Roma Imperiale. Una metropoli antica [Paperback ed.] 8843055577, 9788843055579

Che l'abnorme livello della popolazione di Roma e di conseguenza le dimensioni della città e dei suoi edifici pubbl

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Roma Imperiale. Una metropoli antica [Paperback ed.]
 8843055577, 9788843055579

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R MA IMPERIALE Un� metropoli antica

A cura di Elio Lo Cascio

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Carocci

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Roma imperiale Una metropoli antica A cura di Elio Lo Cascio

@ Carocd editore

Le traduzioni dei capitoli

2,

3 e , sono di Raffaella Biundo.

3• rist1UJ1pa, maggio 2006 1 • edizione, ottobre 2000 10 copyright 2000 by Carocci editore S.p.A., Roma Finito di at1UJ1pare nel maggio 2oo6 per i tipi delle Arri Grafiche Editoriali Sri, Urbino

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

II

1.

La popolazione di Elio Lo Cascio

17

1.1.

Introduzione Le basi documentarie per il calcolo della popolazione di Roma La popolazione in età repubblicana La popolazione in età imperiale La popolazione di Roma era in grado di riprodursi? Dall'età di Commodo e dei Severi al v secolo

17

1 .2.

1.3. 1 .4. 1.5. 1 .6. 2.

2.1. 2.2.

2.3.

2.4. 2.5.

71

La La Le La La

73 77

prefettura urbana prefettura del pretorio grandi curatele urbane prefettura dell'annona e le /rumentationes prefettura dei vigili

L'approvvigionamento di Roma imperiale: una sfida quotidiana di Catherine Virlouvet

3.1.

L'approvvigionamento dell'Urbs: il fabbisogno e i vincoli L'attuazione di una politica di approvvigionamento (1 secolo a.C.-11 secolo d.C.) Dal n al v secolo d.C.: trasformazioni e ampliamento del sistema di approvvigionamento

3.3.

27 39 43 56

I grandi servizi pubblici a Roma di Anne Daguet-Gagey

3.

3.2.

21

7

82

93 95 103 rn5 rn9 121

4.

Il funzionamento degli acquedotti romani di Christer Bruun

4. r.

Premessa: gli acquedotti e le sette meraviglie del mondo La costruzione degli acquedotti Amministrazione e legislazione: la cura aquarum Acqua per i pochi e per i molti: la distribuzione

4.2. 4. 3. 4.4.

r37

5.

Case e abitanti a Roma di Andrew Wallace-Hadrill

r73

5. r.

Introduzione La Roma più antica Roma repubblicana Dal Palatino al Palazzo La città imperiale Il tardoantico Conclusioni

r73 r76

5.2. 5.3. 5+ 5. 5. 5.6. 5.7.

r8o r88 r95 2I0 2I2

6.

Gli spazi della vita sociale di Filippo Coarelli

22I

6.r. 6.2.

Stationes e amministrazione a Roma Il Foro I vici Gli edifici per lo spettacolo La casa dell'aristocrazia Terme, portici e giardini

223 230 233 235 240 2 43

7.

L'edilizia pubblica e sacra di Francesca de Caprariis e Fausto Zevi

2 49

7. r.

La "grande Roma dei Tarquini" e la definizione dello spazio urbano Il tempio di Concordia e la città mediorepubblicana Il Circo Flaminio e l'architettura trionfale La porticus, edificio plurifunzionale La "Roma degli Emilii" Le basiliche e l'edilizia forense I progetti di Cesare e le realizzazioni di A ugusto: nuovi fori e l'assetto del Foro romano

6.3.

6+ 6.5.

6.6.

7.2.

7-3,

7.4. 7.5.

7.6. 7.7.

8

2 49

255 259 26r 267

269

274

277

Augusto e Roma L'età giulio-claudia 7.9. 7.ro. I Flavi 7.II, Traiano 7.r2. Adriano 7.8.

287 292

296

302

8.

Architettura e urbanistica: dalla città-museo alla città santa di Federico Guidobatdi

8.r. 8.2. 8.3.

Fino ai Severi L'età severiana Dai Severi alla Tetrarchia L'età tetrarchica e Massenzio L'età costantiniana La città autonoma dalla partenza di Costantino (326) al rientro di Teodosio (386?) Da Teodosio a Valentiniano rn Da Petronio Massimo a Gregorio Magno Conclusioni

336 34r 345

Gli autori

353

8.4.

8.5.

8.6.

8.7. 8.8.

8.9.

9

3 r5 3I5 317

322 324 328 333

Premessa

Tra il n secolo a.C. e il 1v d.C. Roma è stata la più grande città del­ l'area mediterranea, senza rivali nell'occidente europeo e nel Vicino Oriente. Il livello di popolazione e le dimensioni stesse dell'abitato raggiunti da Roma non sono stati per di più superati che assai più tardi, nelle regioni che erano entrate a far parte dell'enorme suo im­ pero come in quelle ad esse contermini: e sono stati superati solo a seguito di quella modificazione radicale degli assetti produttivi e del1'organizzazione della società che è venuta con la rivoluzione indu­ striale. L'esperienza di Roma come metropoli preindustriale o méga­ pole, per usare un felice neologismo francese, appare dunque del tut­ to singolare nella storia del mondo occidentale. L'espansione urbana di Roma si presenta tuttavia anche come esemplare dell'espansione urbana del mondo antico. La scala dell'ur­ banizzazione raggiunta dall'impero romano ha ben pochi confronti nella storia tanto dell'Occidente, quanto delle civiltà extraeuropee, e non solo per il numero dei centri, ma anche per le dimensioni co­ spicue di alcuni di essi. Ancora una volta, è solo con l'avvio dell'in­ dustrializzazione che cominciano a esservi nuovamente grandi con­ centrazioni di molte centinaia di migliaia di abitanti. Nell'impero ro­ mano le città di queste dimensioni erano, viceversa, abbastanza nu­ merose, anche se nessuna poté mai ovviamente rivaleggiare con Roma. Roma metropoli antica è dunque, a un tempo, unica e tipica di ciò che è stato il fenomeno urbano nel mondo romano: per un verso è la manifestazione estrema dell'urbanesimo nell'antichità, per un al­ tro rappresenta il modello sul quale si costruisce, e si diffonde, la ci­ viltà urbana nelle regioni, segnatamente del Mediterraneo e del conti­ nente europeo, che non l'avevano conosciuta prima di entrare a far parte dell'organizzazione politica romana. Peraltro, essendo il grande impero territoriale un impero su base cittadina, il suo caput ne rap­ presenta come il microcosmo: Roma lo è, ad esempio, nelle sue relaII

ROMA IMPERIALE

zioni sociali fortemente sbilanciate, nelle quali assumono un ruolo primario la schiavitù o i rapporti di patronato e clientela; e le istitu­ zionalizzate partizioni di una società strutturata per ordines, e non per classi, trovano un'esemplare manifestazione nella separazione dei posti nei luoghi di spettacolo tra i vari gruppi della società e tra gli stessi due sessi, e un risvolto molto pratico e concreto nel differenzia­ to accesso all'utilizzazione di taluni servizi pur destinati all'intera po­ polazione, come l'approvvigionamento idrico. Per un altro rilevante aspetto Roma è il microcosmo dell'impero: per la composizione mul­ tietnica della sua popolazione, che appare indicativa del carattere for­ se più peculiare dell'impero di Roma a paragone di altri imperi della storia, la sua capacità di integrare l'altro, lo straniero, facendolo dive­ nire cittadino. Questa natura di Roma come microcosmo dell'impero, come città unica e tuttavia modello di tutte le altre città romane, è ciò che dà la sua inconfondibile forma al "modo di vivere alla romana" nel centro dell'impero, nella sua dimensione sociale e culturale: ai luoghi e alle occasioni dello stare assieme per la massa della popolazione (dai ludi alle terme alla stessa vita religiosa, connessa sin dalle origini coi ludi) o alla dimensione "pubblica" e "privata" dello stile di vita dell'élite, che si manifesta attraverso la forma e la struttura delle sue case. Non solo sin quando venne garantita una partecipazione in qualche modo effettiva del corpo civico alla decisione politica, ma anche successiva­ mente, Roma peraltro rappresentò anche il prototipo sul quale si co­ struivano le forme di autogoverno delle cellule locali dell'Italia e delle province, rimaste vitali sino alla tarda antichità. Anche per questo motivo, l'aspetto fisico della città poteva costituire il modello delle migliaia di città dell'impero e nello stesso tempo appariva del tutto sui generis, com'è ovvio, visto che si trattava della città che l'impero aveva costruito, che all'impero aveva dato le sue forme durevoli di governo e di amministrazione, che ne avrebbero garantito la sopravvi­ venza per molti secoli. L'unicità di Roma si accentua, dopo l'ultimo convulso periodo delle guerre civili, con l'avvento del nuovo regime del principato. li momento augusteo è davvero un momento epocale su vari piani: su quello dell'amministrazione, su quello della progressiva strutturazione urbanistica e monumentale della città, su quello dei "servizi" offerti alla sua popolazione. Le innovazioni di questi decenni sono destinate a dare alla vita della città la sua forma per più secoli e molto oltre la cesura rappresentata - per l'impero nel suo complesso - dalla crisi del m secolo e dalla nascita del "nuovo stato" di Diocleziano e Co­ stantino. I2

PREMESSA

Con l'avvio del principato l'amministrazione diviene più comples­ sa e articolata, assai meno "rudimentale" di com'era stata in età re­ pubblicana, ma nello stesso tempo si mantiene agile e capace di pie­ garsi alle contingenze: capace di rispondere ai problemi che a mano a mano si affacciano. Assumono un rilievo che non avevano, come stru­ menti di governo e di amministrazione, i documenti scritti e la loro conservazione in archivi. La struttura amministrativa si articola anche per garantire una sempre più ampia varietà di "servizi", dall'approv­ vigionamento idrico, all'approvvigionamento alimentare, alla manu­ tenzione e pulizia delle strade e delle rive del Tevere, alla tutela del1'ordine pubblico. L'aspetto monumentale della città viene condizio­ nato a divenire momento e strumento essenziale di autorappresenta­ zione del princeps e della domus imperiale. Le dimensioni della popolazione di Roma e il carattere stesso del­ la città come "padrona" dell'impero determinano, peraltro, già molto prima della svolta augustea il ruolo che la città assume anche nella vita economica dell'impero, con le sue propaggini (rappresentate dal­ le due città, Puteoli e Ostia, che devono in qualche modo la loro per­ sistenza di centri urbani di dimensioni cospicue al fatto di essere i porti di Roma). La crescita esponenziale della popolazione con l'età tardo repubblicana e poi la stabilizzazione con la prima età imperiale ne fanno il massimo centro di consumo delle eccedenze alimentari di vaste zone del Mediterraneo: si può dire che Roma assuma una fun­ zione di "acceleratore" di quella sia pure modesta crescita economica che si realizza nell'età imperiale. Nello stesso tempo la posizione pri­ vilegiata di un settore della sua popolazione e la necessità, da parte del governo imperiale, per garantire la pace sociale e il controllo del1'ordine pubblico, di preoccuparsi degli approvvigionamenti della cit­ tà, determinano pur cauti interventi del potere nella sfera economica. In un orizzonte preindustriale una concentrazione urbana delle pro­ porzioni di Roma è destinata, dunque, a condizionare pesantemente la forma delle relazioni economiche all'interno dell'impero, i flussi commerciali, le vocazioni produttive di molte aree. Anche se gli studi più recenti tendono a ridimensionare, e a ragione, il carattere sempre più "dirigistico" che avrebbe assunto l'intervento dello "stato" nella vita economica a partire dall'età severiana e insistono sul ruolo dei privati e per esempio del commercio privato, non c'è dubbio che al­ cuni aspetti peculiari del modello imperiale romano (la sua fiscalità in parte in natura e piegata a rispondere alle esigenze di consumo di Roma, l'estendersi della proprietà imperiale e il ruolo del tutto singo­ lare che assume l'imperatore come massimo evergete e in qual�è 13

ROMA IMPERIALE

modo patrono della plebe urbana) condizionano in modo pesante la parte che giocano gli attori economici privati. Che l'abnorme consistenza della popolazione di Roma e di conse­ guenza le dimensioni del centro urbano e dei suoi edifici pubblici e sacri siano un diretto portato dell'impero è ovvio. Rimane tuttavia da chiedersi attraverso quali strumenti concreti si è garantita, in uno sce­ nario preindustriale, la sopravvivenza per molti secoli di Roma come grande città; in quali modi il suo assetto urbanistico sia andato evol­ vendo e come è andato mutando, nei vari momenti, lo stile di vita dei vari strati della sua popolazione - dai senatori ai cittadini beneficiari delle distribuzioni gratuite di alimenti, ai peregrini, agli schiavi. È so­ stanzialmente a questi interrogativi che cercano di rispondere i vari capitoli che compongono questo volume. Il primo tratta della storia della popolazione della città, studiandone la composizione, indivi­ duando i momenti nei quali essa è cresciuta più rapidamente e ana­ lizzando le ragioni di questa crescita nonché della persistenza di un elevato numero di abitanti sino al rv secolo d.C. Il secondo illustra la maniera nella quale, nel corso della prima età imperiale, sono stati assicurati alla popolazione di Roma alcuni servizi essenziali (dal man­ tenimento dell'ordine pubblico alla prevenzione e all'estinzione degli incendi), mettendo in rilievo l'agilità e la capacità di adattamento alle varie situazioni della struttura amministrativa creata per la città. Il terzo capitolo individua le varie fasi attraverso le quali è stata posta in essere un'organizzazione complessa e articolata per garantire la re­ golarità dell'approvvigionamento alimentare e la distribuzione soprat­ tutto del grano ai suoi abitanti. Il quarto ricostruisce la storia degli acquedotti romani e il funzionamento del servizio del rifornimento idrico in età imperiale, passando in rassegna le notizie delle fonti an­ tiche, e soprattutto il trattato di Frontino (fine del r sec. d.C.) dedica­ to a questo argomento, nonché la documentazione archeologica, quali i resti monumentali degli acquedotti e i tubi di piombo che sono per­ venuti sino a noi. Il quinto capitolo studia come si sia andata modifi­ cando la struttura e la funzione delle case di Roma, dalle residenze imperiali alle domur aristocratiche, agli edifici a più piani dove abita­ va la massa della popolazione, e come la maniera dell'abitare abbia potuto costituire un elemento essenziale nella costruzione del proprio ruolo sociale da parte dell'élite e una forma di autorappresentazione anche per l'imperatore. Il sesto, dopo avere identificato gli edifici nei quali erano verosimilmente le sedi di alcuni fra i dipartimenti ammi­ nistrativi della città e dell'impero, tratta degli spazi dove la popolazio­ ne si incontrava e dove si svolgeva· la vita sociale, dal foro, ai quartie­ ri, alle terme, alle strutture destinate alle attività di intrattenimento e

PREMESSA

agli spettacoli. Il settimo capitolo descrive com'è cambiato il volto monumentale della città tra l'età di Servio Tullio e il III secolo d.C., individuando i vari momenti del suo sviluppo urbanistico e la storia dei suoi edifici pubblici e sacri. L'ultimo capitolo analizza, infine, le trasformazioni cui andò soggetto il tessuto urbano di Roma a partire dall'età severiana e per tutto il corso dell'età tardoantica, soprattutto in conseguenza dell'affermarsi della nuova religione.

Ij

I

La popolazione di Elio Lo Cascio

I.I

Introduzione C'è una caratteristica distintiva che apparenta le regioni del Mediter­ raneo e quelle dell'Europa centrosettentrionale che hanno fatto parte dell'impero di Roma e che si manifesta, attraverso i resti materiali, ancora oggi con tanto maggiore evidenza, quanto più radicali si rive­ lano le differenze delle varie regioni su altri piani: questa caratteri­ stica è il numero consistente e la capillare diffusione dei centri urbani che risalgono all'epoca romana. Il grado di urbanizzazione dell'impe­ ro di Roma è certamente assai elevato anche a confronto di quello che si è registrato nell'Occidente europeo medievale e moderno (oggi peraltro collocato su un livello assai più alto di quanto si ritenesse in passato) 1• Ciò che per di più è mancato all'Occidente medievale e moderno sino quasi alle soglie dell'industrializzazione sono centri con diverse centinaia di migliaia di abitanti: solo dopo il 1700 vi furono tre città che superarono i 500.000 abitanti nei territori che facevano parte dell'impero romano (Istanbul, Parigi e Londra). Nel 1 e nel 11 secolo d.C. le città molto popolate erano, viceversa, un numero abba­ stanza cospicuo: tra di esse si annoveravano Alessandria, Antiochia, Seleucia, Cartagine, Efeso, Pergamo, ma soprattutto, ovviamente, Roma. La città di Roma è stata certamente la più popolata metropoli in tutta la storia dell'Occidente europeo sino alla rivoluzione indu­ striale: con un numero di abitanti presumibilmente non lontano dal milione se non addirittura superiore nel periodo dell'apogeo del­ l'impero, Roma sarebbe stata raggiunta solo agl'inizi del XIX secolo da Londra. Una simile concentrazione urbana in un orizzonte preindustriale poneva ovviamente una serie di problemi a chi la abitava e a chi ne doveva garantire la funzionalità e la sopravviven17

ROMA IMPERIALE

za come centro urbano. La sistemazione abitativa della popolazione richiedeva un'estensione delle aree edificate ovviamente senza co­ mune misura con gli altri centri, coi problemi che potevano deriva­ re dalla difficoltà e dalla lentezza degli spostamenti, oltre che dalla numerosità dei veicoli che ne affollavano le strade anguste. L'ap­ provvigionamento alimentare e idrico e la stessa distribuzione di cibo ed acqua all'interno della città richiedevano un'organizzazione capillare. L'affollamento rendeva estremamente difficoltoso garantire non solo condizioni igienico-sanitarie adeguate, ma anche il mante­ nimento dell'ordine pubblico e nello stesso tempo livelli accettabili di socializzazione: in una parola una "qualità della vita" non infe­ riore a quella che si sperimentava nel resto dell'impero e semmai superiore, e non solo per gli appartenenti ai ceti elevati. La popolazione di Roma non era solo cospicua, ma era anche pe­ culiare nella sua composizione, come già notavano gli autori antichi: la contraddistingueva la presenza, una volta che la città ebbe conqui­ stato l'impero, di immigrati stabili o anche temporanei provenienti in primo luogo dalle aree più prossime dell'Italia, ma poi dalle regioni più disparate e lontane dal centro. Non è anacronistico affermare che Roma era, dal punto di vista della sua popolazione, multietnica e multiculturale, e questo suo carattere era sottolineato dal fatto che a Roma convergevano non solo le persone da tutto l'impero, ma anche le cose: nell'orazione in lode di Roma che Elio Aristide pronunciò davanti all'imperatore Antonino Pio, presumibilmente nel 143 2, il re­ tore greco osservava come tutto ciò che si produceva nell'impero po­ tesse trovarsi a Roma. La presenza degli stranieri, dei peregrini, era peraltro in larga misura il prodotto di un'altra peculiarità della Roma imperiale, a confronto delle concentrazioni urbane dell'Europa me­ dievale e moderna: la presenza cospicua degli schiavi soprattutto orientali, impegnati in primo luogo, ma non solo, come servitù dome­ stica in ruoli estremamente differenziati nelle grandi e grandissime domus dell'élite, come ci mostrano alcuni casi emblematici, quale quello, ad esempio, di un esponente di rilievo dell'élite senatoria a­ gl'inizi dell'età imperiale, Pedanio Secondo, proprietario di 400 schia­ vi tutti presenti nella sua casa, quando fu assassinato da uno di loro 3• Poiché la più significativa delle caratteristiche distintive della schiavi­ tù a Roma, rispetto ad altre società con una forte presenza di schiavi­ merce del mondo antico e del mondo moderno, era l'estrema facilità con cui gli schiavi, specialmente quelli impegnati in attività diverse dalla produzione agricola o dall'estrazione mineraria, venivano libera­ ti, il numero cospicuo degli schiavi presenti a Roma si traduceva in un numero pure notevolmente cospicuo di liberti. 18

LA POPOLAZIONE

Gli schiavi liberati, per di più, a Roma divenivano immediatamen­ te anche cittadini, soggetti certo a qualche limitazione di diritti, che tuttavia i loro figli nati dopo la manomissione non soffrivano più. L'integrazione dei liberti e ancor più dei figli di liberti era a questo punto automatica e a non ostacolarla giocava anche la pressoché tota­ le assenza di atteggiamenti o pregiudizi razzistici. Il peso dell'elemen­ to libertino ndla popolazione di Roma è stato considerato dalla ri­ cerca moderna, per alcuni periodi almeno, come quello tardorepub­ blicano, addirittura maggioritario: a prima vista le statistiche che si possono derivare da quel complesso documentario impressionante per le stesse sue dimensioni che sono le epigrafi funerarie parrebbero testimoniare che l'elemento libertino costituisse addirittura la schiac­ ciante maggioranza della popolazione libera della città e che gli inge­ nui - i nati liberi - fossero una sparuta minoranza. In realtà, non è legittimo per molte ragioni considerare il campione costituito dalle epigrafi funerarie come rappresentativo della composizione della po­ polazione cittadina (è probabile che fra i liberti, per vari motivi, fosse più frequente l'uso di porre una lapide funeraria iscritta ai propri congiunti, di quanto non lo fosse tra gli ingenui soprattutto di condi­ zione economica più modesta). Ma sulla rilevanza anche quantitativa dell'elemento libertino nella popolazione di Roma non si possono nu­ trire dubbi. Questa rilevanza aveva anche un altro importante effetto: i liberti costituivano sicuramente l'elemento più dinamico della socie­ tà romana, quello più interessato a perseguire il proprio arricchimen­ to personale e più in grado di tradurre il miglioramento della propria condizione economica in un'elevazione del proprio status sociale. La presenza numericamente rilevante dei liberti contribuiva dunque a rendere la società urbana di Roma assai più mobile di quelle delle altre città dell'impero. Le occasioni dell'ascesa sociale dei liberti erano indubbiamente collegate con le molteplici attività economiche che si svolgevano in una città come Roma. Il proletariato urbano, se è legittimo definirlo così, era impegnato nelle molte attività necessitate dalla stessa pre­ senza di una così ingente popolazione: era impegnato in particolare nell'edilizia. A questo proletariato doveva essere assicurata, anche per garantire l'ordine pubblico, un'occupazione sia pure precaria. Una precisa consapevolezza di questa esigenza emerge da un aneddoto che racconta Suetonio, nella sua biografia di Vespasiano, un impera­ tore che si caratterizza, per la stessa sua estrazione familiare, come esponente della nuova "borghesia", com'è stata definita 4, proveniente dalle piccole città della penisola e che si fa portatrice delle doti del suo ceto di provenienza, l'operosità, la frugalità, la parsimonia, di r9

ROMA lMPERJALE

fronte alla sfrenata manifestazione del lusso che aveva caratterizzato gli ultimi anni del principato dei Giulio-Claudii. Un ingegnere o ar­ chitetto (mechanicus) portò a Vespasiano un aggeggio che poteva es­ sere utilizzato per trasportare, risparmiando il lavoro umano, le co­ lonne sul Campidoglio. Vespasiano lodò e premiò l'inventore, ma non fece nulla della sua invenzione: voleva che gli si consentisse di continuare a «p/ebiculam pascere», "dare da mangiare al popolino" '· L'aneddoto è stato variamente interpretato, ma sembra che se ne debba necessariamente concludere che era la plebicula, e non l'ele­ mento servile della popolazione cittadina, a essere impiegata nell'in­ dustria delle costruzioni. Se ne dedurrà altresl che sarebbe eccessivo definire Roma una città di nullafacenti e la sua popolazione libera una popolazione del tutto parassitaria. E tuttavia è vero che Roma era in un certo senso una città pa­ rassitaria: nel senso che riceveva - e non poteva essere altrimenti - i suoi rifornimenti alimentari e non solo alimentari dall'esterno e da molto lontano e non li pagava attraverso un'importante produzione di manufatti destinati all'esportazione. Certo, l'industria laterizia nei dintorni anche prossimi di Roma alimentava non solo l'attività edilizia della città o di Ostia, ma anche produceva ad esempio per l'esporta­ zione nei centri urbani dell'Africa settentrionale 6• Ma si trattava co­ munque di un'attività in qualche modo connessa con le stesse esigen­ ze di approvvigionamento di Roma: i mattoni costituivano infatti for­ se il più importante dei carichi di ritorno per le navi che a Roma trasportavano le derrate provenienti dalle province transmarine 7 • Di altre attività, che possono avere comportato una produzione destinata all'esportazione, visto che non sono superstiti resti materiali, è diffici­ le rilevare le tracce. I rifornimenti per Roma provenivano dall'Italia, soprattutto cen­ trale, com'è ovvio, ma poi anche e anzi soprattutto dalle province transmarine, per la stessa consistenza quantitativa delle derrate richie­ ste dalla sua popolazione e per l'incidenza rispettiva dei costi del tra­ sporto via terra, via fiume navigabile e via mare, che rendeva assai meno costoso trasportare anche per lunghe distanze carichi di mode­ sto valore rispetto al loro peso, come ad esempio il grano, via mare che non via terra per distanze assai più brevi (e anche se si è di re­ cente messo convincentemente in rilievo 8 che i trasporti via terra che potevano sfruttare l'imponente rete stradale costruita in Italia con vie che si distribuivano a raggiera da Roma devono essere stati meno economicamente svantaggiosi e comunque quantitativamente più co­ spicui di quanto non si pensi generalmente: il trasporto via mare, ol20

LA POPOLAZIONE

tre tutto, non poteva essere effettuato in tutti i mesi dell'anno, ma solo nella bella stagione). Ma soprattutto essenziale era il fatto che in buona misura le im­ portazioni Roma non le pagasse, in quanto le amministrazioni della res publica e poi del princeps si preoccupavano di far arrivare grano e altre derrate di origine contributiva: vale a dire le imposte in natura che pagavano le province e i canoni in natura dell'ager publicus pro­ vinciale e poi delle proprietà imperiali. Queste imposte e questi cano­ ni in natura alimentavano in primo luogo le distribuzioni alimentari gratuite a un settore consistente della popolazione adulta maschile, e in quantità tale da soddisfare le esigenze di base non solo del capofa­ miglia, ma anche almeno di un'altra persona (liberandosi in tal modo risorse che le famiglie dei beneficiari potevano spendere per acqui­ stare altri beni alimentari o manufatti). L'esistenza delle frumentazioni è anche ciò che ha determinato la possibilità, per i moderni, di pervenire a stime sufficientemente solide del numero degli abitanti della città. Nella documentazione che ci è pervenuta a proposito delle frumentazioni non mancano dati quanti­ tativi abbastanza precisi e sicuramente affidabili, da cui partire per valutare l'entità della popolazione residente a Roma, o quanto meno di quella che vi risiedeva in pianta stabile e che beneficiava per l'ap­ punto delle distribuzioni gratuite: a partire dall'età cesariana, veniva effettuata una periodica registrazione di questi cives Romani regolar­ mente residenti a Roma e che proprio per essere legittimamente resi­ denti avevano titolo a ricevere una razione mensile di cinque modii qi grano. I.2

Le basi documentarie per il calcolo della popolazione di Roma È facile rinvenire, negli scritti relativi alla storia economica del mon­ do antico, una considerazione in sé apparentemente banale, che bene assolve alla funzione di premessa a una dichiarazione di metodo lar­ gamente condivisa: l'asserita impossibilità di fare storia autenticamen­ te quantitativa. Si dice normalmente, seguendo un'icastica formulazio­ ne di Hugo Jones, che non esistono statistiche antiche: e che questa è appunto l"'ignominiosa verità", che rischia di gettare il discredito sui nostri tentativi di ricostruire la storia economica dell'antichità 9 • A maggior ragione una simile formulazione dovrebbe valere, apparente­ mente, per la ricostruzione del popolamento antico. In realtà, l'affer21

ROMA IMPERIALE

mazione nel suo carattere estremo è tutt'altro che rispondente alla verità. Anzitutto va osservato che il fatto che nella loro quasi totalità ci­ fre relative alle popolazioni antiche, alle loro dimensioni, alla loro struttura e alla loro dinamica non siano pervenute, non vuol dire ne­ cessariamente che non venissero effettuate delle registrazioni di tipo quantitativo e che tali registrazioni non venissero raccolte, soprattutto in organismi complessi come era l'impero e per motivi molto pratici e concreti 1 0• In realtà si può a buon diritto sostenere che un'organizza­ zione politica delle dimensioni e dell'articolata struttura di quella ro­ mana è stata non soltanto interessata a raccogliere, ma anche in gra­ do, entro certi limiti, di elaborare dati numerici relativi alla popola­ zione, per la risoluzione di problemi vitali legati alla sua sopravviven­ za (come per esempio il reclutamento e la fiscalità) e poi di renderli pubblici, anche se ciò che è poi pervenuto sino a noi sono solo fru­ stoli di informazioni. E tuttavia questi frustoli di informazioni rap­ presentano, per i moderni, utili indicatori degli ordini di grandezza in gioco, una volta che se ne sia filologicamente accertata in modo rigo­ roso l'attendibilità e se ne sia compreso il significato. Per la popola­ zione di Roma queste pur scarne indicazioni ci permettono di decide­ re se, al momento del suo massimo sviluppo, da collocare tra l'ultimo secolo dell'età repubblicana e il secondo dell'età imperiale, essa sia stata pari a duecentomila, a un milione o a due milioni di abitanti. Le cifre che possediamo, soprattutto per il mondo romano, sono peraltro un numero consistente, rispetto ad esempio a quelle che pos­ sediamo per l'Italia dell'età medievale u, e sono in linea di massima attendibili (anche se va sottolineato che sono proprio le cifre quelle che più facilmente possono guastarsi nella tradizione manoscritta). Esse risultano da una serie di registrazioni cui hanno dato luogo esi­ genze di carattere eminentemente pratico e delle quali, per ragioni parimenti pratiche, si è curata la conservazione in specifici archivi, la cui natura e collocazione ci sono spesso note. Le registrazioni in que­ stione si basavano su dichiarazioni di varia natura e contenuto, richie­ ste a varie categorie di persone: i maschi adulti capi di famiglia o i proprietari di immobili, ad esempio. Il fatto che le registrazioni si ba­ sassero su dichiarazioni di singoli e senza che sia sempre chiaro quale possibilità concreta di verifica vi fosse da parte della comunque rudi­ mentale macchina statale, rende certamente probabile la presenza di errori, come rende parimenti probabile, in determinate circostanze, una forte sottoregistrazione. In più, proprio per il carattere eminente­ mente pratico, e non di mera indagine conoscitiva a fini statistici, di tali registrazioni, le indicazioni numeriche che ci sono pervenute non 22

LA POPOLAZIONE

si riferiscono mai all'intera popolazione, comprensiva di tutti gli indi­ vidui di entrambi i sessi e di tutte le età, ma solo a una parte, defini­ ta, per l'appunto, in base al sesso e/o all'età, o in base alla condizione giuridica personale. Si pone dunque il problema di individuare, a partire da queste cifre indicative di una parte della popolazione, la popolazione nella sua interezza, utilizzando uno strumentario estre­ mamente vario, che comprende anche alcuni dei procedimenti stati­ stici oggi in uso per individuare, a partire da dati parziali, la compo­ sizione per età e per sesso di popolazioni imperfettamente note (come ad esempio quelle del Terzo Mondo, i cui dati censuali sono o poco attendibili o carenti). Anche per la popolazione di Roma si può andare al di là di mere «educated guesses», "congetture erudite", come sono state definite E in ogni caso il complesso di cifre che ci sono state trasmesse relati­ vamente a Roma nel corso della sua storia non ha confronti con le ben più esigue informazioni che possediamo per gli altri grandi centri urbani dell'antichità. Pur in presenza di questa documentazione senza paralleli, s'è acceso un dibattito plurisecolare sulle dimensioni della popolazione di Roma al momento del suo apogeo: le valutazioni nu­ meriche proposte vanno da qualche centinaio di migliaia ai quattro milioni ipotizzati da Giusto Lipsio nel Onquecento o addirittura ai quattordici ipotizzati da Isaac Voss nel Seicento 1 3 • Nella sua classica e ancora per molti aspetti insuperata opera complessiva sulla popola­ zione nel mondo greco-romano, del 1 886, Karl Julius Beloch indivi­ duò tre possibili strade per arrivare a una stima della popolazione di Roma. 12•

1 . La prima - che è anche quella che consentiva di arrivare a con­ clusioni più solide - conduce a una valutazione di un numero mini­ mo al di sotto del quale la popolazione di Roma non può essere an­ data: questo numero minimo era il numero dei beneficiari delle fru­ mentazioni e delle loro famiglie, che costituivano, entro la popolazio­ ne urbana, i residenti stabili di condizione libera e cittadina. Proprio in questo senso si può parlare di un numero minimo: non entrano nel computo né i peregrini, e cioè gli stranieri, né gli schiavi, né i cives Romani solo temporaneamente residenti a Roma 1 4• 2 . La seconda strada è quella che parte da una valutazione dell'e­ stensione della città e consente di arrivare alla stima di un numero massimo di abitanti che l'area edificata della città poteva contenere tenendo conto che l'indice di affollamento, che, come si vedrà, sarà stato elevatissimo, non può comunque avere superato certi limiti: a fornire un supporto documentario è certo prima di tutto la documen-

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tazione materiale (le mura di epoca più antica e le mura di Aureliano e l'area ddimitata dalle due cerchie, nonché i resti di strutture abita­ tive entro il circuito delle mura di Aureliano e anche al di là di esso), ma è anche un documento singolare che risale al rv secolo, quello rappresentato dai cosiddetti cataloghi regionari 1 ' , che ci forniscono dati quantitativi sul numero di edifici di abitazione nelle quattordici regiones (i moderni "rioni") in cui la città fu divisa a partire dall'età augustea. Di questo singolare documento risultano estremamente controverse la natura e la funzione: qualcuno ha potuto parlare, im­ propriamente e comunque anacronisticamente, di una sorta di guida per turisti, anche se il documento in sé non ha nulla che lo configuri come guida 16 • Se è vero che vi sono menzionati alcuni monumenti della città nella loro localizzazione regione per regione, è vero pure che non sono menzionati tutti i più importanti e la sdezione con la quale sono stati identificati quelli da citare risulta sostanzialmente in­ comprensibile. Dobbiamo rassegnarci a non potere individuare la fi­ nalità dd documento, com'esso si presenta. E tuttavia si comprende com'esso è stato costruito: a partire da documenti catastali che dove­ vano esistere e che peraltro sono quelli che hanno consentito la stessa redazione della pianta sulla quale è stata esemplata la famosa pianta marmorea dell'età severiana, di cui sono rimasti numerosi frammen­ ti 17• Un problema che si pone per quanto riguarda i singoli tipi di edifici (pistrina, ho"ea, lacus, lupanaria ecc.) è la mancata corrispon­ denza, assai spesso, dd numero che si può calcolare sommando le cifre rdative alle singole regiones e il numero complessivo che compa­ re nel documento riassuntivo (il hreviarium): ciò che rende più alea­ toria la possibilità di utilizzare queste cifre. Il problema più grave è però rappresentato dal dato numerico relativo alle insulae, agli edifici di abitazione a più piani e con più appartamenti, in tutta la città e nelle singole regiones: un numero talmente devato, nd complesso e per talune specifiche regiones, da risultare scarsamente credibile, qua­ lora attribuiamo a insula il significato, per l'appunto, di edificio indi­ pendente a più piani e diviso in più appartamenti. La soluzione dd­ l'aporia non è, come pure si è supposto da molti, il ritenere che il termine di insula avesse un altro significato nd documento rispetto a quello attestato nelle altre fonti - e cioè il senso di "piano" o di "ap­ partamento" , ma nd riconoscere nella parola il valore di termine tec­ nico per indicare l'unità di proprietà in quanto catastalmente registra­ ta, e tenendo presente il principio giuridico romano, che non conosce eccezioni, secondo il quale tutto ciò che è costruito su un'area appar­ tiene e non può che appartenere al proprietario dell'area medesi­ ma 18 • La situazione individuata dai Regionari è evidentemente quella

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FIGURA I

La divisione in regiones secondo F. Castagnoli

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che risulta da un continuo, secolare processo di suddivisione della proprietà delle aree urbane in unità piccole e piccolissime. È del tut­ to probabile, peraltro, che fra le insulae rientrino anche le aree pub­ bliche, con gli edifici che vi sono sopra costruiti, che devono avere occupato, soprattutto nelle regiones centrali di Roma, una grande estensione. L'utilità del documento, ai fini di una valutazione della popolazione di Roma nel rv secolo d.C. o in precedenza, rimane mo­ desta: esso vale, tuttavia, ancora una volta a farci escludere le stime più basse della popolazione di Roma che sono state avanzate. 3. La terza strada individuata dal Beloch è quella che cerca di rica­ vare da alcune poche indicazioni, peraltro cursorie e non sicuramente affidabili, delle fonti letterarie l'ammontare complessivo dei consumi di grano della città e di qui il numero di abitanti che potevano essere 25

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alimentati da questo grano: anche in questo caso il valore che questi sparsi accenni hanno in sé non è tanto quello di fornire una qualsiasi stima numerica della popolazione, quanto di restringere l'arco di va­ lori possibili. A queste tre strade se n'è aggiunta negli anni cinquanta una quarta, utilizzata da Santo Mazzarino e da André Chastagnol 1 9 : il calcolo della popolazione della Roma del IV e del v secolo a partire dalla quantità di carne di maiale che perveniva a Roma come contribuzione fiscale da alcune regioni dell'Italia meridionale e che veniva in lar­ ghissima misura distribuita gratuitamente a un settore cospicuo degli abitanti della città in razioni il cui ammontare è noto. Le informazio­ ni in questione si ricavano da alcune leggi del Codice Teodosiano. Questo complesso di dati numerici si rivela importante soprattut­ to perché consente verifiche incrociate che ci assicurano, se non della correttezza delle singole valutazioni riferite ai singoli momenti della storia della città di Roma nell'antichità, quanto meno dell'accettabilità di un ordine di grandezza. Ci consente dunque di escludere le stime esageratamente elevate fatte nel corso della storia del problema (e an­ cora in epoca da noi non lontana) 20 e quelle "ribassiste", ripetute ancora di recente, e in base alle quali la popolazione di Roma non avrebbe superato i 300.000-400.000 abitanti 2 1 • Altre indicazioni si sono volute trarre per i periodi per i quali non abbiamo una docu­ mentazione cifrata (ed essenzialmente per l'età repubblicana) da altri indicatori come il numero e la portata degli acquedotti, nell'ipotesi che essi consentano di stimare il volume d'acqua condotto nella città e di qui anche il consumo complessivo e pro capite. Ma la validità di tali indicazioni è per lo meno dubbia: non solo è difficile stimare dal­ l'insieme della nostra documentazione il volume d'acqua che perveni­ va a Roma nei diversi momenti, ma la stessa quantità d'acqua com­ plessiva può dirci ben poco: in effetti le esigenze di consumo idrico dipendevano dalle abitudini sociali e culturali e oltretutto potevano variare nel tempo. Si può peraltro dimostrare che la quantità d'acqua a disposizione della popolazione romana è stata, quanto meno a par­ tire dall'età augustea, di gran lunga maggiore di quella a disposizione degli abitanti dei centri urbani della stessa Europa sino ad epoca a noi assai vicina 2 2 • La prima via delle tre "belochiane" è indubbiamente quella che conduce ai risultati più affidabili e a un numero "minimo" di abitanti al di sotto del quale difficilmente si può scendere, a meno di non mettere in discussione la veridicità di una molteplicità di fonti che ci danno indicazioni convergenti: possiamo in tal modo eliminare dal

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novero delle possibilità le cifre più basse che sono state proposte, a meno di non pensare a una composizione diversa, per età e per sesso, del gruppo scelto dei beneficiari che sono, in linea di massima, i cives Romani maschi oltre i diciassette anni, che hanno residenza stabile nella città, ivi compresi i suoi immediati dintorni, sino al confine del territorio dei centri urbani che circondano Roma 2 3 • Tutti questi dati, nel loro complesso, concorrono, dunque, a darci una "forchetta", un arco di valori entro cui si deve collocare la popo­ lazione della città nel periodo in cui è stata più elevata. Ma ci con­ sentono pure, entro certi limiti, con maggior precisione in alcune epoche e minore in altre, di definire l'evoluzione quantitativa della popolazione di Roma: un'evoluzione quantitativa determinata dall'in­ cremento o dal decremento naturale, ma soprattutto dall'immigrazio­ ne. Si può legittimamente sostenere che siamo in grado di identificare i momenti nei quali c'è stato un repentino aumento della popolazione per effetto di un accentuato movimento immigratorio e quelli nei quali c'è stata una repentina diminuzione della popolazione, a segui­ to, sostanzialmente, di un movimento inverso: il caso emblematico è quello della forte diminuzione della popolazione della città dopo il sacco alariciano del 410 d.C. 1 .3

La popolazione in età repubblicana Per la fase più antica della storia repubblicana di Roma non abbiamo purtroppo dati cifrati nella tradizione per formulare stime della popo­ lazione della città. Possediamo, trasmesse dalla tradizione annalistica confluita sostanzialmente in Livio e nelle periochae liviane, nonché nella tradizione antiquaria, una quarantina di cifre indicanti i risultati dei censimenti dall'età di Servio Tullio al I secolo a.C., di norma rife­ rite con quella che appare essere formula ufficiale: «censa sunt civium capita tot» 24 • I civium capita computati in occasione dei censimenti sono l'insieme dei cittadini, maschi adulti, che abitavano a Roma e nell'ager Romanus: coloro che potevano prendere le armi, che paga­ vano i tributi e che partecipavano alla vita politica. La veridicità e la significatività di queste cifre nel loro complesso, o almeno di quelle che si riferiscono al periodo dal III secolo in avanti, non sembra che possano essere seriamente messe in discussione, quale che sia il valore che ha ciascuna, presa singolarmente. Da queste cifre non è possibile, tuttavia, trarre indicazioni affidabili sulla popolazione che abitava nel­ la città, salvo, forse, per il periodo più antico, quando l'estensione

ROMA IMPERIALE

dell'ager Romanus era assai limitata. E tuttavia sono proprio le cifre più antiche quelle della cui attendibilità si deve dubitare. Queste cifre sono generalmente ritenute incredibili perché, se in­ tese come indicative dei maschi adulti, alla stregua di quelle successi­ ve dell'età repubblicana, configurerebbero un rapporto tra popolazio­ ne e territorio assurdo, una densità incredibilmente elevata di popola­ zione. E certamente a non deporre a favore della loro autenticità è anche la difficoltà di ammettere che informazioni di questo tipo si siano potute conservare per il periodo lungo di secoli che precede l'avvio di una scrittura storica in forma di Annali a Roma: come avrebbero potuto essere trasmesse queste cifre? attraverso quali cana­ li? Pur prevalendo un atteggiamento di grande scetticismo, non sono mancati tentativi recenti di recuperare la credibilità di questi dati numerici 2 ' . Una delle ragioni certo più forti per ritenerli in qualche modo fe­ dedegni è il fatto che le cifre registrano una diminuzione dei civium capita durante il v secolo, quando sappiamo che c'è stato effettiva­ mente un momento di riflusso, rispetto all'ultima fase della monar­ chia etrusca (un momento di riflusso confermato dalla documentazio­ ne materiale). È difficile credere che la tradizione, naturalmente por­ tata a sottacere quegli eventi e quegli sviluppi che potessero mettere in discussione l'inarrestabilità della marcia di Roma verso il dominio della penisola e poi dell'intero bacino del Mediterraneo, si sia inven­ tato un declino della popolazione 26 • Visto che le cifre risultano esse­ re inaccoglibili in sé perché troppo elevate e visto che risulta, vice­ versa, credibile l'evoluzione nel tempo che esse configurano, si è ten­ tato allora di individuare nei civium capita qualche cosa di diverso dai soli maschi adulti. Secondo alcuni, queste prime enumerazioni avreb­ bero coinvolto l'intero corpo civico comprensivo delle donne e dei fanciulli 27 • Secondo altri, il dato relativo ai civium capita, per questi primi censimenti e sino alla metà del quarto secolo, sarebbe quello relativo non solo ai cittadini romani, ma a tutti i maschi adulti delle città della lega latina: Roma, dunque, e tutte le comunità che avevano stretto un /oedus con Roma nei primi anni della Repubblica 28 • Che il computo potesse riguardare il complesso delle comunità della lega la­ tina può essere ritenuto plausibile alla luce del fatto che la finalità originaria del censimento dev'essere stata quella di individuare il nu­ mero di «qui arma /e"e possent» 29 , e dunque di tutti coloro che po­ tevano entrare a far parte dell'exercitus socialis, l'esercito federale, che era appunto un esercito, dunque con reparti costituiti assieme da Ro­ mani e Latini, e che veniva comandato a turno da imperatores romani e latini -'0 • 28

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Quale che sia il credito che si dà alle cifre dei censimenti più an­ tichi, sembra comunque indubitato che il popolamento della campa­ gna romana nei pressi di Roma fosse, tra il VI e il v secolo, assai fitto: i confronti che sono stati istituiti con la condizione della campagna romana nel XVIII secolo, per dimostrare l'inattendibilità delle cifre dei censimenti 3 1 , non tengono conto del fatto che il territorio attorno a Roma, tra la fine dell'età monarchica e la prima età repubblicana, non era né spopolato, né (come sarebbe stato nell'età moderna, sino al XIX secolo) preda della malaria 32 • A confermare l'elevata densità di popolazione dell'ager Romanus sono le notizie relative a difficoltà an­ nonarie determinate da un'insufficiente produzione delle aree attorno a Roma e dunque all'acquisto del grano in zone più distanti rispetto a quelle limitrofe. Le regioni dalle quali proveniva il grano in queste circostanze eccezionali erano quelle dalle quali era più facile e più spedito il traspono: }'Etruria meridionale, la pianura pontina e i colli del Lazio meridionale, la Campania. Ma la tradizione ricorda anche, più di una volta, la liberalità che i tiranni siracusani avrebbero dimo­ strato inviando grano a Roma 33 • Anche a non voler credere in tutti i loro dettagli a queste notizie, non se ne possono mettere in discussio­ ne gli elementi fondamentali: le difficoltà annonarie e i tentativi per risolverle. Un dato sicuro sembra essere perciò l'esistenza di una pressione della popolazione sulle risorse, probabilmente anche deter­ minata dal ridursi del territorio disponibile con la caduta della mo­ narchia: la perdita dell'agro pontino avrebbe prodotto seri problemi di approvvigionamento a Roma 34 • Ma non era solo il territorio circostante la città a essere fittamente popolato. Era il centro urbano stesso ad avere dimensioni cospicue e di conseguenza una cospicua popolazione. Bastano a suggerire come le dimensioni della città e della sua popolazione alla fine dell'età mo­ narchica fossero rilevanti le dimensioni del suo tempio più grande, il tempio della Triade Capitolina 3' . Si è calcolato che l'area della città serviana delle quattro regioni era pari a 285 ettari e l'area circondata dalle mura costruite in cappellaccio che precedono, sullo stesso trac­ ciato, le mura cosiddette serviane (che includono entro la cinta il Campidoglio e l'Aventino), era pari a 427 ettari 3 6: si tratta dell'area urbana circondata da mura più grande del suo tempo in Italia. Se l'indice di affollamento fosse stato analogo a quello successivo, una tale area avrebbe potuto ospitare qualche centinaio di migliaia di abi­ tanti. È del tutto probabile, tuttavia, che questo indice di affollamen­ to fosse assai meno elevato: molte cinte murarie dell'Italia del tempo racchiudevano ampi spazi vuoti, essendo il circuito delle mura deter­ minato da considerazioni strategiche. Ma anche ammessa l'esistenza 29

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di ampie zone non abitate entro la cerchia delle mura, è difficile che la popolazione della Roma già del vr secolo sia potuta essere inferiore a 3 0.000-40.000 persone ed è probabile che sia stata assai più eleva­ ta 37 , Comunque, dopo il riflusso del quinto secolo, si ebbe la grande espansione territoriale dello stato romano al di là del Tevere e l'occu­ pazione del territorio di Veio e poi della zona a sud di Roma. A par­ tire dalla seconda metà del IV secolo sicuro indizio di pressione consi­ stente della popolazione è la stessa rapida diffusione degli insedia­ menti coloniali di diritto latino. Il popolamento della campagna ro­ mana doveva essere ancora assai consistente. Semmai è proprio il centro urbano ad avere registrato una stagnazione: le mura del quarto secolo in tufo di Grotta Oscura, costruite dopo l'incendio gallico, se­ guono lo stesso tracciato delle vecchie, ciò che farebbe pensare che la popolazione del centro urbano non si fosse accresciuta. Ma le mura non ricompresero l'intero abitato che per poco tempo e presto la città si espanse molto al di là di esse. Prima la sottomissio­ ne dell'intera penisola e poi l'esito del confronto secolare con Carta­ gine dovettero avere fra le loro conseguenze la crescita stessa della popolazione urbana: cominciava un processo di immigrazione e pro­ prio negli anni in cui si assisteva alla trasformazione dell'economia italica, con l'afflusso massiccio di schiavi soprattutto dall'Oriente e con la creazione delle ville, le unità produttive specializzate nella pro­ duzione di olio e di vino. Roma cominciava a piegare alle esigenze di consumo della sua plebe urbana i territori al di là del mare sui quali esercitava il proprio dominio, le province, a cominciare dalla Sici­ lia 3s. Del consistente fenomeno di inurbamento nel corso del II secolo a.C. è però impossibile fornire una qualsiasi stima quantitativa. Si è voluta trarre qualche indicazione sulla crescita della popolazione della città dagli acquedotti e dall'accelerazione della loro costruzione 39 nel II secolo, ma, come si è visto, l'incremento delle disponibilità d'acqua a Roma potrebbe essere stato una delle manifestazioni del migliorato standard di vita nella città. Se l'arrivo degli schiavi orientali comincia­ va a dare a Roma la sua impronta multietnica, sembra sicuro che in massima parte ad alimentare l'immigrazione siano stati in questo pe­ riodo gl'Italici e in particolare gli abitanti delle colonie latine, formate originariamente da cittadini romani che, per partecipare alla nuova fondazione e ricevere un lotto di terreno, perdevano la cittadinanza romana, divenendo cittadini della nuova comunità. L'immigrazione degli abitanti delle colonie latine era incentivata dal fatto che i Latini che migrassero a Roma acquisivano automaticamente la cittadinanza 30

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romana. Da Livio sappiamo come in due occasioni, nel 187 a.C. e dieci anni dopo, vi furono lamentele da parte delle comunità latine, che dovevano dare il proprio contributo in uomini a Roma per l'e­ sercito e che si trovavano a mal partito dal momento che il numero dei maschi adulti in queste comunità era scemato proprio a causa dell'immigrazione a Roma 40• Il maggior affollamento di Roma è te­ stimoniato dall'episodio che racconta Livio, awenuto agli inizi della guerra annibalica: un bue si gettò dal terzo piano di un edificio nel Foro Boario, dove era salito 4 r ; è dunque attestata già alla fine del III secolo l'esistenza di case a più piani. È stata recentemente fatta l'ipotesi che l'entità dell'immigrazione a Roma avrebbe impedito alla popolazione libera dell'Italia tra il III se­ colo e l'età augustea di crescere o ne avrebbe addirittura determinato il declino 42 • Riprendendo una teoria che ha avuto molta fortuna, quella secondo la quale la popolazione delle concentrazioni urbane preindustriali, per le precarie condizioni igienico-sanitarie e alimenta­ ri, non sarebbe stata in grado di riprodursi, si sostiene che il numero dei morti a Roma sarebbe stato costantemente più alto del numero dei nati e che l'incremento della popolazione della città sarebbe stato conseguito solo con un'immigrazione dalle dimensioni tali da deter­ minare la stagnazione o anzi il regresso della popolazione libera del­ l'Italia. Ci domanderemo più avanti se questa teoria sia dawero, com'è stata considerata, una sorta di "legge ferrea" di natura che go­ verna la dinamica demografica delle grandi concentrazioni preindu­ striali. Ma quanto alla Roma dell'ultima età repubblicana si può di­ mostrare che l'ipotesi non coglie nel segno. Va intanto messo in rilie­ vo che l'immigrazione e la conseguente crescita della popolazione di Roma non poteva essere in grado, essa sola, di determinare la sta­ gnazione o addirittura il declino della popolazione dell'Italia 43 • Ma è soprattutto il punto di partenza della teoria che non è affatto sicuro: quello secondo il quale la popolazione dell'Italia sarebbe declinata tra il III e il r secolo a.C. L'ipotesi del declino si basa sull'interpretazione che Beloch ha dato del salto nelle dimensioni delle cifre dei censi­ menti tra l'ultima cifra dell'età repubblicana e quella del censimento effettuato da Augusto nel 2 8 : da circa 900.000 civium capita registrati nel 70-69 a.C., si passa a più di quattro milioni registrati nel 28 44. Secondo il Beloch questo salto non potrebbe interpretarsi se non come il risultato di una modificazione dei criteri del censimento: in­ vece che conteggiarsi i soli maschi adulti, come aweniva in età re­ pubblicana, nel 2 8 e nei censimenti successivi sarebbero stati conteg­ giati tutti i cittadini romani di entrambi i sessi e di tutte le età. Ma la tesi che vi sarebbe stata questa modificazione è del tutto ipotetica, 31

ROMA JMPERJALE

PJGURA 2

La città entro le Mura serviane

1\\11\\111\1\1 \

1

non trovando alcun appiglio nella documentazione che possediamo, e per di più si può dimostrare che è del tutto implausibile 4' . Il salto è piuttosto determinato dal fatto che i censimenti augustei sono stati più efficaci e hanno dunque enumerato un maggior numero di citta­ dini, soprattutto perché non occorreva più che il cittadino capo di famiglia venisse a Roma a effettuare la sua registrazione davanti al censore, come accadeva in età repubblicana, ma poteva ormai farlo nella sua comunità di residenza e davanti ai magistrati locali. In real32

LA POPOLAZIONE

tà, la popolazione dell'Italia negli ultimi due secoli dell'età repubbli­ cana alimentò una fortissima immigrazione a Roma, ma nello stesso tempo fu in grado di crescere. Se si interpretano le cifre dei censi­ menti augustei come quelle che definiscono il numero dei soli maschi adulti si dovrà arrivare alla conclusione che la popolazione libera del­ l'Italia nel suo complesso non era pari, nel 2 8 a.C., a circa 4 milioni, ma a circa 1 2 e dunque che essa era cresciuta considerevolmente ri­ spetto al III secolo, e che era cresciuta nonostante l'immigrazione a Roma 46 • Già negli ultimi anni del n secolo Roma doveva essere assai affol­ lata: erano nella città, in condizioni precarie, molti contadini che ave­ vano perso la propria terra o comunque la possibilità di guadagnarsi da vivere in campagna. Negli anni in cui i due fratelli Gracchi tenta­ rono, da tribuni della plebe, di avviare un progetto complessivo di riforma sociale, l'affollamento di Roma fu la manifestazione più vi­ stosa del progressivo impoverimento del contadiname italico, che si inurbava. Fu Gaio Gracco a introdurre le frumentazioni - le distribu­ zioni di grano a prezzo politico - come risposta (assieme al program­ ma agrario avviato dai due fratelli) all'affollamento di Roma 47 . Ma a questo punto si avviò una sorta di circolo vizioso: l'inurbamento si aggravava perché c'erano le frumentazioni e bisognava ritoccare le frumentazioni in senso più favorevole perché era cresciuta la popola­ zione della città. L'inurbamento si sarà accentuato dopo la concessio­ ne della cittadinanza romana, alla conclusione della guerra sociale, agli abitanti dell'intera penisola, esclusi quelli della pianura padana oltre il Po. Anche questi novi cives, trasferendosi a Roma, potevano rivendicare il diritto a ricevere il frumento dalla res publica. È proprio attraverso il numero dei beneficiari delle frumentazioni, noto o ricavabile dalla nostra documentazione, che possiamo perveni­ re ai primi dati abbastanza sicuri sulle dimensioni della popolazione. Un primo dato indiretto è quello che deriva dalla testimonianza delle Verrine ciceroniane sulla !ex Terentia Cassia, del 73, una legge che stabiliva nuove norme per quel che riguardava l'esazione del grano siciliano che arrivava a Roma come tributo, nonché per l'acquisto di quote supplementari dagli agricoltori siciliani e per la distribuzione verosimilmente gratuita di frumento a un certo numero di cittadini beneficiari 48 • Dal testo di Ocerone sembra dedursi che questo nume­ ro era molto contenuto, circa 40.000 49 • Il dato ha sempre costituito una difficoltà, soprattutto perché da un altro luogo delle Verrine è possibile ricavare il convincimento che le disposizioni della !ex Te­ rentia Cassia, che avevano per finalità quella di ampliare la quota di grano acquistata dallo Stato per approvvigionare Roma ' 0, implicasse33

ROMA [MPERIALE

ro la presenza nella città di un'assai più elevata popolazione. Il nume­ ro di 40.000 deve corrispondere a una quota modesta della popola­ zione urbana, quella cui andava direttamente e forse gratuitamente, il frumento dello stato. Per isolare nel complesso dei cives Romani que­ sta minoranza di beneficiari si saranno verosimilmente presi in consi­ derazione coloro che risultavano registrati come appartenenti alle tri­ bù urbane, dunque escludendo gli immigrati recenti ' 1 • È probabile, allora, che la !ex Terentia Cassia, che prevedeva la distribuzione di frumento pubblico forse gratuito per 40.000 persone, prevedesse al­ tresì la vendita anche del frumento di origine contributiva, concor­ rendo in tal modo a calmierarne il prezzo sul mercato romano ' Una misura di Catone di dieci anni dopo è probabile che amplias­ se il numero di coloro che potevano ricevere grano a prezzo politico. La misura aveva evidentemente di mira gl'immigrati recenti - si ri­ volgeva al sostegno degli indigenti e dei senza terra 1 3 - e poteva rap­ presentare un ulteriore incentivo all'inurbamento per i proletari delle campagne italiche. Qualche anno più tardi, nel 58 a.C., con la legge proposta dal tribuno Clodio, si ebbe l'introduzione o reintroduzione della gratuità, e questa volta senza stabilire un limite numerico ai be­ neficiari '4, di cui non esisteva presumibilmente ancora alcun elen­ co ". La misura non poteva che ulteriormente aggravare la situazio­ ne: tanto sul piano delle finanze statali, quanto su quello dell'affolla­ mento della città. È possibile calcolare quale fosse l'ordine di grandezza del numero dei beneficiari, con la misura catoniana, dalle due notazioni plutar­ chee che ad essa si riferiscono e della cui attendibilità non sembra vi sia ragione di dubitare. Nella vita di Catone Plutarco dice che il provvedimento catoniano avrebbe determinato una spesa per lo Spito per un ammontare pari a r . 2 50 talenti annui, ovverosia 30.000.000 di sesterzi; nella vita di Cesare si dice che Catone avrebbe incrementato, con la sua misura, le spese dello stato di 7.500.000 dracme (o, se­ condo una variante della tradizione manoscritta, di 5.500.000 drac­ me) ' 6 , pari, appunto, a 30.000.000 di sesterzi (o a 2 2 . 000.000). Se ogni beneficiario aveva diritto a 60 modii l'anno e pagava per ogni modio 6 assi e un terzo - la somma verosimilmente già fissata dalla lex Sempronia frumentaria come prezzo politico ' 7 - la spesa da lui sostenuta sarebbe stata di 95 sesterzi; se allo Stato questo frumento costava 4 sesterzi il modio ' 8 , la spesa sostenuta dallo Stato per ogni beneficiario sarebbe stata di 240 meno 95 sesterzi, dunque 145 se­ sterzi. Ne consegue che i beneficiari sarebbero stati pressoché 2

200.000.

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Il calcolo, naturalmente, non può essere che meramente indicati­ vo, giacché non sappiamo con sicurezza a quale prezzo, mediamente, lo stato comprava un modio di frumento e c'è in ogni caso da tenere presente che in parte almeno il frumento che perveniva a Roma era direttamente di origine contributiva e dunque non costava niente alla res publica. Se il prezzo al quale lo stato comprava mediamente il fru­ mento fosse stato inferiore ai 4 sesterzi o se il grano di origine con­ tributiva destinato alle distribuzioni a prezzo politico fosse stato con­ siderevole, il numero dei beneficiari avrebbe potuto essere anche sen­ sibilmente maggiore; se il prezzo fosse stato, invece, più elevato di 4 sesterzi o se il prezzo politico richiesto ai beneficiari fosse stato infe­ riore ai 6 assi e un terzo, il numero dei beneficiari sarebbe stato infe­ riore a 200.000. Ancora, se si suppone che la notazione plutarchea si riferisce al costo aggiuntivo determinato dall'allargamento del numero dei beneficiari, si potrà ritenere che i 200.000 debbano addizionarsi ai 40.000 che presumibilmente ricevevano già il frumento gratuitamente con la /ex Terentia Cassia. In conclusione possiamo dire che il nume­ ro di coloro che potevano acquistare il frumento al prezzo politico, con la misura di Catone, dev'essersi enormemente accresciuto rispetto al numero verosimilmente previsto dalla lex Terentia Cassia: ed è ov­ vio che, a questo punto, beneficiari non possono essere stati solo i registrati nelle tribù urbane, ma devono essere stati anche gl'immi­ grati recenti, iscritti nelle tribù rustiche. Va ribadito che questo numero complessivo di beneficiari non po­ teva in alcun modo trarsi da un elenco di cives Romani domiciliati stabilmente a Roma, della cui esistenza non abbiamo alcuna notizia sino all'età cesariana, o da un elenco specifico, e chiuso, di parteci­ panti alle distribuzioni frumentarie, che proprio l'incremento stesso di questi anni testimonia come non esistesse ancora. È in questo sce­ nario che si devono interpretare gli accenni alla necessità di svuotare la "sentina" che è diventata Roma che leggiamo, in più occasioni, in Cicerone 5 9• Il primo tentativo di soluzione del problema si ebbe durante la dittatura di Cesare. In un luogo ben noto della biografia cesariana, Suetonio ricorda il recensus che Cesare avrebbe compiuto a Roma «non seguendo la consuetudine e nel luogo usuale», ma «quartiere per quartiere» e «per mezzo dei proprietari delle insulae». In conse­ guenza di tale recensus il numero di coloro che ricevevano il frumen­ to pubblico sarebbe stato drasticamente ridotto da 320.000 a 15 0.000. Per evitare poi che in futuro scoppiassero sommosse «a cau­ sa della ricognizione censuale» dei cittadini, Cesare avrebbe introdot­ to il criterio del sorteggio fra coloro «che non erano stati censiti» per 35

ROMA IMPERIALE

colmare i vuoti lasciati dai morti nel numero dei beneficiari 60• Nem­ meno questa misura cesariana avrebbe tuttavia individuato un "nu ­ mero chiuso" di beneficiari delle frumentazioni: il criterio del sorteg­ gio sarebbe valso a colmare i vuoti lasciati dai morti tra un census o un recensus e il successivo. Il numero chiuso dei beneficiari, se dob­ biamo credere a Cassio Dione, sarebbe stata un'innovazione augu­ stea 61 e sino al 2 a.C., data dell'innovazione, la p/ebs frumentaria de­ v'essere stata la stessa cosa della plebs urbana: il numero dei cittadini maschi adulti oltre i 17 anni residenti legittimamente a Roma. Oltre che i cives Romani presenti a Roma in una condizione precaria o solo temporaneamente, la norma cesariana deve avere escluso dal benefi­ cio delle frumentazioni gli stessi proprietari delle insulae (cioè coloro i quali provvedevano a "dichiarare" i propri inquilini, se dobbiamo, come pare altamente probabile, riconoscere in questi proprietari il gruppo di cittadini esclusi dalle frumentazioni da una norma della co­ eva legge cesariana che leggiamo in un celebre testo epigrafico da Eraclea di Lucania 62 ). Si è sostenuto in genere che unico scopo del recensus sarebbe sta­ to appunto questo: di consentire una riduzione della plebs frumenta­ ria (una riduzione, peraltro, sulle cui modalità i pareri dei moderni si sono divisi). Si è voluta trovare una conferma a quest'idea di una connessione esclusiva del recensus con le frumentazioni nel fatto che lo stesso Suetonio adopera un'altra volta il termine di recensus, nella vita di Augusto, sempre in riferimento alla popolazione urbana e al problema delle frumentazioni 63 • In realtà, l'operazione cui allude Suetonio, se deve avere avuto come conseguenza la drastica riduzione del numero degli ammessi al beneficio del frumento pubblico, per potere ottenere il quale presumibilmente bastava, prima della misura, essere fisicamente a Roma al momento della distribuzione, non deve essere stata effettuata esclusivamente a questo scopo. Il recensus in questione, limitato alla popolazione urbana, deve avere rappresentato una generale ricognizione di questa popolazione urbana: una ricogni­ zione analoga, nelle sue finalità, se non nelle sue forme, a un vero e proprio census: una ricognizione della popolazione urbana effettuata nel momento nel quale, presumibilmente per la prima volta, essa ve­ niva distinta, all'interno del corpo civico, per ciò che concerne la re­ gistrazione censuale, dai cittadini romani delle altre comunità della penisola (i municipia, le coloniae, le praefecturae): Cesare avrebbe, in­ fatti, introdotto per gli abitanti delle comunità autonome d'Italia quella procedura decentrata di registrazione che risulta regolamentata dalla penultima sezione del testo epigrafico lucano già ricordato, la Tabula Heracleensis 64. Anziché essere costretti a venire a Roma, i ci-

LA POPOLAZIONE

ves Romani di queste comunità capi di famiglia, cui competeva di presentarsi davanti al censore per farsi registrare, avrebbero fatto la loro pro/essio, la loro "dichiarazione", al magistrato di grado più ele­ vato della propria comunità. Le operazioni del censimento, a livello municipale, sarebbero state condotte in concomitanza con quelle ef­ fettuate a Roma e a Roma sarebbero state inviate le tabulae coi ri­ sultati dei census locali: anziché muoversi le persone, per usare una felice formula di Claude Nicolet 6 ' , avrebbero cominciato a muoversi i documenti. È tuttavia probabile che il recensus cesariano della popolazione cittadina di Roma non si sia potuto accompagnare, in quest'occasio­ ne, alla registrazione dei cittadini di municipia, coloniae, prae/ecturae: o per lo meno non dev'essere stato possibile concluderlo con la ceri­ monia di purificazione che chiudeva le operazioni, il lustrum, come conferma Augusto nelle Res gestae 66• Ma si dev'essere comunque trattato di un'indagine basata su pro/essiones e uno dei suoi risultati dev'essere stata un'enumerazione dei civium capita, analoga a quella del census. Le informazioni attinte dalla res publica attraverso il re­ census sarebbero state quelle che servivano a conseguire le tradiziona­ li finalità del census, e in più, presumibilmente, quelle che valevano a risolvere taluni specifici problemi di una città che si awiava a essere fatta oggetto di quel grandioso programma di ristrutturazione urbani­ stica, «de urbe augenda» 67, alla quale allude Suetonio 68 , come le in­ formazioni relative alla consistenza e al valore delle proprietà urbane, in modo da potere imporre ai proprietari degli immobili urbani di accollarsi taluni specifici oneri finanziari, come quello della manuten­ zione delle strade. Quali che fossero queste informazioni, sembra comunque certo che è questa la prima volta che abbiamo un dato numerico preciso e sicuramente fededegno, che si riferisce a una porzione ben definita della popolazione urbana: il numero dei beneficiari che continuano a prendere il frumento, di r5 0.ooo, è il numero dei maschi adulti rego­ larmente residenti a Roma. Il beneficio del frumento tocca appunto ai cives Romani in possesso dei diritti politici e astretti agli obblighi mi­ litari che risiedono stabilmente nella città e non è casuale che a pro­ cedere alla pro/essio siano i domini insularum, i proprietari delle case nelle quali essi risiedono. Sono esclusi dalle frumentazioni e dunque sollecitati ad allontanarsi da Roma i senza fissa dimora, coloro che hanno una sistemazione precaria a Roma. Parte di costoro sarà torna­ ta nelle località di origine, buona parte si sarà trasferita nelle nuove colonie fondate da Cesare fuori d'Italia (80.000, a detta di Sueto­ nio) 69• In più, sono esclusi dal beneficio, come si è visto, gli stessi 37

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proprietari degli immobili urbani, che non saranno stati tuttavia più di qualche migliaio. Abbiamo dunque due dati numerici di rilievo per calcolare la po­ polazione cittadina a Roma prima e dopo la riforma cesariana (e nel­ l'ipotesi che coloro che avevano perso il beneficio delle frumentazioni se ne siano effettivamente allontanati): 320. 000 e I 5 0.ooo maschi al di sopra dei diciassette anni. È facile, a questo punto, stimare il numero globale dei cittadini di entrambi i sessi e di tutte le età, facendo una ragionevole supposizione, basata sui dati comparativi, su quale potes­ se essere la composizione per età e per sesso della popolazione della città di Roma. I 320.000 corrispondono a una popolazione di condi­ zione cittadina, che non sembra potersi collocare a un livello inferiore alle sette-ottocentomila persone, anche a voler ammettere una fortissi­ ma sproporzione nel rapporto dei sessi 70 e anche a voler ammettere una presenza proporzionalmente più forte degli adulti 7 1 • Certo, è si­ gnificativo che, con questa stima, si accordi assai bene un dato che ricaviamo da uno scolio ai versi 3 I 8-9 del I libro della Farsaglia di Lucano, secondo il quale i consumi complessivi di Roma, nel periodo in cui Pompeo ebbe la cura annonae (a partire dal 57, e dunque dopo che la !ex Clodia aveva stabilito o ristabilito la gratuità del frumento), sarebbero ammontati a 80.000 modii di frumento al giorno 72 • Il dato dello scoliaste, posto che si voglia attribuire un qualsiasi valore a que­ sta testimonianza, può suggerire che la popolazione complessiva di Roma, ivi compresi peregrini e schiavi, all'epoca di Pompeo doveva superare ampiamente il mezzo milione di persone: 80.000 modii al giorno, in termini di apporto calorico, sarebbero ben potuti bastare per 700.000-750.000 persone, se tra queste erano computate persone di entrambi i sessi e di tutte le età 7 3 • In conseguenza della misura cesariana, il numero dei beneficiari venne drasticamente ridotto di I 7 0.ooo. A fare le spese della riduzio­ ne furono i neoimmigrati sistemati in modo precario a Roma ed è possibile che buona parte di loro sia tornata nei propri luoghi di ori­ gine: certo, è significativo che Suetonio ricordi una città vuota di po­ polazione, in conseguenza della riforma. Se tra i nuovi immigrati, com'è plausibile, vi era una netta prevalenza dei maschi adulti e se vi era una quota di peregrini, la riduzione a meno della metà del nume­ ro dei beneficiari non deve avere comportato una riduzione a meno della metà della popolazione libera della città. Se ammettiamo, in base a plausibili confronti, che i I 5 0.ooo maschi adulti ammessi alle frumentazioni siano stati tra il 30 e il 3 5 % del numero complessivo dei cives 74 , allora tale numero complessivo sarà stato dell'ordine di 430.000-500.000 (esclusi i domini insularum, con le loro famiglie).

LA POPOLAZJONE

1 .4

La popolazione in età imperiale Suetonio ricorda un altro o altri recensus dei cives Romani di Roma compiuti da Augusto, e il capitolo I 5 delle Res Gestae fornisce il nu­ mero dei beneficiari dei congiaria, i donativi in denaro del princeps alla plebe urbana di Roma, tra il 44 e il 2 a.C. e per quest'ultimo congiario del 2 a.C., dato nel momento in cui la plebe frumentaria veniva "chiusa" (veniva stabilito, cioè, un numero chiuso che non do­ veva essere più superato nel futuro), Augusto affenna espressamente che esso era andato alla plebe «che in quel momento (tum) riceveva il frumento pubblico» n. Ora, il numero dei beneficiari dei congiaria è variabile: è di \oç dei beneficiari sarebbe stllto a6Qimov, "non limitato" parrebbe decisiv11. 62. P1RA 12 13 = Rornan Statutes, 24, Il. 17 ss. 63. Suet., Aug. , 40, 2. 64. P1RA 12 13 = Roman Statutes, 24, Il. 142 ss. 65. C. Nicolet, L'Inventano del mondo. Geografia e politica alle origini dell'Impe­ ro romano, trud. it., Rom11-Buri 1989, p. 130. 66. Quando considera avvenuto dopo quarantun anni dal precedente il lustrum del 28 a.C.: Res Gestae 8. 67. Cic., ad Att. , 13, 20, 1 , cfr. 35, 36.

c.

I . LA POPOLAZIONE

68. Suet., Div. lui. , 44; dr. in particolare Homo, Roma imperio/e e l'urbanesimo cit., pp. 54 ss. e Bodei Giglioni, Lavori pubblici e occupazione nell'onti­ cit., pp. 1 2 8 s.; oltre al contributo di de Caprariis e Zevi in questo vo­ lume. 69. Suet., Div. lui. , 42, 1 . 70. Sul problema del rapporto dei sessi in età augustea Lo Cascio, The Size the Romon Population, cit., pp. 35 s.; Id., La dinamico della pupo/azione in Italia do Augusto o/ m secolo, cit., pp. 1 01 ss. 7 1 , Beloch, IJie Bevolkerung der griechisch-riimischen Welt, cit., p. 401 [ = p. 368 trad. it.]. 72. M. Annoei Luconi Phorsolio cum notts... , hrsg . von C. F. Weber, Leipzig 1 83 1 , p. 52 s. ad I 3 19: «PD111peius... proefectus onnonoe... mognus hobebotur; nec ;,,,. men'to, quio Roma tJO!ebot omni die LXXX ,m1io modiorum annonae; et sic per hoc ac­

nell'ontichitiJ, chitiJ classico,

o/

quisivit sibi multos clientes». 73. Dal momento che un

modio di grano (pari a circa 9 litri) pesava, una volta trebbiato, dai sei chili e mezzo ai sette chili (Plin., N.H. , 1 8, 66), si può calcolare che trenta milioni di modii erano sufficienti a garantire le esigenze caloriche complessive (se misurate mediamente in 2.500 calorie al giorno e considerando pari a 3.340 calorie l'apporto di un chilo di grano) di pressoché 750.000 persone (calcoli operati sulla base delle conclusioni di L. Foxhall e H. A. Forbes, Sitometreia: the Role o/ Grllin os o Stgple Food in Classica/ Antiquity, in "Chiron ° , 12 (1982), pp. 41 -90). 74. Lo Cascio, The Size o/ the Romon Populolion, cit., pp. 36 ss.; Id., La dinami­ co della popolazione in Italia da Augusto al m secolo, cit. 75. Suet. Aug. 40. 2; i dati ricavabili dalle Res gestoe sono presentati e discussi da C. Virlouvet, La plèbe frumentoire iJ l'époque d'Auguste. Une tentative de dé/inilion, in A. Giovannini (a cura di), Nourrir lo plèbe, Actes du Colk,que en honneur de D. Von Berchem, Genève 1989, Genève 1991, pp. 43-65, e nel contributo in questo vo­ lume. 76. Virlouvet, La plèbe frumentaire iJ l'ipoque d'Auguste, cit.; Ead., Tessera fru­ mentaria. Les procédures de dislribution du blé public iJ Rome iJ la fin de la République et au début de /'Empire, Roma 1995, pp. 1 86 ss. 77. Fronto, Principio historioe 20 (p. 2 1 3 van den Hout). 78. Suet., Aug. , 4 1 , 2. 79. Lo Cascio, Le procedure di recensus dallo tarda Repubblica al tordoonlico, cit., p. 28, nota 86. Bo. Ivi, pp. 28 s. e riferimenti. 8 1 . A. J. Coale, P. Demeny, Regiona/ Model Li/e Tab/es ond Stab/e Populolions, Princeton 1966 (New York 1983'). I valori sono calcolati a partire dalle Model Ta­ bles, West, levels 2, 3, 4, per i maschi (con una speranza di vita alla nascita, rispetti­ vamente, di 20,444, di 22,852, e di 25,26). 82. Il luogo famoso di Dionigi, 4, 24, 5, sulle ragioni che spingevano i proprieta­ ri in età augustea a manomettere i propri schiavi, nonché il proposito, attribuito ad Augusto da Suetonio (Aug., 42, 3), di abolire le frumentazioni, in occasione di una gravissima crisi nell'approvvigionamento della città, che lo aveva spinto ad allontanare da Roma i peregrini (salvo medici e precettori), nonché i gladiatori e gli schiavi in vendita, sembrano confermare che la misura cesariana che aveva introdotto la subsor­ tilio, non aveva introdotto un numero chiuso dei beneficiari valevole es aei, ma un numero chiuso valevole solo tra un recensus e l'altro. Peraltro, App., B.C., 2, 120, parrebbe attestare l'afflusso a Roma, e ancora al suo tempo (e non in quello della sua fonte), per la speranza delle frumentazioni, di disoccupati, mendicanti e vagabondi da

ROMA IMPERIALE

tutta l'Italia: sembrerebbe doversene dedurre che nemmeno la «chiusura» augustea del 2 a.C. sia potuta davvero essere definitiva: ma cfr. oltre. 8 3 . Purcell, The City o/ &me and the plebs urbana in the !Ate Republic, cit.; Id., &me and Its Development under Augustus and His Successors, cit.; Id., The Popu­

lace o/ Rame in !Ate Antiquity: Prohlems o/ Classification and Historical Description,

cit.

84. Epit. de Caes., r, 6. 8,-. Bellum, 2, 3 8 3 e 386. 86. Lo Cascio, Le procedure di recensus datla tarda Repubblica al tardDantico, cit., pp. 36 ss. e riferimenti. 87. Attestata, oltre che dalla ricchissima documentazione epigrafica, da un cele­ berrimo luogo pliniano (N. H. , r8, 31), dove si dice che Nerone avrebbe confiscato le proprietà di sei grandi latifondisti che detenevano la metà del territorio africano: un'e­ vidente iperbole che comunque rivela in quali forme potesse essersi accresciuto in mi­ sura consistente il patrimonio imperiale nella regione. 88. Cfr. il luogo di Appiano citato sopra, nota 82. 89. Cfr. , ad es., Sallares, Malattie e demografia nel Lazio e in Toscana nell'anti­ chità, cit. , p. 89; O. F. Robinson, Ancient Rame. City Planning and Administration, London & New York r992, p. r; H. W. Pleket, &me: A Pre-industrial Megalopolis, in Th. Barker, A. Sutcliffe (eds.), Megawpolis: The Giant City in History, London r993, p. r7; K. Hopkins, Rame, Taxes, Rents and Trade, in " Kodai, Journal of An­ cient History" , 6/7 ( r99,--96), p. 60. 90. G. R Storey, R R Paine, lAtin Funerary Inscriptions. Another Attempt at De­ mographic Analysis, in Xl Congresso Internazionale di Epigrafia greca e latina (Roma 18-24 settembre 1997), Atti, l, Roma r999, pp. 847-62. 9 r . Cfr. ad es. tra gli interventi più recenti R Finlay, Population and Metropolis: the Demography o/ London, 1580-1650, Cambridge r98 r ; J. Landers, Mortality and

Metropolis: the Case o/ LondDn, 1675- 1825, in "Population Studies" , 4 r (r987), pp. ,-9-76; [d., Death and the Metropolis: Studies in the Demographic History o/ London, 1670-1830, Cambridge r993.

92. A. Sharlin, Natural Decrease in Early Modern Cities: A Reconsideration, in "Past and Present", 79 (1978), pp. u6-38; [d., A Rejoinder, in "Past and Present" , 92 (r98r), pp. rn-80. 93. Un illuminante esempio è offerto dal caso di una retirement community negli Stati Uniti dei nostri giorni: St. Petersburgh in Florida. Si è messo in rilievo come, in questa comunità, il surplus delle morti rispetto alle nascite non riflette una minore salubrità del luogo, ma il fatto che gl'immigrati, che sono in questo caso anziani pen­ sionati, hanno avuto i loro figli altrove, ma muoiono a St. Petersburgh: J. De Vries, European Urhankation 1500-1800, Cambridge (MA) r984, p. 1 8 r . 94. A . M . van der Woude, Population Developments in the Northern Netherlands (1 500-1800) and the Validity o/ the 'Urhan Graveyard' Effect, in • Annales de démogra­ phie historique", 1982, pp. che il modello dell'urhan immigration possa co­ stituire una plausibile spiegazione alternativa, rispetto al modello dell'urhan graveyard e/fect, del surplus delle morti rispetto alle nascite e che questo stesso surplus sia feno­ meno che conosce eccezioni di rilievo sembrerebbe rivelarlo la comparativamente as­ sai informativa documentazione che possediamo sull'evoluzione demografica della cit­ tà di Roma tra il xvu e il xvm secolo: E. Lo Cascio, Did the Population o/ Imperia/ Rame Reproduce Itsel/?, rei. presentata alla sessione su Population and Preindustrial Cities in Both New and Old Worlds, del 97th annua! meeting dell'American Anthro­ pological Association (Philadelphia, december 2-6, 1998), in corso di stampa.

,,-n;

66

r.

LA POPOLAZIONE

91· Forse la presentazione più fosca delle condizioni della città di Roma si trova nelle pag ine classiche di L. Mumford, The City in History, London 1961; ma cfr. so­ prattutto A. Scobie, Slums, Sanitation, and Mortality in the &man World, in "Klio", 68 (1986), pp. 399-43 3. 96. Vesp., 1, 4; cfr. Cass. Dio, 61 (66), r, 2: un cane, mentre Vespasiano sta pranzando, porta dalla strada una mano e la deposita sotto la mensa. 97. Vitr., 2, 8, 17, mette in rilievo come gli abitanti delle insuiae fossero allogati in modo confortevole; cfr. in generale R Laurcnce, Writing the Roman Metropolis, in H. M. Parkins (ed.), Roman Urhanism. Beyond the Consumer City, London & New York 1997, pp. 1-20. 98. Lo Cascio, Did the Popuiation o/ Imperia/ &me Reproduce ltset/?, cit., in base alla documentazione fornita da C. Schiavoni, E. Sonnino, Aspects généraux de l'évolution démographique à &me: r598-r824, in "Annales de démographie histori­ que", 1982 1 pp. 91- 109; E. Sonnino, Bilanci demografici di città italiane: problemi di ricerca e risultati, in La demografia storica delle città italiane (Relazioni e comunicazio­ ni presentate al Convegno tenuto ad Assisi nei giorni 27-29 ottobre 1980) 1 Bologna 1982 1 pp. 47-108; Id., The Population in Baroque &me, in P. van Kessel, E. Schulte (eds.), &me-Amsterdam. Two Growing Cities in Seventeenth-Century Europe, Amster­ dam 1997, pp. 10-70. 99. Storey, Estimating the Popuiation o/ Ancient Roman Cities, cit.; [d., The Population o/ Ancient &me, cit. 100. Beloch, Die Bevotkerung der griechisch-romischen Welt, cit., p. 409. 101. Dion. Hal., 4, 13, 3-4. 102. Cfr. il saggio di Wallace-Hadrill in questo volume. 103. Cfr. R von Pohlmann, Die Obervolkerung der antiken Groftstiidten, Leipzig 1884, p. 73· 104, Cfr. il saggio di Daguet-Gagey in questo volume. 101, C. Bruun, The Water Supply o/ Ancient &me. A Study o/ &man Imperia! Administration, Helsinki 1991, p. 104; [d., Acquedotti e condizioni sociali di Roma im­ periale: immagini e realtà, cit., pp. 126 ss.; e cfr. il saggio di Bruun in questo volu­ me. 106. Robinson, Ancient &me. City Planning and Administration, cit., pp. n3 ss. ro7. [ luoghi che attestano l'insalubrità deUe parti basse della città sono Cic., de rep., 2 1 6, II (che però attesta contestualmente la salubrità dei colli!); Hor., Epist., r, 7 1 8-9: cfr. Sallarcs, Malattie e demografia nel Lazio e in Toscana nell'antichità, cit. 108. B. D. Shaw, Seasons o/ Death: Aspects o/ Mortality in Imperia/ Rome, in "Joumal of Roman Studies", 86 (1996), pp. roo-38; W. Scheidel, Lihitina's Bitter Gains: Seasonal Mortality and Endemie Disease in the Ancient City o/ Rome, in "An­ cient Society" , 21 (1994), pp. 111-n; Id., Measuring Sex, Age and Death in the &­ man Empire, Ann Arbor (Ml) ("Joumal of Roman Archaeology" , suppi. n. 21) ( 1996), cap. 4· 109. Schiavoni, Sonnino, Aspects généraux de l'évolution démographique à &me: r598-r8:J.4, cit. no. M. K. Hopkins, On the Prohahle Age Structure o/ the &man Popuiation, in "Population Studies", 20 (1966-67), pp. 241-64. u r . R BagnaU, B. Frier, The Demography o/ Roman Egypt, Cambridge 1994. 112. Paine, Storcy, utin Funerary lnscriptions. Another Attempt at Demographic Analysis, cit. n3. Shaw, Seasons o/ Death: Aspects o/ Mortality in Imperia/ &me, cit., p. 109; e tav. 2 a pp. 137 s.

ROMA JMPERJALE

1 14. L. Del Panta, Le epidemie nella stona demografica italiana (secoli XJV-x1x), Torino 1980; cfr. Sonnino in L. Del Panta, M. Livi Bacci, G. Pinto, E. Sonnino, La popolazione italiana dal medioevo a oggi, Bari-Roma 1 996, pp. 91 ss. n5. Lo Cascio, Le procedure di recensus dalla tarda Repubblica al tardoantù:o e ,1 calcolo della popolazione di Roma, cit., pp. 47 s., 11 proposito di H. A. Aurei., 35, 1 e di C. Th. , XN, 17, 5. n 6. Virlouvet, Tessera frumentaria, cit., pp. 2 0 5 ss.; L o Cascio, Le procedure di recensus dalla tarda Repubblica al tardoantico e il calcolo della popolazione di Roma, cit., p. 50. n7. Cfr. ora R. P. Duncan-Jones, The lmpact o/ the Antonine Plague, in "Jour­ nal of Roman Archaeology", 9 (1996), pp. 108-36. n 8. E. Lo Cascio, Ancora sugli "Ostia's Services to Rome": collegi e corporazioni annonarie a Ostia, rei. presentata alla tavola rotonda su Vii/es et avant-ports: Rome­ Ostie-Pou1.1.oles, Athènes-Le Pirée-Délos, Ecole française de Rome, 29-30 novembre 1994, in corso di stampa. n9. Id., Fra equilibrio e crisi, in A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, ll, 2 , Torino 1 991, pp. 707 ss.; Duncan-Jones, The lmpact the Antonine Plague, dt. 120. Herod., 1 , 12 ss.; Cass. Dio, 72 (73), 14, 3-4 (Xiph.). 1 2 1 . «Vilitatem proposuit, ex qua maiorem penuriam fecit», dice il biografo di Commodo, H. A. Comm. , 14, 3. 1 22 . H. A. Comm. , 17, 7: «Classem A/ricanam instituit, quae subsidio essei, si/or­

o/

te Alexandrina frumenta cessassent». 1 23. H. A. Sev., 23, 2: «moriens septem annorum canonem, ita ut cottidiana se­ ptuaginta quinque mt1ia modium expendi possent, reliquit»; cfr. 8, 5 : «rei frumentanae, quam minimam reppererat, ita consuluit, ut excedens vita septem annorum canonem p(opulo) R(omano) relinqueret»: cfr. in particolare F. De Romanis, Septem annorum canon. Sul canon populi Romani lasciato da Settimio Severo, in "Rendiconti dell'Acca­ demia dei Lincei", s. 9, 7 (1996), pp. 133-59. 124. Lo Cascio, Le procedure di recensus dalla tarda Repubblica al tardoantico e il calcolo della popolazione di Roma, cit., pp. 40 ss., con la discussione delle tesi di De Romanis, Septem annorum canon. Sul canon populi Romani lasciato da Settimio Seve­ ro, cit.; cfr. pure E. Lo Cascio, Canon frumentarius, suarius, vinarius: stato e privati nell'llfJprovvigionamento de/fVrbs, in Harris (ed.), The Transfor,nations o/ Vrbs Roma in Late Antiquity, cit., pp. 1 65 s. 125. M. Corbier, Trésors et greniers dans la Rome intpériale (1er-me sièc/es), in Le Système palatial en Orient, en Grèce et à Rome, Actes du Colloque de Strasbourg 1985, Strasbourg 1987, pp. 4n -43. 1 26. Cass. Dio 76 (77), 1, 1 (Xiph.); cfr. Herod., 3, 1 0, 2. 127. 3, 1 3 , 4· 1 2 8. Cfr. ad es. M11Zzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, cit., p. 238, con p. 416, n. 49. 129. Cfr. C. Th., XN, 16, 2 ( = C.J., XI, 24, 1 ), relativa a Costantinopoli, dove compare precisamente il nesso canon expendi: «lta enim debet canon ab inclytae me­ moriae Constantino praestitutus nec non a divo pietatis meae avo [Theodosio: C.J.] auc­

tus expendi [ ... ]».

130. Cfr. la rubrica di C.Th., XN, 15, de canone frumentario urbis Romae, e le costituzioni dello stesso titolo. 1 3 1 . Swpra, n. 73, per il calcolo dell'apporto calorico. 132. Cfr. il saggio di C. Virlouvet in questo volume. 133. Un punto sul quale insiste particolarmente Carcopino, La vita quotidiana a Roma all'apogeo de/l'impero, trad. it. Roma-Bari 1967', pp. 22 ss.

J.

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LA POPOLAZIONE

134. F. Guidobaldi, Le domus tardoantiche di Roma come "sensori" delle trasfor­ mazioni sociali e culturali, in Harris (ed.), The Transformations o/ Vrbs Roma in ute Antiquity, cit., pp. n-68; cfr. il suo contributo a questo volume. 135. C.Th., xrv, 17, 5 è la costituzione che ripristina la gratuità. 136. Ciò che mi sembra doversi dedurre dalle leggi raccolte in C. Th. , XIV, 15. 137. Olympiod., fr. 25 Blockley, che deve riferirsi a coloro che, avendo abbando­ nato la città dopo il sacco di Alarico, vi tornano e si fanno nuovamente registrare: cfr. E. Lo Cascio, Registri dei beneficiari e modalità delle distrihUWJni nella Roma tardoan­ tica, in AA.vv., UJ mémoire perdue. Recherches sur l'administratìon romaine, cit., pp. 365-85. 138. L'idea di una Roma ancora fittamente popolata nel quarto secolo, che subi­ sce una ferita mortale ell'inizio del quinto, col sacco alariciano, parrebbe confermata da una più generale analisi della documentazione archeologica: R Hodges, D. White­ house, Mohammed, Charlemagne and the Origins o/ Europe. Archaeology and the Pi­ renne Thesis, London 1983, cap. 2, part. pp. 48 ss. 139. Cassiod., Var. , r r , 39.

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I grandi servizi pubblici a Roma * di Anne Daguet-Gagey

Se i Romani sono passati ai posteri in virtù del loro talento senza eguali di giuristi, in virtù della loro espansione durevole e straordina­ ria nel Mediterraneo, essi meritano di restarvi per le qualità di ammi­ nistratori di cui hanno saputo ugualmente dar prova, sia a Roma che nel resto dell'impero. Riguardo a ciò, è necessario attenuare giudizi espressi troppo spesso e troppo in fretta, che tendono a fare dell'am­ ministrazione romana una pesante macchina burocratica e pletorica. Se queste caratteristiche sono valide per l'epoca tarda, ma senz'altro da attenuare, non sono assolutamente presenti nei primi tre secoli dell'impero. Al contrario, studi recenti relativi ai diversi servizi, in particolar modo dell'alto impero, testimoniano la notevole agilità del1'amministrazione romana, le sue capacità di adattamento in base alle congiunture, a modificare, se necessario, le proprie strutture, ad in­ crementare o a ridurre il proprio personale secondo le necessità. È , pertanto, l'immagine di servizi dagli ingranaggi ben oliati, ma talvolta inceppati, che bisogna conservare e non quella di un mostro tentaco­ lare, condannato all'immobilità dalla sua stessa imponenza. Lo studio dei grandi servizi pubblici urbani può aiutare a convin­ cersi di questa realtà. Per far vivere il milione circa di abitanti che la città eterna comprendeva e per pennettere ai suoi abitanti di dissemi­ narsi fra i sette colli, spettava allo Stato romano, a cominciare dal suo capo, l'Imperator Caesar Augustus, che vi risiedeva, almeno quando necessità impellenti non ne esigevano la presenza fuori dalle mura, di fornire servizi amministrativi adeguati. Su questi ultimi ricadeva il grave compito di assicurare l'ordine nella città e di farvi regnare, per delega imperiale, la giustizia senza la quale i cittadini non avrebbero potuto vivere in concordia; ma era necessario pure che essi fossero in grado di rifornire i mercati della capitale di vettovaglie, di alimentare le fontane, i ninfei e le condutture di piombo che circolavano nei sot­ terranei dell'Urbs, che essi pennettessero ai Romani di dedicarsi ai propri divertimenti preferiti, costruendo o restaurando numerose

ROMA IMPERIALE

opere pubbliche profane e che permettessero ai loro sentimenti reli­ giosi di esprimersi, erigendo o rinnovando edifici sacri. Ciò presuppo­ neva che si gestisse nel miglior modo possibile uno spazio urbano densamente popolato. Spetta al fondatore del principato il merito di aver contribuito all'organizzazione di queste strutture amministrative - prefetture urbana e del pretorio, grandi curatele urbane, prefetture dell'annona e dei vigili -, che furono perfezionate dai suoi successori e che attraversarono, non senza modifiche strutturali talvolta notevoli, i cinque secoli di vita dell'impero della parte occidentale, comparen­ do ancora in primo piano nella Notitia dignitatum, un documento amministrativo dei primi anni del v secolo della nostra era, di impor­ tanza capitale per chi cerca di comprendere le strutture amministrati­ ve del tardo impero '. Senza dubbio Augusto non creò ex nihilo; magistrature di caratte­ re amministrativo, giudiziario, edilizio esistevano già in epoca repub­ blicana e fu ad esse che egli seppe ispirarsi. I limiti di queste ultime erano stati raggiunti nel giorno in cui la piccola città del Lazio si era trasformata in una città di milioni di abitanti, in cui essa aveva «solle­ vato la testa al di sopra delle altre» fino a divenire la mégapole che conosciamo, la città-mondo, l'Urhs aeterna. Essendosi queste istituzio­ ni rivelate ormai insufficienti, Augusto le trasformò, avviando servizi che i suoi successori finirono di organizzare. Egli seppe rendere per­ petue, in modo mirabilmente pragmatico e con notevole abilità, delle funzioni concepite originariamente come temporanee e seppe fare dei loro titolari non più dei magistrati, ma dei funzionari, nominati da lui e retribuiti dall'erario pubblico; se la maggior parte esercitava colle­ gialmente i propri incarichi - finzione repubblicana agevole da con­ servare e priva di pericolo -, era chiaro che questi alti responsabili e i servizi che essi gestivano agivano per conto dell'imperatore; essi era­ no i rappresentanti dell'imperatore, incaricati di amministrare la sua città, una «città di mattoni» che egli aveva trasformato in una «città di marmo», una città di montes e di pagi, divenuta la città delle quat­ tordici regioni I cambiamenti nello spazio e nell'amministrazione, dunque, furono profondi; fu il trionfo del nuovo ordine augusteo, una nuova concezione del potere, l'esercizio di un nuovo tipo di au­ torità, in uno spazio ideologicamente, amministrativamente e urbani­ sticamente rinnovato. Se la capitale dell'ecumene fu l'oggetto di tanta attenzione da par­ te del potere imperiale, fu in gran parte perché essa costituiva il luo­ go di residenza abituale dell'imperatore. Per questa ragione, e perché essa era la culla dell'espansionismo romano, legami particolarmente stretti la univano all'arbitro dei destini dell'impero. Essa aveva il do2



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2 . I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

vere di essere il riflesso della sua dignità, della sua maestà, e ancor più del suo imperium. Poiché è anzitutto e principalmente a Roma domi - che l'imperatore esercitava il suo potere supremo, che gli era stato rimesso dal senato nel giorno della sua investitura, poiché è da Roma, "centro del mondo " civilizzato, che partivano ogni giorno quantità notevoli di uomini e di direttive, che rappresentavano il po­ tere imperiale o promanavano direttamente da esso, destinate alle re­ gioni più lontane dell'impero, era necessario che gli organi direttivi della «grande città vestita di porpora e di scarlatto» 3 fossero più competitivi possibile, e che testimoniassero da soli non solo la voca­ zione di vincitori propria dei romani, ma anche il loro talento di or­ ganizzatori. Se le innumerevoli città del mondo romano aspiravano a essere delle "piccole Rome", da parte sua il loro modello aveva il do­ vere di essere come un impero su scala ridotta; i suoi servizi ammini­ strativi che cercavano di rendere la vita politica e materiale dei suoi abitanti possibile, se non sempre piacevole, dovevano dar prova di una razionalità, di un senso dell'organizzazione, di un pragmatismo fuori del comune. Da queste qualità risultava un'efficacia, che la pre­ senza in urbe del principe imponeva. Nessun abitante della città eter­ na avrebbe immaginato e tantomeno tollerato che un principe, pa­ drone del suo impero, non fosse in grado di esercitare il suo impe­ rium, direttamente o per mezzo di rappresentanti nominati da lui, a causa della disorganizzazione dei servizi urbani. Il buon principe, am­ ministratore illuminato, doveva assicurare, o far assicurare a suo nome, la polizia diurna e notturna, la giustizia civile e criminale, la lotta contro gli incendi, l'approvvigionamento della città di acqua, di grano, di olio, la distribuzione ai più bisognosi degli alimenti primari, l'abbellimento monumentale della capitale. E la vocazione di Roma era certo di essere lo specchio del principe e del mondo, e non un volgare vetro deformante. Consapevoli di questa necessità, gli imperatori si preoccuparono di creare e di far evolvere a Roma stessa strutture amministrative ade­ guate, di cui è opportuno descrivere la natura, il modo di funziona­ mento, la finalità. 2.I

La prefettura urbana Questa carica, che esisteva già sotto i regimi precedenti, conobbe il suo momento di gloria durante l'impero 4• Per comprenderne le ca­ ratteristiche in quest'epoca, è necessario ricorrere a Suetonio: «Quo73

ROMA IMPERIALE

que p/ures partem administrandae rei publicae caperent, noua officia ex­ cogitauit: curam operum publicorum, uiarum uariarum, aquarum, aluei Tiberis, frumenti populo diuidundi, praefecturam urbis, triumuiratum legendi senatus et alterum recognoscendi turmas equitum, quotiensque opus esset» '· È ad Augusto, si è detto, che spetta il merito di aver riorganizzato l'amministrazione urbana e di aver in particolare gettato le basi di questo grande servizio che sarebbe divenuto la prae/ectura Urbis. Non vi è alcun dubbio che il fondatore del principato abbia voluto mettere un limite all'autonomia municipale della capitale che accoglieva la propria residenza, e che abbia cercato di riservarsi dei poteri che precedentemente spettavano ai magistrati o al senato. Le sue usurpazioni si realizzarono progressivamente e la prefettura urba­ na non fu il primo servizio creato dal principe. Prima di questa, Au­ gusto aveva preso sotto la sua ala protettrice l'approvvigionamento di grano di Roma, la cura degli acquedotti, dei lavori pubblici, la manu­ tenzione dell'alveo del Tevere e delle cloache. È soltanto in un se­ condo tempo che egli assunse la direzione della polizia urbana, che affidò ad un rappresentante nominato da lui. Il primo prae/ectus urbi 6 attestato è Valerio Messala Corvino, chiamato a ricoprire que­ sta carica dall'imperatore nel 26 a.C. All'inizio la carica fu tempora­ nea: solo in assenza del principe si procedeva a nominare un prefetto. Tale carica divenne permanente soltanto nel 13 d.C.; è ciò che si de­ duce, quanto meno, dalle parole di Tacito: «Primusque Messa/a Co­ ruinus potestatem et paucos intra dies finem accepit, quasi nescius exer­ cendi; tum Taurus Statilius, quamquam prouecta aetate, egregie tole­ rauit; dein Piso, uiginti per annos pariter probatur, publico funere ex decreto senatus celebratus est» 7 • Da allora, fino al basso impero inclu­ so, della prefettura urbana si occupò regolarmente l'imperatore. In seguito, Severo Alessandro è ricordato dalla tradizione come colui che istitul, connesso con la prefettura, un consiglio di quattordici cu­ ratores urbis, senatori di rango consolare, uno per ogni regione 8 ; ma A. Chastagnol ha dimostrato che si trattava di un'invenzione dell'au­ tore e lo stesso vale per l'affermazione che lo stesso sovrano avrebbe accordato al senato il diritto di proporre candidati a tale carica 9 • Una cosa è dunque sicura: la nomina del prae/ectus urbi promana­ va sempre dall'imperatore, e la sua permanenza in carica dipendeva esclusivamente dal volere imperiale 10• Le sue funzioni cessavano nel momento in cui il suo successore aveva ricevuto i suoi codicilli e dopo che il senato era stato avvertito della nuova nomina. Il principe sceglieva soltanto membri dell'aristocrazia senatoria di rango elevato, quelli, cioè, che avessero raggiunto il rango consolare. Sin dall'origi­ ne, la carica costitul il gradino più alto della carriera senatoria 1 1 • Pa74

2 , 1 G!IANDI SERVJZI PUBBL]Cl A !IDMA

recchi titolari della carica ricoprirono contemporaneamente un secon­ do consolato Prefettura urbana e secondo consolato erano gene­ ralmente ricopeni 20/25 anni dopo il primo consolato 1 3 • Il prefetto era considerato un funzionario e non un ufficiale, benché forze di po­ lizia fossero sotto la sua autorità. Per questa ragione egli vestiva gli abiti civili propri dell'ordine senatorio, e in particolar modo 1a toga. Nel corso della sua lunga storia, la prefettura urbana «simboleggian­ do ciò che restava delle vecchie tradizioni repubblicane» rimase, dun­ que, «accanto alle antiche magistrature senatorie, le cui attribuzioni erano cadute in desuetudine, come espressione della dignità civile, aspetto che era evidenziato soprattutto dalla toga e dalla lunula» 1 4, Peraltro, il prefetto aveva diritto a due fasci ed era preceduto da lit­ tori, ogni qual volta si spostava 1' . Che dire delle sue funzioni? Si è messo in rilievo come il ruolo principale del prefetto consistesse nel mantenere l'ordine pubblico nella città in nome dell'imperatore. Ma le funzioni del prefetto non si limitavano a questa attività. Nel corso dei primi due secoli della no­ stra èra, le sue competenze si svilupparono, per quanto si restrinsero geograficamente. Il prefetto interveniva principalmente in tre settori: la polizia diur­ na, 1a giurisdizione criminale e, in misura minore, la giurisdizione ci­ vile. È in ciò che consisteva la sua cura urbis, che più di un autore ama ricordare, come Seneca a proposito di L. Pisone: «L. Piso custos urbis... o/ficium suum, tutela urbis continebatur, diligentissime admini­ strauit», e ancora Ulpiano: «1.nitio eiusdem epistulae [ad Fabium Cilo­ 12



nem] scriptum est: "cum urbem nostram fidei tuae commiserimus": quidquid igitur intra urbem admittitur, ad prae/ectum urbi uidetur per­ tinere. Sed et si quid intra centesimum miliarum admissum sii, ad prae­ /ectum urbi pertinet» 1 6•

Come ricorda Chastagnol, «il prefetto urbano era, dunque, sia per la sua azione personale, sia attraverso l'intermediazione del personale subalterno o dei burocrati, il responsabile supremo della tranquillità pubblica a Roma» 1 7 • E non solo luoghi pubblici erano sotto il suo controllo, ma anche persone. Fu, infatti, incaricato, sembra a partire dal n secolo 1 8, di sorvegliare i luoghi degli spettacoli pubblici 1 9, i mercati e altri luoghi destinati al commercio ma anche i membri di corporazioni professionali incaricate dell'approvvigionamento della città, gli schiavi, le persone poco raccomandabili (cortigiane, mezzani, osti... ), la gioventù studentesca, in una parola tutti quei gruppi che erano in grado di provocare disordini nella capitale. Per far regnare la tranquillità e la sicurezza pubblica, il prefetto dispose, sin dall'ori­ gine, di una forza militare di 1 .500 uomini, che erano accasermati nei 20

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ROMA [MPER[ALE

castra urbana, nella regio vn, lì dove era situato il mercato della carne suina (forum suarium). Queste tre coorti di 500 uomini, sotto il co­ mando di tribuni di rango equestre, divennero quattro sotto Domizia­ no o, al più tardi, sotto Traiano. Nel corso del n secolo, modifiche importanti, ma molto male note, riguardarono le coorti urbane, che gli imperatori cercarono di avvicinare alle loro consorelle del preto­ rio. Sembra, infatti, da un'iscrizione, che al più tardi sotto Antonino Pio le coorti urbane passarono sotto il comando dei prefetti del pre­ torio 2 t , prima di ritornare sotto quello del prefetto urbano all'epoca di Settimio Severo, in seguito alla riforma che quest'ultimo impose ai pretoriani; «il tentativo di assimilazione fatto per più di un secolo vie­ ne abbandonato; le coorti urbane tornano ad essere truppe di polizia, mentre i pretoriani conservano un ruolo militare e politico» 22• Tuttavia, l'attività del prefetto non si limitava a questi compiti di polizia; gli fu concesso di avocare, a quanto sembra a partire da Adriano, alcune cause civili (protezione degli schiavi, intervento con­ tro tutori e curatori disonesti, processi che riguardavano banchieri) 2 3 • Ma soprattutto, egli si vide affidare una parte della giurisdizione cri­ minale, di cui furono spogliate a poco a poco le istanze giurisdiziona­ li abituali, il senato e, ancor più, i pretori, presidenti delle quaestiones perpetuae, che decaddero a partire dal r secolo della nostra era per sparire, infine, sotto Caracalla. In questo campo, l'ambito delle sue competenze non cessò di accrescersi. Non solo egli poté esercitare la coercizione nei confronti dei fomentatori di disordini, ma anche rice­ vere le accuse criminali; il suo tribunale finì per diventare la più im­ portante corte di giustizia criminale di Roma: «Omnia omnino crimi­ na prae/ectura urbis sibi uindicavit» 24• Egli era considerevolmente av­ vantaggiato dal fatto di disporre, per punire i colpevoli, del ius gladii, di cui erano sprovviste le altre autorità giurisdizionali della capitale. Nessuna legge fissava i limiti dell'azione prefettizia. Costui interveniva là dove l'utilità e l'interesse pubblico erano in gioco. Così poteva sia trattare le cause di schiavi maltrattati dai loro padroni, sia giudicare il crimen expilatae hereditatis o tutt'altro tipo di crimini. Nella maggior parte dei casi, nei confronti di una sentenza del prefetto, si poteva fare appello al principe. Se le competenze del prefetto a poco a poco si accrebbero, in cambio esse si restrinsero geograficamente. Infatti, per tutto il r seco­ lo d.C., il prefetto urbano esercitava le sue funzioni giurisdizionali e di polizia certamente a Roma e nel resto dell'Italia, almeno in teoria. Ma, in seguito alle riforme istituzionali di Adriano e di Marco Aure­ lio, il campo d'azione dei prefetti si ridusse alla Roma delle quattor­ dici regioni augustee, ampliata per un raggio di cento miglia a partire

2 , I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

dalle antiche mura serviane. Sappiamo, infatti, che Adriano volle ri­ durre l'autonomia delle città della penisola italiana e che, a questo scopo, istituì quattro consulares, che Marco Aurelio, intorno al 164, trasformò in quattro iuridici, senatori di rango pretorio, ai quali affi­ dò la giurisdizione civile 25 • Certamente nello stesso tempo, egli affidò ai prefetti al pretorio la giurisdizione criminale. Restò, dunque, di competenza del prefetto urbano Roma e il territorio entro le cento miglia dalla città che Ulpiano definisce urbica dioecesis, al di fuori della quale il prefetto abbandonava la sua potestas 26• Non c'è alcun dubbio che il prefetto disponesse, per svolgere il proprio incarico, di locali e di un personale subalterno. Sembra che la sede della prefettura urbana sia cambiata diverse volte. Secondo Giovanni Lido, che cita un frammento perduto di Suetonio 27 , la prae/ectura urbana «inizialmente, sotto Augusto, ebbe la sua sede in una basilica costruita da questo imperatore e che deve essere o la ba­ silica Iulia o, piuttosto, un edificio incluso nel Foro di Augusto» 2 8 • Coarelli, da pane sua, pensa che a partire dai Flavi, la prefettura ebbe la sua sede nel tempio della Pace, là dove fu affissa sotto Setti­ mio Severo una nuova versione della Forma Urbis: «L'insieme del Foro della Pace probabilmente era stato creato per costituire la sede della Prae/ectura Urbi, ampliata in seguito in direzione delle Cari­ nae» 29• È chiaro, dunque, che la prefettura urbana si è installata nel pieno centro di Roma, non lontano dal foro repubblicano, dai fori imperiali e dal Colosseo. Da Il poteva comodamente sorvegliare le zone centrali dell'Urbs e, all'occasione, mettervi ordine. 2.2

La prefettura del pretorio Se la prefettura urbana costituiva il grado più alto della carriera sena­ toria, la prefettura al pretorio rappresentava, da pane sua, il fastigio della gerarchia equestre, almeno a partire dall'epoca flavia 30• La sua creazione risale, anch'essa, all'epoca di Augusto, e le sue competenze si sono ampliate col tempo, come quelle della sua consorella romana. Le sue origini si situano alla fine della repubblica, quando gli impera­ tores presero l'abitudine di destinare una coone alla propria difesa personale e a quella del loro quartiere generale (praetorium) 3 1 • Otta­ vio non fece eccezione alla regola, costituendosi una guardia compo­ sta esclusivamente di italici, in base a un tipo di reclutamento che resterà invariato fino a Settimio Severo. Costituita da cinque cooni ad Azio, la guardia imperiale passò a nove quando Augusto la istituzio77

ROMA IMPERIALE

nalizzò. Come sottolinea M. Durry, «ma perché nove? Perché dieci avrebbero ricordato troppo una legione, e sarebbero state presto de­ signate col nome di legio praetoria... , e ancora mai era stata accaser­ mata una legione a Roma» 3 2 • D'altronde, bisogna osservare che sol­ tanto sotto Tiberio la guardia imperiale ebbe definitivamente i suoi quartieri a Roma, in quei castra praetoria, costruiti fuori della Porta Viminalis, che furono il luogo dell'acquartieramento per tre secoli H . Ma se l'origine delle coorti risale alla fine della repubblica, bisogna attendere il 2 d.C. perché Augusto fornisse loro dei capi: in quell'an­ no, secondo Cassio Dione, il princeps nominò due uomini provenienti dall'ordine equestre perché comandassero, in suo nome, la guardia imperiale 34• Q. Ostorius Scapula e P. Salvius Aper furono i primi due prefetti del pretorio dell'epoca imperiale, i primi di una lunga serie. Con queste nomine, Augusto gettò le basi e pose i princìpi di un'istituzione il cui ruolo avrebbe ricoperto un'importanza spesso ca­ pitale: la designazione promanava dal principe, l'ambito di origine era l'ordine equestre 3 1 , la carica era collegiale. Certo, è possibile che tal­ volta vi sia stato qualche strappo alla regola, ma questa rimase più o meno immutabile. Non vi è alcun dubbio che il principe conservasse il comando supremo della sua guardia, di cui nominava i capi: è lui stesso che rimetteva ai tribuni delle coorti pretorie il signum; d'al­ tronde sui diplomi militari non c'è alcuna menzione del prefetto, mentre c'è quella dell'imperatore e dei soldati qui in praetorio meo militauerunt 36• La maggior parte dei prefetti erano membri del secondo ordine e al più tardi in epoca tlavia ne divennero anche le figure di spicco, titolari di un posto che rappresentava, ormai, il grado più alto della carriera. Tra costoro, c'erano sia dei civili sia dei militari. Molti pro­ venivano dai ranghi, e non è da sottovalutare il numero di coloro che, dopo alcuni anni di servizio, ottenevano delle procuratele e avanzavano così progressivamente nella gerarchia delle cariche eque­ stri sino ad occuparne la sommità. Tuttavia, non c'erano solo militari di carriera tra i prefetti al pretorio, malgrado sia evidente che in alcu­ ne epoche si preferirono questi hahitués della res mi litaris. Alcuni prefetti erano dei semplici civili, che non avevano neanche svolto le mi litiae equestres, con le quali si apriva tradizionalmente il cursus, al­ meno per coloro che non provenivano dai ranghi. Piuttosto rari nel r secolo 3 7 , i casi si moltiplicarono a partire dal n e dal m secolo. Se è vero che numerosi giuristi divennero prefetti al pretorio nel III secolo, tuttavia non si deve credere che tutti i prefetti di quest'e­ poca siano stati uomini di legge. Gli imperatori continuarono a fare ricorso ad uomini il cui valore militare - se non l'origine militare -

2. I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

non necessitava più di esser dimostrato. Dal momento che alle fron­ tiere cresceva l'instabilità, era indispensabile che i comandanti della guardia imperiale, le cui funzioni erano sensibilmente aumentate, fos­ sero in grado di rivelarsi, se necessario, valorosi generali. Non si può concludere questa trattazione delle origini e della car­ riera dei prefetti al pretorio senza far cenno alla possibilità che fu offerta ad alcuni di essi di passare nell'ordine senatorio. Ancor prima che si prospettasse loro l'ipotesi di poter entrare a far parte dell'ardo senatorius, alcuni prefetti ottennero di portare gli ornamenti propri dei senatori, pretorii o consolari. Tuttavia, questo elemento di distin­ zione non li rendeva membri dell'ordine 3 8 ; perché ciò avvenisse era necessario che l'imperatore accordasse loro una adlectio, attraverso la quale essi divenivano senatori e quindi, al tempo stesso, clarissimi. Sono noti numerosi casi di questo genere: tuttavia, non bisogna tene­ re in alcun conto le parole della Historia Augusta, che sostiene che la prefettura al pretorio, a partire dal regno di Severo Alessandro, sa­ rebbe stata esercitata da clarissimi: «Prae/ praetorii suis senatoriam adJidit dignitatem, ut uiri clarissimi et essent et dicerentur... Alexander autem idcirco senatores esse uoluit prae/ praet., ne quis non senator de Romano senatore iudicaret» 39 • Il biografo, in questo passo, anticipa una realtà che sarà effettiva solo all'epoca di Costantino 40 • Fino a questa data, i prefetti al pretorio continuarono ad essere scelti in seno all'ordine equestre. La loro prima funzione, si è visto sopra, consisteva nel comandare la guardia imperiale. Con questa, essi dovevano garantire la sicurezza del principe e perciò tenere sotto controllo la capitale 4 1 • Questo uffi­ cio faceva di costoro i funzionari più vicini alla persona del principe, i suoi ausiliari più diretti e più immediati. Questa vicinanza spiega l'importanza sempre maggiore che tale carica assunse, dal momento che i suoi titolari godevano della fiducia del principe, che, tuttavia, rischiavano di perdere, in caso di abuso di potere. Tali relazioni basa­ te sulla fiducia che poteva degenerare in sfiducia, e persino in aperta ostilità, spiegano l'ascesa rapida di alcuni alti dignitari e la caduta, non meno spettacolare, cui poterono andare incontro; i casi di Seia­ no, sotto Tiberio, e di Plauziano, sotto Settimio Severo, sono senza dubbio i due più eloquenti esempi di questi bruschi voltafaccia del­ l'imperatore, che, dopo aver elevato alcuni personaggi, poteva abbat­ terli brutalmente. I princìpi istituiti da Augusto - designazione da parte dell'imperatore di due prefetti provenienti dall'ordine equestre non poterono impedire l'insuccesso doloroso di alcune collaborazioni. L'estensione dei poteri attribuiti ai prefetti non poteva che sfociare in tali situazioni. Tuttavia, non bisognerebbe trarre conclusioni generali 79

ROMA lMPERJALE

soltanto in base ad alcune eccezioni; la maggior pane dei prefetti esercitarono le loro funzioni senza avere gli occhi puntati su un trono sul quale aspiravano a sedersi, e senza sperimentare la fine drammati­ ca di un Sciano, di un Perenne 42 o di un Plauziano. Se i poteri del prefetto furono in un primo tempo essenzialmente militari, ben presto essi acquistarono delle responsabilità civili, so­ prattutto giurisdizionali, che finirono per fare di loro dei "vice-impe­ ratori". All'origine, dunque, i prefetti furono designati per comandare le coorti pretorie che costituivano la guardia imperiale. Nove coorti fu­ rono create da Augusto (numerate dalla 1 alla IX), che peraltro creò tre coorti urbane (numerate dalla x alla XII). È probabile che il nu­ mero dei pretoriani variasse a seconda delle epoche; tuttavia, è quasi certo che «dopo Domiziano o probabilmente dopo Traiano, le coorti pretorie sono dieci e le urbane quattro» 43 • Progressivamente, altri corpi della guarnigione romana passarono sotto la tutela dei prefetti al pretorio: nel II secolo, e fino alle riforme di Settimio Severo, cosi fu per le coorti urbane; creato senza dubbio sotto i Flavi, il numerus degli equites singulares, cavalieri di origine germanica o pannonica, fu ugualmente sotto la tutela dei prefetti al pretorio, pur conducendo un'esistenza indipendente da quella dei pretoriani. Per le altre truppe di guarnigione a Roma, bisogna ricorrere a un passo di Cassio Dione, malgrado contenga degli anacronismi 44 • Ancora, i prefetti comanda­ vano i /rumentarii deputati, supernumerarii, accasermati nei castra pe­ regrina agli ordini di un princeps peregrinorum. Verosimilmente, essi non avevano, invece, sotto il proprio comando le due flotte pretorie di Miseno e Ravenna - eccetto i distaccamenti romani di queste due squadre - e neanche le sette coorti dei vigili, incaricate di spegnere gli incendi, né forse la legio 11 Parthica istituita da Settimio Severo e stanziata ad Albano 4,. È indiscutibile che i pretoriani costituissero l'élite della fanteria romana, come testimonia il loro stipendio, tre volte maggiore rispetto a quello dei legionari, doppio rispetto a quello dei soldati che serviva­ no nelle coorti urbane; a ciò bisogna aggiungere i donativa accordati dai principi, al momento della loro ascesa alla dignità imperiale e in alcune fortunate circostanze. In cambio, i pretoriani dovevan o anzi­ tutto garantire la sicurezza dell'imperatore a Roma e in caso di suoi spostamenti. Una coorte stazionava permanentemente al Palatino: «questa coorte vestiva abiti civili, la toga, tuttavia non senza armi; essa montava al palazzo tutti i giorni all'ora ottava, ufficiali in testa, dopo la siesta e prima della cena» 46• Quando l'imperatore lascia il palazzo, sono sempre i pretoriani che lo scortano; essi lo accompa80

2 . I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

gnano, inoltre, in tutti i suoi spostamenti, assistendo a tutte le ceri­ monie a cui il principe partecipa. Oltre alla sicurezza imperiale, i pre­ toriani garantiscono altri servizi, polizia nelle strade, sorveglianza oc­ casionale di alcuni luoghi pubblici... Le loro funzioni, i loro emolu­ menti, il loro luogo di residenza, il loro ruolo politico potenziale, tutti questi elementi contribuivano a fare dei pretoriani dei cittadini che godevano di una considerazione particolare. Quando l'imperatore partiva per una campagna, prefetti e preto­ riani lo accompagnavano, potendo partecipare, all'occasione, alle ope­ razioni e, nel caso dei prefetti, condurre battaglie, come capitò con Tarrutienus Patemus che nel 178 riportò una vittoria sul Danubio, grazie alla quale Marco Aurelio ricevette la sua decima ed ultima sa­ lutazione imperatoria 47 • Oltre al comando delle coorti pretorie, i prefetti esercitavano un potere di disciplina militare, disponevano di una giurisdizione sui sol­ dati semplici, in particolar modo, capitale. Essi avevano il potere di nominare i pretoriani a posti subalterni, inferiori al centurionato. Tut­ tavia, la loro influenza, in questo campo come in altri, andò aumen­ tando al punto che essi furono in grado di influenzare la direzione generale degli eserciti. Ancor più che nel campo militare, è in quello civile, e soprattutto giurisdizionale, che le loro responsabilità si accrebbero. Più in gene­ rale, fu loro richiesto di esercitare competenze di carattere ammini­ strativo. In materia di giurisdizione criminale, i prefetti avevano il diritto di giudicare in prima istanza. Come si è visto sopra, nel I secolo e nel primo terzo del n secolo, questa giurisdizione, che si estendeva non solo a Roma ma a tutta l'Italia, spettava al prefetto urbano. A partire dalle riforme di Adriano e di Marco Aurelio, si ebbe una divisione delle competenze tra prefetto urbano e prefetti al pretorio; questi ul­ timi ora si videro affidare la giurisdizione criminale sull'Italia, al di là delle cento miglia che erano lasciate alla competenza del prae/ectus Urbi 48 • Ma ancor più le loro competenze si ampliarono per quel che riguarda la giurisdizione d'appello, poiché «se il prae/ectus urbi acco­ glie gli appelli civili che provengono da Roma, a partire dai Severi tutti gli appelli civili che vengono dal resto dell'impero vengono pre­ sentati davanti al prefetto al pretorio. La stessa suddivisione viene ri­ spettata per gli appelli criminali» 49 • Infine, i prefetti fecero sempre più frequentemente parte del con­ silium principis, soprattutto quando quest'ultimo si istituzionalizzò e si specializzò a partire dal regno di Adriano. Da allora, o al più tardi sotto Marco Aurelio, i prefetti ne sono regolarmente membri ' 0• Nel81

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l'ambito di quest'ultimo venivano giudicate le cause che l'imperatore aveva avocato; quest'ultimo poteva, inoltre, affidare ai prefetti al pre­ torio la responsabilità di giudicare in sua vece, vice sacra o vice princi­ pis, ovvero senza appello, sentenze pronunciate dai governatori di provincia. Si comprende, quindi, perché i prefetti sono essenzialmen­ te considerati dei giudici e perché sono chiamati così nel tardo im­ pero. A queste funzioni giurisdizionali, i prefetti aggiunsero alcuni inca­ richi civili complementari, che potevano consistere, per esempio, nel­ la custodia dei cittadini inviati a Roma per esservi giudicati. L'insieme di questi poteri era esercitato per delega imperiale. La loro crescita fu progressiva, fino a completarsi nel m secolo. Il pre­ stigio e l'importanza che la carica aveva erano tali che, nel corso del II secolo, i prefetti furono qualificati come viri eminentissimi, un titolo che, salvo eccezioni, furono i soli a poter portare ' 1 • Ci si è interrogati sulle ragioni di una siffatta crescita delle funzioni dei prefetti al preto­ rio, che divennero i comandanti in capo dell'esercito, i giudici, per così dire, supremi della corte d'appello, in una parola dei viceimpera­ tori. La risposta sta nel fatto che essi venivano tutti nominati dall'im­ peratore, che la loro carica era collegiale e meno specificamente cen­ trata sulla città di Roma di quella del prae/ectus Urbi, mentre la loro origine equestre li rendeva meno temibili del loro confratello dell'am­ plissimus ordo. Inoltre, e soprattutto, essi erano, in nome delle loro funzioni, i compagni accreditati dell'imperatore e i suoi collaboratori più diretti '2. In questo modo si possono comprendere i tempi glorio­ si che la prefettura al pretorio conobbe, fino a quando Costantino non la trasformerà in una carica puramente civile e amministrativa. 2.3

Le grandi curatele urbane Se erano i custodi della sicurezza pubblica e i giudici supremi dei Romani della capitale, gli imperatori dovevano parimenti assicurare la vita quotidiana ai loro sudditi, permettendo loro di avere acqua da bere in misura sufficiente, di alimentarsi, di dedicarsi alle loro attività abituali, professionali o di svago, infine, dando loro la possibilità di venerare gli dei del pantheon greco-romano, presenti nella città. È an­ cora di Augusto il merito di aver dato vita a due dei tre grandi servizi amministrativi incaricati rispettivamente della cura degli acquedotti che rifornivano l' Urbs di acqua, della cura del Tevere, che permetteva alle navi di trasportare, via acqua, da Ostia le derrate di prima ne82

2. I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

cessità; e, infine, della costruzione e del restauro degli edifici profani e sacri eretti sul suolo pubblico di Roma. Questi tre servizi, affidati a dei curatori provenienti dall'ordine senatorio, sono generalmente de­ nominati, per questo motivo, "le grandi curatele urbane". Ne ricorde­ remo soltanto due, quella dei lavori pubblici e quella del Tevere, poi­ ché la cura aquarum è l'oggetto di un contributo specifico in questo stesso volume 1 3 • LA CURA ABDIUM SACRAR.UM ET OPBR.UM PUBLICOR.UM

Meno vitale della cura aquarum, ma tuttavia essenziale, era la curatela dei lavori pubblici e degli edifici sacri '4. Questo servizio creato da Augusto era preposto alla supervisione dell'occupazione del suolo pubblico a Roma, oltre che della costruzione e del restauro di edifici sacri e profani. Da solo, tale servizio riesce a far luce molto bene su "l'inversione dei segni", che caratterizza il passaggio dalla repubblica al principato: durante la repubblica, in effetti, erano numerosi coloro che, da una parte, potevano erigere edifici pubblici e, dall'altra, si oc­ cupavano, tra le loro funzioni, della costruzione o del restauro dei monumenti, sia che si trattasse di edifici profani che di edifici religio­ si. I censori in particolar modo ebbero la cura degli opera puhlica; ed erano essi che dovevano occuparsi di intraprendere lavori di interesse generale, dopo aver preso accordi preliminari, relativamente ai fondi, con il senato, che attingeva dall'aerarium Saturni le somme necessarie. I consoli e i pretori potevano ugualmente intervenire in tale campo, mentre alcune competenze erano ugualmente riconosciute ai propre­ tori, ai proconsoli e ai dittatori, che potevano, alla vigilia di una bat­ taglia, per esempio, fare il voto di erigere un tempio e, di ritorno nel­ l' Urhs, incaricarsi di farlo costruire. Ma soprattutto gli edili giocavano un ruolo di primo piano, accanto ai censori e, ancor più, in loro as­ senza; essi disponevano, infatti, di una cura Urhis, di una procuratio aedium sacrarum, in virtù delle quali sorvegliavano gli edifici, sacri e profani, e si occupavano anche di questioni relative all'occupazione del suolo pubblico. Come si vede, in questo settore poteva essere im­ pegnato un numero notevole di magistrati, di promagistrati e persino di privati. Se si aggiunge a questo quadro lo sviluppo considerevole che ebbe a Roma l'edilizia pubblica, a partire dal n secolo a.C., si comprende come le insufficienze delle strutture amministrative si sia­ no presto rivelate evidenti. Fu, tuttavia, Ottaviano Augusto, che tentò di colmare tali insuffi­ cienze, affidando ad Agrippa l'edilità, ricoperta dopo il consolato (33 83

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a.C.). Quest'ultimo, durante l'incarico, si preoccupò sia del rinnovo e dello sviluppo delle infrastrutture urbane (acquedotti, cloache, ponti), sia della costruzione e della manutenzione di edifici pubblici, serven­ do, così, la causa e il prestigio del princeps, inauguratore di un nuovo secolo dell'oro e rinnovatore della capitale-mondo. La sua scomparsa, nel 12 a.C., lasciò un grande vuoto, che Augusto cercò di colmare. È certamente in quest'epoca che concepì il nuovo o/ficium che sarebbe divenuto la curatela dei lavori pubblici e degli edifici sacri. Le fasi iniziali di tale curatela sono scarsamente note, dal momento che il primo curatore è attestato soltanto sotto Tiberio. Augusto, a quanto pare, affidò la cura a un collegio di cinque curatori, uno consolare, gli altri quattro di rango inferi ore. L'avvio di tale servizio conobbe qualche tentennamento dal punto di vista strutturale ed è probabilmente sotto Oaudio che esso assunse il carattere che conservò, con qualche modi.fica, per tutto l'alto impe­ ro. Ormai, il numero dei curatori era fissato a due, reclutati dall'im­ peratore esclusivamente tra i senatori consolari. Questo collegio bice­ falo aveva, nei limiti delle quattordici regioni se non oltre, come com­ pito principale quello di destinare parcelle di suolo pubblico alla co­ struzione di monumenti, più spesso pubblici, ma talvolta anche priva­ ti. Per espletare tale incarico, i curatori ebbero a disposizione, a par­ tire da una data indeterminata, assistenti scelti, in un primo tempo, nell'ambito dei liberti imperiali e, in un secondo tempo, nell'ordine equestre: si tratta di adiutores o di subcuratores attestati dopo l'epoca flavia. Inoltre, fu loro affidato tutto un personale subalterno: persona­ le amministrativo e finanziario impiegato nella stessa statio, di cui si ignora, d'altronde, l'esatta localizzazione, personale tecnico distaccato dall'amministrazione centrale e preposto alla custodia di uno o più monumenti. Dunque, l'iniziativa augustea ebbe importanti sviluppi, a prezzo di modifiche e di aggiunte strutturali. L'evoluzione avvenne nel senso di un consolidamento delle prerogative imperiali: si constata, infatti, che i lavori pubblici, a partire da Oaudio, furono eseguiti ex auctori­ tate Caesaris, molto di meno ex senatus consulto, e mai più da parte di privati. Il potere imperiale s'era arrogato le competenze un tempo ricadenti sui magistrati e le delegava a persone di sua scelta: il campo dell'edilizia pubblica, intesa nel senso ampio del termine - cioè sia della costruzione che del restauro - diveniva uno degli accessori del potere, serviva la sua causa e quella del suo capo. L'urbanistica concepita sotto Augusto e i suoi successori ebbe, sin da allora, diverse valenze, una delle quali, e non la meno importante, era quella ideologica. Gli imperatori si servivano dello spazio urbano

2.. I GRANDI SERV[Z[ PUBBLtC[ A ROMA

per consolidare la loro autorità! Decidendo di erigere chi un arco trionfale, chi delle terme o un luogo di spettacolo, chi un tempio, essi cercavano di riempire di ammirazione e di orgoglio gli abitanti del­ l' Urhs, di attirare la loro simpatia, di soddisfare la loro sete di religio­ so. Attraverso il servizio dei lavori pubblici era possibile dar corpo e vita alle iniziative imperiali e assicurarne l'eternità. Inoltre, attraverso le costruzioni di cui aveva la supervisione, l'ufficio degli opera publica faceva sì che si instaurasse un nuovo tipo di rapporto tra il potere e coloro che erano amministrati. Dal momento che si spogliava il popu­ lus Romanus della maggior parte delle sue prerogative politiche, era necessario stabilire un nuovo tipo di relazione tra il principe e i suoi sudditi. I luoghi pubblici, e soprattutto quelli di spettacolo, servivano ad avvicinare la popolazione al suo capo; è là che essa poteva manife­ stare all'imperatore ora la sua devozione ora la sua disapprovazione, coprirlo di applausi o di fischi, entusiasmarsi o lamentarsi. È là, anco­ ra, che essa poteva "avvicinare" il governo della città, prae/ectus Urbi, prae/ectus praetorio, senatori e altri cavalieri, tutti questi grandi servi­ tori dello Stato, che, non solo difendevano la causa imperiale durante il loro incarico, ma anche la esaltavano nell'arena. Il nuovo aspetto assunto dal potere centrale e il nuovo gioco politico che ne risultò richiedevano nuovi spazi: era l'amministrazione dei lavori pubblici e degli edifici sacri che se ne doveva occupare, era ad esse che spettava il compito di gestire uno spazio urbano che doveva esaltare la perso­ na del cosmocrator. ) Il compito nol'l era certo di poco conto. L'attività principale dei curatori responsabili del servizio consisteva nell'assegnare delle aree pubbliche ai monumenti, la cui costruzione era stata decisa dall'impe­ ratore o dal senato. Li vediamo operare principalmente in questo campo e sono numerosi i cippi che ci conservano una traccia delle assegnazioni e di coloro che le hanno effettuate: la formula locus adsi­ gnatus a ... , seguita dal nome del o dei curatori coinvolti, è quella che ritorna più frequentemente. La natura del luogo in questione giustifi­ cava l'intervento dell'uno o dell'altro curatore: se si trattava di un luogo consacrato pubblicamente, e perciò considerato come sacro, era competente il curator aedium sacrarum; se il luogo era soltanto pubblico e profano, era al curator operum locorumque puhlicorum che spettava di procedere all'assegnazione. Quest'ultima veniva annotata in registri (matricula, commentarii, tahulae), conservati nella statio, e che rappresentavano, in certo modo, la memoria del suolo n. La maggior parte delle assegnazioni che si sono conservate riguardano però concessioni di terreno fatte a privati. In alcune circostanze, in­ fatti, costoro potevano beneficiare di un'area pubblica, occupata a

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scopo privato. I beneficiari di questo genere di favore imperiale ver­ savano allo Stato un canone (solarium) , in cambio del quale essi otte­ nevano il permesso di costruire e di trasmettere la parcella ai loro eredi ' 6 • L'attuazione della procedura di assegnazione presuppone che vi fosse anche, nella sede dell'amministrazione, un piano catastale, tale da permettere ai curatori o al loro personale subalterno di attingere rapidamente le informazioni relative agli spazi ancora liberi nella cit­ tà. Si può avere un'idea di un documento simile grazie alla Forma Urbis, la pianta di Roma, che esistette senza dubbio sin dall'inizio dell'impero, sul muro di una delle aulae del Foro della Pace, che, con tutta probabilità, ospitava la Prae/ectura Urbis. Sicuramente esisteva un esemplare analogo di questa pianta nella statio operum publicorum e su un supporto molto meno ingombrante. Se i curatori si occupavano attivamente di gestire lo spatium Urbis, al contrario, non risulta da nessuna parte che essi fossero abili­ tati a determinare i limiti tra il suolo pubblico e suolo privato e nep­ pure che dirimessero controversie relative all'occupazione di loca pu­ blica. Detto in altri termini, i curatori non avevano né potere di ter­ minatio, né potere di iudicatio. Una volta presa la decisione di costruire o di restaurare, una volta assegnata la parcella di suolo adeguata, restava da realizzare il lavoro. Il compito dei curatori, la cui posizione era del tutto onorifica, non era altro che quello di sovrintendere a tali lavori; a questo punto era­ no i loro assistenti che si occupavano dell'impresa. Questi ultimi, al­ i' origine reclutati tra i liberti imperiali, furono soppiantati da cavalie­ ri, che avevano la qualifica di adiutores o di subcuratores operum pu­ blicorum. Ma a questo livello, appare una delle specificità del servizio dei lavori pubblici che mostra più chiaramente l'agilità e il pragmati­ smo di cui l'amministrazione romana sapeva dar prova. Infatti, quan­ do le circostanze lo richiedevano, ovvero soprattutto all'indomani di catastrofi (incendi, piene del Tevere, terremoti), gli adiutores o subcu­ ratores nominati dai curatori potevano essere temporaneamente sosti­ tuiti da un procurator operum publicorum, nominato dall'imperatore, e incaricato da quest'ultimo di sovrintendere all'insieme dei lavori di ri­ costruzione e di restauro, finanziati dall'aerarium Populi Romani e sempre più dal fiscus Caesaris, desideroso o costretto a partecipare, se non ad assumere interamente il finanziamento dei lavori. Dal momen­ to che il principe interveniva con moneta sonante, era in diritto di esigere di nominare il funzionario incaricato dei lavori. Un esempio di tale stato di cose è rappresentato dal cavaliere M. Aquilius Felix, nominato in seguito a due violenti incendi verificatisi durante il regno 86

2 . I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

di Commodo, procurator operum publicorum et fiscalium Urbis sa­ crae :n ; la sua carica gli fu confermata da Settimio Severo, ma non sappiamo per quanto tempo la ricopri. La sua titolatura testimonia che egli doveva occuparsi dei lavori finanziati sia dall'aerarium (opera publica) che dal fisco imperiale (opera fiscalia). Ma questa non era la sola modifica strutturale possibile; sappiamo, infatti, che altri cavalie­ ri, di diversa importanza e remunerazione, potevano ugualmente, al­ l'occorrenza, essere incaricati di missioni eccezionali e temporanee: nominati anch'essi dall'imperatore, erano incaricati del restauro di uno o più monumenti. Sono noti numerosi casi, che si ascrivono tutti alla serie di misure prese dal potere centrale per cancellare gli effetti degli incendi: quello del 69, quello dell'Bo, quelli del regno di Com­ modo, e quello del 2 1 7 che colpì l'anfiteatro flavio 5 8 • Queste diverse nomine testimoniano mirabilmente le capacità di adattamento del­ l'amministrazione romana, così come l'ingerenza crescente del potere imperiale nel campo dei lavori pubblici. È il caso di soffermarsi un istante su questa creazione di cariche temporanee, poiché là risiede l'originalità della curatela dei lavori pubblici, rispetto alle sue consorelle romane. Infatti, se il curator aquarum disponeva permanentemente di un procuratore equestre, no­ minato e licenziato dal principe, i curatori dei lavori pubblici dispo­ nevano, per espletare il proprio compito, come i loro omologhi re­ sponsabili del Tevere, di personale subalterno ugualmente scelto nel­ l'ambito del secondo ordine, ma che essi stessi designavano; la crea­ zione di incarichi eccezionali che aveva luogo in particolari circostan­ ze è sconosciuta per le due amministrazioni degli acquedotti e del Tevere. Sembra dunque che l'ufficio degli opera publica abbia dovuto dar prova di capacità di adattamento superiori a quelle dei suoi omo­ loghi. Ciò non è affatto sorprendente e viene a confermare l'ipotesi che le catastrofi, fra le quali al primo posto compaiono gli incendi, ricorrevano con una temibile regolarità e senza dubbio molto più fre­ quentemente di quanto gli autori antichi lascino intendere. Più che le piene del Tevere, più che le precipitazioni così violente da sfondare gli acquedotti e da far traboccare le fontane, sono gli incendi, questi flagelli degni del loro nome, che si abbattevano, per così dire, quoti­ dianamente sull'Urbs e sulla sua popolazione, mettendo in discussio­ ne la sua eternità, e facendo dubitare del favore degli dei. 11 fuoco, che anneriva l'azzurro mediterraneo, era l'angoscia degli abitanti di Roma, la ragione d'essere dei vigili, e l'elemento perturbatore della cura operum publicorum. A quest'ultima toccava non solo di lottare contro l'usura del tempo, ma anche contro le devastazioni del fuoco.

ROMA IMPERIALE

Una volta sgombrate le macerie che questo lasciava, appariva uno spazio libero, disponibile per nuove imprese urbanistiche. Queste ul­ time erano effettuate in diversi modi. I lavori di modesta importanza potevano essere realizzati dagli stessi impiegati della statio. D'altronde è ciò che avveniva nell'ambito dell'amministrazione degli acquedotti, una realtà di cui è testimone Frontino '9 • Per i lavori di maggiore am­ piezza, il servizio dei lavori pubblici poteva ricorrere sia agli artigiani romani, sia agli appaltatori. Sembra, infatti, che collegi di artigiani la­ vorassero per conto dell'amministrazione dei lavori pubblici, cosa che in sé non è affatto sorprendente. Così, il collegium fabrorum tignua­ riorum, di cui facevano parte non solo i carpentieri, ma anche tutti gli operai edili, appare a più riprese come legato alla statio degli opera publica, fino a giungere, negli ultimi anni del m secolo, a scegliere come patrono uno dei due curatori 60• È con il subalterno dei curato­ ri che gli artigiani romani o suburbani dovevano trattare. Quando un'opera era completata, in seguito al lavoro, simultaneo o successi­ vo, di uno o più artigiani, spettava all'assistente dei curatori di riceve­ re il cantiere, cioè di controllare l'esecuzione e la qualità delle pre­ stazioni richieste. Ma l'amministrazione dei lavori pubblici poteva anche decidere di affidare un cantiere ad un appaltatore (redemptor), che si faceva cari­ co dell'intera organizzazione e realizzazione dei lavori, sicché i re­ sponsabili del servizio non dovevano far altro che ricevere il cantiere. I testi che ricordano questi contratti pubblici e le malversazioni che frequentemente li accompagnavano sono numerosi. Cicerone è, a tal riguardo, una fonte preziosa, dal momento che le indicazioni che fornisce nella seconda azione contro Verre, relativamente al tempio dei Castori, sono certamente ancora valide in epoca imperiale. È a lui che dobbiamo la nostra conoscenza, assai precisa, della maniera in cui si concludevano i contratti (/ex locationis). Messa a punto la !ex (accordo bilaterale che fissa i termini di un contratto, in particolare la durata dei lavori e la remunerazione del redemptor), veniva bandita, attraverso un araldo (praeco), una gara d'appalto; il fortunato benefi­ ciario del contratto pubblico era colui che proponeva il miglior rap­ porto qualità/prezzo. Effettuati i lavori, i curatori o i loro assistenti procedevano alla probatio, ovvero alla verifica della buona realizzazio­ ne dell'opera e della sua conformità rispetto ai termini della legge. Il nuovo monumento, appena costruito, doveva ancora essere de­ dicato. La cerimonia spesso doveva aver luogo prima della fine dei lavori, com'è d'altronde sempre attestato. C'è incertezza per quanto attiene all'identità del dedicante: secondo la regola generale, soltanto i magistrati forniti di imperium avevano il potere di dedicare, e a 88

2. I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

Roma sono i pretori, i consoli e, ben inteso, l'imperatore, ma non i curatori. Quindi siamo in diritto di chiederci chi, in pratica, proce­ desse alla dedica e se, in alcune occasioni, i curatori non abbiano be­ neficiato di una delega dell'imperium. Una volta costruiti o restaurati gli edifici pubblici, sacri e profani, della capitale, bisognava provvedere alla loro conservazione e alla loro regolare manutenzione; durante la repubblica erano gli edili che ne avevano la responsabilità. Durante l'impero, a quanto pare, la custodia dei monumenti pubblici era rientrata nelle competenze della cura ope­ rum publicorum; il caso di Adrastus, il custode della colonna antonina citato sopra, fa propendere per questa ipotesi, dal momento che co­ stui si dichiara chiaramente [ex officio] operum publ(icorum). Al con­ trario, sembra che la manutenzione di alcuni edifici sacri sia stata ap­ paltata. Dunque risulta, in definitiva, che nel passaggio dalla repub­ blica all'impero c'è stato un trasferimento di competenze, a vantaggio dei curatores aedium sacrarum et operum puhlicorum, dal momento che costoro erano chiaramente gli eredi di alcune responsabilità, fino ad allora attribuite agli edili. D'altronde, ci si può interrogare sulla natura delle relazioni che i curatori intrattenevano con gli edili, dal momento che, in effetti, a questi ultimi non era rimasta altro che la sorveglianza delle strade, delle piazze, degli edifici e di altri luoghi pubblici, e so­ prattutto il controllo delle attività che vi si svolgevano. Quanto alla di­ sciplina publica, diurna e notturna, badare ad essa era compito rispet­ tivamente del prefetto urbano e del prefetto dei vigili. Dunque, rispet­ to all'epoca repubblicana, si è realizzata una rigida ripartizione delle responsabilità, che mirava a una maggiore efficacia. Roma disponeva, dunque, in materia di lavori pubblici, di un'am­ ministrazione dagli ingranaggi ben oliati, che serviva la causa imperia­ le, arricchendo, per le esigenze di quest'ultima, il patrimonio monu­ mentale dell' Urbs e preoccupandosi della sua conservazione. In virtù di questo servizio, la città poteva giocare pienamente il suo ruolo di specchio del principe, concorrendo alla conservazione e al manteni­ mento della crescita del suo prestigio. LA CURA ALVEI TIBERIS ET CLOACARUM

L'ultima delle tre curatele romane non è la più conosciuta; o almeno non vi sono studi particolarmente recenti sull'argomento 6 1 • Tuttavia, varrebbe la pena occuparsene maggiormente, poiché questo asse di navigazione ebbe un'importanza capitale nell'antichità, facendo con­ fluire, fino al cuore stesso di Roma, viaggiatori, merci, corrisponden-

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za. Senza il Tevere, Roma non sarebbe esistita. Era necessario dun­ que che un'amministrazione vegliasse su questo asse di comunicazio­ ne vitale, su questo legame che univa Roma a Ostia e pertanto al re­ sto dell'impero. Per lungo tempo si è creduto che la creazione della curatela del­ l'alveo del Tevere e delle sue rive (cura aluei Tiberis et riparum) risa­ lisse, come le curatele precedenti, ad Augusto. Questa opinione si fondava sul testo già citato di Suetonio; ma J. Le Gall ha potuto mo­ strare che l'iniziativa andava attribuita a Tiberio. Infatti, le parole di Suetonio sono in contraddizione con un passo di Cassio Dione, che attribuisce a Tiberio la costituzione, nel 15 d.C., di una commissione di cinque senatori destinati a sorvegliare permanentemente la portata del fiume che era straripato di nuovo 62 • Quanto a Tacito, egli men­ ziona anche questa inondazione e i danni che causò a più monumenti dell'Urbs 63 ; precisa che Tiberio incaricò due senatori, Ateio Capito­ ne, allora curatore delle acque, e L. Arrunzio di trovare "un rimedio adatto a contenere il fiume". L'inchiesta condotta dai due uomini re­ stò apparentemente vana dal momento che le loro proposte non rice­ vettero un'eco favorevole. Ma è probabile che Tiberio abbia appro­ fittato dell'occasione per istituire una commissione di curatori, a quanto sembra, estratti a sorte. Tale curatela, come le sue omologhe, del principio repubblicano conservava soltanto la collegialità. Dei cinque senatori che la compo­ nevano uno solo era di rango consolare; gli altri quattro, assistenti curatori, occupavano una posizione subordinata ma di dignità equiva­ lente. La prova ne è fornita da cippi che fiancheggiavano le rive del Tevere e che erano destinati a delimitare la proprietà pubblica e le proprietà private. Su questi cippi, il primo nome è sempre quello del presidente della commissione e, in un ordine che può variare, quelli degli assistenti; questa variabilità dei tipi di elencazione prova che il rango di questi ultimi era equivalente; l'importante era citare per pri­ mo il curatore di rango consolare . Si ignora fino a quando si conservò il principio della collegialità; è certo che sparl alla fine del 11 secolo, poiché si conosce, verso il 1 So, un cavaliere qualificato come adiutor curatoris aluei Tiberis et cloaca­ rum, termine quest'ultimo che designava le fogne di Roma, la cui cura era stata ugualmente affidata al curatore del Tevere, e questo sin dal­ l'origine, secondo la motivata ipotesi di L. Homo. Per J. Le Gall, questa sparizione sarebbe sopravvenuta nel corso dell'ultimo terzo del I secolo, poiché a partire da quest'epoca un unico curatore è no­ minato sui cippi. Sempre secondo questo autore è possibile che I' e­ strazione a sorte sia stata sostituita nello stesso momento, dal princi-

2 . 1 GRANDI SERVIZI PUBBLJCI A ROMA

pio, della nomina e della revoca imperiale. Ora, l'esame dei cippi di confine impone una data più alta. Infatti, la menzione ex S(enatus) c(onsulto) è attestata per l'ultima volta su alcuni cippi dell'età di Oaudio; e del resto, nella stessa epoca, compare la formula ex aucto­ ritate imperatoris o Caesaris. Non c'è, dunque, alcun dubbio che è sotto Oaudio che al principio dell'estrazione a sorte, cara ai senatori, si è sostituito quello della nomina imperiale, conforme alle ambizioni di questo imperatore. La curatela del Tevere figura, come le altre due, tra le cariche più prestigiose che si potessero esercitare. La sua posizione nell'ambito del cursus senatorio si trova in seno a funzioni che seguono immedia­ tamente il consolato. Essa è, a nostro avviso, di dignità quasi equiva­ lente a quella della cura operum publicorum, poiché nel cursus questi due posti non si succedono mai, salvo in un caso che si data al primo terzo del IV secolo. Al contrario, è possibile passare dal Tevere agli acquedotti, come fece C. Caesonius Macer Rufinianus, curatore del Tevere verso il 2 1 0, poi legato di Germania Superiore, curatore delle acque e proconsole d'Africa. Suo figlio, L. Caesonius Lucillus Macer Rufinianus, fu curatore del Tevere verso il 234-235 e, di seguito, cu­ ratore delle acque. È dunque indiscutibile che quest'ultima cura occu­ passe una posizione preminente rispetto alle altre due. Molto probabilmente, le attività dei curatori si estendevano lungo tutto il corso del fiume; altrimenti sarebbe stato difficile regolarne la portata, compito che spettava loro come precisa Cassio Diane (57, 14). Il loro compito consisteva anche nel controllare il confine del fiume nel senso della larghezza, il cui limite era quello raggiunto dalle acque alte. Di qui derivava un'altra competenza: sorvegliare e impedi­ re che i privati occupassero abusivamente le rive del fiume o che ne deviassero una parte delle acque a loro vantaggio; tuttavia avevano la possibilità di autorizzare alcuni ad occupare una parcella di questo suolo considerato pubblico. Come per i loro confratelli dei lavori pubblici, essi stessi procedevano alle assegnazioni e le facevano sicu­ ramente annotare nei registri adeguati. Delimitare il letto del Tevere, badare al rispetto delle sue rive, au­ torizzare privati o collegi professionali ad occuparne una porzione non costituiva la totalità delle responsabilità di tale curatela. Era ne­ cessario, ancora, che essi provvedessero a far regolarmente pulire il suo letto e le sue sponde, attività che, in età repubblicana, era senza dubbio data in appalto e che, durante l'impero spettava al personale di servizio 64• I curatori dovevano, inoltre, far eseguire i lavori neces­ sari, in particolar modo quelli che miravano a restaurare le banchine. Queste ultime facevano parte dei mercati pubblici, che la capitale 91

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dell'impero offriva. Infine, sembra sicuro che i curatori controllasse­ ro, nel rr secolo o più tardi, le corporazioni dei battellieri che naviga­ vano sul fiume e trasportavano gli alimenti indispensabili per la so­ pravvivenza degli abitanti della mégapole. È principalmente questo approvvigionamento, come si sarà compreso, che i curatori dovevano rendere possibile, garantendo la navigazione fluviale, difendendola contro gli attacchi della natura o dell'uomo. Controllare il corso del fiume, e soprattutto il suo corso inferiore, dal centro di Roma, non era cosa agevole. li servizio ebbe anche, a partire da una data inde­ terminata, un corrispondente a Ostia; questa statio ostiense sembra essere stata sotto la tutela di prae/ecti o di adiutores, provenienti dal­ l'ordine equestre. Non è ingiustificato parlare delle "tre grandi curatele urbane", come si fa abitualmente, in modo forse troppo generalizzante. È chia­ ro che questi tre grandi servizi amministrativi erano strettamente lega­ ti, e in relazione senza dubbio costante. Pur senza avere un'organizza­ zione totalmente identica, la loro struttura presentava numerose somi­ glianze. Create in date alquanto ravvicinate, conobbero tutte e tre una direzione collegiale, che sparì un giorno per lasciare il posto ad una autorità monocefala, o bicefala nel caso un po' particolare della cura dei lavori pubblici (sacri e profani), emanazione del principe di cui essa era la rappresentante. È al livello dei subalterni che le diffe­ renze strutturali sono più nette: infatti, i curatori delle acque e del Tevere avevano assistenti permanenti e non suscettibili di sparire a vantaggio di un funzionario nominato a titolo temporaneo, come ac­ cadeva nel caso dei curatores operum puhlicorum. Infine, questi tre servizi erano intimamente legati dalle loro attività: essi dovevano ba­ dare al rispetto del suolo pubblico di Roma allo stesso modo, sia che si trattasse di terreni su cui si ergevano gli archi degli acquedotti, sia che si trattasse delle rive del fiume o dei luoghi adatti ad accogliere monumenti profani o edifici sacri. Per questa sola ragione essi dove­ vano essere frequentemente in relazione. Tuttavia, sarebbe errato pensare che questi tre servizi costituissero un'entità amministrativa autonoma e autosufficiente. Ognuno di essi era legato ad altri uffici della capitale, e tutti ai magistrati che, con gli edili e i pretori, aveva­ no competenze edilizie e giurisdizionali. Si possono menzionare ad esempio i legami che si erano intessuti tra il servizio delle acque e quello delle /rumentationes, o il legame che esisteva tra l'amministra­ zione del Tevere e quella dell'annona. Per assicurare l'approvvigiona­ mento della capitale e alimentarne i mercati urbani era in effetti ne­ cessario che il Tevere fosse navigabile!

2 . I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

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La prefettura dell'annona e le /rumentationes Non ci si dilungherà su questo aspetto dell'amministrazione urbana, poiché ad esso è stato riservato un contributo in questa stessa opera (dr. CAP. 3). Vorremmo solamente sottolineare quegli aspetti che la prefettura dell'annona condivideva con gli altri servizi amministrativi di Roma, e i legami che potevano unirla ad alcuni di questi 6' . In effetti, assicurare l'approvvigionamento della città e le distribu­ zioni agli aventi-diritto della capitale presupponeva l'esistenza di una stretta collaborazione tra prefettura dell'annona, servizio della Minu­ cia e un certo numero di altri servizi urbani. La prefettura dell'annona condivideva con più settori dell'ammini­ strazione urbana il privilegio di essere stata istituita da Augusto in persona; come si è visto, le prefetture urbana e del pretorio, la cura­ tela degli acquedotti e quella dei lavori pubblici divennero, per inizia­ tiva del fondatore del principato, organi amministrativi permanenti e competenti. Nell'g d.C. Augusto istituì la prae/ectura annonae, che af. fidò, da accorto amministratore, non a un senatore, ma a un dignita­ rio equestre. Alla prefettura dell'annona doveva spettare la terza posi­ zione nella gerarchia delle funzioni che costituivano il cursus equestre, dopo quella del pretorio e quella d'Egitto, subito prima di quella dei vigili. Ora, non è inutile sottolineare i legami che si intrecciarono ne­ cessariamente tra il prefetto dell'annona e i suoi omologhi d'Egitto e dei vigili. Il primo, che era in carica ad Alessandria, doveva ammini­ strare «il più grande emporio del mondo», e non poteva fare a meno di interessarsi ai procuratori dei granai ad Mercurium e di Neapolis, che lavoravano «essenzialmente per gli interessi dell'annona di Roma» 66• Quanto al secondo, che doveva lottare contro il fuoco e i furti, nessuno dubita che abbia operato di comune accordo con il prefetto dell'annona: «una collaborazione si instaurò, a tal riguardo, col servizio dei vigili, corpo dei pompieri e polizia notturna. La ri­ partizione topografica delle caserme dei vigili e degli excubitoria o po­ sti di guardia a Roma permetteva un intervento rapido in caso di pericolo» 67• Ma parallelamente, si avviarono altre collaborazioni: col curatore del Tevere, si è visto, che doveva assicurare la navigabilità del fiume. Il buon funzionamento del servizio annonario dipendeva, in effetti, in larga misura dallo stato del fiume. Inoltre, era necessario controllare la circolazione delle naues caudicariae che trasportavano le merci fino al ponte Sublicio. Si imponeva allora, in questo campo, una riparti­ zione dei compiti o un'azione congiunta. Sicuramente, i legami tra i 93

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due servizi si stabilirono più facilmente dato che l'uno e l'altro di­ sponevano di un corrispondente (statio) a Ostia, ciò che, senz'altro, non è il frutto di un caso. Situati alla foce del fiume, i due uffici con­ correvano, con i servizi centrali romani, e ciascuno a suo modo, al­ l'approwigionamento di questo enorme mercato di consumo che era allora Roma, e, così facendo, al mantenimento dell'ordine pubblico. Un fiume non navigabile poteva minacciare il trasporto delle derrate, scontentare gli abitanti dell'Urhs, inquieti nel vedere la carestia profi­ larsi all'orizzonte, e poteva provocare l'impopolarità del principe, giu­ dicato imprevidente dai suoi sudditi. Sia le difficoltà di navigazione che i ritardi nell'arrivo delle merci rischiavano di compromettere pro­ prio la pax urbana. Un'altra amministrazione aveva senza dubbio regolarmente a che fare con la prefettura dell'annona: si tratta di quella dei lavori pub­ blici. Infatti, era necessario assolutamente prowedere affinché fosse adeguatamente curata la manutenzione degli horrea, in cui venivano immagazzinate soprattutto le granaglie, senza contare quelli che veni­ vano costruiti ex novo; gli autori antichi menzionano frequentemente i nuovi granai edificati per le iniziative degli imperatori, e soprattutto di quelli buoni che, da sovrani accorti, badavano allo stoccaggio delle derrate 68 • Tutti questi horrea si trovavano su parcelle di suolo pub­ blico e competevano, a questo titolo, alla cura degli opera puhlica. La scelta della loro ubicazione, annotata nei registri della statio, la loro edificazione, data o no in appalto, il loro eventuale restauro spettava­ no, molto probabilmente, al curatore dei lavori pubblici, che doveva, a tal fine, sollecitare il parere del prefetto dell'annona. Il prae/ectus annonae aveva la responsabilità del trasporto e del­ l'immagazzinamento delle merci. Di queste, una parte era prelevata e destinata alle /rumentationes, cioè alle distribuzioni, soprattutto di frumento, che esistevano già in epoca repubblicana e che gli impera­ tori conservarono. Il funzionamento del servizio che se ne occupava non poteva evidentemente realizzarsi senza una stretta collaborazione con il responsabile dell'annona. Ma, come per quest'ultimo, si allac­ ciarono dei rapporti tra i prae/ecti frumenti dandi e i funzionari posti dall'imperatore alla testa di altre amministrazioni. Per cominciare, era necessario assicurare l'ordine nell'ambito delle distribuzioni; certo, anche le coorti urbane erano chiamate a contribuire perché le distri­ buzioni si svolgessero in tranquillità e affinché non si attentasse alla disciplina puhlica. Inoltre, era importante che i luoghi che ospitavano le Jrumentationes fossero in buono stato, compito che spettava alla curatela dei lavori pubblici. Pensiamo in particolar modo agli incendi che potevano danneggiare le due porticus Minuciae, la Vetus e la /ru94

2 , l GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA

mentaria, così come altri edifici che abbiano potuto servire, all'occa­ sione, da luoghi di distribuzione 69 • Fu così che l'incendio degli anni 1 9 1 - 1 92 devastò, tra gli altri edifici, la zona cosiddetta di Largo Ar­ gentina, dove si svolgevano in parte le frumentationes. Non c'è dub­ bio che queste ultime ne furono turbate e che fu necessario predi­ sporre altri luoghi per le distribuzioni, in attesa che i restauri fossero portati a termine. Questi compiti non potevano svolgersi senza una stretta collaborazione tra i servizi della Minucia e dei lavori pubblici. Si ricorderà, a proposito di questo incendio degli ultimi due anni del regno di Commodo, che esso fu seguito da una riorganizzazione del­ l'ufficio delle frumentationes, che si fuse allora con la cura aquarum. È evidente, dunque, che le amministrazioni della mégapole roma­ na non operavano in assoluta autonomia, ma intrattenevano relazioni frequenti, se non addirittura quotidiane, con le loro omologhe. Esse ne guadagnarono in efficacia e contribuirono così alla popolarità del­ l'imperatore, capace di garantire ai suoi sudditi aquam, panem et cir­ censes, per parodiare il celebre verso di Giovenale. 2 .5

La prefettura dei vigili Mantenere l'ordine pubblico e prevenire gli incendi che potevano so­ praggiungere di notte, questo era il compito affidato ai vigili 70 • La loro creazione come corpo di pompieri risale anch'essa ad Augusto. Prima di allora, molti magistrati erano responsabili della lotta e della prevenzione degli incendi: per la cura che esercitavano sulla città, gli edili erano i primi ad essere coinvolti. Quando gli incendi assumeva­ no proporzioni realmente inquietanti per la sopravvivenza della città i consoli davano loro il cambio. Infine, potevano intervenire, occasio­ nalmente, anche i tribuni della plebe, per verificare che l'azione dei magistrati si svolgesse senza incidenti spiacevoli per la popolazione romana. La lotta effettiva contro gli incendi, cioè a dire l'intervento sul campo, era di competenza di magistrati inferiori, specialmente i triumuiri nocturni e i triumuiri capitales, che avevano ai loro ordini un numero indeterminato di schiavi pubblici. Questo evidente frazio­ namento delle responsabilità e l'insufficienza dei mezzi materiali de­ terminarono la caduta e la rovina dell'amministrazione repubblicana; dopo aver a lungo ponderato, Augusto istituì nel 6 d.C. una forza di sette coorti di liberti, responsabili ognuna di due regiones, poste sotto il comando di un prefetto di rango equestre. Questa iniziativa, che in 95

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origine fu concepita come temporanea, perdurò per tutto l'impero. I suoi inizi mostrano perfettamente il pragmatismo che presiedette al­ cune decisioni imperiali, soprattutto per quanto attiene all'ammini­ strazione del territorio urbano. Si ignora il numero esatto degli effet­ tivi dei vigili prima del III secolo. Si sa, al contrario, che a partire dal regno di Commodo o al più tardi di Settimio Severo, le coorti conta­ rono mille uomini. Rapidamente il reclutamento superò il quadro dei liberti non cittadini (i Latini luniam), i quali, dopo la lex Visellia del 24, poterono accedere alla cittadinanza dopo sei anni di servizio. I prefetti che esercitavano il comando superiore delle coorti erano cavalieri, che avevano abbandonato l'ambito delle procuratele per en­ trare in quello delle prefetture; un numero non trascurabile di co­ storo concluse la propria carriera con la prefettura del pretorio, le cui funzioni al tempo stesso militari e giudiziarie non divergevano di molto. Se la missione principale ed essenziale dei prefetti e dei vigili consisteva nella lotta contro gli incendi, essa si estese rapidamente ad altre competenze, a cominciare da quella di polizia - nella città e in alcuni luoghi pubblici come le tenne - e del mantenimento dell'ordi­ ne notturno. Da questi incarichi derivarono delle funzioni giurisdizio­ nali: spettava al prefetto di giudicare i colpevoli degli incendi - dolosi o colposi - senza per questo poterli condannare a morte, poiché con tutta probabilità egli non disponeva del ius gladii. Doveva anche giu­ dicare i ladri sorpresi durante le ronde notturne, gli schiavi fuggitivi. Per quanto attiene alla giurisdizione civile, il prefetto era incaricato di giudicare diverse cause, in virtù del diritto di perquisizione, che gli era riconosciuto. La sua giurisdizione civile si accrebbe nel corso dei secoli, man mano che perdeva il suo carattere militare per rivestire l'aspetto di un funzionario. Salvo eccezioni, non era, naturalmente, il prefetto che lottava in prima persona contro gli incendi, e che faceva le ronde notturne per prevenire e assicurare il mantenimento dell'ordine. È al suo subalter­ no, il subprae/ectus uigilum e più ancora ai soldati delle sette coorti che spettava questo grave compito. Costoro calzando le loro tradizio­ nali caligae, annati di torce, di asce, di secchi e di qualche altro stru­ mento (rampini, coperture imbevute di aceto), fomiti di pompe (si­ phones), misuravano a grandi passi di notte il selciato romano, sia per prevenire gli incendi che per tentare di spegnerli. A tal riguardo oc­ corre sottolineare la collaborazione che doveva necessariamente esi­ stere tra il servizio dei vigili e la cura aquarum; non si poteva pennet­ tere che l'acqua, che non sempre era sufficiente a spegnere gli incen­ di, venisse a mancare o a non sgorgare, quando ve ne era un bisogno pressante e vitale; era necessari o che le fontane fossero in buono sta-

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to, gli acquedotti pronti a essere svuotati se necessario... : per fare ciò, un'azione congiunta dei due servizi era indispensabile. Il lavoro dei vigili non cessava con il sorgere del giorno; se la re­ sponsabilità di perlustrazione e di polizia diurna passava allora alle coorti urbane e pretorie, i vigili avevano l'obbligo di intervenire in un punto qualsiasi delle due regiones che ogni coorte aveva sotto con­ trollo; alcune delle loro funzioni non potevano, d'altronde, esercitarsi che di giorno: verificare che i privati fossero informati e muniti di strumenti di base per la lotta contro il fuoco, allenarsi, assicurare il servizio di polizia nelle terme, senza contare i compiti amministrativi che contribuivano al buon funzionamento del servizio. Avevano anco­ ra un'ultima competenza che costringeva alcuni di loro ad allontanar­ si temporaneamente da Roma: la sorveglianza del porto di Ostia e probabilmente di quello di Pozzuoli, che i vigili assicuravano dall'e­ poca flavia: «I soldati dei vigili "discendevano" a Ostia alle idi di di­ cembre, aprile e agosto e "risalivano" a Roma quattro mesi più tardi quando arrivava il cambio» 7 1 • Vi svolgevano un compito assai simile a quello che era di loro competenza a Roma; questo era tanto più importante in quanto Ostia e Pozzuoli, porti di Roma, dovevano fun­ zionare regolarmente e con meno ostacoli possibili, al fine di non in­ tralciare l'approwigionamento di Roma e, dunque, di non mettere in difficoltà gli abitanti dell'Urbs; ne andava della disciplina publica e della popolarità del principe. A tal riguardo, non ci si meraviglierà che i tre servizi che assicuravano il trasporto delle merci fino a Roma, via fiume, e che ne garantivano, in certo modo, la sicurezza dei di­ versi empori in cui esse venivano immagazzinate, impedendone la di­ struzione da parte del fuoco o dei furti, disponessero di uffici (statio­ nes) a Ostia. La loro efficacia, oltre alla soddisfazione del principe e dei suoi sudditi, non ne fu che accresciuta. Si tocca cosl con mano la sollecitudine degli imperatori nei confronti degli abitanti dell'Urbs e ancor più il loro desiderio di imbavagliare una plebe facilmente ira­ scibile. In definitiva, non si può che ammirare il talento con cui i Romani seppero elaborare, adattare, trasformare ogni volta che era necessario servizi amministrativi destinati a facilitare la loro vita quotidiana e a dare del principe l'immagine di un sovrano generoso, vigile e pieno di sollecitudine verso il suo popolo. Queste differenti amministrazioni erano ampiamente espressione delle virtù imperiali del buon principe: uirtus dei vigili che lottavano contro il flagello endemico che era il fuoco, clementia dei servizi che assicuravano l'alimentazione della po­ polazione, soprattutto per favore imperiale, iustitia alla quale contri­ buivano, per delega del principe, le amministrazioni responsabili dei 97

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diversi servizi, pietas, infine, che poteva prosperare grazie alle innu­ merevoli aedes sacrae erette sul suolo pubblico dell'Urbs. Dietro a cia­ scun ufficio centrale si cela il principe, benefattore della sua città, pa­ drone di questa e del suo impero. Siamo lontani dall'epoca repub­ blicana in cui i poteri edilizio, di polizia, giudiziario erano divisi tra molteplici mani che si sforzavano, con esito più o meno fortunato, di far funzionare il corpo. Questo corpo ha ormai una testa che delega alle membra una parte delle sue prerogative, senza per questo rinun­ ciarvi. I tempi non sono compiuti, ma i segni sono invertiti !

Note

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Desideriamo ringraziare il professor CL Nicolet per i numerosi suggerimenti e consigli che ci ha offerto. È a lui che dobbiamo questo capitolo, per il quale ci siamo ampiamente ispirati alle sue ricerche sulla mégapole romana e sull'inversione dei segni che caratterizza il passaggio dalla repubblica all'impero. Lo ringraziamo caloros11.111en­ te per aver voluto, inoltre, rileggere queste pagine. 1. Ed. Seeck, Berolini 1876; G. Clemente, lA "Notitia Dignitatum", Cagliari 1968. 2. Cfr. A. Fraschettl, Roma e il principe, Roma-Bari 1990, pp. 2n-60. 3. Io. , Apoc. , 17, 4 e 18. 4. Su questa 11.111ministrazione cfr. in particolar modo P.-E. Vigneaux, Errai rur l'hirtoire de la prae/ectura urbir à Rome, Paru. 1896; G. Vitucci, Rkerche rulla Prae­ fectura urbis in età imperiale (secoli I-lll), Roma 1956; A. Chastagnol, lA pré/ecture urbaine à Rome rour le Bar-Empire, Paris 1960; O. F. Robinson, Ancient Rome. City Planning and Adminirtration, London-New Yorlc 1992. 5. Suet., Aug., 37: «Perché più numerosi fossero i partecipanti all'11.111ministrazio­ ne della cosa pubblica escogitò nuovi uffici: la cura delle opere pubbliche, delle vie, delle acque, dell'alveo del Tevere, della distribuzione del frumento al popolo, e la prefettura dell'Urbe, e un triumvirato per l'elezione dei senatori e un altro triumvirato che facesse la rassegna dei cavalieri tutte le volte che fosse necessario» (trad. it. di G. Vitali, Bologna 1982). 6. In greco rnaQxoç tflç n6À.Ewç oppure 'PdJµt]ç, 7. Tac., Ann., 6, u: «Per primo Messala Corvino ricevette quell'autorità, e do­ vette deporla nel giro di pochi giorni, come incapace di esercitarla; poi Tauro Statilio, benché di età avanzata, la sostenne onorevolmente; infine Pisone, dopo averla tenuta per venti anni con altrettanta approvazione, ebbe, per decreto del senato, gli onori del funerale a spese pubbliche» (trad. it. di A. Arici, Torino 1983). L. Pisone morì nel 3 2 d.C. (Cass. Dio, 5 8 , 16); fu dunque designato alla prefettura urbana nel 1 3 ; a ragione Th. Mommsen, Staatrrecht, u, p. 1o61 ( = Droit Public, v, Paris 1896, pp. 362-3) preci­ sa che «Pisone deve essere entrato in carica, quando Augusto e Tiberio lasciarono Roma, nel corso dell'anno 1 3 , e poi nuov11.111ente nel maggio o giugno del 14, ed in seguito deve aver assunto la carica ogni qualvolta la assunse Tiberio, Ed in effetti, tale carica divenne pettnanente, quando Tiberio si allontanò dalla capitale nel 26, senza più farvi ritorno». 8, SHA, Alex. Sev., 33, 1; A. Chastagnol, Notes chronologiquer rur l'Hirtoire Augu­ ste et le l.Aterculur de Polemiur Silviur, in "Historia", 4, 19n, pp. 184-8; cfr. anche S,

2 . I GRANDI SE RVIZI PUBBLICI A ROMA

Panciera, Ancora tra epigrafia e topografia, in L'Urbs: espace urbain et Histoire, Roma 1987, pp. 78-80. 9. SHA, Alex. Sev., 19: «Praef praet. sibi ex senatus auctoritate constituit. Praef urbi a senatu accepit»: «Con l'autorizzazione del senato, provvide alla scelta del pre­ fetto del pretorio. Per il prefetto di Roma accettò la scelta del senato» (trad. it. di P. Soverini, Torino 1983). ar. Chastagnol, La pré/ecture urbaine, cit., p. 190: «La scelta del prefetto spettava soltanto al principe. Quando il biografo di Severo Alessandro sostiene, nella Historia Augusta, che questo imperatore avrebbe ceduto la sua preroga­ tiva al senato, si lascia andare all'immaginazione ed esprime una falsità lampante ... Infatti, l'imperatore era il solo padrone della propria scelta: in talune circostanze po­ teva assecondare la volontà implicita - o anche esplicita - del senato, nominando un personaggio che sapeva stimato dai membri dell'assemblea. ..». ro. Quattro prefetti furono verosimilmente in carica sotto Commodo; tra il 196 e il 2 n , ve ne furono senza dubbio due o tre, tra cui L. Fabius Cilo (pm•, F 27), che fu in carica tra 202-203 e 2 n ; tra 2 1 8 e 2 24, se ne conoscono almeno sette. La durata della carica era allora senza dubbio variabile. Su questo punto, cfr. W. Eck, Beforde­ rungskriterien innerhalb der senatorischen Laufbahn, dargestetlt an der Zeit von 69 bis 138 n. Chr., in ANRW, Il, 1 , Berlin 1974, pp. 209 ss.; G. Alfoldy, K.onsulat und Senato­ renstand unter den Antoninen, Bonn 1977, p. 2 3 ; P. M. M. Leunissen, Konsuln und

Konsulare in der Zeit von Commodus bis Severus Alexander (180-235 n. Chr.). Prosopo­ graphische Untersuchungen zur senatorischen Elite in romischen Kaise"eich, Gieben,

Amsterdam, 1989, pp. u-3. n. In quanto membro dell'orda senatorius, il prefetto è qualificato come u(ir) c(larissimus) a partire dal regno di Marco Aurelio; cfr. G. Barbieri, L'albo senatorio da Settimio Severo a Carino, 193-285, Roma 19p. u. Così Ti. Plautius Silvanus (PlR.2 , P 480), prefetto sotto Vespasiano, console per la seconda volta nel 74 durante la sua prefettura (crr., XIV, 3608); Aufidius Victori­ nus (pm• A 1393), console per la seconda volta e prefetto urbano nel 183; Q. Maecius Laetus (cfr. H. G. Ptlaum, Carrières Procuratoriennes, Pari& 1960, n. 2 19, pp . .5 8 1-3), prefetto del pretorio di Caracalla, divenuto in seguito prefetto urbano, carica che cu­ mulò con un secondo consolato; L. Marius Maximus (PlR', M 308), prefetto nel 2 r7 e console per la seconda volta nel 2 23. 13. Cfr. M. Christol, Essai sur l'évolution des ca"ières sénatoriales dans la seconde moitié du ccl" siècle ap. C., Pari& 1986, p. 2 3 e liste alle pp. 2.5 ss. 14. Chastagnol, La pré/ecture urbaine, cit., p. 198. 1.5. S u questo punto, cfr. Vigneaux, Essai, cit., p. 9 2 , e Vitucci, Ricerche, cit., pp. 17-8 e 20- 1 . ll prefetto riceveva ugualmente un salario versato dalla cassa centrale del fuco. Ignoriamo quale fosse l'ammontare e le poche informazioni di cui disponiamo riguardano più che altro l'epoca tarda; cfr. Chastagnol, La pré/ecture urbaine, cit., pp. 209-13. 16. Seneca, Ep. ad Lucilium, 83, 14, r e Dig., r , u, 1 , 4: «" Poiché ti abbiamo affidato la cura della nostra città": dunque, la conoscenza di tutti i delitti che si com­ mettono nella città sono di competenza del prefetto della città. È lo stesso per quelli che sono commessi al di fuori della città, alla distanza di cento miglia, ma la sua giuri­ sdizione non si estende al di là». 17. Chastagnol, La pré/ecture urbaine, cit., p. 2 64. Cfr. anche W. Nippel, Au/ruhr und "Polizei" in der romischen Republile, Stuttgart r988, pp. r6.5-7. 18. Cfr. Vigneaux, Essai, cit., p. 67. 19. Dig., r, u, r, u: «Quies quoque popularium et disdplina spectaculorum ad prae/ecti urbi curam pertinere videtur» («La quiete pubblica e la disciplina che deve essere osservata durante gli spettacoli sono di competenza del prefetto urbano»).

f.

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ROMA IMPERIALE 20. Dig., 1, 12, 1, u: «Cura c11rt1is omnis ut iusto p,etio p,aebeat1'r ad curam p,ae/ecturae pertinet, et ideo et forum suarium sub ipsius cura est» («Il prefeno urbano deve aver cura che la carne sia venduta ad un prezzo ragionevole. Il mercato della carne suina è di sua competenza»). 2 1 . QL VJ, 1 009 ( = ns 2012). 22. M. Durry, Les cohortes p,étoriennes, Paris 1938, p. 167. 23. Queste funzioni e quelle che sono citate più in basso sono attestate dal passo fondamentale di U)piano De officio p,ae/ecti urbi, Dig., 1 , 12. 24. Dig., 1 , 1 2 , 1 : «Il prefetto urbano ha competenza su tutti i crimini». 2.5. CTr. W. Eclc, Die staatliche Organisation ltaliens in der hohen Kaiserr.eit, Miinchen 1979, pp. 247-66 (trad. it. L'Italia nell'impero romano. Stato e amministra­ zione in epoca imperiale, Bari 1 999, pp. 2H·7.5), 26. Dig., 1, 1 2 , 3: «Prae/ectus urbi cum terminos urbis exierit, potestatem non ha­ bet: extra urbem potesi iubere iudicare» («Il prefetto urbano non ha potere di coerci­ zione fuori dai confini della sua giurisdizione; tuttavia, fuori dalla città, egli può nomi­ nare dei giudici che giudichino al suo posto»). 27. Lyd., De mag. , 1, 34. 28. Chastagnol, La p,éfecture urbaine, cit., p. 2.50. 29. F. Coarelli, Guida Archeologica di Roma, Roma-Bari 199.5 (nuova ed.), p. 14.5. 30. CTr. W. Ensslin, RE, 22, 2, s.v. Praejeel1's p,aetorio, c. 2397. 31. Sulle coorti pretorie in epoca repubblicana, cfr. A. Passerini, Le coorti preto­

ne, Roma

1969, pp. 3-40. 32. Durry, Les cohortes p,éton'ennes, cit., pp. 77-8. 33. Tac., Ann., 4, 2, 7; Cass. Dio, .57, 19, 6; Suet., Tib., 37. Esse stazionarono li a partire dal 23 d.C. 34. Cass. Dio, .5.5, 10, 1 0; cfr. Passerini, Les cohortes p,étoriennes, cit., pp. 2 1 6-20. 3.5. Questo principio era ancora in vigore nel II secolo, poiché, secondo l'Histo­ ria Augusta, a Marco Aurelio sarebbe dispiaciuto non poter nominare il futuro impe­ ratore Pertinace alla prefettura al pretorio, a causa della sua appartenenza al rango senatorio: « ... doluitque palam M=s quod senato, esset, p,aef. p,aet. fieri a se non posse»: «e Marco si lamentava spesso in pubblico di non poterlo nominare prefetto al pretorio, a causa del fatto che egli era senatore» (SHA, Pert., 2, 9). 36. aL XVJ , 2 1 , 9.5, 98, u4, 13.5 per esempio. 37. CTr. per esempio Comelius Laco, ex assessore p,. p,aetorii, prefetto di Galba: Tac., Hist., 1 , 1 3 ; Suet., Go/ba, 14, 2, 38. CTr. H.-G. Pilaum, Carrières Procuratoriennes, cit., 247, p. 666: «... essi non sono, infatti, che uiri eminentissimi, malgrado la concessione degli ornamento consula­ na da parte di Caracalla, non determinando questo ano ipso facto l'adlectio in amplis­ simum ordinem. Questo si ricava chiaramente dal passo di Cassio Dione, il quale so­ stiene che Macrino continuava ad appartenere all'ordine equestre, pur vestendo la porpora». 39. SHA, Alex. Seu., 2 1 , 3 e .5: «Ai suoi prefetti del pretorio conferi in aggiunta la dign ità senatoria, affinché entrassero nel rango dell'"Eccellenza" e ne ricevessero l'epi­ teto ... Alessandro, invece, volle che i prefetti del pretorio avessero la dignità senatoria, al fine che nessuno che non fosse senatore lui stesso avesse a giudicare un senatore romano» (trad. it. P. Soverini, Torino 1983). 40. Su questo argomento cfr. A. Chastagnol, Le Sénat romain à l'époque impma­ le, Paris 1992, pp. 234-9.

1 00

2 . I GRANDI SERVIZI PUBBLICI A ROMA Nippel, Au/ruhr und Polk,ei, cit., p. 161; cfr. anche Robinson, Ancient Rome, 182 ss. PIR, T 146. Durry, Les cohortes prétoriennes, cit. , p. 1 3 . Ca.ss. Dio, ,-2, 24. Cfr. Durry, Les cohortes prétoriennes, cit., pp. 168-9; L. L. Howe, The Preto­ rian Prefect /rom Commodus to Diocletian (A.D. r80-305), Chicago 1942, pp. 22-3 ; R Sablayrolles, Lihertinus miles. Les cohortes de vigiles, Roma 1996, pp. 100-r. 46. Durry, Les cohortes prétoriennes, cit., p. 275. 47. Ca.ss. Dio, 71, 33, 3 . Cfr. Howe, The Pretorian Pre/ect, cit., pp. 2 1 - 3 , discute della natura dei comandi che i prefetti ricevevano regolannente da parte degli impera­ tori e che essi esercitavano su tutto l'esercito. L'autore opta per l'idea che i prefetti acquistarono, nel corso del III secolo, «a generai delegation similar to that which he [the prefect] held in the judicial [sphere]» (p. 28). 48. Cfr. supra; Howe, The Pretorian Pre/ect, cit., p. 34. 49. Durry, Les cohortes prétoriennes, cit., p. 172; cfr. anche Howe, The Pretorian Pre/ect, cit., p. 31. ,-o. Cfr. sHA, M. Aur., rr, ro; Howe, The Pretorian Prefect, cit. , p. 32. ,- 1 . In greco ÈsoXW"ta'tGç. Cfr. Passerini, Le coorti pretorie, cit., p. 222. '2· Su questa questione, cfr. Howe, The Pretorian Prefect, cit. , pp. 1,- ss. H· Cfr. CAP. 4· 14. Su questo argomento, cfr. principalmente E. De Ruggiero, Lo stato e le opere pubbliche in Roma antic4, Torino 192,-; L. Homo, Rome impériale et l'urbanisme dans l'Antiquité, Paris 197 1 ; A. Kolb, Die kaiserliche Bauverwaltung in der Stadt Rom. Ge­ schichte und Au/bau der cura operum publicorum unter dem Principat, Stuttgart 1993; cfr. ancora il nostro lavoro, Les opera publica à Rome (r80-305 ap. J.-C.). O:mstruction et administration, Paris 1997. ,,-. Questi documenti amministrativi potevano essere prodotti in ca.so di conflitto che opponesse un privato, beneficiario di una parcella pubblica, a un altro privato o un'amministrazione. Di questo tipo di conflitto si ha una traccia attraverso la lis ful/o­ num, un processo che oppose al fisco certamente dei fulloni accusati di non versare allo Stato il canone dovuto: C!L VI, 266. ,-6. Un eccellente esempio è rappresentato dal custode della colonna antonina, il liberto imperiale Adra.stus, che, nel 193, ottenne che gli venisse assegnata un'area sulla quale potesse far costruire una habitatio e che potesse trasmettere ai suoi eredi; in cambio Adrastus si impegnò a pagare un solarium sicut caeteri; ca, VI, 1,-85 a e b ( = !LS ,-920). ,-7. AE, 194,-, 80 (Cannae, Apulia); ca, x, 66,-7 ( = rLS 1 3 87, Antium). Per l'incendio del 69, cfr. Tacito, Hist., 4, 53: «Curam restituendi Capito/ii in 4r. cit., pp. 42. 43. 44. 4,-.

,-a.

L. Vestinum confert, equestris ordinis virum, sed auctoritate famaque inter proceres:»

(«L'incarico di ricostruire il Campidoglio viene conferito a L. Vestino, personaggio tra i più eminenti per autorità e fama, sebbene appartenesse soltanto all'ordine equestre»; trad. it. A. Arici, Torino 1983); per quello dell'8o, cfr. Suet., Tit., 8, 10: «Urbis incen­

dio nihil pub/ice nisi perisse testatus, cuncta praetorium suorum omamenta ex operihus ac templis destinauit praeposuitque compluris ex equestri ordine, quo quaeque matun'us peragerentu.r» («Dopo aver reso noto che lo stato non aveva subito nessuna perdita dall'incendio, egli destinò ai monumenti e ai templi tutti gli oggetti d'arte delle sue ca.se di campagna e affidò la direzione dei lavori a diversi cavalieri, affinché ognuno fosse portato a termine più in frena»); per i due incendi del regno di Commodo, cfr. Q. Acilius Fuscus, procurato, operis theatri Pompeiani intorno al 202: C!L VIII, 1439 (e 1,-2,.,. = a.s 1430), Thubursicu Bure (Afr. Proc.); ca. XIV, 154 ( = rr.s 43 1 ) , Ostia; cfr.

IO I

ROMA IMPERIALE H.-G- Pflaum, CP 291. Per l'incendio che danneggiò il Colosseo, cfr. C. Attius Alci­ mus Felicianus, curator operis amphitheatn' intorno al 237-238: OL Vili, 822, cfr. 1 234:s ( = 23963 = ILS 1347), Munidpium Aurelium Commodianum. . . (Afr. Proc.); aL Vili, 23948 (Abir Cella, Afr. Proc.); OL xm, 1797 (Lugdunum); cfr. Pflaum, Carrierès Pro­ curatoriennes, cit., n. 327. Sui diversi incendi menzionati, cfr. R. Sablayrolles, Liberti­ nus mi/es. Les cohortes de vigi/es, Roma 1 996, pp. 793-:s, 797-9. :S9· Frontin., Aq., u7 riguardo agli impiegati di servizio, lastricatori ... : « ...ad ea quae non sunt magnae mo/itionis, maturum tamen auxi/ium videntur exigere» (« . . . per i lavori di non grande importanza, ma per i quali è evidente la necessità di un pronto intervento»). 60. CTr. at VI, 1 673 (cfr. 3 1 901 a = ru u u ). Il curatore in questione è L. Aelius Helvius Dionysius, in carica nel 287. Durante la sua curatela, il personaggio sovrinten­ dette al rifacimento dei portici del teatro di Pompeo distrutti dal violento incendio del 283 e che furono ribattezzati in quest'occasione, porticus lovia et Hercu/ia. 61. La principale opera è quella di Le Gall, Le Tibre, f/euve de Rome dans l'Antiquité, Paris 1 9;s3. Cfr. anche Robinson, Andent Rome, cit., pp. 83-94. 62. Suet., Aug., 37. Cfr. n. :S · 63. Casa. Dio, :S 7 , 14: «. . .b1.etvoç b è bfl voµtoaç E K :n:o),:u:n:Ì..'1]91aç vaµatwv au­ 'tÒ yeyovévm :n:év'te àel flouì..E'U'tàç KÀTJQW'tOÌlç empeì..eta9m tO'O :n:otaµoO :rtl)O

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ROMA IMPERIALE

FIGURA r 3

La porticus

Octaviae e la porticus Philippi nella Forma Urhis severiana

Caratteri peculiari e di grande novità nel contesto urbano presentano i portici di Pompeo nel Campo Marzio: sotto certi aspetti, lo svilup­ po in estensione dell'insieme, il colossale impegno edilizio rappresen­ tato specialmente dall'enorme teatro, la valenza anche politica del complesso (teatro, curia), l'esaltazione "personale" del committente

7. L ' E D ILIZIA PUBBL ICA E SACRA

con il tempio della sua divinità protettrice in posizione dominante, ne fanno una creazione originalissima che, se da un lato si apparenta alle porticus con giardini, sotto altri aspetti appare il precedente immedia­ to dei Fori imperiali. Il complesso comprendeva il primo teatro in muratura di Roma: ispirato a quello di Mitilene, non era però appog­ giato al pendio di una collina, come erano solitamente i teatri greci, ma interamente sostruito elevandosi per un'altezza di ben 45 m sulla pianura del Campo Marzio: qui non solo l'ingegno vinceva la natura, ma, nella circostanza, Pompeo aveva sostituito la natura, creando dal piano una pendice artificiale r 6 e quasi una nuova acropoli. La nota ostilità dell'aristocrazia romana alla costruzione di teatri stabili, in quanto potenziali luoghi di raduni popolari al di fuori delle sedi isti­ tuzionali, veniva superata presentando il teatro come una cavea ante­ posta ad un tempio, forzando (ma non troppo) una formula ben nota nell'architettura dei santuari italici (e con paralleli anche nell'Oriente greco) del rr e r secolo. Il tempio pompeiano era quello di Venus Vic­ trix, che sorgeva al sommo della cavea, collegato ad altri culti del me­ desimo complesso (Honos et Virtus, Felicitas, Victoria). Il quadriporti­ co dietro la scena, grandiosa piazza di 180 x 135 m, terminava, all'e­ stremità opposta al teatro, con una grande esedra che ospitava la Cu­ ria Pompeia. Lungo il lato maggiore del quadriportico, due Cornelii Lentuli, Spinther e Crus, costruirono la porticus Lentulorum o Ad Na­ tiones, con le statue colossali che personificavano le 14 genti (natio­ nes) sottomesse da Pompeo, che prolungava il complesso pompeiano fino a raggiungere i Saepta: l'interpretazione prevalente la identifica con il portico che nella Forma Urbis compare con il nome di Hecato­ stylum, "il portico delle cento colonne". Parte integrante del com­ plesso, dunque, il quadriportico aveva tuttavia un'autonomia funzio­ nale ed estetica: noto in massima parte dalla Forma Urbis, presentava un'area centrale occupata da due elementi allungati, separati da un viale centrale, in asse con il tempio di Venere Vincitrice e con la grande esedra della curia. Così, nel giro di poco più di un secolo, tutto il Campo Marzio si awierà a divenire un continuum di viali e parchi alberati, di "luoghi di delizie" (i poeti d'amore del tempo, da Catullo ad Ovidio, ne canteranno gli incontri galanti) e, al tempo stesso, modelli di educazione alla greca, dove la passeggiata, l'eserci­ zio sportivo, più tardi la ritualità del bagno nelle terme, si accompa­ gnavano all'esibizione di opere d'arte di artisti celebri, spesso traspor­ tate a Roma come preda di guerra. Già nel rv e soprattutto nel m secolo si era andata aprendo una certa divaricazione tra le attività dei censori e, in anni non censorii, degli edili, che curavano opere di natura utilitaria, e quelle dei gene-

ROMA IMPERIALE

rali trionfanti, le cui esibizioni più smodate i moralisti compresero sotto il termine di luxuria, quella "lussuria" che si diceva importata in Roma dall'armata d'Asia, dopo la battaglia di Magnesia (190 a.C.): nasce già ora quella retorica del bello correlato all'utile, che attraver­ serà i secoli fino all'impero, quando un Plinio o un Frontino parago­ neranno le opere autenticamente romane, come ponti, acquedotti, strade, cloache, positivo strumento del vivere civile e vera manifesta­ zione della grandezza di Roma, con le "oziose" (otiosae) piramidi d'Egitto o le altrettanto vacue e inutili realizzazioni dei Greci 1 7 • Tornando all'età repubblicana, gli sviluppi delle porlicus di tipo greco non debbono farci dimenticare che le prime attestazioni con­ cernono edifici di carattere utilitario. I primi portici noti a Roma, in­ fatti, furono realizzati nel 193 a.C. dagli edili curuli M. Emilio Lepi­ do e M. Emilio Paolo: uno presso Porta Trigemina 1 8, un altro fuori Porta Fontinale. Nel primo caso la porticus ha carattere funzionale ed è in connessione con i lavori che portarono allo sviluppo dell'empo­ rio: l'edificio è da identificare con la porlicus Aemilia, completata dai censori del 174 (Q. Fulvio Placco e A. Postumio Albino), essi pure impegnati nello sviluppo del nuovo porto tiberino e nella pavimenta­ zione delle strade. È unanime l'identificazione con il complesso a sud dell'Aventino che, con le sue misure di ben 487 x 60 m e una su­ perficie coperta di circa tre ettari, rimase sempre, anche nel confron­ to con i giganti edilizi dell'età imperiale, tra le maggiori costruzioni di Roma. Costruita in opera incerta (uno dei primissimi esempi di tale tecnica), presentava uno spazio suddiviso in 50 ambienti a pianta al­ lungata formati da muri perpendicolari con aperture ad arco sostenu­ te da pilastri, ambienti che si affacciavano sul Tevere digradando su quattro livelli. La prima porticus nota dalle testimonianze letterarie e dai resti sul terreno è dunque un edificio utilitario collegato con un'area portuale: considerando quanto sappiamo delle altre porticus realizzate a partire dagli anni sessanta del 11 secolo, è notevole che il primo edificio noto con questo nome presenti in realtà caratteristiche cosl particolari e atipiche per funzione e sviluppo architettonico: viene da pensare che questa forma architettonica, sviluppata e modificata in senso romano già all'indomani della seconda guerra punica, abbia subito un pro­ cesso di ellenizzazione che, sdoppiando di fatto una tipologia edilizia che si continuò tuttavia a designare con uno stesso nome, ha fatto preferire, per le porticus di rappresentanza, le forme consacrate dalle stoai ellenistiche. Nella generale difficoltà dei dati a disposizione, si direbbe dunque che il carattere utilitario delle prime porlicus romane, opere pubbliche per nulla trionfali, fosse legato all'agibilità della ripa

7. L ' EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

fluviale e alla sistemazione della viabilità, magazzini in bordura di piazzali o percorsi "coperti" che facilitavano i contatti con le nuove zone nevralgiche della città. Quanto all'importanza della zona di Por­ ta Trigemina in connessione col porto tiberino, diremo subito che qui sembra di cogliere, indirettamente, uno dei pochi significativi nessi urbanistico-progettuali nella storia di Roma come organismo urbano, di cui sia dato intravvedere il retroterra ideologico e politico.

7.5 La "Roma degli Emilii" • 9 L'edilità dei due cugini Emilio Paolo e Emilio Lepido, che Livio defi­ nisce "insigne" (insignis aedilitas), cade nel 193 a.C., un momento in cui il potere del "partito" di Scipione, vincitore di Cartagine, pur for­ temente contrastato, è al suo culmine: anche gli Emili sono legati a lui ed è sotto i suoi auspici che si svolgono gli esordi delle loro car­ riere, esemplari nella storia della Roma del II secolo a.C. pur così ric­ ca di grandi personalità. Le opere realizzate nell'edilità del 193 dove­ vano dunque inquadrarsi entro il "progetto" scipionico. Ora, uno dei maggiori problemi con cui si trovava confrontato lo Stato romano era certamente quello dell'organizzazione portuaria e commerciale della città. Fin dall'età dei re il sistema si era imperniato su una struttura portuale alla foce del Tevere (Ostia), distante una trentina di chilo­ metri via fiume, di cui le imbarcazioni potevano risalire a traino o a remi il corso per raggiungere il porto situato subito a monte del Pon­ te Sublicio dirimpetto all'isola tiberina: i templi "emporici" di Fortu­ na e Mater Matuta e il tempio repubblicano tuttora superstite detto della Fortuna Virile (ma in realtà il tempio di Portunus, il dio del porto stesso), segnano approssimativamente due punti-limite della in­ senatura fluviale. L'ampliamento dei mercati e la crescente frequentazione di stra­ nieri aveva potenziato la funzione di scalo della riva tiberina, con un'estensione dell'area commerciale fuori della cinta serviana forse già in età molto antica: emblematica è la columna Minuda, innalzata alla metà del v secolo fuori Porta Trigemina in onore di L. Minucio, che aveva risolto positivamente una crisi granaria. L'episodio sembra indicare nell'area fuori Porta Trigemina un luogo deputato ab antiquo al commercio e alle distribuzioni del grano, ma certamente il ruolo mercantile dell'area conobbe un fortissimo incremento dopo la secon­ da guerra punica, forse non senza ulteriori specializzazioni artigianali e merceologiche. D'altro canto, il difficile passaggio dell'Isola Tiberi-

ROMA IMPERIALE

na, nonché la serie di ponti che, a monte dell'antichissimo Ponte Su­ blicio fabbricato con legno e cordami, erano tutti in pietra a comin­ ciare dal Ponte Emilio (forse iniziato già da M. Emilio Lepido nel 179 e completato da Scipione Emiliano nel 1 42 ) , e soprattutto la dif­ ficoltà di approdi lungo una riva densamente costruita favorirono la distinzione di due zone di attracco, una a sud, per i battelli risalenti il fiume da Ostia, e una a nord per le barche discendenti a Roma dal bacino tiberino, con approdi lungo l'ansa del Tevere al Campo Mar­ zio: sistema di scali fluviali che, grosso modo, corrisponde a quello che, con i due "porti" di Ripagrande a sud e di Ripetta a nord, re­ sterà in uso fino in età moderna. Tuttavia, per ben congegnato che fosse, questo sistema non poteva sopperire alle necessità di una capi­ tale mediterranea, in particolare riguardo all'approdo di navi di gran­ di dimensioni quali quelle, alessandrine e siciliane soprattutto, diffuse dal m secolo a.C. La soluzione allora trovata per ovviare a tale stato di cose fu un "progetto d'insieme" 20 che si cominciò a realizzare tra 194 e 1 93 a.C. imperniato su due poli operativi, da un lato Roma stessa, dall'altro i Campi Flegrei, a oltre 200 km di distanza. Qui infatti, nel quadro di un'ampia operazione coloniaria condotta su estese zone del litorale tirrenico (lo scopo era di proteggere le coste da attacchi dal mare) venne fondata, nel 194 a.C., la colonia di Putea­ li ( odierna Pozzuoli), un sito le cui potenzialità marittime erano ben note; alla fondazione seguirà la costruzione a Roma della porti­ cus Aemilia in cui riconosceremo allora un grande deposito pub­ blico destinato ad accogliere il grano per il popolo romano, con annesso un emporio, cioè un luogo giuridicamente organizzato e protetto per il commercio. Correlativamente, a Pozzuoli si costituirà un emporio gigantesco, una struttura mercantile paragonabile al­ l'emporio panmediterraneo di Delo (verso il 120 a.C. Lucilio defi­ nirà Pozzuoli una Delus minor), con cui Roma si apriva a tutto il mondo ellenistico, vero luogo del commercio tirrenico che filtrava ali'emporium romano solamente quanto aveva diretta attinenza con le esigenze della città. In tal modo, agli inizi del n secolo a.C. si dava avvio a quel sistema portuario che, nonostante i suoi inconve­ nienti, soddisferà le esigenze di Roma per 250 anni, dove Pozzuoli rappresentava per così dire il terminale delle rotte delle grandi navi del Mediterraneo orientale, soprattutto alessandrine, le cui mercan­ zie venivano poi reimbarcate alla volta di Ostia e di Roma su bar­ che più piccole adatte al trasporto fluviale. Colpisce la capacità tec­ nica di creare il grande complesso puteolano: la padronanza di quel "sapere professionale" necessario alla costruzione di darsene, 268

7 . L'EDILJZJA PUBBLICA E SACRA

moli, edifici granari, certamente facilitato dall'afflusso in Roma di tecnici greci di origine o di formazione, ma anche dall'acquisita di­ mestichezza della classe dirigente con lo stile di vita delle grandi capitali ellenistiche. A buon diritto, dunque, si può proporre la formula la "Roma degli Emilii" per indicare lo sviluppo della città nel periodo delle guerre d'Oriente, anche se i «resplendent Aemilii», come li hanno definiti R. Syme e T. P. Wiseman, non sono certo i soli protagoni­ sti sulla scena dell'Urbe. Ma va sottolineata, più che la portata o la qualità di questo o quel monumento, la vocazione a una progettua­ lità globale, che incide in modo profondo su tutte le forme, anti­ che o nuove, dell'architettura pubblica del tempo: sacra nei vari esempi già citati, incluso il tempio capitolino e altri templi di nuo­ va costruzione in circo e in Campo; annonaria e commerciale, con la porticus Aemilia (più controversa è la cronologia del pons lapi­ deus, il primo ponte di pietra della città che pure prenderà nome dagli Emilii); infine forense, nella forma della basilica di cui dob­ biamo ora occuparci.

7 .6 Le basiliche e l'edilizia forense

21

Le basiliche sono considerate tra i più importanti edifici civili della vita pubblica romana; quasi un prolungamento del Foro, costituiro­ no al principio uno spazio dove si potevano svolgere al coperto at­ tività giudiziarie, economico-commerciali o semplicemente affari pri­ vati: il sempre più complesso articolarsi della società romana si ri­ flette in questa tipologia monumentale, che, a livello di centro degli affari, rappresenterà il corrispettivo dei magazzini e dell'emporio che andavano sorgendo sulle rive del Tevere. Infatti, se deriva i suoi aspetti formali dalla stoà greca, la basilica romana perviene a una realizzazione architettonica nuova, articolata spazialmente all'in­ terno con una grande sala centrale fiancheggiata da navate minori. Di fatto non è però possibile stabilire con precisione una definizio­ ne strutturale della basilica («evanescente» secondo P. Gros che poteva variare in relazione ai molteplici usi cui era destinata. Da altri esempi appare evidente come non vi fosse in età repubblicana una tipologia definita: si tratta generalmente di aule a pianta rettan­ golare con una navata centrale più ampia e sopraelevata rispetto alle navate laterali. 22

),

ROMA IMPERIALE

L'importanza della basilica nella vita pubblica romana ha da sempre attirato l'attenzione sulle sue origini e sul suo sviluppo. Il nome non è che la trascrizione dell'aggettivo greco hasi liké, cioè "regale", ed è stato a lungo ricondotto alla stoà hasi leios, portico dell'agorà di Atene del VI secolo a.C., che tuttavia non ha analogie planimetriche e architettoniche con le basiliche. Un altro filone di ricerca ne ha indicato i precedenti diretti nelle sale ipostile dell'E­ gitto tolemaico. Si è così a lungo tentato di fare luce sull'origine della basilica attraverso l'analisi formale dei monumenti noti, conci­ liando i due diversi filoni di ricerca col riconoscere un tipo "orien­ tale" (con peristasi interna e accesso da uno dei lati lunghi) e un tipo "greco" (a tre navate e ingresso sul lato breve: quello che sarà poi lo schema delle basiliche cristiane). Studi più recenti hanno spostato l'attenzione sulla documentazione letteraria per individuare il diretto precedente della basilica civile. La prima basilica di Roma fu, secondo Livio 2 3, la Porcia, costruita nel 184 dal censore M. Porcio Catone tra curia Hostilia e vicus La.utumiarum, sul luogo di due preesistenti atria privati; un passo di Plutarco 24 ne fa la sede dell'attività dei tribuni della plebe. In realtà il termine è attestato già in commedie di Plauto databili tra il 194 e il 191 a.C.: dal contesto dei passi plautini 2 ' la basilica e i suoi frequentatori (i "subbasilicani") vanno collocati nel foro presso il forum piscatorium (il futuro Macellum), il luogo che sarà occupato dalla basilica Emi­ lia. Proprio in questa zona si trovava un enigmatico edificio, l'a­ trium regium, devastato nel 2 ro a.C. da un incendio e ricostruito l'anno successivo 26• Il termine "basilica" sarebbe quindi una locuzione che sostitui­ sce, ellenizzandolo, il vecchio nome atrium regium: le basiliche sop­ piantarono gli atria (privati ma a uso pubblico) a cortile, attorno ai quali si articolavano spazi dedicati a mercati specializzati. Emble­ matico della centralità delle basiliche nella vita pubblica di Roma repubblicana è il carattere ufficiale della loro costruzione: opera di censori nella maggior parte dei casi, ciò che a priori le inseriva nella categoria delle opere "utilitarie", la serie di basiliche realizzata nel corso del II secolo a.C. riflette, al di là della volontà di auto­ promozione dei singoli costruttori, pure presente in massimo grado, un coerente programma pubblico di sistemare e monumentalizzare il centro della vita cittadina. Nel 179 fu eretta dal censore M. Fulvio Nobiliore 2 7 la basilica Fulvia sul luogo della basilica "plautina" nell'area settentrionale del Foro. Restaurato o ultimato dal collega di Fulvio nella censura, M. Emilio Lepido, l'edificio in seguito resterà noto come basilica Emi-

7, L ' E D ILIZIA PUBBLICA E SACRA PIGURA r4

Pianta schematica del Foro Romano in età repubblicana

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AntlUM W!STAl

lia. Sul lato meridionale del Foro, di fronte alla Fulvia-Emilia, il censore Ti. Sempronio Gracco costruì nd 169 la basilica Sempro­ nia, dopo avere acquistato e demolito diversi edifici privati, tra cui la casa appartenuta a Scipione l'Africano: essa occupò tutto il lato della piazza tra i due templi antichissimi dei Castori e di Saturno, fin quasi all'inizio dd clivo capitolino; alcuni resti dell'edificio e delle case a cui si era sovrapposta sono stati rinvenuti sotto la più tarda basilica Giulia. L'ultima basilica di rr secolo fu costruita da Lucio Opimio ' 8 , autore anche di un consistente restauro dd tem­ pio di Concordia: ancora attestata nella prima età imperiale, la ba­ silica dovrebbe essere localizzata nelle vicinanze del tempio, ma di essa, così come della Porcia, sfugge per intero l'aspetto monumen­ tale. Ciò ha condotto a immaginare per queste basiliche una defini­ zione edilizia più fluida e un'articolazione planimetrica più vicina a quella delle stoai che alle "tipiche" basiliche repubblicane e impe­ riali.

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7 . L 'EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

Dalla stessa natura irregolare dello spazio forense appare evi­ dente una posizione preminente (e non solo per le dimensioni) del­ le due basiliche longitudinali, Fulvia-Emilia e Sempronia. Tuttavia anche per queste ultime, di cui pure sono noti alcuni resti, non abbiamo dati sufficienti ad una ricostruzione. Per l'Emilia si è ipo­ tizzata un'articolazione non troppo dissimile da quella della succes­ siva basilica imperiale. In mancanza di dati sicuri in genere ci si riferisce alle considerazioni di Vitruvio " 9 sulla basilica canonica, nonché a basiliche repubblicane conservate in centri minori (Cosa, 150 a.C. ca.; Pompei, 120- 100 a.C., e altre), che ragionevolmente si suppone abbiano avuto a modello gli edifici urbani. Diffusa più tardi in quasi ogni città dell'Impero, paradossalmen­ te la basilica in età imperiale riscuoterà scarso successo proprio nell'Urbe. Il motivo va ravvisato nella circostanza che i Fori impe­ riali ne superavano lo schema sia per caratteristiche funzionali che per impatto monumentale; la più nota e grandiosa delle basiliche imperiali, la Ulpia, era parte integrante del Foro Traiano: lo sche­ ma planimetrico riprendeva, in proporzioni accresciute e con alcu­ ne novità, altri impianti basilicali già noti. Una perdita del carattere funzionale oltre che monumentale delle basiliche urbane è testimo­ niata anche dal fatto che sono noti come basiliche diversi edifici della Roma imperiale, che pure non presentano caratteristiche ar­ chitettoniche assimilabili (Basilica Neptuni, Basilica Argentaria ecc.). Con la creazione della Basilica Giulia, che sostituiva la Sempro­ nia, e con il restauro della Basilica Emilia (in seguito riedificate dopo l'incendio del 14 a.C.) si chiude definitivamente la storia del­ le basiliche forensi romane, salvo per un episodio ultimo che, pur nella sua straordinaria qualità architettonica, distanziato come è nel tempo di oltre tre secoli, si presenta isolato si da sembrare quasi un revival. Significativamente, infatti, l'ultima basilica civile romana è quella eretta all'inizio del IV secolo d.C. da Massenzio, un impe­ ratore pervaso dal senso della maestà e della perpetuità di Roma, e quindi proclive a ripercorrerne gli episodi più salienti della gloria, anche architettonica, passata. Lo schema dell'aula colonnata viene qui trasformato secondo la nuova spazialità dell'architettura impe­ riale, con una grandiosa scansione in tre navate coperte da volte supportate da enormi pilastri. La principale innovazione consiste nel privilegiare l'asse longitudinale, spostando l'ingresso della basili­ ca sul lato corto orientale a cui fa riscontro un'abside sul lato op­ posto: Costantino modificherà il progetto originario, aprendo un in­ gresso sul lato lungo verso la via Sacra e aggiungendo un'abside 2 73

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sul lato lungo opposto, ripristinando così l'antico schema basilica­ le.

7.7 I progetti di Cesare e le realizzazioni di Augusto: i nuovi fori e l'assetto del Foro romano 30 Le vicende edilizie dell'ultimo secolo della Repubblica seguono l'e­ volversi degli eventi politici: l'attività edilizia nel foro consente di ricostruire le vicende degli effimeri cambiamenti istituzionali della dittatura sillana, mentre poco dopo la motte di Silla viene "con­ clusa" la grande quinta monumentale del Campidoglio verso la val­ le del Foro, il Tabularium, ad opera di Q. Lutazio Catulo, insigne rappresentante della nobilitas. Se la lotta politica si era fino allora svolta entro limiti istituzionali tutto sommato ben definiti, l'attività edilizia degli imperatores dei decenni successivi segna una impres­ sionante rottura con la tradizione. Nel 5 5 a.C. Pompeo aveva dedi­ cato il grandioso teatro, legato ai giardini di cui si è parlato, ma anche a una curia (curia Pompeia): in tal modo, emblematicamente convenivano presso di lui il popolo e il senato, riunito nella curia (fu qui che alle Idi di Marzo del 44 venne assassinato Cesare); sot­ to questo aspetto, il complesso pompeiano costituisce l'estremo gra­ do di autoesaltazione eroizzante di un imperator e, nelle sue valen­ ze politiche congiunte con la dedica alla divinità "personale" pro­ tettrice del dedicante, precorre i Fori imperiali: si è parlato di una "architettura del principato" ante litteram. È sintomatico che il progetto cesariano prenda corpo immedia­ tamente dopo, nel 54 a.C., al ritorno dal primo quinquennio di proconsolato nelle Gallie, la cui conquista, ormai realizzata in gran parte, doveva avergli procurato i mezzi finanziari per un program­ ma edilizio tale da misurarsi con quello del suo antagonista. Ma, al contrario di Pompeo, che aveva creato fuori del pomerio un com­ plesso nuovo e quasi alternativo all'esistente, Cesare audacemente sceglie come proprio terreno le strutture "istituzionali" , sia in Cam­ po Marzio 3 1, che soprattutto nel foro stesso, facendo propri, per così dire, i luoghi di maggior significato e più ricchi di tradizioni della città. In questa operazione, Cesare coinvolse magistrati in ca­ rica e personaggi di prestigio del tempo. Nel Foro, la ripianificazio­ ne delle due basiliche maggiori venne affidata nel 54 all'edile curu­ le L. Emilio Paolo che prowide sia al restauro della basilica "gen­ tilizia", rimasta intitolata agli Emili, sia all'appalto della nuova, 2 74

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grandiosa Basilica, che si chiamò invece Basilica Giulia, al posto della vecchia Basilica Sempronia, monumento di una famiglia ormai estinta 3 2 • Ma la sistemazione monumentale del Foro romano costi­ tuisce solo uno dei punti di un programma assai più vasto, che si spingeva fino al progetto di un nuovo Foro dominato dal tempio di Venere Genitrice. Questo progetto risale almeno al 54 a.C., anno dei primi acqui­ sti di terreni e proprietà private nel quartiere dell' Argileto, limitro­ fo al Foro romano. Un famosissimo passo della corrispondenza ci­ ceroniana documenta l'avvio degli acquisti, che Cicerone stesso, fra gli "amici" di Cesare pur essendo nell'entourage di Pompeo, aveva avuto l'incarico di supervisionare 33• Dalla sua lettera sembra che egli riguardasse le acquisizioni di suoli come finalizzate ad un'e­ spansione verso settentrione del Foro romano, piuttosto che alla re­ alizzazione di un nuovo complesso forense; evidentemente il piano dovette andarsi precisando via via, anche in relazione agli avveni­ menti politici che seguirono. Ma, come abbiamo visto, nello stesso tempo gli agenti di Cesare erano impegnati in lavori nel vecchio foro, che coinvolsero gli edifici che costituivano il cuore istituziona­ le della città: il Comizio, drasticamente ridotto di superficie, la tri­ buna dei Rostra spostata verso ovest e svincolata dall'area comiziale come edificio autonomo; quanto alla curia, ricostruita pochissimi anni prima da Silla e ripristinata da suo figlio come Curia Cornelia, fu abbattuta e il nuovo edificio, la Curia Iulia, nella sistemazione finale, ultimata da Augusto nel 29 a.C., si adeguò all'orientamento del Foro cesariano, venendo ad assumere una funzione di cerniera tra questo e il Foro romano. Così anche l'aula del senato, simbolo del potere dell'aristocrazia repubblicana, portava ormai il nome dei Giuli. La "presa di possesso" da parte di Augusto fu più esplicita, con la statua di Vittoria, presso la quale nel 27 a.C. fu apposto il clupeus virtutis, legando indissolubilmente la Vittoria alle qualità del principe: la curia diveniva così in toto un monumento trionfale del nuovo Cesare. Il Foro cesariano, inaugurato nel 46 a.C., comprendeva senza dubbio la piazza lastricata in travertino, i portici perimetrali e il tempio di Venere Genitrice, votato dal dittatore nel 48, prima della battaglia di Farsalo: Venus Genetrix, la progenitrice di Enea e della gente Giulia, prendeva il posto di Venus Victrix come protettrice di Roma. Particolarmente importante per comprendere l'articolazio­ ne generale del Foro di Cesare è la ricostruzione del lato corto sud-orientale, quello opposto al tempio e connesso con la Curia. Si è ricostruito, per la fase originaria, uno sviluppo del portico su 2 75

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Pianta del Tempo di Marte Ultore

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questo lato leggermente arretrato rispetto alle fasi successive, e co­ stituito dunque da una sola navata (mentre un portico a due nava­ te si sviluppava sui lati lunghi). Il raddoppiamento del portico su questo lato, con connessione diretta con il retro della Curia e una fronte colonnata aperta direttamente sull'asse stradale dell'Argileto risalirebbe alla fase augustea: in questa nuova soluzione monumen­ tale si è proposto di identificare il Chalcidicum, l'edificio menziona­ to nelle Res Gestae 34 in relazione alla Curia Iulia. Sempre posterio­ re alla fase cesariana è la sistemazione del lato ovest, dove vennero

7. L ' EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

realizzate taberne nello spazio tra il portico e il muro di conteni­ mento delle pendici capitoline. La fase più significativa, cui appar­ tiene l'assetto attuale del tempio, è quella traianea, preceduta da ingenti interventi domizianei. Il tempio di Venere Genitrice, inizialmente addossato alla colli­ na che univa Campidoglio e Quirinale, fu, dall'inizio, l'elemento dominante dell'insieme monumentale. Se piazza e portici costitui­ scono infatti un temenos nella tradizione dei grandi quadriportici repubblicani, il tempio con podio senza gradinata posto frontal­ mente sul lato di fondo (e non più al centro) del complesso rap­ presenta la vera novità e servì da modello per i Fori imperiali e per numerose realizzazioni provinciali. L'intento "regale" è ancora più esplicito rispetto a quello del complesso pompeiano del Campo Marzio, proprio per la sobrietà e l'essenzialità dell'insieme monu­ mentale: statua equestre in mezzo alla piazza, fontane e tempio del­ la mitica antenata della gens Iulia, in posizione assiale. Quando il dittatore, nel 44, ricevette il senato seduto presso il pronao del tempio di Venere n, non poteva rendere più evidente l'intento ge­ nerale della nuova realizzazione monumentale. 7. 8

Augusto e Roma 36 L'erede di Cesare compare per la prima volta sul palcoscenico mo­ numentale della città con una statua equestre dorata sui rostri, po­ sta dal senato 3 7 verso la fine del 43 aC.; gli ultimi onori saranno quelli celesti, decretati il 17 settembre del r4 d.C., a completare i funerali minuziosamente preparati da Augusto stesso. Pochi periodi sono stati studiati come il cinquantennio che se­ para queste date, denso di avvenimenti decisivi che mutarono pro­ fondamente non solo l'aspetto della città, ma tutto il mondo anti­ co. Si può oggi escludere che vi sia stato un progetto organico nel­ le numerose opere intraprese da Augusto; è tuttavia possibile di­ s tinguere almeno quattro "tappe" principali che corrispondono, come è ovvio, a momenti epocali della complessa storia del perio­ do. li primo momento corrisponde all'età triumvirale, fino alla vit­ toria di Nauloco su Sesto Pompeo; un cambiamento è percepibile negli anni che separano questa dalla vittoria di Azio (36- 3 r a.C.), quando l'assenza di Antonio fece di Ottaviano di fatto il padrone della città. Il periodo fondamentale, tuttavia, è quello che segue la vittoria su Antonio e Cleopatra celebrata dal triplice trionfo del 29, 2 77

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non soltanto perché Ottaviano, onnai unico dominatore di Roma, può realizzare i suoi programmi senza condizionamenti, ma anche perché si costruiscono in modo nuovo le basi giuridico-fonnali del potere del principe. La fase finale (che vede attuata la più impor­ tante riforma urbanistica, la divisione amministrativa della città in 14 regioni), è quella dell'ideologia della pax Augusta (e, con essa, della pietas), che la poesia del tempo collegherà indissolubilmente con la leggenda di Enea e le origini di Roma. Ma nell'ultima fase del regno emergono anche in primo piano le preoccupazioni per la successione nel principato. Per tutti i predecessori di Augu sto, Cesare compreso, il potere aveva a sua base una magistratura, ovvero poteri eccezionali conferiti in particolari circostanze: anche Ottaviano, con Antonio e Lepido, avevano ricevuto dal popolo la designazione straordinaria a triumviri reipublicae constituendae. Ma, nell'approssimarsi dello scontro con Antonio, a questa nonnale logica di potere era subentrata un'altra forma di "autorità" (termine che non basta a rendere lo spessore con­ cettuale e le implicazioni, anche giuridiche, del latino auctoritas) nei confronti dell'intero corpo civico, quando Ottaviano aveva ottenuto che l'Italia intera prestasse a lui giuramento di fedeltà sanzionando cosl la dipendenza morale dei Romani e anzi un autentico rapporto di clientela verso colui che li aveva salvati dalle gu erre civili: «[Augu­ sto] .... ricevette la corona civica dal genere umano» 3 8 • Se le domus aristocratiche esibivano negli atri le insegne dei successi della casata, la corona civica venne affissa ad ornamento del frontone della casa di Augusto 39, quindi pubblicamente esposta all'esterno, a significare che interessava non solo gli abitanti della casa, ma tutti i cittadini. Com'è stato osservato, se il principe ostentava di vivere in una casa assai più modesta di quel che non fossero state le residenze ari­ stocratiche del tempo, è perché il suo patronato si estendeva all'intera città e dunque gli spazi in cui si raccoglieva la sua clientela erano gli spazi stessi dell'Urbe. Nelle feste dei quartieri di Roma (compitalia) come nei Larari privati si sacrificherà al Genius di Augusto come a un patrono comune; l'appellativo, conferitogli più tardi, di pater pa­ triae sintetizzerà efficacemente il senso dell' auctoritas augustea. Que­ sto spiega anche perché Augusto, in prosieguo, riterrà di dover assu­ mere su di sé incombenze che rigu ardavano l'intera città (per esem­ pio l'annona); anche l'aver trasfonnato l'Urbe da una città di mattoni in una città di manno, come affennava orgogliosamente, rileva bensl dalla pratica delle opere trionfali, ma soprattutto dal suo patronato nei confronti della città. Ben 82 erano, già nel 29 a.C., i templi re­ staurati a Roma da lui personalmente, oltre a quelli lasciati all'inter-

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vento di privati: di fatto, l'edilizia templare di Roma verrà rifatta nel nom e di Augusto 40 e spesso la nuova inaugurazione era in coinci­ denza col genetliaco dell'imperatore o con anniversari significativi per gli eventi della famiglia. Il tempio costituisce dunque l'elemento prin­ cipale del paesaggio urbano di età augustea, per la quantità e la qua­ lità delle soluzioni architettoniche e decorative. Questa frenetica atti­ vità va correlata con la politica religiosa attuata dal "restauratore" della Repubblica: tutti gli dei di Roma, e non solo le divinità "perso­ nali" del principe, erano coinvolti in questo programma di rinnova­ mento, morale e religioso prima ancora che edilizio. Gli interventi augustei nel foro non si limitano al completamento deJle opere di Cesare, ma seguono, in un'impressionante progressio­ ne, il maturarsi di un'ideologia del potere correlata all'evolversi degli eventi. L'età triumvirale, fino al 36 circa, non segna una cesura con gli anni precedenti: l'attività monumentale nei grandi cantieri cesaria­ ni è spartita in modo più o meno equo dai triumviri. Ancora in que­ sto tempo singoli generali vittoriosi, diversamente schierati, vengono chiamati a intervenire su prestigiosi monumenti dell'area forense 4 1 o neJle immediate prossimità, come 1'Atrium Libertatis, sede dell'archi­ vio dei censori, che Asinio PoJlione, forse riprendendo un progetto cesariano, ricostrul decorandolo con sculture di famosi artisti greci, antichi e moderni; vi si trovava la prima biblioteca pubblica, immagi­ nata da Cesare sul modello di Alessandria e cui era stato chiamato a sovraintendere il grande Varrone. Ma il monumento più significativo del periodo è il tempio al divo Giulio, sorto là dove il popolo ne aveva tumultuariamente arso il cor­ po, davanti alla Regia, che era stata la residenza sacerdotale di Cesare quale Pontefice Massimo. L'erezione del tempio, dopo la battaglia di Filippi, significava il definitivo annientamento del partito dei Cesarici­ di; ma la dedica venne procrastinata fino al 2 9 a.C., dopo Azio e la morte di Antonio, come parte del programma forense del divi filius ormai unico erede di Cesare. L'edificio, di proporzioni raccorciate, deviava dalle forme canoniche soprattutto perché doppiamente so­ praelevato rispetto al livello della piazza, circostanza che, unita alla brevità della cella, doveva accrescere dal basso la visibilità nel suo in­ terno del simulacro del divo Giulio che, a segno della sua assunzione celeste, recava sul capo la stella (sidus lulium); una grande stella co­ stituiva altresl l'ornamento del frontone. Il podio del tempio, infatti, con la consueta scalinata frontale, si innalzava a sua volta sopra una sorta di elevato suggesto, più ampio del tempio stesso e accessibile non anteriormente, ma da scalette laterali, che creava sulla fronte del1' edificio una tribuna, da identificarsi senza dubbio con i Rostra del 2

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tempio del Divo Giulio, decorati da Augusto con i rostri strappati alle navi di Antonio e Cleopatra. Lo spazio forense veniva così rideli­ mitato dalla contrapposta duplicata tribuna, i Rostra di Cesare e i Ro­ stra aedis divi Iulii: ai lati del tempio del divo Giulio chiudevano sim­ metricamente la piazza verso sud uno e forse due dei ben tre archi trionfali decretati ad Augusto, l'arco aziaco e, secondo una ipotesi 42 , l'arco partico, dedicato nel r9 a.C. per la restituzione delle insegne romane cadute in mano dei Parti nella battaglia di Carrhae (53 a.C.), un successo, diplomatico più che militare, su cui la propaganda a ugu­ stea insistette moltissimo. Il Foro si avviava a divenire un nobile spa­ zio circondato dai monumenti celebrativi della gente Iulia; anche la basilica Emilia venne segregata dalla piazza da un portico dedicato ai due giovani principi designati alla successione, Gaio e Lucio Cesari. In una prospettiva familiare si riattualizzò anche il mito dei Dioscuri, quando Tiberio, a nome suo e del defunto fratello Druso, rifece in forme magnifiche il tempio nel Foro che, dirà Ovidio, «fratelli della stirpe degli dei eressero agli dei fratelli presso il fonte di Giutur­ na» 43 . Ugualmente a nome suo e di Druso, Tiberio ricostruì il tempio della Concordia, i cui lavori si conclusero quando Tiberio era ormai l'erede designato: la Concordia assumeva il nuovo significato dell'ac­ cordo all'interno della famiglia imperiale, che assicurava una tranquil­ la successione dei poteri: la stessa coppia imperiale, Augusto e Livia, vi dedicò oggetti rari e preziosi accanto alla galleria di quadri greci collocatavi da Tiberio. Un arco in onore di Tiberio per il recupero delle insegne perdute da Varo, sorto più tardi all'imbocco nella piaz­ za del vicus lugarius, completò la chiusura dell'area forense su questo lato. Interamente circondato dai monumenti della gente Giulia, il Foro romano era ridotto ad un pubblico scenario per celebrazioni di­ nastiche. Su uno degli archi del Foro romano, l'aziaco o il panico, erano iscritte le liste dei consoli della repubblica e i fasti dei trionfi: la gloriosa storia repubblicana diveniva anch'essa un monumento di marmo, sorta di consacrazione ultima e senza ritorni in cui ormai filo­ logi e antiquari si accingevano a dar ordine definitivo a nomi e se­ quenze spesso controversi per le manipolazioni operate dalle maggiori gentes in competizione per gli onori. Nello stesso spirito, come ve­ dremo, Augusto disporrà nel suo Foro le statue con gli "elogi" dei grandi uomini della Repubblica. L'influenza di queste opere augustee si ripercuoterà durevolmente in Italia e nelle province, creando una consapevolezza e una cultura comuni: quella del principato fu vera­ mente un'arte per tutto l'impero. Quando i Giulio-Claudi si estinse­ ro, la nuova dinastia dei Flavi procurò di legittimare la propria sue280

7. L ' ED[LIZIA PUBBLtCA E SACRA

cessione secondo gli stessi parametri di Augusto, innalzando nel Foro, accanto a Concordia e in modo da condividerne l'impatto poli­ tico e visuale, il tempio dei nuovi divi Vespasiano e Tito. Augusto abbandonò molti dei progetti più ambiziosi di Cesare, sia a Roma che nel circondario, ad esempio l'enorme teatro da edili­ care sulla pendice capitolina, recentemente considerato un tutt'uno con il Foro cesariano, quasi a voler contrapporre un nuovo comples­ so teatro-tempio-foro-curia a quello di Pompeo nel Campo Marzio; ovvero l'idea di deviare il corso del fiume a ridosso dei colli vaticani per allargare la piana del Campo Marzio 44 o ancora quella, antesi­ gnana dei progetti neroniani, di scavare un canale navigabile dal Te­ vere a Terracina, che avrebbe facilitato le relazioni con Pozzuoli, con­ tribuendo altresì al prosciugamento delle Paludi Pontine. L'opera di Cesare invece fu ripresa nell'ampliamento del centro monumentale della città con la costruzione di nuovi Fori imperiali. Un consapevole distacco da Cesare è tuttavia percepibile nel costante riferirsi ad ac­ quisti e redenzioni da privati nel caso, tra gli altri, del Foro di Augu­ sto: un'attenzione per la legalità che ricorre insieme con la tendenza ad aprire al pubblico spazi precedentemente privati, arricchiti di ope­ re d'arte (esemplare il caso della porticus Liviae all'Esquilino, costrui­ ta sul luogo della casa di Vedio Pollione). A seguito di provvedimenti anche formali, il Foro di Augusto di­ verrà sede di attività in precedenza prerogative del Campidoglio, per lo più concernenti eventi legati alla sfera bellica: decreti di trionfi, de­ cisioni militari, partenza dei governatori per le province "armate" (provinciae cum imperio) ecc. Inoltre, verranno qui spostate alcune delle funzioni cui ottemperava il Foro romano, in primo luogo la atti­ vità giudiziaria del pretore urbano. ll foro stesso era costituito da una grande piazza porticata, con due emicicli sui lati lunghi, chiusa sul lato breve di fondo dalla imponente fronte ottastila del tempio di Marte Ultore. Ai lati del tempio sorgevano due archi, il primo dedi­ cato a Germanico, il secondo, simmetrico, eretto più tardi da Tiberio in onore di Druso Minore. Alle spalle e attorno al foro, un poderoso muro in blocchi di tufo, ancora conservato a tratti fino all'altezza ori­ ginaria, separava la piazza monumentale dal popolare quartiere della Subura. La concezione architettonica del nuovo Foro riprende, amplilìcan­ dole, numerose caratteristiche del Foro di Cesare, in primo luogo la presenza del tempio sul fondo, la chiusura e l'unilìcazione dello spa­ zio. Le due grandi esedre aperte ai lati della piazza costituiscono una nuova soluzione di dilatazione spaziale, destinate ad ospitare gli ele­ menti più importanti del programma decorativo. Coronato da Vitto28r

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rie, il frontone del tempio mostrava al centro la fi gura di Marte ac­ compagnato da Venere e Fortuna, ai cui lati Romolo e Roma si fron­ teggiavano rispettivamente presso le personificazioni del Palatino e del Tevere: così il dio della guerra, vendicatore (questo il significato di Ultor) di Cesare a Filippi, appariva invece nella veste di padre di Romolo il fondatore di Roma, e quindi di mitico "antenato" comune del popolo romano; a sua volta, Venere al suo fianco ricordava la di­ vina discendenza di Enea e dei Giulii, cui apparteneva anche la ma­ dre dei Gemelli, Rea Silvia. I due eroi capostipiti, come poi nell'Ara Pacis, riapparivano contrapposti nei porticati al centro del program­ ma figurativo: negli emicicli, infatti, erano sistemate, una di fronte al1' altra, la statua di Enea in fuga da Troia con il padre Anchise e il figlio Ascanio, e quella di Romolo, il fondatore della città, con le spo­ glie di Acrone: nei portici erano esposti sul lato di Enea ritratti di membri della gente Giulia, compresi quelli dei re di Alba Longa, che costituivano il collegamento "storico" tra i due eroi; sul lato opposto, forse personificazioni dei popoli sottomessi da Augusto, come le na­ tiones di Pompeo, ma soprattutto le statue-ritratto dei summi viri in abito trionfale, accompagnate dall'iscrizione con le cariche rivestite e da tabelle con brevi elogia. Qui si faceva ancor più esplicita la delicata operazione storiografi­ ca che investiva ora anche l'iconografia, selezionando e sistemando per immagini la storia più antica di Roma che, col principato sono dalle ceneri della repubblica, confluiva in quella della gente Giulia; un decreto stabiliva inoltre che i futuri trionfatori avrebbero avuto diritto a una statua bronzea nel Foro. Noto da testimonianze lettera­ rie e da "copie" o "citazioni parziali", in Italia e nelle province (ad esempio a Mérida, in Spagna), il programma figurativo del Foro di Augusto (messo a punto nei lunghi anni di edificazione, tra il 44 e il 2 a.C.) costituisce uno dei messaggi politici più espliciti, coscienti e completi restituiti da un monumento antico. Ma il messaggio investe contemporaneamente anche il mondo del­ le forme; insieme con il tempio di Apollo Palatino e con Giove To­ nante sul Campidoglio, la "città di marmo" del programma augusteo trovava qui la sua espressione più alta e solenne, con il magnifico tempio di Marte interamente costruito in blocchi di marmo dalle cave di Carrara, bianco come nei templi della Grecia antica, con capitelli corinzi che per struttura ed esecuzione hanno costituito un canone di riferimento per tutta l'architettura europea fino al Rinascimento e al Neoclassicismo; nell'ampia cella invece (i colonnati laterali accostati alle pareti onde lasciare maggior spazio centrale e visibilità verso l' ab­ side di fondo, con la statua di culto e le recuperate insegne partiche),

7 , L'EDILIZJA PUBBLICA E SACRA

nei portici laterali e nelle esedre, alzati e pavimenti presentavano in alternanza marmi colorati da cave di tutto il Mediterraneo. Nei porti­ cati l'attico si apriva con un loggiato, i cui elementi portanti erano costituiti da una sequenza ritmata di statue raffiguranti fanciulle stan­ ti, classicamente cinte dal peplo, in funzione di cariatidi sostenenti mensoloni aggettanti dalla parete, in cui si sono da tempo riconosciu­ te copie fedeli delle Cariatidi dell'Eretteo sull'Acropoli di Atene. Possiamo cogliere un precedente, in scala ben più ridotta, nel co­ siddetto Portico delle Danaidi, pane della dimora palatina di Augu­ sto che circondava il tempio di Apollo Aziaco, recentemente ricono­ sciute 4' in una serie di figure femminili arcaistiche in basalto nero che ricordavano il mito egiziano delle figlie di Danao condannate ne­ gli Inferi a una perpetua servitù: chiara allusione alla sottomissione dell'Egitto con la vittoria di Azio. Ma con l'ostentato richiamo all'E­ n.1:teo, il cui valore non sfuggiva a nessun Romano colto, l'aureo se­ colo di Augusto assumeva come paradigma formale il vertice delle re­ alizzazioni della antica Grecia, l'Atene vittoriosa sui Persiani (con evi­ dente richiamo al recupero delle insegne partiche), l'Atene del secolo d'oro di Pericle e di Fidia; al tempo stesso, si ribadiva l'antico valore di quell'elemento architettonico figurato, quello cioè delle donne dei vinti gravate dal peso della schiavitù, la cui sequenziale ripetizione sui due porticati trasmetteva l'idea della ineluttabilità del dominio di Roma sull'intera ecumene. Tra le cariatidi, riquadri sul fondo della loggia contenevano clipei con teste di barbari e di Giove Ammone, queste ultime con esplicito richiamo ad Alessandro Magno, non solo per l'universalità dell'impe­ ro da lui creato, ma soprattutto per la vittoria persiana, cui la propa­ ganda augustea voleva richiamarsi per il successo partico e la restitu­ zione delle insegne (ed era la seconda accezione del significato di Ul­ tor. il Marte romano aveva così vendicato la sconfitta di Carrhae); an­ che qui, le magnifiche incorniciature risultano interamente composte con "citazioni" puntuali da monumenti classici di Atene. Opere di scultura classica erano state più volte trasferite ad abbel­ lire monumenti romani; nel tempio di Apollo Palatino, i simulacri di Apollo, Latona e Diana erano statue colossali di Skopas, Timoteo e Cefisodoto, tre fra i massimi scultori del IV secolo a.C.; un intero frontone del v secolo a.C., smontato da un ignoto tempio della Gre­ cia, era stato trasportato a Roma a ornamento di Apollo in circo (So­ siano), e gli esempi possono moltiplicarsi. Ma nel Foro di Augusto vi è l'orgogliosa consapevolezza di possedere compiutamente la lezione formale dell'Atene classica: la Roma augu stea si proponeva a tutti gli effetti quale erede della stagione periclea in quanto momento esem-

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plare, insuperato vertice nella storia della cultura umana. Vi è un'ef­ fettiva coincidenza con l'operazione intellettuale che negli stessi anni realizzava a Roma Dionigi di Alicarnasso con l'affermazione che i Ro­ mani, anziché barbari, in realtà erano parte del mondo greco, perché greche ne erano tutte le componenti etnico-culturali originarie; lo sto­ rico greco «guardava e giudicava Roma da una prospettiva universali­ stica greca» 46• Idee, queste, ben presenti nell'entourage del principe: non a caso il tempio di Quirino sul Quirinale, la fabbrica templare forse più grandiosa della Roma auguste.a (e tuttavia scomparsa, sì che perfino la sua precisa ubicazione è incerta), un diptero ottastilo con una peristasi di ben 76 colonne, viene da Vitruvio definita aedis Qui­ rini dorica, e così appare infatti su uno dei rilievi Hartwig di età fla­ via. Quirino, identificato con Romolo divinizzato alla fine del suo re­ gno sul nuovo popolo sorto dall'unione tra Latini e Sabini, era un dio sabino, e sabino era considerato da tutta la tradizione antica il Quirinale, il colle che da lui prendeva nome e su cui sorgeva il suo tempio. Dunque l'ordine dorico, altrimenti inusitato, venne qui im­ piegato proprio in virtù della leggenda dell'origine spartana dei Sabi­ ni che ne faceva appunto dei Dori: in tale prospettiva metastorica, anche Sparta aveva avuto parte nella genesi, tutta greca, del popolo romano, in cui ogni precedente si riassumeva come in una sorta di sintesi provvidenziale. Dopo la vittoria su Sesto Pompeo, e soprattutto dopo il trionfo aziaco, quando cioè il principe si ritenne permanentemente investito del patronato dell'Urbe e l'enorme disponibilità economica della vit­ toria egiziana consentì di avviare un programma senza precedenti, la sua politica edilizia accentua la divisione fra la città in senso stretto e il quartiere monumentale fuori del pomerio, il Campo Marzio. Degli interventi in Circo Flaminio, attribuiti quasi tutti a membri della fami­ glia (fa eccezione l'Apollo Medico, restaurato da C. Sosia; la cronolo­ gia dell'intervento è controversa), si è già accennato. Entro il sacro limite urbano, invece, Augusto riserba gli interventi a sé o ai suoi di­ scendenti diretti; se al tempo dei triumviri singoli generali vittoriosi avevano potuto contribuire al rinnovamento del Foro, le ultime auto­ rizzazioni a costruire monumenti trionfali interesseranno il solo Cam­ po Marzio, né si opererà più su edifici sacri, quasi a voler dividere sacro da profano. Invece, a integrare quella "vocazione scenica" già segnata dal teatro di Pompeo e proseguita dal teatro di Marcello, nel Campo sorgeranno nuovi edifici da spettacolo, un terzo (e minore) teatro permanente, realizzato nel r3 a.C. da L. Cornelio Balbo sul sito della Villa Publica, e il primo anfiteatro stabile di Roma, costruito da L. Statilio Tauro nel 29 a.C. (ma già iniziato nel 34) in una zona

non ancora identificata: i ludi gladiatori venivano cosl definitivamente allontanati dalla piazza del Foro, e dotati di un edificio apposito. An­ che sotto i Giulio-Oaudi il Campo Marzio resterà la zona dei ludi gladiatori, con gli anfiteatri (almeno parzialmente lignei e perciò tem­ poranei) costruiti da Caligola e da Nerone. La mole maggiore dei lavori spettò ad Agrippa: il vincitore di Nauloco assunse per lo scopo una magistratura apparentemente mi­ nore come l'edilità, che significava peraltro una precisa investitura a operare per il rinnovamento della città (33 a.C.). Si avvia allora il programma di risanamento delle infrastrutture urbane, strade, fogna­ ture, rete idrica, la cui portata venne duplicata; allora furono proba­ bilmente iniziati i lavori di bonifica, che consentiranno, nel decennio seguente, di realizzare il Pantheon (dedicato nel 27; dr. più avanti p. 304), il rifacimento dei Saepta secondo il piano cesariano, sul quale aveva già lavorato Lepido (26 a.C.; il diribitorium fu completato da Augusto più tardi), il primo complesso di terme pubbliche di Roma (dedicate nel 25, ma ultimate nel 1 9 a.C., con la costruzione dell'ac­ quedotto Vergine), a cui si aggiunsero lo Stagnum e l'Euripo, com­ pletati forse nel 19 a.C. con l'Aqua Virgo, ed un nuovo ponte, corri­ spondente all'attuale Ponte Sisto, che connetteva il Campo con il Trastevere. Stagnum, terme, Aqua Virgo ed Euripo dovevano costitui­ re, nella fase finale, un insieme monumentale organico 47 , a cui si ag­ giungeva un nemus (parco alberato) con numerose opere d'ane. Alla morte di Agrippa ( 1 2 a.C.) tutti i monumenti realizzati in pri­ vato solo furono lasciati in eredità ad Augusto, che a sua volta li rese pubblici: è questo un tratto che di recente è stato possibile sottolinea­ re, la costante tendenza a restituire al pubblico, monumentalizzate, grandi aree private, in primo luogo quelle degli horti di Pompeo, pas­ sate in diverse mani nel corso degli anni convulsi delle guerre civili, per finire ad Agrippa. Nel campus Agrippae si trovava la porticus Vi­ psania, il portico ultimato da Augusto che conteneva la prima rap­ presentazione geografica di tutto il mondo conosciuto (orbis pictus), da cui si ritiene derivata la Tabula Peutingeriana. Quanto di queste opere sia da attribuire a un disegno organico è difficile dire; da un lato è evidente che veniva riproposta, in scala più ampia, l'operazione di Pompeo: l'intero Campo Marzio centrale, comprese aree dalle fun­ zioni civiche ben precise, viene monumentalizzato, arricchito di opere d'arte, fontane, terme pubbliche: l'effetto finale della sistemazione dell'area, inclusa la zona del circo Flaminio, è efficacemente descritto da Strabone 48• L'intervento diretto di Augusto è invece discernibile nel Campo Marzio settentrionale, dove, in questo periodo, viene portato a termi-

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ne il nuovo complesso formato da Ara Pacis e Orologio, nell'area dove si trovava già il colossale Mausoleo a tumulo (iniziato nel 28 a.C.). Secondo una recente teoria, i tre monumenti principali del Campo Marzio settentrionale, Mausoleo, Ara Pacis ed horologium, erano legati da una complessa simbologia astrologica, il cui perno era costituito dall'obelisco che fungeva da gnomone dell'horologium, in asse sia con il Mausoleo che con l'Ara Pacis, situata in corrisponden­ za della linea equinoziale coincidente alla nascita di Augusto, sì che il 23 settembre, suo compleanno, l'ombra dell'obelisco indicasse la sua figura scolpita sul fregio sud dell'altare. Il rinvenimento di parte della platea dell'horologium con iscrizioni in lettere bronzee sembrerebbe costituire la conferma principale di questa complicata ricostruzione, che ha raccolto sia consensi che perplessità. L'Ara Pacis, votata per il ritorno di Augusto nel 1 3 , è celebre per la straordinaria decorazione scultorea soprattutto nel recinto esterno, quella dell'altare vero e proprio essendo più danneggiata e perciò non in ogni sua parte di chiara esegesi. Situato in prossimità della Via Lata e aperto trasversalmente da due porte in asse, il recinto era at­ traversato dalla linea ideale del pomerio a sottolineare il passaggio dall' imperium militiae ali' imperium domi realizzatosi con l'adventus dell'imperatore, e quindi il nuovo regno della Pax Augusta all'interno dell'Urbe. Il voto dell'Ara Pacis rappresenta l'apice della fortuna di Augusto, che comincerà a declinare negli anni successivi, quando la morte di diversi principi della domus Augusta lo costringerà a rivede­ re i piani per la successione. L'inaugurazione del tempio di Marte Ul­ tore, nel 2 a.C., cui parteciparono anche i due sfortunati principi Gaio e Lucio Cesari, conclude la serie dei grandi monumenti augu­ stei; dopo il 2 d.C., infatti, si nota un calo improvviso dell'attività edilizia, che coincide con altre indicazioni di difficoltà economiche di questo periodo, fino in età tiberiana. L'apoteosi di Augusto, l'innalza­ mento al nuovo Divo di un tempio (prossimo all'area forense, ma non identificato) concludono un regno durato più di mezzo secolo. La città ha finalmente acquisito la dignità monumentale della capitale di un impero, ma con l'impronta indelebile del princeps nei luoghi chiave della vita pubblica romana: Foro e Circo Flaminio sono ridotti a palcoscenici dinastici della gens Iulia, il Campo Marzio settentriona­ le rappresenta l'espressione simbolicamente più complessa dell'ideo­ logia augustea. Il resto del Campo presenta un nuovo aspetto di grande effetto, ma scompare uno degli spazi più importanti della vita istituzionale repubblicana, la Villa Publica, mentre i Saepta perdono totalmente ogni relazione con la funzione originaria. Il volto della cit­ tà corrisponde, si è osservato, a quello della stessa Repubblica roma286

7. L ' EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

na, allo stesso tempo "restituita" e sovvertita (res publica conservata; restituta; res publica amissa).

7.9 L'età giulio-claudia 49 La politica edilizia dei principi giulio-claudi proseguì secondo le di­ rettrici augustee, ma, almeno all'inizio, senza grandiosità: «neque ulla opera magnifica Jecit», dirà Suetonio 10 di Tiberio. Non mancano ope­ re di pubblica utilità (i castra praetoria ai confini orientali dell'abitato, l'istituzione della cura riparum et alvei Tiberis) e restauri di templi e di grandi monumenti (Foro Olitorio, portico pompeiano); ma soprat­ tutto è notevole il fenomeno del continuo ampliamento del vasto de­ manio imperiale, che mette a disposizione del principe praticamente tutta l'Urbe: sotto Tiberio si completa il passaggio nelle mani dell'im­ peratore dei magnifici horti dei grandi personaggi della tarda età re­ pubblicana che, sul Pincio e in Vaticano, ma soprattutto sull'Esquili­ no, facevano corona alla città. Tipico dell'età giulio-claudia è lo sforzo di sviluppare la politica di propaganda dinastica attraverso l'edilizia religiosa ed onoraria. Al­ cune tipologie monumentali, pur con una lunga storia architettonica, divengono specifici "strumenti della comunicazione" del regime, in primo luogo l'altare a cielo aperto con recinto: i modelli augustei del­ l'Ara Fortunae Reducis e dell'Ara Pacis vengono seguiti da Tiberio so­ prattutto con la ara Providentiae, eretta prima del r7 d.C., come rica­ viamo dalla sua menzione nel s.c. de Pisone patre, dedicata nel giorno dell'adozione di Tiberio in campo Agrippae, dunque in corrisponden­ za (anzi "in contrappunto ideologico") rispetto all'Ara Pacis e alla area del Campo Marzio settentrionale; un altro monumento analogo del 22 d.C. è stato recentemente riconosciuto "· Questi altari mate­ rializzano nello spazio gli eventi e le concezioni che in essi si rifletto­ no e su cui si fonda l'ideologia del principato, riproponendoli perio­ dicamente nella cerimonialità delle ricorrenze. L'interruzione della li­ nea di discendenza diretta da Augusto, che avviene con Claudio, spiega l'esaltazione dinastica di personaggi "di cerniera" tra le due gentes, i Giulii e i Claudii (soprattutto Livia e Germanico). Ma la forma di monumento onorario tipica è ora l'arco, che di­ verrà elemento imprescindibile del paesaggio urbano in Italia come nelle province. Già noto a Roma sin dagli inizi del rr secolo a.C. e legato al percorso del trionfo, l'arco trovava analogia con monumenti onorari dell'ellenismo maturo nelle sue funzioni di supporto di statue

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e di propileo monumentale, ma si differenziava perché i Jornices re­ pubblicani erano dovuti ad iniziative dei costruttori e non ad ono­ ranze decretate dal corpo civico. Come è stato puntualizzato di re­ cente ,� l'appropriazione completa del "linguaggio onorifico" greco avviene quindi solo in età augustea, a partire dalla quale l'arco sarà un monumento ufficiale, decretato per meriti eccezionali dal senato e dal Popolo romano. Architettonicamente mancano dati sicuri sugli archi augustei nel Foro romano, che dovettero costituire un modello: sul terreno resta­ no scarsi elementi di un arco a tre fornici, tra i templi del Divo Giu­ lio e dei Castori, mentre è controversa l'identificazione dei monumen­ ti raffigurati su monete tra il 30 ed il 1.5 a.C. Queste lacune, in parte integrabili con i numerosi archi diffusi proprio dall'età augustea in molte città italiche e provinciali, non impediscono di riconoscere al­ cune imponanti novità: in primo luogo il nesso arco-tempio, frequen­ te in numerose città a panire dagli esempi urbani del foro e del Foro di Augusto. L'aspetto generale degli archi augustei e altoimperiali, a uno o a tre fornici, doveva essere piuttosto semplice; se pure è ipo­ tizzabile la presenza di elementi figurati sui piloni, il fulcro del pro­ gramma figurativo rimaneva comunque affidato al gruppo statuario sull'attico. Un documento unico sul significato politico di un monu­ mento "ufficiale" come l'arco è offeno dalla iscrizione della tabula Siarensis che, con la tabula Hebana, conserva il senatoconsulto relati­ vo alle onoranze postume a Germanico. Dei tre archi (iant') decretati, il testo si sofferma, in tutti i particolari del programma figurativo e dell'iscrizione dedicatoria, su quello da erigersi nel Circo Flaminio, un'area la cui caratterizzazione trionfale è ben nota; soprattutto si specifica «nel luogo dove sono state dedicate [ .. .] le statue in onore del divo Augusto e di tutta la domus Augusta» H . A partire dall'età giulio-claudia si innalzano archi anche al di fuori del percorso trionfale, presso l'entrata in città delle due più imponanti anerie stradali, l'Appia e la Flaminia (normale teatro delle cerimonie di adventus o reditus) in corrispondenza con il san­ tuario di Marte presso pona Capena e con i grandi complessi mo­ numentali del Campo Marzio. Sull'Appia abbiamo menzione di un arco dedicato a Druso Maggiore; l'arco di Oaudio eretto per le vittorie britanniche monumentalizza il passaggio sulla via Lata (Fla­ minia) dell'acqua Vergine ed è stato recentemente interpretato come pona pomeriale, in relazione con l'estensione del pomerio operata dall'imperatore. Una svolta sostanziale nell'evoluzione del­ l'apparato decorativo dell'arco onorario si ha con l'età neroniana: l'arco partico di Nerone sul Campidoglio 54 è perduto, ma le raffi288

7 . L'EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

gurazioni monetali permettono di riconoscere, qui applicate per la prima volta, nuove soluzioni che danno alla struttura stessa del mo­ numento una più movimentata articolazione: il monumento è a un fornice, con colonne su alti plinti interamente distaccate dai piloni; a queste fa riscontro una maggiore complessità della trabeazione mentre statue a tutto tondo compaiono sulle mensole di corona­ mento e pannelli a rilievo sulle fronti dei piloni, tra cui scene di battaglia e Vittorie con trofei. L'arco neroniano anticipa gli sviluppi dell'età flavio-traianea, dall'arco di Tito a quello di Benevento: d'ora in avanti, e fino agli esempi grandiosi di Settimio Severo e di Costantino, l'arco sostituirà le are monumentali nella funzione di supporto dei grandi programmi fi gurativi imperiali. Dell'edilizia pubblica e monumentale del periodo fra Caligola e Nerone non rimane molto; del circo caligoliano nel Campo vatica­ no sopravvive l'obelisco della spina, oggi a piazza S. Pietro; l'anfi­ teatro neroniano del Campo Marzio bruciò nel 64 e non venne ri­ fatto, mentre le grandi terme nell'area a nord dello stagnum Agrip­ pae sono state interamente ricostruite sotto Alessandro Severo, né è possibile stabilire se nello schema rispettino o meno l'impianto ori­ ginario. La maggior impresa edilizia del tempo consiste nella crea­ zione della reggia di Nerone, la Domus Aurea, esaminata al PAR. 5 .4. Ma almeno due episodi maggiori, importanti non soltanto per la storia urbana di Roma, vanno pur brevemente ricordati. Il primo è il grande incendio del 64, premessa necessaria perché l'imperato­ re potesse appropriarsi di interi quartieri danneggiati dal fuoco e costruisse in loro vece il proprio palazzo, sfruttando, come dice Tacito, «la rovina della patria» "· Gli incendi costituivano una real­ tà frequente nelle città antiche, Roma non esclusa: tanto per un esempio, le fonti riferiscono di undici incendi importanti nei circa cent'anni tra il 50 a.C. e il 53 d.C., di cui ben quattro nel solo regno di Tiberio. Tuttavia la violenza devastatrice dell'incendio ne­ roniano oltrepassava ogni confronto "storico" e costantemente pre­ sente nelle fonti è il raffronto con la catastrofe dell'incendio galli­ co ' 6 . cosl come, per converso, tra 1a totale irregolarità della rico­ struzione seguita a quest'ultimo, in confronto con il regolare e ra­ zionale ordinamento dato alla città nel 64. Oltre a notizie in Sueto­ nio e in altri autori, è soprattutto un esteso passo di Tacito che accenna alle normative messe in atto per la "nuova città", esempio di pianificazione urbana su ampia scala che, pur basata più su con­ siderazioni di ordine pratico che su principi teorici, non ha con­ fronto nella precedente normativa in materia, non soltanto a Roma; è stato mostrato che, nella sua smania di grandezza, Nerone voleva

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creare la "sua" Roma in una sorta di confronto a distanza con Alessandro e con la eianificazione dell'Urbe vagheggiata ma non realizzata da Cesare. E difficile oggi trovare tracce archeologiche della nova Urhs neroniana, peraltro riconosciuta nella nuova pianifi­ cazione della via Sacra, tra il foro e la Velia, un tempo attribuita ai Flavi. Ma gli effetti dei principi urbanistici neroniani vanno valutati sulla lunga distanza: è evidente come l'esperienza della ricostruzio­ ne dopo l'incendio costituisca uno spartiacque decisivo nella storia dell'urbanistica romana, e come d'ora in avanti prevalga un più ra­ zionale modo di pianificare e costruire per interi quartieri, come si riscontrerà a Roma e altrove (soprattutto in Ostia) nei decenni suc­ cessivi. Anche l'uso, prevalente e poi esclusivo, del laterizio, mate­ riale di eccellente resistenza anche agli incendi, rientra nei canoni edilizi che si impongono da questo momento in poi. L'altro punto su cui soffermarsi sono i tentativi di risolvere il pro­ blema della regolarità dei rifornimenti annonari dell'Urbe. È Claudio, in particolare, che riprende su grande scala la "politica dei servizi" augustea: nuovi acquedotti e restauro di quelli esistenti, riorganizza­ zione delle strutture anche amministrative delle /rumentationes (tanto più se deve attribuirsi a lui la costruzione del portico per le distri­ buzioni gratuite, la porticus Minucia frumentaria); e soprattutto, il ten­ tativo di adeguare, con grandi opere, le carenti infrastrutture portua­ rie dell'Urbe. Il sistema messo a punto nella tarda Repubblica preve­ deva che l'approdo delle grandi navi provenienti dall'Oriente avve­ nisse a Pozzuoli; la riduzione dell'Egitto a provincia moltiplicò nel porto campano il traffico dei mercantili alessandrini destinati al ri­ fornimento granario della capitale. Ad Ostia continuavano invece ad attraccare (ma in condizioni di disagio se non di pericolo) navi prove­ nienti dalle meno lontane regioni dell'Occidente, Spagna, Gallia, Africa, le isole maggiori. Strabone ' 7 ci ha lasciato una descrizione ef­ ficace dell'arrivo dei mercantili d'alto mare alla foce del Tevere: Ostia, egli dice, è priva di porto (alìmenos), e il pescaggio delle navi transmarine non consente loro di entrare e di attraccare nella foce del Tevere; esse sono dunque costrette ad ancorarsi al largo e qui atten­ dere di trasbordare in tutto o in parte il loro carico su imbarcazioni più piccole, almeno per quanto basti ad alleggerirle e a consentire loro l'ormeggio nel fiume: si tratta, commenta Strabone, di operazioni assai rischiose. Contemporaneamente, da Pozzuoli giungevano a Ostia le mercanzie, compreso il grano, provenienti dall'Oriente mediterra­ neo, secondo il già accennato sistema. Una delle maggiori difficoltà al regolare svolgersi di tale traffico consisteva nel fatto che, per gli anti­ chi, il mare per tutto l'autunno avanzato e l'inverno era considerato

7. L 'EDILIZIA PUBBLICA I! SACRA

chiuso alla navigazione (mare clausum); d'altro canto, poiché nella maggior parte delle terre mediterranee la mietitura del grano avviene all'inizio dell'estate, nei mesi estivi inevitabilmente si concentrava nel­ le acque di Ostia una quantità di imbarcazioni di stazza difforme, con diverse esigenze di manovra e di approdo, impegnate in operazioni di varia natura che diveniva difficile ben gestire. Si spiegano così gli in­ centivi promessi da Claudio per coloro che ponessero al servizio del­ l'annona imperiale navi di una certa stazza e soprattutto per chi ac­ cettasse, con adeguate garanzie "assicurative", di navigare anche nei mesi invernali. La soluzione di Claudio fu quella di creare artificialmente un enorme bacino artificiale, circa due chilometri a nord della foce del fiume: scavato per metà nella terraferma, per metà sporgente nel mare, lo specchio d'acqua era circondato tutt'intorno da un molo in blocchi di travertino, interrotto dagli accessi al bacino stesso e con un isolotto artificiale su cui si ergeva il faro, una gigantesca costruzione a ripiani ispirata al faro di Alessandria. Nonostante scavi e ricerche re­ centi, sulla struttura del porto di Claudio restano aperti interrogativi fondamentali, a cominciare dalla posizione degli accessi e del faro. Ma il maggiore interrogativo rimane quello della reale funzione del porto di Claudio, soprattutto da quando gli studi hanno abbandonato l'idea ' 8 che il nuovo porto ostiense fosse finalizzato a sostituire Poz­ zuoli. Inaugurato forse da Nerone col nome di Portus Augusti Ostien­ sis, sappiamo che nel 62 d.C. un fortunale causò la perdita di ben 200 navi attraccate nel porto ' 9 : notizia che ha convinto gli studiosi del sostanziale insuccesso della realizzazione di Claudio e a riguar­ dare il porto costruito da Traiano all'interno del preesistente baci­ no come un rimedio definitivo (e questa volta efficace) alle insuffi­ cienze di quel primo tentativo mal riuscito. Ma riteniamo che que­ sto convincimento non colga il segno: vero è invece che col porto di Traiano si volle raggiungere la definitiva soluzione del "proble­ ma Pozzuoli", cioè il dirottamento su Ostia dei mercantili alessan­ drini e orientali in genere. Nel mezzo secolo che separa il porto di Claudio da quello di Traiano questo è infatti il problema che, am­ plificando il citato progetto cesariano, Nerone tenterà di risolvere con lo scavo di un canale navigabile dal lago d'Averno attraverso le Paludi Pontine fino al Tevere presso Ostia. L'opera, davvero ti­ tanica, avrebbe risolto le difficoltà della navigazione costiera per le piccole navi che da Pozzuoli dovevano raggiungere Roma. Le fonti amiche, Tacito e Plinio soprattutto, presentano questa iniziativa ne­ roniana, progettata dagli stessi architetti della Domus Aurea, Severo

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e Celere, come una manifestazione, fallita con enorme sperpero (impendiorum furor), della megalomania di un imperatore «bramoso di cose incredibili» (incredibilium cupitor) 60• In realtà, recenti ricer­ che sul terreno hanno mostrato che i lavori erano stati effettiva­ mente intrapresi; l'uccisione dell'esecrato imperatore deve aver sconsigliato per il futuro ogni ripresa del progetto. 7.10

I Flavi 61 La nuova dinastia saliva al potere dopo l'uccisione di Nerone e la guerra civile del 68-69, che aveva comportato, tra l'altro, l'incendio del Campidoglio. Il ripristino dell'antico ordine passava innanzitutto per la restituzione al popolo di quanto gli era stato sottratto per ren­ derlo cosa privata, cioè la cancellazione della dimora di Nerone e, con essa, della memoria del tiranno, un'operazione urbanistica che è stata definita "demagogica" nel senso autentico del termine. L'enor­ me statua bronzea che sorgeva nel vestibolo della Domus Aurea, il Colosso con le fattezze di Nerone, venne trasformato in una statua del Sole. L'opera più grandiosa creata in luogo della Domus Aurea è certa­ mente l'anfiteatro Flavio (che dal vicino Colosso deriverà il nome po­ polare di Colosseo), sorto al posto dello stagno artificiale del palazzo neroniano; per giustificarne la collocazione nel cuore della città Ve­ spasiano si fece forte di un parere attribuito al divo Augusto: «am­ phitheatrum urbe media ut destinasse compererai Augustum» 62 , vero o inventato che fosse. La poesia cortigiana insisterà sulla restituzione di quanto sottratto a tutti i Romani, rappresentati dalla folla di spettato­ ri che godevano degli spettacoli dell'anfiteatro; più tardi, su di un al­ tro settore del palazzo neroniano, si costruiranno le terme dedicate a Tito, altra opera "per il popolo", mentre il rifacimento del Capitolium e il restauro del tempio del Divo Claudio sul Celio, trasformato da Nerone in una facciata-ninfeo della sua villa, ripristinava i valori della pietas e della religio. La vittoria giudaica fornirà le ricchezze (e certamente gli schiavi) necessari per i monumenti della nuova dinastia, in primo luogo il templum Pacis, ma anche, se coglie nel segno l'interpretazione di un frammento epigrafico proposta recentemente, lo stesso Colosseo. Il grandioso tempio della Pace, anch'esso realizzato in un'area interessa­ ta dall'incendio neroniano, ci è noto da pochi resti sul terreno (in particolare l'aula della Forma Urbis e il tratto del muro divisorio dal

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Foro Transitorio, le cosiddette Colonnacce) e, planimetricamente, dalla Forma Urbis marmorea: era un grande quadriportico con colon­ ne di granito rosa su tre lati, di africano sul lato confinante con il Foro Transitorio (probabilmente rifatto da Domiziano) , racchiudente un parco alberato (o bacini d'acqua alternati a grandi basi per sta­ tue), dove la statua di culto della Pace era ospitata nella grande ese­ dra sul lato di fondo, in cui trovava spazio anche una biblioteca; vi erano esposti gli oggetti di culto predati nel tempio di Gerusalemme, il candelabro a sette braccia (menorah), le trombe e il vasellame d'oro 6 3 nonché, come sappiamo soprattutto da Plinio e Pausania, la più ricca galleria di opere d'arte della città, in gran parte recuperate dalla Domus Aurea. Distaccandosi esplicitamente dai Fori di Cesare e Augusto, il modello architettonico del templum Pacis si rifaceva sem­ mai ai quadriportici repubblicani e augustei, come quello di Pompeo o la porticus Liviae; in luogo di discendenze divine e di prosapie eroizzanti, che i Flavi non potevano esibire, venivano riproposti i su­ premi valori augustei della Pace. Recentemente è stata riconosciuta al templum Pacis anche un'altra funzione, che rende conto della presen­ za, nell'aula contigua al tempio a ridosso dell'odierna chiesa dei SS. Cosma e Damiano, di quel monumento fondamentale per la cono­ scenza di Roma antica che è la Forma Urbis marmorea, di cui si sono cominciati a trovare i frammenti (e ancor oggi ne tornano in luce) a partire dal XVI secolo. Si tratta, come è noto, di una gigantesca planimetria della città in età severiana, incisa su r 5 r grandi lastre marmoree accostate. Al di là del significato simbolico e del valore anche decorativo dell'opera, ci si è ripetutamente interrogati su un suo eventuale significato ammini­ strativo, se costituisse cioè una sorta di planimetria catastale, e quasi la risultanza della grande operazione di revisione delle proprietà e dei confini operata da Vespasiano e Tito, che per questo assunsero e ten­ nero per due anni (73-74) la ormai desueta carica della censura: è dal rilevamento censorio del 73 che deriva l'ammirata descrizione della grandezza di Roma che leggiamo in Plinio (N.H. , 3, 5 , 66-67). Nel Templum Pacis si è dunque riconosciuto l'archivio del nuovo catasto urbano dei Flavi; rifatta in età severiana, dopo l'incendio del r92, la Forma Urbis certamente riprendeva un documento più antico, del quale forse possediamo alcuni frammenti. Solo in età tarda 64, il Templum Pacis verrà detto Forum Pacis; la denominazione ne sottolineava l'inserimento nel comprensorio dei Fori imperiali, grazie alla monumentalizzazione dell'asse stradale del­ !' Argileto trasformato in un nuovo foro, che lo raccordò con l'insieme dei Fori di Cesare e Augusto. Questo nuovo foro, detto Transitorio

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per la sua funzione di passaggio, dedicato da Nerva nel 9 8, fu pro­ gettato già prima degli anni 85-86 d.C. 6' e parzialmente realizzato forse da Rabirio, il celebre architetto di Domiziano. La costruzione era condizionata dalle preesistenze e dallo stretto spazio a disposizio­ ne; veramente notevoli sono le soluzioni adottate per dilatare gli spazi laterali, tra cui la curvatura del lati corti e soprattutto l'uso del co­ lonnato applicato a brevissima distanza dal muro perimetrale, che dava l'animazione di un portico senza prendere eccessivo spazio. Il tempio di Minerva, la dea cui era particolarmente devoto Domiziano (che rappresentava se stesso come Eracle), occupava il centro del lato settentrionale: la dea guerriera appariva qui anche come patrona della métis dell'artigiano, cioè della sua intelligente capacità manuale. An­ che qui, come nel tempio della Pax, veniva ostentato l'aspetto "non bellicoso" delle divinità della nuova casata flavia, che, nei suoi due fori, si affermava con incidenza urbanistica altrettanto grandiosa dei fori di Cesare ed Augusto. Come Nerone, anche Domiziano fu odiato per le sue tendenze alla monarchia assoluta, che si accompagnavano a un dichiarato fi­ loellenismo e a una frenetica attività edilizia intesa ad imprimere sulla città un segno decisivo e imperituro. Lo sforzo di legittimazione che aveva accompagnato il cauto governo del padre Vespasiano si trasfor­ ma, ora, nella fiducia di un ormai raggiunto potere assoluto, in una politica di affermazione della dinastia che si poneva a confronto con i predecessori Giulio-Claudi. Non a caso Domiziano sarà l'autore della nuova residenza imperiale, il palazzo palatino che resterà per tutto l'impero la dimora dei principi. La Domus Aurea di Nerone si era estesa su quattro dei colli di Roma, praticamente cancellando orografia, luoghi, significati del cen­ tro della città. Domiziano limita la costruzione al Palatino, ma por­ tandola con gigantesche terrazze artificiali a sovrastare il ciglio del colle sopra il Circo Massimo, e di qui lungo tutto il perimetro dell'al­ tura, scendendo con l'ingresso al palazzo fin sulla Sacra Via: il Pa­ lazzo, a un tempo isolato e presente nel centro della città, esplicita con la sua stessa mole il potere del monarca, divenendo elemento co­ stituente di un "itinerario forense" della dinastia che, senza abolire i monumenti preesistenti, Domiziano saprà realizzare mediante sapienti richiami visuali. Ancora una volta, un punto di partenza sarà rappresentato da un incendio, quello disastroso che nell'8o, sotto Tito, devastò quasi tutti i monumenti del Campo Marzio: segul il massiccio ripristino a opera di Domiziano, che ricostrul i monumenti danneggiati e realizzò anche due nuove importanti opere, lo stadio (piazza Navona) e l'Odeum 2 94

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(sotto ]'odierno Palazzo Massimo), nella zona ancora libera ad ovest delle terme neroniane. Dal punto di vista dei contenuti, si trattava di una novità imponante: stadio ed odeion, destinati l'uno alle gare atle­ tiche, l'altro alle audizioni musicali, costituivano tipologie edilizie le­ gate ad una formazione culturale "alla greca", che a Roma non aveva mai trovato un così esplicito accoglimento pubblico. Nel Campo Marzio, a nord e ad oriente dei Saepta, gli interventi domizianei di­ vengono più incisivi nel senso di una pressante indicazione in senso dinastico e trionfale: la costruzione (o ricostruzione) dell'Iseo e Sera­ peo nelle originalissime forme curvilinee note attraverso la Forma Urbis severiana e attraverso innumerevoli ritrovamenti di sculture egi­ zie e egittizzanti, non possono non connettersi con la speciale attitu­ dine dei Flavi verso gli dei propizi dell'Egitto, da dove Vespasiano, che era a capo delle truppe per Ja guerra giudaica, aveva iniziato la sua marcia alla conquista del potere in Roma. Contiguo al tempio di Serapide sorge infatti ex novo un edificio cardine della ideologia trionfale flavia, il "tempio dei Divi" (porticus divorum o templum di­ vorum), raccordato al Serapeo tramite lo snodo architettonico costi­ tuito da un tempietto circolare (con fontane? si confronti l'analoga funzione urbanistica, quasi di perno stradale, costituito dalla fontana presso il Colosseo, detta Meta Sudans) di Minerva, la dea protettrice di Domiziano, detta Minerva Chalcidica, forse in quanto custode del­ l'ingresso ai due edifici: Ja dea, pacifica protettrice delle arti, all'inter­ no della città, in Campo Marzio diviene Ja promachos guerriera che guida alla vittoria. Il tempio consisteva in un vasto témenos, forse piantato con alberi e cinto da un portico tutt'in giro, cui si accedeva da un monumentale ingresso conformato come un arco trionfale a tre fornici; subito oltre ]'ingresso, si fronteggiavano due piccoli templi prostili tetrastili, dedicati appunto ai due Divi, Vespasiano e Tito. È questa la zona della Villa publica e dell'Ara Martis da dove hanno inizio le memorie del trionfo dei due divi della casa Flavia; e sarà ancora Domiziano che, secondo un'ipotesi consolidata, ricostruisce in forme diverse Ja Pona Trionfale. Di qui l'itinerario trionfale sembra proseguisse lungo un tracciato rettilineo ponicato, scandito da riferi­ menti visuali precisi che alternavano memorie trionfali e apoteosi dei divi alle preponderanti immagini dell'imperatore vivente: dapprima ne] Foro Boario, la statua colossale bronzea di Ercole, il dio dell'Ara Massima, con le sembianze di Domiziano; indi Ja pompa percorreva tutto il Circo Massimo, sul cui versante palatino incombeva la tribuna del palazzo imperiale, avendo come riferimento visuale ]'arco trionfa­ le di Tito al centro della curva; quindi lungo il fianco del colle Palati­ no, sino a quell'enigmatico cardine circolare che è la Meta Sudans; di 2 95

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qui, girando per la via Sacra, sulla sella presso la Velia si ergeva l'ar­ co di consecratio del Divo Tito, unico giunto in buono stato fino a noi di quella "inflazione di archi" che a Roma caratterizzò l'età domi­ zianea 66 , con nel fornice i celebri rilievi raffiguranti la pompa del trionfo giudaico e nel sottarco l'apoteosi imperiale, dove ci awedia­ mo come la "sperimentazione" dell'arco neroniano del Campidoglio venne abilmente messa a frutto con messaggi figurati complessi. Al­ l'arco di Tito, posto tra la via Sacra e il clivo palatino, corrispondeva­ no, all'inizio del clivo, l'arco di Domiziano che dava accesso al pa­ lazzo, e, al termine della via Sacra sul fondo del foro, il magnifico tempio dei divi Vespasiano e Tito; ma il centro della piazza forense era occupato dall'immensa statua bronzea di Domiziano a cavallo, ri­ petizione eterna del suo trionfale incedere verso il tempio di Giove Capitolino, la cui mole rifatta dai Flavi dopo l'incendio del 69, appa­ riva in più lontano sfondo. Il complesso disegno politico-dinastico domizianeo trova un suo epilogo nella costruzione di un gigantesco tempio della gente Flavia (Aedes Gentis Flaviae) sul Quirinale presso la domus di T. Flavio Sa­ bino, dove Domiziano era nato, con funzione anche di nuovo mauso­ leo imperiale in cui egli volle fossero trasferite dal Mausoleo di A ugu­ sto le ceneri di Vespasiano e Tito.

7. r r

Traiano 67 Non è facile mettere in adeguato risalto l'importanza del regno di Traiano per la storia edilizia e monumentale di Roma. La raziona­ lizzazione dei procedimenti di fabbricazione e di distribuzione dei la­ terizi, nonché l'incremento produttivo sollecitato dalle grandi com­ messe imperiali, a partire dall'età di Domiziano fanno della produzio­ ne di fittili da edilizia una delle principali attività manifatturiere nei dintorni di Roma. Lo studio dei bolli laterizi, merito di H. Bloch, ha consentito una datazione spesso estremamente precisa di ogni fase della produzione, almeno per le figline maggiori (in tarda età traianea e soprattutto con Adriano, è frequente anche l'aggiunta della data consolare) il che, nel caso dei complessi edilizi principali, ha consen­ tito di raggiungere una esatta cronologia dei fabbricati, ma anche di comprendere l'awicendarsi dei cantieri e le infinite modifiche che connotano artigianalmente il farsi della costruzione; se ne sono rica­ vati dati sull'iter progettuale, sull'organizzazione del lavoro, sulle di­ sponibilità finanziarie del momento.

7. L ' ED ILIZIA PUBBLICA F. SACRA

È di questi decenni, tra Domiziano e Adriano, lo sviluppo dell'ar­ chitettura laterizia nei grandi fabbricati di abitazione a più piani (di cui conosciamo esempi a Roma, ma soprattutto ad Ostia) e nelle co­ struzioni utilitarie come i Mercati del Foro Traiano o gli ho"ea, e soprattutto i porti al servizio della capitale, il Portus Traiani di cui si è detto, ma anche il nuovo porto di Civitavecchia e forse il rifaci­ mento di quello di Terracina: un vero "sistema portuale" a servizio dell'annona urbana. L'immagine pubblica dell'imperatore cui il sena­ to e il popolo conferiranno il titolo di Optimus Princeps (Optimus Maximus era l'appellativo di Giove Capitolino) resta sì affidata al foro e alle Terme dell'Oppio, ma in altrettanta parte a queste opere fun­ zionali. Quanto al monumentum per eccellenza, il nuovo foro eretto con il bottino della guerra dacica, si tratta di un complesso che supera per grandiosità ogni precedente, collocato a nord degli altri fori in modo da aprire definitivamente il passaggio tra il Foro romano e il Campo Marzio. È difficile oggi rendersi conto della originaria situazione dei luoghi, violentemente modificata rispetto all'orografia originaria. Oggi la via dei Fori imperiali ha spianato ogni asperità collinare tra la con­ ca del Colosseo e il Campo Marzio, concludendo un'operazione di dilatazione dell'area centrale peraltro iniziata già nell'antichità, dap­ prima con la sistemazione della valle forense, poi con la creazione dei Fori imperiali. Così oggi non si coglie più la realtà dell'orientamento orografico naturale, perché le pendici dei colli che digradano verso il foro e il Campo Marzio erano distinte da una incisione valliva tra Es­ quilino e Quirinale perpendicolare rispetto alla direttrice artificial­ mente creata. Delle due coste rocciose che serravano un tempo la valle, quella a sud-est, prosecuzione della Velia, è scomparsa con i lavori del perio­ do fascista; ma quella a nord-ovest, una sella tufacea che congiungeva l'ultima propaggine del Quirinale con il Campidoglio subito prima di piazza Venezia, era già stata tagliata con un imponente intervento proprio per ricavare il terreno pianeggiante destinato al Foro di Traiano. Riscuote oggi credito che la grandiosa escavazione fosse sta­ ta già iniziata da Domiziano, funzionale ad un progetto non realizzato per la morte dell'imperatore. È a questa escavazione e non alle im­ prese raffigurate sul rilievo avvolto a spirale che fa riferimento la de­ dica a Traiano iscritta sulla base della colonna. Isolato da una strada basolata, che doveva aver funzione anche di tagliafuoco contro i periodici incendi, e per lo stesso scopo cinto da un muraglione di tufo come il Foro di Augusto, il Foro di Traiano con i suoi quasi due ettari di superficie (le misure sono di circa metri 2 97

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175 x 1 00 m) è di gran lunga il più grandioso tra i Fori imperiali, da cui differisce anche per la fonna tendente al quadrangolare. Per faci­ litare la descrizione assumiamo convenzionalmente come nord il lato verso il Campo Marzio, dove si trovano la colonna e le biblioteche. Riprendendo un tema architettonico del Foro Transitorio, la parete meridionale si sviluppava in leggera curva in modo da adattarsi alla grande esedra nord del Foro di Augu sto; al centro si ritiene gene­ ralmente fungesse da ingresso al Foro l'arco trionfale per le vittorie partiche riprodotto su monete degli ultimi anni di Traiano, ma gli scavi attualmente in corso sembrano imporre ricostruzioni diverse. Si accedeva quindi alla piazza vera e propria, di ben 1 1 8 x 90 m, pavi­ mentata con blocchi di marmo lunense e circondata su tre lati da un porticato soprelevato di tre gradini, con colonne corinzie scanalate e lesene di marmo pavonazzetto, impiegato altresl, insieme con il giallo antico, nella pavimentazione: al centro si innalzava la statua bronzea a cavallo di Traiano. Dietro i due portici laterali, est e ovest, si aprono due emicicli del diametro di 41 m che, secondo uno schema mutuato dal Foro di Au­ gusto, presentano ciascuno al centro della curva un'edicola con due colonne di granito, evidentemente per statue particolarmente signifi­ cative; usualmente si restituiscono questi emicicli come coperti da un tetto a capriate lignee radiali, ma vi è chi ritiene fossero a cielo aper­ to per accrescere la luminosità dei porticati e gli effetti di colore. Il fregio dei porticati recava grifi affrontati a candelabri, tipico motivo di eternità, mentre l'attico presentava stanti sulle mensole aggettanti figu re di Daci prigionieri alternati a pannelli con cumuli di armi e imagines clipeatae della domus Augusta a cominciare, sembra, da Ce­ sare. L'imitazione dal Foro di Augu sto è chiara, ma al tempo stesso si palesano differenze significative. Il motivo dei vinti ridotti in servitù è concettualmente il medesimo sia per le cariatidi del tipo dell'Eretteo che per i Daci traianei, ma nel primo caso si era fatto ricorso a copie fedeli di figu re simboliche che, evocando la classicità, consentivano di indicare in Roma la continuatrice ideale di Atene vincitrice dei Per­ siani; nel Foro di Traiano ogni travestimento è dismesso, il popolo raffigu rato è quello reale dei vinti, e l'ispirazione d'insieme non ri­ cerca più in un modello, quello greco, il segno dell'universale, ma lo ritrova, senza residui, nella stessa parabola ascendente di Roma ora al suo culmine. Si spiega cosl anche, dopo il colorismo "barocco" della decorazione architettonica flavia, l'impronta più contenuta di quella del Foro di Traiano, un classicismo "romano", in quanto non più mi­ rato direttamente alla Grecia, ma fissato onnai a partire dai modelli augustei e inteso a proporsi come paradigma assoluto.

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7 , L EDJLIZJA PUBBLICA E SACRA

FIG UR A 1 7

Pianta d d Foro di Traiano

FORUM TRAIAl-11 CJI

Ma l'elemento sorprendente dell'assetto del foro è cost1twto dal suo edificio principale. In tutti gli esempi precedenti, da Cesare ai Flavi, si trattava di un tempio, collocato sul fondo a generare una prospettiva assiale e uno spazio allungato e orientato. Qui, al con­ trario, la piazza, quasi quadrangolare, è conclusa trasversalmente dal­ la facciata della Basilica Ulpia, disposta con il lato maggiore verso il foro come nelle basiliche forensi, ma soprelevata di tre gradini ri­ spetto al lastricato centrale e movimentata da tre avancorpi corri­ spondenti agli ingressi principali, sormontati da quadrighe bronzee con Vittorie; sopra le colonne, statue di Daci di marmo bianco scan­ divano anche qui ritmicamente l'ininterrotta sequenza dei vinti. Nel fregio interno del primo ordine il motivo dell'aeternitas dei portici 2

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laterali viene sostituito da Vittorie che preparano la cerimonia ad­ dobbando candelabri, o che sacrificano tori, un motivo questo che riecheggia la balaustrata di Athena Nike sull'Acropoli di Atene. So­ luzioni diverse sono state proposte per la restituzione dell'alzato del gigantesco edificio (169 x 64 m) ; caratterizzato planimetricamente da uno spazio centrale con colonne di granito attorniato da un duplice colonnato di caristio che genera cinque navate, si distingue tuttavia dall'impianto basilicale tradizionale perché terminato sui lati brevi da due enormi absidi, che reduplicano nelle misure (diam. 41 m) e nella raffinata policromia dei marmi, il motivo delle esedre dei porticati della piazza. La struttura del Foro di Traiano, la posizione preminente della basilica, l'apparente assenza, o comunque la scarsa rilevanza architet­ tonica di un edificio templare, hanno fornito lunga materia di discus­ sione; una soluzione, affacciata molto tempo addietro dal Roden­ waldt 68 e tuttora al centro del dibattito, è quella di una assunzione, anzi di una trasposizione nel monumentale, delle strutture centrali degli accampamenti legionari (i principia della legione): orgogliosa af­ fermazione del ruolo dell'esercito cui Traiano, autentico vir militaris, sentiva di appartenere, e su cui, al di là della legittimante adozione da parte di Nerva, si fondava effettivamente il suo potere imperiale. Si è giustamente messo in rilievo il ruolo di Apollodoro di Damasco, architetto militare al fianco di Traiano durante le campagne di Dacia e progettista per il principe delle opere "civili" della vittoria, come sappiamo per le Terme sul Colle Oppio ed è legittimo presumere per il foro. Come è stato notato, in nessun punto di un insieme così vasto e caratterizzato da una ricca utilizzazione delle immagini, compaiono figure o scene di carattere mitologico o leggendarie evocazioni di pie­ tas ancestrale. I protagonisti sono esclusivamente l'esercito e il suo imperator, dove l'esercito, pur nella brutalità di una guerra rappre­ sentata senza reticenze, viene presentato come lo specchio più alto delle qualità e della consapevolezza civile del popolo romano, nel suo ordine e nella disciplina militare che assicurano il successo contro il disordinato combattere dei nemici, nella padronanza delle tecniche del combattimento e dell'assedio, nella capacità di alte realizzazioni anche architettoniche (come il celebre ponte sul Danubio, raffigurato sulla colonna) che lo mettono in grado di superare gli ostacoli oppo­ sti dalla natura e dagli avversari: col lunghissimo fregio a spirale della colonna, e con il cosiddetto Grande Fregio di Traiano, in parte riuti­ lizzato nell'arco di Costantino, il Foro Traiano costituisce il maggior monumento di autoidentificazione di Roma con il suo esercito, quasi 300

7. L'EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

un ritorno ai tempi repubblicani del popolo in anni nel Campo di Marte. La funzione di grande libro della storia è affidata alla colonna co­ clide che si innalza in un non ampio cortile tra due edifici a due pia­ ni riconosciuti come le bibliothecae del foro. Si tratta di una storia per immagini, in cui si susseguono gli episodi significativi delle due gu erre combattute contro i Daci nel 101-02 e nel 105-06 fino alla morte del re Decebalo e alla riduzione della Dacia a provincia; alla metà circa del racconto marmoreo una Vittoria che scrive su uno scu­ do separa gli eventi delle due guerre. Il paragone tra il nastro figu rato che si avvolge attorno al fusto della colonna, e un libro nella forma del rotolo (papiraceo o di tela), sembrerebbe chiaro; ma forse la cate­ goria cui propriamente va assimilata la "sceneggiatura" della colonna è quella della pittura trionfale, eseguita generalmente su tavole ma possibilmente anche su stoffe. Un problema che ha occupato a lungo la critica è quello della leggibilità delle scene, perché è di fatto im­ possibile seguire lo snodarsi degli episodi, e le scene degli avvolgi­ menti superiori, ad oltre trenta metri dal suolo, risultano illeggibili. Si è supposto che dai terrazzi di copertura delle biblioteche fosse possi­ bile una visione più ravvicinata; ma si trattava pur sempre di singoli punti di vista che, se consentivano buona visibilità per una o un'altra scena specifica, non permettevano di seguire l'intero svolgimento del­ la narrazione. La soluzione recentemente cercata muove appunto da questa constatazione: comunque prescelto, il punto di vista era fisso e perciò consentiva solo una lettura "verticale", cioè di una scena sotto l'altra, indipendentemente dalla logica sequenziale degli eventi. Su­ bentrava allora un nuovo e diverso modo di presentare e di leggere le immagini, per "episodi tipici": di fatto le gu erre vittoriose, quelle che andavano ricordate, comunque e contro chiunque combattute, si ri­ ducevano a una sequenza di avvenimenti più o meno simili, e per ciò stesso in ceno modo ripetitivamente esemplari: la partenza dell'eser­ cito, l'allocuzione dell'impera/or alle sue truppe alla vigilia dello scon­ tro, la battaglia, l'inseguimento dei fuggiaschi, l'assedio alla città mu­ rata o la conquista e la distruzione dei villaggi, la resa dei superstiti, il trionfale ritorno e cosl via. Oò che distingueva un'impresa militare da un'altra erano i dettagli, notazioni di costume, armi, acconciature dei nemici, l'ambiente, il modo di abitare, nonché quegli episodi par­ ticolari che costituivano la specificità di quella determinata campagna, le capanne dei Daci tra le foreste o il passaggio del Danubio sul pon­ te di Apollodoro. Che questo modo di intendere sia quello giusto lo dimostra la circostanza che, per quanto sappiamo, vicino all'altra co­ lonna coclide di Roma, quella di Marco Aurelio, non c'erano edifici 301

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né terrazze per una visione a breve distanza, che dunque, semplice­ mente, non era prevista. A chi contempla oggi la colonna di Piace Vendòme, monumen­ to "imperiale" che imita la colonna traiana, basta sapere che su di essa sono raffigurate le vittorie napoleoniche contro le coalizioni antifrancesi; ciò che riesce a cogliere dal suo punto di osservazione sono approssimative percezioni di grandi campi di battaglia, con artiglierie in azione e cariche di cavalleria, che in nessun caso con­ sentono, per sé sole, di comprendere gli eventi narrati e di seguir­ ne il corso, ma che pur tuttavia suscitano un'impressione comples­ siva dell'importanza della guerra combattuta e della vittoria conse­ guita. Se la colonna sorgesse a Londra e commemorasse, viceversa, la sconfitta di Napoleone, le scene sarebbero compositivamente in tutto simili, salvo ovviamente quei particolari, l'equipaggiamento e le armi dei soldati o le fattezze dei comandanti, che distinguevano gli eserciti combattenti. Ma, al tempo stesso, esattamente come in un qualsiasi memoriale o monumento commemorativo, è essenziale che, approssimativa restandone la percezione visuale, lo spettatore sappia che ogni cosa è stata comunque registrata e narrata, e quin­ di consegnata alla storia, scolpita nel bronzo o nel marmo: più o meno leggibile, la colonna rimane comunque l'archivio eterno delle imprese di Traiano e di tutto l'esercito con lui, ciascuno nei suoi ranghi e con le sue insegne. Non a caso la colonna verrà scelta come sepolcro dell'imperatore: riportate dall'Oriente, le sue ceneri furono depositate in un'urna d'oro nel basamento della colonna, divenuta così monumento di apoteosi (suggellata da quel tempio al divo Traiano che un tempo si riteneva avere sufficienti elementi per localizzare in asse alla colonna stessa verso la via Lata: ma re­ centi investigazioni vorrebbero escluderne la presenza). Ma si è so­ stenuta con pari convinzione l'idea che Traiano stesso avrebbe pre­ disposto la colonna («onoraria e funeraria insieme» 69 ) come pro­ prio monumento funebre. Una tomba per sé solo, dunque: presso Traiano non cogliamo nessun interesse per un "mausoleo di fami­ glia", che ha sempre rivelato il proponimento di dare inizio a una dinastia. 7. 12

Adriano 7

°

Quello di Traiano resterà l'ultimo dei Fori imperiali. Lungi dal cele­ brare trionfi, il suo successore Adriano, anzi, abbandonò le ultime 302

7 . L ' EDILIZIA PUBBLICA E SACRA

conquiste di Traiano, invocando a supporto di questa "ideologia del rifiuto" precedenti lontani e discorsi di grandi del passato come Sci­ pione Emiliano, Metello Numidico, Catone. La definizione stabile delle frontiere e la rinunzia all'espansione producono nuovi equilibri interni. Adriano trascorrerà fuori d'Italia più della metà dei suoi anni di regno, occupato non in campagne militari, bensì in viaggi nelle province; la necessità di decantare gli effetti delle conquiste si coniu­ ga in lui con atteggiamenti quasi archeologici, "recuperi evocativi" ca­ paci di istituire una continuità con le tradizioni locali: un ruolo im­ portante ebbero, al riguardo, la curiosità erudita dell'imperatore, l'ammirazione senza limiti per la Grecia, ma anche il suo rispetto per le culture dell'Oriente e soprattutto dell'Egitto. In molti atteggiamen­ ti Adriano si colloca nella scia di imperatori filoelleni come Nerone e specialmente Domiziano, ma una differenza sostanziale è nel fatto che in quelli il filoellenismo esteriorizzava inclinazioni autocratiche, pres­ so Adriano prevaleva la consapevolezza dello squilibrio esistente tra Italia e province e il desiderio di creare un rapporto positivo tra mondo provinciale e potere centrale. Inevitabilmente l'aspirazione ecumenica trovava un riferimento nella divinità del sovrano quale suggello unificante all'eterogeneità dei territori soggetti e, proprio come era avvenuto con Domiziano (e prima ancora con i dinasti elle­ nistici di Siria, di cui Adriano si fa continuatore ad Atene nei lavori dell'Olympieion) il filoellenismo e l'interesse per l'Egitto dovevano unirsi a una forte ostilità contro l'ebraismo, che darà luogo alla san­ guinosa repressione della rivolta di Bar Kochba e all'annientamento di quanto restava dell'antica Gerusalemme. La rivoluzione architettonica dell'età di Adriano si realizza tanto nelle province quanto in Roma stessa. In precedenza, gli interventi si erano semmai orientati nel senso di trasferire in provincia forme e tipologie urbane. Con Adriano, invece, non solo l'attività edilizia im­ periale assume fuori di Roma una dimensione pari o superiore a quel­ la della capitale, ma si avverte che quest'ultima non è più l'unico mo­ dello vincolante e anzi le province trovano e forniscono nella propria tradizione modelli e riferimenti. Non possiamo esaminare in questa sede l'opera realizzata da Adriano ad Atene, dove ebbe accanto (vici­ no quanto lo era stato Agrippa ad Augusto, ma più colto e, al pari dell'imperatore, animato da interessi retrospettivi) il ricchissimo Ero­ de Attico; occorre qui prescindere anche dagli innumerevoli altri in­ terventi da lui effettuati in Grecia e in Asia e in Tracia. La morte in Egitto e la divinizzazione del suo favorito Antinoo nel r30 forniranno occasione per un culto che, pochissimo diffuso in Occidente, avrà in­ vece più larga diffusione specie in Egitto e in Asia.

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A Roma, ciò che segnala la politica adrianea è il tentativo di rior­ ganizzazione dello stato, la creazione di una burocrazia efficiente che significava cooperazione con senatori e cavalieri, divenuti veri e pro­ pri funzionari dell'amministrazione imperiale. Di questa attenzione è certamente prova, anche se ne sfugge la significazione precisa, l'ecce­ zionale quantità di laterizi urbani con la data consolare del 1 2 3 (i bolli con data torneranno numerosi nel 134, cesseranno definitiva­ mente nel 164): come osservò il Bloch, il fatto, comunque vada spie­ gato, riflette il forte interesse centrale al controllo della produzione. Ma l'attenzione di Adriano per l'edilizia urbana traspare anche da provvedimenti come la riorganizzazione della corporazione dei mastri costruttori o la compilazione della prima guida toponomastica della città, di cui incaricò il liberto Phlegon: la dimensione antiquaria ac­ compagna l'opera edificatoria come nell'età di Augusto. Molta parte nell'attività edilizia, specie religiosa, venne lasciata al senato; quanto ad Adriano, sappiamo che egli iscrisse il proprio nome sul tempio eretto a Traiano e Plotina e certo anche su quello dedicato in Campo Marzio alla Diva Matidia. Le fonti antiche riferiscono invece del suo ritegno a iscrivere il proprio nome, come era d'uso, nel caso di re­ stauri di edifici preesistenti, anche quando si trattava di rifacimenti integrali: un caso monumentalmente noto è quello del Pantheon, to­ talmente ricostruito in età adrianea, e su cui si leggono i nomi di Agrippa e per i restauri del 202 di Settimio Severo, ma non il nome di Adriano. Per quanto riguarda il Pantheon, non si è raggiunta certezza circa la forma, le dimensioni, l'orientamento dell'edificio di Agrippa (com­ pletato nel 25 a.C.), che precedette la Rotonda. A lungo ha prevalso il convincimento che fosse orientato a sud, anziché a nord come l'at­ tuale, e che si trattasse di un tempio a cella rettangolare trasversa, posizionata più o meno in corrispondenza del pronao adrianeo. Le più recenti indagini tenderebbero a capovolgere questa prospettiva, ipotizzando una sostanziale coincidenza planimetrica (ma restando del tutto diverso l'elevato) tra la ricostruzione di Adriano e l'edificio augusteo, orientato anch'esso verso nord e immaginato come una piazza circolare a cielo aperto preceduta da un pronao, pavimentata con lastre di pavonazzetto, con le immagini di culto e al centro l'al­ tare. Significativa appare la constatazione che il Pantheon è collocato esattamente dirimpetto al Mausoleo di Augusto, distante 5 00 passi ( = 740 m), forse ad esso visivamente raccordato con un viale che gui­ dava lo sguardo fino ai due obelischi ai lati dell'ingresso. Ora questa corrispondenza, se realmente esisteva, deve risalire all'impianto augu3o4

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steo, anche perché nel n secolo d.C. erano soni altri edifici che osta­ colavano la prospettiva, mentre i panicati a colonne di granito del piazzale (60 x 100 m) antistante il Pantheon adrianeo non dovevano più consentire la vista di monumenti lontani. Dal piazzale, anche per il suo livello ribassato, si coglieva del Pantheon solo la vista del pro­ nao dalle gigantesche colonne di granito grigio e rosa su tre file, così profondo da celare la cupola e da farlo apparire come un tempio tradizionale. Dunque il mondo di riferimenti cosmici immaginato in età augu­ stea nel Campo Marzio settentrionale coinvolgeva tutto insieme il si­ stema costituito da Pantheon, Mauseoleo, orologio e Ara Pacis: se si accetta l'identità tra il sito del Pantheon e quello della pa/us Caprae, luogo della apoteosi di Romolo, appare chiara la corrispondenza tra l'apoteosi del fondatore di Roma e quella di Augusto, ancorché que­ st'ultimo avesse vietato che Agrippa ne facesse formalmente un Augu­ steum per tributare un culto a lui vivente; ma la presenza nel panico della sua immagine insieme con Marte, Venere e con il divo Giulio 7 1 non poteva non apparire come una consacrazione accanto ai divini progenitori. Ora, nonostante l'interpretazione dell'edificio come una sorta di foro coperto in cui Adriano teneva corte, la sacralità del Pantheon sembra indubbia se il grande oculus al sommo della volta ha la fun­ zione, tipica di un templum, di mantenere la relazione tra cielo e ter­ ra: del resto, secondo la citata ricostruzione, I' oculus corrispondereb­ be al sito dell'altare nel recinto circolare, quasi che la cupola fosse intervenuta solo a materializzare uno spazio già definito. L'interpreta­ zione dell'edificio come una sorta di microcosmo sulla terra, nella cui concezione avrebbe avuto parte accanto ad Adriano l'astrologo cal­ deo Dionisio di Mileto, ha come corollario i ripetuti e anche autore­ voli tentativi moderni di interpretare in chiave astrale i singoli ele­ menti della struttura (le 7 esedre = 7 pianeti; i 28 pilastri = giorni delle fasi lunari; 5 file cassettoni = 5 corpi planetari senza Sole e Luna ecc.). I bolli laterizi consentono di datare il Pantheon nei primi anni di Adriano; l'osservazione che la decorazione architettonica riporta alle botteghe già attive nel Foro Traiano non implica necessariamente una datazione traianea; recentissima l'ipotesi che le attuali porte di bronzo rappresentino una "reliquia architettonica" dell'edificio augusteo. Se la tipologia della cupola del Pantheon risponde probabilmente anche a considerazioni sacrali, dovendo conformarsi alla semisfera che ri­ produce la volta celeste, in età adrianea si predilige la diversa tipolo­ gia architettonica della cupola ad ombrello, in genere su alto tamburo

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aperto da finestroni. Le fonti insistono sul multiforme talento di Adriano nelle arti figurative che praticò intensamente 7 2 ; ma fu la sua passione per l'architettura che lo condusse a un conflitto con Apollo­ doro che si protrasse fino alla realizzazione del tempio di Venere e Roma. A progetti di edifici curvi e di cupole a ombrello deve riferirsi la derisoria battuta riferita da Cassio Dione 73 secondo cui Apollodo­ ro avrebbe detto che Adriano avrebbe fatto meglio a «disegnare le zucche» (tds kolokyntas), una similitudine che rende benissimo l'idea delle cupole a spicchi (in inglese dette, con singolare corrispondenza, pumpkin domes). Con Adriano si costituisce un complesso campense del tutto nuo­ vo, dando all'intera zona la forma definitiva, documentata dalla pian­ ta marmorea severiana. Oltre a restauri e ricostruzioni, profonde mo­ difiche dell'assetto dei luoghi sono provate dall'innalzamento artificia­ le attorno all'Ara Pacis, che poteva ormai vedersi solo sporgendosi dal parapetto del muro di contenimento, essendo totalmente perduta ogni relazione simbolica con gli altri monumenti dell'area. Caseggiati d'abitazione riempiono parti del Campo ancora libere; un grande ri­ facimento interessa tutta la fascia di terreno che costeggia ad est la via Flaminia organizzata con una maglia stradale ad isolati regolari, occupati da insulae di edilizia intensiva e anche l'area tra la Colonna Traiana e la via Lata risulta occupata in quest'epoca da caseggiati, halnea, strade, tutti post-traianei. Non c'è dubbio che con i nuovi interventi edilizi l'aspetto del Campo Marzio adrianeo risultasse radicalmente mutato, sorta di "de­ sacralizzazione" del contesto augusteo operata non alterando gli edifi­ ci per sé, ma con l'eliminazione di quei riferimenti visuali, sapiente­ mente calcolati, che avevano fatto di tutta questa zona del Campo un monumento di apoteosi per Augusto: anche il Mausoleo, pur sempre grandioso, non dominava più isolato la pianura del Campo. Ecista della nuova Atene, Adriano affrontava contemporaneamen­ te il suo ruolo di rifondatore anche a Roma. Nella letteratura del tempo appare il confronto tra il principe e il secondo re di Roma, Numa, sovrano della moderatio e della pietas, delle istituzioni e delle leggi. Ma presto si afferma (monete del 128-r32), il grande tema delle origini di Roma, con le immagini di Romulus conditor e, già prima, la scrofa di Lavinio e la lupa romana, tipo monetale per eccellenza dei grandi capostipiti dinastici, Augusto e Vespasiano. Per Adriano il ter­ mine di confronto è il fondatore dell'impero: in questa ottica si inten­ dono i restauri degli edifici augustei, ma anche il ripristino dell'augu­ ratorium e del pomerio; la costruzione di un mausoleo altrettanto

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grandioso di quello di Augusto; e il tempio di Venere e Roma che propone nuove forme di religiosità. Sorto spianando la collina della Velia con una colossale piattafor­ ma di 145 x roo m, il tempio di Venere e Roma raggiunge dimensio­ ni a Roma mai più ripetute, per sé solo più grande dell'intero Foro di Augusto. Esso conclude la "riconversione" della Domus Aurea, inter­ venendo, così come avevano fatto i precedenti imperatori, sui capi­ saldi urbanistici fissati da Nerone, in realtà obliterando il vestibolo del palazzo neroniano verso il foro, là dove si ergeva il Colosso che, già trasformato dai Flavi in immagine del Sol Invictus, fu spostato in basso nella valle sottostante, tra il nuovo tempio e l'anfiteatro. Su tale piattaforma di base (soprelevata di 2,50 m verso la via Sacra e 8 m verso il Colosseo) su un crepidoma di 7 gradini alla maniera greca (cioè in luogo del podio di tradizione romana) sorgeva il tempio, un diptero decastilo con 22 colonne sul lato, caratterizzato da due celle contrapposte secondo una tradizione assolutamente greca. I bolli late­ rizi forniscono indicazione di un precoce inizio dei lavori, ma anche di un loro lungo protrarsi nel tempo (forse fino al 135, se non fino al tempo di Antonino Pio). Ai primi anni di Adriano si attaglia infatti il decisivo scontro tra l'imperatore e Apollodoro, messo a morte per le sue critiche al progetto del tempio: secondo Cassio Dione, egli biasi­ mava l'insufficiente elevazione del basamento sulla via Sacra rispetto al volume complessivo della fabbrica, criticava inoltre il rapporto tra il tempio e il peribolo colonnato circostante e l'eccessiva altezza delle statue di culto. L'operazione compiuta da Adriano fu di straordinaria efficacia; le due dee cui era dedicata la nuova fabbrica suscitavano ambedue pre­ cise memorie augustee: Venere, Genetrix nel Foro di Cesare, perde qui ogni connotazione dinastica per divenire, con il suo appellativo di Fe lix, espressione della fecondità del popolo romano. Quanto alla dea Roma, che innumerevoli templi in Italia e nelle province avevano as­ sociato ad Augusto, appare ora connotata nel senso dell'eternità (Ae­ terna Roma) e senza più legami col fondatore dell'impero. Non è sta­ to osservato che il tempio di Venere e Roma è disposto in allinea­ mento con l'asse del Colosseo: esso rinnova, in chiave mutata, quel rapporto fra teatro e tempio che abbiamo visto frequente in età elle­ nistica, dove però a rappresentare la collettività riunita del popolo ro­ mano è ormai l'edificio più grande e prestigioso dell'Urbe, il suo anfi­ teatro: il colosso del Sol Invictus, eretto tra i due edifici, davanti la facciata del tempio, rappresentava la cosmica garanzia dell'eternità dell'Urbe. Si è detto, efficacemente modernizzando, che Adriano ave­ va instaurato un culto propriamente "nazionale" 74•

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Nerva fu l'ultimo sovrano a esser sepolto nel mausoleo di Augu­ sto: interrotta da Traiano, la continuità non venne ripresa. In un con­ fronto esplicito con il preesistente mausoleo imperiale, Adriano inve­ ce crea una nuova tomba, altrettanto imponente, ma diversa archi­ tettonicamente: l'una riprendeva l'arcaico modello italico del tumulo con tamburo circolare sormontato da un cono di terra con alberi, mentre per la composizione volumetrica del Mausoleo di Adriano sono stati individuati presupposti orientali ed ellenistici (alto zoccolo parallelepipedo, tamburo circolare, elemento centrale emergente con terminazione a piramide con gruppo scultoreo) a cominciare dal Mausoleo di Alicarnasso e, congetturalmente, dalla tomba di Alessan­ dro (di cui sappiamo pochissimo), mentre la camera funeraria sotto il podio e la rampa hanno evocato confronti con il corridoio spirali­ forme del mausoleo ellenistico di Cherchell. Un ponte appositamente costruito e ancor oggi superstite, il ponte Elio, congiungeva alla zona centrale del Campo Marzio l'area transtiberina del Vaticano, prodro­ mo della creazione di un nuovo polo urbano oltre il fiume. Con l'apprestamento della nuova grande tomba monumentale si conclude il disegno ideologico-politico adrianeo. L'apparente richia­ mo ad Augusto, il restauro o rifacimento dei suoi monumenti, sotten­ de in realtà il proposito di disinnescare per sempre i presupposti con­ cettuali dell'impero augusteo. Annullato sl da non esser più percepi­ bile il sistema di riferimenti cosmici e l'affermazione di eternità impli­ cita nel sistema augusteo orologio-mausoleo-Ara Pacis (e, quasi certa­ mente, Pantheon), ma rifatto il Pantheon con una poderosa afferma­ zione di nuova spazialità, sorta di volta celeste sulla terra in una pro­ spettiva cosmica riferita non a Cesare e Augusto con i loro progenito­ ri divini, ma all'intero corpo dell'Urbe. Nell'identica direzione si in­ tende, come abbiamo visto, la religiosità di Venere Felice e di Roma Eterna nel gigantesco tempio della Velia. Il senso dell'operazione di Adriano, e in certo modo il suo coro­ namento, non solo letterario, si coglierà in età antonina con le lodi di Roma di Elio Aristide. Sul piano monumentale, nel 145 viene com­ pletato il tempio al divo Adriano in Campo Marzio, un magnifico pe­ riptero corinzio di 8 x 13 colonne, ancora in buona parte superstite, circondato da un portico: alla grande piazza si accedeva dalla via Lata per un arco a tre fornici. Dal tempio provengono plinti decorati in rilievo con personificazioni di province, intercalati a pannelli con trofei d'armi; attribuiti un tempo al rivestimento del podio, sono stati anche collocati all'interno della cella e recentemente sull'alto del muro di fondo del recinto del tempio. I precedenti iconografici e for­ mali risalgono alle nationes di Pompeo e ancor prima; ma concettual3 08

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mente la differenza è sostanziale, perché qui non si tratta più di po­ polazioni sottomesse dall'impera/or vittorioso, bensi della realtà del­ l'impero che fa contorno al principe e che alla sua morte è simbolica­ mente presente insieme col popolo romano, per assistere alla sua as­ sunzione tra gli dei: non più l'Italia di Augusto, ma una concezione ecumenica di Roma e un primo passo verso la non più cosi lontana concessione della cittadinanza a tutti i provinciali. Dopo Adriano l'area a settentrione del Campo continuò ad avere svi­ luppo come sede dei monumenti funerari e commemorativi della di­ nastia antonina: oltre al tempio del Divo Marco, probabilmente ac­ canto alla sua colonna coclide, sono venuti in luce a più riprese alme­ no tre cosiddetti ustrina, edificati sul luogo della pira funeraria. L'at­ tività edilizia di questo periodo è stata tuttavia definita "residuale" 75 , una sorta di prolungamento dei grandi programmi traianei e adrianei, priva tuttavia dei mezzi economici e della volontà di innovazione che questi avevano avuto. Allo stesso modo, l'altra dinastia che si trovò a dominare la città e l'impero allo scorcio del m secolo ricorse ad un linguaggio monumentale conservatore e ben sperimentato: il grande arco ai piedi del clivo capitolino, il principale monumento "dinasti­ co" dell'età severiana, ne è un esempio significativo.

Note 1. Per i singoli monumenti si rinvia alle voci in E. M. Steinby (ed.), Lexicon To­ pographicum Urbis Rornae (LruR), voli. r-v, Roma 1993-1999, con ampia bibliografia

(si citeranno alcuni contributi più recenti); sullo sviluppo delle principali tipologie ar­ chitettoniche P. Gros, L'architecture romaine, Paris 1996. Per lo sviluppo edilizio: G. Gullini, L'architettura e l'urbanistica, in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Princeps urbium. Cultura e vit.a socidle dell'Italia romana, Milano 1991, pp. 419-735 e la voce Roma, in Enciclopedia dell'Arte Antica, Cl.assica e Orient.ale (EM) u SuppL 197 1-1994, rv, Roma 1995, pp. 784 ss. Per i grandi complessi monumentali sono fondamentali gli studi di F. Coarelli, Il Foro Romano, r-n, Roma 1982-85; Il Foro Boario, Roma 1987; Il Campo Marzio, Roma 1997. 2. La Grande Roma dei Tarquini è titolo di un celebre saggio di Giorgio Pasquali ("Nuova Antologia", 1936, 405-16 = Pagine Stravaganti, n, Firenze 1968, pp. 5-21). Di recente cfr. M. Cristofani (a cura di), La Grande Roma dei Tarquini (Catalogo della Mostra), Roma 1990. Perplessità in E. Gabba, La Roma dei Tarquini, "Athe­ naeum", 86 (1998), pp. 5-u e F. Kolb, Rom. Die Geschichte der Stad.t in der Antilee, Miinchen 1995. Su Demarato: C. Ampolo, Demarato. Ossero�ioni sulla mobilità sod4le arcaica, in "Dialoghi di Archeologia", 9-10 (1976-77), pp. 333-45; D. Musti, Etruria e �io arcaicv nell-J tradizione (Demarato, Tarquinio, Mezenzio), in Etruria e Lazio arcaico, Roma 1987, pp. q9-54; O. De Cazanove, La chronologie des &cchiades et celle des rois étrusques de Rome, in "Mélanges de l'École française de Rome. Anti­ quité" , 100 (1988), pp. 6 15-48; F. Zevi, Demarato e i re •corinzi" di Roma, in L'inci-

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ad circum F/aminium, quae Corinthia sii appellata a capitu/is aeret's co/umnarum».

14. Vell., I , 1 1 , 3. 1,, Quello dei Lari Permarini votato nel 190 a.C. da M. Emilio Regillo per la vittoria navale contro Antioco m di Siria; ne restano avanzi in via delle Botteghe Oscure. 1 6. Kolb, Rom. Die Geschichte der Stadi in der Antike, cit. 1 7. Front., Aq., J, 16, 1 ; cfr. in questo volume Bruun, CAP, 4. 1 8. «Emporio ad Tiberim adiecto», Liv., 3,, 1 0, 12. 19. R. Syme, The Augustan Aristocrac-y, Oxford 19862 ; T. P. Wiseman, Rome and the Resp/endent Aemi/ii, in H. D. Jocelyn, H. Hurt (eds.), Tria lustra. Essays and notes presented to ]. Pinsent, 1993, pp. 1 81 -92; F. Zevi, Il tempio dei Lari Permarini, la Roma degli Aemi/ii e il mondo greco, in "Mitteilungen des Deutschen Archiiologischen lnstitut, Rom. Abt.", 1 04 (1997), pp. 81- n_:i . 20. F. Zevi, Le grandi navi mercanti/i. Puteo/i e Roma, in Le ravitai/lement en blé de Rome et des centres urbans des débuts de la Répub/ique jusqu'au haut empire (Coll. EPR, 196), Naples-Rome 1994, pp. 61 ss. 310

7 . L 'EDJLJZJA PUBBLICA E SACRA 2 1 . Origine e sviluppo delle basiliche: Gros, L'architecture, cit., pp. 23, ss.; M. » Gaggiotti, Origini, sviluppo e "continuità nelle basiliche romane, in "Annali della Fac. Lettere e Filos. Univ. Perugia, Studi Classici" , 3 1 (1993-199,), pp. 275-86. 22. Gros, L'architecture, cit., p. 235. 23. 39, 44, 7. 24. Cato Min., ,, 1. 25. Cure., vv. 470-82 e Capt., vv. 813-15. 26. Liv., 26, 27, 2-4; 27, II, 1 6. 27. Liv., 40, 5 1 . 2 8 . Cic., Sest., 140; Verro, Ling. Lat. , ,, 1,6. 29. 5, 1 , 4-.5. 30. In generale: S. Weinstock, Divus Julius, Oxford 197 1 ; Z. Yavetz, Julius Cae­ sar and His Public lmage, London 1983; G. L. Grassigli, La curia nei progetti urbani­ stici di Silla, Pompeo e Cesare: architettura e lotta politica a Roma nel 1 sec. a.C. , in "Palladio", n.s. 4 (1991), pp. 39 ss.; G. Sauron, Quis deum? L'expression plastique des idéologies politiques et religieuses à Rome, Rome 1994; T. P. Wiseman, in Cambridge Ancient History", IX, 1994, pp. 369 ss.; Coarelli, Il Campo Man.io, cit., pp. .580 ss. 3 1 . Saepta e Villa Publica: Cicerone, Att. , 4, 1 6, 8. 32. Cic., Alt. , 4, 16, 8. 33. Cic., Att. , 17, 7. 34· 19, I . 35. Ante aedem: Suet., Caes., 78, 1 ; v. anche Cass. Dio, 44, 8 , 1 -2; Liv., Per., I I6. 36. In generale P. Gros, Aurea Tempia. Recherches sur l'architecture religieuse en Rome à l'époque d'Auguste, Bibl. EPR, 2 3 1 , Rome 1976; E. La Rocca, Ama:u.onoma­ chia. Le sculture frontonali del tempio di Apollo Sosiano, Roma 198.5, pp. 83 ss.; K. A. Raaflaub, M. Toher (eds.), Between Republic and Empire. lnterpretations of Augustus and his Principale, Berkeley-Oxford 1990, pp. 380-94; P. Sommella, L. Migliorati, Il segno urbano, in Storia di Roma; l'impero mediterraneo, 2, Il, Torino 1991, pp. 287-98; P. Zanker, Immagini e valori collettivi, ivi, pp. 193 ss.; G. Alféildy, Studi sull'epigrafia augustea e tiberiana di Roma (Vetera, 8), Roma 1992. A. Fraschetti, Roma e il princi­ pe, Bari 1990, pp. 2,_, s.; G. Alféildy, Augusto e le iscrizioni. Tradizione e innovazione. La nascita dell'epigrafia imperiale, in "Scienze dell'Antichità" , , ( 1991 ), pp . .573-600; D. Favro, The Urban lmage o/ Augustan Rome, Cambridge-NY 1996. Per i singoli mo­ numenti, oltre alle voci relative nel L1VR: Tempio del divo Giulio e sidus lulium, dr. T. Ramsey, A. Lewis Licht, The Comet of 44 B.C. and Caesar's Funeral Games, Atlanta 1998. Foro di Augusto: P. Zanker, Il Foro di Augusto, Roma 1984; Ganzert, Der Mars-Ultor Tempel auf dem Augustusforum in Rom, 1996; Id., Zu den Ehrenbagen far Germanicus und Drusus auf dem Augustusforum, in "Mitteilungen des Deutschen Archiiologischen lnsrituts, Rom. Abt.", 104 (1997), pp. 193-206; G. Camodeca, Tabu­ lae Pompeianae Sulpiciorum. Edizione critica dell'archivio puteolano dei Sulpici, 1, Roma 1999, p. 72, n. 19 (statua Gracci in foro Augusn). Arco Partico/Aziaco: C. J. Simpson, The Originai Site of the Fasti Capitolini, in "Historia", 42 (1993), pp. 61 ss.; Id., On the Unreality of the Parthian Arch, in "Latomus", .51 (1992), pp. 83.5 ss.; E. Neder­ gaard, La collocazione originaria dei Fasti capitolini e gli archi di Augusto, in "Bulletti­ no della Commissione Archeologica Comunale di Roma" 96 (1994-9.5 ), pp. 33-70; J. V. Rich, Augustus, Parthian honours, the Tempie of Mars Ultor and the Arch of the Forum Romanum, in "Papers of the British School et Rome", 66 (1998), pp. 77-128. Orologio di Augusto: E. Rodriguez Alrneida, Il Campo Marzio settentrionale: Solarium e pomerium, in "Rendiconti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia", 5 1 -5 2 , 1979-80 (1982), pp. 195-2 1 2 ; M. Schutz, Zur Sonnenhur des Augustus auf dem

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Plin., N.H. , 16, 3. R.G. , 34, 2.

«templorum omnium conditor ac restitutl:Jr», Liv., 4, 20, 7. Tempio di Saturno: Munazio Planco, 43 a.C.; Regia: Domizio Calvino, 36

42. Coarelli, ll Foro Romano, cit., pp. 269 ss. 43. Fast. , t, 706. 44. Cic. , Att. , 13, 3 3a, r. 45. M A. Tornei, Le tre "Danaidi" in nero antico dal Pa'4tino, in "Boli. d'Arte", 5 - 6 (1990), pp. 35-48. 46. E. Gabba, Dionigi e '4 storia di Roma arcaica, Roma-Bari 1996, p. 186. 47. Ov., Pont. , t, 8, 3 5-38; Trist. , 3, 12, 2 1-22. 48. 5, 3, 8, c 235. 49. J. Ga,sé, DitJus Augustus. L'idée dynastique che1, /es empereurs Ju/io-claudiens, in "Révue Archéologique", 34 (193 1), pp. r r-41; A. Balland, wNotJa Urhs" et wNeapo­ lis". Remarques sur /es projets urbanistiques de Néron, in "Mélanges de l'École françai­ se de Rome. Antiquité", 77 (1965), pp. 349-93; E. J. Phillips, Nero's New City, in "Rivista Filologia e Istruzione Class.", 106 (1978), pp. 300-6; A. Wallace-Hadrill, The Emperor and his Virtues, in "Historia", 30 (1981), pp. 298-323; P. Grimal, I giardini di Roma antica, Roma 1984 2 ; A. A. Barrett, Gzligu'4. The Omuption o/ Power, Lon­ don 1989, pp. 192 ss.; A. Rouveret, Tacite et /es monuments, in Au/stieg und Nie­ dergang der Romischen Welt, li, 3 3 , 4, Berlin-New York 199 1, pp. 3051-99 (3083 ss.); Arco di Germanico in circo F'4minio e Tahu'4 Siarensis: W. D. Lebek, in "Zeitschri& fiir Papyrologie und Epigraphik", 86 (1981), pp. 52 ss.; ivi, 67 (1987), pp. 128-48; F. Castagnoli, L'arco di Germanicv in circo F'4minio, in "Archeologia Classica", 36 (1984), pp. 329-32; T. Schmitt, Die drei Bogen far Germanicus und die romische Pou� tik in friihtiherischer Zeit, in "Rivista storica dell'Antichità", 27 (1997), pp. 73-137. Senatoconsulto su Pisone padre: W. Eck, A. Caballos, F. Fem.é.ndez, Das senatus con­ sultum de Cn. Pirone Patre, Miinchen 1996; considerazioni relative anche alla topo­ grafia romana: W. Eck, Un s.c. sul processo di Cn. Gzlpurnius Pisa, in "Rendiconti della Pontificia Accademia Romana" 63 (1990-9 1), pp. 9 1 ss.; H. I. Flower, Rethink­ ing Damnatio Memoriae. The Gzse o/ Cn. Gzlpurnius Piro pater in AD 2 0 , in "Classical Antiquity", I7 ( 1998), pp. 155-87 e, soprattutto, J. Bodel, Punishing Piro, in • Ameri­ can Joumal of Philology", Special Issue. The s.c. de Cn. Pirone Patre, 120 ( 1999), pp. 43-63. ,-o. Tih. , 47, l.

7. L 'EDIL!ZIA PUBBL!CA E SACRA

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ROMA lMPERlALE

70. D. Kienast, Zur Baupolitik Hadrians in Rom, in " Chiron", x (1980), pp. 391 ss.; M. Taliaferro Boatwright, Hadrian and the City Rome, Princeton 1987; P. Gros, La stagione della cnsi. Urbanesimo e architettura fra 11 e 111 secolo, in Storia di Roma, cit., pp. 733 ss.; Id., L'architecture, cit., pp. 1 73 ss .. Pantheon: F. Coarelli, La doppia

o/

tradizione sulla morte di Romolo e gli auguracula dell'arx e del Quirinale, in Gli etru­ schi e Roma. Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 1981, pp. 173 ss.; E. Thomas, The Architectural History o/ the Pantheon in Rame /rom Agrippa to Septimius Severus via Hadrian, in "Hephaistos", 1 5 (1997), pp. 1 63-86; D. e G. Gruben, Die Tiire des Pantheon, in "Mitteilungen des Deutschen Archiiologischen lnstituts, Rom Abt.", 104 (1997), pp. 3 ss. Tempio di Venere e Roma: A. Barattolo, Nuove ricerche sull'architettura del tempio di Venere e Roma, in Mitteilungen des Deutschen Archiio­ logischen Instituts, Rom. Abt., 80 (1973), pp. 243 ss.; Id., Il tempio di Venere e Roma. Un tempio greco nell'Urbe, in "Mitteilungen des Deutschen Archiiologischen Instituts, Rom. Abt." 85 (1 978), pp. 397 ss.; M. Manieri Elia, Note sul significato del tempio di Venere e Roma, in Saggi in onore di G. De Angelis IYOssat, Roma 1987, pp. 47 ss.; A. Cassatella-Spanella, Restituzione dell'impianto adrianeo del tempio di Venere e Roma, in "Quaderni di studio per l'Archeologia etrusco-italica, Archeologia Laziale", 1 0 (1990), pp. 5 2 ss.; P . Liljenstolpe, De ornamentis templi urbis. Reconstructing the Main Order o/ the Tempie o/ Venus and Roma, in "Opuscola Romana", 20, 1996, pp. 47-63. Tempio di Adriano e Campo Marzio nel Il secolo: P. Liverani, "Nationes" e "civitates" nella propaganda imperiale, in "Mitteilungen des Deutschen Archiiologischen lnstituts, Rom. Abt." 1 02 (1995), pp. 219 ss.; Id., Il monumento anlonino di Efeso, in "Rivista dell'Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte", 19-20 (1996-1997), pp. 153 ss.; A. Claridge, L'Hadrianeum in Campo Marzio: storia dei rinvenimenti e topografia antica nell'area di piaz.:IIJ di Pietra, in Provinciae Fide/es. Il fregio del tempio di Adriano in campo marzio, Milano 1999; E. La Rocca, La riva a mez.:11Jluna, Roma 1984; P. J. E. Davies, Politics and Design. The Funerary Monuments /rom Augustus to Marcus Aure­ lius (Diss. Yale 1994), Ann Arbor 1999. 7 1 . Cass. Dio, 53, 27, 2-4. 72. Cass. Dio, 69, 3, 2; SHA, Hadr., 14, 8, 73• 69, 4, 2-6. 74. Taliaferro Boatwright, Hadrian and the City o/ Rome, cit., p. 132. 75. Gros, Storia di Roma, cit., p. 734.

8

Architettura e urbanistica: dalla città-museo alla città santa di Federt"co Guidobaldi

8.1

Fino ai Severi 1

La pianta marmorea severiana ci dà certamente l'ultima immagine, pur se frammentaria, della Roma antica, cioè di una città giunta ad essere, senza rivali, la più grande del mondo antico. La crescita era stata graduale ma per lo più disordinata, infatti l'Urbs non aveva mai più avuto una pianificazione urbanistica genera­ le dopo il cospicuo (ma non totale) rifacimento neroniano, l'ultimo ad essere stato eseguito, almeno in parte, su progetti dettagliati che coinvolgevano anche le zone abitative. I grandi interventi dei Flavi e di Traiano avevano soltanto annul­ lato le occupazioni "private" di Nerone sostituendole con grandi ope­ re pubbliche o avevano demolito vecchi quartieri abitativi per instal­ lare i nuovi fori. Adriano aveva integrato ulteriormente la monumen­ talizzazione del Campo Marzio e gli ultimi Antonini avevano aggiunto qualche santuario e qualche edificio pubblico in una città già compiu­ ta dal punto di vista urbanistico. L'operazione più capillare fu proba­ bilmente quella della riconversione dell'abitato poiché la città, avendo perso superficie a causa delle nuove opere pubbliche, doveva recupe­ rare in altezza gli spazi abitativi, cosa che si fece egregiamente so­ stituendo alle basse abitazioni antiche le nuove case ad appartamenti su quattro o cinque piani, che, pur se impropriamente, chiameremo ancora "insulae" (ma tra virgolette) Proprio nella pianta marmorea severiana vediamo ancora qualche esempio di piccole domus del tipo pompeiano, edifici di un certo decoro che forse sopravvissero per aver ospitato qualche illustre personaggio o famiglia del passato, ma si tratta certamente di casi non troppo numerosi. Nella pianta stessa, infatti, anzi in quella minima parte che ne è giunta fino a noi, le "insulae" predominano e così ci fanno intendere 2

315



ROMA IMPERIALE

che quella fu la soluzione, o una delle soluzioni, per incrementare gli ambienti abitabili senza mutare il reticolo viario e la stessa urbani­ stica. Anche un altro espediente fu attuato certamente nel II secolo, quello di creare nuovi quartieri oltre il perimetro precedente. Lo no­ tiamo con evidenza per quella parte di Roma che circondava il Castro Pretorio e che risultava già allora periferica tanto che poi fu lasciata, in parte, fuori delle mura di Aureliano 3 • Qualcosa di simile si verificò anche in altre zone ancora in parte libere come il Trastevere e la via Lata e persino nelle zone (come soprattutto quelle della periferia sud: regioni r, rr e xrr) un tempo de­ stinate ad ospitare solo sepolture 4• Questi prowedimenti dovettero essere sufficienti a contenere il normale incremento di popolazione che si verificò in età flavia e nella prima età antonina, compensato dalle pestilenze della seconda metà del secolo che crearono una diminuzione sensibile della popolazio­ ne '. Così, dopo i grandi interventi monumentali di Traiano e Adria­ no, non ci furono nel rr secolo altre vere variazioni urbanistiche tran­ ne il fatto che, sostituendo edifici abitativi nuovi a quelli vecchi, si aumentò l'omogeneità dei prospetti e quindi la monumentalità e mo­ dernità delle strade interne o tangenti ai quartieri abitativi. Ciò che restò costante e continuò a vincolare la viabilità stessa di Roma la­ sciandola tortuosa ed irregolare fu la conservazione ad oltranza delle aree sacre con gli antichi templi, gli altari e tutte le memorie del pas­ sato sottolineate da una installazione monumentale, talvolta anche modesta, ma che, ad ogni crollo o incendio, veniva ricostruita sullo stesso sito spesso senza incisive variazioni di pianta. Pure le grandi zone monumentali, divenute anch'esse sacrari per le statue celebrative, le iscrizioni, le sculture rievocative e le stesse opere d'arte spesso d'origine greca poste a decorarle, restarono come luoghi intoccabili e, anzi, si arricchirono nel tempo di altre statue, iscrizioni ecc. che ne aumentarono il prestigio "storico". Le grandi opere pubbliche, infine, costruite o ricostruite (in prati­ ca tutte) tra il r secolo avanzato e l'età dei Severi, continuavano a servire al loro scopo e non venivano certo demolite (anche perché esse stesse erano alte espressioni artistiche e contenevano opere d'ar­ te) e quindi vincolavano per sempre la viabilità e la destinazione del1'area occupata. Si può così parlare della Roma della fine del rr secolo come di una città tanto piena di meraviglie monumentali quanto legata alla re­ sponsabilità di tutelarle e mantenerle per continuare a stupire ed affa-

8. ARCHITETTURA E URBANISTICA : DALLA CITTA-MUSED ALLA CITTA SANTA

scinare le turbe di visitatori italici e provinciali che sempre più nume­ rose affluivano non solo per trattare affari e per inserirsi nel mondo politico, ma anche per godere delle lusinghe della metropoli del lus­ so, della cultura e del divertimento. È probabile comunque che, allora, la monumentalità di Roma fos­ se vista come un fatto "naturale" legato alla sua potenza ed alla sua centralità e che, solo quando la potenza e soprattutto la centralità di­ minuirono, fu più facile valutare la concreta eccezionalità del fenome­ no urbano che si era andato creando nei secoli precedenti. 8.2

L'età severiana Con i Severi Roma, città-museo ancora non totalmente percepita, fu cenamente incrementata nella sua monumentalità e nel suo apparato di servizi e strutture per il divenimento. I restauri e gli abbellimenti innumerevoli di Settimio Severo a mo­ numenti 6 di altissimo valore storico, come la Porticus Octaviae Augu­ stea, il Pantheon di Agrippa, l'atrium Vestae, il Palatium risistemato ed ingrandito, il Tempio di Cibe/e, il Temp/um Pacis, ove fu posta la grande pianta marmorea di Settimio Severo ecc., mostrano quanto la "musealizzazione" fosse curata e privilegiata. D'altro canto però le nuove costruzioni, sia di carattere monu­ mentale, come l'arco trionfale nel Foro, il grande prospetto a tre or­ dini di colonne del Settizonio, l'enorme tempio di Villa Colonna sul Quirinale (un tempo detto di Serapide e oggi ritenuto forse di Ercole e Dioniso) 7 , sia di carattere pubblico-funzionali, come i Castra nova Equitum singu/arium, gli acquedotti rinnovati, le caserme dei Vigili ecc., dimostrano l'attenzione alla città "attuale" alla sua funzionalità e alla sua modernizzazione. In questa stessa ottica della città ancora vitale si pone anche una imponentissima fondazione di Settimio Severo, cioè quella della resi­ denza imperiale, pseudourbana o comunque appena periferica, degli Horti Spei Veteris che rappresentano il primo tentativo a noi noto di duplicazione imitativa del palazzo imperiale sul Palatino. Infatti il nucleo sopravvissuto, con le Terme, il grande Circo, l'au­ la palaziale collegata al pu/vinar del circo stesso e l'anfiteatro di nuo­ va concezione, tutto in laterizio, mostrano da un lato la notevole creatività delle progettazioni imperiali e dall'altro una coscienza dina­ stica che, nel passato, non era stata altrettanto evidente. 317

ROMA IMPER[ALE

C'è da domandarsi se questa "proposta" di allontanamento dell'a­ bitazione dell'imperatore dal "centro storico" (come diremmo oggi) non nascondesse la coscienza di una progressiva "musealizzazione" del Palatium in cui probabilmente i contenuti simbolici e storici pre­ dominavano ormai rispetto alla funzionalità, ma questa è certo un'i­ potesi un po' forzata che per ora è meglio lasciare in disparte, anche perché altri motivi, come la constatazione degli effetti dell'incendio appena verificatosi nel 19 r alla fine del regno di Commodo, oppure la vicinanza "protettiva" dei Castra, Vetera e Nova, degli Equites Sin­ gulares, potevano aver suggerito l'esigenza di una residenza urbana alternativa. Resta comunque il fatto che gli Horti Spei Veteris, pur se non eb­ bero vita continua, restarono un prototipo di quelle residenze impe­ riali che da Massenzio e, ancor prima, con la tetrarchia, si susseguiro­ no in molte città vicecapitali dell'impero; solo l'anfiteatro era una ag­ giunta "anomala" che non fu seguita e che, comunque, sin dall'inizio poteva aver avuto funzione indipendente dalla residenza 8 • L'aver preso come punto di partenza la pianta marmorea severia­ na ci ha costretto a parlare dell'opera di Settimio Severo separandola da quella dei suoi discendenti e successori, poiché, come è noto, tale planimetria fu redatta ed applicata ad un muro del forum Pacis verso il 205-208 e quindi nella prima parte dell'età severiana. In effetti questa cesura artificiale basata sulla data della pianta non è utile ai fini di una corretta lettura dell'urbanistica di Roma poi­ ché divide in due parti un'attività edilizia ed una progettazione mo­ numentale che hanno invece tutti i crismi della continuità e dell'uni­ tà. Le nuove costruzioni attribuibili a Caracalla, Eliogabalo ed Ales­ sandro Severo sono infatti, almeno per i primi due e almeno in parte anche per l'ultimo, probabilmente il frutto di una progettazione glo­ bale con interventi posti in continuità o in prosecuzione e con qual­ che intermezzo più "personale". Parlando di monumenti non si può che partire dal Tempio di Se­ rapide, edificato da Caracalla e che oggi non sembra più identificabile con certezza con quello i cui resti con l'enorme scalinata si trovano nella Villa Colonna e dietro l'Università Gregoriana. È certo comun­ que che questo tempio è di costruzione severiana (si ricava dalla struttura muraria e dalla scultura decorativa) e che quindi, se deve essere visto come Tempio di Ercole e Dioniso (cfr. supra), dovrà la­ sciarci collocare lì presso il Tempio di Serapide (dietro S. Silvestro al Quirinale) aumentando l'incisività dell'intervento dei Severi sulle pro­ paggini del Quirinale.

Il, ARCHITETTURA E URBA NIS TICA: DALLA CITTA-MUSEO ALLA CITTA SANTA

Un altro tempio dedicato a divinità solari dovrebbe essere poi quello di Eliogabalo tradizionalmente posto sul Palatino sulla cima più elevata che guarda verso il Tempio di Venere e Roma, ma in que­ sto caso potrebbe trattarsi solo di una temporanea variazione della dedicazione. Il nome stesso di Caracalla evoca poi le sue enormi terme con­ cluse da Eliogabalo e Severo Alessandro con un riflesso davvero im­ portante sull'urbanistica di quella zona che, dalla funzione funeraria, era passata a quella residenziale, restando però periferica mentre con le terme vi si costituì un polo di decentramento urbanistico, tanto im­ portante da implicare la costruzione di nuove strade 9• Opere minori attribuibili a Caracalla come l' excubitorium dei Vi­ gili di Trastevere, l'incremento dell'acquedotto della Marcia ecc. giu­ stificano ancor più il suo coinvolgimento nelle realizzazioni per la pubblica utilità. Ad Eliogabalo si deve attribuire poi il più importante coinvolgimento nella costruzione della residenza ad Spem Veterem con l'incremento degli edifici per spettacoli ai quali egli era, come si sa, decisamente interessato. A Severo Alessandro, come Coarelli ha giustamente sottolinea­ to rn, si deve poi una notevolissima attività specifica che si concre­ tizzò soprattutto nella ricostruzione del Tempio di Vesta, nel restauro del Colosseo, del Teatro di Marcello e dello Stadio di Domiziano, nell'ampliamento del Circo Massimo, nel rifacimento integrale delle Terme Neroniane del Campo Marzio, nel restauro della residenza de­ gli Horti Lamiani rr, nella costruzione dell'enorme ninfeo (detto nel medioevo Cimbrum e poi "Trofei di Mario"), citato dai cataloghi come nimphaeum Alexandri e ancora esistente a piazza Vittorio, nella costruzione dell'acquedotto detto Aqua A lexandrina, nella dedicazio­ ne del Tempio di Giove Ultore e nella costruzione (a quanto sembra incompiuta) della basi lica Alexandrina con grandissimi colonnati nel Campo Marzio, forse ricostruzione dell'Ecatostilo del Teatro di Pompeo u. Altri interventi segnalati per questo imperatore sono la già citata ricostruzione dell' excubitorium della vn Coorte dei Vigili in Trasteve­ re, il restauro delle domus dei Laterani, forse la ricostruzione dei Ca­ stra Peregrina (2" fase) e l'abbellimento del Foro Transitorio. È evidente in tutto questo complesso di interventi la particolare attenzione per le opere pubbliche e per i servizi che fruttarono ad Alessandro il gradimento entusiastico da parte della plebs urbana. Quanto detto basta a valutare l'ulteriore monumentalizzazione di Roma attribuibile ai Severi ed in parte successiva alla pianta marmo-

ROMA IMPERIALE

rea severiana ma per quanto a noi interessa ai fini di un'analisi del­ l'urbanistica e dell'insediamento è necessario aggiungere qualcosa. Abbiamo visto che alcuni dei nuovi monumenti si inseriscono nel precedente tessuto urbano creando nuove "ferite": ciò sembrerebbe contraddire quanto si è ipotizzato sulla almeno parziale stabilità della struttura viaria e della continuità dei vincoli urbanistici, ma in realtà non è così. A parte qualche variazione di strade, ad esempio nel caso delle Tenne di Caracalla, dobbiamo osservare infatti che quasi mai le nuove installazioni vanno a distruggere monumenti pubblici prece­ denti; semmai si verificano rifacimenti dello stesso edificio, crollato o danneggiato da eventi involontari, sullo stesso sito, ma non sembra per ora riscontrabile la distruzione di un santuario importante o un monumento di rilievo per edificare poi nella stessa area un edificio di tutt'altra natura, anche se di pubblica utilità. Allora che cosa si distrugge per ospitare le nuove fondazioni? Qualche indizio, forse per ora insufficiente per generalizzare ma certo utile per indirizzarci verso un'interpretazione, si ricava osservando, nei pochi casi in cui è possibile, cosa gli scavi hanno rimesso in luce sotto gli edifici severiani di nuova costruzione. Sotto le Terme di Caracalla è riapparsa una grande domus del II secolo che resta tuttora visibile, anche se in parte invasa dalla falda acquifera 1 3 • Sotto i Castra Nova degli Equites Singulares, è stata iden­ tificata un'altra domus ancor più grande e databile al I secolo. Sotto il grande Tempio del Quirinale (Serapeo o Tempio di Ercole e Dioni­ so?) sono state rinvenute strutture frammentarie per lo più modeste e quindi forse di tipo domestico o comunque privato. Si tratta di tre soli casi che, però, corrispondono a gran parte del­ le maggiori installazioni ex novo già citate. Se questi casi fossero generalizzabili - non mancano comunque riscontri analoghi per gli edifici fondati nel I e n secolo - si dovrebbe dedurre che, proprio per rispettare i monumenti preesistenti, le nuo­ ve fondazioni si ponevano in aree abitative demolendo od obliteran­ do le domus che vi si trovavano, dopo averle acquistate, o espropria­ te, o, più probabilmente, ottenute per donazione o confisca e assorbi­ te nel demanio imperiale o nella res privata dell'imperatore del mo­ mento. L'ipotesi, anche tenendo in conto eventuali eccezioni, cioè consi­ derando che si trattasse di una tendenza più che di una regola fissa, sembra suggestiva e spiega certamente non solo il motivo della so­ pravvivenza dei più o meno antichi monumenti, a fianco di quelli nuovi, ma anche l'incremento sempre più evidente della monumenta­ lizzazione dell'Urbs nel tempo. 320

Il. ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTA-MUSEO ALLA CJTTA SANTA

Certo tutto ciò va a scapito dello spazio abitativo ma, a quanto sembra, sono le domus piuttosto che le "insulae" che, per ora, ne fan­ no le spese. L'incremento di "insulae" e di monumenti a spese delle domus si può forse spiegare considerando che, appunto nel I secolo inoltrato e nel II secolo alcune domus potevano essere state alienate da parte dei proprietari poiché ad esse si erano preferite le residenze suburbane, più grandi, più ricche di quegli spazi aperti che ormai erano impensa­ bili nella città fittamente occupata e più coerenti con la cultura filoso­ fica dell'età antonina. D'altronde il fenomeno dello sviluppo di residenze imperiali ex­ traurbane, che si era già ampiamente sviluppato lungo tutto il II seco­ lo 14 , non poteva aver mancato di creare un modello da imitare per l'aristocrazia più abbiente. Questa "variazione" qualitativa dell'insediamento urbano potreb­ be inoltre essere legata anche ad altri fattori come, soprattutto, l'im­ poverimento della classe aristocratica nel suo insieme: non si possono infatti trascurare le numerosissime esecuzioni e confische volute, pri­ ma da Commodo e poi da Settimio Severo 1' . Sembra un'ulteriore ri­ prova di ciò il fatto che proprio Settimio Severo si senti in dovere di dotare di domus urbane di un certo rilievo i suoi più fedeli collabora­ tori, come Cilone, Anullino, Laterano e Basso che, pur vantando gen­ tilizi come quelli dei Fabi, dei Comeli, dei Plauzi e degli Anici e pur essendo stati, in parte, anche consoli e prefetti, evidentemente non erano in situazioni economiche tali da potersi permettere una resi­ denza degna del loro rango. La Constitutio Antoniniana con la quale Caracalla estese la cittadi­ nanza a tutti gli abitanti (liberi) dell'impero si rese forse necessaria proprio per ricostituire gradualmente una aristocrazia provinciale che poi potesse accedere alla capitale ed alla Curia in sostituzione delle tante più antiche famiglie senatorie che si erano estinte o che erano comunque state rovinate dalla politica antisenatoria di Commodo e di Severo: ma qui ci stiamo avventurando in un problema che nulla ha più a che fare con l'urbanistica e che quindi è_giusto lasciare all'anali­ si degli storici. Noi ci limiteremo ad osservare che un altro fenomeno di notevole importanza, e stavolta di carattere urbanistico, sembra manifestarsi invece alla fine dell'età Severiana. Le case multifamiliari (cosiddette "insulae") a più piani, che avevano caratterizzato il paesaggio urbano di Roma e Ostia nella piena età imperiale, sembrano chiudere il loro ciclo proprio nella prima metà del III secolo cioè dopo quasi due se­ coli di grande popolarità. 321

ROMA IMPERIALE

Una delle citate "insulae", databile per i bolli laterizi all'età di Ca­ racalla e giunta fino a noi con tutto il suo primo piano, è stata ri­ messa in luce non molti anni fa sotto la chiesa di S. Lorenzo in Luci­ na e risulta chiaramente non essere mai stata terminata '6 , il che certo significa - a meno che non si tratti di un caso anomalo ed isolato che al tempo di Caracalla la richiesta di tale tipo di edificio di abita­ zione intensiva si era arrestata e che, quindi, la costruzione di abita­ zioni di tal genere non era più conveniente come investimento. Il fatto che su quell'area un tempo sorgesse una domus del r-u secolo è comunque anche una riprova di quelle trasformazioni, ap­ punto a spese delle domus, di cui abbiamo parlato: in questo caso, tuttavia, il cambiamento non è stato ponato a termine e questo è il segnale di un altro tipo di trasformazione che si concretizzerà nell'età successiva.

8. 3

Dai Severi alla Tetrarchia Un altro edificio del genere "insula", attribuibile all'età tardoantonina o severiana, fu completato ma ebbe vita brevissima. È la casa ad ap­ partamenti con tahernae posta sul Clivus Scauri, attualmente visitabile nei sotterranei della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, che venne tra­ sformata in domus già nella seconda metà del m secolo '7 • Questo caso ci evidenzia una nuova e fondamentale inversione di tendenza; ora infatti sono le "insulae" ad essere sacrificate, mentre le domus si ricostruiscono poiché ritorna evidentemente la richiesta, da parte dei nuovi senatori provinciali, di una decorosa dimora urbana unifamiliare. Il "viraggio" tipologico dell'edilizia abitativa di Roma che abbia­ mo appena evidenziato sembra in effetti solo accennato nella piena età dei Severi e quindi si può piuttosto considerare pertinente alla fine di essa e semmai caratteristico di una generica età postseveriana. Poiché si attribuiscono al trentacinquennio (235-270) che inter­ corre tra Severo Alessandro e Aureliano sia una riduzione parziale delle presenze imperiali nella capitale sia una sensibile diminuzione dell'importanza e della ricchezza di Roma, si può facilmente ammet­ tere che un tale impoverimento abbia comportato una riduzione volu­ metrica dell'insediamento abitativo e quindi una caduta della richiesta di nuovi edifici appunto abitativi; perciò le analisi relative all'insedia­ mento possono essere indebolite nella loro validità da questo tipo di fattori.

8 . ARCHITETTURA E URBANISTIC A: DALLA CITTÀ-MUSEO ALLA CITTÀ SANTA

Aderiamo, in attesa di eventuali nuovi dati, a questa linea inter­ pretativa ma ribadiamo la già annunciata ipotesi secondo cui Roma, probabilmente, non rinunciò alla sua veste ormai acquisita di città­ museo e si arricchì ancora di qualche monumento, pur se l'interesse principale degli imperatori sembra fosse rivolto all'abbellimento o alla costruzione di residenze personali, o meglio dinastiche, spesso riadat­ tate nelle precedenti abitazioni di famiglia. Vediamo comunque nel loro insieme i monumenti o le residenze che si possono ascrivere al citato periodo ' 8• Ai Gordiani si deve, oltre all'arco presso il Castro Pretorio, il complesso residenziale sulla Prenestina, celebratissimo dalle fonti, a Filippo l'Arabo una grande residenza sul Celio, a Decio le già citate Terme dell'Aventino e i restauri del Colosseo, a Gallieno, oltre all'ar­ co, preesistente ma ridedicato a lui e sua moglie da un Aurelio Vitto­ re, la residenza degli Horti Liciniani con la sua statua colossale in bronzo, forse mai realizzata; altre residenze sono note anche per i Tetrici. Nello stesso periodo o, più correttamente, già dalla fine del II e poi per tutto il III secolo, si deve ricordare, come trasformazione d'u­ so più che come vera variazione della struttura degli edifici, l'installa­ zione dei Mitrei, i nuovi santuari che sorgono a decine nella città con vasti annessi "liturgici" ricavati in genere a livelli sotterranei nell'am­ bito di edifici privati o anche pubblici, come nel caso delle Terme di Caracalla, dei Cartra Priora equitum ringularium, dei Cartra Peregrina ecc. ' 9 • Qualcosa di analogo nel pieno III secolo ed in misura più con­ tenuta ed ancor meno visibile dovrebbe essersi verificato per i primi luoghi di riunione cristiana, cioè per le domur ecclesiae 20 • Tornando ai monumenti dobbiamo comunque ammettere che le opere attribuibili agli imperatori tra Macrino e Claudio il Gotico, come d'altronde è stato più volte osservato, non sono comparabili con quelle dell'età dei Severi, né con quelle di Aureliano di cui parle­ remo tra breve, ma ci servono comunque a testimoniare una modera­ ta sopravvivenza di attività architettoniche talvolta anche di notevole impegno come furono, almeno, le Terme Deciane. L'attività di Aureliano si impone invece per varietà e volumetria: basta ricordare la ben nota cinta delle mura, la più lunga del mondo antico (quella di Siracusa non si può considerare urbana), che si svi­ luppa per oltre r8 km. Alla quale si debbono poi aggiungere almeno il maestoso Tempio del Sole nel Campo Marzio e il rifacimento della residenza degli Horti Satlurtiani ornata dal circo e dalla Porticur Mi­ liarensir.

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È ovvia l'importanza, dal punto di vista urbanistico, della costru­ zione della nuova cinta di mura, terminata poi dai successori Tacito e Probo, che comportò anch'essa varie obliterazioni di edifici abitati­ vi 2 1 , ed anche di monumenti funerari privati di un certo rilievo, che spesso furono però soltanto inglobati (la piramide di Gaio Cestio e la tomba del fornaio Eurisace ne sono i casi più noti); gli acquedotti furono spesso integrati nella cinta e riutilizzati in essa ma gli altri mo­ numenti pubblici furono in genere rispettati tranne il Circo V ariano, forse però mai completato, che fu troncato dalla cinta e mai più riat­ tivato, oppure lo fu solo parzialmente, nel tratto che restò entro le mura. Dal punto di vista viario le nuove mura non comportarono grandi cambiamenti. Le nuove porte infatti furono poste in corrispondenza di quelle della cinta repubblicana sui prolungamenti delle vie conso­ lari e semmai aumentarono di numero poiché, talvolta, dalle porte antiche si dipartivano due vie. Un cambiamento non indifferente fu forse quello apportato agli altri Horti disposti lungo il perimetro urbano, ormai quasi tutti di proprietà imperiale, che, in quest'occasione furono, almeno in qual­ che caso, modificati nei confini, cioè tagliati dalla cinta. Tuttavia gli effetti più importanti della costruzione delle nuove mura furono da un lato quelli di aver sigillato la città concludendone in qualche modo l'espansione e dall'altro di averla resa più difesa e quindi più sicura come residenza stabile. Quest'ultimo aspetto po­ trebbe essere stato un fattore di nuovo richiamo per i cittadini che vivevano all'esterno e comunque un motivo di rallentamento della di­ minuzione degli abitanti. 8. 4

L'età tetrarchica e Massenzio La forte ripresa economica che coincide certamente con il riassetto politico e amministrativo dell'età tetrarchica corrisponde per Roma ad una intensa rivitalizzazione che probabilmente in parte era già ini­ ziata con Aureliano. La sempre più accentuata preferenza degli impe­ ratori per la sede milanese, che si andava allora imponendo come se­ conda residenza, non sembra nuocere troppo alla città almeno in un primo tempo, ma si deve anche tener presente che il numero assai cospicuo di grandi opere edilizie legate al nome di Diocleziano forse sarebbe stato assai minore se non si fosse dovuto provvedere alla ri­ parazione, finita poi quasi sempre con un totale rifacimento, dei mo-

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numenti forensi distrutti dall'incendio di Carino (del 28 3 ) e troppo importanti per poter essere abbandonati in rovina da un imperatore, anche se non era residente nella vecchia capitale. Così furono ricostruiti la Curia, il Secretarium Senatus, la Basilica Emilia e la Giulia, il Foro di Cesare, il Graecostadium e i Rostra; si eresse l'arcus Novus nella via Lata, si ornò il Foro (ed anche i Rostra) di nuove colonne onorarie, si eressero monumenti minori che cele­ bravano i Tetrarchi, si potenziarono ed integrarono alcuni acquedotti e si ricostruirono due portici e tre ninfei: i primi erano forse quelli del Teatro di Pompeo ed i secondi potevano essere sull'Aventino. A tutte queste opere raccolte da Coarelli in una recente sintesi ag­ giungo anche il restauro del Signum Vertumni e quello degli Horrea Agrippiana entrambi sul Vicus Tuscus J . L'opera di Diocleziano e Massimiano non si limitò comunque al Foro e al Campo Marzio: è ben noto infatti che si deve a quegli im­ peratori il più grande complesso termale di Roma, ancor oggi in par­ te conservato (ed occupato nella zona centrale dalla moderna basilica di S. Maria degli Angeli e nelle altre parti dal Museo Nazionale Ro­ mano). A quest'opera colossale corrispose un altro sacrificio del tes­ suto abitativo della città: lo dimostrano le case di vario tipo (ma in genere modeste) e le strutture private che restarono visibili nell'attua­ le piazza della Repubblica durante i saggi per la costruzione della sta­ zione della metropolitana. Continua così a restare applicabile l'equazione secondo la quale la compagine urbana di Roma si continua ad arricchire di monumenti in senso lato - e si continua ad impoverire di abitazioni, diventando sempre più una città-museo che, ciò nonostante, continua ad avere una popolazione numerosissima e attiva non solo nei commerci, che sono certo il nucleo dell'economia di una megalopoli poiché gli stessi consumi interni sono bastevoli a garantire un sufficiente volume di ma anche in attività produttive vendite, e quindi di importazioni di tipo più prossimo a quello industriale, nel settore dell'edilizia e affini, in quello della moda, in quello funerario ed in quello del di­ vertimento e dell'alimentazione. La città si conservò dunque con tutte le sue attrattive e continuò ad incrementarle restaurando senza interruzioni i monumenti esistenti mentre i nuovi fermenti religiosi davano nuovi spunti alla vita cultu­ rale. Sappiamo poco in effetti delle interferenze tra cristianesimo e mitraismo ma possiamo pensare che già nell'età tetrarchica si fosse creata una sorta di concorrenza nell'istituzione di questi santuari. Co­ munque, mentre i mitrei si installavano talvolta negli edifici pubblici (ma comunque in ambienti sotterranei) e talvolta in quelli privati (sia 22

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domus che "insulae") le Domus Ecclesiae in origine si inserirono al­ l'interno delle aree più popolose spesso occupando o riconvertendo solo internamente piccole o medie domus piuttosto che case di abita­ zione multifamiliari 26, L'effetto sull'urbanistica di questi insediamenti restò comunque praticamente nullo poiché gli isolati e le strade rimanevano immu­ tati ed i santuari citati spesso restavano praticamente invisibili dal1' esterno. All'interno degli isolati stessi, tuttavia, continuava a verificarsi in modo sempre più massiccio quella trasformazione da "insula" a do­ mus di cui abbiamo sottolineato l'insorgere già nel m secolo, ma a fianco di essa si era ormai consolidata la costruzione ex novo di do­ mus anche su terreni liberi o di proprietà pubbliche. Anche stavolta furono i provvedimenti prosenato ad avere effetto: poiché le leggi di Diocleziano (ed ancor più quelle successive) incrementavano infatti l'inurbamento dei senatori provinciali, i quali dovevano abitare in do­ mus unifamiliari decorose, 1a richiesta di questo tipo di edificio certa­ mente aumentò e l'attività edilizia urbana sul settore privato ebbe una grande ripresa, parallela peraltro a quella del settore pubblico. La richiesta di domus stimolò anche la fantasia e l'innovazione nelle progettazioni e cosi si affermarono sempre più dei complessi abitativi basati sulla varietà della pianta ma sulla presenza, per quanto possibi­ le costante, di alcuni elementi fondamentali come 1a grande aula di rappresentanza (ma anche tricliniare), possibilmente absidata, il corti­ le non grande e magari irregolare, ma abbellito di grandi fontane o ninfei, la decorazione pavimentale in opus sectile marmoreo ecc. Rinviamo per questi aspetti alle trattazioni specifiche 27 e ricordia­ mo pure che il fenomeno delle domus unifamiliari tardoantiche è di portata generale poiché si riscontra, come risulta da altri recenti lavo­ ri, in tutte le grandi città dell'impero nel 1v secolo 28• Sull'argomento comunque torneremo più avanti per evidenziare altre due importanti implicazioni, che però riguardano probabilmente la fase più matura del fenomeno, ancora non a regime nell'età tetrarchica e più definito ed esteso nel IV secolo. Resta invece un punto fermo il nuovo incremento della monu­ mentalizzazione di Roma che coincide con l'età tetrarchica e che uni­ to a quello che corrisponde all'attività di Massenzio, come risulta in una recente proposta di Coarelli 29, diventa davvero imponente poi­ ché, oltre che dei restauri di grandi edifici come le Terme di Agrippa e forse quelle di Severo Alessandro, si arricchisce della basilica poi detta di Costantino, del Tempio di Venere e Roma, delle terme pie-

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cole nel Palatium verso il Circo Massimo, e della sua grande residen­ za extraurbana sulla via Appia con il Orco ed il Mausoleo dinastico. Tuttavia, se politicamente l'opera di Massenzio si pone in conti­ nuità con quella del padre e/o dei tetrarchi in generale, è da tener presente che l'impostazione architettonica e quella urbanistica subi­ scono in questo momento una prima svolta innovativa che si pone meglio come cerniera tra i tetrarchi e Costantino che come appendice conclusiva della Tetrarchia. Questa interpretazione, che prende le mosse dagli aspetti stilistici dell'architettura, è stata già in parte svolta in una sede più specifica alla quale comunque rinviamo 30, ma è valida anche per quanto ri­ guarda gli aspetti urbanistici. L'impostazione dei tetrarchi e quella di Massenzio sembrano infatti piuttosto dissimili e ciò soprattutto per l'ottica con la quale si rivolgono a Roma. Il grande intervento di monumentalizzazione che si sviluppò sotto i primi tetrarchi è infatti certamente teso, come abbiamo già ricorda­ to, soprattutto a ripristinare e reintegrare ciò che era stato danneggia­ to dal grande incendio del 283, estesosi forse trasversalmente dal Vi­ cus Tuscus al Teatro di Pompeo. Ora se togliamo dalla lista degli in­ terventi tetrarchici i monumenti che sono su questa linea e cioè il Graecostadium, gli Horrea Agrippiana, il signum Vertumni, la Basilica Giulia, i Rostra, la platea forense, la Basilica Emilia, la Curia, il Se­ cretarium Senatus, il Foro di Cesare e i portici che si congiungevano al Teatro di Pompeo, non ci restano che le grandi terme del Vimina­ le, gli acquedotti ad esse collegati ed altri restauri di ridotta entità a connotare l'opera tetrarchica che cosi risulta puramente demagogica e si pone comunque in continuità con l'ottica, precedentemente segui­ ta, di una città-museo in cui i monumenti si conservano, ripristinano e arricchiscono man mano nel tempo, mentre gli imperatori riducono sempre più la loro presenza effettiva. Con Massenzio invece si sente - anche se sarà solo un episodio la presenza dell'imperatore nella sua città con una partecipazione as­ sai più diretta e personale che si concretizza con monumenti ben pre­ cisi: la ricostruzione del tempio più grande del mondo (quello di Ve­ nere e Roma), non a caso dedicato alla città stessa, la grandissima nuova basilica che sembra simbolizzare la ripresa di una vita cittadina pienamente attiva, il restauro del palazzo imperiale tradizionale e, so­ prattutto la realizzazione di una nuova ed enorme residenza suburba­ na, intesa come stabile e duratura, con il Circo per le apparizioni pubbliche dell'imperatore e con un nuovo mausoleo dinastico ispirato forse a quello di Diocleziano, a Spalato, e degli altri tetrarchi ma, a 3 27

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differenza di quelli, costruito a Roma e non nelle nuove sedi alterna­ tive alla vecchia capitale. Se in questa prima riqualificazione monumentale del suburbio, ove ormai si andavano accumulando i germi dei futuri santuari cri­ stiani, si includesse anche la basilica di S. Sebastiano (o meglio la ba­ silica apostolorum) che presenta la stessa struttura muraria del com­ plesso della villa-residenza che è di fronte, dall'altro lato della via Ap­ pia, un'altra grande e specifica caratteristica si potrebbe individuare nell'intervento massenziano. Questa ipotesi, avanzata a suo tempo dalla Jasztrebowska 3 r , è certo sostenuta, oltre che dall'analisi delle cortine murarie, anche dall'assenza, nelle fonti, di qualunque menzio­ ne che riporti a Costantino la basilica di S. Sebastiano: altre basiliche cimiteriali della stessa struttura sono invece puntualmente ricondotte a Costantino dal Liber Pontificalis 3 2 • Certo però una fondazione massenziana per quella che sarebbe così la più antica chiesa di Roma ha implicazioni assai più generali e complesse, per cui è forse più prudente lasciare ancora aperto il pro­ blema. Resta comunque più in generale l'impressione secondo la qua­ le al breve regno di Massenzio corrispose un tentativo di rivitalizza­ zione di Roma in rottura evidente rispetto a quanto si era fatto in precedenza: d'altronde anche questo aspetto non è certo passato inosservato nelle analisi più note di questo periodo storico. A noi interessa semmai aggiungere che questo tentativo, se ci fu, non fu contrastato ma anzi fu proseguito, almeno in un primo tempo, anche durante il regno di Costantino, di ben altra durata, rilevanza e attività costruttiva, che si concretizza nella costruzione di numerosis­ simi edifici, spesso di concezione architettonica del tutto nuova ed originale, e di dimensioni e decorazioni dawero eccezionali.

8.5 L'età costantiniana L'editto di tolleranza del 3 13, che elevava la religione cristiana a reli­ gione tutelare dell'impero contro il tyrannus appena estinto, non po­ teva non corrispondere d'altronde a grossi mutamenti nella gestione della città e della sua architettura. La prima "manifestazione" edilizia di Costantino fu in effetti, con ogni probabilità, la Basilica Lateranense, enorme edificio sacro di concezione del tutto diversa da quella dei precedenti templi, poiché destinato a riunioni al coperto di grandi moltitudini ed a cerimonie con un fulcro preciso, che facevano preferire lo sviluppo longitudina328

8 . ARCHITETTU RA E URBANISTICA : DALLA C[TTA-MUSEO ALLA CITTA SANTA

le monopolare. Superata ormai la teoria secondo cui la basilica cri­ stiana è derivata da quella civile (tipo Basilica Ulpia) e ne rappresenta una imitazione con minime varianti, si può valutare questa creazione costantiniana in tutta la sua ricchissima originalità: dalle arcate lateri­ zie su colonne, che qui compaiono per la prima volta in un interno di una certa estensione, ai finestrati luminosissimi, alle decorazioni piane ottenute con commessi di lastrine di marmi colorati su cui la luce scivola senza dare ombre, alle decorazioni musive anch'esse piane e policrome ma con la trasparenza del vetro e i riflessi brillanti dell'oro e dell'argento, alle strutture snelle e leggere e non più ingombrate da quelle pesanti modanature (cornici, trabeazioni, mensole ecc.) che creavano fastidiosi e tetri giochi di luci e di ombre, ancora presenti anche nel Mausoleo di Diocleziano a Spalato e perfino con Massenzio nel Tempio di Venere e Roma. L'effetto monumentale della Basilica Lateranense era comunque contenuto almeno dall'esterno, poiché un'altra caratteristica di questa architettura è di essere più mistica ed intima che non esibita ed im­ pressionante. A fianco di questa costruzione cristiana ci fu certamente anche il completamento della Basilica di Massenzio con sostanziali cambia­ menti tra i quali volentieri vedrei anche i finestrati del pianterreno a gruppi di tre grandi arcate, che rendono tuttora quasi trasparente e comunque leggerissima l'intera massa dell'enorme edificio a volta. Questo edificio, fondato su un preesistente portico semipubblico e forse in parte anche sul Macellum più centrale di Roma, non era stato fatto a spese di aree abitative e quindi era, anche in questo, di­ verso da quelli precedenti poiché era nato, già con Massenzio, per mostrare che la città poteva essere anche rinnovata e non solo conser­ vata; d'altronde anche la Basilica Lateranense nasce obliterando i Ca­ stra degli Equites Singulares e quella vaticana occupa il sito di un cir­ co e di una necropoli e ripropone il nuovo modello della chiesa lon­ gitudinale a cinque navate ma stavolta con una novità assoluta, il transetto, braccio trasverso in corrispondenza dell'altare. Altri edifici continuarono comunque ad essere eretti a spese di abitazioni, come ad esempio il Battistero Lateranense anch'esso cri­ stiano e di nuovissima concezione poiché poteva forse essere un otta­ gono con navatella anulare interna e cupola 33 • Ai primi tempi del regno di Costantino sembrerebbero poi risalire le grandi Terme da lui installate sul Quirinale, su un territorio in pre­ cedenza folto di domus aristocratiche di u e III secolo. Anche in que­ sto caso l'architettura è eccezionale specialmente nel grande calida3 29

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rium a cupola con quattro absidi forate da pentafore e probabilmente da grandi finestre .H. Qualcosa di analogo si trova nel grande decagono detto Tempio di Minerva Medica e oggi attribuito al settore privato del Sessorium (la grande residenza urbana di Costantino e della sua famiglia) che si estendeva intorno all'attuale Porta Maggiore 35 • Questo complesso, ottenuto rioccupando gli Horti Spei Veteris di Settimio Severo ed Eliogabalo, includeva, nella sua zona sud, un santuario cristiano, lega­ to alle memorie di Gerusalemme e poi alla Santa Croce (l'attuale S. Croce in Gerusalemme), una enorme aula absidata, comparabile per dimensioni con la basilica di Massenzio, un'aula absidata minore, più articolata, e un grande complesso termale: è evidente che questa zona era il settore pubblico della residenza che aveva invece inglobati, più a nord, precedenti Horti - forse quelli Pal!antiani - ove appunto era stato innalzato il citato decagono, detto Tempio di Minerva Medica e finora attribuito senza motivi agli Horti Liciniani, che erano certo più antichi e comunque da ricercare più a nord, in summo Esqui­ liarum 3 6 • Questo splendido padiglione a cupola con esedre estroflesse a tri­ fora, ninfei semiellittici, e sale rotonde o absidate annesse è di conce­ zione talmente complessa dal punto di vista architettonico che ben difficilmente si potrebbe attribuire ad una committenza diversa da quella imperiale e, dato che i bolli laterizi lo riconducono all'età co­ stantiniana 37 , non è difficile considerarlo appunto parte del Sesso­ rium e collegarlo con altri resti visti nei dintorni, cioè, in particolare, con il grandissimo mosaico del IV secolo con scene di caccia oggi al museo della Centrale Montemartini, ma in gran parte ancora sepolto sotto i binari della ferrovia, presso il nostro decagono 3 8 • Questo in­ sieme può benissimo essere considerato, per le sue caratteristiche de­ corative e dimensionali, il settore privato di una residenza imperiale. L'attività di Costantino si rivolse comunque anche ai monumenti già esistenti, in particolare realizzò un incisivo restauro al Circo Mas­ simo, rifece il calidarium delle Terme di Caracalla, con l'enorme cu­ pola, la seconda a Roma per dimensioni, larga circa 34 m all'interno e con il finestrato ariosissimo aperto entro nicchie. Proprio a proposito di cupole certo non ci può sfuggire che, da quanto fin qui elencato, risulta che tre edifici costruiti da Costantino e, in particolare, il calidarium appena citato, quello delle Terme di Costantino e il cosiddetto Tempio di Minerva Medica, hanno le cu­ pole più grandi di Roma dopo quella del Pantheon. Ciò conferi un aspetto particolare al panorama di Roma che, già da prima, si era ar­ ricchito di qualche cupola di medie dimensioni e per lo più termale e 33°

8. ARCHITETTU RA E URBANJSTJCA : DALLA CITTÀ -MUSEO ALLA CJTTA SANTA

quindi vedeva emergere solo quella del Pantheon: ora invece varie ca­ lotte circolari emergevano qua e là al di sopra dei tetti (e nel subur­ bio con i mausolei di cui parleremo tra breve), come d'altronde ci mostrano le iconografie tardoantiche di città reali o ideali che si po­ polano, a partire da quell'epoca, di numerose cupole sia semisferiche che coniche (queste ultime forse sulla base dell'esperienza, sempre costantiniana, dell'Anastasis di Gerusalemme). Tornando alle modificazioni urbane collegabili a Costantino dob­ biamo anche ricordare l'arco trionfale presso il Colosseo, decretato e realizzato in modo piuttosto tradizionale e con materiali di spoglio, dal senato, ma certo connotante, come aggiunta monumentale del percorso (attuale via di S. Gregorio) che prosegue dalla Via Sacra verso l'arco di testata del Circo Massimo; sul percorso trionfale ri­ cordiamo poi l'arco quadrifronte, detto Arco di Giano, di solida e "moderna" architettura. Un altro monumentale intervento urbanistico di Costantino fu poi la costruzione della porticus Constantini, grande via colonnata, sotto le pendici del Quirinale; altro notevole edificio costruito ex novo se­ condo una originale architettura è la rotonda, detta Heroon di Romo­ lo, sulla via Sacra, con la sua cupola e la facciata concava con due propilei, il tutto contemporaneo al rifacimento dell'edificio rettango­ lare che faceva da appendice al Templum Pads e che poi fu trasfor­ mato in basilica dei SS. Cosma e Damiano 39• A fianco di questi edifici monumentali dobbiamo poi ricordare le grandiose basiliche cimiteriali con deambulatorio absidale dette circi­ formi a causa della facciata spesso intenzionalmente obliqua e quindi probabilmente alludente alla tipologia circense 4 ; si tratta di almeno tre edifici e cioè SS. Marcellino e Pietro, S. Lorenzo, S. Agnese a cui si possono aggiungere la basilica, analoga ma di attribuzione dubbia, sulla Prenestina entro la ex villa dei Gordiani, quella recentemente scoperta da Fiocchi Nicolai probabilmente attribuibile a papa Marco e quindi a committenza pontificia tardocostantiniana e quella di S. Sebastiano forse massenziana, ma magari conclusa o integrata da Co­ stantino e, certamente, prototipo dell'intero gruppo. Questi enormi edifici certamente emersero dal paesaggio del su­ burbio, prima assai meno caratterizzato dal punto architettonico, ed insieme ad essi emersero anche i nuovi grandi mausolei spesso a cu­ pola che erano collegati o annessi alle basiliche 4 1 • I più grandi di questi sono stati considerati in genere costantinia­ ni e destinati a tombe di membri della famiglia imperiale. In partico­ lare si trattava di edifici circolari a cupola con nicchie perimetrali. 0

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Ricordiamo la cosiddetta Tor Pignattara, tomba di Elena impera­ trice e, forse, in origine, destinata allo stesso Costantino, con cupola dal diametro interno di oltre 20 m, la cosiddetta Tor de Schiavi, forse protocostantiniana (se non precedente) e l'attuale S. Costanza, tomba della figlia dell'imperatore, Costantina, in cui compare per la prima volta la pianta circolare con colonnato interno anulare che sostiene la cupola, ispirata con ogni probabilità all'edificio del Santo Sepolcro di Gerusalemme costruito anch'esso da Costantino 42 • Queste cupole si vanno ad aggiungere alle altre urbane già citate e mostrano ancor di più quanto l'architettura di questo imperatore fosse caratterizzata da forte innovazione e quanto essa incidesse con le nuove forme nel paesaggio urbano e suburbano. Finora abbiamo ricordato solo le nuove costruzioni ma a queste vanno aggiunti anche i restauri o i rifacimenti o le integrazioni di altri edifici con interventi spesso anch'essi assai incisivi sull'aspetto della città. Basterà ricordare la ristrutturazione del Circo Massimo, gli ab­ bellimenti della Casa delle Vestali, il restauro della grande fontana detta Meta Sudans, quello della porta Praenestina, quello, ricavabile dall'epigrafia, della Moneta, la ristrutturazione ben nota della Basilica di Massenzio ecc. Sarebbe lungo enumerare gli interventi minori attribuibili a Co­ stantino o alla sua età ma, prima di passare oltre, non possiamo omettere il grande impulso che ebbe in questo periodo l'architettura delle domus e delle ville aristocratiche, che si arricchirono di aule ab­ sidate o articolate, di ambienti polilobati o a pianta centrale con cu­ pola e di decorazioni in opus sectile e a mosaico, con una policromia di eccezionale ricchezza. A Roma, in particolare, basta ricordare la domus sopra le Sette Sale di scoperta relativamente recente 43 , per rendersi conto della eccezionale ricercatezza a cui era giunta in età costantiniana l'architettura domestica sulla scia di quella residenziale imperiale. L'impatto del notevole intervento costantiniano sull'urbanistica di Roma fu certamente non trascurabile. Le trasformazioni operate restarono infatti solo in parte sulla scia di quelle del m secolo: è vero infatti che le Terme di Costantino, come le precedenti di Caracalla o di Diocleziano, furono costruite a spese di quartieri abitativi, ma, almeno, la nuova cattedrale cristiana fu costruita sui dismessi Castra degli Equites Singulares e quindi su un edificio pubblico. Anche le domus, d'altronde, tendono da questo periodo ad utilizzare aree di precedente uso pubblico o comunque di proprietà imperiale. Basta pensare alla domus sopra le Sette Sale, adattata sopra il serbatoio d'acqua delle Terme di Traiano, oppure la 332

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domus che poi fu trasformata in chiesa dei SS. Quattro Coronati, che sbarrò una strada antica 44 , come anche la domus di via Bemi 4'. An­ cor più significativo è il caso della domus di largo Argentina che fu costruita, forse però in epoca più tarda, all'interno del Diribito­ rium 46•

Si vedono bene in tutto ciò i segnali di una minore "attenzione" urbanistica che però non sarebbe giusto attribuire a Costantino o co­ munque al periodo in cui egli ancora frequentava Roma, cioè fino al 326: le date di costruzione delle domus citate sono infatti poco preci­ se e ben si adatterebbero anche al pieno IV secolo. Così sembra più logico pensare che le invasioni del suolo pub­ blico da parte dei privati iniziarono, o, comunque, divennero più fre­ quenti, quando l'assenza dell'imperatore divenne costante e la città rimase sotto la totale giurisdizione del prae/ectus urbi e quindi del se­ nato con un ovvio aumento dei privilegi senatoriali ed aristocratici in generale. 8.6

La città autonoma dalla partenza di Costantino (326) al rientro di Teodosio (3 86?) Abbiamo già parlato, in altra sede, della Roma del pieno IV secolo come di una "città dei prae/ecti" 47 e ci sembra tuttora che questa interpretazione si possa sostenere. In effetti dopo Costantino assistiamo ad un incremento delle ini­ ziative private che si manifestano soprattutto nell'edilizia abitativa e che solo raramente giungono a produrre veri e propri monumenti. La città è così ancor più di prima una città-museo che subisce solo limitati restauri o abbellimenti, celebrati da ampollose iscrizioni in genere sproporzionate alla reale entità degli interventi. Caso caratte­ ristico è ceno quello della Porticus Deorum Consentium, un breve ponicato a colonne presso il tempio di Vespasiano ricostruito o forse solo restaurato dal prae/ectus Urbi Vettio Agorio Pretestato nel 367 d.C., ma molti sono gli altri piccoli interventi di prae/ecti in epoca precedente. Ricordiamo che si deve a Q. Rustico, prefetto del 344-45, il re­ stauro di terme non meglio identificate, a Fabio Tiziano, prefetto nel 339-341 e poi nel 350-5 1 , si debbono numerose statue poste ad ador­ nare il Foro romano, a Fl. Mesio Lolliano Mavorzio, prefetto del 342, dobbiamo una dedicazione ad Ercole sull'Aventino, a Nerazio Cerea333

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le, prefetto dal 3 5 2 al 3 5 3 , si debbono delle terme forse semipubbli­ che lungo il Vicus Patricius o dei restauri a terme non meglio specifi­ cate e forse a lui si deve la statua equestre di Costanzo rr davanti alla Curia. Statue sull'Aventino furono poste da Vitrasio Orfito, prefetto dal 353 al 356, a Simmaco, nel 365, si deve forse l'inizio dei lavori sul ponte di Valentiniano (poi ponte Sisto) ed a Rufio Volusiano Lampa­ dio, prefetto dal 365-366, si deve la dedica di varie statue degli impe­ ratori nelle terme di Caracalla ed il trasferimento di altre statue nel Foro 48 • Di tutti questi prefetti ci parla d'altronde con toni coloritissimi Ammiano Marcellino ponendo in evidenza il predominare della com­ ponente privata nei loro interessi: le loro domus sono infatti spesso ricordate (anche in altre fonti) e ci fanno comprendere come esse co­ stituissero ancora il nucleo principale dell'attività edilizia. I prefetti di questo periodo erano in parte cristiani ed in parte pagani con alternanze piuttosto irregolari che dimostrano, se non al­ tro, l'equilibrio tra le due diverse posizioni religiose, caratteristico di quel momento. Tra tali in lustres, come d'altronde anche tra i senatori in generale, molti erano coinvolti nei più alti gradi dell'iniziazione mitraica e spes­ so erano responsabili di dediche di statue al Sole o di restauri di mi­ trei. L'intervento in chiese cristiane si verifica in controcorrente e ten­ de ad aumentare nel tempo quando quello della cura dei mitrei di­ minuisce. D'altronde, se l'insediamento mitraico resta poco evidente a causa della sua predilezione per i sotterranei, anche quello cristiano non è ancora un fatto sensibile dal punto di vista urbanistico. A parte la cattedrale e la chiesa "palatina" di S. Croce entro il Sessorium la nuo­ va religione non si impone entro le mura con monumenti vistosi ed imponenti come le basiliche cimiteriali o martiriali suburbane. La Costantiniana del Laterano è all'inizio l'unico monumento evi­ dente della nuova religione nel panorama urbano e i nuovi edifici co­ struiti nel cuore della città cominciano a farsi più visibili solo più tar­ di, come poteva verificarsi, ad esempio, nel caso di S. Anastasia, po­ sta dietro il Circo Massimo alle pendici del Palatino; anche la Basilica Liberiana doveva essere emergente così come - ma qui è più dubbio - S. Lorenzo in Damaso nel Campo Marzio poteva anch'essa avere una struttura individuale e più ancora poteva averla S. Marco che si trovava assai vicino ai Fori, ad un tiro di schioppo dal Foro di Cesa­ re, ed aveva invaso con la sua abside, almeno a quanto sembra 49 , una strada pubblica. 33 4

8 . ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTA-MUSEO ALLA CITTÀ SANTA

Come si vede è assai poco vero che le prime chiese cristiane si posero ad una certa distanza dal centro della città pagana; ne trovia­ mo, d'altronde, un'ulteriore conferma con S. Marcello, che era proba­ bilmente adiacente alla porticus Constantini e prossima al Foro di Traiano, come doveva esserlo anche un'altra chiesa già esistente verso la metà del rv secolo, cioè la basilica lulia iuxta forum Traiani. L'insediamento cristiano dunque si concretizza già tra i papi Mar­ co (336-337) e Damaso (366-384), come già notava il Pietri, ma a questo si può aggiungere che non restò affatto lontano dal centro monumentale, anche se fu sempre - almeno per quanto possiamo fi­ nora controllare - realizzato a spese dei precedenti edifici domestici e quindi senza coinvolgere l'alterazione della città-museo. Le nuove basiliche avevano d'altronde una articolazione architet­ tonica compatibile con quella di alcuni settori delle domus (o, alme­ no, di quelle di maggiori dimensioni) e quindi restarono certamente in parte mimetizzate anzi talvolta si insediarono nelle aule absidate delle domus stesse senza alterarle esternamente. La presenza di una grossa comunità cristiana e di una gerarchia ecclesiastica ormai solidamente basata anche da un punto di vista economico è già talmente evidente da suscitare nella seconda metà del secolo la forte impressione che ne ebbe Ammiano Marcellino, pur se, certo, da anticristiano e orientale quale egli era, non perse l'occa­ sione per evidenziarne e caricarne i tratti più insoliti e più negativi. Nonostante ciò vale la pena di rileggere quelle pagine per avere un'i­ dea viva e "attuale" della Roma del IV secolo per la quale mi sembra che il paragone con la Parigi tra XIX e xx secolo sia particolarmente calzante. La città-museo, che è la cornice di questa città del lusso e del divertimento, sembra ora finalmente percepita anche dai contempora­ nei. Ne abbiamo una prova molto evidente nella descrizione della vi­ sita di Costanzo n alla vecchia capitale che viene ben evidenziata dal­ lo stesso Ammiano Marcellino che ne fa l'occasione di una entusia­ stica allusione ai meravigliosi monumenti che sfilavano sotto gli occhi dell'imperatore ' 0• Siamo ormai del tutto distanti dalla Terrarum dea gentiumque Roma cui par est nihil et nihil secundum di Marziale ' 1 , che vedeva al tempo di Traiano la potente città della civiltà, della legge e del buon governo; ormai, nella metà del IV secolo, Roma è sentita come un monumento alla sua grandezza passata piuttosto che a quella attuale: ci si rivolge allora a contemplarla e si prende solo allora coscienza della spaventosa quantità dei monumenti e dell'incredibile dimensio­ ne di alcuni di essi. 33 5

ROMA l MPERlALE

Ma un'altra trasformazione già si manifesta ai nostri occhi nella città: è una trasformazione lenta e, anche stavolta, non cosciente, del­ la città-museo in una città-santuario. Essa era stata iniziata da Costantino con i santuari suburbani e con quello urbano della Santa Croce e continuata dagli imperatori (finché ce ne saranno), dall'aristocrazia e, gradualmente, anche dal clero, come spontaneo incremento della monumentalizzazione, di cui si è finora ampiamente trattato, ma che ormai sarà rivolta sempre più alle basiliche cristiane e alle opere pubbliche ad esse collegabili e sempre meno ai monumenti di tipo tradizionale cioè quelli sacri di altre religioni e quelli destinati ai divertimenti.

8.7

Da Teodosio a Valentiniano

III

Un particolarissimo significato acquistano proprio verso la fine del IV secolo le vie porticate, già numerose nella Roma imperiale ed incre­ mentate, come abbiamo visto, da Massenzio e da Costantino. Un'altra monumentale strada colonnata, anch'essa in parte già esistente, assu­ me ora un'altra più precisa funzione: è l'insieme delle Porticus Maxt'­ mae restaurate da Graziano Valentiniano e Teodosio tra il 379 e il 383 e allora concluse da un arco trionfale dedicato ai tre imperatori all'imbocco del pons Aelius che, di fatto, non conduceva più al Mau­ soleo di Adriano ma alla Basilica Vaticana e alla tomba di Pietro. Si inizia cosi quella serie di vie colonnate, dirette alle principali basiliche martiriali (ad esempio S. Paolo e S. Lorenzo), che connota­ rono la Roma medievale ma di cui non conosciamo la data esatta di fondazione. Sappiamo però che esistevano già nella prima metà del VI secolo poiché ce ne parla Procopio come di cose già esistenti. Un secondo passo più deciso verso l'incremento di una urbs sanc­ ta è quello dell'edificazione di un altro enorme santuario suburbano che faceva da pendant a quello di S. Pietro sul colle Vaticano e che era appunto consacrato alla memoria della tomba dell'altro principe degli Apostoli S. Paolo. A questo era già stata dedicata una chiesa di medie dimensioni, appunto sul luogo della sua sepoltura lungo la via Ostiense, dallo stesso Costantino ma, evidentemente, questo modesto santuario era diventato inadeguato al culto intenso che ormai si anda­ va configurando. Non è certo escluso che dietro la nuova committenza, esplicitata nel 383-384, di tre imperatori, cioè Valentiniano n, Teodosio e Arca­ dio, allora residenti in prevalenza a Milano, non ci fosse il suggeri-

8. ARCHJTETTURA E URBANISTJCA: DALLA CJTTÀ-MUSEO ALLA CITTÀ SANTA

FJGURA 1 8

Schema planimetrico di Roma con l'indicazione degli edifici cristiani documenta­ bili all'interno delle mura alla fine del JV secolo. Con un rettangolo sono indicate le grandi basiliche, con una ellissi i #tu/i e con un tondo gli oratori. Alcune delle collocazioni sono ipotetiche ma basate su indizi significativi; gli edifici di topo­ grafia incerta sono stati del tutto omessi (dis. Azimut)

337

ROMA IMPERIALE

mento di Ambrogio, vescovo di Milano e consigliere di Teodosio, che nel frattempo andava innalzando splendide basiliche a vari martiri nella città lombarda. Sta di fatto che questa iniziativa è forse la prima che dimostra una stretta collaborazione tra vescovi - quelli di Roma sarebbero Damaso (366-3 84) e/o Siricio (384- 3 99) -, imperatori e senato, poiché il tra­ mite tra i due poteri è proprio il prae/ectus urbi Sallustio e il suggeri­ mento imperiale è quello di consultare per la progettazione e l'esecu­ zione anche il magnificentissimus ordo ' L'ordine di deviare, per la costruzione, una strada consolare come la via Ostiense ci permette di valutare in tutta la sua importanza questo episodio che indica una tappa centrale nelle trasformazioni che andiamo delineando. Non è un caso, infatti, se proprio da quel momento si cominciano a costruire all'interno della città chiese di architettura ben definita, non più adattate utilizzando strutture precedenti. Si tratta ormai so­ prattutto di basiliche a tre navate con abside che sono l'edificio di culto dei tituli, insediamenti cristiani forse già esistenti dall'età co­ stantiniana ma bene attestati solo, appunto, nella seconda metà del IV secolo 1 3 : questi erano complessi autonomi e topograficamente defini­ ti, con edifici utilizzati anche per abitazione e per servizi e con pa­ trimonio proprio, fondato sulle donazioni e con rendite provenienti soprattutto da case d'affitto e tenute agricole. Essi svolgevano un'a­ zione sia assistenziale, sia di tipo parrocchiale, sia, infine, di tipo am­ ministrativo ed avevano un edificio di culto che, però, non sempre aveva struttura basilicale. Questi tituli hanno in origine un nome che in generale è riferibile al fondatore (che può essere anche un papa) oppure ad un santo martire. Dei più antichi non abbiamo se non raramente il riscontro ar­ cheologico ma, quando possiamo averlo, come nel caso 'el Titulus Equitii, del Titulus Marci, del Titulus Marcelli, del Titulus �amasi (S. Lorenzo in Damaso), Titulus Aemilianae (SS. Quattro), non troviamo edifici di culto del IV secolo già in forma basilicale articolati in nava­ te, ma piuttosto aule non sempre absidate o complessi di pianta irre­ golare adattati su strutture preesistenti '4, Ad ulteriore riprova si può anche osservare che, dove non abbia­ mo documentazioni archeologiche, è la tradizione stessa che riallaccia antichi tituli del IV secolo a preesistenti domus, come nel caso del Titulus Ciriaci, del Titulus Gai ad duas domos, del Titulus Callisti ecc. "· In epoca successiva e cioè con papa Siricio ( 3 84- 3 99) si allesti­ scono basiliche a tre navate con absidi come a S. Pudenziana e, forse, 2



8 . ARCHI TETTURA E URBANISTICA: DALLA GITTA-MUSEO ALLA GITTA SANTA

a S. demente, ma anche qui si tratta in gran parte di adattamenti di edifici precedenti e comunque di fondazioni non rispondenti ad un piano di distribuzione topografica. È solo alla fine del 1v secolo e soprattutto all'inizio del v (soprat­ tutto nel primo decennio) che si costruiscono ex novo dentro la città basiliche di forma regolare come S. Sisto Vecchio, S. Pietro in Vinco­ li, SS. Giovanni e Paolo e S. Vitale, tutte con tre navate, grande absi­ de e polifora a colonne come ingresso preceduta con ogni probabilità da un atrio 5 6• Queste chiese medio-grandi, che emergono ormai decisamente dal profilo urbano e diventano esse stesse monumenti, sono però sempre, almeno ove lo possiamo constatare, costruite a spese di edifici privati soprattutto abitativi e, fino a questo punto, restano allineate alle ma­ glie urbane che occupavano gli edifici precedenti. Esse quindi non turbano il sistema viario se non con qualche invasione di selciato, che, comunque, è più spesso legata all'insediamento domestico prece­ dente che al Titulus che vi si insedia in seguito. La conquista cristiana del territorio è comunque graduale e si ri­ ferisce solo agli edifici abitativi che passavano facilmente alla proprie­ tà ecclesiastica come donazioni, talvolta anche col vincolo di installar­ ci un Titulus. La Roma del IV secolo così si arricchiva di nuove chiese senza perdere la sua precedente /acies monumentale anzi incrementandola ulteriormente. A questo punto però entrò in gioco un altro fattore fino ad allora poco considerato e certo non favorevole alla conservazione della cit­ tà-museo: quello dei costi di manutenzione e restauro. È nei primi anni del v secolo che abbiamo un segno inequivocabile di questo problema divenuto ormai concreto dopo la prima catastrofe "fisica" della città. L'incendio di Alarico del 410 provocò nel tessuto urbano le pri­ me ferite gravi, che un tempo sarebbero state cicatrizzabili ed invece allora non lo furono più. La Basilica Emilia, che era già stata restau­ rata alla fine del m secolo dopo un incendio sotto l'imperatore Cari­ no nel 283, fu ridotta dal fuoco ad un cumulo di macerie che riempi­ rono i suoi muri perimetrali. Essa non fu mai più ricostruita anche se si ricorse ad un palliativo per salvare l'estetica della piazza forense: i muri esterni con le tabeme ad essi addossate già in età augustea furo­ no restaurati e davanti ad essi si costruì un portico coperto, a co­ lonne di granito rosa, che fece così da quinta alle macerie della basili­ ca, rimosse solo nei primi anni del novecento. 339

ROMA IMPERIALE

Lo stesso incendio probabilmente danneggiò irreparabilmente l'a­ diacente Templum (o Forum) Pacis di Vespasiano, anch'esso abban­ donato poi gradualmente ,7. Anche la domus dei Valeri, una delle più ricche di memorie e del­ le più belle di Roma, subì la stessa sorte e restò abbandonata finché non si installò sopra di essa il monastero altomedievale di S. Era­ smo. Questi fatti gravissimi, che creano le prime "macchie di abbando­ no" nel tessuto urbanistico della città, sono certo una avvisaglia di tempi peggiori, anche se vengono, di fatto, riassorbiti con una certa disinvoltura e con molta noncuranza. Nonostante tutto non si può negare che la prima metà del v seco­ lo, o, meglio, il secondo quarto di esso, dominato culturalmente dalla figura di Galla Placidia (t 450), sia l'ultimo momento luminoso per la storia e per l'urbanistica della città. Specialmente il regno di suo fi­ glio Valentiniano m (42 3 -455), che, come la madre, non di rado risie­ dette in Roma ' 8 , fu l'occasione per una rivitalizzazione dell'aristocra­ zia e del "tono" della città stessa, come risulta anche dal livello della produzione artistica con grandi basiliche come S. Maria Maggiore de­ corata da mosaici e S. Sabina decorata con opus sectile di committen­ za assai elevata, apparentemente papale ma forse, almeno in parte, imperiale e non menzionata per una forma di umiltà ormai coerente con la nuova religione. Dal punto di vista urbanistico dobbiamo notare che proprio S. Maria Maggiore si installa ancora su aree di tipo abitativo ma com­ porta anche grandi opere di terrazzamento della zona, che obliterano intere porzioni del tessuto viario, causando forse anche l'interramento o il rialzamento del Vicus Patricius. Anche la bella basilica titolare, oggi ancora quasi intatta, di S. Sa­ bina occupa un quartiere abitativo e/o comunque di proprietà priva­ ta, e quella di S. Lorenzo in Lucina, più o meno coeva, sorge come abbiamo visto su un'"insula" abbandonata. Continua così la lenta eliminazione del tessuto abitativo mentre i monumenti restano, ma ormai il fenomeno non richiede compensa­ zioni poiché la popolazione probabilmente diminuisce e, soprattutto, le famiglie senatorie, che hanno provocato nel rv secolo il boom della richiesta delle domus, migrano anche verso Costantinopoli, allettate da una vita politica più vicina all'imperatore. li fenomeno, già evi­ dente dopo la morte di Valentiniano m ( 455), si accentua ovviamente con la fine dell'impero di Occidente. Possiamo dunque affermare che per gran parte del v secolo i pa­ rametri che caratterizzano l'urbanistica di Roma restano in pratica co-

8. ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTA-MUSEO ALLA CITTA SANTA

stanti con la sola novità dell'incremento dei santuari cristiani, che però non sembrano causare decentramenti o nuove centralizzazioni, anche perché le piazze continuano a svolgere la loro funzione pub­ blica, anzi, la sviluppano ulteriormente ' 9• Lo stesso non vale però per l'architettura che, in questo momen­ to, pur acquisendo e stabilizzando le nuove tipologie basilicali e batti­ steriali, non porta grandi innovazioni se non quella eccezionale ed unica di S. Stefano Rotondo e, anzi, con S. Maria Maggiore, mostra una reazione tradizionalista a certi modi costantiniani di vedere le su­ pedici lisce e senza modanature: in quella chiesa infatti si vede riap­ parire l'architrave su colonne con capitelli ionici che era già ormai quasi scomparso e che invece è presente, alcuni decenni più tardi, anche a S. Stefano Rotondo dedicata da papa Simplicio (468 -483) 60 • Si tratta comunque solo di un revival, come ha già notato il Krautheimer 6 ' : più tardi le tipologie basilicali ritorneranno alle arca­ te su colonne. 8. 8

Da Petronio Massimo a Gregorio Magno La morte di Valentiniano m (45 5 ) , di una dinastia prestigiosa, legata perfino a Costantino (tramite Galla madre di Galla Placidia), che rie­ mergerà ancora, con i suoi rami femminili fino al VI secolo 62 , segna in pratica la conclusione dell'ultima occasione, per Roma, di riaffer­ marsi come grande capitale. La contemporanea morte a Costantinopoli del cugino Teodosio rr è altrettanto sfavorevole poiché subentrano imperatori esterni alla di­ nastia e assai poco interessati a Roma, che, a questo punto, non si può considerare in uno dei suoi momenti più favorevoli. È vero che con gli ultimi imperatori e forse sotto Libia Severo (46 1-465 ) o sotto Antemio (467-472) , che fu a Roma e regnò per set­ te anni (più di tutti), o sotto Anicio Olibrio, che aveva sposato Placi­ dia (una figlia di Valentiniano m) ma regnò assai poco (472) , si co­ struì uno dei più eccezionali monumenti paleocristiani del mondo e cioè S. Stefano Rotondo, consacrato da papa Simplicio (468-483), ed è pur vero che poco prima si andavano costruendo con papa llaro (46 1 - 468) i tre splendidi oratori al Battistero Lateranense, ma nel complesso il panorama urbano resta piuttosto stabile, a parte ciò che possono aver causato i saccheggi del 45 5 e del 472. Certamente il fatto principale che si può verificare dal punto di vista urbanistico è l'installazione di nuove chiese, in un caso, quello di S. Stefano, edifi341

ROMA IMPERIALE

cate non su aree abitative private ma su una caserna in disuso, i Ca­ stra Peregrina, come si era verificato per la Basilica Lateranense. Questo è però un caso eccezionale poiché gli altri edifici sono or­ mai di dimensioni assai contenute e, per lo più, sono ricavati in do­ mus e, in particolare, nelle aule absidate che di esse fanno parte, come si verifica appunto per l'aula della domus Giunio Basso che proprio il papa Simplicio consacrò a S. Andrea trasformandola in chiesa con la sola aggiunta del mosaico absidale. È proprio l'arte musiva parietale che, insieme all'opus sectile mar­ moreo parietale, verrà ancora prodotta ad alto livello a Roma fino al Vl e vn secolo da artisti che vengono probabilmente anche esporta­ ti 63 . Nel contempo invece la scultura decade irreparabilmente nel cor­ so del v secolo e l'architettura sopravvive, senza mai abbandonare la capacità di produrre opere di un certo tono, ma con occasioni sem­ pre più rare. Ricordiamo comunque, alla fine del v secolo, la trasfor­ mazione di un mausoleo presso S. Pietro in chiesa di S. Andrea con la quale si conclude la notevole serie di edifici di culto costruiti a Roma in quel secolo, stavolta con una dispersione topografica più omogenea. Di domus non se ne costruiscono più e anche le possibilità di af­ fittarle si riducono fino quasi ad annullarsi. La chiesa, che è entrata in possesso di molti di questi edifici, si trova a doverne curare la ma­ nutenzione senza ricavarne alcun profitto ed inizia allora a disfarsene sia con donazioni a privati (che vengono però subito interdette per­ ché usate a scopi simoniaci) sia con trasformazioni in chiese, mona­ steri od altre istituzioni cattoliche di tipo assistenziale. Il tessuto abi­ tativo continua ad essere l'unica vittima delle modificazioni urbane che ormai diventano unidirezionali. Il Vl secolo corrisponde in effetti alla conclusione del ciclo finora descritto. La monumentalità sopravvive ma sempre più associata ad una fatiscenza in incremento; la manutenzione, dopo un ultimo guiz­ zo dovuto alla grande produzione laterizia di Teodorico che permise di eseguire un certo numero di restauri, e, forse, anche di costruire ex novo la piccola ma elegante chiesa di S. Giovanni a Porta Lati­ na 64, non trova più il supporto economico di un'aristocrazia ormai quasi estinta e si concentra, come può, sulle chiese lasciando che i monumenti decadano o vengano occupati essi stessi da chiese. Gli esempi più antichi in questo senso sono, nella prima metà del Vl se­ colo, la installazione di S. Maria in Cosmedin nella "loggia" dell'ara maxima Herculis, quella dei SS. Cosma e Damiano nell'annesso del Templum Pacis 6' prospiciente sulla via Sacra e quella di S. Maria An342

8. ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTA-MUSEO ALLA CITTA SANTA

FIGURA r9 Schema planimetrico di Roma con l'indicazione degli edifici cristiani documenta­ bili all'interno delle mura alla fine del v secolo. La simbologia impiegata è la stes­ sa della figura r8 con l'aggiunta dei quadratini che indicano nuove chiese di medie dimensioni che non rientrano nella categoria dei tituli (dis. Azimut)

343

ROMA IMPERIALE

tiqua con i suoi splendidi affreschi in una sorta di vestibolo del pa­ lazzo imperiale sul piano del Foro. L'influenza bizantina si sente forte già assai prima delle guerre go­ tiche (535 -555): sculture tipiche dell'età giustinianea (soprattutto ca­ pitelli, plutei, colonnine e pilastrini) giungono a Roma o, in qualche caso, vi sono prodotte da artefici bizantini 66, anche i pavimenti in opus sectile sono in alcuni casi di chiara matrice bizantina pur se re­ datti con materiali di Roma. Queste importazioni, sia culturali che concrete, rinfrescano, per un po', l'arte di Roma che in quei decenni, con i restauri di Teodorico e le nuove costruzioni di chiese già citate, aggiunge qualche monumento alla sua ancora strabiliante bellezza: l'ultimo di grande portata viene dopo la riconquista bizantina, ma purtroppo non si è conservato nella sua forma originaria: è la basilica dei SS. Apostoli, voluta da Narsete ma, oggi, purtroppo, totalmente sostituita da un edificio settecentesco. Comunque le guerre gotiche con le loro conseguenze di decima­ zioni della popolazione, perdita del potere e dell'autonomia politica e amministrativa, impoverimento e parziale estinzione dell'aristocrazia e perdita delle vie di rifornimento alimentari, non potevano che essere la causa di un vero e proprio decadimento monumentale. Il taglio de­ gli acquedotti facilitò stavolta anche la decadenza, non solo delle ter­ me, delle fontane, delle naumachie ecc., ma anche quella dell'abitato che cominciò a presentarsi come sovrabbondante alle necessità e quindi oggetto di graduale e parziale abbandono. L'ansia che si sente nelle lettere di Gregorio Magno, quando cerca di attribuire a gruppi di monaci edifici di proprietà della chiesa (che egli evidentemente non sapeva più come mantenere o restaurare), è emblematica in tal senso. Così continua irriducibilmente la trasformazione delle strutture abitative della città in monumenti - stavolta solo religiosi - ma con­ temporaneamente già nel VI, ma soprattutto a partire dal vn secolo, anche i grandi monumenti antichi come il Pantheon e la Curia sono trasformati in chiese. Ci si rivolge poi, ora più di prima, ai santuari suburbani che vengono non di rado restaurati o rifatti con cura, come nel caso di S. Lorenzo e S. Agnese, incrementando ulteriormen­ te il numero totale delle chiese di Roma, come abbiamo evidenziato nella TAB. 1 con dati ricavati da studi recenti e da analisi dirette 67 • Come si vede l'andamento è univoco sia per il VI che per il VII secolo come lo è la trasformazione di Roma in città-santuario e l'in­ cremento, per secolo, dei luoghi di culto è notevole: da un totale di 42, nel IV secolo, si giunge nel VII secolo a 168, tra cui 15 sono basili­ che di grandissime dimensioni. 344

8 . ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTÀ-MUSEO ALLA GITTA SANTA

TABELLA I Calcolo approslrimato delle fondazioni di edifici cristiani a Roma dal IV al VII secolo (totale progressivo) IV sec.

Urbs

Grandi basiliche Chiese titolari Chiese non titolari Oratori e cappelle Monasteri e ospizi Monasteria Diaconiae

Totale Area Urbana Suburbio

Grandi basiliche circiformi Altre basiliche Basilichette e oratori Monasteri e abbazie

Totale suburbio Totale generale

V ICC.

5

4

12

29

4 3

8

Vl ace.

6

VD ace.

7

25

4

22 I4 I6

25

23

50

83

n4

8

8 3 13 6

8

I6 12

8 16 I7 I3

130

168

4

I

9 1

19

30 So

42

II

47

32 I8 I8

14

54

I monumenti più antichi resistono ancora per quanto possibile, ma poi le calcare faranno iniziare un'altra fase di impoverimento dei più antichi edifici non cristiani dalla quale si salveranno solo quei monu­ menti che, per memorie e tradizioni, avevano ottenuto una riconver­ sione sacra: cosi si verificò per il Colosseo, simbolo dei martiri e luo­ go santo del martirio di tanti anonimi cristiani. Intanto una nuova economia basata sul pellegrinaggio si era for­ mata, tanto quanto bastava per non giungere a livelli di massimo ab­ bandono per la città che, cosi, conservò il suo reticolo viario princi­ pale fino al IX secolo, sacrificando quei settori che ormai non erano più utilizzabili ed incrementando quello in direzione di S. Pietro che si andava sempre più popolando.

8 .9 Conclusioni Questo percorso cronologico nell'architettura e nell'urbanistica di Roma ci ha offerto qualche nuovo spunto di ricerca. Innanzitutto, proprio percorrendo i quattro secoli circa, presi in esame, ci siamo accorti, una volta di più, che non esiste ancora una topografia "periodizzata" della città di Roma. Tutte o quasi tutte le 345

ROMA IMPERIALE

trattazioni topografiche, incluse le cartografie, ci forniscono un "pac­ chetto" di notizie sovrapposte spesso appartenenti anche ad un arco di dieci secoli. Ancor oggi disponiamo talvolta di trattazioni parziali sulla topografia medievale di Roma mentre siamo del tutto privi di manuali che ci forniscano gradualmente e secondo una periodizzazio­ ne sensata e basata sul percorso storico l'evoluzione topografica "a tappe" già ricavata dai manuali (cosa che qui si è dovuto fare quasi ex novo) e disposta in planimetrie che per ogni periodo indichino i monumenti nuovi dell'epoca insieme a quelli sopravvissuti dalle epo­ che precedenti (e non insieme a quelli già obliterati, come in genere si fa). Quando si potrà disporre di strumenti di questo genere l'anali­ si diacronica sarà certo più facile e fruttuosa. Nel nostro caso si sarebbe potuta ricavare assai più facilmente una schematizzazione planimetrica dell'incremento costante dei mo­ numenti per lo più a spese delle domus o delle altre strutture abitati­ ve, della diminuzione delle domus (nel r e rr secolo) e poi della loro ripresa (nel m e rv secolo), della parabola di popolarità delle "insu­ lae" (dalla metà del r sec. alla metà del m), del travaso tra domus e chiese (forse dalla metà del m all'alto medioevo) ed infine dell'occu­ pazione dei monumenti da parte delle chiese, dal vr secolo in poi. Questi comunque sono i nostri risultati, che mostrano una città quasi immobile dal punto di vista topografico e sempre più monu­ mentale prima come città-museo e poi come urhs sancta.

Note r. Si indica con tale nome l'enorme planimetria di Roma incisa su marmo ed apposta su una parete laterizia di età severiana, tuttora visibile lungo via dei Fori im­ periali come prospetto del complesso attuale della basilica dei SS. Cosma e Damiano, ma che prima faceva parte di un ambiente periferico del Templum Pacis di Vespasia­ no restaurato appunto dai Severi. Molti frammenti di questa pianta sono stati rinve­ nuti (E. Rodclguez Almeida, Forma urbis marmorea, Aggiornamento generale r980, Roma r98 r ) ma la gran parte di essa è purtroppo perduta. 2. Le grandi case ad appartamenti costruite in laterizi e articolate in 4 o '.5 piani sono state studiate per primo dal Calza che attribuì ad esse il nome di insu/ae ricawto da fonti antiche (G. Calza, La preminenza dett'•insula" nell'edilizia romana, in "Mo­ num. Antichi Lincei", 23, r9n, pp. :54r-608). Questo nome è restato in uso per mol­ to tempo ma recentemente si è potuto stabilire che l'insula era una unità di proprietà proiettata sul terreno e quindi non era specifica di una tipologia edilizia (cfr. E. Lo Cascio, Le procedure di recensus dalla tarda repubblica al tardoantico ed il calcolo della popolazione di Roma, in La Rome lmpériale. Démographie et logistique, Roma r997, pp. 60 ss.): per brevità continueremo comunque ad usare il termine "insula" per indi­ care le case ad appartamenti.

8 . ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTÀ-MUSEO ALLA CITTÀ SANTA

3. Resti di abitazioni anche con peristili furono viste in più occasioni sia nella ex villa Patrizi (piazza della Croce Rossa) sia nella zona dell'attuale Policlinico. Cfr. Car­ ta Archeologica di Roma, commento alla tav. lii, Firenze 1977 1 in part. pp. 76-8 1 94, 3 1 0-6, 329-30 e passim. 4. Oltre alla già citata zona intorno ai Castra Praetoria anch'essa in origine de­ stinata alle sepolture, ricorderò il caso davvero significativo dell'"insuw" o comunque dell'edificio abitativo costruito nel m secolo d.C. con aggiunte del rv, sopra il sepolcro degli Scipioni (A. M. Colini, La sistemazione del Sepolcro degli Sdpioni, in "Capito­ lium ", 3 (1927-28), pp. 27-32 e F. Zevi, s.v. Sepulcrum: (Corneliorum) Sdpionum, in Lexicon Topographicum Urbis Romae ( = LTUR, a cura di E. M. Steinby, 1v, Roma r999, pp. 28 r-,-). Comunque tutta la fascia esterna alle mura repubblicane ed interna alla successiva cinta aurelianea fu destinata gradualmente soprattutto a fini abitativi inclu­ se ovviamente le grandi e lussuose residenze prima private e poi imperiali, denomina­ te Horti e caratterizzate da grandi parchi, che in parte furono poi frazionate ed in parte, soprattutto nelle zone nord ed est di Roma, mantennero la loro funzione e quindi le zone verdi. ,-. Cfr. in proposito E. Lo Cascio, Fra equilibrio e crisi, in A. Momigliano, A. Schiavone (a cura di), Storia di Roma, 2• parte L'impero medite"aneo, u. I prindpi ed il mondo, Einaudi, Torino 199 1 , pp. 701-3 r , in part. 707-16. 6. Da qui in poi riterremo sottinteso ad ogni menzione di un monumento di Roma il riferimento bibliografico a F. Coarelli, Roma (Guide Archeologiche Laterza) , Roma-Bari 1980 e a LTUR I, 1993; li, r995; m, 1996; IV, r997, v, r999, alle rispettive voci. Degli stessi testi si darà esplicito riferimento in caso di problemi connessi con le interpretazioni riportate. 7. Questo tempio, noto da una fonte attendibile ma priva di indicazione topo­ grafica, è stato recentemente identificato in via ipotetica con quello di villa Colonna sulle pendici del Quirinale (R Santangeli Valenzani, s.v. Hercules et Dionysus, Tem­ plum, in LTUR, lii, pp. 2,--6), che finora si riteneva il Tempio di Serapide eretto da Caracalla: quest'ultimo ora si porrebbe comunque U presso dietro la chiesa di S. Silve­ stro al Quirinale (ivi, voi. IV, pp. 25-6). 8. Una recente ipotesi indica la possibilità di un legame di questo edificio con i prossimi Castra Vetera, appena citati, il che giustificherebbe finalmente il nome di Amphiteatrum Castrense da sempre attribuito all'edificio (cfr. F. Guidobaldi, s.v. Ses­ sorium, LTUR, IV, pp. 304-8 1 in part. p. 3o6). 9. Cfr. ora la nuova monografia De Laine, The Baths o/ Caracalla. A Study in

J.

the Design, Construction and Economics o/ Large-scaie Building Projects in Imperia/ Ra­ me, "Journal of Roman Archaeology", Suppi. Ser. 25 1 Portsmouth (Rt) 1997. 10. F. Coarelli, La situazione edili1.ia di Roma sotto Severo Alessandro, in L'Urbs. Espace urbain et Histoire. r siècle avant J.C.-IIl" siècle après J.C., Actes du Colloque

intemational, Rame 198,- (1987), pp. 429-,-6. u . Coarelli (cfr. nota prec.) non prende in considerazione questo intervento at­ testato dalla costruzione del Ninfeo (cfr. infra) e dalle iscrizioni su fistule acquarie (M. Cima, Dagli scavi dell'Esquilino all'interpretazwne dei monumenti, in Le tranquille di­ more degli dei. La residen1.4 imperiale degli Horti Lamiani, catalogo della mostra a cura di M. Cima e E. La Rocca, Roma 1986 1 pp. 37-:sz, in part. p. 42). In effetti sembra che Severo Alessandro non abbia né terminato né abitato la residenza degli Horti Spei Veteris dopo l'attentato che vi subì ad opera di Eliogabalo: ciò giustifica d'altronde anche la distruzione del circo Variano ad opera di Aureliano che si verificò pochi decenni più tardi in una residenza probabilmente in abbandono. u. Cfr. Coarelli, La sitfl4zione edilizia, cit., pp. 440-2.

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ROMA IMPERIALE

1 3 . C. Mocchegiani Carpano, Osservazioni romplementan· sulle strutture della casa romana sollo le Terme di Caracalla, in "Mitteilungen des Deutschen Archiieologi­

schen lnstituts, Rom Abt.", 79 (1972), pp. 1 1 1 -2 1 . 14. L a villa di Adriano II Tivoli fu cert11mente i l culmine di un fenomeno che inizi11 già nel I secolo con le ville di Tiberio (C11pri), di Nerone (Subiaco, Roma), di Domiziano (S11baudia) e prosegue nel II con 111 vi1111 di Trlliano (Arcin11Zzo), di Lucio Vero (Lorium) ecc. 1 5 . Le persone uccise sono menzion11te in lunghe serie nella Historia Augusta (H.A., Commod. 6, 1 1 -7, 8 e Sever. 13, 1). 1 6. F. Guidobaldi, Le domus tardoantiche di Roma come "sensori" delle trasfor­ mazioni culturali e sociali, in The Transformations of Vrbs Roma in Late Anliquity, Proceedings of the Conference, edited by W. V. HBrris, Rome 1997, "Journal of Ro­ man Arch11elogy", Suppi. Ser., 33, Portsmouth (RI ) 1 999, pp. 53-68, in p1111. pp.

5 8-60. 1 7. A. M. Colini, Storia e topografia del Celio nell'antichità, in "Mem. Pont. Ace.", 7 (m s.), 1944, pp. 1 64-82 e t11v. JX. 1 8. I d11ti rel11tivi Bile residenze sono quelli che si ricavano dall11 Historia Augusta (Bibl. in LTUR s.v. specilic11). Ovvi11J11ente non si tiene onn11i più conto delle troppo r11diciùi critiche espresse a suo tempo d11 Dom11szewski a proposito della viùidità delle notizie topografiche riportate dllil'Historia Augusta (A. von Domaszewski, Die Topo­ graphie Roms bei den Scriptores Historiae Augustae, in "Sitzungsber. Heidelberg", 1916/7): st!mbra infatti davvero improbabile che un testo scritto verso la fine del N secolo, simulando di appartenere Bll'etè costantiniana, falsi proprio i riferimenti topo­ grafici che dovevano essere ancora ben controllabili dai lettori romani. 19. 29 mitrei di Roma sono stati raccolti in LTUR s.v. Mitra (autori vari) ma ad essi se ne debbono aggiungere alcuni Bltri che sono indicati nelle voci relative BI com­ plesso che li ospit11, cfr. ad es. Castra Equitum Singularium. 20. Per le domus ecc/esiae di Roma si deve tener conto del lavoro di Pietri che, giustlllllente afferma che, per ora, non si è trovato a Roma nessun resto sicuro di tale tipo di edificio e ciò anche perché, trattandosi di domus adattate al culto, esse non conservano vistosi indizi connotanti (Ch. Pietri, Recherches sur /es Domus Ecclesiae, in "Rev. Et. Augustiniennes", 24, 1978, pp. 3-2 1): ciò vuol dire, però, che tali luoghi di culto non sono facilmente individuabili, ma non vuol dire affatto che non esistesse­ ro. In effetti essi sono lllllpiamente testimonillti dllile fonti anche a Roma e quindi esistettero cen11J11ente e ciò anche in coerenza con il notevole numero di membri del clero che sono documentati a Roma già nel pieno m secolo (cfr. in proposito V. Sa­ xer, L'utilisation par la liturgie de l'espace urbain et suburbain: l'exemp/e de Rome dans l'antiquité et le Haut Moyen-Àge, in Actes du xf Congr. lnt. d'Archéologie Chrétienne, Lion, Vienne, Grenoble, Aoste 1986, Rome 1989, pp. 917-1032). 21. Richmond, The City Wa/1 of Imperia/ Rome, Oxford 1930, pp. 15-26. 22. Coarelli, L'edilizia pubblica a Roma in età tetrarchica, in The Transformations of Vrbs Roma in Late Antiquity, cit., pp. 23-33. 23. F. Astolfi, F. Guidobllldi, A. Pronti, Horrea Agrippiana, in "Arch. Class.", 30 (1978), pp. 3 1 - 1 00, in part. pp. 69-70 e 94-5 . 24. Per tutt11 l'età imperiale e nel t11rdoantico i commerci si erano andati svi­ luppando fino II distanze impens11bili per poter sc11J11biare merci nei due sensi Q. P. Cllilu, I commerci oltre i confini dell'impero, in Storia di Roma, m, L'età tardoan#ca, 1. Cn'si e trasformazioni, a cur11 di A. Carandini, L. Cracco Ruggini e A. Giardina, Tori­ no 1 993, pp. 468-524. 25. Basta ricord11re in tBI senso l'industri11 laterizi11 (M. Steinby, L'industria lateri­ zia di Roma nel tardo impero, in A. Giardin11, a cut11 di, Società romana e impero tar-

J.

8. ARCHITETTURA E URBANISTICA: DALLA CITTA-MUSEO ALLA CITTA SANTA voi . u , Roma: politica, economia, paesaggio urbano, Roma-Bari 1986, pp. 99- 1 64 e 438-46) e le importazioni di marmi grezzi e semilavorati da tutto il medi­ terraneo necessari per soddisfare il mercato di Roma che certamente possedeva a tale scopo industrie di lavorazione delle lastre e dei seçti/ia e laboratori artigiani, almeno fino II tutto il N secolo, per la scultura. 26. Questa è comunque una interpretazione fondata su indizi, più che su una documentazione oggettiva, e si basa soprattutto su un'estrapolazione al passato di ciò che si riscontra poi nel IV secolo. 27. F. Guidobaldi, L'edilizia unifamiliare nella Roma tardoantica, in A. Giardina (a cura di), Società romana e impero tardoantico, voi. Il, Roma: politica, economia, pae­ saggio urbano, cit., pp. 1 6.5-237 e 446-60. 2 8. CTr. ora la sintetica raccolta di tale tipo di edificio in tutto l'impero in P. Sodini, Habitat de /'antiquité tardive, in "Topoi" , (199.5), pp. 1 .5 1 -218 e 7, 1 997, pp.

doantico,

J.

43.5-.577. 29. Coarelli,

L'edilizia pubblica a Roma,

cit.

30. F. Guidobaldi, Su/l'originalità de/l'architettura dell'età costantiniana, in " Corsi di cultura sull'arte ravennate e bizantina (CARB)", 42, 199.5, pp. 419-41 . 3 1 . E. J11strzebowsk11, La basilique des Apotres à Rome, Jondation de Constantin ou de Maxence?, in "Mosai'que", Recueil d'hommages à Henri Stem, Paris 1983, pp. 223-9. 32. Nel Liber Pontificalis sono riportate ed attribuite II Costantino le altre grandi basiliche cimiteriali "circiformi" (cioè con navate laterali che proseguono raccordan­ dosi dietro l'abside in una sorta di deambulatorio semicircolare e con facciata obliqua come nei circhi): S. Lorenzo f.1.m., S. Agnese f.1.m. e SS. Marcellino e Pietro. A que­ ste si può aggiungere quella del tutto analoga recentemente scoperta da V. Fiocchi Nicolai sulla via Ardeatina ed attribuita giustamente, anche se tuttora con riserva, al papa Marco (cfr. V. Fiocchi Nicolai, La Nuova Basilica drd/orme della via Ardeatina, in "Rend. Pont. Ace. Rom. di Archeol.", 68, 199.5-96, 1999, pp. 69-233): anch'essa è riportata nel Liber Pontificalis non nella vita di S. Silvestro ma in quella, appunto, del successore Marco (336-337), e non è specificatamente attribuita a Costantino allora ancora vivente ma ormai da un decennio lontano da Roma. 33. È in corso su tale monumento un ulteriore studio di Olof Brandt che proba­ bilmente definirà il problema. È comunque abbastanza probabile che il battistero sia ispirato all'ottagono della chiesa della natività di Betlemme anch'essa opera di Co­ stantino. 34. Purtroppo abbiamo solo la documentazione dei disegni rinascimentali per poter individuare la struttura originaria che comunque sembra ben definita. » 3.5. F. Guidobaldi, Il cosiddetto "Tempio di Mineroa Medica e le strutture adia­

centi: settore privato del

Sessorium Costantiniano, in "Rivista di Archeologia Cristia­ na", 74 (1998), pp. 48.5 -.5 1 8. 36. È infatti definita in summo Esquiliarum la statua colossale che Gallieno volle erigere (H.A., Gallien., 17, 8 e 1 8, 3) a sua eterna memoria: è ovvio che il luogo fosse interno agli Horti o comunque contiguo ad essi. 37. In effetti i bolli, confrontati con le datazioni recentelllente proposte da M. Steinby (cit. 11 nota 2.5), porterebbero ad una cronologia massenziana ma il fatto che la stessa cronologia si dovrebbe proporre anche per le Terme di Costantino, che nes­ sun altro indizio farebbe attnbuire a Massenzio, ci suggerisce di pensare piuttosto che gli stock di laterizi, preparati da Massenzio per un programma edilizio che egli non poté certo completare, siano stati utilizzati da Costantino. È da tener presente co­ munque, che, nel nostro caso, sarebbe assai poco sostenibile una seconda residenza

349

ROMA IMPERIALE

urbana di Massenzio costruita contemporaneamente con quella suburbana (villa di Massenzio). 38. M. Cima, Gli Horti Liciniani: una resiJ.enz.a imperiale romana del/4 tarda an­ tichità, in Horti Romani, Atti del Convegno lntemazionale, a cura di M. Cima, E. La Rocca (Roma 199,), Roma 1998, pp. 42,-52. 39. Dato che i più recenti studi hanno dimostrato che non c'è discontinuità tra la rotonda ed il corpo rettangolare (AA.vv., Il tempio di Romolo al Foro Romano, in "Quad. dell'lst. di Se. dell'Architettura", 198 1, pp. 157-62), resta ancor più difficile pensare ad una costruzione unica tutta di età massenziana, quando le fonti ci riporta­ no insistentemente la presenza di una monumentale iscrizione costantiniana. 40. Naturalmente ciò è valido solo per la pianta e non certo per gli alzati cna la somiglianza è talmente stringente che non può essere casuale e quindi sarà a contenu­ to simbolico (M. Torelli, Le basiliche circiformi di Roma. Iconografia, funzione, simbo­ lo, in Felix Temporis Reparatio, Atti del Convegno Archeologico [ntemazionale "Mila­ no capitale dell'impero romano", a cura di G. Sena Chiesa, E. Arslan, Milano 1992, pp. 203-17). 41. È di questi giorni un volume specifico sul paesaggio suburbano di Roma, dedicato ad una parte, quella del settore sud, della periferia extraurbana (L. Spera, Il paesaggio suburbano di Roma dall'antichità al medioevo. Il comprensorio tra le vie Lati• na e Ardeatina dalle mura aureliane al ca miglio, Bibliotheca Archaeologica 27, Roma 1999). 42. Oggi la forma di questo grandioso martyrium è ben nota in base ai lavori di indagine svolti da p. Corbe (V. C. Corbe OFM, Il santo sepolcro di Gerusalemme. Aspetti archeologici dalle origini al periodo crociato, Studium Biblicum Franciscanum, Collectio Maior, 29, 2 voli., Jerusalem 1982). 43. Cfr. Guidobaldi, Edilizia, cit. a nota 27, pp. 167-71. 44. Colini, Celio, cit. a nota 17, tav. XVI. 45. 1d., ivi, cit., p. 3 12-3, lig. 255. 46. Guidobaldi, Edilizia, cit. a nota 27, pp. 171-81. 47. Guidobaldi, Le domus, cit., p. 57. 48. Una sintesi di questi interventi minori si ricava da A. Che.stagno!, Les /astes de 14 Préfecture de Rome au Bas-Empire (Etudes Prosopographiques, 2), Pari& 1962, passim. 49. M. Cecchelli, La basilica di S. Marcv a Piazza Venezia (Roma). Nuove scoperte e indagini, in Aleten des xa lnternationalen Kongresses .fur Christliche Archaologie, Bonn 1991, Città del Vaticano 1995, pp. 640-44. 50. Amm. Mare., 16, ro, «tutto ciò che vedeva per la prima volta, riteneva insu­ perabile per magnificenza. Così il tempio di Giove Tarpeo gli sembrava più bello de­ gli altri monumenti, quanto le opere divine delle umane; le terme gli apparivano gran­ di come province; ammirava la mole dell'Anfiteatro, salda nella struttura di travertino, alla cui sommità a fatica sale lo sguardo umano, il Pantheon, simile ad una rotonda zona di una città sollevata per mezzo di volte ad una splendida altezza, le alte colonne che si elevano da una piattafontul su cui si può salire ed alla cui sommità sorgono le statue di antichi imperatori, il tempio dell'Urbe, il foro della Pace, il teatro di Pom­ peo, l'Odeum, lo Stadio ed altri insigni monumenti della città eterna. Ma quando giunse al foro di Traiano, costruzione, a nostro avviso, unica nel suo genere ed ammi­ rabile anche a giudizio degli dèi, rimase attonito e volse gli sguardi a quel gigantesco complesso di edifici, che non può essere descritto con parole umane né imitato da un mortale», trad. A. Selem, Torino 1976, p. 213. ' I. Mart., 12, 8, 1·2.

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8. ARCHITETTURA E URBANISTJ CA: DALLA ClTTÀ -MUSEO ALLA GITTA SANTA 52. Epistulae l11ffJe-rat. Poni. a/iorum, hng. von O. Guenther, Wien 1 895, ep. 3, pp. 46-7. 53. Il primo di cui ci si11 un11 menzione diren11 è quello di Equizio o di Silvestro (S. M11rtino ai Monti), il cui lltto di fondazione è riportato nel Iiber Pontifica/is (L.P.) 1, pp. 170 e 1 87, ma non è escluso che si trlltti di un11 forzatura: la prim11 menzione d11tat11 è in effetti in un11 epigrafe del 377. 54. Spesso le strutture precedenti sono utilizz11te senza modificazioni dimostran­ do che un11 struttura specific11 non era indispensabile. 55. CTr. F. Guidobaldi, L'insmrnento delle chiese titolari di Roma nel tessuto ur­ bano preesistente: osservazioni e i11ffJ/ica1,ioni, in Quaeritur lnventus Colitur, Miscell11ne11 in onore di p. U. M. F11sola, B. (Studi di Antichità Cristian11, 40), Città del Vatic11no 1989, pp. 381 -96. 56. L11 polifora a colonne (cfr. in proposito A. Iannello, Basiliche con ingresso a polifora. Nuove osservazioni, in Domum tuam di/exi, Miscellanea in onore di Aldo Ne­ stori, 11 cura di F. Guidobaldi, Studi in Antichità Cristian11 53, Città del V11ticano 1 998, pp. 509-28) non si prest11 infatti 11d ospitare un11 chiusura ennetic11 e quindi, se anche il portico antistante è a colonne, deve esistere, davanti 11d esso, un 11trio circon­ dato d11 muri e con porte chiudibili veno l'esterno cosi da assicurare la protezione da eventuali intrusi. 57. Un11 menzione di Procopio, che si riferisce 11d epoca II lui precedente di un paio di generazioni cioè II circ11 111 metà del v secolo, allude nel suo racconto ad una mandria di mucche che poteva pascolare appunto nel Te11ffJ/um Pacis onnai evidente­ mente abbandonato. 5 8. È noto d'altronde che Valentiniano m fu ucciso a Rom11 nel 455 e comunque alcune indicazioni ulteriori fanno ritenere che risiedesse abitualmente nel Sessorium (Guidobaldi, Il cosiddetto "Te11ffJio di Minerva Medica", cit.). 59. Cfr. in generale L. Pani Ennini, Roma da Alarico a Teoderico, in The Tran­ sforrnations, cit., pp. 35-52; dr. poi a proposito dei fori e delle piazze di Roma F. A. Bauer, Stadt, Plat1. und Denkrna/ in de-r Spiìtantike, Unte-rsuchungen zur Ausstatlung

des offentlichen Raums in den spiìtantiken Stiìdten Rom, Konstantinope/ und Ephesos,

Mainz 19�8, pp. 3 - 141 . 60. E curioso osservare che la stessa ripresa della decorazione scultorea e degli architravi riprenda anche a Costantinopoli nello stesso periodo, cioè nel pieno v seco­ lo, come si vede nella S. Sofia Teodosian11 e nel S. Giovanni di Studio. 61. R. Krautheimer, The Architecture o/ Sixtus III: A Fifty-Century Renascence?, in Essays in Honor o/ Erwin Panofsky (De Artibus Opuscula, 40, 11 cura di M. Meiss), New York 1961 , pp. 291 -302. 62. La fi gura più rappresent11riv11 di quest11 discendenza è Anicia Iulian11 che visse a Costantinopoli nei primi tempi di Giustiniano e che era figli11 dell'imperatore Anicio Olibrio, nonché nipote di Valentiniano lii, bisnipote di Costanzo m e di Galla Placi­ dia, trisnipote di Teodosio e cosl via. 63. L'impulso che ebbero queste produzioni 11rtistiche nel IV e soprattutto nel V sec., quando Gall11 Placidia (t 450) intervenne nelle decorazioni di S. P11olo e di S. Croce in Gerusalemme e forse non fu estranea a quelle di S. Maria Maggiore e S. Sabina, è stato cert11111ente la base per un arricchimento produttivo e tecnico delle maestranze che mantengono poi a lungo il patrimonio acquisito. 64. La datazione, propost11 dal Krautheimer, sembr11 comunque convincente. 65. Si tran11 comunque di un edificio già ristrutturato nell'età costantiniana (dr.

.rupra) . del

66. F. Guidobaldi, C. B11nanti, A. Guigli11 Guidobaldi, S. Clemente. VI secolo (S. demente Miscellany, 4, 2), Rom11 1992, passim.

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Le sculture

ROMA [MPER[ALE

67. F. Guidobaldi, Spazio urbano e organizzazione ecclesiastica a Roma nel Vl e Vll secolo, in Acta. XIU Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae, Split 1994, Città del Vaticano 1998, pp. 29-14.

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Gli autori

Elio Lo Cascio insegna Storia romana nell'Università "Federico n" di Napoli. Anne Daguet-Gagey insegna Storia romana nell'Università di Paris vm - Saint-Denis. Christer Bruun è professore di Storia romana nell'Università di To­ ronto. Catherine Virlouvet insegna Storia romana nell'Université de Pro­ vence. Andrew Wallace-Hadrill è professore di "Classics" nell'Università di Reading e direttore della British School at Rome. Filippo Coarelli è professore di Antichità romane nell'Università di Perugia. Fausto Zevi è professore di Archeologia e storia dell'arte greca e romana nell'Università "La Sapienza" di Roma. Francesca de Caprariis è dottore di ricerca in Topografia antica e collabora con l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Federico Guidobaldi insegna Architettura tardoantica e paleocristia­ na e Topografia di Roma nel Pontificio Istituto di Archeologia cri­ stiana.

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