Splendor : storia (inconsueta) del cinema italiano [6. ed.] 9788858108352, 8858108353

772 65 2MB

Italian Pages 131 [141] Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Splendor : storia (inconsueta) del cinema italiano [6. ed.]
 9788858108352, 8858108353

Citation preview

i Robinson / Letture

Steve Della Casa

Splendor Storia (inconsueta) del cinema italiano

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione luglio 2013 1

2

3

4

Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0835-2

Indice

Premessa

vii

Come un contagio. Le origini

3

1. I primi cinematografari e i primi divi, p. 5 - 2. Ercole, Maciste e Cabiria, p. 8

Il primo cinema in camicia nera. 1925-1935

16

1. Muto o sonoro?, p. 18

Quota 100. 1935-1945

25

1. Un Mussolini a Hollywood, p. 25 - 2. Acciaio e sottomarini, p. 29 - 3. Telefoni bianchi e treni popolari, p. 33

Dalle rovine al mito. 1945-1960

38

1. Il tempo del neorealismo, p. 39 - 2. Lo star system all’italiana, p. 46 - 3. Arrivano i fusti e i comici!, p. 49 4. I grandi autori, p. 55

Giovani leoni, grandi maestri e talenti «minori». Gli anni Sessanta

60

1. I giovani leoni, p. 61 - 2. La commedia drammatica della nuova Babilonia, p. 65 - 3. Il boom economico, p. 71 - 4. Le pistole non discutono, p. 76 - 5. I talenti «minori», p. 80

Prima della rivoluzione. Gli anni Settanta 1. L’impegno, p. 85 - 2. Gatti, mosche e poliziotti, p. 87 - 3. Non si ride più, p. 91 - 4. Articolo 28 e gola profonda, p. 94

­­­­­v

83

Lo sbandamento. Gli anni Ottanta

99

1. La torre di Babele, p. 100 - 2. Il cinema sommerso, p. 105

Gli ultimi lampi

108

1. Un cinema da festival, p. 109 - 2. Dai film alle serie tv, p. 113

Indice dei nomi

117

Indice dei film

125

Premessa

Non c’è forma artistica che possa raccontare il secolo breve quanto il cinema. E nessun mezzo di comunicazione che sia in grado di riassumere così efficacemente i cento anni durante i quali l’evoluzione tecnologica ha avuto un’accelerazione potentissima e lo spettacolo è diventato sempre più popolare e massificato. Se dunque si può dire che il ventesimo secolo è stato il secolo del cinema, per l’Italia il cinema ha rappresentato molto di più. Il rapporto di odio-amore tra il cinema italiano e gli italiani scandisce anno dopo anno i mutamenti, gli assestamenti e le svolte della società. In alcuni periodi il cinema italiano è amatissimo in patria ed esportato un po’ in tutto il mondo. In altri, la crisi sembra irreversibile e il pubblico rifiuta a priori qualunque film batta bandiera tricolore. Ci sono momenti che vedono lo Stato intervenire in modo creativo, altri nei quali l’aiuto pubblico si rivela un boomerang. In alcune fasi il cinema prende slancio insieme all’economia, in altre è invece decisamente in controtendenza. Alcuni storici del cinema – primo fra tutti Gian Piero Brunetta – hanno analizzato autori, correnti, svolte, coniugando con intelligenza il racconto delle fonti e l’approfondimento critico. Soprattutto, hanno fornito un’interpretazione scientifica, corroborata da dati, tabelle, analisi. ­­­­­vii

Quella che segue è invece una storia sentimentale del nostro cinema. Una carrellata che non ha alcuna pretesa di esaustività e che attraversa il cinema fatto in Italia suggerendo riflessioni e percorsi del tutto soggettivi. Il cinema italiano non è mai stato un’industria nel senso compiuto e letterale del termine, ma un vero e proprio turbinio di creatività, artigianato e arte di arrangiarsi. Nel nostro cinema, il livello alto (i capolavori, i grandi autori) si mescola in modo inscindibile con le pratiche basse (i mestieranti, i generi, i film nati per cercare di sfruttare le passioni del momento), e le riflessioni teoriche a posteriori spesso si scontrano frontalmente con i racconti dei protagonisti; la pianificazione e la programmazione non sono di casa: lo sono molto di più i film nati casualmente al tavolo di un ristorante per soddisfare una richiesta di mercato mai analizzata in modo scientifico, ma sull’estro delle sensazioni del momento. Nel cinema italiano le storie sono tante, e le leggende metropolitane infinitamente di più. Questo volume racconta alcune delle prime e suggerisce alcune delle seconde. Soprattutto, racconta perché quella che sicuramente è la seconda library per importanza commerciale di tutto il cinema mondiale presenti così tante zone di luce e altrettante d’ombra. Eppure, sono proprio questi chiaroscuri a regalare al cinema italiano gran parte del suo fascino e a stimolare una cinefilia ascientifica, onnivora, acritica. Ma per la critica – che rappresenta il trionfo della razionalità – c’è sempre tempo. Per la passione, invece, l’attimo è fuggente, e fissarlo sulla carta può essere molto utile.

Splendor Storia (inconsueta) del cinema italiano

Come un contagio. Le origini

Il cinema arriva in Italia alla fine dell’Ottocento, al seguito degli operatori che i fratelli Lumière mandano qua e là per il mondo a girare documentazione per i propri giornali e a vendere i brevetti della loro invenzione, che per la prima volta realizza uno dei grandi sogni segreti dell’umanità: riprodurre le immagini in movimento. Il primo centro di irradiazione è Torino, sicuramente per la vicinanza geografica con Lione, la città che ha dato i natali alla nuova forma d’arte; Roma seguirà a ruota. I primi imprenditori del cinema sono diversi da città a città: a Torino sono soprattutto fotografi che colgono l’occasione per ampliare le proprie attività, mentre a Roma si trasformano in produttori nomi importanti dell’aristocrazia e dell’imprenditorialità, soprattutto nel ramo bancario e in quello edilizio. Una diversità che si farà sentire molto, nel prosieguo degli avvenimenti. I primi cinema sono locali improvvisati, adattamenti di bar, birrerie, sale riunioni. Le grandi sale costruite appositamente nel centro delle varie città verranno dopo, quando la nuova industria avrà dimostrato una solidità sufficiente per attrarre investimenti finanziari e immobiliari. Il mondo degli intellettuali all’inizio si mostra sprezzante nei confronti di questa nuova forma d’arte, per una sorta di gelosia o forse di inadeguatezza. L’arte, lo spetta­­­­­3

colo e il dibattito che li circondava erano stati fino a quel momento appannaggio di un numero ristretto di persone, perché molto ristretto era il numero dei fruitori. Il cinema è la prima forma di cultura di massa e frantuma definitivamente l’idea dello spettacolo in quanto privilegio di un circolo iniziatico. Al tempo stesso, è una straordinaria fonte di guadagno per chi ci lavora. E quindi, prima ancora che inizi l’elaborazione critica ufficiale, gli intellettuali italiani cominciano a bussare alla porta della settima arte. E non vengono respinti, anzi. Racconta il regista Augusto Genina a Oriana Fallaci, che ha raccolto le sue memorie sull’«Europeo» nel novembre e dicembre 1955 (numeri 528, 529 e 530), a proposito del suo incontro con Luigi Pirandello: Avevo letto una sua novella, Lo scaldino, e siccome mi sembrava un buon soggetto da film, andai a Roma per conoscere l’autore. Trovai un omino col pizzo grigio, estremamente affabile. Non parlò quasi mai, fece sempre parlare me, ascoltandomi con la faccia appoggiata al palmo della mano destra, la testa un po’ reclinata, gli acuti occhi intenti. Pirandello aveva il dono di saper ascoltare e di far credere al suo interlocutore di dire cose squisite, anche se diceva scemenze. Era un signore, ed un curioso della vita. Per lui ogni persona era un personaggio, di cui forse si sarebbe servito in qualche sua opera. A quel tempo non aveva incominciato a scrivere per il teatro; e quando venne insieme a me a Torino e lo portai a sentire una commedia nella quale recitava Angelo Musco, gli sentii ripetere a bassa voce i dialoghi che sapeva a memoria. Lo guardai stupefatto. Sorrise. Poi, a bassa voce, mi spiegò che sognava di fare un teatro dove tutti parlassero italiano, non un ibrido linguaggio dannunziano o una cattiva traduzione dal francese. Mi disse anche che aveva stima enorme del cinema e, se avesse potuto, non avrebbe lavorato che per il cinema. ­­­­­4

A Pirandello non piaceva D’Annunzio, e questa non è una novità. Ma con il poeta soldato condivideva una profonda adesione al cinema, anche se D’Annunzio preferiva sminuire l’importanza di tale adesione. È lo stesso Genina a ricordarlo, sempre alla Fallaci: «Ho lasciato cincischiare in film qualcuno dei miei drammi più noti, disse, e aggiunse che aveva ceduto all’invito per comprare una maggiore quantità di carne rossa per i suoi cani». Entrambi, però, erano in ottima compagnia: solo per fare qualche esempio, ricorderò la coppia di successo Camasio-Oxilia, l’intimista Guido Gozzano, il giovane socialista Antonio Gramsci e le personalità più importanti del movimento futurista. Gli intellettuali adorano ricorrere a giustificazioni diverse e contrastanti quando parlano del proprio rapporto con un’arte che è considerata strutturalmente come minore perché popolare. E gli assegni versati dai cinematografari aiutano a trovare queste giustificazioni. 1. I primi cinematografari e i primi divi I cinematografari sono imprenditori di nuova e rampante borghesia, spesso contigui a chi opera nell’edilizia perché l’esigenza primaria di chi investe nel cinema sono gli studi, che devono essere progettati e costruiti. I primi sono quelli della Cines, che sorgono a Roma tra via Vejo e piazza Tuscolo, in una zona fertile e coltivata soprattutto a carciofi. A Torino, nel 1907, il fotografo Arturo Ambrosio chiude il suo negozio di ottica e fonda la Ambrosio Film, che ha varie sedi in città e che inizia, insieme alla Itala Film che nasce nel 1910, la produzione di film storici. Ambrosio è un imprenditore intraprendente, volitivo, pronto alla battuta sferzante. A uno spettatore che aveva storto il naso per­­­­­5

ché in un film di ambientazione biblica si vedevano alcune comparse che indossavano la tunica sopra i pantaloni mentre i triclini erano apparecchiati con le tovaglie, Ambrosio aveva obiettato sprezzante in piemontese: «A iera chiel?» («C’era lei?»). Ancora a Roma, il barone siciliano Carlo Amato aveva fondato la Rinascimento Film e per costruire gli studi acquistò dei terreni al quartiere Parioli, che all’epoca era alla periferia della capitale. Ne comprò molti, il loro valore crebbe enormemente e il barone divenne uno degli uomini più ricchi di Roma: non tanto per l’attività cinematografica bensì per gli investimenti immobiliari. Tutto questo lo aiutò a realizzare il sogno della sua vita, e cioè sposare la bella attrice Pina Menichelli, alla quale ogni giorno inviava una rosa rossa. Negli anni Dieci, quando il cinema italiano sembra trionfare nel proprio paese e approfittare sapientemente dei mercati esteri, il divismo rappresenta una componente molto importante. Come è noto, il divismo è fatto anche di manie, di eccentricità, di pettegolezzi. Al centro di tutto ci sono naturalmente i matrimoni, che spesso (già allora) uniscono le attrici e i produttori. Hesperia (alias Olga Mambelli), nota per avere fianchi torniti e un vitino stretto stretto, sposa il conte Baldassarre Negroni, regista e produttore. Il conte Cini sposa invece Lyda Borelli e spinge per farla ritirare dalle scene: non contento, compra e distrugge tutte le pellicole che la vedono interprete. Francesca Bertini, diva fatale, sposa il banchiere svizzero Paolo Cartier con una cerimonia epocalmente sontuosa. Leda Gys sposa il produttore napoletano Gustavo Lombardo, fondatore della Titanus, major italiana ancora attiva e in mano ai suoi discendenti. Le riviste registrano anche i capricci delle attrici nella loro quotidianità: Linda Pini che ­­­­­6

si rilassa facendo bolle di sapone, Margot Pellegrinetti che sul set mangia solamente semi di zucca, Gianna Terribili Gonzales che per i suoi spostamenti pretende una carrozza con i cavalli e che venga srotolato un tappeto una volta giunta a destinazione, Maria Jacobini che ha una vera e propria fobia per le sedie tanto che in casa sua non ce n’è nemmeno una. Ma il cinema italiano trionfa grazie ai fasti dei suoi kolossal storici, primo fra tutti Cabiria che nel 1914 impegna la Itala Film per un intero anno. Il film è diretto da Giovanni Pastrone ma firmato da Gabriele D’Annunzio, che dal suo soggiorno parigino fornisce indicazioni per le didascalie e i nomi dei personaggi. Ma al di là del suo impatto commerciale (viene proiettato in tutto il mondo), è forse il primo film che coinvolge un’intera città nell’industria cinematografica. Nella Torino dell’epoca, che non raggiungeva il mezzo milione di abitanti, 20.000 comparse vengono utilizzate per un anno di lavorazione e la statua del dio fenicio campeggia a lungo nella centralissima piazza Castello per promuovere il film. È la prima volta che un film invade letteralmente la cronaca. E ci sono, naturalmente, delle novità fondamentali nella storia del cinema, ad esempio l’uso della carrellata, mai utilizzata in precedenza. Soprattutto, il film rappresenta una vera e propria svolta epocale nella storia del costume. Un film diretto al grande pubblico che porta la firma di un intellettuale molto noto e ha una partitura composta da un musicista come Ildebrando Pizzetti non può certo passare inosservato: significa che il cinema non è più solo spettacolo per il popolino ma opera d’arte in grado di coinvolgere grandi numeri e al tempo stesso di soddisfare qualsiasi tipo di pubblico. Così, quando finisce la prima guerra mondiale, tutto sembra pronto per una nuova straordinaria stagione del ­­­­­7

nostro cinema. Invece non sarà così. A Hollywood, gli americani hanno fatto grandi investimenti, hanno razionalizzato la produzione e soprattutto hanno fatto tesoro dei successi ottenuti negli anni precedenti dalla nostra cinematografia. Tom Mix, Douglas Fairbanks e Rodolfo Valentino in pochissimi anni oscurano la fama dei divi italiani e propongono film universali, semplici, pieni d’azione, tanto lente e letterarie erano le «visioni storiche» italiane. Nel 1923 la Banca commerciale italiana, che aveva finanziato il consorzio Uci (il maggior esponente dell’industria cinematografica del nostro paese), decide di uscire dall’industria stessa per le perdite subite e il consorzio cessa le attività. La produzione crolla, chi può va a lavorare all’estero e soprattutto in Germania, dove invece la fine della guerra ha innescato un meccanismo virtuoso per la cinematografia che è viva, frizzante, ricca di idee. La ricostruzione avverrà negli anni Trenta e sarà contrassegnata da due avvenimenti, uno mondiale (l’avvento del sonoro) e uno locale (un massiccio investimento nel cinema da parte del regime fascista). 2. Ercole, Maciste e Cabiria Ma forse il fenomeno più tipicamente italiano del cinema muto riguarda il divismo maschile, o per la precisione una sua particolare forma. Si tratta del cinema chiamato «atletico-acrobatico», e cioè di quei numerosissimi film che a partire da Cabiria popolano la produzione italiana fino alla crisi di metà anni Venti e che sono esportati un po’ in tutto il mondo. Alcuni dei protagonisti arrivano dal circo, altri dalla vita reale: il più famoso di tutti, Bartolomeo Pagano (è il Maciste di Cabiria, nome scelto da D’Annunzio che ­­­­­8

sostiene trattarsi di una versione alternativa per il semidio Ercole, ma che è invece inventato di sana pianta per la sua evidente musicalità, in coerenza con l’artificio poetico caro a D’Annunzio), era in realtà uno scaricatore del porto di Genova. Sono film che affascinano intere generazioni e tra i loro cultori si trovano le persone più insospettabili. Ecco ad esempio la testimonianza di Federico Fellini apparsa su Il Patalogo due (Ubulibri, Milano 1980): Uno dei miei primi ricordi è Maciste all’inferno. Mi pare persino che sia il mio primo ricordo in assoluto. Ero molto piccolo. Ero in braccio a mio padre, che stava in piedi (il cinema era affollato), quindi dovevo avere un peso sopportabile, non potevo avere più di sei, sette anni. Era il cinema Fulgor, non il migliore di Rimini: come i primi cinematografi, aveva ancora del baraccone, ricordava il palazzo delle streghe del Luna Park. La fiumana di gente, le urla, il richiamarsi a gran voce, l’aria sempre un po’ minacciosa, almeno per un bambino; e poi il buio, il fumo, quello stare in piedi come in chiesa, come alla stazione, quelle attese sempre un pochino inquietanti, magari anche per partenze che non desideri. Quel cinemetto l’ho raccontato in tanti miei film: mi pare che si pagasse nove soldi proprio sotto lo schermo, dove c’erano alcune panche occupate subito da una marmaglia che si azzuffava, poi c’erano i distinti, a una lira. Eccolo, il mio primo film: in braccio a mio padre, con gli occhi un po’ brucianti, perché ogni tanto, per attutire gli effetti del fumo delle sigarette, la maschera spandeva nell’aria, con quelle pompette meccaniche con cui si dava il flit per le mosche, un profumo dolciastro, acre. Mi ricordo questo saloncino buio, fumoso, con questo odore pungente e sullo schermo giallastro un omaccione con una pelle di capra che gli cingeva i fianchi, molto potente di spalle – molto più tardi ho saputo che si chiamava Bartolomeo Pagano – con gli occhi bistrati, le fiamme che lo lambivano intorno, perché si trovava all’inferno, e davanti a lui delle donnone anche loro bistratissime, con ciglia a ventaglio, che lo guardavano con occhi ­­­­­9

fiammeggianti. Quell’immagine mi è rimasta impressa nella memoria. Tante volte, scherzando, dico che tento sempre di rifare quel film, che tutti i film che faccio sono la ripetizione di Maciste all’inferno. Non sapevo cos’era. Non lo collegavo nemmeno al fatto di stare al cinema. È proprio un frammento isolato, separato, della memoria emozionale. Solo quell’immagine, quel fotogramma. Tutto il resto del film non lo ricordo. Forse poi mio padre mi ha messo giù, e sono scomparso tra i pantaloni e le giacche della gente che stava in piedi. Ricordo, violentemente, solo questo: buio, fumo, odore pizzicante e lassù, in alto, l’immagine di quell’omone nerboruto, corpulento, Maciste, tagliato alle ginocchia e, in fondo, il fotogramma tutto fiammeggiante (ai piedi di Maciste dovevano passare dei tubi che portavano la benzina là in fondo, per l’incendio, ma il trucco l’ho capito molto dopo). Un antro. Un trono, mi pare. Una donnona con i seni accolti da una specie di spirale a serpente, con grandi occhi di nerofumo, bianchi come quelli dei leoni, che saettava, dardeggiava occhiate concupiscenti verso Maciste. Maciste, oltretutto, assomigliava molto a un vetturino, un fiaccheraio che stava sempre alla stazione, sulla sua carrozzella, e che noi ragazzini chiamavamo il vetturino ‘madonna’ che sarebbe come dire un cristone, un cristaccio. L’ho messo in Amarcord quel vetturino. Del resto, con sua grande soddisfazione, gli avevamo cambiato nome: da vetturino ‘madonna’ passò al soprannome di Maciste.

Insomma, Maciste all’inferno, di Guido Brignone, eccitò non poco la fantasia del futuro regista di La dolce vita. Ma intorno a quel film particolarmente onirico è da registrarsi anche un curioso fatto di cronaca riportato dal rotocalco «La vita cinematografica» nel numero uscito nel novembre 1924: Sulle sponde di un vorticoso torrente, incassato tra gli orridi dirupi delle nostre Alpi e che offrivano un autentico scenario infernale, ricco di antri paurosi e selvaggi, giorni orsono erasi ­­­­­10

accampata la numerosa troupe della Fert, che eseguisce Maciste all’inferno. Così si potevano vedere parecchi attori in sembianze di diavoli irsuti e saltellanti scorrazzare di qua e di là al comando di Guido Brignone. Quel remoto cantuccio dei nostri monti si era trasformato in un vero lembo del regno di Plutone. C’era Franz Sala, che solfeggiava allegramente: «Primavera, primavera, stagione di delizie»; c’era il tripputo Saio, armato di tridente; c’era tutta una coorte di demoni. Ed ecco sbucare ad un tratto, dalla stradicciuola che scendeva a valle, un ragazzetto di un pae­ se vicino e appollaiato su cime più alte. A quella infernale vista il poveretto s’arrestò spaurito e sgranò gli occhi. Poi gettò un grido e se la diede a gambe su per le balze, saltando come un capriolo. Ma il bello viene dopo. Infatti non era trascorsa un’ora che dal paese scendevano in frotta i montanari armati di randelli, di picche, di tridenti e di quanto era capitato a portata di mano. C’era tutto il paese e li comandava il buon parroco. Venivano a vedere donde era sbucata l’orda diabolica ed erano pronti a fugarla. Tuttavia l’equivoco fu tosto spiegato e i buoni montanari si accamparono nelle vicinanze per assistere allo svolgersi delle scene più infernali che si possano immaginare. Qualcuno, anzi, avrebbe avuto una voglia matta di fare egli pure il diavolo!

E sempre su Maciste all’inferno è interessante l’intervista che Francesco Savio fece a Sergio Amidei, futuro sceneggiatore di Roma città aperta e di tanti altri film di successo, nel volume Cinecittà anni Trenta (Bulzoni, Roma 1979): Nel 1924, trovandomi a Torino e, come tutti gli studenti di allora, avendo pochissimi soldi, incontrai in una minuscola trattoria un certo Azzolin, un veneto che faceva il fotografo, il quale mi offrì di andare a fare la comparsa in Maciste all’inferno, di Brignone. E così, una bella mattina, mi sono trovato in mezzo a una folla di miserabili. Mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno messo una specie di sottanina di pelo di capra con una coda fatta a molla, mi hanno cacciato in testa una parrucca da diavolo, poi ­­­­­11

mi hanno dipinto con la terra d’ocra, con la terra d’ombra, e la birra, m’hanno dato una lancia, una forca, e m’hanno sbattuto in mezzo agli altri. Un freddo a Torino, erano i primi di novembre. Per ripararci ci davano dei cappotti da militare, sporchi, fetenti. E io quasi piangevo, giuravo mai più, mai più, mai più. Poi la sera ci hanno dato della vasellina per struccarci, dell’alcool, e 40 lire, che allora erano molte.

Secondo lo storico Vittorio Martinelli, il primo a rendersi conto del potenziale coefficiente di spettacolarità garantito da questi forzuti di inizio secolo è Enrico Guazzoni. Come racconta nel volume Gli uomini forti, a cura di Alberto Farassino e Tatti Sanguineti (Mazzotta, Milano 1983), Guazzoni era il regista di punta della casa produttrice romana Cines e aveva comprato a caro prezzo dagli eredi Sienkiewicz i diritti del fortunatissimo romanzo Quo Vadis?, che avrà come sappiamo molte altre versioni cinematografiche. Guazzoni, tra i migliori registi del cinema muto (lavorerà fino alla morte, avvenuta durante gli anni Quaranta), era molto fiero di aver messo sotto contratto, tra gli altri, Amleto Novelli, uno dei primi attori di fama che aveva accettato di fare del cinema. Ma la vera trovata fu l’assegnazione del ruolo di Ursus, per il quale venne scelto «un certo Bruto Castellani, romano, sulla trentina, un omaccione che era già apparso in qualche film precedente». Osservando la gente che si assiepava per vedere le riprese dei ludi gladiatori, che si svolgevano nel campo corse dei Parioli, là dove oggi ci sono soltanto palazzine di lusso, Guazzoni si accorse subito che era quell’omaccione l’oggetto della maggiore curiosità. Castellani divenne un divo, e non solo in Italia: «A Londra il film venne presentato alla Albert Hall alla presenza di Giorgio V e della regina, che ­­­­­12

vollero complimentarsi con il regista e gli attori. Ed il più festeggiato fu proprio Castellani, cui Sua Maestà si rivolse chiamandolo Ursus ed esprimendogli la sua simpatia». E la sua decadenza rappresenta anche la decadenza del genere, come testimonia una notizia apparsa nel gennaio 1924 sul rotocalco «La vita cinematografica» a margine del remake di quel film, prodotto questa volta dalla Uci poco prima di interrompere la sua attività: «L’artista cinematografico Bruto Castellani, interprete del personaggio di Ursus nel Quo Vadis? che la U.C.I. sta eseguendo, venne arrestato in questi giorni a Roma perché accusato di oltraggio al pudore!». Non sappiamo come sia finita la vicenda, ma di certo se Castellani fosse ancora stato sulla cresta dell’onda la notizia sarebbe stata taciuta e forse l’attore stesso non perseguito. Se Castellani è stato il primo, il più famoso di tutti è certamente stato Maciste, cioè il camallo Bartolomeo Pagano. Così l’interprete di Cabiria ricorda sulla rivista «Films Pittaluga», del 15 febbraio 1924, il suo arruolamento nel cinema: «Oh, furono gli altri a cercarmi. Vennero da Torino in due. Volevano un uomo forte, un gigante. Furono mandati da me. Ero magazziniere, e nel mio posto stavo come in una vigna. E poi volevo bene al porto. Risposi di no. Tornarono il giorno dopo. Mi tastarono, mi misurarono, mi fotografarono. Gli amici si intromisero e finii per partire per Torino. Lì trovai Cabiria, e il mio nome di Maciste. Più tardi ci trovai anche la moglie. Ma quella era dei paesi miei». Da allora Maciste divenne una vera e propria star, e come tale fu arruolato anche nei film di propaganda: Maciste alpino (1916) è un «film nel film», si immagina una troupe cinematografica che sta girando al confine con l’Austria (anche se le riprese sono tutte a Torino). Scoppia la guerra ­­­­­13

e tutti vengono catturati dai soldati di Francesco Giuseppe. Ma i malcapitati non hanno fatto i conti con l’eroe italico dalla forza erculea. Dopo non molto tempo si libererà e a suon di sganassoni riuscirà a sconfiggere gli austriaci utilizzando anche due soldati di quella nazione come slitta, per meglio muoversi su una discesa innevata. La sua carriera continuerà sino all’inizio degli anni Venti, quando Pagano, a causa della crisi del nostro cinema, si trasferirà come molti altri in Germania, per girare film sempre con il ruolo di Maciste. E anche per lui la carriera si concluderà nelle aule di un tribunale: nel giugno 1923 «La vita cinematografica» scriveva che i giudici di Berlino avevano dato ragione ai produttori italiani che avevano chiesto che Pagano non utilizzasse il nome di Maciste per i personaggi interpretati in Germania. Il mese successivo la stessa rivista segnalava che il tribunale di Torino aveva rigettato il ricorso di Pagano contro la casa produttrice Itala Film, che continuava a produrre film con protagonista Maciste pur affidando il ruolo ad altri attori. La prima guerra mondiale, come abbiamo detto, è una sorta di spartiacque per la produzione italiana. Al termine del conflitto inizia infatti la crisi che in poco tempo spazzerà via tutto il tessuto produttivo che si era formato a Torino e a Roma, mentre durante la guerra un buon numero di attori e di attrici erano stati chiamati a esprimere il proprio patriottismo con film antiaustriaci o comunque a partecipare a manifestazioni pubbliche di stampo nazionalista. Ma l’industria era talmente forte e radicata da consentire eccezioni decisamente controcorrente. La più bella di tutte è La guerra e il sogno di Momi, realizzato nel 1917 (l’anno di Caporetto!) da Giovanni Pastrone (il regista di Cabiria) e da Segundo de Chomón, animatore spagnolo che in quegli anni si era trasferito a Torino per lavorare agli ­­­­­14

effetti speciali di molti film tra i quali proprio Cabiria. Apparentemente si tratta di un film di propaganda (il papà del piccolo Momi è al fronte e compie atti di valore contro gli austriaci), ma nella seconda parte – quella in cui il bambino si addormenta e sogna suo padre al fronte – si trasforma in una parabola pacifista. Momi sente infatti la lontananza del padre e intuisce i pericoli che sta correndo: nel sogno immagina, in una stupenda scena di animazione a passo uno, che i suoi soldatini scendano in campo e facciano finire in modo incruento la guerra, riportando a casa suo padre.

Il primo cinema in camicia nera. 1925-1935

Il cinema sonoro arriva in Italia nel 1930 con il film La canzone dell’amore di Gennaro Righelli (capostipite di una famiglia di cinematografari: i suoi nipoti sono Luciano Martino, produttore di moltissimi film a partire dagli anni Sessanta, e Sergio Martino, regista di commedie e film d’azione molto amati da Quentin Tarantino). Arriva sull’onda del grande successo che due anni prima corona la proiezione americana di The Jazz Singer (Il cantante di jazz), e dell’immediata conversione di tutta l’industria americana al nuovo modo di girare i film con una banda magnetica attaccata alla pellicola che riproduce dialoghi, rumori e musica. Ma tutti gli anni precedenti sono straordinariamente vitali per l’Italia: perché, se la produzione era ridotta al minimo, si registrano invece importanti segnali sul piano politico, critico, artistico. Il 5 novembre 1925 il consiglio dei ministri presieduto da Benito Mussolini proclama la nascita dell’Ente Morale L’Unione Cinematografica Educativa, da subito noto con l’acronimo Istituto Luce. È il primo intervento nella politica cinematografica da parte dello Stato italiano, e in qualche modo registra la condizione di crisi dell’industria e la necessità di rilanciarla, anche (ma non solo) per motivi propagandistici. Seguiranno, negli anni Trenta, la fondazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, una sor­­­­­16

ta di scuola d’élite per chi – regista, attore o tecnico – voglia cimentarsi nella settima arte, e l’apertura (dopo solo undici mesi di cantiere) di Cinecittà, all’epoca lo stabilimento cinematografico più funzionale e dotato di tutta Europa. Le tre istituzioni cardine della politica cinematografica del governo fascista sono contigue, lungo la via Tuscolana, in una zona che anche simbolicamente vuole rappresentare la visualizzazione di un piano concreto e razionale di intervento nel cinema. Torniamo all’Istituto Luce. Il fondatore è il giornalista Luciano De Feo, che già in precedenza aveva avviato un’altra esperienza con lo stesso acronimo e che si proponeva di utilizzare il cinema per accrescere la cultura delle masse popolari («diffusione della cultura popolare e della istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche, messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile, e distribuite a scopo di beneficenza e di propaganda nazionale e patriottica»). Dal 1927 l’Istituto Luce inizia la produzione di cinegiornali, per i quali una legge istituisce la programmazione obbligatoria prima delle proiezioni. Si tratta sicuramente di una iniziativa di propaganda, ma anche di una straordinaria memoria audiovisiva, che proseguirà fino agli anni Settanta costituendo probabilmente il più grande archivio del mondo, per quantità di documenti e capacità di illustrare vita, costumi e modi di vivere dell’Italia. È la prima realtà di questo tipo a livello mondiale. Questo primo intervento pubblico sulla produzione cinematografica è la dimostrazione di quanto il cinema fosse percepito come un asset importante, sebbene l’industria cinematografica italiana vivesse in quegli anni uno dei momenti più difficili della sua esistenza.

­­­­­17

1. Muto o sonoro? Sul piano artistico, tuttavia, non viene meno il rapporto tra gli intellettuali e la produzione cinematografica, nonostante la contrazione di risorse e di investimenti attraversi tutti gli anni Venti. Particolarmente significativa è l’esperienza del gruppo denominato «I sei di Torino». Tra il 1928 e il 1931 questo gruppo rappresenta una delle realtà artistiche più interessanti e i suoi componenti (Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Carlo Levi, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci) diventano protagonisti di primo piano nello scenario italiano. Il gruppo si schiera contro le avanguardie e recupera il fauvismo, Monet e Modigliani, contrapponendosi all’arte astratta e al futurismo; ha come teorico il critico d’arte Edoardo Persico, intellettuale vicino a Lionello Venturi e a Piero Gobetti, con cui condivide l’esperienza di «Rivoluzione liberale». Quando nel 1931 il gruppo si scioglie, due suoi esponenti, Carlo Levi ed Enrico Paulucci, si trasferiscono a Roma e stipulano un contratto con la Cines. Lavoreranno per molti film, incrociando le proprie esperienze con quelle di un altro pittore piemontese, Italo Cremona, che come loro firmerà scenografie e costumi per pellicole importanti ma anche per molti lavori commerciali. Ma forse il risultato più importante dell’intreccio tra arti visive e cinema è rappresentato da La compagnia dei matti, che Mario Almirante dirige nel 1928 ispirandosi alla commedia Se no i xe mati no li volemo di Gino Rocca. Si tratta di uno dei film più significativi di tutto il decennio. Non tanto per la trama (un gruppo di vecchi gaudenti, ormai rattristatisi con il passare degli anni, deve dimostrare di possedere ancora doti di follia per assicurarsi il diritto a una cospicua eredità) quanto per la realizzazione. La recitazione è misura­­­­­18

ta, nulla a che vedere con gli eccessi espressionisti che caratterizzavano le interpretazioni dei film muti. La regia prevede un continuo alternarsi di primi piani e di campi lunghi, e soprattutto continui movimenti di macchina che sottolinea­ no l’imponenza e la cura delle scenografie. Che sono, per l’appunto, un vero e proprio inno al liberty e all’art déco, una straordinaria visualizzazione dei canoni estetici del periodo. In tutto il film gli attori – tra i quali un giovanissimo Vittorio De Sica alla sua prima importante interpretazione cinematografica – si muovono in ambienti coerenti e curatissimi, non necessariamente sfarzosi: anzi, rimane impresso il senso di carcerario soffocamento che caratterizza lo spazio dei due giovani innamorati. Tali scenografie sono di un altro artista, molto conosciuto per la sua attività nel milieu culturale della Torino anni Venti, Giulio Boetto, la cui opera fu notata anche dai recensori dell’epoca: «Gli ambienti interni ed esterni, presentatici dal pittore Giulio Boetto, sono originali e coerentissimi al lavoro. [...] Segnaliamo questo autentico artista a chi asserisce che in Italia facciano difetto moderni scenografi cinematografici» («Al cinemà», anno VII, n. 46, 11 novembre 1928). Se nella Torino del periodo il fenomeno assume una rilevanza tale da coinvolgere anche un industriale come Riccardo Gualino (sulla cui esperienza nel mondo del cinema torneremo più in là), in tutta Italia il cinema continua a essere punto di riferimento per il mondo artistico e intellettuale. L’incessante travaso di artisti all’interno dell’industria cinematografica sembra quasi voler indicare una richiesta – quella di rilanciare l’industria stessa – che ben si sposa con le intenzioni di controllo politico e sociale del fascismo. Al tempo stesso, cresce l’elaborazione critica sulle forme e i modi della narrazione cinematografica, ela­­­­­19

borazione che diventa pressoché febbrile nel momento in cui l’industria si accosta al sonoro. Se fino a quel momento di cinema avevano parlato soprattutto i rotocalchi, dalla metà degli anni Venti inizia un dibattito serrato sull’essenza e il futuro della settima arte, tale da coinvolgere gente di cinema e intellettuali. Prima di quel momento, in Italia solo Ricciotto Canudo si era interessato in modo continuativo e approfondito alle possibilità offerte dalla nuova forma d’arte. Nel 1931 diventerà invece normale che un giovane e scalpitante intellettuale, Cesare Pavese, scriva ad Arrigo Cajumi (mente pensante della rivista «La Cultura», una delle più importanti e frequentate tribune del dibattito culturale italiano) affermando: «Ho poi in mente un’idea mostruosa sulla ‘Letteratura nel cinema americano’, che importerebbe una ricerca sulle origini del medesimo», e ricevendo pronta risposta: «Caro Pavese, io e Praz approviamo sin da ora l’idea della ‘Letteratura nel cinema americano’, per cui avrai in me un censore cinematografico abbastanza competente». Lo studio non venne mai realizzato, e proprio l’entusiasmo cinematografico di Pavese rappresentò il maggior freno al tanto desiderato approfondimento, come lui stesso ammise scrivendo sempre a Cajumi il 27 settembre dello stesso anno: «Penso a nuove cose per ‘La Cultura’, e sono tuffato fino agli occhi nella storia del cinema. Tanto è il caos che non me la cavo più». E se tanti intellettuali di tutte le età affrontano con toni vivaci e polemici il cinema e i suoi problemi artistici, sulle riviste e i giornali italiani nasce la critica cinematografica: non ci si limita a raccontare la trama del film e a dare conto della fruizione di chi lo ha visto, si iniziano a porre problemi concreti e soluzioni a questi problemi. Se la prima rubrica ufficiale di critica cinematografica porta ­­­­­20

una firma importante, quella di Alessandro Blasetti, che dal 1925 tiene sul quotidiano «L’impero» la rubrica Lo schermo, l’argomento che a lungo divide e appassiona gli esperti italiani di cinema riguarda soprattutto una questione di attualità un po’ in tutto il mondo, alla luce anche dei continui perfezionamenti che fanno intuire la possibilità di lì a poco di poter giungere a una sonorizzazione intrinseca del cinema. Fino a quel momento, infatti, il cinema non era mai stato muto ma sempre accompagnato da suggestioni musicali che variavano dal semplice pianoforte alla grande orchestra. Dopo il successo di The Jazz Singer, l’industria si converte rapidamente alla possibilità di rendere sonora la pellicola. E si apre un appassionato dibattito. Blasetti in un primo momento sostiene che il cinema debba restare muto, ma contemporaneamente inizia la lavorazione di Resurrectio, che uscirà dopo il già citato La canzone dell’amore pur essendo stato girato in precedenza in quanto la produzione, forse anche perché frastornata dall’acceso dibattito, aveva temuto un insuccesso di pubblico. Il 12 giugno 1929 Augusto Genina interviene sulla rivista parigina «Comoedia» con un articolo sull’argomento, che viene pubblicato «nella integrale e fedele traduzione» dal quotidiano romano «Corriere dello Spettacolo» sei giorni più tardi. È un articolo importante, per i contenuti e le motivazioni. Di fatto, è il primo via libera ufficiale da parte di uno dei più importanti registi dell’epoca al cinema sonoro: Un regno finisce... un altro comincia. Il film muto sta morendo, il film parlante va nascendo. Il cinema che sparisce sarà rimpianto da quelli che amavano il suo silenzio evocatore di sogni e di immagini... ma egli muore definitivamente... per trasformarsi e rinascere di colpo con una vita insperata, insospettata, meravigliosa! [...] La voce umana, la musica, fungono da padrini e da ­­­­­21

madrine e a giudicare dal successo e dalla forza delle sue prime parole, dei suoi primi rumori, sembra che il bambino crescerà con una rapidità prodigiosa... con una fretta straordinaria di diventare grande e potente. È la rivincita del cinema sul teatro. È la vita ultra-moderna, meccanica, fulminante, brutale, avida, insensibile, pratica che ha voluto e vuole il cinema parlante, spinta, com’essa è, a creare lo strumento capace di riprodurla fedelmente in serie. Il tempo di spedire questi nuovi film e il mondo ne sarà invaso. Vilipeso, disprezzato, trascurato ieri, egli sarà forse domani il vincitore assoluto... il tiranno che tiene il mondo sotto la sua legge. Già noi ne vediamo i primi sintomi; a Londra riporta un successo che ha del miracolo, e al di là di ogni previsione, di ogni immaginazione. Nessuna forma di spettacolo aveva dato finora dei risultati così grandiosi. I direttori di teatro e di music-hall sono giustamente preoccupati. Ogni giorno i loro incassi accusano delle sensibili diminuzioni, mentre quelli dei cinema, proiet­ tandosi dei film parlanti, aumentano al punto da raggiungere quotidianamente il record di otto spettacoli al giorno a prezzi triplicati e a botteghini chiusi. [...] Dunque, né teatro né cinema, ma una fusione dei due generi di spettacoli. Risultato: una nuova forma di arte rappresentativa che può colpire per la sua meccanica troppo evidente e per ceree interpretazioni che, del resto, scompariranno rapidamente, ne son certo (elefantiasi vocale, nessuna differenza di prospettiva sonora, ineguaglianza nella trasmissione ecc.). In fondo è la radio associata al cinema o, se volete, più semplicemente ancora, la fotografia unita al fonografo. E il risultato di questa associazione è di un effetto sorprendente. Si ha un bel ripetere: la voce parte da un corpo umano e non può venire da immagini, la fusione tra il suono e la fotografia non può esistere. Il cinema è un’arte visuale, non ha linguaggio... le immagini devono parlare di per se stesse. La sua forza è nel silenzio... suggerire... non esprimersi. Nessuna precisione, ma un continuo cambiamento d’atmosfera: il sogno... il sogno! ­­­­­22

Queste sono le melanconiche riflessioni dei conservatori. Io ero ancora di questi prima del mio viaggio a Londra perché pensavo con qualche riserva e non senza rimpianti che l’arte muta avrebbe potuto diventare una grande arte, e non si può condannarla a morire senza provare una pena infinita; a Londra io ho dovuto cambiare completamente d’opinione, perché ho dovuto convincermi di un fatto di importanza capitale; l’irritazione che produce su uno spettatore di una certa sensibilità artistica la prima visione di un film parlante non è nulla di fronte alla sensazione di freddo e di noia, non appena rivede un film silenzioso. Dopo aver ascoltato delle voci, quantunque esse provengano da ombre animate, non si può più accettare di vedere quelle stesse ombre aprire e chiudere la bocca senza dire nulla! Sembra di essere diventati sordi! Questo silenzio diventa insopportabile, angosciante. Si sente la tentazione di gridare con violenza: Ma parlate, parlate!

Lo stesso Genina che così lucidamente si esprime sull’argomento del giorno ritornerà sulle polemiche che dividono il mondo intellettuale il 22 giugno 1929 su «Comoedia», e l’articolo sarà tradotto il 28 dello stesso mese ancora sul «Corriere dello Spettacolo». Genina dà qui conto delle posizioni di un altro fiero e titolato oppositore del cinema sonoro, Luigi Pirandello: «Pirandello, che è anche lui contro il cinema parlante, in un articolo brillante di spirito e di intelligenza, ha avuto questa frase che l’ha tradito: ‘Il silenzio è rotto’. Il pubblico che ha inteso, bene o male, delle voci, non potrà più sopportare il silenzio degli attori sullo schermo. Nel mio articolo per il film parlante, ne ho data la stessa ragione e tutti quelli che hanno visto il vero film parlante sanno che è questa ‘la grande ragione’. Dunque il silenzio al cinema è morto: dunque bisogna fare dei film parlanti. Gli americani hanno quattro anni di vantaggio su di noi, quattro formidabili anni di ricerche, di sacrificio ­­­­­23

di denaro e di preparazione che si concludono ora nella mania trionfale del film parlante americano». Tra scambi anche duri su giornali e riviste, il cinema italiano diventa sonoro e attira sempre più l’attenzione degli intellettuali e anche del governo fascista, che investe massicciamente nell’industria cinematografica. La svolta, in ogni caso, avviene nel 1930, quando – come già ricordato – esce con successo La canzone dell’amore che Gennaro Righelli trae da una novella di Luigi Pirandello, proprio uno tra i più fieri oppositori del sonoro.

Quota 100. 1935-1945

Lo abbiamo più volte ricordato: il fascismo investì tantissimi soldi e molte energie nel cinema italiano. Lo fece, evidentemente, per consolidare un consenso che fino allo scoppio della seconda guerra mondiale sembrava plebiscitario e indistruttibile, per implementare un apparato propagandistico capillare e gestito in modo molto moderno. Lo fece anche per una sorta di orgoglio nazionale, per dimostrare che gli italiani, artisti per tradizione, avrebbero saputo primeggiare anche in un’arte nuova e figlia del secolo in corso. Ma forse c’è un altro motivo che spiega il grande interesse del fascismo per il cinema. Ed è un motivo che ha un nome e un cognome: Vittorio Mussolini. 1. Un Mussolini a Hollywood Vittorio Mussolini nasce a Milano ma dal 1929 si trasferisce definitivamente a Roma, a Villa Torlonia. In una dépendance della villa ha sede la «Rivista internazionale del cinema educatore», edita in quattro lingue e promossa da quel Luciano De Feo che abbiamo già incontrato come fondatore dell’Istituto Luce e che il 10 giugno 1936 terrà a battesimo come direttore la rivista «Cinema». Una vicinanza che non sarà certo estranea al futuro del figlio di Benito, la cui passione per il cinema era già ­­­­­25

sbocciata nell’adolescenza. Come egli stesso ricorda nelle sue memorie, Il cinema, secondo me, è quello del periodo muto: dal ’14, diciamo, fino al ’29-’30. Il cinema-cinema è il big entertainment americano, la grande evasione che porta il segno di Hollywood [...]. Ricordo di aver visto otto volte La grande parata di Vidor, un film di guerra che non era certo bellicista: lo vidi al Dal Verme, con l’accompagnamento di una vera orchestra, con i tamburi che simulavano i cannoni. Anche i film di Douglas Fairbanks mi piacevano molto: Il gaucho, Il segno di Zorro. E il grande cinema comico, quello di Chaplin e di Max Linder, di Ben Turpin e di Fatty, Keaton, Lloyd. Quello era cinema!

Una passione così forte per il cinema americano non è senza conseguenze. Quando nel 1936 Vittorio Mussolini conosce Hal Roach, produttore indipendente già attivo proprio nelle comiche che tanto intrigavano Vittorio Mussolini adolescente e che in seguito aveva portato al successo mondiale la coppia composta da Stan Laurel e Oliver Hardy, fonda subito con lui una società italoamericana, la Ram (Roach and Mussolini) e si reca prontamente a Hollywood per cercare una partnership con la Mecca del cinema. Il progetto è articolato. Mussolini pensa a una serie di film con i carabinieri che lottano contro i banditi nel meridione d’Italia (proprio come farà nel dopoguerra Pietro Germi, consentendo a Ennio Flaiano di coniare l’espressione «southerns» per indicare i western italiani) e ad alcuni film tratti da opere liriche, primo fra tutti un Rigoletto con l’interpretazione del tenore Tito Gobbi. Contemporaneamente suggerisce a Mario Mattoli, regista di successo e scopritore con Mario Camerini delle potenzialità cinematografiche di Vittorio De Sica, di preparare due provini ­­­­­26

in cui lo stesso De Sica e Milly cantino in inglese, perché intravede le concrete possibilità di successo dei due attori sul mercato americano. Il viaggio a Hollywood avviene nel 1937, quando i rapporti tra i due paesi sono ormai definitivamente compromessi e il clima è quello che porterà a un nuovo conflitto mondiale. Di quel viaggio restano le foto del gruppo accolto da John Ford e Shirley Temple sul set di Alle frontiere dell’India, nonché uno straordinario provino in cui De Sica canta Blue Moon. E restano gli appunti che Vittorio conserva nelle sue memorie: «Eccellente il materiale tecnico, matematico il piano di lavoro, perfetta la disciplina e gli orari. Arte e cultura spesso introvabili, ma si aveva la certezza che la macchina hollywoodiana era perfettamente funzionante, ricca e inquadrata come un’industria Ford. Hollywood la grande ignorava il resto del mondo: salvo alcuni direttori europei, la produzione mondiale degli ultimi dieci anni era ignorata. Film italiani? Nemmeno l’ombra: Cinecittà era lontana come la luna». Nell’ottobre del 1938, Vittorio Mussolini diventa direttore della già citata rivista «Cinema», uno dei più importanti luoghi di dibattito del cinema italiano. E fonda tre case di produzione: l’Aquila Film, con la quale produce e supervisiona Luciano Serra pilota, grande successo di Goffredo Alessandrini con Amedeo Nazzari, scritto da un giovanissimo Roberto Rossellini; l’Era Film, insieme ad Angelo Rizzoli e Peppino Amato, che produce commedie di Camillo Mastrocinque, Mario Camerini, Massimiliano Neufeld nonché Rose scarlatte (1940), che segna l’esordio alla regia di Vittorio De Sica, e lo straordinario dittico Addio Kira e Noi vivi ancora di Alessandrini, uno dei più grandi successi italiani nell’America del dopoguerra anche per i contenuti fortemente anticomunisti della vicenda nar­­­­­27

rata; e poi l’Aci, che darà origine a due film sull’aviazione (altra grande passione di Vittorio), I tre aquilotti di Mario Mattoli e Un pilota ritorna di Roberto Rossellini. Il successo americano di Addio Kira e Noi vivi è una conferma tardiva della preveggenza di Vittorio su quali film italiani potevano interessare in America, conferma che troviamo anche nel successo che De Sica (come regista) e Milly (come chansonnier) avranno negli Stati Uniti. Ma intanto la guerra è finita e Mussolini, riparato in Sud America, ha abbandonato completamente il cinema. L’industria cinematografica italiana raggiunge quota cento (cento film prodotti in un anno) nel 1939. Si tratta di un risultato importante non solo sul piano numerico ma anche dal punto di vista industriale. I forti investimenti del regime iniziano a dare i loro frutti, l’incasso lordo dei film italiani nel 1942 è di circa un miliardo di lire, cifra inimmaginabile solo dieci anni prima. Ma questa situazione è figlia anche della guerra e delle leggi sull’autarchia. Dal 1° gennaio 1939 il blocco delle importazioni di film americani (in linea con il tragico evolversi della situazione politica) apre spazi impensabili per la produzione italiana. Le commedie, i film d’avventura, i duelli in cappa e spada non arriveranno più da Hollywood ma dovranno essere prodotti in Italia, proprio come i tanti surrogati autarchici del caffè e degli altri generi d’importazione. Si forma uno star system locale, con Lilia Silvi e Chiaretta Gelli che sostituiscono l’impertinente coetanea Shirley Temple, con i film salgariani che devono far dimenticare Errol Flynn (e che hanno anche il vantaggio di essere in gran parte antinglesi), e con Fosco Giachetti e Alida Valli che nei «film che parlano al vostro cuore» (diretti da Mario Mattoli nei primi anni Quaranta), come venivano definiti nel lancio pubblicitario, dovevano invece sviluppare il melodram­­­­­28

ma che dall’America non arrivava più e che aveva visto prosciugarsi anche il realismo francese di Marcel Carné e Julien Duvivier. A proposito di autarchia, in La bisbetica domata di Ferdinando Maria Poggioli (versione moderna del noto testo shakespeariano) vediamo Amedeo Nazzari e Lilia Silvi armeggiare con una macchina che va non già a benzina (bene prezioso e razionato proprio a causa della guerra) bensì con la legna. 2. Acciaio e sottomarini Pur in tempo di guerra, questo successo autarchico del nostro cinema non lascia indifferenti i critici più accorti. Ed è significativo che, sempre sulla rivista «Cinema», intervengano due nomi che di lì a poco avranno un ruolo decisivo nel neorealismo italiano. Ecco quanto scrive Carlo Lizzani: Ci accade spesso di sentir dire: questo film italiano ricorda straordinariamente, con la sua «pulizia», i migliori modelli americani. In questo giudizio è chiaro il compiacimento per quella famigerata «pulizia» che, pur essendo la condizione minima per il libero passaggio di qualsiasi pizza di celluloide che voglia almeno chiamarsi «film» tanto tardò, nel cinema italiano, a manifestarsi (e che a tutt’oggi, del resto, si manifesta ancora tutt’altro che abitualmente). E questa «pulizia» è già, indubbiamente, un risultato. Ma non siamo tutti d’accordo oramai nel dire che essa può costituire al massimo il primo gradino di un’eventuale ascesa del cinema italiano, e soltanto come tale e non come fine a se stessa può essere sollecitata e ricercata? Ciò è stato detto e ridetto, riguardato ora da un lato ora da un altro: ora come polemica sul mestiere, ora come polemica sui termini quantitàqualità: tutti abbiamo concluso che di sola pulizia ne abbiamo abbastanza («Cinema», n. 160, 25 febbraio 1943). ­­­­­29

E scriveva due anni prima sulla stessa rivista Giuseppe De Santis: Manca l’Italia di un paesaggio? Non è questa la terra che tutti ci invidiano per le sue bellezze? Ma che fanno i nostri registi, o chi per essi, per rivelarla ancora meglio? Non basta compiacersi di possedere una cosa bella, se non si dimostra di meritarla e di saperla amare. Le poche volte che si è potuto parlare di cinema veramente nostro è stato a proposito di Acciaio, Vecchia guardia, 1860, che, sebbene film non perfetti, avrebbero dovuto costituire il primo nucleo di un autentico nostro spirito. Ma poi perché non si è continuato? Di chi è la colpa? A ridarci la speranza giunge, ora, per ultimo, questo Piccolo mondo antico di Mario Soldati, che a tali considerazioni ci ha indotti. Per la prima volta nel nostro cinema abbiamo visto un paesaggio non più rarefatto, pacchiano-pittoresco, ma finalmente rispondente alla umanità dei personaggi sia come elemento emotivo che come indicatore dei loro sentimenti. [...] Vorremmo, infine, che da noi cadesse l’abitudine di considerare il documentario come una cosa staccata dal cinema. È solo dalla fusione di questi due elementi che, in un paese come il nostro, si potrà trovare la formula di un autentico cinema italiano. Un’ottima prova è stata Uomini sul fondo. Il paesaggio non avrà nessuna importanza se non ci sarà l’uomo, e viceversa («Cinema», n. 116, 25 aprile 1941).

De Santis cita Acciaio (unico film girato in Italia da Walter Ruttmann, regista sperimentale tedesco, e tratto da una novella di Pirandello, con il giovane giornalista Mario Soldati che esordisce come suo aiuto), Vecchia guardia e 1860 di Alessandro Blasetti, Piccolo mondo antico di Soldati e Uomini sul fondo del comandante di marina Francesco De Robertis, che lo realizza avvalendosi per le riprese della collaborazione di Roberto Rossellini. Sono tutti film che forniscono parecchi spunti per parlare di quel periodo. ­­­­­30

Blasetti è il regista più «pensante» di tutto il cinema italiano. È il regista che ha inventato il kolossal sonoro, che ha perfezionato le avventure mozzafiato in cappa e spada, che propone con Quattro passi tra le nuvole una commedia che racconta figli illegittimi e rapporti extraconiugali, che nel dopoguerra magnificherà il talento comico di Vittorio De Sica, Sophia Loren e Monica Vitti. Vecchia guardia voleva essere una rivisitazione agiografica della presa del potere da parte del fascismo, ma non piacque più di tanto al regime perché insisteva troppo sulle squadre fasciste degli inizi e sulla violenza che le aveva caratterizzate, mentre 1860 era un’epopea delle vicende garibaldine. Ma Blasetti è anche il regista che mentre divampa la guerra che vede l’Italia al fianco della Germania propone, con La corona di ferro, un kolossal decisamente pacifista in cui i cattivi sono proprio i tedeschi, provocando l’irritazione di Goebbels quando il film viene proposto alla Mostra di Venezia. Ed è colui che, nella commedia La contessa di Parma, sembra ironizzare sulla Torino che ha prodotto tanti artisti stabilmente impiegati nel cinema (a partire dai Sei di Torino), ma che al tempo stesso distrugge lo stupendo ippodromo liberty di Mirafiori (del quale il film rimane l’unica testimonianza visiva) per sostituirlo con il primo stabilimento fordista d’Europa per la produzione di automobili. Suo aiuto per il film è Mario Soldati, che diventerà a sua volta regista poco dopo, fissando per primo le regole del «calligrafismo», movimento cinematografico che agli inizi degli anni Quaranta fa dell’estetica la componente essenziale dei suoi film. In Piccolo mondo antico la star è Alida Valli, per la quale Soldati ha una vera e propria infatuazione. Quando sospetta che l’attrice abbia una relazione con l’aiuto regista Dino Risi, Soldati si fa arrotolare in un tappeto per sorprendere i due mentre si scambiano effusioni. ­­­­­31

Acciaio di Walter Ruttmann è un film costruito a tavolino per essere un prodotto dall’alto coefficiente artistico. Oltre agli apporti già citati, bisogna ricordare anche il commento musicale di Gian Francesco Malipiero, nonché le riprese quasi costruttiviste che magnificano la modernità degli stabilimenti siderurgici di Terni. Su tutti questi elementi il tempo è stato decisamente impietoso, e Acciaio sembra oggi un esempio di come l’art pompier non si fosse esaurita a inizio secolo ma avesse ancora un certo influsso sull’estetica del cinema. Più interessante è la vicenda del suo protagonista, Piero Pastore. Nel film è un campione di ciclismo, nella vita era invece un calciatore professionista, aveva giocato nella Juventus e nella Nazionale. La sua carriera proseguirà con ruoli minori fino agli anni Sessanta, ma almeno in un caso la sua presenza è stata decisiva per un film. Nel 1946 Riccardo Freda sta girando Aquila nera, rifacimento di un vecchio film di Rodolfo Valentino. Ambientato nella Russia zarista, il film con Rossano Brazzi e Gino Cervi è tutto girato in Italia, tra l’Abruzzo e il castello degli Odescalchi a Bracciano. E i sontuosi interni? Nientemeno che al Quirinale, per la prima e unica volta concesso come set cinematografico per interessamento diretto del principe ereditario Umberto di Savoia. Il futuro «re di maggio» interviene per la stretta amicizia proprio con Piero Pastore, non si sa se dovuta alla comune fede juventina o ad altri motivi. Uomini sul fondo è uno dei film più sorprendenti del periodo. Racconta in modo semplice ma drammaticamente efficace la vicenda di un sommergibile incagliatosi sul fondale marino. Lo dirige Francesco De Robertis, comandante navale, vero appassionato di cinema. Non è mai stato chiaro (nemmeno nelle biografie più complete, come quella di Gianni Rondolino per la Utet) l’esatto ruolo ricoperto da ­­­­­32

Roberto Rossellini, mentre sono ormai acclarati i suoi duri contrasti con il regista, testimoniati anche dall’operatore (e futuro regista) Mario Bava. Per essere un semidocumentario, godette di un ottimo successo: uscì a Milano per 15 giorni al cinema Odeon, mentre a Roma era programmato contemporaneamente al Moderno e al Barberini. Sono evidenti i motivi per i quali De Santis apprezza il film: l’assenza di retorica, gli attori non professionisti, l’insistenza sulla quotidianità. 3. Telefoni bianchi e treni popolari Il cinema italiano del periodo non si esaurisce con questi nomi, ce ne sono molti altri in grado di suggerire tendenze ed evocare storie. Ad esempio, quando si parla di commedia non si può fare a meno di citare Mario Camerini. Il suo rapporto con Vittorio De Sica e Assia Noris, ad esempio, dà luogo – come già accennato – allo star system più apprezzato dell’epoca, con film quali Gli uomini che mascalzoni... (1932), Darò un milione (1935), Ma non è una cosa seria (1936), Il signor Max (1937) e soprattutto I grandi magazzini (1939). Se sono importanti gli attori, viene apprezzata anche la regia di Camerini, uno dei registi più popolari del periodo non solo per il suo matrimonio proprio con Assia Noris. Così Filippo Sacchi racconta sul «Corriere della Sera» dell’11 agosto 1939 la presentazione alla Mostra di Venezia di I grandi magazzini: Il nuovo film di Mario Camerini è stato proiettato stasera in prima visione alla Mostra, alla presenza del ministro Alfieri e del dott. Goebbels, con vivissimo successo. Dalla data memorabile di Gli uomini che mascalzoni..., i film di Camerini hanno sempre figurato nelle competizioni veneziane quali una delle garanzie ­­­­­33

più sicure per i nostri colori. Applausi e risate a scena aperta, battimani che si rinnovò con uguale e festante fervore all’indirizzo di Assia Noris.

Insomma, Camerini viene percepito come l’Ernst Lubitsch italiano. E il suo raccontare in commedia le vicende di gente povera e ordinaria lo sottrae anche alle accuse che già allora venivano mosse ai film ambientati nel mondo etereo dell’alta borghesia, spesso con sfondo immaginario in Ungheria. Rimarcava su «Domus» il futuro regista Alberto Lattuada nel 1938: «In Italia, secondo queste persone, non ci sono più mendicanti (vicino ai ricchi), non ci sono più taverne (vicino agli ospedali), non più scene d’amore folle (vicino alla santità della famiglia), non più orge, ubriacature del basso porto, non più vita vera, ma il sorriso eterno di Besozzi e di De Sica». Del resto, il cinema cosiddetto «dei telefoni bianchi», come ha scritto Gian Piero Brunetta in Cent’anni di cinema italiano, può essere definito «la via italiana al déco» (anche se va ricordato che i telefoni bianchi spesso non erano affatto bianchi: tale definizione sottolinea però le scenografie rarefatte come le storie e la forte presenza di elementi dell’art déco). Quando si parla di Vittorio De Sica non bisogna dimenticare l’altro grande mentore degli inizi della carriera dell’attore. Negli anni Venti Mario Mattoli, avvocato di spettacolo, aveva fondato la compagnia Za-Bum che aveva a sua volta due rami d’attività, la Za-Bum drammatica e la Za-Bum rivista. Se la prima pescava nel repertorio teatrale internazionale, l’apporto della seconda fu molto più originale e innovativo. Mattoli, profondo conoscitore del varietà e dell’avanspettacolo, aveva infatti inaugurato una nuova formula di rivista che prevedeva tantissime scene, molte canzoni originali, un cast nutrito e una decisa ri­­­­­34

duzione dei doppi sensi che fino a quel momento erano stati la componente principale del varietà. Gli spettacoli Za-Bum (che avevano un numero progressivo e arrivarono fino al 10 nel 1934) divennero così un contenitore per artisti dalle esperienze più diverse (Umberto Melnati, Tino Scotti, Enrico Viarisio, Pina Renzi, Milly, e Giuditta Rissone, che di Vittorio De Sica sarà la prima moglie). De Sica fu scritturato direttamente da Mattoli, che lo scoprì mentre di fronte a un pubblico scarsissimo, in un teatro minore, cantava con grande eleganza la canzone Ludovico sei dolce come un fico, suo primo cavallo di battaglia. Dopo il successo di Gli uomini che mascalzoni..., Mattoli decide di passare alla regia cinematografica proprio con De Sica, che dirige nel 1934 nel grande successo Tempo massimo dove l’attore fa coppia con Milly, e assieme a loro vive la tentata avventura americana di Vittorio Mussolini. Ma l’antica suddivisione della compagnia teatrale si riflette anche nella successiva, frenetica attività di Mattoli nel cinema. Insieme a molte commedie, spesso a sfondo musicale, Mattoli dirige con successo anche alcuni film drammatici, quali La damigella di Bard (da un romanzo di Salvator Gotta, presentato a Venezia nel 1936) e la serie dei film «che parlano al vostro cuore». In Stasera niente di nuovo, il più famoso, Mattoli lancia definitivamente come attrice drammatica la bellissima Alida Valli da lui stesso portata al successo nella commedia giovanilistica Ore nove: lezione di chimica. De Sica non dimenticherà mai il suo rapporto con il grasso e iperattivo regista umbro: in un film da lui diretto, Teresa Venerdì, può essere considerato un omaggio a Mattoli il personaggio del regista affannato e superstizioso (oltre che corpulento) che cerca invano di dirigere una svogliata Anna Magnani. ­­­­­35

In un cinema così fortemente sostenuto dallo Stato c’è spazio anche per gli esordi. Uno dei più sorprendenti è Treno popolare, diretto nel 1933 da Raffaello Matarazzo. All’epoca, ricevette critiche molto positive, come quella di Filippo Sacchi sul «Corriere della Sera» o questa di Enrico Roma apparsa su «Cinema Illustrazione» (n. 48, 29 novembre 1933): «Questo è uno dei pochi film – tre o quattro – dell’attuale cinematografia italiana che autorizzino ancora a credere nelle nostre possibilità. Bosio e Matarazzo hanno composto un piccolo gioiello se si vuole considerare la pattuglia d’avanguardia di un’attività produttiva che, facendo giustizia di tanta robaccia, apra gli occhi e il cuore a chi, nella nostra cinematografia, giudica e manda. Largo ai giovani, dunque, largo!». Matarazzo, che ha esperienze come critico cinematografico, ha da poco superato i vent’anni, e come lui anche il produttore Peppino Amato e il compositore delle musiche Nino Rota. La vicenda ha uno spunto propagandistico – il biglietto scontato domenicale voluto dal fascismo per aumentare le gite fuori porta e di conseguenza la conoscenza dell’Italia – che però si esaurisce col primo piano della locomotiva guarnita con il fascio littorio e le parole dell’allegra marcetta che scandisce tutto il film. Al centro ci sono i protagonisti, tre ragazzi che danno origine a una vicenda sentimentale fresca, allegra e soprattutto tutta en plein air, tra Roma e Orvieto. Anche se viene considerato un film pre-neorealista (uno dei tanti, insomma), con il neorealismo il film c’entra ben poco. È invece la prima evidente prova del grande talento di un regista che sarà tra i più importanti del dopoguerra e che anche in precedenza ha saputo dirigere film notevoli come il mistery L’albergo degli assenti o la scatenata commedia Il birichino di papà, con Chiaretta Gelli. ­­­­­36

Maria Denis, che in questo film esordì, ha dichiarato in molte interviste di non amarlo affatto, perché superficiale e propagandistico. Non è l’unica volta che un esordiente si mostra ingrato. Anche il futuro produttore Dino De Laurentiis, che in I grandi magazzini riesce a ottenere un piccolo ruolo di fattorino che gli consente di sbarcare il lunario per qualche settimana, ha poi dichiarato di non ricordare quella sua partecipazione (nonostante il film vanti tra i suoi sceneggiatori anche il giornalista Mario Pannunzio). Ma sono piccole forme di provincialismo in un cinema che, almeno fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, è tutt’altro che provinciale. Lo prova lo staff che nel 1933 si forma attorno all’Enciclopedia del cinema, voluta anch’essa da Luciano De Feo. Attorno al direttore Rudolf Arnheim, fatto venire appositamente dalla Germania e considerato ancora oggi uno dei maggiori studiosi di cinema a livello mondiale, si forma una redazione composta dal critico teatrale Corrado Pavolini e dai redattori Gianni Puccini e Francesco Pasinetti (poi registi) e Domenico Meccoli, futuro direttore della Mostra di Venezia. E nello stesso ambito si segnalano tra gli italiani Giacomo Debenedetti, Alberto Consiglio, Gian Francesco Malipiero, Massimo Bontempelli, mentre collaboratori stranieri non occasionali sono Paul Rotha, Alexander Korda, Leni Riefenstahl, Robert Flaherty, Jean Epstein, Alberto Cavalcanti.

Dalle rovine al mito. 1945-1960

La guerra mondiale lascia ovunque macerie, ma l’Italia reagisce con una tensione morale e un’inventiva che hanno del miracoloso. Molti studiosi si sono occupati della contiguità e delle rotture tra il cinema fascista dell’anteguerra e quello antifascista del dopoguerra. La contiguità è rappresentata dal fatto che, al di fuori di pochissimi casi, un’epurazione vera e propria nel cinema italiano non c’è. La rottura, non solo epistemologica, è portata dal neorealismo, di cui si sono cercate a lungo tracce nella filmografia precedente, con lo stesso spirito tomistico con cui Dante Alighieri cercava tracce pre-cristiane in Virgilio e in altri personaggi vissuti prima di Cristo. Forse è più interessante constatare che, a guerra finita, Roma città aperta salva il cinema italiano. Lo salva proprio in modo letterale, come osserva Gianni Rondolino nel suo libro su Rossellini (Utet, Torino 1989): A quanto si sa, pochi giorni dopo la liberazione di Roma, nel giugno del 1944, si riunì un’apposita commissione, sotto la presidenza dell’ammiraglio Ellery W. Stone, per decidere delle sorti del cinema italiano. Vi parteciparono, tra gli altri, Alfredo Guarini in rappresentanza dei lavoratori dello spettacolo e Alfredo Proja in rappresentanza degli industriali del cinema. La riunione si fece ben presto burrascosa. Come scrive Lorenzo Quaglietti, «a turno i presenti prendono la parola pazientemente e attentamente, almeno in apparenza, ascoltati dal presidente. Adesso tocca a lui, ­­­­­38

all’ammiraglio Stone, di parlare. Con calma, ma con decisione, egli afferma l’opinione che il cinema italiano deve essere distrutto». Di fronte all’imbarazzo dei presenti, alla loro preoccupazione mal celata, pare che egli abbia detto: «Il cosiddetto cinema italiano è stato inventato dai fascisti. Dunque, deve essere soppresso. E devono essere soppressi anche gli strumenti che hanno dato corpo a questa invenzione. Tutti, Cinecittà compresa. Non c’è mai stata un’industria del cinema in Italia, non ci sono mai stati degli industriali del cinema. Chi sono questi industriali? Degli speculatori, degli avventurieri, ecco chi sono! Del resto l’Italia è un paese agricolo, che bisogno ha di un’industria del cinema?». Le conseguenze immediate furono che proprio Cinecittà, dove la maggior parte dei film italiani a partire dal 1937 furono prodotti – e che comunque rappresentava, emblematicamente, la produzione cinematografica italiana per eccellenza –, fu trasformata in un «centro di sfollamento», in una specie di campo di profughi, di sfollati, di senzatetto in attesa di una migliore sistemazione. Come scrive Callisto Cosulich, «i cineasti vennero sostituiti da una folla di povera gente che accatastò cenci e fagotti vicino ai resti di sontuosi arredamenti e di bizzarre scenografie: stucchi di cartapesta, rimasti lì a testimoniare gli ultimi fasti di una cinematografia travolta dalla guerra, dai bombardamenti e dagli smantellamenti degli impianti tecnici ordinato dai tedeschi in ritirata».

1. Il tempo del neorealismo In quest’ambito nasce Roma città aperta. Tutto il dibattito critico sul pre-neorealismo, sull’esordio di Visconti, sulle sceneggiature di Zavattini, su tracce di neorealismo che si potevano trovare in questo o in quel film passa decisamente in secondo piano rispetto alla situazione apocalittica in cui si muove, quando la guerra non è ancora terminata, Roberto Rossellini. E si muove con difficoltà, ma con determinazione. Come dirà concludendo il quinto capitolo della sua autobio­­­­­39

grafia francese, «poi è venuto il tempo di Roma città aperta». Non solo un film, quindi, ma un’esigenza. Un’esigenza sulla quale esiste tanta letteratura, persino un romanzo (Celluloide di Ugo Pirro, dal quale nel 1996 Carlo Lizzani ha tratto un film con lo stesso titolo), e anche tante leggende che attribui­ scono la reale paternità del film o allo sceneggiatore Sergio Amidei (è la teoria di Ugo Pirro nel già citato romanzo) o all’attore protagonista Aldo Fabrizi (come ha fatto più volte capire lo stesso Fabrizi). Resta il fascino straordinario di un film che usa in chiave drammatica la coppia (Fabrizi e Magnani) più nota del teatro di varietà e protagonista di commedie (anch’esse pre-neorealiste) girate durante la guerra; che realizza tutti gli interni ricostruendo il comando delle SS all’interno di una sala corse (che ancora esiste, a Roma, in via degli Avignonesi); che utilizza come spietato comandante nazista un ballerino omosessuale austriaco che era fuggito proprio perché antinazista; che è stato girato con pellicola scaduta comprata da Rossellini indebitandosi fino al collo; che affida il ruolo della delatrice a Maria Michi, compagna dello sceneggiatore Amidei ma soprattutto militante clandestina molto attiva pochi mesi prima nella Resistenza romana tra le file comuniste, come ha ricordato la stessa Michi in un’intervista a Goffredo Fofi apparsa in L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura dello stesso Fofi e di Franca Faldini (2 voll., Feltrinelli, Milano 1979-1981): «Io stavo con loro: Togliatti, Negarville, Amendola... Il mio Togliatti! Ero amica anche di Nilde Jotti, che mi adorava. Mi mandavano in giro, facevo la staffetta. Ero una pupilla del partito e correvo per le case a mettere nelle cassette della posta ‘l’Unità’, che era allora un piccolo foglio». Roma città aperta, come si sa, fa il giro del mondo e dimostra che un cinema italiano può esistere. Sono gli anni del neorealismo, non troppo amato in patria (dove il clima ­­­­­40

politico cambia molto rapidamente) ma a tutt’oggi l’icona dell’Italia nell’immaginario mondiale. La prova? Basta considerare gli ultimi quattro Oscar vinti da film italiani e cioè Mediterraneo di Gabriele Salvatores, Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, Il postino di Michael Radford con Massimo Troisi e La vita è bella di Roberto Benigni. Sono quattro film completamente diversi l’uno dall’altro, ma a guardare bene un minimo comune denominatore c’è. Tutti e quattro i film sono ambientati negli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra. Tutti e quattro raccontano un’Italia povera, che vive o ha appena vissuto le tragedie della guerra. Se questi film hanno avuto il riconoscimento più importante (e un buon successo commerciale), questo si deve al fatto che l’estetica cui fanno riferimento è quella del neorealismo. E questo prova più di ogni altro studio quanto l’immagine dell’Italia nel mondo sia ancora legata a quel cinema. L’altro grande nome del neorealismo è ovviamente quello di Vittorio De Sica, con l’inseparabile sceneggiatore Cesare Zavattini. Chissà come sarebbe stato Ladri di biciclette, il suo film più bello, premiato nel 1950 con l’Oscar, se De Sica avesse avuto per protagonista non l’operaio della Breda Lamberto Maggiorani ma l’attore di Hollywood Cary Grant? E che cosa avranno pensato gli spettatori che ricordavano il De Sica giovin attore brillante e popolarissimo dieci anni prima vedendolo raccontare da regista la miseria, l’infelicità, il degrado della Roma che porta ancora evidenti i segni non solo fisici della guerra appena finita? Il neorealismo ha, come tutti i generi cinematografici di successo, uno star system suo proprio. Ma è uno star system che nasce da un trauma e quindi richiede una cesura. Spesso i nomi sono gli stessi del cinema d’anteguerra, sono i ruoli a cambiare. Di De Sica si è già detto. Ma chi ­­­­­41

vede Il bandito (1946) di Lattuada stenta a riconoscere in quello sbandato che si unisce quasi senza accorgersene ai peggiori criminali l’eroe di mille avventure nel cinema del regime, Amedeo Nazzari. Quanto alle ragazze che avevano fatto sognare gli italiani pochi anni prima, il loro destino è segnato, devono diventare delle «segnorine» perché il disastro della guerra ha toccato anche loro. E così Carla Del Poggio è una ragazza perduta in Senza pietà, al pari di Adriana Benetti in Tombolo paradiso nero. Quanto ad Alida Valli, ritrova Fosco Giachetti, il suo partner preferito nei «film che parlano al vostro cuore», in La vita ricomincia, diretto nel 1946 dallo stesso regista di quei film e cioè Mario Mattoli. Ma Giachetti è un reduce, trasportato da un camion, che si sofferma a guardare le macerie di Cassino distrutta dagli americani. Arriva a Roma, entra in una casa dove una bicicletta campeggia nell’ingresso e il telefono sul muro è inequivocabilmente nero, e scopre che in sua assenza la moglie Alida Valli ha dovuto prostituirsi per salvare il figlio malato. La perdonerà solo per il lungo accorato discorso di Eduardo De Filippo in una delle sue migliori partecipazioni al cinema. E sarà proprio per questo ruolo di colpevole-innocente che il produttore hollywoodiano David Selznick scelse la Valli per un altro ruolo ambiguo, la protagonista di Il caso Paradine di Alfred Hitchcock, che sarà il momento di punta della breve carriera internazionale dell’attrice. Quando un movimento culturale è importante, lo è anche nei dettagli. Questo vale ovviamente anche per il neorealismo. E così succede che, pur di partecipare a quei film, ottengano piccoli ruoli nomi destinati a diventare famosi nel nostro cinema. Tutti sanno che in Ladri di biciclette l’ultimo dei seminaristi stranieri che cerca riparo dalla pioggia a Porta ­­­­­42

Portese è Sergio Leone, scritturato da De Sica per via di una lunga amicizia con il padre Roberto Roberti, grande regista del cinema muto. Nel finale di Il sole sorge ancora di Aldo Vergano (scritto dal critico e docente di cinema Guido Aristarco) vengono fucilati dai nazisti due nomi di punta del futuro cinema italiano, Gillo Pontecorvo e Carlo Lizzani (questi nei panni di un prete). Anche Giuliano Montaldo ottiene un ruolo di attore con il quale riesce a entrare nel cinema, e precisamente in Achtung! Banditi!, film d’esordio di Carlo Lizzani. Montaldo diventerà poi soprattutto regista, mentre resterà attore il giornalista dell’«Unità» che Giuseppe De Santis fa esordire come protagonista nel grande successo Riso amaro (1949): Raf Vallone, già calciatore professionista nel Torino, aveva incontrato De Santis e lo sceneggiatore Lizzani e li aveva aiutati a conoscere l’ambiente delle mondine, all’interno del quale realizzarono un film che unisce le suggestioni dell’avanguardia sovietica con la spettacolarità hollywoodiana (visualizzabile nell’uso insistito del dolly, lo strumento di ripresa che dava ampiezza al cinema americano e che proprio per questo era il preferito di De Santis). Lizzani era un frenetico protagonista di quegli anni, e questo lo spinse a seguire Rossellini per il film più disperato e originale del regista, quel Germania anno zero che lo porta nella Berlino resa irriconoscibile dalle tonnellate di bombe che l’hanno distrutta. Sarà proprio lui a girare, su indicazione di Rossellini, la scena più memorabile del film, il suicidio del giovane Edmund che ha perso ormai ogni speranza di un futuro. Sul set di quel film c’era anche, a titolo di osservatore volontario, un giovanissimo Jean Rouch, futuro iniziatore del cinéma direct che tanto deve proprio alla lezione di Rossellini. ­­­­­43

Esiste anche un cinema volutamente antineorealista, nell’Italia di quegli anni. Nel febbraio 1946 Mario Mattoli riunisce un buon numero di attori brillanti ed esprime un vivo fastidio per un genere da lui peraltro frequentato con La vita ricomincia, pronunciando un discorso paradossale («I telefoni neri hanno lo stesso colore degli orinatoi delle truppe») che fu però interpretato come una sorta di apologia del fascismo. Riccardo Freda ottenne un ottimo successo popolare con il già citato Aquila nera (1946), un film girato all’americana con duelli, imboscate e cavalcate spettacolari (tra i cavalieri c’erano anche i fratelli D’Inzeo, futuri olimpionici nella categoria nonché comandanti della carica dei carabinieri a cavallo contro gli studenti a Valle Giulia nel 1968). Nello stesso anno anche Primo Zeglio, con l’aiuto per la scenografia del pittore Italo Cremona, si dedica al genere cappa e spada con un film molto più statico, Genoveffa di Brabante, che abolisce le scene d’azione a vantaggio dei dialoghi ma ottiene lo stesso un buon successo. In questo film, comunque, vi è traccia «per contrasto» della prevalenza del neorealismo. Gli attori principali sono infatti Gar Moore, protagonista del terzo episodio di Paisà, e Harriet White, che nello stesso film è l’infermiera inglese protagonista del quarto episodio. Una vera e propria doccia scozzese, se vogliamo. Harriet White proseguirà poi nella sua carriera italiana sposando lo scenografo Gastone Medin e specializzandosi in parti di megera soprattutto per Riccardo Freda, cioè il regista antineorealista per eccellenza: avrà quel ruolo nei due horror L’orribile segreto del dottor Hichcock (1962) e Lo spettro (1963), e del resto nella vita privata svolgeva spesso e volentieri l’attività di medium. Ricordava Primo Zeglio in una intervista a me rilasciata nel 1978: ­­­­­44

Io durante la guerra ero andato in Spagna, quando sono tornato mi sono messo a lavorare come facevo prima. Di solito si partiva da un luogo comune: gli intellettuali facevano il neorealismo, i mestieranti l’altro cinema, quello commerciale. Oppure, ma era quasi lo stesso: i neorealisti sono antifascisti, il cinema commerciale lo fanno quelli che erano compromessi con il regime. Io per la verità frequentavo Italo Cremona e Mino Maccari, due artisti (anche io mi sono cimentato con l’arte a mia volta) che di certo erano intellettuali e altrettanto certamente antifascisti. Feci il mio Genoveffa di Brabante con due attori che erano stati con Rossellini in Paisà e li rivestii con panni medievali. Loro erano contentissimi, i produttori pure, io anche. A me piaceva raccontare storie, e quella cupa vicenda medievale mi intrigava molto. E poi mi piaceva costruire le immagini, le luci, le ombre, le costruzioni del mio amico Cremona. Ho fatto un cinema che voleva divertire, ma non per questo mi sentivo minore dei miei colleghi che raccontavano come era l’Italia. Anche perché l’Italia del dopoguerra la vedevo anche io.

La stagione del neorealismo si chiude con gli anni Quaranta, quando il senso di riscatto e di nuovo inizio che attraversava l’Italia cede il passo a una normalizzazione che contiene anche i primi germi del boom economico e della trasformazione del paese da agricolo a industriale. Ma il dibattito sul neorealismo continua ancora per quasi vent’anni, assumendo a volte aspetti ridicoli. A questi fa riferimento Fellini in La dolce vita (1960), quando immagina che Anita Ekberg debba rispondere alla domanda di un giornalista (che tanto assomiglia a Guido Aristarco) che le chiede se «il neorealismo sia morto o vivo» (con il prudente press agent che non le traduce neanche la domanda e le suggerisce di rispondere che è vivo...). Di neorealismo si è parlato a proposito di un melodramma a sfondo operistico come Senso (1953), con la rivista ­­­­­45

«Cinema Nuovo» che lo dipingeva come passaggio dal neorealismo al realismo; e anche a proposito di commedie come Due soldi di speranza o Pane, amore e fantasia, per le quali si coniò la sottodefinizione di «neorealismo rosa», mentre in realtà riprendevano una lunga tradizione di commedia a sfondo contadino. Non deve allora stupire se i due maggiori geni del neo­ realismo, Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, si siano uniti per superare le difficoltà economiche e realizzare un film volutamente «in stile neorealista», prodotto a tempo di record per essere presentato a Venezia nel 1959. Il generale Della Rovere, tratto da un racconto di Indro Montanelli, è un film su commissione costruito a tavolino: la vittoria (ex aequo con La grande guerra di Monicelli) non giunge affatto inaspettata ed è un lancio decisivo per il successo commerciale del film. Ma il film stesso è un capolavoro, soprattutto grazie alla recitazione di De Sica che riesce a muoversi in modo coinvolgente e straordinario all’interno di tutti i cliché possibili del neorealismo, improvvisamente resuscitato in un’Italia che si prepara alla svolta politica di centrosinistra. 2. Lo star system all’italiana Abbiamo accennato prima al fenomeno del «neorealismo rosa», che unisce un buon numero di commedie realizzate negli anni Cinquanta. In particolare è la Titanus a proporre alcuni film «all star» e al tempo stesso a reiterare il più possibile le serie di successo. La casa produttrice guidata da Goffredo Lombardo scopre con Raffaello Matarazzo la possibilità di coniugare i temi neorealisti con la grande tradizione melodrammatica italiana, lanciando nello star system degli anni Cinquanta la coppia formata da Amedeo Nazzari ­­­­­46

e Yvonne Sanson. Tra i film realizzati dai due attori, il più completo ed esemplificativo è certamente I figli di nessuno (1952), che riprende un soggetto già portato sullo schermo proprio dalla Titanus, ambientandolo questa volta nelle cave di marmo di Carrara e raccontando sia i problemi dei lavoratori che il conflitto tra la borghesia che vuole investire (impersonata dal giovane imprenditore Amedeo Nazzari) e quella che si accontenta di rendite di posizione (la contessa sua madre, spalleggiata da un losco direttore di stabilimento). Peraltro il capo stabilimento è Folco Lulli, altra figura (questa volta di caratterista) piuttosto interessante. È stato uno dei pochi attori italiani a vantare un passato di partigiano combattente (nelle brigate Martini Mauri, attive nell’Albese), ma il cinema lo ha quasi sempre utilizzato come fascista (ad esempio in Fuga in Francia, 1948, di Mario Soldati) o come cattivo prepotente, come in questo caso. La politica della Titanus sulle star è particolarmente evidente in due fortunate serie: quella iniziata da Pane, amore e fantasia (1953) e quella che ha il via con Poveri ma belli (1956). Il successo bacia i registi (Luigi Comencini e Dino Risi) e soprattutto gli interpreti: la «bersagliera» Gina Lollobrigida, Vittorio De Sica che accetta per la prima volta un ruolo autoironico di maturo latin lover, i giovani Renato Salvatori, Maurizio Arena, Lorella De Luca, Alessandra Panaro, Marisa Allasio e anche caratteristi quali i fratelli Mario e Memmo Carotenuto, che diventano presenze costanti nelle commedie italiane. La Titanus è una delle due majors italiane, dunque rie­ sce a mettere sotto contratto gli artisti e a programmare immediatamente un seguito alle pellicole di successo. L’esempio migliore di questa politica è un film diretto da Dino Risi su un soggetto di Franca Valeri, Il segno di Venere, in cui a molti dei nomi indicati ne vengono affiancati altri (So­­­­­47

phia Loren, Peppino De Filippo, Alberto Sordi...). Il ritmo indiavolato che Risi imprime alla vicenda si amalgama alla perfezione con il tono triste della storia di due cugine, una bella (la Loren) e una brutta (la Valeri), entrambe a caccia di un fidanzato ma con esiti molto diversi. Per la verità la Valeri aveva previsto che le due fossero sorelle, ma la sfida fu ritenuta insensata dalla produzione che preferì optare per una parentela più indiretta. In Poveri ma belli i protagonisti, vedendo un manifesto cinematografico con l’attore Kirk Douglas, affermano: «Ecco Ulisse». Per quel ruolo era infatti conosciuto l’attore americano che era venuto in Italia per realizzare un kolossal per la casa rivale della Titanus, la Lux Film del finanziere Riccardo Gualino e dei due scalpitanti giovani produttori Carlo Ponti e Dino De Laurentiis. Ulisse (1954), di Mario Camerini, non è il primo film di quella che ormai viene definita la «Hollywood sul Tevere», ma è sicuramente il primo grande successo che sanziona l’avvenuta rinascita dell’industria cinematografica in Italia e la sua capacità di proporsi per la realizzazione di kolossal sontuosi in grado di fare a meno degli studi hollywoodiani, dal momento che le maestranze e gli studi italiani erano più competitivi sul piano dei costi e dei tempi. Roma, negli anni Cinquanta, è una tappa d’obbligo per molti divi americani, che portano in Italia i loro eccessi, uno stile di vita e uno sfarzo fino a quel momento sconosciuti e di conseguenza notevoli opportunità di lavoro. Questo improvviso aprirsi con successo alla produzione internazionale è la prova di un’industria sana, redditizia ed è anche la cartina di tornasole di un’Italia che ha ambizioni di grande potenza industriale. Niente più del cinema permette di visualizzare la profonda mutazione antropologica che in pochi anni spazza via tradizioni e usanze che anda­­­­­48

vano avanti da secoli e che improvvisamente svaniscono senza essere sostituite da altri valori. Non si spiega il ritmo frenetico e il vuoto esistenziale di un film come La dolce vita (uscito nel 1960, quasi a compendio di quanto avvenuto nel decennio precedente) se non si prendono in considerazione la Hollywood sul Tevere e il suo impatto non solo sul cinema, ma anche sugli stili di vita del nostro paese. La presenza degli attori americani diventa un fatto di costume, non solo a Roma. Qui arrivano un po’ tutti. Ava Gardner, che ha una burrascosa relazione con Walter Chiari; Rock Hudson che, pur ufficialmente sposato, frequenta gli ambienti omosessuali più dichiarati; Audrey Hepburn e Gregory Peck, che con le loro famose Vacanze romane (1953), di William Wyler, resero popolare in tutto il mondo la Vespa. Ma anche la periferia dell’impero fu toccata dal fenomeno. Si hanno notizie di stranezze e performance alcoliche ed erotiche dei divi americani a Firenze, a Capri, a Venezia. Persino nella tranquilla Torino dove nel giugno 1953 Lex Barker, noto per i film su Tarzan, gira due film di ambientazione salgariana. Barker, che ritroveremo in La dolce vita nel ruolo del divo americano perennemente ubriaco, fa venire sotto la Mole anche la fidanzata, l’intrigante bionda Lana Turner, e la sposa in municipio. L’avvenimento riempirà a lungo le cronache torinesi e sarà ricordato anche in seguito ­quando la Turner, abbandonato Barker e legatasi al gangster ­Johnny Stompanato, sarà coinvolta in fatti di cronaca nera. 3. Arrivano i fusti e i comici! La politica della Lux, passata dai grandi film neorealisti (primo fra tutti il già citato Riso amaro) alle grandi pro­­­­­49

duzioni internazionali di carattere storico (oltre a Ulisse è d’obbligo ricordare almeno Guerra e pace, girato nel 1955 da King Vidor con l’aiuto regia di Mario Soldati), è di fatto all’origine di una delle più straordinarie astuzie produttive dell’industria cinematografica italiana. Visto il successo dei film storici di provenienza americana, nel 1956 sempre la Lux mette in lavorazione Le fatiche di Ercole, affidandone la regia al veterano Pietro Francisci. Negli anni precedenti erano stati girati in Italia un buon numero di film storici, ma – ad eccezione di quelli firmati da Riccardo Freda – si trattava di film molto statici, ispirati più alla librettistica d’opera che agli scanzonati modelli d’oltreoceano. Con Le fatiche di Ercole tutto cambia. Cambiano i contenuti, contrassegnati da un forte innesto di ironia voluto dallo sceneggiatore Ennio De Concini; cambia l’estetica, perché il direttore della fotografia Mario Bava dimostra che con pochi soldi, un po’ di polistirolo espanso e la sua abilità nei trucchi visivi è in grado di proporre scenografie camp in apparenza sontuose proprio come quelle curate dai set decorators americani. E cambia soprattutto la scelta del protagonista, visto che lo stesso Bava suggerisce al regista un fusto che ha visto su una rivista di culturismo e che fino a quel momento negli Stati Uniti aveva interpretato solo ruoli secondari, in pochissimi film. Il fusto in questione si chiama Steve Reeves. I suoi muscoli sono perfetti, armonici, gonfiati da una disciplina chiamata culturismo e da una dieta che ben poco ha a che vedere con quella mediterranea. Proteine, carne, uova al posto di pasta, minestroni e verdure. La dieta del culturista è un ulteriore schiaffo alla tradizione italiana, come testimonia il manuale edito da John Vigna («John Vigna che il muscolo insegna», come canta lo chansonnier Gipo Farassino). E, a sorpresa, il successo non è solo italiano ma mondiale. Anzi, il film esce ­­­­­50

con successo anche negli Stati Uniti grazie alla trovata del distributore Joe Levine, che lo fa uscire in 300 copie (all’epoca una cifra da capogiro) dopo aver affidato il doppiaggio americano a un giovanissimo Mel Brooks, che fa parlare tutti i personaggi con un lieve accento yiddish sottolineando così gli aspetti paradossali e divertenti della vicenda. Le fatiche di Ercole viene venduto in tutto il mondo, e Steve Reeves diventa una star. Per otto anni, i film mitologici tengono banco a Cinecittà e non mancano di essere citati in molti altri film, da Risate di gioia (1960) di Mario Monicelli a Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli. I culturisti diventano una costante della scena cinematografica italiana, i loro volti iniziano a fare il giro del mondo. E le loro storie sono tipiche di un modo al tempo stesso ingenuo e astuto di concepire il cinema, quindi anche lo star system. Dopo Steve Reeves altri forzuti arrivano dagli Stati Uniti. Gordon Scott, già campione di nuoto e interprete a sua volta di Tarzan, è uno dei più famosi e avrà anche l’onore di duellare con il più famoso collega in Romolo e Remo (1961) di Sergio Corbucci. Quando Steve Reeves abbandona per diversificare il personaggio di Ercole, la sua eredità andrà a Mark Forest, nome d’arte di Lou Degni, culturista americano che diventerà famoso perché nel 1961 riporterà sugli schermi il personaggio di Maciste con Maciste nella valle dei re di Carlo Campogalliani, regista che aveva iniziato la sua attività nel cinema muto. Reg Park, scanzonato inglese interprete di uno dei migliori film mitologici, Ercole alla conquista di Atlantide (1962) di Vittorio Cottafavi, era in origine un calciatore del Leeds che aveva dovuto interrompere la carriera per un grave incidente di gioco. Per accelerare la rieducazione gli avevano consigliato il culturismo e Park, già piuttosto ­­­­­51

robusto di suo, arrivò a pesare più di cento chili e con una stazza assai poco adatta a un calciatore: il cinema fu la sua salvezza, e grazie alla notorietà acquisita aprirà un certo numero di palestre tra Inghilterra e Sudafrica. Era invece molto temuto dai colleghi Ed Fury, specializzatosi nel personaggio di Ursus dopo aver interpretato nel 1961 il film omonimo sempre di Carlo Campogalliani. Fury aveva manie religiose, pretendeva crocifissi dappertutto e interrompeva le riprese per raccogliersi in preghiera. Gordon Mitchell – anch’egli Maciste in Maciste nella terra dei ciclopi (1962) di Antonio Leonviola – si chiamava in realtà Chuck Pendleton, era un marine decorato al valore durante la guerra di Corea, era stato poi uno dei boys che accompagnava l’icona gay Mae West in giro per l’America con il suo varietà. La sua faccia asimmetrica e scavata lo farà ben presto convertire ai ruoli del cattivo, già nel mitologico ma soprattutto nel western. La sua scatenata attività sessuale lo rese famoso soprattutto nei circoli omosessuali romani. Mickey Hargitay, arrivato con un gran battage pubblicitario (aveva brevettato il kit del mister Muscolo e si era annunciato a Roma con una finta rissa di fronte al Colosseo), non ebbe grande fortuna, se si esclude Gli amori di Ercole (1959) di Carlo Ludovico Bragaglia dove però la star era sua moglie, la maggiorata Jayne Mansfield. Era molto atletico anche Dan Vadis, americano di origini caucasiche che fu prima un Maciste e poi un cattivo del West per poi tornare in America, vivere in una comunità hippie e apparire capellone e irriconoscibile in molti film di Clint Eastwood: un critico si chiedeva ironicamente se Dan Vadis fosse il fratello di Quo Vadis... Qualche Maciste era anche italiano. Kirk Morris, ad esempio, che si chiamava in realtà Adriano Bellini e una ­­­­­52

volta tramontato il genere mitologico si riciclò come attore e regista dei fotoromanzi Lancio. Riccardo Freda lo ebbe come attore per Maciste all’inferno (1962) e dovette eliminare gran parte dei dialoghi previsti dal copione proprio a causa della sua incapacità di recitare. Alan Steel era in realtà Sergio Ciani, nasceva come controfigura e fu poi promosso protagonista per alcuni degli ultimi film, come il sorprendente Sansone e il tesoro degli Incas (1964) di Piero Pierotti, per metà un mitologico e per metà un western, con Sansone vestito all’inizio come Davy Crockett e alla fine con il perizoma d’ordinanza. In seguito apparirà come icona anche in alcuni spettacoli di Giorgio Strehler, prima di finire nelle pagine di cronaca nera per essersi fatto passare come un magistrato in un comune presso Roma. L’unico attore professionista dotato di un fisico perfetto era Mimmo Palmara, deuteragonista in molti film ma anche protagonista di Golia e il cavaliere mascherato (1964) di Piero Pierotti. In origine allievo dell’Accademia d’Arte Drammatica, in seguito diventerà uno dei più apprezzati direttori di doppiaggio. E poi c’erano tanti «uomini forti» in ruoli di secondo piano, che ritroveremo anche nei western. Nello Pazzafini e Puccio Ceccarelli in origine facevano i bagnini a Ostia, Giovanni Cianfriglia era uno degli stunt più richiesti anche dagli americani e come Mario Novelli e Pietro Torrisi aveva più volte vinto i titoli italiani di culturismo. L’insieme di queste biografie rende l’idea di un cinema che ha fatto dell’arte d’arrangiarsi la sua vera cifra stilistica. Ma il cinema mitologico è anche una cartina di tornasole per dimostrare un altro elemento che è imprescindibile se si vuole capire come funzionava l’industria italiana del cinema nel suo periodo di massima espansione, a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Le biografie av­­­­­53

venturose dei forzuti che erano i protagonisti di questi film convivevano con biografie completamente diverse. Michelangelo Antonioni, che come vedremo era già diventato il regista intellettuale per eccellenza con i suoi film sull’incomunicabilità, si presta (senza mettere il nome) a girare tutti gli interni del mitologico Nel segno di Roma (1959), con Anita Ekberg, a causa della malattia che condurrà alla morte Guido Brignone, il regista incaricato del film (gli esterni portano invece la firma di Riccardo Freda). Giuliano Montaldo è autore della sceneggiatura di Orazi e Curiazi (1961), che ha come protagonista Alan Ladd, e ai dialoghi dello stesso film collabora anche un altro regista impegnato come Carlo Lizzani. Anche Francesco Maselli, severo militante comunista, collabora non accreditato al film Arrivano i Titani (1961) di Duccio Tessari, dirigendo la seconda unità su invito del produttore Franco Cristaldi. Sergio Leone dirige Steve Reeves in Gli ultimi giorni di Pompei (1959), firmato da Mario Bonnard, e con il proprio nome, non ancora reso famoso dai western, Il colosso di Rodi (1961). Quanto vale per i registi vale anche per gli attori, visto che i re greci che si contrappongono per facondia all’essenzialità dell’eroe in Ercole alla conquista di Atlantide sono tre grandi nomi di attori di parola quali Gian Maria Volontè, Enrico Maria Salerno e Ivo Garrani, che citiamo qui in rappresentanza dei molti altri attori teatrali (Mario Feliciani, Arturo Dominici, Giancarlo Sbragia...) che in questi film interpretano dei vilains perfidi e soprattutto facondi, in contrapposizione al quasi mutismo degli eroi. Non dimentichiamo, infine, che il futuro premio Oscar Carlo Rambaldi muove i suoi primi passi costruendo una rudimentale idra a quattro teste per Maciste contro i mo­­­­­54

stri (1963) di Guido Malatesta, e trasportandola con un camioncino che però si ferma per un guasto sulla romana via Tuscolana suscitando l’ilarità dei passanti. 4. I grandi autori Il cinema mitologico diventa un po’ la pietra filosofale dell’industria cinematografica italiana, contribuisce a creare ricchezza, a far lavorare maestranze, garantisce spazio agli esordienti, e ai nomi più nobili del cinema una continuità di guadagni. Ma parallelamente a questo fenomeno la congiuntura è favorevole per tanti altri filoni del cinema italiano. Il cinema comico (che per tutti gli anni Cinquanta ebbe come protagonista assoluto Totò) e la commedia di matrice neorealista sembrano idealmente fondersi per sfociare in un nuovo genere che è anche «il cinema italiano per eccellenza», ovvero la commedia all’italiana, per parafrasare il fondatore dei «Cahiers du Cinéma» André Bazin, che aveva definito il western come «cinema americano per eccellenza». Quali sono le differenze rispetto alle commedie e ai film comici girati in precedenza e che avevano comunque avuto grande successo? Il capostipite I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli può fornire alcune risposte. Il film nasce come una parodia dei «colpi perfetti» che tanto piacevano a livello internazionale dopo il successo di Rififi (1954) di Jules Dassin. Proprio, insomma, come le parodie che Totò aveva reso famose, da Totò le Mokò (1949) a Totò Tarzan (1950). Totò infatti è presente nel film, ma solo con una pur memorabile partecipazione speciale. È anche un film di recupero, perché nelle intenzioni del produttore Franco Cristaldi c’era anche la volontà di riutilizzare scenografie approntate per un altro film. È allo stesso tempo un film ­­­­­55

«all star», perché sono presenti Marcello Mastroianni (già famoso), il «povero ma bello» Renato Salvatori e anche Vittorio Gassman, che però fino a quel momento era stato soprattutto un vilain sulla scia del ruolo interpretato in Riso amaro, e che per essere accettato dal produttore è costretto a modificare i tratti del volto con innesti di cotone che ne alterano i connotati e a simulare una balbuzie assai divertente. Ed è un film nel quale, per la prima volta in una commedia, si assiste a una morte tragica e «quotidiana» (Memmo Carotenuto, reduce dalla serie di Pane, amore e fantasia, viene investito da un tram e muore): un’innovazione di non poco conto. Così come sono innovazioni notevoli il linguaggio similmalavitoso studiato alla perfezione dagli sceneggiatori Age e Scarpelli, nonché la cura dell’ambientazione sociale all’interno della quale i protagonisti si muovono. La commedia è pronta, come vedremo, a diventare il cinema «che racconta l’Italia», come avverrà nel decennio successivo. Contemporaneamente, alcuni autori italiani assumono una dimensione decisamente europea e internazionale. Chiuso il periodo neorealista, Roberto Rossellini propone un film che travalica completamente gli angusti orizzonti di un dibattito culturale (pro e contro il neorealismo) che vive ormai come asfittico. Programmaticamente, il film si intitola Europa ’51 (1952) e racconta la crisi delle ideologie, l’inadeguatezza delle risposte che vengono offerte dalla Chiesa così come dalla militanza comunista e dalla psicoanalisi. In un’Italia fortemente divisa dallo scontro ideologico tra i democristiani al governo e i comunisti all’opposizione, il film suscitò violente critiche fin dalla sua presentazione alla Mostra di Venezia. Lo stesso Rossellini era ben conscio di toccare un nervo scoperto nella cultura italiana. Nell’intervista Rossellini in peccato mortale, realiz­­­­­56

zata da G. Cane per «La rassegna del film» (n. 1, 1952), il regista afferma: «Ora, qualcosa da dire ce l’ho. Riguardo a tutti noi e alla nostra pericolosa maledetta inclinazione ad accettare, ad allinearci, a conformarci. Ecco, e se dovessi assegnare un sottotitolo al film che sto dirigendo, lo chiamerei Europa ’51 ovvero la tragedia del conformismo». Gli stessi argomenti sono ripresi in modo molto simile da Rossellini quasi vent’anni dopo, in un’intervista concessa a «Nuestro Cine» (n. 95, 1970): Era importante farlo allora, nel 1951, perché quando uscì, tutti, tutte le forze politiche lo odiarono, perché si sentirono allo scoperto. Onestamente, devo dire una cosa: nel 1947/48, non ricordo esattamente, un amico francese richiamò la mia attenzione su un libro di Marcuse, ed io lo lessi. Non è che presi il libro come punto di partenza, però evidentemente mi fece pensare in una certa direzione; e fare un film sopra la situazione in Europa, quale era allora, mi sembrò abbastanza importante.

In quel film chiave per un’apertura d’orizzonti del cinema italiano, la critica spesso si accorse solo dell’interpretazione di Ingrid Bergman, oggetto di grande attenzione da parte di giornali e rotocalchi perché aveva abbandonato Hollywood per seguire il regista di Roma città aperta. Forse assai più significativa (e coerente con l’assunto del film) era la scelta dei numerosi collaboratori che Rossellini ebbe. A vario titolo lavorarono a soggetto, sceneggiatura e dialoghi Antonello Trombadori, Federico Fellini, Tullio Pinelli, Mario Pannunzio, Diego Fabbri e Antonio Pietrangeli. Quest’ultimo recitò anche nel film, interpretando il ruolo dello psicologo, mentre l’altro «profeta», che si dimostra inadeguato al compito che la vicenda gli affida, è il drammaturgo Ettore Giannini, nel ruolo dell’intellettuale comunista. Il bambino che si suicida (proprio come ­­­­­57

l’Edmund di Germania anno zero) perché si sente trascurato dalla madre e fa così precipitare la crisi che cova dentro di lei è Sandro Franchina, in seguito regista di importanti documentari e di Morire gratis (1966), film tra i più importanti degli anni Sessanta. Anche Michelangelo Antonioni proietta il suo cinema in una dimensione europea, raccontando il disagio del dopoguerra. Lo aveva già fatto con I vinti (1953) e con Le amiche (1955). Il primo ebbe seri problemi di censura; il secondo fu interrotto per il fallimento del produttore, avventuratosi nell’adattamento da Cesare Pavese senza avere i fondi necessari e costringendo così l’aiuto regista a restare per due mesi praticamente ostaggio del grande albergo che ospitava la troupe e che non era stato pagato. Ma il film veramente decisivo per capire l’importanza di Antonioni è Il grido (1957), dove un operaio cade in una profonda crisi esistenziale e sceglie di suicidarsi proprio mentre intorno a lui i suoi compagni sono in lotta contro il padrone della fabbrica. Anche nel caso di Antonioni si usciva dai canoni dello scontro ideologico in atto nella società italiana, visto che si narravano i conflitti di classe, ma anche la solitudine del singolo individuo, sul quale poco incide la lotta di classe. E anche Antonioni sovverte con i suoi collaboratori le gerarchie interne al cinema italiano. Il film è infatti sceneggiato da Ennio De Concini (nello stesso anno in cui lo stesso scrive il grande successo Le fatiche di Ercole), mentre l’interprete principale è la soubrette Dorian Gray (la «malafemmina» di un famoso film con Totò e Peppino De Filippo), doppiata peraltro da una giovanissima Monica Vitti che sarà poi la vera icona del cinema di Antonioni. Il terzo autore che proietta il nostro cinema oltre i confini nazionali è Luchino Visconti. Non tanto con Senso (1953), ­­­­­58

uno dei suoi film più belli, dove mostra il suo grande amore per l’opera lirica mettendo in scena un Trovatore nei titoli di testa che ha una profondità quasi tridimensionale, ma con un film che realizza su impulso di Franco Cristaldi, il quale aveva molto apprezzato il romanzo Le notti bianche di Fëdor Dostoevskij e da tempo sognava di trarne un film. L’opera lirica era molto frequentata dal nostro cinema fino alla metà degli anni Cinquanta, e la straordinaria scena di Casa Ricordi (1953) di Carmine Gallone, in cui Fosco Giachetti interpreta Verdi e si frappone in nome del sentimento nazionale tra i braccianti in sciopero e l’esercito che deve reprimerli facendo in modo che entrambi cantino Va’ pensiero..., ha una valenza plastica almeno eguale. Viceversa Le notti bianche (1957) ha una grande valenza produttiva. È girato interamente nello studio 5 di Cinecittà, in cui viene completamente ricostruita la Livorno dove il film è ambientato (in luogo di San Pietroburgo, in cui si svolgeva il romanzo). Forse è il massimo sforzo produttivo mai effettuato a Cinecittà, come viene esplicitamente riconosciuto nei titoli. E la scenografia pare letteralmente avvolgere Mastroianni, Maria Schell e Jean Marais, i protagonisti del film. Un simile livello di perfezione aveva ovviamente un costo. E fu per questa ragione che Franco Cristaldi mise in lavorazione I soliti ignoti: quelle scenografie dovevano necessariamente essere riutilizzate.

Giovani leoni, grandi maestri e talenti «minori». Gli anni Sessanta

Il cinema italiano si presenta negli anni Sessanta come una realtà viva, decisamente prevalente sul mercato interno e capace anche di buone performance per quanto riguarda l’esportazione (non solo relativamente ai film di genere, perché molti autori – quelli già citati e in più Federico Fellini, che ha già vinto un Oscar con Il bidone del 1955 – riescono a vendere i propri film un po’ in tutto il mondo). Ma intanto in Francia si è affermata la Nouvelle Vague anche grazie all’enorme successo internazionale di Fino all’ultimo respiro (1960), diretto da Jean-Luc Godard e scritto da François Truffaut. Entrambi venivano dalla critica militante sui «Cahiers du Cinéma» e altre riviste, e l’affermazione va intesa come una vera e propria cesura nei confronti del precedente cinema francese, che in un famoso articolo apparso nell’ottobre 1952 sui «Cahiers» a firma Michel Dordsay era stato definito «cinema di papà» per la sua correttezza formale diventata un valore in sé e non un modo pungente e coinvolgente di raccontare. Il successo dei «giovani leoni» influenza molto la critica italiana, anche quella dei rotocalchi: ad esempio, un dibattito proposto dalla Titanus e coordinato da Fernaldo Di Giammatteo approfondisce l’argomento, concludendo che l’esperienza è da considerarsi passeggera. Non è così, e in tutto il mondo si manifesteranno per gemmazione spon­­­­­60

tanea movimenti generazionali che per un certo periodo restano uniti tra loro, contestando apertamente sul piano politico e formale il cinema prodotto fino a quel momento: in Gran Bretagna esisteva già il Free Cinema, poi sarà il turno del nuovo cinema tedesco di Herzog, Fassbinder, Wenders e Kluge, nato dal Manifesto di Oberhausen, del New American Cinema che deve la sua definizione al critico e regista Jonas Mekas, del cinema dei paesi dell’Est (Russia, Polonia – questo guidato da due talenti quali Roman Polański e Jerzy Skolimowski –, Cecoslovacchia, Ungheria), il Cinema Novo brasiliano, il nuovo cinema giapponese. Paradossalmente, in Italia un vero e proprio movimento rinnovatore generazionale non esiste. 1. I giovani leoni Intendiamoci. Negli anni Sessanta esordiscono in Italia molto autori importanti, primo fra tutti Pier Paolo Pasolini, che a partire da Accattone (1961) rinnova il linguaggio e percorre una strada che, insieme alla sua produzione letteraria, saggistica e giornalistica, lo consacra come la coscienza critica più significativa del decennio. Di che stoffa siano fatti i suoi oppositori è evidente fin dall’inizio, quando l’oscuro parlamentare lucano Salvatore Pagliuca gli intenta causa perché un personaggio di Accattone si chiama proprio come lui. Accanto a Pasolini si forma anche Bernardo Bertolucci, che esordisce giovanissimo l’anno dopo con un film che tutti definiscono «pasoliniano» (La commare secca), anche se da subito il regista parmense cambia traiet­toria e inizia a lavorare per un cinema al tempo stesso di forma e di spettacolo, di eleganza e di trasgressione, di contemporaneità e di passione cinefila: un percorso che ­­­­­61

lo porterà a grandi riconoscimenti internazionali incluso il premio Oscar. Qualche anno più tardi esordisce un giovane allievo del Centro Sperimentale, Marco Bellocchio, con un film autobiografico nei luoghi e graffiante nella forma, I pugni in tasca (1965), uno dei grandi titoli del decennio. Bellocchio racconta una violenta saga familiare in un luogo a lui molto caro, Bobbio (che farà spesso ritorno nei suoi film e nella sua carriera). Lo pensa come un film dirompente ma anche come un vero e proprio sovvertimento dei codici comunicativi: tale scelta è resa ancora più evidente dal fatto che per il ruolo del protagonista Bellocchio aveva pensato a Gianni Morandi, il giovane cantante popolarissimo presso gli adolescenti per i suoi dischi e anche per i film musicali da lui interpretati, commedie sentimentali di grande successo. Solo in un secondo tempo, avendo Morandi rifiutato, il ruolo sarà affidato a Lou Castel, che diventerà il volto del cinema sessantottino italiano. Sempre dal Centro Sperimentale arriva Liliana Cavani, che a sua volta chiede a Lou Castel di essere un Francesco d’Assisi (1966) decisamente in contrasto con la tradizione ecclesiale. L’attività di questi registi prosegue a tutt’oggi (salvo quella tragicamente interrotta di Pasolini) con rilievo internazionale, ma si tratta di percorsi individuali. Il primo incontro pubblico che ha visto seduti allo stesso tavolo Marco Bellocchio e Bernardo Bertolucci è avvenuto il 19 ottobre 2006 alla Festa Internazionale del Cinema di Roma, dimostrando, più di mille esempi, come non di una corrente (paragonabile quindi alle molteplici nouvelles vagues a livello mondiale) si sia trattato, bensì di prototipi uniti – come ha dichiarato Liliana Cavani – «dalla convinzione che con il cinema si poteva raccontare qualunque cosa». ­­­­­62

Altri nomi contribuiscono a livello individuale a delineare un nuovo cinema italiano negli anni di cui stiamo parlando. È, ad esempio, assai interessante il percorso cinematografico di Mario Schifano, uno dei nomi più rilevanti dell’avanguardia italiana del periodo. Schifano, che ha ben presente la Factory creata a New York da Andy Warhol, si interessa di musica (crea il gruppo Le stelle, sulla falsariga dei Velvet Underground) e intraprende anche alcuni passaggi nel cinema, coinvolgendo tra gli altri Mick Jagger e Keith Richards in Umano non umano (1971), la cui lavorazione rappresenta un progetto molto importante per un nuovo cinema, che però abortisce subito per gli screzi tra le persone coinvolte. Nello stesso periodo altri artisti si cimentano con il cinema, soprattutto Ugo Nespolo che in alcuni cortometraggi sperimentali mette in scena i suoi colleghi dell’Arte Povera torinese: Mario Merz, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto. Sempre in ambiente artistico si sviluppa la carriera di Sandro Franchina, che realizza parecchi filmati sugli artisti romani che si riuniscono in piazza del Popolo e che affida a Franco Angeli il ruolo di protagonista in Morire gratis (1966), straordinario road movie che racconta la pop art, l’ansia di ribellione, la diffusione della droga e la crisi dell’artista. Altre figure rilevanti in ambito underground sono quelle di Alberto Grifi, Tonino De Bernardi, Gianfranco Baruchello, Alfredo Leonardi, Franco Brocani (cui Schifano dedica un intero film, Trapianto consunzione e morte di Franco Brocani, «dedicato ad un amico malato di cinema», dove la presenza di Tano Festa si sovrappone senza problemi a quella di Felice Gimondi). In ogni caso, la circolazione di tutti questi lavori non va oltre i circuiti alternativi, i cineclub, qualche festival. La tensione underground italiana, tutt’altro che trascurabile ­­­­­63

sul piano dei risultati, non riesce mai a trovare una sponda importante nell’elaborazione critica di un giornale quale è il «Village Voice», che ospita le recensioni di Jonas Mekas sul movimento underground americano. Non appartiene al mondo dell’arte figurativa Carmelo Bene, la cui storia si interseca tuttavia di frequente con quella di Schifano. Farà scandalo la sua scelta di non ritirare il suo film a Venezia nel ’68, di fronte alla contestazione che porterà alla sospensione della Mostra del Cinema: È un sogno, i sogni sono belli, perché realizzarli? I sogni inoltre si possono tradire e sempre sono traditi. [...] Mandare un film a Venezia è una precisazione del mio atteggiamento, e dipende da una mia maggiore maturazione politica. L’ho detto prima: ci sono statuti interni e statuti esterni. Se ci sarà polizia a Venezia non è me che picchierà. Siediti, hai vinto, mi sono detto, e mi sono seduto. Le leggi io non le tradisco e non le ossequio, non mi interessano, sono fuori dalla mia persona, non fanno parte dell’anima mia (Carmelo Bene, in «Cinema&Film», n. 11/12, 1970).

Sempre a proposito di grandi innovatori, va assolutamente citato Marco Ferreri, con il suo personalissimo percorso nel raccontare il disagio di una società che solo in apparenza sta vivendo un’opulenza mai vista. Di questo è conscio lo stesso Ferreri, che è anche consapevole di essere un caso a sé (l’ennesimo) nel cinema italiano del periodo: «Visti nell’insieme di quella che era la produzione in generale, compresa quella del cinema ‘fuori dal sistema’ e tutte le altre, [i miei film] erano tutti talmente sbagliati rispetto alla forma, alla linea e alla sintassi di allora, che non posso dire che mi abbia influenzato nessuno» (in L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di G. Fofi e F. Faldini, 2 voll., Feltrinelli, Milano 1979-1981). Il suo capolavoro è ­­­­­64

Break Up – L’uomo dei cinque palloni (1965), rimaneggiato e tagliato dal produttore Carlo Ponti fino a farlo diventare un cortometraggio da inserire in un film a episodi. È un film che distrugge l’immagine di Mastroianni come latin lover (con la totale complicità dell’attore), e che al tempo stesso cita i palloni contenenti «fiato d’artista» lanciati in quegli stessi anni da Pietro Manzoni: è infatti la storia di un uomo di successo che precipita in una crisi fatale perché ossessionato dalla scoperta di quanto si può riempire d’aria un palloncino prima che esso scoppi. L’inquietudine regna sovrana anche nel cinema di Tinto Brass, che aveva lavorato alla Cinémathèque Française, aveva tradotto Georges Bataille ed era stato assistente del grande documentarista Joris Ivens: «Dopo è stato detto che Ça ira e Chi lavora è perduto sono stati una specie di annuncio del ’68. Il discorso può essere giusto nel senso che quelli del ’68 erano temi che io mi portavo dietro da un decennio, erano parte delle angosce e delle rabbie non solo mie ma di tanti miei coetanei» (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.). 2. La commedia drammatica della nuova Babilonia Questi sono gli autori che hanno proposto un «nuovo cinema» in Italia. Autori importanti, che a volte hanno conseguito fama e rilevanza internazionale e in qualche caso sono anche riusciti a «incontrare» il pubblico. Ma si tratta di autori singoli, mai interessati a creare un movimento attorno al loro agire e alle loro opere. E se in tutto il mondo l’inquietudine degli anni Sessanta viene raccontata da autori di venti o trent’anni, in Italia ciò non avviene. Il cinema che descrive l’Italia del boom è fatto da registi in­­­­­65

torno ai cinquant’anni, di grande mestiere e con una lunga carriera precedente nel cinema comico. Il genere più frequentato per raccontare l’Italia contemporanea è la commedia, con gli attori più noti e con sceneggiature di ferro (tutto il contrario, quindi, dei fondamenti della Nouvelle Vague, che odiava i film di scrittura elaborata). Il tono più diffuso è quello dolce-amaro, capace di mescolare ironia e divertimento con riflessioni profonde e amare. E il film che maggiormente segnala questo cambio di marcia è un vero e proprio evento a livello mondiale, La dolce vita, firmato nel 1960 da Federico Fellini. Fellini stava già lavorando da tempo a quel soggetto, che doveva intitolarsi Moraldo in città e che era pensato come un seguito di I vitelloni. Cosa succedeva a quel ragazzo di provincia che una mattina abbandonava la sua Rimini, saliva su un treno e imponeva alla propria vita la cesura rappresentata dal suo trasferimento nella capitale? Il soggetto ha avuto una storia lunga, diversi rimaneggiamenti, produttori che hanno rinunciato, contributi importanti (come quelli di Ennio Flaiano e di Tullio Pinelli, altri due «non romani» che avevano ben presente l’impatto che il trasferimento nella capitale comportava nelle vite di chi compiva questa scelta) e un cambio di passo totale. Da storia bohémienne è diventato una sorta di affresco della vita caotica e piena di tensioni di una «nuova Babilonia», nella quale si perdono definitivamente le tracce di tutte le culture che erano state vive in Italia fino a pochi anni prima. Il critico-scrittore Tullio Kezich ne ha parlato (in interviste, in un libro e in uno straordinario documentario) come di un’esperienza paragonabile al servizio militare, «la più avanzata e la più divertente che ci potesse essere». Come sempre avviene per un avvenimento epocale, su La dolce vita fioriscono storie, leggende, ricostruzioni ­­­­­66

postume, retroscena sorprendenti. Non tutti veri, non tutti falsi. Ma il genio di Fellini consisteva anche nel rubare un po’ di qua e un po’ di là, nel prendere spunti da tutto e da tutti per poi rielaborarli a modo suo. Per ogni scena, per ogni situazione è possibile citare un’eco, un ricordo. Con maniacale precisione Fellini continuava a perseguire quello che sembrava un grande caos creativo e che era invece una sua lucidissima scelta, anche nei dettagli. Elio Pandolfi, attore completo e soprattutto dotato di una voce modulabile che gli consentiva ogni tonalità maschile o femminile presente in natura, ha ricordato di essere stato ingaggiato per un mese (tanto è durato il doppiaggio) e di averlo passato interamente in una saletta vicino allo studio di doppiaggio, con Fellini che periodicamente ne usciva pregandolo di fargli una voce con queste o quelle caratteristiche. Nel film Pandolfi presta la sua voce a più di venti personaggi. A volte si tratta solo di una battuta, a volte sono più linee di dialogo. Pennellate che contribuiscono in modo decisivo non solo all’affresco, ma anche a decifrare come lo stesso affresco sia stato costruito. Tecnicamente La dolce vita è una «commedia drammatica», secondo una definizione apparentemente ossimorica inventata dai francesi. Ma sul connubio tra commedia e dramma vive tutta la grande stagione della commedia all’italiana, che prende il via con I soliti ignoti e viene consacrata l’anno successivo dal Leone d’Oro (e dall’immenso successo commerciale) di La grande guerra. I due protagonisti di questo film, Alberto Sordi e Vittorio Gassman, propongono gag e situazioni divertenti ma alla fine vengono fucilati in una scena drammatica che invita a rileggere tutta l’ironia delle situazioni precedenti. Toccare la «guerra vittoriosa» del ’15-’18 rappresentava per l’Italia dell’epoca un atto quasi sacrilego, una rottura che creò conseguenze fin ­­­­­67

da subito. All’annuncio dell’inizio della lavorazione e della scelta come protagonisti di due attori famosi per le commedie, i principali quotidiani italiani pubblicarono una raffica di articoli che mettevano sotto accusa l’idea di raccontare quella guerra con due protagonisti che rappresentavano due «eroi della paura». Le polemiche andarono avanti per mesi e tennero a lungo in bilico la lavorazione, ma il successo, anche commerciale, del film le spazzò via e soprattutto fece capire a un folto gruppo di cineasti di commedia che attraverso il cinema ci si poteva liberare della storiografia ufficiale e raccontare come erano andati veramente i fatti. Ricorda Luigi Comencini, il regista che negli anni Cinquanta aveva diretto alcuni film di Totò e la fortunata serie Pane, amore e fantasia: Tutti a casa è nato in un vagone letto. Andavamo a Milano Age e io senza Scarpelli, perché la Titanus aveva organizzato a Milano per la stampa un incontro coi giovani registi che faceva debuttare – un progetto che si chiamava, mi pare, «il cinema si rinnova» e che coinvolse parecchi registi poi diventati importanti – e andando a Milano, prima di metterci a dormire, abbiamo chiacchierato di idee che si sarebbero potute fare in cinema e Age mi ha detto che stava preparando un film che raccontava, a più personaggi e situazioni, il periodo dell’oscuramento. Chiacchierando chiacchierando ci siamo raccontati che cosa ci si ricordava dell’8 settembre, e abbiamo convenuto che l’8 settembre è una data incredibile nella storia d’Italia, perché non credo sia avvenuto in nessun altro paese del mondo che un popolo sentisse da un disco radiotrasmesso che la guerra è cambiata e l’alleato diventa nemico... e questo senza nessuno che lo illumini, lo inquadri, gli dia le consegne (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).

I registi di commedia, quindi, sono perfettamente consapevoli (così come i loro sceneggiatori) che con le com­­­­­68

medie possono raccontare quello che veramente è successo in Italia. Uno dopo l’altro escono Una vita difficile, Anni ruggenti, Il federale, La marcia su Roma, I compagni, I due nemici, L’armata Brancaleone. Si racconta la presa del potere del fascismo, la Resistenza, il dopoguerra; ma anche gli scioperi operai di inizio secolo e persino un Medioevo che smette di essere popolato da cavalieri senza macchia e da angeliche damigelle per essere restituito in modo paradossale alla sua realtà di società chiusa, asfittica, feroce, dove i cavalieri di ventura sono cialtroni affamati e le damigelle tendono alla ninfomania. Racconta Age, sceneggiatore di tanti film: L’operazione era dovuta a un certo gruppo di autori di cui ho fatto parte ed è stata graduale. Abbiamo cercato di lavorare un po’ più sui personaggi, sulla storia, sulla situazione. Il processo è durato alcuni anni e sempre con valori – se valori possono essere definiti – crescenti. Dopo I soliti ignoti ci fu il balzo di La grande guerra e del primo sciopero italiano in I compagni, una conquista che facemmo passo passo perché questi film il pubblico italiano li accettò gradualmente. E poi Tutti a casa che parlava del ’43, La marcia su Roma, Una vita difficile che seguiva la biografia di un italiano dalla Resistenza al boom, col quale il personaggio di Sordi cresceva ancora, e Il sorpasso, che parlava del boom dal cuore del boom. [...] In La grande guerra, pur trattando di una tragedia, si finiva spesso in momenti farseschi: fu proprio in quell’occasione che ci eravamo domandati con una certa angoscia se potevamo tentare la difficile operazione del connubio tra tragedia e farsa. Insomma la commedia all’italiana vera era quella che aveva certe determinate qualità e contenuti, e che come novità rispetto al resto aveva questa cosa importante: che non c’era soltanto l’ambizione di far ridere o sorridere, ma anche quella di far pensare e di inserire nelle coscienze di chi vi assisteva anche qualche dubbio sui loro convincimenti politici, ­­­­­69

o perlomeno qualche ripensamento su un certo modo di vivere (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).

La maturità della commedia, con i suoi attori (Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi), i suoi registi (Mario Monicelli, Dino Risi, Luigi Comencini, Luigi Zampa) e i suoi sceneggiatori (oltre ai registi anche Age, Furio Scarpelli, Ettore Scola, Rodolfo Sonego, Leo Benvenuti, Piero De Bernardi, Suso Cecchi d’Amico), è di fatto l’ossatura del cinema italiano degli anni Sessanta. È un cinema che sa raccontare la società in cui si vive, che tratteggia tutte le contraddizioni e le difficoltà di una Italia che nel giro di un decennio diventa una potenza industriale, mentre fino a pochi anni prima era stata un paese agricolo dove persistevano tradizioni millenarie. E sebbene ci siano stati anche film drammatici che raccontano quegli anni (uno su tutti, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, coevo di La dolce vita), non c’è dubbio che per fissare quel periodo e quel pensiero la commedia è veramente indispensabile. L’antinomia tra commedia e cinema d’autore è comunque ben presente nel nostro cinema di quegli anni. Se Antonio Pietrangeli immagina Stefania Sandrelli sul set di un bombastico film mitologico in Io la conoscevo bene (1965), per contrappunto Dino Risi dice la sua su Michelangelo Antonioni in due memorabili dialoghi di Il sorpasso, entrambi con Vittorio Gassman che si rivolge al giovane Jean-Louis Trintignant. Porgendogli un disco afferma: «Tiè, metti questo, è Modugno, Vecchio frac. A me, Robbè, Modugno me piace sempre, pare ’na cosa da niente, e poi ’st’omo in frac me fa ’mpazzì. C’è tutta la solitudine, l’incomunicabilità, e poi quell’altra cosa che va di moda oggi, l’alienazione...». E dopo l’allusione, c’è anche la citazione diretta: «L’hai visto ­­­­­70

L’eclisse? Io ci ho dormito, una bella pennichella. Bel regista Antonioni, c’ha una Flaminia Zagato. Una volta sulla fettuccia de Terracina m’ha fatto allungà il collo». Dal canto suo, Monicelli aveva pienamente coscienza di quanto uno dei suoi maggiori successi, L’armata Brancaleone, fosse ben più di una semplice commedia, come si evince in una intervista a me rilasciata nel 1966: Si parla sempre delle difficoltà per il cinema d’autore. Ma non è che io non abbia mai avuto difficoltà per fare le mie commedie come volevo io, contro il parere di tutti. L’armata Brancaleone era un soggetto che giaceva da quattro anni in un cassetto perché nessuno lo voleva fare così come era. Avevano tutti paura di raccontare un Medioevo così diverso da quello dei libri. Ed erano terrorizzati dalla lingua inventata da me, Age e Scarpelli, quella specie di latino medievale maccheronico. Io ho rinunciato al compenso fisso e ho convinto Cecchi Gori a finanziare il film solo perché sono entrato in compartecipazione negli utili e quindi rischiavo come lui. Ho voluto io che l’animazione dei titoli fosse opera di Luzzati, che era uno sconosciuto. E ho voluto che Gherardi potesse fare liberamente scenografie e costumi, perché credevo come lui che quelle stravaganze e quell’uso del colore dessero forza al film. Ripeto: nessuno lo voleva fare. Però poi l’ho fatto e ha avuto il successo che ha avuto. E sono convinto che se qualche anno dopo Pasolini ha potuto fare il Decameron in quel modo, con quel tipo di visione e facendo parlare napoletano, è anche perché c’è stato L’armata Brancaleone.

3. Il boom economico Ma il cinema italiano di quegli anni è molto altro ancora. Intanto, per tutto il decennio è nettamente dominante sul mercato interno e riesce quasi sempre a superare, sul piano delle vendite all’estero, i prodotti hollywoodiani, i quali ­­­­­71

tradiscono la crisi profonda in cui è piombata l’industria americana del cinema. Una crisi che ha cause interne (la legge antitrust, che di fatto smantella il sistema distributivo fino a quel momento in atto, e la diffusione del prodotto televisivo, molto più precoce di quanto sia avvenuto qui da noi) e cause esterne (il mito americano è messo a dura prova dal sanguinoso conflitto in Vietnam – l’unica sconfitta militare degli Stati Uniti nella loro storia – che provoca una dura contestazione interna). La capacità di penetrazione dei prodotti italiani nel mondo (compreso il blocco sovietico e i paesi emergenti, nati con la decolonizzazione e ovviamente diffidenti verso i prodotti americani) diventa un vero modello. E lo diventa senza nessuna traccia di piano industriale o di programmazione, ma con metodi che sono leggendari per scaltrezza ed estemporaneità. Del resto, l’estemporaneità era intrinseca al sistema produttivo. Erano pochi i produttori che finanziavano i film con capitali in tutto o in parte di proprietà, ed erano i più noti: De Laurentiis, Ponti, Cristaldi, Bini, Cicogna... Gli altri ricorrevano essenzialmente a due fonti di finanziamento: il minimo garantito e le vendite all’estero. Funzionava così: uno annunciava un film con il titolo, gli attori principali e due righe di trama. Poi faceva il giro dei noleggiatori italiani, che erano organizzati su base regionale. Se questi erano interessati, stipulavano un contratto nel quale era definita la cifra minima che si impegnavano a versare per il noleggio del film una volta che fosse stato ultimato, e per un periodo che era abitualmente di cinque anni (i film, infatti, venivano sfruttati a lungo, grazie a un ampio mercato garantito dalle sale di quartiere, di paese e parrocchiali che programmavano anche film realizzati e usciti parecchi anni prima). Lo stesso facevano i rivenditori all’estero, che anticipavano i soldi per assicurarsi i diritti ­­­­­72

di vendita in alcuni paesi. Questi anticipi erano generalmente rappresentati da cambiali, e si può dire che l’ottanta per cento della produzione cinematografica italiana del decennio abbia vissuto solo di cambiali. Se si sfogliano le riviste professionali del periodo («Giornale dello spettacolo», «Cinemundus» ecc.) si trovano tantissimi annunci di «inizio lavorazione» o di «lavorazione completata» per film che non hanno mai visto la luce o sono stati realizzati successivamente con altro regista e altri interpreti. Quegli annunci erano concepiti proprio in funzione del minimo garantito, per suscitare interesse e pubblicità che consentissero di ottenere le tanto agognate cambiali. Sul conto di questi produttori più o meno improvvisati fiorivano le leggende metropolitane. Spesso essi provenivano dal noleggio e si erano messi in proprio dopo aver capito che in realtà era con i loro soldi che si producevano i film. Un personaggio leggendario era Fortunato Misiano, proprietario della Romana Film, che tra il 1950 e il 1970 produsse un centinaio di film a basso costo frequentando i generi più popolari. Misiano, che aveva fatto fortuna fornendo i pasti alle troupe che giravano a Roma, era noto per la sua scaltrezza e la sua ignoranza, e per voler assolutamente ridurre i costi dei suoi film. Ha prodotto una decina di film di ambientazione corsara (Sansone contro i pirati, Le avventure di Mary Read...) riciclando da un film all’altro i costumi, le musiche e soprattutto l’unico cannone dato in dotazione ai registi (che prontamente lo avevano ribattezzato «il boom economico di Misiano»). Così lo descrive l’attore e regista Vittorio Caprioli: Io andai da lui dopo aver girato Leoni al sole, quindi in un momento di successo, per sottoporgli un progetto. Mi disse: «Senti Caprioli, tu m’hai raccontato ’sta cosa, io poi l’ho capita, ­­­­­73

più o meno, non so se è buona o non è buona, però ti diche solo questo: se questo è un soggetto che tu ci metti dentro quelle cose che ci possiamo fare un sacco di soldi io ti do subbito qualche lira e tu cominci subbito a scrivere e a lavorà, se poi invece tu fai uno di questi film che piacciono tanto a De Sica, a Rossellini e a Visconti, allora ti diche altrettante subbite: Caprioli vaffanculo» (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).

Il sottobosco produttivo degli anni Sessanta è ricco di piccoli miracoli a basso costo, in cui gli espedienti per concludere il film spendendo il meno possibile diventano geniali. È molto diffusa, ad esempio, la pratica di girare più film contemporaneamente, con gli stessi attori e la stessa troupe. Michele Lupo gira insieme La vendetta di Spartacus e Gli schiavi più forti del mondo (1963), Domenico Paolella fa lo stesso con Ercole contro i tiranni di Babilonia e Golia alla conquista di Bagdad (1964), Antonio Margheriti arriva a girare contemporaneamente addirittura quattro film di fantascienza: I criminali della galassia, Il pianeta errante, I diafanoidi vengono da Marte e La morte viene dal pianeta Aytin (1965). Pittoreschi sono anche i riciclaggi di scene di massa da un film all’altro. La sfida dei giganti (1965) di Maurizio Lucidi è costruito al settanta per cento con scene prese da Ercole alla conquista di Atlantide e La vendetta di Ercole, firmati dallo stesso produttore. In Maciste all’inferno (1962) di Riccardo Freda, l’eroe perde la memoria e per fargliela tornare una divinità amica gli mostra alcune avventure da lui compiute in precedenza: si tratta di sequenze da Maciste nella valle dei re, Maciste alla corte del Gran Khan e Maciste nella terra dei ciclopi, tutti realizzati negli anni precedenti dalla stessa produzione. Ci sono alcune zone intorno a Roma che sono frequentatissime dalle troupe. In particolare la spiaggia di Tor Caldara presso ­­­­­74

Lavinio, oggi oasi del Wwf ma allora adattata a spiaggia greca, egiziana, romana, ma anche a deserto del Gobi, a foresta di Sherwood, a landa lunare, a rifugio di Diabolik. Accanto a questi piccoli espedienti, vanno ricordati casi altrettanto pittoreschi, riguardanti grandi produttori e investimenti importanti. Sembra, ad esempio, che i confini del Sud Italia (una delimitazione importante, se si considera che negli anni del boom lo Stato ha finanziato attraverso la Cassa per il Mezzogiorno lo sviluppo del meridione) sia­ no stati modificati per poter comprendere anche i terreni acquistati da Dino De Laurentiis sulla via Pontina e sui quali, usufruendo appunto dei contributi della Cassa, il produttore ha costruito gli studi di Dinocittà. Su un altro campo, i produttori cinematografici dovevano vedersela anche con la censura. I tagli colpiscono un po’ tutti i prodotti, soprattutto quelli ritenuti più scabrosi. Goffredo Lombardo, proprietario della Titanus, si batte inutilmente per salvare un film di Lattuada, I dolci inganni, che nel 1960 viene tagliato di otto scene per complessivi 305 metri di pellicola, rendendo quasi incomprensibili le motivazioni che spingono la protagonista Catherine Spaak a legarsi con un uomo molto più vecchio di lei. Nonostante la notorietà del produttore, la battaglia è vana e il film uscirà nuovamente nel 1963 con ulteriori tagli. Commenterà sconsolato Lattuada: «Il film, privato del tema iniziale, diventa quello che non è, una storia immorale e stupida senza spiegazione logica, senza tema e senza conclusione. Il personaggio di Francesca scade così al rango di ninfetta» (in L’avventurosa storia del cinema italiano cit.).

­­­­­75

4. Le pistole non discutono Se il mitologico, l’avventuroso, l’horror, la fantascienza e lo spionistico sono quasi interamente produzioni a bassissimo costo concepite come si è detto, altro e più complesso è il discorso riguardante il western italiano. Anche questo filone nasce come imitazione povera del «cinema americano per eccellenza» (come lo definiva André Bazin), e nei primi anni Sessanta tra Italia, Germania e Spagna si girano una ventina di western. Ma tutto cambia quando nel 1964 esce Per un pugno di dollari di Sergio Leone, che ottiene il successo mondiale che tutti conosciamo. Un successo davvero inaspettato. Ricorda l’attore Mimmo Palmara, grande amico di Leone, in una intervista a me rilasciata nel 2003: Tutto nacque per caso. Io invitai Leone al cinema Metropolitan di Roma per vedere La sfida del samurai di Akira Kurosawa. Era noto a tutti che I magnifici sette, uno dei pochi western americani di successo del periodo, era tratto da I sette samurai dello stesso autore. Leone uscì entusiasta e iniziò a scrivere. Dopo qualche mese mi chiamò per dirmi che aveva preparato una sceneggiatura western ispirata a quel film, e trovato due produttori pronti a finanziarlo. Mi chiese se avrei fatto un ruolo per lui, visto che con la sua regia avevo già fatto un mitologico, Il colosso di Rodi. Per pura combinazione pochi giorni prima avevo firmato per gli stessi produttori, Papi e Colombo, che avevano in cantiere anche un altro western, Le pistole non discutono. Anzi, quello era il film principale mentre Per un pugno di dollari era il film di recupero; infatti i costumi e le pistole del primo vennero convogliati una volta esaurito il loro uso sul film di Leone. Così optai per Le pistole non discutono, gettando al vento la possibilità di lavorare in un film destinato a entrare nella storia del cinema.

Per un pugno di dollari uscì in una sola copia in piena ­­­­­76

estate in un cinema di Firenze. Evidentemente, nessuno credeva molto in quel film. Ma il successo fu clamoroso fin da subito. Come si è detto, i film commerciali italiani erano venduti un po’ ovunque nel mondo, ma le cifre raggiunte dai western furono decisamente più significative. Anche se ci sono tantissimi western girati in fretta e a basso costo, ce ne sono almeno altrettanti importanti sia nei contenuti che per modello produttivo. I western firmati da Sergio Leone (Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo, C’era una volta il West e Giù la testa) sono stati grandissimi successi commerciali in tutto il mondo e sono diventati dei classici. Allo stesso modo, sono entrati nella storia del cinema i western barocchi di Sergio Corbucci (Django) e quelli scanzonati di Duccio Tessari (Una pistola per Ringo). E gli incroci con la cultura «alta» sono molto stretti nel western italiano. Il ritorno di Ringo è un esplicito adattamento dell’Odissea, mentre Per pochi dollari ancora adatta Michele Strogoff di Verne, e Dove si spara di più addirittura Romeo e Giulietta. È poi noto che molti registi impegnati hanno avuto a che fare con il western, da Damiano Damiani a Carlo Lizzani (che ne firma due), da Florestano Vancini a Pier Paolo Pasolini (che interpreta un ruolo importante in Requiescant, 1966), mentre Giuseppe De Santis e Gillo Pontecorvo partecipano a progetti che non vedranno mai la luce. Dal canto suo, in Toby Dammit – episodio del film collettivo Tre passi nel delirio (1968) –, Fellini immagina la storia di un attore che arriva in Italia per girare un western e finisce per essere coinvolto in un incubo senza fine, sulla falsariga di quelli immaginati da Edgar Allan Poe (dal quale ha tratto ispirazione per il soggetto). Ed è sorprendente sapere che per il film Fellini realizzò una sequenza (poi tagliata) in cui ricostruisce una sparatoria fatta con ­­­­­77

gli stessi stilemi dei western che contemporaneamente si giravano a Cinecittà. Il western, peraltro, sembra riflettere, proprio come la commedia, il clima del periodo. Se la cultura degli anni Sessanta è fortemente venata di ribellione e di terzomondismo, il western la rappresenta pienamente. Registi come Sergio Leone, Sergio Corbucci, Sergio Sollima, Damiano Damiani, Giulio Petroni e sceneggiatori come Franco Solinas e Ivan Della Mea (il cantautore legato alla sinistra rivoluzionaria del tempo) parlano delle rivoluzioni messicane alludendo in parte a Che Guevara e in parte al Vietnam, due argomenti molto presenti nel dibattito politico dell’epoca. Sergio Corbucci, in una intervista a me rilasciata nel 1989, ha dichiarato: Noi eravamo tutti schierati a sinistra, ognuno con le sue idee e la sua personalità, ma il clima dell’epoca era quello. Eravamo degli autori strani, perché i soldi ci piacevano e quindi facevamo film che erano rivolti a un pubblico molto vasto e non solo italiano. Al tempo stesso, trovavamo normale metterci un po’ delle idee che circolavano. Forse la peculiarità di quegli anni consisteva proprio nel fatto che la gente aveva voglia di ribellione, e quindi parlare di rivolte solleticava il grande pubblico. Si potevano fare cose molto ardite, impensabili adesso. In Django la violenza, che era già molto presente nel nostro western, diventa la caratteristica principale del film. In Vamos a matar, compañeros ho vestito gli studenti rivoluzionari messicani come le guardie rosse di Mao e nessuno ha avuto niente da dire. Per quel film i problemi sono stati altri, e cioè le tante parolacce che avevo messo nei dialoghi. Ma fu un successo straordinario. Così come Il mercenario, che fu passato a me perché Gillo Pontecorvo (per il quale era stato scritto) non se la sentiva di girarlo e che era un adattamento western di L’eccezione e la regola di Brecht. Questi film, e anche quelli di Leone, di Sollima, li vedevano tutti, le sale ­­­­­78

erano piene. Poi vedevo i cortei, gli slogan e le cose che dicevano gli studenti e pensavo che non erano così diverse. Allora andavo dai miei amici comunisti che mi davano del venduto perché ero socialista e dicevo: ma guardate che se fate un’inchiesta vedrete che i miei western sono stati più visti dei vostri di avanguardia, e proprio da quelli che fanno i cortei.

A differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, dove la televisione sottrae al cinema gran parte del suo pubblico, in Italia l’industria cinematografica continua a sfornare film che incontrano grande successo di spettatori in casa e all’estero. Questo non toglie che la televisione inizi ad avere una sua presenza importante nel nostro cinema. Anche perché il regista che ha inventato il neorealismo, Roberto Rossellini, cessa di fatto di lavorare per il grande schermo dedicandosi quasi interamente alla televisione. La sua è una scelta «socratica». Il regista di Roma città aperta pensa infatti che la televisione, proprio per la sua capacità di raggiungere un pubblico vastissimo, generico, e non disposto a recarsi nelle sale, meriti un’attenzione particolare. E così si dedica a serie didattiche che raccontano i grandi personaggi e i grandi momenti della storia. Anche Vittorio Cottafavi, talento del cinema popolare e al tempo stesso regista colto e ironico, capace di realizzare un film avventuroso come I cento cavalieri ispirandosi esplicitamente a Brecht, abbandona il grande schermo per dedicarsi agli sceneggiati. Ugo Gregoretti, brillante uomo di teatro che nella prima metà del decennio si dedica con talento al cinema, segna il ’68 televisivo con l’originalissimo Il circolo Pickwick che gli procura la notorietà che non aveva ottenuto con le altre due discipline. Liliana Cavani esordisce con un Francesco d’Assisi realizzato a 16 mm proprio perché si trattava di un film destinato al piccolo ­­­­­79

schermo e che solo in seguito si è deciso di far uscire nelle sale, perché questa rivisitazione di un santo che si opponeva strenuamente alla ricchezza terrena affascinava le gerarchie ecclesiastiche. Ermanno Olmi, talento proveniente dal documentario industriale, poi passato con successo a lungometraggi al tempo stesso poetici e avvincenti (Il tempo si è fermato, Il posto), dirige per la televisione il suo film più bello, I recuperanti, su soggetto dello scrittore Mario Rigoni Stern e del critico Tullio Kezich. E poi ci sono i Caroselli (la pubblicità tipica della Rai del periodo, fatta di storie lunghe un paio di minuti alle quali veniva attaccato il codino che reclamizzava il prodotto): i più interessanti sono diretti dai migliori registi di cinema, da Gillo Pontecorvo ai fratelli Taviani, da Giuliano Montaldo a Sergio Leone e Luciano Emmer. 5. I talenti «minori» Il quadro del decennio più ricco e complesso del cinema italiano non sarebbe completo se non si nominassero alcuni dei grandi talenti «minori» che hanno contribuito non poco alla redditività dell’industria. La coppia composta da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, due comici siciliani provenienti dall’avanspettacolo e portati al cinema dal regista Mario Mattoli e dall’attore Domenico Modugno (che li mise sotto contratto per un lungo periodo), vanta al suo attivo un centinaio di film che nel decennio hanno incassato quasi il dieci per cento dello sbigliettamento complessivo in Italia. Tra i registi che lavoravano nel cinema a basso costo vanno citati almeno Mario Bava, ottimo direttore della fotografia e regista di horror amati in tutto il mondo (a ­­­­­80

partire dal suo esordio, La maschera del demonio), capace di realizzare effetti speciali a bassissimo costo (con una cassa contenente pasta Buitoni costruì una flotta persiana che fa una figura eccellente nel mitologico La battaglia di Maratona); e Antonio Margheriti, che si trova a suo agio soprattutto nella fantascienza ed è capace di miracoli nel riciclo: il suo horror Danza macabra, malsano e inquietante, è stato girato riutilizzando il set di Il monaco di Monza, film comico con Totò. E poi ci sono i caratteristi, volti spesso senza nome che appaiono in tantissimi film e che a loro volta segnalano il frequente incrocio tra cinema d’autore e cinema commerciale. Molto spesso i «cattivi» dei film d’avventura sono quelli con personalità più incisiva e con storie personali decisamente avvincenti. È il caso di Daniele Vargas, il cui vero nome era Daniele Pitani. Con la sua caratteristica pelata e lo sguardo tagliente, è stato un «cattivo» straor­ dinario in molti mitologici (ad esempio La vendetta di Spartacus, dove è il viscido senatore Trasone che finge di credere che Spartaco sia ancora vivo per acquisire poteri eccezionali), in parecchi western, ma anche in commedie (è un federale che usa la frusta in La marcia su Roma di Dino Risi) e in film drammatici (è un nostalgico monarchico in Le stagioni del nostro amore di Florestano Vancini). Nella vita privata era invece laureato in medicina, era colto e molto sensibile, compagno di banco al liceo di Pier Paolo Pasolini. Dal canto suo Mario Petri è lanciato nel 1950 da Herbert von Karajan in un Don Giovanni nel quale valorizzò pienamente le sue doti di basso, e per tutto il decennio fu uno dei cantanti lirici più famosi d’Italia. Nel decennio successivo alternò le performance canore con quelle di attore, interpretando il ruolo del cattivo in molti film avven­­­­­81

turosi, tra i quali Sansone e il tesoro degli Incas e Golia alla conquista di Bagdad. Era invece un bagnino di Ostia Giovanni Pazzafini, più noto come Nello, che in gioventù era stato calciatore professionista e aveva giocato anche nella Fiorentina. Il suo volto appare in più di duecento film, soprattutto d’avventura (in Per pochi dollari ancora, dove recita con Giuliano Gemma) ma anche comici (in Fantozzi, ad esempio, è l’energumeno che malmena Paolo Villaggio). Insomma, quanto a numero di produzioni, soldi investiti, incassi in Italia e nel mondo, gli anni Sessanta sono stati il decennio più ricco per il nostro cinema. Un decennio in cui hanno convissuto la sperimentazione più ardita e i piccoli espedienti commerciali. Un decennio caratterizzato prima dal boom economico e, sul finire, dalla contestazione, in cui il cinema ha raccontato a modo suo tutti i cambiamenti della società italiana. Lo ha fatto senza programmazione, con naturalezza. Perché il cinema era lo spettacolo preferito dagli italiani, e anche il luogo naturale in cui nascevano dibattiti, polemiche, prese di posizione. È stato l’ultimo decennio con queste caratteristiche. Dopo, tutto sarebbe cambiato.

Prima della rivoluzione. Gli anni Settanta

Negli anni Settanta il cinema italiano vive una grande mutazione, al tempo stesso produttiva e di contenuto. La svolta avviene a metà decennio, quando una sentenza della Corte costituzionale liberalizza la trasmissione delle emittenti private e pone fine al monopolio Rai. A partire dal 1976 nasce in ogni città un numero considerevole di emittenti, la maggior parte delle quali approfitta di un evidente vuoto legislativo programmando in modo selvaggio fino a dodici diversi film al giorno. Una simile offerta mina radicalmente la struttura che fino a quel momento aveva retto il mercato cinematografico. A farne le spese sono soprattutto le sale di seconda e terza visione, che difatti chiudono una dopo l’altra e riducono il periodo di sfruttamento dei film dagli abituali cinque-dieci anni a pochi mesi in prima visione. La chiusura delle sale provoca una crisi profonda nella distribuzione, che non è più interessata a versare il minimo garantito per acquisire i diritti di un film se non per i pochi mesi che seguono la sua uscita. E poiché il minimo garantito rappresentava – come si è visto – la principale fonte finanziaria per la realizzazione dei film, la crisi diventa anche economica. Solo sul finire del decennio, quando le televisioni iniziano a finanziare i film, si potrà intravedere una nuova soluzione. Ma intanto la produzione diminuisce in modo consistente, ­­­­­83

e l’incidenza del cinema diventa molto meno significativa nel complesso delle abitudini nostrane. Il cinema smette di raccontare la realtà italiana e, al tempo stesso, non riesce più a raggiungere il mercato estero. E i due fenomeni non sono disgiunti l’uno dall’altro. Nella prima metà del quinquennio si continuano a produrre film di genere, con qualche aggiornamento e qualche abbandono, ma con una sfiducia crescente nei confronti dei risultati. Prendono piede le parodie, che altro non sono se non il rovesciamento ironico dei modelli di riferimento, come risulta in particolare nel western: qui, ai prodotti «seri» (talvolta venati di ironia, talaltra capaci di ardite metafore sulle tensioni rivoluzionarie che si agitano un po’ in tutto il mondo) subentrano gli aspetti paradossali e comici delle stesse situazioni. Sergio Leone se ne accorge subito: Quando sono andato a vedere il primo Trinità mi sembrava di essere un imbecille, tutti che ridevano e io che non capivo perché. Terence Hill, alias Mario Girotti, mi ha detto una volta che non pensavano di aver fatto un film comico, all’inizio c’erano rimasti male anche loro. Il pubblico era stanco di vedere e sentire scemenze nei western italiani di serie e nei film con tutti quei titoli cretini, e io li avevo abituati male coi miei. Barboni ha imitato qua e là, è stato un mio operatore anni addietro, un uomo bonario e naïf, che ha capito che dalle esagerazioni dei western cretini alla comicità il passo era breve (in L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di G. Fofi e F. Faldini, 2 voll., Feltrinelli, Milano 1979-1981).

Enzo Barboni (che si firma E.B. Clucher, adottando le sue iniziali e il cognome della madre) ottiene con Lo chiamavano Trinità (1970) e Continuavano a chiamarlo Trinità (1971) un enorme successo e sulla sua scia fioriscono parodie sempre più spinte. Il momento forse più surreale si ­­­­­84

raggiunge con Ci risiamo, vero Provvidenza?, diretto nel 1973 da Alberto De Martino. Nel film Tomas Milian è truccato come Charlie Chaplin e tra i personaggi c’è anche il giornalista sportivo Nando Martellini, che commenta alla moviola le performance del pistolero. Fino al 1975, anno in cui il western di fatto scompare dalla produzione italiana, si girano circa un centinaio di parodie con budget sempre più risicati e con invenzioni sempre meno brillanti. La tensione politica che fino a qualche anno prima aveva attraversato il western è solo un lontano ricordo. 1. L’impegno Per contro, i primi anni Settanta vedono una forte presenza del cinema di impegno civile, con punte di grande successo popolare per film anche scomodi e difficili. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto nasce perché il regista Elio Petri decide: «Voglio fare un film sulla polizia, ma a modo mio». Il film ottiene uno straordinario successo internazionale anche grazie al Gran Prix della giuria al Festival di Cannes e al premio Oscar come miglior film straniero, ottenuto nel 1971. La chiave del successo mondiale sta nella narrazione sopra le righe e decisamente surreale, ben sintetizzata dalla frase di Kafka che conclude il film e dallo straniamento brechtiano che sottolinea i passaggi più importanti della vicenda. Ma in Italia il film, realizzato prima della strage di piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969 e della morte nella questura di Milano dell’anarchico Giuseppe Pinelli, esce quando la polemica divampa perché lo si considera ispirato da quei fatti. Di forte impegno e di grande successo a livello mondiale è anche Sacco e ­­­­­85

Vanzetti (1970) di Giuliano Montaldo che, in un’intervista a me rilasciata nel 2002, ha dichiarato: Ho realizzato un film sui due anarchici mandati a morte negli Stati Uniti benché palesemente innocenti, perché ho sempre voluto raccontare nei miei film come l’intolleranza fosse il vero male che in tutte le epoche ha afflitto l’umanità. Abbiamo girato tutto il film in Irlanda: un po’ perché era uguale all’America di cinquant’anni prima, un po’ perché sarebbe stato impossibile girare un film su quell’argomento negli Stati Uniti. Ma il risultato è stato straordinario, perché negli Usa fu proprio il successo di Sacco e Vanzetti ad aprire un dibattito sulla pena di morte. E uno dei più bei ricordi della mia vita è legato al ricordo di una giornata passata a Berlino pochi anni dopo l’uscita del film. C’era una grande manifestazione di studenti, gridavano slogan che io non capivo. A un certo punto si sono messi a cantare la canzone scritta da Morricone e interpretata da Joan Baez che è la colonna sonora del film. Cinquantamila persone che cantavano la canzone del mio film. Un’emozione che ancora oggi mi fa tremare le gambe. Ci furono polemiche anche in Italia, e ci fu uno dei fatti più incredibili: quando passò in televisione, molti anni dopo, un solerte funzionario tolse la scena in cui Gian Maria Volonté viene portato via e grida: Viva l’anarchia! Si vede il labiale, ma la battuta non c’è, una censura a scoppio ritardato che mi ha dato molto fastidio. Nel film era fondamentale, come sempre, l’interpretazione di Gian Maria Volonté, senza di lui non avrei fatto il film.

Volonté, in effetti, diventa un interprete fisso nel cinema di impegno civile degli anni Settanta. La sua è una carriera decisamente curiosa: nasce come attore teatrale, si avvicina al cinema in alcuni ruoli secondari in film mitologici come Ercole alla conquista di Atlantide, viene lanciato verso il grande successo da Sergio Leone con Per un pugno di dollari, interpreta molti altri western per poi dedicarsi ­­­­­86

totalmente al cinema di impegno civile e partecipare attivamente alle manifestazioni politiche e sindacali del periodo. 2. Gatti, mosche e poliziotti Può essere considerato, almeno agli inizi, un filone parallelo a quello del cinema «civile» anche il genere «poliziottesco», che rielabora in chiave nazionale alcuni grandi successi americani, come Il braccio violento della legge di William Friedkin e Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo di Don Siegel. Insieme a Lucio De Caro, Stefano Vanzina – che da sempre si cela sotto lo pseudonimo Steno – scrive una storia intitolata La polizia ringrazia, che viene poi proposta a tanti registi. Un commissario di polizia, famoso per i suoi metodi spicci e perciò poco amato dalla stampa e dai suoi superiori, decide di indagare su una squadra anticrimine che colpisce i criminali nei confronti dei quali la polizia appare impotente. Dietro la squadra si nasconde in realtà un’associazione parafascista e golpista, la Fidelitas, animata da magistrati in pensione che sognano un regime autoritario da instaurare con ogni mezzo. La trama è questa, ma il film fu accusato – non si sa perché – di essere reazionario e violento. Ed è curioso che Steno lo abbia diretto personalmente, firmandolo per la prima volta con il suo nome per esteso, perché tutti i registi ai quali era stato proposto si erano tirati indietro: «Allora avevano paura di parlare male della polizia e mi fa molto ridere, perché erano registi sinistrorsi. Alla fine mi ritrovai a dirigerlo io». L’incasso strepitoso e inaspettato di questo film diede avvio a un vero e proprio filone di pellicole che raccontavano la nuova delinquenza urbana, ispirandosi al tempo ­­­­­87

stesso alle molte «trame nere» e al terrorismo. In La polizia accusa: il servizio segreto uccide (1975) si parla dei gruppi paramilitari neofascisti che sognano un colpo di Stato come quello avvenuto anni prima in Grecia; in Italia: ultimo atto? (1977) si raccontano i gruppi terroristi di sinistra che nel frattempo insanguinavano il paese. Registi come Enzo G. Castellari, Umberto Lenzi, Stelvio Massi e Sergio Martino dimostrano tutta la loro maestria nelle scene d’azione, mentre attori quali Maurizio Merli, Franco Gasparri e Raymond Lovelock (oltre ai già noti Tomas Milian, Franco Nero ed Enrico Maria Salerno) diventano famosi in pochissimo tempo. Ma sono dei veri e propri protagonisti anche gli spazi urbani. Le città, spesso presenti nei titoli (soprattutto Roma e Milano, ma anche Genova, Napoli, Torino), sono raccontate come vere e proprie metropoli, con casermoni e sopraelevate frutto dell’urbanizzazione forzata subita dieci-quindici anni prima. Una mutazione genetica che viene per la prima volta rappresentata nel cinema in modo così esteso, così come per la prima volta si raccontano in modo altrettanto esteso le tensioni che attraversano queste città, dalla nuova delinquenza al terrorismo. Se il cinema «poliziottesco» prende spunto dal cinema di impegno civile, il cinema giallo (l’altro genere importante del decennio) trae ispirazione da alcuni film americani (il più importante è Psycho, con cui Hitchock abbandona lo schema della commedia gialla per mettere in scena, contro il volere dei produttori, un thriller molto più esplicito e sadico, in cui le nevrosi che sempre caratterizzano i suoi film sono mostrate senza la mediazione della leggerezza e del sorriso), ma anche da alcuni precedenti lavori italiani: in particolare Sei donne per l’assassino, diretto qualche anno prima, nel 1964, da Mario Bava; Il dolce corpo di Deborah (1968) di Romolo Guerrieri, e alcuni thriller erotici di ­­­­­88

Umberto Lenzi, quali Orgasmo (1968) e Paranoia (1969). Il grande successo arriva però con L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento, che apre il decennio incassando più di ogni altro film italiano. Proprio come avviene nei «poliziotteschi», Argento propone una trama gialla calata in una grande città, come ha dichiarato in una intervista a me rilasciata nel 2000: L’uccello dalle piume di cristallo è il mio esordio, ero molto giovane, prima avevo fatto il giornalista e lo sceneggiatore. Volevo raccontare la storia di un assassino paranoico, un personaggio che doveva avere le stesse perversioni dei personaggi di Hitchcock. Ma non volevo case maledette, ville in campagna e le cose che si erano viste fino a quel momento. Mi piaceva l’idea che la vicenda si svolgesse all’interno del quartiere Coppedè, il quartiere romano dove poi sono andato ad abitare e che è il quartiere liberty di Roma. Volevo raccontare come l’insicurezza, il pericolo, potevano essere dietro l’angolo, anche nelle vie di uno dei quartieri più belli ed eleganti. E il fatto che il teatro dell’omicidio nonché il luogo in cui si capisce chi è l’assassino sia una galleria d’arte, quindi uno dei posti che si pensano lontani mille miglia da feroci atti di violenza. Invece la violenza è ovunque nella società di oggi. La violenza è effetto, e non causa, della paura. Io racconto un mondo in cui non ci sono più zone franche.

Il successo del film ingenera a sua volta un filone che potremmo borgesianamente chiamare «il giallo della zoologia fantastica», visto che nei titoli fanno capolino animali dalle caratteristiche appunto fantastiche. Sempre Dario Argento dirige Il gatto a nove code (1971) e Quattro mosche di velluto grigio (1972) (peraltro, anche il suo maggiore successo, Profondo rosso, del 1975, aveva un titolo di lavorazione simile, e cioè La tigre dai denti a sciabola). Ma il genere appassiona altri registi e i titoli sono in linea: Una lucertola con la pelle ­­­­­89

di donna (1971), Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975), Una farfalla con le ali insanguinate (1971), La tarantola dal ventre nero (1971)... I registi che più frequentano questo filone sono Umberto Lenzi, Sergio Martino, Paolo Cavara e Lucio Fulci, che dirige uno dei film più interessanti e più controversi, Non si sevizia un paperino (1972). Così in una intervista a me rilasciata nel 1995: Io ero famoso soprattutto per le commedie, per aver inventato il personaggio di Alberto Sordi in Un americano a Roma, per i film con Franchi e Ingrassia. Ma il giallo mi ha sempre affascinato perché le perversioni sono molto più interessanti dei buoni sentimenti. Avevo pensato questo film in cui un assassino (che come nei film simili era uno psicopatico che aveva avuto dei problemi da bambino) faceva strage di ragazzini. L’ho ambientato in un paese bellissimo della Calabria, ma volevo fosse molto evidente che la campagna-Arcadia tanto cara al cinema italiano di una volta non c’era più: qui si vedono le autostrade costruite nel nulla, il degrado delle zone circostanti, le costruzioni abusive, le discariche altrettanto abusive di gomme da auto, i segni della speculazione mafiosa. Non contento, ho scritto una storia in cui l’assassino è il prete del villaggio e in cui una bella donna provoca un ragazzino che le porta da bere. In realtà il ragazzino era controfigurato da un nano, che poi è quel Semeraro che è stato protagonista di un fatto di cronaca nera qualche anno dopo. E per questo ebbi un processo. Ne ebbi anche un altro perché il titolo previsto era Non si sevizia Paperino. A farmi causa fu la Walt Disney, timorosa di vedere il suo personaggio accostato a un film truculento. Così il paperino diventò minuscolo e preceduto dall’articolo «un», in modo da essere generico. Ma tutta questa attenzione giudiziaria, al di là dei cavilli sui quali era costruita, dimostrava che la totale libertà che avevamo avuto nel cinema fino a pochi anni prima stava tramontando. Forse c’entrava il clima di restaurazione post-Sessantotto. Ma secondo me la causa era un’altra. Il mercato cinematografico si stava ­­­­­90

restringendo, i film incassavano di meno, i produttori avevano sempre meno voglia di rischiare dei soldi e spingevano tutti noi a ripeterci, a proporre storie il più simili possibile a quelle che incassavano. Poi sono arrivate le televisioni e hanno imposto che i film non dovessero avere divieti perché se no non li potevano trasmettere. E questo ha contribuito ancora a spingerci verso il basso. Nel giro di pochi anni il talento che circolava dentro il cinema italiano è evaporato completamente, e i numeri dei tempi d’oro sono diventati un miraggio.

3. Non si ride più E infatti i generi continuano a esistere, ma i film devono costare poco e avere sempre meno pretese. Il mutamento del costume consente un maggiore erotismo e così abbondano le commedie erotiche (dopo il grande successo di Malizia di Salvatore Samperi), le imitazioni erotiche del Decameron di Pier Paolo Pasolini (i cosiddetti «decamerotici»). Lo stesso Pasolini dà involontariamente il via, con il suo ultimo film Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976), a film sadico-erotici. Ci sono anche horror sempre più erotici e mitologici pieni di ancelle svestite, ma tutti questi film sono costruiti con pochissimi mezzi e senza idee, e infatti godono di scarsissimo successo. Anche il cinema d’autore, pur collezionando ottimi successi, sembra non avere più la capacità di incidere sull’immaginario mondiale che aveva avuto nel decennio precedente. Se Petri e Montaldo, insieme a Gian Maria Volonté, ottengono importanti riconoscimenti, Visconti sembra sempre più attratto dalla calligrafia decadente e anche gli ultimi film di Vittorio De Sica, pur essendo formalmente ineccepibili, non sembrano avere la stessa forza di quelli ­­­­­91

precedenti. Continuano con i loro film di ricerca i fratelli Taviani ed Ermanno Olmi, con due pellicole volontariamente antimoderne, entrambe premiate a Cannes: Padre padrone e L’albero degli zoccoli, rispettivamente nel 1977 e nel 1978. Pier Paolo Pasolini ottiene una notevole accoglienza di pubblico con la sua «trilogia della vita» composta da Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, anch’essi film decisamente antimoderni e assolutamente disperati. Assumono una dimensione internazionale anche Bernardo Bertolucci, che con il kolossal Novecento porta in America un film che racconta un’Italia spesso visualizzata dall’esposizione delle bandiere rosse del Partito comunista, e Liliana Cavani, che con Milarepa e Il portiere di notte suscita dibattiti e polemiche. Tra gli esordienti sono di particolare interesse Franco Citti, attore lanciato da Pier Paolo Pasolini, e Pupi Avati, originale nelle sue storie gotiche (tra le quali spicca il bellissimo La casa delle finestre che ridono) e anche nei lavori a carattere più onirico come Bordella. Anche la commedia all’italiana propone film interessanti, pur venendo meno la vena che aveva visto i suoi attori e i suoi registi grandeggiare nel decennio precedente. Ma la capacità di impatto delle commedie italiane sul pubblico nazionale è ancora fortissimo, come dimostra il fatto che riescano a tenere testa ai prodotti della nuova Hollywood che con Steven Spielberg, George Lucas, Francis Ford Coppola e altri registi della nuova generazione riesce a riconquistare il favore del pubblico mondiale, che aveva perso nel decennio precedente lasciando molto spazio alle cinematografie di altri paesi, in particolare alla nostra. A questo proposito è significativo un ricordo di Mario Monicelli in una intervista a me rilasciata nel 1986: ­­­­­92

Nel 1975 ripresi un vecchio progetto di Pietro Germi sugli scherzi, che in Toscana erano un’abitudine radicata. Scherzi cattivi, crudeli, dietro i quali aleggiava un certo senso di morte. Il film si intitolava Amici miei e il pubblico mostrò di gradirlo oltremisura. Nello stesso anno Steven Spielberg diresse Lo squalo, che fu campione di incasso in tutti i paesi del mondo. Da tempo non succedeva e in America erano al settimo cielo. Poi si accorgono che c’è un paese dove Lo squalo è solo secondo. Quel paese è l’Italia, perché al primo posto c’è il mio Amici miei. Spielberg, che oltre a essere un regista è anche un grande imprenditore, ordina di comprare i diritti del film perché vuole fare un remake americano, e lo fa senza averlo visto, solo incuriosito dal fatto che in Italia abbia incassato così tanto. Poi lo vede e rimane stupefatto. Ovviamente il remake non è mai stato fatto, ma lo stupore è restato. Perché uno come lui non poteva capire che un paese preferisse storie sue rispetto a una storia che nasceva proprio per garantire un successo mondiale. Questa era la forza della nostra commedia, una forza che poi siamo riusciti a dilapidare.

In effetti, la commedia italiana continua a riscuotere un certo successo pur perdendo quell’allegria che l’aveva caratterizzata: i film sono ancora divertenti, ma aleggia il senso di morte (che, come abbiamo visto, è stata una componente importante della sua riuscita nel decennio precedente). Se ne accorge lo stesso Monicelli quando mette in scena i tentativi di colpo di Stato fascista in Vogliamo i colonnelli. La struttura è quella tipica dei suoi lavori migliori (un gruppo un po’ scalcagnato tenta un’impresa che non è alla sua portata, come i ladri di I soliti ignoti, gli scioperanti di I compagni o gli straccioni di L’armata Brancaleone), ma il film non funziona perché il pubblico, a differenza dei film citati, non è spinto a parteggiare per l’impresa che si vuole compiere. Viceversa, piace tantissimo C’eravamo ­­­­­93

tanto amati di Ettore Scola che è un po’ la summa finale della grande stagione della nostra commedia. Il film racconta il periodo che va dalla seconda guerra mondiale fino agli anni Settanta. È pervaso da un profondo senso di morte anche Profumo di donna di Dino Risi, tratto da un romanzo di Giovanni Arpino, mentre Lo scopone scientifico di Comencini propone uno scontro di classe spietato anche se basato su una partita a carte. Registi, sceneggiatori e attori formano poi una cooperativa per realizzare un film a episodi che ridicolizzi la televisione italiana fino a quel momento in mano democristiana: nasce così Signore e signori, buonanotte, film diseguale e di scarso successo che però esce proprio quando la nota sentenza della Corte costituzionale liberalizza l’etere ed è quindi da considerarsi una sorta di addio alla televisione così come era stata conosciuta fino ad allora. 4. Articolo 28 e gola profonda Con il termine «articoli 28» si definiscono i quasi cinquecento film prodotti tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta con il contributo previsto dall’articolo 28 della legge sul cinema emanata dal governo di centrosinistra nel 1965. Con questo sistema sono stati realizzati alcuni film importanti come I pugni in tasca di Marco Bellocchio, Il deserto dei tartari di Valerio Zurlini, Allonsanfan di Paolo e Vittorio Taviani, Un Amleto di meno di Carmelo Bene, L’aria serena dell’Ovest di Silvio Soldini e Turné di Gabriele Salvatores, ma anche molti film che non hanno mai circolato. Tra questi, anche film di ricerca, molti dei quali concentrati proprio negli anni Settanta: ad esempio, La sua giornata di gloria di Edoardo Bruno, Olimpia agli amici di Adriano ­­­­­94

Aprà, È difficile morire di Umberto Silva, tre critici cinematografici che hanno tentato senza fortuna l’avventura della regia. Dal canto suo, l’Italnoleggio ha distribuito in un circuito di sale molti film italiani finanziati dallo Stato, ottenendo però risultati deludenti e cessando l’attività sul finire degli anni Settanta. Per la prima volta, dunque, il prodotto d’autore diventa una sorta di mondo parallelo che non ha quasi nessun momento di scambio con la produzione commerciale, invertendo di fatto quanto avveniva negli anni precedenti, che avevano visto una profonda osmosi tra cinema commerciale e cinema d’autore. Sfogliando la lista degli articoli 28, però, si notano davvero molte stranezze. Oltre ai film di ricerca (che erano i naturali destinatari della legge) sono stati finanziati film di genere che non avrebbero dovuto accedere a tali finanziamenti e che per contro non hanno nemmeno avuto riscontri commerciali. Alcuni casi sono piuttosto notevoli: La belva dalla calda pelle (1982) di Bruno Fontana è un film della serie Emanuelle nera con la sua interprete Laura Gemser; Il giorno del giudizio (1971) di Mario Gariazzo è uno dei tanti western girati in Italia nel periodo, mentre Una cavalla tutta nuda (1972) di Franco Rossetti è uno dei tanti film erotici innestati dal successo del Decameron di Pasolini; I briganti (1982) di Giacinto Bonacquisti è un piccolo film in costume diretto da un regista che viene dal cinema a luci rosse; Apocalisse di un terremoto (1982) di Sergio Pastore è un curioso melodramma che utilizza materiale girato per altri film, così come il thriller Ventottesimo minuto (1992) di Paolo Frajoli. Sono alcuni esempi di un fenomeno molto più ampio e che può essere spiegato solo come una evidente distorsione, a fini probabilmente clientelari, degli scopi originari della legge in questione. ­­­­­95

A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta molti registi italiani dirigono anche film destinati esclusivamente al circuito militante, molto attivo per effetto delle tensioni relative al 1968. Tra questi, Marco Bellocchio dirige per L’Unione dei comunisti marxisti leninisti Paola e Viva il 1° maggio rosso proletario (1970), Pier Paolo Pasolini propone con Lotta continua (e con l’importante collaborazione di Maurizio Ponzi) 12 dicembre (1972), Ugo Gregoretti è il regista di Apollon (1969) per l’Unitelefilm del Partito comunista, Sergio Leone firma Documents on Giuseppe Pinelli (1971) ed Ettore Scola, sempre per l’Unitelefilm, realizza Trevico-Torino viaggio nel Fiat-Nam (1972). Sono film che hanno una diffusione piuttosto limitata ma che rappresentano l’ulteriore dimostrazione di quanto il ’68 abbia profondamente toccato il mondo italiano della cultura e dello spettacolo e di come anche i nomi più noti del nostro cinema cercassero altre vie rispetto a quelle tradizionali, quasi presentendo il tramonto dell’epoca d’oro del cinema. Gli anni Settanta vedono affacciarsi una nuova forma di produzione, quella pornografica. Anche questa produzione, da tempo legalizzata negli Stati Uniti – dai quali proveniva Gola profonda, uno dei maggiori successi del cinema con sesso esplicito a livello mondiale –, in Francia e in altri paesi, inizia a lavorare in modo avventuroso, di fatto eludendo la legge. Prima vengono messi in circolazione vecchi film, italiani e stranieri, nei quali sono inserite scene pornografiche che non hanno nulla a che vedere con la storia. Poi si cominciano a girare in Italia veri e propri film pornografici, che però sarebbero vietati, sicché in censura viene presentato un soggetto completamente diverso in modo da aggirare il divieto. La prima produzione italiana vede impegnati alcuni registi che provengono dal cinema popolare e alcune attri­­­­­96

ci che, direttamente o indirettamente, hanno problemi di droga: Lilli Carati, Paola Senatore, Karin Schubert, Tina Aumont. Tra i registi il più significativo è sicuramente Aristide Massaccesi, l’uomo dai mille pseudonimi. Massaccesi vantava già una lunga carriera nel cinema: aveva esordito negli anni Cinquanta come fotografo di scena nientemeno che per La carrozza d’oro di Jean Renoir, poi era diventato un apprezzato direttore della fotografia, per approdare alla regia di piccolissimi film: western, erotici, comici, avventurosi. Quando esordisce nel mondo dell’hard-core, rende popolarissimo il suo nome d’arte Joe D’Amato, come ha dichiarato in una intervista a me rilasciata nel 1997: Andavano di moda gli pseudonimi italo-americani perché ad avere successo erano Scorsese, De Palma, De Niro, ecco perché Joe D’Amato. Ma ne ho molti altri: Michael Wotruba quando giro i film sexy-avventurosi, David Hills e Kevin Mancuso quando faccio i film tipo Rambo, Peter Newton per gli horror, Robert Yip e Chang Lee Sun per i porno girati in Giappone, Oscar Faradine per i western, Fred Slonisko, Alexander Borsky, O.J. Clarke, Raf De Palma per i porno. E altri ancora, visto che ho fatto più di 200 film in 25 anni. Inoltre i miei primi film porno hanno due versioni, una soft in modo da passare presso i comitati di censura e poi una volta ottenuto il visto rimontarla con gli spezzoni hard. Fatta una legge trovi l’inganno, siamo maestri in questo. Ma Joe D’Amato è il nome con il quale sono noto in tutto il mondo, il mio stand a Cannes si chiama così e su tutti i canali Pay ci sono programmi che hanno il mio nome nel titolo. Non so se sono da considerarsi un autore, so che nei miei film porno ho sempre cercato di raccontare delle storie mentre molti altri si accontentano di mettere insieme quattro scopate.

Insomma, negli anni Settanta il cinema italiano diminuisce in modo notevole la sua incidenza sul mercato naziona­­­­­97

le e su quello estero e vede divaricarsi in modo irreversibile il cinema d’autore dal cinema popolare. Non c’è più un solo cinema italiano, ce ne sono tanti, e spesso non si frequentano, non si conoscono neanche tra loro. E in questi universi paralleli arriva la grande rivoluzione delle nuove tecnologie, che caratterizzeranno fortemente il decennio successivo.

Lo sbandamento. Gli anni Ottanta

Gli anni Ottanta si aprono con un evento destinato a rivoluzionare le sorti del cinema, non solo italiano. Le video­ cassette, che avevano già avuto una certa diffusione nel decennio precedente, diventano oggetto di consumo di massa. E con esse scende anche notevolmente il costo per comprare un’attrezzatura adatta alle riprese video. Il fenomeno ha conseguenze enormi su tutto il comparto dell’audiovisivo. Improvvisamente, diventa reperibile per la fruizione singola o di piccoli gruppi praticamente tutta la storia del cinema, visto che tra duplicazioni legali e registrazioni illegali (soprattutto, ma non solo, di film passati nei vari canali televisivi) entrano in circolazione moltissimi film e la proiezione privata diventa in poco tempo decisamente prevalente su quella pubblica, riducendo ancora di più l’incidenza delle sale cinematografiche e quindi anche il numero di sale operanti. Il basso costo delle riprese video ingenera poi un mercato parallelo di film, spesso amatoriali, che non hanno nean­ che in previsione l’idea di essere proiettati in una sala cinematografica ma che vengono distribuiti attraverso nuovi canali. A questa rivoluzione corrisponde una diversa attenzione per il cinema, che è sempre più disertato nei suoi canali tradizionali (per l’appunto le sale cinematografi­­­­­99

che), ma al tempo stesso vede moltiplicarsi i momenti e i luoghi di fruizione. 1. La torre di Babele Il primo sintomo di questa avvenuta rivoluzione, almeno in Italia, è il proliferare di festival cinematografici che mostrano una crescente attenzione verso il video e diventano così una sorta di distribuzione alternativa. Il primo è stato il Festival di Salsomaggiore: nato nel 1977 a partire dall’esperienza dei tanti cineclub che erano sorti qualche anno prima in tutte le maggiori città italiane, da subito offre spazio e visibilità da un lato a film dimenticati della storia del cinema e, dall’altro, a film indipendenti non destinati ad uscire nelle sale cinematografiche. Il Festival di Salsomaggiore apre una sezione dedicata al video, subito imitato dal Festival di Torino (1982), dal festival milanese Filmmaker e da quello romagnolo di Bellaria, anch’essi nati nello stesso periodo. In questi festival si mostrano video e cortometraggi che non avrebbero trovato distribuzione altrove e che contribuiscono a far conoscere alcuni autori che in seguito gireranno film importanti: Daniele Ciprì, Franco Maresco, Silvio Soldini, Mimmo Calopresti, Guido Chiesa, Francesco Calogero, Antonello Grimaldi, Felice Farina. Per questi e pochi altri nomi che sono entrati nel cinema di lungometraggio e nei canali tradizionali, ce ne sono molti altri che non hanno mai fatto questo passaggio e che hanno proseguito il loro percorso nel cinema con corti e documentari girati in elettronico e visti soltanto nei festival e in qualche altra sede alternativa. Come si legge nel catalogo della seconda edizione del Festival di Torino, nel 1984, ­­­­­100

Se la frammentazione di linguaggi e di codici (in un periodo come quello che viviamo, che rifiuta ogni forma di immaginario collettivo che prevalga sulle altre possibili e che si caratterizza per l’attenzione al look, per il gusto del consumo istantaneo) assume nel campo delle immagini in movimento i contorni di una vera e propria torre di Babele, allora la chiave di lettura sarà, sempre nella sfera del simbolico, il telecomando, lo strumento cioè che consente di affastellare in mille combinazioni diverse le percezioni e di riprodurre il tipico trend metropolitano, dove le sollecitazioni sono tante e contemporanee. Un altro minimo comune denominatore è che, se la stragrande maggioranza degli autori ha concepito il suo prodotto come una sorta di test d’esame per caldeggiare il proprio ingresso nel settore professionistico, quasi nessuno ha concepito il suo lavoro come indirizzato verso un consumo tradizionale; anche se qui ha influito il fatto che lo schermo e il monitor sono ormai elementi dell’arredo metropolitano, non momenti di eccezione e di festa da godersi nei luoghi deputati alla proiezione stessa; e questo, soprattutto per chi è di formazione cinematografica e cinefila, spiega l’impossibilità di riprodurre oggi la magia di certe proiezioni e di certe sale.

Contestualmente, il cinema americano riconquista la propria supremazia negli incassi e la quota di biglietti venduti per film italiani precipita sempre di più. Nelle sale escono pochissimi film di genere: gli ultimi poliziotteschi, qualche horror, le ultime commedie che vedono protagonisti Lino Banfi e Alvaro Vitali come spalla, ultimi epigoni della vecchia tradizione dell’avanspettacolo che tanti nomi ha fornito al cinema italiano. I figli di Steno, Carlo (regista) ed Enrico (sceneggiatore) Vanzina, propongono invece una commedia basata su nomi nuovi quali Christian De Sica, Jerry Calà, Diego Abatantuono e altri, in gran parte provenienti dal cabaret. Con Sapore di mare (1982) i due Vanzina intercettano poi la passione musicale per il revival, non solo degli anni Sessanta, e ottengono un grande successo. ­­­­­101

Sempre dal cabaret proviene la maggior parte degli attori che di fatto costituiscono una nuova generazione destinata rapidamente a far scomparire i nomi che avevano reso grande la nostra commedia di vent’anni prima. Carlo Verdone, Roberto Benigni, Massimo Troisi e Francesco Nuti devono la notorietà alla televisione e diventano quasi subito i registi dei propri film (anche se Nuti ha, nei suoi primi lavori, un regista attento e capace come Maurizio Ponzi). La loro comicità non ha molti tratti in comune, ma alcuni elementi comunque ci sono: sottolineano la propria origine regionale, propongono una comicità non banale ma pur sempre popolare, mescolano la comicità di parola con la cura per l’aspetto visivo. Verdone è il maggior continuatore della tradizione della commedia, e a partire da Un sacco bello propone personaggi e modi di dire che hanno fatto la storia del costume italiano. Benigni e Troisi lavoreranno insieme (e vinceranno separatamente il premio Oscar, rispettivamente con La vita è bella e Il postino) frequentando il cinema, ma continuando a calcare le scene teatrali. Più triste è la carriera di Nuti, che dopo alcuni notevoli successi (anche come cantante) conosce la tragedia della malattia e della solitudine. Sono commedie anche i film di Nanni Moretti, che ha però origine (viene dal cinema amatoriale) e ambizioni diverse. Attraverso la commedia Moretti vuole raccontare un punto di vista morale sull’Italia contemporanea, evitando di entrare nei piccoli risvolti della politica quotidiana. Come ha dichiarato a Silvia Tortora («Epoca», 17 aprile 1991): «Facciamo una premessa: Il portaborse non fa il gioco di nessuno. Mi ricordo che ai tempi di Ecce bombo i miei amici riuscirono ad accusarmi di fare il gioco dei loro genitori... Erano stupiti che piacesse anche ai ‘grandi’...». Nel decennio Moretti vince importanti premi a Berlino (Sogni ­­­­­102

d’oro, 1981) e a Venezia (La messa è finita, 1985). Con Palombella rossa (1989) dimostra che le sue commedie sanno entrare nel vivo e nella carne dei dibattiti che attraversano la sinistra, quando cade il muro di Berlino e il Partito comunista decide di cambiare il proprio nome. Molto cinema d’autore continua a circolare, oltre che nei festival, anche nei meandri dei film finanziati dallo Stato e rimasti invisibili. In compenso, alcuni autori che si erano segnalati negli anni precedenti si affermano con film che ottengono un buon successo sul mercato nazionale e in alcuni casi anche fuori Italia. Gianni Amelio dirige con Colpire al cuore uno dei primissimi film che trattano il tema del terrorismo, anche se il soggetto è più incentrato sulla dialettica padre-figlio. Anche Marco Tullio Giordana racconta il terrorismo in La caduta degli angeli ribelli, ma i loro due casi sono completamente isolati e il fenomeno nel suo insieme sarà oggetto di riflessione solo nei decenni successivi. Tinto Brass, con La chiave, adatta un romanzo di Jun’ichirō Tanizaki, proponendo un film soft-core di buona fattura e una Stefania Sandrelli disposta a modificare in modo deciso l’immagine che si era costruita negli anni precedenti. Bernardo Bertolucci, con L’ultimo imperatore, un kolossal interamente girato in Cina e prodotto da Jeremy Thomas, vince ben nove premi Oscar e si rivela uno dei registi italiani capaci di interagire con il grande cinema americano. Sergio Leone dirige negli Usa il suo ultimo film, C’era una volta in America, che deve affrontare notevoli traversie produttive e che uscirà negli Stati Uniti fortemente rimaneggiato. Giuliano Montaldo gira in Cina Marco Polo, sceneggiato televisivo che rappresenta forse il massimo sforzo produttivo per la televisione italiana e che Montaldo stesso concepisce come un’immensa avventura in una terra sconosciuta (le riprese dureranno quasi ­­­­­103

un anno). Pupi Avati prosegue nel suo racconto di storie semplici, amare, profondamente calate nella realtà italiana, a volte in costume (Una gita scolastica) a volte con ambientazione contemporanea (Regalo di Natale). A suo modo compie un’impresa autoriale anche Adriano Celentano, che con Joan Lui propone una sorta di summa dei temi che maggiormente lo affascinano: il film è costosissimo, incassa pochissimo e di fatto conclude la carriera cinematografica di Celentano, che diventerà però uno dei più sorprendenti e originali personaggi del piccolo schermo. Tra gli autori che esordiscono nel decennio ce ne sono poi due che conquisteranno il premio Oscar e si dimostreranno colti e intelligenti, capaci di mettersi in discussione e di cercare nuove vie, interfacciandosi con il pubblico. Uno è Gabriele Salvatores, che proviene dalla scena teatrale ed è diventato famoso con commedie nelle quali ha fatto recitare attori a lui legati da un lungo rapporto: Diego Abatantuono, Claudio Bisio, Gigio Alberti. La partecipazione a Cannes con Turné lo lancia sul mercato internazionale che gli frutterà l’Oscar per Mediterraneo (Salvatores ha capitalizzato quella fama per dedicarsi anche ad altri generi padroneggiati con successo). L’altro è Giuseppe Tornatore, che grazie alla fiducia di due vecchi produttori (Goffredo Lombardo produce il suo esordio, Il camorrista; Franco Cristaldi lo vuole per Nuovo Cinema Paradiso, che vincerà l’Oscar) riesce a esordire e soprattutto a raggiungere il successo costruendo film molto classici, attraversati da vene epiche e da una cura formale che gli arriva dritta dritta da Luchino Visconti e da Sergio Leone. Continuano poi a dirigere film Dino Risi, Luigi Comencini, Ettore Scola e Mario Monicelli, senza però mai raggiungere i successi dei decenni precedenti. Ha affermato Monicelli, in una intervista a me rilasciata nel 2001: ­­­­­104

Gli anni Ottanta sono stati un totale sbandamento per tutto il mondo del cinema. Uno sbandamento che forse aveva anche origini più ampie, nel senso che è in quegli anni che l’Italia, così come l’avevamo conosciuta e costruita nel dopoguerra, cambia radicalmente: i grandi partiti vanno in crisi, le grandi fabbriche si ridimensionano e così via. Ma sicuramente uno sbandamento in cui non riusciamo più a capire che cinema bisogna fare per piacere al pubblico. Infatti molti film vanno male e quelli che sopravvivono sono soprattutto gli attori-registi come Verdone, Benigni e gli altri. Allora, che cosa succede? Di fatto gli attori più popolari non lavorano più con i registi, si fanno i film da soli, se li scrivono su misura e mettendo se stessi al centro di tutto. Non c’è più dialettica, la gente di cinema non si conosce e non si frequenta più. Poi ci sono una marea di registi nuovi, giovani, che fanno qualche cortometraggio e che magari riescono anche a fare un lungo. Ma poi questi film non hanno sbocchi, io la maggior parte di questi ragazzi non li conosco, non so i loro nomi, non vedo i loro film perché non so dove andarli a vedere. Dal canto loro i produttori hanno sempre meno margini e di fatto sono in mano alle televisioni, Rai e Mediaset: senza i loro soldi quasi nessuno è in grado di avere i soldi per fare un film. Noi ci trovavamo e ci sentivamo sempre più impotenti. Io per fortuna ho azzeccato due film, Il marchese del Grillo e Speriamo che sia femmina. Ad altri è andata meno bene e sono rimasti fermi.

2. Il cinema sommerso In questa implosione cinematografica c’è spazio anche per un’altra forma di cinema sommerso. Come è noto, i produttori più disinvolti e i mestieranti pronti a tutto avevano costruito nei decenni precedenti il proprio successo imitando a basso costo i film di maggiore successo portati alla fama mondiale da Hollywood. Abbiamo visto che i mitologici con Ercole e Maciste occupavano lo stesso spa­­­­­105

zio dei grandi kolossal biblici di Cecil B. DeMille e che i western italiani nascevano perché il cinema americano per eccellenza era entrato in crisi produttiva e di idee. Lo stesso era avvenuto per l’horror (Riccardo Freda, Mario Bava, Antonio Margheriti e alcuni altri avevano girato film gotici a basso costo, spesso chiamando gli stessi attori che avevano avuto fortuna oltreoceano, da Barbara Steele a Vincent Price), per i film di James Bond (ci sono quasi cento film con le avventure di agenti segreti che si chiamano A777, A008 ecc.; per uno di essi, O.K. Connery firmato da Alberto De Martino, viene addirittura scritturato il fratello di Sean Connery, un muratore che girerà in Italia il suo primo e unico film), per i film di fantascienza e così via. Negli anni Ottanta il fenomeno continua, ma questi film molto raramente escono sul mercato italiano. Ha raccontato Lucio Fulci in una intervista a me rilasciata nel 1995: C’eravamo fatti una certa fama con gli horror e i thriller e io, quando uscì lo Zombi americano prodotto da Dario Argento, misi subito in cantiere Zombi 2 che era tutto diverso ma che funzionava molto bene. C’era più sangue, più situazioni raccapriccianti, a me piacciono le emozioni forti. Da quel momento mi hanno solo chiesto di fare horror, sono diventato un regista di film dell’orrore, genere che amavo ma che non era quello in cui ero specializzato. E oltretutto facevo degli horror molto diversi da quelli che mi piacevano, che erano quelli in bianco e nero della Universal anni Trenta con Bela Lugosi. Qui c’era sangue, tanto sangue e soprattutto tantissime situazioni malsane perché eravamo in un’epoca malsana. I primi uscirono nelle sale, andarono anche abbastanza bene. Ma poi le sale non li facevano più uscire e noi lavoravamo per le videocassette. Questi film sono usciti in tutto il mondo, ma nell’ottanta per cento dei paesi solo in videocassetta. Era un mercato che tirava abbastanza e quindi di soldi ne hanno portati. Intanto c’era stato Rambo, I predato­­­­­106

ri dell’arca perduta, Conan e altri film d’avventure e noi subito a fare film di questo tipo. C’era Bruno Mattei, c’era Aristide Massaccesi, c’eravamo io, Umberto Lenzi, Ruggero Deodato e Antonio Margheriti, altri ancora. Spesso li giravamo all’estero ma ho visto anche un sotto-Conan girato vicino a Roma, proprio come gli Ercole di una volta. Però alcuni non erano male, e infatti Quentin Tarantino li ha amati molto.

Anche i titoli erano prontamente allusivi: Apocalypse domani (1980), Gunan il guerriero (1982), L’ultimo cacciatore (1980), Robowar (1988), I predatori della pietra magica (1988)... Il fenomeno resiste per tutti gli anni Ottanta per poi esaurirsi nel decennio successivo, quando scompaiono le videocassette e di fatto anche l’home video, perché la diffusione dei film in rete prosciuga di fatto questo canale distributivo. Può essere letto anche come l’ultima battaglia del cinema popolare italiano prima della sua scomparsa. Da questo punto di vista il film più significativo è Endgame – Bronx lotta finale, diretto da Aristide Massaccesi con lo pseudonimo David Hills nel 1984. Una storia post-atomica tutta girata in una fabbrica abbandonata nei pressi di Roma, sulla via Appia, nella quale ritroviamo, invecchiati ma ancora capaci di menare le mani, quasi tutti i caratteristi che non mancavano mai nei film d’avventura degli anni Sessanta: Gordon Mitchell, Nello Pazzafini, Puccio Ceccarelli, George Eastman (anche sceneggiatore), Gabriele Tinti, Laura Gemser (l’Emanuelle nera che qui si fa chiamare Moira Chen), Franco Ukmar, Arnaldo Dell’Acqua, Al Cliver. Sembra quasi un raduno di vecchie glorie, decise a chiudere in bellezza. Il film fu anche proiettato al Festival di Rotterdam, in un omaggio che questa manifestazione (dedicata al nuovo cinema e al cinema di ricerca) aveva organizzato proprio per Aristide Massaccesi. ­­­­­107

Gli ultimi lampi

Dopo il 1990 il cinema italiano è davvero un’altra cosa. I sintomi della mutazione strutturale che abbiamo segnalato in precedenza si moltiplicano sempre più. Ci sono autori che godono di fama internazionale, ci sono commedie che raggiungono vette notevoli di incasso, ci sono nuovi autori che riescono a conquistare uno spazio importante. E c’è un cinema d’autore che potremmo definire «sommerso» che continua a esistere e a produrre lavori molto interessanti, non solo nell’ambito del cinema di finzione ma anche nel documentario, che però raramente riesce a fare il passo che lo divide dal cinema che esce in sala. Il circuito delle sale è sempre più asfittico e i canali distributivi alternativi (i festival, le biblioteche, i centri d’incontro...) vengono a loro volta falcidiati dalla crisi economica. Le televisioni ogni tanto propongono qualche apertura con programmi specifici, che però non diventano mai una linea di investimento stabile sulla quale fare leva per pianificare produzione e prodotti. Insomma, si raccolgono i frutti di una mancata programmazione, di energie imprenditoriali che non ci sono e di scarsa capacità da parte degli autori di mettersi in rete tra loro. E anche i racconti dei protagonisti perdono completamente la dimensione al tempo stesso epica e pittoresca dei loro predecessori: le testimonianze diventano storie singole, non hanno più un afflato collettivo. Del re­­­­­108

sto, il cinema diventa sempre più minoritario come quota all’interno della spesa degli italiani per lo spettacolo. 1. Un cinema da festival Ciononostante, ci sono riconoscimenti importanti e film altrettanto importanti. In questo ventennio vincono il premio Oscar Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores, Massimo Troisi e Roberto Benigni. Questi quattro registi vengono premiati per film (Nuovo Cinema Paradiso, Mediterraneo, Il postino e La vita è bella) che non hanno molti elementi in comune ma uno sì, e decisamente importante. Sono (come abbiamo ricordato in precedenza) quattro film che in modo molto personale raccontano un’Italia tra la seconda guerra mondiale e i primi anni del secondo dopoguerra, lo scenario cioè che era stato proprio del neorea­ lismo. Ovviamente nessuno di questi film è accostabile a quel fenomeno, ma l’ambientazione è la stessa ed è l’ambientazione con la quale ancora oggi il resto del mondo vede l’Italia: le piccole città, l’Italia rurale, i bambini con i pantaloni corti... Molto probabilmente, oltre alla loro riuscita, è questo il motivo per il quale hanno goduto di riconoscimenti importanti e di vendite estere notevoli. Decisamente contro tendenza è invece il premio che uno degli attori più importanti del nostro cinema, Toni Servillo, ha ricevuto a Cannes nel 2008 per due film da lui interpretati, Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino. Entrambi i film raccontano invece l’Italia di oggi, hanno goduto di un buon successo all’estero e sono a loro volta molto diversi tra loro perché il realismo struggente di Garrone ha poco a che vedere con la nitidezza quasi surreale di Sorrentino. ­­­­­109

Gabriele Muccino, capace di imporsi sul mercato nazionale con commedie drammatiche interpretate da molti attori, ha poi trasferito gran parte della sua attività negli Stati Uniti girando film hollywoodiani. Tra i registi del nuovo cinema, Marco Bellocchio ha trovato una sua cifra di grande efficacia raccontando in modo decisamente poetico due personaggi chiave della storia italiana, Aldo Moro in Buongiorno, notte (2003) e Benito Mussolini in Vincere! (2009). Nanni Moretti, a sua volta, gode di un prestigio notevole sia per le sue commedie morali sia quando propone una sorta di introspezione drammatica come in La stanza del figlio (2001), uno dei suoi film più belli, che non a caso riceve il massimo premio al Festival di Cannes. Nella commedia si segnalano soprattutto i lavori di sapore dolce-amaro di Paolo Virzì e del suo sceneggiatore Francesco Bruni, quelli di Carlo Mazzacurati e Daniele Luchetti (entrambi hanno esordito grazie alla Sacher Film di Nanni Moretti), il grande successo di Silvio Soldini con il suo Pane e tulipani (1999), e Dopo mezzanotte (2006) di Davide Ferrario, commedia notturna interamente girata con il digitale e programmaticamente low cost. E poi i lavori volutamente provocatori di Marco Risi e quelli più classici di Giuseppe Piccioni. Senza contare il più popolare di tutti, Carlo Verdone, il vero continuatore della grande tradizione della commedia, uno dei nomi più amati dal pubblico. Ci sono molti altri autori da citare. Il loro contributo è rilevante, a livello artistico hanno scritto pagine importanti e i loro film hanno valicato i confini nazionali. Mario Martone, ad esempio, uno degli autori più coerenti e coraggiosi, o Ferzan Ozpetek, che ha riscritto in modo personale la commedia e il melodramma. Senza dimenticare che continuano a girare Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Giuseppe Tornatore, Gabriele Salvatores e altri nomi che ­­­­­110

abbiamo trattato nei precedenti capitoli. E l’elenco potrebbe continuare in modo schematico e tendenzialmente onnicomprensivo, per non fare torto a nessuno. Ma forse l’impostazione più giusta per raccontare il cinema italiano è quella fornita nel 2000 dallo sceneggiatore e regista Enzo Monteleone, quando gli è stato chiesto un giudizio sull’annata precedente del cinema italiano: Che cosa rimarrà di questa stagione? Lampi di cinema. Momenti alla Sergio Leone del film di Tornatore: il negozio dove si comprano gli strumenti musicali (che sembra una scena da un film western), Tim Roth al piano che scivola come sui pattini nel salone delle feste, la sala motori come un inferno dantesco. E poi gli occhi chiari di Kim Rossi Stuart, Gesù inconsapevole e polacco lavatore di vetri. E il traffico povero, di gente del Sud, della Torino di Amelio appena sfiorata dal boom. E le intermittenze del cuore di Margherita Buy, suorina indecisa, esile figurina in grigio in una città distratta e ostile, piena di solitudine persa nella fretta di vivere, che non ha tempo per fermarsi a riflettere. E certi paesaggi di montagna dove giocano a fare gli eroi i piccoli maestri. E la faccia invecchiata di Bentivoglio, meridionale adottivo tra meridionali veri (Rubini, Papaleo, Lo Verso), di fronte al viso limpido e intrepido della Mezzogiorno. E certi movimenti di macchina su per le scale a chiocciola di un vecchio palazzo romano vicino a Trinità dei Monti (in Cinema italiano. Annuario 1999-2000, a cura di P. D’Agostini e S. Della Casa, Il Castoro, Milano 2000).

Monteleone parla a volo d’uccello di La leggenda del pianista sull’Oceano, La ballata del lavavetri, Così ridevano, Fuori dal mondo, I piccoli maestri, Del perduto amore, L’assedio. Quindi Tornatore, Del Monte, Amelio, Piccioni, Luchetti, Placido, Bertolucci. Autori riconosciuti, ma ogni anno si potrebbe compiere lo stesso esperimento, confer­­­­­111

mando che il cinema italiano degli autori è vivo, riesce a conquistare un suo spazio e una sua visibilità, ma è legato a suggestioni e a episodi. È difficile scorgere una programmazione. Come scrive un altro autore, Giuseppe Piccioni, i problemi sono al tempo stesso semplici e strutturali: Credo che il problema di molti film italiani non riguardi solo la capacità di autori, registi, attori e produttori. Spesso anche quando ci troviamo di fronte a dei buoni film non riusciamo a creare nessuna attesa nel pubblico. Ci si affida a una promozione debole e rituale (trailer sporadici, manifesti e flani) mentre il successo di molti film, anche di qualche brutto film, è sempre più un successo mediatico, ancor prima di uscire nelle sale. Io credo che spesso gli addetti ai lavori abbiano un’idea di successo commerciale sbagliata, il successo come vincita alla lotteria, l’ossessione di sbancare al botteghino. In realtà abbiamo più bisogno di film piccoli e medi che incassino meno ma tutti con risultati dignitosi, commercialmente apprezzabili. Se ne avvantaggerebbero tutti. Non è sana un’industria dove c’è un divario così grande tra un film dai superincassi e tanti altri che spariscono nelle sale dopo una settimana (in Cinema italiano. Annuario 1999-2000 cit.).

Quando si parla di «superincassi», come fa qui Giuseppe Piccioni, si parla negli ultimi venticinque anni delle commedie italiane che escono principalmente nel periodo natalizio e che per questo sono state denominate in modo dispregiativo «cinepanettoni». Nel 1983, con Vacanze di Natale, Carlo ed Enrico Vanzina iniziano una serie di film che avranno caratteristiche mutevoli ma si baseranno soprattutto sulla presenza di Christian De Sica e Massimo Boldi, facendo la fortuna del produttore Aurelio De Laurentiis e del regista Neri Parenti, che ben presto prenderà il posto di Carlo Vanzina e che in precedenza aveva diretto molti film comici con Paolo Villaggio. A tutt’oggi, la miglior ­­­­­112

descrizione del contenuto di questi film è fornita dallo stesso De Sica nella sua autobiografia: «Drammaturgicamente i film di Natale spesso sono ordinari, molte volte ripetitivi, orgogliosamente grossolani. Sono un po’ il discount del cinema. Ognuno di loro si può smontare, stroncare e rimontare con grande facilità. Sono film semplici, ma non disonesti» (Figlio di papà, Mondadori, Milano 2008). In ogni caso, il successo di questi film è sempre molto alto fino al 2010, quando la formula appare logorata e lo stesso De Laurentiis mette fine alla ricetta tradizionale proponendo nuovi attori e una nuova impostazione della commedia, che appare comunque ancora un cantiere aperto alla ricerca di una nuova formula. Più volte il successo di questi film ha aperto un dibattito anche serrato nel mondo della critica, con stroncature pepate, con rivalutazioni altrettanto polemiche e anche con qualche sorpresa, come la recensione piacevole e positiva di Tullio Kezich per il film Sognando la California (1992) di Carlo Vanzina. I film natalizi sono comunque un fenomeno quasi interamente italiano, con rari tentativi di coproduzione con l’estero, in particolare con la Spagna. Al loro interno si è formata una nuova generazione di sceneggiatori come Alessandro Bencivenni e la coppia Fausto Brizzi-Marco Martani, poi passata alla regia (Brizzi ha diretto alcuni dei maggiori successi della commedia italiana come Notte prima degli esami, nel 2007, e Maschi contro femmine, nel 2011). 2. Dai film alle serie tv Una grande novità del ventennio 1990-2010 è sicuramente l’importanza della televisione anche per quanto riguarda la costruzione del prodotto per il cinema. Se, come abbiamo ­­­­­113

visto, l’intervento con cui la televisione ha cambiato natura è basato sul preacquisto dei diritti televisivi che diventa la fonte principale di finanziamento del film, in tempi più recenti la situazione cambia ancora. Sul modello di quanto è avvenuto negli Stati Uniti e in altri paesi, la fiction diventa la forma di spettacolo più popolare e più vista e, progressivamente, la stessa fiction si trasforma. Se tradizionalmente essa è un prodotto generalista (adatto cioè a un pubblico di tutte le età e di ogni fascia di interesse culturale), negli ultimi dieci anni prende piede una nuova concezione del prodotto, con target di pubblico più circoscritti soprattutto per quanto riguarda il segmento di spettatori più giovani. E così nelle serie televisive italiane si iniziano a intravedere una creatività e una capacità di intercettare il gusto giovanile molto interessanti. Come ha detto in una intervista a me rilasciata nel 2011 Luca Vendruscolo, che insieme a Giacomo Ciarrapico e a Mattia Torre è stato sceneggiatore e regista della fortunatissima serie Boris, tutti noi conosciamo bene la fiction italiana, le sue regole e i suoi retroscena. Una vera e propria miniera di trovate e di situazioni che abbiamo riportato nelle tre stagioni della serie. Le citazioni e le allusioni sono tantissime, a volte le abbiamo scritte senza neanche rendercene conto e sono stati gli spettatori o i blogger a segnalarcele. Nel corso del tempo ci siamo resi conto che stavamo costruendo un metalinguaggio, un vero e proprio approfondimento di meccanismi e situazioni. Forse il successo della serie, e soprattutto il suo essere diventata oggetto di culto, nasce proprio da lì.

Anche Romanzo criminale, del giudice e scrittore Giancarlo De Cataldo, dopo essere stato portato sul grande schermo da Michele Placido con un film di grande successo, è diventato una serie televisiva in due stagioni diretta ­­­­­114

da Stefano Sollima e capace di lanciare verso la popolarità un buon numero di giovani attori. Sono comunque molti gli autori di cinema che hanno diretto fiction fortunate: tra questi, Gianluca Tavarelli, Riccardo Milani, Leone Pompucci e Maurizio Zaccaro. Il caso più complesso è però certamente La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, serie prevista per il piccolo schermo ma presentata con enorme successo al Festival di Cannes tanto da ottenere a sorpresa un’uscita nelle sale in Italia e in altri paesi. Anche Noi credevamo (2010) di Mario Martone nasce come operazione doppia, per il cinema e per la televisione, e in entrambi ha ottenuto ottimi riconoscimenti. C’è poi da segnalare Il commissario Montalbano, a tutt’oggi la serie più fortunata in Italia, nonché una delle poche fiction a godere di un buon mercato anche all’estero. Tra cinema e televisione, con puntate anche sul teatro, agiscono talenti visionari poco inscrivibili in schemi ma assolutamente innovativi come le due coppie Ciprì e Maresco (autori di Cinico TV) e Antonio Rezza e Flavia Mastrella. Tra finzione, documentario e videoarte va inoltre segnalata l’opera di Michelangelo Frammartino. L’impressione è che il nostro cinema sia scosso da un profondo mutamento. Da un lato, il rapporto diverso con la televisione e con la fiction può in breve tempo cambiare radicalmente la situazione e lanciare nuovi autori e nuovi approcci; dall’altro lato, esiste sempre un’enorme realtà di cinema sommerso (soprattutto documentari) che può diventare un ampio bacino di crescita per nuovi linguaggi e nuove creatività. Non indifferente sarà, quindi, capire quali meccanismi legislativi caratterizzeranno nel prossimo futuro il settore dell’audiovisivo. Su questi temi il dibattito è aperto, con molte proposte e molti pareri spesso in contraddizione tra loro. I nodi della questione, però, sono molto ­­­­­115

semplici. La fiction italiana è decisamente maggioritaria sul mercato interno ma incontra forti difficoltà nel conquistare i mercati esteri. Il cinema italiano che esce in sala vede prevalere la commedia (spesso ispirata a format stranieri e che altrettanto spesso non ha mercato estero), sia pure con una qualche presenza di film d’autore che hanno riscontri positivi nei festival e anche sul mercato internazionale. Il cinema sommerso vede una certa creatività soprattutto sul terreno del documentario, ma non riesce facilmente a trovare sbocchi distributivi, soprattutto sul piccolo schermo. La televisione pubblica e quella privata hanno di fatto pochi obblighi nei confronti del prodotto nazionale, sia in termini di investimento sia sul piano della visibilità. Su come saranno affrontati questi temi si gioca il futuro della produzione cinematografica italiana.

Indice dei nomi

Abatantuono, Diego, 101, 104. Age, pseud. di Agenore Incrocci, 56, 68-69. Alberti, Luigi, detto Gigio, 104. Alessandrini, Goffredo, 27. Alfieri, Edoardo, detto Dino, 33. Allasio, Marisa, pseud. di Maria Luisa Lucia Allasio, 47. Almirante, Mario, 18. Amato, Carlo, 6. Amato, Peppino, 27, 36. Ambrosio, Arturo, 5-6. Amelio, Gianni, 103, 110-111. Amendola, Giorgio, 40. Amidei, Sergio, 11, 40. Angeli, Franco, 63. Antonioni, Michelangelo, 54, 58, 70-71. Aprà, Adriano, 94-95. Arbuckle, Roscoe Conkling, detto Fatty, 26. Arena, Maurizio, pseud. di Maurizio Di Lorenzo, 47. Argento, Dario, 89, 106. Aristarco, Guido, 43, 45. Arnheim, Rudolf, 37. Arpino, Giovanni, 94. Aumont, Tina, pseud. di Marie Christine Aumont, 97. Avati, Pupi, 92, 104. Baez, Joan, 86.

Banfi, Lino, pseud. di Pasquale Zagaria, 101. Barker, Lex, 49. Baruchello, Gianfranco, 63. Bava, Mario, 33, 80, 88, 106. Bazin, André, 55, 76. Bellocchio, Marco, 62, 94, 96, 110. Bencivenni, Alessandro, 113. Bene, Carmelo, 64, 94. Benetti, Adriana, 42. Benigni, Roberto, 41, 102, 105, 109. Bentivoglio, Fabrizio, 111. Benvenuti, Leo, 70. Bergman, Ingrid, 57. Bertini, Francesca, pseud. di Elena Seracini Vitiello, 6. Bertolucci, Bernardo, 61-62, 92, 103, 110-111. Besozzi, Giuseppe, detto Nino, 34. Bini, Alfredo, 72. Bisio, Claudio, 104. Blasetti, Alessandro, 21, 30-31. Boetti, Alighiero, 63. Boetto, Giulio, 19. Boldi, Massimo, 112. Bonacquisti, Giacinto, 95. Bonnard, Mario, 54. Bontempelli, Massimo, 37. Borelli, Lyda, 6. Bosio, Gastone, 36. Boswell, Jessie, 18.

­­­­­117

Bragaglia, Carlo Ludovico, 52. Brass, Tinto, pseud. di Giovanni Brass, 65, 103. Brazzi, Rossano, 32. Brecht, Bertolt, 78-79. Brignone, Guido, 10-11, 54. Brizzi, Fausto, 113. Brocani, Franco, 63. Brooks, Mel, pseud. di Melvin Kaminsky, 51. Brunetta, Gian Piero, vii, 34. Bruni, Francesco, 110. Bruno, Edoardo, 94. Buy, Margherita, 111. Cajumi, Arrigo, 20. Calà, Jerry, pseud. di Calogero Calà, 101. Calogero, Francesco, 100. Calopresti, Mimmo, 100. Camasio, Sandro, 5. Camerini, Mario, 26-27, 33-34, 48. Campogalliani, Carlo, 51-52. Cane, G., 57. Canudo, Ricciotto, 20. Caprioli, Vittorio, 73-74. Carati, Lilli, pseud. di Ileana Caravati, 97. Carné, Marcel, 29. Carotenuto, Guglielmo, detto Memmo, 47, 56. Carotenuto, Mario, 47. Cartier, Paolo Alfredo, 6. Castel, Lou, pseud. di Ulv Quarzéll, 62. Castellani, Bruto, 12-13. Castellari, Enzo G., 88. Cavalcanti, Alberto, 37. Cavani, Liliana, 62, 79, 92. Cavara, Paolo, 90. Ceccarelli, Puccio, 53, 107. Cecchi d’Amico, Suso, 70. Cecchi Gori, Mario, 71. Celentano, Adriano, 104.

Cervi, Gino, 32. Chaplin, Charles Spencer, detto Charlie, 26, 85. Chen, Moira, v. Gemser, Laura. Chessa, Gigi, 18. Chiari, Walter, pseud. di Walter Annichiarico, 49. Chiesa, Guido, 100. Cianfriglia, Giovanni, 53. Ciarrapico, Giacomo, 114. Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, Marina, 72. Cini, Vittorio, conte di Monselice, 6. Ciprì, Daniele, 100, 115. Citti, Franco, 92. Cliver, Al, pseud. di Pierluigi Conti, 107. Clucher, E.B., pseud. di Enzo Barboni, 84. Colombo, Arrigo, 76. Comencini, Luigi, 47, 68, 70, 94, 104. Connery, Sean, 106. Consiglio, Alberto, 37. Coppola, Francis Ford, 92. Corbucci, Sergio, 51, 77-78. Cosulich, Callisto, 39. Cottafavi, Vittorio, 51, 79. Cremona, Italo, 18, 44-45. Cristaldi, Franco, 54-55, 59, 72, 104. Crockett, Davy, 53. D’Amato, Joe, pseud. di Aristide Massaccesi, 97, 107. Damiani, Damiano, 77-78. D’Annunzio, Gabriele, 5, 7-9. Dante Alighieri, 38. Dassin, Jules, 55. Debenedetti, Giacomo, 37. De Bernardi, Piero, 70. De Bernardi, Tonino, 63. De Caro, Lucio, 87.

­­­­­118

De Cataldo, Giancarlo, 114. De Chomón y Ruiz, Segundo Víctor Aurelio, 14. De Concini, Ennio, 50, 58. De Feo, Luciano, 17, 25, 37. De Filippo, Eduardo, 42. De Filippo, Peppino, 48, 58. De Laurentiis, Agostino, detto Dino, 37, 48, 72, 75. De Laurentiis, Aurelio, 112-113. Dell’Acqua, Arnaldo, 107. Della Mea, Ivan, 78. Del Monte, Peter, 111. Del Poggio, Carla, pseud. di Maria Luigia Attanasio, 42. De Luca, Lorella, 47. De Martino, Alberto, 85, 106. DeMille, Cecil B., 106. De Niro, Robert, 97. Denis, Maria, pseud. di María Ester Beomonte, 37. Deodato, Ruggero, 107. De Palma, Brian, 97. De Robertis, Francesco, 30, 32. De Santis, Giuseppe, 30, 33, 43, 77. De Sica, Christian, 101, 112-113. De Sica, Vittorio, 19, 26-28, 31, 33-35, 41, 43, 47, 74, 91 Di Giammatteo, Fernaldo, 60. D’Inzeo, Piero, 44. D’Inzeo, Raimondo, 44. Dominici, Arturo, 54. Dordsay, Michel, 60. Dostoevskij, Fëdor Michajlovič, 59. Douglas, Kirk, pseud. di Issur Danielovitch Demsky, 48. Duvivier, Julien, 29. Eastman, George, pseud. di Luigi Montefiori, 107. Eastwood, Clint, 52. Ekberg, Anita, 45, 54.

Emmer, Luciano, 80. Epstein, Jean, 37. Fabbri, Diego, 57. Fabrizi, Aldo, 40. Fairbanks, Douglas, pseud. di Douglas Elton Thomas Ullman, 8, 26. Faldini, Franca, 40, 64, 84. Fallaci, Oriana, 4-5. Farassino, Alberto, 12. Farassino, Giuseppe, detto Gipo, 50. Farina, Felice, 100. Fassbinder, Rainer Werner, 61. Fatty, v. Arbuckle, Roscoe Conk­ ling, detto Fatty. Feliciani, Mario, 54. Fellini, Federico, 9, 45, 57, 60, 6667, 77. Ferrario, Davide, 110. Ferreri, Marco, 64. Festa, Tano, 63. Flaherty, Robert, 37. Flaiano, Ennio, 26, 66. Flynn, Errol, 28. Fofi, Goffredo, 40, 64, 84. Fontana, Bruno, 95. Ford, John, pseud. di John Martin «Jack» Feeney, 27. Frajoli, Paolo, 95. Frammartino, Michelangelo, 115. Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, 14. Franchi, Franco, pseud. di Francesco Benenato, 80, 90. Franchina, Sandro, 58, 63. Francisci, Pietro, 50. Freda, Riccardo, 32, 44, 50, 53-54, 74, 106. Friedkin, William, 87. Fulci, Lucio, 90, 106. Fury, Ed, 52. Galante, Nicola, 18.

­­­­­119

Gallone, Carmine, 59. Gardner, Ava, 49. Gariazzo, Mario, 95. Garrani, Ivo, 54. Garrone, Matteo, 109. Gasparri, Franco, 88. Gassman, Vittorio, 56, 67, 70. Gelli, Chiaretta, pseud. di Yvette Da Todi, 28, 36. Gemma, Giuliano, 82. Gemser, Laura, pseud. di Laurette Marcia Gemser, 95, 107. Genina, Augusto, 4-5, 21, 23. Germi, Pietro, 26, 45, 93. Gherardi, Piero, 71. Giachetti, Fosco, 28, 42, 59. Giannini, Ettore, 57. Gimondi, Felice, 63. Giordana, Marco Tullio, 103, 115. Giorgio V, re d’Inghilterra, 12. Gobbi, Tito, 26. Gobetti, Piero, 18. Godard, Jean-Luc, 60. Goebbels, Joseph Paul, 31, 33. Gotta, Salvator, 35. Gozzano, Guido, 5. Gramsci, Antonio, 5. Grant, Cary, pseud. di Archibald Alexander Leach, 41. Gray, Dorian, pseud. di Maria Lui­ sa Mangini, 58. Gregoretti, Ugo, 79, 96. Grifi, Alberto, 63. Grimaldi, Antonello, 100. Gualino, Riccardo, 19, 48. Guarini, Alfredo, 38. Guazzoni, Enrico, 12. Guerrieri, Romolo, 88. Guevara, Ernesto «Che», 78. Gys, Leda, pseud. di Giselda Lombardi, 6. Hardy, Oliver, 26.

Hargitay, Mickey, pseud. di Miklós Hargitay, 52. Hepburn, Audrey, nata Audrey Kathleen Ruston, poi HepburnRuston, 49 Herzog, Werner, 61. Hesperia, pseud. di Olga Mambelli, 6. Hill, Terence, pseud. di Mario Girotti, 84. Hills, David, v. D’Amato, Joe. Hitchcock, Alfred, 42, 88-89. Hudson, Rock, pseud. di Roy Harold Scherer Jr., 49. Ingrassia, Francesco, detto Ciccio, 80, 90. Ivens, Joris, 65. Jacobini, Maria, 7. Jagger, Michael Phillip, detto Mick, 63. Jotti, Nilde, 40. Kafka, Franz, 85. Karajan, Herbert von, 81. Keaton, Joseph Frank, detto Buster, 26. Kluge, Alexander, 61. Korda, Alexander, 37. Kurosawa, Akira, 76. Ladd, Alan, 54. Lattuada, Alberto, 34, 42, 75. Laurel, Stan, pseud. di Arthur Stanley Jefferson, 26. Lenzi, Umberto, 88-90, 107. Leonardi, Alfredo, 63. Leone, Sergio, 43, 54, 76-78, 80, 84, 86, 96, 103-104, 111. Leonviola, Antonio, 52. Levi, Carlo, 18. Levine, Joe, 51.

­­­­­120

Linder, Max, pseud. di GabrielMaximilien Leuvielle, 26. Lizzani, Carlo, 29, 40, 43, 54, 77. Lloyd, Harold, 26. Lollobrigida, Gina, 47. Lombardo, Goffredo, 46, 75, 104. Lombardo, Gustavo, 6. Loren, Sophia, pseud. di Sofia Villani Scicolone, 31, 47-48. Lovelock, Raymond, 88. Lo Verso, Enrico, 111. Lubitsch, Ernst, 34. Lucas, George, 92. Luchetti, Daniele, 110-111. Lucidi, Maurizio, 74. Lugosi, Bela, pseud. di Béla Ferenc Dezső Blaskó, 106. Lulli, Folco, 47. Lumière, Auguste Marie Louis Nicolas, 3. Lumière, Louis Jean, 3. Lupo, Michele, 74. Luzzati, Emanuele, detto Lele, 71. Maccari, Mino, 45. Maggiorani, Lamberto, 41. Magnani, Anna, 35, 40. Malatesta, Guido, 55. Malipiero, Gian Francesco, 32, 37. Manfredi, Nino, 70. Mansfield, Jayne, pseud. di Vera Jayne Palmer, 52. Manzoni, Pietro, 65. Marais, Jean, 59. Marcuse, Herbert, 57. Maresco, Franco, 100, 115. Margheriti, Antonio, 74, 81, 106107. Martani, Marco, 113. Martellini, Nando, 85. Martinelli, Vittorio, 12. Martino, Luciano, 16. Martino, Sergio, 16, 88, 90. Martone, Mario, 110, 115.

Maselli, Francesco, 54. Massaccesi, Aristide, v. D’Amato, Joe. Massi, Stelvio, 88. Mastrella, Flavia, 115. Mastrocinque, Camillo, 27. Mastroianni, Marcello, 56, 59, 65, 70. Matarazzo, Raffaello, 36, 46. Mattei, Bruno, 107. Mattoli, Mario, 26, 28, 34-35, 42, 44, 80. Mazzacurati, Carlo, 110. Meccoli, Domenico, 37. Medin, Gastone, 44. Mekas, Jonas, 61, 64. Melnati, Raimondo, detto Umberto, 35. Menichelli, Pina, pseud. di Giuseppa Iolanda Menichelli, 6. Menzio, Francesco, 18. Merli, Maurizio, 88. Merz, Mario, 63. Mezzogiorno, Giovanna, 111. Michi, Maria, 40. Milani, Riccardo, 115. Milian, Tomas, pseud. di Tomás Quintín Rodríguez Varona y Milian, 85, 88. Milly, pseud. di Carla Mignone, 27-28, 35. Misiano, Fortunato, 73. Mitchell, Gordon, pseud. di Charles Allen «Chuck» Pendleton, 52, 107. Mix, Tom, pseud. di Thomas Hezikiah Mix, 8. Modigliani, Amedeo, 18. Modugno, Domenico, 70, 80. Monet, Claude, 18. Monicelli, Mario, 46, 51, 55, 7071, 93, 104. Montaldo, Giuliano, 43, 54, 80, 86, 91, 103.

­­­­­121

Montanelli, Indro, 46. Monteleone, Enzo, 111. Moore, Gar, 44. Morandi, Gianni, 62. Moretti, Nanni, 102, 110. Moro, Aldo, 110. Morricone, Ennio, 86. Morris, Kirk, pseud. di Adriano Bellini, 52. Muccino, Gabriele, 110. Musco, Angelo, 4. Mussolini, Benito, 16, 110. Mussolini, Vittorio, 25-28, 35. Nazzari, Amedeo, pseud. di Amedeo Carlo Leone Buffa, 27, 29, 42, 47. Negarville, Celeste, 40. Negroni, Baldassarre, 6. Nero, Franco, pseud. di Francesco Sparanero, 88. Neufeld, Massimiliano, detto anche Max, 27. Noris, Assia, pseud. di Anastasia Noris Von Gerzfeld, 33-34. Novelli, Amleto, 12. Novelli, Mario, 53. Nuti, Francesco, 102. Olmi, Ermanno, 80, 92. Oxilia, Nino, 5. Ozpetek, Ferzan, 110. Pagano, Bartolomeo, 8-9, 13-14. Pagliuca, Salvatore, 61. Palmara, Mimmo, 53, 76. Panaro, Alessandra, 47. Pandolfi, Elio, 67. Pannunzio, Mario, 37, 57. Paolella, Domenico, 74. Papaleo, Rocco, 111. Papi, Giorgio, 76. Parenti, Neri, 112. Park, Reg, 51.

Pasinetti, Francesco, 37. Pasolini, Pier Paolo, 61-62, 71, 77, 81, 91-92, 95-96. Pastore, Piero, 32. Pastore, Sergio, 95. Pastrone, Giovanni, 7, 14. Paulucci, Enrico, 18. Pavese, Cesare, 20, 58. Pavolini, Corrado, 37. Pazzafini, Giovanni, detto Nello, 53, 82, 107. Peck, Gregory, 49. Pellegrinetti, Margot, 7. Persico, Edoardo, 18. Petri, Elio, 85, 91. Petri, Mario, 81. Petroni, Giulio, 78. Piccioni, Giuseppe, 110-112. Pierotti, Piero, 53. Pietrangeli, Antonio, 51, 57, 70. Pinelli, Giuseppe, 85, 96. Pinelli, Tullio, 57, 66. Pini, Linda, 6. Pirandello, Luigi, 4-5, 23-24, 30. Pirro, Ugo, 40. Pistoletto, Michelangelo, 63. Pizzetti, Ildebrando, 7. Placido, Michele, 111, 114. Poe, Edgar Allan, 77. Poggioli, Ferdinando Maria, 29. Polański, Roman, 61. Pompucci, Leone, 115. Pontecorvo, Gilberto, detto Gillo, 43, 77-78, 80. Ponti, Carlo, 48, 65, 72. Ponzi, Maurizio, 96, 102. Praz, Mario, 20. Price, Vincent, 106. Proja, Alfredo, 38. Puccini, Gianni, 37. Quaglietti, Lorenzo, 38. Radford, Michael, 41.

­­­­­122

Rambaldi, Carlo, 54. Reeves, Steve, 50-51, 54. Renoir, Jean, 97. Renzi, Pina, 35. Rezza, Antonio, 115. Richards, Keith, 63. Riefensthal, Leni, 37. Righelli, Gennaro, 16, 24. Rigoni Stern, Mario, 80. Risi, Dino, 31, 47-48, 70, 81, 94, 104. Risi, Marco, 110. Rissone, Giuditta, 35. Rizzoli, Angelo, 27. Roach, Harold Eugene, detto Hal, 26. Roberti, Roberto, pseud. di Vincenzo Leone, 43. Rocca, Gino, 18. Roma, Enrico, 36. Rondolino, Gianni, 32, 38. Rossellini, Roberto, 27-28, 30, 33, 38-40, 43, 45-46, 56-57, 74, 79. Rossetti, Franco, 95. Rossi Stuart, Kim, 111. Rota, Nino, 36. Rotha, Paul, 37. Rouch, Jean, 43. Rubini, Sergio, 111. Ruttmann, Walter, 30, 32. Sacchi, Filippo, 33, 36. Saio, Mario, 11. Sala, Francesco, detto Franz, 11. Salerno, Enrico Maria, 54, 88. Salvatores, Gabriele, 41, 94, 104, 109-110. Salvatori, Renato, 47, 56. Samperi, Salvatore, 91. Sandrelli, Stefania, 70, 103. Sanguineti, Gaetano, detto Tatti, 12. Sanson, Yvonne, 47. Savio, Francesco, 11. Sbragia, Giancarlo, 54. Scarpelli, Furio, 56, 68, 70-71.

Schell, Maria, 59. Schifano, Mario, 63-64. Schubert, Karin, 97. Scola, Ettore, 70, 94, 96, 104. Scorsese, Martin, 97. Scott, Gordon, pseud. di Gordon M. Werschkul, 51. Scotti, Ernesto, detto Tino, 35. Selznick, David O., 42. Senatore, Paola, 97. Servillo, Toni, 109. Siegel, Don, 87. Sienkiewicz, Henryk Adam Alek­ sander Pius, 12. Silva, Umberto, 95. Silvi, Lilia, pseud. di Silvana Musitelli, 28-29. Skolimowski, Jerzy, 61. Soldati, Mario, 30-31, 47, 50. Soldini, Silvio, 94, 100, 110. Solinas, Franco, 78. Sollima, Sergio, 78. Sollima, Stefano, 115. Sonego, Rodolfo, 70. Sordi, Alberto, 48, 67, 69-70, 90. Sorrentino, Paolo, 109. Spaak, Catherine, 75. Spielberg, Steven, 92-93. Steel, Alan, pseud. di Sergio Ciani, 53. Steele, Barbara, 106. Steno, pseud. di Stefano Vanzina, 87, 101. Stompanato, Johnny, 49. Stone, Ellery W., 38-39. Strehler, Giorgio, 53. Tanizaki, Jun’ichirō, 103. Tarantino, Quentin, 16, 107. Tavarelli, Gianluca, 115. Taviani, Paolo, 80, 92, 94. Taviani, Vittorio, 80, 92, 94. Temple, Shirley, 27-28. Terribili Gonzales, Gianna, 7.

­­­­­123

Tessari, Duccio, 54, 77. Tinti, Gabriele, 107. Togliatti, Palmiro, 40. Tognazzi, Ugo, 70. Tornatore, Giuseppe, 41, 104, 109111. Torre, Mattia, 114. Torrisi, Pietro, 53. Tortora, Silvia, 102. Totò, pseud. di Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno di Bisanzio De Curtis Gagliardi, 55, 58, 68, 81. Trintignant, Jean-Louis, 70. Troisi, Massimo, 41, 102, 109. Trombadori, Antonello, 57. Truffaut, François, 60. Turner, Lana, pseud. di Julia Jean Mildred Frances Turner, 49. Turpin, Bernard, detto Ben, 26. Ukmar, Franco, 107. Umberto II di Savoia, re d’Italia, 32. Vadis, Dan, 52. Valentino, Rodolfo, pseud. di Rodolfo Alfonso Raffaello Pierre Filibert Guglielmi di Valentina D’Antonguella, 8, 32. Valeri, Franca, pseud. di Franca Norsa, 47-48. Valli, Alida, pseud. di Alida Maria von Altenburger von Markenstein und Frauenberg, baronessa del Sacro Romano Impero Germanico, 28, 31, 35, 42.

Vallone, Raffaele, detto Raf, 43. Vancini, Florestano, 77, 81. Vanzina, Carlo, 101, 112-113. Vanzina, Enrico, 101, 112. Vargas, Daniele, pseud. di Daniele Pitani, 81. Vendruscolo, Luca, 114. Venturi, Lionello, 18. Verdi, Giuseppe, 59. Verdone, Carlo, 102, 105, 110. Vergano, Aldo, 43. Verne, Jules, 77. Viarisio, Enrico, 35. Vidor, King, 26, 50. Vigna, John, 50. Villaggio, Paolo, 82, 112. Virgilio Marone, Publio, 38. Virzì, Paolo, 110. Visconti di Modrone, Luchino, 39, 58, 70, 74, 91, 104. Vitali, Alvaro, 101. Vitti, Monica, pseud. di Maria Lui­ sa «Marisa» Ceciarelli, 31, 58. Volonté, Gian Maria, 54, 86, 91. Warhol, Andy, pseud. di Andrew Warhola, 63. Wenders, Wim, 61. West, Mae, pseud. di Mary Jean West, 52. White, Harriet, 44. Zaccaro, Maurizio, 115. Zampa, Luigi, 70. Zavattini, Cesare, 39, 41. Zeglio, Primo, 44. Zurlini, Valerio, 94.

Indice dei film

12 dicembre (1972) di Pier Paolo Pasolini, 96. 1860 (1934) di Alessandro Blasetti, 30-31. Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini, 61. Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, 30, 32. Achtung! Banditi! (1951) di Carlo Lizzani, 43. Addio Kira (1942) di Goffredo Alessandrini, 27-28. L’albergo degli assenti (1939) di Raffaello Matarazzo, 36. L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi, 92. Alle frontiere dell’India (Wee Willie Winkie, 1937) di John Ford, 27. Allonsanfan (1974) di Paolo e Vittorio Taviani, 94. Amarcord (1973) di Federico Fellini, 10. Un americano a Roma (1954) di Steno, 90. Le amiche (1955) di Michelangelo Antonioni, 58. Amici miei (1975) di Mario Monicelli, 93. Un Amleto di meno (1973) di Carmelo Bene, 94.

Gli amori di Ercole (1959) di Carlo Ludovico Bragaglia, 52. Anni ruggenti (1962) di Luigi Zampa, 69. Apocalisse di un terremoto (1982) di Sergio Pastore, 95. Apocalypse domani (1980) di Anthony Dawson, pseud. di Antonio Margheriti, 107. Apollon. Una fabbrica occupata (1969) di Ugo Gregoretti, 96. Aquila nera (1946) di Riccardo Freda, 32, 44. L’aria serena dell’Ovest (1990) di Silvio Soldini, 94. L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli, 69, 71, 93. Arrivano i Titani (1961) di Duccio Tessari, 54. L’assedio (1998) di Bernardo Bertolucci, 111. Le avventure di Mary Read (1961) di Umberto Lenzi, 73. La ballata del lavavetri (1998) di Peter Del Monte, 111. Il bandito (1946) di Alberto Lattuada, 42. La battaglia di Maratona (1959) di Jacques Tourneur e Mario Bava, non accreditato, 81.

­­­­­125

La belva dalla calda pelle (1982) di Bruno Fontana, 95. Il bidone (1955) di Federico Fellini, 60. Il birichino di papà (1943) di Raf­ faello Matarazzo, 36. La bisbetica domata (1942) di Ferdinando Maria Poggioli, 29. Bordella (1976) di Pupi Avati, 92. Boris (serie tv, 2007-2010) di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, 114. Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971) di William Friedkin, 87. Break Up – L’uomo dei cinque palloni (episodio del film collettivo Oggi, domani, dopodomani, 1965) di Marco Ferreri, 65. I briganti (1982) di Giacinto Bonacquisti, 95. Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio, 110. Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, 77. Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, 7-8, 13-15. La caduta degli angeli ribelli (1981) di Marco Tullio Giordana, 103. Ça ira (1964) di Tinto Brass, 65. Il camorrista (1986) di Giuseppe Tornatore, 104. Il cantante di jazz (The Jazz Singer, 1927) di Alan Crosland, 16, 21. La canzone dell’amore (1930) di Gennaro Righelli, 16, 21, 24. La carrozza d’oro (La carrosse d’or, 1952) di Jean Renoir, 97. La casa delle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati, 92. Casa Ricordi (1953) di Carmine Gallone, 59. Il caso Paradine (The Paradine Ca-

se, 1947) di Alfred Hitchcock, 42. Una cavalla tutta nuda (1972) di Franco Rossetti, 95. I cento cavalieri (1964) di Vittorio Cottafavi, 79. C’era una volta il West (1968) di Sergio Leone, 77. C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone, 103. C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, 93-94. La chiave (1983) di Tinto Brass, 103. Chi lavora è perduto (1963) di Tinto Brass, 65. Il circolo Pickwick (serie tv, 1968) di Ugo Gregoretti, 79. Ci risiamo, vero Provvidenza? (1973) di Alberto De Martino, 85. Il colosso di Rodi (1961) di Sergio Leone, 54, 76. Colpire al cuore (1983) di Gianni Amelio, 103. La commare secca (1962) di Bernardo Bertolucci, 61. Il commissario Montalbano (serie tv, 1999-2013) di Alberto Sironi, 115. I compagni (1963) di Mario Monicelli, 69, 93. La compagnia dei matti (1928) di Mario Almirante, 18. Conan il barbaro (Conan the Barbarian, 1982) di John Milius, 107. La contessa di Parma (1938) di Alessandro Blasetti, 31. Continuavano a chiamarlo Trinità (1971) di E.B. Clucher, pseud. di Enzo Barboni, 84. La corona di ferro (1941) di Alessandro Blasetti, 31.

­­­­­126

Così ridevano (1998) di Gianni Amelio, 111. I criminali della galassia (1965) di Anthony Dawson, pseud. di Antonio Margheriti, 74. La damigella di Bard (1936) di Mario Mattoli, 35. Danza macabra (1964) di Gordon Wilson Jr., pseud. di Sergio Corbucci, 81. Darò un milione (1935) di Mario Camerini, 33. Il Decameron (1972) di Pier Paolo Pasolini, 71, 91-92, 95. Del perduto amore (1998) di Michele Placido, 111. Il deserto dei tartari (1976) di Valerio Zurlini, 94. I diafanoidi vengono da Marte (1965) di Anthony Dawson, pseud. di Antonio Margheriti, 74. Il divo (2008) di Paolo Sorrentino, 109. Django (1966) di Sergio Corbucci, 77-78. Documents on Giuseppe Pinelli (1971) di Sergio Leone, 96. Il dolce corpo di Deborah (1968) di Romolo Guerrieri, 88. La dolce vita (1960) di Federico Fellini, 10, 45, 49, 66-67, 70. I dolci inganni (1960) di Alberto Lattuada, 75. Dopo mezzanotte (2006) di Davide Ferrario, 110. Dove si spara di più (1965) di Duccio Tessari, 77. I due nemici (1961) di Guy Hamilton, 69. Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani, 46.

Ecce bombo (1978) di Nanni Moretti, 102. L’eclisse (1962) di Michelangelo Antonioni, 71. È difficile morire (1977) di Umberto Silva, 95. Endgame – Bronx lotta finale (1984) di Joe D’Amato, 107. Ercole alla conquista di Atlantide (1962) di Vittorio Cottafavi, 74, 86. Ercole contro i tiranni di Babilonia (1964) di Domenico Paolella, 74. Europa ’51 (1952) di Roberto Rossellini, 56-57. Fantozzi (1975) di Luciano Salce, 82. Una farfalla con le ali insanguinate (1971) di Duccio Tessari, 90. Le fatiche di Ercole (1956) di Pietro Francisci, 50-51, 58. Il federale (1961) di Luciano Salce, 69. I figli di nessuno (1952) di Raffaello Matarazzo, 47. Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard, 60. Il fiore delle mille e una notte (1974) di Pier Paolo Pasolini, 92. Francesco d’Assisi (1966) di Liliana Cavani, 62, 79. Fuga in Francia (1948) di Mario Soldati, 47. Fuori dal mondo (1998) di Giuseppe Piccioni, 111. Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975) di Umberto Lenzi, 90. Il gatto a nove code (1971) di Dario Argento, 89.

­­­­­127

Il gaucho (The Gaucho, 1927) di F. Richard Jones, 26. Il generale Della Rovere (1959) di Roberto Rossellini, 46. Genoveffa di Brabante (1946) di Primo Zeglio, 44-45. Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini, 43, 58. Il giorno del giudizio (1971) di Mario Gariazzo, 95. Una gita scolastica (1983) di Pupi Avati, 104. Giù la testa (1971) di Sergio Leone, 77. Gola profonda (Deep Throat, 1974) di Gerard Damiano, 96. Golia alla conquista di Bagdad (1964) di Domenico Paolella, 74, 82. Golia e il cavaliere mascherato (1964) di Piero Pierotti, 53. Gomorra (2008) di Matteo Garrone, 109. La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, 46, 67, 69. La grande parata (The Big Parade, 1925) di King Vidor, 26. I grandi magazzini (1939) di Mario Camerini, 33, 37. Il grido (1957) di Michelangelo Antonioni, 58. La guerra e il sogno di Momi (1917) di Giovanni Pastrone e Segundo de Chomón, 14. Guerra e pace (War and Peace, 1955) di King Vidor, 50. Gunan il guerriero (1982) di Frank Shannon, pseud. di Franco Prosperi, 107. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri, 85.

Io la conoscevo bene (1965) di Antonio Pietrangeli, 51, 70. Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry, 1971) di Don Siegel, 87. Italia: ultimo atto? (1977) di Massimo Pirri, 88. Joan Lui (1985) di Adriano Celentano, 104. Ladri di biciclette (1950) di Vittorio De Sica, 41-42. La leggenda del pianista sull’Oceano (1998) di Giuseppe Tornatore, 111. Leoni al sole (1961) di Vittorio Caprioli, 73. Lo chiamavano Trinità (1970) di E.B. Clucher, pseud. di Enzo Barboni, 84. Una lucertola con la pelle di donna (1971) di Lucio Fulci, 89-90. Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, 27. Maciste alla corte del Gran Khan (1961) di Riccardo Freda, 74. Maciste all’inferno (1924) di Guido Brignone, 9-11. Maciste all’inferno (1962) di Robert Hampton, pseud. di Riccardo Freda, 53, 74. Maciste alpino (1916) di Luigi Romano Borgnetto, 13. Maciste contro i mostri (1963) di Guido Malatesta, 54-55. Maciste nella terra dei ciclopi (1962) di Antonio Leonviola, 52, 74. Maciste nella valle dei re (1961) di Carlo Campogalliani, 51, 74. I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960) di John Sturges, 76.

­­­­­128

Malizia (1973) di Salvatore Samperi, 91. Ma non è una cosa seria (1936) di Mario Camerini, 33. Il marchese del Grillo (1981) di Mario Monicelli, 105. La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, 69, 81. Marco Polo (serie tv, 1982-1983) di Giuliano Montaldo, 103. La maschera del demonio (1960) di Mario Bava, 81. Maschi contro femmine (2011) di Fausto Brizzi, 113. Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores, 41, 104, 109. La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, 115. Il mercenario (1968) di Sergio Corbucci, 78. La messa è finita (1985) di Nanni Moretti, 103. Milarepa (1974) di Liliana Cavani, 92. Il monaco di Monza (1962) di Sergio Corbucci, 81. Morire gratis (1966) di Sandro Franchina, 58, 63. La morte viene dal pianeta Aytin (1965) di Anthony Dawson, pseud. di Antonio Margheriti, 74. Nel segno di Roma (1959) di Guido Brignone e Michelangelo Antonioni, non accreditato, 54. Noi credevamo (2010) di Mario Martone, 115. Noi vivi (1942) di Goffredo Alessandrini, 27-28. Non si sevizia un paperino (1972) di Lucio Fulci, 90. Notte prima degli esami (2007) di Fausto Brizzi, 113.

Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti, 59. Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, 92. Nuovo Cinema Paradiso (1988) di Giuseppe Tornatore, 41, 104, 109. O.K. Connery (1973) di Alberto De Martino, 106. Olimpia agli amici (1970) di Adriano Aprà, 94. Orazi e Curiazi (1961) di Ferdinando Baldi e Terence Young, 54. Ore nove: lezione di chimica (1941) di Mario Mattoli, 35. Orgasmo (1968) di Umberto Lenzi, 89. L’orribile segreto del dottor Hich­ cock (1962) di Robert Hampton, pseud. di Riccardo Freda, 44. Padre padrone (1977) di Paolo e Vittorio Taviani, 92. Paisà (1946) di Roberto Rossellini, 44-45. Palombella rossa (1989) di Nanni Moretti, 103. Pane, amore e fantasia (1953) di Luigi Comencini, 46-47, 56, 68. Pane e tulipani (1999) di Silvio Soldini, 110. Paola. Il popolo calabrese ha rialzato la testa (1969) di Marco Bellocchio, 96. Paranoia (1969) di Umberto Lenzi, 89. Per pochi dollari ancora (1966) di Calvin J. Paget, pseud. di Giorgio Ferroni, 77, 82. Per qualche dollaro in più (1965) di Sergio Leone, 77. Per un pugno di dollari (1963) di Sergio Leone, 76-77, 86.

­­­­­129

Il pianeta errante (1965) di Anthony Dawson, pseud. di Antonio Margheriti, 74. I piccoli maestri (1998) di Daniele Luchetti, 111. Piccolo mondo antico (1941) di Mario Soldati, 30-31. Un pilota ritorna (1942) di Roberto Rossellini, 28. Una pistola per Ringo (1965) di Duccio Tessari, 77. Le pistole non discutono (1964) di Mario Caiano, 76. La polizia accusa: il servizio segreto uccide (1975) di Sergio Martino, 88. La polizia ringrazia (1972) di Steno, 87. Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, 102. Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, 92. Il postino (1994) di Michael Radford, 41, 102, 109. Il posto (1961) di Ermanno Olmi, 80. Poveri ma belli (1956) di Dino Risi, 47-48. I predatori della pietra magica (1988) di Anthony Richmond, pseud. di Tonino Ricci, 107. I predatori dell’arca perduta (Raiders of the Lost Ark, 1981) di Steven Spielberg, 106-107. Profondo rosso (1975) di Dario Argento, 89. Profumo di donna (1974) di Dino Risi, 94. Psycho (Id., 1971) di Alfred Hitchcock, 88. I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio, 62, 94.

Quattro mosche di velluto grigio (1972) di Dario Argento, 89. Quattro passi fra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti, 31. Quo Vadis? (1912) di Enrico Guazzoni, 12-13. I racconti di Canterbury (1972) di Pier Paolo Pasolini, 92. Rambo (First Blood, 1982) di Ted Kotcheff, 97, 106. I recuperanti (1970) di Ermanno Olmi, 80. Regalo di Natale (1986) di Pupi Avati, 104. Requiescant (1966) di Carlo Lizzani, 77. Resurrectio (1930) di Alessandro Blasetti, 21. Rififi (Du rififi chez les hommes, 1954) di Jules Dassin, 55. Rigoletto (1946) di Carmine Gallone, 26. Risate di gioia (1960) di Mario Monicelli, 51. Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis, 43, 49, 56. Robowar (1988) di Vincent Dawn, pseud. di Bruno Mattei Rocco e i suoi fratelli (1960) di Luchino Visconti, 107. Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, 11, 38-40, 57, 79. Romanzo criminale (2005) di Michele Placido, 114. Romanzo criminale (serie tv, 20082010) di Stefano Sollima, 115. Romolo e Remo (1961) di Sergio Corbucci, 51. Rose scarlatte (1940) di Giuseppe Amato e Vittorio De Sica, 27. Sacco e Vanzetti (1970) di Giuliano Montaldo, 85-86.

­­­­­130

Salò o le 120 giornate di Sodoma (1976) di Pier Paolo Pasolini, 91. Sansone contro i pirati (1963) di Tano Boccia, 73. Sansone e il tesoro degli Incas (1964) di Piero Pierotti, 53, 82. Sapore di mare (1982) di Carlo Vanzina, 101. Gli schiavi più forti del mondo (1963) di Michele Lupo, 74. Lo scopone scientifico (1975) di Luigi Comencini, 94. Il segno di Venere (1955) di Dino Risi, 47. Il segno di Zorro (The Mark of Zorro, 1920) di Fred Niblo, 26. Sei donne per l’assassino (1964) di Mario Bava, 88. Senso (1953) di Luchino Visconti, 45, 58. Senza pietà (1946) di Alberto Lattuada, 42. I sette samurai (Shichinin no samurai, 1954) di Akira Kurosawa, 76. La sfida dei giganti (1965) di Maurice A. Bright, pseud. di Maurizio Lucidi, 74. La sfida del samurai (Yôjinbô, 1961) di Akira Kurosawa, 76. Signore e signori, buonanotte (1976) scritto, prodotto e diretto dalla Cooperativa 15 Maggio (Age, Leo Benvenuti, Luigi Comencini, Piero De Bernardi, Nanni Loy, Ruggero Maccari, Luigi Magni, Mario Monicelli, Ugo Pirro, Furio Scarpelli ed Ettore Scola), 94. Il signor Max (1937) di Mario Camerini, 33. Sognando la California (1992) di Carlo Vanzina, 113.

Sogni d’oro (1981) di Nanni Moretti, 102-103. Il sole sorge ancora (1946) di Aldo Vergano, 43. I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, 55, 59, 67, 69, 93. Il sorpasso (1962) di Dino Risi, 6970. Speriamo che sia femmina (1986) di Mario Monicelli, 105. Lo spettro (1963) di Robert Hamp­ ton, pseud. di Riccardo Freda, 44. Lo squalo (Jaws, 1975) di Steven Spielberg, 93. Le stagioni del nostro amore (1966) di Florestano Vancini, 81. La stanza del figlio (2001) di Nanni Moretti, 110. Stasera niente di nuovo (1942) di Mario Mattoli, 35. La sua giornata di gloria (1969) di Edoardo Bruno, 94. La tarantola dal ventre nero (1971) di Paolo Cavara, 90. Tempo massimo (1934) di Mario Mattoli, 35. Il tempo si è fermato (1959) di Ermanno Olmi, 80. Teresa Venerdì (1941) di Vittorio De Sica, 35. Toby Dammit (episodio del film collettivo Tre passi nel delirio, 1968) di Federico Fellini, 77. Tombolo paradiso nero (1947) di Giorgio Ferroni, 42. Totò le Mokò (1949) di Carlo Ludovico Bragaglia, 55. Totò Tarzan (1950) di Mario Mattoli, 55. Trapianto consunzione e morte di Franco Brocani (1969) di Mario Schifano, 63.

­­­­­131

I tre aquilotti (1942) di Mario Mattoli, 28. Treno popolare (1933) di Raffaello Matarazzo, 36. Trevico-Torino viaggio nel FiatNam (1972) di Ettore Scola, 96. Turné (1990) di Gabriele Salvatores, 94, 104. Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, 68-69. L’uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento, 89. Ulisse (1954) di Mario Camerini, 48, 50. Gli ultimi giorni di Pompei (1959) di Mario Bonnard e Sergio Leone, non accreditato, 54. L’ultimo cacciatore (1980) di Anthony Dawson, pseud. di Antonio Margheriti, 107. L’ultimo imperatore (1987) di Bernardo Bertolucci, 103. Umano non umano (1971) di Mario Schifano, 63. Gli uomini che mascalzoni… (1932) di Mario Camerini, 33, 35. Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis, 30, 32. Vacanze di Natale (1983) di Carlo Vanzina, 112.

Vacanze romane (Roman Holiday, 1953) di William Wyler, 49. Vamos a matar, compañeros (1970) di Sergio Corbucci, 78. Vecchia guardia (1934) di Alessandro Blasetti, 30-31. La vendetta di Ercole (1960) di Vittorio Cottafavi, 74. La vendetta di Spartacus (1963) di Michele Lupo, 74, 81. Ventottesimo minuto (1992) di Pao­lo Frajoli, 95. Vincere! (2009) di Marco Bellocchio, 110. I vinti (1953) di Michelangelo Antonioni, 58. Una vita difficile (1961) di Dino Risi, 69. La vita è bella (1997) di Roberto Benigni, 41, 102, 109. La vita ricomincia (1946) di Mario Mattoli, 42, 44. I vitelloni (1953) di Federico Fellini, 66. Viva il 1° maggio rosso proletario (1970) di Marco Bellocchio, 96. Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli, 93. Zombi (Dawn of the Dead, 1978) di George A. Romero, 106. Zombi 2 (1979) di Lucio Fulci, 106.