Rivoluzioni e popolo nell'immaginario letterario italiano ed europeo

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Rivoluzioni e popolo nell'immaginario letterario italiano ed europeo

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Stefano Brugnolo Rivoluzioni e popolo nell'immaginario letterario italiano ed europeo Quodlibet Studio

Indice

7

Introduzione

Parte prima. Immagini di rivoluzioni mancate in cielo e in terra tra Cinquecento e Seicento 17

I.I.

Machiavelli: Il ciompo, il principe e la formidabile moltitudine

34

1.2..

La Gerusalemme liberata di Tasso ovvero la caduta degli angeli ribelli come sconfitta finale delle istan7..c rinascimentali

42.

1.3.

Il Paradiso perduto di Milton e le dinamiche perverse della rivoluzionc: Satana da tirannicida a tiranno

51

1-4-

Galileo e il tentativo fallito di vincere nei cicli una rivoluzione perduta in terra

Parte seconda. Le tre rivoluzioni che cambiarono il mondo e i loro poeti: Goethe, Hugo e Whitman Il Faust di Goethe: l'intellettuale moderno e la Rivoluzione industriale tra critica e nostalgia del popolo

7'}

2..1.

88

Hugo e Dclacroix e la Rivoluzione francese come esperienza sublime e terrifica 2..3. Whitman e l'America come rivoluzione ininterrotta

106

2..2..

Parte terza. Il dramma delle avanguardie politiche rivoluzionarie 12.2.

3.1.

Vincenzo Cuoco e i paradossi di una rivoluzione passiva

135

3.2..

Amore rivoluzione e morte: Wcrthcr Iperione e Ortis ovvero il rivoluzionario mancato e le sue nevrosi

1

52.

3. 3. I.: Adelchi di Manzoni: masse disperse e senza nome e un capo che non crede nell'azione politica

6

INDICE

165

3-4- La morte di Danton di Biichner: quando la rivoluzione divora sé stessa

183

3.5. Dostoevskij e La leggenda del Grande Inquisitore: la libertà come rivoluzione impossibile

Parte quarta. Dentro i vortici dei movimenti popolari e rivoluzionari 195

4.1. I promessi sposi: una rivoluzione borghese trasfigurata da peste provvidenziale

2.05

4.2.. L'educazione sentimentale di Flaubert: la rivoluzione come esperienza di seconda mano

2.10

4·3· Le confessioni d'un italiano di Nievo: la libertà e la polenta ovvero ingenuità e impreparazione dei giacobini, diffidenze delle masse rurali

2.16

4-4- Tolstoj e le masse anonime come uniche vere protagoniste della storia

2.2.3

4.5. Germinai di Zola: uno sciopero operaio e il suo significato storico e mondiale

2.30

4.6. Masse popolari disperate e scatenate (Libertà di Verga), o pacifiche e determinate (Il quarto stato di Pellizza da Volpedo)

Parte quinta. Nel Novecento: il secolo terribile tra guerre, rivoluzioni e controrivoluzioni 241 2.55

5.1. Malaparte e i fanti contadini di Caporetto come santi e rivoluzionari 5.2.. I Quaderni del carcere di Gramsci: la maledizione della subalternità e l'eredità difficile delle rivoluzioni mancate

2.92.

5-3- Il sentiero dei nidi di ragno: coscienza e incoscienza di classe nella guerra partigiana

3°3

5-4- L'armata a cavallo di Babel': l'intellettuale rivoluzionario in bi-

JIO

5.5. I piccoli maestri di Meneghello: l'intellettuale autoironico a

lico tra popolo cosacco e popolo ebraico scuola del popolo partigiano

32.0

5.6. Il Gattopardo di Tornasi di Lampedusa tra nostalgia di Ancien Régime e nostalgia di rivoluzione

Parte sesta. Prima e dopo il '68: ultime utopie rivoluzionarie e mutazioni irreversibili della "natura popolare" 333

6.1. Lettera a una professoressa: quando i muti della storia prendono la parola

7

INDICE

34 7 364 3 83

Pasolini: il cantore straziato della fine dell'illimitato mondo popolare 6.3. Operai e capitale di Tronti e Vogliamo tutto di Balestrini: la classe operaia come rude razza pagana 6.2..

6-4-

Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg ovvero della possibilità di ascoltare le voci lontane degli sconfitti dalla storia

399

Conclusione. Un bilancio provvisorio e alcuni spunti sul futuro di un tema

407

Bibliografia

Alla memoria del mio amico Fausto Tonin

Introduzione

Questo saggio è dedicato alla rappresentazione della rivoluzione nella letteratura e, anche se il mio intento è di lasciare parlare i testi e di mostrare come esistano significative costanti e convergenze tra essi, vale la pena che io accenni qui a cosa mi riferisco con questa espressione: "rappresentazione della rivoluzione". Dirò subito allora che non mi riferirò ai testi letterari come a documenti utili per capire meglio cosa furono "davvero" certe rivoluzioni storicamente avvenute, bensì che mi interesserò alle immagini che di quei fatti i testi ci hanno lasciato. Mi interesserò in altre parole ai modi con cui alcuni scrittori hanno immaginato, trasfigurato, deformato creativamente l'evento rivoluzionario, a come l'hanno rappresentato non solo in quanto fatto realmente accaduto, ma anche in quanto evento atteso, tentato, temuto, mancato. L'assunto di partenza è che già a partire dai grandi rivolgimenti prodotti dalla Riforma protestante, ma soprattutto dopo i fatti del 1789 e almeno fino a quelli del 1989, la rivoluzione intesa come possibilità di un mutamento radicale, "catastrofico" dello stato di cose esistente, è stata sempre presente, a livello conscio o inconscio, nell'immaginario europeo. Certo, anche nel mondo antico troviamo la rappresentazione di rivolte promosse da pericolosi demagoghi, ma quei movimenti vengono raccontati come fatti circoscritti, ispirati da insoddisfazioni, rabbie e ambizioni di specifici gruppi e persone, e non come capaci di coinvolgere e sconvolgere la società nel suo insieme e dalle fondamenta. Mi rendo conto che susciterà qualche perplessità la scelta di fare cominciare questo mio excursus dall'epoca della Riforma. Eppure a mc pare che è proprio da allora che l'Europa ha potuto concepire dei sovvertimenti di portata generale e fondati su visioni del mondo alternati-

INTRODUZIONE

12

ve e non su insoddisfazioni e furie episodiche. Non solo, diversamente da altri movimenti religiosi che hanno mirato a rivoluzionare la vita interiore degli individui, il protestantesimo ha avuto effetti dirompenti sugli assetti politici e statuali e ha puntato a coinvolgere le masse, fino al punto che il loro controllo è sfuggito ai capi del movimento, così che anche l'ordine sociale stabilito è stato sfidato. Questo saggio intende dunque servirsi di alcuni grandi testi letterari per raccontare la nascita, lo sviluppo e il declino di un "pensiero" che ha assillato la mente europea, che l'ha condizionata se non modellata. Se dovessi definire questo "pensiero" originale e pericoloso direi che è per eccellenza un pensiero controfattuale, un pensiero capace di concepire il mondo come radicalmente "altro" da quel che è attualmente. E aggiungerei che la sua originalità e pericolosità dipende dalla sua (sperata o temuta) penetrazione nei cuori e nelle menti delle cosiddette masse. Se dunque mi occuperò di come singole e specifiche rivoluzioni sono state rappresentate dagli scrittori mi riferirò poi sempre alla Rivoluzione intesa come una sorta di grande metafora ossessiva con cui l'Occidente s'è concepito, nella convinzione che ciò non renderà comunque generico il mio discorso se è vero quel che ha scritto uno storico come Luciano Canfora: «per paradosso, perciò, si potrebbe [... ] sostenere che "le rivoluzioni" in realtà sono sempre la stessa rivoluzione» 1 , anche se poi «le forme cambiano» (e non è un caso che la prima "rivoluzione" che Canfora evoca sia quella di cui «furono protagonisti i contadini tedeschi conquistati alla Riforma e presto avversati dagli stessi Riformati», secondo un processo in cui spesso le avanguardie si troveranno in balìa di un processo da esse stesse avviato). A tale pensiero "impossibile" la letteratura ha saputo dar voce come nessun altro discorso, prestandogli volta per volta valenze positive e negative, trasformandolo in una metafora chiave per pensare la modernità. In effetti noi spesso siamo portati a interrogare i filosofi della politica o gli storici quando vogliamo farci un'idea di cosa significhi un'azione rivoluzionaria, ma una risposta originale l'hanno data anche gli scrittori, i poeti, gli artisti in genere, e la loro risposta è

1

Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio. Il moto violento della storia, Latcrza, Roma-Bari 2.018, p. 43.

INTRODUZIONE

13

tanto più interessante perché si basa su emozioni, fantasie e fantasmi psichici diffusi (lo stesso Marx parlava della rivoluzione comunista come di uno «spettro [che] s'aggira per l'Europa» 2 ). Emozioni che sono state così potenti perché erano suscitate dalla prospettiva che il popolo, un'entità difficilmente inquadrabile e definibile ma sempre evocata, si emancipi improvvisamente da obbedienze e rispetti tradizionali, si sollevi e "rompa gli argini", facendo tremare le fondamenta della società, per distruggerle o rifondarle. Su questi potenti sentimenti suscitati dalla prospettiva del popolo che insorge hanno lavorato alcuni tra gli artisti più grandi della modernità, trasfigurandoli poi in opere memorabili che vale la pena esaminare e decifrare perché esse molto ci dicono di noi, di quel che eravamo ma anche di quel che siamo e magari saremo. Come vedremo infatti, provare a immaginare la rivoluzione ha significato anche e soprattutto pensare il popolo come grande agente di pericolose trasformazioni, oppure come una massa refrattaria, che resiste a quei cambiamenti, che li rigetta. In altre parole in questo libro mi interesserò a quei testi che hanno indagato la possibilità che gli ideali di uguaglianza e giustizia di tipo latamente illuminista potessero attuarsi o meno sul piano sociale, diventare o meno un patrimonio collettivo; fiorire o degenerare. Essi hanno cioè esplorato la possibilità che la spaccatura tra i colti e i subalterni succeduta alla crisi della civiltà cristiana si ricomponesse, e si realizzasse una nuova e diversa unione dcli' alto con il basso. Quei testi ci informano sulle speranze e sulle paure da molti coltivate che questo progetto potesse realizzarsi. Se come ha scritto Fredric Jameson «sembra essere più facile per noi oggi immaginare un deterioramento completo del pianeta che il crollo del tardo capitalismo» 3, se dunque da qualche tempo assistiamo al declino delle "fantasie" di rivoluzione, è forse anche giunto il momento di fare i conti con quelle, con ciò che furono e rappresentarono. Il mio saggio vorrebbe contribuire a questo bilancio. Conci udo dicendo che se la maggior parte del corpus prescelto è costituito da testi italiani (a partire dal Cinquecento fino alla se1 Karl Marx, Friedrich Engcls, Ma,ufest der Kommunistische,i Partei (1848); trad. it. Manifesto del Partito comunista, a cura di Franco Ferri, l,,troduzione di Palmiro Togliatti, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 53. 3 Fredric Jameson, The Seeds of Time, Columbia University Prcss, New York I 994,

p.XII.

INTRODUZIONE

conda metà del Novecento) è anche perché qui da noi la rivoluzione si è rivelata un disperante appuntamento mancato, costringendo gli scrittori e gli intellettuali a ritornare tante e tante volte su quel nodo irrisolto, a ripensarlo e elaborarlo (il che presenta dei vantaggi se si pensa che in definitiva l'appuntamento con la rivoluzione come evento catartico e definitivo è poi da considerarsi mancato per tutto l'Occidente). Ma se questo è stato il mio filone principale di ricerca non ho potuto non evocare alcuni grandi casi di scrittori europei che hanno memorabilmente scritto su popolo e rivoluzione, influenzando gli scrittori italiani e direi tutto l'immaginario occidentale. Una prospettiva solo nazionale sarebbe infatti risultata provinciale e angusta. È solo da un confronto e contrasto quanto più possibile stringente tra testi appartenenti a varie culture e nazioni che possono uscir fuori alcuni spunti di conoscenza e verità su questioni storico-politiche ancora oggi molto dibattute a cui è tempo che la critica letteraria porti un contributo significativo. Ringrazio le persone che durante la stesura di questo libro mi sono state vicine, con cui ho scambiato idee, che hanno letto e magari corretto e rivisto le mie pagine, che mi hanno consigliato delle letture; non potendo ricordare tutti i nomi di coloro con cui ho scambiato idee anche occasionalmente qui nomino i principali: Giulia Bullentini, Luca Danti, Serena Grazzini, François-Xavier Guerry, Iacopo Leoni, Maria Chiara Litterio, Fabien Kunz, Pier Vincenzo Mengaldo, Mario Mossa, Luciano Pellegrini, Diego Pellizzari, Paolo Poggi, Giuseppe Sertoli, Valentina Sturli, Sergio Zatti, Emanuele Zinato.

Parte prima Immagini di rivoluzioni mancate in cielo e in terra tra Cinquecento e Seicento

I.I.

Machiavelli: Il ciompo, il principe e la formidabile moltitudine

Parto raccontando com'è nato il mio interesse per il tema. Tutto è cominciato da un convegno a cui ho partecipato dedicato al Gattopardo e alle rivoluzioni mancate. Nel mio intervento ero partito da una definizione di Francesco Orlando secondo cui il romanzo di T omasi di Lampedusa «è un romanzo su una rivoluzione mancata che si fa paradigma di tante altre rivoluzioni mancate», e cioè di quelle situazioni in cui «il trapasso sociale è fallimentare, sia perché timido, furbo, parziale, sia per l'inadeguatezza della classe ascendente che di quella esautorata» 1 • A partire da tale constatazione la mia ipotesi di base era che Tornasi di Lampedusa affrontando questa questione si sia fatto carico con il suo romanzo di un'eredità che veniva da molto più lontano, quella di una rivoluzione che era stata perduta almeno mezzo millennio prima. In questo senso risultava illuminante stabilire un nesso tra Il Gattopardo e il primo autore che fece i conti con quello sperato e mancato rinnovamento, e cioè Machiavelli. Certo, Machiavelli non parla propriamente di rivoluzione, ma è evidente che quel che ha in mente è una possibile grande svolta storica, che renda attuabile la formazione di uno stato nazionale capace di tener testa agli altri stati che stavano minacciando la penisola, e che l'avrebbero inevitabilmente umiliata e asservita. Il pathos che anima la scrittura di Machiavelli è quello di un'occasione da afferrare prima che sia troppo tardi: «non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. [... ] quale Italiano gli negherebbe l'ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio» 2 • E mi pare indubbio che allorché 1 Francesco Orlando, L 'i,llimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Einaudi, Torino 1998, p. 147· 1 Niccolò Machiavelli, II principe (1532.), in Id., Opere, voi. I, a cura di Corrado Vivanti, Einaudi, Torino 1997, p. 192..

18

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

Machiavelli celebra i valori della virtù - in un senso diversissimo da quello cristiano - lo fa contro un certo attendismo e direi contro una politica fatta solo di diplomazia e compromessi tra gli stati italiani, e in nome di un progetto capace di promuovere trasformazioni radicali nell'assetto politico. Mi ha confermato nell'ipotesi quanto ha recentemente scritto Carlo Ginzburg, allorché ha preso in esame un'espressione coniata da Tancredi e almeno per un po' fatta propria dal principe di Salina: «se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi»3. È un'espressione che ha avuto un'enorme fortuna e che solitamente viene citata per dare conto di politiche volte a mantenere lo status quo. Ebbene, Ginzburg sostiene che Tornasi si richiama a un passo dei Discorsi di Machiavelli: Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città, a volere che sia accetto e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere mutato ordine, ancorché in fatto gli ordini nuovi fossero al tutto alieni dai passati»4. C'è un'indubbia sintonia, nota Ginzburg, mentre però per Machiavelli la regola sarebbe che «se vogliamo che tutto cambi bisogna che qualcosa rimanga com'è», nel Gattopardo «il fine [sarebbe] opposto: rivoluzione nel primo caso, conservazione nel secondos.

lo contesto che il messaggio del romanzo di T omasi sia di tipo conservatore, e nel paragrafo dedicato a quel testo proverò a dimostrarlo, ma è vero che questi due libri si misurano entrambi a distanza di secoli con il cambiamento storico-politico, con ciò che lo rende possibile o impossibile, desiderabile o indesiderabile. E se nel Principe (1514) a fronte di un destino percepito come minaccioso e incombente vibra ancora un'energia e una volontà giacobina ante litteram, nel Gattopardo (1958) cogliamo un senso di delusione perché l'occasione che era stata data ai siciliani e agli italiani di rilanciare quella sfida e di mostrare così la loro virtù è stata di nuovo persa. Resta però che il filo conduttore è lo stesso. 3 Giuseppe Tornasi di Lampedusa, Il Gattopardo (1958), in Id., Opere, a cura di Nicoletta Polo, Mondadori, Milano 2.004, p. 4 7. 4 Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio {15 3 1 ), in Id., Opere, voi. I, cit., pp. 2.56-2.57. S Carlo Ginzburg, Nondimanco. Machiavelli, Pascal, Adclphi, Milano 2.018, p. 2.2.1.

I. I. MACHIAVELLI

Cominciamo dunque da Machiavelli. Ebbene, forse l'eredità più cospicua del pensiero machiavelliano è proprio quella concezione che vede nello Stato una costruzione tutta e solo umana, non il prodotto di una tradizione, non una realtà legittimata da un 'istanza metafisica, bensì il risultato di un atto di volontà, la cui giustificazione ultima consiste nella capacità dimostrata dai governanti di guidare «virtuosamente» un popolo, e anzi un'umanità fondamentalmente restia a essere governata, restia a sottomettersi volontariamente a un potere pubblico, e a perseguire fini comuni. È difficile ricondurre a unità le idee e i pensieri che Machiavelli espresse relativamente al popolo, che d'altra parte egli chiama con diversi nomi che sottintendono sfumature diverse di significato (volgo, universale, plebe, moltitudine). Limitiamoci a dire che presi nel loro complesso essi rivelano una fondamentale ambivalenza. Nel capitolo IX del Principe per esempio ritroviamo alcune importanti proposizioni circa la distinzione tra «popolo» e «grandi»: «perché in ogni città si trovono questi dua umori diversi; e nasce da questo, che il popolo desidera non essere comandato né oppresso da' grandi, e li grandi desiderano comandare e opprimere il populo» 6• Va da sé che «quello del popolo è più onesto fine che quello dc' grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso» 7• E si direbbe che questo dipende dalla preferenza spontanea che Machiavelli tributa a tutte le istanze e le forze che si ribellano a un dominio "esterno", sia esso quello dei ceti dominanti dentro una società, o delle potenze straniere nel contesto italiano, o della fortuna nelle vicende umane. Non a caso il "suo" principe non è certo uno che mira a un potere fine a sé stesso, ma un eroe dell'iniziativa energica e virtuosa a cui Machiavelli dà consigli che non intendono insegnargli a opprimere il popolo, bensì a «mantenerselo amico» 8 , a «proteggerlo» e guidarlo contro un «barbaro domino» 9 , ottenendo così in cambio «reputazione e grandczza» 10 • Di contro il fatto che «il popolo non chieda altro che di non essere oppresso» evoca i rischi dell'indisciplina, se non dell'anarchia. E d'altra parte se

6

Machiavelli, Il principe cit., p. 143.

7 lvi, p. 8 Ibid.

144.

9 lvi,

192.

IO

p.

lbid.

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

20

Machiavelli perora i vantaggi che comporta «il favore del popolo» 11 non si astiene poi dal motivarne con la sua consueta franchezza le ragioni: a differenza dei grandi, i «popolari» il principe «li può [... ] comandare [e] maneggiare a suo modo» 12 • Il che non dimostra certo un'attitudine modernamente democratica, come d'altra parte testimonia anche il franco disprezzo per la credulità del «volgo», quale traspare in questo passo: «perché cl volgo ne va sempre preso con quello che pare, e con l'evento della cosa; e nel mondo non è se non volgo; e gli pochi hanno luogo, quando gli assai non hanno dove appoggiarsi» 1 3. La stessa idea che per governare uno stato occorre una religione sembra discendere da questa idea di popolo (ma forse sarebbe meglio dire di umanità) credulo: Numa Pompilio [... ] trovando uno popolo fcroci~imo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà [... ].Echi discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di per sé, vedrà come quelli cittadini temevono più a~ai rompere il giuramento che le leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini [... ] 1 4.

Questa religione che garantisce la concordia e il buon funzionamento dello Stato non deve perciò essere necessariamente creduta vera dalle élites politiche, che invece possono essere miscredenti: Noma Pompilio «simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse» 1 5. E nel capitolo successivo Machiavelli scrive: «debbono adunque i principi di una repubblica o d'un regno i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli. [... ] e debbono tutte le cose che nascano in favore di quella, come che le giudicassero false, favorirle e accrescerle» 16 • Sbaglia però chi crede che Machiavelli intendesse mantenere la religione per ingannare il popolo. C'è qualcosa di più in queste pro11

lvi, p. 143.

u. lbid.

lvi, p. 167. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio cit., p. •s lvi, p. 2.30. 16 lvi,p. 2.32.. •3

1-4

2.2.9.

I. I. MACHIAVELLI

2.1

posizioni, qualcosa che lui, all'alba di quello che probabilmente già intuiva essere un grande e incipiente movimento di scristianiazzazione dell'Europa moderna, percepiva come una questione drammatica, che infatti è ancora attuale; un problema che può essere compendiato nella seguente domanda: come governare un popolo nel momento in cui non si dà più quel grande legame (è questo uno dei possibili significati etimologici del termine religio) simbolico che è appunto una religione, nel momento che si scopre la sua "falsità" sul piano metafisico? In altre parole: come si fa a condurre una società dopo che «questa falsità si fu scoperta ne' popoli» e «diventarono gli uomini increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono» ?1 7 Ebbene se per lui la religione è una finzione essa è una finzione necessaria, se si pensa, come evidentemente Machiavelli pensava, che non possono essere solo gli interessi e le pulsioni private, egoistiche a tenere unito un popolo, a indurlo a comportarsi virtuosamente. E non è un caso che commentatori recenti abbiano valorizzato proprio questi aspetti: Tanto la virtù straordinaria dei fondatori e dei redentori, quanto i costumi dei cittadini hanno bisogno di una religione che esorta a cercare la gloria del mondo, infonde coraggio, insegna a servire la patria e ad amare la libertà. Senza questa religione le repubbliche non possono nascere, non sanno resistere né all'aggressione esterna né al male della corruzione; non hanno la forza morale per rinascere e ritrovare i princìpi della giustizia. La religione della virtù non è accessorio bensì anima del vivere libero 18•

Il problema insomma per Machiavelli, e per tanti dopo di Iui, è se sia possibile darsi una religione di tipo laico, di tipo civile. È indubbio che questo pensatore distingue, nel solco di una tradizione che viene da Platone, tra una élite ( «i conoscitori delle cose naturali»), che può tollerare certe verità, e il «popolo» o «moltitudine» che invece ha bisogno di miti; ma è falso invece pensare che egli manifesti solo disprezzo verso quest'ultimo, convinto com'è che non si possa governare senza il suo consenso e anzi la sua attiva partecipazione. Ritorneremo spesso su questa questione, e cioè sulla possibilità e desiderabilità o meno di una società senza Dio, perché, come vedremo,

11

18

Jbid.

Maurizio Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale de/l'Italia, Latcrza, Roma-Bari 2005, p. 142.

22

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

tale questione si pone per chiunque auspichi una rivoluzione politica e sociale, per ora limitiamoci a dire che per Machiavelli un popolo che rispetta la religione è un popolo più "sano" di quello che non la rispetta. Se per esempio crede che siano migliori sudditi «gli uomini montanari» di coloro che «sono usi a vivere nelle cittadi, dove la civilità è corrotta» 1 9, non è perché creda che quest'ultimi siano intellettualmente più scaltri ( «al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio» 20 ) bensì moralmente più corrotti. E comunque sia, occorre ribadire che riconosceva al popolo una funzione politica fondamentale, ritenendo che nessuna grande azione poteva svolgersi senza il suo apporto. Mancava del tutto in Machiavelli dunque quell'attitudine di ripulsa che sarà caratteristica di molti altri intellettuali e scrittori successivi. Con il popolo, con quella che egli spesso amava chiamare la «moltitudine», bisognava farci i conti, con esso occorre mescolarsi e intendersi. Se vogliamo, di questo fa fede anche la stupenda lettera che inviò ali'amico Vettori nel tempo in cui scriveva Il principe: Machiavelli infatti non sarebbe quel grande pensatore che è se fosse solo un uomo capace di «rivestirsi condecentemente» di «panni curiali e reali» e di «entrare nelle antique corti delli antiqui uomini» a «pascersi di quel cibo che solum è mio» 21 ; se non fosse cioè anche e contemporaneamente un uomo capace di "ingaglioffirsi" «per tutto dì giuocando a cricca, a trich-trach» con «un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai»; o a «passar tempo con quegli tagliatori» che ricavano legna da un suo certo bosco; o contrattando con i clienti sul prezzo di quella legna; o di trasferirsi «poi in sulla strada» per parlare «con quelli che passono, dimandando delle nuove de' paesi loro» 22 • La forza del suo pensiero mi pare che dipenda anche e proprio dal cortocircuito tra un'esperienza viva, attuale del mondo, inteso proprio come mondo popolare, mondo degli affari, dei contrasti, delle lotte, delle passioni da una parte, e dall'altra la sua frequentazione del pensiero politico classico, riletto e riattualizzato però sulla base di quella sua concretissima esperienza. 19 Machiavelli,

Discorsi sopra la prima Decadi Tito Livio cit., p. 2.30. Ivi, p. 2.31. 11 Niccolò Machiavelli, Lettera a Fratu:esco Vettori, 10 dicembre 1513, in Id., Opere, voi. II, a cura di Corrado Vivanti, Einaudi, Torino 1999, pp. 2.9 5-2.96. ulvi, p. 2.95. 20

I. I. MACHIAVELLI

Machiavelli era consapevole che la forza di uno stato deriva dal coinvolgimento del popolo, e infatti per lui un principe senza popolo non aveva futuro: «uno che diventa Principe con il favore del popolo deve mantenerselo amico: il che gli fia facile, non domandando lui se di non essere oppresso. [... ] a un Principe è necessario avere il popolo amico, altrimenti non ha nelle avversità rimedio» 2 3. E d'altra parte un popolo, per quanto in sé costituisca una potenza «formidabile», se non ha una guida risulta debole: Perché non ci è cosa, dall'un canto, più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo, e, dall'altra parte non è cosa più debole: perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da poter fuggire il primo empito; perché quando gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare cli loro medesimi, e pensare alla salute loro o col fuggirsi o con l'accordarsi24.

È un passo su cui avremo modo di ritornare spesso dove si vede bene che chi scrive, pur diffidando delle moltitudini lasciate a sé, confida nelle moltitudini dirette da un capo, così come diffida di capi incapaci di mobilitare le moltitudini. E soprattutto non crede che si possa fondare uno stato autonomo e rispettato senza che la moltitudine sia chiamata a partecipare, per esempio senza che essa venga armata: «perché, sanza gran numero di uomini, e ben armati, mai una repubblica potrà crescere, o, se la crescerà mantenersi» 2.5. Machiavelli non è certo un populista ante litteram, e anzi è pronto a riconoscere e denunciare tutti i difetti del «volgo» (è questo un suo tratto tipicamente rinascimentale), ma è certo che ci impressiona il modo schietto con cui si confronta con quella potenza: se non la idealizza non ne è nemmeno spaventato. E anzi a un certo punto dichiara che solo il conflitto tra i Nobili e la Plebe può rendere una Repubblica grande: lo dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma; e che considerino più a' romori ed alle grida che di tali tumulti nascevano, che a' buoni effetti che quelli partorivano; e che e' non considerino come e' sono in ogni re13

Machiavelli, Il pri11cipe cit., pp. 144-145.

2-4 Jd.,

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio cit., p. 3 1 5. 1.s lvi, p. 2.15.

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

publica due umori diversi, quello del popolo, e quello de' grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro26•

Che Machiavelli fosse capace di identificarsi con il popolo, e ciò non nel senso di approvarlo incondizionatamente, ma nel senso di comprenderne e quasi risentirne i sentimenti, i moventi e le ragioni, ce lo dimostra quella che per molti aspetti è la prima scena "rivoluzionaria" che ho scelto come emblematica della tradizione che qui esploreremo: la rivolta dei Ciompi, così come viene raccontata nelle Istorie fiorentine (152 5 ). Non si tratta naturalmente di una rivoluzione ed è largamente antistorico, anche se non privo di suggestività, il giudizio che Simone Weil ha dato, basandosi proprio sugli scritti di Machiavelli, di quella rivolta come della prima manifestazione di una volontà proletaria: «questa insurrezione, conosciuta con il nome di rivolta dei Ciompi è senza dubbio la primogenita delle rivoluzioni proletarie» 2 7. In realtà i Ciompi attuano la loro rivolta dentro il contesto delle corporazioni cittadine e intendono modificare i rapporti di forza nel quadro di un sistema che non viene sfidato nella sua intereua. Tuttavia è vero che rispetto alla storiografia precedente come a quella a lui coeva, quasi sempre pregiudizialmente ostile ai movimenti popolari, Machiavelli mostra una maggiore capacità di comprensione, una maggiore empatia con quelle sommosse. Quelle azioni non ci vengono mostrate come pure esplosioni di violenza irrazionale o come il prodotto della subornazione di torbidi capipopolo. In questo senso Machiavelli, pur ispirandosi agli storici antichi, se ne distingueva, se ha ragione Auerbach a dire che quando quelli parlano di sollevazioni popolari «non vedono forze, bensì vizi e virtù, successi ed errori», essendo che «la loro impostazione del problema non è evoluzionistica [... ] è invece moralistica», e che essa «riposa sull'orrore aristocratico per i rivolgimenti che si compiono nelle profondità, i quali sono sentiti come qualcosa di spregevole, di fuori dalla legge, di orgiastico» 28 • In u; lvi, p.

2.09.

Machiavcl, Simone Weil, La révolte des Ciompi. Ut1 soulèvemet1t prolétarien à Florence au XIV siècle, CMDE, Toulousc 2.013, p. 7. D'ora in poi, ogni qual volta cito da una edizione in lingua originale, là dove non ci siano altre indica7.ioni è sottinteso che la traduzione è fatta da mc. 18 Eric Aucrbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abe,ul/iinclischen Literatur ( 1946); trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, voi. I, a cura di Alberto Romagnoli e Hans Hinterhauscr, Einaudi, Torino 2.000, p. 45. 2.7 Nicolas

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2.5

definitiva quegli storici «lavorano sulla base di categorie immutabili» e «non possono produrre concetti, storico-dinamici» 2 9. Ebbene, anche Machiavelli non ha a disposizione tali concetti ma è indubbio che il suo modo di fare storia non è per niente aprioristico e moralistico, bensì capace di farci già sentire «la realtà quale sviluppo di forze»3°. Lo dimostra in primis il discorso di un ciompo del quale Machiavelli non dice il nome e che è un discorso retoricamente vibrante, che colpisce in quanto enunciato da un povero lavoratore della lana. Anche in questo caso Machiavelli certamente si ispira a un tipico topos della storiografia: l'orazione pubblica di un capo. Essa è del tutto inventata e presenta caratteristiche retoriche poco realistiche e tuttavia il discorso non può certo essere inteso come manifestazione di «arroganza plebea e di mancanza di disciplina»3 1 • C:Crto è sbagliato supporre che Machiavelli stia dalla sua parte e contro i Signori, ma è altrettanto indubbio che nelle parole del ciompo sentiamo davvero emergere le ragioni profonde di un movimento sociale: Duolmi bene che io sento come molti di voi delle cose fatte, per conscicnza, si pentono, e delle nuove si vogliono astenere; e certamente, se gli è vero, voi non siete quelli uomini che io credevo che voi fussc; perché né conscicnza né infamia vi debba sbigottire; perché coloro che vincono, in qualunque modo vincono, mai non ne riportono vergogna. E della conscienza noi non dobbiamo tenere conto; perché dove è, come è in noi, la paura della fame e delle carcere, non può né dcbbc quella dello inferno capcrc. Ma se voi noterete il modo del procedere degli uomini, vedrete tutti quelli che a ricchezze grandi e a grande potenza pervengono o con frode o con forza esservi pervenuti [... ]. E quelli i quali, o per poca prudenza o per troppa sciocche7.za, fuggono questi modi, nella servitù sempre e nella povertà affogono; perché i fedeli servi sempre sono servi, e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù se non gli infedeli e audaci, e di povertà se non i rapaci e frodolenti [... ] Debbcsi adunque usare la for.ta quando cc ne è data occasione3:z..

Osserviamo intanto che questo capopopolo non incita ma ragiona, argomenta e anzi enuncia delle regole o leggi generali e ineludibili della storia: il ciompo svela che qualunque potere si fonda sulla 19 Ibid.

30Jvi, p. 47· 31

lvi, p. 43.

3:z. Niccolò Machiavelli, !storie fiorentine (15 3 2.), in Id., Opere, voi. III, a cura di Corrado Vivanti, Einaudi, Torino 2.005, pp. 444-445.

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forza e non su presunte ragioni superiori (morali, religiose ecc.), ed è evidente che l'autore in buona sostanza è in sintonia con lui. Certo, l'oratore qui raccomanda la violenza e l'inganno, e perciò ci viene presentato come un mestatore da cui mantenere le distanze, ma è difficile non prendere in considerazione seriamente l'argomento secondo cui coloro che detengono il potere lo hanno ottenuto con gli stessi mezzi dei rivoltosi. Un simile discorso sarebbe stato inconcepibile per tutti quegli altri storiografi che avevano liquidato il movimento «come una folla irrazionale, anarchica e distruttiva»33. Anche quando l'oratore perora la necessità della violenza lo fa con modi pacati e sempre appoggiandosi su argomenti: lo confesso questo partito essere audace e pericoloso; ma dove la necessità strigne è l'audacia giudicata prudenza, e del pericolo nelle cose grandi gli uomini animosi non tennono mai conto, perché sempre quelle imprese che con pericolo si cominciono si finiscono con premio, e di uno pericolo mai si uscì sanza pericolo [... ]. La opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano, quando la è fuggita, si cerca poi di ripigliarlaH.

Ripeto: non è che Machiavelli stia tutto dalla parte del ciompo, ma è certo che egli ce lo presenta come capace di articolare un pensiero politico complesso. Come ha mostrato Victoria Kahn, le tensioni e le contraddizioni nell'opera di Machiavelli sono spiegabili anche tenendo conto che egli adottava un procedimento retorico-dialettico secondo cui si esaminavano le questioni in utramque partem, e cioè da prospettive opposte, senza proporre al lettore una verità predeterminata, ma per stimolarlo a prendere posizione rispetto a una realtà divenuta problematica se non ambigua35. In fondo non siamo lontani dalla libertà, se non simpatia, che dimostrava Shakespeare allorché lasciava la parola a personaggi marginali e dissenzienti come Shylock e Cali bano. Risuona nel discorso del ciompo un'analoga nota retorico-patetica ( «ora è tempo, non solamente da liberarsi da loro ... »3 6 ) che ci costringe a lasciarci coinvolgere dalle sue argomentazioni. l 3 Mark Jurdjcvic, A Great and Wretched City. Promise and Failure in Machiavelli's Fiorentine Politica/ Thought, Harvard Univcrsity Prcss, Cambridge (Mass.) 2014, p. 110. 34 Machiavelli, /storie fiorentine cit., p. 44 s. 3S Cfr. Victoria Kahn, Machiavelliati Rhetoric. From the Counter-Refonnation to Mi/ton, Princcton University Prcss, Princcton 1994. 36 Machiavelli, Istorie fiorentine cit., p. 44 S.

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Qui Machiavelli sta richiamandosi a Sallustio e al suo Catilina e più in generale ai demagoghi che costellano le narrazioni degli storici antichi. E se già Sallustio si era dimostrato ambivalente rispetto a Catilina, al quale riconosceva tratti di eroismo, qui l'ambivalenza è maggiore, così come sembra maggiore l'interesse che lo storico è disposto a prestare al suo personaggio (che in questo caso è un popolano vero e proprio, un povero cardatore). Non siamo davanti a qualcuno che consiglia la violenza perché è egli stesso un violento, e men che meno ci è presentato come un manipolatore, un mestatore che intende approfittare per sé della sollevazione popolare; è alle parti più razionali dei suoi ascoltatori che fa invece appello. E c'è qualcosa in più: mentre Catilina e gli altri demagoghi si stagliano come esseri carismatici ma anche egocentrici, qui forse come mai prima sentiamo che chi parla si fa latore di energie e rabbie diffuse tra i suoi compagni. Come direbbe sempre Auerbach il personaggio in primo piano non è considerato moralisticamente come un carattere fisso, bensì è colto sullo sfondo di un ampio movimento storico-sociale. E a confortarci in questa impressione è anche l'anonimità del personaggio, «come se l'evento storico non potesse essere catturato attraverso le norme convenzionali della narrazione storica e dell'azione individuale»37. Perciò ha ragione Andrea Matucci a dire che nelle /storie fiorentine Machiavelli non intende indagare solo «i tradizionali protagonisti singoli di ogni narrazione del passato», ma «entità sociali [... ] vaste e composite, più immediatamente inserite [... ] in una dimensione politica»3 8• Ma vale la pena introdurre qui un concetto a cui mi riferirò spesso e che viene dallo psicoanalista Wilfred Bion. Secondo Bion quando si forma un gruppo, un movimento «ci sono anche molti pensieri senza pensatore; e [... ] questi pensieri senza pensatore sono, così, nell'aria da qualche parte» 39: essi «fluttuano in giro cercando di trovare una mente in cui sistemarsi». Ora, sempre secondo quello psicoanalista, è possibile che qualche individuo riesca ad «acchiappare uno di questi pensieri selvaggi [... ] e per quanto strano o selvaggio o amiche37 Yvcs Wintcr,

Plebeian Politics: Machiavelli and the Ciompi Uprising, «Polirical Thcory», 40, dicembre 2012, p. 755. 38 Andrea Matucci, Machiavelli tiella storiografia fiorentina. Per la storia di un genere letterario, Olschki, Firenze 1991, p. 200. 39 Wilfrcd R. Bion, The ltalian Semit1ars (2005); trad. it. Seminari italiani, a cura di Partenophc Bion Talamo e Rachele Laura Piperno, Boria, Roma 1985, p. 61.

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vole possa essere, [... ] dargli dimora [... ] in altre parole, portarlo alla luce» sotto forma di «predizione o intuizione o affermazione profetica»4°. In questi casi è come se il transindividuale, la collettività pensasse attraverso una singola mente. Ebbene anche questo significa farsi "principe" o guida di un popolo, che è proprio quello che qui fa il ciompo di Machiavelli. E tutto ciò è confermato dall'impressionante analogia tra alcune considerazioni del povero cardatore e certi comportamenti del duca Valentino raccomandati da Machiavelli: tanto che ci si può chiedere «se il discorso attribuito all'anonimo leader plebeo sia da intendere come un ventriloquio delle azioni del duca»4 1 • Ma sono molti i punti in comune tra il pensiero del ciompo e quello di Machiavelli, per esempio il rigetto del modello cristiano di coscienza come parametro a cui ispirare l'azione politica: «e gli uomini buoni sempre sono poveri; né mai escono di servitù»; l'enfasi sull'occasione da cogliere prima che si troppo tardi: «la opportunità che dalla occasione ci è porta vola, e invano, quando la è fuggita, si cerca poi di ripigliarla»4 2 ecc. Insomma per molti aspetti il povero oratore si rivela essere una controfigura del Principe sognato da Machiavelli. Il problema per quest'ultimo, ben visto da Gramsci, era quello di riuscire a dare espressione a una volontà collettiva che altrimenti rischiava di restare inoperante, o di esprimersi in modo turbolento e confuso. Ora, non c'è dubbio che l'anonimo corrisponde abbastanza alla figura dell'intellettuale collettivo elaborata da Gramsci. Non c'è infatti nessuna parola che non sia ben ponderata, non tanto e soltanto in senso stilistico, ma proprio in senso politico, come dimostra la sua insistenza sulla necessità di ben soppesare le decisioni da prendere. Ma non basta; Machiavelli fa dire a questo suo popolano parole che, se anche non vengono ratificate dalla voce d'autore, non ci paiono nemmeno smentite: Né vi sbigottisca quella antichità del sangue che ci ci rimproverano; perché tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi, e da la natura sono stati fatti a uno modo. Spogliateci tutti ignudi: voi

40Wilfred R. Bion, Discussioni con W.R Bion. Los Angeles, New York, Sao Paulo, a cura di Francesca Bion, Locscher, Torino 1985, pp. 2.00-2.01. 41 Winter, Plebeia11 Politics: Machiavelli and the Ciompi Uprising cit., p. 749 . .µ Machiavelli, Istorie fiorentine cit., p. 44 5.

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ci vedrete simili, rivestite noi delle veste loro ed eglino delle nostre: noi senza dubio nobili cd eglino ignobili parranno; perché solo la povertà e le ricche7..7..C ci disaguagliano43.

Come ha scritto Winter, qui «il Ciompo enuncia la più radicale rivendicazione di uguaglianza tra gli uomini che ci sia nell'opera di Machiavelli» 44, e anche in questo caso risulta difficile liquidarla come un esercizio di stile retorico, non fosse altro perché essa è presentata nei termini di un programma politico di contestazione dell'ordine costituito, e perché non sembra l'espressione di un astratto ragionamento filosofico (di ascendenza stoica o cristiana) ma di una concreta istanza di lotta politica45. In fondo, quel che qui il ciompo propone è di liberarsi da una subalternità mentale nei confronti delle classi dominanti e nei confronti delle apparenze con cui esse pretendono di incantare e soggiogare il popolo. Ma l'interesse che ha per noi la ricostruzione della rivolta è dato anche dal secondo personaggio che incarna la volontà popolare, e cioè Michele di Lando. Vale la pena riportare il momento in cui Michele diventa gonfaloniere: Aveva, quando la plebe entrò in Palagio, la insegna del gonfaloniere di giustizia in mano uno Michele di Lando pettinatore di lana. Costui, scalzo e con poco indosso, con tutta la turba dietro salì sopra la sala, e come e' fu nella audienza de' Signori, si fermò, e voltosi alla moltitudine, disse: - Voi vedete: questo Palagio è vostro, e questa città è nelle vostre mani. Che vi pare che si faccia ora? - Al quale tutti, che volevono che fussc gonfaloniere e signore e che governassi loro e la città come a lui pareva, risposono◄ 6 •

È un passo che stabilisce una specie di copione che ritroveremo spesso nel corpus letterario che esamineremo: quello che prevede che un everyman si ritrovi all'improvviso catapultato a capo di una rivolta, senza apparentemente averne i titoli e i meriti. Ma Michele

•O

lvi, p. 444·

44 Winter,

Plebeian Politics: Machiavelli and the Ciompi Uprising cit., p. 746. Luciano Canfora scrive che qui il ciompo «riprende un grande motivo delratenicsc Antifonte: "Se spogliate un ricco e spogliate un povero vedrete che non vi è differenza"», Canfora, La scopa di don Abbondio cit., p. 4 5. 46 Machiavelli, !storie fiorentine cit., p. 450. 4S

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quei titoli se li guadagna sul campo, dimostrandosi all'altezza di quello che per Machiavelli è il compito di un vero capo: afferrare «la opportunità che dalla occasione ci è porta»47. Subito dopo la scena citata comincia infatti una narrazione che ci mostra come Michele di Lando, diventato capo, persegua una politica che non dipende del tutto dal mandato che gli è stato dato dal popolo e che anzi per certi aspetti lo tradisce. Si tratta anche in questo caso di una situazione che incontreremo spesso, e che riguarda il rapporto tra il popolo e le élites che quello stesso popolo è riuscito a mandare al potere. Michele infatti almeno in parte ricusa lo spirito radicale della rivolta e conduce una sua propria politica che Simone Weil, correndo volutamente il rischio dell'anacronismo, riassume così: «Michele di Lando fa ciò che avrebbe fatto al suo posto qualunque capo di stato socialdemocratico: tradisce i suoi vecchi compagni di lavoro»4 8 • In effetti Weil ha presente certe situazioni novecentesche: i capi di una rivolta o movimento sociale radicale una volta giunti al governo si dimostrano troppo realisti, cioè troppo pronti a scendere a compromessi con le classi dominanti, e sono perciò contestati dai militanti più agguerriti del movimento. Se vogliamo, un meccanismo simile Machiavelli l'aveva descritto anche se con parole diverse nel capitolo IX del Principe: «perché, vedendo e' grandi non potere resistere al popolo, cominciano a voltare la reputazione a uno di loro, e fannolo principe per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito» 49 . E tuttavia, in questo caso Machiavelli sembra apprezzare il comportamento «prudente» di Michele perché esso è tutto fuorché ispirato dai suoi interessi personali o di parte, bensì obbedisce a una logica più alta, quella volta a fare gli interessi dello Stato o della Repubblica; sono quest'ultimi, secondo Machiavelli, che lo spingono in definitiva a scontrarsi con i suoi vecchi compagni, senza però gettarsi tra le braccia dei «grandi»: Accettò Michele la Signoria; e perché era uomo sagace e prudente, e più alla natura che alla fortuna obligato, deliberò quietare la città e fermare i tumulti. [... ] E per cominciare quello imperio con giustizia, il quale egli aveva con grazia acquistato, fece publicamente che niuno ardesse o rubasse alcuna

47lvi, p. 445. 48 Machiavcl, Wcil, Un soulèvement prolétarien à Florence au Xl~ siècle cit., p. 14. 49 Machiavelli, I/ principe cit., p. 143.

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cosa comandare; e per spaventare ciascuno, rizzò le forche in Piazza. [... ] Fece di poi ragunare i sindachi delle Arti, e creò la Signoria: quattro della plebe minuta, duoi per le maggiori e duoi per le minori ArtiS0 •

Opera cioè delle modificazioni nel sistema delle rappresentanze politiche, anche se lo fa con prudenza. A questo punto però la plebe, e cioè la componente più estrema del movimento, non si sente più rappresentata da Michele e si ritira a Santa Maria Novella, dove dà vita a quel che sempre Simone Wcil con un anacronismo ancora più ardito chiama un soviet: «questo governo extra-legale assomiglia singolarmente a un sovict»51. Si arriva presto a uno scontro tra realisti e estremisti. Infatti «parve alla plebe che Michele, nel riformare lo stato, fosse stato a' maggiori popolani troppo partigiano» dopo di che «con grande audacia e maggiore prosunzione» ricordano «al Gonfaloniere la dignità ch'eglino gli avieno data, e l'onore fattogli, e con quanta ingratitudine e pochi rispetti si era con loro governato, rimproverorono» P·. Ancora una volta percepiamo come la scrittura machiavelliana innovi straordinariamente rispetto alla storiografia antica che si concentrava quasi esclusivamente sui primi piani e trascurava gli sfondi storico-sociali. Se anche è vero che Machiavelli valorizza il ruolo dei capi, e soprattutto di Michele, leggendolo sentiamo però che lo scontro non è tanto tra singole personalità bensì tra forze, gruppi sociali. E tuttavia il ruolo delle singole personalità è ancora decisivo cd è anzi dalla dialettica tra lo sfondo sociale e le azioni individuali che deriva l'interesse, la vivacità del racconto. In questo caso per esempio il rappresentante di un movimento di rivolta rompe con le frange estreme e lo storiografo ci restituisce tutta la vivida drammaticità di questa decisione e delle sue conseguenze. Possiamo parlare di una rivoluzione tradita? A me parrebbe non solo antistorico, ma anche irrispettoso del ruolo giocato da Michele, che evidentemente Machiavelli apprezza proprio per la sua capacità di "fare politica", e cioè di dimostrarsi qualcuno che è di più di un capopopolo. Inevitabilmente alla fine si giunge a una resa dei conti tra la moltitudine e colui da cui essa non si sente più rappresentata: so Machiavelli, Istorie fiorentine cit., pp. 450-451. s• Machiavcl, Weil, Un soulèvement prolétarien à Florence au Xl~ siède cit., p. 14. s2. Machiavelli, !storie fiorentine cit., pp. 451-452..

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Questa cosa, come fu nota, accese tutta la moltitudine d,ira; e credendo potere, armata, conseguire quello che disarmata non aveva ottenuto, prese con furore e tumulto le armi, e si mosse per ire a sforzare i Signori. Michele, dall'altra parte, dubitando di quello avvenne, deliberò di prevenire, pensando che fusse più sua gloria assalire altri che dentro alle mura aspettare il nimico, e avere, come i suoi anteccssori, con disonore del Palagio e sua vergogna, a fuggirsi. [... ] e appiccata con loro la zuffa, gli vinse; e parte ne cacciò della città, parte ne constrinse a lasciare l'armi e nascondersiH.

È una descrizione vivacissima di quelle fenomenologie politiche ma anche esistenziali che si danno allorché una società è scossa da scontri e rivolte. Michele, portato al governo dal popolo minuto, lo combatte, quasi a voler fermare l'insurrezione che i suoi compagni, quelli a cui deve il potere che adesso esercita, intendevano continuare. Il giudizio che Machiavelli dà dell'operato di Michele è però altamente favorevole: Ottenuta la impresa, si posorono i tumulti, solo per la virtù del Gonfaloniere. Il quale d,animo, di prudenza e di bontà superò in quel tempo qualunque cittadino, e merita di essere annoverato intra i pochi che abbino bcnifìcata la patria loro: perché, se in esso fusse stato animo o maligno o ambizioso, la republica al tutto perdeva la sua libertàH.

Se vogliamo si tratta della prova provata dell'assioma machiavelliano secondo cui il conflitto sociale giova alla Repubblica, favorendo l'ascesa di capi validi. Ma si tratta anche della dimostrazione di quanto sostenuto nell'orazione del ciompo: che «tutti gli uomini, avendo avuto uno medesimo principio, sono ugualmente antichi, e da la natura sono stati fatti a uno modo» e «solo la povertà e le ricchezze ci disaguagliano». Non c'è dubbio che Machiavelli ci mostra che Michele sceglie la via del compromesso con i Signori a scapito della plebe più povera, ma l'impressione è che per lui quella plebe non sarebbe stata capace di esprimere una classe dirigente in grado di guidare la repubblica. Le scelte del gonfaloniere si dimostrarono invece coraggiose e virtuose: «la bontà sua non gli lasciò mai venire pensiero nello animo che

53

lvi, PP· 452.-453.

S4 lvi,

p. 453·

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33

fusse al bene universale contrario»55, per cui alla fine resta dimostrato che un uomo del popolo ha saputo comportarsi come si dovrebbe comportare un buon principe. Con il che vengono confermate le tesi egualitaristiche dell'altro ciompo, secondo il quale qualità umane come intelligenza, coraggio, senso dell'opportunità politica non sono appannaggio dei nobili. D'altra parte, se Machiavelli prende le distanze dalla plebe sediziosa, prende tutte le distanze possibili anche dai cosiddetti grandi, che davanti ai ciompi erano fuggiti spaventati: «eglino se ne andorono; e il Palagio rimase nelle mani della plebe» 56• Quella di Michele di Lando è dunque sì una mediazione che sancisce la sconfitta politica del movimento, e tuttavia resta che con lui il popolo è finalmente entrato a Palazzo dimostrando di poter esprimere capi ali' altezza della situazione, a riprova che per Machiavelli era possibile concepire uno stato che in qualche modo cooptasse le forze popolari. Una tale confidenza nella produttività del conflitto sociale, lo ripeto, è qualcosa di estraneo agli intellettuali italiani, se ha ragione Gramsci a scrivere che gli intellettuali [italiani] dovevano distinguersi dal popolo, mettersene fuori, creare tra di loro e rafforzare lo spirito di casta, e nel loro fondo diffidare del popolo, sentirlo estraneo, averne paura, perché in realtà era qualcosa di sconosciuto, una misteriosa idra dalle innumerevoli tcsteS7.

È perciò che questo primo grande caso ci servirà come pietra di paragone per valutarne tanti altri.

ss Ibid. s6 Ivi, p. 4 50. s7 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (1948-19 5 1 ), voi. I, cdi1.ionc critica dclrlstituto Gramsci, a cura di Valentino Gcrratana, Einaudi, Torino 1975, p. 362.

I.2.

La Gerusalemme Liberata di Tasso ovvero la caduta degli angeli ribelli come sconfitta finale delle istanze rinascimentali

Tra i primi decenni del Cinquecento e i primi del Seicento si consumò in Europa una grande mutazione culturale e politica: la spaccatura del mondo cristiano dovuta alla Riforma. Dopo la mancata creazione di uno stato italiano in grado di opporsi alle invasioni straniere, la seconda grande rivoluzione fallita in Italia è stata quella religiosa, è cioè quella Riforma che attecchì nel Nord Europa e venne repressa nella penisola. Mancano testi che abbiano dato rappresentazioni memorabili di tale sconfitta, ma in compenso abbiamo testi che, sia pure indirettamente, testimoniano di questa crisi. Richiami alla lotta in corso in Europa si possono trovare per esempio in molti dipinti del periodo manieristico; si pensi qui al grande affresco dipinto da Giulio Romano a Mantova: La caduta dei Giganti (1532-1535). È abbastanza assodato che Giulio Romano voleva magnificare le recenti vittorie di Carlo V (protettore del duca di Mantova e in visita presso il suo palazzo) sugli eserciti protestanti, e più in generale sull'eresia luterana. Certo, i giganti sono esseri mostruosi soprattutto se confrontati con la bellezza degli dèi in alto, eppure è evidente che il visitatore non può non adottare il punto di vista dal basso, quello cioè degli sconfitti, e sentirsi anche lui schiacciato dalla terribile reazione degli dèi. Ecco per esempio cosa scrive il Vasari: Onde non si pensi alcuno vedere mai opera di pennello più orribile e spaventosa, né più naturale di questa. E chi entra in quella stanza, vedendo le finestre, le porte et altre così fatte cose torcersi e quasi per rovinare, et i monti e gl'cdifìzii cadere, non può non temere che ogni cosa non gli rovini addosso, vedendo massimamente in quel ciclo tutti gli dii andare chi qua e chi là fuggendo'.

1

Giorgio Vasari, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti (15 50), voi. III, a cura di Licia e Carlo L. Ragghianti, Ri12.oli, Milano 1976, p. 537.

1.2.. LA GERUSALEMME UBERATA DI TASSO

35

Non c'è dubbio che siamo davanti a una «orribile e spaventosa» esibizione di potere, del tutto simile a quella che in quel periodo stava dispiegando in Italia l'imperatore, e non è decidibile se l'artista intenda solo esaltare quella potenza o anche criticarne l'abnormità. Resta che l'esperienza che fa l'osservatore è quella di chi si sente al centro di un evento catastrofico alla pari con i giganti puniti, ma anche con gli dèi spaventati: egli è infatti portato a «dubitare che non rovini il cielo» e «che sia tutto il mondo sotto sopra e quasi al suo ultimo fine» 2 • Inevitabilmente ci si sente disorientati e squilibrati ed è limitativo ridurre tutto ciò a una pura esibizione di illusionismo pittorico, Giulio Romano ha davvero rappresentato un sommovimento storico che stava squassando l'Europa: l'avvento del protestantesimo aveva infatti avuto come risultato la perdita di un equilibrio politico e ideologico, di un centro stabile e di una prospettiva unica da cui considerare gli eventi. Anche se dunque Giulio ci rappresenta una rivoluzione mancata, gli effetti del dipinto su chi guarda non sono comunque rassicuranti, e anzi sembrano testimoniare di una restaurazione che in realtà è stata ottenuta solo con la prepotenza, la devastazione, il terrore. Sarebbe interessante esaminare altri topoi pittorici che risentono di questi eventi e soprattutto soffermarsi su quel filone specificamente dedicato a un'altra caduta, quella degli angeli ribelli, ma qui ci occuperemo solo di una memorabile versione letteraria di quel tema, e cioè quella che ne ha dato Tasso con la rappresentazione del concilio dei diavoli nel IV canto della Gerusalemme liberata (1575), che può anch'esso essere considerato come una trasposizione dell'attacco che i riformati portarono al potere della Chiesa e dell'imperatore. Ma direi che tutto il poema si deve interpretare come una reazione alla Riforma e al suo spirito, un atto poetico che da una parte la condanna ma dall'altra le concede una parola significativa. Ha certo ragione Sergio Zatti a dire che nel testo di Tasso si scontrano le istanze dell'Unità o dell'Uniforme cristiano con quelle del Multiforme, o della Pluralità e Discordia pagane3, ma ha ancora più ragione a dire che che dietro queste ultime non possiamo non scorgere le spinte centrifughe di un protestantesimo che aveva per sempre rotto l'uniformità culturale europea. 1

Ivi, p. 536. Cfr. Sergio Zatti, L'uniforme cristiano e il multiforme pagano. Saggio sulla •Gerusalemme liberata", il Saggiatore, Milano 1981. Tutta l'imposta7..ione di questo paragrafo deve moltissimo al libro di Zatti. 3

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

Se, come ha scritto David Quint, la Gerusalemme libera'ta è stata scritta «per celebrare il trionfo dell'imperiale e controriformistico papato»4, allora non è un caso che quello stesso De Sanctis, che aveva celebrato Machiavelli come antesignano della causa nazionale e risorgimentale, condannasse l'ideologia di Tasso e salvasse di lui la dimensione più puramente lirica e sensuale5. In realtà però il poeta controriformista si dimostra capace di dare voce e credibilità poetica anche ai personaggi che al trionfo cristiano e imperiale si oppongono con tutte le loro forze. E prima di tutto proprio al Satana che con grande veemenza arringa «I'alme a Dio rubelle» 6 , e cioè gli altri angeli precipitati come lui all'inferno. È stato infatti Tasso il primo a prestare a Satana - fino ad allora personaggio mostruoso e grottesco - tratti e attributi che lo rendono psicologicamente interessante. Cominciano infatti a emergere nel suo Satana aspetti nuovi rispetto alla tradizione medioevale, come per esempio un'energia indomita messa al servizio di una ribellione che, nel suo orgoglio titanico, non concede tregue e non conosce rassegnazione: «orrida maestà nel fero aspetto / Terrore accresce, e più superbo il rende:/ Rosscggian gli occhj, e di veneno infetto, I Come infausta cometa, il guardo splende» 7. Certo in questo Satana riconosciamo ancora il mostro della tradizione, come testimoniano il livore e furore che lo consumano, ma dcli'angelo decaduto conserva il dolore, il «fero aspetto», lo sguardo «splendente» di uno sconfitto che però non si sente vinto. Su questo come su altri punti conviene richiamarsi ancora agli studi di Sergio Zatti secondo il quale «il tutto si condensa in uno straordinario ossimoro: "orrida maestà" che esprime al meglio questi tratti ambigui e inquietanti del personaggio» 8• Ma soprattutto ritroviamo in quel personaggio i valori dell'onore, dell'eroismo quali provengono dalla tradizione epica classica, la volontà di non piegarsi a un nemico di cui pure si riconosce la soverchiante superiorità: «noi • David Quint, Epic a,ul Empire. Politics a,ul Getzeric Form {rom Virgil to Milton, Princcton Univcrsity Prcss, Princcton 1993, p. 2.30. s Cfr. Francesco Dc Sanctis, Storia della letteratura italiana ( 1870), a cura di Niccolò Gallo, Einaudi, Torino 1996. 6 Torquato Tasso, Gerusalemme liberata (1581), Mondadori, Milano 1976, p. 75.

7lvi, p. 72.. 8 Sergio Zatti, Le seduzio,u di un demagogo: sul Sata,,a tassiano, in Paolo Amalfitano (a cura di), Il Piacere del Male. Le rappresentazio,u letterarie di un'antinomia morale {I500-2000), voi. I, Pacini Editore, Pisa 2.018, p. 2.62..

1.2.. LA GERUSALEMME UBERATA DI TASSO

37

trarrem neghittosi i giorni e I'ore, / né degna cura fia che 'I cor n 'accenda? I e soffrirem che forza ognor maggiore/ il suo popol fedele in Asia prenda?»; e anche: «ah! non fia ver, ché non sono anco estinti I gli spirti in voi di quel valor primiero, / quando di ferro e d' alte fiamme cinti I pugnammo già contra il celeste impero» 9• Chi parla qui non è un essere meschino e subdolo, ma qualcuno che coltiva una grande idea di sé, della sua propria eccellenza e del proprio valore. Dietro a questa figura stanno tutti i campioni dell'epica classica e rinascimentale, da Achille fino a Orlando. E in fondo lo stesso Rinaldo mostra di discendere da questa schiatta d' eroi indomiti allorché dichiara di non voler essere processato da Goffredo: «difenda sua ragion ne' ceppi involto / Chi servo è, disse, o d'esser servo è degno;/ Libero i' nacqui e vissi, e morrò sciolto, / Pria che man porga o piede a laccio indegno» 10• Così facendo egli replica in terra quanto accaduto in cielo quando Lucifero, animato dalla stessa insofferenza per un potere che si pretendeva assoluto, sfidò bravamente il Re dei cieli: «quando di ferro e d' alte fiamme cinti/ Pugnammo già contra il celeste impero» 11 • In effetti l'Umanesimo e il Rinascimento avevano riscoperto e celebrato quei valori cavallereschi, ma da poco essi erano caduti in disgrazia e si era affermato un ideale eroico di tipo cristiano, meno tracotante e orgoglioso, secondo il quale il guerriero doveva porsi al servizio di una causa superiore. Nel poema si dà conto della resistenza che alcuni orgogliosi cavalieri oppongono a questa diminuzione della loro libertà di iniziativa. Si ricordi ancora a questo proposito la definizione di De Sanctis, che aveva parlato di «quella forza d'iniziativa che fa di ogni cavaliere l'uomo libero, che trova il suo limite in sé stesso, cioè a dire nelle leggi dell'amore e dell'onore, a cui obbedisce volontariamente» 12 • Il poema certamente si schiera contro questi valori, ma non perciò si astiene dal tributare loro un estremo omaggio, sia pure un omaggio antifrastico, se è vero che poi a rappresentare tali valori sono spesso personaggi negativi e però mai spregevoli. Come è per esempio Ismeno, che a quegli ideali si richiama con orgogliosa fierezza e senza riferirsi a qualunque prospettiva religiosa o soprannaturale, sia pure pagana: «Ciascun, qua giù, le 9Tasw, Gerusalemme liberata cit., p. 74. •0

u 12

lvi, p. 106. lvi, p. 74· Dc Sanctis, Storia della letteratura italiana cit., p. 4 5 2..

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forze e 'I senno impieghi / Per avanzar fra le sciagure e i mali: / Chè sovente addivicn che 'l saggio e 'l forte I Fabbro a se stesso è di beata sorte» 1 3. Qui, come si vede, il personaggio pagano esalta proprio i valori dcli' homo fa ber, celebra cioè quella virtù cara a Machiavelli perché la sola capace di affrontare «le sciagure e i mali» provocati dalla fortuna avversa. Se dunque vogliamo parlare di una rivoluzione mancata o perduta a cui il poema implicitamente si richiama, per deprecarla ma anche per onorarla in extremis, non dobbiamo pensare solo a quella protestante, ma anche, se non soprattutto, a quella rivoluzione culturale interrotta che fu il Rinascimento. Come accade con i valori dell'edonismo, ben rappresentati da Armida, e anch'essi tipici della cultura rinascimentale e pre-riformistica, anche verso i valori eroico-cavallereschi Tasso ha un atteggiamento ambivalente. Come ha scritto sempre Zatti: «nella rievocazione delle antiche guerre celesti e nella prospettiva del loro rinnovarsi in terra con la Crociata» il Satana di Tasso «punta sul valore 'umanistico' della resistenza cui chiama i suoi sudditi (una resistenza fatta di virtù, coraggio, valore, audacia), una sfida suprema» 1 4. D'altra parte quando il principe infernale esorta i suoi diavoli al contrattacco ( «e soffrirem che forza ognor maggiore/ il suo popol fedel in Asia prenda?/ e che Giudea soggioghi» 15 ), è difficile non sentire in tale esortazione un'eco di quella con cui si chiude il trattatello di Machiavelli: «non si debba, adunquc, lasciare passare questa occasione, acciò che l'Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. [... ] A ognuno puzza questo barbaro dominio» 1 t;. Vale la pena dire, che in quei decenni di scontri religiosi, oltre a Tasso altri poeti rivalutano la figura di Satana o di consimili figure sataniche, e se nei loro poemi troviamo spesso concili diabolici in grado di interferire sugli eventi storici è perché queste immagini traspongono le divisioni di una cristianità che non è più unita, ma spaccata. Sia i cattolici che i protestanti si dichiaravano portatori della vera fede ma di fatto nessuno era più in grado di ripristinare l'unità perduta. Occorreva insomma forse per la prima volta fare i conti con un'alterità che non era più fuori dai confini del mondo cristiano (l'IGerusalemme liberata cit., p. 2 3 2. Zatti, Le seduzioni di un demagogo: sul Satana tassiano cit., p. 2 71. •STasso, Gerusalemme liberata cit., p. 74. 16 Cfr. supra, p. 17, n. 2. 1

.3 Tasso,

1◄

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slam) ma dentro l'Europa. Tasso è l'antesignano di questa tendenza: se condivideva l'ideologia controriformistica era poi capace non solo di dare voce ai suoi avversari, ma anche di riconoscere loro alcune importanti ragioni. Per comprenderlo torniamo al discorso di Satana, là dove ricorda l'alta impresa da lui tentata contro Dio: Tartarei numi, di seder piu degni là sovra il sole, ond'è l'origin vostra, che meco già da i piu felici regni spinse il gran caso in questa orribil chiostra, gli antichi altrui sospetti e i fori sdegni noti son troppo, e l'alta impresa nostra; or Colui regge a suo voler le stelle, e noi siam giudicate alme rubelle 1 7.

Qui non c'è solo da segnalare l'orgoglio del combattente che, pur sconfitto, rivendica l'eccellenza di quella che egli chiama «alta impresa», c'è soprattutto da rimarcare che definisce la vittoria delle armate celesti come un «gran caso». Insomma, Dio ha vinto sì, ma implicitamente ci viene detto che sarebbe potuto accadere il contrario, e che dunque nessun principio o necessità superiore avrebbe giocato a favore del Dio cristiano. Certo, è Satana a dirlo, e il suo punto di vista è screditato in partenza dall'autore, ma resta che solo in quel nuovo contesto post-riformistico era concepibile una formulazione come questa. È infatti in quegli anni che poteva accadere che i valori protestanti diventassero dominanti e quelli cattolici cadessero in disgrazia, o viceversa, a seconda di come finiva una certa guerra o battaglia. E come se non fosse stato già abbastanza chiaro, qualche ottava più avanti abbiamo un verso quasi eretico: Fummo, io no 'I nego, in quel conflitto vinti, pur non mancò virtute al gran pensiero. Diede che che si fosse a lui vittoria: rimase a noi d'invitto ardire la gloria 18•

Il soggetto del secondo distico è questo «che che», questo "qualche cosa" o "non si sa che", che Satana stesso non può determinare, e che 1

7Tasso, Gerusalemme liberata cit., p. 73.

18

Ibid.

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ha dato a Dio la vittoria. Satana in altre parole non è in grado, ammesso che nella vittoria di Dio ci sia stato davvero qualcosa di casuale, di determinare quali fossero tali circostanze favorevoli al suo avversario e sfavorevoli a lui. Il sottinteso è ovviamente che il buon cristiano deve pensare che si tratta invece di una necessità assoluta, inscritta nell'essenza stessa di Dio da una parte e del suo Nemico dall'altra. Ma resta vero che qui Satana anticipa alcune discussioni storiche e filosofiche ben più tarde, secondo cui la storia la fanno i vincitori e sono i valori di quelli a diventare normativi: «or Colui regge a suo voler le stelle, / e noi siam giudicate alme rubellc» 1 9. Ne consegue che si può pensare che le "cose stanno come stanno" ma avrebbero potuto e potranno essere diverse (che è il presupposto di qualunque pensiero miri a sovvertire lo stato di cose esistenti). E se è vero che a enunciare queste tesi relativistiche ante litteram è qualcuno che ha radicalmente torto, resta che quelle parole sono state pronunciate e la loro eco da allora non si è mai spenta. Ma nel Satana di Tasso si esprime anche, e non paia anacronistico dirlo, una denuncia politica di tipo anticolonialista, antimperialistico. Infatti Satana accusa apertamente il Dio cristiano di una reiterata vocazione prevaricatrice. Se anticamente in ciclo gli angeli ribelli sono stati banditi dagli «stellati giri» e ricacciati da Dio ncll' «abisso oscuro» dell'Inferno, ora i Crociati sulla terra pretendono con il suo aiuto di ridurre l'intero mondo abitato sotto il dominio di un'unica fede, di omologare la società umana a loro immagine e somiglianza, senza accettare una coesistenza pluralistica di civiltà e fedi diverse. «Dch! Non vedete ornai com'egli tenti I tutte al suo culto richiamar le genti?» 20 - si lamenta Satana, che vede ncll 'assedio di Gerusalemme il rinnovarsi di un oltraggio antico: la violazione dei regni delle tenebre da parte di Cristo ( «ci venne e ruppe le tartaree porte, I e porre osò ne' regni nostri il piede» 21 ) e l'iniqua sottrazione della parte di anime a lui spettante di diritto ( «e trarne l'almc a noi dovute in sorte, / e riportarne al Ciel sì ricche prede» 22 ). E a confermare che vibrino accenti anticoloniali ncll'arringa di Satana sono le consonanze coi discorsi di un altro personaggio neJbid. lbid. 21 lbid. l l Jbid. •9

20

1.2.. LA GERUSALEMME UBERATA DI TASSO

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gativo e mostruoso, cui però un altro cristianissimo autore non può non cedere la parola, lasciandogli esprimere un vibrante sfogo antieuropeo; sto naturalmente riferendomi al Calibano di The Tempest ( 161 1) che a un certo punto così protesta contro il suo padrone, Prospero: «l'isola è mia, per via di Sycorax, mia madre; tu me l'hai tolta [... ] io sono tutti i sudditi che hai / io che ero il mio stesso re» 2.3. E infatti progetta una insurrezione contro l'usurpatore che poi però sarà debellata. Anche per il Satana di Tasso di fronte al nuovo sopruso della Crociata non è più tempo di restare inerti, né di accettare passivamente la dittatura di un despota che non tollera antagonisti e contraddittori: «e sofrirem [... ] / Che sian gli idoli nostri a terra sparsi? I ch'i nostri altari il mondo a lui converta?/ ch'a lui sospesi i voti, a lui sol arsi / siano gli incensi, cd auro e mirra offerta?» 2 4. Risentiamo in questo Satana la stessa energia che risuonava nel discorso dell'anonimo ciompo che denunciava le pretese e le prepotenze dell'oligarchia fiorentina, oltre che l'energia che animava le figure dei demagoghi raccontati dagli storici antichi e in primis il Catilina di Sallustio, soprattutto quello che esorta i congiurati alla ribellione in nome dei valori dell'onore e della perduta libertà. Concludendo diremo allora che mentre da un lato Tasso chiude con il suo poema un'epoca di straordinaria libertà e sperimentazione intellettuale, dall'altro tributa a quell'epoca un estremo riconoscimento, mostrandoci come essa abbia rappresentato una grande occasione per l'Italia di essere una nazione capace di una propria autonomia politica e culturale. Dietro le descrizioni dell'incantato giardino d'Armida, dietro quelle degli amori sensuali e proibiti, dietro gli errori, le crranze e gli eroismi dei cavalieri, e infine dietro l'indomito impeto "rivoluzionario" di Satana e la resistenza accanita dei pagani contro l'omologazione cristiana, riconosciamo infatti, per quanto stravolti, i valori e le aspirazioni dell'Umanesimo e del Rinascimento mentre lottano per non essere definitivamente liquidati.

13 William Shakespeare, The Tempest ( 161 1 ); trad. it. La tempesta, a cura di Masolino D'Amico, in Tutte le opere, voi. IV, Tragicommedie, drammi romanzeschi, sonetti, poemi, poesie occasio11ali, a cura di Franco Marenco, Bompiani, Milano 2.019, p. 1813, atto I, vv. 333-344. 1-f Tasso, Gerusalemme liberata cit., p. 7 4.

1.3. Il Paradiso perduto di Milton e le dinamiche perverse della rivoluzione: Satana da tirannicida a tiranno

Il poema di Tasso ha largamente influenzato il poema di Milton, Paradise lost (1667), ma se lo prendo in esame a parte è perché questo poema risente certamente di quella che è la prima rivoluzione moderna europea: la Rivoluzione inglese (1642-1658). La bibliografia su quest'opera è immane, ma qui a me interessa solo proporre qualche riflessione utile per il nostro discorso, nella convinzione che sia proprio Milton il primo ad aver abbozzato la figura del rivoluzionario moderno. Diciamo intanto che ritroviamo nel suo Satana le due filiere che avevamo riscontrato anche nel Satana di Tasso. Da una parte egli è un epigono della tradizione epica classica, un ultimo grande eroe indomito, recalcitrante a sottomettersi alla disciplina e all'organizzazione tipiche degli stati moderni: «che importa se il campo è perduto? Non tutto / è perduto; la volontà indomabile, il disegno/ della vendetta, l'odio immortale e il coraggio I di non sottomettersi mai, di non cedere: che altro / significa non essere sconfitti?» 1 • Ritroviamo perciò in questo Satana tutte le ambivalenze che già avevamo riscontrato nel primo, semmai aumentate, e sono esse che hanno fatto dire a William Blake che Milton «era del partito di Satana senza sapcrlo» 2 • Ma l'originalità del poeta consiste nell'aver infuso nel racconto dell'insurrezione di Satana e dei suoi compagni molto di quello spirito che animò la Rivoluzione inglese. Sono stati in tanti a contestare come anacronistico questo approccio nel nome del rispetto dei dati storici, secondo cui semmai Satana e i suoi seguaci rappresenterebbero il partito monarchico m lotta contro il legittimo potere parlamentare. Così per Fredric 1 John Milton, Paradise Lost {1667); trad. it. Paradiso perduto, a cura di Roberto Senesi, Mondadori, Milano 1984, p. 1 1. 2. William Blake, The Maniage of Heaven and Hell, in Id., Complete Poems, a cura di Alicia Ostriker, Penguin, New York 1977, p. 186.

1.3. IL

PARADISO PERDUTO DI MILTON

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Jameson Satana «è un grande barone feudale», e la sua ribellione «ha poco a che vedere con le dinamiche di una rivoluzione borghese quanto piuttosto con le convulsioni del feudalesimo medioevale o con quell'anacronistico evento contemporaneo [a Milton] che fu la Fronda». E anzi, essendo che durante la guerra civile «lo stesso re è il ribelle», sarebbe lui a «occupare il posto di Satana»3. C'è da chiedersi però: perché tanti lettori nei secoli si sono spontaneamente riconosciuti nella ribellione dell'angelo caduto? Risulta difficile pensare che lo abbiano fatto perché sentivano in lui il rappresentante delle forze della Restaurazione. E d'altra parte spunti antimonarchici sono sparsi un po' dappertutto nel poema; basti pensare al XII canto là dove Adamo così reagisce al racconto profetico dcli' arcangelo Michele relativo a come Nimrod decida di farsi tiranno e innalzare la torre di Babele: «oh esecrabile figlio, che aspira a innalzarsi / sopra i fratelli assumendo un potere usurpato / che Dio non gli diede»4, che Barbara Lewalski qualifica come un' «aperta dichiarazione di principi repubblicani»5. Ma per ritornare alle letture successive che del poema vennero fatte quasi sempre in chiave di simpatia verso Satana, risulta impossibile liquidare queste reazioni come sbagliate e irricevibili. Tanto più che spesso esse provengono da lettori animati da pregiudizi controrivoluzionari. Si prenda un lettore come Xavier de Maistre, e cioè qualcuno che alla fine del Settecento stava dalla parte degli antigiacobini, e si considerino le sue reazioni spontanee ai primi canti del poema. De Maistre confessa «una debolezza che mi sono spesso rimproverato», e cioè «di partecipare con un certo interesse alla sorte di questo povero Satana dopo che è stato così precipitato dal cielo». E continua così: «non posso, checché io faccia, augurarmi un momento solo di vederlo perire, lungo la strada nella confusione del caos». E anzi: «credo addirittura che lo aiuterei volentieri senza la vergogna che mi trattiene. Ho un bel riflettere [... ] che è un vero democrati-

.3 Frcdric Jamcson, Religion and ldeology: a Politica/ Readi11g of Paradisc Lost, in Francis Barkcr, Pctcr Hulmc, Margarct lvcrscn e Diana Loxlcy (a cura di), Uterature, Politics and Theory. Papers from the Essex Conference I976-1984, Routlcdgc, London 1986, p. 38. 4 Milton, Paradiso perduto cit., p. 553. S Barbara K. Lcwalski, The Life ofJohn Mi/ton. A Criticai Biography, Blackwcll Publishing, Oxford-Maldcn 2.000, p. 470.

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PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

co, non di quelli di Atene, ma di Parigi; tutto ciò non può guarirmi dalla mia prevenzione» 6, e cioè dalla disposizione favorevole verso Satana. Contro questa interpretazione, che ha per me il vantaggio di essere stata ispirata da una reazione spontanea, e non è dettata da un pregiudizio romantico, si è obiettato in tempi recenti che in effetti i modi del Satana miltoniano sono piuttosto quelli tipici di un certo eroismo aristocratico, e che «il poema di Milton pone in questione questi valori e questa antiquata ideologia eroica e tende a sovvertirla» 7• Ma è poi lo stesso critico a mostrare come questo carattere eroico sia tutt'altro che monolitico: gli eroi epici tradizionali «tendono ad essere definiti quasi esclusivamente dalle loro imprese pubbliche, dalle loro azioni e dal loro status, e mai essi si impegnano in soliloqui drammatici, come invece fa Satana, quasi fosse solo sul palcoscenico» (si pensi su tutto al suo straziante «dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno» )8 • «Dando a Satana una tale interiorità, Milton complica di molto e rielabora i materiali eroici che aveva ereditato»9, e così facendo modernizza il personaggio e favorisce un'identificazione con lui. Il Satana che si inventa Milton non ha niente di allegorico, è più che mai un individuo, con caratteristiche proto-romanzesche. Ma tornando sulla presunta contraddizione tra i tratti signorili del personaggio e le sue connotazioni rivoluzionarie sono utili le messe a punto del grande storico della Rivoluzione inglese, Christopher Hill, che ha scritto che sì, certo, «Satana è eroico», ma appunto «eroico alla stessa maniera in cui per Milton era stata la Rivoluzione inglese» 10 • Insomma, non ci sarebbe contraddizione tra queste sue caratteristiche di aristocratica grandiosità e il carattere popolare della rivoluzione inglese. D'altra parte, ben prima di Hill era stato Tocqueville a riscontrare nei capi dei movimenti rivoluzionari avversi ali'Ancien Régime modi di fare presi in prestito proprio da certi costumi aristocratici: «gli uomini che distruggono un'aristocrazia hanno vis6 Xavicr

dc Maistrc, Voyage autour de ma chambre (1794), a cura di Florcncc Lotterie, Flammarion, Paris 2003, p. 116. 7 David Locwcnstcin, Miltot1: Paradisc Lost, Cambridge Univcrsity Prcss, Cambridge 1993 p. 59· 8 Milton, Paradiso perduto cit., p. 155. 9 Locwcnstcin, Milto11: Paradisc Lost cit., p. 64. 1 °Christophcr Hill, Milto11 and the English Revolutiot1 (1977), Pcnguin, New York 1979, p. 367.

1.3. IL

PARADISO PERDUTO DI MILTON

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suto sotto le sue leggi; hanno visto i suoi splendori e si sono lasciati penetrare, senza saperlo, dalle idee che essa aveva concepito» 11 • Non c'è dunque da stupirsi se nelle apparenze di grande signore dai modi sprezzanti assunte dal Satana miltoniano riconosciamo alcuni tratti del «politico rivoluzionario che intende liberare i suoi compagni da una servitude inglorious (9.141)»12.. Qui però voglio in particolare concentrarmi su una certa situazione tipicamente rivoluzionaria su cui avremo modo di ritornare più avanti: la situazione assembleare. Penso naturalmente all'assemblea che si svolge tra il I e il II canto, in cui si discute come proseguire la lotta contro Dio. Certamente il modello lontano è l'assemblea dell'esercito acheo nel secondo canto dell'Iliade, ma come ha scritto sempre David Loewenstein, avvalendosi anche di citazioni miltoniane, «il "grande consulto" degli angeli caduti suggerisce prima di tutto ai lettori che la politica in inferno è molto simile a quella dell'Inghilterra rivoluzionaria dove la libertà e il dibattito e la disputa pubblica spesso fiorivano e punti di vista in conflitto si affrontavano - una nazione politica caratterizzata da "molte discussioni, molto scrivere, molte opinioni"» 1 3. Lo spettro delle posizioni che si confrontano è ampio ed esse vanno per così dire da destra a sinistra. Bclial, per esempio, incarna una linea ultra-moderata e perora la causa della rassegnazione sulla base di una realistica valutazione dei rapporti di forza attuali: Dovremmo vivere dunque in modo così ignobile, noi stirpe del cielo, in un simile luogo calpestati, esuli, condannati a subire catene e tormenti? A mio avviso meglio questo che peggio; dato che per destino inevitabile e onnipotente decreto siamo stati costretti al volere del Vincitore 1 4.

Alcxis dc Tocqueville, De la démocratie en Amérique (1835-1840), in Id., CF..uvres, voi. II, a cura di André Jardin, Gallimard, Paris 1992., p. 760. 12 Locwcnstcin, Milto11: Paradisc l..ost cit., pp. 61-62.. • J John Milton, Areopagitica, CPW II, 554, citato in David Locwcnstcin, The Radical Religious Politics of Paradise Lost, in Thomas N. Corns, A New Compa,uot1 to Mi/ton, Wilcy-Blackwcll, Hobokcn (Nj) 2.016, p. 3 52.. 1 • Milton, Paradiso perduto cit., p. 61, libro II, vv. 195-199. 11

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

Ora, a stupire è quel che a questo punto dice la voce d'autore: «in questo modo Belial, con parole abbigliate dalle vesti I della ragione, suggeriva un'ignobile accidia, pacifico torpore, non pace» 1 5. Ci stupisce perché, se è vero che Bclial è un personaggio infido, è anche vero che sta proponendo la sottomissione al potere divino, eppure il cristianissimo autore depreca questa arrendevolezza e implicitamente preferisce l'atteggiamento di sfida di chi non si rassegna, e cioè quello di Belzebù e soprattutto di Satana. Ma si direbbe che più in generale Milton vede (e apprezza) in Satana la sua funzione dinamizzante, e cioè la funzione svolta da colui che tentando Adamo ed Eva metterà in moto il movimento storico, sabotando così il progetto paradisiaco di Dio che, se realizzato, avrebbe impedito quel movimento a vantaggio di un'idillica condizione di eterna stasi: senza la ribellione di Lucifero l'umanità non avrebbe mai potuto fare uso del suo libero arbitrio, sarebbe sempre vissuta nell'ignoranza; il Figlio di Dio non avrebbe mai svolto il suo ruolo di successore del Padre, e la storia umana e cosmica non avrebbe mai avuto un inizio. Ne consegue che il poema che dovrebbe celebrare i valori dell'obbedienza celebra sotto sotto i valori della disobbedienza, e anzi della rivolta: se quest'ultima alla fine fallisce non perciò si può dire che è come se essa non fosse mai stata. La restaurazione non trionfa definitivamente, non annulla l'impulso rivoluzionario, che anzi continua a propagarsi. In questo senso Milton inaugura senza saperlo un atteggiamento che poi ritroveremo spesso allorché si parlerà di rivoluzioni violente: possono essere giudicate come illegittime, eppure alla fine, se considerate da una prospettiva cosmico-storica, ci appaiono giustificate dal corso successivo degli eventi che esse hanno reso possibile (si pensi qui soprattutto alla Rivoluzione francese). Sono riconoscibili anche nel Satana di Milton i tratti del demagogo antico (ancora Catilina) ma più importante ancora mi pare il parallelismo con Machiavelli, giustificato per altro anche con le letture accertate di Milton: «le ambiguità che circondano l'immagine di Satana come statista e come conquistatore - la sua somiglianza con gli eroi classici, la mescolanza di fini pubblici e privati, la natura equivoca della sua virtù eroica - ricordano l'immagine del principe

•s lvi, p. 63, libro Il, vv. 226-:1.28.

1.3. IL

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di Machiavelli» 1 ~. Non c'è il tempo per approfondire le analogie tra Milton e Machiavelli, ma mi pare evidente che entrambi sono interessati a esplorare la dimensione eminentemente politica degli eventi insurrezionali. Come appunto conferma la rappresentazione quasi "in diretta" dell'assemblea rivoluzionaria, dove diverse posizioni si confrontano e scontrano, al fine di ottenere il consenso a guidare la lotta contro la monarchia divina in una certa direzione piuttosto che in un'altra. Con le parole di Benet possiamo dire che Mii ton rappresenta Satana come una nuova e ben «riconoscibile figura quale stava emergendo nella scena contemporanea: il leader che deve la sua preminenza interamente alle sue proprie capacità, e che deve lottare per mantenere la sua posizione» 1 7. Il che, altrimenti detto, significa che Milton «sta esplorando come opera il processo politico allorché manca un governante di tipo ereditario» 18• E più specificamente ancora pare che egli si chieda: come si riesce a farlo senza trasformarsi in tiranni? Poiché è questa la metamorfosi di Satana a cui noi assistiamo: da repubblicano che si ribella a un potere monarchico assoluto a tiranno di nuovo tipo, "votato" e legittimato dal basso. È evidente che Milton sta qui evocando situazioni che aveva ben conosciuto allorché partecipò in ruoli di primissimo piano alla Rivoluzione inglese, ma è altrcsì evidente che sta prefigurando tante situazioni simili a questa che hanno caratterizzato altre rivolte e rivoluzioni. I dirigenti del moto popolare, avendo subìto una sconfitta ma non volendo rinunciare alle loro rivendicazioni, si trovano di fronte alla fatidica domanda: Che fare? Che nel caso dei diavoli riuniti in assemblea corrisponde alla seguente interrogazione: «e ora quale sia/ la decisione migliore, se la guerra aperta / o l'insidia segreta, è questo da discutere» 1 9. La scena che segue è una memorabile rappresentazione di un dibattito politico volto a influenzare il popolo degli insorti, a ottenere il consenso. Milton dà a ognuno dei contendenti una sua propria voce, nonché argomenti interessanti e ben svolti:

16 John M. Stcadman, The Idea of Satan as the Hero of Para disc Lost, «Procccdings of thc Amcrican Philosophical Socicty», 12.0, 4, agosto 1976, p. 2.78. 17 Diana T. Bcnct, Hell, Satan, and the New Politicia,i, in Diana T. Bcnct, Michacl Licb (a cura di), l.iterary Mi/ton. T~ Pretex~ Context, Duqucsnc Univcrsity Prcss, Pittsburgh 1994, p. 90. 18 lbid. 19 Milton, Paradiso perduto cit., p. 53, libro II, vv. 4hJ2..

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

«il Concilio all'Inferno nel Libro II è un dibattito reale tra individui reali; Moloch, Belial, Mammone e Belzebù sono personalità viventi invece che portavoce di carta utili per una strategia particolare» 20 • Questa è certo una potente novità rispetto alle arringhe demagogiche tipiche della storiografia antica, che erano quasi tutte dei monologhi a effetto. Qui no, gli oratori ragionano in modo fine, si confrontano abilmente gli uni con gli altri, e soprattutto, come si addice a un consesso democratico, cercano sempre di sintonizzarsi sugli umori di chi li ascolta, e cioè della folla. Come accade per esempio dopo che ha parlato Mammone, consigliando una strategia che pur essendo attendista nei confronti di Dio intende però realizzare nel nuovo stato il programma repubblicano che era alla base della rivoluzione celeste; nella società appena fondata si dovrà vivere infatti «liberi, senza doverne rendere alcun conto, poiché preferiamo / la dura libertà al più facile giogo di un lusso servile» 21 • Come scrive David Quint, Mammone gioca qui il ruolo del «commoner Tersite» 22 , «ponendo una minaccia non alla Monarchia di Dio ma all'ordine sociale in inferno» 2 3. È per questo che Belzebù si preoccupa per «l'applauso che si udì / Quando Mammone terminò il discorso» 2 4: si accorge che chi ha appena parlato mette a rischio il progetto coltivato da lui e Satana, un progetto che mira a contenere le spinte troppo democratiche del popolo dei diavoli. A quel punto Belzebù prende la parola, e nel farlo «svolge il ruolo di Ulisse allorché rigetta le posizioni di T ersite» 2.5. Lo fa però secondo modalità diversissime: dapprima accoglie il punto di vista di Mammone, anche perché si è accorto che «a questo il voto popolare/ inclina» 2 ' , e dunque rassicura tutti dichiarando che «non avremo alcun bisogno I di spedizioni azzardate per invadere il Ciclo le cui mura/ alte non temono l'assalto» 2 7, ma subito dopo propone comunque una controffensiva, anche se non frontale: «perché non Andrcw Milncr, John Mi/ton and the "English Revolution. A Study it, the Sociology of Uterature, Macmillan Prcss, London 1981, p. 153. 11 Milton, Paradiso perduto cit., p. 65, libro Il, vv. 2.55-2.57. 2.2. David Quint, lnside Paradisc Lost: Reading the Designs of Milton's Epic, Princcton Univcrsity Prcss, Princcton 2.014, p. 50. 2..3 lvi, pp. 48-49. 2.4 Milton, Paradiso perduto cit., pp. 65-67, libro Il, vv. 2.90-2.91. 2.s Quint, lnside Paradisc Lost: Readitig the Designs of Milton's Epic cit., p. 49. 16 Milton, Paradiso perduto cit., p. 67, libro Il, vv. 314-315. 17 Ivi, p. 69, libro Il, vv. 346-348. 20

1.3. IL

PARADISO PERDUTO DI MILTON

49

pensare a un'impresa più facile?» 28 • Che sarebbe poi quella di rovinare i piani di Dio, tentando e corrompendo Adamo ed Eva. Evade in questo modo le istanze democratiche relative alla politica interna e sposta l'attenzione su di un'impresa che deve svolgersi "all'estero". Questo piano ottiene il suffragio di tutti. Diversamente dal suo modello greco, Ulisse, qui dunque Belzebù fa qualcosa d'altro: mette in scena lo sforzo di un potere nuovo, nato da un movimento popolare, di giustificarsi in un altro modo, alternativo a quello monarchico, e cioè attraverso una legittimazione proveniente dal basso, dal popolo (che nel Paradiso perduto, come nel caso della rivoluzione cromwelliana è eminentemente un popolo di soldati). Infatti anche se Satana è il capo naturale della nuova nazione deve ratificare questa sua posizione con il voto plebiscitario dell'assemblea, se non altro per distinguersi dal potere monarchico contro cui si è appena ribellato in nome di valori repubblicani. E infatti, rivolgendosi ai suoi compagni, dice che tra loro c'è «unione, e ferma fede e consenso più ampio/ di quanto accada in cielo» 2 9, e con questo spirito li sprona a parlare liberamente: «chiunque abbia consigli può parlare»3°. E tuttavia Milton ci mostra anche che il consenso che le nuove élites cercano e ottengono si basa sulla manipolazione dell'opinione popolare. Allorché infatti Belzebù convince l'assemblea circa la necessità di spostare altrove il fronte di una guerra che si trasformerà in guerriglia ottiene sì l'approvazione universale ( «votarono unanimi / il loro assenso»3 1 ) ma l'autore con un suo commento ci avverte che in effetti dietro la proposta c'è una strategia che Belzebù aveva in segreto concordato con Satana: «così Belzebù I espose il suo diabolico consiglio, già progettato da Satana»3 2 • Perciò quando l'oratore riprende il suo discorso e si compiace che l'assemblea abbia accolto la sua mozione, percepiamo che quello che presenta come l'esito di una decisione unanime e libera è in realtà il risultato di una circuizione caratteristica di certe manovre demagogiche: «avete ben giudicato, avete ben concluso questo lungo/ dibattito, sinodo degli dèi, e pari

18

lbid., v. 344. p. 53, v. 36. 3o lbid., v. 43. 3' Jvi, p. 71, vv. 387-388. 32 Ibid., vv. 379-380. 1

9 lvi,

50

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

a ciò che siete avete/ deciso grandi cose»33. Ci appare altresì come una grande trovata quella concepita da Belzebù nel momento in cui fa presente agli astanti che per raggiungere la terra e portarvi la guerra occorre che qualcuno si getti nell'abisso che separa l'Inferno dal paradiso terrestre: «ma chi dovremo inviare, innanzitutto, / [... ] Chi tenterà con il piede vagante/ l'abisso oscuro infinito senza fondo»34. A quel punto tutti i diavoli tacciono, presi da un inconfessabile terrore. È allora che Satana, dando prova di uno straordinario senso del colpo di scena, si fa avanti e si auto-propone: Di questo trono, [... ] io non potrei considerarmi degno se quanto consiglio e giudico di pubblico vantaggio dovesse trattenermi dall'affrontarlo solo perché l'impresa si presenta difficile e rischiosa. Perché una volta assunti questi segni della regalità cd avere accettato di regnare, come potrei rifiutare di accettare il rischio al pari dell'onore sempre riconosciuto a colui che rcgna?H

Non c'è dubbio che Satana, diversamente dai monarchi ereditari, qui si guadagna sul campo il titolo di capo dell'appena nata nazione, ma è altresì indubbio che non c'è niente di spontaneo, che tutto è stato concordato al fine di ottenere una investitura definitiva. A questo punto la metamorfosi del ribelle in monarca e dei rivoluzionari in sudditi è avvenuta: «con reverenza solenne/ di fronte a lui umilmente si inchinarono / come di fonte a un dio, celebrandolo pari / al più Alto Signore del cielo»3 6• Come ha scritto William H. Lavelle, «nel cercare di innalzarsi al livello del Padre, egli deve emularlo in alcuni aspetti, diventando così ciò che egli odia e perpetuando il sistema che egli puntava a distruggere» 37 . È altamente probabile che Milton volesse criticare certe contraddizioni e involuzioni della "sua" rivoluzione, ma è certo che così facendo ci ha fornito un paradigma per comprendere le metamorfosi autoritarie e demagogiche di tante altre rivoluzioni successive. 33

lbid., vv. 390-392. vv. 403-405. 35 lvi, P· 73, vv. 44 5-4 54· 36 lvi, P· 75, vv. 477-479. 37Wilfiam H. Lavelie, Revolutionary Satan: A Reevaluation ofthe Devifs Piace in Paradisc Lost, A Thcsis Prcscntcd to The Honors Tutorial College Ohio Univcrsity, aprile 2.015, p. 78. 34 lbid.,

1.4. Galileo e il tentativo fallito di vincere nei cieli una rivoluzione perduta in terra

Dopo il trionfo della contro-rivoIuzione e cioè della Controriforma, in Italia l'idea di un cambiamento sociale e politico diventò tabù, e però prima che il sipario cadesse del tutto, ci fu il tempo perché fosse abbozzata, e anzi avviata, una straordinaria rivoluzione culturale, che presto venne anch'essa repressa, trasformandosi nell'ennesima occasione mancata italiana. Sto naturalmente parlando della rivoluzione scientifica promossa da Galileo Galilei. Di questa vicenda, come è noto, non abbiamo solo testimonianze fattuali ma anche e più che mai letterarie, se è vero che i testi composti da Galilei ci raccontano questo evento in modo letterariamente memorabile. È dunque appoggiandomi su questi documenti che proverò a dare una lettura di questa rivoluzione avviata e drammaticamente interrotta. Si obietterà che, in questo caso, non si trattò di una rivoluzione politica o sociale e che non fu mai questione di un qualche coinvolgimento del popolo, ma in realtà tale mancato coinvolgimento è esso stesso significativo per il discorso che sto qui svolgendo, e basti pensare a come Bertolt Brecht nella sua Vita di Galileo (19 3 8-19 39) sottolineasse proprio questo aspetto: l'elitismo della rivoluzione scientifica promossa dallo scienziato italiano come causa del suo fallimento. Forse il giudizio brechtiano è anacronistico ma è pur vero che altrove si stabilì un nesso operativo tra scienza e rivoluzione, o almeno è questo che pensano certi storici, come per esempio Christopher Hill che nel suo classico lntellectual Origins of the English Revolution scrive: «la guerra civile fu largamente combattuta dai puritani, con l'utile supporto degli scienziati» 1 • Essi infatti «contribuirono a mi-

1

Christophcr Hill, lntellcctual Origi,,s of the P.11glish Rcvolutia11 (1965), Oxford Univcrsity Prcss, Oxford 1997, p.314.

52

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

nare la credenza tradizionale nell'eternità del vecchio ordine difeso dalla Chiesa e dallo Stato, e questo fu un compito immenso, senza la cui realizzazione non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione politica» 2 • Nella vicenda di Galilei questa alleanza non fu nemmeno tentata, e i suoi interlocutori in buona sostanza furono alcuni rappresentanti illuminati dei ceti aristocratici, i quali a loro volta provarono inutilmente a trovare un compromesso con le alte gerarchie ecclesiali. Si pensi al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo ( 163 2) e si noti che, come è stato detto, «lo stile di Galileo è quello di un patrizio umanista»3: i portaparola del suo pensiero, Sagredo e Salviati, sono due nobili veneziani, due uomini curiosi e tolleranti, che non hanno nessun interesse personale nell'aderire al copernicanismo; se lo fanno è per platonico, disinteressato amore di verità. Contro di loro c'è Simplicio che a suo modo rappresenta una figura di specialista pedante che non può non ricordarci certi personaggi di Molière (medici, avvocati, teologi ecc.), comunque estranei all'aristocrazia e in qualche modo ridicolizzati. Galileo dunque condivide con l'altro grande pensatore rivoluzionario, Machiavelli, l'assenza di un interlocutore sociale e culturale in grado di mediare alla società la sua innovativa visione del mondo. Di fatto i due avevano proposto un radicale cambiamento di paradigma nel trattamento e nella rappresentazione di certi fenomeni, un cambiamento che prevedeva il passaggio da un sapere tutto teorico e libresco a un tipo di conoscenza basata su osservazioni metodiche e appassionate del mondo reale. Ma per dare meglio l'idea della portata di questo cambiamento risulta forse ancora più calzante l'analogia tra Galileo, Cervantes e il suo Don Chisciotte. Il cavaliere errante infatti si ostina a voler interpretare la realtà sulla base dei libri che ha letto e che per lui sono sacri: i libri di cavalleria. E Cervantes si diverte a mostrarci come la realtà effettuale non faccia altro che smentire quella ideale rappresentata in quei libri. Anche Don Chisciotte, come Simplicio, insomma prende sul scrio "libri" ormai obsoleti, privi di corrispondenza con la realtà. E entrambi assomigliano a quei teorici della politica con cui polemizza Machiavelli in nome della «verità effettuale»: «mi 1

lvi, p.

2.91.

Rccvcs, The lngenious Get1tleman Galileo Galilei, rcccnsioncajohn Hcilbron, Galileo, «Isis», 102., 3, settembre 2.011, p. 533. 3 Eilccn

1.4.GAULEO

53

è parso più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all'immaginazione di essa»4. Che è poi proprio quella "immaginazione" a cui va dietro Don Chisciotte supponendo che gli uomini vivano «come si dovria vivere» e non «come si vive». Insomma, anche nel caso dell'eroe di Cervantes tra i libri di cavalleria e il libro del mondo, tra parola tradizionale e mondo attuale, s'è aperto un abisso. Ora, in effetti, sia Cervantes che Galileo non attaccano il libro sacro per eccellenza, non procedono cioè confrontando il mondo reale con le descrizioni che ne dà la Bibbia, bensì i libri di cavalleria il primo e i libri aristotelici il secondo, ma certo non possiamo non sentire che quei loro rispettivi attacchi aprono la possibilità di una critica a quell'altro Libro. Non c'è infatti dubbio che Cervantes sta dalla parte del realismo e del razionalismo, e che anticipa dunque gli illuministi allorché deride le credenze in entità soprannaturali del suo eroe. Va da sé d'altra parte che Cervantes non considera queste ultime come falsi bersagli dietro cui sono da intendere le credenze religiose. E questo vale anche per Galileo: Aristotele non era per lui un falso bersaglio dietro cui si celava il libro sacro. È però interessante vedere come a un certo momento la battaglia tra lo scienziato e i suoi accusatori venne combattuta proprio intorno all'idea di libro inteso come metafora, una metafora antica che però nel tempo si era modificata. Dapprima Galileo recuperò il topos del Libro della natura contro i peripatetici -che pretendevano che la verità fosse tutta e solo nei libri di Aristotele - e furono poi i suoi nemici a costringerlo a modulare quel topos e a declinarlo contro i teologi che gli brandirono contro l'altro libro, la Bibbia: Fu nel contesto dei dibattiti del I 6 I 3- I 6 I 5 che il libro invocato contro Galileo cessò di essere umano (il corpus aristotelico) e divenne divino (la Scrittura). Fu il richiamarsi dei teologi alla divina autorità di un libro sovrumano che permise a (o forse costrinse) Galileo di alzare la posta in gioco presentare la filosofia naturale come riguardante un egualmente sovrumano e divino Libro della naturas.

4 Machiavelli,

Il principe cit., p. 1 59. it, the Book of Nature: The Supplemental Logie of Galileo •s Realism, «MLN», 118, 3, aprile 2.003, p. 565, disponibilconlinc (www.jstor.org/stabld32.51935). S Mario Biagioli, Stress

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PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

Come si sa, per Galileo i due libri emanavano dalla stessa istanza soprannaturale, ma fu da subito evidente che dei due solo il Libro della natura presentava caratteristiche di affidabilità e trasparenza che lo rendevano superiore nei fatti. Sia nel caso di Cervantes che di Galileo si trattò in definitiva di conseguenze impreviste e non volute dei loro discorsi, e però non può non colpirci che a un certo punto nel romanzo di Cervantes ci imbattiamo in una specie di lapsus rivelatore. Allorché, infatti, il curato e il barbiere cercheranno di far rinsavire il cavaliere matto gli diranno che i giganti di cui lui parla e che in effetti popolano i libri di cavalleria non esistono nella realtà. È allora che a Don Chisciotte tocca esplicitare l'analogia tra i due testi: Se i giganti siano esistiti o no, vi sono differenti opinioni - rispose Don Chisciotte -. Ma la Bibbia, che non si scosta mai di una linea dalla verità, ci dimostra che ci furono realmente, perché ci parla di Golia, quell'enorme filisteo alto sette braccia e mezzo, altezza veramente eccezionalé.

Qui, per rintuzzare gli attacchi razionalistici degli amici, Don Chisciotte fa uso dello stesso argomento del cardinal Bcllarmino contro Galileo. Per ricusare l'idea che la terra giri intorno al sole Bcllarmino scriverà infatti: «aggiungo che quello che scrisse: Oritur sol et occidit, et ad locum suum revertitur etc., fu Salomone, [... ] onde non è verisimile che affermasse una cosa che fosse contraria alla verità dimostrata o che si potesse dimostrare» 7. Il sottinteso di cui Cervantes non era consapevole e che altri espliciteranno è che se sono falsi i libri di cavalleria, pieni come sono di enti cd eventi irreali, allora non può che essere falsa anche la Bibbia, che di inverosimiglianze simili è altrettanto piena. Diversamente da Cervantes, Galileo si trova però davanti a una grave impasse: se è molto ardito nel denunciare le falsità contenute nei testi aristotelici, non può che dimostrarsi molto più prudente allorché deve confrontarsi con le rappresentazioni cosmologiche della Bibbia, che sono anch'esse incredibili, ma sono più pericolose da smascherare. E la strada prescelta da Galileo per uscire da questa 6 Migucl dc Cervantes, fil ingenioso hidalgo doti Quijote de la Mancha (16o5-161 5 ); trad. it. Doti CJ,isciotte, a cura di Ferdinando Carlcsi, Mondadori, Milano 1991, pp. 603-604. 7 Robcrto Bcllarmino, Lettera a Paolo Foscarini, 12. aprile 1615, in Galileo Galilei, Le Opere di Galileo Galilei, voi. XII, Barbera, Firenze 1934, p. 172..

1.4.GAULEO

55

impasse, come è noto, sarà il dover supporre che i testi biblici furono scritti in chiave cifrata e cioè figurale, per «accomodarsi alla capacità de' popoli rozzi e indisciplinati», e cioè incapaci di comprendere ragionamenti troppo astratti. Si prenda anche solo questo passaggio tratto dalla Lettera a Padre Benedetto Castelli (1613): Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all'incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti 8 •

Galileo sta negoziando con i suoi avversari e non reclama una superiorità delle proposizioni fisico-matematiche, ma certo reclama per esse una maggiore certezza: mentre infatti su queste non c'è da discutere, su (alcune) proposizioni delle Scritture si può e si deve procedere a degli adeguamenti per farle concordare con le prime. In altre parole, siccome non ci possono essere verità confliggenti tra loro e siccome le verità naturali sono tassative, «dimostrate», sono le altre verità, quelle «adombrate» nelle affermazioni bibliche che (in certi casi) possono e anzi devono essere discusse e riviste. Si badi: Galileo non si propone per principio di discutere quelle verità, ma è come se il suo discorso lo spingesse obtorto collo a farlo. Se, dunque, è del tutto lecito dire che Galileo fu di fatto un rivoluzionario, occorre subito aggiungere che fu un rivoluzionario controvoglia. Avrebbe voluto trovare una soluzione di compromesso che gli permettesse di svolgere la sua attività di scienziato ali' ombra di potenti mecenati, e furono i rappresentanti della Chiesa che in definitiva non accettarono quella transazione. Furono loro che perciò trasformarono un discorso che intendeva restare per pochi e inoffensivo sul piano ideologico e sociale in un discorso pericoloso, sovversivo. Con il senno del poi si può affermare che in questo le autorità ecclesiastiche sbagliarono, ma si può anche dire che capirono meglio del loro interlocutore le implicazioni ultime di quelle sue idee. D'altra parte, che Galileo fosse in qualche modo consapevole che dalla diffusione delle sue idee po8 Galileo Galilei, Lettera al Padre Betzedetto OJstelli, 2.1 dicembre 1613, in Id., Le Opere di Galileo Galilei, voi. V, Barbera, Firenze 1932., p. 2.82.

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tevano derivare conseguenze imprevedibili ce lo conferma la sua convinzione tante volte ribadita che «il vero» non è per il «volgo», ma solo «per quei pochi che meritano d'esser separati dalla plebe»9. Agli altri è giusto continuare a far credere le verità apparenti della Bibbia. Si profila qui un grande tema su cui ritorneremo spesso - la desiderabilità o meno di coinvolgere il popolo in quella che si annunciava essere una rivoluzione culturale senza precedenti. Galileo crede, o vuol (far) credere che le sue teorie non avrebbero un impatto dirompente, capaci alla lunga di minare l'egemonia spirituale della Chiesa. Ora, come spesso accade, sono i censori a capire meglio la portata e le implicazioni latenti in un testo di cui difensivamente l'autore proclama l'inoffensività. Se dovessimo sintetizzare quale fu la posta in gioco nella controversia che oppose lo scienziato alle autorità ecclesiastiche, diremo che essa riguardava la relazione con la verità, una verità che pur essendo astronomica assunse sempre di più le caratteristiche della verità tout court. Dopo la sconfitta di Galileo divenne infatti necessario negare certe evidenze, allorché esse potevano risultare destabilizzanti e minacciare certi equilibri, ma il prezzo da pagare fu altissimo: la società italiana ebbe da allora sempre più difficoltà a misurarsi con le verità terrestri ancor più che con quelle stellari. È per questo che intendo dare spazio al grande interlocutore di Galileo, il cardinal Bcllarmino, soffermandomi sulla straordinaria lettera scritta in risposta a quella di un amico di Galileo, Paolo Antonio Foscarini, che aveva tentato una mediazione con la Chiesa. Come si vedrà Bellarmino è il primo a provare di disinnescare le potenzialità rivoluzionarie delle scoperte galileiane senza per questo rigettare del tutto la validità di queste ultime. Adoperando da par suo quella retorica gesuitica, fatta tutta di eccezioni e distinzioni, che di lì a poco Pascal avrebbe satireggiato nelle sue Lettere provinciali (1657), il coltissimo cardinale infatti non ricusa in blocco quelle scoperte, ma tenta di ridurne l'impatto cambiandone lo statuto. Leggiamo: Dico che mi pare che P.V. et il signor Galileo facciano prudentemente a contentarsi di parlare ex suppositione e non assolutamente, come io ho sempre creduto che abbia parlato il Copernico. Perché il dire che, supposto che la Terra si muova e il Sole stia fermo, si salvano tutte l'apparenzc meglio che con 9fvi, p. 283.

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1.4.GAULEO

porre gli eccentrici et epicicli è benissimo detto, e non ha pericolo nessuno; e questo basta al mathcmatico: ma volere affermare che realmente il Sole sia nel centro del mondo, e solo si rivolti in sé stesso senza correre dall'oriente ali' occidente, e che la Terra stia nel terzo ciclo e giri con somma velocità intorno al Sole, è cosa molto pericolosa non solo d'irritare tutti i filosofi e thcologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Santc 10•

Quel che qui mi interessa rilevare, ancor prima che il contenuto di pensiero, è il tipo di argomentazione che chi scrive mette in campo. Intanto, è evidente che Bellarmino sente tutta la delicatezza della questione, sente, in altre parole, che non può permettersi di liquidare le teorie di Galileo come del tutto erronee, scandalose e eretiche (come pure vorrebbero altri settori della Chiesa). Infatti non chiede che Galileo receda dalle sue teorie, ma che le dichiari ipotetiche, che rinunci a pretendere che esse descrivano dei fatti, e chiede che lo faccia al fine di «salvare le apparenze», evitando così i «pericoli» che ne deriverebbero per la filosofia, per la teologia e infine per le Sante scritture, e cioè per la Fede. Lo chiede per così dire con garbo ( «facciano prudentemente a contentarsi ... »), ma come non sentire in quel «prudentemente» un'implicita e sinistra minaccia, ribadita più avanti quando scrive «consideri hora lei, con la sua prudenza» (da intendere non solo come prudenza cognitiva, ma anche in riferimento all'incolumità personale). Siccome il cardinale invita lo scienziato a accontentarsi di «parlare ex suppositione e non assolutamente», c'è chi ha parlato della sua lettera come dell'espressione di una più moderna attitudine scientifica rispetto a quella di Galileo, in quanto essa rivelerebbe una migliore comprensione della natura congetturale del copernicanismo 11 • Ma a parte il fatto che così si trascura che subito dopo il cardinale, in modo per niente congetturale, sostiene che la parola delle Sacre scritture è da ritenersi assolutamente veridica anche sul piano scientifico ( «in caso di dubbio non si dcc lasciare la Scrittura Santa»), a mc sembra comunque evidente che questa sua è una mossa difensiva volta appunto a diminuire l'impatto sulle coscienze delle nuove scoperte. Il cardinale non le contesta direttamente, ma chiede, per il bene di tutti, che esse non vengano credute «realmente» 10

Bcllarmino, Lettera a Paolo Foscarinicit., p.

171.

Or. Picrrc Duhcm, To Save the Phenome,,a. An F.ssay on the Idea of Physical Theory {rom Plato to Galileo, Univcrsity of Chicago Pr~ Chicago 1969, in particolare pp. 104-112.. 11

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

bensì proposte come pure escogitazioni mentali ( «e questo basta al mathematico» ). È interessante notare che in quegli stessi anni qualcuno (nella fattispecie Kaspar Schoppe, un protestante poi convertitosi al cattolicesimo) tentò con argomenti simili di salvare dalla censura la teoria machiavellica del potere, e cioè appunto un'altra descrizione della «verità effettuale» che era stata respinta dalla Chiesa come empia. Anche Schoppe infatti formulò la «distinzione tra discorso formulato in una prospettiva assoluta (simpliciter) e discorso formulato in una prospettiva ipotetica (sub condicione) »12 • Schoppe, in altre parole, intendeva dimostrare che le idee espresse nel Principe erano da ritenersi «modi, di per sé cattivi (mala secundum seipsa) ma buoni per salvare la tirannide»; essi, riformula Carlo Ginzburg, «sono da praticare, quindi, non in assoluto (simpliciter) ma solo da chi voglia salvare la tirannide, che di per sé è cattiva (quae secundum se mala est)» 13 • Dunque, suggerisce sempre lo storico, «le discussioni su Machiavelli e su Copernico che si svolgevano a Roma in quegli anni utilizzavano categorie in parte identiche (simpliciter et secundum quid, oppure ex suppositione)» e «si prestavano a usi spregiudicati, volti a fini non convenzionali» 14 : «rivalutare Machiavelli, proteggere le verità delle Bibbia dalle novità dell'astronomia» 15 • In entrambi i casi si trattava di disinnescare una rivoluzione cognitiva (e forse non solo) in corso. Non posso addentrarmi nelle implicazioni epistemologiche delle proposizioni del Bellarmino, qui mi basta dire che di fatto il cardinale propone a Galileo di continuare a coltivare le sue idee, ma rinunciando a volerle riferire alla realtà, e sia pure a una realtà stellare. Gli propone di considerarle alla stregua di pure elucubrazioni mentali e perciò prive di ogni ricaduta pratica. Quello che temeva il cardinale erano infatti le eventuali ripercussioni di quelle idee sulla realtà politica e culturale, e cioè sul primato ideologico della Chiesa. Infatti, continua Bellarmino: Il Concilio prohibisce esporre le scritture contra il commune consenso de' Santi Padri; e se la P.V. vorrà leggere non dico solo li Santi Padri, ma li com-

u.cit. in Ginzburg, Nondimanco. Machiavelli, Pascal cit., p. 117. lvi, 12.0. 1 • lvi, 12.7. 1 .3

ISlvi, 130.

59

1.4.GAULEO

mentarii moderni sopra il Genesi, sopra li Salmi, sopra l'Ecclesiaste, sopra Giosuè trovarà che tutti convengono in esporre ad litteram eh 'il Sole è nel cielo e gira intorno alla Terra con somma velocità e che la Terra è lontanissima dal cielo e sta nel centro del mondo, immobile. Consideri hora lei, con la sua prudenza, se la Chiesa possa sopportare che si dia alle Scritture un senso contrario alli Santi padri et a tutti li espositori greci e latini 1 6 •

Bellarmino non dice mai che Galileo ha torto, bensì si limita a ricordare che il suo eliocentrismo contravviene a una «proibizione» conciliare: il senso delle Scritture è solo quello dato dai Santi padri, i quali appunto hanno certificato sulla base di esse la verità inoppugnabile del geocentrismo. Non si sta dunque discutendo della teoria in sé, della sua attendibilità oggettiva, bensì di quanto essa si discosti da quel che i «commentarii» tradizionali stabiliscono che la Bibbia afferma circa i movimenti delle stelle. Insomma, a essere veramente sotto minaccia, sottintende il cardinale, più che la Bibbia sarebbe il primato della Chiesa, ed è perciò in nome della «prudenza» e delle «apparenze» e non della verità che si invita l'interlocutore a considerare se la Chiesa «possa sopportare» una simile possibilità. Comunque stiano i fatti occorre riportarsi alle sentenze definitive emesse nel tempo dai «Santi Padri». E anzi Bellarmino si spinge anche più avanti, e cioè fino a parlare, sia pur sempre «ex suppositione», della possibile attendibilità dell'eliocentrismo che però, anche se fosse (per assurdo) dimostrato, non invaliderebbe la proibizione a ritenerlo vero: Dico che quando ci fusse vera dimostrazione che il Sole stia nel centro del mondo e la Terra nel terzo cielo, e che il Sole non circonda la Terra, ma la Terra circonda il Sole allhora bisogneria andar con molta considerazione in esplicare le scritture che paiono contrarie, e piuttosto dire che non l'intendiamo che dire che sia falso quello che si dimostra. Ma io non crederò che ci sia tal dimostrazione, fin che non mi sia mostrata: né è l'istesso dimostrare che supposto che il Sole stia nel centro e la Terra nel cielo, si salvino le apparenze, e dimostrare che in verità il Sole stia nel centro e la Terra nel cielo; perché la prima dimostrazione credo che ci possa essere, ma della seconda ho grandissimo dubbio, et in caso di dubbio non si dee lasciare la Scrittura Santa esposta da' Santi Padri 1 7.

16

Bcllarmino, Lettera a Paolo Foscarini cit., p.

17

Ivi, p.

172..

172..

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La lettera con le sue contorsioni argomentative - e se anche ci fosse «vera dimostrazione» «io non crederò» - testimonia della difficoltà di Bellarmino ad affrontare la questione e soprattutto a venirne a capo una volta per tutte. E impressiona la paradossale convergenza del cardinale con lo scienziato, e cioè tra due uomini che pur pensandola diversamente non vorrebbero arrivare a una resa dei conti. Così come Galileo aveva proposto di considerare certe proposizioni bibliche come figurali e non letterali, Bellarmino propone di considerare le enunciazioni galileiane come puramente congetturali e non «assolute». Eppure l'intesa è impossibile, perché di fatto essa non riguarda tanto l'eliocentrismo bensì le pretese della ragione umana rispetto alle verità della fede o a un principio di autorità fondato su di esse. Ed è paradossale pensare che gli illuministi che verranno dopo Galilei, e che in qualche modo svilupperanno le implicazioni rivoluzionarie del suo pensiero, lo faranno proprio attenendosi alla lettera del testo biblico, come pretendeva Bellarmino e come invece Galileo sconsigliava di fare. Essi cioè si concentreranno sul «puro significato delle parole» proprio «perché così vi apparirebbero non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d'ira, di pentimento, d'odio» 18• Come sappiamo, Voltaire e gli altri illuministi si diletteranno a denunciare proprio le «contradizioni» e assurdità di cui abbonda il Vecchio Testamento allorché lo si prenda alla lettera. Con le conseguenze fatali che tutti sappiamo. Bellarmino e Galileo stanno sull'orlo di questo abisso e cercano entrambi di non caderci dentro. Galileo per esempio suggerisce che toccherebbe ai commentatori di interpretare le Scritture in modo tale che, quanto in esse è affermato, non contravvenga a quel che la scienza ha dimostrato: «è ofizio de' saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de' luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri» 1 9. Ma così facendo in effetti Galileo suggerisce sì che le due verità possano convivere e che possa darsi «un rapporto di reciproca illuminazione tra ermeneutica biblica e indagine naturale, ma risolve poi questo rapporto a favore dell'indagine naturale, che una volta conchiusasi nella certez-

18

Galilei, Lettera al Padre Benedetto Castelli cit., p. 2.8 2..

•9 Jvi,

p. 2.83.

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za, può fornire luci a molti passi biblici»2.0. Ma Bellarmino appunto non voleva concedere questo primato alla nuova scienza. In fondo, di una reazione simile a quella del cardinale ci parla Sagredo nel Dialogo, portando un caso che ha quasi il sapore del motto di spirito: Ed accadde quel giorno, che si andava ricercando l'origine e nascimento de i nervi, [... ] e mostrando il notomista come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi a un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico[ ... ] gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine dc i nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere stato alquanto sopra di sé, rispose: "Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d' Aristotile non fussc in contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera" 21 •

Il filosofo (come il cardinale) può anche convincersi che si possa dare «vera dimostrazione» di certe moderne teorie avverse alle teorie antiche, ma non può concedere che bastino tali dimostrazioni a smentire le verità opposte stabilite dalla tradizione consolidata. L'aneddoto illustra insomma una verità psicologica universale: che non sempre i fatti o le osservazioni dei fatti bastano a farci rinunciare alle nostre persuasioni profonde, persuasioni che coincidono con l'integrità e stabilità del nostro mondo. E sono molti i passi nel Dialogo galileiano che testimoniano di questa umana resistenza alle verità disturbanti. Ecco per esempio come Simplicio reagisce a un'ipotesi fatta dai suoi interlocutori che minaccia di essere concludente: «dirci, la prima cosa, di non aver fatta cotale osservazione; secondariamente, dirci di non la credere; dirci poi, nel terzo luogo, che, quando voi me ne accertaste e che dcmostrativamcnte me l'insegnaste, voi fuste un gran dcmonio» 22• Come a dire: se anche voi mi doveste dimostrare una verità contro cui recalcitro con tutto me stesso, ancora dubiterei di quella inoppugnabile dimostrazione pur di non recedere dalle mie inveterate convinzioni ... 10

Paolo Lombardi, La Bibbia contesa. Tra umanesimo e razionalismo, La Nuova Italia, Fircn7.c 1992., p. 2.16. 21 Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del motulo ( 163 2.), Edizioni Studio Tcsi, Pordenone 1988, p. 13 7. 22 Ivi, pp. 198-199.

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A leggere un passo come questo, non può non venire in mente il motto geniale di Lichtenberg commentato da Freud nel suo libro sul motto di spirito: «non solo non credeva agli spiriti ma non ne aveva nemmeno paura» 2 3. E per restare a Freud vale la pena ricordare quanto scrive a proposito del feticista, il quale, una volta scoperta la verità disturbante della castrazione, da una parte ci crede e dall'altra la nega. Scrive Freud: «nella edificazione dello stesso feticcio hanno trovato accesso sia il rinnegamento che il riconoscimento dell'evirazione» 24• Ebbene, anche delle reazioni di Simplicio come delle formulazioni di Bellarmino si potrebbe dire che in esse «hanno trovato accesso sia il rinnegamento che il riconoscimento» delle teorie scientifiche avverse ali'aristotelismo. Con il risultato che mentre non si riesce a rimuovere del tutto la nuova verità (scientifica), ci si costringe a credere alla vecchia verità (religiosa), che però risulta allora degradata, perché di essa a essere salvate sono solo le «apparenze», e perché i motivi per farlo sono solo prudenziali. Insomma, dopo una prima mancata rivoluzione (la Riforma religiosa), l'Italia manca quest'altra rivoluzione, quella scientifica o più generalmente culturale. Non si tratta dunque solo e tanto della sconfitta di un singolo uomo per quanto geniale bensì di un habitus e si direbbe quasi di un impeto mentale, della capacità di prendere coscienza dell'infinità del cosmo senza spaventarsene e anzi volendo indagarla. L'eppur si move che Galileo avrebbe pronunciato tra sé e sé dopo l'abiura è sì un'invenzione di Baretti per il pubblico inglese, essa però ben suggerisce il rassegnato nicodemismo che avrebbe a lungo caratterizzato la nostra vita culturale. D'altra parte, come già dicevo, fu lo stesso Galileo, non sappiamo se per convinzione o spirito tattico, a sottostimare l'impatto destabilizzante del suo discorso. Pur essendo cosciente dell'importanza delle sue ricerche non volle e nemmeno pensò mai che esse potessero risultare sconvolgenti e metterlo davvero in pericolo, come dimostra il suo trasferimento a Firenze dalla più liberale ma meno munifica Venezia. E allora forse non è un caso che a ricordarglielo sia Sim23

Sigmund Freud, Der Witz u,uJ seine Beziehungzum Unbewu{Jten (1905); trad. it. ll motto di spirito e la sua relazione con rinconscio, in Id., Opere, voi. V, a cura di Cesare L. Musatti, Boringhieri, Torino 1972, p. 82.. 24Sigmund Freud, Fetischismus (192.7); trad. it. Feticismo, in Id., Opere, voi. X, a cura di Cesare L. Musatti, Boringhicri, Torino 1978, p. 496.

1.4.GAULEO

plicio e cioè il personaggio più screditato dei tre che dialogano nella sua opera maggiore. Per esempio, a un certo punto Salviati dice che l'intelletto umano «intende alcune [proposizioni matematiche e geometriche] cosI perfettamente, e ne ha cosI assoluta certczza» 2 5 che, pur riconoscendo che «l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piu, perché le sa tutte», dichiara che «di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore» 26 • Non è certo in sé una proposizione eretica, ma è comunque una proposizione fidente nell'eccellenza dell'intelletto umano che viene paragonato, sia pure limitatamente a certe verità, all'intelletto divino, al quale sarebbe inferiore solo per ragioni quantitative non qualitative. Perciò come non capire Simplicio allorché reagisce esclamando: «questo mi pare un parlar molto rcsoluto cd ardito» 2.7. Spetta allora a Salviati dare una risposta sdrammatizzante: «dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione», quando invece «queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d'ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza» 28 • Vuol farci davvero credere Galileo che queste, come tante altre avanzate nei colloqui, «son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità»? O non dovremmo, piuttosto, avvalerci qui come altrove dei suggerimenti freudiani secondo i quali spesso le negazioni sono delle affermazioni nascoste? E infatti Simplicio non si sente per niente rassicurato se altrove può dire, rincarando la dose: «questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in conquasso il ciclo e la Terra e tutto l'universo» 29 • Come sappiamo, quando in un testo letterario eminente si lascia la parola all'avversario, è spesso perché gli si concede anche qualche importante ragione (come accade quando Machiavelli lascia parlare il Ciompo). Nelle intenzioni dell'autore dovrebbe apparire che Simplicio esagera, e parla 2.s Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo cit., p. 26 Ibid. 2 1 Jbid. 28 lvi, p. 131. z.9 lvi, p. 47·

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così solo perché è conformista e chiuso al nuovo, ma nel contesto del libro è evidente che non ha tutti i torti: queste teorie, benché Galileo lo misconosca, tendono davvero alla «sovversion», a «disordinare e mettere in conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo». Sono cioè rivoluzionarie. E d'altra parte a un certo punto Sagredo stesso si dimostra capace di «compatire» Simplicio, e cioè di riconoscere le sue ragioni, che sono poi le ragioni di chi resiste davanti a qualcosa che «minaccia rovina» a tutto un sistema di idee e valori: Sono nel cuore al signor Simplicio, e veggo che e' si sente muovere assai dalla forza di queste pur troppo concludenti ragioni [... ]: «e a chi si ha da ricorrere per definire le nostre controversie, levato che fusse di seggio Aristotile? qual altro autore si ha da seguitare nelle scuole, nelle accademie, nelli studi? [ ... ] adunque si deve desolar quella fabbrica, sotto la quale si ricuoprono tanti viatori? si deve dcstrugger quell'asilo, quel Pritaneo, dove tanto agiatamente si ricoverano tanti studiosi, [... ] dove contro ad ogni nimico assalto in sicurezza si dimora?» lo gli compatisco, non meno che a quel signore che, con gran tempo, con spesa immensa, con l'opera di cento e cento artefici, fabbricò nobilissimo palazzo, e poi lo vegga, per esser stato mal fondato, minacciar rovina, e che [... ] cerchi con catene, puntelli, contrafforti, barbacani e sorgozzoni di riparare alla rovina3°.

In fondo anche di Bellarmino si sarebbe potuto dire che si sentiva «muovere assai dalla forza di queste pur troppo concludenti ragioni», quelle copernicane-galileiane, e che però ciò «lo confondeva e spaventava assai» e lo spingeva a una difesa che inevitabilmente si trasformava in controffensiva. Quello che infatti queste teorie minacciano è, come Sagredo immagina pensi Simplicio, una catastrofe, la «disfatta», la «rovina» incipiente di un «nobilissimo palazzo» che inutilmente ormai si cerca di «puntellare» e «riparare». Ed è evidente che tale edificio non sta solo per la teoria geocentrica, ma per tutto un modo di pensare. E sono molti i passi in cui, dando prova di una straordinaria perspicacia psicologica, Galileo intuisce che la violenza con cui i suoi interlocutori reagiscono non testimonia di una certezza interiore bensì proprio di una loro profonda insicurezza e paura. Lo dimostra questo passo tratto dalla Lettera al Padre Benedetto Castelli:

1.4.GAULEO

Ma se loro [i miei avversari], contenendosi dentro a' termini naturali né producendo altr'arme che le filosofiche, sanno d'essere tanto superiori all'avversario, perché, nel venir poi al congresso, por subito mano a un'arme inevitabile e tremenda [la Santa Inquisizione], che con la sola vista atterrisce ogni più destro ed esperto campione? Ma, s'io devo dir il vero, credo che essi sieno i primi atterriti, e che, sentendosi inabili a potere star forti contro gli assalti dell'avversario, tentino di trovar modo di non se lo lasciar accostare3 1 •

Qui sembra quasi che Galileo echeggi le parole che secondo Kaspar Schoppe Giordano Bruno avrebbe pronunciato nel momento della sua condanna: «maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam»3 2 • E tuttavia, nonostante questa perspicacia, nonostante fosse consapevole della portata «rovinosa» della sua sfida, Galileo pensava che l'accettazione delle sue teorie non avrebbe intaccato le fondamenta del sistema politico-culturale dentro cui viveva, e che le due verità non sarebbero entrate in conflitto, ma avrebbero trovato una composizione. In realtà sembra che lo scienziato italiano sia ancora per molti aspetti un uomo del Rinascimento, un intellettuale convinto che le sue ricerche, anche le più ardite, possano essere sviluppate in un clima cortigiano di mecenatismo e tolleranza. Si spiega anche così la sua sospettosità verso il popolo; egli crede che non è certo alleandosi o rivolgendosi a quello che può sperare di sviluppare il suo grande progetto, ma semmai convincendo i principi di questo mondo. D'altra parte la sua distanza dal popolo o da quello che egli come Machiavelli spesso chiama «volgo» o anche «plebe» si spiega con un'idea di ragione che poi fu anche dei maggiori illuministi francesi (Montesquieu, Voltaire), e che ancora oggi non ha perso del tutto la sua validità, e cioè che la razionalità sia un bene raro, difficile da coltivare, facilissimo da calpestare. E che insomma, come ebbe a dire Fontenelle, «lo spirito umano e il falso simpatizzano in massimo grado. Se avete la verità da dire, farete benissimo ad avvilupparla in favole; piacerà molto di più»33. Dove tra l'altro rintracciamo la 31

Galilei, Lettera al Padre Betredetto (Àstel/i cit., p. 28 5. «Il timore che provate voi a infliggermi questa pena è superiore a quello che provo io a subirla» (Kaspar Schoppc, Lettera a Konrad Rittershausen, 17 febbraio 16oo, citato in Simonetta ~ i (a cura di], Immagitli di Giordatw Bmno 1600-172.5, Procaccio~ Napoli 1996, p. 35). 33 Bcmard le Bovicr dc Fontcncllc, Nouveaux Dialogues des morts (1683), in Id., CF..uvres, voi. I, Brunct, Paris 1752, p. 2.6. 32

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stessa idea di Galileo secondo cui «nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi all'incapacità del volgo», e cioè alla sua simpatia per il «falso». Vale la pena a questo punto operare una piccola digressione e ricordare come Brecht nella sua Vita di Galileo ha invece immaginato che lo scienziato italiano scommettesse sulla naturale propensione del popolo ali'esperimento e alla scoperta: Quando lavoravo nell'Arsenale di Venezia, ogni giorno avevo a che fare con disegnatori, costruttori, meccanici e così via. Da tutti loro ho appreso nuovi modi di fare molte cose. Sono illetterati: seguono l'evidenza dei loro cinque sensi e per lo più non si preoccupano di dove quest'esperienza possa condurli H.

È vero sì che Galileo frequentava l'Arsenale di Venezia, ma per partito preso empirico-materialista Brecht trascura che, se anche Galileo si era avvalso di strumenti messi a punto da artigiani (basti pensare al cannocchiale), non si riduceva certo alla dimensione pragmatica la portata e la carica rivo( uzionaria del suo pensiero, che era anzi un pensiero per molti aspetti altamente teorico. Non bastava insomma per lui vedere i moti stellari, occorreva anche saper proiettare su di essi le figure geometriche, occorreva sa per operare con i numeri. In questo senso la sua nuova scienza era altra cosa rispetto ai saperi artigianali e tecnici. La questione è naturalmente delicata e complessa e trascende il caso Galilei, essa può essere riassunta così: possono le avanguardie intellettuali scambiare le loro conoscenze con quelle elaborate dai "semplici", dal popolo? Si può dare dialogo, intesa tra le parti? Brecht pensa che questa intesa sia possibile e augurabile e perciò si inventa un Galileo fiducioso nella sua possibilità e necessità: La vecchia donna che, la sera prima del viaggio, pone con la sua mano rozza un fascio di fieno in più davanti al mulo; il navigante che, acquistando le provviste, pensa alle bonacce e alle tempeste; il bambino che si ficca in

34 Bcrtolt Brecht, Leben des Galilei (1956); trad. it. Vita di Galileo, a cura di Giuseppina Oncto, Einaudi, Torino 2014, p. 91.

1.4.GAULEO

testa il berretto quando lo hanno convinto che pioverà, tutti costoro sono la mia speranza: perché tutti credono al valore degli argomenti. Sì: io credo alla serena supremazia della ragione tra gli uomini. A lungo andare, non le sanno rcsistere3 s.

È a suo modo una visione utopica, che non risulta del tutto irrealistica perché Brecht la pone originalmente sotto il segno del principio di piacere invece che di quello di realtà: «troppo grande è il potere di seduzione che emana dalla prova pratica; i più cedono subito, e alla lunga tutti. Il pensare è uno dei massimi piaceri concessi al genere umano»3 6• Non solo, Brecht immagina che le ricerche di Galileo avrebbero potuto realisticamente interessare gli strati economicamente più intraprendenti del popolo nel dramma rappresentati dal fonditore Vanni: «noi artieri teniamo dalla vostra. lo dei moti delle stelle non mc n'intendo molto; ma per me voi siete l'uomo che difende la libertà d'insegnare cose nuove»3 7• Ma nella realtà storica non era a questo pubblico che si rivolgeva Galileo bensì a uomini "disinteressati", animati da una curiosità di tipo teorico diversissima da quella che anima Vanni. E più in generale ancora si dovrà dire che il "vero" Galileo si mostra molto meno fiducioso nella possibilità che questo pensiero sia alla portata di chiunque e non richieda invece una capacità di concentrazione e rigore che non è da tutti esercitare. L'esigenza di trasmettere e diffondere la conoscenza è sicuramente sentita da Galileo e impregna di sé la sua scrittura mai «reticente», bensì chiara e cordiale, ma resta che egli diffida della naturale propensione degli ordinary people a «simpatizzare con il vero». E il presupposto di questa sfiducia è che in ultima analisi la verità non è evidente e richiede sempre lo sforzo controintuitivo di andare al di là delle apparenze. Sono molte le prese di posizione di Galileo avverse a un'idea di scienza e di ragione alla portata di tutti. Per esempio: Infinita è la turba dc gli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla [ ... ]. Sì che, per dir quel eh 'io voglio inferire, trattando della scicn7.a che per via di dimostrazione e di discorso umano si può da gli uomini conseguire, io tengo per fermo che quanto più essa participcrà di perfezzionc, tanto minor numero di conclusioni prometterà d'insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà, cd 3S lvi, p. 61. 36 Ibid.

37 Ivi,p. 191.

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in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto minore sarà il numero dc' suoi seguaci: [... ] e gran ventura sarà d'alcuno che, scorto da straordinario lume naturale, si saprà torre da i tenebrosi e confusi labcrinti ne i quali si sarebbe coll'universale andato sempre aggirando e tuttavia più avviluppando. Il giudicar dunque dell'opinioni d'alcuno in materia di filosofia dal numero dc i seguaci, lo tengo poco sicuro3 8 •

Galileo esprime qui un dubbio che a distanza di secoli ancora ci tormenta: i risultati della "scienza" - qui intesi nel senso più ampio possibile - possono diventare un patrimonio collettivo? Per Galileo no, e noi oggi possiamo chiederci se si tratta di un'impossibilità radicale o se l'istruzione e la divulgazione di massa potrà risolvere tale contraddizione. Va da sé che questo nodo sarà centrale per ogni ipotesi di cambiamento sociale. A quanto pare per Galileo poter accedere alla verità è un privilegio riservato a pochi. La sua è una concezione aristocratica della conoscenza ma non nel senso classista del termine, bensì nel senso che la capacità di avvalersi del «lume naturale» è un caso «straordinario» che riguarda «alcuni» e non certo «l'universale». Non c'è dunque disprezzo per il popolo inteso come la massa dei semplici, ma verso qualunque conformismo intellettuale. Resta comunque che uno dei primi e grandi esponenti della Ragione moderna, nel mentre lancia il suo progetto, esprime la sfiducia nella possibilità di socializzare quel nuovo modo di pensare, trasformandolo in una forza sociale capace di cambiare il mondo. Si potrebbe dire che lo scienziato si fa qui erede della distinzione tra doxa ed episteme che viene dai greci antichi, e prevede che la massa si accontenti di ciò che appare mentre le élites intellettuali mirano sempre ad andare oltre le apparenze. Ecco un passo dalla Lettera a Cristina Lorena (161 5): e crcdino pure gli idioti che, sì come quello che gli occhi loro comprendono nel riguardar l'aspetto esterno d'un corpo umano è piccolissima cosa in comparazione de gli ammirandi artifìzi che in esso ritrova un esquisito e diligentissimo anatomista e fìlosofo.3,. 38

Galileo Galilei, Il Saggiatore (162.3), in Id., Le Opere di Galileo Galilei, voi. VI, Barbera, Firenze 1896, p. 2.37. 39 Galilei, Lettera a Cristina Lorena, in Id., Le Opere di Galileo Galilei, Barbera, Firenze 1932., voi. V, cit., p. 32.9.

1.4.GAULEO

E sempre dalla stessa lettera: Che poi della quiete o movimento del Sole e della Terra fosse necessario, per accomodarsi alla capacità popolare, asserirne quello che suonan le parole della Scrittura, l'esperienza ce lo mostra chiaro: poi che anco all'età nostra popolo assai men rozo vien mantenuto nell'istessa opinione[ ... ] né si può pur tentar di rimuoverlo, non scodo capace delle ragioni contrarie, depcndenti da troppo esquisite osservazioni e sottili dimostrazioni, appoggiate sopra astrazioni, che ad esser concepite richieggon troppo gagliarda imaginativa. Per lo che, quando bene appresso i sapienti fusse più che certa e dimostrata la stabilità del Sole e 'l moto della Terra, bisognerebbe ad ogni modo, per mantenersi il credito appresso il numerosissimo volgo, proferire il contrario4°.

Dove tra l'altro si vede anche come lo scienziato sia favorevole a mantenere il popolo nell'ignoranza al fine di «non confonderlo», «rendendolo renitente e contumace nel prestar fede a gli articoli principali e che sono assolutamente de Fide»4 1 • Non solo, occorre che coloro che sanno la verità «proferiscano il contrario» «per mantenersi il credito presso il numerosissimo volgo», il che assomiglia molto a quanto con spirito disincantato Machiavelli consigliava ai principi: «debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella [la religione], come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare, quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali»4 2 • In effetti Galileo pensa che occorre lasciare che il popolo si accontenti delle «semplicissime apparenze», solo che questo non dovrebbe valere per «quegli altri pochi» «sapienti», per i «conoscitori delle cose naturali», per coloro che sono capaci di «esquisite osservazioni e sottili dimostrazioni», nonché di «gagliarda imaginativa»43; per loro il consiglio non vale, e anzi vale quello opposto. Va detto però che Galileo, come Machiavelli, si è su questo punto felicemente contraddetto invece che praticare un qualunque tipo di «scrittura reticente» (per adottare l'espressione di Leo Strauss)44 volta cioè a coprire certe verità disturbanti e pericolose da diffondere.

40 lvi,

p. 33 2..

4' Jvi, p. 333· 42. Machiavelli,

Discorsi sopra la prima decadi Tito Livio cit., p. 2.32.. Lettera a Cristina Lorena cit., p. 3 33. 44 Cfr. Leo Strauss, Persecution and the Art of Writing (19 52.); trad. it. Scrittura e persecuzio,re, a cura di Giuliano Ferrara, Marsilio, Venezia 1990. 43 Galilei,

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Sarebbe infatti questa la colpa maggiore di Machiavelli, secondo Leo Strauss, il teorico della scrittura reticente: Machiavelli proclama trionfalmente una dottrina corruttrice che gli scrittori antichi avevano pensato segretamente, o con il tono di chi dice cose che gli ripugnano. Egli afferma a suo nome cose scandalose che gli scrittori antichi avevano detto attraverso altre voci. Machiavelli soltanto ha osato affermare la cattiva teoria in un libro e a suo proprio nome45.

Qualcosa del genere può essere detto di Galilei, che nel mentre continuava a dire che le nuove scoperte dovevano restare patrimonio di pochissimi dotti poi non ha fatto altro che proclamarle nei suoi scritti, scegliendo di esprimersi in "volgare" invece che in latino, e con uno stile franco, aperto. Certo, i suoi scritti erano comunque letti da pochi, ma resta che anche quando scriveva lettere private il suo "gesto", il suo piglio è sempre quello di chi fa affermazioni dal valore universale, chiare e evidenti, potenzialmente comprensibili da tutti. Ecco dunque che un po' come Machiavelli anche Galileo, nel momento in cui si dichiara favorevole al mantenimento di certe credenze presso il popolo, contemporaneamente le svaluta, proprio perché in fin dei conti le ritiene adatte alla rozzezza intellettuale di quello. E anzi il sottinteso forse più dirompente di questo suo discorso è che la Bibbia era in definitiva un testo {atto per il vulgo, per essere compreso dal vulgo, dai "semplici", mentre la scienza era scienza in quanto non si preoccupava di farsi capire dal popolo, ma stava solo e «gagliardamente» al "puro" vero: «essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli»46• Se dunque esistono due verità è evidente che una delle due accetta dei compromessi con la falsità, se ne fa corrompere, mentre l'altra no, è «inesorabile», e non può mai «trasgredire» ali' obbligo di rispettare le «leggi» della natura. Nella Lettera a Elia Diodati del 1 5 gennaio 16 3 3 Galileo scrive che «il mondo dunque son le opere, e la Scrittura son le parole, del medesimo Dio» e che «la natura» è «ministra d'Iddio inesorabile e .fS Leo Strauss, Thoughts on Machiavelli ( 19 58 ); tra d. it. Pensieri su Machiavelli, a cura di Giuseppe Dc Stefano, Giuffrè, Milano 1970, p. 10. 46 Galilci, Lettera al padre Benedetto Castellicit., p. 2.83.

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immutabile alle opinioni e desiderii humani». E poco dopo conclude: «e se così è, perché doviamo noi (per venir in cognitione delle parti del mondo) cominciar la nostra investigazione dalla parola più tosto che dalle opere di Dio? è forse men nobile et eccellente l'operare che il parlare?» 47 • Qualunque idea o fantasia noi ci facciamo dell'universo, quali che siano le «parole» che le autorità del mondo profferiscano circa la natura e la struttura della realtà (che qui Galileo identifica con «le opere di Dio»), quest'ultima non potrà mai «accomodarsi» a esse, e saranno semmai quelle parole che dovranno cercare di accomodarsi alla «inesorabile» natura, e cioè che dovranno rispettarne i meccanismi intrinseci allorché pretendano di descriverla. La carica rivoluzionaria anche su di un piano latamente politico è implicita ma evidente: su certe questioni l'istanza ultima non sarà mai incarnata da un potere o una volontà umani, ma saranno sempre le evidenze dimostrabili. In altre parole Galileo sta suggerendoci che niente e nessuno potrà mai fare sì che ciò che è non sia, e che ciò che non è sia. Come sappiamo, contro questa verità fino all'ultimo Don Chisciotte ha lottato con le sue deboli forze, ma nessun principe e nessun papa potrà avere più fortuna di lui: Il comandar poi a gli stessi professori d'astronomia, che procurino per lor medesimi di cautelarsi contro alle proprie osservazioni e dimostrazioni [... ] è un comandargli cosa più che impossibile a farsi; perché non solamente se gli comanda che non vcgghino quel che e' vcggono e che non intendino quel che gl'intendono, ma che, cercando, trovino il contrario di quello che gli vien per le mani4 8 •

Sarà poi Pascal nelle Provinciali a esprimere questa verità in un memorabile aforisma, certamente ispirato proprio al caso di Galileo: «tutte le potenze del mondo non possono d'autorità convincere di un punto di fatto, così come cambiarlo; poiché non c'è nulla che possa fare che ciò che è non sia» 49 • Contro il Satana di Tasso, secondo cui la verità la stabilisce chi per ragioni di forza ma non di diritto prevale sull'altro, Galileo e Pascal affermano che ci sono questioni di fatto su cui la forza non può nulla. Sia Galileo che Pascal si richiamano a 47 Galileo Galilei, Lettera a Elia Diodati, 1 5 gennaio 163 3, in Id., Le Opere di Galileo Galilei, voi. XV, Barbera, Firenze 1936, pp. 2.4-25. 48 Galilei, Lettera a Cristina Lorena cit., pp. 3 25-3 26. 49 Blaisc Pascal, Les Provincia/es (1657); trad. it. Le Provinciali, a cura di Carlo Carena, Einaudi, Torino 2008, p. 520.

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realtà e leggi fisiche, ma evidentemente da questi presupposti discenderà poi l'esigenza universalistica di veder riconosciuto il diritto di poter dire ciò che a una singola coscienza appare vero, in qualunque campo accada. E questo si può dire di altre proposizioni galileiane; a un primo livello riguardano una certa categoria di persone, e cioè appunto gli astronomi, ma è chiaro che il pathos che risuona in esse consiste nella difesa del diritto del soggetto di tener fermo a quel che ha scoperto essere vero, e di resistere a qualunque pressione opposta, anche a quella esercitata dallo stesso soggetto allorché volesse chiudere gli occhi davanti a quella scoperta: Se per rimuover dal mondo questa opinione e dottrina bastasse il serrar la bocca a un solo [... ] questo sarebbe facilissimo a farsi; ma il negozio cammina altramente; perché, per eseguire una tal determinazione, sarebbe necessario proibir non solo il libro del Copernico e gli scritti degli altri autori che seguono l'istessa dottrina, ma bisognerebbe interdire tutta la scienza d'astronomia intiera, e più, vietar a gli uomini guardare verso il cieloS 0 •

C'è una grande intensità in questa sfida rivolta a coloro che vorrebbero non solo proibire certi libri, ma «vietar a gli uomini di guardare verso il cielo», e la si ritrova anche altrove: gli aristotelici «non vogliono mai sollevar gli occhi da quelle carte, quasi che questo grande libro del mondo non fosse scritto dalla natura per essere letto da altri, che da Aristotele, e che gl' occhi suoi avessero a vedere per tutta la posterità»51. Ma c'è anche nel fondo di queste proposizioni qualcosa di naturale e tranquillo nel rivendicare che la ricerca della verità ha a che fare con un bisogno quasi corporeo e comunque spontaneo, come è appunto l'atto di guardare verso l'alto. Si sente d'altra parte che l'arditezza di coloro che osano, contro ogni divieto, indagare i moti stellari sta per qualcosa di più ampio. È come se fossimo davanti a un potente effetto di spostamento: la grande curiosità che l'Umanesimo e il Rinascimento avevano rivolto verso l'uomo si è spostata verso l'alto, verso gli astri, una volta che la Controriforma ha censurato le altre indagini. E tuttavia sentiamo che le interrogazioni che Galileo rivolge alle stelle testimoniano di quello stesso im-

so Galilei, Lettera a Cristina Lorena cit., p. 3 28. s• Galileo Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari ( 1613), in Id., Le Opere di Galileo Galilei, voi. V, cit., p. 190.

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peto cognitivo che era riscontrabile nella curiosità che animava per esempio le indagini filologiche di Lorenzo Valla e quelle politiche di Machiavelli. Sentiamo che in entrambi i casi si è trattato di «sollevar gli occhi», di aprirli coraggiosamente alla realtà. Come abbiamo detto, Galileo non ha mai pensato di avviare una battaglia ideologica in nome dei valori, allora inconcepibili, della libertà di pensiero, e tuttavia è vero che sono pochi i pensatori in grado come lui di comunicarci con le loro parole che per pensare occorre coraggio, ma anche che pensare procura piacere, e che questo piacere si moltiplica nel momento in cui viene condiviso e i risultati delle proprie ricerche vengono sottoposti al confronto, a una franca discussione. Leggere Galileo ci trasmette infatti il piacere di ragionare senza vincolarsi a quanto già sapevamo e credevamo; il piacere di considerare i fenomeni da una prospettiva diversa. Non è dunque un caso se ritroviamo nei suoi scritti alcune tra le prime manifestazioni di quelli che poi saranno i procedimenti principali del discorso illuminista, in primis quello dell'estraniamento. Molto spesso infatti Galileo per indurci a cambiare punto di vista ci fa vedere quanto limitato sia il modo con cui per forza d'abitudine spesso guardiamo alle cose. Si consideri questo passo sempre tratto dal Dialogo: SIMP. Perché noi chiaramente vcggiamo e tocchiamo con mano, che tutte le generazioni, mutazioni, etc., che si fanno in Terra, tutte, o mediatamente o immediatamente, sono indrizzate all'uso, al comodo cd al benefizio dell'uomo; per comodo dc gli uomini nascono i cavalli, per nutrimento de' cavalli produce la Terra il fieno, e le nugolc l'adacquano; per comodo e nutrimento dc gli uomini nascono le erbe, le biade, i frutti, le fiere, gli uccelli, i pesci [ ... ]. Or di quale uso potrcbber esser mai al genere umano le generazioni che si facessero nella Luna o in altro pianeta? se già voi non voleste dire che nella Luna ancora fusscro uomini, che godcsscr dc' suoi frutti; pensiero, o favoloso, o cmpioP·.

Simplicio sta dalla parte del geocentrismo, ma sta anche dalla parte dell'antropocentrismo: pensa infatti che tutto l'universo sia stato concepito a vantaggio dell'uomo, mentre la prospettiva copernicana infligge il primo colpo al narcisismo connaturato alla specie umana 53 • s2 Id., Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo cit., pp. 76-77. H Cfr. Sigmund Freud, Eine Schwierigkeit de Psychoanalyse (1917); trad. it. Una difficoltà della psicoanalisi, in Id., Opere, voi. VIII, a cura di Cesare L Musatti, Boringhieri, Torino 1977, pp. 6 57-664.

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Quel che dice Simplicio oggi può sembrarci ridicolo, ma in effetti una prospettiva centrata sull'uomo era stata dominante per secoli, ed ecco che all'improvviso essa ci appare inverosimile e siamo costretti a rivedere tutte le relazioni tra l'uomo e il suo ambiente naturale. D'altra parte ancora un secolo dopo il Pangloss di Voltaire mostrerà d'essere ancorato alla stessa visione, divenuta però ormai degna di aperta ridicolizzazione: «notate che i nasi sono stati fatti per portare occhiali; infatti abbiamo gli occhiali» 54. Altrettanto originale e ritemprante è la visione ante litteram materialista che Galileo propone quando per bocca di Sagredo contesta il pregiudizio aristotelico circa l'incorruttibilità dei corpi celesti. In questo caso Galileo ragiona in modo controfattuale, immaginandosi un mondo «incorruttibile» e distopico, dove tutto è fatto di metallo, cristalli, diamanti, oro, materiali preziosi vari; è inevitabile infatti che per contraccolpo riscopriamo il valore della terra e anzi del «fango», grazie ai quali solo sarebbe possibile poter «piantare in un picciol vaso un gelsomino», il cui supremo valore adesso si staglia come più prezioso di tutte «le gemme, l'argento e l'oro» del mondo: e come non sovviene a questi tali, che quando fussc tanta scarsità della terra quanta è delle gioie o dc i metalli più pregiati, non sarebbe principe alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro carrate di oro per aver solamente tanta terra quanta bastasse per piantare in un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo nascere, crescere e produrre sì belle frondi, fiori così odorosi e sì gentil frutti?SS

Naturalmente in questione qui non è solo la natura (in)corruttibile dei corpi celesti, ma è anche il partito preso che pregia la fissità, l'eternità, la trascendenza, la purezza rispetto alla mutevolezza, al cambiamento, al perituro. C'è già qui in nuce Darwin e la sua polemica contro il fissismo e l'idealismo specista; ma più in generale il passo esprime una visione che a suo modo è già materialista, nemica di ogni separazione tra l'alto e il basso, il sublime e il volgare, che celebra «contro la forza d'inerzia del pregiudizio, l'insostituibilità

54 Voltaire,

OJ,ulide (1759), a cura di Rcné Pomcau, Ni7.ct, Paris 1959, p. 84.

ss Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo cit., p. 74.

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dell'esperienza [... ] e la conseguente imprevedibilità dell'ignoto»s'. E questa disponibilità a pensare pensieri fino ad allora non pensati fa tutt'uno con l'idea che quel che già conosciamo sia poco o quasi niente rispetto a ciò che è conoscibile, senza però che questa consapevolezza significhi che la ricerca è vana, anzi: e chi vuol por termine alli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di sensibile e di scibile? Forse quelli che in altre occasioni confesseranno (e con gran verità) che ea qtul! scimus sunt minima pars eorum q"'1! ignoramus?S7.

Dove però con quest'ultima citazione dall' Ecclesiaste Galileo non sta sminuendo il valore del sapere umano, ma sta semmai suggerendo che si tratta di un sapere processuale, cumulativo, infinitamente anche se lentamente avanzante. In altre parole ancora Galielo qui, senza saperlo e volerlo, sta già perorando la causa del progresso modernamente inteso, un concetto che emerge proprio negli scritti dei primi astronomi moderni, dove viene inteso come operazione collettiva a cui partecipano in tanti nello spazio e nel tempo e il cui destinatario ultimo, anche se mai esplicitato in quanto tale da Galileo, è l'umanità come soggetto collettivo che si autoproduce infinitamente. Ho già detto che l'approccio scientifico di Galileo è profondamente antidemagogico, antipopolare, ma non perciò il suo è un discorso esoterico, perché esso non fa più riferimento a un tipo di conoscenza iniziatica, qual era in fondo quella propugnata anche da intellettuali e filosofi a lui per molti aspetti prossimi - come Bruno e Campanella - ma ancora affezionati a una concezione segreta, "magica" della conoscenza. Se è vero che per Galilei alla conoscenza possono accedere in pochi, è altresì vero che essa si ottiene e si dimostra avvalendosi di mezzi potenzialmente a disposizione di tutti, come rivela un suo passo molto citato: «parmi di scorgere [... ] nel Sarsi ferma credenza che nel filosofare sia necessario appoggiarsi ali'opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, senza l'appoggio di discorso d'un altro, dovesse rimanere sterile ed infeconda», ma «la cosa non sta così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che cons6 Francesco Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi, Torino 1 997,

p.

150.

s7 Galilei, Lettera a Cristina Lorena cit., p. 3 2.0.

PARTE I. IMMAGINI DI RIVOLUZIONI MANCATE IN CIELO E IN TERRA

tinuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne' quali è scritto»5 8 • Ecco dunque che a fronte di qualcuno che «si appoggia al discorso d'un altro», quasi non sapesse pensare autonomamente, abbiamo il gesto ardito di un soggetto che osa sollevare gli occhi verso l'alto, emancipandosi da ogni tutela e subalternità intellettuale. Mentre infatti altri libri sono consultabili da pochi esperti questo libro «continuamente ci sta aperto davanti agli occhi», e cioè davanti agli occhi di tutti, e per essere inteso non richiede delle conoscenze segrete, ma l'apprendimento di una lingua, che per quanto difficile, è pubblica e passibile di essere acquisita da chiunque. Insomma Galilei non si rivolge a nessuno in particolare ma semmai, almeno potenzialmente, a tutti coloro che vorranno cogliere la forte carica di liberazione che caratterizza questa sua invitation all'esplorazione dei cieli, e in definitiva della realtà. Galileo dispera che il «vulgo», il «popolo» possa comprenderlo e farsi carico del suo messaggio, ma non perciò la sua concezione può essere definita in sé aristocratica, come dimostra il potere divulgativo dei suoi scritti, che per essere sempre stringenti e rigorosi sono anche comunicativi, appassionati e coinvolgenti. A distanza di secoli la sua prosa mantiene la sua propria forza e la sua lingua resta un modello per chiunque non ha perso la speranza in élites intellettuali e politiche che sappiano rivolgersi a quante più persone possibili, sempre però chiamandole in causa in quanto singoli soggetti e non en masse. Come dimostra il suo straordinario elogio dei poteri dcli' alfabeto: Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s'immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dicci mila anni? e con qual facilità? con i vari accou..amenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umanes,.

S8 Galilei, 59 Galilci,

Il Saggiatore cit., p. 2.32.. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo cit., p. 133.

Parte seconda Le tre rivoluzioni che cambiarono il mondo e i loro poeti: Goethe, Hugo e Whitman

2.1.

Il Faust di Goethe: l'intellettuale moderno e la Rivoluzione industriale tra critica e nostalgia di popolo

Compio adesso un salto in avanti di più di un secolo e vado a occuparmi del Faust di Goethe, un testo cominciato nel 1772 e pubblicato nella sua interezza nel 18 3 1. Ne voglio parlare però come opera sostanzialmente settecentesca, e cioè come la prima grande opera europea che fa i conti con quel rivolgimento economico, culturale e politico che convenzionalmente chiamiamo Rivoluzione industriale, anche se forse sarebbe più giusto parlare di grande svolta storica che ricomprende in sé anche fenomeni come la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche ecc. Goethe era certo consapevole che il mondo stava mutando radicalmente ma nel momento in cui concepisce il Faust non è ancora in grado di comprendere l'esatta portata di questo mutamento ed è per questo che ne propone un'interpretazione geniale in chiave soprannaturale. Si può parlare con Francesco Orlando di un «soprannaturale di trasposizione» perché trasfigura sul piano fantastico una fenomenologia storica che si presenta agli occhi dello scrittore con delle caratteristiche ancora enigmatiche, e che perciò ben si prestano a tale trasposizione 1 • È in questo modo che va dunque interpretata la risposta che Mefistofele dà allorché Faust gli chiede chi egli sia: «una parte della forza/ che vuole sempre il male e opera sempre il bene» 2 • E un'enunciazione criptica ed è solo dal contesto che possiamo ricavare che Goethe sta alludendo alla potenza negativa della modernità, intesa cioè come una sorta di azione globale che nel mentre crea anche distrugge, e viceversa. Se le epoche pre-moderne erano basate sull'idea della sostanziale continuità di si1 Cfr. Francesco Orlando, Il soprannaturale letterario. Storia, logica e forme, a cura di Stefano Brugnolo, Luciano Pellegrini e Valentina Sturli, Einaudi, Torino 2.017, pp. 152.-158. 2 Johann Wolfgang Goethe, Faust (1831); trad. it. Faust, a cura di Franco Fortini, Mondadori, Milano 1980, p. 103, vv. 1335-1336.

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PARTE Il. LE TRE RIVOLUZIONI CHE CAMBIARONO IL MONDO E I LORO POETI

sterni di produzione, pensiero e esistenza trasmessi di generazione in generazione, da una certa data in poi si affermerà la tendenza a dissolvere le forme di vita tradizionali e a crearne continuamente di nuove (non a caso la parola chiave nel Faust è Augenblick, istante). In questo senso si può dire che Mefistofele «fa il male». Ma il male che fa la modernità, sempre secondo Mefistofele (e Goethe), comporta anche un bene e cioè, con una parola divenuta ormai obsoleta, il progresso. Sarebbero molte le considerazioni che potremmo sviluppare circa la presenza di richiami al nuovo mondo che si stava disegnando (quasi sempre le metafore riferite ai poteri della magia rimandano a macchine e industrie moderne), ma qui voglio privilegiare quegli aspetti che hanno a che fare con la relazione tra élite intellettuale e popolo. Infatti chi altri è Faust, il protagonista del dramma, se non un intellettuale moderno sotto spoglie medioevali? Qualcuno che deve constatare che tra lui e la gente comune dopo l'avvento dell'Illuminismo si è creata un'enorme distanza. Faust patisce questo suo isolamento che lo fa sentire inutile, e desidera che tra intellettuali e popolo si realizzi una nuova intesa sia pure su una base diversa. Ma di questo dispera. Quando lo incontriamo infatti è disperato, deciso ormai a suicidarsi perché sente che i suoi sforzi di scienziato non portano a nulla, se non a escluderlo sempre di più dal mondo, dalla vita. Ma improvvisamente le campane pasquali lo riconnettono con il suo passato, con la sua infanzia e dunque con quelle credenze da cui si è irreversibilmente distaccato ma che continuano a risuonare in lui, smuovendo ricordi: «perché, possenti e miti / voci del cielo, mi cercate nella polvere? / Là suonate dove deboli uomini esitano. / Il messaggio lo intendo ma la fede mi manca: / [... ] eppure quelle voci consuete alla mia infanzia / tornano ancora a richiamarmi in vita»3. Faust è dunque un illuminista a cui «manca la fede» e che però è ancora sensibile alle tradizioni dcli' Ancien Régime, anche se ormai in un modo che non è più ingenuo, ma sentimentale: la Pasqua si è svuotata del significato religioso e gli evoca la resurrezione primaverile della natura. Se le campane hanno quest'effetto è perché per lui la festa pasquale è soprattutto una festa popolare, a cui per consuetudine tutti partecipano.

2..1. IL 1-"AUST DI GOETHE

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E infatti quando insieme al suo assistente Wagner camminerà tra la gente che festeggia in modo tutt'altro che religioso la Pasqua, celebrerà proprio questo aspetto della festa. Insomma anche Faust proviene da quel piccolo mondo feudal-patriarcale, ma se ne è emancipato, eppure una parte di lui lo rimpiange ancora. Subito dopo infatti Faust si immerge nella festa popolare che lo fa sentire vivo e di nuovo felice, perché parte di una comunità, di una Gesellschaft, per dirla con Ferdinand Tonnies4: «Odo già il brusio del borgo. / Qui è paradiso vero del popolo, / felici e contenti tutti quanti. / Qui sono uomo. Qui posso esserlo»5. Questa dell'isolamento dell'intellettuale e del suo desiderio di riconnettersi con la società è tema fortemente tedesco ma è presente anche nella letteratura italiana. Ne dovremo riparlare, ma tanto per capirci mi basta evocare certe immagini in cui Leopardi canta con struggimento alcuni momenti di festa e comunità da cui lui si sente emarginato: «I fanciulli gridando / Su la piazzuola in frotta, / E qua e là saltando, / Fanno un lieto romore» 6• È evidente che in questi casi Leopardi, che pure altre volte ha espresso il suo fastidio di intellettuale moderno e cosmopolita per «questo I Natio borgo selvaggio», e per «una gente/ Zotica, vii» per la quale «argomento di riso e di trastullo, I Son dottrina e saper; che m'odia e fugge» 7, ci può parlare di questo stesso mondo in una chiave affettuosamente nostalgica, e di sé come di qualcuno che da quella comunità si sente escluso. Se vogliamo la solitudine dell'intellettuale italiano rispetto al popolo è anche maggiore di quella di cui soffre il suo omologo tedesco. Quest'ultimo può partecipare alla festa e venire accolto dalla gente: «da parte sua è bello, signor dottore, che / oggi lei non ci disdegni / e che un sapiente come lei / vada così tra la folla del popolo» 8• Al di là delle differenze c'è una questione di carattere più generale. Il punto è questo: prima dell'avvento dell'Illuminismo tutta la popolazione europea, qualunque fosse il suo livello culturale, si sentiva ed era cristiana, e non si poteva dare questa diffidenza/nostalgia verso il 4 Cfr. Fcrdinand Tonnics, Gemeit,schaft utul Gesellschaft (1887); trad. it. di Giorgio Giordano, Comunità e società, a cura di Maurizio Ricciardi, Latcr1.a, Roma-Bari 2.011. S Goethe, Faust cit., p. 75, w. 937-940. 6 Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio, in Cat1ti (1835), Poesie e prose, voi. I, a cura di Mario Andrea Rigoni, Rolando Damiani e Cesare Galimberti, Mondadori, Milano

1987, p. 91. 7 Giacomo 8

Leopardi, Le ricorda,iu, in Canti cit., pp. 79-80. Goethe, Faust cit., p. 77, w. 981-984.

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popolo, che si è manifestata solo dopo la svolta tardo settecentesca, solo dopo che gli intellettuali si sono distanziati dal resto della popolazione. È questa la frattura originaria e si può ben dire che non si è mai rimarginata. Da allora in poi molti sono stati i tentativi di recuperare, su altre basi, quell'intesa perduta e rimpianta. T aie nostalgia, che caratterizzerà molta poesia europea tra Ottocento e Novecento, ha sia un lato regressivo che un lato progressivo, utopico. Goethe sente con forza che sentimenti e pensieri originali possono manifestarsi solo se ci si isola dalla comunità, come ha fatto Faust, ma contemporaneamente sente che idee e pensieri che non possono essere compresi e assimilati da altri, e restano chiusi in circoli e accademie riservate a pochi, rischiano di essere astratti, pedanti, poco vitali. Com'è appunto Wagner, l'assistente del dottore, che infatti non capisce e è anzi scandalizzato dal desiderio di Faust di immergersi nella vita del popolo, e intende mantenere le distanze tra lui e la «volgare» gente comune: «Ma qui da solo non vorrei confondermi: / non amo la volgarità»9. In fondo quel che Faust pregia è proprio quello che il filosofo Herder aveva chiamato senso di appartenenza a una comunità 10. D'altra parte Goethe ci mostra come questo ritrovato senso di appartenenza si fonda su un equivoco: la gente onora Faust come figlio di un padre che essi credono essere stato un medico competente che avrebbe salvato molti di loro dalla peste. Ma non è vero, Faust sa che il padre era ancora un rozzo praticante: ha piuttosto contribuito a far morire la gente e non a salvarla. Il modo deferente con cui lo onorano e onorano la memoria del padre testimonia ancora di una mentalità subalterna, superstiziosa, che però lui non osa demistificare, rinunciando dunque a portare i lumi delle sue conoscenze tra la gente comune, lasciandola alla sua ignoranza. Resta però che la sua nostalgia di popolo è autentica e si costituisce come un modello per intendere meglio le esperienze di tanti uomini e donne vissuti tra Ottocento e Novecento. Non si può non pensare infatti a tutti coloro che si sono trasferiti in qualche metro9

Ivi, P· 75, vv. 943-944. °Cfr. lsaiah Bcrlin, Two Concepts of Nationalism. An lnterview with lsaiah Berlin, a cura di Nathan Gardcls, «The New York Review of Books», novembre 1991, p. 2.1: «Herder virtualmente inventò l'idea di appartenen1.a. Egli credeva che proprio come le persone ha bisogno di mangiare e bere, godere di sicurezza e libertà di movimento, così esse hanno bisogno di appartenere a un gruppo». 1

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poli o zona centrale del mondo provenendo da qualche «borgo» o comunque da qualche paese o zona periferica, e a come all'euforia per la nuova vita si accompagnasse spesso il ricordo struggente di radici ormai recise. Goethe coglie sul nascere questo sentimento nostalgico ma contemporaneamente ci dimostra che un ritorno indietro non è concepibile e nemmeno augurabile, che un'intesa naturale e ingenua tra intellettuale e popolo è diventata impossibile. Da questo punto di vista però l'episodio più significativo è quello che riguarda Gretchen (che d'ora in poi chiameremo Margherita). Quest'ultima è una fanciulla che appartiene a uno strato di piccolissimi proprietari ( «ci ha lasciato qualcosa, mio padre: / una casetta e un orto fuori porta» 11 ) e può ben definirsi dunque una fanciulla del popolo, e cioè appartenente a una Germania provinciale, culturalmente arretrata. Ebbene, se Faust è affascinato da lei è anche per la sua ingenuità, per il suo essere del tutto immersa in quel suo mondo antiquato. Giustamente Marshall Berman ha scritto che «la loro relazione drammatizzerà il tragico impatto - esplosivo ed implosivo a un tempo - tra un mondo tradizionale e i desideri e la sensibilità moderni» 12• Ecco come lo stesso Faust presenta Margherita: «e in altra parte lei, con i suoi sensi / adolescenti ed ancora assopiti/ nella piccola casa sul breve campo dell'alpe/ e tutte le sue opera domestiche/ nella cerchia del suo piccolo mondo» 13 • Ora, Faust ci appare fin dall'inizio come un libero pensatore, uno che ha rotto con credenze superate, tradizioni e superstizioni. E tuttavia è evidente che il fascino erotico di Margherita non è disgiungibile dalla sua appartenenza a quel mondo da cui egli si è ormai distanziato: MARGHERITA. Esser cortese, per lei, è un'abitudine. Ma chissà quanti di amici ne avrà più intelligenti di me. FAUST. Oh, cara! Credi, quel che è detto intelligenza spesso è piuttosto vanità, limitatezza. MARGHERITA. Come? FAUST. Ah, la semplicità, l'innocenza non sanno che sono e che sacro valore hanno in sé! 1 4 11

Goethe, Faust cit., p. 2.73, w. 3117-3118. Marshall Bcrman, AIIThat 1s Solid Melts into Air. The F.xperience of Modemity (1982.); trad. it. L'esperient.a della modernità, a cura di Valaia Lalli, il Mulino, Bologna 1985, p. 72.. •3 Goethe, Faust cit., p. 2.99, w. 3352.-3355. 1 • lvi, p. 2.71, w. 3097-3103. 12•

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Sempre Berman commenta così questi versi: «Margherita [... ] lo colpisce prima di tutto come simbolo di tutto ciò che di più bello possiede il mondo che egli ha abbandonato e perduto. Resta incantato dalla sua fanciullesca innocenza, dalla sua semplicità di provinciale, dalla sua umiltà cristiana» 15 • Anche in questo caso Goethe è in anticipo sui suoi tempi. Troveremo spesso questo sentimento di nostalgia per un'innocenza perduta: e vorrei fin da subito dire che ad apparirci innocente è sempre il mondo di prima, quasi che ogni guadagno di cultura implicasse sempre una perdita di semplicità e natura, e questa perdita fosse percepita come colpevole. D'altra parte l'attrazione che prova Faust è anche quella di qualcuno che vuole "rovinare" quella innocenza: «lei, la sua pace, dovevo scalzare» 1 ' . A un certo punto Faust si aggira per la stanza di Margherita quando lei non c'è, ed è incantato da quella atmosfera idillico-provinciale, eppure è evidente che è lì per distruggere quell'idillio. Nondimeno Margherita è sì cresciuta dentro quel «piccolo mondo», ma già ne coglie tutta la ristrettezza e la meschinità, altrimenti non si farebbe coinvolgere da Faust, che invece ama proprio perché è un estraneo, uno straniero avvolto dal fascino del metropolitano. Se dunque Faust ha nostalgia del piccolo mondo che Margherita gli rappresenta, lei nella figura del dottore subisce il richiamo del "grande mondo". Lo capiamo quando, entrando nella sua stanza, vi trova i gioielli che Faust vi ha lasciato. Non è affatto insensibile al loro fascino, anzi li indossa e se li prova davanti allo specchio: «una parure di gioielli! Che potrebbe I portarla una dama alle feste più grandi. / Questa collana, come mi starebbe?» 1 7. Più che dimostrarsi vana e compiaciuta, Margherita sta contemplando allo specchio un'altra sé stessa: «una ha subito un'altra aria» 18 • Si tratta di una situazione prototipica: è attraverso gli oggetti e l'aura prestigiosa che li circonda che i sistemi di vita metropolitani hanno destabilizzato le forme di vita tradizionali. Se molti giovani sono accorsi dalle periferie verso i centri del sistema-mondo è proprio per la possibilità di indossare altri "abiti", e cioè di adottare nuove condotte di vita. Margherita è sì soggetta a questo fascino, ma non ne è affatto succube, è anzi consapevole dei •s Bcrman, Il "Faust" di Goethe: la tragedia dell'evoluzione cit., p. 73. •6 Goethe, 17 18

Faust, p. 2.99, v. 3 3 60.

lvi, P· 2.35, vv. 2.792.-2.794. lbid., v. 2.797.

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difetti del sistema: «Bellezza, giovinezza, che servono? / Tutte cose belle buone / ma poi le lasciano da parte / [... ] Corrono tutti ali'oro, tutti tengono all'oro, ecco» 1 9. D'altra parte sempre Berman ha fatto notare che questo contemplarsi allo specchio significa anche una maggiore autoconsapevolezza: Ora, mentre si guarda allo specchio - forse per la prima volta in vita sua - avviene un evento rivoluzionario. Tutt'a un tratto impara a riflettere su di sé, intuisce la possibilità di diventare in qualche modo diversa, di cambiare sé stessa - di evolversi. Se mai aveva sentito suo quel mondo, è certo che d'ora in avanti non le si addirà mai più 20•

Faust è affascinato e soprattutto eccitato da questa trasformazione di lei, ma non si accorge che la maturazione della fanciulla è precaria perché non è munita del minimo fondamento sociale, non ricevendo alcuna comprensione o approvazione che non siano quelle dello stesso Faust. In altre parole l'amore che la ragazza prova per lui non è inserito in nessun contesto, lei vive per lui mentre il resto del mondo ha perso significato, come ben comprende Mefistofele: «tutto le sembra stretto e tetro, I non le esci più di mente, I è pazzamente innamorata» 21 • È proprio questo isolamento di Margherita a perderla: «la mia pace l'ho persa,/ ho un peso dentro il cuore./ Non la ritroverò/ mai e poi mai» 22• Ci imbattiamo qui per la prima volta in una questione che ritornerà durante la mia indagine: l'impatto violento di una coscienza provinciale con le idee e gli stili di vita della metropoli improvvisamente arrivati in loco. T aie impatto è ben compendiato nel passo in cui Margherita descrive l'effetto che le fa Mefistofele, che nel testo rappresenta il lato negativo e distruttivo della modernità: «quando entra dalla porta / dà sempre in giro uno sguardo beffardo / e un po' crudele. / Si vede che non prende a cuore nulla» 2.3. È come se sotto quello sguardo «beffardo» tutto il suo mondo vacillasse dalle fondamenta. Goethe vede bene quali sono le colpe di Faust, e tuttavia non difende mai il «piccolo mondo» di prima come un valore da contrapporre al grande mondo della modernità di cui Faust e Mefistofele 19

Jbid., vv. 2.798-2.800. Bcrman, li "Faust" di Goethe: la tragedia dell'evoluzione cit., p. 7 5. 11 Goethe, Faust cit., p. 2.9 5, vv. 3305-3307. 12 lvi, p. 303, vv. 3402.-3405. 13 lvi, p. 311, vv. 3485-3488. 10

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PARTE Il. LE TRE RIVOLUZIONI CHE CAMBIARONO IL MONDO E I LORO POETI

sono gli emissari. Non a caso per esempio l'autore ci mostra come la voce del maligno evochi proprio i valori della tradizione, della religione per indurre il senso di colpa nella ragazza: «Margherita, com'era diverso/ quando ancora tutta innocente/ qui t'accostavi all'altare, / sillabavi preghiere/ dal tuo libriccino consunto/ e dividevi il cuore/ tra i giochi dell'infanzia e il Signore! »2 4. E d'altra parte le parole che il fratello Valentino rivolge alla sorella poco prima di spirare colpito a morte da Faust, sono dettate da un senso dell'onore angusto, meschino: «io te lo dico in confidenza: / sci una puttana ormai» 2 5. A lui non importa della sorella, ma della sua onorabilità e rispettabilità dentro la piccola cittadina moralista e pettegola. Margherita alla fine si sente indifesa e oppressa, schiacciata dalla Chiesa che con la sua volta e suoi pilastri pare caderle addosso: «soffoco, qui! / I pilastri/ mi serrano, la volta/ mi opprime!. .. Aria!» 26• Ciò che in definitiva la uccide, crollandole addosso e soffocandola, è la tradizione nella sua più tipica espressione: la religione. E infatti ciò che più la intriga e preoccupa è la posizione di Faust rispetto a essa. Anche in questo caso però, come già in quello del popolo che lo onorava come un salvatore, Faust la inganna o comunque le nasconde quel che davvero pensa. Lei gli chiede: «dimmi, ecco: come stai, tu, a religione?», e Faust le risponde: «lascia andare, bambina! Sai che ti voglio bene;/ per coloro che amo darei la vita e il sangue / né la fede e la Chiesa leverei mai a ncssuno» 2 7. In altre parole l'intellettuale si astiene dal turbare la fede in Dio della fanciulla nel momento in cui la seduce mettendola in una situazione socialmente insostenibile. Se è vero che Goethe ci mostra come in questo Faust venga meno alla sua missione di dotto e di educatore, ci mostra anche che il responsabile ultimo della disgrazia di Margherita è il mondo bigotto e retrivo al quale ella appartiene e dal quale da sola non è in grado di emanciparsi nonostante ne percepisca l'angustia. Lo scrittore ci suggerisce insomma che l'ingenuità del popolo, i suoi pregiudizi e le sue diffidenze, devono, non possono non essere rovinate, e che il disincanto delle coscienze passa anche attraverso dei traumi, attraverso la distruzione di quelli che Marx chiamava «mondi che bastavano a 24 lvi,

p. 2.s lvi, p. 26 Ivi, p. 27 Ivi, p.

343, vv. 339, vv. 345, vv. 305, vv.

3776-3782.. 372.9-373o. 3816-382.0. 3415-342.0.

2..1. IL J."AUST DI GOETHE

sé stessi» 28• Tale è infatti il «ruolo altamente rivoluzionario» della borghesia, quello di aver distrutto «tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache» 2 9. È evidente che Margherita è travolta proprio da questo processo "rivoluzionario". Ma il finale del dramma ci mostra che quel che non era stato possibile fino ad allora, e cioè un'intesa tra avanguardie intellettuali e politiche e popolo, forse sarà possibile in altre condizioni. Se infatti alla fine Faust si dice pronto a dire all'attimo «fermati dunque, sei così bello! »3°, non è solo perché sta portando a termine una grande impresa di ingegneria civile (la costruzione di una diga che protegga dalle inondazioni del mare), ma perché grazie a questa impresa egli potrà sentirsi parte attiva di una comunità e anzi di un popolo: «in una terra libera fra un popolo libero esistere! »31 • È evidente che Goethe scommette sulla positività della grande trasformazione in corso e tuttavia fino all'ultimo ce ne mostra le contraddizioni: Filemone e Bauci che con la loro piccola proprietà resistono all'espropriazione avviata da Faust verranno letteralmente fatti fuori da Mefistofele per conto del suo padrone. Loro come Margherita ci dicono che la rivoluzione economica e sociale in corso prevede degli enormi costi umani e che a pagarli saranno i "piccoli".

18 Marx, 19

Engcls, Manifesto del Partito comunista cit., p. 61.

lvi, p. 59.

3°Gocthc, Faust cit., p. 1019, v. 11582.. 31 Ivi, p. 1017, v. 11580.

2.2.

Hugo e Delacroix e la Rivoluzione francese come esperienza sublime e terrifica

Mi propongo in questo capitolo di considerare gli effetti letterari della rivoluzione che ha maggiormente scosso l'immaginario europeo: quella francese. In realtà le grandi opere che hanno rappresentato quegli eventi sono state prodotte solo a distanza di decenni. I traumi come si sa vengono elaborati nel tempo, anche molto dopo il loro svolgimento, e quanto più essi sono stati profondi tanto più tempo ci vuole per elaborarli anche poeticamente. Se le cose stanno così, ebbene credo che Victor Hugo possa ambire tra questi autori a una sorta di primato. È solo tardivamente che scriverà un'opera tutta e solo dedicata a quell'evento, ma sia pure sotto traccia, la rivoluzione è sempre presente. Il segnale maggiore che ci fa comprendere che lui era ossessionato dall'avvenimento è soprattutto la sua visione del popolo, visione che non ha niente a che fare con «un progressismo letterario gonfio di parole e piccolo-borghese nell'animo», come invece crede Asor Rosa. 1 bensì con il tentativo generoso di dare conto di una realtà enorme, incontenibile, a suo modo sublime, da Hugo spesso trasposta in chiave di fenomeni naturali di tipo turbinoso, soprattutto acquatico. Si prenda questa citazione da Les miserables (1862): La sommossa è una specie di tromba dell'atmosfera sociale che si forma bruscamente in certe condizioni di temperatura, e che, nel suo vorticare, sale, corre, tuona, strappa, rade, schiaccia, abbatte, sradica, trascina con sé le grandi e le meschine nature, l'uomo forte e lo spirito debole, i tronchi e la paglia 2 •

Prima ho parlato di sublimità, ma mentre il teorico del sublime moderno, Burke, concepiva con Lucrezio il sublime come un'esperien1 Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Il populismo 11ella letteratura italiana, Samonà e Savclli, Roma 1965, p. 2.3. 1 Victor Hugo, Les misérables (1862.), in Id., CEuvres complètes. Romans, voi. II, a cura dijacqucs Sccbachcr, Laffont, Paris 1985, pp. 82.7-82.8.

2..2.. HUGO E DELACROIX E LA RIVOLUZIONE FRANCESE

za di contemplazione da lontano di cataclismi e catastrofi, Hugo lo concepisce sempre in termini cli coinvolgimento, e anzi di «trascinamento». Non solo, mentre Burke e poi Kant si riferivano a un sublime naturale qui siamo davanti a una sua risemantizzazione in senso storico-politico. Insomma è evidente che dietro l'immagine della tempestasommossa c'è la rivoluzione intesa però come un evento "lungo" che in Francia non ha smesso di ripetersi dal 1789. È perciò giusto dire che Dalla sua prima raccolta poetica nel 182.2., Odes et poésies diverses, fino al suo ultimo romanzo nel 1874, Quatrevingt-treize, tutta l'opera di Hugo appare come una riscrittura quasi ininterrotta della Rivoluzione francese. A ciascuna delle estremità della sua carriera essa s'offre come un enigma allo sguardo del giovane monarchico intransigente come a quello del repubblicano convinto3.

È anche per afferrare con l'immaginazione un fatto così enorme che lo scrittore evoca eventi naturali improvvisi e tempestosi. Ma non per questo accidentali: Hugo infatti, allorché descrive la rivoluzione, la concepisce come un processo impersonale ma dotato cli una sua necessità. Per esempio in Novan'ttltré quando Gauvin, il capo dell'esercito repubblicano cli stanza in Bretagna, sta per salire alla ghigliottina perché colpevole cli aver amnistiato il capo delle forze realiste, mostra cli accettare con serenità il suo destino in quanto esso rientra in un contesto epocale: «perché [la rivoluzione] è una tempesta. Una tempesta sa sempre ciò che essa fa»4. Come a dire che esiste una necessità storico-cosmica che sovrasta le volontà individuali. E tuttavia aver fatto la rivoluzione resta una colpa cd essa va lavata con il sacrificio del colpevole (il rivoluzionario); solo così si può tentare cli procurare una simbolica composizione, una pacificazione, che però Hugo non darà mai come definitivamente compiuta. La domanda a cui cercò di dare una risposta è dunque questa: come fare a rendere un evento che ha così tanto diviso una nazione e un continente un'eredità di tutti, un pensiero condivisibile invece che divisivo e disturbante? Si prendano per esempio questi versi: «chiunque oserà guardarti fissamente, Convenzione, cratere, Etna,

3 Picrrc Laforguc, Hugo. Roma,ltisme et Révolutio11, Prcsscs univcrsitaircs dcFranchc-Comté, Bcsançon 2.001, p. 2.09. 4 Victor Hugo, Quatrevingt-treize (1874), in Id., CEuvres complètes. Roma,,s, voi. III, a cura di jacqucs Sccbachcr, Laffont, Paris 1985, p. 1059.

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PARTE Il. LE TRE RIVOLUZIONI CHE CAMBIARONO IL MONDO E I LORO POETI

abisso fumante, / Chiunque affonderà la forca nella tua brace, / Chiunque sonderà questo pozzo: Novantatré, / sentirà impennarsi e fuggir via il suo spirito. / Quando Mosé vide Dio, la vertigine lo colse» 5 • È evidente che il riferimento è al noto aforisma di La Rochefoucauld là dove si parla dell'impossibilità di regarder fixement il sole e la morté. Al posto della morte c'è adesso la rivoluzione e il sottinteso è che l'impresa è tentabile benché difficile. Così difficile da essere paragonata alle visioni mistiche: «guardare fissamente» la rivoluzione è infatti come guardare in faccia Dio. È probabilmente questa la ragione per cui Hugo, proprio come i mistici, fa largo uso di antitesi e ossimori: tali figure testimoniano appunto del tentativo sempre ricominciato e mai definitivamente compiuto di venire a capo dell'enorme contraddizione, personale e collettiva, costituita dall'evento rivoluzionario. E sta sotto lo stesso segno un topos ricorrente nell'opera di Hugo: la trasformazione e anzi il riscatto del negativo in positivo, si tratti del riscatto di Satana che sta al centro di un poema incompiuto o del sogno di metamorfosare le feci in oro, in ricchezza, che troviamo nel I capitolo del secondo libro della parte quinta dei Miserabili. Ma si direbbe che l'immaginazione di Hugo ruoti tutta intorno alla tensione tra il basso e l'alto, tra forze creative/distruttive provenienti da profondità sociali e psichiche, difficili da dominare, e istanze elevate impegnate volta per volta a respingere o contenere e imbrigliare quelle forze7. E anche se Hugo, un po' come Hegel, ha sempre sognato una sintesi, di fatto tutta la sua opera testimonia che tale sintesi è continuamente posticipata, se non impossibile. Centrale in questa visione dicotomica del mondo è la rappresentazione delle masse. Dobbiamo infatti a Hugo alcune tra le prime grandi descrizioni delle folle moderne, dei loro movimenti e azioni. Sempre, anche dopo l'evoluzione in senso democratico dello scrittore, tali rappresentazioni sottolineeranno sia gli aspetti inquietanti che quelli entusiasmanti delle folle. Si prenda anche soltanto questa S Victor Hugo, Le verso de la page ( 1860), in Id.,