. Visconti dirige ancora da maestro gli attori nei loro ruoli, ma gli sfuggono i problemi reali che restano solo il contorno di un'operazione melodrammatica ispirata a una congerie di elementi, tra cui Verga, Dostoevskij (l'autore stesso ha dichiarato di essersi ispirato a Dostoevskij: "Rocco è senza dubbio un personaggio de “L'idiota”", Tomas Mann e gli scrittori del meridionalismo italiano, che ne fanno un prodotto ideologicamente disarmonico che, alla fine, denuncia i sintomi di una crisi d'autore confermata da alcuni dei lavori successivi (Il lavoro, episodio di Boccaccio 70, Vaghe stelle dell'Orsa, Lo straniero dal romanzo omonimo di Albert Camus, Il gattopardo;, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Da Verga Visconti assorbe senza dubbio quella specie di maledizione, di destino avverso che i personaggi sembrano portarsi dentro nei loro scontri con la capitale del miracolo economico che da questo miracolo esclude gli ambienti del sottobosco umano e sociale che vivono ai margini. Con Verga Visconti pone la sua parola “fine” alla stagione di cui era stato uno dei protagonisti. Il film ha un’enorme importanza nella stagione della produzione italiana, perché segna la vittoria di un linguaggio filmico che solamente un autore come Visconti poteva fortemente imporre sul mercato. Dello stesso anno di produzione è La dolce vita di Fellini. L'autore vuol mostrare lo spettacolo costituito dal mito della dolce vita romana, un mito che aveva raggiunto le località di provincia e dal quale egli stesso, durante la sua adolescenza, era restato colpito. Ma come tutti i miti, anche la dolce vita romana era una falsa rappresentazione della sottocultura. Fellini mostra la realtà del mito attraverso il filtro di un mestiere che rapporta con obiettività ogni parte dello spettacolo: il giornalismo del rotocalco. Elemento di unione dei vari brani e delle varie scene della dolce

vita romana è, infatti, un giornalista, Marcello, che ha rinunciato alle ambizioni letterarie per i più immediati e sicuri guadagni del rotocalco, muovendosi, non completamente estraneo, nella Roma degli anni Sessanta, nella quale si divide tra mondo del cinema, aristocrazia nera, salotti di intellettuali, fanatismo popolare, ecc. Il film si apre con una bella sequenza su Roma: due elicotteri trasportano sulla città eterna un Cristo di gesso da depositare su San Pietro. Uno stacco netto ci porta, dall'immagine del Cristo, alla maschera orientale di una danzatrice all'interno di un night. Seguono poi le sequenze dell'arrivo della star all'aeroporto, la visita di quest'ultima, vestita da prete, a San Pietro, la sua serata nel centro storico di Roma, il "miracolo" di un paesino di provincia (due bimbi che, opportunamente preparati, dicono di aver visto la Madonna e di averle pure parlato): pubblicità cinematografica, radiofonica e televisiva che rimbalza come un'eco sui visi dei popolani intervenuti in massa con un fanatismo religioso che solo questi avvenimenti riescono a scuotere. L'arrivo del padre di Marcello a Roma per vivere l'ultimo suo giorno da leone, nei ricordi della sua giovinezza di quel mito della dolce vita, bruscamente ci fa ripensare all'autenticità della realtà di provincia. Il suicidio mancato dell'amica del giornalista, la loro scenata da alienati, la serata passata dall'amico Steiner (un intellettuale scontento dell'impostazione data alla sua vita), il suicidio di quest'ultimo dopo l'omicidio dei suoi stessi due figli, sono tutti brani che ci riportano in un mondo autentico nel quale la vita non è più spettacolo (ma anzi proprio per questa autenticità che sta al di là di tutto il mondo di falsità che ci presenta Fellini nel suo film e che, dal punto di vista espressivo, creativo, è la vera nota autentica e non falsa dell'autore, ridiviene spettacolo in quanto non autenticamente espressione di fantasia tutta la zona autentica e reale). Un film sul disordine (del personaggio centrale, dell'ambiente) di Roma (ma da qui si allarga metaforicamente a parlare della borghesia italiana, del provincialismo mai superato), visto con animo ambiguo: un'osmosi sentimentale di repulsione e d'attrazione che travaglia l'animo di Fellini. 7.6 La trilogia di Antonioni Inizia con il film L'avventura. Prodotto nel 1959, il film vince ben sedici premi.

Sette persone partono con uno yacht per una crociera fra le isole Eolie e una di esse scompare. La sua migliore amica dapprima è presa dall'angoscia per la sua scomparsa, poi, quando le ricerche la fanno avvicinare al compagno dell'amica, un uomo vuoto e annoiato, e le fanno vivere nuove esperienze, viene presa dalla paura di un ritorno improvviso che possa distruggere la sua nuova vita. Questa volubilità dei sentimenti borghesi e la denuncia della loro fragilità rappresentano il tema di Antonioni dell'incomunicabilità. "Per molti la noia è il contrario del divertimento; e il divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me invece la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura che per certi aspetti essa assomiglia al divertimento, in quanto appunto provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà". Dalla noia, in senso moraviano, scrive Aristarco, nasce "l'impossibilità di stabilire un rapporto concreto con l'individuo e la realtà, fra l'oggetto e il soggetto, il pensiero e la realtà; la mancanza di rapporti concreti con le cose, con se stesso e gli altri". È questo il primo film di una trilogia che si concluderà con L'eclisse (del 1962) e che aprirà la strada a Il deserto rosso, nel quale maggiormente vengono approfondite dall'autore le tematiche esistenziali che man mano e sempre con maggiore forza lo spingeranno fuori della realtà delle lotte sociali per immergerlo nel mondo piccolo borghese tanto caro agli autori di questi anni. La notte è del 1961. Partecipano alla sceneggiatura, oltre ad Antonioni, anche Ennio Flaiano e Tonino Guerra. La fotografia è affidata alle cure del maestro Gianni De Venanzo. Il film vince nove premi. Uno scrittore alla moda, durante un ricevimento cui partecipano molti altri intellettuali, corteggia la figlia del padrone di casa. In crisi con la moglie, vedrà sparire – all’apparire dell’alba – qualsiasi possibilità di cambiare il corso della sua vita. Antonioni disegna, col tratto e con lo stile che ormai contraddistinguono la sua grammatica cinematografica, la borghesia che ha raggiunto il traguardo del benessere economico a spese della propria felicità. Una società che non riesce a traversare il fiume che separa i vecchi

valori, superati e obsoleti, dai nuovi che appena appaiono lontani all’orizzonte. L’Eclisse è del 1962. Partecipa alla sceneggiatura Tonino Guerra. Antonioni scrive: “A Firenze per vedere e girare l’eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altri luci. E poi, buio. Immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che durante l’eclisse probabilmente si fermano anche i sentimenti. È un’idea che ha vagamente a che fare con il film che sto preparando, una sensazione più che un’idea, ma che definisce già il film quando ancora il film è ben lontano dall’essere definito. Tutto il lavoro venuto dopo, nelle riprese, si è sempre rapportato a quell’idea o sensazione o presentimento. Non sono più riuscito a prescinderne”. Una giovane donna rompe la relazione con il suo amante più anziano di lei e si ritrova completamente sola. In Borsa incontra un giovane agente di cambio con il quale simpatizza e cerca di ricostruire una storia. Si accorge quasi subito che l’uomo è un mediocre. Ritorna la solitudine. L’ambiente della Borsa rappresenta un riferimento storico puntuale: l’Italia del “boom” economico degli anni sessanta, la sua precarietà, l’integrazione della piccola borghesia (i piccoli risparmiatori) nel meccanismo economico. I personaggi si muovono in una realtà spettrale, proprio come la voleva Antonioni, che va perdendo le sue connotazioni storiche. Insieme alla cinematografia di Fellini, ma su percorsi assai diversi, forse anche divergenti, la trilogia di Antonioni rappresenta la rottura più netta con il neorealismo. ***** 8. L’Italia del’60 e oltre Gli anni sessanta sono caratterizzati da profonde trasformazioni della società italiana che si evolve da società prettamente agricola in una società fortemente industrializzata e gli eventi politico-sociali di quegli anni sono destinati a influenzare e modificare profondamente valori, aspirazioni, usi, costumi e stile di vita di tutte le generazioni future.

È l’Italia del cosiddetto “boom economico” che fa identificare la gente con il nuovo benessere. Si assiste alla diffusione dell’automobile (la Fiat 600 prima e la 1100 dopo) e delle radio a transistor. Nasce in quegli anni il superamento di antichi pregiudizi soprattutto in campo sessuale e si assiste all’emancipazione delle donne e delle minoranze, alla trasformazione positiva delle scuole e dell’università e al miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Si crea però un’ulteriore frattura fra Italia del Nord e Italia del Sud. In quest’ultima parte, infatti, le condizioni di vita anziché migliorare arretrano trasformando queste aree in un nuovo teatro di emigrazione. Non più verso l’America bensì verso il cosiddetto Triangolo Industriale del Nord. I contadini partono verso città italiane nelle quali saranno comunque considerati stranieri. Dal 28 aprile del ’63 al 4 aprile del ’92 vengono indette sette elezioni (legislature dalla IV alla X) che vedono succedersi ben ventotto governi prima della discesa in campo di Berlusconi che, però, quasi subito è costretto alle dimissioni cedendo il testimone a Dini. È un clima di continua tensione politica che certamente non favorisce – se non forse solo negli anni sessanta con l’arrivo dei venti culturali ribelli provenienti dalla Francia e, in parte, dall’Inghilterra – la naturale evoluzione del neorealismo che lascia il posto a isolate rinascite dovute più alle idee individuali di alcuni autori piuttosto che a quelle corali nate dalla lotta di liberazione. In campo politico si assiste al progressivo avvicinamento dei socialisti all’area del Governo (nonostante il goffo tentativo di colpo di Stato del 1964 a opera del generale De Lorenzo). Per arrivare, infine, al 1968 in cui si assiste alla nascita di un fortissimo movimento di contestazione esploso contemporaneamente in tutti i paesi del mondo. Movimento che trova la colonna portante negli studenti ma non riesce a istituzionalizzarsi, resta privo di legami con la sinistra tradizionale e per questo guardato con sospetto dalla classe operaia che con esso non si unisce e viene anche (o perciò) accusato dall’intellighentia di sinistra di avere radici radicali, borghesi e individualiste. Per tutti i motivi anzidetti, il movimento sessantottino presto perde la propria forza propulsiva, dando origine – dalle sue frange estreme – a forze

eversive (come le Brigate Rosse di matrice marxista e i NAR e Ordine Nero di estrema destra) che sconvolgeranno l’Italia per oltre un decennio. Siamo negli anni della strategia della tensione che si manifesta nella bomba di Piazza Fontana a Milano, le cui indagini guidate da un accorto regista indicano da subito la responsabilità negli anarchici e portano all’arresto di Pietro Valpreda (la cui innocenza verrà dimostrata solo dopo molti anni) e alla caduta dalla finestra della Questura di Milano di Pinelli, altro anarchico. Sono anche gli anni che vedono moltiplicarsi le cosiddette stragi di Stato, le morti strane come quella di Feltrinelli mentre piazzava esplosivo su un traliccio e che si coronano con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e la strage alla stazione di Bologna. Si assiste a un progressivo aumento della rabbia giovanile che accusa un forte disagio e rifiuta il modello sociale. Però, il malessere delle nuove generazioni non è sostenuto da una forte ideologia e il rifiuto del modello di vita diventa solo sterile protesta o confusa ricerca esistenziale. A cambiare almeno parzialmente la situazione, agli inizi degli anni ’60, è il movimento degli hippy. Milioni di ragazzi mettono in atto comportamenti anticonformisti, pretendendo il diritto di realizzare un’esistenza libera dalla schiavitù del lavoro, dei consumi e del denaro. Capelloni e con abiti assolutamente inconsueti, spesso di foggia orientale, conducono un’esistenza nomade e promiscua, di tipo comunitario, predicando il libero amore e il diritto dell’uomo a una vita libera dalla violenza della guerra e dalle istituzioni, negando la legittimità delle discriminazioni razziali, vantando l’uguaglianza dei sessi. Nell’ agosto del 1969, a Woodstock, non lontano da New York, ha luogo il più grande raduno musicale della storia, al quale partecipano oltre 450.000 ragazzi di tutto il mondo. Il 1966 è un anno tragico per Firenze. Il 4 novembre, infatti, la città viene invasa dalle acque dell’Arno. L’alluvione sarà ricordata dai Fiorentini come uno dei disastri più terribili del secolo ma, in quel tragico frangente, sono proprio quei giovani capelloni, considerati degli scapestrati, ad accorrere da ogni parte del mondo per recuperare con grande determinazione i manoscritti e le opere d’arte che altrimenti sarebbero andati irrimediabilmente perduti, guadagnandosi il meritato appellativo di “angeli del fango”.

Mentre il 1968 può definirsi come il più importante anno dell’intero secolo, in quanto il movimento prima di dissolversi per l’atavico scollegamento che esiste nella sinistra italiana è comunque riuscito a incidere positivamente e radicalmente nella trasformazione dei costumi e della vita sociale, gli anni ’70 e ’80 possono definirsi come gli anni più oscuri per gli eventi terroristici prima e l’eplosione della corruzione nella vita pubblica dopo. Circostanza quest’ultima che mina profondamante la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Tra il 1969 e il 1970 un altro evento è destinato a incidere ancora nel tessuto sociale della Repubblica: esplode lo scandalo della loggia massonica P2 di Licio Gelli che, non solo prende direttamente parte a un altro goffo tentativo di colpo di Stato (Junio Valerio Borghese), ma riesce poi a incidere sulla democrazia – come vedremo - attraverso alcuni uomini propri (chiamati piduisti) che trasformeranno in modo indolore e invisibile la vita politica del Paese. È lecito pensare che Gelli facesse (o fa) parte dei Servizi. Sicuramente era collegato a Michele Sindona, personaggio ambiguo della finanza italiana che fu riferimento della mafia americana nell’organizzazione dello sbarco in Sicilia contro i nazisti con l’aiuto determinante di Lucky Luciano, in quanto la lista degli aderenti alla P2 fu trovata il 17 marzo 1981 dai magistrati durante le indagini sul presunto rapimento di Michele Sindona a Villa Wanda, di proprietà di Licio Gelli. Lo stesso Gelli, d’altronde, è personaggio ambiguo, avendo stretto legami durante il fascismo con ambedue le parti contendenti (fascisti e partigiani) per assicurarsi comunque la benevolenza dei vincenti. I documenti sequestrati testimoniano l'esistenza di un'organizzazione mirante a prendere il possesso delle leve del potere in Italia: il "piano di rinascita democratica", un elaborato a mezza via fra un manifesto ed uno studio di fattibilità sequestrato qualche mese dopo alla figlia di Gelli, contiene infatti un vero e proprio ruolino di marcia per l’infiltrazione di esponenti della loggia nei settori chiave dello Stato, le indicazioni per il proselitismo e persino un preventivo dei costi per l'acquisizione delle funzioni vitali del potere: “La disponibilità di cifre non superiori a 30 o 40 miliardi sembra sufficiente a permettere ad uomini di buona fede e ben selezionati di conquistare le posizioni chiave necessarie al loro controllo”.

Inizia la scalata ai media italiani: il Corriere della Sera, il quotidiano nazionale più diffuso e allo stesso tempo più autorevole, con l’aiuto di Umberto Ortolani, del banchiere Roberto Calvi, dell’imprenditore Eugenio Cefis e delle casse dello IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, viene acquistato dai Rizzoli, convinti dalle argomentazioni di Ortolani e Gelli ad entrare nella P2 (anche se vi si iscrisse solo Angelo, nipote dell’omonimo capostipite). Gelli quindi inserisce nei posti chiave dalla Rizzoli i suoi uomini (uno su tutti Franco Di Bella al posto di Piero Ottone, direttore del “Corriere della Sera”). Nel ‘77 la P2 spinge i Rizzoli all’acquisizione di altri quotidiani: Il Piccolo di Trieste, Il Giornale di Sicilia di Palermo, l'Alto Adige di Bolzano e La Gazzetta dello Sport. Nel 1978 viene pubblicato ex-novo L'Eco di Padova e la casa editrice entra nella proprietà de Il Lavoro di Genova e finanzia L'Adige di Trento. Nel 1979 la Rizzoli aumenta la propria quota azionaria del periodico TV Sorrisi e Canzoni portandola al 52%, ottenendone il controllo. Infine, nonostante l'opposizione dei Rizzoli, viene fondato L'Occhio, con direttore Maurizio Costanzo (altro piduista). Altro attacco viene fatto a Il Giornale. Nel 1978, viste le critiche condizioni finanziarie del quotidiano, Silvio Berlusconi entra con una quota azionaria del 30%. In quello stesso periodo, nasce Telemilanocavo, fondata da Giacomo Properzj e successivamente rilevata da Silvio Berlusconi, che la fa poi diventare Telemilano, Telemilano 58 ed infine Canale 5, presumibilmente seguendo la strategia tracciata da Licio Gelli. Si sottolinea qui che, esploso lo scandalo della P2, quasi tutti i personaggi coinvolti hanno avuto serie ripercussioni economiche e politiche, fatto salvo Silvio Berlusconi che in quello stesso anno acquista Italia 1 e, l’anno successivo, Rete 4. Gli altri punti chiave del progetto sono la riforma della scuola, la separazione delle carriere dei magistrati, il controllo del Consiglio Superiore della Magistratura da parte dell’Esecutivo, l’abolizione del monopolio della RAI. È facile riscontrare come gli argomenti trattati nel programma sono stati attuati, o perlomeno indicati come riforme prioritarie ed essenziali, da parte di esponenti politici appartenenti alla P2 (leggasi Silvio Berlusconi).

Sull’esempio dell’America, anche in Italia (come negli altri paesi europei) si assiste alla diffusione della televisione che, da una parte, favorisce lo sviluppo di una letteratura volta a contestare i valori e l’essenza della società capitalistica ma, dall’altra, diffonde il messaggio consumistico martellante e rende il proprietario della rete (o delle reti), soprattutto se anche proprietario di testate giornalistiche, padrone del campo. Si crea la cosiddetta “civiltà di massa”, le cui caratteristiche sono il consumismo, l’omogeneizzazione del gusto collettivo, la mercificazione di qualsiasi tipo di valori. Quest’ultimo aspetto si può facilmente identificare nella cosiddetta industria culturale: il prodotto artistico per essere accetto al mercato deve essere omologo al sistema. È come se il viaggio di De Gasperi in America avesse creato un patto di ferro per la stabilizzazione dell’area del Mediterraneo secondo un percorso politico gradito alla grande economia internazionale. Al suo rientro in Italia il governo provvisorio Parri (rappresentante il vento del Nord) viene messo in crisi e, da quel momento, l’Italia è governata dai democristiani. Gli altri partiti, se vogliono guidare il Paese, devono prima dimostrare di appiattirsi su quel percorso politico. L’equilibrio è mantenuto con un mix di frusta e carota fino alla diffusione del mezzo televisivo, cioè fino a quando l’economia internazionale non comprende che tutto è inglobabile, anche la rabbia più oltranzista antiborghese. Nascono i linguaggi sperimentali, di ricerca, di avanguardia. Contemporaneamente, però, alcuni scrittori e artisti – isolatamente o in gruppi – contestano l’industria culturale, circostanza che nelle arti figurativa appare più marcata che in quelle letterarie. Il sistema si difende inglobando anche queste frange, strumentalizzandole a fini commerciali. La letteratura impegnata e corale prodotta nel decennio 1945-55 si è ormai progressivamente orientata a toni elegiaci o memoriali come conseguenza dello spostamento dal piano della rappresentazione storica al piano della rappresentazione esistenziale. La crisi del neorealismo è però anche da collegare al processo di revisione ideologica – di vasta portata culturale – che è al centro dei dibattiti delle forze di sinistra, nei quali si coglie la volontà di ricerca di metodologie nuove e di sperimentazione, insieme a un rigorismo marxista ufficiale.

Pasolini è protagonista della vita culturale italiana di questo periodo. Tra le tappe della sua attività in prosa, ricordiamo Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Per la poesia, invece La meglio gioventù in dialetto friulano (1954); Le ceneri di Gramsci (1957); La religione del mio tempo (1962); Poesia in forma di prosa (1964); Transumanar e organizzar (1971). Lo scrittore pensava che i suoi violenti ragazzi di vita del sottoproletariato non si sarebbero lasciati integrare; ma alla luce degli avvenimenti successivi alla sua prima produzione si rende conto che l’affermarsi della civiltà dei consumi riesce ad appiattire anche questi e decide di condurre una diversa lotta contro il consumismo che mira all’omologazione totale cancellando le differenze individuali e sociali e negando la libertà. Altro punto di riferimento della cultura di quegli anni è rappresentato da Italo Calvino. Si avvia agli studi di Agraria che però non termina a causa dell’inizio della guerra e dell’esperienza partigiana prima e dei suoi interessi politici, culturali e letterari dopo, che lo portano ad aderire al PCI e collaborare con la casa editrice Einaudi. Inizia pubblicando due romanzi, Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo. Dal punto di vista formale, in questa prima fase della sua produzione, Calvino tende a semplificare il linguaggio, lavorando a strati per far sì da essere letto da tutti: da chi voglia apprezzarne il solo intreccio e da chi voglia andare oltre le apparenze. L’elemento fiabesco è dominante nella sua produzione anche successiva a questo periodo. Pubblica Il Visconte dimezzato, prima opera di una trilogia fantastica. Con questi romanzi Calvino evidenzia la complessità dell’uomo e del suo comportamento. Abbandona il PCI dopo gli eventi d’Ungheria. Nel 1964 si sposa e si trasferisce a Parigi. Nel 1979 infine si apre l’ultima fase della produzione calviniana, quella dei romanzi combinatori, in cui cioè l’autore prova a leggere la realtà come un insieme di eventi aleatori che variamente combinati portano a determinate conseguenze secondo uno schema deterministico. Di questa produzione il romanzo Il castello dei destini incrociati.

Pubblicato nel 1957, Il barone rampante è il più celebre dei romanzi appartenenti alla trilogia de I nostri antenati. Narra la storia di Cosimo Piovasco di Rondò che, in seguito a un banale contrasto familiare (rifiuta, sfidando l'autorità paterna, di mangiare un piatto di lumache preparato dalla sorella Battista), all'età di dodici anni lascia la villa di famiglia, sita nel libero comune di Ombrosa, per trovare rifugio sugli alberi, da dove non scenderà mai più. Compare un omaggio al Settecento, il secolo dell'Encyclopédie di Diderot, del razionalismo, della leggerezza e delle libertà. Lo stile di Calvino è chiaro, aperto all'ironia, alla comicità, alla fantasia, arricchito da precisa terminologia scientifica. La contestazione raggiungeva in quegli anni la sua massima espressione nella musica. Il nuovo modello musicale era il rock’n’roll, che interpretava il senso di inquietudine, di protesta e di ribellismo dell’epoca, come veicolo antitradizionalista e anticonformista. In questo genere musicale la libertà dei costumi e la libertà sessuale si fondono prepotentemente. Si forma il complesso dei Beach Boys, quello leggendario dei Beatles e quello dei Rolling Stones. In Italia nascono i nuovi miti della canzone, Adriano Celentano, Mina, Gianni Morandi e, contemporaneamente, ha origine un nuovo fenomeno, quello dei cantautori, con Gino Paoli e Fabrizio De André, Lucio Dalla ed Edoardo Bennato, Peppino di Capri e Domenico Modugno. Nelle arti figurative si va prepotentemente affermando il movimento definito Pop Art. Il nome deriva dalla contrazione dell'inglese Popular Art, arte popolare in senso moderno, cioè facente uso di oggetti quotidiani della società di massa, propri della comunicazione commerciale, cinematografica, televisiva o della stampa periodica. Sono dipinti dalle tinte forti realizzati con i colori acrilici e violenti usati nei cartelloni pubblicitari e riproducenti bottiglie di birra, lattine, strisce di fumetti, segnali stradali e oggetti di consumo. Presto tuttavia le tecniche espressive adottate si moltiplicano, fino ad arrivare alla diretta inclusione di oggetti reali nell'opera. Si tratta di una vera e propria rivoluzione dell’espressione artistica e della sua percezione. La Pop Art rappresenta il nuovo riferimento dei movimenti artistici ed esercita una forte influenza nella grafica pubblicitaria, nel design e nella moda.

Il cinema italiano resta in bilico tra fermenti rivoluzionari e onirici spunti laici ribaltati nel Rinascimento o nel Risorgimento, con spinte devianti e trasgressive verso l’erotismo o la satira sociale. È da sottolineare come negli anni settanta si assista alla più grande crisi cinematografica dal dopoguerra, che ha portato tutte le sale di seconda e terza visione alla chiusura, alcune sale di prima visione all’apertura solo in alcuni giorni della settimana e, infine, al crollo delle vendite di biglietti. Nel 1960 il numero di biglietti venduti è stimato intorno ai 750 milioni, sul finire degli anni ottanta si aggira sugli 80 milioni. Tra la feroce concorrenza della televisione e l’assenza di un cinema altro (negli anni sessanta ancora interpretato dall’Italnoleggio e dall’Istituto Luce, fusisi insieme nel 1984), pochi titoli e pochi autori possono vantare lo sfondamento di presenza di pubblico che, prima, era anche assicurato ai film prodotti appositamente per i botteghini della provincia. Gli autori più significativi di questi anni sono Maselli, Orsini, Zurlini, De Bosio, De Seta, Wertmüller, Magni, Brass, Nelo Risi, Sergio Citti, Brusati, Mingozzi, Cavani, Bolognini e il recentissimo Pieraccioni. Oltre a questi autori, che hanno avuto il coraggio di affrontare in tutte le loro opere non solo temi di rilievo culturale ma anche l’appassionata sperimentazione linguistica, ve ne sono altri (non per questo definibili minori) che, giocando in particolare su un solo versante della cultura filmica, sia esso stato il linguaggio o il tema da trattare, hanno comunque lasciato la loro impronta nella storia del cinema. In particolare, faccio riferimento a Lattuada che ha saputo riportare sullo schermo tutti i fenomeni di vasta portata sociale e culturale, sia riproducendo soggetti originali sia facendo la trasposizione di opere letterarie (basti fra tutti ricordare Venga a prendere il caffè da noi e Cuore di cane tratti da romanzi e Mafioso e Le farò da padre da soggetti originali) e Riccardo Donna, ottimo mestierante prigioniero della Tv, che ha saputo restituire l’atmosfera onirica ed elegiaca degli anni cinquanta e sessanta nella serie televisiva Raccontami, pur disponendo dei limitati budget della televisione di Stato, e analoghe atmosfere di sospensione e di mistero in Nebbie e delitti. 8.1 Francesco Maselli

Di origine molisana, cresce in una famiglia ricca di stimoli culturali (suo padre è un critico d'arte e la sua casa è punto d’incontro di prestigiosi scrittori) e, ancora giovanissimo, diviene partigiano e aderisce al comunismo. Interrotti gli studi liceali, si diploma presso il Centro sperimentale di cinematografia nel 1949. Dopo aver fatto da assistente e aiuto regista (anche a Michelangelo Antonioni, per diversi film e documentari), dirige il suo primo documentario Bagnaia paese italiano nello stesso 1949. Nel 1953 collabora con Luchino Visconti nell'episodio Siamo donne e nello stesso anno dirige con Cesare Zavattini Storia di Caterina, episodio del film L'amore in città. Nel 1955 realizza il suo primo film a lungometraggio, Gli sbandati, sulla seconda guerra mondiale, trattando le problematiche sociali in chiave neorealista e affrontando i temi con impegno ideologico e morale. Nel ‘57 realizza La donna del giorno, in cui critica il mondo della pubblicità e della stampa "rosa". Il successo arriva con I delfini (1960), ritratto socio-intimistico di un gruppo di giovani della borghesia di provincia. Qui manifesta appieno il leit motiv che muove i suoi lavori e che si identifica – come per Antonioni – nella continua ricerca di se stessi da parte dei protagonisti che vivono in un vuoto ideale e morale. Questo tema è riproposto nel film Gli indifferenti, tratto dall’omonimo romanzo di Moravia, che è un intenso ritratto psicologico di una famiglia in decadenza e viene prodotto nel 1964 dopo la breve parentesi rosa di Le adolescenti e l'amore, episodio del film Le italiane e l'amore. I film successivi Fai in fretta ad uccidermi... ho freddo! (1967) e Ruba al prossimo tuo (1968) sembrano più delle prove d’orchestra, quasi volesse misurare le sue capacità di affrontare il thriller e la commedia all'italiana, scongiurando con il riso l’incomunicabilità e l’alienazione. Il suo linguaggio schietto e diretto si ritrova subito dopo in Lettera aperta a un giornale della sera del 1970 che ritrae alcuni intellettuali di sinistra che, annoiati dalla quotidianità, decidono di costituire un reparto internazionale di combattenti per partecipare al conflitto in Vietnam dalla parte di Ho Chi Minh e annunciano il proprio progetto in una lettera aperta che, contro le aspettative, viene pubblicata da un giornale provocando in loro l’imbarazzo di dovere affrontare l’obbligo morale di mettere ora in pratica l’idea. Infine, il suo linguaggio di "cinema-verità" ritorna prepotente in Il sospetto (1975, con Gian Maria Volonté), che tratta la storia di un operaio aderente al Partito Comunista Italiano inviato in Francia a stanare un infiltrato. Merita

ancora una citazione Storia d'amore (1986), che vince il premio speciale della giuria alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia. 8.2 Valentino Orsini È stato scultore, critico cinematografico, scenografo teatrale e animatore di cineclub prima di approdare al cinema, nel 1954, con i fratelli Paolo e Vittorio Taviani per la realizzazione del documentario San Miniato: luglio 1944. Dopo varie produzioni come assistente regista di Joris Ivens (nel film tv L'Italia non è un paese povero) e ancora dei fratelli Taviani in documentari e lungometraggi, dirige il suo primo film a soggetto, I dannati della terra, nel 1969. La sua produzione nel settore dei lungometraggi è assai povera, avendo invece realizzato molto di più nel settore del cortometraggio documentaristico, ma appare considerevole il suo ruolo nel rinnovamento del cinema italiano negli anni '60 e '70. Gli argomenti trattati (le lotte contadine in Sicilia, il divorzio, i paesi sottosviluppati) e il deciso impegno politico e sociale con cui illustrava i temi sono stati obiettivo di aggressioni e minacce da parte di gruppi di attivisti di destra, fino a ridurre il suo impegno negli ultimi anni della sua vita che trascorse insegnando regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. 8.3 Valerio Zurlini Terminati gli studi liceali, Zurlini prima partecipa alla liberazione e poi, nel dopoguerra, si laurea in giurisprudenza ma segue anche corsi di storia dell'arte. Dopo una breve esperienza di teatro universitario va a Milano dove lavora come aiuto regista al Piccolo Teatro. Tra il ‘49 e il ‘52 realizza alcuni corti che vengono apprezzati da Pietro Germi che lo segnala alla Lux Film che nel ’52 gli affida la direzione di un lungometraggio. Si tratta dell'adattamento del romanzo di Vasco Pratolini Le ragazze di San Frediano (1954). Riceve consensi sia di critica che di pubblico ma passano altri cinque anni prima che escano altri suoi film (prodotti dalla Titanus), Estate violenta (1959), una storia d'amore tra uno studente e una donna matura ambientata a Riccione negli anni della seconda guerra mondiale, e La ragazza con la valigia (1961), una delle migliori interpretazioni di Claudia Cardinale, che lo segnalano al pubblico come regista attento all'analisi interiore dei personaggi e ai critici per la sua poetica narrativa.

“Zurlini da subito si dimostra capace di far parlare gli sguardi e i volti dei suoi personaggi, di riempire i silenzi di emozioni, di giocare sul non detto, sull’integrità di sentimenti minimi, di atmosfere sospese, di giocare in modo magistrale sulle corde intimistiche” (In Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2 dal 1945 ai nostri giorni, Editori Laterza, terza edizione 2008). Nel 1962 è la volta di Cronaca familiare, presentato alla Mostra di Venezia e tratto da Pratolini, con il quale vince il Leone d'oro exaequo con L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij. È un film che si impone all’attenzione per la sua raffinata bellezza figurativa. Successivamente dirige Le soldatesse (ambientato in Grecia nel 1942) e Seduto alla sua destra, film filo terzomondisti contestati dalla critica e pressochè ignorati dal pubblico. Nel ‘72, ottiene un grande successo di pubblico con La prima notte di quiete, interpretato da Alain Delon, Lea Massari e Giancarlo Giannini, anche questo contestato dalla critica. Nel ‘76, infine, cura la trasposizione cinematografica de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati (1976) in cui si può ammirare ancora il suo linguaggio tra il narrativo e il figurativo. 8.4 Vittorio De Seta Vittorio De Seta nasce a Palermo nel 1923 e, dopo aver studiato architettura, negli anni cinquanta realizza alcuni documentari ambientati in Sicilia e in Sardegna, descrivendo con incisività le amare condizioni di vita del proletariato meridionale (pescatori siciliani, minatori di Caltanissetta, le feste sacre di Pasqua in Sicilia). Isole di fuoco, ambientato nelle isole Eolie, vince il primo premio per il documentario al festival di Cannes. Nel ‘61 debutta al cinema con Banditi a Orgosolo, il cui linguaggio essenziale è arricchito di intensa emotività, in omaggio al neorealismo. Il film vince il premio Opera prima al festival di Venezia. Nel 1966 realizza Un uomo a metà, in cui si avventura, in un’Italia culturalmente immatura, sul tema della malattia mentale per fare un'analisi psicanalitica della crisi di un intellettuale nei confronti del suo impegno sociale. Il film viene rifiutato dal pubblico e dalla critica.

8.5 Lina Wertmüller Lina Wertmüller nasce a Roma da padre lucano e madre romana ma discendente da una nobile famiglia svizzera. A diciassette anni si iscrive all'Accademia Teatrale diretta da Pietro Sharoff, poi collabora con celebri registi teatrali e lavora per la radio e per la televisione per la quale, in veste di autrice e di regista cura la prima edizione della trasmissione Canzonissima e de Il giornalino di Gian Burrasca, serie televisiva-musical. Assistente alla regia e attrice di Federico Fellini nelle pellicole La dolce vita (1960) e 8 e ½ di due anni più tardi, nel 1963 esordisce con I basilischi, amara e grottesca rivisitazione de I vitelloni ambientata in Puglia, che le fece conquistare la Vela d'argento al Festival di Locarno. Inizia la carrellata dei suoi successi internazionali con Mimì metallurgico ferito nell'onore del 1972, cui seguono Film d'amore e d'anarchia, ovvero stamattina alle 10 in Via dei Fiori nella nota casa di tolleranza del 1973, Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto del 1974, Pasqualino Settebellezze del 1975, La fine del mondo nel nostro solito letto in una notte piena di pioggia e Fatto di sangue fra due uomini per causa di una vedova... si sospettano moventi politici, entrambi del 1978, tutti film in cui vengono ritratti gli stereotipi della galleria dei profili caratteriali italiani, ancorchè caricati dalla recitazione di Giancarlo Giannini. Nel 1992 dirige Io speriamo che me la cavo con Paolo Villaggio, mentre nel 1996 torna alla satira politica con Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica, con Tullio Solenghi e Veronica Pivetti. Dopo la ricostruzione storica (la cui ambientazione viene curata dal marito Enrico Job, morto il 4 marzo del 2008) di Ferdinando e Carolina (1999), la Wertmüller dirige il film Peperoni ripieni e pesci in faccia (2004), con Sofia Loren, che ottiene un contributo record di 3 milioni e 718 mila euro (7 miliardi e 200 milioni di lire) per incassare 6 mila e 567 euro lordi al botteghino, causa anche una uscita clandestina, senza promozione e in meno di 20 copie (Da un articolo di Emilio Matarrese su L’Espresso di fine gennaio 2007). 8.6 Luigi Magni Luigi Magni è considerato il re dei cantori popolareschi della romanità. Inizia la sua carriera come sceneggiatore e soggettista in collaborazione con Age & Scarpelli; nel ‘56 lavora con i più importanti registi italiani (Mario

Monicelli, Luciano Salce, Mauro Bolognini) e nel ’68 dirige la commedia Faustina. Il successo arriva con Nell'anno del Signore (1969), una commedia ambientata nella Roma papalina e risorgimentale, tra la farsa e il dramma, conditi dal linguaggio squisitamente "romano". Seguono La Tosca (1973), In nome del Papa Re (1977), con il quale vince il David di Donatello per la migliore sceneggiatura, Secondo Ponzio Pilato (1987), 'O Re (1988), In nome del popolo sovrano (1991), Nemici d'infanzia (1995), col quale vince il secondo David di Donatello per la sceneggiatura, e La Carbonara (1999). Luigi Magni adotta l'anticlericalismo per parlarci del potere in generale, come forma di dominio dell'uomo sull'uomo. Dopo il film per la TV La notte di Pasquino (2003), Luigi Magni non ha più diretto film. Nel 2008 riceve il David di Donatello alla carriera per celebrare i suoi 80 anni e i 40 di attività registica. 8.7 Salvatore Samperi Nato a Padova nel 1944, si iscrive all'Università giusto per partecipare al Movimento Studentesco del ‘68. Da questa esperienza Samperi prende la sua carica anti-borghese che contraddistingue le sue prime prove cinematografiche. Ammiratore di Marco Bellocchio, realizza Grazie zia (1968), con minimo budget finanziario. Il terreno su cui corre la pellicola è quello limitrofo alla filmografia di Marco Bellocchio, con la satira violenta contro la società democristiana, mischiata però all’amore morboso e impossibile tra zia e nipote. Quest’ultimo tema diventa quello principale nel successivo filone erotico. In Cuore di mamma (1969) e Uccidete il vitello grasso e arrostitelo (1970) la critica di Samperi nei confronti della famiglia borghese, di cui egli descrive il disfacimento, si rifa alle sue esperienze contestatrici sessantottine ma i due film non hanno successo di pubblico. Abbandona i temi della contestazione e sconfina nel terreno del comicogrottesco con Un'anguilla da 300 milioni (1971) e Beati i ricchi (1972), entrambi con Lino Toffolo. Anche per questi due film, però, il risultato economico risulta debole. Il successo del grande pubblico lo vede con Malizia (1973), un film ambientato in Sicilia negli anni cinquanta, in cui tratta dell'ascesa in ambienti altolocati di una cameriera che approfitta dei turbamenti erotici che provoca ai suoi interlocutori. La pellicola consacrò Laura Antonelli come sex symbol del cinema degli anni Settanta. Un anno

dopo, Samperi batté sullo stesso tasto con Peccato veniale che vede ancora Laura Antonelli diventare oggetto di desiderio di un adolescente. Nel 1976 realizza due film, Scandalo, che è la storia di una donna che diventa schiava d'amore, e Sturmtruppen, tornando sul terreno del comico-grottesco. Carica che si perde nel suo seguito, Sturmtruppen 2 - Tutti al fronte (1982). Resta ancora nella zona d’ombra con Nené (1977), tratto da un romanzo di Cesare Lanza, ed Ernesto (1979), su un'iniziazione amorosa omosessuale, tratto da un'opera di Umberto Saba. Nello stesso anno (1979) realizza Liquirizia, tornando sul terreno della rabbia studentesca pre-1968 e riacquistando la sua migliore forma e la fiducia del pubblico. Negli anni Ottanta ripercorre la sua zona d’ombra e il suo linguaggio filmico decade irrimediabilmente con Fotografando Patrizia (1984), Genet in finta pelle di La Bonne (1986) e Malizia 2000 (1991), due insuccessi che decretano il suo abbandono del cinema cui torna una quindicina di anni dopo con fiction di successo come Madame (2004), Il sangue e la rosa (2008) e L'onore e il rispetto (nelle due serie del 2006 e del 2009). 8.8 Tinto Brass Giovanni Brass detto Tinto nasce a Milano il 26 marzo 1933 da una severa famiglia. Si trasferisce giovanissimo a Venezia e si laurea in giurisprudenza a Padova nel 1957. Appassionato di cinema, alla fine degli anni Cinquanta trascorre un biennio alla "Cinémathèque" di Parigi, avvicinandosi agli ambienti della Nouvelle Vague. Assistente di Roberto Rossellini e Joris Ivens, esordisce alla regia con In capo al mondo (1963), anarchico apologo sul disagio giovanile. Salutato con grande simpatia nell’opera d’esordio, questa insofferenza verso il potere e le sue istituzioni non viene apprezzata dalla censura che vorrebbe il rifacimento completo della pellicola. Brass cambierà solo il titolo (Chi lavora è perduto), esplicitando maggiormente il suo messaggio politico e sociale. Produce quindi una bellissima ballata comico-grottesca, Il disco volante (1964), e i più commerciali La mia signora con Alberto Sordi (1964), un film episodi del quale ne firma due accanto a Luigi Comencini e al suo estimatore Mauro Bolognini; Yankee (1966), uno spaghetti-western. Dopo Col cuore in gola (1967), L'urlo (1968), Nerosubianco (1969), Dropout (1970) e La vacanza (1971), la chiave storico-erotica prende il sopravvento in Salon

Kitty (1975), film con atmosfere che ricordano Luchino Visconti e Liliana Cavani, e Io, Caligola (1980). Con Action (1979) sviluppa una autobiografica riflessione sul rapporto che lega arte e pornografia, dando poi il via a film d’autore a metà strada tra l’erotismo e la pornografia, filone battezzato soft-porno e che caratterizzerà la sua futura filmografia con La chiave (tratto dal romanzo dello scrittore giapponese Tanizaki Jun'ichirō), Miranda (1985), rivisitazione de La Locandiera di Goldoni, Capriccio (1987), Paprika (1991), senza mai nascondere il proprio divertimento. Dopo Così fan tutte (1992), Brass realizza L'uomo che guarda (1994), liberamente tratto da un romanzo di Alberto Moravia, l'autobiografico Fermo posta Tinto Brass (1995), Monella (1998), Tra(sgre)dire (2000) e Senso '45 (2002), rilettura in chiave erotica ambientata a Venezia nel 1945 di Senso, il racconto di Camillo Boito dal quale Luchino Visconti aveva tratto nel 1954 l'omonimo film, Fallo! (2003), film a episodi, mentre il successivo Monamour (2005) esce direttamente in DVD. 8.9 Nelo Risi Nelo Risi (Milano, 21 aprile 1920) si laurea in medicina come il fratello Dino ma si dedica alla poesia a partire dal 1941, anno in cui pubblica la sua prima raccolta, Le opere e i giorni; negli anni '50 affianca a tale attività quella di regista con il film Andremo in città. Realizza otto film, oltre a un telefilm e a diversi documentari, cortometraggi e inchieste televisive. Dopo due cortometraggi antifascisti, Il delitto Matteotti (1956) e I fratelli Rosselli (1959) realizza film di rigoroso impegno civile, Andremo in città (1966), in cui affronta il tema della deportazione nei campi di sterminio in toni favolistici, Diario di una schizofrenica (1968), il suo film più apprezzato, Ondata di calore (1970), Una stagione all'inferno (1971), biografia di Rimbaud, La colonna infame (1973) da Manzoni, Un amore di donna (1988). Ondata di calore narra di un week-end in Africa della moglie di un ingegnere. Nell'atmosfera calda e opprimente la donna tenta il suicidio e lentamente si scopre che ha ucciso il marito che aveva preferito un giovane africano a lei. Il regista non tiene in considerazione i fatti ma racconta, con grande capacità lirica, le inquietudini mentali e le atmosfere claustrofobiche. Il film è tratto da un romanzo di Dana Moseley e mantiene il rigore geometrico della scrittura.

8.10 Sergio Citti Nato a Roma nel 1933 vi muore nel 2005 legando il suo nome a Pier Paolo Pasolini. Consulente di Pasolini per i romanzi d'ambiente e linguaggio romanesco, è stato suo collaboratore lungo tutto il percorso dei film realizzati ma già aveva al suo attivo la collaborazione con Bolognini e Franco Rossi. Come regista esordisce col suggestivo Ostia (1971) rivelando spiccata personalità di cui si ha conferma in Storie scellerate (1973), Casotto (1977), Due pezzi di pane (1979) e Il minestrone (1981). Ostia “è la rivelazione di un talento di cantafavole e la dimostrazione di come – a pari titoli della pittura di Ligabue e Ghizzardi – anche il cinema possa avere i suoi registi naïfs, delle borgate romane, e i suoi gradi zero della scrittura” (Da Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, volume 2 Dal 1945 ai giorni nostri, Editori Laterza, 2004). Torna dietro la macchina da presa con Mortacci (1989), film a episodi ambientato in un cimitero. Ripropone un vecchio progetto pasoliniano con I magi randagi (1996), caratterizzato da una comicità grottesca e surreale. Nel 2001 realizza Vipera. Sempre nel 2001 partecipa al documentario Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno di Laura Betti e nel 2005 realizza il suo ultimo lavoro Fratella e sorello. 8.11 Franco Brusati Brusati nasce a Milano nel 1922 e, dopo aver studiato tra Italia, Svizzera e Inghilterra, si laurea in Legge e diventa collaboratore dell'Europeo occupandosi tra l'altro di arti dello spettacolo. Alla fine degli anni 40 si trasferisce a Roma, dove fa da aiuto regista a Roberto Rossellini e Renato Castellani e scrive sceneggiature per Mario Monicelli, Carlo Lizzani, Francesco Rosi e Luciano Emmer di cui diventa anche collaboratore per Sotto il sole di Roma (1947). Nel 1956 dirige il suo primo film Il padrone sono me, tratto da un racconto di Alfredo Panzini, ottenendo un certo successo. Di Franco Brusati qui ricordiamo Pane e cioccolata che tratta il tema dell’emigrazione con estrema durezza e grottesco sarcasmo. Il protagonista del film lavora in Svizzera come cameriere in prova con un contratto a termine ma viene denunciato quando è sorpreso a orinare all'aperto e, perdendo il permesso di soggiorno, è costretto da quel momento

a vivere clandestinamente. Conosce un industriale italiano rifugiato in Svizzera per problemi fiscali che lo assume ma, sull'orlo del fallimento, gli carpisce i pochi risparmi e si suicida. L’emigrato si unisce allora a un gruppo di clandestini napoletani che dormono in un pollaio con le stesse galline che devono uccidere e spennare per sopravvivere. Estasiato dalla visione di un gruppo di giovani svizzeri, biondi e puliti, decide di tingersi i capelli e di uscire dall'abbrutimento confondendosi con loro ma, in un bar in cui trasmettono una partita di calcio alla TV, non riesce a frenare la propria tifoseria ed è fermato dalla polizia, che gli ordina di lasciare il paese. Monta sul treno, ma una volta in mezzo ai connazionali ha un ripensamento e scende alla prima stazione: meglio vivere da immigrato che tornare a casa in miseria. Il film ebbe ottima accoglienza sia di pubblico che di critica. 8.12 Gianfranco Mingozzi Di Gianfranco Mingozzi ricordiamo molti cortometraggi che rappresentano dei veri e propri gioielli del panorama cinematografico italiano. Dei suoi lungometraggi lo strano film Flavia la monaca musulmana che si svolge nel XV secolo a Otranto, allorquando i saraceni assediano ed entrano nella città. Film che si inserisce nell’ambito di un affresco sulla liberazione della donna e di un vivace anticlericalismo. Il critico Brunetta, ordinario di Storia e critica del cinema all’Università di Padova, scrive di Mingozzi: “Mingozzi, come Avati, ci aiuta a percorrere svariati decenni della storia nazionale dal fascismo fino agli anni del terrorismo e sa guardare alla storia attraverso lo sguardo dei suoi giovani protagonisti. (…) In anni di crisi e di oscure previsioni per il futuro è importante (…) sentire (…) battere il cuore bambino di autori come Mingozzi o Avati, o sceneggiatori come Tonino Guerra che sanno guardare al futuro con la curiosità, gli entusiasmi, gli orizzonti di attese degli esordienti” ( Da Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, volume 2 Dal 1945 ai giorni nostri, Editori Laterza, 2004). 8.13 Liliana Cavani. Nasce nel ’33 da famiglia di operai ma è attratta dal cinema fin da giovane. Nei primi anni sessanta dirige alcuni documentari (Storia del III Reich del 1963 e La donna nella Resistenza del 1965) nei quali già si

denota il suo personale stile nato da letture alte. Nel ’66 dirige il suo primo film, Francesco d'Assisi, girato in bianco e nero in formato 16mm con la consulenza storica di Boris Ulianich. È stato il primo telefilm della Rai. Il Francesco della Cavani (personaggio sul quale tornerà nel ’91) è una sorta di rivoluzionario che prepara il suo rinnovamento attraverso una fratellanza anche con gli animali con cui parla. Nel ’69 realizza Galileo e nel ‘70 I cannibali (quest’ultimo ispirato all’Antigone di Sofocle) che riscuotono un buon successo di pubblico e di critica. Nel 1972 dirige L'ospite e l'anno successivo Milarepa che impone il suo nome a livello internazionale chiudendo definitivamente ogni riferimento con il cinema tardo-neorealista delle sue prime opere e affrontando temi e linguaggi altalenanti tra l’allegoria e la metafora. Nel 1974 realizza Il portiere di notte con un cast internazionale, il suo lavoro migliore. Nel 1977 firma la regia di Al di là del bene e del male e, nel 1981, quella de La pelle che ottiene un’ottima recensione critica. Oltre la porta è del 1982; poi, la critica inizia a prendere le distanze dall’autrice quando comincia a trattare con spregiudicatezza e trasgressione le perversioni sessuali di Interno berlinese. Neppure Francesco (con il quale vince nel 1991 il Premio Internazionale Ascoli Piceno) appare convincente. Il gioco di Ripley del 2004 la ripropone all’attenzione della critica. Galileo è “imperniato sul tema del dialogo e del conflitto (tra uomo di cultura e autorità; tra il credente e la Chiesa o, meglio, gli uomini che la rappresentano; tra la Curia e la chiesa conciliare), nonostante le rigidità didattiche e le secche illustrative, il film brucia quasi completamente gli schemi convenzionali del cinema biografico e trasforma la ricostruzione del passato in azione presente. È, insieme, la tragedia di un uomo in anticipo sui tempi e la storia di una ingenuità” (Morandini in MyMovies). I cannibali è un film di fantascienza in cui le strade di una città piene di cadaveri di ribelli che non devono essere rimossi (così stabilisce il regime totalitario al potere perché quei corpi rappresentano monito per l’opposizione) sono il diktat da abbattere. Una ragazza che vorrebbe seppellire il corpo di suo fratello trova aiuto in uno straniero ma viene arrestata insieme a lui e torturata e alla fine tutt’e due vengono uccisi dalla polizia quando tentano la fuga, diventando un simbolo per la nuova generazione. Milarepa è liberamente tratto dal libro Milarepa, grande yogi del Tibet, scritto dal suo discepolo Rechus (XII sec.). È la storia di uno studente che si identifica in un giovane contadino del Nepal vissuto nell'XI

secolo. Liliana Cavani volge lo sguardo alla spiritualità orientale, spingendosi nel regno dell'immaginario. Il film piacque molto a Pier Paolo Pasolini che scrisse di una perfetta Geometria in cui si sintetizza e cristallizza un'esperienza visiva vissuta nella realtà (Citato da Morandini in MyMovies). Il portiere di notte è un film controverso che tratta la storia dell’incontro, dopo tredici anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di una sopravvissuta al campo di concentramento e del suo aguzzino, che sotto falsa identità lavora come portiere di notte in un albergo di Vienna, e danno vita a una relazione sadomasochistica. Il film utilizza il paesaggio decadente di Vienna e la fotografia desaturata evoca memorie dell'Olocausto. È un film tormentato che mostra la continuità politica tra gli ex-nazisti e i politici loro successori nell'Europa liberata. Il critico cinematografico Roger Ebert scrisse che Il portiere di notte “è un'opera cosí tanto sgradevole quanto lubrica, un desecrabile intento di titillare un'area oscura della nostra mente, servendosi delle memorie di persecuzione e sofferenza" (Citata in Wikipedia). Interno berlinese si svolge a Berlino nel 1938. È la storia di una donna, moglie di un funzionario del Ministero degli Esteri, che incontra per caso l'affascinante figlia dell'ambasciatore nipponico. Nasce una storia passionale che coinvolge il marito. La donna conduce il gioco erotico sullo sfondo dell’intricata situazione politica della Germania nazista. Il gioco di Ripley è tratto dal romanzo omonimo di Patricia Highsmith. Il Morandini, nell’apprezzarne la prima parte, critica la «programmatica rozzezza» del personaggio di Reeves e afferma che la seconda parte sfiora «il ridicolo involontario». 8.14 Mauro Bolognini Nasce nel ’22 a Pistoia e inizia la sua esperienza tardo-neorealista girando Gli innamorati nel 1955 e Giovani mariti nel 1957. L'incontro con Pasolini matura la sua arte. Sono di questo periodo La notte brava (1959), Il bell'Antonio (1960) e La giornata balorda (1960). I suoi lavori sono in massima parte delle trasposizioni di opere letterarie, mai calligrafiche anche se per il regista il gioco della luce e delle armonie cromatiche che con essa si creano hanno un ruolo fondamentale nel linguaggio filmico. Come aveva già fatto ne Il bell’Antonio (racconto che aveva strappato al tempo del fascismo per ridisporlo ai tempi nostri) così in Senilità (1962), Agostino,

(1962) e Bubù (1971), Per le antiche scale (1975), L'eredità Ferramonti (1976). Ottimo equilibrio narrativo viene raggiunto con Metello (1971), dal romanzo di Vasco Pratolini, forse la sua opera migliore che racconta di un giovane che lavora, come muratore, nel cantiere di un ex-operaio diventato ingegnere e perfettamente adeguato alle regole di sfruttamento del lavoro. Abbandonato l'anarchismo paterno per la coscienza e l'unità di classe, partecipa a uno sciopero durante il quale intreccia una relazione con una borghese vicina di casa. Per impedire che alcuni operai rientrino in cantiere, Metello si scontra con i gendarmi, chiamati a difendere i "crumiri" e un altro muratore muore nello scontro mentre giunge la notizia che i lavoratori hanno vinto la battaglia sindacale. Come in Pasolini aveva un ruolo importante la pittura, così anche in Bolognini diventa paesaggio filmico ciò che è ritratto con lo stile dei macchiaioli. 8.15 Leonardo Pieraccioni Nasce a Firenze nel 1965. È attore, regista e scrittore con una spiccata comicità tipicamente toscana. Giovanissimo forma un trio comico con gli amici Giorgio Panariello e Carlo Conti col quale ultimo conduce in una rete televisiva locale un varietà. Nel 1991 Alessandro Benvenuti lo vuole nel suo film Zitti e mosca, che rappresenta la sua prima esperienza cinematografica. Esordisce nella regia con I laureati, campione d'incassi nel 1995. In seguito dirige Il ciclone (1996) e Fuochi d'artificio (1997), ambedue di comicità garbata e coinvolgente. Poi ancora Il pesce innamorato (1999), Il principe e il pirata (2001) e Il paradiso all'improvviso (2003). Nel 2005 dirige Ti amo in tutte le lingue del mondo e nel 2007 Una moglie bellissima. I laureati racconta di quattro universitari trentenni fuori corso, che vivono assieme in un appartamento di Firenze e che, lungi dal dedicarsi agli studi, hanno momenti di divertimento goliardico e altri di profonda malinconia ma nessuna voglia di crescere. Il ciclone racconta di un giovane ragioniere della provincia toscana che abita con il padre, il fratello e la sorella lesbica, in un casolare sulle colline, dove dove per una strana coincidenza arriva un pullman con un gruppo di ballerine di flamenco, portando in casa scalpore e novità. Il giovane ragioniere si innamora perdutamente di una delle ballerine con la quale inizia una nuova vita in Spagna. Fuochi d'artificio narra di un giovane che

racconta la sua storia a uno psicanalista incontrato per caso nella spiaggia di una località esotica, dove entrambi si trovano in vacanza. Lo psicanalista alla fine scopre che il giovane è scappato con la sua vicina di casa aprendo un bar in quella località balneare. Ne Il principe e il pirata un maestro separato viene a sapere di avere un fratello segreto nato 35 anni prima da una relazione extraconiugale del padre con una bidella. I due fratelli si incontrano per vendere l'eredità del padre e intraprendono un lungo viaggio in auto partendo da Palermo dove il maestro va a prendere il fratello che esce da galera. Pur ottenendo il successo del grosso pubblico, Pieraccioni appare prigioniero della sua stessa popolarità, costruendo racconti l'uno sulla falsariga dell’altro, pur nella loro individuale diversità. Deve però riconoscersi il merito di aver portato sul grande schermo – insieme a Nuti, Benigni e Panariello – un nuovo stile comico, tipicamente toscano lineare e semplice, senza fantasiosi arabeschi letterari, che colpisce in modo diretto lo spettatore e lo affascina proprio per il suo linguaggio semplice e diretto. ***** 9. Cinema altro - Autori oltre i confini temporali Il sogno marxiano di educare il pubblico alle nuove forme artistiche e ai contenuti corali propri della resistenza s’è già spento. Resta alta la voce dell’artista che grida il suo disagio cercando almeno di far comprendere la nuova situazione e i rischi che si corrono a percorrere la strada in cui si è indirizzata la nuova Italia, una strada tracciata dai politici e dalle loro sovvenzioni, avvalendosi di industriali ignoranti e volgari, semianalfabeti e spesso ridicoli ma capaci di garantire quegli equilibri che era stato deciso di mantenere. In quegli anni e in quelli successivi alcuni registi partendo dal neorealismo creeranno una cinematografia nuova, agendo con arte sul linguaggio filmico e colmandolo con alta letteratura o poetica raffigurazione, producendo un genere sostanzialmente diverso. Sembra quasi di stare in bilico tra passato e futuro, laddove il passato è rappresentato dall’illusione che sia ancora possibile realizzare quello per cui si era battuta la Resistenza e che era invece già andato disperso e il futuro è

rappresentato da un nuovo mondo di sogni che, spesso, produce forte aggressività. “Per tutti gli anni sessanta e buona parte del decennio successivo il cinema italiano vede molti suoi protagonisti oscillare pendolarmente tra la consapevolezza della fine di ogni speranza e il permanere di tante fiammelle diffuse che continuano ad alimentare l’utopia rivoluzionaria” (Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, vol. 2, dal 1945 ai giorni nostri, Editori Laterza, Bari, 2008). Così Pasolini che, con Accattone e Mamma Roma, pare imboccare nuovamente la strada del neorealismo, prosegue poi su un percorso diverso creando uno stile personale che trasforma il populismo dei suoi primi lavori in anelito religioso o in favola medioevale o in moderna metafora, caricando però i temi sempre più di aggressività contro la borghesia, via via che in lui si fa strada la consapevolezza che l’Italia sta vivendo solo un processo di adeguamento al disfacimento e che i nuovi burattinai della storia si vanno consolidando sempre più. E, ancora, Francesco Rosi con i suoi originalissimi film di contestazione socio-politica che lo porteranno ai film-inchiesta (Il caso Mattei e Lucky Luciano, ambedue degli anni settanta). Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Luchino Visconti si rifuggiano in una poetica onirica che rappresenta un coraggioso atto d’accusa ancorché possa apparire - a un primo sommario sguardo - come il ricucire l’universo all’interno di una griglia di valori intimistici. Così davvero non è. La loro è la memoria storica che guarda al futuro attraverso le proprie radici culturali che esplodono sullo schermo sotto forma di ricordi del passato sapientemente filtrati in un mondo metaforico che rappresenta la realtà attuale. La stessa strada è percorsa dal cinema dei nuovi autori che emergono in quegli anni e che battono i sentieri tracciati dagli altri artisti, spesso dando luogo a originali sistemi narrativi e a innovativi impianti stilistici che sembrano andare al di là dell’intimismo e dell’illusione ma non possono sfuggire alla cruda realtà. Non può definirsi né evoluzione né involuzione di quel cinema. Il neorealismo, infatti, era nato come rappresentazione corale dei guasti prodotti dal fascismo (sullo sfondo di un’Italia tutta coinvolta nella ricostruzione che trascinava tutta la popolazione senza distinzione di cultura

o di lingua parlata o di religione) e termina in modo naturale quando i sentimenti degli Italiani cambiano al trasformarsi della Nazione. Solo che la trasformazione politica dell’Italia non è mai realmente avvenuta ed è sempre rimasto lo spauracchio del fascismo dietro le porte guardate a vista da un’America attenta solo ai propri problemi di equilibrio internazionale e di lotta al comunismo. I governi italiani, più o meno fantocci guidati dai burattinai della grande economia internazionale (rappresentata al nostro interno dal petroliere Eugenio Cefis), maturano diversi corsi politici “sperimentali”, passando dalla repressione alla tolleranza in un’Italia in rinascita che aveva bisogno di sogni. La politica del consumismo ha accelerato un processo individualistico ed egoista della popolazione che, da quel momento, ha messo da parte i problemi comuni pensando solo agli interessi personali. È in questo nuovo scenario che deve inquadrarsi l’opera di questi artisti che è quindi descritta nel suo insieme, come una carrellata storica del processo evolutivo dell’autore. Non è un caso che, soprattutto per quanto riguarda i nuovi autori, le migliori sperimentazioni si hanno all’inizio del percorso creativo, quando le influenze esterne non sono ancora marcate. La crescita, la maturazione, l’evoluzione riguarda lo stile, la struttura narratoria, i ritmi e il linguaggio pittorico perché i temi, ancorchè trattino la politica o il sociale, devono fare i conti con budget sempre crescenti (nell’ordine di milioni di euro) che non possono non influenzare più o meno consapevolmente l’artista. Quella che segue è una carrellata sui principali esponenti di questo cinema che non vuole essere esaustiva, essendo numerosi i nomi dei nuovi emergenti (come Roberta Torre che nel 1998 esordisce con Tano da morire, ma anche Ciprì e Maresco di cui ci è piaciuto molto Il ritorno di Cagliostro con i suoi riferimenti al regista Pino Mercanti, passato nel dimenticatoio dai critici eppure autore di film altamente poetici della stagione del neorealismo, come Turi della tonnara, o ancora Francesca Archibugi con il suo L’albero delle pere e la prova d’esordio di Ligabue, Radiofreccia e Viol@ di Donatella Maiorca, Giuseppe Piccioni con Fuori dal mondo, Ferzan Ozpetek, di cui ricordiamo Il bagno turco e Le fate ignoranti, Silvio Soldini con Pane e tulipani e Agata e la tempesta del 2004). 9.1 Pier Paolo Pasolini

Parlare del cinema di Pier Paolo Pasolini non è facile, essendo per lui lo strumento cinematografico un mezzo espressivo e di comunicazione – nel senso più ampio dei due termini – non del tutto differente dalla pittura e dalla scrittura. È sicuramente da considerare uno dei maggiori artisti e intellettuali italiani del XX secolo. Dotato di grandissima versatilità culturale, si distingue in numerosi campi, lasciando contributi come poeta, romanziere, linguista, giornalista e cineasta. Ha suscitato spesso forti polemiche e accesi dibattiti per la radicalità dei suoi giudizi, assai critici nei riguardi delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi italiana, ma anche nei confronti del Sessantotto e dei suoi protagonisti. In una nota su Le notti di Cabiria (In Federico Fellini, Le notti di Cabiria, Bologna, Cappelli, 1965), Pasolini scrive: “Inutile illudersi: il neorealismo non era una rigenerazione, era soltanto una crisi vitale, magari eccessivamente ottimistica e entusiasta agli inizi. Così l’azione poetica ha precorso il pensiero, il rinnovamento delle forme ha preceduto, per vitalità, il riorganizzarsi della cultura. Ora l’improvviso sfiorire del neorealismo è la necessaria sorte di una sovrastruttura improvvisata, benché necessaria: vi si sconta la mancanza di un pensiero maturo, di una compiuta riorganizzazione della cultura”. Pasolini arriva alla regia cinematografica a trentanove anni, quando è già uno scrittore affermato, uno sceneggiatore e un critico letterario. Anche se appassionato frequentatore dei set, è privo di qualunque cognizione tecnica del cinema. Lui stesso in un’intervista (In Una discussione del ’64, AA.VV., Pier Paolo Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo, Amministrazione Provinciale di Pavia Comune di Alessandria, 1977) afferma: “Io sono arrivato al cinema in modo piuttosto irregolare: dalla letteratura, e quindi assolutamente privo di preparazione tecnica. Addirittura quando ho cominciato a girare il film, non sapevo che differenza ci fosse tra ‘panoramica’ e ‘carrellata’. Il giorno in cui ho girato la prima scena l’operatore mi disse: ‘che obiettivo mettiamo in macchina?’ e io non sapevo che cosa fossero questi obiettivi. Dunque, una totale impreparazione tecnica. Ho dovuto reinventarne una, e dal vero. E istintivamente ho scelto una tecnica sacrale, dove si vede e si legge – meglio che nei contenuti

sempre un pochino esteriori, casuali – una intima religiosità. Avevo il senso della sacralità tecnica dei movimenti della macchina, delle carrellate, delle panoramiche, della fotografia”. Per comprendere appieno il linguaggio letterario travasato sulle proprie pellicole da Pasolini, bisogna risalire alle lezioni di Storia dell’Arte di Roberto Longhi frequentate alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna alla fine degli anni ’30. “Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto, che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo)” (In un’intervista de Il Giorno del 20 maggio 1962). Arriva alla produzione del suo primo film, Accattone (1961), grazie anche all’impegno profuso nella sua collaborazione a sceneggiature, tra cui Le notti di Cabiria di Fellini e Il bell’Antonio di Bolognini, tra diversi consensi e improvvisi ripensamenti (i produttori Cervi e Iacovoni si tirano indietro dopo avergli firmato un contratto per la realizzazione del film La commare secca, lo stesso fa la neonata casa di produzione Federiz, fondata nell’estate del ’60 da Federico Fellini, che dopo aver visionato i provini girati da Pasolini, boccia il film una settimana prima dell’inizio delle riprese e, solo grazie alla mediazione dello stesso Bolognini, riesce a trovare fiducia nel produttore Alfredo Bini cui si associò anche Cino del Duca, vero finanziatore dell’operazione). Accattone è il soprannome di un ragazzo di borgata mantenuto da una prostituta che passa il suo tempo con gli amici al bar. La prostituta finisce in carcere e Accattone resta senza lavoro. Depresso e digiuno da giorni va sul posto di lavoro della moglie abbandonata per chiederle un prestito e incontra Stella di cui si innamora. Dopo aver tentato un onesto lavoro e nel terrore del giudizio degli amici del bar (che dileggiano chiunque lavori), Accattone tenta invano di far prostituire anche Stella. Si lascia coinvolgere dall’amico Barilla in piccoli furtarelli e, dopo il furto di alcuni salumi, è colto in flagrante dalla polizia. Ruba una moto e nel fuggire cade dalla motocicletta e muore, tra l’istintivo segno della croce di Barilla in manette e le note della Passione secondo San Matteo di Bach. Una morte che rappresenta il “suo pallido e confuso atto di redenzione” (Le belle bandiere - dialoghi 1960-1965, n. 26 a. XVI, 1 luglio 1961, Editori Riuniti).

“Pasolini, dunque, nel girare Accattone, metteva le mani in una ferita aperta nella pseudo-coscienza borghese, quella dell’esistenza di due Italie, una ufficiale, l’Italia da esportazione, onesta, né povera né ricca ma allegra e sincera, quella oleografica dell’antica nobiltà e dei mangiatori di maccheroni, e un’Italia miserrima, in cui tutto, dalla lingua ai codici morali, era fermo a un passato mai risolto di carognesca vitalità senza scampo, in cui neppure un debole riflesso della prima poteva filtrare attraverso il duro codice pre-borghese della sopravvivenza, della vita alla giornata” (in Pier Paolo Pasolini di Serafino Murri, editrice Il Castoro srl, distribuito come supplemento a L’Unità del 3/5/95). Confortato da un sostanziale apprezzamento della critica, Alfredo Bini produce con la Arco Film anche il secondo film di Pasolini, Mamma Roma (1962). Con questo film, Pasolini compie per la prima volta (sarà così poi in tutti i film futuri) un esperimento di commistione tra la recitazione di attori professionisti (in questo film Anna Magnani esprime una profondissima drammaticità) e quella dei ragazzi di strada. Durante un grottesco banchetto di nozze del suo protettore, Mamma Roma, prostituta romana, matura il suo proposito di cambiare vita, in quanto libera da ogni legame di possesso. Ha un figlio, ignaro della professione della madre, per il quale sembra disposta a tutto. Inizia a gestire un banco di verdura in un mercato di piazza, trasferendosi in un piccolo appartamento di periferia, dove sogna un lavoro rispettabile per il figlio, magari come cameriere ai tavoli in una trattoria di Trastevere, come riscatto della condizione di sottoproletario. Improvvisamente però si ripresenta il protettore e obbliga Mamma Roma a tornare a prostituirsi, mettendo così al corrente il figlio della vera professione della madre. Questi, per reazione, comincia a compiere piccoli furtarelli con gli amici di borgata. Arrestato per un furto a un ricoverato d'ospedale, muore senza cure legato al lettuccio del reparto neurologico del carcere. Pasolini rivela in questo film il suo gusto per l'immagine: la sequenza di Ettore legato al letto è chiaramente ispirata al Cristo morto di Andrea Mantegna. Mamma Roma fa emergere con estrema crudezza la falsità dell’idea della possibile integrazione sociale del sottoproletariato così com’è alimentata dagli stessi ideali borghesi. La ricotta è il terzo film di Pier Paolo Pasolini, un medio metraggio di circa trenta minuti facente parte di un film a episodi dal nome RoGoPaG

(dalle iniziali dei registi Rossellini, che curò l’episodio Illibatezza, Godard con l’episodio Il nuovo mondo, Pasolini con La ricotta e Gregoretti, regista dell’episodio Il pollo ruspante). Un sottoproletario affamato, Stracci interpreta la parte del ladrone buono in un film sulla Passione di Cristo che un regista, marxista ortodosso (impersonato da Orson Welles), sta girando su un prato della periferia romana. La scena è affollata dalla troupe e dalle comparse che ballano un twist scatenato sullo sfondo della rappresentazione sacra. Stracci dona alla sua numerosa famiglia che lo va a trovare sul set il proprio cestino del pranzo, che diviene quasi una eucaristia, poi, approfittando della confusione del momento di pausa, si traveste da donna e riesce a rimediare un nuovo cestino dalla produzione. Si accinge a mangiarlo ma dal set giunge l'ordine di presentarsi in scena, e Stracci è costretto ad abbandonare il suo cestino dietro un sasso. Quando torna, trova il suo pranzo divorato dal cagnolino della prima attrice. Nel frattempo sul set giunge la visita inattesa di un giornalista che avvicina il regista per un'intervista. Il regista risponde alle sue domande con pungente ironia intellettuale e, con cinismo, gli spiega perché, secondo la sua ottica "marxista", lui semplicemente "non esiste". Il giornalista, andando via dal set incontra Stracci che accarezza il cane della prima attrice. Quest’ultimo, notato l'interessamento del giornalista per il cane, glielo vende per mille lire e si precipita a comprare una ricotta. Ma proprio mentre sta per cominciare il pasto, il "ladrone buono" è richiamato sul set dal megafono. Così, Stracci, lasciata la ricotta nella sua grotta, viene legato sulla croce, e nell'attesa che sia pronto il set, assiste a un improvvisato strip-tease di un’attrice vestita da santa. Quando tutto è pronto, la prima attrice pretende di girare subito la sua scena, e la scenografia viene di nuovo smontata, per lasciare spazio a una scena che riproduce la Deposizione del Pontormo. Finalmente Stracci può tornare nella grotta a divorare la sua ricotta. Sul set arriva il produttore per assistere alle riprese della scena della crocefissione, nella quale Stracci deve pronunciare la battuta: "Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me". Al grido di azione del regista, però, Stracci è morto d’indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: "Povero Stracci. Crepare... non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo...". Il film all'epoca fu giudicato blasfemo per quella sorta di parodia della Passione. Nell'opera, realizzata in bianco e nero, campeggiano a colori le rappresentazioni delle due Deposizioni del Cristo di Rosso Fiorentino e

Pontormo. Pasolini in un certo senso ripropone il neorealismo, in modo volutamente manieristico facendo calare la realtà nella fantasia, con citazioni di ogni tipo che si leggono come metafore, da quelle filosofiche (Il Capitale di Karl Marx) alle più dotte letterarie (Donna de Paradiso di Jacopone da Todi) a quelle musicali (l'aria Sempre libera degg'io dalla Traviata di Verdi, suonata da una banda stonata), alle cinematografiche (Federico Fellini, Orson Welles stesso) e poi ancora autocitazioni (Mamma Roma). La censura intervenne anche su questo film, costringendo Pasolini a modificarne alcune parti, come la didascalia iniziale e la frase finale, pronunciata da Orson Welles, che in originale suonava “crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione”. "Dobbiamo premettere che un solo giudizio si attagli a quest'episodio: geniale! Non vogliamo dire con questo che sia perfetto o che sia bellissimo; ma vi si riscontrano i caratteri della genialità, ossia una certa qualità di vitalità al tempo stesso sorprendente e profonda. L'episodio di Pasolini ha la complessità, nervosità, ricchezza di toni e varietà di livelli delle sue poesie; si potrebbe anzi definire un piccolo poema di immagini cinematografiche. Da notarsi l'uso nuovo e attraente del colore e del bianco nero. Orson Welles, nella parte del regista straniero che si lascia intervistare, ha creato con maestria un personaggio indimenticabile" (da L’Espresso del 3 marzo 1963). Angela Molteni (in Pagine Corsare, Il Cinema di Pier Paolo Pasolini) ricorda tra i richiami filmici inseriti nell’opera le sequenze accelerate (sia nelle immagini sia nella musica) che ricordano il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini. È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il regista parla dei sottoproletari, lasciando comparire anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e dei suoi assistenti. La pellicola fu sequestrata con l'imputazione di ‘vilipendio alla religione di Stato’. Ne seguì un processo nel quale, tra l'altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò il film come il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio. Soltanto nel maggio 1964 la Corte d'appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché il fatto non costituisce reato. Pasolini aveva sferrato un attacco frontale nei confronti della borghesia il cui senso è contenuto nelle risposte fornite dal regista (Orson Welles) al giornalista durante l’intervista:

"Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?" "Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo." "Che cosa ne pensa della società italiana?" "Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d'Europa." "Che cosa ne pensa della morte?" "Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione." Poi legge una poesia di Pasolini, tenendo tra le mani il libro Mamma Roma e dice al giornalista: "Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio." Angela Molteni, nel sito Pagine Corsare, dedicato al cinema di Pasolini ricorda un breve scritto dell’autore del 1961: "Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di ‘imitatio Christi’, quell'irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l'esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene" (Citazioni tratte da Pasolini: Cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano). Nello stesso sito, Massimiliano Valente ricorda che Alfredo Bini, il produttore del film, deponendo al processo per vilipendio contro la religione dello Stato, intentato dal P.M. Di Gennaro contro Pier Paolo Pasolini, disse: "Il film è composto di quattro episodi. Il filo conduttore è costituito dai diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il condizionamento dell'uomo nel

mondo moderno. Il primo regista, Rossellini, si occupava del condizionamento dell'uomo nei suoi rapporti con la donna; il secondo, Gregoretti, si occupava del condizionamento relativo alla tecnologia; Godard prevedeva in un prossimo futuro piccolissimi fattori di degenarazione che avrebbero portato alla fine del mondo senza scosse; Pasolini si occupava della maggior parte degli uomini non ancora in tale stato di condizionamento". Dirà Pasolini di questo film: "L'intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica, incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei, che vengono letti nell'azione del film [...]. Le musiche tendono a creare un'atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti dalla volgarità del mondo circostante. [...] Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell'uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all'atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno". Dopo questo film, Pasolini realizza il montaggio documentaristico di vecchi cinegiornali per il produttore Gastone Ferranti, commentati da sue poesie (scritte ad hoc) recitate da Giorgio Bassani e da Renato Guttuso. Il produttore, ritenendo troppo ideologico il filmato, propone di montare di seguito una seconda parte vista da un’ottica conservatrice. Il secondo pezzo fu affidato alla regia di Giovannino Guareschi. Dopo la visione della nuova parte montata, Pasolini giudicò il film non soltanto qualunquista o conservatore, ma peggio e voleva ritirare la sua firma, cosa che non potè fare per un vincolo contrattuale. Così, nell’aprile del ’63 uscì il documentario La rabbia. Dopo la realizzazione di un film-inchiesta sperimentale sulla sessualità (Comizi d’amore, 1963), prodotto nel 1963, Pasolini si dedica al nuovo film che aveva già preparato, del quale aveva dovuto però ritardare l’inizio per le

difficoltà finanziarie seguite al processo per La ricotta. È Il Vangelo secondo Matteo (1964). Riproposizione fedele al Vangelo di Matteo della vita di Gesù Cristo, dall'annunciazione a Maria della nascita del figlio di Dio, al matrimonio con Giuseppe e la fuga in Egitto per sfuggire a Erode e alla strage degli innocenti. Divenuto adulto Gesù affronta le prove nel deserto, e dopo quaranta giorni di tentazioni, prosegue per la Palestina, in compagnia degli Apostoli a predicare il suo verbo, compiendo miracoli. Processato da Ponzio Pilato, viene condannato alla crocifissione e la resurrezione conclude la sua vita terrena. Il film è girato ricostruendo la Palestina in Basilicata e la Galilea in Lucania, Calabria, Puglia e Lazio con un cast di attori rigorosamente non professionisti. La parte di Gesù Cristo è affidata a una persona che si trova per caso sul set del film il giorno prima dell'inzio delle riprese; la sua voce è affidata al doppiaggio di Enrico Maria Salerno. Nel cast del film sono presenti anche Enzo Siciliano, nella parte di Simone e Natalia Ginzuburg nella parte di Maria di Betania. Molti gli amici del regista che partecipano alle riprese come Alfonso Gatto, Ninetto Davoli e l’anziana madre Susanna che qui interpreta la Madonna anziana. Pasolini si è riferito rigorosamente alla versione di Matteo ma in alcuni punti del film è possibile intravedere alcuni riferimenti all'attualità, come i soldati di Erode vestiti da fascisti e i soldati romani vestiti da celerini. Sono comunque dei piccoli riferimenti che, in una visione unitaria del film, non distolgono lo spettatore dal racconto della vita del Cristo. Pasolini, parlando del Vangelo dice: "Avrei potuto demistificare la reale situazione storica, i rapporti fra Pilato e Erode, avrei potuto demistificare la figura di Cristo mitizzata dal Romanticismo, dal cattolicesimo e dalla Controriforma, demistificare tutto, ma poi, come avrei potuto demistificare il problema della morte? Il problema che non posso demistificare è quel tanto di profondamente irrazionale, e quindi in qualche modo religioso, che è nel mistero del mondo. Quello non è demistificabile". Vi è un solo momento della lunga sequenza della crocefissione e della morte in cui il racconto non è affidato all’indivisibile binomio "immaginimusica", cioè quello in cui Cristo pronuncia queste ultime parole: ‘Voi udrete con le orecchie ma non intenderete e vedrete con gli occhi ma non comprenderete, poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e

hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e non sentire con le orecchie’. Emerge nel suo Vangelo la figura umana più che divina di Cristo che reagisce con rabbia all'ipocrisia e alla falsità. È un Cristo sorretto da una forte volontà di redenzione per le vittime della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei sepolcri imbiancati, che l'hanno adottata con ipocrisia e iniquità quale strumento di repressione politica e sociale. È un Cristo che non è venuto a ‘portare la pace ma la spada’, perché sia possibile accedere al regno di Dio con cuore puro ‘come quello dei bambini’. È, infine, un Cristo rivoluzionario. Nel corso di un dibattito tenutosi negli ultimi mesi del 1964, Pasolini dichiarò: "[...] Nel particolare momento storico in cui Cristo operava, dire alla gente 'porgi al nemico l'altra guancia' era una cosa di un anticonformismo da far rabbrividire, uno scandalo insostenibile: e infatti l'hanno crocifisso. Non vedo come in questo senso Cristo non debba essere accepito come Rivoluzionario [...]". Quando fu presentato, nel 1964, il film fu apprezzato (e premiato) dalla critica cattolica e contestato dalla sinistra. A coloro che lo avversavano Pasolini rispose: "[...] io ho potuto fare il Vangelo così come l'ho fatto proprio perché non sono cattolico, nel senso restrittivo e condizionante della parola: non ho cioè verso il Vangelo né le inibizioni di un cattolico praticante (inibizioni come scrupolo, come terrore della mancanza di rispetto), né le inibizioni di un cattolico inconscio (che teme il cattolicesimo come una ricaduta nella condizione conformistica e borghese da lui superata attraverso il marxismo)". Il film vince il gran prix 1964 dell'Office Catholique international du cinema. La critica di sinistra risponde freddamente all'uscita del Vangelo. L'Unità si esprime in questi termini: "...il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto". La critica del tempo non sa comunque cogliere il senso del film e, come spesso accade, coglie l'occasione solo per polemizzare su e contro Pasolini. Non è un film storico come le colossali produzioni americane erano solite fare. Il film non vuole essere una ricerca illustrativa ma dare il senso

della poesia che c'è nel Vangelo. "La mia idea è questa: seguire punto per punto il Vangelo secondo Matteo, senza farne una sceneggiatura o riduzione. Tradurlo fedelmente in immagini, seguendone senza una omissione o un'aggiunta il racconto. Anche i dialoghi dovrebbero essere rigorosamente quelli di San Matteo, senza nemmeno una frase di spiegazione o di raccordo: perché nessuna immagine o nessuna parola inserita potrà mai essere all'altezza poetica del testo. È quest'altezza poetica che così ansiosamente mi ispira. Ed è un'opera di poesia che io voglio fare. Non un'opera religiosa nel senso corrente del termine, né un'opera in qualche modo ideologica. In parole molto semplici e povere: io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l'umanità sia così alta, rigorosa, ideale da andare al di là dei comuni termini dell'umanità. Per questo dico 'poesia': strumento irrazionale per esprimere questo mio sentimento irrazionale per Cristo" (Pier Paolo Pasolini, Sette poesie e due lettere, a cura di Rienzo Colla, La Locusta, 1985). Il Vangelo è anche il risultato di una crisi personale e, più in generale, di tutta la cultura italiana. Dice Pasolini: "... Tutto il razionalismo ideologico elaborato negli anni cinquanta, non solo in me ma in tutta la letteratura, è in crisi, le avanguardie, il silenzio di molti scrittori, le incertezze ideologiche di scrittori come Cassola o Bassani, c'è aria di crisi dappertutto e evidentemente c'era anche in me. In me ha assunto questa specie di regressione a certi temi religiosi che erano stati costanti, però, in tutta la mia produzione. Non mi sembra ci si debba meravigliare davanti al Vangelo quando leggendo tutto quello che ho prodotto una tendenza al Vangelo era sempre implicata, fin dalla mia prima poesia del '42. [...] Quindi un tema lontanissimo nella mia vita che ho ripreso, e l'ho ripreso in un momento di regressione irrazionalistica in cui quello che avevo fatto fino a quel punto non m'accontentava, mi sembrava in crisi e mi sono attaccato a questo fatto concreto di fare il Vangelo" (Pier Paolo Pasolini, Quaderni di Filmcritica, con Pier Paolo Pasolini, Bulzoni editore 1977). Uccellacci e Uccellini (1965) è il quarto film di Pasolini.

Il film è stato anticipatamente sottoposto al giudizio diretto dei lettori del settimanale Vie nuove, sul quale il regista teneva una rubrica di lettere con i lettori, attraverso la pubblicazione di tre soggetti dai quali si dice intenzionato di ricavare il suo prossimo film Uccellacci e uccellini. Tutti e tre i soggetti hanno come denominatore comune il confronto dell’umanità con la specie volatile. Si trattava di una metafora sull’intellettuale che ha nei propri valori il parametro di riferimento cui sottoporre qualsiasi ragionamento difforme che cerca di addomesticare e adattare ai predetti parametri. Un solo soggetto fece sviluppare il dibattito con i lettori che, però, lo criticarono – sia da destra che da sinistra – accusandolo di disfattismo e di capzioso pessimismo. L’esperimento di confronto con il pubblico si risolse quindi nell’ennesima incomprensione. Padre e figlio vanno in giro per periferie e campagne intorno a Roma. Durante il cammino incontrano un corvo. Durante il film una didascalia precisa: "Per chi avesse dei dubbi o si fosse distratto, ricordiamo che il Corvo è un intellettuale di sinistra - diciamo così - di prima della morte di Palmiro Togliatti". Il Corvo racconta di tali Ciccillo e Ninetto, monaci francescani a cui San Francesco ordina di evangelizzare i falchi ed i passeri. I due frati però riescono a evangelizzare le due classi di uccelli ma non a porre fine alla loro rivalità. Questa circostanza è considerata da San Francesco una mancanza e, rimproverati, sono invitati a intraprendere nuovamente il cammino di evangelizzazione. Finito il racconto, i due proseguono il viaggio, sempre seguiti dal Corvo che continua a parlare con linguaggio intellettuale, un po’ come il grillo parlante di Pinocchio. Durante il percorso si incontrano altri personaggi, alcuni proprietari terrieri che ordinano di allontanarsi dalle loro proprietà e arrivano a sparare contro i due, una famiglia, che vive in condizioni assai degradate, a cui al contrario sono i due che intimano di abbandonare la casa, un gruppo di attori su una Cadillac, i partecipanti al ‘1° convegno dei dentisti dantisti’, un uomo d'affari creditore di Totò. I due poi si trovano ai funerali di Togliatti e infine incontrano una prostituta. Alla fine del film, i due, stanchi delle chiacchiere del Corvo, lo uccidono e se lo mangiano. Pasolini di fatto si dichiara qui pessimista sulla possibilità di comunicare la cultura attraverso l’evidenza dei fatti e dei sentimenti (è il Corvo che parla per lui, dichiarando finiti i tempi di Rossellini e di Brecht) e mette in scena il proprio fallimento.

“Non ho mai messo al mondo un film così disarmato, fragile e delicato come Uccellacci e uccellini. Non solo non assomiglia ai miei film precedenti, ma non assomiglia a nessun altro film. Non parlo della sua originalità, sarebbe stupidamente presuntuoso, ma della sua formula, che è quella della favola col suo senso nascosto. Il surrealismo del mio film ha poco a che fare col surrealismo storico; è fondamentalmente il surrealismo delle favole [...]. Questo film che voleva essere concepito ed eseguito con leggerezza, sotto il segno dell'Aria del Perdono del ‘Flauto Magico’, è dovuto in realtà a uno stato d'animo profondamente malinconico, per cui non potevo credere al comico della realtà (a una comicità sostantivale, oggettiva). L'atroce amarezza dell'ideologia sottostante al film (la fine di un periodo della nostra storia, lo scadimento di un mandato) ha finito forse col prevalere. Mai ho scelto per tema di un film un soggetto così difficile: la crisi del marxismo della Resistenza e degli anni Cinquanta, poeticamente situata prima della morte di Togliatti, subita e vissuta, dall'interno, da un marxista, che non è tuttavia disposto a credere che il marxismo sia finito (il buon corvo dice: "Io non piango sulla fine delle mie idee, perché verrà di sicuro qualcun altro a prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti! È su me stesso che piango..."). Ho scritto la sceneggiatura tenendo presente un corvo marxista, ma non del tutto ancora liberato dal corvo anarchico, indipendente, dolce e veritiero. A questo punto, il corvo è diventato autobiografico, una specie di metafora irregolare dell'autore. Totò e Ninetto rappresentano invece gli italiani innocenti che sono intorno a noi, che non sono coinvolti nella storia, che stanno acquisendo il primo jota di coscienza: questo quando incontrano il marxismo nelle sembianze del corvo. La presenza di Totò e Ninetto in questo film è il frutto di una scelta precisa motivata da un'altrettanto precisa posizione nell'ambito del rapporto tra personaggio e attore. Ho sempre sostenuto che amo fare film con attori non professionisti, cioè con facce, personaggi, caratteri che sono nella realtà, che prendo e adopero nei miei film. Non scelgo mai un attore per la sua bravura di attore, cioè non lo scelgo mai perché finga di essere qualcos'altro da quello che egli è, ma lo scelgo proprio per quello che è: e quindi ho scelto Totò per quello che è. Volevo un personaggio estremamente umano, cioè che avesse quel fondo napoletano e bonario, e così immediatamente comprensibile, che ha Totò. E nello stesso tempo volevo che questo essere umano così medio, così ‘brava persona’, avesse anche qualcosa di assurdo,

di surreale, cioè di clownesco, e mi sembra che Totò sintetizzi felicemente questi elementi” (Pier Paolo Pasolini, Capolavori italiani, L'Arca società editrice de "l'Unità", maggio 1995). Ecco dunque nascere un film che visceralmente parla della crisi del marxismo della Resistenza e di tutto quello che con esso era nato, compreso il neorealismo. La morte del corvo potrebbe dunque sembrare una metafora dell’estinzione del racconto ‘corale’ in favore di altri più individuali, intimistici. È un discorso profetico anticipato da Pasolini già dalla presentazione del corvo: ‘I miei genitori sono il signor Dubbio e la signora Coscienza, mia moglie è la signora Cultura, vengo da un paese chiamato Ideologia’. È il film di svolta di Pasolini e per questo sceglie un linguaggio metaforico che si presta a differenti livelli di lettura senza darne una chiave di codificazione che è invece lasciata allo spettatore, a coerenza della riduttività di qualsiasi sua ideologizzazione. La terra vista dalla luna (1966) è un episodio del film Le streghe (gli altri sono La Siciliana di Rosi, Senso civico di Bolognini, La strega bruciata viva di Visconti, Una serata come le altre di De Sica). Sembrerebbe quasi una continuazione del viaggio dei due protagonisti di Uccellacci e Uccellini, questo episodio girato aderendo alla proposta di Dino De Laurentiis intorno al tema unico della figura della donna strega. In breve, la vicenda narrata in La terra vista dalla luna è la ricerca della donna ideale per una famiglia composta da padre e figlio, dopo la morte della prima moglie del padre. Dopo vari tentativi, viene scoperta Assurdina, una bellissima sordomuta, che lui sposerà e che si rivelerà una perfetta donna di casa. Ma i due pensano di acquistare una nuova casa per Assurdina e, per reperire i soldi necessari, convincono Assurdina a fingere una minaccia di suicidio, salendo in cima al Colosseo. I due organizzano una colletta tra la folla, impietosendola con il racconto delle sventure di povertà della moglie. Assurdina, però, scivola su una buccia di banana e muore cadendo. Nuovamente al cimitero, per seppellire anche quest'altra moglie/madre, i due si disperano ma, al loro ritorno a casa, trovano il fantasma di Assurdina che li aspetta. Superato il terrore iniziale, convinti dai gesti di quella che spiega che lei è in tutto e per tutto come era da viva, buona moglie madre e

casalinga, ritornano felici. Appare in didascalia la morale: "Essere vivi o essere morti è la stessa cosa". Essere morti o essere vivi è la stessa cosa. Un'idea "che l'autore ci dice essere tratta dalla filosofia indiana, [e che] non è, come parte delle critica militante fu portata a scrivere, 'rinunciataria o nichilistica', poiché non c'è nessun accenno di pessimistico consenso con quella affermazione: semmai, con fin troppa ironia, vi si ritrova un malcelato invito a non accettare la logica imperante, ad essere lunari quel tanto che basta per prendere le distanze dai tentacoli mostruosi del nonsenso sociale e dei suoi schematismi da marionette (Serafino Murri, in Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-l'Unità 1995). Che cosa sono le nuvole (1967) è un episodio del film Capricci all’italiana (gli altri sono Il mostro della domenica di Steno, Perché di Bolognini, Viaggio di lavoro di Pino Zac, La bambinaia di Monicelli e La gelosa di Bolognini). È una rivisitazione di Otello, recitato da alcune marionette, finché il pubblico non irrompe nella scena facendo a pezzi Otello e Jago. Lo spazzino getta le marionette in una discarica, dalla quale i due possono ammirare le nuvole. Il film vuole essere una riflessione sul senso dell'esistenza umana e sui rapporti tra la vita e la morte. Edipo re (1967) è il quinto film di Pasolini. La critica ha definito l'Edipo re un dramma a tesi nel quale il fato si abbatte sugli uomini e gli dei puniscono il peccatore. Edipo è un uomo con tutte le sue contraddizioni. Sofocle, come d’abitudine, accentra il dramma su un unico personaggio e ciò viene amplificato in quest'opera, mostrando tutti gli aspetti dell'uomo che in altre opere, come nell'Antigone e nell'Aiace, appare solo per un aspetto (la fede religiosa nel primo e la morale nel secondo). Sofocle fa scivolare Edipo al più basso grado di abiezione, per poi riabilitarlo compassionevolmente. “Questo è ciò che di Sofocle mi ha ispirato: il contrasto tra la totale innocenza e l’obbligo del sapere. Non è tanto la crudeltà della vita che determina i crimini, quanto il fatto che la gente non tenta di comprendere la storia, la vita e la realtà” (In Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castorol'Unità 1995). Il clima dello sperimentalismo cinematografico viene marcato in questo film dalla presenza di attori professionisti dell’avanguardia teatrale

contemporanea (Cermelo Bene, Julian Beck) accanto ai molti volti conosciuti (Alida Valli, Silvana Mangano, Franco Citti e Ninetto Davoli), in uno con le comparse marocchine che raffigurano il Terzo Mondo nella sua purezza e in antitesi con gli schemi della borghesia e dei suoi linguaggi. Nel 1968 Pasolini gira il suo sesto film, Teorema. “Milano, primavera del '68. Un postino dal significativo nome di Angelo (interpretato da Ninetto Davoli) porta un telegramma nella villa di un industriale, in cui si annuncia la visita imminente di un Ospite inatteso: quest'ultimo (Terence Stamp) giunge il giorno successivo. È un ragazzo senza particolari qualità, forse uno studente di ingegneria, schivo, riservato, assorto in se stesso, che rimane al di fuori degli schemi e dalle convenzioni che vigono nella famiglia, e passa la maggior parte del suo tempo a leggere l'opera omnia di Rimbaud. Questa sua angelicità, cioè la sua naturalezza ed estraneità a tutto ciò che lo circonda, attrae irrsistibilmente, a uno a uno, tutti i membri della famiglia: a cominciare dalla serva Emilia (Laura Betti), che, letteralmente folgorata dalla sua presenza, nel timore di non poterlo avere, tenta di suicidarsi, ma viene salvata e amata dall'Ospite. È poi la volta di Pietro, studente con inclinazioni artistiche, coetaneo del giovane Ospite, che prenderà coscienza della sua diversità sessuale; quindi di Lucia (Silvana Mangano) moglie e madre di famiglia perbene, fino ad allora trincerata nel cattolico principio di fedeltà coniugale; quindi è la volta di Odetta, studentessa introversa e adoratrice della famiglia e dell'autorità paterna; in ultimo, la stessa irrefrenabile smania di condivisione sessuale ghermisce il Padre (Massimo Girotti), l'uomo borghese per eccellenza, padrone dei propri mezzi di produzione (è un industriale) e pater familias. Tutti hanno rapporti sessuali con l'Ospite, che, come l'Adorabile descritto da Rimbaud per bocca dell'Ospite stesso "È venuto, se ne è andato, e forse non tornerà mai più". L'Ospite, infatti, così come era giunto, senza alcun motivo, viene richiamato da un telegramma (portato in casa sempre dallo stesso postino-angelo), e parte il giorno successivo. Tutti i membri della famiglia, ormai rivelatisi a se stessi, cercano di ovviare all'assenza del loro oggetto d'amore percorrendo fino in fondo la strada che, nella loro visione individualistica, porta verso il raggiungimento dell'Altro, Altro di cui l'Ospite era portatore. Emilia, l'unica a legare questa presenza alla sacralità (chiedendo perdono a Dio per aver fatto l'amore con l'Ospite), prende la

strada dell'ascesi: gradualmente si distacca dalla famiglia in cui lavora, torna nel borgo rurale da cui proviene, siede accanto ad un muro e si ciba solo di ortiche, aspettando il ritorno dell'Ospite, compiendo il sacrificio di sé perché si compia questo ritorno. I veri e propri membri della famiglia borghese, invece, percorrono la strada opposta, cercando il senso della propria individualità, invece di sacrificarla: Odetta si chiude in una paralisi isterica, recidendo i rapporti con il mondo, facendosi autisticamente essa stessa mondo di sé, e finisce in un manicomio; Pietro cerca la sua liberazione tramite il gesto artistico, attraverso la pittura, vivendo lo strazio e l'impotenza della gratuità sociale, della perdita del senso delle proprie azioni, nella coscienza che un artista, un creatore, è qualcuno che "non vale niente, che è un essere inferiore, un verme che si contorce e striscia per sopravvivere" ma continua a vivere e a dipingere, incolpando il mondo del "deserto" in cui si trova; Lucia, donna rigorosamente monogama fino all'arrivo dell'Ospite, percorre la strada della gratuità sessuale, del non senso delle relazioni affettive: prende a vivere una sequela di rapporti occasionali con giovani coetanei dell'Ospite, cercando di rinnovare individualmente, senza uscire da se stessa, dalle proprie forze e determinazioni, il miracolo della naturalezza sessuale che aveva vissuto; ma invano, e permeata da una tristezza profonda. A parte Emilia, dunque, tutti gli altri hanno sostituito il mondo che hanno abbandonato dopo la venuta dell'Ospite con il dilagare della propria individualità, facendosi mondo essi stessi, senza affatto rinunciare alla propria identità, ma anzi eliminando tutto il resto; solo il Padre, la cui "illuminazione" richiama, attraverso la citazione dell'autore, quella del tolstoiano Ivan Ilic, che a partire da un incidente apparentemente insignificante vive il senso della propria morte, percorre fino in fondo la strada della perdita della propria identità: sarà infatti lui a raggiungere quel deserto di cui, di tanto in tanto, nel film si vedono inquietanti immagini tra una scena e l'altra. Come un nuovo Francesco d'Assisi, nella Stazione Centrale di Milano egli si spoglia completamente nudo, si districa dalla folla-società, dopodiché lo vediamo percorrere il deserto disperatamente, senza una direzione precisa, barcollante: ha rinunciato alla sua identità, ma, come egli stesso ha detto, questa è per lui la morte civile, la nullificazione di sé. A lui si contrappone, con un montaggio alternato, la vicenda di Emilia: essa percorre fino in fondo la strada della perdita di sé, ma non avendo un'identità borghese da salvaguardare il suo gesto sfocia nella

donazione totale di se stessa: dopo un'estasi che l'ha portata a sollevarsi sui tetti delle case, liberata dalla costrizione del sé, Emilia fa dono delle sue lacrime: si fa sotterrare viva, e rimette alla terra, rimbaudianamente intesa come carne e fonte della vita, le sue lacrime di amore e sofferenza, avendo rinunciato finanche all'idea del ritorno dell'Ospite: è diventata lei stessa l'Ospite, ne ha incarnato il distacco dal mondo delle concretezze. Accompagnato dalle note del Requiem mozartiano, Paolo (il Padre) vaga nel deserto, e, messosi di fronte alla propria nudità, si scioglie in un urlo di impotenza, un urlo fermo, l'urlo della consapevolezza di non essere, l'urlo del nulla” (Serafino Murri, in Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-l'Unità 1995). Presentato alla Mostra di Venezia nel 1968, Teorema fu ferocemente criticato sia da parte della sinistra (film reazionario), sia dalla destra (disgustoso modo di affrontare il tema della sessualità). Né la destra né la sinistra compresero che l’autore voleva rappresentare la irrimediabile perdita di identità della borghesia. "Lo sforzo espressivo di Pasolini è tutt’altro che irrazionalista, tutt’altro che reazionario o mistico", scrive il critico Serafino Murri. "Infatti, va a toccare le basi concettuali di una cultura che del proprio mezzo, la ragione illuministica, aveva fatto la gabbia in cui imbalsamare definitivamente, con tutto il carico di ingiustizia presente, la società nei suoi schemi irremovibili, nei suoi antagonismi tutti interni ad essa." “L’Ospite che giunge nella villa della famiglia borghese, e che determina in ciascuno dei componenti di quella famiglia una crisi profonda, una totale perdita di identità, appunto, non ha qualità sovrumane, tanto meno rappresenta un’allegoria divina come qualche commentatore ha voluto intravvedere. È semplicemente il suo essere "Altro" rispetto alla logica borghese su cui si fonda il teorema dell’autoperpetuazione della borghesia stessa, che conduce alla perdita di identità tutti i membri della suddetta famiglia, e all’irrecuperabile "deserto" che ne consegue. Secondo lo stesso Pasolini, è proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia (o la totale assenza di ideologia) della società borghese capitalistica che consiste l’unica possibilità di una rivoluzione. Pasolini stesso presentò Teorema sulla rivista francese Quinzaine littéraireン dicendo del suo film tra l'altro: Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza

non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi” (Angela Molteni, in Pagine Corsare, Il cinema di Pier Paolo Pasolini). Tra la fine del ’68 e l’inizio del ’69 è prodotto Porcile, uno dei suoi più grandi capolavori, soprattutto per le innovazioni linguistiche utilizzate. Il film tratta due episodi paralleli. Sulle note naturali di un’eruzione vulcanica, vengono lette due massime sulla disubbidienza, mentre sui titoli di testa si vede un grande porcile, scene che si alternano con quelle di una landa deserta girata sull’Etna, dove un giovane vestito con abiti antichi si ciba di farfalle e di serpenti. Parallelamente un altro giovane si aggira nella villa neoclassica della ricca famiglia tedesca, nei dintorni di Colonia. Il giovane sull’Etna indossa armi rinvenute accanto a soldati morti mentre il giovane tedesco è amato senza ricambiare da una diciassettenne. La ragazza cerca nell'impegno politico il senso della sua vita, mentre il ragazzo, si rende conto del suo conformismo. Vive in un suo mondo, in perenne fuga dal reale, celando una perversa passione zoofila che lo domina facendolo eccitare solo accoppiandosi con i maiali che razzolano nelle tenute del padre e che questi, con cinismo, identifica nella sua classe. La ragazza tenta di spronare il giovane a partecipare alle manifestazioni di protesta sotto il muro di Berlino ma questi rifiuta. I genitori si interrogano sull'ambigua condotta del figlio, nella convinzione che "i tempi di Grosz e di Brecht non sono affatto passati" ma la Germania di Bonn "non è mica la Germania di Hitler". Sull’Etna, il giovane affronta e uccide un soldato, gettando poi la testa in un cratere fumante del vulcano e mangiandone la carne. In Germania, il ragazzo tedesco si è chiuso in uno stato di catalessi, con lo sguardo fisso nel vuoto, insensibile all’ambiente circostante mentre il padre suona l'arpa, pensando (lo leggiamo in nuove didascalie) al suo concorrente che insidia il suo primato produttivo. Sul vulcano, il giovane cannibale ha trovato un seguace che lo aiuta a fare strage degli uomini che passano di lì e a rapirne e stuprarne le donne. A Godesberg arriva il servitore del padre del ragazzo che ha scoperto che il pericoloso concorrente è un suo vecchio

compagno di studi, criminale nazista che raccoglieva crani bolscevichi ebrei per le ricerche scientifiche dell'università di Strasburgo. Sull’Etna i cannibali rapiscono e uccidono una donna, poi la mangiano, sotto gli occhi increduli del marito che è riuscito a nascondersi. Nella tenuta tedesca viene annunciata la visita del concorrente del padre, mentre in un paese cinquecentesco il marito della donna sbranata rivela l'orribile misfatto. Il vulcano si riempie di soldati armati, mentre un uomo e una donna nudi vengono piazzati nella piana. I cannibali, diventati numerosi, osservano la situazione con diffidenza. A Godesberg i due concorrenti conversano, scrutandosi diffidenti e brindando ipocritamente. Mentre il padre del ragazzo tedesco pensa di avere gli elementi per ricattare il suo concorrente, quest’ultimo rivela di conoscere il vizio del giovane tedesco; il padre capisce di dover scendere a patti con il suo rivale. Sul vulcano la situazione si evolve: il giovane cannibale, a gesti, ordina l'attacco ai suoi seguaci, ma i soldati lo catturano. A Godesberg il giovane tedesco sembra rinato dalla nascita del nuovo colosso industriale nato dalla fusione dei due stabilimenti dei due antagonisti. In una fortezza cinquecentesca si svolge il giudizio della banda di cannibali, mentre una campana a morto ne scandisce il verdetto di esecuzione capitale. A Godesberg, mentre è in atto un grande ricevimento per festeggiare la fusione industriale, il giovane si allontana dalla villa e si incammina nei boschi, dove incontra un contadino che era presente al giudizio nella fortezza cinquecentesca. In scene parallele assistiamo alla costruzione dei patiboli dei cannibali e all'ingresso del giovane tedesco nel porcile. Questi scompare tra i maiali, mentre il cannibale, con le lacrime agli occhi, pronuncia per quattro volte l'unica frase di tutto l'episodio: "Ho ucciso mio padre, ho mangiato carne umana, tremo di gioia". Il contadino osserva muto l'esecuzione dei cannibali: sono legati in terra con i quattro arti a dei pali, per essere fatti sbranare vivi dai cani selvatici. A Godesberg, nel pieno dei festeggiamenti della fusione, giungono in drappello i contadini dell’industriale tedesco padre del ragazzo vestiti di nero, per annunciare la scomparsa del giovane sbranato dai maiali non al padre ma al socio, che è il più forte dei due industriali, il quale intima ai contadini di tacere per sempre sull'accaduto. Il figlio della famiglia tedesca borghese e del principale esponente della tribù cannibale esprimono ambedue insofferenza per la mancanza di libertà in una società conformista con atteggiamenti devianti (il cannibalismo e la zoofilia). La

loro diversità è solo un atteggiamento di diverso conformismo nei confronti della società che rifiutano, come un atto di ribellione guidata dalla stessa società che decide per l'uomo e divora l'uomo. Tra il ’69 e il ’70 1969 Pasolini realizza, tra la Siria e la Turchia, Medea. È ormai un regista affermato all’interno del panorama del cinema italiano e ciò gli procura dure critiche di connivenza con il potere, in quanto l'industria cinematografica è forse il più potente strumento di omologazione di massa. Nel ruolo della protagonista figura Maria Callas che gli era stata presentata dal produttore del film, Franco Rossellini. Ciò fu considerato un evento straordinario, perché la famosa cantante lirica aveva sempre rifiutato analoghe offerte che copiose regolarmente riceveva. Tra il regista e la Callas nacque una amicizia che per molto tempo fece parlare dei due. Oltre al gran numero di attori non professionisti, in Medea sono presenti il saltatore olimpico Giovanni Gentile (Giasone), Massimo Girotti (Creonte), Laurent Terzieff (il centauro) ed Elsa Morante come collaboratrice nella scelta delle musiche che alternano, come di consueto nelle opere di Pasolini, brani classici (in questo caso si tratta di musiche religiose antiche giapponesi) e canti e danze d'amore iraniani (il Terzo Mondo mai assente nelle sue opere). "Ho pensato subito a Medea sapendo che il personaggio sarebbe stato lei. Delle volte scrivo la sceneggiatura senza sapere chi sarà l'attore. In questo caso sapevo che sarebbe stata lei, e quindi ho sempre calibrato la mia sceneggiatura in funzione della Callas. Cioè, questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che viene fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata, insomma i dieci anni passati a Corinto, sarebbero un po' la vita della Callas. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi in un certo senso ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa". Così Pasolini presentò la sua nuova opera, sintetizzandone poi i contenuti in un’intervista a Jean Duflot (Jean Duflot, a cura di, Pier Paolo Pasolini. Il sogno del centauro, Roma 1983, in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989): "Ho riprodotto in Medea tutti i temi dei film precedenti. Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche

citazione. Medea è il confronto dell'universo arcaico, ieratico, clericale, con il mondo di Giasone, mondo invece razionale e pragmatico. Giasone è l'eroe attuale (la mens momentanea) che non solo ha perso il senso metafisico, ma neppure si pone ancora questioni del genere. È il tecnicoン abulico, la cui ricerca è esclusivamente intenta al successo. Confrontato all'altra civiltà, alla razza dello spirito, fa scattare una tragedia spaventosa. L'intero dramma poggia su questa reciproca contrapposizione di due culture, sull'irriducibilità reciproca di due civiltà". Alla domanda di Duflot sulla presenza nella narrazione mitica di implicazioni storiche attuali, come in Edipo re, Il Vangelo secondo Matteo o Porcile, Pasolini risponde: "Potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo Mondo, di un popolo africano, ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell'irreligiosità, nell'assenza di ogni metafisica, Giasone vedeva nel centauro un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passava il tempo, il centauro è divenuto ragionatore e saggio, ed è finito col divenire un uomo uguale a Giasone. Alla fine, i due centauri si sovrappongono, ma non per questo si aboliscono. Il superamento è un'illusione. Nulla si perde". Tra il 1970 e il 1974 Pasolini realizza la cosiddetta ‘trilogia della vita’ composta da Il decameron, (’70-’71), I racconti di Canterbury (’71-’72) e Il fiore delle Mille e una notte (’73-’74). Con questi film, Pasolini si propone di esaltare i valori della corporeità e della vitalità sessuale. "Decameron è un'opera che vuole essere completamente gioiosa, in maniera astratta. La gioia di vivere che c'era nel Boccaccio (anche nei racconti tragici) proviene dall'ottimismo del Boccaccio. L'ottimismo del Boccaccio era un ottimismo storico. Cioè, nel momento in cui lui viveva, esplodeva quella meravigliosa e grandiosa novità, che era la rivoluzione borghese: cioè nasceva la borghesia. E, in quel momento, intorno al Boccaccio, la borghesia aveva la grandezza, che avrebbe raggiunto solo in certi momenti, e in certi stadi, e in certe, diciamo così, aree marginali della sua storia. Quindi il Boccaccio ha vissuto in questi momenti di esplosione, di nascita, di inizio e di principio di una nuova era. E questo ottimismo suo, che è razionale e logico (perché la ragione è il segno della borghesia), fa sì

che l'opera del Boccaccio sia una grande opera gioiosa. Evidentemente, per me tutto questo non avviene. Io ho ritagliato un Boccaccio mio, particolare. Il mio Boccaccio è infinitamente più popolare del Boccaccio reale. Il Boccaccio reale è popolare in un senso molto più vasto di questa parola: la borghesia veniva lecitamente compresa nel popolare allora (le istituzioni erano ancora feudali, erano ancora aristocratiche. Il potere era ancora un potere, o metafisico nel Papa, o insomma era comunque un potere sacro). Dunque, la borghesia, in qualche modo, era estremamente più vicina al popolo. Quindi ho ritrovato quella gioia (che nel Boccaccio è giustificata ottimisticamente dal fatto che lui viveva la nascita meravigliosa della borghesia) e l'ho, diciamo così, sostituita con quella innocente gioia popolare, in un mondo che è ai limiti della storia, e in un certo senso fuori della storia" (intervista di Pier Paolo Pasolini a Marco Olivetti su Sipario, giugno-luglio 1975). “Il film riprende nove racconti di Giovanni Boccaccio, il grande poeta e narratore del Trecento, tra cui due episodi-guida, quello di ser Ciappelletto (interpretato da Franco Citti: personaggio libertino e immorale oltre che assassino, che in punto di morte si fa passare per santo) e quello dell'allievo di Giotto, che è interpretato dallo stesso Pasolini: in chiave autobiografica il regista-attore sottolinea il rapporto tra la vita, il sogno e l'arte (al termine del film, Pasolini-allievo di Giotto festeggerà con i suoi lavoranti l'impresa compiuta, poi, guardando l'affresco dirà: "Perché realizzare un'opera, quando è così bello sognarla soltanto?"). Un "intermezzo", per così dire, è rappresentato dal sogno allucinato, compiuto dall'allievo di Giotto (Pasolini) e riprodotto nelle immagini cinematografiche a somiglianza di pitture trecentesche. Temi del sogno sono il paradiso (con una bellissima Silvana Mangano che impersona la Madonna) e l'inferno: le rappresentazioni dei "quadri" sono molto suggestive. Nei dialoghi è utilizzato il dialetto napoletano” (S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-l'Unità 1995). Sulla sessualità e sul linguaggio di Pasolini si riporta ancora quanto scritto dal critico Serafino Murri (id.): "Quanto alla sessualità, la pietra dello scandalo per i ben pensanti 'tradizionali' dell'epoca, la naturale delicatezza con cui questa gente rozza vive la dimensione corporale, l'adulterio, il raggiro, il puro appetito sessuale, vista oggi, con gli occhi di un fine secolo in cui non si sa se sia più oscena la sessualizzazione della

merce o l'antica (ormai industriale) mercificazione del sesso, fa sorridere della sobria essenzialità di Pasolini, il cui tormentoso rapporto con il sesso non valica neppure per un istante la dimensione personale, per il quale le immagini non diventano mai mania elucubratoria di un gusto della diversità alla quale siamo abituati da tanti più o meno dichiarati suoi epigoni di oggi. La ridda di denunce (oltre ottanta) ricevute in tutte le città d'Italia, con l'accusa di pornografia (in un periodo in cui peraltro comincia a prosperare il mercato del film a luci rosse), tra un sequestro e l'altro, non impediscono al film di diventare un vero e proprio successo commerciale e di vedersi attribuire l'Orso d'argento al Festival di Berlino del 1971. Il linciaggio morale nei confronti del regista assume toni macchiettistici, a tal punto da risultare, ormai, difficilmente credibile. L'unica cosa che non viene perdonata al regista, da parte della 'sua' sinistra (mentre i neofascisti lo accusano, nei loro volantini, di essere un sostenitore dell'eversione 'rossa'), è, dichiaratamente, l' 'aver perso il senso della realtà come di una realtà impegnativa e di una realtà che avanza, e che quindi bisogna aiutare nel suo avanzare' ". Il commento musicale del film è stato elaborato dallo stesso Pasolini con la collaborazione di Ennio Morricone, mentre gli attori anche in Decameron sono in gran parte non professionisti. Ne I racconti di Canterbury il riferimento è alle novelle di Geoffrey Chaucer. "I racconti di Canterbury sono stati scritti quarant'anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi, solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d'altra parte era più moderno, poiché in Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già una contraddizione: da un lato l'aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del Medioevo, dall'altro l'ironia e l'autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva coscienza". I temi di Canterbury, come in Decameron, sono il sesso, l’amore e la morte: riguardo a quest’ultimo tema, si ricorda come in tutti gli episodi venga rappresentato un funerale o un assassinio o una condanna a morte o un moribondo.

Per la raffigurazione della gente comune, come di consueto, Pasolini utilizza attori non professionisti. La musica, curata da Ennio Morricone, propone temi di canzoni popolari inglesi, medievali e rinascimentali ma viene ripetuta anche la famosa canzone napoletana Fenestra 'ca lucive e mo’ nun luce, già utilizzata in Decameron, che parla della morte improvvisa di una giovane donna come richiamo al tema della morte che già Pasolini pensava dovesse costituire la sua successiva trilogia. In questo film Pasolini tratta con crudezza la violenza e l’immoralità del potere e della ricchezza, mettendo in risalto con un trucco pesante e volgare la ripugnanza dei personaggi che la rappresentano. Il film raccoglie più di una denuncia per pornografia e oscenità. In un convegno tenutosi a Bologna in quel periodo sul tema dell’erotismo e dell’eversioneン, Pasolini fece un lungo intervento, nel quale tra l'altro disse: "Perché io sono giunto all'esasperata libertà di rappresentazione di gesti e atti sessuali, fino, appunto, come dicevo, alla rappresentazione in dettaglio e in primo piano, del sesso? Ho una spiegazione che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo - e proprio per ragioni stilistiche - non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancor più sintetico, il sesso. I rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico borghese e benpensante. Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che

l'ideologia c'era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire". Si occupò delle denuncie di oscenità il Procuratore di Milano Caizzi che archiviò il caso senza procedere penalmente contro Pasolini, definendo il film un’opera d’arte. È l’avvento dell’epoca della tolleranza che si succede a quella della repressione. Non è la cancellazione del marchio di diversità che da sempre è affibbiato a Pasolini, bensì una nuova tipologia di condanna: la falsa tolleranza fa sì che i conservatori si possano fregiare di modernità e i progressisti pensino che la loro forza sia aumentata al punto da costringere i borghesi a pubblicare i loro attacchi. È la nuova strategia del potere. Annullare la dialettica e ridurre l’intervento politico a un fatto di costume, omologando le élites a completamento dell’assorbimento della classe proletaria. Dacia Maraini, che collaborò alla sceneggiatura del film, disse di Pasolini: "Non si può immaginare fino a che punto fosse dolce Pier Paolo e quanta la sua capacità di complicità, i suoi silenzi, perché era un uomo estremamente silenzioso, che parlava molto poco, poteva stare delle ore senza dire una parola, però la sua presenza era sempre lì, non mancava mai agli amici, la sua compagnia durante i viaggi (noi abbiamo fatto moltissimi viaggi insieme, in Africa, per esempio), avevamo molte cose che ci accomunavano: per esempio, la curiosità sociale, l'interesse e il desiderio di conoscere meglio e di frequentare il mondo di chi è impedito o comunque di chi è privo degli strumenti della cultura e di chi addirittura è menomato da questo punto di vista". Pasolini, con Il fiore delle Mille e una notte, realizza un cinema pregno di linguaggio poetico nelle immaginiン, con il richiamo potente alla sessualità e ai paesaggi, visti con senso pittorico sensibilissimo. Il doppiaggio è affidato a dialetti del Sud Italia ben appropriati ai personaggi del luogo, scelti come sempre dalla stradaン; Le musiche sono ancora curate da Ennio Morricone. "Ogni racconto delle Mille e una notte comincia con una apparizioneン del destino, che si manifesta attraverso un'anomalia. Ora, non c'è un'anomalia che non ne produca un'altra. E così nasce una catena di anomalie. Più tale catena è logica, serrata, essenziale, più il racconto delle Mille e una notte è bello (cioè vitale, esaltante). La catena delle anomalie tende sempre a ritornare alla normalità. La fine di ogni racconto delle Mille

e una notte consiste in una disparizioneン del destino, che si insacca nella felice sonnolenza della vita quotidiana. Ciò che mi ha ispirato dunque nel film è vedere il Destino alacremente all'opera, intento a sfasare la realtà: non verso il surrealismo e la magia (di ciò si hanno rare e essenziali tracce nel mio film), ma verso l'irragionevolezza rivelatrice della vita, che solo se esaminata come sognoン o visioneン appare come significativa. Ho fatto perciò un film realistico, pieno di polvere e di facce povere. Ma ho fatto anche un film visionario, in cui i personaggi sono rapitiン e costretti a un'ansia conoscitiva involontaria, il cui oggetto sono gli avvenimenti che gli accadono" (in Nico Naldini, Pasolini, una vita, Einaudi, Torino 1989). Nel 1971 Pasolini accetta di curare la regia di un film-inchiesta autoprodotto dal gruppo della sinistra extraparlamentare Lotta Continua, che prenderà il titolo di 12 dicembre. Il film partiva dall’analisi della strage di Piazza Fontana a Milano con l’esplosione di una bomba all’interno della filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura, dietro cui si nascondeva uno Stato parallelo fatto dai neofascisti italiani, l’estrema destra spagnola, i colonnelli greci e i servizi segreti deviati italiani. Nell’occasione Pasolini aveva registrato una lunga intervista con un anarchico livornese che aveva partecipato a un attentato all’ultimo re italiano e richiamava fortemente gli episodi di Valpreda e di Pinelli. Mentre il film era ancora in lavorazione, Pasolini dovette partire per l’Inghilterra per gli impegni già assunti per la realizzazione del Canterbury e lasciò la regia a Maurizio Ponzi, suo allievo e molto attento come lui alla lirica del linguaggio ma solo all’inizio della sua carriera cinematografica e, quindi, più permeabile alle non condivise richieste del produttore. Montato da Pasolini nel 1972, solo quando finì il Canterbury, il documentario fu presentato al XXII Festival di Berlino insieme al terzo film della sua trilogia della vita. Né Pasolini né Ponzi ne firmarono la regia. Rappresenta un tributo di Pasolini “alla polemica globale nei confronti della società portata avanti dai gruppi giovanili dell’estrema sinistra, e coglie nella loro tensione politica i fermenti sinceri di un processo di rivoluzione della società rivolto contro il totalitarismo della democrazia formale. Ma 12 dicembre non è un atto di abiura dalla critica rivolta per tempo al gauchismo degli studenti del movimento. In esso si situa, con

sguardo di padre, di colui che ha perso il treno per la rivoluzione, la speranza (la stessa alimentata dal corvo di Uccellacci e uccellini) che la propria utopia possa essere un giorno realizzata dai figli (S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-l'Unità 1995)”. Il critico Murri ricorda così come Pasolini parlava di questo film: “Allora un uomo deluso, che ormai sente interesse reale più per gli individui e per il cosmo che per i problemi di una società e per la lotta di classe, cosa può fare se la mèta da conquistare è per lui già perduta? Radicalizzare (…) le sue contraddizioni, facendo della sua ambiguità due vite”. Nel 1975 gira il suo ultimo film, il dodicesimo, Salò o le centoventi giornate di Sodoma. “Il film segue la falsariga del romanzo del Marchese de Sade, attraverso la ripetizione infinita del numero magico 4. Quattro "Signori", rappresentanti di tutti i Poteri, il Duca (quello nobiliare), il Monsignore (quello ecclesiastico), Sua Eccellenza il Presidente della corte d'Appello (quello giudiziario) e il Presidente Durcet (quello economico), si riuniscono in una villa assieme a quattro Megere, ex meretrici, e a una schiera di giovani ragazzi e ragazze, catturati tra i figli dei partigiani, o partigiani essi stessi, in una sontuosa e cadente villa, isolata dal mondo dal presidio dei soldati Repubblichini e delle SS. Nella villa, per centoventi giorni, sarà vigente per tutti un regolamento sottoscritto dai quattro Signori, con il quale essi sono autorizzati a disporre indiscriminatamente e liberamente della vita delle loro giovani vittime, le quali dovranno tenere un comportamento di assoluta obbedienza nei confronti dei Signori e delle loro regole. Ogni insubordinazione o pratica religiosa, verrà punita con la morte. Le giornate si svolgono attraverso una struttura infernale dantesca, che corrisponde alle quattro parti (un Antinferno e tre Gironi), in cui è diviso il film. Le tre Megere, nella mansione di narratrici, hanno il compito di raccontare le proprie perversioni sessuali nella cosiddetta Sala delle Orge, con lo scopo di eccitare i Signori e contemporaneamente di "educare" i ragazzi alla soddisfazione dei loro appetiti sessuali. Le narratrici sono accompagnate al pianoforte da una quarta donna, che ha il compito di estetizzare ulteriormente il loro racconto crudo, pornografico e compiaciuto. L'Antinferno mostra la sottoscrizione delle regole da parte dei quattro Signori, il loro patto di sangue (ognuno sposa la figlia dell'altro), e la cattura

dei giovani repubblichini di leva da parte delle SS, e infine la caccia delle vittime da parte dei repubblichini. Le vittime vengono tradotte poi nell'enorme villa, fuori Salò, selezionate e irregimentate dai Signori e dai loro orribili galoppini. I giovani subalterni, maschi e femmine, si dividono così in quattro gruppi: le vittime, i soldati, i collaborazionisti, la servitù. Il primo girone è il Girone delle Manie. In esso, guidati dalla Signora Vaccari, i Signori esercitano una serie di sevizie sui corpi nudi o vestiti degli adolescenti, aiutati e rinforzati dai fedeli repubblichini. Tra le molte sevizie, primeggia quella di farli mangiare a quattro zampe, nudi, latranti come dei cani, degli scampoli di cibo gettati in terra o nelle ciotole, quando alcuni di questi bocconi di cibo sono riempiti, a sorpresa, di chiodi. Il Girone della Merda, dalla denominazione fin troppo esplicita, sotto la guida della Signora Maggi, si svolge tutto all'insegna dell'analità, o meglio, dell'oroanalità, dal momento in cui alle sempre più fitte chiacchiere erudite dei signori (che citano a memoria Klossowski, Baudelaire, Proust e Nietzsche) si aggiunge la scatofagia, coronamento metaforico del film, per cui tutti sono letteralmente obbligati a cibarsi della propria merda, appositamente raccolta durante il giorno. Il Girone del Sangue mostra l'apice delle efferatezze del film: qui i Signori, dopo aver costretto ognuno dei ragazzi a trasformarsi in delatore nei confronti delle infrazioni altrui, prescelgono le vittime designate allo strazio e accettano i peggiori come collaborazionisti. In seguito, in un'orgia progressiva di torture, amputazioni, e varie uccisioni rituali, i Signori, aiutati dai loro vecchi e nuovi collaboratori, si prodigano in balletti isterici e atti sessuali necrofili sulle vittime, portando all'apoteosi il loro sentimento di disprezzo reciproco e del mondo. Il film ha poi, non preannunciato, un Epilogo. Nel mezzo dell'immane carneficina, due giovanissimi collaborazionisti, annoiati e assuefatti, cambiano canale alla radio d'epoca che trasmette i Carmina Burana di Orff, e improvvisano maldestramente, sulla canzonetta degli anni quaranta Son tanto triste, motivo conduttore del film, qualche passo di valzer, pronunciando questo dialogo: ‘Sai ballare?’ ‘No.’ ‘Dai, proviamo. Proviamo un po'...’ ‘Come si chiama la tua ragazza?’ ‘Margherita’ “ (S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro-l'Unità 1995). In Pagine Corsare, Il Cinema di Pier Paolo Pasolini, Angela Molteni scrive: “Un commento a questo film richiede una premessa sia pure breve ma essenziale, poiché un elemento drammatico, dal quale non è possibile

prescindere, ne segna il cammino: la tragica morte di Pasolini avvenuta prima che il montaggio fosse compiuto. È chiaro che tutte le critiche che si rovesciarono sul film non trovarono più il principale interlocutore. Sul film, però, nel corso della sua lavorazione, Pasolini ebbe modo di esprimersi in svariate circostanze. Saranno quindi in primo luogo i suoi scritti, le sue interviste o alcuni commenti di critici particolarmente acuti che ci permetteranno di comprendere più chiaramente i contenuti, i significati e i messaggi dell'ultimo film del regista. Occorre però tracciare, almeno per sommi capi, alcuni punti fondanti che presiedono alla realizzazione del film. Dopo Il fiore delle Mille e una notte, Pasolini aveva in mente la realizzazione di alcuni altri progetti cinematografici, tra cui un film su San Paolo, che avrebbe dovuto intitolarsi Bestemmia: "Ho sempre fatto film col sole e adesso farò un film tutto di pioggia. Evidentemente, questa mia violenza contro la Chiesa è profondamente religiosa, in quanto accuso san Paolo di aver fondato una Chiesa anziché una religione. Io non rivivo il mito di san Paolo, lo distruggo". Un altro progetto aveva come tema l'Ideologia: "Una cometa (l'Ideologia) trascina dietro a sé un Re Magio [Pasolini prevedeva per questo ruolo l'interpretazione di Eduardo De Filippo], il quale, seguendola, viaggia a lungo, facendo dunque esperienza dell'intera realtà". Si veda a questo proposito la lettera sottoriportata del 24 settembre 1975 con la quale Pasolini - dopo aver girato Salò - propone a Eduardo di fare il film, che si sarebbe chiamato Porno-Teo-Kolossal. “Roma, 24 settembre 1975 Caro Eduardo, eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo. In sostanza c'è tutto. Mancano i dialoghi, ancora provvisori, perché conto molto sulla tua collaborazione, anche magari improvvisata mentre giriamo. Epifanio lo affido completamente a te: aprioristicamente, per partito preso, per scelta. Epifanio sei tu. Il "tu" del sogno, apparentemente idealizzato, in effetti reale. Ho detto che il testo è per iscritto. In realtà non è così. Infatti l'ho dettato al registratore (per la prima volta in vita mia). Resta perciò, almeno linguisticamente, orale. Ti accorgerai subito infatti, leggendo, di una certa sua aria un po' plumbea, ripetitiva, pedante. Passaci sopra. Mi era impossibile - per ragioni pratiche - fare altrimenti. Io stesso l'ho letto per intero oggi - poco fa - per la prima volta. E sono rimasto traumatizzato: sconvolto per il suo impegno "ideologico", appunto, da "poema", e

schiacciato dalla sua mole organizzativa. Spero, con tutta la mia passione, non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo: ma che mi aiuti e m'incoraggi ad affrontare una simile impresa. Ti abbraccio con affetto, tuo Pier Paolo” Nel 1974, dopo la vittoria (12 maggio) dei noン al referendum sull'abrogazione del divorzio (un noン che aveva ricevuto una tiepida adesione da parte del partito comunista italiano, preoccupato soprattutto che questa contesa sul divorzio potesse turbare i sentimenti religiosi degli italiani), Pasolini pubblica sul Corriere della Seraン l'articolo Gli italiani non sono più quelliン (ora in Scritti corsari [edito da Garzanti] con il titolo 10 giugno 1974. Studio sulla rivoluzione antropologica in Italiaン, ampliato poi da un altro articolo dell'11 luglio 1974). "L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero: perché questo è l'ordine che egli inconsciamente ha ricevuto, e a cui deve obbedire, a patto di sentirsi 'diverso'. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza. L'uguaglianza non è stata infatti conquistata, ma è una falsa uguaglianza ricevuta in regalo." Rispetto a questo scritto vi fu una vivace reazione dei comunisti e si accese una dura polemica prima con Maurizio Ferrara, poi con Italo Calvino e Franco Ferrarotti; Pasolini inviò una lettera aperta a Calvino, pubblicata sul Corriere della Seraン, alla quale replicarono, oltre allo stesso Calvino, Alberto Moravia, Franco Fortini, Umberto Eco, Giorgio Bocca e Natalia Ginzburg. Questi sono gli stati d'animo, questo il clima generale, questo il quadro che fanno da sfondo alla decisione di Pasolini di appropriarsi di un progetto che Sergio Citti stava esaminando. Citti pensava, infatti, di produrre una sceneggiatura dalle Centoventi giornate di Sodoma di De Sade. Pasolini fa proprio il progetto (Sergio Citti, con Pupi Avati, saranno poi collaboratori alla sceneggiatura), sviluppa l'idea che sorregge il romanzo di De Sade del piacereン della violenza, delle sevizie, della perversione sessuale, e traspone l'originaria ambientazione settecentesca nella repubblica di Salò del 1944; questa una sua dichiarazione: "L'idea mi è venuta da Le centoventi giornate di Sodoma, questa specie di sacra rappresentazione mostruosa, al limite della legalità. Mi sono accorto tra l'altro che Sade, scrivendo pensava sicuramente a Dante. Così ho cominciato a ristrutturare il libro in tre bolge dantesche [in effetti il film

sarà strutturato in un antinferno e tre gironi]. Ma l'idea di sacra rappresentazione peccava di estetismo, occorreva riempirla di immagini e contenuti. Quattro nazifascisti fanno dei rastrellamenti; il castello di Sade dove portano i prigionieri, è un piccolo campione di lager. Mi interessava vedere come agisce il potere dissociandosi dall'umanità e trasformandola in oggetto." Occorre infine tener conto, nel formulare o nel proporre conclusioni sull'ultima opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini, di quella che è una filosofia di fondo, riferita al cinema, del pensiero pasoliniano: "A mio parere, il cinema è sostanzialmente e naturalmente poetico [...] perché ha il carattere del sogno, perché è vicino ai sogni, perché una sequenza cinematografica è la sequenza cinematografica di un ricordo o di un sogno e non solo questo, ma le cose in se stesse sono profondamente poetiche: un albero fotografato è poetico, un volto umano fotografato è poetico, perché la fisicità è poetica in sé, perché è un'apparizione, piena di mistero, piena di ambiguità [...]. Il cinema di poesia è il cinema che adotta una particolare tecnica, proprio come un poeta adotta una particolare tecnica per scrivere versi. Se si apre un libro di poesie, si riconosce immediatamente lo stile, il modo di rimare e tutto il resto: si vede la lingua come strumento, si contano le sillabe di un verso. L'equivalente di quello che si vede in un testo poetico lo si ritrova in un testo cinematografico, attraverso gli stilemi, ossia attraverso i movimenti di macchina e il montaggio. Per cui fare un film è essere poeti." A metà febbraio 1975 iniziano le riprese di Salò nelle campagne intorno a Mantova. Il 25 marzo, in una autointervista sul Corriere della Seraン Pasolini tra l'altro scrive: "Il sesso in Salò è una rappresentazione, o metafora, di questa situazione: questa che viviamo in questi anni: il sesso come obbligo e bruttezza. Oltre che la metafora del rapporto sessuale (obbligatorio e brutto) che la tolleranza del potere consumistico ci fa vivere in questi anni, tutto il sesso che c'è in Salò (e ce n'è in quantità enorme) è anche la metafora del rapporto del potere con coloro che gli sono sottoposti. In altre parole è la rappresentazione (magari onirica) di quella che Marx chiama la mercificazione dell'uomo: la riduzione del corpo a cosa (attraverso lo sfruttamento). Dunque il sesso è chiamato a svolgere nel mio film un ruolo metaforico orribile. [Le mie Centoventi giornate di Sodoma si svolgono a Salò nel 1944], e a Marzabotto. Ho preso a simbolo di quel potere che trasforma gli individui in oggetti il potere fascista e nella fattispecie il

potere repubblichino. Ma, appunto, si tratta di un simbolo. In realtà lascio a tutto il film un ampio margine bianco, che dilata quel potere arcaico, preso a simbolo di tutto il potere, e abbordabili alla immaginazione tutte le sue possibili forme. Nel potere - in qualsiasi potere, legislativo e esecutivo - c'è qualcosa di belluino. Nel suo codice e nella sua prassi, infatti, altro non si fa che sancire e rendere attualizzabile la più primordiale e cieca violenza dei forti contro i deboli: cioè, diciamolo ancora una volta, degli sfruttatori contro gli sfruttati. I potenti di De Sade non fanno altro che scrivere Regolamenti e regolarmente applicarli". Pasolini ha concepito questo film, dunque, in un momento storico in cui percepiva lucidamente, attraverso tutto ciò che stava accadendo attorno a lui (la violenza, la corruzione, la caduta verticale dei valori, l'imposizione di miti consumistici, l'omologazione sociale e culturale) il grado di sfacelo di un intero paese e il crimine di un potere tritacoscienzeン che agiva - e agisce - in nome di una democrazia solo nominalmente, formalmente tale, una situazione di cui una parte di noi italiani avrebbe cominciato a prendere coscienza solamente sul finire degli anni Ottanta. È interessante osservare come alcuni intellettuali abbiano percepito e commentato i contenuti dell'ultima opera cinematografica pasoliniana. Nell'esame di Enzo Siciliano, per esempio, vi sono due riflessioni particolarmente interessanti: quella sull'estraneazione teatrale di scuola brechtiana e quella di una serie di brutalità orrende radicali e totali - che i nazifascisti della repubblica di Salò avrebbero potuto credibilmente compiere. Torturare e uccidere, anche attraverso rivoltanti perversioni sessuali, era per i carnefici nazifascisti una possibilità concreta e non un frutto della invenzioneン, o delle fantasie distorteン di Pasolini . Ma vediamo ciò che dice tra l'altro Enzo Siciliano (Vita di Pasolini, Giunti 1995): "Salò o le centoventi giornate di Sodoma è una sorta di saggio critico per immagini. Tema del saggio, nel quale il romanzo postumo di Sade viene assunto come provocazione intellettuale, è la mentalità concentrazionaria nazifascista, istigatrice di violenza. Ma i suoi temi sono anche la trasgressione e la morte. Sade mette in bocca ai propri personaggi discorsi di incontinente verbosità e narrazioni di una programmatica astrattezza. Ebbene, tanto spreco di parole e discorsi ha un fine preciso: ridurre l'azione romanzesca a rito e a emblema. In Salò, ritualismo e emblematicità sadiani filtrano interi. I personaggi di Les 120 journées de Sodome interpretano, sulla pagina scritta, le proprie azioni al modo degli

attori, non coincidendo mai con esse. Si verifica così un calcolato scollamento fra ciò che dicono e ciò che fanno. Pasolini punta deliberatamente a questo scollamento, a questa 'estraneazione teatrale', di cui Brecht è stato il teorico. Salò, film 'brechtiano', film 'critico', film ritualistico, si apre con immagini di campagna padana: i nazifascisti vi compiono razzia di giovani. La cerimonia avrà inizio una volta che la razzia è accuratamente ultimata. Il potere è anarchia, dice Pasolini: il potere vuole abolire la storia e sopraffare la natura. Storia e natura possono essere abolite e sopraffatte attraverso il sesso. La cronaca dei fatti umani suggerisce che durante la repubblica di Salò, col dominio dei nazisti, una tale sopraffazione, radicale e totale, avrebbe potuto compiersi. Ecco, quindi, nel film sotto il suggerimento di Sade, rendersi esplicita la metafora di quella apocalisse". Il drammaturgo e critico Serafino Murri (Pier Paolo Pasolini, 1995), pone l'accento su diversi aspetti del film e su alcune traversie che ne hanno caratterizzato la lavorazione. È una sua considerazione che, in particolare, ha richiamato la mia attenzione: “Ciò che è certo, è che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi”ン. È noto, infatti, che Pasolini era già stato oggetto di aggressioni, di minacce, e che era letteralmente accerchiatoン da una sorda ostilità: è possibile che in più d'una occasione abbia anche temuto per la sua vita. Ma a fronte di una persona che dice di se stessa, come egli fece, dopo Salò: “Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno”, è priva di fondamento un'ipotesi che insinui che sia andato volontariamente in cerca di qualcuno che lo suicidasseン. Ed ecco uno stralcio delle riflessioni di Murri: "Salò è di certo un film estremo, che risponde alla sfida della Tolleranza rappresentando tutto ciò che viene rimosso dall'immagine che la società dà di sé: la violenza e la perversione, reintegrate al finto candore televisivo di cui la nuova classe politica si fa scudo per imporre i suoi dettami, non possono che provocare indignazione e scandalo. Il film fu girato con difficoltà, tra le frequenti ribellioni degli attori, che cercavano di rifiutarsi di eseguire i gesti osceni e di pronunciare le battute in maniera così cruda ed esplicita come li aveva immaginati il regista. Ma Pasolini, durante la lavorazione, non ha mai smussato alcuna di queste punte, e ha cercato di rappresentare consapevolmente 'il cuore della violenza' con una freddezza e una lucidità espressive quasi maniacali: 'Se uno deve cadere a terra morto, glielo faccio ripetere mille volte finché sembra proprio un

corpo che cade morto. Insomma, un punto di perfezione formale che mi serve per chiudere in una specie di involucro le cose terribili di De Sade, del fascismo'. Pasolini non fece in tempo a vedere, completo di montaggio, il suo film sul Potere. Quando Salò o le centoventi giornate di Sodoma fu proiettato in anteprima al Festival di Parigi, il 22 novembre del 1975, il regista era già morto da tre settimane. Molti hanno interpretato la sua morte per assassinio come una sorta di 'suicidio per procura', un gesto volutamente provocato da un uomo stanco di vivere, che cercava il pericolo e l'autoannullamento. Altri, rifacendosi alla violenta escalation della sua polemica politica degli ultimi mesi (era giunto a sostenere che occorreva una nuova Norimberga per la Dc), hanno adombrato il sospetto di una morte 'non casuale', senza credere all'autonomia della colpevolezza di Giuseppe Pelosi, il ladruncolo minorenne che lo aveva ucciso. Ciò che è certo, è che Pasolini, pur mettendo in conto la sua morte, non aveva alcuna intenzione di fermarsi. Che Salò potesse essere soggetto a traversie giudiziarie che vanno dall'imputazione per oscenità a quella di corruzione di minori, durate a fasi alterne fino al 1978, era prevedibile; e che le reazioni nell'opinione pubblica non avrebbero potuto essere di tacitante indifferenza, era l'aperta ambizione del regista: 'Questo film va talmente al di là dei limiti, che ciò che dicono sempre di me dovranno poi esprimerlo in altri termini. È un nuovo scatto. Un nuovo regista. Pronto per un mondo moderno', aveva detto Pasolini in una delle sue ultime interviste. Si preparava dunque, Pasolini, a dare battaglia all'indifferenza, a turbare l'inquietante 'sdrammatizzazione' operata dal Potere, in quel mondo oltre la fine del mondo dipinto con Salò?" Pasolini, infine, in una intervista, dichiarò: "Chi potrebbe dubitare della mia sincerità quando dico che il messaggio di Salò è la denuncia dell'anarchia del potere e dell'inesistenza della storia? Eppure così enunciato tale messaggio è sclerotico, menzognero, pretestuale, ipocrita, cioè logico della stessa logica che non trova affatto anarchico il potere, e che trova esistente la storia, anzi, pone ciò come un dovere. La parte del messaggio che pertiene al senso del film è immensamente più reale, perché include anche tutto ciò che l'autore non sa, cioè l'illimitatezza della sua stessa restrizione sociale storica. Ma tale parte del messaggio è imparlabile, non può che essere lasciata al silenzio e al testo".

È l'ultimo film di Pasolini che negli ultimi mesi della sua vita denunciava lo sfacelo "culturale e antropologico" dell'Italia e delle classi popolari italiane ad opera della ‘spietatezza livellatrice’ delle classi dominanti. Pasolini probabilmente temeva per la sua vita. Forse messa in conto la possibilità della sua morte, continuò comunque una sua indagine sui petrolieri. Con grande coerenza, in tutta la sua produzione artistico-letteraria Pasolini si dissocia dalla intellettualità borghese della sinistra che pare non avere più alcun contatto con il movimento operaio e, sicuramente non ha mai guardato oltre, verso il mondo del sottoproletariato. Per questo è accusato da sinistra di avere avuto un’improvvisa svolta irrazionalista e di avere trasformato l’istanza rivoluzionaria in pessimismo cosmico. Da sempre inviso alla destra e fortemente osteggiato, deriso e contestato, adesso che comincia a esserlo anche da sinistra, resta isolato. “… vent’anni di fascismo e vent’anni di Democrazia Cristiana: aggiungiamo altri vent’anni di centro-sinistra ed è finita una vita”. Il 2 novembre del 1975 Pasolini viene brutalmente assassinato. È una pagina funesta per la democrazia italiana, ma lo è ancor più per la cultura di questo balordo e ambiguo Paese. Un recente libro inchiesta (Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Che cosa sapevano? Perché dovevano morire?, Chiarelettere, Collana Principioattivo, 2009) ipotizza un collegamento tra la morte di Enrico Mattei e quella del giornalista Mauro De Mauro e dello scrittore-regista Pier Paolo Pasolini. Il giornalista De Mauro stava collaborando alla sceneggiatura del film di Francesco Rosi su Enrico Mattei e Pasolini stava scrivendo il romanzo "Petrolio", una violenta denuncia contro la destra economica e la strategia della tensione, di cui lo stesso Pasolini parlò anche in un famoso articolo sul "Corriere della Sera". Il libro analizza i fatti con estremo rigore, partendo dalle carte dell’inchiesta del Pubblico Ministero Vincenzo Calia, dagli atti del processo De Mauro in corso a Palermo, da nuove testimonianze e da un’approfondita ricerca documentale e conclude che con l'uccisione di Mattei prende il via un'altra storia d'Italia, sul cui sfondo si staglia il ruolo di Eugenio Cefis, ex partigiano legato a Fanfani, ritenuto dai servizi segreti il vero fondatore della P2. Il "sistema Cefis" (controllo dell'informazione, corruzione dei

partiti, rapporti con i servizi segreti, primato del potere economico su quello politico) rappresenta un modello di continuità eversiva della classe dirigente antidemocratica che Pasolini voleva rappresentare in "Petrolio". 9.2 Federico Fellini Dopo La dolce vita, Fellini continua il suo percorso onirico che gli fa sentire il film come una parte di se stesso e realizza le sue opere inventando (o reinventando) i suoi fantasmi ricorrenti e tormentosi come se in essi potesse trovare la sua catarsi. Fellini disegna nei suoi film una piccola folla di personaggi straordinari e indimenticabili. Lui stesso amava definirsi un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo. Ha lasciato opere memorabili, provocatorie ma velate di una sottile malinconia. Resta uno dei maggiori protagonisti della storia del cinema mondiale. Nato a Rimini nel 1920, inizia la sua carriera come disegnatore satirico e vignettista su diversi giornali e riviste dell’epoca. Negli anni quaranta, per sbarcare il lunario, disegna caricature ai soldati alleati in un bar di Roma. Passa poi a fare il soggettista e lo sceneggiatore (nel dopoguerra) con Rossellini, Germi, Lattuada, per debuttare nel ’52 come regista. Il suo percorso iniziale è quello del neorealismo, fino ad arrivare a La dolce vita (1960) dove, abbandonati gli schemi narrativi tradizionali, illustra situazioni con una carica di forte erotismo e descrive con toni taglienti la decadenza morale capitolina dell'epoca del boom. Realizza prima Le tentazioni del dottor Antonio (1962), episodio del film Boccaccio ’70, nel quale mostra un moralista intransigente impegnato a far togliere un enorme cartellone pubblicitario, che è piazzato davanti alla finestra di casa sua, rappresentante l'immagine di Anita Ekberg sdraiata su un divano e vestita con un provocante abito, che reclamizza le qualità nutrizionali del latte. Il moralista ne è talmente ossessionato che vive bellissimi incubi in cui è attratto sessualmente dalla stessa immagine che vorrebbe censurare. Il film rappresenta il passaggio da una narrativa in cui realtà e fantasmi immaginari son presenti entrambi alla sua filmografia successiva dove l’immaginario prende prepotentemente la scena e la occupa definitivamente. 81/2 (1963) rappresenta un viaggio nell’inconscio e nella memoria. È la storia di un regista che ha una profonda crisi e non riesce a far maturare in

sé il soggetto da realizzare, mentre il produttore confida nella sua professionalità e lo incita a raccontare ai giornalisti la trama del film di prossima realizzazione. Cerca di trovare ispirazione dal bilancio della sua esistenza che rappresenta l’insieme dei rapporti con personaggi reali e fantastici, con i ricordi, i sogni, il ricordo dei genitori morti. È una profonda crisi esistenziale che gli mostra anche la sua paura della morte. La sua intuizione arriverà alla fine del film, quando gli attrezzisti già smontano la scena e lui comprende quale possa essere la trama del suo film: il racconto delle sue passioni, dei suoi sogni, dei suoi ricordi e delle crisi che rappresentano la sua vita. Il film che sta per cominciare a dirigere non è altro che 8½ stesso. È un grande affresco fastellato dai suoi personaggi che si rinnoveranno nei film che verranno e che assumeranno nuove caratteristiche e nuovi sentimenti. È anche la rappresentazione dello smarrimento esistenziale degli autori di fronte a quello che sta accadendo ‘fuori’ e che spinge a guardare verso ‘dentro’. Giulietta degli spiriti (1965) rappresenta uno scenario desolato di una crisi matrimoniale di una coppia e dei tentativi di fugarla da parte della moglie, che si abbandona a sedute spiritiche per conoscere quello che già sa e che rappresenta il suo smarrimento. Solo accettando la separazione e la speranza nella vita, troverà la forza di cacciare gli incubi e i ricordi degli spiriti che l'hanno ossessionata. La vera trama del film è, ancora una volta, la rappresentazione barocca del paesaggio che si accompagna alla storia e che offre un grande spettacolo illusionistico in cui introspezione e realtà si fondono, amplificando il senso di smarrimento nel tripudio di linee e colori. Fellini Satyricon (1969) è liberamente tratto dall'omonima opera dello scrittore latino Petronio Arbitro. I protagonisti sono due giovani che vivono di espedienti nella Roma imperiale, simbolo della decadenza morale dei tempi. Fellini ha definito il film un saggio di fantascienza del passato. In realtà egli prende l’opera petroniana come spunto per descrivere il fasto decadente della Roma imperiale e, di converso, attarevso esso, la decadenza della nostra civiltà contemporanea. Il risultato è un film colmo di simbologie oniriche. Attraverso questo materiale, Fellini mette in scena gli incubi e le perversioni inconfessate della società. Roma (1972) è una carrellata sulla città attraverso lo sguardo e i ricordi di un giovane provinciale che arriva alla stazione Termini poco prima della

seconda guerra mondiale. La struttura narrativa è priva di qualsiasi ragione, seguendo un percorso onirico e di ricordi. L’apparente mancanza di legame fra le parti del film è da ricercare nel vero filo conduttore che è rappresentato dal sentimento (ora sarcastico, ora puramente elegiaco, ora satirico) espresso visivamente dall’occhio dell’autore che guarda senza distacco le scene. È un tuffo intimistico all’interno dell’anima di Fellini. Amarcord (1973) è il film più autobiografico di Fellini. È la sua poetica che fa da protagonista. Le caricature dei personaggi raffiguranti altrettante persone colte in un particolare momento storico si trasformano e assumono una dimensione universale - che va oltre quella temporale - resa immortale come la poesia. Sono rappresentate, nella consueta carrellata felliniana, le feste, la scuola, i negozianti, il suonatore cieco, la donna procace ma attempata alla ricerca di marito, il venditore ambulante, il matto, l'avvocato, quella che va con tutti, la tabaccaia dalle tette enormi, i professori di liceo, i fascisti e gli antifascisti e i giovani con la loro esplosione sessuale. In poche parole, una Rimini onirica come la ricordava Fellini in sogno. Dopo Il Casanova di Federico Fellini del 1976, il regista realizza Prova d’orchestra (1979), in cui i diversi livelli di lettura “mescolano perfettamente l’alchimia felliniana fra sogno, memoria e realtà, in un mondo che rimpiange il mondo” (da Wikipedia). Affiorano ancora i ricordi e i sogni, ma Fellini continua a sottolineare la presenza del falso attraverso i comportamenti dei musicisti (c’è chi dice “ma quante fregnacce che diciamo”, c’è il direttore d’orchestra che snobba il pubblico massificato “ma lei crede davvero che pubblico capisce musica?”). Qui si leggono più chiaramente i simbolismi messi in scena. La musica è vista come pulsione erotica (la suonatrice di piano fa un monologo che ricollega alla poligamia, bisogna saper suonare su tutti i pianoforti, non esiste un piano, esiste il piano; il direttore mentre suonano sembra quasi avere un amplesso). La bacchetta del direttore simboleggia la creazione. “Oggi tutti sono uguali, non c’è più differenza”, con chiara allusione all’appiattimento artistico e culturale. La città delle donne (1980) suscitò grandi polemiche sulla stampa e forti critiche da parte dei movimenti femministi. Narra di un uomo maturo che durante un viaggio in treno conosce una misteriosa donna e decide di seguirla, arrivando in un albergo dove è in corso un congresso di

femministe che parlano per slogano totalmente incomprensibili all’uomo. Finisce con un processo pubblico e col suo linciaggio in un’arena, prima del suo risveglio sul treno dove viaggia con la moglie. Anche in questo film (dove il sogno è ufficialmente il protagonista della storia), il filo è dato dallo stile onirico di Fellini, dalle sue immagini, dalle sue trovate tecniche, dalle su invenzioni e i suoi colori. Fellini realizza poi E la nave va (1983) e Ginger e Fred (1986). Quest’ultimo è una feroce satira della cultura del consumismo e del mondo delle TV private. La pubblicità cancella ogni poesia e insieme al telequiz rappresenta la forma dominante e alienante della nuova cultura di massa. Fellini, che fu autore di spot pubblicitari (pasta Barilla), ha sempre contestato l'abuso di questi strumenti di comunicazione, coniando lo slogan ‘non si interrompe un'emozione’. Il riferimento al Cavalier Fulvio Lombardoni, mette esplicitamente al centro della critica di Fellini il magnate dei media Silvio Berlusconi. Dopo Intervista del 1987, Fellini gira il suo ultimo film, La voce della luna (1990). Il film è un elogio della follia, con una satira spinta dei falsi valori della civiltà televisivo-berlusconiana (rappresentata dalla "Gnoccata", la festa con annessa tavola rotonda televisiva), sintesi dell'Italia del qualunquismo. Fellini muore a Roma il 31 ottobre del 1993. 9.3 Luchino Visconti Dopo aver realizzato Rocco e i suoi fratelli, Visconti si allontana dal dibattito culturale di quegli anni e inizia il suo nuovo percorso che lo porterà sempre più ad accentuare un manierismo perfezionista, basato su modelli culturali e stilistici musicali e letterali. Nel 1962 dirige l’episodio Il lavoro del film a episodi Boccaccio ’70. Gli altri episodi sono La riffa di Vittorio De Sica, Le tentazioni del dottore Antonio di Federico Fellini, Renzo e Luciana di Mario Monicelli. Quest’ultimo episodio è stato eliminato dalla produzione per la distribuzione nel mercato estero e gli altri autori, per solidarietà, rifiutarono di recarsi al 15° Festival di Cannes dove il film venne presentato fuori concorso.

Nel 1963 realizza Il Gattopardo, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, mettendo in scena un grandioso affresco risorgimentale attraverso il segno distintivo lasciato dalla storia nelle ville e nelle case patrizie siciliane. Vi scorge così la grandezza ma anche la decadenza di una civiltà arrivata alla fine dei suoi giorni. Sul piano del linguaggio narrativo Visconti si rifa alla pittura dei macchiaioli e agli impressionisti, con una visione quasi maniacale del più piccolo particolare. La realizzazione di questo film causò quasi il fallimento della casa di produzione Titanus che, per anni, si occupò poi solo di distribuzione cinematografica. Ciò che più interessa al regista è il trapasso: di un mondo che si dissolve ma anche dell’uomo di fronte alla morte. È determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Luchino Visconti assegnò un ruolo quasi fondamentale, ben più importante di quanto non fosse nel romanzo, sia per la durata (da solo occupa circa un terzo del film), sia per la collocazione (ponendolo come evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre il 1862, sino a comprendere la morte del principe nel 1883 e oltre). In queste scene l’atmosfera parla di morte. Sia la morte fisica, evidenziata dall’indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di Greuzet, sia quella della classe sociale, del mondo di "leoni e giaguari", sostituiti da "sciacalli e iene". Nel 1965 realizza Vaghe stelle dell’Orsa, in cui enfatizza la propria ricerca dell’eleganza e dell'estetica impeccabile. Il tema affrontato è coraggioso, quello dell’incesto. Ma a Visconti interessa più l’uso della luce come fattore compositivo. Il film, alla fine, non appassiona. Lo stesso discorso vale per i film successivi, Lo straniero (1967), La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), Ludwig (1972) e L’innocente (1976). Gruppo di famiglia in un interno (1974) è il film del suo nuovo esordio, dopo avere avuto una tronbosi che lo tiene fuori dal set. Qui si muove alla ricerca delle proprie origini culturali che ormai sente lontane. È la storia di un vecchio intellettuale che rimane legato alla vita, nonostante il presente non gli appartenga più. In questa pellicola Visconti si sforza di avvicinarsi criticamente ai fenomeni sociali contemporanei: emblematico il confronto che instaura fra l'anziano protagonista e un giovane movimentista

del ‘68, per scoprire che in fondo quest'ultimo non è che un'immagine riflessa del primo. È l’unico film in cui il regista si interroga sul presente. Le ultime parole che fa dire al professore sono: “Voi mi avete risvegliato bruscamente da un sonno che era profondamente insensibile e sordo come la morte”. Forse è questo il testamento lasciato da Visconti agli uomini di cultura dai quali si era estraniato. “Un piccolo sincero gesto di umiltà, un lucido atto di coscienza di non aver fatto per tempo quello che si poteva fare con un altro atteggiamento nei confronti del mondo. È questo uno dei gesti autocritici più alti che un protagonista della cultura del dopoguerra abbia saputo fare (…)” (Gian Piero Brunetta, Cent’anni di Cinema italiano, vol. 2 dal 1945 ai nostri giorni, Editori Laterza, 2008). Sono le ultime sue riflessioni: morirà due anni più tardi durante il doppiaggio de L'innocente (1976) tratto dal romanzo di D'Annunzio. 9.4 Michelangelo Antonioni Deserto rosso (1964) rappresenta idealmente la chiusura dei precedenti film che facevano parte della cosiddetta Trilogia di Antonioni. Si svolge a Ravenna nei primi anni sessanta. Giuliana, moglie di un dirigente industriale, è una donna depressa. Il suo senso di insoddisfazione e di inadeguatezza, che l'ha spinta sull'orlo del suicidio, pare acuirsi sempre più anche a causa dell'assenza del marito e dell'alienazione di una modernità priva di significato autentico. Un ingegnere, amico e collega del marito, sembra capace di comprendere lo stato di isolamento della donna, che non ha tratto alcun giovamento dalla sua temporanea permanenza in una clinica psichiatrica, dopo il tentato suicidio. Un'uscita con un gruppo di amici della coppia diventa occasione per mettere in risalto la distanza che intercorre tra la donna e un contesto che non le appartiene, perché meschino e insensato. L'apparente malattia del piccolo figlio della donna, che mette in allarme la madre, ma si rivela essere un tentativo di attirare l'attenzione e non andare all'asilo, scatena l'ennesima crisi della protagonista, che in preda alla disperazione si reca dall’amico del marito, in partenza per la Patagonia. Nemmeno questi, con cui la donna finisce per tradire il marito, dopo un'intensa relazione fatta di sguardi e cenni d'intesa, riesce ad aiutarla, perché, a sua volta, è incapace di adattarsi alla realtà che lo circonda, da cui scappa viaggiando continuamente. Il film si conclude con un ultimo

sguardo sul contesto industriale in cui è ambientato. La donna, ormai rassegnata, si allontana assieme al proprio figlio. È il primo film a colori di Antonioni, che per la fotografia si avvalse della collaborazione di Carlo Di Palma. Deserto rosso rappresenta un film cruciale per il regista. In esso viene preso in esame il rapporto tra ambiente sociale e individuo. Dopo Deserto rosso, Antonioni gira, nel 1965, l’episodio Il provino del film I tre volti; nel 1966, da un soggetto di Julio Cortázar, Blow-up; nel 1970 Zabriskie Point e nel 1975, da un soggetto di Mark Peploe, Professione reporter; ancora nel 1980 Il mistero di Oberwald, da un soggetto di Jean Cocteau, nell’82 Identificazione di una donna e nel ’95 Al di là delle nuvole (codiretto con Wim Wenders). Il suo ultimo film è del 2004 ed è l’episodio Il filo pericoloso delle cose del film Eros. Ne Il provino (1965) una giornalista viene a sapere che una misteriosa principessa sta per sottoporsi a un provino cinematografico e convince il direttore del giornale a pubblicare la notizia, ritenendo che si tratti di Soraya, l'ex imperatrice di Persia ripudiata dal marito. Gli altri due episodi del film sono firmati da Bolognini e Indovina. Blow-up è realizzato nel 1966. “L'idea di Blow-up mi è venuta leggendo un breve racconto di Julio Cortázar. Non mi interessava tanto la vicenda, quanto il meccanismo delle fotografie. La scartai e ne scrissi una nuova, nella quale il meccanismo assumeva un peso e un significato diversi. Tonino Guerra e, per i dialoghi inglesi, Edward Bond collaborarono con me alla sceneggiatura. Guerra mi aiuta da anni, precisamente da L'avventura, Lui è romagnolo, io sono emiliano. C'è un abisso tra di noi. Forse è per questo che andiamo d'accordo (Michelangelo Antonioni, Blow-up. Einaudi, Torino, 1968)”. La storia racconta di un fotografo londinese di moda che è convinto di aver scoperto un omicidio, nel quale è coinvolta una misteriosa donna che appare nelle sue fotografie. Il film ritrae il lezioso mondo della società consumistica londinese degli anni sessanta, nel quale la gente sconta la solitudine e l’indifferenza dovute alla mancanza di comunicazione. L’opera di Antonioni assume ora le caratteristiche del racconto giallo ora quella della fantasia psichedelica, quasi paranoica. L’epilogo (la scena finale) ribadisce come nella moderna

società dei consumi la realtà abbia contenuto quasi esclusivamente “virtuale”. Zabriskie Point (1970) è l'unico lungometraggio di Antonioni interamente statunitense e il suo secondo film ambientato fuori dall'Italia e privo di attori protagonisti italiani (dopo Blow-Up). Mark vive a Los Angeles durante il periodo della contestazione studentesca. È critico nei confronti dei suoi compagni che ritiene troppo morbidi nelle loro forme di contestazione. A seguito di uno scontro all'università in cui perdono la vita uno studente e un poliziotto ruba un aeroplano privato in un piccolo aeroporto e vola verso il deserto, dove vede la macchina di Daria che sta andando a casa del suo capo/ amante. Dopo un corteggiamento fatto con l’aereo fanno l’amore in a Zabriskie Point, il punto di massima depressione geologica degli Stati Uniti. Poi Mark vorrebbe riportare l'aereo dove lo aveva preso ma viene ucciso dalla polizia sulla pista di atterraggio a Los Angeles. Daria raggiunge la villa del suo capo, scambia con lui qualche parola, poi decide di andarsene e, voltandosi, immagina la villa scoppiare in una spettacolare esplosione, ripetuta più volte e da diversi punti di vista. Eccessivamente ricercato nell’immagine, il film ha tuttavia una sua valenza se riguardato nell’ambito dell’intera filmografia del regista. Alla critica americana, attenta solo alla trama, non piacque per l’esagerato epilogo rispetto alla esilità della storia. Il critico Mario Bucci (NearDark – database di recensioni) scrive: “Fuga, scelta individuale, amore, consumismo e morte. I temi cari ad Antonioni sono tutti miscelati con perfetto dosaggio in Zabriskie point, manifesto di un’utopica sconfitta della società dei consumi. Il regista, abbandonata ogni confidenza con il carrello, pianta la cinepresa distante dagli avvenimenti, lontana dai personaggi, ponendo maggiormente l’accento nel rapporto tra piccolo e grande, tra individuo e mondo. Il deserto come metafora del vuoto nel quale gli incontri hanno un significato particolare, si oppone nella seconda fase del film alla città che occupa invece tutta la prima parte, descritta solo attraverso le inquadrature d’insegne pubblicitarie, per la verità inquadrate con la stessa volontaria caoticità visiva usata nella sequenza con la quale si apre il film, durante una riunione del collettivo universitario, anche questo come gran supermercato

delle idee collettive dal quale Mark si allontana. Incontro tra cielo e terra, nascita dell’amore a seguito della morte. Fine del soggetto e predominio della merce. Sceneggiatura a più mani (Tonino Guerra e Sam Shepard oltre al regista) e di poche battute, che lascia più spazio alla fotografia (Alfio Contini), all’immagine ed alla sua metafora. Il film si distingue per due importanti scelte tecniche oltre che per i temi cari al regista italiano: la scena d’amore fra i due protagonisti a Zabriskie Point è poeticamente teatrale, emozionante e simbolica, perché mentre i loro corpi si confondono e si fondono fra le secche dune del deserto, spuntano altre coppie d’amanti e si moltiplicano, come se fosse un’esplosione, la propaganda dell’amore, ma in più il fatto che Jerry Garcia, chitarrista dei Grateful Dead, abbia composto le musiche in sincrono dal vivo, dimostrano tutto il genio di un lavoro come questo. L’ultima parte invece, quella in cui Daria immagina di veder saltare in aria appartamento, mobili e accessori del suo capo, è stata girata con 17 macchine da presa tutte pronte a filmare la stessa esplosione da altrettante inquadrature e con altrettante velocità di ripresa. La colonna sonora poi, è da invidia: Grateful Dead, Pink Floyd, The Kaleidoscope… Cameo per Harrison Ford mentre Mark Frechette (che interpreta Mark il protagonista) dopo un salto in Italia morì in una rapina assieme alla sua ragazza (da un appunto di Goffredo Fofi letto su Film Tv). Professione: reporter (1975) è il terzo film di Antonioni ambientato fuori dall'Italia e privo di attori protagonisti italiani; per la prima volta è chiamato Luciano Tovoli per collaborare come direttore della fotografia. Tratto da un soggetto di Mark Peploe. Un famoso reporter annoiato dalla vita ricomincia tutto daccapo, dopo aver ritrovato il cadavere di un uomo che gli somiglia, inscenando una finta morte e assumendo l’identità del defunto. Il morto era però un trafficante di armi che forniva al movimento di ribellione contro un piccolo dittatore africano. Il reporter viene così ammazzato davvero. Il regista realizza un film d’avventura intimista, con una ossatura narrativa già sperimentata da Antonioni. Simulando l’inchiesta giornalistica, si esprime con la tecnica dell'intervista. Il critico Furio Colombo scrive: “... si ha la sensazione che una mano documentaria segua e registri la mano che sta inventando la storia e che si crei una tensione fortissima fra queste due mani, che è la vera tensione del film”. Leggendo il

film in senso autobiografico rivela un senso più profondo: la contrapposizione tra i deserti del Sahara e le architetture di Gaudí a Barcellona, l'ossessivo indugio sul bianco come colore di morte come voluto dalle religioni orientali, la virtuosistica e lunghissima sequenza finale. È ritenuto – forse a ragione - uno dei migliori, se non il migliore, film di Michelangelo Antonioni. Il regista stesso ne dice: "l'arte di trasformare un intrigo poliziesco in una meditazione sulle pene della vita, sull'impossibilità di capire la realtà e di cambiare la propria personalità, ed il proprio destino, insieme con la propria identità". Attraverso questa grande pittura filmica Antonioni ci vuole mostrare la solitudine dell'umanità. Il suo significato è reso evidente dalla bellissima sequenza finale, con la macchina da presa che lascia il reporter morto steso sul letto nella sua camera d'albergo ed esce lentamente (l’intera sequenza dura sette minuti) inquadrando un'umanità di persone affaccendate che si contrappongono alla morte. Il mistero di Oberwald (1980) è un film realizzato per la televisione. È il quindicesimo lungometraggio di Antonioni. Una regina perde il marito che amava subito dopo le nozze e si trasferisce inquieta da una residenza reale all'altra. Il popolo comincia a montare delle calunnie contro di lei e i suoi nemici risolvono di assassinarla, dandone incarico a un giovane poeta. Questi, in una notte di tempesta, inseguito e ferito dalla polizia, si rifugia nella reggia e si trova davanti alla regina, che ha l'illusione di vedere il marito morto. Il poeta suggerisce alla regina di tornare nella capitale per regnare, ma il capo della polizia ricatta il giovane che, innamoratosi, preferisce avvelenarsi. La regina vedendo anche il suo secondo amante che muore decide di porre fine alla propria vita con la dignità di un sovrano e provoca violentemente il giovane che reagisce uccidendola. L’incontro di Antonioni con il testo teatrale di Cocteau (L'aigle à deux têtes, 1946, già trasferito in film nel 1948 dallo stesso autore) rappresenta un esercizio sperimentale per l'impiego del colore elettronico (dunque, manipolabile), quindi un lavoro sull'immagine filmica.

Il critico Tullio Kezich scrive:”(…) nonostante il dichiarato scetticismo del regista nei riguardi di un testo abbassato a pretesto, la poetica antonioniana dell’incomunicabilità si rivela una chiave di lettura legittima del romanticismo di Cocteau (da Tullio Kezich, Il nuovissimo Mille film. Cinque anni al cinema 1977-1982, Oscar Mondadori)”. Nel 1982 Antonioni realizza Identificazione di una donna. Un regista che vive a Roma cerca la protagonista femminile di un suo film e incontra una giovane aristocratica stravagante ma attraente. Ne è conquistato ma iniziano a capitargli strane cose: telefonate di intimazione per interrompere la relazione, incontri con personaggi misteriosi, pedinamenti… La donna scompare e il regista la cerca e, quando la trova, scopre che questa ha una relazione con un'altra donna. Tutte queste circostanze portano il regista a frequentare diversi ambienti sociali, dai quali tutti egli si sente estraneo, spaesato, come in un mondo di stranieri che parlano la sua stessa lingua ma hanno culture diverse. Incontra una seconda donna con la quale tenta di un rapporto ma questa attende un figlio da una precedente relazione. Il regista cambia il soggetto del suo film e sceglie la fantascienza. La vicenda individuale è un simbolo della situazione sociale dell'Italia del 1982, con le minacce di sovvertimento terroristico. È un'Italia senza sorriso, in cui regna solo sospetto e diffidenza, noia e disagio. È un'Italia nella quale l'incomunicabilità ha preso definitivamente il sopravvento, dove nella nebbia in cui il regista fugge senza motivo, un automobilista parla di suoni di campane, di disordini, di violenze, di spari che egli non percepisce. La continua ricerca di una donna ideale da parte del protagonista rappresenta la ricerca dell'eterno femminino inafferrabile... che non può che concludersi in una frustrazione, perché l'eterno femminino è solo sogno. “È un film confuso Identificazione di una donna, forse il peggiore del regista ferrarese. È anche privo di verità, sull'amore e il resto. Abitato com'è da personaggi cartacei, mai autentici (fra l'altro impersonati da interpreti modesti), e neanche veri nella menzogna, finisce per avviticchiarsi su sé stesso: l'indeterminatezza narrativa si può interpretare come tarda maniera, in quest'ultimo segmento del cinema di Antonioni. Eppure Identificazione di una donna, pur affannando tra eccessi di didascalismo e dialoghi di una sentenziosità imbarazzante, rende esattamente percepibile il clima generale

che si è soliti attribuire a questo incerto presente: smarrimento, sospensione del giudizio, inaffidabilltà accertata dei rapporti umani e morte certificata dei soggetti cinematografici ispirati ai sentimenti. Non sarà per caso, dunque, che gli elementi formali tendono a prendere il sopravvento sul narrato: lo stile s'incarica di dare forma a un disagio nebuloso quanto riconoscibile come vero. I luoghi dell'azione - fotografati con maestria da Carlo Di Palma - diventano più importanti dell'azione stessa, alla fine. Gli interni, in primo luogo l'appartamento del regista, vengono insistentemente filmati per porzioni, per frammenti angusti, mentre il tempo si dilata per effetto dei consueti piani-sequenza. Niccolò Farra e le sue donne vagano incorniciati da corridoi, rampe di scale, scorci di stanze; cercano sempre una finestra dalla quale sporgersi, infine tornano sui propri passi o si precipitano - come in fuga o in cerca di riparo - nella camera da letto. Gli esterni appaiono ancor più asfittici, siano vicoli di Roma o, nel finale, il Canal Grande (ma riflesso per lo più dall'interno dell'albergo). È necessario guardare, per capire il film, alla accorta gestione degli spazi, e a una scena in particolare, scandita in lente sequenze da antologia. Fuggono in auto, Niccolò e Mavi, per liberarsi dall'ignoto tormentatore. La nebbia cala, s'infittisce, li circonda, infine li fa allontanare per alcuni minuti interminabili. Quando si ritrovano seduti a fianco sui sedili, sono già due estranei, due individui separati, destinati a non trovarsi mai più” (Cristina Jandelli in Cineclub News). Nel 1995 Antonioni gira Al di là delle nuvole, un film del 1995 diretto da Michelangelo Antonioni con la collaborazione del suo grande ammiratore Wim Wenders. Il film è composto da quattro storie. La prima si svolge nella nebbia della città natale di Antonioni, Ferrara e racconta di un ragazzo e una ragazza che s'incontrano, vanno a letto ma non fanno l'amore perchè per lui rinunciare a vivere la passione è un piacere che prolunga il desiderio. Il secondo si svolge sotto la pioggia di Portofino, in cui Sophie Marceau racconta al regista John Malkovich di avere ucciso il padre a coltellate, racconto che accende un desiderio di incontro carnale divoratore e affannato. Il terzo si svolge a Parigi e racconta l’amore tra i diversi personaggi, a volte astioso, o erotico, consentendo di restare affascinati dall’unico personaggio che parla dello spirito. Il quarto si svolge a Aix-enProvence (anche questo nella pioggia e in un’atmosfera crepuscolare), dove

Vincent Perez s'innamora di Irène Jacob che però è già innamorata di Dio ed entrerà in convento l'indomani. S'ispira ad un libro dello stesso Antonioni, Quel bowling sul Tevere ed è una sorta di mosaico di storie raccontate sottovoce liricamente forzate. Girato da Antonioni dopo 10 anni di inattività forzata per malattia. Nel 2004 Antonioni (all’età di novantadue anni) realizza il suo ultimo lavoro, Il filo pericoloso delle cose, episodio del film collettivo Eros, un’antologia di tre cortometraggi diretti da Wong Kar Wai, Steven Soderbergh, e Michelangelo Antonioni sul tema dell’erotismo e dell’amore. Ciascun autore affronta il tema con il proprio stile: Wong sceglie un racconto licenzioso (La mano); Soderbergh una commedia ironica ma maliziosa (Equilibrium); e Antonioni fa una riflessione filosofica sulla impossibilità di comunicazione tra uomo e donna. Nel film di Antonioni una coppia in crisi, decide di fare una breve gita al mare per ritrovare un po' di magia nel rapporto. La passione del marito, invece, è risvegliata dall'incontro con una donna misteriosa. Nel Filo pericoloso delle cose i colori sono quelli di Antonioni come gli spazi e i tempi allusivi, le parole diventano inutili e lasciano spazio ai corpi. “L’erotismo”, dice il critico Franco Pecori “è nel modo stesso di guardare il mondo da parte di un autore che ama le donne” (in Critamor Film). Antonioni muore il 30 luglio 2007 (all’età di novantacinque anni) nella sua casa romana, assistito dalla moglie, nello stesso giorno della scomparsa del regista svedese Ingmar Bergman. 9.5 Francesco Rosi Francesco Rosi inaugura nel 1962 il florido filone dei film-inchiesta con Salvatore Giuliano, che racconta la vita del bandito siciliano attraverso una serie di lunghi flashback. L'anno successivo dirige Rod Steiger nel suo capolavoro Le mani sulla città (1963), film di denuncia contro le collusioni esistenti tra i diversi organi dello Stato e lo sfruttamento edilizio a Napoli. Salvatore Giuliano (1962) è il capostipite dei film-inchiesta - che avrebbe conosciuto negli anni '70 e '80 il suo momento di massima popolarità - e racconta la vita del bandito Salvatore Giuliano, aderente al movimento separatistico e controverso eroe del popolo siciliano. Colpevole

dell'assassinio di un carabiniere, si dà alla macchia nella campagna siciliana e organizza una banda di fuorilegge. Strumentalizzato da politici di destra e dalla mafia, porta in atto delle feroci scorribande in nome della libertà che hanno il loro culmine nel massacro di Portella della Ginestra nel quale perdono la vita undici persone e ne restano gravemente ferite altre trentatré. Da quel momento è sotto mirino di un corpo speciale di polizia istituito dal governo finché, il 5 luglio 1950, è trovato morto davanti a una casa di Castelvetrano. Il film parla dei rapporti tra mafia, banditismo, potere politico, potere economico. L'azione procede a salti nel tempo: comincia sul cadavere del bandito nel cortile di Castelvetrano (luglio 1950) e poi si sposta avanti e indietro. Per la realizzazione della pellicola, Rosi ha chiesto a Gianni Di Venanzo, direttore della fotografia, tre diversi toni di bianconero: uno a forti contrasti chiaroscurali per le fasi rievocative; uno a tono sovresposto da servizio fotografico per la morte del bandito; uno, infine, a grigio televisivo per il processo di Viterbo. È il film di Rosi più ambizioso e potente, con pagine degne di Ejzenštejn (la sequenza della strage dei contadini di Portella della Ginestra del 1° maggio 1947 e il pianto della madre di Giuliano al cimitero). Le mani sulla città (1963) è un film di impegno civile, una coraggiosa denuncia della corruzione e della speculazione edilizia dell'Italia degli anni sessanta. Il film è ambientato in una generica città del sud dell'Italia, che si comprende essere Napoli. Un costruttore spregiudicato e in conflitto d'interessi, essendo anche un consigliere comunale, porta avanti il suo piano di speculazione edile che cambierà il volto della città. Un palazzo fatiscente, in fase di demolizione subisce un crollo nel quale perdono la vita due operai, mentre un bambino perde le gambe. Il conseguente scandalo muove i politici di sinistra. Alla fine l'avrà vinta su tutti, sarà eletto assessore all'edilizia e, con la benedizione del vescovo, darà inizio alla nuova speculazione edilizia. La didascalia del film dice: «I personaggi e i fatti sono immaginari, ma autentica è la realtà che li produce». Leone d'oro alla Mostra di Venezia, è un film che rifiuta soluzioni romanzesche e spettacolari preferendo Francesco Rosi esporre crudamente i fatti senza nascondere il proprio giudizio. Il momento della verità (1964) è presentato al festival di cannes nel 1965, vince il David di Donatello nello stesso anno per la miglior regia. È la

storia di un ragazzo di campagna che vorrebbe essere ammesso nell’alta società e ambisce ad arricchirsi il più possibile e velocemente. Lo fa diventando un affermato torero. Si sottopone a spossanti prove ma presto comincia a sentire il peso della stanchezza; non gli sarà possibile sottrarsi alla tragica fine e la sua vita viene stroncata sanguinosamente nel corso d'una corrida. "Nell'avvio del film ritroviamo il miglior Rosi, quello che sa far parlare i documenti, cogliendo la realtà con una forza di penetrazione che giunge ad interpretarla nel momento stesso in cui la fissa in immagini di icastica obiettività. (...) Nella prima parte i colori sono smorzati (...) nella seconda, invece, (...) si fanno squillanti (...). In conclusione si può parlare di un film a due facce, ognuna delle quali presenta valori notevoli, che però non giungono a fondersi in sostanziale armonia" (Sandro Zambetti, 'Cineforum', 45, maggio 1965). Non solo i colori, però, ma anche il linguaggio sembrerebbe avere due toni diversi: l’eccellenza è raggiunta nella prima parte dove Rosi utilizza il suo linguaggio da cinema-verità, cronistico e diretto. Nella seconda parte si nota invece un abbassamento di tono e una certa indulgenza allo spettacolo e alle riflessioni intimistiche che lo fanno decadere un po’ nel calligrafismo. Dopo Il momento della verità (1965), Rosi si concede una pausa letteraria realizzando una favola C'era una volta... (1967), con Sophia Loren e Omar Sharif, che appena un anno prima aveva ottenuto un enorme successo con Il dottor Zivago (1966). Un Principe spagnolo affascinante e coraggioso è in Italia per trovare una sposa e s'innamora di una paesana semplice e sanguigna, bella e con grandi virtù culinarie. Il loro amore trova ostacoli anche a causa di strani sortilegi... Il film è ispirato ad alcune novelle del Pentamerone di Giovan Battista Basile, e fu voluto dal produttore Carlo Ponti, che ingaggiò Omar Sharif, nonostante le insistenze di Rosi per affidare quella parte a Marcello Mastroianni. Uomini contro (1970) è liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu Un anno sull'Altipiano. Il film, ambientato sull’Altopiano di Asiago durante il primo conflitto mondiale, mostra le assurdità della guerra attraverso la storia di un giovane tenente - convinto interventista - costretto a convivere con le assurde idee di un generale che, con i suoi ordini, provoca inutili macelli. La pellicola è un inno antiautoritario e pacifista e mette in luce le follie della guerra, enfatizzandone l’inutilità attraverso la

ridicolizzazione degli ordini del generale. Nonostante la precisa collocazione temporale della pellicola, sono chiari i riferimenti a certa retorica militaristica in voga nel momento della produzione del film. Lo stesso Rosi ebbe a raccontare: “Per Uomini contro venni denunciato per vilipendio dell'esercito, ma sono stato assolto in istruttoria. Il film venne boicottato, per ammissione esplicita di chi lo fece: fu tolto dai cinema in cui passava con la scusa che arrivavano telefonate minatorie. Ebbe l'onore di essere oggetto dei comizi del generale De Lorenzo, abbondantemente riprodotti attraverso la televisione italiana, che a quell'epoca non si fece certo scrupolo di fare pubblicità a un film in questo modo”. Negli anni '70 torna ai temi di sempre e parla della scottante morte di Enrico Mattei in Il caso Mattei (1971), uno dei suoi capolavori. Racconta la vera storia di Enrico Mattei, presidente dell’ENI deceduto nell’esplosione del proprio aereo di ritorno da un viaggio in Sicilia. Nominato commissario dell’Ente con il fine di liquidarlo, con coraggio lo riorganizzò e, sfidando i petrolieri mondiali (le cosiddette sette sorelle) riuscì a contrattare migliori condizioni di sfruttamento con i paesi arabi produttori del grezzo inimicandosi gli Americani. La connivenza dei Servizi segreti italiani con i potenti uomini dell’economia americana permise la riuscita dell’attentato dinamitardo preparato contro Mattei e abilmente camuffato da incidente aereo. Francesco Rosi torna alla struttura filmica di Salvatore Giuliano enfatizzando l’articolata strategia narrativa con l’inserimento di elementi di puro reportage. Viene opportunamente mescolata la cronaca alla puntuale ricostruzione documentaria, recuperata da diverse fonti. È un film dai toni fortemente politici che esce dalle convenzioni e che trova la sua forza nel ritmo serrato del racconto. “Le rotture improvvise del filo conduttore, le accelerazioni, gli inserti documentari, le apparizioni dello stesso Rosi, unite alle divagazioni sulla vita del primo presidente dell'Eni, fanno del Caso Mattei uno dei migliori film-inchiesta del cinema italiano e uno dei più personali del regista” (in Wikipedia). È da annotare che Rosi diede incarico al giornalista Mauro De Mauro, ritenuto da tutti un fine segugio, per raccogliere particolari e notizie che potessero arricchire la ricerca documentale. De Mauro chiese un’intervista a due personaggi famosi, Graziano Verzotto, amministratore molto chiacchierato dell'Ente Minerario Siciliano per la sua vicinanza alla cosca di Giuseppe Di Cristina, e a Vito

Guarrasi, altro personaggio molto ambiguo vicino ad Amintore Fanfani ma anche ai Servizi Segreti Americani. Dopo pochi giorni dall’incontro con quest’ultimo, il De Mauro fu sequestrato sotto casa sua a Palermo e scomparve nel nulla. Si riporta questo particolare ricordando la tesi del complotto internazionale per porre fine alle scomode intromissioni di tutti coloro che direttamente o indirettamente in quegli anni si occuparono del petrolio (Mattei, De Mauro, Pasolini) e che è riportata in un recente libro inchiesta (Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Che cosa sapevano? Perché dovevano morire?, Chiarelettere, Collana Principioattivo, 2009). Continuando col suo percorso filmico tra l’inchiesta e la denuncia politica, nel 1973 Francesco Rosi realizza Lucky Luciano con una grande prova dell’attore Gian Maria Volontè. Il film illustra la storia di Salvatore Lucania, detto Lucky Luciano, rispedito da New York in Italia nel 1946, boss mafioso al centro di un colossale traffico di droga graziato per gli importanti servizi resi, allorquando l’Intelligence a lui si rivolse perché con i suoi rapporti con la mafia facilitasse lo sbarco in Sicilia. Eccellente saggio di cinema-verità (realizzato su sceneggiatura di Lino Jannuzzi e lo stesso Francesco Rosi con la collaborazione di Tonino Guerra), è girato con linguaggio secco e crudo, totalmente assente di retorica e privo della spettacolarizzazione della violenza. Lo stesso Francesco Rosi, parlando del suo film, dice: “La struttura di Lucky Luciano ha dei blocchi che possono sembrare dispersivi ma che sono invece essenziali all'economia del film: per esempio l'inizio americano, con questi bravi signori ben vestiti che si rivelano dei gangster, o la sequenza sugli americani a Napoli, che mostra un tipo di complicità tra poteri che serve a spiegare un personaggio come Luciano. (…) Luciano era un personaggio molto misterioso, e io ho scelto subito di non fare un film di gangster, di mostrarlo, nel suo periodo di inattività, di ritiro. Il potere non ha bisogno di essere identificato con l'azione, farlo vuol dire rischiare di far diventare positivo un personaggio negativo, tanto più quando si tratta di gangster. Certo io chiedo un pò di riflessione al pubblico, in casi come questo, ma io credo che il cinema debba ogni tanto chiedere anche questo sforzo, lasciare questa libertà. Il cinema ha bisogno di elementi spettacolari, ne sono convinto, ma non in un'unica direzione. Può esistere anche un cinema che stimoli la riflessione,

che dia fiducia allo spettatore”. L’attore Gian Maria Volonté, prima di impersonare i panni del mafioso, fece accurati studi comportamentali sugli emigranti, dando enfasi a un volto che rimarrà nella storia del cinema: “Il personaggio di Lucky Luciano era difficile, perché era più difficile trovare un'oggettività, credo. Queste caratteristiche del mafioso... Io ho pensato al fatto che era un emigrante, ho lavorato su questa difesa che gli emigranti hanno, discutendone molto con Rosi, come facciamo sempre. Luciano é stato un personaggio difficile, delicato, e, tra un incontro e l'altro con Rosi, ho dovuto rifletterci molto”. Riscuote un notevole successo il capolavoro Cadaveri eccellenti (1976, tratto dal romanzo Il contesto di Sciascia), con Lino Ventura. Adattamento fedele del libro, il film narra l'indagine di un ispettore sull'assassinio di tre alti magistrati. Le indagini conducono a Roma dove l’ispettore scopre un complotto finalizzato a un golpe con inevitabili conseguenze politiche. Viene ucciso durante un colloquio col segretario del partito comunista. Cadaveri eccellenti scatenò moltissime polemiche, soprattutto per la battuta pronunciata nel finale: “La verità non è sempre rivoluzionaria”. “Apologo politico sulla strategia della tensione, il film è un giallo sospeso tra sogno e realtà, ricco di riferimenti pirandelliani (il gioco delle parti, il potere anonimo) e kafkiani (gli ambienti abnormi, gli spazi immensi che schiacciano i personaggi, trasferiti sullo schermo dal barocco siciliano). Nonostante la citazione di fatti realmente accaduti, il risultato del lavoro di Rosi, pur conservandone i ritmi, non produce il consueto film d'inchiesta ma una metafora sull'essenza metafisica del potere” (da Wikipedia). Vinse due David di Donatello nel 1976 per miglior regia e miglior film. Nel 1979 realizza la versione cinematografica di Cristo si è fermato a Eboli, tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Levi e sempre con Volonté protagonista. Cristo si è fermato a Eboli è un romanzo autobiografico scritto tra il dicembre del 1943 e il luglio del 1944. Lo scrittore, condannato al confino in Lucania a causa della sua attività antifascista, trascorse un anno in Basilicata, ad Aliano (nel libro denominata Gagliano), dove conobbe la realtà di quelle terre e della sua gente. Levi scrisse questo romanzo rievocatorio di quei periodi al suo ritorno dal confino. Lo stesso Levi scrive nella sua prefazione (da Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1963, Mondadori, Torino): "Come in un viaggio al

principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l'esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento". Qualche tempo dopo, Levi è liberato dal confino e il romanzo termina con la descrizione del suo viaggio in treno: “Ma già il treno mi portava lontano, attraverso le campagne matematiche di Romagna, verso i vigneti del Piemonte, e quel futuro misterioso di esili, di guerre e di morti, che allora mi appariva appena, come una nuvola incerta nel cielo sterminato”. Gian Maria Volontè ha detto del film: “Certo, Rosi ha perso quell'aggressività che aveva ed è subentrata una certa malinconia, un maggiore distacco. Non so da cosa nasca, credo dipenda dai processi veramente intimi di una persona. Nel Cristo si è fermato a Eboli alla base di tutto c'era il testo dì Levi, con tutto quello che ha significato per questa terra e per questa gente. Franco ha voluto rivisitare la Lucania con i materiali di Levi, e penso che abbia affrontato con molto rispetto il rapporto tra immagine e parola scritta. In Lucania alcune cose erano rimaste abbastanza le stesse del libro, altre no, ma i problemi di fondo restano più o meno gli stessi. A mio parere gli aspetti più deteriori sono lo stato di abbandono, i guasti che sono stati fatti, l'emigrazione al Nord, e poi la politica di assistenza, che è proprio la più odiosa perché modifica la testa della gente, la abitua alla passività... La lavorazione del film è stata lunga e faticosa, ogni giorno per andare e tornare da Matera ai paesi dove giravamo che erano privi di alberghi facevamo duecentoquaranta chilometri. Un tragitto pesante, specie dopo nove-dieci ore di lavoro, e di un lavoro fatto con quell'accuratezza. Con la gente abbiamo avuto un rapporto bellissimo. Abbiamo trovato persone straordinarie, di grande comunicativa, e con un interesse vero per quello che facevamo. Levi, in quella zona, è una cosa ben precisa, è ricordato, è amato. Il libro di Levi ha proprio agito in profondità, ha lasciato un grosso segno, e stando lì si sente anche maggiormente che è proprio la sintesi di un'esperienza molto profonda. D'accordo con Franco, il mio sforzo non è stato fatto nella direzione di entrare nei panni di Levi. Quello che a Rosi interessava, e anche a me, era la mediazione che questo personaggio poteva fare fra l'occhio di Franco, che era quello della macchina da presa, e il mondo contadino che pian piano si andava

scoprendo: quindi un rapporto di mediazione continua. E cì interessavano a grandi linee non tanto i segni esteriori di Levi ma l'idea di un intellettuale di tipo europeo, cresciuto e formatosi in uno spazio culturale come quello di Torino di quegli anni”. Di Volontè e della sua recitazione Rosi ha scritto: “Già in Lucky Luciano c'erano parti in cui Volonté esprimeva il personaggio con la sua mimica straordinaria, invece che con le parole e l'azione. Qui, per tutta la prima parte, egli parla pochissimo, il pubblico deve identificarsi con lui nell'osservazione, nella scoperta del Sud. È uno straniero, uno del Nord, di fronte a una società enormemente diversa da quella da cui proviene, e che gli suscita curiosità, emozioni, sottili ironie e a volte anche soprassalti di commozione drammatica. Per tutta la prima parte del film è quasi muto, e Volontè è bravissimo a esprimere quello che non dice, il pubblico partecipa alla sua scoperta e alle sue emozioni, ed è disposto a sentirlo parlare, a tirare delle conclusioni, a partire anche dai suoi ragionamenti. A parte la sua serietà professionale, Volonté ha una sua inventiva su come modificarsi, e aiuta la scena a definirsi meglio. Come capita anche con l'attore non professionista. Nel Cristo c'è l'attore che fa l'agente delle imposte che suona il clarino: è un netturbino di Matera che mi sono coltivato a lungo, sentivo che il personaggio con certi attori sarebbe diventato falso, sarebbe diventato una "macchietta" (era un altro di quei personaggi di Levi che volevo rendere in modo più drammatico di quanto Levi non avesse fatto). Al momento di girare gli ho detto le battute e poi ho cercato di farlo esprimere secondo quelli che erano i suoi sentimenti e qui sta il lavoro del regista. Lui ha fatto suoi i concetti, ha fatto sue certe parole, ma io gli ho dato una libertà (in realtà una libertà fittizia, perché sapevo che così lo portava a dare quello di cui avevo bisogno, che io desideravo). Volonté, poi, é bravissimo a lavorare assieme a gente non professionista, cosa che invece crea difficoltà, abitualmente, nei professionisti”. Un altro grande successo è ottenuto con Tre fratelli (1981). “Da un paese delle Murge partono tre telegrammi ‘Mamma morta. Tuo padre’. I tre fratelli Giuranna tornano alla casa paterna dopo molti anni di lontananza. Francesco Rosi racconta un'altra storia del Sud, ma dal di dentro, in bilico tra privato e pubblico. Ma la prima dimensione è espressa, la seconda solo dichiarata. Un apologo sull'Italia di oggi sincero, onesto, sempre interessante, a tratti coinvolgente. Scritto da Rosi e Tonino Guerra su uno

spunto del racconto Il terzo figlio di Andrej P. Platonov” (da Morandini). Ha ricevuto quattro David di Donatello e la nomination all'Oscar. È stato presentato fuori concorso al 34° Festival di Cannes. Sullo sfondo del film il malessere dell’Italia degli anni '80, tra lotte operaie contro la restaurazione, disagio sociale e ultimi colpi di coda del terrorismo, che Rosi analizza attraverso lo scontro generazionale-familiare. Nel 1984 dirige un adattamento cinematografico della Carmen, con Plácido Domingo. È la storia d’amore tra un brigadiere e una sigaraia, contrastata dalla gelosia morbosa di lui che osserva l’atteggiamento complice della sua amata agli sguardi di molti pretendenti, tra cui quelli di un famoso torero. Travagliato tra il dovere e l’amore, combattuto dalla profonda gelosia, alla fine uccide la sua amata che lo respinge stanca dei suoi atteggiamenti. “Per entrare nello spirito dell'opera, Rosi ha ascoltato la musica di Georges Bizet per interi mesi. Si è poi ispirato al libro Viaggio in Ispagna del barone Charles Davillier, illustrato da oltre 300 disegni di Gustave Doré, ritrovando nella Sierra de Ronda il mondo illustrato da Doré” (citato da Wikipedia da Gilles Jacob at al., Lezioni di cinema, traduzione di Rosa Pavone, Milano, Editrice Il Castoro, 2007). Successivamente lavora a Cronaca di una morte annunciata (1987), tratto dal romanzo di Gabriel García Márquez, con un grande cast, Gian Maria Volontè, Ornella Muti, Rupert Everett, Anthony Delon e Lucia Bosè; il film fu girato in Venezuela. È stato presentato in concorso al 40° Festival di Cannes. “La particolarità che rende estremamente interessante e accattivante il romanzo è nel fatto che la stessa vicenda viene narrata di volta in volta attraverso il punto di vista e la testimonianza dei diversi personaggi coinvolti. Ognuno di essi sapeva cosa stava per accadere, o cosa avrebbe potuto accadere, ma nessuno di loro, per un motivo o per l'altro, ha potuto impedire la tragica fine del protagonista Santiago Nasar. La fatalità, l'incastro degli equivoci e delle situazioni personali è tale che neanche i due assassini, che pure fanno di tutto per farsi notare affinché qualcuno impedisca loro di agire, riescano a sfuggire alla assurda ineluttabilià del delitto. Ciò che affascina in questo romanzo è proprio la presentazione delle diverse verità soggettive e parziali sullo stesso fatto, che concorrono tuttavia a formare il mosaico complessivo. Lo stesso lettore è condotto a ripercorrere e ricostruire i fili della vicenda pur conoscendone sin dall'inizio

l'esito finale: il romanzo si apre infatti proprio con la frase "Il giorno che l'avrebbero ammazzato, Santiago Nasar...", e d'altronde il fatto in sé è già suggerito nella "morte annunciata" contenuta nel titolo stesso del romanzo. Ma proprio partendo dall'esito finale, ciò che interessa è risalire attraverso gli antefatti e fare luce nella caotica fatalità delle ore, poche in fondo, nelle quali si svolgono i fatti che coinvolgono l'intero paese, è il gioco narrativo a catturare per lo stile vivace e ironico e poetico al tempo stesso, e per il percorso, quasi da detective story, che porta a svelare una verità umana amara e beffarda” (recensione del film trattada Wikipedia). Il film di Rosi, pur essendo tecnicamente ben confezionato e ottenendo un buon successo di pubblico, non riesce a riprodurre a pieno le atmosfere del romanzo e soprattutto gli incastri narrativi, il gioco beffardo di equivoci e fatalità osservato dai diversi punti di vista, che è poi il punto di forza dell'opera di Garcia Marquez. Nonostante lo splendido romanzo da cui è tratto e la sceneggiatura firmata dallo stesso Rosi e da Tonino Guerra, il film non rende appieno l'atmosfera del romanzo, forse indebolita anche da Rupert Everett, attore troppo inglese per impersonare un sudamericano. Nel 1989 gira un episodio del lungometraggio 12 registi per 12 città, corposo documentario – come da titolo – affidato a dodici registi diversi per presentare dodici tra le più importanti città d'Italia in occasione del campionato mondiale di calcio Italia '90. Precisamente: Michelangelo Antonioni (Roma), Giuseppe Bertolucci (Bologna), Mauro Bolognini (Palermo), Carlo Lizzani (Cagliari), Alberto Lattuada (Genova), Mario Monicelli (Verona), Ermanno Olmi (Milano), Gillo Pontecorvo (Udine), Francesco Rosi (Napoli), Giovanni Soldati (Torino), Franco Zeffirelli (Firenze) e Lina Wertmüller (Bari). Gira poi Dimenticare Palermo (1990), tratto dal romanzo di Edmonde Charles-Roux che tratta la storia di Carmine Bonavia, candidato sindaco di New York, che propone in campagna elettorale la legalizzazione della vendita delle droghe. Parte in viaggio di nozze per Palermo dove viene coinvolto in un omicidio. Alla fine è ucciso dal potere criminale che vede in lui un pericoloso avversario per i propri affari. Alcune sequenze sono di eccezionale splendore visivo e acuto è il mix tra concretezza documentaria e finzione.

Nel 1992 Francesco Rosi gira Diario napoletano. Nel 1963 il filminchiesta Le mani sulla città vinceva il Leone d'oro alla Mostra di Venezia; trent'anni dopo, il regista torna a Napoli per capire quanto sia diversa la realtà che in quel film aveva registrato. Con un linguaggio da diario, Rosi ripercorre le vie della città osservandone il degrado, la criminalità giovanile e le conseguenze del mercato della droga. La città è diventata più cattiva, ma Rosi lascia posto alla speranza che con la lotta si possa ridare alla città un volto civile. La tregua (1997) è un film tratto dall’omonimo romanzo di Primo Levi (1963) vincitore del Premio Campiello che racconta la storia della Germania nazista costretta a difendersi dall'arrivo delle truppe sovietiche da un lato e dall'inarrestabile avanzata degli alleati dall'altro. Vengono cancellate le tracce degli orrori commessi nei lager e i deportati ancora in vita vengono chiusi nei campi e lasciati al loro destino. Quelli del lager di Auschwitz, dopo essere stati liberati dai russi, cercano di tornare alle proprie case. Tra di essi c’è Primo Levi, ebreo, che racconta quindi in prima persona il viaggio di ritorno in Italia. Rosi si affida alla commozione ma anche alla contemplazione, per coinvolgere emotivamente lo spettatore e farlo meditare sull'importanza di non dimenticare. I materiali narrativi riordinati nel film hanno un'articolazione sintattica semplice che esclude rigorosamente qualsiasi indeterminatezza. Nel 2003 torna alla regia teatrale realizzando Napoli milionaria di Eduardo De Filippo. Nel 2008 gli è stato assegnato l'Orso d'Oro alla carriera al Festival di Berlino e nel 2009 la Legione d'Onore. 9.6 Elio Petri Petri manifesta da giovanissimo la sua passione per il giornalismo e a 16 anni ottiene il suo primo lavoro per un giornale locale. Nel 1949 diventa critico cinematografico per l'Unità e all'età di 23 anni inizia a lavorare nel mondo del cinema con De Santis, realizzando delle interviste che saranno la base del film Roma ore 11 (1951). Realizza due cortometraggi, Nasce un campione (1954) e I sette contadini (1957), ed è sceneggiatore dei film di De Santis e Bragaglia. All'età di 32 anni gira il suo primo lungometraggio,

L'assassino (1961), poliziesco con profonda analisi psicologica dei personaggi che ha problemi con la censura ma è accolto positivamente dalla critica. Sono presenti i temi fondamentali del suo cinema: la nevrosi e il potere. Nel 1963 realizza I giorni contati, film sulla crisi esistenziale con Salvo Randone, nel suo unico ruolo da protagonista al cinema. Dal libro di Lucio Mastronardi trae poi Il maestro di Vigevano (1963) e da un racconto di Robert Shekley il fantascientifico La decima vittima (1965). Realizza con produttori esordienti A ciascuno il suo (1967), tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia e interpretato da Gian Maria Volonté, facendo emergere con chiarezza la sua propensione al cinema d'impegno civile. Dopo la parentesi di Un tranquillo posto di campagna (1968), allegoria sul ruolo dell'artista nella società contemporanea, e un episodio del film militante Documenti su Giuseppe Pinelli, Petri realizza il suo film più noto, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), con Gian Maria Volonté nel ruolo di un commissario di polizia che uccide la propria invereconda amante e che, nonostante la sua confessione, non viene punito dai suoi colleghi preoccupati di difendere la reputazione dell'apparato. Il film ottiene un grandissimo consenso da parte del pubblico e l'anno seguente si aggiudica l'Oscar al miglior film straniero. È del 1971 La classe operaia va in paradiso, satira sulla vita in fabbrica, con cui nel 1972 (ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi) conquista la Palma D'Oro a Cannes. La "trilogia sul potere" sviluppata da Petri con lo sceneggiatore Ugo Pirro si conclude con La proprietà non è più un furto (1973). Nel 1976 Petri traspone per lo schermo un altro romanzo di Sciascia, Todo modo, che racconta un'assise segreta dei vertici della Democrazia Cristiana presso un convento come allegoria del suo definitivo disfacimento. Due anni dopo porta in televisione Le mani sporche, il capolavoro teatrale di Jean Paule Sartre e, successivamente, esprime un pessimismo portato alle estreme conseguenze ne Le buone notizie (1979), sovraccaricando volti, gesti e colori. Nel 2005 gli è stato dedicato il documentario Elio Petri. Appunti su un autore di Federico Bacci, Nicola Guarneri e Stefano Leone, presentato alle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia. I giorni contati (1962) è il secondo film di Elio Petri. Evidente il suo riferimento culturale alla Nouvelle vague, eloquentemente indicato da Tullio Kezich: "(...) Petri è il primo regista italiano che sovrappone alla lezione neorealistica le insofferenze di ripresa e di montaggio della

Nouvelle vague: il taglio delle sue scene si rifà a Godard, il senso di immediatezza che hanno molti episodi deriva da una tecnica sbrigativa ed improvvisa di ispirazione francese; il regista non si preoccupa di costruire (come in L'assassino), preferisce aggredire la realtà senza pregiudiziali narrative" (Tullio Kezich, "Il cinema degli anni Sessanta: 1962-1966", Edizioni Il Formichiere). La descrizione dello sbandamento esistenziale è messo in evidenza dalla fotografia di Ennio Guarnieri che sovraespone le riprese alla luce del giorno, con effetti di abbagliamento (Alberto Farassino e Ugo De Berti, "Le invenzioni: dalla tecnica allo stile", in, a cura di Giorgio De Vincenti, "Storia del cinema italiano" vol.X, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero). La decima vittima (1965) è un film di fantascienza tratto dal racconto The Seventh Victim di Robert Sheckley. Il film attinge alla tradizione della commedia all'italiana ma guarda al genere fantascientifico. A ciascuno il suo (1967) è un film liberamente ispirato all'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia che segna l'inizio del sodalizio artistico fra Petri, Pirro e Gian Maria Volonté, che darà vita ai titoli più celebri del cinema italiano impegnato degli anni settanta. “Forse il miglior film di uno dei più lucidi cineasti d'impegno sociale dell'epoca” (Il Mereghetti. Dizionario dei Film 2008). Il film si fa notare soprattutto per il linguaggio formalista che fa uso prepotente dello zoom, circostanza che gli valse la feroce critica di Maurizio Ponzi su Cinema e Film (Maurizio Ponzi. Petri: io lo conoscevo bene. Close-Up, dicembre 1998), ma non di Sandro Zambetti che su Cineforum considerò l'uso di grandangoli e teleobiettivi perfettamente coerente con la narrazione, efficace nel rendere con gli improvvisi avvicinamenti della macchina da presa la prospettiva di un osservatore distaccato che penetra nella vicenda, coglie i momenti rivelatori, scopre i lati nascosti dei personaggi (Sandro Zambetti. Cineforum, maggio 1967). Il Morandini scrive “un linguaggio aggressivo con forzature ottiche e sonore che possono infastidire per una loro schematica violenza espressiva” (Il Morandini 2008. URL consultato il 027-2008). Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 23° Festival di Cannes e del Premio Oscar 1971 tratta dell’assassinio effettuato dal capo della sezione Omicidi,

uomo reazionario, nello stesso giorno della sua promozione al comando della sezione Politica dell'arma, della propria bellissima amante nel suo appartamento. Il poliziotto dissemina la scena del delitto di prove. Arroganza del potere o convinzione della superiorità del sistema? L'unico testimone, un anarchico individualista, non lo denuncia per poterlo ricattare. La citazione di Franz Kafka “Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano” chiude il film. La classe operaia va in paradiso (1971) entra nella fabbrica italiana degli anni Settanta raccontando il rapporto degli operai con le macchine e i tempi di produzione ma coevamente esce fuori dai cancelli della fabbrica criticando tanto il movimento studentesco, che accusa di essere troppo teorico e distante dai reali problemi degli operai quanto i sindacati, cui addebita collusione con i padroni con cui concertano le decisioni che impattano sulla vita degli operai stessi, provocando livelli di alienazione a causa dei serrati ritmi di lavoro che continuano fuori dai cancelli, dentro le case, nella vita di tutti giorni mescolandosi ai rapporti personali. Ludovico Massa, detto Lulù, è un operaio a cottimo che mantiene due famiglie e che lavora già da 16 anni in fabbrica, utilizzato dai padroni per stabilire i ritmi ottimali di produzione e odiato dagli altri operai per il suo servilismo. Tutto ciò finché non ha un incidente sul lavoro e perde un dito, circostanza che lo sveglia dal sonno dell'alienazione facendogli improvvisamente prendere coscienza e facendolo schierare contro il ricatto del lavoro a cottimo e in favore delle istanze più radicali degli studenti e di alcuni operai della fabbrica, in contrapposizione alle posizioni più moderate dei sindacati. Si arriva allo scontro con la polizia con il risultato che viene lasciato dall'amante, licenziato e abbandonato dagli studenti. Quando tutto sembra perduto il sindacato ottiene il suo reintegro in fabbrica dove urlando, in balia dei serrati ritmi di produzione, racconta ai compagni di un muro e di una fitta nebbia oltre i quali c'è il paradiso della classe operaia. Sono presenti nella pellicola tutti i protagonisti della società italiana, sfilano sullo schermo le proteste studentesche – viste con occhio assai prossimo a quello pasoliniano – e la conflittualità di e in fabbrica, la paura della crescita del comunismo e le prime avvisaglie del terrorismo. Pur trattando temi alti e istituti sacri per la società borghese, come la polizia, a coerenza con il

nuovo volto sociale che ormai tutto tollera per inglobarlo, il film non subisce né censura né denuncie di vilipendio. La proprietà non è più un furto (1973) è un film grottesco, l’ultimo della trilogia composta da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (nevrosi del potere) e La classe operaia va in paradiso (nevrosi del lavoro), che completa l’analisi con la nevrosi del denaro. Narra di un impiegato di banca che, preso dall’odio nei confronti del denaro, assume come simbolo da punire un ricco macellaio e lo deruba progressivamente di ogni suo avere. Eccezionale è in questo film la fotografia del maestro Luigi Kuveiller che imprime al volto umano deformazioni ottiche per mettere in luce le sue alterazioni psicologiche. Todo modo (1976), ispirato all'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, è l'ultimo del connubio Petri/Volontè, sodalizio che contribuì alla fortuna del cinema politico italiano degli anni settanta. Si svolge all’interno di un eremo in cui uomini politici, grandi industriali, banchieri e dirigenti d'azienda democristiani si ritirano per gli esercizi spirituali di tre giorni. All'interno di questo luogo si decidono le sorti per il rinnovamento del partito, della struttura, dei vertici, degli interessi per mantenere saldo il potere nel Paese. Una serie di delitti vede l’eliminazione di tutti i capi storici del partito per scoprire alla fine che l'artefice della strage è il prete, che la porta a termine come atto d'amore nei confronti dell'Italia, prima di togliersi la vita a sua volta per completare l'opera. Volontè per interpretare Aldo Moro prese a studiarne i comportamenti, i discorsi, la mimica, l'inflessione della voce. Girato negli anni di piombo, dopo Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso, Todo modo presenta toni cupi e sarcastici fornendo una crudele parodia della classe politica che detiene il potere, con l’intento di denunciare la corruzione, il malcostume e l'imperversare di interessi personali nella gestione della cosa pubblica. È stato criticato dai democristiani e snobbato dai comunisti (era il periodo del compromesso storico), tanto da decretare la fine del cinema politico. Il rapimento di Aldo Moro rese invisibile il film per molti anni e la pellicola fu ritrovata bruciata presso gli archivi di Cinecittà. 9.7 Gillo Pontecorvo

Fratello del fisico Bruno Pontecorvo, cresciuto in una famiglia ebraica benestante, abbandona l'Università per seguire il fratello a Parigi, dove frequenta il mondo culturale francese (Pablo Picasso, Igor Stravinskij e Jean-Paul Sartre). Qui fa le sue prime esperienze nel cinema come assistente di Yves Allegrét. Nel dopoguerra, con una cinepresa 16mm, gira documentari a sfondo sociale, Missione Timiriazev (1953), Pane e zolfo (1956) e lavora come aiuto regista di Mario Monicelli e Steno. Nel 1957 dirige il suo primo lungometraggio, La grande strada azzurra, che vince un premio al Festival Internazionale del cinema di Karlovy Vary. Nel 1959 gira Kapò, nominato all'Oscar al miglior film straniero, che narra la storia di una deportata ebrea che, perduta la famiglia, è indotta a diventare sorvegliante del campo. Nel 1966 realizza il suo capolavoro, La battaglia di Algeri, Leone d'Oro alla Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, film che segue con stile asciutto la lotta di liberazione del popolo algerino, caratterizzato dalla coralità dei personaggi e da uno stile fotografico personalissimo, con immagini sgranate per dare la sensazione della presa diretta. Il film ottiene due nomination all'Oscar al miglior regista e all'Oscar alla migliore sceneggiatura originale. È del 1969 Queimada, film sulle sopraffazioni colonialistiche e sulla rivolta dei popoli oppressi in un paese del Sud America. Nel 1971 fu tra i firmatari dell'Appello de L'Espresso contro il Commissario Calabresi. Nel 1979 realizza un film sulla resistenza basca, Ogro, raccontando l'attentato a Luis Carrero Blanco del 1973 ma con chiari riferimenti alla realtà del terrorismo italiano. Nel 1986 Pontecorvo istituisce il Premio Solinas per i giovani sceneggiatori, e dal 1992 al 1996 è direttore della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, portando i giovani al festival e istituendo la giuria dei giovani per consegnare il premio Anica-Flash alla migliore opera prima. Torna al Lido nel 1997 per presentare il suo cortometraggio Nostalgia di protezione, parte del film a episodi I corti italiani. Nel 2001 partecipa alla regia collettiva del film Un altro mondo è possibile sul G8 di Genova e l'anno seguente a quella del documentario Firenze, il nostro domani. Un eccezionale ma povero curriculum (cinque lungometraggi in 35 anni) nel quale lascia intravvedere lo stato di disagio degli autori italiani a disegnare la realtà degli anni settanta con i suoi ambigui avvenimenti culturali, politici e sociali. 9.8 Giuliano Montaldo

Esordisce nel cinema negli anni '50 recitando nei film Achtung! Banditi! e Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani. Nel ‘61 comincia la sua carriera di regista realizzando film prevalentemente storici con allusioni a temi attuali, come nella trilogia sul potere (Gott mit uns del 1969, Sacco e Vanzetti del 1971 e Giordano Bruno del 1973). Nel 1971 fu tra i firmatari dell'Appello de L'Espresso contro il Commissario Calabresi. Realizza per la Tv Marco Polo (1982) e in teatro alcune opere liriche (Il trovatore del 1990 e La bohème del 1992). Dal 2000 è Presidente di Rai Cinema facendola diventare punto di riferimento per le principali produzioni cinematografiche. Dal 2005 è stato docente di Discipline dello Spettacolo presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università "La Sapienza" di Roma. Nel 2007 ha ottenuto il David di Donatello alla carriera, e nel 2008 il Premio Bianchi alla Mostra del Cinema di Venezia. Il suo primo film, Tiro al piccione, è un’opera fortemente anticonformista che lascia presupporre uno sviluppo nel filone del cinema politico che, invece, non avviene. Si dedica alla crescita stilistica con attenzione alle grandi figure storiche il cui sacrificio diventa simbolico segno erga omnes, come Sacco e Vanzetti dove descrive le ingiuste accuse mosse dalla giustizia americana ai due anarchici evidenziando una forte passione civile che ribalta il tema al presente.

9.9 Giuseppe Ferrara Giuseppe Ferrara si laurea in Lettere all'Università di Firenze con una tesi in storia del cinema, relatore Roberto Longhi. Nel '57 pubblica uno dei più acuti libri di storia del cinema italiano Il nuovo cinema italiano e, successivamente, due monografie, rispettivamente su Luchino Visconti e Francesco Rosi. Tra il ’59 e il ’77, realizza più di 70 documentari. Nel 1969 realizza il suo primo lungometraggio, Il sasso in bocca. Questo film ricostruisce circa 100 episodi di mafia (italiana e americana) dal fascismo fino agli anni Sessanta. Nel film non c'è un personaggio centrale. Il vero protagonista del film è la mafia, il cui rapporto con le strutture sociali è riportato con rigore, usando il linguaggio crudo, piano e diretto del cinegiornale e dei documentari. Ferrara realizza un’opera corale che, per molti versi, si rifa proprio alle lezioni del neorealismo. Il film vinse diversi premi ed ebbe un buon successo di pubblico, ma la critica lo accolse piuttosto freddamente. Pur rifacendosi a un certo cinema-verità (Francesco Rosi), Ferrara trascura volutamente la ricerca calligrafica in favore del linguaggio giornalistico, che lascia alle immagini crude della realtà gli effetti dello spettacolo. Nel 1974 realizza Faccia di spia che rappresenta l’ideologica continuazione de Il sasso in bocca. È una carrellata su molte vicende internazionali e sulle azioni della CIA per manipolare le stesse. I fatti esposti sono anche qui montati con ritmo secco, dal colpo di Stato del ‘54 in Guatemala, a quello del ‘73 in Cile, all'attività dei noti – e meno noti - gruppi eversivi in Italia e in Europa, in Africa, in Asia, ricollegando le azioni della CIA alle grandi famiglie della finanza multinazionale in difesa del loro potere. Ferrara utilizza il medesimo linguaggio filmico già sperimentato nel suo primo lungometraggio, arricchendolo di due novità: l’utilizzo di attori professionisti (Adalberto Maria Merli, Mariangela Melato, Francisco Rabal, Riccardo Cucciolla, Claudio Volonté, Lou Castel) e una fotografia più ricercata (il direttore della fotografia è qui Mario Masini, collaboratore di Carmelo Bene). Nel 1981 realizza Panagulis vive. È un documento sul fallito attentato contro il regime dei colonnelli organizzato dal poeta Panagulis e da suoi amici, della loro prigionia tra torture fisiche e psicologiche, della sua condanna a morte non messa in atto grazie alla solidarietà internazionale, del suo esilio, del suo rientro dopo la caduta del regime, della sua elezione politica in Grecia e della sua morte in

uno strano incidente stradale alla vigilia della presentazione di una sua interrogazione parlamentare. Nel 1984 gira Cento giorni a Palermo con un cast d’eccezione (Lino Ventura, Giuliana De Sio, Stefano Satta Flores, Adalberto Maria Merli, Lino Troisi, Arnoldo Foà, Accursio Di Leo) per raccontare i cento giorni del generale Dalla Chiesa a Palermo e della sua lotta alle cosche mafiose. Nel 1986 realizza Il caso Moro per raccontare i giorni di detenzione di Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse e l'impegno profuso vanamente dalla famiglia per la sua liberazione, tra l’accanimento ideologico dei brigatisti e l’ambiguità dei suoi amici democristiani e non, che lo vogliono ritenere impazzito o costretto dai rapitori, fino al suo abbandono da parte di tutti, amici, politici e alte cariche dello Stato. Nel film si ipotizza un complotto effettuato dai Servizi sfruttando le ingenue Br, che hanno portato inconsapevolmente benefici alla loggia massonica di Licio Gelli. L'immobilità e l’eccessiva risolutezza da parte del Governo e del Partito Comunista, ancorché spinti da motivazioni diverse, hanno segnato definitivamente il destino di Aldo Moro facendo piombare nel dimenticatoio la sua innovativa idea di Governo. Il linguaggio è ancora quello del cinema-verità tanto caro al regista, ma anche qui utilizza un cast d’eccezione affidando il ruolo di Aldo Moro alla meravigliosa interpretazione di Gian Maria Volonté. Nel 1993 realizza Giovanni Falcone. Il film è la ricostruzione del tentativo da parte del giudice Falcone di combattere la mafia in un contesto sociale pieno di ambiguità e della sua finale barbara uccisione. È un film documentario, una sorta di reportage sulla storia della Sicilia degli anni in cui Falcone fu giudice a Palermo e riuscì a costituire un pool di magistrati per la lotta alla mafia. La ricostruzione è precisa e attenta, anche di quegli aspetti (si pensi ai dialoghi tra Falcone e Buscetta) che erano rimasti sconosciuti al pubblico. L'evoluzione concatenata dei fatti e la loro descrizione sono crude e secche per dare l'impressione di vedere protagonisti sullo schermo non gli attori Placido, Giannini, Bonetti, bensì gli uomini Falcone, Borsellino, Cassarà. La cinepresa diventa testimone diretto, confermando Ferrara come il maestro del cinegiornalismo. Anche questo film, preceduto e seguito da polemiche e denuncie, fu accolto freddamente dalla critica (ottimo il successo di pubblico) che non scorge l'intenzità dei ritmi cinematografici imposti dal linguaggio ferrariano, lamentando di converso l’assenza del dramma spettacolare che altri registi (più attenti agli aspetti commerciali)

realizzano attraverso una ricerca introspettiva dei personaggi che al Ferrara poco interessa. Nel 2002 realizza I banchieri di Dio, la storia di Roberto Calvi. Ferrara torna sulla storia politica degli anni '80 (dopo aver denunciato le deviazioni dei Servizi segreti italiani in Segreto di Stato) raccontando la storia di Calvi, arrestato nel 1981 per il fallimento del Banco Ambrosiano, condannato a quattro anni di reclusione e al pagamento di una multa di 15 miliardi, fatto fuggire all'estero e trovato 'suicidato', impiccato il 18/06/82 sotto il Blackfriars Bridge di Londra. Un caso mai risolto, nel quale sono coinvolti lo IOR del Vaticano, l'Opus Dei, la Massoneria di Licio Gelli, esponenti politici, i servizi segreti e, infine, figure legate al mondo della mafia. Ferrara ha detto in proposito: "Nel momento storico attuale, in cui assistiamo alla manipolazione di ogni aspetto della vita pubblica e anche delle coscienze, un film sui finanzieri dei poteri occulti è un fatto antimanipolatorio per eccellenza". Con questo film il regista si aggiudica una ennesima denuncia per diffamazione da parte di Flavio Carboni (nel film interpretato da Giannini), ambiguo faccendiere con contatti nel mondo della mafia e nelle alte cariche del Vaticano. Il processo è stato vinto dal regista in appello in quanto i suoi legali hanno dimostrato che per la ricostruzione dei fatti si era basato solo su atti, documenti, dati e informazioni pubblici. Il film è però rimasto nelle sale per poche settimane, con conseguenze economiche assai pesanti. La Rai ha acquisito i diritti per trasmetterlo sulle reti pubbliche ma il suo futuro televisivo resta incerto. 9.10 Marco Ferreri Marco Ferreri nasce a Milano nel 1928 dove s'iscrive alla facoltà di Veterinaria senza raggiungere la laurea. Nel 1958 incontra a Barcellona Rafael Azcona e insieme dirigono il film El pisito (1958) a cui seguono Los chicos (1959) e El cochecito (1960). Il buon successo ottenuto con questi primi tre film spagnoli consente al regista di dirigere in Italia due degli undici episodi di Le italiane e l'amore (1961) scritti da Azcona che diventa il suo sceneggiatore. Con il film Una storia moderna: l'ape regina (1963) inizia il suo impegno intellettuale al cinema. Realizza poi La donna scimmia (1964), una grottesca storia di un uomo che sposa una donnascimmia per sfruttarla come attrattiva da circo. Sempre nel ’64 realizza l'episodio Il professore di Controsesso (1964). In Marcia nuziale (1965)

affronta il tema dell'adulterio e del rapporto di questo con la Chiesa. Dirige poi l'episodio L'uomo dei cinque palloni (1965) - uscito come episodio all'interno di Oggi, domani e dopodomani, era stato girato come film e fu ridotto per una discutibile operazione commerciale del produttore Carlo Ponti a un episodio di mezz'ora del richiamato film Oggi, domani e dopodomani diretto da Luciano Salce ed Eduardo De Filippo. Nel 1979 esce la versione originale (già uscita nel ’69 in Francia). Un ricco proprietario di una fabbrica di cioccolato sta per sposarsi. Il non senso della sua vita è scosso da un episodio di ordinaria follia. Infatti, dopo aver raccolto uno dei palloncini gonfiabili utilizzato dalla sua ditta come gadget pubblicitario, inizia a chiedersi fino a che punto, esattamente, un palloncino possa essere gonfiato prima di esplodere e decide di rivolgersi a diversi esperti scientifici per trovare la soluzione che non troverà e finirà per morire suicida. Rappresenta una spietata analisi di Ferreri sulla superficialità della società capitalistica in cui al di fuori della produzione propria e ponendosi interrogativi che non consistano nella ricerca di un modo per fare più soldi, il capitalista ne è annichilito, incapace di darsi risposte e di trovarne nelle persone di cui si circonda. Il film è una metafora dell'incapacità di realizzazione dell'essere umano, (è impossibile sapere quanto si possa gonfiare completamente un pallone senza che esso ad un certo punto scoppi). E poi ancora Il fischio al naso (1967), L'harem (1967), Dillinger è morto (1968). Tutta la sua opera sembra dedicata a una visione fantascientifica del mondo, con ben delineabili, quasi palpabili, allegoriche metafore sulla contemporaneità che il maestro vede solo in una proiezione onirica al futuro. Egli sta al cinema come Picasso alla pittura, disegnando – attraverso un universo popolato da mostri esistenti nella quotidianità e invisibili ai più – un sistema nella massima coerenza di quella che è la realtà sociale e politica in una dimensione surreale e grottesca che lo elevano ai massimi vertici dell’intellettualità culturale dell’epoca. Ferreri analizza il rapporto di coppia vedendo in esso il disfacimento degli ideali intimistici e affettivi, esamina i rapporti conflittuali fra gli individui vedendo in essi la lotta per la sopravvivenza che sfocia nel cannibalismo se non anche nell’antropofagia. La sua svolta stilistica, tematica e di linguaggio la realizza in Dillinger è morto, dove il suo atto di accusa (se è corretto chiamarlo così) è contro il sistema dei media che organizzano e risolvono il sistema comunicativo dei personaggi che trovano la loro fuga

nella purificazione ancestrale da cui ricominciare una nuova vita. Ne Il seme dell'uomo (1969) dopo un viaggio brevissimo attraverso una galleria che li porterà a casa, due giovani si ritrovano in un altro mondo dove tutti sono morti. Si insediano in una casa abbandonata in riva al mare e sopravvivono con quello che trovano nei dintorni, mentre la televisione trasmette immagini del mondo che brucia. Ben presto arriva un'altra donna che si invaghisce del ragazzo e tenta di uccidere la ragazza che, reagendo, uccide la rivale, offrendo il corpo in pasto all'inconsapevole compagno. Il ragazzo le mette incinta e lei, disperata, gli chiede perché l'ha fatto, mentre lui grida "Il seme dell'uomo ha germogliato! Ho seminato!", ma la terra esplode sotto i loro piedi. Ne L'udienza un uomo cerca in tutti i modi di essere ricevuto dal Papa a cui deve dire qualcosa che nel film non viene svelato, cercando aiuto in tutti i modi e con chiunque incontri e alla fine muore a San Pietro, dove la storia è incominciata. Continua con il film La cagna (1972) tratto dal racconto "Melampo" di Ennio Flaiano, sull'isolamento di un uomo dalle velleità del mondo quotidiano e sul suo amore per una ragazza che lo segue sempre. La grande abbuffata (1973) è il più noto dei film di Ferreri. In esso si racconta di alcuni amici che si incontrano in una villa, e lì si uccidono consumando cibo, bevande, sesso, amicizia. Il film contiene una feroce critica alla società dei consumi. Nonostante l'altissimo livello culturale, interpretativo e linguistico, il film è stroncato dalla critica, ma riscuote un grandissimo successo di pubblico. Nel film Non toccare la donna bianca (1974), Ferreri traspone la battaglia del Little Bighorn e la sconfitta del Generale Custer da parte di Toro Seduto, nella Parigi moderna. Girato durante i lavori che hanno cambiato Les Halles, Ferreri filma la voragine al centro di Parigi come fosse un canyon del Far West. Gli abitanti del quartiere diventano gli indiani, il "potere" è rappresentato dagli industriali che si dicono promotori del progresso e che chiamano Custer a togliere di mezzo gli indiani che invece l’ostacolano. Con L'ultima donna (1976) sviluppa il tema della donnaoggetto che viene scelta secondo canoni sessuali e che alla fine si vendica spingendo l'uomo ad evirarsi. Nel 1978 esce Ciao maschio in cui il protagonista sceglie di allevare una scimmia anziché sua figlia. Nel 1979 la commedia Chiedo asilo (1979) con un inedito Roberto Benigni e, nell’81, Storie di ordinaria follia ispirato ad una raccolta di racconti di Charles Bukowski. Storia di Piera (1983), è la versione romanzata della vita

dell'attrice Piera degli Esposti, sulla base della sua autobiografia scritta a quattro mani con Dacia Maraini. Il futuro è donna (1984) tratta il tema della violenza sessuale e I love you (1986), le indecisioni del maschio. Dopo La casa del sorriso (1990) e La carne (1991), gira ancora Diario di un vizio (1993) per accomiatarsi dal cinema con Nitrato d'argento (1996). Muore d'infarto il 9 maggio 1997 a 69 anni. 9.11 Ettore Scola Nato a Trevico (Avellino) nel 1931, è sin da giovane collaboratore del giornale umoristico Marc'Aurelio, addirittura mentre ancora frequenta giurisprudenza all'Università di Roma. Dalla metà degli anni '50 comincia a scrivere sceneggiature. Inizia la sua carriera con Age e Scarpelli con Un americano a Roma (1954), Totò nella luna (1958), La grande guerra (1959), Crimen (1960) e Totò, Fabrizi e i giovani d'oggi (1960). A 34 anni esordisce alla regia con Se permette parliamo di donne (1964). È una galleria di episodi boccacceschi che tratteggiano i comportamenti in amore di vari tipi di donna italiana, come quello che mostra una ragazza siciliana che si concede per paura ad un uomo solo perché questi è armato di lupara, o quello sulla moglie di un carcerato che cerca di far ottenere una licenza al marito per potergli poi attribuire il figlio che porta in grembo. Lavora per la prima volta con Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l'amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968). È un film commedia in cui un ricco editore, stanco della monotonia di Roma, parte per l'Africa alla ricerca del cognato, di cui da lungo tempo non si hanno più notizie, trascinando nell'impresa anche il proprio ragioniere. Il cognato ritrovato – che era diventato santone di una tribù - decide di ripartire verso l'Italia ma, salito sulla nave vede la sua tribù al completo che dalla riva lo chiama a gran voce pregandolo di restare e dopo un momento di esitazione si getta in acqua e torna indietro. Con Il commissario Pepe (1969) e Dramma della gelosia - Tutti i particolari in cronaca (1970) Scola entra nel decennio più importante della sua carriera. Nel 1972 realizza La più bella serata della mia vita. Il film è ispirato al racconto La panne. Una storia ancora possibile di Friedrich Dürrenmatt ed è stato girato all'interno del Castello di Tures. Il senso di ambigua drammaticità è il pilastro portante del racconto che appare fedele allo spirito di Dürrenmatt soprattutto nell'ultima sequenza

proposta fra l'onirico e il surreale, in cui il protagonista condannato nel processo subito al castello muore precipitando nel burrone inseguendo la donna che al castello lo aveva portato. Nel 1974 dirige C'eravamo tanto amati, film che ripercorre un trentennio di storia italiana dal 1945 al 1975 attraverso le vicende di tre amici tutti innamorati della stessa donna. Ormai Scola è un maestro del cinema italiano e un regista di fama internazionale che ci ha regalato capolavori come Brutti, sporchi e cattivi (1976), grottesca commedia delle borgate romane con Nino Manfredi. Vincitore del premio per la miglior regia al 29° Festival di Cannes, pone sotto i riflettori la periferia romana dei primi anni settanta e le sue baracche, raccontate impietosamente con tutte le loro miserie, morali e materiali. Scrive Alberto Moravia nella sua recensione, scritta all'uscita del film: "In questo Brutti, sporchi e cattivi si direbbe che Ettore Scola abbia voluto riprendere certi schemi del neorealismo. Ma non è così. Lo stile di Scola è diverso da quello di un De Sica almeno quanto i suoi poveri sono diversi da quelli del regista di Ladri di biciclette. Cosa è successo per provocare questa diversità fondamentale? C'è stato quello che Pier Paolo Pasolini chiamava il cambiamento antropologico del consumismo; e che noi, più modestamente, definiremmo la scomparsa della speranza di tempi migliori. A questi tempi migliori, non crede non soltanto Mazzatella che infatti si comporta come in una specie di negativa eternità: ma neppure il regista il cui sguardo è sempre alla ricerca di un effetto che colpisca piuttosto che di un tratto che commuova, testimonia un curioso ritorno del barocchismo irrealista, latente nell'arte italiana. In questo notevole film, l'insistenza sui particolari fisici laidi e ripugnanti potrebbe addirittura far parlare di un nuovo estetismo in accordo coi tempi, che viene ad aggiungersi ai tanti già defunti: quello del «brutto», dello «sporco» e del «cattivo». Comunque siamo in un clima piuttosto di contemplazione apatica che di intervento drammatico. Nino Manfredi ha creato con straordinaria misura e sottigliezza un personaggio memorabile" (Alberto Moravia, L'Espresso - 10/11/1975). Nel 1977 dirige alcuni episodi dei Nuovi mostri e la storia semplice e poetica di Una giornata particolare. La vicenda riassume la vita di due persone segregate in casa dal fascismo, la madre di sei figli, sposata a un impiegato statale fascista, e un radiocronista omosessuale epurato per le sue tendenze sessuali. I due si conoscono e si amano in una "giornata particolare", quella dell'arrivo di Hitler a Roma prima della seconda guerra mondiale. Ma il loro

amore non può più continuare perche lui deve andare a morire al confino. Lei è una donna ignorante e plagiata dalla figura di Mussolini. Lui rappresenta l'intellighenzia vigile ma impotente che ben poco ha potuto fare contro la violenza squadrista, ma anche la diversità, in tutti i sensi. Nel 1980 il regista tira le somme della commedia all'italiana ne La terrazza, amaro bilancio di un gruppo di intellettuali di sinistra in crisi. Nel 1982 affronta la Rivoluzione francese in Il mondo nuovo. Scola torna a ricevere una buona accoglienza di critica e pubblico quando dirige Maccheroni (1985), ma soprattutto il successivo La famiglia (1987), commedia che ripercorre 80 anni di storia (1906-1986) attraverso la saga di una famiglia. Altri film di rilevo sono Splendor (1988) e Che ora è? (1989). Nel 1995 Romanzo di un giovane povero. Nel 1998 gira La cena, nel 2001 Concorrenza sleale e nel 2003 il semidocumentaristico Gente di Roma. Ha fatto parte del governo ombra del PCI nel 1989 con delega ai Beni Culturali. 9.12 Marco Bellocchio Marco Bellocchio nasce a Bobbio nel 1939. Fin da piccolo alle scuole salesiane la sua irriverenza verso i canoni clericali lo porta ad essere considerato un ribelle. Nel 1959 frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e nel 1962 acquisisce il diploma di regia, per poi proseguire a Londra i suoi studi sul cinema. Tornato in Italia proprio nel suo luogo di nascita, a Bobbio, in provincia di Piacenza, all'età di 26 anni, dirige I pugni in tasca (1965), in cui già si nota il suo anticonformismo, così come nei successivi La Cina è vicina (1967) e Il popolo calabrese ha rialzato la testa (Paola) (1969), espressioni della rivolta sessantottina contro le istituzioni. I pugni in tasca è realizzato in grande economia ed è circolato con una distribuzione indipendente. La famiglia Bellocchio ha contribuito alla sua realizzazione (il fratello di Marco Bellocchio ha finanziato l'opera con cinquanta milioni; l'interno della casa è quello della madre del regista) (informazioni tratte da Sandro Bernardi, Marco Bellocchio, Il Castoro, 1978). Nel 1969 dirige un episodio del film Amore e rabbia (1969) firmato da Pasolini, Bertolucci, Lizzani e Godard. Nel 1971 è tra i firmatari dell'appello pubblicato sul settimanale L'espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Nel 1972 diresse Gian Maria Volonté in Sbatti il mostro in

prima pagina. Dopo Pianeta Venere (1974, diretto da Elda Tattoli), Bellocchio fa un atto d'accusa contro i manicomi in Nessuno o tutti - Matti da slegare (1975) e gira una versione del romanzo di Anton Čechov Il gabbiano (1977). Dopo Armonica a bocca (1979) e Vacanze in Val Trebbia (1980) dirige Marcello Mastroianni in Enrico IV (1984), tratto da una commedia di Luigi Pirandello, e quindi Il diavolo in corpo (1986) tratto dal libro di Raymond Radiguet e La visione del Sabba (1987). Poi realizza La condanna (1990) e La balia (1999). Nel 2002 dirige Sergio Castellitto in L'ora di religione, con cui vince il Nastro d'Argento, e l'anno successivo rievoca la prigionia di Aldo Moro in Buongiorno, notte. Qui, attraverso un mix tra narrazione e documenti televisivi originali, il regista racconta il dramma umano di Aldo Moro e il dubbio che si era insinuato in una brigatista. La trama è ripresa liberamente dal libro Il prigioniero della brigatista Annalaura Braghetti, dove si narra del rapimento e della detenzione, da parte delle brigate rosse. Il film, coprodotto da FilmAlbatros e Rai Cinema, è stato riconosciuto d'interesse culturale nazionale dalla Direzione Generale per il Cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano. Il film esce in contemporanea con la Mostra di Venezia (settembre 2003) e diventa il maggiore incasso mai realizzato da Bellocchio al cinema. Ottiene anche un rilevante successo di critica. Nel 2006 si candida alle elezioni politiche per la Camera dei Deputati, nella lista della Rosa nel Pugno costituita da radicali e socialisti, abbandonando le sue storiche posizioni comuniste. Nel 2006 dirige nuovamente Castellitto in Il regista di matrimoni. Il suo film più recente, Vincere (2009), racconta la tormentata vita di Ida Dalser, amante di Benito Mussolini e madre di suo figlio Benito Albino, ritenuta malata di mente per i suoi ripetuti ma vani tentativi di vedere riconosciuta la paternità del figlio da parte del Duce. 9.13 Nanny Loy Diviene famoso presso il grande pubblico per la serie televisiva Specchio segreto (1964). Sempre per la televisione ha diretto il film A che punto è la notte (1994) tratto dal romanzo di Fruttero & Lucentini. Come regista cinematografico ha realizzato film improntati a una satira amara e pungente (Il padre di famiglia, Cafè Express, Mi manda Picone), sconfinando in opere di denuncia sociale come Detenuto in attesa di

giudizio e Sistemo l'America e torno. Nel 1971 fu tra i firmatari dell'appello pubblicato sul settimanale L'Espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Muore di cancro nell’agosto del 1995. Tra i suoi lavori più impegnativi ricordiamo Un giorno da leoni; Le quattro giornate di Napoli (nel quale è descritta la rivolta popolare scoppiata a Napoli spontaneamente a seguito della fucilazione di alcuni marinai italiani il 28 settembre del 1943 e che in quattro giorni sconfisse e mise in fuga i tedeschi dalla città prima dell'arrivo degli alleati; film corale nel quale si mescolano singoli episodi e personaggi popolari protagonisti della rivolta); Detenuto in attesa di giudizio; Mi manda Picone. 9.14 Damiano Damiani Segnalatosi nel 1960-62 con la trilogia psicologica Il rossetto, Il sicario e L'isola di Arturo (tratto dall'omonino romanzo di Elsa Morante), fu poi esponente del filone politico-civile con Quien sabe? (1967), Il giorno della civetta (1968), tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, Confessioni di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica (1971), forse il suo migliore film, L'istruttoria è chiusa: dimentichi (1972), Perché si uccide un magistrato (1974), Io ho paura (1977), L'avvertimento (1980), Amityville Possession (1982), Pizza Connection (1985), L'inchiesta (1987), Il sole buio (1989), L'angelo con la pistola (1992). Per la televisione ha diretto, tra l'altro, gli sceneggiati La piovra (1984) e Il treno di Lenin (1990). Quien sabe? è il primo spaghetti western che ha come protagonisti dei ribelli messicani. Gian Maria Volonté durante un'intervista ha detto: “Non scelgo veramente i miei ruoli: accetto un film o non lo accetto in funzione della mia concezione del cinema. E non si tratta di dare una definizione del cinema politico, cui non credo perché ogni film, ogni spettacolo, è generalmente politico: il cinema apolitico è un'invenzione di cattivi giornalisti. Cerco di fare film che dicano qualcosa sui meccanismi di una società come la nostra, che rispondano a una certa ricerca di un brandello di verità. Per me c'è la necessità di intendere il cinema come mezzo di comunicazione di massa - così come il teatro, la televisione. Mi è capitato di fare film che non corrispondevano esattamente a questa concezione, in particolare i western, ma mi trovavo, quando li ho fatti, a uno stadio della mia carriera in cui era necessario che io mi facessi

conoscere sul mercato, perché i film "contenutistici" che avevo fatto (Un uomo da bruciare, Il terrorista...) erano ignorati dal meccanismo di distribuzione e dal pubblico. Il western di Damiani, Quien Sabe?, era un caso molto diverso, perché la sceneggiatura trattava in definitiva dell'imperialismo nordamericano e del ruolo della Cia in America Latina”. 9.15 Bernardo Bertolucci Bernardo Bertolucci nasce a Parma nel 1941. Inizialmente sembra seguire la strada paterna, interessandosi di poesia e iscrivendosi alla Facoltà di Letteratura Moderna dell'Università La Sapienza di Roma, ma ben presto abbandona gli studi per il cinema facendo da assistente a Pier Paolo Pasolini, suo vicino di casa. Proprio grazie a Pasolini e all'interessamento del produttore Cino Del Duca, Bertolucci lavora come assistente nel primo film diretto dal letterato friulano, Accattone (1961). Su quel set incontra l'attrice Adriana Asti, che sarà poi sua compagna per diversi anni. L'anno seguente, con Tonino Cervi come produttore, realizza il suo primo lungometraggio, La commare secca, su soggetto e sceneggiatura di Pier Paolo Pasolini, che inizialmente avrebbe dovuto esserne anche il regista. Si stacca ben presto dal mondo e dalla poetica pasoliniani per costruire un linguaggio e uno stile propri su una tematica che sarà presente in tutte le sue opere, a partire dal secondo film, Prima della rivoluzione (1964), dove è esemplificata nella storia di un giovane della borghesia agricola medio-alta di Parma che, incapace di reagire al suicidio del suo amico più caro, si getta a capofitto in una relazione con una matura e piacente zia giunta da Milano. Anche nei film che seguono, Bertolucci continua il suo personale discorso intorno all'ambiguità esistenziale e politica, soprattutto in Partner (1968), interpretato da Pierre Clementi, ne Il conformista (1970) con Jean-Louis Trintignant e in Strategia del ragno, opere presentate in diversi festival ma dallo scarso successo di pubblico. La grande notorietà per Bertolucci arriva nel 1972, con Ultimo tango a Parigi, con Marlon Brando e Maria Schneider, dove il sesso è visto come unica risposta possibile, ma non definitiva, al conformismo del mondo circostante; i protagonisti di questo film, come quelli che seguiranno, sono esseri sbandati, la cui unica via d'uscita è la trasgressione. Bertolucci accresce la sua notorietà con Novecento (1976), epico affresco delle lotte contadine emiliane dai primi

anni del secolo alla Seconda guerra mondiale, La luna, in cui affronta il tema della droga e dell'incesto, e La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Negli anni Ottanta Bertolucci gira soprattutto all'estero kolossal di straordinaria potenza visiva. Nel 1987 dirige in Cina L'ultimo imperatore, un grande successo internazionale che si aggiudica ben nove premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la migliore regia. Nel 1990 gira in Marocco il film Il tè nel deserto (1990), tratto da un romanzo di Paul Bowles, mentre nel 1993 è la volta del Piccolo Buddha con Keanu Reeves, ambientato in Nepal e negli Stati Uniti. In seguito il regista torna a girare in Italia le sue tematiche intimiste, con Io ballo da sola (1996), L'assedio (1998) e The Dreamers (2003), che ripercorre una vicenda di passioni politiche e rivoluzioni sessuali di una coppia di fratelli, nella Parigi del 1968. Nel 2007 riceve il Leone d'Oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 1971 fu tra i firmatari dell'appello pubblicato sul settimanale L'espresso contro il commissario Luigi Calabresi. 9.16 Paolo e Vittorio Taviani Paolo e Vittorio Taviani nascono a San Miniato rispettivamente nel ’31 e nel ‘29. Nel 1960 approdano al cinema dirigendo insieme a Joris Ivens il documentario L'Italia non è un paese povero, mentre con Valentino Orsini firmeranno i film Un uomo da bruciare (1962) e I fuorilegge del matrimonio (1963). Il loro primo film autonomo è I sovversivi (1967), con il quale anticipano gli avvenimenti del '68. Con Gian Maria Volonté raggiungono il grande successo con Sotto il segno dello scorpione (1969) in cui s'avvertono gli echi di Brecht, Pasolini e Godard. È il loro primo film a colori che racconta come alcuni naufraghi provenienti da un'isola distrutta dall'eruzione di un vulcano, gli Scorpionidi,, approdino in una terra simile a quella dalla quale sono fuggiti e nella quale la popolazione che vive sotto la minaccia della distruzione cerca di adattarsi rifugiandosi nelle zone protette dell'isola. Gli Scorpionidi vogliono invece convincere gli altri a fondare una società ideale sul continente. Nel 1971 furono tra i firmatari del documento pubblicato sul settimanale L'espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Dirigono un perfetto Mastroianni nel film sulla restaurazione Allonsanfan (1974) attorniato da Laura Betti e Lea Massari. Questo film è ambientato negli anni della Restaurazione. Chiari sono i riferimenti cinematografici a Rossellini, a Chaplin e a Bresson, ai quali si aggiunge la concezione propria

dei fratelli Taviani dell'ideologia intesa come passione e scelta di vita. Il titolo Allosanfan (inizio della Marsigliese) è anch’esso un omaggio alla rivoluzione francese che con le sue utopie segna l'inizio della moderna democrazia. Questa escalation di successi progredisce e girano film come Il prato (1979) in cui si riscontrano echi neorealistici, o La notte di San Lorenzo (1982). È questo il nono film dei fratelli Taviani. Splendido affresco della campagna toscana dell'agosto del 1944, che fa da sfondo a uno dei tanti episodi di ferocia e crudeltà della nostra storia recente, raccontato guardando però alle tenerezze, la buona volontà, gli eroismi e la paura della gente comune. Con Padre padrone (Palma d'Oro 1977), tratto dal romanzo di Gavino Ledda (Sardegna anni '40; Gavino Ledda bambino di 6 anni è costretto dopo soli due mesi di scuola ad abbandonare l'istruzione per aiutare il padre a pascolare il gregge. Gavino cresce nel pieno isolamento dalla civiltà e dai contatti umani. Sarà il reclutamento nell'esercito a 21 anni a permettegli di fuggire da questa oppressione e di staccarsi dal rapporto di pseudo-schiavitù che lo legava al padre, padrone, come compare a Gavino Ledda, protagonista del film, durante la lettura del dizionario in cui cerca di conoscere a fondo i rudimenti della lingua italiana, e a cui si appassionerà nonostante i moltissimi anni passati nel pieno analfabetismo e nella servitù verso il proprio padre) e Kaos tratto da Pirandello (1984) iniziano una serie di adattamenti letterari che proseguono con Good morning Babilonia (1987), presentato fuori concorso al 40° Festival di Cannes e ambientato in Toscana e nella California negli anni '10 (narra le vite di due fratelli scultori toscani costretti all'emigrazione verso l'America, la loro carriera a Hollywood sul set del film Intolerance di Griffith, lo scoppio della Prima Guerra Mondiale) e La masseria delle allodole (2007). 9.17 Ermanno Olmi Ermanno Olmi (Bergamo, 24 luglio 1931) è un regista e sceneggiatore italiano. Nato da una famiglia contadina e cattolica, orfano di padre (morto nella Seconda guerra mondiale), frequenta prima il liceo scientifico e poi il liceo artistico, ma non termina gli studi. Si trasferisce a Milano dove si iscrive all'Accademia di Arte Drammatica e, allo scopo di mantenersi, trova lavoro presso la Edisonvolta, dove già lavorava la madre, che gli affida

l'organizzazione delle attività ricreative per i dipendenti e gli richiede di documentare le produzioni industriali attraverso filmati. Olmi dimostra qui la sua intraprendenza e il suo talento professionale: senza alcuna esperienza, tra il 1953 ed il 1961 realizza eccellenti documentari, come La diga sul ghiacciaio, Tre fili fino a Milano (1958) e Un metro è lungo cinque. In otto anni, quasi quaranta documentari nei quali si nota l'attenzione alla condizione degli uomini che lavorano nelle strutture aziendali. Rossellini disse cedendo questi documentari: “Questo modo di fare il cinema significa scoprire il mondo”. Finalmente nel 1959 Olmi debutta sul grande schermo con il lungometraggio Il tempo si è fermato, che narra la storia dell'amicizia fra uno studente e il guardiano di una diga nell'isolamento e la solitudine dell'alta montagna. Olmi guarda ai sentimenti delle persone "semplici", al rapporto con la natura e alla solitudine. Due anni dopo con Il posto (prodotto da una casa di produzione costituita dallo stesso Olmi con un gruppo di amici) ottiene il consenso della critica. Il film ruota intorno alle aspirazioni di due giovani alle prese con il loro primo impiego. Nel successivo film, I fidanzati (1963) si ritrova sempre l'attenzione alle cose semplici della vita, al mondo operaio, con una forte vena intimistica. Gira in seguito E venne un uomo (1965), una biografia di Papa Giovanni. E poi ancora Un certo giorno (1968), I recuperanti (1969), Durante l'estate (1971) e La circostanza (1974) per arrivare, nel 1977, alla realizzazione del suo capolavoro, L'albero degli zoccoli (1978), che si aggiudica la Palma d'Oro al Festival di Cannes e il Premio César per il miglior film straniero. Il film guarda con realismo ed alta elegia poetica il mondo contadino bergamasco, l'ambiente nel quale Olmi è nato e cresciuto. Nel 1982 a Bassano del Grappa fonda la scuola di cinema Ipotesi Cinema e nello stesso anno dirige Cammina cammina, allegoria sulla favola dei Re Magi. Dopo una dura lotta contro una grave malattia, nel 1987 Olmi torna a dirigere la pellicola Lunga vita alla signora!, premiato al Festival di Venezia con il Leone d'Argento. L'anno seguente si aggiudica, invece, il Leone d'Oro grazie a La leggenda del santo bevitore, basata sull' omonimo racconto scritto da Joseph Roth adattato da Tullio Kezich e dal regista stesso. Oltre al premio della rassegna lagunare, il film vince quattro David di Donatello. Cinque anni dopo, nel 1993, realizza Il segreto del bosco vecchio dall'omonimo romanzo di Dino Buzzati. Nel 1994 dirige un episodio del progetto internazionale Le storie della Bibbia, a cui partecipa anche la RAI,

Genesi: la creazione e il diluvio. Nel 2001 dirige il film Il mestiere delle armi, presentato con successo al Festival di Cannes 2001 e vincitore di 9 David di Donatello 2002: "miglior film", "miglior regista", "migliore sceneggiatura", "miglior produttore", "miglior fotografia","miglior montaggio","miglior musica","migliori costumi","migliore scenografia". Nel 2003 racconta vicende di pirati e di arrembaggi in Cantando dietro i paraventi. Nel 2005 collabora con altri due grandi registi, Abbas Kiarostami e Ken Loach, nel film Tickets. Nel 2007 esce Centochiodi, che Olmi annuncia come il suo ultimo film di finzione, avendo deciso d'ora in poi di tornare a dirigere solo documentari. Nel 2008 riceve il Leone d'oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. In Centochiodi (2007) un giovane professore di filosofia della religione, con un gesto simbolico di ribellione abbandona la propria vita di intellettuale affermato e scompare senza lasciare alcuna traccia, scegliendo di stabilirsi in un cascinale in rovina lungo le rive del fiume Po, dove viene accolto con semplicità dagli abitanti del luogo, che lo chiamano Gesù, per il suo aspetto e la sua scelta di vita. Fa amicizia in modo particolare con un giovane postino e una ragazza che lavora in panetteria e si infatua di lui. “Ho cominciato a frequentare e conoscere i fiumi quando facevo il documentarista per la società elettrica Edison (...) Il fiume assomiglia molto allo sviluppo della creazione della vita. È un processo di trasformazione continua. (...) un cammino lento, continuo, inesorabile (...) Il Po è il fiume per eccellenza. Tutti gli sputano addosso, gli pisciano sopra, gli fanno ogni genere di cose. Ma lui continua il suo corso, tranquillo, portando tutto con sè fino al mare” (Daniela Giuffrida, Intervista a Ermanno Olmi, in I viaggi di Repubblica, 1 settembre 2005). I giudizi sul film sono stati influenzati sia dal dibattito politico e culturale su religione e laicismo nella società contemporanea, sia dal fatto che Olmi volesse abbandonare con questo film il cinema di finzione per tornare ai documentari (dichiarazione riportata dalla generalità degli articoli dedicati al film, es. Silvana Silvestri, Il manifesto, 24 marzo 2007), circostanze che hanno dato all’opera la connotazione di "film-testamento", a cui tributare quindi una particolare attenzione, estesa a una considerazione generale sull'intera opera dell'autore.

Il mestiere delle armi (2001) parla degli ultimi giorni di vita di Giovanni dalle Bande Nere, pseudonimo di Giovanni De' Medici, soldato di ventura italiano al servizio dello Stato Pontificio durante le guerre d'Italia nella prima metà del XVI secolo. Per descrivere la guerra il regista non ha bisogno del sangue. La sofferenza viene dal freddo, dalla fame e dal peso delle armi e delle armature trascinate sulla neve nella pianura padana. Perché "il mestiere delle armi"? Perché Giovanni da soldato rifiuta di essere strumento della politica e sceglie comunque di andare incontro al suo destino. Di fronte alla morte si preoccupa solo del suo ricordo e della sua integrità riassunta nella semplicità della frase: “Vogliatemi bene quando non ci sarò più”. Il medioevo e l'età dei cavalieri sta finendo sotto i colpi dei cannoni che mettono fine ai lunghi assedi da lontano, senza i corpo a corpo. La leggenda del santo bevitore (1988) è basato sul’analogo racconto autobiografico di Joseph Roth. Sotto i ponti della Senna un misterioso individuo affida ad Andreas Kartack, ex minatore senzatetto, un prestito di 200 franchi. La contropartita è semplice: Andreas dovrà riportarli la domenica mattina dopo la messa nella chiesa dove si trova la statua di Santa Teresa di Lisieux. Grazie all'insperato prestito l'uomo rinasce. Tra un bicchiere e l'altro Andreas incontra una serie di personaggi che intervengono a interferire con la sua determinazione a restituire i 200 franchi alla Santa. Nella mattina della terza domenica, Andreas si avvia infine a pagare il suo debito. L'albero degli zoccoli (1978) è stato girato in dialetto bergamasco e doppiato in italiano dagli stessi attori per la distribuzione italiana. Tutti gli attori sono stati selezionati dal regista tra la gente della campagna bergamasca e non avevano pregressa esperienza di recitazione. Il film parla di quattro famiglie di contadini e della vita miserevole che conducono al soldo di proprietari senza compassione alcuna per la loro disagevole situazione. Si spinge a dipingere con amara caratterizzazione anche i personaggi che vivono al di fuori della cascina, sempre con linguaggio diretto e mai incline ai sentimentalismi. Il titolo del film è tratto dall’episodio di apertura che vede un contadino tagliare un albero per realizzare degli zoccoli nuovi al figlio di sei anni che, costretto a raggiungere la scuola percorrendo sei chilometri a piedi, aveva rotto i

propri. Scoperto dal padrone, è costretto ad abbandonare la cascina con tutta la famiglia. Il posto (1961). Il posto è la seconda prova del regista e, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ottiene il Premio della critica e la meritata notorietà internazionale. Parla delle difficoltà incontrate dai ragazzi di provincia, nei primi anni sessanta, a trovare lavoro in una città come Milano e del disagio a questi provocato dai colleghi ostili verso i nuovi arrivati. Nel film non viene mai fatta un'esplicita denuncia sociale, lasciando allo spettatore i tempi e gli spazi di riflessione. Non è una storia individuale, ma quella di passaggio a una nuova società: “I miei primi film sono storie sulla povertà ma in cui c'è sempre un po' della storia del nostro paese. Il passaggio dalle società contadine a quelle operaie, o da queste alla nuova borghesia. Nel Posto lo si vede bene nella casa di Domenico, una cascina in cui non si lavora più la terra ed è diventata solo un dormitorio per gente che va a lavorare in fabbrica e in città. Tra poco in quelle stalle senza più animali avrebbero messo le Lambrette e le Seicento” (Ermanno Olmi in Alberto Farassino. "Il posto" di Olmi precursore di Dogma. «la Repubblica.it», 5 giugno 2001). 9.18 Nanni Moretti Giovanni Moretti detto Nanni nasce nel 1953 a Brunico dove la famiglia è in vacanze estive, da genitori entrambi insegnanti: la madre è professoressa di lettere al liceo classico, il padre è docente universitario di epigrafia greca. Inizialmente firma opere caratterizzate da sagace ironia e duro sarcasmo sui problemi dei giovani, successivamente si indirizza verso una più vasta ma non meno dura critica sui costumi della società italiana. Amante della pallanuoto e del cinema, frequenta il DAMS di Bologna e, nel 1973, gira il cortometraggio La sconfitta, in formato super 8, in cui parla della crisi di un ex-militante sessantottino in tono fortemente ironico. Gira poi Pâté de bourgeois, trattando la storia di una coppia in crisi. Nel 1974 realizza in mediometraggio una parodia dei Promessi sposi, Come parli frate?. Nel dicembre del 1976 dirige il suo primo lungometraggio, Io sono un autarchico, girato ancora in formato super 8, che ottiene il successo di pubblico al Filmstudio di Roma dove è in programmazione per molto

tempo. Con questo film, riversato in formato 16 mm, ottiene l'interesse di alcuni critici tra cui Alberto Moravia (su L'espresso del 9 gennaio 1977). Nel 1977 interpreta un ruolo nel film Padre Padrone dei registi Paolo e Vittorio Taviani e nel 1978 realizza Ecce Bombo, il suo primo prodotto professionale, che ottiene un eccezionale successo di pubblico ma apre un acceso dibattito per la dura contestazione di Alberto Sordi che Moretti attacca per il suo qualunquismo. Nel 1981 esce Sogni d'oro, il primo film girato in formato 35 mm e nel 1984 dirige Bianca. Nel 1985 realizza La messa è finita che si aggiudica l'Orso d'argento al Festival di Berlino del 1986. Nel 1987 fonda con Angelo Barbagallo la Sacher Film, per la realizzazione di film d’impegno realizzati da autori nuovi. La società ha il nome del suo dolce preferito reso famoso nel film Bianca in cui il protagonista, Michele Apicella, durante una cena dice a un commensale che non conosceva la Sacher torte: "Continuiamo così, facciamoci del male!" Nello stesso anno la Sacher realizza Notte italiana, con la regia di Carlo Mazzacurati e nel 1988 Domani accadrà di Daniele Luchetti. Nel 1989 Moretti gira Palombella rossa, film dagli espliciti contenuti politici, nel quale inserisce degli spezzoni del suo primo cortometraggio (La sconfitta). Nel 1990 realizza il mediometraggio La Cosa illustrando l’acceso dibattito tra militanti nell'ambito della rifondazione del Partito Comunista. Nel 1991 è il co-protagonista del film Il portaborse di Daniele Luchetti e, nello stesso anno, prende in gestione e fa ristrutturare una vecchia sala cinematografica nel quartiere romano di Trastevere, il Nuovo Cinema che viene inaugurato il 1° novembre 1991 con il nome di Nuovo Sacher e con la proiezione del film Riff Raff di Kenneth Loach. Nel 1993 realizza Caro diario, con tre episodi (In vespa, Le isole, Medici) di carattere autobiografico. Il film ottiene il premio per la miglior regia al Festival di Cannes del 1994. Nel 1995 produce e interpreta La seconda volta, di Mimmo Calopresti, ispirato a una storia vera. Nel 1997 fonda, insieme a Roberto Cicutto e Luigi Musini, una società di distribuzione che, dopo aver distribuito il film Aprile, prenderà il nome di "Sacher Distribuzione". Nel 1998 esce il film Aprile, un altro diario autobiografico dedicato alla nascita del figlio avuto da Silvia Nono (figlia del compositore Luigi Nono e della figlia del compositore Arnold Schönberg), citato soventemente per la frase "D'Alema, dì qualcosa di sinistra!". Nel 2001 realizza La stanza del figlio, in cui tratta il tema degli effetti devastanti provocati dalla morte di un figlio in una famiglia

borghese. Nel 2002 è tra i promotori del movimento dei girotondi. Nel 2006, dopo aver realizzato negli anni precedenti alcuni cortometraggi, realizza il suo nuovo film Il caimano, ispirato a Silvio Berlusconi che suscita polemiche per gli scenari fantapolitici rappresentati. Nel 2007, dopo diverse polemiche, Nanni Moretti accetta la nomina di direttore artistico del Torino Film Festival. Nel 2007 è protagonista e sceneggiatore del film Caos calmo, tratto dall'omonimo libro di Sandro Veronesi e diretto da Antonello Grimaldi. Io sono un autarchico (1976) è il primo lungometraggio di Nanni Moretti e tratta la storia di Michele, che vive con il padre e con il figlio dopo essere stato abbandonato dalla moglie. Ecce Bombo (1978) è il secondo lungometraggio di Nanni Moretti, girato in presa diretta in formato 16 mm e successivamente riversato in 35 mm. Nel film ci sono alcune scene diventate simboli dell’opera del regista, come l'indecisione di Michele sul partecipare o meno ad una festa ("mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte, o se non vengo per niente?") e, in particolare, l’intervento che ha fatto nascere le polemiche per il pesante giudizio di Moretti su Alberto Sordi, espresso quando in un bar commentando il dibattito politico ("ma chi è che sta parlando, chi è? Rossi e neri sono tutti uguali, ma che siamo in un film d'Alberto Sordi? Ma che siamo in un film d'Alberto Sordi? Ma che siamo in un film d'Alberto Sordi?", un signore risponde: "...magari..." e Moretti gli dice: "sì, bravo, bravo, te lo meriti Alberto Sordi, ciao; te lo meriti, Alberto Sordi"). Il titolo Ecce bombo è tratto dal grido di uno straccivendolo incontrato ad Ostia, dove i quattro amici hanno passato la notte svegli per veder sorgere il sole (che invece sorge alle loro spalle). Sogni d'oro (1981) tratta di un intellettuale incompreso che vive in una società qualunquista. Il film si muove su un piano onirico, con riferimenti linguistici a Buñuel. Bianca (1984) è contemporaneamente un giallo, un dramma psicologico e sentimentale e una commedia. È uno dei migliori e più riusciti film di Nanni Moretti. Parla di un giovane professore di matematica che si stabilisce nella sua nuova casa in cui vive solo e fa conoscenza con i vicini, una coppia con i problemi quotidiani, un anziano amante della bella vita.

Igienista all'eccesso, meticoloso, spettatore quasi morboso della realtà che gli sta intorno, osservatore della vita altrui che afferma di poter giudicare dalle scarpe che indossano. Nelle ore libere il professore si dedica all'osservazione dei comportamenti altrui, specialmente delle coppie, riportando quanto vede in apposite schede. Tenta di allacciare una relazione sentimentale con la nuova insegnante di francese della scuola ma, per timore del disordine che potrebbe sconvolgergli la vita, decide di abbandonare. Alla fine, il commissario che sta svolgendo le indagini sugli strani omicidi che inspiegabilmente ruotano intorno alla scena, intuisce che ne è proprio lui l’autore. Palombella rossa (1989) è un altro dei capolavori di Moretti. In seguito a un incidente il protagonista perde la memoria. Il film si svolge durante una partita di pallanuoto in cui il protagonista cerca di ritrovare la memoria perduta attraverso un riaffiorare di ricordi confusi e una realtà che non riesce a comprendere o nella quale non si riconosce. Tema del film è la crisi ideologica della sinistra italiana alla fine dei due blocchi, costretta a ritrovare i suoi ideali all’interno di una realtà ideologica frammentaria. La difficoltà ad accettare una sconfitta in una partita di pallanuoto diventa metafora della sconfitta storica della sinistra italiana. In questo film Moretti esprime la sua migliore poetica di linguaggio cinematografico. Caro diario (1993) è composto da tre episodi. Il primo, In vespa, vede il protagonista passeggiare in Vespa attraverso i quartieri di Roma, tra le riflessioni del regista che vanno dalle critiche sul cinema hollywoodiano alla sociologia e all'urbanistica. Nel secondo episodio, Isole, fa un viaggio alle isole Eolie, descrivendo la vita ‘turistica’ di frequentazione delle stesse, attraverso le nevrosi di un suo amico che vive a Lipari dove non prende il segnale televisivo che gli permetterebbe di seguire la sua soap opera. L'ultimo episodio, Medici, racconta di Moretti alle prese con alcuni luminari della scienza medica che, per risolvere prurito e insonnia, gli prescrivono medicinali in quantità senza risolvere nulla. 9.19 Gianni Amelio Nasce a San Pietro Magisano (CZ) nel 1945 e. subito dopo la sua nascita, il padre raggiunge il nonno in Argentina. L'assenza della figura paterna è costantemente richiamata in molte sue opere. Inizia a occuparsi di

cinema quando è studente universitario a Messina, (consegue la laurea in filosofia) organizzando proiezioni e dibattiti. Diviene critico cinematografico e letterario per la rivista Giovane Critica. Nel 1965 si trasferisce a Roma dove svolge attività di aiuto regista con Gianni Puccini, Vittorio De Seta, Anna Gobbi, Andrea Frezza e Liliana Cavani. Assiste Ugo Gregoretti nel documentario Sette anni dopo. Dirige quindi lui stesso alcuni documentari industriali e nel 1970 realizza per la serie "Film Sperimentali per la TV" La fine del gioco, a cui fanno seguito nel 1973 La città del sole, tratto dall'opera di Tommaso Campanella. Nello stesso anno dirige il thriller Effetti speciali e due anni dopo il giallo La morte al lavoro, tratto dal racconto Il ragno di Hanns H. Ewers. Nel 1979 realizza Il piccolo Archimede che viene apprezzato dalla critica, adattato dal romanzo omonimo di Aldous Huxley e, nel 1983, realizza il suo ultimo lavoro televisivo per Rai Tre, I velieri, tratto dal racconto omonimo di Anna Banti. Finalmente, nel 1982, entra nel circuito cinematografico propriamente detto con il film Colpire al cuore, che affronta il tema del terrorismo nell'ottica di un contrastato rapporto tra padre e figlio, riscuotendo ancora una volta il favore della critica. Nel 1987 continua a ottenere consensi con I ragazzi di via Panisperna, che racconta le vicende del gruppo di fisici di cui facevano parte, negli anni trenta, Enrico Fermi ed Edoardo Amaldi. Nel 1989 realizza il film Porte aperte, tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia e superbamente interpretato da Gian Maria Volonté. Con Il ladro di bambini, il suo maggior successo commerciale, vince diversi premi. Lamerica si aggiudica anch’esso diversi premi. Così ridevano, lo stesso. Alla 61° edizione del Festival di Venezia presenta il film Le chiavi di casa, tratto dal romanzo di Giuseppe Pontiggia Nati due volte. Dal 1983 al 1986 insegnante regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. L'ultima fatica di Amelio per il grande schermo è La stella che non c'è (2006), ispirato al romanzo di Ermanno Rea La dismissione liberamente adattato dal regista. Il ladro di bambini (1992) volge lo sguardo a questa società che ruba i bambini della propria infanzia e tiene in bassa considerazione i diritti e i doveri di ciascuno. Due bambini e un adulto, nonostante gravi difficoltà, stabiliscono un contatto e un rapporto affettivo tra loro. La madre, senza marito, vive di lavori saltuari e non riesce a mantenere i due figli, arrivando a fare prostituire la ragazzina. Dopo l'arresto della madre un carabiniere è

incaricato di accompagnare i due bambini in un istituto a Roma. Tra i bambini e il carabiniere inizia ad instaurarsi una certa intesa solidale. Lamerica (1994) si svolge nell'Albania degli anni novanta. L'Albania è un paese in rovina, con un caos indescrivibile. La gente cerca di scappare per arrivare in Italia, ma alcuni, al contrario, sono diretti in Albania, come i protagonisti del film che vogliono impiantare una fabbrica di scarpe. Le ambizioni sono quelle del cinema neorealista, con la partecipazione di migliaia di persone non professioniste. I volti sono molto studiati e messi in evidenza. Il film si chiama Lamerica, riferito a come gli albanesi vedono l'Italia, nella loro povertà e ingenuità. Gli albanesi sembrano vettorati in massa verso l'Italia soprattutto per via dell'effetto della televisione, che promette ai loro occhi l’America. 9.20 Gabriele Salvatores Nasce a Napoli nel 1950 e si trasferisce giovanissimo a Milano. Fonda nel 1972 assieme a Ferdinando Bruni il Teatro dell'Elfo, presso il quale diresse molti spettacoli d'avanguardia, fino al 1989, anno in cui passò al mondo del cinema. Del 1989 è il film Marrakech Express, cui seguì nel '90 Turné; entrambi questi film sono stati girati con il suo gruppo di attoriamici tra i quali Diego Abatantuono (insieme al quale possiede e gestisce la società di produzione cinematografica "Colorado"). Nel 1991 vince il premio Oscar con Mediterraneo. La sua trilogia della fuga, composta dai tre film sopra citati, è idealmente proseguita nel 1992 con Puerto Escondido, tratto dall’omonimo romanzo di Pino Cacucci. L'anno seguente dirige Sud (1993), una denuncia della situazione politica e sociale dell'Italia dal punto di vista degli emarginati e dei disoccupati. Nirvana (1997) è inizio di nuova sperimentazione narrativa, comprendente anche i film Denti (2000) e Amnèsia (2002). Nel 2003 Salvatores ha diretto Io non ho paura tratto dall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. Nel 2004 fonda la Colorado Noir, insieme a Sandrone Dazieri e Maurizio Totti. Del 2005 è Quo vadis, baby?, tratto dall'omonimo romanzo di Grazia Verasani. Qui Salvatores riprende il linguaggio sperimentale usando tecniche digitali e dirigendo un noir con atmosfere dark e spazi al limite della claustrofobia. Nel 2008 torna a dirigere un film tratto da un romanzo di Niccolò Ammaniti, Come Dio comanda.

Marrakech Express (1989) racconta la storia è di tre amici che, pur non vedendosi ormai da quasi dieci anni, decidono di compiere un viaggio in Marocco per liberarne un quanrto incarcerato per possesso di droga. Il viaggio darà modo ai protagonisti di ritrovare rapporti che negli anni si erano appannati. Insieme a Mediterraneo e Turnè, forma la cosiddetta "trilogia della fuga" di Salvatores, film nei quali domina il tema della fuga dalla realtà. Il film, con i toni della commedia ironica (e a tratti scanzonata), rappresenta la fotografia dei trenta-quarantenni di allora, che sembrano interrogarsi sul percorso della loro vita, in bilico fra le spinte alternative di pochi anni prima e l’esistenza ormai consolidata del consumismo borghese. Turné (1990) parla di due vecchi amici, attori di teatro. Il primo estroverso, l'altro depresso per la fine della sua storia amorosa. Vanno insieme in tournée in giro per l'Italia con Il giardino dei ciliegi di Cechov. Il problema di fondo è che l’amico estroverso è l'uomo per il quale la ragazza ha lasciato il depresso. Lei vorrebbe che fosse lui a confessarlo, ma l'avventura teatrale glielo impedisce. Mediterraneo (1991) racconta la storia di otto militari italiani che sbarcano su una piccola isola dell'Egeo con il compito di stabilire un presidio. L'isola appare deserta e i soldati si rivelano persone inadatte alle attività militari dedicandosi presto ad attività del tutto estranee alla guerra. La popolazione ricompare all'improvviso uscendo dai nascondigli nei quali si era rifugiata nel corso della occupazione tedesca. L'isola si rianima di una umanità nuova con la quale il gruppo di soldati stringe diverse forme di legame e di sodalizio. La vita scorre tranquilla, finché, 3 anni dopo lo sbarco dei soldati, un aereo da ricognizione italiano è costretto a compiere un atterraggio di emergenza sull'isola e il pilota comunica ai soldati la notizia dell'armistizio con gli Anglo-Americani firmato dall'Italia l'autunno dell'anno precedente. Tutti lasciano l'isola a malincuore a bordo di una motobarca inglese, eccetto uno che diserta nascondendosi in un barile di olive. Molti anni dopo il comandante del manipolo accetta l'invito del disertore a recarsi di nuovo sull'isola. Il film è accompagnato dalla citazione di un famosa frase di Henri Laborit (“In tempi come questi la fuga è l'unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare”) e si chiude con la didascalia “Dedicato a tutti quelli che stanno scappando”. La generazione alla quale il regista appartiene e alla quale si rivolge è quella che agli inizi

degli anni novanta si ritrova orfana di un impegno politico in bilico tra una utopia che sfuma e un realismo che incombe (citato da Robert Escobar su Il Sole 24 Ore) ma rispetto a Moretti che tratta le stesse tematiche, Salvatores si sofferma più a lungo sulle vicende di gruppo, descrivendo le dinamiche relazionali e trattando il tema dell'amicizia. I soldati abbandonati sull'isola sperduta dell'Egeo nel loro isolamento geografico si impegnano in un viaggio nella propria coscienza, in una fuga verso, piuttosto che in una fuga da. I soldati di Mediterraneo vivono l’isola greca come la loro la possibilità di fuga esattamente come Ulisse quando si dilunga nel viaggio, fuggendo Itaca. “Salvatores rimane fedele in questo film ad una certa tradizione cinematografica italiana del dopoguerra, indossa senza tradirli i canoni della commedia, mescola alcuni stereotipi classici, come quello del soldato italiano fannullone e della caratterizzazione dialettale, e si concede a volte ad eccessivi sentimentalismi, ma le figure descritte non sono caricaturali, per quanto il soggetto si presti a questo rischio” (Irene Bignardi - articolo apparso su La Repubblica - 5 febbraio 1991). Puerto Escondido (1992) è tratto dal romanzo omonimo di Pino Cacucci del 1990, ambientato in gran parte in Messico specialmente nell'omonima località. La vicenda è quella di un vicedirettore di una banca milanese che fugge in Messico ed entra in un giro di conoscenze e abitudini lontane dallo stile di vita che conduceva in precedenza. Nirvana (1997) è uno dei pochi film di fantascienza italiani, con un cast internazionale, ad utilizzare in modo massiccio effetti speciali generati al computer e a raccontare una storia ambientata nell'universo del cyberpunk. Il film deve molto, per quanto riguarda ambientazioni ed effetti speciali, a pellicole come Blade Runner (Ridley Scott, 1982), Strange Days (Kathryn Bigelow, 1995) e Neuromante. La parte più filosofica della trama richiama i temi trattati nel film Disney Tron (1982), anticipando le tematiche del Matrix (1999) dei fratelli Wachowsky. 9.21 Roberto Benigni Roberto Remigio Benigni nasce a Manciano La Misericordia nel 1952 da una famiglia di contadini. È un noto commediante teatrale, dalla comicità dissacrante, con un carattere allegro ed esuberante, spesso oggetto di polemiche da parte dei politici di centrodestra, a causa della sua satira

pungente, che ha spesso come bersaglio Silvio Berlusconi. Nel 1958 si trasferisce con tutta la famiglia a Prato dove tutt'ora vive. Diplomato in ragioneria, ha una grande passione per lo spettacolo e nel 1983 mentre girava Tu mi turbi conosce l'attrice Nicoletta Braschi e la sposa nel 1991. Inizia come cantante e musicista poi debutta sul palcoscenico con Il re nudo di Eugenij Schwarz, diretto da Paolo Magelli. Partecipa a vari spettacoli scritti e diretti da Messeri come spettacoli popolari da strada. Nel 1972 si trasferisce a Roma e partecipa a diversi spettacoli sperimentali curando la regia di alcuni di essi. Nel 1975 Giuseppe Bertolucci scrive per lui il monologo Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, che ottiene grandissimo successo su tutti i palcoscenici italiani. Il personaggio interpretato è caratterizzato da grande vitalità, con forme di irriverenza verso l’autorità, ma coevamente da un candore quasi infantile, con una elegiaca vena di surrealismo e di malinconia. Nel 1976 viene invitato al Premio Tenco che contribuirà in modo notevole alla sua affermazione e a cui parteciperà molto spesso. Il personaggio di Cioni approda al cinema nel 1977 nel film, diretto e sceneggiato dallo stesso Giuseppe Bertolucci, Berlinguer ti voglio bene. I censori dell'Italia democristiana avversano la pellicola e Benigni viene lasciato senza supporto, anche dalla critica specializzata. L'immagine di Benigni è dunque quella di un personaggio scomodo e ribelle. Nel corso di una manifestazione del Partito Comunista Italiano, del quale era simpatizzante, prese in braccio e dondolò Enrico Berlinguer. Durante il Festival di Sanremo del 1980, di cui è il presentatore, bacia in diretta la conduttrice Olimpia Carlisi. Partecipa nel ruolo da protagonista di uno strano maestro elementare nel film Chiedo asilo di Marco Ferreri e nel 1978 al programma televisivo di Renzo Arbore L'altra domenica, nelle vesti di uno bizzarro critico cinematografico. Nel 1983 inizia la sua carriera di regista cinematografico con Tu mi turbi film in quattro episodi dimostrando la sua incontenibile verve. Grandissimo successo al botteghino e di cassetta ottiene, nel 1984, con Non ci resta che piangere, scritto, diretto ed interpretato con Massimo Troisi. Nel 1988 inizia la collaborazione con lo sceneggiatore Vincenzo Cerami in tre film da lui prodotti per la Melampo Cinematografica che ottengono uno straordinario successo di pubblico: nel primo, Il piccolo diavolo, recita al fianco di Walter Matthau; nel secondo, Johnny Stecchino interpreta due diversi personaggi e nel terzo, Il mostro, si immedesima nella parte di un povero cristo indicato con certezza come il

mostro autore di delitti. Nel 1990 recita in un film diretto da Federico Fellini, La voce della luna, tratto dal libro Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, in cui l'attore interpreta un personaggio lunare e inquieto che ascolta le voci misteriose provenienti da un pozzo. Nel 1997 realizza La vita è bella, il suo capolavoro, che racconta la tragedia dell'Olocausto con poetici spunti di estrema commozione e delicatezza. Il risultato è una fiaba che riesce a esorcizzare l'immane tragedia e a tratteggiare l'effetto devastante che essa ha su un bambino. Il momento della consegna del premio Oscar da parte di Sophia Loren è rimasto memorabile per la gioia dell'attore che raggiunse il palco passando sopra le teste dei divi di Hollywood presenti. Dopo aver ricevuto le nomination, Benigni incontrò il Presidente della Repubblica Scalfaro e, stringendogli la mano, esclamò: Ora ho l'Oscar nelle mie mani!. Nel 2002 realizza Pinocchio. Il film ottiene un buon successo di pubblico ma viene minimizzato dei critici. Nel 2004 dirige La tigre e la neve che ripropone tematiche già presenti nel film La vita è bella ambientate in altro tragico contesto, la guerra in Iraq. Anche questo si rivela un grande successo di pubblico ma ancora una volta viene accolto tiepidamente dalla critica. Nel 2009 Benigni inizia a Parigi un tour che porterà La Divina Commedia in giro per il mondo. Dopo Parigi lo spettacolo toccherà Bruxelles, Londra, molte città della Germania e della Svizzera, per concludersi nel mese di giugno negli Stati Uniti, in Canada e a Buenos Aires. Il piccolo diavolo (1988) è uno dei lungometraggi del regista toscano più amato dal pubblico. Il critico Tullio Kezich, quando la pellicola uscì nelle sale disse che era il migliore film di Benigni, quello in cui l’attore riusciva a esprimere meglio la propria bravura. Racconta la storia di un prete che viene chiamato a compiere un esorcismo. Riesce a liberare la donna dall'essere che la possedeva, ma questo prende vita con un corpo autonomo, dice di chiamarsi Giuditta e di essere scappato dall'aldilà per scoprire il mondo. Entra prepotentemente nella vita del prete finché incontra una donna della quale si innamora. Questa donna però è una diavolessa mandata per riportarlo a casa. Il mostro (1994) racconta di un giovane disoccupato che si guadagna da vivere con lavori saltuari e abita in un piccolo appartamento di un condominio nel quale è in guerra con tutti gli altri condòmini. La polizia

sospetta che Loris sia il mostro (un maniaco sessuale) che terrorizza il quartiere ma l'efferato assassino è un insegnante di cinese che Loris aveva conosciuto. La vita è bella (1997) inizia con un commento fuori campo: “Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla, come in una favola c'è dolore, e come in una favola, è piena di meraviglie e di felicità”. Un giovane ebreo pieno di allegria si sposa e ha un figlio con il quale viene deportato in un campo di concentramento assieme agli altri ebrei. Per proteggere il figlioletto di sei anni dagli orrori della realtà, il protagonista si spaccia per interprete del caporale tedesco e trasforma le regole del lager in un gioco con prove tremende che alla fine potrà far vincere un meraviglioso carro armato come premio finale. Quando i soldati tedeschi abbandonano il campo facendo strage dei deportati, strage dalla quale l’ebreo riesce a salvare il figlio nascondendolo in una cabina. Lui però viene scoperto e fucilato. Al mattino seguente il lager viene liberato e il ragazzino esce dalla cabina in cui si era rifugiato e viene salvato da un soldato americano che lo fa salire su un carro armato. Mentre, convinto di aver vinto il premio finale, grida: “è verooo!”, il film si conclude con il bambino che ritorna dalla madre e la voce narrante conclude dicendo: “Questa è la mia storia, questo è il sacrificio che mio padre ha fatto, questo è stato il suo regalo per me!”. 9.22 Giuseppe Tornatore Giuseppe Tornatore nasce a Bagheria nel 1956 e fin da giovane si mostra attratto dalla recitazione e dalla regia. Entra a far parte di una cooperativa cinematografica costituita a Palermo da altri giovani amanti del cinema che avevano fatto già alcune esperienze professionali con Giuseppe Ferrara, Gianni Minello, Pier Paolo Pasolini e Maurizio Ponzi. In questo periodo vengono sottoposti alla critica alcuni suoi documentari amatoriali (girati in formato super otto) che ottengono subito il consenso dei critici (in particolare è Gregorio Napoli che esprime giudizi assai lusinghieri sul Giornale di Sicilia per un documentario sui carretti siciliani con una splendida scelta della colonna sonora). Nel 1984, sempre con la cooperativa siciliana, fa da assistente a Giuseppe Ferrara per Cento giorni a Palermo, del quale è anche co-sceneggiatore e regista della seconda unità. Due anni dopo dirige Il camorrista, dedicato al mondo della malavita napoletana, che

riceve apprezzamenti sia da parte del pubblico che dalla critica. L'incontro con il noto produttore Franco Cristaldi gli permette di realizzare Nuovo cinema Paradiso, che riscuote un successo clamoroso in tutto il mondo, senza fargli abbandonare la sua riservatezza. Il film si aggiudica anche il premio Oscar come "miglior film straniero". Nel 1990 gira Stanno tutti bene, forse il suo capolavoro, che racconta la storia di un padre siciliano in viaggio alla ricerca dei figli sparsi in tutta Italia. Nel 1991 collabora al film collettivo La domenica specialmente, con l'episodio Il cane blu. Nel 1994 gira Una pura formalità, nel quale compaiono il regista Roman Polanski e Gérard Depardieu. Nel 1995 realizza il documentario Lo schermo a tre punte, nel quale racconta la Sicilia come la vive lui e dirige L'uomo delle stelle, con il quale vince il David di Donatello e il Nastro d'Argento per la "miglior regia". Realizza poi un altro capolavoro, La leggenda del pianista sull'oceano, liberamente tratto dal monologo teatrale Novecento di Alessandro Baricco. Anche questo film si aggiudica il David di Donatello, il Ciak d'Oro per la regia e due Nastri d'Argento (per la regia e per la sceneggiatura). Nel 2000 dirige Malèna in coproduzione italo-americana. Nel 2006 gira La sconosciuta, che si aggiudica tre David di Donatello e viene scelto per rappresentare l'Italia al Premio Oscar 2008, nella selezione per le nomination quale miglior film straniero. Il camorrista (1986) è il film d'esordio nella regia, liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Marrazzo. Il film tratta di Raffaele Cutolo, boss della camorra napoletana, dal primo delitto di gioventù alla creazione in carcere della Nuova Camorra Organizzata, con cui arriva a trattare con politici, servizi segreti, affaristi americani e terroristi. Film duro e diretto che non lascia nulla all'immaginazione. Stanno tutti bene (1990) racconta di un anziano vedovo siciliano che va a far visita ai suoi cinque figli sparsi in varie città dell'Italia continentale, convinto di trovare ambienti familiari sereni. Si accorge però che i figli si reputano falliti e hanno sempre nascosto ai genitori le loro frustrazioni. Si chiude con una commovente scena al cimitero dopo il ritorno del vecchio padre al proprio paese di origine, in cui questi spiega alla moglie morta come i figli stiano tutti bene. L'uomo delle stelle (1995) ha ricevuto una nomination agli Oscar 1996 come "Miglior film straniero". Racconta di un ciarlatano che promette il

lancio nel mondo del cinema della gente che si sottomette (a pagamento) a un provino. Il suo inganno viene però smascherato e mentre lo portano in carcere è ridotto in fin di vita. Il linguaggio narrativo del film è strutturato nella prima parte seguendo lo schema dei film a episodi. Vi si alternano diversi personaggi che raccontano il dramma delle loro esistenze davanti alla cinepresa del venditore di sogni, con evidenti riferimenti a Bellissima di Visconti. Nella seconda parte del film il linguaggio diviene più intimista via via che avviene la graduale metamorfosi del personaggio del venditore di sogni, all’inizio preso solo dall’indifferenza, per poi rivelarsi invece assai sensibile. In molte scene, come già in Nuovo Cinema Paradiso e Stanno tutti bene, è altresì evidente il richiamo al linguaggio poetico di Fellini e la crudele atmosfera di Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini. Il tema del film è il rapporto tra inganno e verità che diventa impegno civile e politico del regista quando, nella scena girata in periodo di campagna elettorale, il camioncino del protagonista che col suo altoparlante vende i sogni del cinema, incontra un’auto bardata di manifesti elettorali che con analogo altoparlante promette sogni altrettanto falsi. La leggenda del pianista sull'oceano (1998) è un film tratto dal monologo Novecento di Alessandro Baricco che racconta di un bimbo abbandonato, trovato da un macchinista nero del transatlantico Virginian che decide di allevarlo in segreto. Il bambino senza alcun maestro impara a suonare il pianoforte con eccezionale bravura, non scende mai dalla nave e vi resta a bordo anche quando, diversi anni dopo, il transatlantico verrà distrutto con una carica esplosiva. 9.23 Sergio Leone “Cominciai a lavorare nel cinema durante il neorealismo. Amo l’autenticità quando è filtrata attraverso l’immaginazione, il mito, il mistero e la poesia. Ma è essenziale che, alla base, tutti i dettagli sembrino giusti. Mai inventati. Penso che una favola possa catturare l’immaginazione solo quando la storia è una favola ma l’ambientazione è estremamente realistica. La fusione di realtà e fantasia ci porta in una dimensione diversa; di mito, di leggenda” (Cristopher Frayling, Sergio Leone: Danzando con la morte, Milano, Il Castoro, 2002).

Sergio Leone nasce a Roma nel 1929 e può a diritto definirsi uno dei più importanti registi della storia del cinema. Infatti, nonostante abbia diretto pochi film, la sua regia innovativa, ricca di originalità e stile, ha fatto scuola. Figlio d’arte, Leone inizia a lavorare nell'ambiente cinematografico già a diciotto anni, cominciando a scrivere sceneggiature (inizialmente per film epico-storici in costume) e a fare piccole parti come attore o, addirittura, come comparsa (in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica è uno dei preti tedeschi sorpresi dalla pioggia). Dal 1951 inizia a collaborare come assistente regista o direttore della seconda unità in diverse produzioni come Quo vadis? di Mervyn LeRoy (1951) e Ben-Hur di William Wyler (1959). Nel 1959, sul set di Gli ultimi giorni di Pompei, il regista Mario Bonnard è colpito da una malattia che lo costringe ad abbandonare la direzione del film e Leone, che aveva collaborato alla sceneggiatura, gli subentra. Ciò gli dà la possibilità di debuttare alla regia de Il colosso di Rodi (1961) che, grazie alla sua esperienza, pur essendo un film di basso budget, appare spettacolare quanto i kolossal di Hollywood. Nei primi anni sessanta Leone dà vita a un vero e proprio filone western di matrice italiana con Per un pugno di dollari (1964) che si rifa alla trama de La sfida del Samurai, di Akira Kurosawa (1961). Leone fu accusato di vero e proprio plagio da Kurosawa, che vinse la causa ottenendo come risarcimento i diritti esclusivi di distribuzione (di Per un pugno di dollari) in Giappone, Corea del Sud e Taiwan, nonché il 15% dello sfruttamento commerciale in tutto il mondo. Esistono più versioni sull’argomento. Quella accreditata è che il regista fu invitato a visionare il film di Kurosawa da Enzo Barboni o Sergio Corbucci e fu amore a prima vista. Secondo Fulvio Morsella, Leone chiese ai produttori di acquisire i diritti per un remake del film di Kurosawa e questi gli assicurarono poi di averli acquisiti. Dopo la distribuzione del film Leone seppe che i diritti non erano mai stati acquisiti direttamente da Akira Kurosawa che gli scrisse una lettera. Iniziata la causa, su consiglio degli avvocati, Tonino Valerii cercò un’opera letteraria occidentale che avesse analogie con La sfida del Samurai e la trovò per caso nell’Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni. La difesa fu dunque impiantata sul plagio dell’opera di Goldoni da parte di Kurosawa. A seguito di ciò, la produzione giapponese divenne più incline a trovare una soluzione di mediazione che si concluse come sopra riportato. Il film da un lato rende tributo ai classici western americani, mentre da un altro se ne

distacca nei toni. Infatti, i personaggi dei western tradizionali hanno tutti caratterizzazioni autorevoli, mentre quelli di Leone sembrano più aderenti alla realtà del polveroso e immenso West. Sono sporchi e trasandati, hanno la barba sempre incolta e somigliano più ad antieroi, furbi e senza scrupoli. Anche il linguaggio filmico di Leone è destinato a influenzare tutto il cinema futuro (Stanley Kubrick ebbe a dichiarare che se non avesse visto i film di Sergio leone non avrebbe mai potuto realizzare Arancia Meccanica. A Leone sono stati dedicati i film Gli spietati di Clint Eastwood e Kill Bill vol. 2 di Tarantino. Al film C’era una volta il West fa esplicito riferimento anche Zemeckis in Ritorno al futuro). Introduce, infatti, l'utilizzo delle riprese "in soggettiva" e i primissimi piani che interrompono continuamente le sequenze con campi lunghi, dilatate da tempi narrativi di”attesa”, incalzati dalle appropriate musiche, per dare maggiore enfasi al gesto che verrà compiuto subito dopo. I due film seguenti, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto, il cattivo, completano quella che è conosciuta come la "trilogia del dollaro". Nel 1967 Leone viene invitato a girare negli Stati Uniti C'era una volta il West, un vecchio progetto sempre accantonato per l’elevato budget preventivato per la produzione. Il film viene girato nel vero Far West, tra gli incantati paesaggi della Monument Valley, oltre che in Italia e Spagna. Al soggetto collaborano Bernardo Bertolucci e Dario Argento; alla sceneggiatura Sergio Donati, oltre naturalmente allo stesso Leone. Nel 1971 Leone dirige Giù la testa, di medio budget ma con la presenza di attori internazionali. Il film è ritenuto uno dei suoi capolavori, ed è quello in cui Leone fa delle riflessioni sull'umanità e la politica. Nel 1984 realizza C'era una volta in America da un'idea nata anteriormente a C'era una volta il West. Il film ha grandissimo successo di pubblico e di critica in tutto il mondo ed è considerato uno dei migliori mai realizzati nella storia del cinema. È una storia di gangster e amicizia collocata negli anni del proibizionismo americano che ha chiari riferimenti letterari nelle opere di Scott Fitzgerald, ma anche in quelle di Marcel Proust. Con questo ultimo capolavoro, Sergio Leone chiude la sua parabola artistica: un infarto lo stronca nella sua casa romana il 30 aprile 1989. Benché non fosse nelle intenzioni di Leone, i film Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo sono considerati come facenti parte di una trilogia (denominata del dollaro) per la

presenza della figura enigmatica dell'Uomo senza nome (che indossa gli stessi abiti e recita con la stessa mimica in tutti e tre i film). La trama del primo film è molto semplice. In un paese di confine tra il Messico e la California arriva un cavaliere senza nome che affronta una banda che terrorizza la zona, la sbaraglia e scompare nel nulla; in silenzio com’era arrivato. Di lui non si sà nulla, nemmeno il nome. La storia della produzione di questa prima opera del regista italiano, che si firmò Bob Robertson inglesizzando il nome d’arte del padre Roberto Roberti, è anch’essa avvincente. Sergio Leone presentò il progetto a Franco Palaggi, un produttore esecutivo, che si convinse del suo potenziale successo più dal racconto che gli fece il regista che dalla lettura del copione. Impose un budget di 120 milioni di lire e il coinvolgimento di due coproduttori stranieri. La Jolly Film stava realizzando un film western di budget decisamente superiore e venne così deciso di utilizzare le stesse location, gli stessi costumi, la stessa troupe e molti degli attori utilizzati sul set di quel film. Inoltre fu estremamente difficile convincere i produttori della Jolly, Papi e Colombo, a far dirigere il film a Sergio Leone, perché pensavano che sul set fosse maniacale e avesse idee troppo costose. Fu Palaggi a imporre il nome di Leone che, nel 1979, ricordò così il rapporto con i produttori del film: “Da parte dei produttori c'era la ferma sicurezza che sarebbe stato un disastro economico, però con un guadagno in partenza, perché io per farlo dovetti andare a trovare un coproduttore tedesco (la Constantin Film), un coproduttore spagnolo (la Ocean Film), e naturalmente un partecipante italiano. Il preventivo era di 80 milioni circa. Così andai da Constantin in Germania, dove facevano tutta la serie dei Winnetou, d'avventura di Karl May. Con Constantin ci fu subito l'accordo concreto di una cifra, e poi trovammo il coproduttore spagnolo. Io decisi di prendere la metà del mio cachet e di avere però la partecipazione. Dato che loro credevano che di utili non ce ne sarebbero stati, furono ben felici di darmi questa possibilità. Il film veniva girato gratis in partenza” (AA VV, La città nel cinema: produzione e lavoro nel cinema italiano 1930-1970, Roma, Napoleone, 1979). Il successo del film porta Leone a realizzare Per qualche dollaro in più in cui, alla coppia Eastwood-Volontè si aggiunge un caratterista western americano, Lee Van Cleef. Tecnicamente è un film perfetto, senza cedimenti. L’unica donna compare solo per qualche secondo nella rievocazione del colonnello (scene memorabili del carillon).

“Il comportamento della Jolly mi aveva nauseato. Così andai a trovare i due produttori. Gli dissi che in effetti il modo in cui si erano messe le cose mi faceva piacere... Perché significava che non avrei mai più dovuto fare un film con loro. Avrei avviato un procedimento legale, ma non volevo vederli mai più. E fu da lì che nacquero i semi della mia vendetta. Dissi loro: "Non so se davvero ho voglia di fare un altro western. Ma lo farò. Solo per farvi dispetto. E si intitolerà..." In quel momento, il titolo mi balenò nella mente Per qualche dollaro in più. Ovvio che in quella fase non avevo idea di quale sarebbe stato il soggetto” (Nöel Simsolo, Conversations avec Sergio Leone, Parigi, Stock, 1987). È passato un anno dallo straordinario successo di Per qualche dollaro in più e Leone già sembra ulteriormente maturato, ancora più attento ai particolari e alle atmosfere. Nasce così l’ambizione di realizzare un’opera con una visione più universale con elementi diversi dalla pura azione e dalla caratterizzazione del personaggio. Viene così realizzato Il buono, il brutto e il cattivo, il film più completo della trilogia che, grazie anche alla dilatazione dei tempi (dura circa tre ore), dà spazio ai pensieri di Leone sulla follia della guerra. È l’apoteosi di Leone, che diventerà ancor più visibile con C’era una volta il West (1968), prodotto dalla Paramount Pictures con mezzi di gran lunga superiori a tutte le precedenti opere. Vero protagonista del film è la ferrovia che rappresenta la civiltà che avanza e che spazza via al suo passaggio il West e la sua epopea. È il primo dei tre film della cosiddetta trilogia del tempo. Il secondo sarà Giù la testa (1971) sulla rivoluzione messicana del 1917 che rappresenta forse la migliore interpretazione di Rod Steiger. Nel film c’è una citazione di Mao sulla rivoluzione che avverte gli spettatori della sua durezza: "La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza". Il terzo film della trilogia sarà C’era una volta l’America (1984). Si tratta di un film gangster, l’ultimo diretto dal regista italiano. Tratto dal romanzo The Hoods (Mano Armata) di Harry Grey il film narra le avventure di due amici nell'ambiente della malavita organizzata di New York durante e dopo il proibizionismo. È considerato uno tra i maggiori capolavori del cinema mondiale.

“Quando scatta in me l'idea di un nuovo film ne vengo totalmente assorbito e vivo maniacalmente per quell'idea. Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio.....Non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles. Sono certo di aver fatto con lui ‘C'era una volta il mio cinema’, più che C'era una volta in America" (scheda di Sergio Leone su 1aait.com. URL consultato il 01-01-2008). Il film è narrativamente articolato sui flashback, lasciando ampio spazio a significati allegorici, sottolineati dalla perfezione tecnica di realizzazione. Quasi unanime la critica (salvo sporadici casi) nel definirlo uno dei più grandi capolavori della cinematografia mondiale. 9.24 Carmelo Bene Carmelo Bene nasce a Campi Salentina (Lecce) nel 1937; è stato attore, drammaturgo e regista ed è considerato uno degli artisti più poliedrici nella storia del teatro. Dopo gli studi classici si iscrive giovanissimo in Giurisprudenza a Roma e, contemporaneamente, all'Accademia Sharoff. Evita di fare il militare fingendosi omosessuale. Nel 1957 si iscrive all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica ma frequenta i corsi per un solo anno. Nel 1958 Carmelo Bene trascorre molto tempo nei vari commissariati di zona. Debutta in teatro con Caligola di Albert Camus nel 1959, per la regia di Alberto Ruggiero. Con grandi difficoltà familiari (che lo vedono anche internare presso l’ospedale psichiatrico pur senza alcuna valida motivazione, si sposa nel 1960 con un’attrice fiorentina di sei anni più grande, con la quale ha un figlio, allevato prevalentemente dai nonni materni e morto di tumore all’età di sette anni. In questo periodo avviene l'incontro letterario con James Joyce che gli fa mutare il modo di concepire il teatro. Si trasferisce a Genova e nel 1961 dirige alcune repliche del Caligola, non permettendo più a nessuno, da quel momento, di curare la regia del suo teatro. Tra sequestri del suo teatro, pettegolezzi, scandali, Bene continua a innalzare la sua narrativa sperimentale. Tra il 1965 e il 1966, Bene scrive i romanzi Nostra Signora dei Turchi e Credito italiano, che trasporta anche a teatro, apprezzati da intelletuali come Ennio Flaiano e Alberto Arbasino, con un successo piuttosto elitario. Va in scena Il Rosa e il Nero rivisitazione di The Monk di Matthew Gregory Lewis che viene così

commentato nella trasmissione televisiva Avvenimenti 30: “Un giovanotto magro, nervoso, spiritato, venuto dalle Puglie per inventare a Roma un suo personalissimo teatro. Si chiama Carmelo Bene. Non ha ancora trent'anni. Ha già scritto un romanzo. Ha diretto come attore, autore, regista, una decina di spettacoli. Dieci spettacoli, dieci polemiche clamorose. È un istrione? Oppure: è un genio? È un mistificatore? Su questi giudizi il pubblico e la critica si danno battaglia…” (dalla trasmissione Bene! Bravo! della RAI di Marco Giusti). Nel 1967 Pier Paolo Pasolini lo invita a partecipare al suo film Edipo re. Nello stesso anno Bene inizia la sua esperienza di regista cinematografico, arrivando a vincere il Leone d'Argento al Festival di Venezia del 1968 con Nostra Signora dei Turchi. La parentesi cinematografica durerà fino al 1973, con Capricci (1969), Don Giovanni (1970), Salomè (1972), producendo reazioni sconsiderate e forti contrapposizioni sia di pubblico sia critica. Il 16 marzo del 2002 Carmelo Bene muore a Roma. La lapide mezza diroccata posta nel cimitero di Otranto riporta parole tratte dalla Commedia di Dio di João César Monteiro: "Non siete voi che mi cacciate, ma sono io che vi condanno a rimanere". “La lotta di Bene si rivolge contro il naturalismo e la drammaturgia borghese, contro le classiche visioni del teatro. Rivendica l'arte attoriale innalzando l'attore da mera maestranza (così definita da Silvio D'Amico) ad artista-personificazione assoluta del complesso teatrale. Il testo, poiché nato dalla penna di uno scrittore spesso avulso dal problema del linguaggio scenico, non può essere interpretato: esso deve necessariamente essere ricreato dall'attore. Carmelo Bene è contro il teatro di testo, per un teatro da lui definito ‘scrittura di scena’, un teatro del dire e non del detto. Fare ‘teatro del già detto’ sarebbe un ripetere a memoria le parole di altri senza creatività, quello che Artaud definiva un ‘teatro di invertiti, droghieri, imbecilli, finocchi: in una parola di Occidentali’. È l'attore, con la scrittura di scena, a fare teatro hic et nunc. Il testo viene considerato come ‘spazzatura’, perché lo spettacolo va visto nella sua totalità. Il testo ha il medesimo valore di altri elementi come le luci, le musiche, le quinte. Il teatro di testo, di immedesimazione, viene definito da Bene come un teatro cabarettistico. Gli attori che si calano in dei ruoli, che interpretano, sono per lui degli intrattenitori, degli imbonitori, dei ‘trovarobe’. Nel suo teatro, l'attore è l'Artefice. Il testo non viene più messo in risalto come nel teatro di testo, viene anzi martoriato, continuando un discorso iniziato da Artaud, che

già aveva iniziato la distruzione del linguaggio, ma che per Bene fallì sulle scene, perché cadde nella interpretazione” (da Wikipedia). La sua parentesi cinematografica (che è poi quella che gli dà notorietà internazionale, contestata fortemente in Italia dalla critica e anche dagli spettatori che spesso causeranno devastazioni e incendi nelle sale) inizia con Hermitage, il suo primo cortometraggio. Il successo arriva con Nostra Signora dei Turchi presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, dove vinse il premio speciale della giuria. Seguono poi Capricci (1969), rielaborazione personale dell'Arden of Feversham di anonimo elisabettiano, Don Giovanni (1971), Salomè (1972) e Un Amleto di meno (1973). Tutte produzioni realizzate a bassissimo costo. Il suo intento è demolire il cinema. Con Nostra Signora dei Turchi fa una parodia sarcastica del cinema "poiché non si può fare cinema col cinema, poesia con la poesia, pittura con la pittura, bisogna sempre fare altro...". 9.25 Dario Argento Dario Argento nasce a Roma nel 1940 ed è uno degli autori italiani più noti ed apprezzati all'estero. Dotato di un stile narrativo personale, trasfonde sempre nelle sue opere le sue ossessioni, facendo uso della suspense, della paura e della rappresentazione della morte, con un linguaggio mutuato dal cinema di Alfred Hitchcock. Progressivamente Argento sacrifica la tecnica, per rappresentare il raccapricciante. Dario Argento è figlio d’arte, essendo il padre produttore cinematografico e la madre una fotografa di moda. È presso lo studio fotografico della madre che impara ad apprezzare la cura per il dettaglio e il gusto per l'illuminazione. Dopo essersi iscritto al liceo classico, lo abbandona al secondo anno, e si trasferisce a Parigi, dove risiede per un anno. Rientrato in Italia, nel 1957 riesce a farsi assumere a Paese Sera come critico cinematografico, divenendo precursore delle future ribellioni. Si schiera a favore del cinema di genere, western, thriller, horror, fantascienza, in aperta rottura con la critica ufficiale, esprimendo opinioni controcorrente. Tra il 1967 e il 1969 collabora alla stesura di sceneggiature come Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi e assieme a Bernardo Bertolucci di C'era una volta il West di Sergio Leone. Debutta come regista con L'uccello dalle piume di cristallo, scritto basandosi sul romanzo La statua che urla di Fredric Brown. Il film è un grande successo.

Dalla pellicola traspare la lezione del western all'italiana. Il risultato è un film innovativo, contraddistinto da un linguaggio nervoso. Fin da questo film sono evidenti le specificità del suo cinema, la cui tecnica è paragonabile a quella di Sergio Leone con stacchi dal piano lungo al primo piano, uso di soggettive, primissimi piani su oggetti e occhi, l'importanza della luce e del colore e, infine, la colonna sonora e i rumori cui aggiunge la dissolvenza audio di una scena qualche istante prima della dissolvenza video, per dare allo spettatore l’impressione di una errata percezione sensoriale. Visto il grande successo commerciale del primo film, Argento prosegue sulla strada del giallo, con Il gatto a nove code (1971). Nel dicembre dello stesso anno realizza Quattro mosche di velluto grigio. Queste prime tre opere vengono definite Trilogia degli animali o Trilogia zoologica. Argento accetta poi la proposta RAI di produrre una serie TV di quattro film, della durata di circa un'ora ciascuno, intitolata La porta sul buio. Nel 1973 Argento dirige Le cinque giornate. Nel 1975 realizza Profondo rosso, che segna il suo ritorno al thriller e che costituisce il punto d'arrivo di un percorso fatto di continue sperimentazioni nella manipolazione del giallo classico. Nel 1977 debutta nell'horror con Suspiria, una fiaba moderna considerata il suo capolavoro. Nel decennio successivo Argento disperde gradualmente la sua vena e alterna horror a thriller, iniziando con Inferno (1980) e continuando con Tenebre (1982), Phenomena (1985) e Opera (1987). Nel 1993 realizza Trauma, interpretato dalla figlia Asia Argento, protagonista anche dei successivi La sindrome di Stendhal (1996) e Il fantasma dell'opera (1998). I due film Non ho sonno (2001) e Il Cartaio (2004) rappresentano il suo ritorno al thriller, mentre La terza madre (2007), il ritorno al genere fantastico. 9.26 Maurizio Ponzi Amante e abituale frequentatore del cinema interrompe gli studi di Economia e commercio all'Università di Roma, lascia l'impiego alla Olivetti e inizia a collaborare nel 1963 come critico alle più note riviste cinematografiche (Filmcritica, Cinemasessanta, Cahiers du cinéma). Pier Paolo Pasolini nel 1966 lo prende come assistente nell'episodio Il fiore di carta (in Amore e rabbia) e, nello stesso anno, inizia a dirigere documentari (Il cinema di Pasolini e, nell’anno successivo, Verso Rossellini

e Verso Visconti). Nel 1968, infine, esordisce nella regia di un lungometraggio con I visionari che viene premiato al festival di Locarno. Si tratta della libera trasposizione de I fanatici (Die Schwarmer di Robert Musil) che Ponzi scrive insieme a Edoardo De Gregorio, realizzando un film ispirato alla Nouvelle Vague francese. Tratta della triangolazione amorosa di un regista teatrale, un’attrice e un attore che si confondono tra realtà e finzione. Nel 1971 dirige il film Equinozio, di chiaro stampo letterario, su una sceneggiatura tratta dal romanzo Le donne muoiono di Anna Banti, curata dal regista insieme a Salvatore Samperi. È la storia di un giovane che, considerato pazzo, viene portato in un misterioso castello in cui scopre di essere la reincarnazione del proprietario, morto mezzo secolo prima. Profonde riflessioni psicologiche si immergono in situazioni fantastiche che lasciano pensare alla nascita di un nuovo regista che ama trasporre sullo schermo la propria intimistica visione della vita. Nel 1974 dirige La voce della tortora, miniserie televisiva e, nel 1975 Il caso Raoul, confermando il positivo giudizio sul suo modo di fare cinema. Sullo stile della fiction, traspone un fatto reale (Il caso Brian, un caso clinico raccontato da Ronald Laing in Io e gli altri) sviluppandolo, con un linguaggio assai semplice che sarà il denominatore comune dei suoi futuri film, tra il tema della menzogna e quello dell’ambiguità. Tratta la storia di un giovane attore psichicamente instabile che, all’età di quattro anni, era stato dato in adozione – dalla madre non sposata - a una coppia che già aveva un altro figlio adulto che egli scopre improvvisamente essere suo padre quando, sposatosi, dà al proprio figlio lo stesso nome del fratellastro. Impazzisce e viene ricoverato in manicomio. Tra il 1975 e il 1979 dirige l’originale televisivo Lo strano caso di via dell'Angeletto (1975), Mattolineide (film tv, 1978), Hedda Gabler (altro film tv del 1979) e Luigi Ganna detective (una serie televisiva del 1979). Nei primi anni ottanta dirige Francesco Nuti in alcune commedie. Io, Chiara e lo scuro (1982) è un film ambientato nel mondo dei giocatori di biliardo. Il protagonista, per un banale scambio di valigetta (la sua contenente la stecca di biliardo e l’altra un sassofono), è costretto a incontrarsi con la donna (musicista) con la quale è avvenuto lo scambio,

instaurando con lei un gioco di complicità e di amore. Abituato a giocare senza soldi (appena in palio ce ne sono, lui è battuto), perde al gioco una grossa quantità di denaro contro un altro giocatore (il professionista Marcello Lotti che nel film interpreta se stesso). Per pagare il proprio debito è costretto a partecipare al Campionato Italiano di Biliardo cui partecipa anche il suo rivale creditore. Si tratta di una piccola perla di genere del cinema italiano degli anni Ottanta. Il comico toscano (co-autore del soggetto e della sceneggiatura) anticipa il lirismo cinematografico che lo vedrà poi dirigere se stesso in Tutta colpa del paradiso, una delle migliori pellicole italiane degli anni Ottanta. Madonna che silenzio c'è stasera (1982). Il film racconta una giornata di un giovane protagonista di Prato alla ricerca di lavoro e della donna perduta e che si ritrova, la sera, solo e disperato. Il Morandini ne scrive: “Festevole e sarcastico, in bilico tra realtà e fantasia, è un film tenero, arguto, con diverse buffe invenzioni e un'insolita colonna sonora e musicale. Qua e là rallentato da qualche funambolismo verbale da cabaret” (in MyMovies.it). Il tono del film è tra il sognante e l’anticonformista, spesso tuttavia si nota il prepotente vincere dell’attore sulla mano della regia. Son contento (1983). È la storia di un giovane cabarettista che entra in crisi creativa quando è lasciato dalla sua compagna con la quale convive da quattro anni. Persi tutti i contratti di lavoro, il cabarettista torna infine a far brillare la sua stella e con essa tornano le proposte di remunerativi contratti di fronte alle quali lui prende tempo, combattuto dalle proprie ambizioni artistiche. Rompe gli indugi quando casualmente ritrova la sua compagna. Quando l’artista mette in scena le vicende personali del suo ritrovato amore la ragazza capisce che per lui è più importante lo spettacolo di ogni altra cosa e se ne va. Son contento è l’ultima pellicola in cui Francesco Nuti non si dirige ed è l’opera più ricca di riflessione. Se Madonna che silenzio c’è stasera appare ricalcare il film di Nuti con i Giancattivi (Ad ovest di Paperino, diretto da Alessandro Benvenuti), e Io, Chiara e lo scuro sembra ispirare la lirica dello stesso Nuti nel suo lavoro Casablanca Casablanca, Son contento è un’opera a sé che fa un’attenta riflessione sul rapporto artista/arte. Tema toccato con estremo garbo e leggerezza da Ponzi, con

intimismo e malinconia. La mancanza di un lieto fine è un ulteriore punto a favore dell’opera. “Detto del lato epico-romantico, quasi titanico dell’anima dell’artista, c’è da rilevare come la pellicola, non perdendo mai lo spettro della realtà, ci restituisca la complessità della figura di un giovane cabarettista di provincia, del suo ‘mestiere nomade’ e privo di certezze, dell’ingrato destino cui va incontro quando la stella del successo non brilla più. Ponzi, difatti, rispetto al Nuti regista tiene maggiormente i piedi in terra e non cerca slanci onirici, fughe nel sogno o nel nonsense: non c’è nessun personaggio inverosimile o sopra le righe (…)” (Léon febbraio 2008, in Lankelott.eu ). Nel 1984 Maurizio Ponzi dirige Qualcosa di biondo. È la storia di una tassinara di Sorrento che aveva prima lavorato come cameriera in un albergo e aveva dato alla luce un piccolo che ritiene essere il figlio nato dal rapporto con un americano che lavorava alla NATO di Napoli. Il figlio era diventato cieco a due anni di età e la donna lo vuole sottoporre ad una costosa operazione in Svizzera. Da qui la ricerca del padre, mentre non disdegna di responsabilizzare in quel ruolo anche altri. Finalmente, dopo svariati incontri con altre persone che comunque le offrono denaro per il silenzio, la donna incontra l’americano. Il film chiude con un lieto fine. Giovanni Grazzini scrive sul Corriere della Sera del 20 gennaio 1985: “Fiaba sentimentale più qualche impertinenza, per celebrare mamma Sophia col suo figlioletto Edoardo e far contento, insieme alla grande provincia americana, il pubblico nostalgico del divismo. Non sono infatti gli ingredienti popolari a mancare in Qualcosa di biondo (un soggetto di Sergio Citti sul quale sono intervenuti gli sceneggiatori Franco Ferrini, Gianni Menon, Maurizio Ponzi e John McGreevey)”. Il tenente dei carabinieri (1986). Storia leggera, tra il giallo e il comico che racconta di un tenente dei carabinieri che, truffato da un’avvenente ragazza a un distributore di benzina (gli rifila una banconota falsa) e incaricato di far luce su una grossa rapina, alla fine ricollega i due casi risolvendoli entrambi. Ciò che più interessa al Ponzi sono i personaggi, i particolari e, soprattutto, la pulizia del linguaggio. Cast d’eccezione (Manfredi, Montesano, Boldi).

Noi uomini duri è del 1987. Tratta la storia di un giovane industriale del nord che va in un “campo di sopravvivenza”, dove diversi individui di ambo i sessi e di differente estrazione sociale imparano a risolvere le situazioni di emergenza. Grazioso a garbato, il film è una vivace satira contro i corsi di sopravvivenza in voga all’epoca (era ancora nei cinema e riscuoteva ancora successo il film Rambo). Nel 1988 Maurizio Ponzi realizza Il volpone, liberamente tratto dall'omonima commedia di Ben Jonson, trasferendone la trama ai giorni nostri e sulla Riviera ligure. Tratta la storia di un ricco armatore (Ugo Maria Volpone) che approfitta dell’avidità di tre amici per beffarli e umiliarli, fingendosi malato per estorcere loro regali in vista della futura eredità. Un nuovo cameriere, assai furbo, capito il gioco, si adegua e consiglia il padrone, disegnando un piano per punire l'avidità dei pretendenti eredi e assicurare a Volpone ulteriori donazioni. Uno dei tre, armatore come il Volpone, gli dona la sua nave più bella; un altro, commerciante in auto di lusso, gli regala un’auto d'epoca di enorme valore; il terzo, poi, gli cede per una notte sua moglie, sindaco della cittadina. Volpone quindi finge di morire in un incidente e, al momento della lettura delle ultime volontà dell'amico, i tre pretendenti vengono a sapere dal notaio che l'intero patrimonio di Volpone è stato destinato al nuovo servo. Quando però Volpone si veste da fantasma, per ricomparire davanti ai suoi amici, scopre che il cameriere lo ha chiuso dentro il bunker dove si era nascosto. È una satira sull’avarizia, un grottesco ritratto dell'ingordigia umana descritta con gli occhi della più classica commedia dell'arte. Molto bravo Villaggio che, fuori dall’ingombrante personaggio fantozziano, riesce a entrare con disinvoltura in quello del cinico miliardario. Linguaggio semplice e lineare, come di consuetudine del regista Ponzi. Volevo i pantaloni è un film del 1990, tratto dal romanzo di Lara Cardella. Racconta la storia di una ragazza della più chiusa provincia siciliana che, fin da piccola, sogna di portare i pantaloni per lei simbolo di quei privilegi di cui gode il sesso maschile in quella società. A diciotto anni, con l’aiuto di una disinvolta compagna venuta dal nord, va sulla spiaggia a baciarsi con un giovane perito agrario, ma viene scoperta da un parente e accade il finimondo. È giudicata una donna perduta da tutto il paese, e,

infine, viene mandata a vivere in casa di parenti in una vicina cittadina. Quando una sera lo zio l’aggredisce per violentarla, lei fugge urlando e lo denuncia, resistendo alle pressioni perchè rinunci salvando così l’onore della famiglia. Sposata e rimasta incinta, saputo che avrà una bambina, le prepara subito un paio di piccoli pantaloni. Il libro sembra ambientato in una Sicilia lontana cronologicamente dall’attuale, forse quella Sicilia medioevale del vulcano di Porcile. Ma si scopre che è invece ambientato nella Sicilia di oggi. Il linguaggio infantile e casereccio che dà al racconto la patina del diario è probabilmente il vero motivo dell’enorme successo del libro non replicato nelle successive pubblicazioni. Nel 1991 Maurizio Ponzi realizza il film per la tv Nero come il cuore e, l’anno successivo, Vietato ai minori, una commedia fiacca e senza ritmo che tratta delle avventurose riprese di un film porno, girato all'isola d'Elba, con la copertura di un documentario storico-ecologico per RAI, con lieto fine (poco credibile) per l’ignaro protagonista. Anche i commercialisti hanno un'anima (1994). È una pungente satira dell’Italia corrotta di Tangentopoli. Il film racconta la storia di un onesto impiegato della Corte dei Conti e un ambizioso consulente votato ai malaffari cui la fidanzata del primo vorrebbe che il suo compagno prendesse esempio. Si ritrovano insieme su un aereo che li porta in India. L'impatto con questa terra esotica produrrà nei personaggi diversi indirizzi. Fratelli coltelli (1997) è la storia di due fratelli che si conoscono solo nel momento della morte della madre e si fanno guerra per l’eredità. Intorno a loro un mondo avido cerca di appropriarsi dei loro averi che, scoprono poi, non esistere proprio. Appresa quest’ultima notizia, i due fratelli cominciano ad andare d'accordo e l'anziano maggiordomo rivela che il patrimonio di famiglia consiste in un gioiello nascosto dal valore inestimabile. Il tema dell’avidità e del denaro come fonte di liti è di nuovo affrontato da Ponzi, con il suo consueto linguaggio piano e senza fronzoli. Besame mucho del 1999 è un film di taglio televisivo, ispirato ai libri Besame mucho e Bella ciao di Enrico Deaglio. Senza infamia e senza lode. "L'intenzione è eccellente, e buoni sarebbero anche alcuni dei parecchi contributi interpretativi peccato però che la programmatica e condivisibile piccolezza, che è quella delle persone normali, dei giusti e della loro eroica

quotidianità, sia anche ristrettezza di concezione del film. Improntato, con la sua nobile galleria di gesti solidali verso extracomunitari, transessuali, malati, a un miserabilismo che lo riduce a un elementare manualetto per il volontariato. Tanto di cappello, comunque, alle intenzioni e allo sforzo" (Paolo D'Agostini, 'Annuario del cinema italiano 1999/2000'). Dopo la serie televisiva Il bello delle donne girata tra il 2001 e il 2003, Maurizio Ponzi gira A luci spente (2004), un film ambientato nel ‘43 che trae spunto dalla storia della produzione di un film finanziato dal Vaticano per narrare le vicende dei componenti del cast e della troupe in un’atmosfera di sentimenti fascisti. Nel 2006, infine, realizza la serie televisiva E poi c'è Filippo in cui torna a galla il linguaggio lirico ponziano semplice e garbato. 9.27 Emanuele Crialese Nasce a Roma nel 1965 si trasferisce a New York nel 1991 e si laurea nel ’95 presso il Dipartimento di Cinema della Tish School of the Arts, la più prestigiosa facoltà di cinematografia degli Stati Uniti. Dopo aver girato diversi corti, realizza il suo proimo lungometraggio, Once We Were Strangers, nel 1997, opera in lingua inglese da lui stesso scritta e anche prodotta. Con questo primo lavoro, in cui racconta l’amicizia di due immigrati, un italiano e un indiano che vivono a New York arrangiandosi tra mille lavoretti, Crialese partecipa nel 1998 (primo italiano nella storia della kermesse) al Sundance Film Festival di Robert Redford. Il film viene distribuito in Francia nel 1999, ma in Italia non esce mai nelle sale: solo da pochi mesi è disponibile in dvd. L’opera che però lo farà conoscere al pubblico e alla critica è Respiro, che nel 2002 vince il premio come miglior film alla Settimana della Critica a Cannes. Respiro, ambientato a Lampedusa, narra la vicenda della giovane madre di un'adolescente e di due ragazzini alla ricerca di una vita libera, che per questo viene considerata pazza dai suoi familiari, che cercano di farla internare in manicomio. Il film, che fa chiaro riferimento alle atmosfere de L’avventura di Antonioni, rivela originalità di un autore capace di creare un cinema personale e raffinato.

Prima di Respiro Crialese aveva lavorato, negli Stati Uniti, alla stesura di un adattamento cinematografico su Ellis Island, isola della ‘quarantena’ e primo alloggio per gli emigranti di inizio '900 che diventerà la spina dorsale di Nuovomondo. La pellicola, acquistata in 16 paesi europei, ha ottenuto, oltre al Leone d’Argento alla Mostra del 2006, 12 nomination ai David di Donatello 2007 (aggiudicandosene 3), 3 nomination ai Nastri d’argento 2007 e due Ciak d'oro tra cui quello per il miglior film dell’anno. Nuovomondo è stato scelto nel 2006 come film per rappresentare l'Italia nella corsa all'Oscar per il miglior film straniero. È una lezione di cinema ma anche una lezione di vita. ***** Bibliografia Giuseppe Ferrara, Il nuovo cinema italiano, Edizioni Le Monnier, Firenze 1957. Giuseppe Ferrara, Storia dell’industria cinematografica, Edizioni Accademia, Roma 1971. Salvatore Guglielmino, Guida al novecento, Principato Editore, Milano 1971. Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale, Feltrinelli Editore, Varese 1972. Georges Sadoul, I film, Sansoni Editore, Firenze 1968. Georges Sadoul, I registi, Sansoni Editore, Firenze 1968. Fabio Carpi, Cinema italiano del dopoguerra, Schwarz Editore, Milano 1958. Adelio Ferrero, Storia del cinema, Edizioni Accademia. Pio Baldelli, Cinema dell’ambiguità (Rossellini, De Sica/Zavattini, Fellini), La Nuova Sinistra Savonà e Savelli, Roma 1971. Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Editori Laterza, 2008. Angela Molteni, Il cinema di Pier Paolo Pasolini, in Pagine Corsare. Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Editrice Il Castoro srl, 1995. Nico Naldini, Pasolini una vita, Einaudi, Torino 1989. Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, Profondo nero. Mattei, De Mauro, Pasolini. Che cosa sapevano? Perché dovevano morire?, Chiarelettere,

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AA.VV., La città nel cinema: produzione e lavoro nel cinema italiano 1930-1970, Napoleone, Roma 1979. Sono inoltre stati oggetto di consultazione diversi siti internet (Wikipedia, MyMovies, con le critiche di Morandini, Lankelott.eu, Pagine Corsare) e l’Annuario del cinema italiano 1999-2000 di Polo D’Agostini. Diverse le riviste cinematografiche consultate e citate nelle note al testo. ***** Nota Tutti i personaggi descritti appartengono alla fantasia. Qualunque omonimia è del tutto casuale. Notizie sull’Autore

Maurizio Massa è nato a Milano nel 1946 e ha vissuto tra Milano, Palermo, Roma e Trapani. A Roma ha collaborato alla realizzazione di alcuni lavori cinematografici e in quel periodo ha curato un saggio sul cinema italiano e ha fondato una cooperativa di produzione cinematografica, che ha dato avvio all’attività di Giuseppe Tornatore. A Trapani (dove ora risiede) ha lavorato negli ultimi dieci anni, dopo avere girato quasi tutta l’Italia, gran parte d’Europa e una piccola fetta d’America. Per collegarsi: https://www.smashwords.com/profile/view/maurizio9415 *****

***** Altre opere dello stesso Autore In formato stampato: Memorie di un marinaio, del 2008, pubblicato da Photocity; Una Rolls bianca, dello stesso anno, pubblicato da Lulu Press; Saggio sul cinema italiano, iniziato negli anni ’70 e aggiornato nel 2009, pubblicato sul sito Il mio Libro del Gruppo L’Espresso; Il giallo si tinge di nero, del 2011, pubblicato da Lulu Press; Würsterlandia, del 2009, pubblicato da Lulu Press; Apocalisse a Palermo, del 2010, pubblicato da Photocity. ##### In formato digitale: Memorie di un marinaio, pubblicato da Smashwords; Una Rolls Bianca, pubblicato da Smashwords. Würsterlandia, pubblicatoda Smashwords. #####