Ricerca del pensiero. 2A 883952231X, 9788839522313

ricerca del pensiero 2 digitale || per maggiori informazioni e per specificare il colore o il modello contattateci subit

1,098 113 33MB

Italian Pages [517] Year 2015

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

Ricerca del pensiero.  2A
 883952231X, 9788839522313

Citation preview

Nicola Abbagnano

Giovanni Fornero

con la collaborazione di Giancarlo Burghi

LA RICERCA DEL PENSIERO Storia, testi e problemi della filosofia

2A Dall’Umanesimo all’empirismo

Indice Il Quattrocento e il cinquecento: l’età umanistico-rinascimentale

UNITà 1 UmaNesImo e RINascImeNTo

4

caPIToLo 1

coordinate storico-sociali e concetti generali 1. Le coordinate storiche generali 2. Il rapporto con il medioevo 3. L’intellettuale laico e i nuovi “luoghi” della cultura 4. Il “pubblico” della cultura rinascimentale 5. Il Rinascimento come “ritorno al principio” 6. L’Umanesimo come aspetto essenziale del Rinascimento I concetti storiografici di Umanesimo e Rinascimento La filosofia dell’Umanesimo

7. La concezione rinascimentale dell’uomo L’uomo come artefice di se stesso L’uomo e Dio L’uomo e la libertà Il rifiuto dell’ascetismo medievale e l’esaltazione della vita attiva, del piacere e del denaro

8. Prospettiva storica e storia nel Rinascimento La scoperta della prospettiva storica Dalla prospettiva storica verso nuovi sviluppi teorici

9. Il naturalismo rinascimentale 10. La laicizzazione e l’autonomizzazione del sapere 11. Il Rinascimento tra medioevo e mondo moderno Medioevo e Rinascimento Rinascimento e civiltà moderna

12. Le principali figure dell’Umanesimo italiano Petrarca Salutati Bruni Valla

13. Umanesimo e Rinascimento in europa Montaigne

maPPa

digitale integrativo PLUs Testo antologico La presunzione umana (Montaigne, Saggi)

II

5 5 6 7 8 8 9 9 10 11 11 12 12 13 14 14 15 15 16 17 17 18 19 19 20 21 21 22 23 24

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Umanesimo e Rinascimento ■■ Rinascimento e Medioevo ■■ Dagli umanisti italiani a Montaigne Esercizi interattivi ■■ Il ritorno al principio ■■ Medioevo, Rinascimento e civiltà moderna

Mappe interattive Esercizi attivi

caPIToLo 2

Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

26 26 27 27 28 29 29 29 31 32 34

1. Il platonismo rinascimentale 2. L’aristotelismo rinascimentale Averroisti e alessandristi Importanza e limiti dell’aristotelismo rinascimentale

3. La disputa fra platonici e aristotelici 4. I protagonisti della disputa Cusano Ficino Pico della Mirandola Pomponazzi

maPPa

36

I TesTI

37

cusano T1 La «dotta ignoranza» Pomponazzi T2 L’immortalità dell’anima non è dimostrabile

37 37 39 39

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Platonismo e aristotelismo nella filosofia rinascimentale ■■ I protagonisti della disputa fra platonici e aristotelici Esercizi interattivi ■■ La disputa fra platonici e aristotelici ■■ Pomponazzi

Laboratorio sul testo ■■ La «dotta ignoranza» (Cusano, La dotta ignoranza) Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testo antologico La specificità dell’uomo (Pico della Mirandola, De hominis dignitate)

caPIToLo 3

Rinascimento e Riforma

41 41 42 42 44 46 46 47 48

1. Il ritorno alle origini del cristianesimo 2. L’età della Riforma Erasmo da Rotterdam Lutero Zwingli Calvino Teologi e mistici della Riforma

3. controriforma e Riforma cattolica maPPa

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ L’età della Riforma Esercizi interattivi ■■ Lutero ■■ Calvino

49

echi del pensiero Le ragioni della pace

50

I TesTI

52

erasmo T1 In che cosa consiste il libero arbitrio Lutero T2 «Il libero arbitrio non è affatto libero»

52 52 53 53

Laboratorio sul testo ■■ «Il libero arbitrio non è affatto libero» (Lutero, De servo arbitrio) Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testi antologici La fede in Dio (Lutero, De libertate christiana)



Contro Aristotele (Lutero, De libertate christiana)

III

Indice

caPIToLo 4

Rinascimento e politica

55 55 55 55 57 58 58 59 59 60 60

1. L’ideale di un rinnovamento politico 2. Lo storicismo Machiavelli Guicciardini Botero

3. Il giusnaturalismo Moro Bodin Gentili e Althusius Grozio

62

maPPa

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Il rinnovamento politico Esercizi interattivi ■■ Machiavelli

Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testi antologici L’abolizione della proprietà privata (Moro, Utopia)



La libertà di religione (Moro, Utopia)

caPIToLo 5

Rinascimento e naturalismo 1. L’interesse per la natura 2. magia e scienze occulte 3. Telesio I principi generali della natura La dottrina dell’uomo

4. Bruno La vita e le opere L’amore per la vita e la religione della natura La natura e l’infinito L’etica “eroica”

5. campanella Fisica, magia e conoscenza L’autocoscienza e la metafisica La politica teologica

63 63 64 66 66 67 68 68 70 71 73 75 75 76 77

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ L’indagine rinascimentale sulla natura ■■ Telesio ■■ Bruno ■■ Campanella Esercizi interattivi ■■ Il naturalismo di Bruno ■■ Il pensiero di Campanella

maPPa

79

I TesTI

80

Telesio T1 Conoscere la natura a partire dai suoi principi Bruno T2 L’universo è uno e infinito

80 80

Laboratorio sul testo ■■ L’universo è uno e infinito (Bruno, De la causa, principio et uno)

81 81

Mappe e schemi interattivi

veRIfIca

83

Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Video In cerca dell’infinito (Incontri ravvicinati del terzo tipo) Testo antologico Lotta all’ignoranza e studio della natura (Campanella, Scelta d’alcune poesie filosofiche) Scheda filmica In cerca dell’infinito (Incontri ravvicinati del terzo tipo) Scheda interdisciplinare Le due anime del Rinascimento: immanenza e trascendenza nelle opere di Leonardo e Michelangelo

IV

Indice

UNITà 2 La RIvoLUZIoNe scIeNTIfIca,GaLILeI e BacoNe

90

caPIToLo 1

La rivoluzione scientifica 1. La nascita della scienza moderna: un evento di importanza capitale 2. Lo schema concettuale Il nuovo modo di vedere la natura Il nuovo modo di concepire la scienza

3. Le premesse storiche, sociali e culturali Scienza e società Scienza e tecnica Scienza e Rinascimento Scienza e scienziati Scienza e idee extrascientifiche

4. Le forze ostili 5. Le conseguenze nel pensiero moderno e contemporaneo 6. La rivoluzione astronomica e la nuova filosofia dell’infinito L’universo degli antichi e dei medievali Dal geocentrismo all’eliocentrismo Dal mondo “chiuso” all’universo “aperto”: da Copernico a Bruno Le nuove tesi cosmologiche e la scienza contemporanea

maPPa

91 91 92 92 93 94 94 94 95 96 97 98 99 100 100 101 104 109

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ La nascita della scienza moderna ■■ La cosmologia dall’età antica a quella moderna Esercizi interattivi ■■ La nascita della scienza moderna ■■ Le premesse della rivoluzione scientifica ■■ Il sistema copernicano ■■ Da Copernico a Bruno

Mappe e schemi interattivi

110

Esercizi attivi

111

digitale integrativo TUToR

digitale integrativo PLUs Testo antologico La critica ad Aristotele (Bruno, De immenso)

caPIToLo 2

Galilei 1. Una vita consacrata alla scienza 2. La battaglia per l’autonomia della scienza e il rifiuto del principio di autorità La polemica contro la Chiesa e contro i teologi La polemica contro gli aristotelici

3. Le scoperte fisiche e astronomiche Gli studi fisici La distruzione della cosmologia aristotelico-tolemaica La scoperta del cannocchiale e la difesa del suo valore scientifico

4. Il metodo della scienza Tra «sensata esperienza» e «necessarie dimostrazioni» Induzione e deduzione Esperienza e verifica

5. metodo e filosofia Presupposti e giustificazioni filosofiche del metodo Il “realismo” di Galilei

6. Il processo Le prime accuse da parte del clero e l’ammonizione del 1616 La condanna del 1633 e l’abiura del copernicanesimo La riabilitazione di Galilei e le odierne prese di posizione della Chiesa cattolica

111 113 113 115 115 116 118 121 122 122 123 125 127 128 129 130 130 132

Sintesi audio ■■ Galileo Galilei ■■ Il metodo galileiano e i suoi presupposti filosofici Esercizi interattivi ■■ Scienza e fede in Galilei ■■ Il metodo galileiano

133

V

Indice

138

Glossario e riepilogo maPPa

139

echi del pensiero L’idea galileiana del mondo come libro

140

I TesTI

142

Dal Saggiatore T1 Il linguaggio del «grandissimo libro» della natura T2 Qualità oggettive e qualità soggettive dei corpi

142 142 144

Il concetto e l’immagine 146

Caravaggio e la rivoluzione scientifica

Laboratorio sul testo ■■ Il linguaggio del «grandissimo libro» della natura (Il Saggiatore)

Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testo con analisi attiva L’esperimento del “gran navilio” (Dialogo sopra i due massimi sistemi) Testo antologico La difesa del copernicanesimo (Dialogo sopra i due massimi sistemi) Approfondimento L’importanza di Galilei nella storia della filosofia

caPIToLo 3

Bacone

148

1. Il profeta della tecnica 2. L’esigenza di interpretare la natura per dominarla La nuova logica della scienza I pregiudizi della mente

3. Il metodo induttivo Le diverse fasi del metodo La teoria della forma I limiti scientifici del metodo baconiano

148 150 150 151 153 153 154 155

Glossario e riepilogo maPPa

156

I TesTI

158

Dai Cogitata et visa T1 Sapere è potere Dal Novum Organum T2 Gli «idoli» della mente

158 158

veRIfIca

162

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Francesco Bacone ■■ Il metodo induttivo Esercizi interattivi ■■ La critica di Bacone ai pregiudizi della mente

157 Laboratorio sul testo ■■ Sapere è potere (Cogitata et visa)

160 160

QUesTIoNe

Mappe e schemi interattivi

La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico? Bruno, Bacone

166

Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testi antologici La Casa di Salomone (Nuova Atlantide) Approfondimento Bacone nella cultura moderna

VI



I tre tipi di tavole (Novum Organum)



Formiche, ragni, api (Novum Organum)

Indice

Tra seicento e settecento: il razionalismo e l’empirismo

UNITà 3 caRTesIo e IL RaZIoNaLIsmo

174

caPIToLo 1

cartesio 1. La vita e gli scritti 2. Il metodo I termini del problema Le regole

3. Il dubbio e il cogito Dal dubbio metodico al dubbio iperbolico La natura del cogito Le discussioni intorno al cogito

4. Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane Le prove dell’esistenza di Dio Le critiche alle prove dell’esistenza di Dio Dal cogito a Dio, da Dio al mondo: Dio come garante dell’evidenza La possibilità dell’errore

5. Il dualismo cartesiano 6. Il mondo fisico e la geometria La geometria analitica La fisica

7. La filosofia pratica La morale “provvisoria” Lo studio delle passioni

175 175 177 177 178 179 180 181 181 183 183 184 185 187 187 188 189 190 192 192 193

Glossario e riepilogo

194

maPPa

197

digitale integrativo TUToR Mappe concettuali ■■ Dal dubbio alla certezza ■■ Il dualismo Schemi audiovisivi ■■ Le regole del metodo ■■ Un metodo matematizzante ■■ La discussione intorno al cogito ■■ Le prove dell’esistenza di Dio ■■ Le due sostanze cartesiane Sintesi audio ■■ Cartesio e il suo metodo ■■ Dal dubbio, a Dio, all’evidenza ■■ Il mondo fisico – La morale e le passioni Esercizi interattivi ■■ Il metodo cartesiano ■■ Il dubbio e il cogito in Cartesio ■■ La fisica cartesiana

echi del pensiero Dal reale al virtuale

198

I TesTI

200

verso un nuovo sapere T1 Il metodo e le sue regole Dal dubbio al cogito T2 Il dubbio metodico T3 Il dubbio iperbolico T4 «Io sono, io esisto» La res cogitans T5 «Ma che cosa, dunque, sono io?»

200 200

Laboratorio sul testo ■■ «Io sono, io esisto» (Meditazioni metafisiche)

202 202 204 205 206 206

VII

Indice

Dalla res cogitans alla res extensa: Dio come garante della verità T6 La necessità di provare l’esistenza di Dio T7 Dio, la verità e l’errore T8 La res extensa e le sue proprietà

208 208 209 211

Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Linea del tempo interattiva Video F. Lomonaco illustra il passaggio dal dubbio al cogito ■ P. Ricoeur illustra il meccanicismo cartesiano Focus Gli studi presso il collegio di La Flèche





La matematica e lo studio della natura (Cartesius)

Il periodo dei viaggi



Il trasferimento in Olanda

Testi con analisi attiva Il dubbio (Discorso sul metodo) ■ La regola dell’evidenza (Discorso sul metodo) ■ La prima prova dell’esistenza di Dio (Meditazioni metafisiche) ■ Tra anima e corpo: la ghiandola pineale (Le passioni dell’anima) ■ La concezione meccanicistica della natura (I principi della filosofia) ■ Il mondo fisico (Discorso sul metodo) ■ La morale provvisoria (Discorso sul metodo) ■ Le passioni e la ragione (Le passioni dell’anima) Approfondimento Cartesio nella filosofia moderna La filosofia e l’arte Realtà e apparenza Scheda filmica La ricerca della certezza (Istantanee - Proof ) Questioni Gli uomini sono esseri animati o semplici macchine? (Cartesio, La Mettrie) ■ La ragione può vincere le passioni? (Cartesio, Spinoza)

caPIToLo 2

Il razionalismo nel seicento 1. La lotta per la ragione nella filosofia del seicento 2. L’occasionalismo Geulincx Malebranche

3. arnauld e la logica di Port-Royal 4. Il platonismo inglese 5. Gassendi 6. Il libertinismo maPPa

veRIfIca

213 213 215 215 216 217 218 218 219

Cusano, Bruno, Cartesio

VIII

Sintesi audio ■■ Il razionalismo nel Seicento Esercizi interattivi ■■ Il razionalismo nel Seicento

220

221

TavoLa RoToNDa La “conquista” dell’infinito

digitale integrativo TUToR

Mappa interattiva

225

Esercizi attivi

Indice

UNITà 4 cRITIcI e coNTINUaToRI DI caRTesIo: PascaL, sPINoZa e LeIBNIZ

232

caPIToLo 1

Pascal

233

1. vita e opere: la difesa del giansenismo 2. Il problema del senso della vita 3. I limiti della mentalità comune: il divertissement, o lo stordimento di sé 4. I limiti del pensiero scientifico: «spirito di geometria» e «spirito di finezza» 5. I limiti della filosofia I filosofi e il problema di Dio I filosofi e la condizione umana I filosofi e i principi pratici

6. La meta-filosofia di Pascal e la “ragionevolezza” del cristianesimo 7. La “scommessa” su Dio 8. Dalla ragione alla fede: il “cuore” e Dio 9. Ricerca umana e grazia divina

233 236 237 238 240 240 241 243 245 247 248 249

Glossario e riepilogo maPPa

251

I TesTI

255

Ragione e cuore T1 «I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano» L’argomento della scommessa T2 Perché è ragionevole scommettere sull’esistenza di Dio

255 255

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Pascal Esercizi interattivi ■■ I limiti del pensiero scientifico in Pascal ■■ La concezione pascaliana dell’uomo ■■ La scommessa pascaliana su Dio

254

257 257

Il concetto e l’immagine

Laboratorio sul testo ■■ Perché è ragionevole scommettere sull’esistenza di Dio (Pensieri)

Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

Il “Dio nascosto” di Pascal nella pittura del Seicento

260

digitale integrativo PLUs Video Il dolore dell’esistenza (Mystic River) Testi antologici Il «divertimento» (Frammenti)



La dignità dell’uomo consiste nel pensare (Frammenti )

Approfondimento Pascal nella cultura moderna Scheda filmica Il dolore dell’esistenza (Mystic River)

IX

Indice

caPIToLo 2

spinoza 1. Un’esistenza appartata e dedita al sapere 2. Le fonti e il “carattere” del sistema 3. La filosofia come catarsi esistenziale e intellettuale 4. La metafisica Il metodo geometrico Il concetto di sostanza Le proprietà della sostanza e la sua unicità Attributi e modi Natura naturante e Natura naturata: Dio come causa del mondo I due problemi fondamentali dello spinozismo La critica alla visione finalistica del mondo e al Dio biblico Il parallelismo tra pensiero ed estensione

Glossario e riepilogo 5. L’etica L’analisi “geometrica” dell’uomo Gli affetti “primari” Gli affetti “secondari” La schiavitù e la libertà dell’uomo La virtù tra ragione ed emozione

6. I generi della conoscenza I primi due generi Il terzo genere e l’«amore intellettuale» di Dio

7. Lo stato, la religione, la libertà di pensiero La teoria dello Stato La religione come obbedienza La libertà di pensiero

262 262 263 266 267 267 268 269 270 272 273 275 277

Sintesi audio ■■ Spinoza – La metafisica ■■ La concezione etica di Spinoza ■■ La conoscenza e la politica in Spinoza Esercizi interattivi ■■ La sostanza ■■ Attributi e modi ■■ Pensiero ed estensione ■■ L’etica in Spinoza ■■ I generi della conoscenza

278 281 281 282 283 285 287 288 288 289 291 291 292 293

Glossario e riepilogo maPPa

293

I TesTI

298

La metafisica T1 Le definizioni fondamentali T2 Il panteismo T3 L’origine e la natura del «pregiudizio» finalistico L’etica e la gnoseologia T4 L’analisi geometrica degli «affetti» T5 L’amore intellettuale di Dio

298 298 300 302

297 Laboratorio sul testo ■■ L’amore intellettuale di Dio (Etica)

306 306 308 Mappe e schemi interattivi

Il concetto e l’immagine Spinoza nella pittura seicentesca

digitale integrativo TUToR

310

Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testo con analisi attiva Il libero arbitrio e la predestinazione (Etica) Testi antologici La virtù (Etica) ■ I tre generi della conoscenza (Etica) ■ La fede come obbedienza e la «libertà di filosofare» (Trattato teologico-politico) ■ La libertà di pensiero e di espressione (Trattato teologico-politico) Approfondimento Spinoza nella cultura moderna Scheda interdisciplinare Passioni e razionalità nel Seicento olandese: da Rembrandt a Vermeer Questione La ragione può vincere le passioni? (Cartesio, Spinoza)

X

Indice

caPIToLo 3

Leibniz 1. Una mente “universale” 2. L’ordine contingente del mondo 3. verità di ragione e verità di fatto 4. La sostanza individuale 5. fisica e metafisica: il concetto di «forza»

Glossario e riepilogo 6. L’universo monadistico Le caratteristiche della monade Materia prima e materia seconda I rapporti tra le monadi e l’«armonia prestabilita» L’innatismo

Glossario e riepilogo 7. Dio e i problemi della «teodicea» Le prove dell’esistenza di Dio I problemi del male e della libertà

Glossario e riepilogo 8. Il calcolo infinitesimale

312 312 313 315 317 317 319 321 321 323 324 325

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Leibniz – L’ordine del mondo ■■ Le monadi ■■ La teodicea Esercizi interattivi ■■ La sostanza individuale ■■ Le monadi e la materia ■■ Le prove dell’esistenza di Dio

326 329 329 330 331 332

maPPa

333

I TesTI

334

metafisica e gnoseologia T1 La nuova definizione della sostanza individuale T2 La contingenza dell’ordine del mondo metafisica e fisica T3 La «forza» L’universo monadistico T4 Le caratteristiche delle monadi T5 La comunicazione tra le monadi e l’armonia prestabilita La teologia T6 Dio: la sua esistenza e le sue caratteristiche T5 Il problema del male

334 334 335

veRIfIca

345

Laboratorio sul testo ■■ La nuova definizione della sostanza individuale (Discorso di metafisica)

337 337 338 338 339 341 342 343

TavoLa RoToNDa Le verità eterne Cartesio, Leibniz, Spinoza

350

TavoLa RoToNDa Dio e lo “scandalo” del male Bayle, Leibniz, Spinoza

356

XI

Indice

QUesTIoNe Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede? Cartesio, Pascal

Mappe e schemi interattivi

362

Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Video La severa leggerezza dell’esistenza (Appuntamento a Belleville) Testi antologici La causa finale (Discorso di metafisica)



Contro l’atomismo e il cartesianesimo (Nuovo sistema della natura)

Approfondimento Leibniz nella filosofia moderna Scheda filmica La severa leggerezza dell’esistenza (Appuntamento a Belleville) Questione Il linguaggio significa idee o comunica sentimenti? (Leibniz, Rousseau)

UNITà 5 RaGIoNe eD esPeRIeNZa NeL PeNsIeRo INGLese: Da HoBBes a HUme

369

caPIToLo 1

Hobbes 1. Un’alternativa a cartesio 2. Ragione e calcolo 3. Il materialismo Il materialismo meccanicistico Il materialismo etico

Glossario e riepilogo 4. La politica La condizione presociale e il diritto di natura La ragione calcolatrice e la legge naturale Lo Stato e l’assolutismo

5. Hobbes nella filosofia moderna

Glossario e riepilogo maPPa

370 370 371 373 373 374 376 377 377 380 382 385

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Hobbes – Razionalismo e materialismo ■■ La politica in Hobbes Esercizi interattivi ■■ Il materialismo di Hobbes ■■ Il pensiero politico di Hobbes

386 389

echi del pensiero

XII

Legge e giustizia

390

I TesTI

392

Il geometrismo giuridico-morale T1 Un nuovo metodo per la filosofia pratica Lo stato di natura T2 La guerra di tutti contro tutti T3 Diritto naturale e leggi di natura La fondazione dello stato T4 Il «Leviatano», ovvero lo Stato come «dio mortale»

392 392 394 394 396 398 398

Laboratorio sul testo ■■ Diritto naturale e leggi di natura (Leviatano)

Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

Indice

digitale integrativo PLUs Video Il prezzo della sicurezza collettiva (Minority Report) Testi antologici Il ragionamento come calcolo (Il corpo)



Dimostrazioni a priori e a posteriori (L’uomo)

Scheda filmica Il prezzo della sicurezza collettiva (Minority Report)

caPIToLo 2

Newton

400

1. Il padre della “fisica classica” 2. Il calcolo delle flussioni 3. La gravitazione universale 4. La dinamica 5. L’ottica 6. Il metodo e le sue regole maPPa

400 401 402 403 404 405

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Newton Esercizi interattivi ■■ Newton Mappa interattiva

406

Esercizi attivi

407

digitale integrativo TUToR

caPIToLo 3

Locke 1. L’empirismo inglese e il suo fondatore Le origini e i caratteri generali dell’empirismo inglese Locke: la vita e le opere

2. Ragione ed esperienza 3. Le idee semplici e la passività della mente 4. L’attività della mente 5. La conoscenza e le sue forme

Glossario e riepilogo 6. La politica Il diritto naturale Stato e libertà

7. Tolleranza e religione

Glossario e riepilogo maPPa

407 407 409 410 411 413 415 417

Sintesi audio ■■ Locke – Esperienza e ragione – Le idee ■■ La conoscenza ■■ La politica Esercizi interattivi ■■ L’attività della mente in Locke ■■ Il pensiero politico di Locke

419 419 421 422 424 425

echi del pensiero Locke e il principio della laicità dello Stato

426

I TesTI

428

La dottrina della conoscenza T1 L’origine delle idee T2 Idee semplici e idee complesse T3 La critica all’idea di sostanza T4 La verità come conformità tra le idee e le cose T5 L’esistenza di noi stessi, di Dio e delle cose

428 428 429 431 433 434

Laboratorio sul testo ■■ La critica all’idea di sostanza (Saggio sull’intelletto umano)

XIII

Indice

L’invito alla tolleranza T6 La tolleranza come «segno distintivo» dell’autentico cristiano T7 La distinzione tra Stato e Chiesa come condizione della tolleranza

436 436 437

Il concetto e l’immagine Lorenzetti e l’”architettura”del bene comune

440

Mappe e schemi interattivi Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testo con analisi attiva Lo stato di natura (Secondo trattato sul governo) Testi antologici Lo scopo della ricerca (Saggio sull’intelletto umano) ■ La passività della mente (Saggio sull’intelletto umano) ■ La critica dell’innatismo (Saggio sull’intelletto umano) ■ Qualità primarie e qualità secondarie (Saggio sull’intelletto umano) ■ La conoscenza intuitiva (Saggio sull’intelletto umano) ■ La conoscenza probabile (Saggio sull’intelletto umano) ■ Il “limite” della tolleranza (Saggio sulla tolleranza) Approfondimento Locke nella filosofia moderna

caPIToLo 4

Berkeley 1. empirismo e religione 2. contro le idee astratte: il nominalismo radicale 3. L’immaterialismo Esse est percipi Gli spiriti finiti e lo Spirito infinito

4. Il secondo Berkeley

Glossario e riepilogo maPPa

444 444 444 445 445 447 449

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Berkeley Esercizi interattivi ■■ Berkeley

450

Mappa interattiva

451

Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Testi antologici Esse est percipi (Trattato sui principi della conoscenza umana) ■ La materia non esiste (Trattato sui principi della conoscenza umana) Approfondimento Berkeley nella filosofia moderna

caPIToLo 5

Hume 1. Dall’empirismo allo scetticismo 2. La “scienza” della natura umana 3. Il percorso della conoscenza Impressioni e idee Il principio di associazione Proposizioni che concernono relazioni tra idee e proposizioni che concernono dati di fatto

XIV

452 452 453 454 454 456 457

digitale integrativo TUToR Sintesi audio ■■ Hume – La conoscenza ■■ La critica alla causalità ■■ La credenza nel mondo esterno e nell’io ■■ Morale, religione, estetica e politica

Indice

L’analisi critica del principio di causalità La credenza nel mondo esterno e nell’identità dell’io

Glossario e riepilogo 4. morale e società 5. Religione e natura umana 6. Le dottrine estetiche 7. La politica

458 460 462 464 466 467 467

Glossario e riepilogo maPPa

468

I TesTI

470

Dalle impressioni alle idee e alle relazioni tra idee T1 Impressioni e idee T2 La negazione delle idee astratte T3 Il ruolo dell’immaginazione

470 470 471

tra libertà e naturalità

La critica del principio di causalità e la «credenza» nel corso uniforme della natura T4 Causalità, contiguità e successione T5 La connessione causale non è necessaria T6 L’abitudine come origine delle leggi causali Il problema dell’unità e dell’identità dell’io T7 L’io come «finzione» La religione T8 La critica alle prove dell’esistenza di Dio

veRIfIca

469

Cartesio, Locke

Laboratorio sul testo ■■ L’io come «finzione» (Trattato sulla natura umana)

472 473 473 475 476 478 478 480 480 482

QUesTIoNe La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?

Esercizi interattivi ■■ La critica di Hume al principio di causalità ■■ Le idee di Hume sulla religione

Mappe e schemi interattivi

488

Esercizi attivi

digitale integrativo PLUs Video La problematicità dell’esperienza sensibile (La cantatrice calva) Testi antologici L’immaginazione (Trattato sulla natura umana) ■ «Relazioni di idee» e «materie di fatto» (Ricerca sull’intelletto umano) ■ La credenza nel mondo esterno (Trattato sulla natura umana) ■ La nostra esistenza in quanto corpi (Trattato sulla natura umana) ■ La convenienza della morale (Trattato sulla natura umana) ■ Le radici della religione (Storia naturale della religione) Approfondimento Hume nella filosofia moderna Questione Il bello è soggettivo o universale? (Voltaire, Hume, Kant)

Indice delle voci dei Glossari

495

Indice dei nomi

497

Referenze bibliografiche dei testi citati nelle rubriche

500

Indice delle illustrazioni e referenze fotografiche

501

XV

I TEMPI E I LUOGHI DELLA FILOSOFIA

Il Quattrocento e il Cinquecento: l’età umanistico-rinascimentale 1400

1450

1500

1550

1600

1650

Cusano (1401-1464) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Ficino (1433-1499) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Pomponazzi (1462-1525) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Pico della>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Mirandola (1463-1494) Erasmo (1466-1536) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Machiavelli (1469-1527) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Copernico (1473-1543) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Moro (1478-1535) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Guicciardini (1483-1540) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Lutero (1483-1546) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Zwingli (1484-1531) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Osiander (1498-1552) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Calvino (1509-1564) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Telesio (1509-1588) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Bodin (1529/30-1596/97) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Montaigne (1533-1592) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Brahe (1546-1601) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> BRUNO (1548-1600) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Gentili (1552-1608) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Althusius (1557-1638) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Bacone (1561-1626) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> GALILEI (1564-1642) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Campanella (1568-1639) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Keplero (1571-1630) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Grozio (1583-1645) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>

2

Moro

Londra Berlino

Rotterdam

Bacone

Erasmo

Eisleben Lutero

Kues (Cusa) Parigi

O C EAN O AT L AN TI C O

Bordeaux Montaigne

Cusano

Ginevra Pomponazzi

Milano

Padova

Venezia

Galilei

Pisa Madrid

Firenze Machiavelli

Ficino Pico

Roma Nola Napoli Bruno Telesio

M A R ME D I T E RR A NE O

Cosenza Stilo Campanella

T

ra il 1453 (caduta dell’Impero d’Oriente) e il 1648 (pace di Westfalia) si assiste alla crisi dell’universalismo politico e religioso proprio della christianitas e alla nascita del mondo moderno. Gli avvenimenti cruciali sono: il sorgere del capitalismo commerciale dopo la crisi del Trecento, le grandi scoperte geografiche, il consolidarsi degli Stati nazionali, la Riforma luterana e le guerre di religione che ne seguono. Nonostante il declino della vecchia Europa sia ormai avviato, in questo periodo i centri di propulsione della cultura si trovano ancora in Francia, in Inghilterra, nella Germania meridionale e, soprattutto, in Italia, dove accanto alle università operano con fervore alcuni nuovi cenacoli di intellettuali denominati “accademie”. A partire dal XV secolo si afferma in Italia la filosofia umanistico-rinascimentale, che in seguito si diffonde negli altri paesi europei: gli umanisti e i filosofi moderni coltivano un interesse inedito per l’uomo, che si traduce nell’impegno per la riforma della religione (Erasmo, Lutero), per il rinnovamento della politica (Machiavelli, Botero, Moro, Bodin, Grozio) e per l’indagine della natura (Telesio, Bruno, Campanella). Depurato dai suoi aspetti magici e vitalistici, il naturalismo rinascimentale anticipa la rivoluzione astronomica e la riflessione sul metodo della conoscenza naturale, che rappresentano il “cuore” della rivoluzione scientifica (Bacone, Galilei).

3

1 UNITÀ

1

CAPITOLO 1

coordinate storico-sociali e concetti generali

CAPITOLO 2 Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

CAPITOLO 3 Rinascimento e Riforma

CAPITOLO 4 Rinascimento e politica

CAPITOLO 5 Rinascimento e naturalismo

4

Umanesimo e Rinascimento Nell’Umanesimo e nel Rinascimento l’organizzazione culturale non spetta più al clero, ma alla borghesia e alla nuova aristocrazia cittadina, le quali promuovono una cultura “laica”, elaborata soprattutto all’interno delle accademie. La parola d’ordine diventa il “ritorno al principio”, cioè alle radici della civiltà occidentale, al fine di trovarvi lo slancio necessario per un nuovo, originale, inizio. La riscoperta dei due maggiori filosofi dell’antichità, Platone e Aristotele, è alla base di due movimenti distinti e in reciproco conflitto. Mentre il platonismo vede nel ritorno a Platone la condizione di una rinascita di tipo religioso, l’aristotelismo considera il ritorno ad Aristotele come il presupposto di una rinascita della libera ricerca razionale. L’imperativo rinascimentale del “ritorno al principio” si traduce, da un lato, nell’opera dei teorici della Riforma protestante, decisi a far riemergere la forza trasformatrice originaria della parola di Dio, e, dall’altro, in quella dei fautori della Riforma cattolica, ossia del tentativo della Chiesa di ritornare alle proprie origini storiche e dottrinali. Alla nuova immagine che l’uomo rinascimentale ha di se stesso si accompagna l’esigenza di un rinnovamento della vita associata, che si manifesta in due tendenze principali: quella dello storicismo, inteso come il ritorno di uno Stato particolare alle proprie origini storiche, e quella del giusnaturalismo, inteso come il tentativo di ricostruire il fondamento universale ed eterno dello Stato in generale. L’interesse dell’uomo del Rinascimento per il mondo naturale si declina lungo due diverse direttive: da una parte la magia, che pretende di dominare la natura grazie a formule e incantesimi; dall’altra la filosofia naturale, che porterà alla nascita della scienza moderna.

caPitoLo 1

Coordinate storico-sociali e concetti generali 1. Le coordinate storiche generali La nascita e lo sviluppo della civiltà rinascimentale del Quattrocento e del Cinquecento coincidono, sul piano storico, con alcuni eventi di grande portata, che segnano il trapasso dall’età medievale a quella moderna: la fioritura delle monarchie europee, le scoperte geografiche, le invenzioni della stampa e della polvere da sparo, la Riforma protestante. Tutti questi fatti, e quelli che ne discendono, trovano le loro maggiori espressioni nella formazione degli Stati sul piano politico e nell’ascesa della borghesia mercantile sul piano economico-sociale. Tramontate definitivamente le istituzioni universalistiche dell’impero e del papato, si configura un nuovo mosaico geo-politico, rappresentato dai regni nazionali in Europa e dagli Stati regionali in Italia. Nei paesi d’Oltralpe il processo di gestazione delle nuove monarchie centralizzate e burocratizzate, già avviato nel Trecento, continua lungo tutto il Quattrocento e produce i suoi risultati più vistosi nel Cinquecento, quando Francia e Spagna, divenute ormai grandi potenze, danno inizio a un duello epocale, che insanguinerà l’Europa fino alla pace di Cateau-Cambrésis (1559). In Italia le varie signorie, sorte dalla crisi dei Comuni, assumono la forma di principati regionali, che, combattendosi aspramente tra loro, impediscono il processo di unificazione della penisola, lasciandola in una condizione di totale frammentazione politica. Dopo la pace di Lodi (1454), il nostro paese conosce un periodo di relativa stabilità, basata su un fragile sistema di equilibri, non privo di scontri locali, tra i suoi maggiori stati: Milano, Venezia, Firenze, Stato della Chiesa, Regno di Napoli. La debolezza politica di un simile bilanciamento di forze fa sì che l’Italia diventi facile preda delle mire espansionistiche della monarchia francese e di quella spagnola. Costretta a subire per decenni invasioni ed egemonie straniere, dopo la pace di Cateau-Cambrésis la penisola italiana diviene in gran parte possesso spagnolo e conosce un lungo periodo di decadenza. sul piano sociale ed economico, i fattori determinanti del nuovo assetto storico sono costituiti dal fenomeno della civiltà urbana e dalla congiunta affermazione di un’economia “aperta”, in contrapposizione all’economia “chiusa” del Medioevo. L’espansione di un’economia mercantile e monetaria, che rappresenta il punto di arrivo di un processo iniziato con le città-stato dei Comuni, è incarnata da una borghesia attiva e industriosa, impegnata

il nuovo assetto politico

La situazione italiana

Le condizioni sociali ed economiche

5

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

nei traffici e tesa al guadagno. Questa nuova aristocrazia cittadina, assai diversa da quella militare e guerriera del Medioevo, nel Quattrocento è particolarmente forte soprattutto in Italia, dove le banche finanziano principi in tutta Europa, mentre Genova, Venezia e Firenze si affermano come grandi poli di egemonia commerciale e finanziaria. Dalla seconda metà del Quattrocento e per tutto il Cinquecento, invece, il commercio e le fortune della borghesia subiscono una battuta d’arresto. La caduta di Costantinopoli prima e le scoperte geografiche poi danno inizio a un progressivo spostamento dell’asse commerciale dal Mediterraneo all’Atlantico. In Europa si formano altri centri di egemonia economica, mentre l’Italia finisce per restare ai margini dei traffici internazionali.

2. Il rapporto con il Medioevo Che il fenomeno del Rinascimento, a cominciare dall’Umanesimo, sia profondamente segnato dal corso storico di cui abbiamo tracciato le linee essenziali e che risulti legato in modo molto stretto alla situazione socio-economica venutasi a creare con il passaggio a un’economia aperta sono circostanze abbastanza note. Infatti, è proprio nell’ambito della nuova civiltà urbano-borghese, fiorita dapprima in Italia, che si verificano le condizioni sociali e mentali atte a favorire, nel Quattrocento, la nascita della nuova cultura umanisticorinascimentale, destinata a diffondersi in seguito nel resto d’Europa. Ma proprio questa connessione non potrebbe significare che il Rinascimento sia cominciato assai prima del Quattrocento, e precisamente con l’avvento dei Comuni, come ritengono i sostenitori della tesi (di cui ci occuperemo più avanti) della “continuità” tra Medioevo e Rinascimento? A ben riflettere, se si accettasse un’interpretazione del genere, si rischierebbe di smarrire completamente la specificità filosofica e storica della cultura rinascimentale nei confronti di quella medievale. La civiltà dei comuni tra presente e passato

La “novità” dell’Umanesimo rinascimentale

6

sebbene nei Comuni si formino ben presto nuovi modi di pensare e nuove scale di valori, che riflettono il dinamismo dei ceti urbani e il loro diverso modo di rapportarsi alla realtà, essi appaiono comunque subordinati alla mentalità religioso-feudale, e di conseguenza incapaci di tradursi in una cultura portatrice di una visione del mondo esplicitamente antitetica rispetto a quella “ufficiale” delle scuole. Anzi, nella civiltà dei Comuni, com’è stato rilevato, si ha spesso una sfasatura oggettiva tra il piano pratico della vita vissuta, che rispecchia il presente, e il piano ideale dei convincimenti teorici ed etici, che richiama il passato. Tant’è vero, ad esempio, che le nuove élite borghesi, pur contravvenendo di fatto ai precetti della Chiesa, soprattutto in merito al denaro e al commercio, si sentono ancora in colpa di fronte alla propria coscienza. E alcune personalità vivono una lotta interiore tra ideali diversi, rimanendo in una sorta di «filosofia da Limbo» (come l’ha definita il critico Luigi Russo), che si colloca a metà strada tra le antiche credenze medievali e la nuova fede mondana nell’uomo. L’Umanesimo rinascimentale rappresenta invece l’esplicita elaborazione di una cultura nuova, che, spezzando ogni compromesso con i vecchi schemi mentali e rispecchiando le differenti esigenze di una civiltà urbana e mercantile giunta a piena maturità, riflette coerentemente, a livello teorico, il mutato atteggiamento dell’uomo di fronte alla vita e al mondo. Figlia di una società radicalmente trasformata a opera delle varie tecniche mercantili, industriali, finanziarie, agricole, urbanistiche, nautiche, idrauliche, militari, politiche ecc., la

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

cultura del Quattrocento cerca per la prima volta di interpretare filosoficamente i propri mutamenti di struttura mediante una nuova immagine globale dell’uomo, più appropriata e più consona alla vita reale. Il sapere tradizionale delle scholae medievali, con i suoi interessi prevalentemente metafisico-religiosi, la sua visione statica dell’uomo, il suo atteggiamento contemplativo di fronte al mondo, appare, infatti, ormai inequivocabilmente incapace di esprimere la nuova coscienza sociale e il suo realistico attaccamento ai problemi dell’aldiquà. Gli umanisti rigettano quindi l’eredità medievale e, cercando modelli culturali più adatti alle proprie esigenze, si rivolgono all’antichità classica, per recuperarne i valori.

3. L’intellettuale laico e i nuovi “luoghi” della cultura Come sappiamo, nel Medioevo e nell’età comunale la cultura si era prevalentemente concentrata nelle università ed era rimasta monopolio pressoché esclusivo della Chiesa e degli ordini religiosi. Adesso, venuta meno la sua potenza politica all’interno degli stati, la Chiesa perde il secolare predominio nell’organizzazione e nella direzione della cultura, la quale passa in mano ai “laici”, ovvero alla borghesia cittadina. Quest’ultima, ricca di interessi e distante da una mentalità puramente “plutocratica”, cioè portata a vedere nel denaro l’unico valore dell’esistenza, apprezza l’arte, il bel parlare, l’eloquenza nello scrivere, la storia ecc. Tant’è vero che, mentre in un primo momento l’umanista appartiene per lo più alla classe dirigente della città e proviene dalle file dei mercanti, dei finanzieri, dei giuristi ecc., in un secondo momento si configura invece come un “professionista della penna”, di varia estrazione sociale e al servizio di un signore. È noto come i principi e i ricchi mercanti di questo periodo facessero a gara nel proporsi come mecenati del sapere e nel concedere protezione e stipendi a letterati, artisti, filosofi e scienziati. Tale atteggiamento era dettato non solo dall’amore per la cultura, ma anche da motivi di prestigio, ossia dal desiderio di esibire “cervelli” capaci di dar lustro e fama al proprio casato, oppure da ragioni pratiche, come la necessità di disporre di uomini in grado di redigere i documenti ufficiali. Questo fa sì che la Firenze dei Medici – epicentro geografico e capitale ideale della rinascita –, la Napoli degli Aragonesi, la Roma dei papi, la Urbino dei Montefeltro, la Ferrara degli Este, la Mantova dei Gonzaga, la Rimini dei Malatesta ecc. divengano vivacissimi centri intellettuali, nei quali si forgia la nuova cultura. Rilevante effetto di questa organizzazione rinascimentale degli studi sono le accademie (sul modello della nota Accademia ateniese e di quelle ellenistiche) e le scuole private di arti liberali. sorgono ad esempio, per citare solo le maggiori, le scuole di Guarino Veronese (13741460), in cui trova la sua più significativa espressione la pedagogia dell’Umanesimo. Fioriscono l’Accademia fiorentina, diretta da Marsilio Ficino (1433-1499) e di tendenza platonica; quella romana, fondata da Giulio Pomponio Leto (1428-1498) e di carattere archeologicoerudito; quella napoletana di Giovanni Pontano (1429-1503), di tendenza letteraria. Nel Cinquecento si svilupperanno nuove accademie letterarie (come quella degli Infiammati a Padova e quella Fiorentina) e filosofiche (come quella di Telesio a Cosenza), mentre nel seicento, come vedremo, sorgeranno le prime accademie scientifiche.

La nuova organizzazione della cultura

Le accademie

7

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

Pur non essendo istituti educativi, ma piuttosto poli di incontro tra quanti coltivano discipline affini, e pur non sostituendo le università come sedi di istruzione superiore, le accademie si pongono come centri di elaborazione dell’alta cultura, contrapponendosi alle università, che restano roccaforti della filosofia scolastica.

4. Il “pubblico” della cultura rinascimentale Ma a chi parlano e a chi si rivolgono le accademie? O, in generale, chi è il “pubblico” destinato a recepire la cultura umanistico-rinascimentale? Una cultura ancora elitaria

il significato della scelta del latino

Una più ampia diffusione del sapere

Molti studiosi hanno sottolineato il carattere elitario di tale cultura, accentuato, soprattutto negli umanisti, dal rifiuto del volgare e dall’uso del latino come lingua del sapere. Questa tesi è senz’altro vera, anche se deve essere opportunamente circoscritta e integrata da alcune osservazioni. Innanzitutto, per quanto riguarda la scelta umanistica del latino, si deve dire che essa rappresenta storicamente un fatto “progressista” e non conservatore. Infatti, se nel Duecento e nel Trecento l’evoluta borghesia comunale, nel tentativo di darsi una propria letteratura, aveva contrapposto il volgare al latino del Medioevo, adesso, respingendo in blocco la civiltà dell’età di mezzo, sente la necessità temporanea di distaccarsi dallo stesso volgare, e non certo per tornare al latino del Medioevo, ma per far rivivere l’elegante latino classico in cui si era espressa la civiltà di Roma e in cui era stata tradotta parte della civiltà greca. La scelta di un certo strumento linguistico a scapito di un altro assume così il significato filosofico di opzione a favore di una certa cultura e di una certa immagine dell’uomo. si tenga anche presente, sempre per ciò che riguarda la lingua, che l’uso del latino come idioma internazionale delle persone istruite, in un’Europa ormai ridotta a un mosaico di nazioni, favoriva oggettivamente lo scambio intellettuale. Inoltre, spostandosi su un piano più generale, se è vero che la cultura rinascimentale appare ristretta, come quella del passato, ai rappresentanti delle élite economiche e politiche, che ne sono al tempo stesso i produttori e i fruitori, la nuova civiltà di tipo “borghese”, ben diversa dalla società tripartita del Medioevo, in cui solo il clero aveva i mezzi e l’opportunità di accedere alla conoscenza, facilita la diffusione del sapere presso una cerchia più ampia di individui. Per di più l’invenzione della stampa permette una circolazione di idee più vasta di quanto non fosse mai avvenuto prima. Di conseguenza, la cultura rinascimentale, pur continuando a essere oggetto di fruizione da parte dei soli ceti benestanti, registra un maggiore “coinvolgimento” di persone, permettendo che la nuova visione del mondo metta profonde radici nella società e negli intelletti.

5. Il Rinascimento come “ritorno al principio” il concetto di “rinascita”

8

Gli studi filologici del Novecento hanno accertato l’origine religiosa della parola e del concetto di Rinascimento. “Rinascita” è la seconda nascita, quella dell’uomo “nuovo” o “spirituale” di cui parlano il Vangelo di san Giovanni e le Lettere di san Paolo. Concetto e parola si conser-

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

vano per tutto il Medioevo a indicare il ritorno dell’uomo a Dio, la sua restituzione a quella vita che egli ha perduto con la caduta di Adamo. Nel Rinascimento tale concetto assume tuttavia un significato più vasto, inclusivo delle realizzazioni terrene, poiché viene a denotare il rinnovamento globale dell’uomo nei suoi rapporti con se stesso, gli altri, il mondo e Dio. Lo strumento di fondo di un tale rinnovamento esistenziale è visto nel cosiddetto “ritorno al principio”. Nel neoplatonismo antico, il ritorno al principio era un concetto schiettamente religioso. Il principio veniva identificato con Dio e il ritorno a Dio con il compimento del vero destino dell’uomo, consistente, da un lato, nel ripercorrere all’inverso il processo emanativo in virtù del quale gli esseri si erano allontanati da Dio e, dall’altro, nel ritornare a Lui. Questo significato religioso è ben presente agli scrittori del Rinascimento. Lo ritroviamo, ad esempio, nei neoplatonici (v. cap. 2) e in Lutero (v. cap. 3), il quale identifica il ritorno al principio con il ritorno alla cristianità primitiva. Il ritorno al principio, tuttavia, analogamente al termine “Rinascimento”, assume anche un significato umano e storico, secondo il quale il “principio” a cui si deve ritornare è una specifica situazione del passato della civiltà. Questo è senza dubbio il senso in cui lo intesero gli umanisti, parlando di un ritorno ai classici, o in cui lo intese Machiavelli (v. cap. 4), parlando di un ritorno alle comunità antiche. Un altro aspetto del ritorno rinascimentale al principio è il ritorno alla natura, vista come forza che produce e vivifica le cose. La grande arte del Rinascimento, ad esempio, ha come insegna questo ritorno alla natura, che essa intende rappresentare ed esprimere nella sua forma autentica, al di là delle immagini astratte e convenzionali dell’arte medievale. Il ritorno alla natura assume un significato centrale, come vedremo, nei filosofi naturalisti del Cinquecento (Telesio, Bruno e Campanella). Comunque inteso, il “principio” è quella realtà rapportandosi alla quale l’uomo autentifica se stesso, realizzandosi nella sua natura più vera e profonda. Esso è dunque ciò che garantisce la riforma dell’uomo e del suo mondo, restituendoli alla loro dimensione ottimale.

il ritorno al principio come concetto religioso…

… e storico

il ritorno al principio come ritorno alla natura

Esercizi interattivi Il ritorno al principio

6. L’Umanesimo come aspetto essenziale del Rinascimento i concetti storiografici di Umanesimo e Rinascimento Per lungo tempo i termini “Umanesimo” e “Rinascimento” sono stati usati praticamente come sinonimi, per indicare il movimento culturale che, fiorito in Italia nel Quattrocento, si è poi diffuso in Europa durante il Cinquecento, nel segno di un rinnovamento radicale della letteratura, dell’arte, della filosofia e della scienza. Nella seconda metà dell’Ottocento, il tedesco Georg Voigt (1827-1891) e lo svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897) li distinsero nettamente, vedendo nell’Umanesimo un momento essenzialmente filologico-letterario incentrato sugli studi umanistici e classici, e nel Rinascimento un momento filosofico-scientifico, basato su una più matura consapevolezza intellettuale e su un nuovo modo di considerare l’uomo, la natura e Dio.

La distinzione tra i due concetti

9

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

Lo schema unitario

Nel Novecento, a partire dal filologo tedesco Konrad Burdach (1859-1936), si tornò invece ad avvicinare i due termini, considerando l’Umanesimo non come separato dal Rinascimento, ma come la prima parte del suo programma innovatore. Di conseguenza, mentre secondo Burckhardt l’Umanesimo sarebbe una delle cause del Rinascimento, che solo dopo il risorgimento delle lettere avrebbe portato a un cambiamento nella visione del mondo, secondo la linea interpretativa che si rifà a Burdach l’Umanesimo, con il rifiorire degli studi classici, sarebbe già uno degli effetti dello spirito rinascimentale. Ovviamente, nell’ambito di quest’ottica critica, il concetto storiografico di Rinascimento implica un’estensione di significato, poiché cessa di coincidere con il Cinquecento in senso stretto e finisce per denotare l’intera civiltà culturale del Quattrocento e del Cinquecento.

La filosofia dell’Umanesimo La tesi di Kristeller

La tesi di Garin

Umanesimo letterario e umanesimo filosofico

il significato del ritorno al mondo classico

10

Nel XX secolo, riprendendo il punto di vista di Voigt e Burckhardt, lo studioso tedescostatunitense Paul Oskar Kristeller (1905-1999) elaborò la tesi secondo cui gli umanisti sarebbero filologi, ma non filosofi, poiché nella loro mania letteraria, sfociante talora in un vero e proprio fanatismo antiquario ed estetizzante, avrebbero trascurato il pensiero speculativo, saltando a piè pari le complesse elaborazioni dottrinali del Medioevo. Pertanto, secondo Kristeller, solo l’aristotelismo rinnovato del Rinascimento, e non certo l’Umanesimo, esprimerebbe le idee filosofiche dell’epoca. Questa valutazione riduttiva dell’Umanesimo venne respinta da altri studiosi, soprattutto da Eugenio Garin (1909-2004), secondo il quale gli umanisti, pur non avendo elaborato quel tipo di filosofia che era proprio delle grandi “cattedrali di idee” dell’aborrita filosofia scolastica, avrebbero concretamente filosofato sui vari problemi antropologici, etici, politici, economici, estetici ecc. Anzi, secondo questo punto di vista, la stessa filologia umanistica porterebbe già in sé una nuova filosofia, poiché quell’appassionata ricerca di manoscritti nelle biblioteche polverose di chiostri e abbazie – che costituisce uno dei tratti più appariscenti di quest’età – manifesterebbe di per sé un nuovo modo di rapportarsi al mondo antico e di concepire l’uomo. Insofferenti alle tenebrae medievali, gli umanisti si sentono irresistibilmente attratti dalla luce della classicità latina e greca, e vedono in essa un esempio di vita. Pertanto, nel loro umanesimo letterario è già implicito un umanesimo filosofico fondato sulla duplice convinzione che gli antichi abbiano incarnato al massimo grado i valori dell’esistenza e che gli studi classici rappresentino uno strumento indispensabile per ingentilire i costumi e per educare l’uomo, conferendogli il possesso delle sue capacità autentiche. Tant’è vero che le litterae vengono dette “humanae” perché forgiatrici di uomini veri, e le arti “liberali” perché forgiatrici di individui liberi. Ora, può sembrare paradossale che proprio mentre stavano gettando le premesse del mondo moderno, i rinascimentali abbiano sentito la necessità di richiamarsi all’antico. In realtà, per loro si trattava piuttosto di riappropriarsi di quelle possibilità che il mondo classico aveva dischiuso agli uomini e che, disconosciute o ignorate dai secoli bui del Medioevo, dovevano ritornare a essere patrimonio della civiltà. si trattava dunque di riprendere il

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

lavoro degli antichi laddove era stato interrotto e di continuarlo nello stesso spirito, per riportare l’uomo all’altezza della sua vera natura. Tale fu l’intento comune degli uomini del Rinascimento, per i quali l’antichità giocò il ruolo di una “norma” o di un ideale da rinverdire nella sua purezza. Le dottrine più tipiche del Rinascimento – le stesse che fondano la sua originalità nei confronti del Medioevo – sono quelle circa l’uomo (v. par. seg.), la storia (v. par. 8, p. 14) e la natura (v. par. 9, p. 15). Ovviamente esse non si trovano tutte e contemporaneamente in tutti gli autori, ma essendo condivise, nel loro insieme, da un gran numero di scrittori, servono a delineare molto bene la peculiare “atmosfera filosofica” del Rinascimento.

Le dottrine filosofiche tipiche del Rinascimento

7. La concezione rinascimentale dell’uomo L’uomo come artefice di se stesso Il nucleo dell’antropologia rinascimentale risiede nella celebre affermazione, attinta dal mondo classico, secondo cui homo faber ipsius fortunae (l’uomo è fabbro della propria sorte), mediante la quale gli scrittori del Rinascimento intendono dire che la prerogativa specifica dell’uomo, cioè la sua “dignità” particolare nei confronti degli altri esseri, risiede nel forgiare se medesimo e il proprio destino nel mondo. Nell’orazione De hominis dignitate (Sulla dignità dell’uomo), che può essere considerata come una sorta di manifesto dell’antropologia rinascimentale, Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) presenta l’uomo come «libero e sovrano artefice di se stesso», cioè come un essere che, avendo una natura plastica e indeterminata, ha la possibilità di progettare se stesso, atteggiandosi camaleonticamente in mille forme diverse (v. cap. 2). La frattura con il Medioevo risulta qui evidente: mentre l’uomo medievale si considerava parte di un ordine cosmico già dato, che egli doveva solo riconoscere intellettualmente e seguire praticamente, l’uomo del Rinascimento ritiene di dover costruire e conquistare da sé il proprio posto nel mondo. Come si è già accennato, questa non è che l’espressione filosofica o concettuale – giunta, come spesso accade, con ritardo – di capacità e poteri che l’uomo aveva attribuito a se stesso già da qualche secolo e che aveva esercitato e continuava a esercitare in quelle città che furono la culla dell’Umanesimo. Già nella scolastica, a partire dall’XI secolo, l’uomo aveva rivendicato un’autonomia sempre maggiore della ragione, cioè della propria iniziativa intelligente, nei confronti delle istituzioni tipiche del mondo medievale (la Chiesa e l’impero), le quali tendevano a far apparire come derivanti dall’alto tutti i beni di cui egli poteva disporre. Nell’Umanesimo rinascimentale, tuttavia, questa autonomia viene affermata o riconosciuta in modo più radicale, dando luogo a un modo di pensare che caratterizzerà gran parte della successiva visione occidentale dell’uomo, fino ai giorni nostri. Per essere intesa correttamente, l’antropologia del Rinascimento necessita tuttavia di alcune chiarificazioni.

L’affermazione della dignità specifica dell’uomo

Le radici scolastiche

11

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

L’uomo e Dio Mentre nella filosofia moderna la concezione dell’uomo come soggetto del proprio destino mondano assumerà spesso un significato antireligioso e “prometeico” (si ricordi che Prometeo era l’eroe mitologico che aveva strappato il fuoco agli dei), nel Rinascimento essa coesiste con la concezione religiosa dell’uomo-plasmatore come immagine del Dio-creatore. Ciò traspare esplicitamente dall’orazione di Pico della Mirandola o dallo scritto Sulla dignità ed eccellenza dell’uomo di Giannozzo Manetti (1396-1459): «Dopo che Dio ebbe creato gli uomini, li benedisse e li fece padroni di tutte le cose create e sovrani e signori assoluti di tutta la terra»1. L’uomo come immagine del creatore

L’antropocentrismo

Di conseguenza, per i rinascimentali non si pone l’alternativa “uomo o Dio”, poiché essi pensano all’interno di una struttura concettuale che riconosce l’uomo e Dio. In questo senso, essi si trovano in una posizione filosofica che si differenzia tipicamente sia dal futuro umanesimo ateo (l’uomo senza Dio di Feuerbach, Marx, Nietzsche, sartre ecc.), sia dalle forme più estreme della religiosità medievale (Dio senza il mondo e la storia di certo misticismo ascetico). Il riconoscimento di Dio non esclude, tuttavia, che lo spirito della rinascita sia prevalentemente “antropocentrico” e che si differenzi da quello prevalentemente “teocentrico” del Medioevo. Con queste formule non si intende la burckhardtiana contrapposizione tra un Medioevo tutto religioso (teocentrismo assoluto) e un Rinascimento tutto pagano (antropocentrismo assoluto), ma il fatto che, mentre nel Medioevo Dio appare al centro e l’uomo alla periferia, adesso l’uomo tende ad apparire al centro e Dio alla periferia, senza che nel primo caso, ossia nell’età di mezzo, si neghino l’uomo e l’aldiquà, e senza che nel secondo caso, ossia nel Rinascimento, si neghino Dio e l’aldilà.

L’uomo e la libertà La libertà e i suoi limiti

La celebrazione umanistica della libertà umana, che trova in Pico della Mirandola una delle affermazioni più eloquenti e radicali, non esclude tuttavia una complementare consapevolezza dei suoi stessi limiti. Infatti i rinascimentali, pur ritenendo che l’uomo forgi se stesso attraverso la virtù, appaiono tutti consapevoli, chi più chi meno, del fatto che gli individui sono condizionati da una serie di forze reali, casuali e soprannaturali, che, pur non annullando la libertà, la circoscrivono (come si vede ad esempio nel poema ariostesco, in cui il capriccio del caso, la labilità del senno, la volubilità degli uomini, la forza delle passioni, il potere della magia ecc. restringono, talora pesantemente, la sfera di libertà degli eroi)2. Tant’è vero che, contestualmente all’“esaltazione” rinascimentale della libertà e delle virtù dell’uomo, sorgono dispute sui suoi rapporti con la Fortuna, il Caso, la Provvidenza ecc. Tuttavia, finché il rapporto tra ciò che è in potere dell’uomo e ciò che non lo è verrà risolto a favore dell’uomo, si sarà ancora nel Rinascimento, mentre quando l’uomo comincerà ad apparire più dominato che dominante rispetto all’insieme delle forze che premono su di lui, saranno già cominciati la crisi e il declino del Rinascimento. 1 D’ora in poi, le citazioni degli umanisti italiani, salvo avviso contrario, vengono riportate da E. Garin, Filosofi italiani del Quattrocento, Le Monnier, Firenze 1942. 2 Cfr. G. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palumbo, Firenze 1977, vol. 2, cap. VII.

12

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

il rifiuto dell’ascetismo medievale e l’esaltazione della vita attiva, del piacere e del denaro La celebrazione del valore dell’uomo e della sua originalità si concretizza anche nelle tesi dell’uomo come «microcosmo», «copula dell’universo», «nodo della creazione», «anello di congiunzione dell’essere» ecc., tutte formule equivalenti per dire che l’uomo è la sintesi vivente del Tutto e il centro del mondo, cioè la creatura in cui si concentrano le varie caratteristiche degli enti del mondo, avendo egli qualcosa dell’angelo come della bestia, di Dio come del diavolo, della natura organica come di quella inorganica ecc. Ma la difesa della dignità dell’uomo e la visione dell’esistenza come auto-progetto si accompagnano soprattutto al rifiuto dell’ascetismo medievale e alla concezione della vita come impegno concreto e non come fuga. Per i rinascimentali, l’uomo non è un ospite di passaggio nel mondo o un pellegrino in attesa dell’aldilà, ma un essere profondamente radicato sulla terra, destinato in primo luogo a “giocarsi” la propria sorte in questa vita. Di conseguenza, pur non rinnegando l’idea cristiana dell’aldilà, i dotti del Rinascimento, coerentemente con la propria ottica antropocentrica, sottolineano soprattutto l’aldiquà. Da qui discende l’elogio di ciò che è utile e della vita attiva nei confronti di quella speculativa, della filosofia morale nei confronti della fisica e della metafisica. Afferma ad esempio Coluccio Salutati (1331-1406):

L’uomo come «microcosmo»

L’elogio della vita attiva

Lascio volentieri, senza invidia e senza contrasto, a te e a chi alza al cielo la pura speculazione tutte le altre verità, purché mi si lasci la cognizione delle cose umane. Tu rimani pure pieno di contemplazione; che io possa, invece, essere ricco di bontà. Tu medita pure per te solo […]. Che io, invece, sia sempre immerso nell’azione, teso verso il fine supremo; che ogni mia azione giovi a me, alla famiglia, ai parenti e – ciò che è ancor meglio – che io possa essere utile agli amici e alla patria e possa vivere in modo da giovare alla umana società con l’esempio e con l’opera. (Sulla nobiltà delle leggi e della medicina)

Ne deriva l’esaltazione della gioia e del piacere, immortalata dai celebri versi di Lorenzo il Magnifico (1449-1492): Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza.

L’esaltazione della gioia e del piacere

(Trionfo di Bacco e Arianna, 1-4)

Da ciò la rinnovata idea dell’eudaimonía, cioè della felicità come realizzazione armonica e completa delle possibilità umane, e il riconoscimento del valore del denaro, visto come elemento indispensabile alla vita e alla conservazione dell’individuo e della società. Afferma con toni scherzosamente “borghesi” un anonimo del Quattrocento:

L’eudaimonía e la celebrazione del denaro

Vi amo, [denari,] perché colui che vi ama e vi possiede ha Cristo e i santi e guadagnerà la vita eterna […]. I ciechi vedono grazie a voi, i sordi odono, i malati guariscono, i malfattori diventano agnelli innocenti, se hanno il denaro. Il denaro muta il diritto, corrompe i tribunali, compra le grazie del cielo anche ai peccatori più scellerati.

13

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

8. Prospettiva storica e storia nel Rinascimento Nell’Umanesimo si realizza l’esigenza di riconoscere la dimensione storica degli eventi, che era stata totalmente ignorata nel Medioevo. In questa prospettiva, la volontà del “ritorno” al mondo classico si configura innanzitutto come l’intento di ripristinare la sapienza degli antichi nella sua forma autentica, intendendola, cioè, nella sua realtà storica.

La scoperta della prospettiva storica L’utilizzo della cultura classica nel medioevo

L’interesse per il passato nel Rinascimento

il valore della prospettiva storica

L’esigenza filologica

il progetto di restaurazione storica dell’Umanesimo

14

Anche il Medioevo aveva conosciuto e utilizzato la cultura classica, ma lo aveva fatto assimilandola a sé e interpretandola alla luce dei propri paradigmi concettuali. Fatti, figure e dottrine, per gli scrittori del Medioevo, non si presentavano con un volto preciso, individuato e irripetibile, ma avevano quella sola validità che poteva esser loro riconosciuta nell’universo di discorso in cui quegli scrittori si muovevano. Da questo punto di vista erano del tutto inutili la geografia e la cronologia, come strumenti dell’accertamento storiografico: ogni figura o dottrina, strappata al suo contesto spazio-temporale, si muoveva in una sfera senza tempo, che era poi quella delineata dagli interessi fondamentali dell’epoca, e si presentava perciò come “contemporanea” a questa sfera. Con il suo interesse per l’antico “autentico”, liberato dalle deformazioni trasmesse dalla tradizione, l’Umanesimo rinascimentale realizza per la prima volta l’atteggiamento della prospettiva storica, cioè del distacco e dell’alterità dell’oggetto storico rispetto al presente storiografico. Platonici e aristotelici sono in polemica nel Rinascimento, ma il loro interesse comune è rappresentato dalla riscoperta della dottrina genuina dei rispettivi capostipiti, cioè dal ritorno al “vero” Platone o al “vero” Aristotele, al di là dei travisamenti introdotti dai “barbari” medievali. L’importanza basilare della prospettiva storica risiede nel fatto che essa rende possibile il distacco del passato dal presente, fondando perciò nel contempo: a) il riconoscimento dell’alterità e dell’individualità del passato; b) la ricerca dei caratteri e delle condizioni che determinano tale individualità e irripetibilità; c) la coscienza dell’originalità del passato di fronte al presente e dell’originalità del presente di fronte al passato. L’esigenza filologica non è pertanto un aspetto accidentale o formale dell’Umanesimo, ma gli è costitutiva. Il bisogno di scoprire i testi e di ripristinarli nella loro forma autentica, studiando e collezionando i codici, è accompagnato dal bisogno di rintracciarne l’originario e specifico significato poetico, filosofico o religioso. Il compito di restaurazione storica assunto dall’Umanesimo comprende diversi aspetti, strettamente collegati tra loro: a) la difesa dell’eloquenza classica, cioè il tentativo di riportare la lingua genuina della classicità alla sua forma originaria, al di là delle deformazioni da essa subite nel Medioevo; b) l’intento di scoprire falsificazioni documentarie o errate attribuzioni di opere scritte;

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

c) il tentativo di comprendere le figure dei letterati e dei filosofi in riferimento al loro mondo di appartenenza, nella loro lontananza cronologica. senza dubbio l’Umanesimo realizza questo compito in modo solo parziale o imperfetto, ma, evidenziandone il valore, lo lascia in eredità alla cultura moderna. L’Illuminismo settecentesco compirà un passo decisivo su questa stessa via, passo che condurrà alla nascita dell’indagine storiografica moderna.

Dalla prospettiva storica verso nuovi sviluppi teorici La scoperta della prospettiva storica è, rispetto al tempo, ciò che la scoperta della prospettiva ottica, realizzata dalla pittura rinascimentale, è nei confronti dello spazio: la capacità di cogliere la distanza degli oggetti l’uno dall’altro e da colui che li considera, perciò la capacità d’intenderli nel loro luogo effettivo, nella loro distinzione dagli altri e nella loro individualità autentica. In questo senso lo stesso riconoscimento del significato della personalità umana come centro originale e autonomo di organizzazione dei vari aspetti della vita risulta condizionato dalla prospettiva. Tale atteggiamento, realizzato dall’Umanesimo rinascimentale per la prima volta, è alla base dell’importanza che il mondo moderno attribuisce alla personalità umana. La conquista della prospettiva, affinando il senso storico, contribuisce anche a maturare, in alcuni filosofi, l’idea di una continuità dello sviluppo umano, ovvero l’embrionale concetto della civiltà come di una linea che dal passato, attraverso il presente, muove verso il futuro, congiungendo gli sforzi delle generazioni. Da questa intuizione ne germoglia un’altra: cioè che gli uomini del presente risultano “superiori”, per esperienza e capacità, rispetto agli uomini del passato. Partito dalla tesi dell’eccellenza degli antichi sui moderni, il Rinascimento perviene dunque all’opinione opposta di una supremazia dei moderni sugli antichi, simili, i primi, ai nani sulle spalle dei giganti. Da ciò l’idea baconiana della verità come figlia del tempo (veritas filia temporis) e del continuo progresso della specie umana.

L’attribuzione di un nuovo significato alla personalità umana

L’idea di una continuità dello sviluppo umano

Veritas filia temporis

9. Il naturalismo rinascimentale Quando si parla del “naturalismo” come di un carattere specifico del pensiero rinascimentale nei confronti di quello medievale non si intende dire che per i filosofi di questa età non vi sia nulla al di là della natura, poiché una tesi del genere, come vedremo, si presenterà in forma esplicita solo nel seicento, e precisamente con il panteismo di spinoza (v. unità 4, cap. 2). Parlando di “naturalismo rinascimentale” si vuole piuttosto sottolineare che: a) l’uomo, per i rinascimentali, non è un ospite provvisorio della natura, ma un essere naturale egli stesso, che ha nella natura la sua patria; b) la natura non è l’ombra sbiadita di un mondo ideale, ma una realtà piena, costituita da un immenso serbatoio di forze vitali, di cui l’uomo è partecipe e in cui si incarna la potenza di Dio, che in essa trova una sua manifestazione o una delle proprie sedi (Bruno); c) l’uomo, come essere naturale, ha sia l’interesse, sia la capacità di studiare la natura.

Gli aspetti specifici del naturalismo rinascimentale

15

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

Come vedremo meglio nel capitolo dedicato a questo argomento (v. cap. 5, p. 63), questo naturalismo si concretizzerà nella magia e nella grande filosofia della natura di Telesio, Bruno, Campanella. Ma, soprattutto, esso rappresenterà uno dei presupposti teorici generali che stanno alla base della nascita della scienza moderna.

10. La laicizzazione e l’autonomizzazione del sapere Uno dei risultati storicamente più importanti della cultura del Rinascimento, al di là dei vari temi accennati, è la nuova concezione del sapere e delle varie discipline. L’universalismo medievale

il primato medievale della teologia

La laicizzazione e la nuova organizzazione del sapere

16

Come sappiamo, il tratto saliente della civiltà medievale era stato l’universalismo: unitaria e sovranazionale era la lingua, unitario e sovranazionale l’impero, unitarie la Chiesa e la visione cristiana del mondo. Ovviamente, tale universalità era stata un’esigenza, piuttosto che un dato di fatto, costituendo uno specchio ideale in cui l’età di mezzo aveva amato contemplarsi, o, se si vuole, un’illusione di cui si era nutrita costantemente. È noto, infatti, come la celebrata universalità dell’impero fosse solo un’utopia che copriva il reale particolarismo della vita feudale, oppure come l’unità della filosofia cristiana fosse solo un’etichetta dietro cui si celavano lotte accanite tra correnti opposte, o addirittura, a cominciare dal Duecento, di dubbia natura cristiana. Nonostante ciò, il Medioevo aveva pur sempre realizzato, per quanto riguarda la conoscenza, una certa unità dello scibile intorno alla teologia, concependo le varie discipline come ancillae theologiae (ancelle della teologia), tese a dimostrare la verità della fede nei diversi campi di studio. su questi presupposti, il Medioevo aveva realizzato un’enciclopedia del sapere di tipo piramidale, con la teologia in cima, nella veste di regina delle scienze. Il Rinascimento, invece, dopo aver portato a termine la rottura dell’unità politica del Medioevo, ne spezza anche l’unità culturale, rifiutandone decisamente l’enciclopedia del sapere di tipo teologico. Parallelamente al rifiuto critico delle filosofie delle scuole e della loro mentalità sistematica, metafisica e logicistica, si assiste, infatti, a una tendenziale laicizzazione del sapere, in virtù della quale le varie attività e discipline umane cominciano a rivendicare ciascuna la propria libertà operativa. Ciò avviene attraverso un processo lungo e travagliato. La letteratura, ad esempio, difenderà il principio dell’autonomia dell’arte, considerata non più nel suo rapporto con il contenuto – secondo la concezione estetica di tipo pedagogico e moralistico del Medioevo –, ma in sé e nei valori formali di bellezza che le sono propri e che, in quanto tali, sono già di per sé educativi; il protestantesimo di Lutero darà origine a una teologia sempre più separata dalla filosofia; Machiavelli difenderà l’autonomia della politica rispetto alla morale e alla religione; Grozio, nel seicento, getterà le basi per un analogo riconoscimento dell’autonomia del diritto; Galilei perverrà, infine, alla fondazione dell’autonomia della scienza, concepita come attività autosufficiente, svincolata dai condizionamenti della tradizione metafisica e teologica. Questo processo di laicizzazione e autonomizzazione del sapere affonda chiaramente le proprie radici nella mentalità degli intellettuali, che, non essendo più ecclesiastici, sono

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

maggiormente portati a riconoscere l’autonomia delle varie attività umane, ossia ad avvertire l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, indipendenti da fini o interessi imposti dall’esterno. Tuttavia, ciò non implica il carattere acristiano o anticristiano della cultura rinascimentale. E questo non solo perché gli uomini del Quattrocento e del Cinquecento non potevano rinnegare tredici o quattordici secoli di civiltà cristiana, ma anche perché essi, come si è già accennato, furono per lo più religiosi e cristiani, seppure in un senso ben diverso da quello medievale, in quanto più inclini a sottolineare il divino presente nell’uomo e nel mondo.

Una nuova visione del cristianesimo

Sintesi audio Umanesimo e Rinascimento

11. Il Rinascimento tra Medioevo e mondo moderno medioevo e Rinascimento Il problema delle relazioni tra Medioevo e Rinascimento costituisce tuttora un nodo centrale del dibattito storiografico, poiché dal diverso modo di risolverlo dipende la valutazione del senso stesso della civiltà del Quattrocento e del Cinquecento. Pertanto, data la sua importanza, oggi non è più possibile parlare in modo critico del Rinascimento senza passare in rassegna le principali posizioni al riguardo. La prima interpretazione dei rapporti tra Medioevo e Rinascimento – quella “classica” – risale al Rinascimento stesso e si identifica con la tesi di una frattura completa tra le due età. Questa visione, che ha condizionato a lungo la storiografia filosofica, radicandosi anche nella mentalità comune, ha trovato consenzienti, sia pure su fronti opposti, illuministi e romantici: gli uni impegnati a celebrare il Rinascimento come una sorta di crociata della ragione e dello spirito critico contro l’oscurantismo e la servitù mentale dell’età di mezzo, gli altri protesi a difendere la religiosità e il solidarismo medievale contro il paganesimo e l’individualismo della rinascita. Nella seconda metà dell’Ottocento questa teoria ha trovato la sua voce più autorevole in Jacob Burckhardt. Questi, ne La cultura del Rinascimento in Italia (1860), dopo aver schematizzato il Rinascimento come l’età che avrebbe emancipato l’uomo da una visione metafisica della vita, lacerando il velo «di fede, d’ignoranza infantile, di vane illusioni» con cui il Medioevo avrebbe avviluppato l’uomo e il mondo, ha tradotto l’antitesi tra i due periodi in una serie di opposizioni nette (religiosità-irreligiosità, astrattezza-realismo, spiritualismo-sensualismo, dogmatismo-scetticismo ecc.), riassunte nella celebre tesi di un Medioevo trascendentista (teso all’aldilà), teocentrico (portato a vedere Dio al centro di tutto) e universalista (basato su istituzioni e strutture sovraindividuali quali la Chiesa, l’impero, le corporazioni ecc.), diametralmente opposto a un Rinascimento immanentista (teso all’aldiquà), antropocentrico (portato a vedere l’uomo al centro del mondo) e individualista (basato sulle forze degli individui, dei gruppi e delle nazioni). Questa interpretazione ha trovato seguaci illustri, come Wilhelm Dilthey (1833-1911) ed Ernst Cassirer (1874-1945).

La teoria della frattura

17

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

La teoria della continuità

La teoria dell’originalità nella continuità

Sintesi audio Rinascimento e Medioevo

Di segno opposto è la cosiddetta “teoria della continuità”, il cui massimo rappresentante è stato Konrad Burdach, che nel suo imponente capolavoro Dal Medioevo alla Riforma (11 volumi editi tra il 1912 e il 1913), contestando la «leggenda storiografica» di un salto tra le due epoche e rifiutando la schematizzazione di un Medioevo religioso e di un Rinascimento paganeggiante, ha insistito sui nessi tra le due civiltà e ha individuato la genesi della rinascita nelle esigenze di rinnovamento religioso presenti, ad esempio, nell’evangelismo di san Francesco e nelle attese escatologiche del movimento gioachimita1. sulla scia di Burdach, alcuni medievalisti hanno cercato di retrodatare il Rinascimento al XII o al XIII secolo, rompendo ogni barriera, anche cronologica, tra l’età medievale e quella rinascimentale, e giungendo alla conclusione che il cosiddetto “Rinascimento” del Quattrocento e del Cinquecento sarebbe un “mito” creato dagli intellettuali dell’epoca e poi diffuso propagandisticamente dagli illuministi del settecento. secondo questa teoria, la rinascita comincerebbe molto prima, vale a dire con lo sviluppo dei Comuni, con il fiorire dell’arte gotica, con l’affermarsi delle università e della cultura del Duecento. I documentati studi di Burdach, pur avendo distrutto, tra gli storici, l’idea di una contrapposizione assoluta tra l’uomo medievale e l’uomo rinascimentale, non hanno trovato piena approvazione da parte di un’altra schiera di studiosi, i quali, pur essendo d’accordo sul fatto che il Rinascimento non nasce tutto d’un tratto e senza legami con l’età precedente, ritengono che esso manifesti un’originalità irriducibile nei confronti del Medioevo e che, pertanto, non sia stata affatto “illusoria” la diffusa sensazione dei rinascimentali di vivere in un’età nuova, caratterizzata da un mutamento di fondo nell’atteggiamento di fronte al mondo e alla vita. Questo indirizzo storiografico, che ha trovato il suo più agguerrito e sottile interprete in Eugenio Garin, ha finito per sostenere una specie di conciliazione critica delle due tesi precedenti, affermando la tipicità irriducibile del Rinascimento e, al tempo stesso, la continuità di questo con il Medioevo, e pervenendo in tal modo a quella formula dell’“originalità nella continuità” che, in virtù della sua incisività sintetica, riassume assai bene il punto di vista della maggior parte degli studiosi attuali sul problema.

Rinascimento e civiltà moderna Per lungo tempo i teorici della frattura tra Medioevo e Umanesimo hanno visto nel Rinascimento l’inizio dell’età moderna e il definitivo seppellimento dell’età di mezzo. Tale idea è stata rifiutata dai teorici della continuità, ai quali il Rinascimento, più che come ipotetico “padre” del mondo moderno, è apparso come indiscutibile “figlio” della civiltà cristiana medievale. il Rinascimento come età di transizione…

Gli studiosi odierni, che in genere hanno preso le distanze da queste due interpretazioni, tendono a far cominciare l’età moderna con la rivoluzione scientifica e con gli autori che la rappresentano (Bacone e Galilei), mentre il Rinascimento viene considerato come un’età di transizione tra il Medioevo e il mondo moderno, ossia come un periodo di sintesi tra il vecchio e il nuovo, avente in sé motivi di novità e di conservazione al tempo stesso. Nell’ambito di quest’ottica storiografica, il Rinascimento tende di conseguenza a configurarsi come una sorta di “continente culturale” a sé stante, che non è più il Medioevo e non è ancora il mondo moderno. 1 Movimento religioso fondato intorno al 1190 dal monaco cistercense Gioacchino da Fiore.

18

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

Da ciò non scaturisce certo l’immagine di un Rinascimento equidistante dal Medioevo e dall’età moderna, in quanto, secondo la formula della “originalità nella continuità”, si deve ritenere che il Rinascimento, pur affondando certe sue radici nel passato, nei suoi tratti più significativi e qualificanti sia oggettivamente proteso verso il futuro. In altri termini, pur non identificandosi con l’età moderna, il Rinascimento ne rappresenta comunque uno dei principali fattori genetici e propulsivi, che ha posto le premesse storiche e culturali da cui sono scaturite la rivoluzione scientifica e la cultura a essa legata. Alcuni tratti del Rinascimento, infatti, come la nuova visione attivistica dell’uomo, l’interesse per il mondo della natura, la scoperta della prospettiva storica e la rivendicazione dell’autonomia del sapere, sono tra i pilastri della moderna civiltà occidentale.

… protesa verso il mondo moderno

Esercizi interattivi Medioevo, Rinascimento e civiltà moderna

12. Le principali figure dell’Umanesimo italiano Petrarca se Dante è ancora dottrinalmente legato al Medioevo, Francesco Petrarca (1304-1374) se ne distacca del tutto, dando pienamente avvio all’Umanesimo. Tale distacco è segnato dalla polemica che Petrarca, nell’opera intitolata L’ignoranza sua e di tanti altri (1337-1338), conduce contro l’averroismo in nome dell’antica sapienza romano-cristiana rappresentata da Cicerone e da Agostino, che egli considera fondamentalmente in accordo tra loro. secondo Petrarca la diffusione dell’averroismo, con il crescente interesse da esso suscitato per l’indagine naturalistica, distrae gli uomini da quelle arti liberali che sole possono dare la sapienza necessaria per conseguire la pace spirituale in questa vita e la beatitudine eterna nell’altra. Quasi tutte le conoscenze che gli indagatori della natura giungono a possedere si rivelano false di fronte all’esperienza, «ma quand’anche fossero vere – aggiunge Petrarca – a nulla servirebbero per la vita beata». La sapienza classica e cristiana, che Petrarca contrappone alla scienza averroistica, è quella fondata sulla meditazione interiore, attraverso la quale si forma e si chiarisce a se stessa la personalità del singolo individuo. Petrarca abbraccia il procedimento autobiografico di Agostino, che continuamente si ripiega su se stesso e per il quale non c’è problema che non sia il proprio problema e non c’è dottrina che non risponda a una propria esigenza personale. Egli segue questo procedimento nell’opera conosciuta come Secretum (1347-1353). si tratta di un dialogo tra Francesco e Agostino, nel quale il primo riporta continuamente all’esempio e all’insegnamento del secondo tutte le proprie esigenze spirituali. L’opera contiene anche la confessione del conflitto interiore del poeta, della sua intima debolezza. Egli si dichiara vittima di quella acedia (o accidia) che era la malattia medievale dei chiostri, il tedio doloroso della vita. In una lettera famosa (cfr. Epistole familiari, IV, 1), descrivendo la sua ascensione al monte Ventoso, Petrarca racconta come, giunto sulla vetta, non si sia fermato a contemplare la maestà dello spettacolo che gli si offriva, ma abbia aperto le Confessioni di Agostino e abbia

La polemica contro l’averroismo

il ritorno alla sapienza classica cristiana

il Secretum e i temi agostiniani

19

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

letto: «Gli uomini giungono ad ammirare gli alti monti, i giganteschi flutti del mare, l’ampio corso dei fiumi, il vasto cerchio dell’oceano e le vie delle stelle – ma dimenticano se stessi e restano senza ammirazione davanti a se stessi». Egli pone allora l’ammonimento di Agostino «Noli foras ire» (Non uscire fuori di te) in rapporto con quello di socrate «Conosci te stesso» e riconosce che tutta la sapienza antica tende a concentrare l’uomo in se stesso, distogliendolo dal mondo esterno. il “dualismo” di Petrarca

Ma l’animo del poeta resta diviso tra l’ammirazione per la natura e l’ammonimento della sapienza: nel suo spirito combattono il richiamo del mondo e l’appello alla concentrazione interiore; e questa lotta è caratteristica della sua personalità. È la lotta stessa che lo porta da un lato a fuggire il mondo e a cercare la solitudine, dall’altro a inseguire gli onori e la gloria. Combattono nel suo spirito l’uomo medievale, chiuso nell’esasperata volontà della salvezza eterna che esige la massima concentrazione interiore, e l’uomo moderno, l’innamorato di Laura, l’uomo amante della natura e desideroso di fama e di ricchezza. Egli è però consapevole di questo contrasto, e appunto in tale consapevolezza risiede il carattere nuovo della sua personalità. Nel contrasto Petrarca riconosce la legge stessa della vita: «Tutto – egli dice – accade attraverso il contrasto. E quella che si chiama vicenda è in realtà lotta». E la lotta più aspra è quella che si combatte all’interno dell’uomo: Ciascuno interroghi se stesso e risponda a se stesso, per rendersi conto fino a qual punto il suo animo è combattuto internamente da passioni diverse ed avverse ed è spinto ora qua ora là da impulsi vari ed opposti. Esso non è mai compiuto, non è mai uno, ma è internamente discorde e dilacerato. (I rimedi per l’una e l’altra sorte)

Di qui il pessimismo che domina le meditazioni di Petrarca e che gli fa dire della vita: «La cecità e l’oblio ne dominano l’inizio, la fatica ne domina il proseguimento, il dolore la fine e l’errore ogni cosa». Ma questo pessimismo non gli impedisce di attendere e annunciare la rinascita di un’età di pace, destinata a concretizzarsi in quel ritorno al costume e alle arti antiche a cui egli per primo contribuì con la sua opera di poeta e di storico.

salutati La riflessione di Coluccio Salutati (1331-1406), che fu per 30 anni cancelliere della signoria di Firenze, presenta qualche tratto analogo a quella di Petrarca. il pensiero della morte e la “consolazione” della fede

L’esaltazione della vita attiva

20

Di fronte alla morte, salutati ritiene sterili le consolazioni addotte dai filosofi. La morte è un male, egli dice nelle Epistole, sebbene non sia un male morale ma naturale, non una colpa ma una pena. È un male per chi muore, è un male per i parenti e gli amici; ed è il male peggiore perché è la perdita dell’essere. Anche se l’anima persiste, l’uomo, che è unità di corpo e anima, è annullato dalla morte, che perciò è per lui il male maggiore. Che poi l’uomo non possa far nulla di fronte alla morte è cosa che aumenta e aggrava il dolore, invece di diminuirlo. Di fronte alla morte non c’è quindi altra consolazione che la fede: Dio soltanto può concedere all’uomo la grazia di sopportarne il pensiero. Lontana dall’atteggiamento medievale è anche l’esaltazione che salutati fa della vita attiva rispetto a quella contemplativa. Chi si perdesse nella contemplazione di Dio fino al punto da non commuoversi per la sventura del prossimo, da non dolersi per la morte dei congiun-

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

ti, da non fremere per la rovina della patria, non sarebbe un uomo, ma un tronco o un sasso. Perciò la vera sapienza non consiste nel puro intendere, ma è anche e soprattutto prudenza, cioè ragione direttiva della vita. E nel suo trattato Sulla nobiltà delle leggi e della medicina salutati afferma che egli lascia volentieri a chi esalta la pura speculazione tutte le altre verità, purché gli si lasci la scienza delle cose umane. E pone le leggi, che riguardano gli uomini e i loro rapporti, al di sopra della medicina e in generale delle scienze della natura, che si occupano solo di cose materiali. Caratteristica di salutati è infine l’affermazione della libertà umana, che egli ritiene conciliabile con l’infallibile ordine del mondo stabilito da Dio.

Bruni Discepolo di salutati fu l’aretino Leonardo Bruni (1370 circa - 1444), che tradusse dal greco in latino l’Etica nicomachea, l’Economica e la Politica di Aristotele e numerosi dialoghi di Platone. scrisse una Vita di Cicerone e una Vita di Dante, vedendo realizzato in queste due figure l’ideale dell’uomo dotto e sapiente che non è alieno dalla vita politica, ma che anzi vi partecipa attivamente. In linea con la tendenza degli umanisti a esaltare la vita attiva, Bruni dedica la propria attenzione alle dottrine morali, a scapito delle discipline puramente speculative, che gli sembrano meno utili all’esistenza. La sua costante preoccupazione è quella di mostrare come le dottrine morali delle maggiori scuole filosofiche antiche (platonismo, aristotelismo, epicureismo, stoicismo) siano sostanzialmente in accordo tra loro. Egli è inoltre convinto che gli insegnamenti dei filosofi antichi non si discostino dalla verità cristiana. La sapienza antica, sia pagana sia cristiana, gli appare dunque come un tutto armonico; pertanto egli intende il ritorno alla sapienza classica come la rinascita di quella vita morale che gli antichi filosofi avevano conosciuto e il cristianesimo aveva fatto propria e diffuso nel mondo.

il ritorno alla vita morale degli antichi

Valla Nato a Roma nel 1407, Lorenzo Valla errò per diverse città italiane e visse lungamente alla corte di Napoli; morì a Roma nel 1457. La sua opera più famosa è Sul piacere (1431), un dialogo in tre parti, nel quale si difende la tesi che il piacere è l’unico bene per l’uomo, e si presenta una concezione ottimistica della natura, che è in contrasto non solo con lo stoicismo, al quale viene polemicamente contrapposta, ma anche con l’ascetismo cristiano. Il piacere, secondo Valla, è l’unico fine di tutte le attività umane. Le leggi che regolano le città sono state emanate per l’utilità, che genera il piacere, e ogni governo è diretto allo stesso fine. Le arti liberali, così come la medicina, la giurisprudenza e l’oratoria, hanno tutte per fine il piacere, o almeno l’utilità. La virtù, di conseguenza, non è altro che la scelta dei piaceri: si comporta bene colui che antepone il maggior vantaggio al minore e il minor svantaggio al maggiore. Il cristiano stesso agisce per il piacere, che tuttavia non è per lui quello terreno, bensì quello celeste.

il piacere come unico bene

21

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

La falsa donazione di costantino

La libertà della vita religiosa

Esaltatore della lingua latina, in cui vede il segno della persistente sovranità spirituale dell’antica Roma anche dopo la fine della sua sovranità politica, nell’opuscolo intitolato La donazione di Costantino, erroneamente creduta e finta (1440) Valla dimostra con argomenti filologici l’inautenticità del decreto con cui Costantino avrebbe donato alla Chiesa i territori di Roma e del Lazio. In tal modo egli rivela l’infondatezza giuridica della pretesa del papato al predominio politico universale. Parallelamente egli combatte la pretesa della Chiesa di essere l’unica a garantire, nei suoi ordini religiosi, l’autentico rapporto dell’uomo con Dio e afferma la libertà della vita religiosa, contro la regolamentazione a cui essa era sottoposta nel Medioevo. secondo Valla, la religiosità autentica dipende soltanto dall’atteggiamento dell’individuo, che liberamente si pone in rapporto con Dio, non dall’adesione a un obbligo formale di carattere collettivo. E in realtà l’esigenza della libertà dell’individuo singolo è alla base dell’intero atteggiamento di Valla. Egli la fa valere non solo contro gli ordini religiosi, ma anche in nome della ricerca filosofica, contro l’ossequio alla tradizione scolastica.

13. Umanesimo e Rinascimento in Europa L’Umanesimo nasce come fenomeno culturale italiano, ma il suo influsso non tarda a farsi sentire nel resto d’Europa, in particolare nei paesi economicamente più progrediti come la Francia, l’Inghilterra, alcune zone della Germania e soprattutto i Paesi Bassi, dove le autonomie cittadine si erano affermate non meno che in Italia. Non si tratta però di un semplice “trapianto” di motivi culturali: i temi dell’Umanesimo italiano trovano profonda rispondenza, infatti, in esigenze maturate sul posto, sia pure con ritardo rispetto al più rapido processo di trasformazione della cultura e del costume verificatosi in Italia. Del resto, la più lenta fioritura dell’Umanesimo extra-italiano sarà compensata, come vedremo, da una sua maggior persistenza, per cui in quei paesi la nuova mentalità rinascimentale darà luogo, senza soluzione di continuità o quasi, al sorgere della grande cultura scientifica del seicento e del movimento illuministico del settecento. Differenze tra Rinascimento italiano ed europeo

22

Tutto ciò è facilmente riconducibile a una serie di differenze economiche, sociali e politiche: dal punto di vista economico e sociale, all’inizio l’Italia è ben più progredita degli altri paesi (come prova la precocità con cui vi si profila il moto rinascimentale), ma dal punto di vista politico la sua situazione è quanto mai precaria, sì da farla rapidamente precipitare nella crisi più completa e nell’asservimento allo straniero. Di qui scaturisce la rapida involuzione dell’Umanesimo rinascimentale italiano nel formalismo grammaticale ed erudito, o banalmente volto a fissare i requisiti del buon cortigiano. Venuto meno il motivo civile, cade il nucleo più vitale dell’originaria ispirazione umanistica e rinascimentale: perciò il Rinascimento italiano ci appare come una splendida fioritura senza sbocchi, cui succede un periodo di torpore (sia pur relativo, come vedremo in seguito). Negli altri paesi europei questo brusco arresto non avviene. Uno sguardo panoramico alla loro evoluzione culturale tra il XV e il XVIII secolo mostra come l’Umanesimo vi rappresenti il primo momento di un processo continuo che porta alla formazione della mentalità moderna, in tutta la varietà dei suoi aspetti. Le nuove forze sociali, incanalate più o meno felicemente nell’alveo loro apprestato dalle grandi monarchie nazionali, in Inghilterra si

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

affermano attraverso conquiste successive e graduali, mentre in Francia, un secolo dopo, dovranno spezzare quello stesso assolutismo regio che inizialmente le aveva favorite. Anche in quei paesi dove la loro esistenza è più precaria, esse non conosceranno mai la crisi, né quell’asservimento quasi totale a cui sono ridotte in Italia. L’Umanesimo europeo presenta perciò, in generale, un carattere più metodico, più moderato e più costruttivo dell’Umanesimo italiano. Esso si connette ancor più strettamente che in Italia alla fondazione di nuovi istituti e scuole, e la cosa più importante è che si tratta di realtà sorrette da forze politiche stabili e, quindi, destinate a vita lunga e sicura, diversamente da quanto accade nel nostro paese, dove le accademie e le scuole hanno una fioritura splendida, ma alquanto effimera. I principali rappresentanti del Rinascimento europeo sono Erasmo da Rotterdam (v. cap. 3) e Michel Eyquem de Montaigne.

montaigne I Saggi (Essais) di Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) rappresentano l’espressione più compiuta di quell’idea del ritorno dell’uomo a se stesso che costituisce l’essenza del moto di rinnovamento rinascimentale.

il procedimento autobiografico

Il titolo Essais va inteso nel significato di “esperienze”, non di “tentativi”: l’opera di Montaigne, infatti, è tesa a rintracciare le esperienze espresse negli scritti degli autori antichi e moderni, per metterle alla prova in riferimento alle proprie esperienze. Il procedimento di Montaigne è dunque autobiografico: egli vuol raggiungere la conoscenza della natura umana attraverso il confronto della propria esperienza con quella altrui. In realtà, quello di conoscere la natura umana è un compito destinato a non concludersi mai. La vita umana è infatti per Montaigne un esperimento continuo e inesauribile, un problema sempre aperto, un’esperienza che non può mai definitivamente compiersi. L’ottimismo degli umanisti sulla capacità dell’uomo di dominare completamente il proprio destino fa dunque posto, in Montaigne, a una valutazione più prudente. Egli riconosce, infatti, l’incertezza e l’instabilità dell’esistenza umana:

L’accettazione dei limiti dell’esistenza

Noi non abbiamo comunicazione con l’essere perché l’intera natura umana è sempre in mezzo tra la nascita e la morte e non attinge in sé che una apparenza oscura e ombratile, un’incerta e debole opinione. E se per caso il vostro pensiero si ostina ad afferrare il suo essere, sarà come voler stringere l’acqua nel pugno: più serrerà e stringerà ciò che di sua natura sfugge da tutte le parti, più perderà quel che voleva stringere e tenere.

D’altronde, Montaigne condanna qualsiasi tentativo dell’uomo di evadere dai propri limiti e qualsiasi lamento circa la sorte e la condizione umana. È inutile immaginare una natura più perfetta di quella dell’uomo e lamentarsi di non possederla. Bisogna che l’uomo accetti in modo lucido e sereno la propria «miserabile condizione» e la propria sorte. L’uomo, infatti, non può né deve cercare di essere più che uomo. Guardando ai filosofi dell’antichità, Montaigne passa da un orientamento stoico a un orientamento scettico, per trovare infine il suo equilibrio in una posizione socratica, che costituisce la sostanza della sua persona e del suo pensiero.

Testo antologico La presunzione umana (Montaigne, Saggi )

stoicismo e scetticismo

23

UNITÀ 1 • UMANESIMO E RINASCIMENTO

stoicismo e scetticismo, per il filosofo francese, consentono all’uomo di realizzare la propria libertà spirituale: dallo stoicismo si attinge il riconoscimento dello stato di dipendenza in cui l’uomo si trova rispetto alle cose; dallo scetticismo si ricava il mezzo per liberarsi, per quanto possibile, dalla presunzione di sapere e per disporsi alla ricerca. La natura e i limiti della conoscenza

Verso cartesio e Pascal

Sintesi audio Dagli umanisti italiani a Montaigne

La prospettiva scettica, in particolare, porta Montaigne a soppesare tutto ciò che è autentico possesso dell’uomo, a cominciare dalla conoscenza sensibile. La scienza comincia dai sensi e si risolve nei sensi. Noi non saremmo più che una pietra se non sapessimo che c’è il suono, l’odore, la luce, il sapore, la misura, il peso, la mollezza, la durezza, l’asprezza, il colore, la levigatezza, la larghezza, la profondità. Ecco le radici e i principi di tutto l’edificio della nostra scienza. (Saggi, I, 12)

La conoscenza sensibile manca però di ogni sicuro criterio per discernere le apparenze vere da quelle false. Non abbiamo modo di controllare le nostre percezioni sensibili mediante il confronto con le cose che le producono; non possiamo quindi verificare la loro verità. E poiché la conoscenza sensibile è alla base di ogni altra conoscenza, tutto l’«edificio» del nostro sapere è condannato all’inconcludenza. Al filosofare di Montaigne si collegheranno Descartes e Pascal (v. rispettivamente unità 3 e unità 4), che, a loro volta, avranno lo sguardo rivolto all’uomo e si preoccuperanno di chiarire non solo la fondatezza del suo sapere, ma anche la sua condizione nel mondo.

MAPPA Umanesimo e Rinascimento

Dal punto di vista STORICO l’età rinascimentale coincide con il passaggio all’età moderna

nuovo assetto politico (regni nazionali in Europa, Stati regionali in Italia)

24

nuovo assetto sociale (avvento della civiltà urbana e ascesa della borghesia mercantile)

scoperte geografche

invenzione della stampa e della polvere da sparo

Riforma protestante

Capitolo 1 • Coordinate storico-sociali e concetti generali

Mappa interattiva

Dal punto di vista CULTURALE

nascita delle accademie (in Italia)

laicizzazione della cultura

latino come lingua del sapere

Il concetto di RINASCITA

ritorno al principio

antropocentrismo e rinnovamento globale dell’uomo

ai classici

alla cristianità primitiva

allo studio della natura

Il RAPPORTO con il MEDIOEVO

frattura ed emancipazione (Burckhardt)

continuità (Burdach)

originalità nella continuità (Garin) Mappa interattiva

I principali UMANISTI ITALIANI

Petrarca

Salutati

Bruni

Valla

ritorno alla sapienza classica e cristiana

primato della vita attiva su quella contemplativa e afermazione della libertà umana

ritorno alla vita morale degli antichi

piacere come unico fne delle attività umane e libertà della vita religiosa

MONTAIGNE limiti e fragilità dell’uomo

la vita umana è un esperimento continuo, un problema sempre aperto

bisogna accettare i limiti della condizione umana e la propria sorte

il sapere umano è condannato all’inconcludenza

25

CAPITOLO 2

Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento 1. Il platonismo rinascimentale Con l’Umanesimo si ebbe una vera e propria riscoperta di Platone, che si concretizzò nel cosiddetto “platonismo rinascimentale”, sviluppatosi nell’ambito delle accademie, e in particolare dell’Accademia fiorentina fondata da Marsilio Ficino e Cosimo de’ Medici. I motivi del ritorno a Platone

La diffusione degli scritti platonici

L’interpretazione di Platone in chiave neoplatonica

26

A cominciare da Petrarca, i motivi per cui si amò l’autore dei Dialoghi e lo si elesse a maestro del nuovo pensiero, facendolo divenire “filosofo alla moda”, furono molteplici. Ad esempio si vide in lui il più artista tra i filosofi e la figura più affascinante della classicità. Oppure lo si rappresentò come l’ideale antagonista di Aristotele e dell’aborrita filosofia scolastica, come il pensatore che grazie al suo filosofare aperto e problematico, antitetico al filosofare chiuso dello Stagirita e di Tommaso, appariva il più adatto a esprimere l’inquietudine dell’uomo e la complessità dinamica del reale. Ma soprattutto si considerò Platone – non ancora distinto da Plotino – come il filosofo più vicino allo spirito religioso del cristianesimo e come il più consono a esprimere il rapporto tra Dio e mondo in termini di circolarità e di amore, secondo il doppio processo della derivazione del mondo da Dio e del ritorno del mondo a Dio tramite un atto di amore. Contemporanee circostanze storiche, che contribuirono ulteriormente ad avvicinare gli spiriti a Platone, furono il Concilio di Firenze (1438-1445) per l’unione della Chiesa greca e di quella latina, e la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi (1453), che facilitarono l’afflusso in Italia di una moltitudine di dotti orientali, esperti di lingua e cultura greca. Mentre il Medioevo, come sappiamo, aveva conosciuto pochissimo del corpo platonico (il Menone, il Fedone e il Timeo), il Rinascimento disponeva adesso della versione integrale dei Dialoghi e della possibilità di leggerli direttamente in lingua originale. Nel contempo si diffusero le prime traduzioni degli scritti di Platone a opera di Leonardo Bruni e, in seguito, la traduzione delle opere complete a cura di Marsilio Ficino. Platone continuò tuttavia a essere interpretato in chiave sostanzialmente neoplatonica (solo nell’Ottocento si comincerà a distinguere nettamente tra Platone e Plotino). Anzi, il platonismo rinascimentale fu un insieme complesso e multiforme di elementi disparati: platoni-

Capitolo 2 • Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

ci, neoplatonici, orfici, pitagorici, ermetici1 e cristiani. Di conseguenza, anche il Rinascimento, nonostante la disponibilità dei testi, fu ben lontano dal conoscere l’autentico volto del filosofo e il suo platonismo fu sostanzialmente una forma rielaborata di neoplatonismo cristianeggiante.

2. L’aristotelismo rinascimentale Lo sviluppo delle accademie non determinò la fine delle università, che continuarono la loro opera di ricerca e di insegnamento, sia pure con minor capacità di incidenza culturale rispetto al passato. Nel loro ambito fiorì l’aristotelismo del Rinascimento. Mentre la storiografia tradizionale, per lungo tempo, ha visto in tale movimento una sorta di residuo medievale, oggi gli si riconoscono caratteri originali e storicamente innovatori. Anzi, secondo Kristeller, configurandosi come un aristotelismo antiscolastico opposto all’aristotelismo scolastico, esso rappresenterebbe una tipica espressione filosofica del Rinascimento, di cui sarebbe componente basilare. Se il centro geografico del platonismo è Firenze, il centro geografico dell’aristotelismo è Padova, nella cui rinomata sede universitaria si era cominciato a studiare il pensiero dello Stagirita fin dal XIII secolo, sulla base del commento del filosofo arabo Averroè, e si erano scontrate le opposte correnti aristoteliche del tomismo e dell’averroismo. Le nuove tendenze filologiche e gli indirizzi speculativi emersi nel Quattrocento avevano poi determinato l’esigenza di scoprire il “vero” Aristotele: da ciò la traduzione filologicamente più corretta dei testi originali e dei commentatori ritenuti più fedeli a essi, soprattutto Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.) e Simplicio (VI secolo d.C.).

L’aristotelismo padovano

Averroisti e alessandristi Scartata l’interpretazione “ortodossa” di Tommaso d’Aquino, che rimase patrimonio dei domenicani e della Chiesa in generale, l’aristotelismo militante del Rinascimento si spaccò sostanzialmente in due tronconi: averroisti e alessandristi. ■■■ Gli

averroisti sostenevano l’esistenza di un unico intelletto separato e, in quanto tale, immortale, mentre concepivano l’individuo concreto come mortale (a differenza di Tommaso, che, ponendo l’intelletto nell’individuo, lo riteneva immortale). ■■■ Gli alessandristi non soltanto consideravano l’individuo mortale, ma negavano anche l’esistenza di un intelletto separato e immortale, giudicando che niente esiste o sopravvive al corpo, essendo l’anima una funzione dell’organismo, indissolubilmente legata a esso.

Le differenze tra le due correnti

1 L’ermetismo è la dottrina filosofica contenuta in alcuni scritti mistici, comparsi nel I secolo d.C., che ci sono giunti legati al nome di Ermete Trismegisto. Questi è probabilmente una figura mitica, poiché sotto il nome del dio egiziano Thot (identificato dai Greci con il loro dio Ermete, o Mercurio, e qualificato Trismegisto, che significa “tre volte grande”) si celano autori diversi, impegnati a difendere il paganesimo contro il cristianesimo. Ma i padri della Chiesa, colpiti dal tono mistico e dagli accenni biblici, attribuirono questi scritti a una specie di profeta pagano. Marsilio Ficino, condividendo tale opinione, tradusse in latino l’intero corpus ermetico, che divenne uno dei testi-chiave del platonismo rinascimentale.

27

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Gli atteggiamenti e i temi comuni

La teoria della “doppia verità”

Più che sulle differenze tra averroisti e alessandristi, gli studi più recenti tendono a insistere sulla loro sostanziale comunanza di interessi e di tendenze. Entrambe le correnti, infatti, presentavano una medesima mentalità naturalistico-razionalistica, portata a vedere nella natura il campo privilegiato della filosofia e nella ragione l’unico metodo della ricerca. Entrambe si occuparono, inoltre, di gnoseologia e del problema dell’anima e si mostrarono aperte alle suggestioni del tema rinascimentale e platonico della dignità e nobiltà dell’uomo. Un’altra affinità tra averroisti e alessandristi è la radicale separazione tra il campo della fede e quello della ragione, a cui si collega la teoria della “doppia verità”. Questa dottrina è stata inizialmente considerata dalla critica come una libera interpretazione del pensiero di Averroè, finalizzata a sostenere che una medesima tesi può essere simultaneamente vera in filosofia e falsa in teologia, per cui uno stesso individuo, pur ritenendo vere talune dottrine come filosofo, potrebbe nel contempo giudicarle errate come credente. In realtà, come è stato puntualizzato in seguito (ad esempio da Kristeller), la teoria in questione possiede forse un significato più sottile, suggerendo che un’idea – ad esempio che l’anima non possa sopravvivere senza il corpo – può essere più probabile (ma non assolutamente certa) secondo la ragione e secondo Aristotele, per quanto l’idea opposta debba essere accettata per fede. Comunque si interpreti e si giudichi la teoria della doppia verità (come sincero convincimento o come tattico stratagemma), una cosa è comunque certa: grazie ad essa, esistenzialmente vissuta in buona o cattiva fede, molti studiosi rinascimentali poterono difendersi, almeno in parte, dagli inquisitori ecclesiastici e professare con una certa libertà nuove dottrine, facilitando così il processo di laicizzazione della cultura.

Importanza e limiti dell’aristotelismo rinascimentale La rilevanza storica dell’aristotelismo rinascimentale

Il limite di un’impostazione ancora “metafisica”

Il ricorso all’autorità di Aristotele

28

La rilevanza storica del movimento aristotelico è sostanzialmente duplice: ■■■ in primo luogo, esso contribuì a indirizzare la ricerca sul problema della natura, configurandosi come manifestazione essenziale della mentalità realistica e concreta del Rinascimento; ■■■ in secondo luogo, difese i diritti della ragione, individuando in essa lo strumento primario dell’indagine filosofica e dell’osservazione scientifica dei fatti dell’esperienza. Tuttavia, l’aristotelismo del Rinascimento mostra paradossalmente i suoi limiti proprio in relazione a questi stessi punti che sanciscono la sua importanza storica. Infatti, dando per scontata la validità scientifica delle dottrine del maestro, i suoi seguaci rinascimentali continuarono tendenzialmente a spiegare la realtà secondo gli schemi della Fisica aristotelica, ostinandosi a voler “imbrigliare” i fenomeni della natura mediante nozioni metafisiche come i concetti di “essenza” e di “causa finale”, e restando legati a una considerazione qualitativa del mondo. In secondo luogo, l’appello alla ragione e all’osservazione scientifica dei fatti risultò generalmente vanificato dal simultaneo appello all’ipse dixit di Aristotele. Infatti l’aristotelismo, pur così “geloso” dei diritti della ricerca e così avverso all’autorità della religione in nome dell’autonomia dell’indagine scientifica, finì per sottomettere l’indagine stessa, anche contro la ragione e contro i fatti, all’autorità culturale dello Stagirita. Ciò spiega perché

Capitolo 2 • Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

l’aristotelismo rinascimentale, pur con tutti i suoi meriti, abbia finito per assumere una funzione oggettivamente conservatrice nell’ambito delle ricerche naturalistiche, obbligando la nascente scienza fisica a entrare in urto con esso.

Sintesi audio Platonismo e aristotelismo nella filosofia rinascimentale

3. La disputa fra platonici e aristotelici Considerando da un lato la riscoperta di Platone e dall’altro il rinnovato interesse per Aristotele, si comprende come sia potuta sorgere la famosa “disputa” riguardo alla presunta superiorità dell’uno o dell’altro dei due pilastri del pensiero greco: disputa che costituisce un tratto caratteristico dell’epoca. La polemica era stata iniziata dal dotto bizantino Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452 circa), promotore di un’unificazione totale delle credenze religiose sul fondamento del platonismo e autore di uno scritto dal titolo Differenze della filosofia di Platone e di Aristotele, in cui il filosofo dell’Accademia veniva esaltato a discapito del filosofo del Liceo. Le intemperanze polemiche di Gemisto Pletone provocarono le ire dei suoi connazionali aristotelici e, soprattutto, di Giorgio Trapezunzio (1396-1486), il quale in difesa di Aristotele e contro Platone scrisse un Confronto delle filosofie di Platone ed Aristotele, esaltando quest’ultimo per la sua mentalità più aderente al reale. Posizione più moderata assunse invece il cardinale Basilio Bessarione (1403-1472), autore dello scritto Contro un calunniatore di Platone. La preoccupazione principale di Bessarione non era di condannare Aristotele per difendere Platone, bensì di mostrare, per quanto possibile, il loro accordo di fondo. La superiorità di Platone rispetto ad Aristotele sarebbe piuttosto consistita, secondo Bessarione, nel fatto che Platone si è avvicinato più di Aristotele alla verità del cristianesimo, pur senza raggiungerla pienamente. Questa polemica, compresa la posizione “conciliatorista” di Bessarione, manifesta come l’antitesi tra platonici e aristotelici del Rinascimento sia innanzitutto un antagonismo di due diversi interessi culturali: ■■■ platonici erano coloro che ponevano in primo piano l’esigenza della rinascita religiosa e pertanto vedevano nel ritorno al platonismo, considerato come la sintesi di tutto il pensiero religioso dell’antichità, la condizione di questa rinascita; ■■■ aristotelici erano coloro che tendevano soprattutto alla rinascita della ricerca razionale e specialmente della filosofia naturale, vedendo nel ritorno ad Aristotele la condizione della ripresa di una libera ricerca naturalistica.

Gemisto Pletone

Trapezunzio

Bessarione

La disputa come scontro tra due interessi culturali

4. I protagonisti della disputa Cusano Il platonismo del Rinascimento si esprime soprattutto nell’Accademia fiorentina. Ma già precedentemente aveva risuonato una voce platonica, o platonizzante, di prim’ordine: quella di Niccolò Cusano, considerato il maggiore rappresentante di questo indirizzo filosofico.

29

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Vita e scritti

La “dotta” ignoranza come fondamento della conoscenza

La coincidenza degli opposti

La cosmologia

30

Nikolaus Chrypffs, o Krebs, detto “Cusano” dal paese di origine (Cusa, presso Treviri, in Germania), nacque nel 1401, studiò in Germania e a Padova, fu cardinale e vescovo di Bressanone e morì a Todi nel 1464. Durante un viaggio in Grecia familiarizzò con i pensatori e i teologi greci più significativi del tempo ed entrò in più diretto rapporto con la filosofia greca. La sua opera principale è La dotta ignoranza (1440), alla quale seguirono numerosi altri scritti, tra i quali Le congetture, L’idiota, La visione di Dio, Il gioco della palla. La conoscenza è possibile, secondo Cusano, solo quando c’è proporzione (cioè omogeneità o convenienza) tra ciò che già si conosce e ciò che si vuole conoscere. In matematica, ad esempio, le proposizioni che più direttamente derivano dai primi principi, di per sé notissimi, sono le più facili e note, mentre le meno note e più difficili sono quelle che più si allontanano dai primi principi. Quando ciò che si cerca di conoscere non ha alcuna proporzione con ciò che già si conosce (cioè ne è lontanissimo), allora non resta che proclamare la propria ignoranza, che in questo caso sarà un’ignoranza “dotta”, cioè consapevole e fondata su buoni motivi. Questo è il caso della conoscenza di Dio, il quale è infinito: tra l’infinito e il finito che è conosciuto dall’uomo non c’è proporzione, quindi l’uomo potrà indefinitamente avvicinarsi alla verità e all’essere infinito di Dio, ma non potrà mai raggiungerli. Così come moltiplicando i lati dei poligoni inscritti e circoscritti in una circonferenza, questi poligoni si avvicineranno indefinitamente alla circonferenza, ma non coincideranno mai con essa, allo stesso modo la conoscenza umana non coinciderà mai con la verità assoluta, cioè con Dio. Se non si fonda su questa dotta ignoranza, cioè sulla consapevolezza dei propri limiti, la conoscenza umana non è valida. ➔ T1 p. 37 Dal principio della dotta ignoranza Cusano deriva, da un lato, una sorta di visione mistica di Dio, che egli concepisce come coincidentia oppositorum, cioè come unità e conciliazione di tutte le determinazioni opposte della realtà: del massimo e del minimo, della creazione e del mondo creato, dell’unità e della molteplicità e via dicendo. Dall’altro lato, egli deriva anche una nuova concezione del mondo fisico, che prelude direttamente a quella di Keplero, Copernico e Galilei. Cusano nega che una parte del mondo, quella celeste, possieda una perfezione assoluta e sia quindi ingenerabile e incorruttibile. Per lui non sussiste quella separazione tra sostanza celeste (o etere) e sostanza composta dei quattro elementi che era stata stabilita da Aristotele, aveva dominato la fisica medievale ed era stata posta in dubbio solo da Ockham. Tutte le parti del mondo hanno, secondo Cusano, lo stesso valore, ma nessuna raggiunge la perfezione che è propria di Dio. Il mondo non ha un centro e una circonferenza, come Aristotele aveva supposto, giacché altrimenti fuori di questa circonferenza esisterebbe altro spazio, vuoto di realtà, mentre il mondo comprende tutto lo spazio e tutta la realtà. Il mondo ha il centro dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, giacché circonferenza e centro sono Dio stesso, che è dappertutto e in nessun luogo. Il mondo è privo di confini e di limiti, anche se non possiede l’infinità che è propria di Dio. Non essendovi un centro, la Terra non è al centro del mondo; essa si muove di un movimento che è circolare, sebbene non di una circolarità perfetta. È una «nobile stella» che ha luce e calore come le altre stelle. Un’altra stella è il Sole, che ha la stessa composizione della Terra, per quanto sia formato di elementi più puri. E nelle altre stelle possono esservi abitanti più o meno simili a quelli della Terra.

Capitolo 2 • Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

I movimenti che si verificano sulla Terra come in ogni altra parte del mondo hanno lo scopo di salvaguardare e garantire l’ordine e l’unità del tutto. In vista di questo scopo, i corpi pesanti tendono verso la Terra e i corpi leggeri tendono verso l’alto; ogni movimento tende, per quanto è possibile, al movimento circolare e ogni figura tende ad avvicinarsi alla forma sferica, come si vede nelle parti degli animali e degli alberi e nel cielo. Cusano riprende anche quella teoria dell’impetus che i filosofi della scuola occamistica avevano formulato per spiegare il movimento dei cieli e dei proiettili, negando il principio aristotelico secondo il quale il motore deve accompagnare il mobile nella sua traiettoria e riconoscendo così quel principio di inerzia che è uno dei fondamenti della meccanica moderna (all’opera di Cusano rimandano gli studi di Leonardo da Vinci). Nello scritto intitolato Il gioco della palla il filosofo sostiene, infatti, che ogni corpo, come la palla lanciata dal giocatore, persevera indefinitamente nel suo movimento, finché il peso o altri ostacoli non lo rallentino o lo fermino.

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225 La teoria dell’impetus

Esercizi interattivi La disputa fra platonici e aristotelici

Ficino Marsilio Ficino (nato a Figline, in Val d’Arno, il 19 ottobre 1433 e morto il 3 ottobre 1499) tradusse in latino i dialoghi di Platone, che commentò anche ampiamente, le Enneadi di Plotino e altre opere. Scrisse inoltre dodici libri di Epistole, che sono in realtà saggi e opuscoli, e una Teologia platonica. Egli fondò l’Accademia platonica fiorentina, all’interno della quale l’aspetto religiosomistico del suo platonismo fu decisamente accentuato a scapito dell’aspetto scientifico. I seguaci dell’Accademia ritenevano che la dottrina di Platone derivasse, per mezzo di una tradizione ininterrotta, da quella di Mosè e che anzi risalisse ancora più indietro nel tempo. Essi pertanto intendevano il ritorno al platonismo come il ritorno alla più antica sapienza religiosa del genere umano. Proponendosi di rinnovare la saldatura tra religione e filosofia, Ficino la individua nella dottrina platonica, della quale afferma la superiorità rispetto ad altre dottrine filosofiche. Ma l’unità di religione e filosofia ha per Ficino lo scopo di rinnovare l’uomo e il suo mondo; e l’uomo è veramente il centro della sua speculazione. Tutta la realtà è distinta, secondo Ficino, in cinque gradi: il corpo, la qualità, l’anima, l’angelo e Dio. L’anima è la terza essenza, o essenza media: sia ascendendo dal corpo a Dio, sia discendendo da Dio al corpo, essa si trova nel mezzo. Perciò è il nodo vivente della creazione, la «copula del mondo»; perciò è indistruttibile e infinita. La funzione mediatrice dell’anima si esplica attraverso l’amore, che è la forza che unisce armonicamente tra loro le parti diverse della creazione. In virtù dell’amore l’universo tende a Dio e così esce dal caos, si organizza e raggiunge l’ordine e la perfezione. In virtù dell’amore Dio si prende cura del mondo, lo ordina e gli dà vita.

L’Accademia

L’unione di religione e filosofia

I gradi della realtà L’anima

L’amore

31

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

ConCetti a Confronto Schema interattivo

L’originalità del platonismo rinascimentale

L’anima in Plotino

in Ficino

è la terza ipostasi, cioè il terzo grado dell’emanazione dall’Uno (Uno → intelletto → anima → materia)

è l’essenza media, cioè il terzo grado della realtà (Dio → angelo → anima → qualità → corpo)

è ciò che collega il mondo intelligibile (al quale appartiene) al mondo sensibile

è copula del mondo, nodo vivente della creazione che unisce i gradi più bassi della realtà a quelli superiori

in quanto

in quanto

è costituita da una parte superiore rivolta all’intelletto e alle idee e da una parte inferiore rivolta alla materia (che ordina e vivifica attraverso le idee)

è vivificata dall’amore, che è tensione verso Dio

Le due dottrine fondamentali di Ficino, quella dell’anima mediatrice e quella dell’amore, costituiscono gli aspetti originali del platonismo rinascimentale. Quest’ultimo ripete indubbiamente lo schema neoplatonico, ma si serve di esso per accentuare la funzione centrale dell’uomo. ■■■ Il centro della speculazione neoplatonica originaria è Dio stesso, unità assoluta dalla quale tutto muove e alla quale tutto ritorna. ■■■ Il centro della speculazione platonica di Ficino, così come di Cusano, è l’uomo nella sua funzione mediatrice e quindi nell’amore come giustificazione e atto di questa funzione. L’uomo è situato dal platonismo di Cusano e di Ficino in una posizione sua propria che fa di lui un elemento indispensabile dell’ordine e dell’unità dinamica dell’essere. Questo continua ad avere la sua origine e la sua perfezione in Dio, ma trova la sua vera unità vivente e autogiustificantesi nell’uomo e nell’amore che lo lega a Dio e di cui Dio lo ricambia. È parte essenziale del platonismo storico originario il senso dei limiti dell’uomo e della trascendenza dell’essere rispetto a questi limiti. Ma proprio questi limiti costituiscono, per Cusano e per Ficino, l’originalità della natura umana e il fondamento del suo valore e della sua libertà.

Pico della Mirandola L’interesse religioso domina anche la complessa figura di Giovanni Pico della Mirandola, nato il 24 febbraio 1463 e morto a Firenze il 17 novembre 1494. Pico non era prevenuto come gli altri umanisti nei confronti dei filosofi medievali. In una lettera del 1485 a Ermolao Barbaro condannò l’atteggiamento di coloro che sacrificavano la sostanza all’apparenza e si lasciavano respingere dalle speculazioni espresse in linguaggio rozzo e disadorno. Il tentativo di una sintesi del sapere

32

La sua riflessione filosofica mirò a conciliare e a sintetizzare le dottrine più diverse: quelle della sapienza orientale, quelle dei Greci, e principalmente di Platone e di Aristotele, quelle medievali, soprattutto di Tommaso e di Duns Scoto, e inoltre quelle della magia e della cabala. Il desiderio di una sintesi universale del sapere, attraverso la quale si rigenerassero insieme la vita religiosa e la vita filosofica dell’uomo, si manifestò nell’iniziativa di Pico di

Capitolo 2 • Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

bandire a Roma una grande discussione tra dotti convocati da ogni parte su 900 tesi che a lui parevano racchiudere i capisaldi della sapienza universale. La discussione non poté tenersi, perché alcune delle tesi da discutere furono giudicate eretiche, ma Pico pubblicò un’Apologia di quelle stesse tesi e una raccolta di Conclusioni da esse derivate. La già citata orazione De hominis dignitate (v. p. 11) avrebbe dovuto essere il discorso inaugurale della disputa. Pico scrisse inoltre l’Heptalus, che è un commento ai primi capitoli del libro biblico della Genesi; L’ente e l’uno, che è un tentativo di sintesi tra aristotelismo e platonismo; le Dispute contro gli astrologi, che contengono una critica all’astrologia. L’orazione De hominis dignitate verte intorno a quella superiorità dell’uomo sulle altre creature che è il tema favorito degli umanisti, come di Cusano e di Ficino. Per l’uomo, giunto ultimo nella creazione, non era rimasto disponibile nessuno dei beni che erano stati tutti distribuiti alle altre creature. Dio allora stabilì che a lui fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato a quelle. L’uomo non ha né un posto determinato, né un aspetto proprio, né una prerogativa sua, affinché possa egli stesso scegliere e fare suoi il posto, l’aspetto e la prerogativa che desidera. Così l’uomo non è né celeste, né terreno, né immortale, né mortale: può “degenerare” nelle cose inferiori e può, se vuole, “rigenerarsi” nelle cose superiori, che sono divine. Stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui, cui nulla poteva dare di proprio, fosse comune tutto ciò che singolarmente aveva assegnato agli altri. Accolse perciò l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine». (De hominis dignitate)

Questa rigenerazione può avvenire soltanto attraverso il ritorno alla sapienza originaria, che si è dispersa e moltiplicata nelle varie dottrine religiose e filosofiche e che quindi bisogna raccogliere dalla varietà di queste dottrine e restituire all’unità e alla pace. Gli obiettivi che la speculazione di Pico si propone sono appunto la pace, l’unione e l’amicizia tra gli uomini. Tali obiettivi sono raggiungibili solo se gli uomini riescono a fondere in un tutto armonico gli elementi apparentemente eterogenei del loro sapere e delle loro credenze religiose. Così Pico dedica l’Heptalus a dimostrare l’accordo tra il racconto biblico della creazione e il platonismo, e L’ente e l’uno a dimostrare l’accordo tra Platone e Aristotele. Egli ritiene che ci sia un accordo anche tra tutte queste dottrine da un lato, e la magia e la cabala dall’altro lato. Per quanto riguarda la magia, egli esalta la sola magia naturale, che non infrange l’ordine del mondo, ma piuttosto lo asservisce, utilizzando tutte le energie che sono disseminate in natura, mentre respinge la magia dei negromanti, che invocano spiriti e demoni. Per quanto riguarda la cabala, egli ritiene che serva a penetrare i misteri divini e che sia in accordo perfetto non solo con le dottrine della Chiesa e della filosofia cristiana, ma anche con quelle di Pitagora e di Platone.

La superiorità dell’uomo

Testo antologico La specificità dell’uomo (Pico della Mirandola, De hominis dignitate)

La pace tra gli uomini

L’armonizzazione dei saperi e delle credenze

33

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Le riserve di Pico sull’astrologia

Solo di fronte all’astrologia Pico assume un atteggiamento di riserva. Egli ammette l’astrologia matematica o speculativa, che si preoccupa unicamente di determinare le leggi matematiche dell’universo, ma rigetta l’astrologia giudiziale o divinatrice, che pretende di derivare dal corso e dalla natura degli astri le vicende della vita umana. Se questa seconda specie di astrologia fosse vera, l’uomo non sarebbe libero, perché ogni sua decisione dipenderebbe dal corso degli astri. Ma essa non può essere vera, perché ciò che ha un valore e una dignità superiori non può essere soggetto a ciò che ha un valore e una dignità inferiori. L’uomo, che è l’essere più alto della creazione, non può dipendere dai corpi celesti, che sono a lui inferiori. In tal modo Pico difende la dignità e la libertà dell’uomo contro una delle più diffuse credenze del suo tempo.

Pomponazzi Tra i principali aristotelici che insegnarono a Padova e a Bologna (altra sede universitaria della corrente) si possono ricordare Nicoletto Vernia, Agostino Nifo, Leonico Tolomeo e Alessandro Achillini. Il più famoso degli aristotelici del Rinascimento è però Pietro Pomponazzi, fondatore della scuola degli alessandristi. Vita e scritti

L’ordine razionale e necessario del mondo

I fatti apparentemente miracolosi

Le vicende storiche

34

Pomponazzi, detto “Peretto”, nacque a Mantova il 16 settembre 1462 e insegnò a Padova e a Bologna, dove morì il 18 maggio 1525. Il suo scritto più notevole è Sull’immortalità dell’anima (1516). Furono pubblicati postumi Gli incantamenti, che tratta della magia, e Sul destino, il libero arbitrio e la predestinazione. L’intento fondamentale di Pomponazzi è quello di mostrare che il mondo ha un ordine razionale necessario. In Aristotele egli vede il filosofo che ha escluso l’intervento diretto di Dio o di altri poteri soprannaturali nelle cose del mondo e ha riconosciuto nel mondo stesso un puro sistema razionale di fatti. Nell’opera Gli incantamenti egli non nega la realtà di fatti eccezionali o miracolosi, che sembrano testimoniati dall’esperienza. Ci sono, secondo Pomponazzi, incantesimi, magie, stregonerie, miracolosi effetti di piante o di pietre e via dicendo. Ma tali fatti non sono miracoli nel senso di essere contrari alla natura e fuori dell’ordine del mondo; si dicono “miracoli” solo perché accadono raramente e a lunghi intervalli. In realtà, sono fatti naturali, che si spiegano in base all’ordine necessario della natura e precisamente con l’azione degli astri. I corpi celesti sono, infatti, il tramite necessario dell’azione di Dio sul mondo: Dio non agisce direttamente sulle cose naturali, perché tutte le azioni si trasmettono lungo i gradi gerarchici della realtà e ciò che è superiore può agire su ciò che è inferiore soltanto per il tramite di ciò che è in mezzo. Miracoli e incantesimi, dunque, sono dovuti all’influsso dei corpi celesti e rientrano nell’ordine naturale del mondo. In quest’ordine rientra pure la storia degli uomini: le vicende degli Stati, dei popoli e delle stesse istituzioni religiose. Vi è per ogni religione il tempo del suo sorgere, del suo fiorire e della sua fine. Il sorgere di una religione è caratterizzato da oracoli, profezie e miracoli, che diminuiscono man mano che si avvicina l’epoca della fine. E giudicando che vadano esaurendosi i miracoli della fede cristiana, Pomponazzi prevede prossima la fine di questa fede.

Capitolo 2 • Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

A includere nell’ordine naturale del mondo anche l’attività spirituale dell’uomo è diretto lo scritto famoso Sull’immortalità dell’anima. L’anima umana non può esistere né operare senza il corpo: ■■■ l’anima sensitiva ha bisogno del corpo sia come soggetto, giacché ha bisogno di organi corporei (l’occhio, l’orecchio ecc.), sia come oggetto, perché può percepire soltanto cose corporee; ■■■ l’anima intellettiva non ha bisogno del corpo come soggetto perché non ha organi corporei, ma ha bisogno del corpo come oggetto, perché non può conoscere se non le cose corporee dalle quali è mossa a intendere; ■■■ l’intelligenza angelica non ha bisogno del corpo né come soggetto, né come oggetto; ma l’anima umana non è e non può diventare intelligenza angelica. E se l’anima umana è inseparabile dal corpo, la sua immortalità diventa dubbia e, in ogni caso, impossibile a dimostrarsi. ➔ T2 p. 39

L’anima ha costitutivamente bisogno del corpo

ConCetti

L’immortalità dell’anima

a Confronto

in Tommaso

in Pomponazzi

è dimostrabile

è indimostrabile

poiché

poiché

l’anima è forma pura, autonoma e incorporea, e in quanto tale non può separarsi da se stessa e corrompersi

l’anima è inseparabile dal corpo, del quale ha costitutivamente bisogno

è un “preambolo” razionale della fede

è un dogma, cioè una verità che si deve accettare per fede

Si annulla con questo la vita morale dell’uomo? No, perché questa vita è garantita dalla condizione naturale dell’anima stessa. Che non ci sia un premio o un castigo nell’oltretomba non significa che la virtù non abbia un premio e che il vizio non abbia un castigo. Il premio essenziale della virtù è la virtù stessa, che rende l’uomo felice; e la pena del vizio è il vizio stesso, che lo rende misero e infelice. Un premio o un castigo aggiunti ed estrinseci sembrano piuttosto diminuire il merito o il demerito di un’azione. La vita morale è così riportata nell’ordine naturale delle cose e per la sua giustificazione non si ritiene necessario l’appello al soprannaturale. Queste conclusioni – nota Pomponazzi – sono filosofiche. Accanto e oltre stanno però quelle della religione, che affermano l’immortalità dell’anima. Tutto questo ragionamento è stato tradizionalmente interpretato come se la mortalità dell’anima fosse assolutamente certa in filosofia, mentre l’opposto fosse assolutamente vero in teologia, ossia come una classica espressione della dottrina della doppia verità. Ma secondo interpretazioni più recenti, come si è già accennato, essa suggerirebbe soltanto che la mortalità è più probabile secondo la ragione e secondo Aristotele, per quanto l’immortalità sia un dogma di fede, che ogni credente deve accettare. Sincera o meno che fosse la posizione di Pomponazzi, sta di fatto che grazie a essa egli riuscì a difendersi dalla tempesta polemica che accompagnò la sua opera sull’anima, salvaguardando, nello stesso tempo, i diritti della pura ragione.

Schema interattivo

La virtù è premio a se stessa

La ragione e la fede

35

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Libertà umana e onnipotenza divina

Esercizi interattivi Pomponazzi

Sintesi audio I protagonisti della disputa fra platonici e aristotelici

Nell’opera Sul destino, il libero arbitrio e la predestinazione Pomponazzi affronta l’antico problema della conciliazione tra libertà umana da una parte, e prescienza e predeterminazione divine dall’altra. Pur affermando che la libertà dell’uomo, testimoniata dall’esperienza, è innegabile, egli la ritiene conciliabile con la prescienza, ma non con l’onnipotenza di Dio. Stando alle considerazioni puramente naturali, l’opinione più fondata sembra a Pomponazzi quella degli stoici, che ammisero il fato, cioè la necessità assoluta dell’ordine cosmico stabilito da Dio. La difficoltà per cui Dio sarebbe, in questo caso, causa non solo del bene, ma anche del male si può risolvere affermando che il bene concorre insieme con il male alla compiutezza dell’universo, e che in quest’ultimo, come in un organismo vivente, ci devono essere non solo parti pure e nobili, ma anche parti impure e ignobili. Pomponazzi ritiene tuttavia che a queste conclusioni della ragione naturale siano da preferire le credenze della fede.

MAPPA Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento Mappa interattiva

La DISPUTA tra platonici

rinnovamento religioso

aristotelici Accademia di Firenze fondata da Marsilio Ficino

ricerca naturalistica

Università di Padova

I principali pensatori PLATONICI

Cusano dotta ignoranza

sproporzione tra sapere umano e infnità di Dio

Ficino il mondo non ha confni

anima come copula mundi

Pico della Mirandola ritorno alla sapienza delle origini

sintesi universale del sapere

Il principale pensatore ARISTOTELICO Pomponazzi il mondo ha un ordine razionale e necessario

36

l’anima umana è inseparabile dal corpo, quindi la sua immortalità è indimostrabile

la virtù è premio a se stessa

il bene concorre insieme con il male alla compiutezza dell’universo

I TESTI CAPITOLO 2 Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento Cusano nella prospettiva teorica di cusano, la verità è vista come un infinito che l’intelligenza umana, limitata e relativa, non può sperare di cogliere adeguatamente. L’unica cosa che l’uomo sa con certezza è di non poter conoscere la verità: è questo il senso della «dotta ignoranza», concetto che cusano deriva da agostino e dai mistici cristiani, ma attribuendogli un significato nuovo. Per la prima volta, infatti, il tema del limite della conoscenza umana è riferito non solo all’ambito divino, ma anche alla sfera dell’esperienza sensibile.

t1 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14 16 18

La «dotta ignoranza»

il senso della «dotta ignoranza» è chiarito da cusano nel primo libro dell’opera omonima (De docta ignorantia, composto nel 1440 e pubblicato postumo nel 1488), dal quale è tratto il brano riportato di seguito. La «dotta ignoranza» è per cusano l’autentica sapienza, che consiste nel riconoscimento dell’incommensurabilità del finito rispetto a Dio, ovvero alla verità.

Ogni ricerca consiste […] in una proporzione comparante, che è facile o difficile. Ma l’infinito, in quanto infinito, poiché si sottrae ad ogni proporzione, ci è sconosciuto. La proporzione esprime convenienza e, ad un tempo, alterità rispetto a qualcosa, e perciò non la si può intendere senza impiegare i numeri. Il numero include in sé tutto ciò che può essere proporzionato. Il numero, che costituisce la proporzione, non c’è soltanto nell’ambito della quantità, ma c’è anche in tutte le altre cose che, in qualsiasi modo, possono convenire o differire fra loro per la sostanza o per gli accidenti. Per questo, forse, Pitagora pensava che tutto esiste, ha consistenza ed è intelligibile in virtù dei numeri. La precisione, però, nelle combinazioni fra le cose corporee ed una proporzione perfetta fra il noto e l’ignoto è superiore alle capacità della ragione umana, per cui sembrava a Socrate di non conoscere null’altro che la propria ignoranza; e Salomone, sapientissimo, sosteneva che «tutte le cose sono difficili» e inspiegabili con le nostre parole (Ecclesiaste, 1, 8), e un certo altro saggio, dotato di spirito divino, dice che la sapienza e il luogo dell’intelligenza sono nascosti «agli occhi di tutti i viventi» (Giobbe, 28, 21). Se è dunque così, che anche Aristotele, il pensatore più profondo, nella filosofia prima afferma che nelle cose per loro natura più evidenti incontriamo una difficoltà simile a quella d’una civetta che tenti di fissare il sole (Metafisica, II, 1, 993b 9), allora vuol dire che noi desideriamo sapere di non sapere, dato che il desiderio di sapere, che è in noi, non dev’essere vano. E se potremo conseguirlo appieno, avremo raggiunto una dotta ignoranza.

37

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

20

I TESTI

22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46

La cosa più perfetta che un uomo quanto mai interessato al sapere potrà conseguire nella sua dottrina è la consapevolezza piena di quell’ignoranza che gli è propria. E tanto più egli sarà dotto, quanto più si saprà ignorante. È a questo fine che mi sono assunto la fatica di scrivere alcune poche cose sulla dotta ignoranza […]. Se è di per sé evidente che l’infinito non ha proporzione col finito, ne segue nella maniera più chiara che, ove è dato trovare un più ed un meno, non si è giunti al massimo in tutti i sensi, poiché le cose che ammettono un più ed un meno sono entità finite. Un massimo di tal fatta è di necessità infinito. Data qualsiasi cosa, che non sia il massimo in tutti i sensi, è chiaro che si può dare qualcosa maggiore di essa. E poiché troviamo che l’eguaglianza è graduale, cosicché una cosa è eguale più ad un’altra che non ad una terza, in base a convenienze e a non-convenienze, rispetto a cose simili, nel genere, nella specie, nella situazione locale, nella capacità d’influenza, nel tempo, è evidente che non si possono trovare due o più cose così simili ed eguali fra loro, che non se ne diano altre di più simili, all’infinito. Perciò la misura e la cosa misurata, per quanto si avvicinino ad essere eguali, rimarranno sempre fra loro differenti. Un intelletto finito, dunque, non può raggiungere con precisione la verità delle cose procedendo mediante similitudini. La verità non ha gradi, né in più né in meno, e consiste in qualcosa di indivisibile; sicché ciò che non sia il vero stesso non può misurarla con precisione, come il noncircolo non può misurare il circolo, la cui realtà è qualcosa di indivisibile. Perciò l’intelletto, che non è la verità, non riesce mai a comprenderla in maniera tanto precisa da non poterla comprendere in modo più preciso, all’infinito; ed ha con la verità un rapporto simile a quello del poligono col circolo: il poligono inscritto, quanti più angoli avrà, tanto più risulterà simile al circolo, ma non si renderà mai eguale ad esso, anche se moltiplicherà all’infinito i propri angoli, a meno che non si risolva in identità col circolo. È dunque evidente che, per quanto riguarda il vero, noi non sappiamo altro se non che esso è incomprensibile nella sua realtà in maniera precisa; che la verità è come la necessità più assoluta, che non può essere né di più né di meno di ciò che è, e il nostro intelletto è come la possibilità. L’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza, ricercata da tutti i filosofi, ma da nessuno scoperta nella sua realtà in sé. E quanto più a fondo saremo dotti in questa ignoranza, tanto più abbiamo accesso alla verità stessa. (N. Cusano, La dotta ignoranza, I, 1, trad. it. di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988, pp. 69, 71-72)

Analisi del testo 1-2 individuando il tratto saliente della ricerca nella comparazione («proporzione comparante», r. 1), cusano intende affermare che la conoscenza dell’uomo consiste nel giudicare «le cose incerte comparandole con un presupposto che sia certo». Questa operazione può essere «facile o difficile» a seconda che la comparazione sia immediata (cioè realizzata tra due termini “contigui”) o mediata (tra due termini “lontani”, che possono essere messi a confronto solo chiamando in causa altri termini “intermedi”), ma certamente non può riguardare l’infinito, che per l’uomo si sottrae a qualunque confronto. 2-8 il “confronto” in cui consiste l’indagine conoscitiva può mettere in relazione elementi di natura diversa: per

38

questo cusano precisa che la comparazione è essenzialmente «proporzione», o «numero», termine con cui il filosofo non indica la “misurabilità” nel senso quantitativo che noi siamo soliti attribuirle, ma la “numerabilità”, ovvero la possibilità di esprimere una relazione mediante un rapporto numerico, secondo l’insegnamento pitagorico. 9-22 La conoscenza piena, cioè una totale «precisione» nelle proporzioni ricercate, è un traguardo irraggiungibile per l’uomo, poiché, nel reiterato passaggio dal noto all’ignoto, ci sarà un momento in cui l’ignoto sarà costituito dall’infinito, o da Dio, che per l’umano intelletto è inattingibile. Richiamandosi alla Bibbia (libro dell’Ecclesiaste e libro di Giobbe) e alla filosofia (so-

>

crate e aristotele), cusano afferma dunque che nella conoscenza il grado più elevato a cui l’uomo può pervenire è la «dotta ignoranza», cioè la «consapevolezza piena di quell’ignoranza che gli è propria» (r. 22). essendo infinito, Dio non può essere fatto oggetto di alcuna proporzione: pertanto, nei confronti della realtà infinita l’uomo è ignorante perché non può conoscerla, ma al tempo stesso dotto se è consapevole di tale ignoranza. 23-47 ciò che è stato suggerito nelle righe precedenti viene ora meglio esplicitato. Poiché non è passibile di

proporzione, l’infinito (o Dio, o la verità in quanto termine ultimo e compiuto della conoscenza) è inattingibile da parte dell’uomo, che può tendere ad esso infinitamente, ma mai raggiungerlo del tutto. L’immagine del poligono e del cerchio chiarisce e concretizza in maniera efficace l’indefinito approssimarsi della mente umana all’assoluto. a questa concezione dell’intrinseca inadeguatezza della conoscenza umana a pervenire alla verità si lega l’idea cusaniana della natura congetturale del sapere.

I TESTI

Capitolo 2 • Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento

Pomponazzi L’opera più famosa di Pomponazzi è il trattato Sull’immortalità dell’anima (De immortalitate animae, pubblicato nel 1516), in cui, in coerenza con la sua interpretazione dell’aristotelismo, il filosofo asserisce l’impossibilità di affermare, sulla base di considerazioni razionalmente fondate, che l’anima è immortale.

t2 >

L’immortaLità deLL’anima non è dimostrabiLe

nel passo proposto di seguito emerge con nettezza la separazione che Pomponazzi pone tra la ragione umana, impossibilitata ad ammettere l’anima come forma per sé sussistente, e la fede, per la quale, al contrario, l’anima sopravvive alla morte del corpo. in questo senso l’aristotelismo di Pomponazzi si avvicina a quello di alessandro di afrodisia, mentre prende le distanze dalla prospettiva di tommaso, le cui posizioni vengono infatti sottoposte a un’attenta analisi critica.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

Non c’è per me proprio alcuna incertezza, dal momento che la Scrittura canonica, che deve essere anteposta ad ogni ragionamento ed esperienza umana poiché ci è stata data da Dio, la conferma irrevocabilmente. Ma ciò su cui io ho dei dubbi è se queste asserzioni non superino i limiti naturali dell’uomo, così da presupporre qualcosa accettato per fede e rivelato, e se siano conformi alle parole di Aristotele come sostiene lo stesso S. Tommaso. […] Sulla sua prima affermazione, cioè che in realtà nell’uomo la facoltà sensitiva e quella intellettiva siano la stessa cosa, non ho alcun dubbio; ma le altre quattro mi riescono molto oscure. E in primo luogo che tale essenza sia per sé e veramente immortale, ma impropriamente e secondo un certo aspetto mortale. In primo luogo, perché con ragionamenti simili a quelli con cui sostiene questa tesi può essere provata anche la tesi opposta. Infatti, dalla constatazione che tale essenza accoglie tutte le forme materiali, che ciò che è in essa accolto è inteso in atto, che non si serve di un organo corporeo, che tende all’eternità e alle cose divine, si concludeva che essa è immortale. Ma egualmente, poiché essa, come anima vegetativa, opera materialmente, e come anima sensitiva non accoglie in sé tutte le forme, e in più si serve di un organo corporeo e tende alle cose temporali e caduche, si potrà provare che essa è oggetto proprio del filosofo naturale. […] E l’altra affermazione, che la mente viene dal di fuori, va riferita ad essa in quanto pura mente, non in quanto mente umana; o se si vuole intendere riferita ad essa in quanto mente umana, non va presa in senso assoluto, ma solo in quanto, in confronto alla vegetativa e alla sensitiva, essa partecipa maggiormente della divinità. Infatti nel cap. 9° del IV libro del De partibus animalium è detto che solo l’uomo è di natura eretta perché esso solo partecipa in modo notevole della divinità.

39

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

22

I TESTI

24 26 28 30 32 34

Non ammettiamo, tuttavia, che l’uomo sopravviva come anima dopo la sua morte, dato che essa ha un principio, e (I libro del De coelo) «tutto ciò che ha un principio ha anche una fine»; e Platone nell’VIII libro delle Leggi dice: «Tutto ciò che in un modo qualsiasi comincia ad essere, cessa anche di essere». […] E che proprio questo sia stato il pensiero di Aristotele sull’anima umana può essere chiarito anche per mezzo di quel passo del libro XII della Metafisica, testo 39°, dove scrive queste parole: «Ma la felicità, nella sua forma più alta, a noi è concessa per breve tempo; in quella forma in eterno è concessa infatti agli Dei, mentre per noi è cosa impossibile». Stando così le cose, mi sembra di dover sostenere su questo argomento, salva restando la dottrina più giusta, che il problema dell’immortalità dell’anima è suscettibile di due opposte soluzioni, come quello dell’eternità del mondo. Mi sembra, infatti, che non si possano addurre argomenti di ordine naturale che concludano con assoluta certezza che l’anima sia immortale, e tanto meno che essa sia mortale, come dichiarano moltissimi dottori che pur sostengono la sua immortalità. Per questo non mi sono preoccupato di rispondere all’altra tesi, cosa già fatta da altri e in particolare, in modo ampio, esauriente e serio, da S. Tommaso. (P. Pomponazzi, De immortalitate animae, trad. it. di T. Gregory, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1977, vol. 6)

Analisi del testo 1-5 Dell’immortalità dell’anima affermata dalle scritture Pomponazzi non dubita minimamente. ma, su un piano razionale (e non religioso), ritiene che non se ne possa essere altrettanto certi. egli dissente perciò da tommaso, per il quale l’immortalità dell’anima era ammissibile anche sulla base della filosofia aristotelica. si ricordi, a questo proposito, che per l’aquinate l’immortalità dell’anima rappresentava – come l’esistenza di Dio – uno dei preambula fidei, ossia una di quelle verità oggetto non solo di fede, ma anche di ragione. tommaso distingueva (cosa che peraltro non faceva aristotele) tra forme «sussistenti» e forme «inerenti», identificando l’anima umana con una forma sussistente, capace di sopravvivere alla morte del corpo. 5-7 Pur condividendo l’identificazione operata da tommaso tra la facoltà sensitiva e quella intellettiva (umane), Pomponazzi non fa altrettanto per ciò che riguarda le affermazioni dell’aquinate a sostegno dell’immortalità dell’anima. Le righe che seguono, che contengono le obiezioni a tali affermazioni, costituiscono dunque il nucleo dell’argomentazione di Pomponazzi. 8-15 se, con Tommaso, si può sostenere che l’anima è immortale perché: 1. «accoglie tutte le forme materiali» (r. 11) in quanto queste sono intese «in atto» (r. 11); 2. «non si serve di un organo corporeo» (rr. 11-12) in quanto «tende all’eternità e alle cose divine» (r. 12), contro Tommaso si può sostenere che l’anima è mortale in quanto 1. «come anima vegetativa, opera materialmente» (r. 13); 2. «come anima sensitiva non accoglie in sé tutte le forme» (rr. 13-14) proprio perché «si serve di un organo corporeo» (r. 14) e «tende alle cose temporali e caduche» (rr. 14-15).

40

15-20 Passando all’affermazione di tommaso secondo cui «la mente viene dal di fuori», Pomponazzi nota che essa non può essere considerata una prova dell’immortalità dell’anima individuale, in quanto si riferisce non a quest’ultima, ma alla «pura mente», ovvero all’intelletto divino. ma, anche nel caso in cui l’affermazione tomista venisse riferita alla mente umana, in realtà non andrebbe interpretata in senso assoluto, ma solo relativamente a quegli aspetti che differenziano la mente umana rispetto a quella vegetativa e a quella sensitiva: aspetti che (stando all’autorità di aristotele, che Pomponazzi richiama) derivano alla natura umana da quella divina. 21-28 il fatto che l’uomo partecipi della natura divina non autorizza a sostenere che la sua anima sia immortale, dato che essa ha un inizio (“nasce”, per così dire, con il corpo), e tutto ciò che ha un inizio ha anche una fine, secondo la testimonianza di aristotele, ma anche di Platone. a sostegno della finitudine temporale dell’anima umana Pomponazzi porta anche una considerazione sulla felicità, che, nella sua forma assoluta, agli uomini è concessa solo «per breve tempo», potendone godere «in eterno» soltanto Dio. 29-35 se, basandosi sulle proprie facoltà conoscitive (con «argomenti di ordine naturale», rr. 31-32), l’uomo non può pervenire alla certezza dell’immortalità dell’anima, ugualmente non può affermarne con certezza la natura mortale. Per questo, nella sua argomentazione, Pomponazzi non ha “confutato” gli argomenti di tommaso, ma si è limitato a sottolineare come questi possano ugualmente essere addotti a sostegno di una tesi o di quella opposta.

CAPITOLO 3

Rinascimento e Riforma 1. Il ritorno alle origini del cristianesimo Il Rinascimento, come ritorno dell’uomo alle sue originarie possibilità, è anche rinnovamento della vita religiosa. L’uomo cerca di rientrare in possesso di quelle possibilità che costituivano la forza e la vitalità del mondo antico: cerca quindi di riconoscerle al di là della dispersione e dell’indebolimento che esse hanno subito lungo i secoli della storia e di ricollegarsi a esse per riprendere il cammino interrotto. Di fronte alla decadenza della vita religiosa, l’uomo ritorna alle fonti della religiosità: vuole riscoprirle nella loro purezza, intenderle nel loro significato genuino, farle rivivere nella loro fecondità spirituale. Si è già visto come il platonismo cercasse di riconoscere e di far rivivere l’originaria sapienza religiosa dell’umanità: sapienza che vedeva sintetizzata in Platone e nella quale riteneva confluissero tanto la speculazione orientale, quanto quella greco-romana. Ma la religione dei platonici del Rinascimento è una religione per dotti, cioè non un’autentica religione, ma piuttosto una filosofia teologica, nella quale il cristianesimo originario del Nuovo Testamento entra solo come un elemento tra gli altri, e neppure come quello dominante. Ficino e Pico della Mirandola si accordano in questo atteggiamento con Cusano e perfino con Giordano Bruno (v. p. 68): per questi filosofi il ritorno alla religiosità originaria è il ritorno ai “teologi” dell’antichità, cioè a coloro che hanno elaborato ed espresso la vita religiosa in pregnanti formule di pensiero. Ecco perché il platonismo rinascimentale non costituisce un’autentica riforma religiosa, essendo piuttosto un momento o un aspetto di quel rinnovamento filosofico che caratterizza l’epoca. Come abbiamo anticipato, la riforma della vita religiosa dell’Occidente cristiano doveva invece essere il risultato di un ritorno alle fonti del cristianesimo in quanto tale: cioè non ai teologi o alla teologia greco-orientale, ma alla parola stessa di Cristo, alla verità rivelata della Bibbia. Quella rinascita spirituale, quella riforma totale dell’uomo che la predicazione di Cristo aveva annunciato e promosso, poteva riacquistare il suo senso originario e divenire realtà solo con un ritorno alla parola divina espressa nei Vangeli e negli altri libri della Bibbia. La parola di Dio si rivolge non ai dotti, ma a tutti gli uomini come tali e non vuol riformare la dottrina, bensì la vita. Un rinnovamento religioso, nello spirito del Rinasci-

La “filosofia teologica” dei platonici rinascimentali

Il ritorno alle fonti autentiche del cristianesimo

41

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

mento, doveva dunque tendere a far rivivere direttamente la parola di Dio nelle coscienze degli uomini, liberandola dalle sovrastrutture tradizionali, ripristinandola nella sua forma genuina e nel suo valore salvifico. Tale fu il compito della riforma religiosa, alla quale si legò necessariamente, proprio come all’Umanesimo, un momento filologico: ripristinare il testo biblico nella sua purezza e nella sua genuinità. Ma, proprio come nell’Umanesimo, il momento filologico fu lo strumento di un’esigenza più profonda: quella di ritornare al significato vero e originario della parola divina, per farla valere in tutta l’efficacia della sua potenza di rinnovamento.

2. L’età della Riforma Erasmo da Rotterdam L’aspetto filologico-umanistico della riforma religiosa è rappresentato dalla celebre figura di Erasmo da Rotterdam (Geert Geertsz). La vita

Le opere

L’Elogio della pazzia

Il «milite cristiano»

42

Nato a Rotterdam nel 1466, Erasmo fu il più famoso umanista della sua epoca. Fu prete e si laureò in teologia presso l’Università di Torino (1506), ma il compito che egli riconobbe come proprio fu quello di scrittore e di filologo. Preparò l’edizione di alcuni padri della Chiesa (tra i quali Agostino) e lavorò a un testo critico del Nuovo Testamento, che tradusse dal greco in latino. Nella lotta religiosa provocata dalla Riforma luterana, scelse di rimanere neutrale, attirandosi così l’ostilità sia dei protestanti, sia dei cattolici. Morì il 12 luglio 1536 a Basilea. L’opera più famosa di Erasmo è l’Elogio della pazzia (scritto nel 1509), a cui sono affini per contenuto i più tardi Colloqui familiari (1522). Il Manuale del milite cristiano (1503) e l’introduzione all’edizione critica del Nuovo Testamento contengono i principi ai quali si ispirerà Lutero nella sua battaglia riformatrice, mentre il De libero arbitrio (1524) prende posizione contro la negazione luterana della libertà dell’uomo. Notevoli sono anche gli Adagia, un gran numero di proverbi e motti pazientemente raccolti dal filosofo olandese e pubblicati a più riprese tra il 1500 e il 1526, il Lamento della pace (1517) e il dialogo satirico Iulius exclusus e coelis (che comincia a circolare manoscritto nel 1514), in cui Erasmo ritrae il defunto papa-soldato Giulio II che si scontra con san Pietro, il quale si rifiuta di aprirgli le porte del paradiso. Infine sono da ricordare le opere pedagogiche, tra cui il De ratione studii (1511). Nell’Elogio della pazzia Erasmo adopera la satira e il sarcasmo per mettere a nudo la decadenza morale della società del suo tempo, specialmente della Chiesa. La pazzia, che egli personifica e introduce a tessere il proprio elogio, è l’illusione, l’incoscienza, l’ignoranza contenta di sé, in breve la menzogna o l’impostura di cui la vita singola e associata dell’uomo si ammanta per nascondere la sua cruda realtà. La parte centrale dell’opera è quella che riguarda la critica della religiosità dell’epoca. Negli scritti di Erasmo sono già presenti tutti i temi della polemica protestante contro la Chiesa e il papato. Nel Manuale del milite cristiano, in particolare, il filosofo contrappone alla cultura teologica, che forma il teologo o il letterato, la fede religiosa, che forma il solda-

Capitolo 3 • Rinascimento e Riforma

to di Cristo. L’arma principale del «milite cristiano» è costituita dunque non tanto dall’erudizione in campo filosofico-teologico, quanto dalla lettura e dall’interpretazione della Bibbia, che custodisce il messaggio originario di Cristo. E allo studio della Bibbia Erasmo dedicò la maggior parte della propria attività di filologo. Affrontando la stesura del testo critico del Nuovo Testamento, nell’introduzione dichiarò che le Scritture dovevano essere lette e intese da tutti. Da questo generale ritorno alla lettura e all’intendimento della Bibbia, e in particolare del Vangelo, Erasmo si attendeva quella riforma, o rinascita, coincidente con la restaurazione dell’autentica natura umana:

Coscienza cristiana e natura dell’uomo

Facilmente discende nell’anima di tutti ciò che massimamente è conforme a natura. Ma la filosofia di Cristo, che egli stesso chiama rinascita, che cosa è se non la restaurazione di una ben costrutta natura?

Come in parte si è già detto, la rinascita che solo la parola di Cristo può determinare è contrapposta da Erasmo alla sapienza teologica, che è necessaria per acquisire abilità nelle dispute, ma che non è sufficiente per una fede e una carità autentiche. Perciò Erasmo rivolge il proprio interesse, oltre che al Nuovo Testamento, ai padri della Chiesa, la cui dottrina gli sembra ispirarsi direttamente alle fonti cristiane, ma ripudia la speculazione scolastica, ritenendo che essa abbia smarrito, disputando questioni oziose, il senso originario del cristianesimo. In modo analogo, all’esteriorità delle cerimonie ecclesiastiche, che nella loro varietà sono spesso oggetto di attrito tra le confessioni religiose, Erasmo contrappone il precetto di Cristo, che invita a un atteggiamento di autentica carità: «Dalle cerimonie nascono i dissidi, dalla carità la pace». Con ciò Erasmo chiarisce quello che sarà il concetto fondamentale della Riforma: il rinnovamento della coscienza cristiana mediante il ritorno alle fonti del cristianesimo. Ma il suo compito si ferma qui. In quanto umanista abituato a muoversi nel mondo dei dotti, Erasmo avversa i tentativi di sommuovere con la religione forze politiche e sociali che gli appaiono estranee al mondo della cultura. Quando nel 1519 Lutero gli indirizza una lettera chiedendogli di pronunciarsi pubblicamente in favore della Riforma, egli, pur approvando gran parte dei principi da cui Lutero muove, si rifiuta di seguirlo e di incoraggiarlo nell’opera rivoluzionaria. Più tardi, nel 1524, Erasmo attacca apertamente la Riforma sul problema del libero arbitrio. Nell’opera intitolata appunto De libero arbitrio, egli rivendica per l’uomo, contro la negazione di Lutero, la libertà di scegliere di salvarsi (o di dannarsi), vedendo nella grazia divina soltanto la causa principale della salvezza e nella libertà dell’uomo la causa secondaria. La salvezza sarebbe così frutto della collaborazione tra l’uomo e Dio. Mentre Lutero si pone decisamente sul terreno della pura fede religiosa, dove l’atteggiamento fondamentale è l’abbandono totale e incondizionato all’onnipotenza divina, Erasmo parla ancora come un umanista filosofo e muove quindi a difendere quella libertà senza la quale la dignità dell’uomo non ha più senso. ➔ T1 p. 52 Per comprendere meglio la figura di Erasmo, è fondamentale tenere conto della difesa appassionata della pace, che costituisce un aspetto imprescindibile del suo pensiero, rintracciabile già nelle sue prime opere. In una esercitazione retorica scritta all’età di vent’anni, l’Oratio de pace et discordia, il giovane Erasmo descrive la sciagura della guerra con accenti accorati, che

Lo studio dei padri della Chiesa e il rifiuto della scolastica

Il rifiuto di schierarsi a favore della Riforma

La difesa del libero arbitrio

La difesa della pace

43

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

anticipano le opere della maturità: «La guerra cambia gli uomini in bestie feroci. Io non esorto e non prego, imploro: cercate la pace». In uno degli Adagia, intitolato Dulce bellum ECHI DEL inexpertis (1515 circa), sostiene che la guerra «è piacevole solo per chi non la sperimenta», PENSIERO mentre nel Sileni Alcibiadis denuncia i disegni bellicisti del papato, mal celati sotto la veste di Le ragioni della pace, p. 50 una missione cristiana. Ma l’opera erasmiana più famosa in questo senso è il Lamento della pace, in cui è la Pace stessa (personificata) a dolersi per la sua sorte di «rigettata e annientata da tutte le nazioni» e a denunciare l’assurdità e gli orrori della guerra, la più tragica e insana tra le follie umane. Prima ancora che offesa a Cristo e alla «vera religione», per Erasmo la guerra rappresenta infatti un oltraggio alla ragione umana e alle virtù che, secondo l’insegnamento dei grandi maestri della classicità latina e greca, essa indica all’uomo. La pace, in tale prospettiva, non è semplicemente assenza di guerra, ma esercizio di virtù morale: «gran parte della pace sta nel volere la pace dal profondo dell’animo» (Il lamento della pace, a cura di F. Cinti, Rizzoli, Milano 2005, p. 157).

Lutero Martin Lutero (1483-1546) è l’assertore più risoluto del ritorno alle fonti cristiane come via di rinnovamento della coscienza religiosa. Egli nega il valore della tradizione cristiana e sceglie di riportarsi direttamente al Vangelo. Contro gli avversari che gli oppongono le dottrine patristiche e scolastiche e i riti secolari della Chiesa, Lutero dice: Io grido: Vangelo, Vangelo! ed essi uniformemente rispondono: Tradizione, Tradizione! L’accordo è impossibile. La giustificazione per mezzo della fede

Testo antologico La fede in Dio (Lutero, De libertate christiana)

L’abbandono a Dio e il rifiuto dell’indagine razionale sulla fede Testo antologico Contro Aristotele (Lutero, De libertate christiana)

Il sacerdozio, i sacramenti e le opere buone

44

Lutero considera il diretto magistero di Cristo e degli apostoli come il solo valido, e la fede nella verità del messaggio cristiano come base esclusiva di salvezza. È questo il principio fondamentale della Riforma: la giustificazione per mezzo della fede. La frase di san Paolo «il giusto vivrà per la sua fede» significa, secondo Lutero, che la giustizia di Dio consiste nel fatto che Dio stesso ci giustifica con la sua grazia. Per l’uomo si tratta di una giustizia passiva: l’uomo che ha fede è l’uomo che è stato giustificato, al quale i peccati sono stati rimessi e che è quindi sicuro della salvezza. La fede è la fiducia nella giustificazione da parte di Dio. La giustificazione per la fede implica, da parte dell’uomo, la rinuncia a ogni iniziativa, l’abbandono fiducioso a Dio, la certezza interiore della salvezza. Da questo punto di vista, il tentativo della scolastica di giustificare la fede con la ragione appare ripugnante e assurdo. La ragione è per Lutero «la più accanita e pestifera nemica di Dio». I filosofi sono tutti «sofisti»; Lutero salva solo Ockham, che aveva sostenuto l’irrazionalità e inverificabilità della fede e l’aveva esclusa dall’ambito dell’indagine razionale. La ricerca razionale significa infatti iniziativa e libertà da parte dell’uomo, mentre la fede significa rinuncia a ogni iniziativa di salvezza e abbandono a Dio. Il ritorno al Vangelo implica, inoltre, la negazione della funzione mediatrice del sacerdozio e dei sacramenti istituiti dalla Chiesa. Lutero riduce i sacramenti prima a tre (battesimo, eucarestia, penitenza), poi a due soltanto: il battesimo e l’eucarestia, giacché questi soli sono stati istituiti da Cristo, come dimostra la testimonianza evangelica. Il valore di questi sacramenti è condizionato dalla fede, che è un puro rapporto tra l’uomo e Dio ed esclude ogni intermediario. Vengono meno la funzione sacerdotale e, quindi, la distinzione tra casta sacerdotale e mondo laico.

Capitolo 3 • Rinascimento e Riforma

La giustificazione per la fede toglie, infine, ogni valore alle cosiddette opere meritorie. Le opere buone, di per sé, non bastano a salvare nessuno. Esse rappresentano il frutto e il segno della salvezza, non la causa di essa. Un albero buono dà frutti buoni, un albero cattivo dà frutti cattivi: l’uomo che ha fede, l’uomo salvo, compie opere buone e l’uomo che non ha fede, qualsiasi cosa faccia, compie opere cattive. Ma le opere buone che sono il segno della salvezza non consistono in riti e cerimonie, bensì nelle opere della vita civile. Ogni uomo ha il suo lavoro, con il quale presta servizio agli altri: questo lavoro è l’unico servizio divino, l’unica opera con cui il cristiano dà testimonianza della propria fede interiore. La vita sociale è il campo in cui deve manifestarsi e divenire operante la fede religiosa. Al De libero arbitrio di Erasmo, Lutero replica nel 1525 con il De servo arbitrio. Il libero arbitrio, secondo Lutero, è nulla, un nome vano: la prescienza e l’onnipotenza divine lo escludono. Dio prevede, propone e manda a compimento con volontà eterna e infallibile tutto ciò che accade. La prescienza e la predestinazione divine implicano che nulla accade che Dio non voglia, e ciò esclude che nell’uomo o in qualsiasi altra creatura vi sia libero arbitrio. Bisogna quindi concludere che Dio opera ugualmente negli uomini il bene e il male (così come un artefice si serve talvolta anche di strumenti cattivi o deteriorati) e che la salvezza (come la dannazione) dell’uomo è soltanto opera sua. In questo senso Lutero fa propria e porta alle estreme conseguenze la dottrina di Agostino sulla grazia. All’obiezione che Dio in tal caso è l’autore del male, Lutero risponde con Ockham che Egli non è tenuto ad alcuna regola o norma. Dio non deve volere una cosa perché è giusta, ma quello che Egli vuole, per ciò stesso, è giusto. Con ciò, Lutero porta la coscienza religiosa alla massima radicalità: per l’uomo l’unica libertà è l’asservimento a Dio e l’unica iniziativa, come l’unico merito, è la rinuncia a ogni iniziativa e ad ogni merito. ➔ T2 p. 53 Questa così assoluta e appassionata negazione della libertà umana ha tuttavia un movente non tanto filosofico, quanto religioso. Quel che a Lutero preme difendere è infatti un atteggiamento di fede intesa come totale abbandono a Dio:

Esercizi interattivi Lutero

La negazione del libero arbitrio e la teoria della grazia

Una religiosità “assoluta”

il sommo grado della fede consiste nel credere che Dio è clemente anche se salva così pochi, anche se condanna così tanti […]. (De servo arbitrio, 42)

Si può quindi notare come, nella disputa tra Erasmo e Lutero sulla libertà umana, non contino tanto le ragioni addotte a sostegno dell’una e dell’altra tesi, quanto la diversità degli atteggiamenti: se Erasmo rimane un umanista filosofo, in Lutero il ritorno al Vangelo determina una religiosità “assoluta” e intransigente.

ConCetti

Il libero arbitrio

a Confronto

in Erasmo

in Lutero

comprende la possibilità di scelta tra salvezza e dannazione

non riguarda la salvezza eterna, perché, in assenza della grazia divina, l’uomo è incline al male a causa del peccato originale

in quanto

quindi

l’uomo “collabora” con Dio nel determinare la propria salvezza

la salvezza o la dannazione dell’uomo dipendono esclusivamente da Dio

Schema interattivo

45

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Zwingli L’universalità della rivelazione

L’uomo crede perché Dio lo ha scelto

Il rifiuto dei riti

Il rinnovamento della vita politica e sociale

Più vicino all’Umanesimo è il riformatore svizzero Huldrych Zwingli (1484-1531), che fa propria la dottrina umanistica di una sapienza religiosa originaria nella quale confluiscono e si accordano i testi delle sacre scritture e quelli dei filosofi pagani. La rivelazione non è per Zwingli un fatto storico determinato e limitato al cristianesimo, bensì un fatto universale: tutto ciò che è stato detto di vero, da chiunque sia stato detto, deriva dalla bocca stessa di Dio. Il concetto di Dio si trasforma, da questo punto di vista, nel senso di un teismo universalistico che accoglie tutte le determinazioni filosofiche della divinità: Dio è l’essere, il bene sommo, l’unità nel senso eleatico, la natura stessa. La salvezza umana dipende da una libera decisione di Dio, decisione che determina nell’eletto la fede giustificatrice. L’uomo crede perché Dio lo ha scelto. E la fede è una fiducia incrollabile nella grazia giustificatrice di Dio, la certezza assoluta di essere nelle mani di Dio e di non poter agire diversamente da come si agisce. Apparentemente, questo principio dovrebbe portare l’uomo allo scoraggiamento e alla rinuncia; in realtà la fiducia nella giustificazione divina ha ispirato le grandi anime religiose ed eroiche della Riforma. Ancor più di Lutero, Zwingli respinge ogni cerimonia, simbolo o sussidio esterno della religione. La stessa eucarestia è per lui una pura cerimonia simbolica: il corpo di Cristo non è il corpo reale, ma la comunità dei fedeli che diventa il corpo di Cristo nell’atto di rievocare simbolicamente, nella cerimonia eucaristica, il sacrificio del figlio di Dio. Come Lutero, Zwingli vuole impegnare l’uomo nella vita sociale, all’interno della quale soltanto è possibile compiere le opere buone che rivelano la grazia giustificatrice. E mentre sul terreno sociale Lutero si era fermato al più schietto conservatorismo e aveva combattuto i movimenti della piccola nobiltà e dei contadini, che, in nome degli ideali stessi della Riforma, avevano cercato di sottrarsi al giogo dei privilegi feudali, Zwingli vuole rinnovare la vita politica e sociale con un ritorno alla società cristiana originaria. Anche dove riconosce che certi aspetti di quella comunità, ad esempio la comunanza dei beni, non possono realizzarsi che tra santi e non sono possibili in questo mondo, Zwingli ritiene tuttavia che ci si debba avvicinare a quello stato di perfezione con la beneficenza.

Calvino Il ritorno alla religiosità del Vecchio Testamento

La predestinazione

46

Per Giovanni Calvino (1509-1564) il ritorno alle fonti del cristianesimo è essenzialmente il ritorno alla religiosità del Vecchio Testamento. Calvino ammette e difende nella sua opera fondamentale, Istituzione della religione cristiana (1559), l’unità del Vecchio e del Nuovo Testamento, combattendo la tesi che il Vecchio Testamento abbia additato agli Ebrei una felicità puramente terrena. E in realtà dal Vecchio Testamento egli desume il concetto di Dio come assoluta sovranità e potenza, di fronte a cui l’uomo è nulla. Più che amore, Dio è onnipotenza e imperscrutabilità. Dal suo decreto dipendono il corso delle cose e il destino degli uomini. L’uomo si salva unicamente in virtù della predestinazione divina, che lo rende partecipe dei meriti di Cristo. La volontà dell’uomo è nulla di fronte alla predestinazione divina. Ma appunto dalla fede nei meriti di Cristo l’uomo può derivare la fiducia nella propria salvezza, fiducia che sarebbe invece malsicura e incerta se

Capitolo 3 • Rinascimento e Riforma

l’uomo dovesse contare sui meriti propri che sono nulli e insignificanti. Per questa fiducia incrollabile, il calvinista acquista una forza di convinzione che lo porta fino al fanatismo. Il lavoro è per Calvino un dovere sacro e la stessa buona riuscita negli affari può costituire una prova del favore di Dio. Secondo il calvinismo Dio manifesta la sua predilezione aiutando l’uomo a raggiungere la prosperità e il benessere, come risulta dal Vecchio Testamento. E sull’etica calvinista si modellò in qualche misura lo spirito attivo, aggressivo e alieno da ogni sentimentalismo della nascente borghesia capitalistica. Calvino esercitò il proprio magistero religioso quasi unicamente a Ginevra, che si era allora liberata dalla soggezione ai duchi di Savoia, aveva cacciato i feudatari limitrofi e aveva fatto coincidere la sua adesione alla Riforma con la conquista dell’indipendenza e della libertà politica. Calvino vi fu chiamato per la sua fama di teologo, ma si trovò a dover risolvere anche un problema politico. Pur distinguendo l’organizzazione civile da quella religiosa, Calvino promosse una sorta di regime teocratico, che si realizzava, peraltro, mediante forme regolari di elezioni democratiche. Di fatto, Calvino godette di tale autorità che il suo potere personale fu quasi incontrastato fino alla morte: egli lo esercitò con eccezionale abilità e con spietata fermezza. Il controllo del Concistoro, organo collegiale della Chiesa ginevrina incaricato di vigilare sulla vita religiosa, morale e familiare dei cittadini, non conosceva limiti né di estensione, né di forme repressive: per ragioni religiose furono mandate a morte 48 persone, tra cui il medico spagnolo Michele Serveto, che fu arso sul rogo per aver dato delle Scritture alcune interpretazioni troppo libere, che arrivavano a negare la Trinità.

Il lavoro come missione sociale

Calvino a Ginevra

Esercizi interattivi Calvino

Sintesi audio L’età della Riforma

Teologi e mistici della Riforma Il sistematore teologico della Riforma luterana fu Filippo Melantone (Philipp Schwarzerd, 1497-1560), che difese instancabilmente i principi di Lutero e cercò di connetterli con il pensiero antico, e specialmente con le dottrine di Platone e di Aristotele. Dalla Riforma si originarono, da un lato, una corrente mistica che si ricollegava a Maestro Eckhart e agli altri mistici tedeschi del Trecento (v. vol. 1B, unità 7, cap. 3), e, dall’altro, una corrente razionalistica che cercò di isolare nelle Scritture la verità razionale, liberandola dagli elementi mistici. Tra i mistici, il più notevole è Jakob Böhme (1575-1624), un calzolaio autodidatta autore di un’opera intitolata L’aurora nascente. Come Eckhart, Böhme concepisce Dio come la negazione di tutto ciò che è finito e mutevole: come il nulla eterno, il grande mistero, l’eterno abisso dell’essere. La vita divina include in sé l’eterna opposizione tra due principi: la luce e le tenebre, l’amore e l’odio, la natura e il corpo. L’amore può rivelarsi solo attraverso l’odio, la luce è strettamente collegata con le tenebre. Dio è dunque un eterno spirito, ma anche un’eterna natura; e in questa eterna natura è radicato il male del mondo. L’opposizione che è in Dio tra la natura e lo spirito diventa nel mondo la lotta tra il bene e il male, senza la quale sarebbero impossibili la vita e ogni forma della realtà. Il razionalismo religioso fu iniziato dal socinianismo, fondato da Lelio Socini (1525-1562) e continuato dal nipote Fausto Socini (1539-1604), i quali, interpretando razionalisticamente la Bibbia, giunsero alla negazione dei principali dogmi del cristianesimo: la Trinità e l’incarnazione.

Melantone

La corrente mistica: Böhme

Il socinianismo

47

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

3. Controriforma e Riforma cattolica Si suole chiamare “Controriforma” la reazione della Chiesa cattolica alla Riforma protestante, reazione che inizia con il Concilio di Trento (1545-1563). I caratteri della Riforma cattolica

Il Concilio di Trento

Suárez

Molina

Gracián

48

In realtà, in ambito storiografico, per “Controriforma” si intende la risposta della Chiesa a Lutero, mentre con l’espressione “Riforma cattolica” si definisce la revisione che la Chiesa fece di se stessa, sotto l’impulso delle circostanze storiche. Tale processo, risalente già al basso Medioevo, fu inteso ancora una volta come un ritorno ai principi. La Chiesa volle ritornare alla tradizione patristica, a quel periodo nel quale la parola di Cristo aveva preso corpo nell’organizzazione ecclesiastica, erano state fissate le interpretazioni dogmatiche ed erano nati i riti e la gerarchia: con ciò, essa rivendicava il valore della sua tradizione e di tutto ciò che la tradizione aveva istituito e che la Riforma protestante voleva superare con un ritorno diretto al Vangelo. Il Concilio di Trento negò quindi che le Scritture bastassero da sole alla salvezza e si oppose al principio della libera interpretazione, riaffermando il diritto della Chiesa (già difeso dai padri dei primi tempi) di dare, essa sola, l’interpretazione autentica dei testi biblici. Riconfermò anche la funzione mediatrice della Chiesa, la validità dei sacramenti e dei riti, il valore delle opere. Il maggiore rappresentante di questa linea di pensiero fu il cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), gesuita, teologo e consultore del Santo Uffizio. Il ritorno della Chiesa alle sue tradizioni significò anche un ritorno al tomismo. Lo spagnolo Francisco Suárez (1548-1617) iniziò questo ritorno con le sue Dispute metafisiche. E nell’opera Sulle leggi sostenne la tesi secondo cui, mentre il potere ecclesiastico deriva immediatamente da Dio, il potere temporale deriva soltanto dal popolo. La Riforma protestante aveva affermato l’assolutezza del potere politico dei sovrani proprio mentre negava il potere e la funzione della Chiesa. La Controriforma, facendo derivare il potere ecclesiastico da Dio, intende sottrarlo a ogni limitazione o discussione. E attribuendo al potere politico solo il fondamento contingente della volontà popolare, mira a diminuirne il valore. La polemica tra cattolici e riformati si polarizzò spesso intorno al tema del libero arbitrio. Il gesuita spagnolo Luis de Molina (1535-1600) difese nello spirito del tomismo la libertà umana, ritenuta conciliabile con la prescienza e con la predeterminazione divine. La grazia divina coopera con il libero arbitrio dell’uomo, ma non lo abolisce. L’atteggiamento dell’uomo della Controriforma nel mondo è illustrato dall’opera di un altro gesuita spagnolo, Baltasar Gracián y Morales (1601-1658), autore di un Oracolo manuale, pubblicato nel 1647, le cui massime richiamano spesso quelle di Guicciardini (v. p. 57). In quest’opera Gracián insiste tanto sulle doti essenziali della personalità umana, quali il sapere, la fermezza, il coraggio, quanto sull’accortezza pratica che consente di destreggiarsi nei casi della vita e di prevalere sugli altri garantendosi il successo. Le massime di questo gesuita costituiscono un altro segno di quel mondanizzarsi dello spirito religioso che la Controriforma ha in comune con la Riforma.

Capitolo 3 • Rinascimento e Riforma

MAPPA I pensatori del rinnovamento religioso Mappa interattiva

ERASMO

denuncia del declino morale della società (Elogio della pazzia)

denuncia della corruzione della Chiesa e del papato (Manuale del milite cristiano)

difesa del libero arbitrio (De libero arbitrio)

difesa della pace (Lamento della pace)

LUTERO

fede come completo abbandono a Dio e fiducia nella sua grazia

negazione della funzione mediatrice del sacerdozio

negazione del libero arbitrio (De servo arbitrio)

ZWINGLI

universalità della rivelazione

salvezza umana determinata da Dio

rifiuto dei riti

rinnovamento della vita politica e sociale

CALVINO

ritorno al concetto veterotestamentario di Dio

primato della predestinazione divina sulla volontà umana

lavoro come dovere sacro e “vocazione”

La RIFORMA CATTOLICA

autorevisione della Chiesa

ritorno alla tradizione patristica e soprattutto a Tommaso

riaffermazione della funzione mediatrice della Chiesa

conciliazione del libero arbitrio umano con la predestinazione divina

49

Politica

Cittadinanza e Costituzione

ECHI DEL PENSIERO Le ragioni deLLa pace

L’attualità della lezione pacifista di Erasmo

E

rasmo da Rotterdam fa dell’impegno intellettuale e diplomatico a favore della pace il perno di tutta la sua vita. Più che un’idea o un ideale da perseguire, la pace diventa per lui quasi un’ossessione, che emerge in numerosi suoi scritti e che ancora oggi, in un’epoca segnata dalla guerra come da qualcosa di ineliminabile e ineluttabile, rappresenta una testimonianza particolarmente vitale ed eloquente, spunto per importanti riflessioni.

La “voce” deLLa pace negLi scritti di erasmo Fortemente toccato dai cruenti conflitti che, tra il XV e il XVI secolo, lacerano il tessuto civile e politico della christianitas, Erasmo si schiera ripetutamente a favore della pace. Nel Sileni Alcibiadis, uno degli Adagia (proverbi o motti) che comincia a raccogliere a partire dal 1500, egli trae spunto dal noto paragone platonico tra Socrate e la figura di un sileno (entrambi goffi e brutti fuori, ma belli nell’interiorità) e denuncia con toni graffianti i disegni bellicisti del papato: Io voglio che i pontefici siano armati fino ai denti: ma con le armi del vangelo, lo scudo della fede, l’usbergo della giustizia, la spada della salvezza che è la parola di Dio. Li voglio al massimo pugnaci e battaglieri: ma contro i veri nemici della Chiesa: la simonia, la superbia, la lussuria, l’ambizione, l’ira, la miscredenza. Questi sono i Turchi che i cristiani devono tenere costantemente sotto controllo, devono combattere senza tregua. […] Che senso ha confondere il cielo con la terra, il basso con l’alto, il paganesimo col cristianesimo, il profano col sacro? […] Che c’entra la mitra con l’elmo? Che c’entra il pallio episcopale con la corazza di Marte? Che c’entrano le benedizioni coi cannoni? (Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, p. 101)

Ma il più celebre degli scritti pacifisti di Erasmo è certamente il Lamento della pace (Querela Pacis), redatto nel

50

1517. Se nella sua opera più famosa, il Moriae Encomium (1509) il filosofo aveva fatto parlare la Pazzia, nella Querela Pacis realizza invece una vivida personificazione della Pace, rendendola protagonista di un “lamento” che, secondo il doppio significato del vocabolo latino querela, è anche una “denuncia”. Lo scritto presenta infatti due diversi livelli di lettura: è un severo atto d’accusa contro i potenti del mondo (vescovi e principi, papi e re), che dovrebbero provvedere al bene dei popoli e che al contrario seminano violenza e distruzione; ma è anche un lamento amaro per tutti quei cristiani che ignorano, travisano o usano male il messaggio di Cristo, piegandolo alla volontà di dominio, agli egoismi e all’odio. Lo scritto di Erasmo non ha soltanto un carattere morale e sarebbe sbagliato interpretarlo come l’utopia di un pacifista incapace di realismo politico. Al contrario, Erasmo si sforza di offrire una serie di consigli pratici volti a evitare le guerre: attenuare le passioni nazionalistiche a favore di un comune sentimento di umanità e di solidarietà; dare stabilità ai confini territoriali per evitare le controversie tra gli Stati; fissare rigide regole per la successione onde evitare contestazioni e aggressioni tra i vari candidati al trono; organizzare sistemi di arbitrato tra gli Stati, sottraendo ai regnanti la facoltà di dichiarare guerra da soli. Del resto, qualunque sia il pretesto che la scatena, ogni guerra è per Erasmo sommamente ingiusta, perché

danneggia gli innocenti che, pur non avendola voluta, sono costretti a subirla: «Nessuna pace è così iniqua da non essere preferibile alla più equa delle guerre» (Il lamento della pace, p. 145). Quello del filosofo di Rotterdam è dunque un ripudio totale e incondizionato della guerra, anche di quella che Agostino, Tommaso e il pensiero “ufficiale” della Chiesa reputavano “giusta” in quanto legittima difesa contro l’altrui aggressione. Essere «soldato di Cristo» significa invece, per Erasmo, agire sempre come «difensore della pace», perché Cristo è colui che ha portato «pace in terra per gli uomini di buona volontà». Per questo la denuncia della guerra si intreccia, nelle sue opere, con la polemica verso la corruzione della Chiesa, che per sete di potere ha tradito il Vangelo, macchiandosi di atti di violenza: Ormai i sacerdoti seguono gli stessi accampamenti, i vescovi ne sono a capo e, abbandonate le loro chiese, sostengono la causa di Bellona [mitologica divinità latina della guerra]. Ormai la guerra stessa genera sacerdoti, genera vescovi, genera cardinali, per i quali il titolo di legato di campo è ritenuto onorifico e degno dei successori degli apostoli. […] E perché il male sia più insanabile, ammantano una così grande empietà con la parvenza della pietà. […] Che hai a che fare con la croce, soldato scellerato? […] Tale segno appartiene a Chi vinse non combattendo, ma morendo. (Il lamento della pace, p. 139)

da erasmo aL pacifismo radicaLe di oggi Il tono appassionante e intransigente della Querela Pacis ci colpisce per la sua sconfortante attualità. Oggi come ieri, la pace ha ancora motivo di “lamentarsi” e gridare con forza la sua protesta contro i potenti della terra: A cinque secoli dalla loro pubblicazione, tutti questi scritti sulla pace ci sembrano ancora vivissimi e attuali, grazie soprattutto ai valori universali che vivificano le loro pagine: la dignità dell’uomo, la ragione, la fratellanza, l’amore reciproco. All’alba del terzo millennio come nel XVI secolo, la guerra appare un’aberrazione stupida, atroce e odiosa, del tutto incompatibile non solo con le massime evangeliche, ma con la razionalità stessa della stirpe umana. (Federico Cinti, “Introduzione” a Erasmo, Il lamento della pace, pp. 46-47)

Per questi motivi, Erasmo può essere considerato come il lontano “padre” delle attuali forme di pacifismo radicale. Si tratta di concezioni totalmente “non violente” della vita, che rifiutano l’azione bellica anche qualora essa appaia giustificata per il suo carattere “difensivo” o sia considerata un’impresa “umanitaria”, cioè un atto volto a difendere i diritti dei popoli o a introdurre regimi democratici. Ma, al di là, del fatto che si condivida o meno una simile incondizionata condanna morale della guerra, la lezione erasmiana rappresenta comunque, per tutti, una sfida alla quale non ci si può sottrarre.

LABORATORIO DELLE IDEE

VERSO LE COMPETENZE 1. Secondo Erasmo la guerra è un male assoluto. Ritieni che l’uomo possa imparare a ripudiare la guerra w Comprendere le radici in modo definitivo, oppure pensi che l’uso della forza o della violenza sia insito nella natura umana? concettuali e filosofiche dei principali 2. Erasmo suggerisce ai potenti del suo tempo alcuni accorgimenti pratici per evitare il ricorso alla guer- problemi della contemporaneità ra. Ritieni che possano essere in qualche modo praticabili anche oggi, in una realtà geopolitica partiw Riflettere e argomentare, colarmente complessa? individuando collegamenti e relazioni 3. Il tema della “guerra giusta” divide da sempre l’opinione pubblica, soprattutto nel nostro paese. Dopo esserti documentato circa le posizioni dei nostri principali studiosi sull’argomento, prova a esprimere un tuo personale giudizio su questo spinoso problema. 4. Utilizzando la forma letteraria del monologo, componi anche tu un moderno e attuale “Lamento della Pace”, che si rifaccia alla lezione dei grandi classici del pensiero per mostrare l’irrazionalità delle scelte contro la pace che ancora oggi vengono compiute.

51

I TESTI CAPITOLO 3

Rinascimento e Riforma Erasmo Nel 1524, con la dissertazione De libero arbitrio, Erasmo prende posizione contro la dottrina luterana della predestinazione. L’intento che lo muove sembra essere di natura pratica, più che teorica: nella prima parte dello scritto, infatti, egli si interroga sulle conseguenze che la tesi di Lutero può avere sul comportamento degli uomini, giungendo alla conclusione che, deresponsabilizzando l’individuo, essa favorirebbe il vizio e il disimpegno.

t1 >

in Che Cosa Consiste il libero arbitrio

Il brano proposto di seguito, tratto dalla parte finale del De libero arbitrio, chiarisce bene il cuore della polemica di Erasmo con Lutero riguardo alla libertà di scelta dell’uomo.

2 4 6 8 10 12 14 16 18

52

[…] nell’azione umana ci sono tre parti: l’inizio, lo sviluppo ed il compimento […]. Così due cause concorrono alla stessa azione, cioè la grazia divina e la volontà umana; ma la grazia è la causa principale, la volontà è la causa secondaria che non può nulla senza la principale mentre questa, cioè la grazia, è autosufficiente così come il fuoco brucia per virtù sua naturale, benché Dio sia la sua causa essenziale che sottintende l’azione del fuoco e senza la quale il fuoco perderebbe tutta la sua efficacia se essa venisse a mancargli […]. Si vede pertanto come, in virtù di questo accordo, l’uomo dovrebbe fare omaggio intero della sua salvezza alla grazia divina, dato che la parte che è riservata al libero arbitrio è sì poca cosa e per di più esso trae ancora la sua origine dalla stessa grazia di Dio che ha, tanto per cominciare, creato il libero arbitrio, prima ancora di liberarlo e guarirlo. Così saranno rassicurati, per tanto che li si possa rassicurare, quelli che credono che l’uomo nulla possa perseguire di bene se Dio non lo vuole per lui. […] Proviamo ad esporre il nostro punto di vista servendoci di un paragone. L’occhio umano, per sano che sia, non vede nelle tenebre; ma se fosse accecato non vedrebbe più nulla neppure alla luce. La volontà, pure, ancorché libera, nulla può se si sottrae alla grazia: in piena luce colui che ha buoni occhi può chiuderli per non vedere nulla e può distoglierli da ciò che guardava per cessare di guardare ciò che era capace di vedere. Ma colui che aveva gli occhi malati deve essere grandemente riconoscente per aver recuperato la vista: deve gratitudine innanzitutto al Creatore e poi al medico. Prima del peccato l’occhio era assolutamente sano, è il peccato che lo ha guasta-

Capitolo 3 • Rinascimento e Riforma

to. Che cosa può dunque attribuire a se stesso colui che vede? Può tutt’al più rivendicare a sé il diritto di chiudere o di distogliere gli occhi per paura della luce.

20

Analisi del testo 1-6 Individuando nell’azione (salvifica) dell’uomo tre «parti», ovvero tre momenti di un unico processo («l’inizio, lo sviluppo ed il compimento»), Erasmo può attribuirvi origini o cause diverse: mentre l’impulso iniziale e il traguardo finale dipendono dalla grazia divina, lo svolgimento è legato alla libera scelta dell’individuo, il quale può decidere se assecondare o meno il “movimento” impresso da Dio. In questo senso in ogni azione sono riconoscibili «due cause»: l’una «principale» e «autosufficiente», senza la quale l’azione stessa non può avere luogo; l’altra «secondaria», che dipende dalla prima. L’immagine del fuoco concretizza efficacemente questa tesi. 7-12 Da queste righe emerge chiaramente la natura “mediatrice” della soluzione di Erasmo: pur non accogliendo gli aspetti più radicali ed eccessivi della dottrina

luterana, egli cerca tuttavia di conservarne «i principali vantaggi», primo tra i quali la proposta di un ritorno a una fede autentica, che riconosca solo in Dio la fonte ultima di ogni bene. 13-21 La metafora della vista contribuisce a chiarire ulteriormente la dottrina erasmiana. La grazia divina è il medico che risana l’occhio malato (la volontà dell’uomo corrotta dal peccato orginale), traendolo fuori dalle tenebre: essa è dunque la condizione prima e indispensabile perché l’uomo possa agire in direzione della propria salvezza. All’uomo, tuttavia, è riconosciuta la libertà di scegliere (il «diritto», r. 21) di non assecondare l’azione salvifica di Dio, esattamente come, ormai posto in piena luce, l’uomo dalla vista risanata può scegliere di chiudere gli occhi.

I TESTI

(E. da Rotterdam, Il libero arbitrio, parte IV, in Erasmo: il libero arbitrio, a cura di R. Jouvernal, Claudiana, Torino 1969)

Lutero Al De libero arbitrio di Erasmo, Lutero risponde con il De servo arbitrio (1525), in cui, pur riconoscendo all’uomo la capacità di intendere e di volere, gli nega la facoltà di concorrere alla propria salvezza.

t2 > Laboratorio sul testo

2 4 6

«il libero arbitrio non è affatto libero»

Il senso fondamentale della dottrina luterana della predestinazione è che la libertà dell’uomo non si può comprendere se non a partire dalla libertà di Dio, che ne costituisce il fondamento e la condizione. In questo senso, nel brano che segue, Lutero propone di circoscrivere nettamente l’ambito di riferimento dell’espressione “libero arbitrio”, che non può in alcun modo essere utilizzata relativamente alla scelta della salvezza o della dannazione da parte dell’uomo.

Tu riconosci al libero arbitrio una sia pur modesta forza, ma tale da riuscire del tutto inefficace senza la grazia di Dio. Non è questa la tua affermazione? Ora io ti domando: se mancasse la grazia di Dio o si separasse da tale modesta forza, che cosa questa potrebbe fare? Tu rispondi che è inefficace e che non fa nulla di buono. Ed allora non farà ciò che Dio e la sua grazia vorrà, dal momento che abbiamo supposto da lei separata la grazia di Dio. Ma ciò che la grazia di Dio non fa, non è buono. Ne consegue che il libero arbitrio, senza la grazia di Dio, non è affatto libero, ma è immutabilmente prigioniero e schiavo del male, non potendo da solo rivolgersi al bene.

53

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

8

I TESTI

10 12 14 16 18 20 22 24 26 28

Ne segue allora che il libero arbitrio è un titolo divino, che a nessuno compete se non alla sola divina maestà, la quale può e fa (come canta il Salmo) tutto ciò che vuole in cielo e in terra. E, se lo si attribuisse agli uomini, sarebbe come attribuire loro la stessa divinità, ciò che costituirebbe il più grave sacrilegio possibile. Perciò sarebbe stato dovere dei teologi astenersi da questo termine nel parlare delle capacità umane e riservarlo a Dio solo; avrebbe quindi dovuto eliminarlo dalla bocca e dai discorsi degli uomini e, come nome sacro e venerabile, assegnarlo a Dio, al quale appartiene. E, se i teologi volessero proprio attribuire una certa forza agli uomini, avrebbero dovuto definirla con un vocabolo diverso da “libero arbitrio”, tanto più che si è riconosciuto e constatato come il popolo si lasci miseramente ingannare e fuorviare da tale vocabolo, in quanto lo intende e lo interpreta ben diversamente da come i teologi lo interpretano e lo definiscono. “Libero arbitrio”, infatti, è una parola troppo imponente, grandiosa e robusta; e con essa il popolo reputa che sia significata, come vorrebbe la natura e l’estensione del termine, una energia tale, da poter liberamente volgersi o a Dio o a Satana e da non cedere o lasciarsi assoggettare da alcuno. […] E se non vogliamo eliminare del tutto il termine “libero arbitrio”, che sarebbe il provvedimento più sicuro e più religioso, insegniamo almeno coscienziosamente ad usarlo nel senso che un libero arbitrio ci è dato non rispetto a quanto ci è superiore, ma rispetto a quanto ci è inferiore, e cioè affinché l’uomo sappia di avere il diritto di usare, fare, tralasciare, a seconda della libera volontà, nel campo delle sue facoltà e dei suoi possessi, anche se pure questo diritto sia in realtà governato dal libero arbitrio del solo Dio, nella direzione che a Lui piaccia. Ma per il resto la libertà umana non ha libertà per quanto riguarda Dio o le cose pertinenti alla salvezza o alla dannazione; e l’uomo è prigioniero, soggetto e schiavo o della volontà di Dio o della volontà di Satana. (M. Lutero, De servo arbitrio, trad. it. di A. Agnoletto, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1977, pp. 1118-1121)

Analisi del testo 1-7 Rispondendo direttamente ad Erasmo, secondo il quale il libero arbitrio umano rimane inefficace senza l’intervento della grazia di Dio (v. T1), Lutero osserva che «il libero arbitrio, senza la grazia di Dio, non è affatto libero» (r.  6). A questa conclusione egli giunge per via “deduttiva”, cioè ricavando le conseguenze della stessa affermazione erasmiana: se, senza la grazia divina, il libero arbitrio si volge al male, allora esso o è determinato dalla grazia, o è «schiavo del male», ma in ogni caso non è libero. 8-21 Se, sulla base di quanto si è detto nelle righe precedenti, il libero arbitrio non si può attribuire all’uomo, ma solo a Dio, cioè a quella «divina maestà, la quale può e fa […] tutto ciò che vuole» (r. 9), ne consegue che l’espressione “libero arbitrio”, riferita all’uomo, dovrebbe essere eliminata, dal momento che finisce per essere equivoca e sacrilega.

54

22-29 L’espressione “libero arbitrio” può essere conservata e utilizzata solo a patto che la libertà dell’uomo venga intesa come la possibilità di scegliere non tra la propria salvezza e la propria dannazione (ambito che è «superiore» alle facoltà umane), ma solo relativamente a «quanto ci è inferiore». Appare netta l’inconciliabilità di questa posizione con quella di Erasmo, il quale, da filosofo umanista quale era, non avrebbe mai potuto ammettere un uomo così poco padrone di se stesso. Rivolgendosi a Erasmo, Lutero afferma: «Dio non ha voluto che tu fossi all’altezza dell’argomento trattato e non ti ha concesso i mezzi per adeguatamente parlarne». E aggiunge: «Ti prego di non vedere in queste parole alcuna arroganza. Prego, anzi, il Signore di renderti presto a me superiore in questo campo teologico, così come tu lo sei già negli altri, specie nel campo filologico».

CAPITOLO 4

Rinascimento e politica 1. L’ideale di un rinnovamento politico L’Umanesimo rinascimentale è strettamente collegato anche a un’esigenza di rinnovamento politico. Si vuole infatti rinnovare l’uomo non soltanto nella sua individualità, ma anche nella sua vita associata. Il ritorno alle origini, che anche in questo caso è la parola d’ordine, è inteso da un lato come il ritorno di una comunità storica determinata, di un popolo o di una nazione, alle proprie origini storiche, per trarre da esse nuova forza e vigore; dall’altro come il ritorno al fondamento stabile e universale di ogni comunità e quindi come il riassestamento e la riorganizzazione della società sulla propria base naturale. Storicismo e giusnaturalismo sono pertanto i due aspetti in cui si concreta la volontà politica rinnovatrice del Rinascimento. ■■■ Lo storicismo risale al neoplatonismo, ma ne abbandona la connotazione teologica. ■■■ Il giusnaturalismo trova la propria radice nell’antico stoicismo, e in particolare nella dottrina del diritto naturale che aveva dominato l’antichità e il Medioevo, e anch’esso tende a perdere le sue implicazioni teologiche. Per gli stoici, come per gli scrittori medievali, l’ordine naturale della comunità umana si identificava da un lato con la ragione e dall’altro con Dio. Gli scrittori del Rinascimento accolgono solo la prima di queste identità: il diritto naturale, base di ogni comunità umana, è il dettato stesso della ragione.

Storicismo e giusnaturalismo

2. Lo storicismo Machiavelli Iniziatore dell’indirizzo storicistico è Niccolò Machiavelli (1469-1527), che dedicò la propria vita al tentativo di realizzare una comunità politica italiana, riconoscendo la via per tale realizzazione in un ritorno alle origini della storia d’Italia. L’indagine storiografica diretta a individuare queste origini si saldò in lui strettamente al lavoro di ricostruzione dell’unità

55

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

politica del popolo italiano. Il Principe (composto nel 1513, ma pubblicato solo nel 1532, postumo) e i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio (1513-1519) mostrano in atto proprio l’unità di giudizio storico e di giudizio politico che costituisce la caratteristica fondamentale di Machiavelli e che fa di lui il primo scrittore politico dell’età moderna. Il ritorno ai principi per rinnovare la vita associata

Il realismo politico

Virtù e fortuna

56

Nei Discorsi Machiavelli afferma che il solo modo in cui le comunità possono rinnovarsi, e così sfuggire alla decadenza, è quello di «ridursi verso i loro principi»: tutti i principi hanno in sé qualche bontà, dalla quale le comunità possono recuperare la loro vitalità primitiva. Nell’antica Roma spesso furono le sconfitte a fare in modo che gli uomini ritornassero alle forme originarie della loro convivenza; e a questo fine mirarono anche i tribuni della plebe e i censori, che richiamavano i cittadini alla virtù originaria. Anche la religione cristiana è stata richiamata al suo principio da san Francesco e da san Domenico, i quali, predicando la povertà e l’esempio della vita di Cristo, le hanno ridato la sua forza primitiva. Allo stesso modo, se la nazione italiana vuole riacquistare unità e libertà, deve ritornare alle origini, che Machiavelli individua nella Roma repubblicana. Per far questo è indispensabile, in primo luogo, riconoscere l’autentico significato di quel periodo storico e trarne tutto l’insegnamento che esso può dare. In secondo luogo, è necessario conoscere nella loro verità effettuale le concrete condizioni dalle quali o attraverso le quali il ritorno deve essere realizzato. Di qui i due caratteri principali che contraddistinguono l’attività di Machiavelli: la ricerca dell’oggettività storica e il realismo politico. Rinunciando a ogni vagheggiamento di repubbliche e principati ideali, Machiavelli indica il compito del politico, identificato nella figura del «principe», nell’attenersi alla realtà di fatto e nell’affrontare a occhi aperti le dure esigenze del suo compito. Questo compito è tale da non poter essere limitato o impedito da altre preoccupazioni, sia pure di natura morale. Il principe, se vuole riuscire nei suoi disegni, deve fare i suoi calcoli per il caso peggiore: deve perciò presupporre che tutti gli uomini siano cattivi. Deve imparare a «poter esser non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità». In altri termini, il compito del politico ha una sua moralità immanente, che non sempre coincide con la moralità propria del privato cittadino. Machiavelli ritiene tuttavia che il male commesso dal principe debba sempre e immediatamente essere rivolto al bene, cioè all’utilità dei sudditi; altrimenti si ritorce contro colui che lo adopera e ne provoca la rovina. Pur constatando l’instabilità degli eventi storici, Machiavelli si rifiuta di ritenere che le cose del mondo siano governate dalla fortuna o da Dio in modo che gli uomini non possano correggerle o portarvi rimedio: se così fosse, la libertà dell’uomo sarebbe nulla e l’unico atteggiamento possibile sarebbe quello di «lasciarsi governare dalla sorte». La fortuna, per Machiavelli, è arbitra della metà delle azioni umane e lascia governare agli uomini l’altra metà o poco meno. È come un fiume che, quando straripa, travolge tutto, ma il cui impeto risulta meno rovinoso quando l’uomo ha provveduto per tempo a costruire argini e ripari. La fortuna manifesta la sua potenza soprattutto dove non c’è, a resisterle, una «ordinata virtù». L’uomo può opporsi alla fortuna prestando attenzione alla storia e riportandosi al passato: saldando al passato l’avvenire eviterà i cambiamenti inconcludenti e bruschi. Secondo Machiavelli, dunque, l’azione dell’uomo si inserisce nel corso degli eventi ed è condizionata da essi, ma quanto più è storicamente fondata e consapevole, tanto meglio arri-

Capitolo 4 • Rinascimento e politica

verà a dominarli, cosicché la metà che nel corso di essi spetta alla libertà umana può diventare la metà decisiva. In altre parole, l’uomo può riuscire a dominare la fortuna se non si abbandona agli eventi, ma si impegna attivamente nella storia, traendo dal passato gli ammaestramenti per l’avvenire. Pur non eliminando tutti i rischi, questo atteggiamento è l’unico che possa risolvere a favore dell’uomo la tensione tra fortuna e libertà.

Esercizi interattivi Machiavelli

Guicciardini Le opere storiche di Francesco Guicciardini (1483-1540), e in particolare i Ricordi politici e civili, mostrano una prospettiva più individualistica rispetto a quella di Machiavelli: Guicciardini considera la realtà politica dal punto di vista del «suo particulare», cioè della sua condizione e del suo interesse personali. Come Machiavelli, anche Guicciardini ritiene che l’uomo non debba «lasciarsi portare dal corso dell’acqua», cioè dalla sorte, ma piuttosto affidarsi alla riflessione e all’esperienza. Egli sottolinea la necessità dell’impegno attivo dell’uomo nella realtà politica, di un realismo vigile e operoso che corregga, anche quando non può deviare del tutto, il corso degli eventi. Per questo apprezza la fede, che produce l’ostinazione grazie alla quale l’uomo può trovare la via del successo attraverso mille impedimenti: «chi ha fede conduce cose grandi» (Ricordi politici e civili, 1). Tuttavia, né la fede, né l’accortezza, per quanto possano moderare molte situazioni, sono sufficienti a garantire il successo. Resta infatti decisivo, nelle vicende umane, il ruolo della fortuna, che si configura come pura casualità, senza alcun ordine provvidenziale. Quest’ultimo, se anche esiste, è impenetrabile per gli uomini. In ultima analisi, risulta evidente che per Guicciardini la «macchina mondana», cioè l’ordine naturale delle cose, incoraggia gli uomini all’attività. Ad esempio, se gli uomini non pensano alla morte, pur sapendo di dover morire, non è perché la morte sia lontana, dato che anzi essa è sempre incombente, ma perché il pensiero della morte renderebbe il mondo «pieno di ignavia e di torpore» (Ricordi politici e civili, 160). Guicciardini ritiene che gli uomini siano naturalmente inclini al bene, ma che si allontanino facilmente da tale disposizione a causa della fragilità della loro natura e dell’infinità di occasioni che li invitano al male. Il risultato è che gli uomini cattivi sono più dei buoni. Pertanto è saggio da parte del politico non fidarsi se non dei pochi che conosce veramente e tenere nei confronti degli altri gli occhi bene aperti, pur senza mostrarlo. Il governo deve fondarsi più sulla severità che sulla dolcezza: mescolare con la debita proporzione queste due caratteristiche è l’arte più alta e difficile dell’uomo politico. Costui, infine, deve apparire, ma anche essere, poiché l’apparenza alla lunga si smaschera:

L’impegno attivo dell’uomo e la fortuna

La natura umana e l’opera del politico

Fate ogni cosa per parere buoni, ché serve a infinite cose; ma perché le opinioni false non durano, difficilmente vi riuscirà il parere lungamente buoni se in verità non sarete. (Ricordi politici e civili, 44)

È la stessa esigenza del successo, quindi, a richiedere e giustificare una sostanza morale intrinseca dell’azione politica.

57

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Botero L’insegnamento politico di Machiavelli viene raccolto intorno alla fine del Cinquecento da Giovanni Botero (1544-1617), autore dei 10 libri intitolati Della ragion di Stato (1589). La «ragione di Stato»

Le virtù del principe

La stessa nozione di “ragione di Stato” è eredità del machiavellismo: «Ragione di Stato – dice Botero – si è notizia dei mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio». Con ciò riconosce all’arte politica un’autonomia, una logica e una normatività intrinseche, che ne fanno una sfera a sé: il che era, appunto, il risultato fondamentale dell’opera di Machiavelli. Ma la novità di Botero nei confronti di Machiavelli consiste nell’includere, tra le esigenze della ragione di Stato, le stesse esigenze della morale. Così egli ritiene che «sia necessaria l’eccellenza della virtù nel principe», perché il fondamento dello Stato sta nell’obbedienza dei sudditi e questa è incentivata appunto dalla virtù del principe. Le virtù possono procurare la reputazione e l’amore: tra quelle che producono l’amore la principale è la giustizia e tra quelle che procurano la reputazione la principale è la prudenza. La giustizia deve essere garantita dal principe sia nei rapporti con i propri sudditi, sia nei rapporti dei sudditi tra loro. La prudenza esige che il principe si lasci guidare nelle sue deliberazioni esclusivamente dall’interesse. E perciò non deve fidarsi d’amicizia, non di affinità, non di lega, non d’altro vincolo nel (Della ragion di Stato, 60) quale chi tratta con lui non abbia fondamento di interesse.

Preoccupato com’è della conservazione dello Stato, più che della sua fondazione e del suo ampliamento, Botero predilige la via della prudenza, condannando invece le grandi ambizioni e i grandi progetti e diffidando dell’astuzia troppo sottile. L’astuzia persegue l’interesse ancor più di quanto faccia la prudenza, ma la sua sottigliezza è spesso un ostacolo: come un orologio quanto più è complesso tanto più facilmente si guasta, così i disegni e le imprese fondati su una sottigliezza troppo minuta spesso finiscono per fallire. L’uso della religione

Quanto alla religione, Botero, che vive nel clima della Controriforma, la considera come uno dei fondamenti dello Stato e consiglia al principe di circondarsi di un «consiglio di coscienza» formato da dottori di teologia e di diritto canonico, «perché altramente caricarà la coscienza sua e farà delle cose che bisognerà poi disfare se non vorrà dannare l’anima sua e de’ successori». Quello di Botero è dunque un “machiavellismo timorato di Dio”, che mescola precetti di morale e di religione a indicazioni di comportamenti subdoli.

3. Il giusnaturalismo L’altra delle due correnti in cui si esprime lo sforzo politico di rinnovamento del Rinascimento è quella del giusnaturalismo, che si propone di chiarire la natura permanente e razionale dello Stato, allo scopo di riportare a essa ogni comunità politica esistente.

58

Capitolo 4 • Rinascimento e politica

Moro Si può vedere una prima manifestazione della tendenza giusnaturalistica nell’opera dell’inglese Tommaso Moro (Thomas More, 1478-1535), letterato e statista noto per essere stato imprigionato e condannato a morte a causa della sua opposizione all’atto con cui il parlamento dichiarava nullo il matrimonio di Enrico VIII con Caterina d’Aragona. Moro espone le proprie idee soprattutto in Utopia (1516), una sorta di romanzo filosofico che contiene la proiezione fantastica di quello che dovrebbe essere uno Stato conforme a ragione, nel quale gli stessi principi religiosi sono quelli che la ragione può difendere e far valere. Il punto di partenza di Moro è la critica delle condizioni sociali dell’Inghilterra del suo tempo. L’aristocrazia terriera andava sostituendo alla coltura dei cereali i pascoli dei montoni, dalla cui lana ricavava un reddito maggiore. I contadini venivano cacciati dalle case e dai poderi e non avevano altra scelta che l’accattonaggio (per il quale la regina Elisabetta aveva istituito pene severe) e il furto. Dall’analisi di questa situazione il filosofo è indotto a vagheggiare una riforma radicale dell’ordinamento sociale. Così, nell’isola di Utopia descritta nell’opera omonima, la proprietà privata è abolita. La terra è coltivata a turno dagli abitanti. L’oro e l’argento non hanno alcun pregio e servono per gli utensili più umili. Ognuno ha un proprio mestiere e ci sono appositi magistrati, detti «sifogranti», a vigilare affinché nessuno rimanga ozioso. Gli isolani lavorano solo sei ore e dedicano il resto del tempo alle lettere o al divertimento. La cultura è rivolta all’utilità comune, a cui ogni interesse particolare viene subordinato. I cittadini coltivano le scienze positive e la filosofia, integrandone le conoscenze con i principi della religione, poiché la ragione non è ritenuta capace, da sola, di condurre l’uomo alla felicità. La solidarietà è fondata sul principio del piacere, il quale costituisce la sola guida naturale per il comportamento dell’uomo. Quest’ultimo, infatti, non sarebbe portato ad aiutare il prossimo, cioè a procurargli piacere, se non ritenesse che ciò è per lui un bene; ma ciò che è un bene per l’altro è un bene anche per se stessi, e il piacere è il fine assegnato all’uomo dalla natura. Un’altra caratteristica fondamentale di Utopia è la tolleranza religiosa: tutti riconoscono l’esistenza di un Dio creatore dell’universo e autore del suo ordine provvidenziale, ma ognuno lo concepisce e lo venera a proprio modo. Ognuno può cercare di persuadere l’altro, purché non ricorra alla violenza o all’ingiuria. È vietata soltanto la dottrina che nega l’immortalità dell’anima e la provvidenza divina, ma chi la professa non viene punito, bensì solo impossibilitato a diffondere la propria credenza.

La critica alla società inglese

L’organizzazione della società di Utopia

Testo antologico L’abolizione della proprietà privata (Moro, Utopia)

La tolleranza religiosa

Testo antologico La libertà di religione (Moro, Utopia)

Bodin Più realistico è l’indirizzo seguito dal francese Jean Bodin (1529/30-1596/97), autore dei Sei libri della repubblica e di un dialogo intitolato Heptaploméres (perché vi sono introdotti sette interlocutori).

59

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

La sovranità e le leggi di Dio e della natura

La tolleranza religiosa

Diritto naturale e stato di guerra

Bodin riconosce il carattere fondamentale dello Stato nella «sovranità», cioè in un potere predominante e senza limiti: uno, indivisibile, perpetuo e assoluto, cioè non soggetto ad alcuna legge fuorché a quella di Dio e della natura. In altre parole, pur essendo illimitata sul piano della forza effettiva, la sovranità statale, per Bodin, deve conformarsi a quelle leggi superiori non scritte che regolano naturalmente la vita dell’uomo e che sono sanzionate da Dio, e la cui osservanza distingue il potere legittimo dal mero uso della forza. In nome di queste stesse leggi, Bodin difende la tolleranza religiosa. Egli riconosce, infatti, che tutte le religioni e le confessioni religiose hanno un fondamento comune, naturale, cioè razionale, in virtù del quale possono coesistere senza contrasti, né lotte. I principi del diritto naturale, cioè di quelle norme che valgono anche se non sono sancite dalle leggi positive dei singoli Stati, vengono chiariti da Bodin facendo riferimento allo stato di guerra. La guerra, infatti, sospende le leggi positive e gli accordi tra gli Stati, ma non sospende le leggi che sono fondate sulla natura umana, le quali non possono mai venir meno. Proprio lo stato di guerra, dunque, consente di distinguere le leggi umane da quelle naturali ed eterne, che non derivano da convenzioni, ma dalla stessa natura razionale dell’uomo.

Gentili e Althusius Gentili: la guerra

Althusius: la sovranità popolare

Secondo Alberico Gentili (1552-1608), autore di un’opera intitolata Il diritto della guerra, la guerra è giusta, cioè conforme al diritto naturale, solo se è difensiva. Essa non sospende le norme del diritto naturale, che si riassumono nel rispetto dei prigionieri, delle donne, dei fanciulli e delle città, e nel non servirsi di armi subdole. Sono invece profondamente ingiuste le guerre di religione, dal momento che nessuno può essere costretto con la violenza a professare un determinato credo. Il tedesco Johannes Althusius (1557-1638) afferma per la prima volta il principio della sovranità popolare. Quella sovranità che Bodin aveva attribuito allo Stato, Althusius la riconosce al popolo, il quale ne delega l’uso ai suoi governanti. Un popolo è una comunità che risulta da un contratto, tacito o espresso, tra i suoi componenti, e che in virtù di tale contratto diventa un organismo vivente di cui i cittadini sono le membra. Il principe è soltanto un magistrato, il cui potere deriva dal contratto: quando egli viene meno agli obblighi che esso stabilisce, il popolo può procedere alla scelta di un nuovo principe o di una nuova costituzione. Queste idee saranno riprese e sviluppate nel XVIII secolo da Jean-Jacques Rousseau (v. vol. 2B, unità 6, cap. 5).

Grozio Il maggiore rappresentante del giusnaturalismo è l’olandese Ugo Grozio (Huig van Groot, 1583-1645), la cui opera fondamentale è Il diritto della guerra e della pace (1625). Il diritto come accordo con la ragione

60

In quest’opera viene alla luce la premessa giusnaturalistica fondamentale, e cioè l’identificazione di ciò che è naturale con ciò che è razionale, motivata dal fatto che la natura umana consiste nella razionalità.

Capitolo 4 • Rinascimento e politica

Proprio sulla natura razionale dell’uomo si fonda, secondo Grozio, il diritto naturale: è la ragione che rivela il valore o il disvalore morale di un’azione, mostrandone l’accordo o il disaccordo con i propri principi. Le azioni comandate dalla ragione sono quindi obbligatorie per se stesse, e sarebbero “buone” anche nel caso assurdo in cui Dio non esistesse o non si preoccupasse delle faccende umane. In realtà, esse sono comandate (o vietate) da Dio appunto perché sono razionali (o irrazionali), e non viceversa. Le azioni considerate dal diritto positivo vigente nei singoli Stati, invece, sono lecite o illecite solo in virtù delle leggi promulgate dagli uomini. Schema interattivo

ConCetti a Confronto

La legge naturale negli stoici antichi

in Tommaso

in Grozio

è una legge perfetta e immutabile, immanente alla natura e superiore alle leggi “positive” dei diversi popoli

è il riflesso, nell’uomo, della legge eterna imposta da Dio a tutto l’universo

è una legge insita nella natura razionale dell’uomo e indipendente dalla volontà (e dalla stessa esistenza) di Dio

Strettamente legata all’affermazione del carattere razionale, e dunque autonomo, del diritto è la dottrina groziana dell’origine dello Stato. Non avendo un fondamento trascendente (non derivando, cioè, da Dio), il potere statuale è legittimato da un patto originario stipulato tra i sudditi e il sovrano. Diversamente da Althusius (per il quale la sovranità spetta solamente al popolo), Grozio ammette la possibilità di un “trasferimento” del potere dal popolo al sovrano, il quale tuttavia è tenuto a rispettare il diritto naturale, ovvero quei principi razionali, universali e immutabili che non sono il frutto di una convenzione, ma che si fondano sulla naturale socievolezza dell’uomo. Come vi è un diritto naturale, così esiste per Grozio una religione naturale, fondata anch’essa sulla ragione. Questa è comune a tutte le epoche storiche e si riduce a quattro principi: 1) Dio esiste ed è uno; 2) Dio non si identifica con le cose visibili, ma è superiore a esse; 3) Dio governa e giudica tutte le cose umane; 4) Dio è l’artefice di tutte le cose naturali. A questi principi fondamentali le singole religioni positive aggiungono altre nozioni, che tuttavia non hanno lo stesso fondamento razionale. Nel complesso, l’opera di Grozio è molto importante perché costituisce la prima affermazione di fede nella ragione umana, nella quale viene riconosciuta la norma della vita singola e associata dell’uomo.

Il contrattualismo

La religione naturale

Mappa interattiva La riflessione politica nel Rinascimento Sintesi audio Il rinnovamento politico

61

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

MAPPA La riflessione politica rinascimentale Gli esponenti dello storicismo

Machiavelli rinnovamento politico mediante un ritorno al principio (in particolare agli ideali di Roma repubblicana)

realismo politico da parte del «principe»

ricerca dell’oggettività storica

«ordinata virtù» per resistere alla fortuna

GUicciaRDiNi ruolo decisivo della fortuna nelle vicende umane

rinnovamento politico mediante un impegno attivo

negatività della natura umana

il politico deve essere dolce e comprensivo in apparenza, ma diffidente e severo nei fatti BOTeRO concetto di «ragion di Stato» giustizia

rispetto a Machiavelli, inclusione della morale

prudenza

Gli esponenti del giusnaturalismo

MORO Utopia (descrizione di uno Stato ideale, conforme a ragione) abolizione della proprietà privata

cultura volta all’utilità comune

solidarietà fondata sul principio del piacere

BODiN concetto di «sovranità»: potere illimitato, soggetto però alle leggi di Dio e della natura

62

tolleranza religiosa

tolleranza religiosa GROZiO

la guerra sospende le leggi positive ma non il diritto naturale

diritto naturale valido in sé, fondato sulla natura razionale dell’uomo

diritto positivo valido nei singoli Stati, legittimato da un “contratto” fra sudditi e sovrano

CAPITOLO 5

Rinascimento e naturalismo 1. L’interesse per la natura La rinascita dell’uomo, che è l’annuncio e la speranza del Rinascimento, è la rinascita dell’uomo nel mondo. Il rapporto con il mondo è riconosciuto come parte integrante, costitutiva dell’uomo. La chiarezza a cui l’uomo giunge nel Rinascimento intorno alla propria natura è anche chiarezza intorno alla solidarietà che lo lega al mondo: l’uomo si comprende come parte del mondo; si distingue da esso per rivendicare la propria originalità, ma nello stesso tempo si radica in esso e lo riconosce come il proprio dominio. Il tema dell’uomo come “natura media”, tema comune a umanisti, platonici, aristotelici e maghi, esprime appunto la consapevolezza di essere inseriti nel mondo in modo essenziale e la decisione di servirsi della propria posizione privilegiata, simile a quella di Dio, per fare del mondo il proprio regno. Una ricerca diretta a realizzare questo dominio si rivela quindi indispensabile. Lo studio del mondo naturale non appare più nel Rinascimento come la fuga dell’uomo di fronte alla propria interiorità, o come inutile distrazione dalla meditazione sul proprio destino. L’indagine naturale comincia ad apparire come uno strumento indispensabile per la realizzazione dei fini umani nel mondo, giacché solo da essa l’uomo può ricavare i mezzi utili a tale realizzazione. Nell’indagine naturale si possono distinguere due aspetti, o fasi: la magia e la filosofia della natura. La magia rinascimentale è caratterizzata da due presupposti: a) l’universale animazione della natura, la quale è ritenuta mossa da forze intrinsecamente simili a quelle che agiscono nell’uomo, coordinate e armonizzate da una simpatia universale; b) la possibilità che si offre all’uomo di penetrare di colpo, con mezzi ambigui o violenti, nei più riposti recessi della natura e di riuscire a dominarne le forze con lusinghe e incantesimi, cioè con gli stessi mezzi con cui si avvince a sé un essere animato. Per questi presupposti, la magia va in cerca di formule e di procedimenti miracolosi, che servano da chiave per i più oscuri misteri naturali e pongano l’uomo di colpo in possesso di un potere illimitato sulla natura.

Il rapporto dell’uomo con il mondo

La nuova importanza attribuita allo studio della natura

La magia

63

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

La filosofia naturale

Sintesi audio L’indagine rinascimentale sulla natura

La filosofia naturale, che fa la sua comparsa già in alcuni degli stessi seguaci della magia, ma si afferma per la prima volta in Telesio, abbandona il secondo presupposto. La natura è pur sempre vista come una totalità vivente, ma la si considera retta da propri principi, e la scoperta di questi principi diventa il compito della filosofia. Si rinuncia alla chimerica pretesa di penetrare d’assalto nei misteri naturali, anzi si negano tali misteri: le forze naturali sono potenti e si rivelano all’esperienza, occorre solo riconoscerle e assecondarle. La filosofia della natura finisce dunque per rompere i ponti sia con la magia, sia con l’aristotelismo e si propone di interpretare la natura con la natura, prescindendo da ipotesi e dottrine fittizie: in questo modo essa apre la via alla vera e propria indagine scientifica.

2. Magia e scienze occulte Il mondo rinascimentale delle scienze occulte è rappresentato da una fitta serie di “maghi”. Non potendoci soffermare su ognuno di essi, per dare un’idea generale del loro “universo di idee” prenderemo in considerazione alcuni dei nomi più celebri. Agrippa di Nettesheim: i tre mondi

L’uomo come centro del cosmo

I tre tipi di magia

Teofrasto Paracelso: tra magia e anticipazione del metodo scientifico

64

Cornelio Agrippa di Nettesheim nacque a Colonia nel 1486 e morì a Grenoble nel 1535. Nella sua opera fondamentale, Filosofia occulta, Agrippa, come Pico della Mirandola e conformemente alla cabala, ammette tre mondi: il mondo degli elementi, il mondo celeste e il mondo intelligibile. Questi tre mondi sono collegati tra loro in modo tale che la virtù del mondo superiore fluisce fino agli ultimi gradi del mondo inferiore, disperdendo via via i suoi raggi; viceversa, gli esseri inferiori giungono per il tramite degli esseri superiori fino al mondo supremo. Così come una corda tesa, se è toccata in un punto, subito vibra tutta, allo stesso modo l’universo, se è toccato a uno dei suoi estremi, risuona anche nell’estremo opposto. Il tramite di questo influsso che tiene avvinto l’universo e garantisce l’azione reciproca delle sue parti è l’anima del mondo, che opera in tutte le parti dell’universo visibile. L’uomo è situato nel punto centrale dei tre mondi e raccoglie in sé, come microcosmo, tutto ciò che è disseminato nelle cose. Questa posizione gli consente di conoscere la forza spirituale che tiene avvinto il mondo e di servirsene per operare azioni miracolose. Nasce così la magia, che è la scienza più alta e compiuta perché è quella che sottomette all’uomo tutte le potenze nascoste della natura. La scienza e l’arte del mago si rivolgono a tutti e tre i mondi: esistono quindi una magia naturale, una magia celeste e una magia religiosa o cerimoniale. La prima insegna a servirsi delle cose corporee per effettuare azioni miracolose; la seconda si avvale delle formule dell’astronomia e degli influssi degli astri per operare miracoli; la terza, per lo stesso fine, chiama in causa le sostanze celesti e i demoni. Negli ultimi tempi della sua vita Agrippa accentuò il carattere mistico della propria speculazione e condannò in blocco la scienza, ritenendola una vera peste dell’anima e additando nella fede la sola via di salvezza. Ma in realtà egli rimase fedele alla magia precedentemente esaltata, continuando a difenderne l’utilità per la sapienza. Una delle più famose figure di mago fu Teofrasto Paracelso. Il suo nome era Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, che egli trasformò in Filippo Aureolo Teofrasto Paracelso. Nacque il 10 novembre 1493 a Einsiedeln in Svizzera, fu medico e chirurgo, anzi riformatore della medicina in senso magico. Morì a Salisburgo il 24 settembre 1541.

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

Paracelso è un mago, ma alcune direttive del suo operare ne fanno un anticipatore del metodo scientifico. Egli sostiene che l’uomo è stato creato per conoscere le azioni miracolose di Dio e per operarne di simili: il suo compito è perciò la ricerca. Ma la ricerca deve connettere insieme l’esperienza e la scienza per giungere a una conoscenza vera e sicura. Teoria e pratica devono procedere parallelamente e d’accordo, giacché la teoria non è che una pratica speculativa e la pratica non è che la teoria applicata. Non si può prestar fede a un esperimento senza scienza; ma chi possiede la scienza, oltre l’esperimento, sa anche perché un fenomeno debba verificarsi in un modo o nell’altro e può prevederne le conseguenze. La ricerca, intesa come unità di teoria e di esperimento, sarà la parola d’ordine della nuova scienza. Ma questa ricerca ha in Paracelso un carattere magico. Il principio che deve guidarla è la corrispondenza tra il macrocosmo e il microcosmo. Se vogliamo conoscere l’uomo, cioè il microcosmo, dobbiamo rivolgerci al macrocosmo, cioè al mondo. La medicina, che ha lo scopo di conoscere l’uomo, per conservargli la salute e liberarlo dalle malattie, deve fondarsi su tutte le scienze che studiano la natura dell’universo. Sulla base di queste convinzioni Paracelso tentò una riforma della medicina che, se da un lato gli procurò l’odio e le persecuzioni dei colleghi medici, dall’altro lato lo mise in grado, stando alla leggenda, di operare miracolose guarigioni. La medicina di Paracelso si fonda su quattro «colonne»: la filosofia, l’astrologia, l’alchimia e la virtù. La filosofia è l’arte di conoscere l’essere e il divenire delle cose; l’astrologia permette al medico di utilizzare gli influssi celesti, dai quali dipendono le malattie, per curarle; l’alchimia gli serve per conoscere la quintessenza delle cose e trasformarle in vista della guarigione; la virtù è la capacità di determinare i limiti e la condotta del proprio comportamento. Il mago, con la forza della sua fede e della sua immaginazione, esercita così sullo spirito degli uomini o sullo spirito della natura un influsso che suscita potenze sconosciute e nascoste, giungendo a operare cose ritenute impossibili. Dal fiat divino è nata in primo luogo la materia originaria, a sua volta costituita da tre principi materiali (tre come la Trinità divina): il «solfo», il sale e il mercurio. Questi principi sono le specie primigenie della materia e da essi sono costituiti i quattro elementi del mondo, e in generale ogni corpo della natura. La forza che muove gli elementi è lo spirito animatore, o Archeus. Così come tutte le cose sono composte di questi tre elementi, allo stesso modo le forze che li animano sono costituite dai loro arcani, cioè dall’attività incosciente e istintiva dell’Archeus. La quintessenza è l’estratto corporeo di una cosa ottenuto mediante la separazione dell’elemento dominante dagli altri elementi che sono in essa mescolati. Essa quindi non è un “quinto” elemento, come il nome parrebbe suggerire, ma uno dei quattro elementi: quello che domina la costituzione della cosa e ne esprime la natura fondamentale. Nella quintessenza sono riposti gli arcani, cioè le forze operanti di un minerale, di una pietra preziosa o di una pianta: della quintessenza, pertanto, deve servirsi la medicina (rifacendosi all’alchimia) per operare le guarigioni. In Italia il tema della simpatia universale delle cose, che è il fondamento della magia, fu trattato da Girolamo Fracastoro (1478-1553), che fu medico, astronomo e poeta. Una figura di medico mago che ricorda quella di Teofrasto Paracelso è poi quella di Gerolamo Cardano, nato a Pavia nel 1501 e professore di medicina a Padova e Milano; morì a Roma nel 1576.

I principi della magia di Paracelso

La riforma della medicina

La struttura del cosmo

La magia in Italia

65

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

3. Telesio I principi generali della natura Distinta dalla magia, ma con essa (almeno inizialmente) intrecciata, è la filosofia della natura del Rinascimento, che conta i nomi di Telesio, Bruno e Campanella. Vita e scritti

La natura è autonoma e si rivela all’uomo

Scheda interdisciplinare Le due anime del Rinascimento: immanenza e trascendenza nelle opere di Leonardo e Michelangelo

Il caldo, il freddo e la materia

L’esigenza di un’analisi quantitativa

66

Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel 1509 e si addottorò a Padova nel 1535. Pubblicò nel 1565 a Napoli i primi due libri dell’opera La natura secondo i propri principi e, tre anni prima della morte, l’opera intera in 9 libri. Morì a Cosenza nel 1588. Telesio considera la natura come un mondo che si regge su principi propri e che può essere spiegato solo in base a questi principi, escludendo ogni forza metafisica. Pertanto l’uomo, per conoscere la natura, non deve fare altro che lasciarla “parlare”, affidandosi ai sensi che gliela rivelano. ➔ T1 p. 80 Come sensibilità, l’uomo è infatti egli stesso natura, per cui «ciò che la natura stessa rivela» e «ciò che i sensi testimoniano» sono la stessa e medesima cosa. La sensibilità non è altro che l’autorivelazione della natura a quella parte di sé che è l’uomo. Queste affermazioni di Telesio hanno grande importanza per lo sviluppo ulteriore dell’indagine naturalistica. L’oggettività e l’autonomia della natura costituiranno infatti il fondamento delle ricerche scientifiche di Leonardo, Copernico, Keplero e Galilei. Telesio ritiene che la natura debba essere spiegata mediante le due forze principali che agiscono in essa, il caldo e il freddo: il caldo ha sede nel sole, dilata le cose e le rende leggere e adatte al movimento; il freddo ha sede nella terra, condensa le cose, le rende pesanti e quindi immobili. Il caldo e il freddo, come forze incorporee, hanno bisogno di una massa corporea che possa subire la loro azione: questa massa, provvista di inerzia, è il terzo principio naturale. Affinché il caldo e il freddo possano lottare tra loro, è necessario che ciascuno di essi possa percepire le proprie impressioni e l’azione del principio opposto: è necessario, cioè, che siano dotati di sensibilità. Non è necessario, tuttavia, che tutte le cose naturali siano provviste degli organi di senso che caratterizzano gli animali. Tali organi sono soltanto vie o aperture attraverso le quali le azioni delle cose esterne giungono più facilmente alla sostanza senziente; ma non sono indispensabili alla sensibilità, la quale risiede nei principi agenti, cioè nel caldo e nel freddo. Conseguentemente, Telesio ritiene che soltanto il sole e la terra siano elementi originari; non sono tali invece l’acqua e l’aria, che risultano dalla composizione dei primi due. La fisica di Telesio si mantiene sul piano qualitativo. Tuttavia egli avverte l’esigenza di un’analisi quantitativa, necessaria per determinare la quantità di calore sufficiente a produrre i singoli effetti naturali. Pur dichiarando di non poter per suo conto soddisfare questa esigenza, per la limitatezza del tempo che ha potuto dedicare allo studio della natura, egli afferma che solo questa analisi quantitativa può rendere gli uomini «non solo sapienti, ma potenti», cioè può dare loro il controllo delle forze naturali.

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

Contro Aristotele Telesio svolge una critica minuta, che investe tutti i punti della fisica peripatetica. A proposito della funzione che Aristotele attribuisce a Dio, quella di motore immobile del cielo, Telesio osserva che l’azione di Dio non può essere ristretta a spiegare solo questo fatto, o qualsiasi altro fatto particolare della natura. Dio è piuttosto il principio della conservazione di tutti gli esseri della natura e agisce per tramite di tutte le forze naturali, che senza l’ordine stabilito da Dio si distruggerebbero a vicenda. Per Telesio, come sarà per Cartesio, Dio è il garante dell’ordine e dell’autonomia della natura. La fisica di Telesio ha conservato il presupposto fondamentale della magia, l’animazione della natura, che dovrà essere eliminato dalla vera e propria considerazione scientifica del mondo naturale. Tuttavia, Telesio ha affermato l’oggettività e l’autonomia del mondo naturale in un modo che ha aperto la strada all’indagine scientifica. Sotto questo aspetto il suo vero continuatore sarà Galilei. Bruno e Campanella ritornano invece alla metafisica e alla magia.

La critica alla fisica aristotelica

Verso una considerazione scientifica della natura

La dottrina dell’uomo L’intera conoscenza umana si riduce, secondo Telesio, alla sensibilità. L’anima umana, infatti, non è che un prodotto naturale, come quella di tutti gli altri animali. Attraverso quest’anima l’uomo si riconnette alla natura ed è egli stesso natura: sicché, come abbiamo già detto, la sensibilità non è che la rivelazione che la natura fa a se stessa. Ogni sensazione è prodotta da un contatto tra l’anima e le cose esterne; ma la sensazione non si limita a tale contatto, cioè a un fatto puramente materiale, perché consiste piuttosto nella percezione che se ne ha, cioè nella coscienza. Alla sensibilità si riduce l’intelligenza, che consiste nell’estendere a cose non ancora percepite le qualità che l’anima ha già percepito nelle cose presenti. Gli stessi principi della matematica derivano dai sensi, i quali ci testimoniano, ad esempio, che il tutto è maggiore della parte e che due cose uguali a una terza sono uguali tra loro. Anche la vita morale dell’uomo è ricondotta a principi naturali. Il bene supremo è la conservazione dello spirito vitale nel mondo. Rientra nell’ordine del mondo, stabilito e garantito da Dio, che ogni essere tenda alla propria conservazione. Questo è dunque il fine morale supremo ed è anche la misura del piacere e del dolore: si prova piacere per tutto ciò che aiuta a conservarsi e si prova dolore per tutto ciò che tende a danneggiare o distruggere. La virtù è la condizione necessaria per la conservazione dell’uomo nel mondo, perché impone alle passioni una misura che evita gli eccessi dannosi. In tal modo Telesio ha spiegato in base a principi puramente naturali l’intera vita intellettuale e morale dell’uomo. Un elemento solo gli appare irriducibile alla natura: la vita religiosa, in quanto è aspirazione a un bene che non è conosciuto dai sensi e si rivolge a un mondo diverso da quello sensibile. Il soggetto della vita religiosa non può essere l’anima naturale, la quale infatti non potrebbe tendere a ciò che è al di là della natura: deve dunque essere un’anima infusa direttamente da Dio, come forma «superaddita». Quest’anima divina non condiziona la vita intellettuale e morale dell’uomo, però condiziona la libertà che gli è propria: la scelta tra il bene naturale e il bene soprannaturale. Essa costituisce la caratteristica originale dell’uomo di fronte a tutti gli altri esseri.

La conoscenza: sensibilità e intelligenza

La vita morale

La vita religiosa

Sintesi audio Telesio

67

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

4. Bruno L’opera di Giordano Bruno mostra intenti molto diversi da quelli di Telesio ed è caratterizzata dal recupero di elementi del neoplatonismo e della magia. Se, infatti, il naturalismo di Telesio, tutto fondato sull’oggettività e sull’autonomia della natura, si propone come il principio di un’indagine ordinata e metodica del mondo naturale, il naturalismo di Bruno è invece una “religione” della natura, anzi dell’infinità della natura e si avvale volentieri di suggestioni metafisiche e magiche.

La vita e le opere Dal chiostro a Parigi

Bruno nacque nel 1548 a Nola. A circa 15 anni entrò nel chiostro domenicano di Napoli, dove per le sue qualità eccezionali di memoria e di ingegno crebbe come un ragazzo prodigio. Ma a 18 anni i primi dubbi sulla verità della religione cristiana lo posero in urto con l’ambiente ecclesiastico e dieci anni dopo (1576) fu costretto a riparare prima a Ginevra, poi

1530

1540

1550 1542 Paolo III istituisce il Sant’Uffizio 1545 Si apre il Concilio di Trento

Eventi storici

Vita di Bruno Filosofia e Scienza

68

1555 Pace di Augusta 1559 Pace di CateauCambrésis tra Francia e Spagna

1548 Nei pressi di Nola (vicereame di Napoli) nasce Filippo Bruno

1530 circa Guicciardini: Ricordi politici e civili 1532 Machiavelli: Il principe (postumo) 1532 Ariosto: Orlando furioso

Arte e Letteratura

1560

1543 Copernico: De revolutionibus orbium coelestium

1541 Michelangelo termina il Giudizio Universale

1559 Calvino: Istituzione della religione cristiana

1552 Rabelais: Quarto libro dei fatti e detti eroici del buon Pantagruel 1558 Della Casa: Galateo (postumo)

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

a Tolosa e a Parigi. Qui pubblicò, nel 1582, la commedia Il candelaio e il primo scritto filosofico, Le ombre delle idee, dedicato al re Enrico III. E qui ottenne i primi successi, ma non come filosofo, bensì come maestro dell’arte lulliana della memoria, alla quale appunto si ispira Le ombre delle idee. Da Parigi passò nel 1583 in Inghilterra, dove insegnò a Oxford e fu in relazione con la corte della regina Elisabetta. A questo periodo appartengono i dialoghi italiani e anche alcuni dei poemi latini, che egli terminò in seguito. Ritornato a Parigi, fu costretto ad andar via per l’ostilità degli ambienti aristotelici, che egli aveva aspramente attaccato. Si trasferì allora in Germania (1586) e qui insegnò a Marburgo, a Wittenberg e a Francoforte sul Meno, dove terminò i poemi latini. Accolse quindi l’invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che si aspettava di essere istruito da lui nell’arte magica, e si recò a Venezia, credendosi al sicuro sotto la protezione della Repubblica. Ma, denunciato dal Mocenigo, venne arrestato il 23 maggio 1592 dall’Inquisizione di Venezia. Bruno si sottomise. Egli riconosceva alla religione una certa legittimità come guida della condotta pratica, soprattutto di quanti non possono o non sanno elevarsi

1560

1570 1562 In Francia prima Guerra di religione

1580 1571 Battaglia di Lepanto 1572 Strage degli Ugonotti a Parigi (notte di San Bartolomeo)

1590

1596 La Francia si allea con Inghilterra e Paesi Bassi contro la Spagna 1598 Pace di Vervins tra Francia e Spagna; editto di Nantes: fine delle Guerre di religione

1563 Si chiude il Concilio di Trento 1572 1582 Consacrato sacerdote; A Parigi pubblica comincia gli studi Le ombre delle idee e di teologia la commedia Il candelaio 1576 1583 1565 circa Processato per eresia, A Oxford tiene un ciclo Entra come novizio lascia Napoli e comincia di lezioni su Copernico nel convento di S. Domenico a peregrinare per l’Italia, 1584-1585 Maggiore; prende il nome la Svizzera e la Francia Dialoghi italiani di Giordano 1565 Telesio: primi due libri de La natura secondo i propri principi

1590 A Francoforte pubblica i tre poemi latini

1600 A Roma, in Campo dei Fiori, Bruno viene arso vivo

1592-1593 A Venezia arrestato per sospetto di eresia; trasferito a Roma

1576 L’astronomo Diggens difende il copernicanesimo 1580 Montaigne: Saggi

1563 Bruegel il Vecchio: La torre di Babele

Da Venezia al tribunale dell’Inquisizione

1600

1588 L’Inghilterra sconfigge l’Invincibile Armata spagnola

1562 A Napoli intraprende gli studi umanistici, di logica e dialettica

Dall’Inghilterra alla Germania

1575 Tasso completa la Gerusalemme liberata

1597 Bacone: Saggi di morale e politica 1587-1588 Marlowe: Tamerlano il Grande (inizio del teatro elisabettiano)

1596-1598 Caravaggio: Cena in Emmaus

69

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

alla filosofia. La dottrina della doppia verità, propria dell’averroismo, che si appoggiava nel Rinascimento al senso aristocratico della verità, ritenuta patrimonio dei dotti, gli valse come giustificazione di fronte a se stesso. Ma nel 1593 Bruno fu trasferito all’Inquisizione di Roma. Rimase in carcere sette anni. Rifiutò i ripetuti inviti a ritrattare le sue dottrine, affermando di non aver nulla da ritrattare, e il 17 febbraio 1600 venne arso vivo in Campo dei Fiori a Roma, senza essersi riconciliato con il Crocifisso, dal quale, negli ultimi istanti, distolse lo sguardo. Gli scritti principali

Gli scritti principali di Bruno sono i dialoghi italiani e i poemi latini. Dei dialoghi italiani alcuni espongono la sua filosofia naturale (La cena delle ceneri; De la causa, principio e uno; De l’infinito universo e mondi); altri sono di carattere morale (Lo spaccio della bestia trionfante; Cabala del cavallo pegaseo; L’asino cillenico; Degli eroici furori). I poemi latini sono: De minimo (Il minimo), De monade (La monade), De immenso et innumerabilibus (L’immenso e gli innumerevoli mondi).

L’amore per la vita e la religione della natura L’amore appassionato per la vita

QUESTIONE La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico?, p. 166 La passione per la natura

L’allontanamento dalla prospettiva scientifica

Tutti gli scritti di Bruno presentano una nota fondamentale comune: l’amore per la vita nella sua potenza dionisiaca, nella sua infinita espansione. Quest’amore per la vita gli rese insopportabile il chiostro, che egli chiamò in un sonetto «prigione angusta e nera», e gli fece nutrire un odio inestinguibile per tutti quelli, pedanti, grammatici, accademici, aristotelici, che facevano della cultura una pura esercitazione libresca e distoglievano lo sguardo dalla natura e dalla vita. Il medesimo amore per la vita lo spinse a rappresentare con realismo spregiudicato, ne Il candelaio, l’ambiente napoletano dove aveva trascorso la giovinezza, e a fustigare i pedanti, i creduloni e gli imbroglioni senza umorismo né distacco, bensì con un compiacimento esasperato di fronte a quello spettacolo di trivialità e miseria morale, spiegabile soltanto con l’attaccamento alla realtà viva, qualunque essa sia. Dall’amore per la vita nasce, infine, l’interesse per la natura, che in Bruno non sfociò, come in Telesio, in un pacato naturalismo, ma si esaltò in un impeto lirico e religioso, che trovò spesso espressione nella forma poetica. Bruno considerò e volle la natura tutta viva, tutta animata, e nell’intendere quest’universale animazione, nel proiettare la vita nell’infinità dell’universo, egli pose il termine più alto del proprio filosofare. Di qui la predilezione per la magia, che si fonda appunto sul presupposto di un panpsichismo universale e che vuole conquistare d’assalto la natura, così come si conquista un essere animato. Di qui la rinuncia alla paziente e laboriosa indagine naturalistica prospettata da Telesio. Di qui, ancora, la predilezione per la mnemotecnica, o arte lulliana, che aveva la pretesa di impadronirsi del sapere con artifici mnemonici e di fare progredire la scienza con una tecnica inventiva rapida e miracolosa, che sopravanzasse a grandi passi la ricerca metodica e lenta. Il naturalismo di Bruno è in realtà una religione della natura: impeto lirico, raptus mentis, contractio mentis, esaltazione e furore eroico. Perciò il filosofo si ritrova meglio nel simbolismo numerico dei neopitagorici che nella matematica scientifica; meglio nelle invenzioni miracolose e ciarlatanesche di un Fabrizio Mordente (1532-1608)1 che nelle formule rigorose di Copernico. L’opera di Bruno segna una battuta d’arresto nello sviluppo del natu1 Matematico salernitano noto per l’invenzione di un particolare tipo di compasso per la misurazione della circonferenza e dell’area del cerchio.

70

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

ralismo scientifico, ma esprime, nella forma più appassionata e potente, quell’amore per la natura che fu indubbiamente uno degli aspetti fondamentali del Rinascimento. Ciò rende possibile intendere l’atteggiamento di Bruno nei confronti della religione: un atteggiamento che ripete sostanzialmente quello di Averroè, ma senza il rispetto che quest’ultimo aveva nutrito nei confronti della religione medesima, che Bruno considera piuttosto come un sistema di credenze ripugnante e assurdo. Egli ne riconosce l’utilità «per l’istituzione di rozzi popoli che dènno esser governati» (De l’infinito universo e mondi), ma le rifiuta qualsiasi valore. Secondo Bruno, infatti, la religione consiste in un insieme di superstizioni direttamente contrarie alla ragione e alla natura: vuol far credere che è vile e scellerato ciò che alla ragione pare eccellente; che la legge naturale è una ribalderia; che la natura e la divinità non hanno lo stesso fine; che la giustizia naturale e quella divina sono contrarie; che la filosofia e la magia sono pazzie; che ogni atto eroico è vigliaccheria; che l’ignoranza è la più bella scienza del mondo. Lo spaccio della bestia trionfante, Cabala del cavallo pegaseo e L’asino cillenico sono tutti intessuti di una feroce satira anticristiana, che non si arresta neppure di fronte al mistero dell’incarnazione del Verbo. Nemmeno il cristianesimo riformato, che Bruno aveva direttamente conosciuto a Ginevra, in Inghilterra e in Germania, si salva dalla sua condanna: esso, anzi, gli appare anche peggiore del cattolicesimo, perché nega la libertà e il valore delle opere buone e introduce lo scisma e la discordia tra i popoli. Ma di fronte a questa religiosità, che Bruno deride come «santa asinità» ritenendola direttamente contraria alla natura e alla ragione, sta l’altra religiosità, quella dei «teologi», cioè dei dotti che in ogni tempo e presso ogni nazione hanno cercato la via per giungere a Dio. Questa religiosità è lo stesso filosofare, così come Bruno lo intende e lo pratica. Nel suo concetto e nel suo contenuto concordano, secondo Bruno, i filosofi greci, quelli orientali e quelli cristiani. Bruno fa sua l’idea dominante nel Rinascimento, espressa nella forma più rigorosa da Pico della Mirandola, di una sapienza originaria che, tramandata da Mosè, è stata svolta, accresciuta e chiarita da filosofi, maghi e teologi del mondo orientale, del mondo classico e del mondo cristiano. Egli ammette la possibilità di rivedere, in alcuni punti, quella sapienza originaria, giacché «noi siamo più vecchi e abbiamo più lunga età che i nostri predecessori» e attraverso il tempo il giudizio matura, a meno che non si rinunci a vivere negli anni propri e si viva da morti (La cena delle ceneri). Tuttavia ritiene che questo sviluppo storico della verità sia in realtà un rinascere e un rigermogliare della verità antica: «sono amputate radici che germogliano, son cose antique che rivengono, sono veritadi occulte che si scuoprono» (De l’infinito universo e mondi); e si rifà di preferenza, al di là di Aristotele e Platone, ai presocratici, affermando che in essi si può ritrovare un più schietto e immediato interesse per la natura. E in realtà la natura è il termine della religiosità e del filosofare di Bruno, l’oggetto del suo impeto lirico, del suo “furore”.

Il disprezzo per la religione

La riscoperta della sapienza originaria

La natura e l’infinito Bruno parla di Dio in duplice modo: come mente al di sopra di tutto (mens super omnia) e come mente presente in tutte le cose (mens insita omnibus). ■■■ Per il primo aspetto, Dio è fuori dal cosmo e dalla portata delle capacità razionali dell’uomo. Utilizzando il principio neoplatonico della trascendenza, inconoscibilità e ineffabilità di Dio, Bruno ritiene vano il tentativo di risalire dalla natura a colui che l’ha creata, proprio

La duplice natura di Dio

71

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

come vano è pretendere di risalire da una statua all’artefice che l’ha scolpita. Di conseguenza, in quanto sostanza trascendente, Dio è oggetto di fede e di Lui ci parla solo la rivelazione. ■■■ Per il secondo aspetto, Dio è invece principio immanente del cosmo e risulta accessibile alla ragione umana, costituendosi come oggetto privilegiato del discorso filosofico. Dio come anima del cosmo

In quanto mente presente in tutte le cose, Dio è anima del cosmo, che opera tramite l’intelletto universale, cioè tramite l’insieme di tutte le idee, o forme, che plasmano dal di dentro quel grande ricettacolo universale che è la materia, specificandola negli infiniti esseri del mondo. L’attività dell’intelletto – che Bruno definisce «motore de l’universo», «artefice interno», «fabbro del mondo», «fonte delle forme» ecc. – opera come forza seminale intrinseca alla materia: Da noi si chiama artefice interno, perché forma la materia e la figura da dentro: come da dentro del seme o radice manda ed esplica il tronco; da dentro il tronco caccia i rami; da dentro i rami i rami principali; da dentro questi spiega le gemme; da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le frondi, i fiori, i frutti. (De la causa, principio e uno, I)

Dio come causa e principio dell’essere

La materia

In quanto spirito animatore delle cose, Dio è causa e principio dell’essere: causa in quanto energia produttrice del cosmo, principio in quanto elemento costitutivo delle cose. L’universo, infatti, è un immenso organismo dotato di un’unica forma e di un’unica materia: l’unica forma è appunto Dio come anima del mondo datrice di forme (principio attivo); l’unica materia è la massa corporea del mondo, il sostrato, che l’intelletto divino anima e plasma (principio passivo). Si noti tuttavia che per Bruno la materia: a) non è pura potenza, o assoluta passività, in quanto non riceve passivamente le forme dall’esterno, ma, avendole già in sé, per opera dell’intelletto «le manda e caccia fuori dal suo seno»; b) non è qualcosa di separato dalla forma, ma costituisce un tutt’uno globale con essa, in quanto materia e forma, anima e corpo, non sono due sostanze, bensì due aspetti (che solo astrattamente possono essere distinti) di quell’unica sostanza universale e infinita che è la natura, concepita come l’uno-tutto degli eleatici e come realtà divina. Lo schema riportato di seguito riassume quanto detto finora intorno alla visione bruniana di Dio e dell’azione divina sulla materia.

Dio

> Mens super omnia (mente al di sopra di tutto)

> trascendente

> Mens insita omnibus (mente presente in tutte le cose)

> immanente

è oggetto di fede

> inconoscibile forma = l’anima del mondo che opera tramite l’intelletto universale plasma

> conoscibile materia = sostrato che ha in sé le forme

«La natura o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle cose»

72

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

Nella concezione di Dio come mens super omnia alcuni studiosi hanno visto un morto residuo medievale, e nella teoria generale di un Dio simultaneamente dentro e fuori l’universo una sorta di doppia verità che tradisce soltanto un opportunistico ossequio di comodo al passato e alla cultura dominante. Altri vi hanno registrato una sincera persuasione, esistenzialmente motivata da una mai soffocata nostalgia della trascendenza e intellettualmente derivante dallo schema neoplatonico secondo il quale l’Uno, pur essendo presente nel mondo, è nel contempo superiore a esso. Comunque sia – credesse o meno Bruno a un Dio trascendente –, un fatto appare inequivocabilmente certo: che l’ispirazione più profonda del suo sistema, e la vena più appassionata che lo anima, è la propensione tutta rinascimentale a vedere il divino nel mondo, tendenza che in Bruno assume caratteri così radicali da caricarsi di tinte panteistiche: «La natura o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle cose» (Somma dei termini metafisici, IV). I concetti di materia e di forma sono serviti a Bruno per giustificare e fondare l’identità, da cui egli è partito, della natura e di Dio. Riconosciuta quest’identità, egli può utilizzare la speculazione teologica di Cusano per affermare, ad esempio, che nell’universo si trova la coincidenza degli opposti, in quanto in esso coincidono il massimo e il minimo, il centro e la circonferenza; tanto che di esso si può dire che il centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo. Tuttavia l’attributo fondamentale dell’universo, quello che accende ed esalta l’impeto lirico di Bruno e costituisce il tema preferito della sua speculazione, è l’infinità. A essa sono dedicati soprattutto La cena delle ceneri, il De l’infinito universo e mondi e il poema latino De immenso et innumerabilibus. Il tema dell’infinito rappresenta l’importante punto di incontro tra Bruno e la rivoluzione astronomica moderna, di cui egli è uno dei rappresentanti principali: polemizzando con la visione aristotelico-tolemaica, egli concepisce l’universo come qualcosa di illimitato e di infinito, ospitante in sé una molteplicità inesauribile di mondi e di creature. ➔ T2 p. 81

Le diverse interpretazioni dell’idea bruniana di Dio

Il riconoscimento del divino nel mondo

Il concetto di universo

Scheda filmica In cerca dell’infinito (Incontri ravvicinati del terzo tipo) Video In cerca dell’infinito (Incontri ravvicinati del terzo tipo)

L’etica “eroica” Nella sua infinità, la natura rappresenta al tempo stesso il movente, il tema e lo scopo ultimo della speculazione bruniana, che in essa, infatti, pone il termine finale della conoscenza e della vita. Il simbolo di ciò è il mito di Atteone, esposto in Degli eroici furori. Atteone, che giunge a contemplare Diana nuda e viene trasformato in cervo, diventando preda anziché cacciatore, è la metafora dell’anima umana, la quale, andando in cerca della natura e giunta finalmente a vederla, diventa essa stessa natura. Per Bruno il grado più alto della speculazione filosofica non è dunque l’estasi mistica di Plotino, cioè un congiungimento con Dio che sia oblio del mondo spazio-temporale, ma la visione magica dell’unità della natura e della sua vita inesauribile. Per questo il filosofo è il «furioso», l’assetato di infinito e l’ebbro di Dio, che, andando al di là di ogni limite, con uno sforzo «eroico» (da éros) e appassionato, raggiunge una sorta di sovrumana immedesimazione con il processo cosmico attraverso il quale l’universo si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’universo. In altre parole, l’«eroico furore» è la traduzione naturalistica del concetto platonico di amore (che Bruno assume dal platonismo rinascimentale e dalla letteratura amorosa del

Il mito di Atteone

QUESTIONE La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico?, p. 166 «L’eroico furore»

73

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225 La morale attivistica

Etica dell’azione ed etica della contemplazione

L’impronta aristocratica della filosofia di Bruno

Esercizi interattivi Il naturalismo di Bruno Sintesi audio Bruno

Cinquecento), in quanto mostra come l’uomo, «arso d’amore», ma non pago dell’unione carnale con la donna né della contemplazione della bellezza, vada in cerca dell’infinito, che solo può appagare le sue brame, innalzandolo al di sopra dei «bassi furori» che lo tengono incatenato alle cose finite e generando una sorta di sposalizio e di suprema copula d’amore tra lui e la natura. Ora, questo identificarsi dell’uomo con la natura, questo suo farsi natura – per mezzo del quale egli, pur non annullando il suo libero volere, sperimenta anche il grado più alto di libertà che gli sia concesso: l’accettazione della necessità delle cose e del destino del Tutto1 –, sebbene trovi il proprio culmine nella contemplazione del filosofo, riguarda anche il campo pratico e morale. Negli abbozzi di etica contenuti ne Lo spaccio della bestia trionfante, in Degli eroici furori e nella Cabala del cavallo pegaseo, Bruno, sdegnando ogni morale ascetica e misticheggiante, come ogni vita «ociosa e voluptaria», si dichiara a favore di una morale attivistica che esalta i valori della fatica, dell’ingegnosità e del lavoro umano. Ne Lo spaccio Bruno critica il mito dell’età dell’oro, cioè di un’epoca felice in cui all’uomo era dato il necessario per la vita, ed esalta il lavoro come attività che assoggetta la materia all’intelligenza e fonda l’unicità della nostra specie. Infatti – osserva il filosofo nella Cabala – l’uomo, la mosca e il serpente sono tutte creature naturali, e se il primo si distingue concretamente dagli altri due è per opera delle mani e dell’ingegno, attraverso cui (vedi il tema rinascimentale dell’uomo-fabbro) egli conquista a se medesimo la propria condizione nel mondo, conscio che l’artefice reale della redenzione dell’uomo non è il Cristo, ma l’individuo con la sua fatica e il suo sudore. Qualche studioso, soprattutto nel passato, ha visto una specie di contrasto tra l’etica della contemplazione filosofica e l’etica del lavoro e dell’impegno, ritenendo che esse finiscano per escludersi a vicenda. In realtà la reciproca implicanza di queste due morali è fortissima, poiché Bruno stesso nello Spaccio vuole che l’uomo «non contempli senza azione e non operi senza contemplazione», persuaso che l’individuo, proprio nel momento in cui giunge a identificarsi con la natura, debba sentirsi impegnato a realizzare in sé lo slancio della vita, continuando a suo modo l’opera creatrice della natura. In altre parole, per Bruno la contemplazione di Dio non è fine a se stessa, poiché rappresenta un incentivo a fare come Dio, ossia a realizzarsi come creatività ed energia produttrice, dando luogo ad «altre nature, altri corsi, altri ordini». Tutto questo discorso bruniano, nonostante la sua apertura alle virtù “civili” e al mondo del lavoro, reca un’impronta aristocratica, in quanto il filosofo ritiene che solo a pochi sia dato congiungersi con la natura, attraversando i vari gradi d’amore. Da un lato questa impostazione sembra temperata da un desiderio mai sopito di coinvolgere masse più numerose di individui nello “slancio eroico” verso la conquista della verità e il raggiungimento di una vita operosa, o addirittura sembra superata dall’intuizione di un nuovo destino dell’umanità, liberata per opera della ragione da vizi e superstizioni. Dall’altro lato, tuttavia, essa appare ribadita dalla convinzione bruniana della spaccatura dell’umanità in due schiere: i pochi cui è dato di accedere alla filosofia e di condursi secondo ragione e il gregge dei «rozzi popoli» che devono essere diretti dai preti delle varie Chiese. Pur all’interno di questi limiti, l’etica di Bruno manifesta intuizioni geniali e “moderne”, debitamente sottolineate dalla critica recente. 1 Come si possa conciliare l’affermazione del libero volere con la tesi della necessità divina in Bruno è questione che, dai testi del filosofo, non risulta concettualmente chiara.

74

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

5. Campanella Una terza “linea” della filosofia della natura del Rinascimento, distinta sia da quella sviluppata da Telesio, sia da quella di Bruno, è rappresentata dal naturalismo di Campanella, che è in realtà il fondamento di una teologia politica. Tommaso Campanella nacque a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568. Entrò nell’ordine domenicano, ma subì ben presto, in varie parti d’Italia, processi e condanne per accuse di eresia. Ritornato a Stilo, ordì contro il governo spagnolo una congiura che avrebbe dovuto portare alla realizzazione del suo ideale religioso-politico: una repubblica teocratica di cui egli stesso sarebbe stato il legislatore e capo. Nel 1599 la congiura venne scoperta. Campanella fu portato a Napoli e per sfuggire alla condanna capitale si finse pazzo sostenendo la sua finzione anche sotto la tortura più atroce. Rimase in carcere 27 anni, ma non smise mai la sua attività intellettuale e in prigione compose le sue opere maggiori. Nel 1626 fu liberato e portato a Roma; ma qualche anno dopo, non sentendosi sicuro, fuggì a Parigi dove, accolto benevolmente da re Luigi XIII e provveduto di una pensione, poté trascorrere tranquillamente gli ultimi anni, attendendo alla pubblicazione delle sue opere. A Parigi morì il 21 maggio 1639. Le opere principali dal punto di vista filosofico sono: La filosofia dimostrata dai sensi; Del senso delle cose e della magia; Filosofia reale, di cui fa parte la Città del Sole, che Campanella aveva originariamente scritto in italiano; Ateismo sconfitto; Metafisica; Teologia, rimasta inedita. Gli scritti politici più notevoli, oltre alla Città del Sole, sono: Monarchia di Spagna e Monarchia del Messia. Nella giovinezza e nei primi anni della permanenza in carcere Campanella compose anche numerose Poesie, nelle quali le sue convinzioni filosofico-politiche assumono una veste artistica.

La vita…

… e le opere

Fisica, magia e conoscenza Il pensiero di Campanella parte dalla fisica e dalla magia per giungere a una metafisica teologica, che egli assume come base per il rinnovamento politico e religioso dell’umanità. Campanella accetta la fisica di Telesio, ma cerca integrazioni magiche e metafisiche che sono completamente estranee allo spirito del suo fondatore. Egli insiste soprattutto sull’universale animazione delle cose, che è il presupposto della magia. Se anche gli animali e gli uomini sono formati (come Telesio voleva) dal caldo e dal freddo e dalla massa corporea, è necessario che anche il caldo, il freddo e la massa corporea siano dotati di sensibilità, perché ciò che è nell’effetto deve ritrovarsi nella causa. Tutte le cose del mondo sono dunque animate; e c’è anche un’anima che è propria del mondo nella sua totalità: l’anima del mondo, la quale determina l’accordo che unisce le cose naturali, dirigendole tutte verso un unico fine e legandole tutte insieme nonostante le loro dissomiglianze. Di questo consenso si avvale la magia per effettuare le sue operazioni miracolose. Come Telesio, Campanella ritiene che tutta la conoscenza si riduca alla sensibilità. La vera sapienza è quella fondata sui sensi, i quali soli possono verificare, correggere o confutare ogni conoscenza incerta. Così, ad esempio, l’esistenza degli antipodi, negata da Agostino e da

L’universale animazione delle cose e l’anima del mondo

La riduzione della conoscenza alla sensibilità

75

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

altri antichi, è stata dimostrata vera dall’esperienza reale e concreta di Cristoforo Colombo. Dice Campanella: Testo antologico Lotta all’ignoranza e studio della natura (Campanella, Scelta d’alcune poesie filosofiche)

Il senso è certo e non vuol prova, ché egli è prova; ma la ragione è conoscenza incerta, però vuol prova: e, quando s’adduce, la prova e la causa si piglia da un’altra sensazione certa.

La conoscenza razionale non è dunque che conoscenza sensibile confusa e incerta.

L’autocoscienza e la metafisica Conoscenza innata e conoscenza acquisita

Ridotta ogni conoscenza a sensibilità, si presenta il problema di vedere in che modo l’anima conosce (cioè “sente”) se stessa. Campanella apre la propria Metafisica riproducendo il movimento di pensiero di Agostino: anche lo scettico, che sa di non sapere nulla, conosce almeno questa verità, cioè “sa” di non sapere. Questo implica che c’è un sapere originario di cui non si può dubitare: tale è la conoscenza innata che l’anima ha di se stessa (notitia sui ipsius innata). La conoscenza innata, o originaria, di sé è la condizione di ogni altra conoscenza: Lo spirito senziente non sente il calore, ma in primo luogo se stesso: sente il calore attraverso se stesso, in quanto è modificato dal calore.

Le cose esterne producono nell’anima modificazioni che le rimarrebbero estranee e sconosciute, se essa non avesse originariamente coscienza delle proprie modificazioni. Ma questa conoscenza originaria non è propria soltanto dell’anima umana, bensì appartiene a tutte le cose naturali, in quanto tutte sono dotate di sensibilità. Nell’anima, come in tutti gli esseri della natura, essa è oscurata dalla conoscenza acquisita (illata), che è prodotta dalle cose esterne. Sicché ogni cosa sente se stessa di per sé ed essenzialmente, mentre sente le altre cose accidentalmente, cioè in quanto ha coscienza delle modificazioni che esse le procurano. Solo in Dio, che è privo di ogni conoscenza acquisita, la conoscenza innata conserva tutta la sua potenza. Campanella e Cartesio

Esercizi interattivi Il pensiero di Campanella

I principi dell’essere…

76

La Metafisica di Campanella venne data alle stampe a Parigi nel 1638, un anno dopo la pubblicazione del Discorso sul metodo di Cartesio (v. unità 3), in cui il principio dell’autocoscienza veniva riconosciuto come la condizione e il fondamento di ogni sapere scientifico. Tuttavia l’opera di Campanella era stata portata a termine, dopo una lunga elaborazione, già nel 1623 ed era quindi ancora lontana dall’influenza del cartesianesimo. Alla teoria dell’autocoscienza di Campanella mancano infatti i tratti che costituiscono la vitalità e la portata del principio cartesiano. In primo luogo, l’autocoscienza di Campanella non è pensiero, ma sensibilità, e come tale è propria non soltanto dell’uomo, ma di tutti gli esseri della natura. Di conseguenza, è assente dalla dottrina di Campanella quella problematicità della realtà esterna al pensiero che rappresenta il tratto caratteristico della riflessione cartesiana. Così com’è, tuttavia, il principio di Campanella costituisce l’ultima e più complessa formulazione del presupposto animistico del naturalismo rinascimentale. L’autocoscienza rivela, secondo Campanella, i principi fondamentali della realtà naturale. Noi siamo consapevoli di sapere, di potere e di amare e dobbiamo ammettere che l’essenza di tutte le cose è costituita appunto da queste tre primalità: il potere (potentia), il sapere (sapientia) e l’amore (amor). Ogni cosa è in quanto può essere, e il “poter essere” è la condizione dell’essere e dell’azione di ogni cosa. Inoltre ogni cosa è dotata della conoscenza di sé e delle altre cose, in quanto è

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

provvista di sensibilità; su questa sensibilità è fondato l’universale consenso delle cose, l’armonia che regge il mondo. Infine tutti gli enti amano il proprio essere e desiderano conservarlo. Potenza, sapienza e amore sono però limitati nelle cose finite, le quali hanno non solo l’essere, ma anche il non essere. Vi sono quindi tre primalità del non essere: l’impotenza, l’insipienza e l’odio. In Dio solo, che non è finito ma infinito, le primalità non sono limitate dal non essere; perciò in lui la potenza non implica nessuna impotenza, la sapienza nessuna insipienza e l’amore nessuna deviazione dal bene. Attraverso le tre primalità Dio crea il mondo e lo governa: ■■■ dalla potenza di Dio deriva infatti la necessità, per cui nessuna cosa può essere o agire diversamente da come prescrive la sua natura; ■■■ dalla sapienza deriva il fato, che è la catena delle cause naturali; ■■■ dall’amore deriva l’armonia, dalla quale tutte le cose sono indirizzate al fine supremo. Questi sono i tre grandi influssi attraverso i quali Dio crea e sorregge il mondo. Schema interattivo

… e del non essere

Necessità, fato e armonia: Dio e l’ordine del mondo

ConCetti a Confronto

La natura in Bruno

in Campanella

è una realtà autonoma rispetto a ogni forza metafisica e si regge su principi propri (caldo, freddo, materia)

è un organismo vivente universalmente animato

è una totalità organica, strutturata finalisticamente, la cui essenza è costituita dalle tre primalità dell’essere (potere, sapere, amore)

Dio ne garantisce l’ordine e l’autonomia, in quanto principio di conservazione di tutti gli esseri

Dio ne è principio immanente (anima del cosmo) ma anche principio trascendente e ineffabile

Dio ne è fondamento ultimo, in quanto ente in cui le primalità dell’essere sono illimitate e perfette

comprende l’uomo, cui si rivela attraverso la sensibilità

comprende l’uomo, che è una delle molteplici manifestazioni dell’unica energia universale

comprende l’uomo, nel quale alle tre primalità dell’essere si mescolano tre primalità opposte (impotenza, insipienza, odio)

l’uomo può controllarla indagandone gli aspetti quantitativi

l’uomo può immedesimarsi in essa conseguendo la “visione” dell’unità della natura (eroico furore)

l’uomo può conoscerla attraverso la sensibilità

in Telesio

La politica teologica La fisica e la metafisica di Campanella non sono fini a se stesse, ma costituiscono il fondamento di una riforma religiosa che, secondo le speranze del filosofo, dovrebbe riunire l’intero genere umano in una sola comunità politica.

77

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

Il progetto politico-religioso della Città del Sole

La struttura dello Stato perfetto

La religione dei solari

Religione naturale e cattolicesimo

Sintesi audio Campanella

78

Campanella fu per temperamento e vocazione un profeta religioso che, nella vita e nel pensiero, cercò costantemente la realizzazione del suo ideale di uno Stato teologico universale. Quando ebbe delineato, nella Città del Sole, l’ideale perfetto che la sua mente vagheggiava, si dette a rintracciare le vie attraverso le quali poteva essere messo in pratica. Tenuto in carcere dalla monarchia spagnola, additò proprio nella monarchia di Spagna il braccio secolare che doveva portare il mondo all’unificazione religiosa. Uscito di prigione e deluso nelle speranze che aveva riposto nella Spagna, si rivolse alla Francia e attese dalla monarchia francese l’attuazione dello stesso ideale. Egli accettava in anticipo i compromessi che la realizzazione avrebbe richiesto rispetto alla purezza dell’ideale, proprio perché si sentiva legislatore e profeta più che filosofo. Rimase tuttavia fedele per tutta la vita al suo ideale politico-religioso, nonostante le oscillazioni delle sue speranze a proposito dell’autorità istituzionale che avrebbe dovuto trasformarlo in realtà. Nella Città del Sole Campanella descrive lo Stato perfetto, governato da un principe sacerdote, detto Sole, o Metafisico, assistito da tre prìncipi collaterali: Pon, Sin e Mor, cioè Potestà, Sapienza e Amore, che sono le tre primalità della metafisica. Le caratteristiche di questo Stato, nel quale tutto è ordinato e predisposto da uomini di scienza, sono la comunanza dei beni e delle donne (secondo il modello di Platone) e la religione naturale. La religione dei solari (cioè degli abitanti della Città del Sole) è dettata dalla pura ragione e si identifica con la metafisica campanelliana. Campanella osserva che il cristianesimo «nulla cosa aggiunge alla legge naturale si non i sacramenti» e che perciò «la vera legge è la cristiana», la quale, tolti gli abusi, sarà «signora del mondo». Questa religione naturale è innata (indita) in tutti gli uomini ed è il fondamento di tutte le religioni positive, le quali sono acquisite o sopraggiunte (additae) e possono essere imperfette o anche false, mentre quella innata è sempre vera. Tuttavia la religione innata non può stare senza quella acquisita. La religione innata è propria di tutti gli esseri naturali, che, avendo origine da Dio, tendono a ritornarvi; la religione acquisita è propria soltanto degli uomini ed è perciò la sola che implica merito e valore morale. La religione indita è la norma che misura il valore delle varie religioni positive. Individuando nel cattolicesimo la religione più vicina alla religione indita, Campanella si fa patrocinatore di una riforma della religione cattolica, per adeguarla ancora meglio alla religione naturale. Nell’Ateismo sconfitto egli si propone di dimostrare che il cattolicesimo è la sola religione conforme a ragione, e quindi la sola destinata a diventare veramente universale. In un’altra opera, intitolata Quod reminiscentur (il titolo è preso dal salmo 22: «Si ricordino e si convertano al Signore tutti i paesi della terra»), egli si rivolge a tutti i popoli della terra perché si decidano a ritornare al cattolicesimo. Egli si fa partigiano di una riforma morale del cattolicesimo, che lasci immutati i dogmi e la gerarchia della Chiesa, ma la restituisca all’ordine e alla semplicità del periodo patristico e quindi alla sua capacità di proselitismo e di diffusione universale. Con ciò Campanella si inserisce nei piani della Chiesa della Controriforma. Tuttavia egli accetta il cattolicesimo solo perché lo ritiene identico alla religione naturale; quindi il suo atteggiamento ultimo è filosofico e naturalistico, non religioso.

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

MAPPA L’indagine rinascimentale sulla natura Mappa interattiva

Le due PROSPETTIVE FONDAMENTALI magia (naturale, celeste, religiosa) concezione dell’universo come animato

filosofia naturale

credenza nella possibilità di dominare le forze naturali con lusinghe e incantesimi

abbandono di ipotesi e dottrine fittizie

indagine dei principi propri della natura

Mappa interattiva

TELESIO la natura è autonoma e l’uomo può conoscerla mediante la sensibilità

principi fondamentali della natura: caldo e freddo (forze incorporee che agiscono sulla materia)

Dio è il principio di conservazione di tutti gli esseri ma agisce attraverso le stesse forze naturali

la conservazione dello spirito vitale del mondo è bene supremo e misura di piacere e dolore Mappa interattiva

BRUNO Dio mente al di sopra di tutto (principio trascendente, inconoscibile e ineffabile)

universo come immenso, infinito organismo, di cui mente presente in tutte le cose (principio immanente del cosmo, accessibile alla ragione umana)

la forma è Dio (anima del mondo)

filosofia come «eroico furore» (mito di Atteone), cioè come tensione a immedesimarsi nel processo cosmico

la materia non è assoluta passività, ma possiede già in sé le forme Mappa interattiva

CAMPANELLA ogni cosa è animata

la conoscenza si divide in

conoscenza innata che l’anima ha di se stessa: accomuna ogni cosa e si fonda sulla sensibilità

conoscenza acquisita prodotta dalle cose esterne

l’essenza di ogni cosa è costituita da tre «primalità» (o principi): potenza, sapienza e amore

Città del Sole: descrizione di un ideale Stato teologico universale, basato sulla pura ragione

alle tre primalità dell’essere si contrappongono quelle del non essere: impotenza, insipienza, odio

79

I TESTI CAPITOLO 5 Rinascimento e naturalismo Telesio Parallelamente alla nuova immagine della natura come organismo vivente, nella cultura rinascimentale va affermandosi quella della natura come ambito regolato da leggi specifiche, rigorosamente indagabili da parte dell’uomo. In questo senso è fondamentale l’opera di Bernardino Telesio, il quale ne La natura secondo i propri principi si propone di studiare il mondo naturale a partire da principi ricavati da un’attenta osservazione empirica.

t1 >

ConosCere la natura a partire dai suoi prinCipi

Se la filosofia aristotelica pretendeva di studiare la natura sulla base di criteri a priori, individuati mediante la sola ragione e “precedenti” l’esperienza sensibile, Telesio cerca invece di coglierne la realtà profonda proprio attraverso i sensi.

2 4 6 8 10 12 14 16 18

Coloro che prima di noi indagarono la struttura di questo nostro mondo e la natura delle cose in esso contenute, lo fecero certo con lunghe veglie e grandi fatiche, ma inutilmente come sembra. Che cosa, infatti, questa natura può aver rivelato ad essi, i cui discorsi, nessuno escluso, dissentono e contrastano con le cose ed anche con se stessi? E possiamo ritenere che questo è ad essi accaduto proprio perché, avendo avuto forse troppa fiducia in se stessi, dopo aver indagato le cose e le loro forze, non attribuirono ad esse, come era necessario, quella grandezza, indole e facoltà, di cui si vede che sono dotate; ma, disputando quasi e gareggiando con Dio in sapienza, avendo osato ricercare con la ragione le cause e i princìpi del mondo stesso, e credendo e volendo credere di aver trovato queste cose che non avevano trovato, si costruirono un mondo a loro arbitrio. […] Noi, poiché non abbiamo avuta tanta fiducia in noi stessi, e poiché siamo dotati di un ingegno più tardo e di un animo più debole, e poiché siamo amanti e cultori di una sapienza del tutto umana […], ci siamo proposti d’indagare solamente il mondo e le sue singole parti e le passioni, azioni, operazioni ed aspetti delle parti e delle cose in esso contenute. Ognuna di esse, infatti, se rettamente osservata, manifesterà la propria grandezza, ed ognuna di queste la propria indole, forza e natura. Così che se apparirà che nulla di divino e che sia degno di ammirazione e che sia anche troppo acuto si trova nei nostri scritti, essi però non contrasteranno affatto né con le cose né con se stessi; noi cioè abbiamo seguito il senso e la natura, e nient’altro; quella natura, che, concordando sempre con se stessa, agisce ed opera sempre le stesse cose e allo stesso modo. (B. Telesio, De rerum natura iuxta propria principia, a cura di L. De Franco, Casa del Libro, Cosenza 1965, pp. 27-29)

80

Capitolo 5 • Rinascimento e naturalismo

1-9 A quanti lo hanno preceduto nello studio della natura Telesio attribuisce l’errore di aver preteso di conoscerla in base a principi a priori, fissati mediante la sola ragione, indipendentemente dalla testimonianza dei sensi. Senza un legame diretto con il mondo, le loro costruzioni teoriche contrastano l’una con l’altra e non riescono a cogliere le leggi della vita naturale. In questo atteggiamento Telesio ravvisa un moto di presunzione da parte dell’uomo, che ha finito per porsi sullo stesso piano di Dio. Ma se Dio non ha bisogno di “fare esperienza” della natura, in quanto la conosce avendola creata Egli stesso, l’uomo può solo indagare ciò che si presenta ai suoi sensi

come già costruito dal Creatore, cercando di riconoscerne le leggi nel modo meno arbitrario possibile. 10-18 Accontentandosi di una «sapienza del tutto umana», Telesio intende limitarsi a studiare il mondo così come esso gli si presenta, certo che solo mediante una simile indagine sia possibile scoprire la «grandezza» e l’armonia del creato. Il seguire «il senso e la natura, e nient’altro», ovvero la restituzione fedele del concreto svolgersi della vita naturale, è garanzia di coerenza: coerenza interna della dottrina telesiana e coerenza di tale dottrina con le cose, le quali solo attraverso i sensi rivelano all’uomo le leggi eterne che le regolano.

I TESTI

Analisi del testo

Bruno Giordano Bruno accoglie la lezione di Telesio, ma la colora di nuove, inedite sfumature, pervenendo a una suggestiva concezione dell’universo come uno e infinito.

t2 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

l’universo è uno e infinito

Il brano che segue è tratto dal quinto dialogo dell’opera intitolata De la causa, principio et uno e contiene l’affermazione della natura unitaria e infinita dell’universo.

È dunque l’universo uno, infinito, inmobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve posser essere compreso; e però [perciò] infinibile ed interminabile, e per tanto infinito ed interminato, e per conseguenza inmobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che [posto che] sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito; a cui come non si può aggiongere, cossì è da cui non si può suttrarre, per ciò che lo infinito non ha parti proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno da cui patisca e per cui venga in qualche affezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi nell’essere suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione posser avere ad altro e novo essere o pur ad altro ed altro modo di essere, non può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde. Non è materia, perché non è figurato né figurabile, non è terminato né terminabile. Non è forma, perché non informa né figura altro, atteso che è tutto, è massimo, è uno, è universo. Non è misurabile né misura. Non si comprende, perché non è maggior di sé. Non si è compreso, perché non è minor di sé. Non si agguaglia, perché non è altro ed altro, ma uno e medesimo. Essendo medesimo ed uno, non ha essere ed essere; e perché non ha essere ed essere, non ha parte e parte; e per ciò che [poiché] non ha parte e parte, non è composto. Questo è termine di sorte che non è termine; è talmente forma che non è forma; è talmente materia che non è materia; è talmente anima che non è anima: perché è il tutto indifferentemente, e però è uno, l’universo è uno.

81

UNITÀ 1 • Umanesimo e Rinascimento

22

I TESTI

24 26 28 30 32 34 36 38 40

In questo certamente non è maggiore l’altezza che la lunghezza e profondità, onde per certa similitudine si chiama, ma non è, sfera. Nella sfera, medesima cosa è lunghezza che larghezza e profondo, perché hanno medesimo termino; ma ne l’universo medesima cosa è larghezza, lunghezza e profondo, perché medesimamente non hanno termine e sono infinite. Se non hanno mezzo, quadrante ed altre misure, se non vi è misura, non vi è parte proporzionale, né assolutamente parte che differisca dal tutto. Perché se vuoi dir parte de l’infinito, bisogna dirla infinito; se è infinito, concorre in uno essere con il tutto: dunque l’universo è uno, infinito, impartibile. E se ne l’infinito non si trova differenza, come di tutto e parte e come di altro ed altro, certo l’infinito è uno. Sotto la comprensione de l’infinito non è parte maggiore e parte minore; perché alla proporzione de l’infinito non si accosta più una parte quanto si voglia maggiore che un’altra quanto si voglia minore; e però [perciò] ne l’infinita durazione [durata] non differisce la ora dal giorno, il giorno da l’anno, l’anno dal secolo, il secolo dal momento; perché non son più gli momenti e le ore che gli secoli, e non hanno minor proporzione quelli che questi a la eternità. Similmente ne l’immenso non è differente il palmo dal stadio, il stadio da la parasanga; perché alla proporzione de la immensitudine non più si accosta per le parasanghe che per i palmi. Dunque infinite ore non son più che infiniti secoli, ed infiniti palmi non son di maggior numero che infinite parasanghe. Alla proporzione, similitudine, unione ed identità de l’infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avvicini con essere sole, luna, che un uomo o una formica; e però nell’infinito queste cose sono indifferenti. E quello che dico di queste, intendo di tutte l’altre cose di sussistenza particulare. (G. Bruno, De la causa, principio et uno, V, a cura di A. Guzzo, Mursia, Milano 1985, pp. 210-213)

Analisi del testo 1-4 Dall’affermazione dell’assoluta unità della realtà (che, proprio in quanto una, è insieme potenza e atto, forma e materia), Bruno ricava i caratteri dell’infinità e dell’immobilità dell’universo. Essere, o organismo, vivificato da Dio (inteso come principio costitutivo di ogni cosa), l’universo è incomprensibile all’uomo, il quale non può de-finirlo in alcun modo, incapace, per la sua natura di creatura finita, di coglierne i termini (o confini). 4-10 Con un ragionamento che ricorda quello della scuola eleatica sull’essere, Bruno elenca i tratti costitutivi dell’universo: esso sarà immobile, essendo l’unica realtà e, quindi, non disponendo di alcun luogo “altro” in cui spostarsi; sarà ingenerato, non essendovi alcuna altra realtà da cui poter derivare; sarà incorruttibile, non essendovi alcuna altra natura in cui trasformarsi; sarà, in una parola, quantitativamente e qualitativamente inalterabile. 10-13 In quanto assolutamente uno e immutabile, l’universo include e comprende in sé tutte le determinazioni delle cose, anche quelle tra loro opposte, che in esso si ricompongono in unità. 13-21 Con una serie di determinazioni negative, Bruno ribadisce la natura assolutamente una, immutabile, inalterabile e indivisibile dell’universo, giungendo ad affermare con decisione che esso «è il tutto indifferentemente», ovvero una realtà necessariamente omogenea e semplice.

82

22-25 Come la sfera, l’universo bruniano ha altezza, lunghezza e profondità uguali, ma non perché esse abbiano lo stesso punto di riferimento (il centro) e, quindi, la stessa misura, ma, al contrario, perché non hanno misura alcuna. 25-38 Riproponendo il ragionamento sull’incommensurabilità e indivisibilità dell’universo, Bruno lo applica non solo allo spazio, ma anche al tempo. Così come, in uno spazio infinito, non ha senso distinguere tra parti più o meno grandi, ugualmente, all’interno del tempo infinito, non ha senso distinguere tra durate maggiori o minori. 38-41 Qualunque determinazione particolare non ha senso se rapportata all’infinità dell’universo. Poiché quest’ultimo è un organismo omogeneo e semplice, cioè indivisibile, le differenze percepite dagli esseri umani nella loro finitudine non corrispondono a differenze “realmente sussistenti”, essendo assorbite e com-prese nell’infinita vita del Tutto. Con linguaggio efficace e suggestivo, l’autore nota come una formica, un uomo, una stella, il sole o la luna non siano che modificazioni “interne” (per così dire) di un unico, indivisibile essere vivente. Da scientifica, la riflessione si è fatta filosofica, portando Bruno ad affermare tra le righe l’uguale dignità di tutti gli esseri viventi. L’uomo ha ormai definitivamente perso la posizione privilegiata di cui godeva nell’universo aristotelico.

verifica verifica

UNITÀ 1 Umanesimo e Rinascimento

1. Coordinate storico-sociali e concetti generali 1 Nella ricerca di modelli culturali più adatti alle proprie

Esercizi attivi

4 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla cultura rinascimentale.

esigenze, gli umanisti si rivolgono a: a l’antichità classica

idee - borghese - élite economiche e politiche - ambienti più larghi - invenzione della stampa - rinascimentale

b gli autori medievali c la sapienza orientale d le Sacre scritture

2 Gli studiosi umanistico-rinascimentali tendono a valorizzare l’uso del: a volgare b latino c greco d linguaggio poetico

Se è vero che la cultura ............................................................ appare ristretta, come nel passato, ai rappresentanti delle ........................................................................................................................................, la nuova civiltà di tipo “........................................”, facilita la diffusione del sapere in ......................................................................................., espandendosi presso una cerchia più ampia di individui. Per di più l’........................................................................................... permette una circolazione di ........................................ più vasta di quanto non fosse mai avvenuto prima.

3 Riferendoti al contesto socio-culturale in cui si svilup-

5 Collega le affermazioni elencate di seguito (colonna di

pa la civiltà del Rinascimento, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false.

sinistra) con gli autori a cui devono essere attribuite (colonna di destra). a. la genesi della rinascita è nelle 1. Burckhardt esigenze di rinnovamento religioso presenti già nel XII secolo

a. La Chiesa perde il predominio nell’organizzazione della cultura V F b. Il sapere rimane monopolio di una cerchia elitaria di intellettuali V F c. Le università abbandonano lo studio della filosofia scolastica V F d. Le arti sono dette “liberali” perché forgiatrici di uomini liberi V F e. La vita attiva è preferita a quella speculativa V

F

f. La cultura è improntata a un atteggiamento anticristiano V F

b. il Medioevo è trascendentalista, teocentrico e universalista mentre il Rinascimento è immanentista, antropocentrico e individualista c. il Rinascimento presenta una tipicità irriducibile e nello stesso tempo è in rapporto di continuità con il Medioevo

2. Burdach

3. Garin

83

UNITÀ 1 • UMaNeSIMo e RINaSCIMeNTo

6 In che senso il Rinascimento costituisce la frattura dell’unità culturale del Medioevo?

(max 6 righe)

– l’uomo è creatura di Dio; – l’uomo è libero, ma consapevole dei propri limiti. (max 15 righe)

7 Quali sono le differenze tra il Rinascimento italiano e (max 6 righe)

9 Stoicismo e scetticismo sono le esperienze da cui muo-

8 elabora un breve testo sulla concezione rinascimenta-

ve Montaigne per tentare di comprendere la condizione umana; spiega quali sono le conclusioni a cui per(max 15 righe) viene.

VERIFICA

quello europeo?

le dell’uomo, tenendo presenti le seguenti definizioni: – l’uomo è artefice di se stesso;

2. Platonismo e aristotelismo nel Rinascimento 10 La teoria della «doppia verità» afferma che:

13 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per

a un’idea può essere più probabile secondo la ra-

gione anche se l’idea opposta deve essere accettata per fede b se un’idea è più probabile secondo la ragione,

l’idea opposta, per quanto sostenuta dalla fede, deve essere rifiutata c un’idea può essere vera per la ragione e falsa per

la fede d anche se un’idea è falsa per la ragione deve esse-

re accettata per fede

11 La saldatura tra religione e filosofia, secondo Ficino, ha lo scopo di: a congiungere l’uomo a Dio b rinnovare l’uomo e il suo mondo c mostrare la superiorità della filosofia platonica d evidenziare l’azione divina nel mondo

completare il passo riportato sotto, relativo alla disputa tra platonici e aristotelici. Aristotele - aristotelici - culturali - disputa - filosofia di Platone - platonici - ricerca razionale - rinascita religiosa - ripresa alla base della ....................................... tra platonici e aristotelici del Rinascimento c’è l’antitesi tra due diversi interessi ........................................ Da un lato, i ....................................... sottolineano l’esigenza della ........................................................................................................, individuandone il presupposto nel ritorno alla ................. ........................................................................................., intesa come sintesi del pensiero religioso dell’antichità. Dall’altro lato, gli ...................................... sono i fautori della libera ............................................. ................................................ e vedono nel ritorno ad ....................................... il presupposto per la ....................................................... dell’indagine naturalistica.

14 Collega le affermazioni elencate di seguito (colonna di

a. I miracoli sono fatti che rientrano nell’ordine naturale del mondo V F

sinistra) con gli autori a cui devono essere attribuite (colonna di destra). 1. Pomponazzi a. l’ignoranza “dotta” è quella consapevole e fondata su buoni motivi

b. L’anima umana può aspirare a trasformarsi in intelligenza angelica V F

b. l’anima è la «copula del mondo»

12 In riferimento al pensiero di Pomponazzi, indica quali tra le seguenti espressioni sono vere e quali false.

c. L’immortalità dell’anima non può essere dimostrata V

F

d. Virtù e vizi sono premi o punizioni a se stessi V

F

e. La vita morale non è riconducibile all’ordine naturale delle cose V F f. L’uomo non è libero nel suo agire

84

Esercizi attivi

V

F

c. l’uomo può degenerare nelle cose inferiori e può, se vuole, rigenerarsi nelle cose superiori d. il mondo ha un ordine razionale necessario

2. Pico della Mirandola

3. Ficino

4. Cusano

Verifica

stro del nuovo pensiero rinascimentale?

17 Spiega quali sono gli aspetti fondamentali del platoni-

(max 6 righe)

smo rinascimentale e in che cosa consiste la sua origi(max 15 righe) nalità.

16 In che cosa consiste la rilevanza storica dell’aristoteli-

18 elabora un breve testo chiarendo il senso della «dotta

smo rinascimentale?

(max 6 righe)

3. Rinascimento e Riforma 19 Il momento filologico della riforma religiosa è rappresentato da: a il ripristino dei testi classici b il ripristino del testo biblico c il recupero dei testi platonici

ignoranza» di Cusano e la novità che tale concetto rappresenta in ambito gnoseologico. (max 15 righe)

Esercizi attivi

VERIFICA

15 Quali sono i motivi per cui Platone viene eletto mae-

al ..................................................................... di erasmo, Lutero replicava nel 1525 con il ...................................................... Il ........................................................ è nulla, secondo Lutero: la ............................... e l’....................................... ...................................................... lo escludono. .................... predestina infallibilmente gli uomini alla .................................................; e quelli che egli non predestina, si ..................................................

d il recupero dei testi aristotelici

23 Collega le affermazioni elencate di seguito (colonna di sinistra) con gli autori a cui devono essere attribuite (colonna di destra). a. la grazia divina è l’unica 1. Zwingli causa della salvezza

20 La pazzia elogiata da erasmo è: a la follia dei cristiani b l’illusione, l’incoscienza, l’ignoranza contenta

di sé c la capacità di andare oltre la ragione d l’atteggiamento di chi non crede

21 In riferimento al pensiero di Calvino, indica quali tra le seguenti espressioni sono vere e quali false. a. Dio è assoluta sovranità e potenza

V

2. Calvino

c. l’eucarestia è una pura cerimonia simbolica

3. Lutero

d. il lavoro è un dovere sacro

4. erasmo

F

b. La volontà dell’uomo è nulla di fronte alla predestinazione divina V F c. Il lavoro deve essere subordinato alla preghiera V

b. la libertà umana è causa secondaria della salvezza

F

24 Se le esigenze di rinnovamento erano comuni a erasmo e Lutero, le conclusioni a cui giunsero furono op(max 6 righe) poste. Per quali motivi?

25 In che senso per Calvino il lavoro è una “vocazione” e una missione sociale?

d. La prosperità e il benessere sono segno del favore divino V F e. L’organizzazione civile è indistinta da quella religiosa V

F

22 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato nella colonna a fianco, relativo al tema del libero arbitrio. De servo arbitrio - salvezza - onnipotenza divina - libero arbitrio - De libero arbitrio - prescienza - Dio - dannano

(max 6 righe)

26 esponi in modo sintetico le dottrine di Lutero in riferimento ai seguenti temi: – la giustificazione per fede – l’abbandono all’iniziativa divina – i sacramenti come espressione del rapporto imme(max 15 righe) diato tra uomo e Dio.

27 Illustra sinteticamente la risposta della Chiesa alle tesi di Lutero e i caratteri della Riforma cattolica. (max 15 righe)

85

UNITÀ 1 • UMaNeSIMo e RINaSCIMeNTo

4. Rinascimento e politica

Esercizi attivi

.............................................,

28 Lo storicismo risale: a allo stoicismo

............................................

VERIFICA

motivata dal fatto che la natura

dell’uomo è la .............................................. Sulla ......................................................

b al neoplatonismo

dell’uomo si fonda, secondo Grozio, il

..................................................................................................:

c all’aristotelismo

è il comando della

ragione che rivela il .................................................. o il .......................................

d all’epicureismo

..................................................

di un’azione, mostrandone ...........................

..........................................................................

29 Il giusnaturalismo trova la propria radice:

con la ragione.

32 Collega le affermazioni elencate di seguito (colonna di

a nello stoicismo

sinistra) con gli autori a cui devono essere attribuite (colonna di destra).

b nel neoplatonismo c nella dottrina cristiana d nella sapienza orientale

30 In riferimento alle dottrine di Machiavelli, indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. Il solo modo in cui le comunità possono rinnovarsi è ritornare ai propri principi V F b. Se la nazione italiana vuole ritrovare unità e libertà, deve assumere come modello la Grecia classica V

F

c. Il principe non deve guardare alla realtà di fatto ma all’ideale V F d. La fortuna è arbitra della metà delle azioni umane V

F

e. L’uomo non può riuscire a dominare la fortuna V

a. l’uomo può riuscire a dominare la fortuna se non si abbandona agli eventi

1. Bodin

b. gli uomini cattivi sono più dei buoni

2. Moro

c. è necessaria l’eccellenza della virtù del principe

3. Botero

d. la solidarietà è fondata sul principio del piacere

4. Guicciardini

e. la guerra non sospende le leggi che sono fondate sulla natura umana

5. Machiavelli

33 Quali sono gli aspetti salienti della volontà di rinascita F

31 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla teoria giusnaturalista. l’accordo o il disaccordo - razionale - naturale - disvalore morale - diritto naturale - ragione - natura razionale - valore

nell’ambito della politica?

(max 6 righe)

34 Qual è, per Machiavelli, il solo modo per promuovere un rinnovamento delle comunità?

(max 6 righe)

35 Spiega in che cosa consiste il realismo politico di Machiavelli.

(max 15 righe)

36 Chiarisci la prospettiva giusnaturalista di Grozio, illuLa premessa giusnaturalistica fondamentale è l’identificazione di ciò che è ............................................. con ciò che è

86

strando la differenza tra il diritto naturale e quello po(max 15 righe) sitivo.

Verifica

Dall’altra parte, lo definisce come .......................................................... .........................................................................................: in questo senso egli è il principio immanente del cosmo e risulta accessibile alla ........................................... costituendosi come ............................................ .................................................................................................................................... In quanto ................................................................................................, secondo Bruno Dio è causa e principio dell’essere.

37 Secondo Bruno la religione autentica è: a il cattolicesimo b il cristianesimo riformato c la filosofia dei presocratici d la religione della natura

38 I principi costitutivi del mondo secondo Campanella 41 Collega le affermazioni elencate di seguito (colonna di

sono:

sinistra) con gli autori a cui devono essere attribuite (colonna di destra). a. la natura o è Dio stesso o è la 1. Telesio virtù divina che si manifesta nelle cose

a necessità, fato e armonia b impotenza, insipienza e odio c potenza, amore e odio d potenza, sapienza e amore

39 In riferimento alle dottrine esposte da Telesio, indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. La natura è oggettivamente autonoma

VERIFICA

5. Rinascimento e naturalismo

Esercizi attivi

V

F

b. la natura è un mondo che si regge su principi propri c. noi siamo consapevoli di sapere, di potere e di amare

b. L’uomo può conoscere la natura grazie alla sua superiorità rispetto alle altre creature V F

d. l’attributo fondamentale dell’universo è l’infinità

c. La natura si spiega con due soli principi in armonia tra loro: il caldo e il freddo V F

e. la sensazione consiste nella percezione che se ne ha, cioè nella coscienza

2. Bruno

3. Campanella

d. La sensibilità ci permette di percepire la natura e. Dio è il garante dell’ordine naturale

V

F

V

F

f. La fisica condivide con la magia il presupposto dell’animazione della natura V F

42 Quali sono i due presupposti fondamentali su cui si basa la magia rinascimentale?

(max 6 righe)

43 Come si caratterizzano, secondo Campanella, la conoscenza innata e la conoscenza acquisita? (max 6 righe)

40 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla concezione bruniana di Dio. ragione - oggetto di fede - mente al di sopra di tutto trascendente - mente presente in tutte le cose - oggetto privilegiato del discorso filosofico - spirito animatore delle cose Bruno parla di Dio in due modi. Da una parte, lo de-

44 Nel sapere naturalistico sviluppato da Telesio, Bruno e Campanella, accanto all’idea innovativa dell’autonomia e dell’oggettività della natura coesistono credenze e procedimenti magico-astrologici. evidenzia gli elementi legati alla magia nella riflessione di ciascuno (max 15 righe) dei tre autori considerati.

45 esponi la dottrina bruniana dell’«eroico furore», co-

finisce ..............................................................................................................: in questo

gliendo la sua connessione con la morale attivistica, tesa a esaltare il valore dell’operosità e del lavoro.

senso egli è .................................................. e .....................................................................

(max 15 righe)

87

UNITÀ 1 • UMaNeSIMo e RINaSCIMeNTo

VERSO LE COMPETENZE w Leggere, comprendere Il “papa guerriero” Giulio II descritto da Erasmo e interpretare un testo Negli scritti di Erasmo da Rotterdam emergono con particolare forza la difesa della pace e la pow Riflettere e argomentare, lemica anticlericale, che si ritrovano saldati tra loro in maniera estremamente suggestiva nel libello individuando collegamenti Iulius exclusus e coelis (Giulio escluso dai cieli). e relazioni Questo scritto comincia a circolare in forma manoscritta e anonima nel 1514, subito dopo la morte di papa Giulio II, che si era imposto nell’opinione pubblica come il “papa guerriero” per la sua inclinazione a partecipare alle guerre e a cambiare, a seconda delle circostanze e delle convenienze, le alleanze militari. L’opera si presenta come un dialogo tra san Pietro, Giulio II e il “Genio” di quest’ultimo, una sorta di demone interiore che, secondo gli antichi, guidava l’esistenza di ogni essere umano. Appena morto, il “papa-guerriero” Giuliano Della Rovere si presenta alle porte del paradiso accompagnato da una minacciosa folla di tagliagola e cerca invano di entrare:

VERIFICA

LABORATORIO DELLE IDEE

Giulio: Che diavolo succede? Le porte non si aprono? Suppongo che la serratura sia stata cambiata; oppure è rotta. Genio: Assicurati, piuttosto, di aver portato la chiave giusta: con quella della cassaforte questo uscio non si apre. Ma perché non le hai portate entrambe? Questa è la chiave del potere, non della conoscenza. Giulio: È l’unica che ho mai posseduto; e non comprendo la necessità di un’altra dal momento che c’è questa1. […] Pietro: Per fortuna abbiamo una porta d’acciaio; altrimenti costui, chiunque sia, avrebbe mandato i battenti in pezzi. Deve trattarsi di un gigante o di un satrapo, un distruttore di città. Ma, Dio immortale, sento puzza di fogna! Non aprirò l’uscio subito; spiando attraverso la grata di questa finestrella, riuscirò a scoprire cosa succede di strano. Chi sei? Che cosa vuoi? […] [Invitando Giulio II a identificarsi, Pietro gli chiede di elencare le opere buone che ha compiuto in vita e che possano fargli meritare il paradiso. Il pontefice, irritato per la richiesta, elenca con presunzione le imprese di cui può vantarsi: l’elezione ottenuta con la corruzione del conclave; la conquista di Bologna e altre imprese militari; le spregiudicate alleanze strette e infrante a seconda della convenienza; la simonia, l’usura e così via. Di fronte al rifiuto definitivo da parte di san Pietro di aprirgli le porte del Regno dei cieli, Giulio II reagisce sprezzante e minaccioso.] Giulio: Dunque non mi apri? Pietro: A tutti, piuttosto che a una peste come te. D’altro canto, a tuo giudizio, siamo tutti scomunicati. Ma vuoi un buon consiglio? Hai un codazzo di uomini forti, possiedi un’immensa ricchezza, sei tu stesso un abile architetto: costruisci un Paradiso nuovo, ma ben fortificato, in modo che i demoni del male non possano espugnarlo facilmente2. Giulio: Mai! Farò invece qualcosa che è più degna di me: aspetterò per qualche mese, e quando avrò incrementato le mie truppe, vi scaccerò di qui con la forza, se non vi arrenderete. Sono sicuro infatti che presto mi raggiungeranno migliaia e migliaia di uomini, grazie alle carneficine di guerra. Pietro: O sciagura! O misera Chiesa! Ehi, ascolta Genio! Perché è preferibile chiacchierare con te che con questa belva repellente. Genio: Che c’è? Pietro: Gli altri vescovi sono come lui? 1 Giulio II mostrava di essere più un condottiero di eserciti (armiger) che un custode delle chiavi del paradiso (claviger): per questo, con amaro sarcasmo, la gente diceva che aveva gettato nel Tevere le chiavi di Pietro. 2 Erasmo allude qui alle grandi opere architettoniche e ai lavori di restauro commissionati da Giulio II ai più famosi artisti del tempo (tra cui Raffaello e Michelangelo).

88

Verifica

(Papa Giulio scacciato dai cieli, a cura di P. Casciano, Argo, Lecce 1998, pp. 59 e 140-141)

Comprensione del testo 1. Quali sono le chiavi a cui si riferiscono Giulio II e il suo “Genio” nello scambio di battute riportato in apertura e qual è il messaggio polemico sotteso a queste righe?

VERIFICA

Genio: In buona parte sono di questa pasta; ma lui li supera tutti. […] Pietro: Allora non mi meraviglio più se così poche anime giungono fino a qui, dal momento che sciagure simili siedono al governo della Chiesa; comunque, ho buone speranze che il popolo sia curabile, poiché rende omaggio a una lurida cloaca par suo solo perché è insignito del titolo di pontefice. Genio: Dici bene. Ma il mio imperatore da tempo mi fa cenno e agita il bastone. Perciò tanti saluti.

2. Quali sono le parole di Pietro con le quali erasmo esprime il suo sdegno per una Chiesa che non è strumento di pace, ma di violenza e ingiustizia? 3. Come risponde il pontefice al rifiuto di Pietro di aprirgli le porte del paradiso? 4. Il brano si chiude con un’amara riflessione (che erasmo affida a Pietro) sulle condizioni in cui versa la Chiesa cattolica dell’epoca: richiamane i passaggi principali.

Riflessione 5. La polemica di erasmo riflette la situazione della Chiesa del suo tempo, in cui il potere spirituale era strettamente commisto a quello temporale. a distanza di più di cinque secoli le cose sono molte cambiate: documentati in questo senso ed esprimi il tuo personale giudizio al riguardo. 6. La prosa incalzante e asciutta della satira di erasmo rivela non solo la sua profonda avversione per Giulio II, impietosamente ritratto nella sua sanguinaria ferocia, ma anche la sua condanna per chiunque tradisca la missione affidatagli da Cristo, «principe della pace». Questi stessi toni appassionati si trovano nel Lamento della Pace (v. “echi del pensiero”, p. 50): individua e illustra i punti di contatto tra i due scritti erasmiani.

89

2 UNITÀ

2

LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE Nella scienza moderna confluiscono le ricerche naturalistiche degli ultimi scolastici, l’aristotelismo rinascimentale, il platonismo antico e nuovo, la magia, la dottrina di Telesio. Questi elementi sono, da un lato, integrati dalla scienza mediante la riduzione della natura a pura oggettività misurabile, dall’altro purificati dalle connessioni metafisico-teologiche che li caratterizzavano nelle dottrine di origine.

CAPITOLO 1 La rivoluzione scientifica

CAPITOLO 2 Galilei

CAPITOLO 3 Bacone

90

Nel primo capitolo analizziamo lo schema concettuale della scienza moderna e delineiamo le caratteristiche della “rivoluzione astronomica”, che consiste nell’abbandono della visione dell’universo ereditata da Aristotele e da Tolomeo, a favore di una nuova immagine del cosmo, che gli studi di Niccolò Copernico e le riflessioni filosofiche di Giordano Bruno iniziano ad abbozzare. Nel secondo capitolo ci soffermiamo su Galileo Galilei, figura fondamentale non solo per le sue scoperte fisiche e astronomiche, che distruggono definitivamente la vecchia immagine del cosmo, ma soprattutto per la sua battaglia in difesa della scienza contro ogni dogmatismo e per la costante, innovativa, applicazione di un metodo nella ricerca scientifica. Nel terzo capitolo studiamo il progetto di Francesco Bacone, che delinea l’immagine di una scienza posta al servizio dell’uomo, allo scopo di garantirgli, attraverso lo sviluppo della tecnica, il dominio sul mondo naturale.

CAPITOLO 1

La rivoluzione scientifica 1. La nascita della scienza moderna: un evento di importanza capitale Nella storiografia contemporanea italiana ed estera – e quindi anche nei libri di testo – la nascita della scienza ha assunto sempre maggior rilevanza. Segno evidente che la civiltà del nostro tempo, annoverando tra le proprie caratteristiche di fondo la scienza e la tecnica (che è la realizzazione pratica delle scoperte scientifiche), tende a riconoscere sempre di più la centralità storica di quell’evento radicalmente innovatore che, sulla scia degli studiosi anglosassoni e del libro The Scientific Revolution di Alfred Rupert Hall del 1954, si suole ormai comunemente denominare “rivoluzione scientifica”, definendone l’ambito cronologico tra la data di pubblicazione del capolavoro di Copernico Le rivoluzioni dei corpi celesti (1543) e quella dell’opera di Newton I principi matematici di filosofia naturale (1687). La consapevolezza della portata della rivoluzione scientifica rende ancor più ineludibile e coinvolgente la domanda – o meglio, la serie di interrogativi – circa le sue origini: quali sono i fattori che hanno prodotto la scienza? quali le circostanze, gli eventi o le figure che ne hanno favorito l’avvento? che rapporti esistono tra il nuovo sapere e la vecchia cultura? perché la scienza è nata solo nell’età moderna e non prima? quali sono i motivi che ne hanno ostacolato per tanto tempo la nascita? quali le forze che all’inizio l’hanno combattuta? quali le ragioni del suo finale trionfo? ecc. Queste e altre domande, che affollano la mente di chiunque rifletta sul problema della genesi del sapere scientifico, costituiscono anche i più ardui e complessi quesiti di storia e filosofia della scienza, tuttora al centro del dibattito storiografico. Prima di cimentarsi con tali interrogativi e di abbozzare possibili risposte, risulta logicamente e didatticamente indispensabile, o per lo meno utile, avere in mente la struttura teorica generale di ciò che da Galilei in poi si denomina “pensiero scientifico”. Afferrata tale struttura, si comprenderanno meglio le osservazioni circa i fattori che l’hanno geneticamente prodotta o favorita.

L’importanza storica della rivoluzione scientifica

La nascita della scienza come problema storiografico

91

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

2. Lo schema concettuale Senza entrare nel merito della discussione sulla natura della scienza – che, come vedremo nel terzo volume, costituisce uno spinoso argomento di discussione teorica tra gli epistemologi contemporanei – risulta possibile, sul piano storico, delineare lo schema concettuale che sta alla base della rivoluzione scientifica e che trova applicazione soprattutto in Galilei. Tale quadro si può ricavare in rapporto sia al nuovo modo di concepire la natura, sia al nuovo modo di intenderne lo studio. La nuova concezione della natura e della scienza

Dalla rivoluzione scientifica in generale, e dalla metodologia galileiana in particolare, emergono: a) la concezione della natura come ordine oggettivo e causalmente strutturato di relazioni governate da leggi; b) la concezione della scienza come sapere sperimentale-matematico e intersoggettivamente valido, avente come scopo la conoscenza progressiva del mondo circostante e il dominio di esso da parte dell’uomo. Analizziamo adesso i vari punti e passaggi di questo schema1.

Il nuovo modo di vedere la natura La natura come ordine oggettivo…

… causale…

La natura è un ordine oggettivo, poiché essa, scientificamente parlando, costituisce un oggetto i cui caratteri non hanno niente a che fare con la dimensione spirituale, e quindi con i fini, i bisogni e i desideri dell’uomo. Mentre il mondo della magia, come quello dei fanciulli e dei primitivi, appare ad esempio come un organismo in cui ogni cosa possiede un’anima e risulta in rapporto di “simpatia” o di “antipatia” con gli altri esseri, l’universo della scienza si configura come un ordine programmaticamente spogliato di ogni attributo, valore o qualità umana (bontà, perfezione ecc.). Solo disantropomorfizzando o spersonalizzando la natura – e quindi “espellendo” l’uomo dalla fisica – risulta infatti possibile studiare scientificamente la realtà effettiva del mondo circostante. La natura è un ordine causale, poiché in essa nulla avviene a caso, ma tutto è il risultato di cause ben precise. Per “causalità”, secondo le precisazioni di Galilei, si intende un rapporto costante e univoco tra due fatti (o due insiemi di fatti), dei quali dato l’uno è dato anche l’altro e tolto l’uno è tolto anche l’altro. Ad esempio, dati i cento gradi (causa), l’acqua bolle necessariamente (effetto); tolti i cento gradi, smette necessariamente di bollire. Tuttavia, delle quattro cause riconosciute da Aristotele (formale, materiale, efficiente, finale), l’unica scientificamente ammessa è la causa efficiente. Alla scienza, infatti, non interessa (o non è dato di conoscere) il perché finale o lo scopo di un fatto, ma solo la sua causa efficiente, ossia l’insieme delle forze che producono quel fatto. Ad esempio, al fisico non importa (o non è dato di sapere) per quale scopo, nell’organizzazione complessiva della natura o nei piani generali del Creatore, esistano i pianeti di Giove o le maree, in quanto egli ha come unico traguardo lo studio delle cause efficienti generatrici di tali fenomeni. 1 Lo schema qui delineato è ovviamente un costrutto storico-ideale, che serve unicamente a “raccogliere” alcuni momenti concettuali di fondo della scienza moderna ai suoi inizi. Come tale, esso può venir ampliato e modificato, oppure sostituito, da altri schemi.

92

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

La natura è un insieme di relazioni e non un sistema di “essenze”, poiché lo sguardo del ricercatore è fisso non su presunti principi sostanziali occulti e inverificabili posti alla base della realtà, ma sulle relazioni causali riconoscibili che legano i fatti tra loro. Ad esempio, allo scienziato non importa di mettere in luce la “sostanza” di un fatto come il fulmine, ma solo di chiarire i rapporti di causa ed effetto che lo congiungono con altri fatti (le scariche elettriche, il tuono ecc.). Analogamente, lo studioso della natura non si occupa dell’ipotetica essenza dell’arcobaleno, ma dell’insieme delle connessioni che lo legano ad altri fenomeni e che lo rendono comprensibile (la luce solare, le gocce d’acqua ecc.). I fatti sono governati da leggi, poiché, essendo causalmente legati tra loro, obbediscono a regole uniformi, le quali rappresentano i modi necessari o i principi invarianti (i codici) attraverso cui la natura opera. Di conseguenza, dal punto di vista scientifico, la natura finisce per essere nient’altro che l’insieme delle leggi che regolano i fenomeni e li rendono prevedibili.

… relazionale…

… e retto da leggi

Il nuovo modo di concepire la scienza La scienza è un sapere sperimentale, perché si fonda sull’osservazione dei fatti e perché le sue ipotesi vengono giustificate su base empirica e non puramente razionale. Tuttavia, l’esperienza di cui parla la scienza, come vedremo più analiticamente a proposito di Galilei (v. cap. 2), non è una semplice e immediata “registrazione” di fatti, subito inquadrata in una teoria generale, bensì una costruzione complessa, su base matematica, che mette capo all’esperimento, cioè a una procedura appositamente costruita per la verifica delle ipotesi. Di conseguenza, la scienza moderna perviene all’equazione “esperienza = esperimento”, rielaborando in modo originale il concetto di esperienza. La scienza è un sapere matematico che si fonda sul calcolo e sulla misura, poiché, nello sforzo di darsi una veste rigorosa, procede a una matematizzazione dei propri dati, racchiudendoli in formule precise. Pertanto la “quantificazione” si configura come una delle condizioni imprescindibili dello studio della natura e come uno dei punti di forza del nuovo metodo inaugurato da Galilei, che alla deduzione matematica, come si vedrà, assegna un ruolo basilare nella stessa “scoperta” scientifica. La scienza è un sapere intersoggettivo, poiché i suoi procedimenti vogliono essere “pubblici”, cioè accessibili a tutti, e le sue scoperte pretendono di essere universalmente valide, ossia “controllabili”, in linea di principio, da ognuno. In tal modo, la scienza moderna si stacca nettamente dalla magia e dalle discipline occulte, le quali, presupponendo una concezione “sacerdotale” o “iniziatica” del sapere, considerano la conoscenza come patrimonio di una cerchia ristretta di individui, che lavorano in segreto, senza esibire alla luce del sole i metodi delle proprie ricerche. Da ciò l’equazione “scienza = sapere universale”, affermata con vigore da Galilei in poi. Il fine della scienza è la conoscenza oggettiva del mondo e delle sue leggi. Ma quanto più riesce a essere “neutrale” e “disinteressata”, ossia libera da schemi antropomorfici e sganciata da preoccupazioni estranee, e quindi capace di scoprire le relazioni autentiche tra i fenomeni, tanto più la scienza va incontro a quel fondamentale “interesse” umano che è il dominio dell’ambiente circostante. Infatti, conoscere le leggi della natura vuol dire, nel contempo,

La scienza come sapere sperimentale…

… matematico…

… intersoggettivo…

… e finalizzato a conoscere il mondo per dominarlo

93

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Esercizi interattivi La nascita della scienza moderna

poterla controllare e dirigere a nostro vantaggio. Di conseguenza, il baconiano «sapere è potere» (v. cap. 3) esprime tutta l’umanità della scienza, cioè il suo evidente collegamento con il soggetto concreto che la istituisce.

3. Le premesse storiche, sociali e culturali Aver chiarito lo schema concettuale che sta alla base della rivoluzione scientifica ci consente di affrontare con maggior consapevolezza la domanda relativa ai fattori che hanno prodotto la nuova scienza. A questo interrogativo non è possibile rispondere adducendo un insieme di “cause” che avrebbero “necessariamente” indotto lo sviluppo del sapere scientifico, ma nemmeno si può attribuire quest’ultimo esclusivamente al “caso” o alla “genialità” di alcuni pensatori. Ciò che si può fare è piuttosto mettere in luce alcune delle condizioni storiche, economiche, sociali e culturali che hanno preparato o favorito l’avvento della rivoluzione scientifica.

Scienza e società La rivoluzione scientifica, così come la grande fioritura umanistico-rinascimentale del XV e del XVI secolo, non nasce nel vuoto, ma in un preciso contesto storico, caratterizzato dai mutamenti di struttura dell’economia europea e dal nuovo tipo di società venutosi a delineare all’inizio dell’età moderna. Le esigenze della società moderna e lo sviluppo delle scienze

La formazione degli Stati cittadini e nazionali, parallelamente al consolidarsi della civiltà urbano-borghese, produce infatti un sistema di vita più complesso e dinamico, che provoca una serie concomitante di nuove “esigenze” e di nuovi “bisogni” sociali. In particolare, l’imponente struttura organizzativa delle monarchie europee e lo spirito imprenditoriale e affaristico dei ceti mercantili si traducono in maggiori richieste tecniche. Allestire eserciti sempre più potenti e fornirli di un adeguato armamento, ampliare le città con costruzioni e con capolavori architettonici, migliorare le vie di comunicazione, solcare gli oceani con navi sempre più resistenti e veloci, arginare, incanalare e bonificare le acque, estrarre metalli, lavorare i vetri e le stoffe, stampare libri ecc. presuppongono, ad esempio, una sequela di cognizioni di balistica, metallurgia, architettura, carpenteria, cartografia, arte mineraria, idraulica, tipografia ecc. A loro volta queste ultime implicano conoscenze più approfondite di matematica, fisica, astronomia, geografia ecc., ossia più nozioni scientifiche. La saldatura tra scienza e società moderna passa dunque, fin dall’inizio, attraverso i nuovi bisogni concretizzati nelle nuove esigenze tecniche, che fungono da stimolo per la creazione di un sapere oggettivo capace di permettere all’uomo un efficace orientamento nel mondo.

Scienza e tecnica La collaborazione tra tecnici e scienziati

94

Le maggiori richieste tecniche fanno sì che gli artigiani tradizionali, fermi a livelli prevalentemente empirici, risultino impreparati a risolvere i nuovi problemi e siano costretti ad appellarsi a studiosi in possesso di più ampie nozioni matematico-fisiche. Così, ad esempio, accade che gli artigiani delle armi da fuoco chiedano informazioni ai matematici circa la

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

traiettoria dei proiettili, oppure che gli architetti e gli esperti del sollevamento delle acque interroghino i fisici circa i complessi problemi di statica delle forze e di dinamica dei fluidi. Viceversa, abbiamo scienziati che “ascoltano” le osservazioni di modesti orologiai, piloti nautici, orefici, artiglieri ecc., oppure che si rivolgono ai cosiddetti “artigiani superiori” (ingegneri, architetti, idraulici ecc.) per carpire notizie dalla loro annosa attività. In tal modo si profila quell’alleanza tra tecnici e scienziati che costituisce una delle caratteristiche salienti della rivoluzione scientifica e che porta al superamento del millenario abisso tra scienza pura e applicazioni pratiche. Anzi, la connessione tra tecnica e scienza diviene così stretta che in parecchi casi abbiamo non solo tecnici che si fanno scienziati o scienziati che si fanno tecnici, ma anche affascinanti figure di scienziati, tecnici e artisti al tempo stesso (si pensi ad esempio a Leonardo da Vinci). Tra le manifestazioni della collaborazione tra scienza e tecnica vanno annoverati la stesura dei trattati, dei quali è ricca la letteratura del Quattrocento e del Cinquecento, e lo sviluppo e l’utilizzo degli strumenti scientifici, dei quali parleremo nelle pagine dedicate a Galilei. Che questa connessione tra scienza e tecnica, in quanto primitiva, non implichi ancora una sistematica utilizzazione pratica delle scoperte scientifiche, cioè una tecnologia vera e propria, è un fatto abbastanza ovvio. La neonata scienza, ad esempio, appare ancora inadeguata a incidere sui processi produttivi del lavoro. Ciò non esclude tuttavia – e questo è il dato storico più importante – che con la rivoluzione scientifica abbia cominciato a svilupparsi quel circolo dialettico, di implicanza e condizionamento reciproci, tra scienza e tecnica che costituisce uno dei tratti più vistosi della civiltà moderna.

Una connessione destinata a svilupparsi in futuro

Scienza e Rinascimento Se l’affermarsi della civiltà urbano-borghese e il congiunto sviluppo della tecnica rappresentano la molla storico-sociale della rivoluzione scientifica, la cultura tardo-scolastica e quella rinascimentale ne rappresentano le basi ideali. Si è già detto, parlando di Ockham e della scuola occamista (v. vol. 1B, unità 7, cap. 3), dell’importanza delle speculazioni trecentesche per la storia della scienza. Gli occamisti, infatti, non solo avviarono una critica serrata delle fondamentali teorie aristoteliche, come quelle sul movimento degli astri e dei proiettili, ma diffusero una mentalità empiristica favorevole alle ricerche naturalistiche. Questi contributi (di Ockham, Buridano, Alberto di Sassonia, Nicola di Oresme ecc.), confrontati con il disinteresse o addirittura l’ostilità che gli umanisti manifestano per le ricerche fisiche, hanno fatto dire, talora, che la nascita della scienza si riannoda più all’occamismo trecentesco che all’Umanesimo rinascimentale. In realtà, una prospettiva del genere è troppo esclusivista, poiché il Rinascimento (senza nulla togliere al pensiero tardo-medievale) rappresenta pur sempre, se considerato nella sua globalità, il terreno storico-ideale da cui è germogliata la scienza. In primo luogo, con la sua tendenziale laicizzazione del sapere e la sua rivendicazione della libertà della ricerca intellettuale nei confronti della tradizione culturale e religiosa, il Rinascimento ha tracciato, per così dire, la strada maestra della scienza, ponendo fondamentali presupposti per la sua nascita.

L’eredità dell’occamismo

La laicizzazione del sapere

95

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Il “ritorno all’antico” come stimolo di nuove scoperte

Gli sviluppi dell’indagine naturale

Il riconoscimento della struttura geometrica della natura

In secondo luogo, attraverso il principio del “ritorno all’antico” e attraverso le traduzioni di molte opere scientifiche e filosofiche dell’antichità, la cultura rinascimentale ha favorito la reviviscenza di dottrine e di figure che erano state trascurate per secoli: la filosofia degli atomisti, e in particolare di Democrito, le teorie eliocentriche dei pitagorici, gli studi di Archimede e di Erone, le ricerche dei geografi, degli astronomi e dei medici dell’età ellenistica. I vecchi testi, a loro volta, hanno fornito lo spunto per nuove scoperte, com’è accaduto ad esempio per Copernico. Occorre pertanto riconoscere che il contributo dei primi umanisti alla scienza, per quanto indiretto, è stato notevole, sebbene essi abbiano esaltato le lettere a scapito degli studi fisici. In terzo luogo, in virtù del suo naturalismo, imperniato sulla rivalutazione della natura e sulla convinzione che l’uomo, in quanto saldamente radicato in essa, abbia tutto l’interesse a conoscerla, il Rinascimento ha posto le condizioni mentali di fondo per uno sviluppo più ampio dell’indagine naturale. Particolarmente importanti risultano, a questo proposito, tre filoni centrali della cultura rinascimentale: l’aristotelismo, la filosofia della natura e la magia. a) L’aristotelismo rinascimentale ha il merito di aver difeso i diritti della ragione indagatrice e di aver elaborato quel concetto di un ordine naturale e immutabile, fondato sulla catena causale degli eventi, che rappresenta, come si è visto, uno dei presuppostichiave della scienza. b) La filosofia naturale, nonostante gli esiti mistico-magici, ha chiarito, per bocca di Telesio, che i principi del mondo fisico, i soli che sono in grado di spiegarlo, sono i principi sensibili, stabilendo l’equazione tra «ciò che la natura stessa manifesta» e «ciò che i sensi fanno percepire», e pervenendo alla fecondissima idea di una spiegazione della natura per mezzo della natura, senza ricorso a principi estranei a essa. c) La magia, considerando la natura come un immenso serbatoio di meraviglie, che il ricercatore non si limita a contemplare, ma cerca di sfruttare attivamente a proprio favore, ha giovato a diffondere l’idea dell’uomo come signore delle forze naturali, anticipando così il concetto del carattere attivo e operativo del sapere, che Bacone riterrà proprio della scienza. In quarto e ultimo luogo, rinverdendo il platonismo e il pitagorismo, l’età della rinascita ha offerto alla scienza una convinzione su cui insisteranno ugualmente Leonardo, Copernico e Galileo: la natura è scritta in termini geometrici, per cui l’unico linguaggio atto a esprimerla è quello rigoroso della matematica.

Scienza e scienziati Il rilievo di queste condizioni socio-culturali, e di altre che si potrebbero ancora aggiungere, risulta evidente. Ma tali condizioni sono davvero sufficienti a spiegare la nascita della scienza? L’importanza del fattore “genio”

96

Agli studiosi che a esse hanno riconosciuto il massimo peso, si sono contrapposti altri, che hanno polemicamente sostenuto che “sono stati gli scienziati a creare la scienza”. La parte di verità racchiusa in questa tesi risulta ovvia: senza menti geniali e creative, capaci di tradurre in atto le possibilità implicite nelle condizioni citate e di sintetizzarne e realizzarne gli spunti mediante una metodologia corretta, la scienza non sarebbe mai nata. Di conseguenza, è doveroso dare il debito spazio alle persone e al fattore “genio”.

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

Tuttavia, per essere davvero aderenti alla realtà storica e per non contrapporre un’evidente unilateralità (“la scienza l’hanno fatta le situazioni”) a un’altra evidente unilateralità (“la scienza l’hanno fatta gli scienziati”), si dovrebbe dire che la scienza non l’hanno prodotta né delle “circostanze” in generale, né delle “menti” in astratto, bensì degli scienziati operanti all’interno di ben determinate circostanze storico-culturali. Ma chi sono, sociologicamente parlando, dove operano e di quali strumenti di comunicazione si servono gli uomini della rivoluzione scientifica? Fatta eccezione per gli astronomi e i matematici di corte, ingaggiati dai loro signori il più delle volte per gli oroscopi, essi non sono scienziati di mestiere, ma individui che coltivano le ricerche accanto alle loro professioni di ingegneri, architetti, medici, professori delle università tradizionali ecc.; oppure persone benestanti che possono permettersi di dedicarsi agli studi senza preoccupazioni economiche. E poiché le università non saranno sempre favorevoli al nuovo sapere scientifico, essi si organizzeranno poco per volta in quelle istituzioni culturali alternative che sono le accademie scientifiche.

I protagonisti e i luoghi della rivoluzione scientifica

Scienza e idee extrascientifiche Il fatto che la scienza non nasca in uno spazio asettico, ma in precise situazioni storicoculturali, e che sia incarnata da persone concrete permette di comprendere meglio un tema che è stato focalizzato soprattutto dalle ricerche più recenti di storia e filosofia della scienza: l’apporto delle idee extrascientifiche nella genesi reale delle teorie scientifiche. La mente profana è portata a ritenere che le scoperte scientifiche sgorghino sempre da una serie di convinzioni e di osservazioni anch’esse “scientifiche”. Anzi, questo pregiudizio è così radicato che anche le prime storie della scienza (di tipo positivistico) ne erano ancora, in parte, condizionate, poiché tendevano a privilegiare, per quanto riguarda l’origine delle scoperte, i fattori razionali e sperimentali, mettendo in ombra gli altri. In realtà oggi sappiamo, grazie agli sviluppi della storia della scienza, che alla base delle dottrine scientifiche, soprattutto degli inizi, stanno spesso convinzioni metafisiche, credenze religiose di vario tipo, persuasioni irrazionali o autentici pregiudizi. In altre parole, ci si è resi conto che la scienza emerge da una base extrascientifica, che ne forma il sostrato umano e lo stimolo esistenziale. E ciò non deve affatto sorprendere, poiché un conto è la genesi delle teorie e un conto è la loro verità. Infatti le idee scientifiche possono scaturire dalle fonti più disparate: non solo dalle osservazioni sperimentali o da ragionamenti logico-matematici, ma anche dalla fantasia, dall’intuizione, dalla metafisica, dall’ebbrezza o dal caso. L’importante è che esse trovino una conferma alle loro pretese di verità. Che Newton, ad esempio, abbia scoperto la legge di gravità in seguito alla caduta di una mela, oppure dopo un sogno, per la scienza è inessenziale: ciò che conta è il valore oggettivo e sperimentale della teoria formulata. Di conseguenza, non ci stupiremo affatto se studiando, ad esempio, la rivoluzione astronomica scopriremo tutto il sottofondo di idee metafisiche e teologiche che ne stanno alla base. Ovviamente questa consapevolezza, ormai acquisita dagli studiosi contemporanei, lega ancor più intimamente la storia della scienza alla storia generale della cultura, rendendola non solo più “interdisciplinare”, ma anche più ricca, imprevedibile e avvincente, cioè più umana.

Il contributo delle idee extrascientifiche

Esercizi interattivi Le premesse della rivoluzione scientifica

97

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

4. Le forze ostili Per affermarsi, la scienza moderna degli inizi ha dovuto combattere una storica battaglia soprattutto contro due forze autorevoli: la tradizione culturale e le autorità ecclesiastiche. Il “fronte ostile” al nuovo sapere schierava inoltre i sostenitori delle scienze occulte. La cultura ufficiale

La Chiesa

La magia e l’astrologia

98

La cultura ufficiale si sentiva gravemente “minacciata” dalla nuova scienza, poiché essa: ■■■ metteva in discussione teorie cosmologiche e fisiche ritenute fino a quel momento certissime; ■■■ proponeva uno schema teorico anti-finalistico e anti-essenzialistico che urtava contro i teoremi basilari della metafisica greca e di quella cristiana; ■■■ contrapponendo la forza dell’esperienza e della verifica all’arma del ragionamento e della deduzione teorica, svuotava di senso ogni “dogma” intellettuale legato all’autorità del passato. Scriveva, ad esempio, il ceramista francese Bernard Palissy: «Mediante la pratica, io provo esser false in più punti le teorie di molti filosofi, anche i più antichi e rinomati. In meno di due ore ciascuno potrà rendersene conto, purché si prenda la pena di venire nel mio laboratorio» (Discours admirables, 1580). Ovviamente affermazioni di questo genere erano destinate a scatenare la reazione della cultura dominante, soprattutto di quella accademica, che trovava la sua espressione di punta negli aristotelici. Saranno proprio questi ultimi, infatti, a cerare di avvolgere i fondatori del pensiero scientifico moderno – da Copernico a Galilei – in una rete di sottili contro-obiezioni teoriche, volte a ridurre all’assurdo le nuove dottrine. Da parte loro, i teologi e i prelati della Chiesa si sentivano fortemente minacciati poiché vedevano distruggere pezzo per pezzo quella visione cosmologica in cui avevano inquadrato la propria dottrina. In questo caso, la ferita era ancor più profonda, poiché risultavano messe in discussione non solo l’autorità di Aristotele – su cui Tommaso aveva fondato il massimo sistema storico di filosofia cristiana – ma anche la parola divina espressa nella Bibbia. Da ciò le prevedibili e talora irritate reazioni degli ambienti ecclesiastici ufficiali, che culmineranno nel noto processo a Galilei, simbolo del dramma storico vissuto dalla scienza moderna in rapporto alla religione. Inoltre, a inquietare la Chiesa non erano solo i contenuti della nuova scienza, ma anche il suo stesso metodo, che, fondandosi sul principio della libera ricerca (la quale non doveva accordarsi sempre e necessariamente con la Bibbia, come pretendeva invece il tomismo), poteva apparire “eretico” quanto il “libero esame” delle Scritture proposto dai protestanti. Per di più, i teologi della Chiesa intuivano che la scienza incarnava una mentalità spregiudicatamente razionalistica, che avrebbe potuto investire anche altri campi, come ad esempio l’etica e la politica, sovvertendo credenze e istituzioni secolari. Accanto alla cultura di tipo aristotelico e alla Chiesa, tra le forze che si opponevano alla scienza figurano anche la magia e l’astrologia. Da un lato, i maghi si trovavano completamente “spiazzati” dagli scienziati, che, perseguendo l’ideale di un sapere pubblico e intersoggettivamente verificabile, distruggevano il concetto stesso di un sapere occulto; dall’altro, gli astrologi si vedevano contestare tutto quell’insieme di credenze cosmologiche, legate a un universo pre-copernicano, che costituiva la base teorica delle loro pratiche divinatorie.

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

La scienza, inoltre, grazie alle sue applicazioni tecniche, appariva sempre più come la realizzazione di quella conoscenza veramente utile all’uomo che maghi e astrologi avevano cercato invano. La vecchia cultura, la Chiesa e i fautori delle scienze occulte, trovandosi dunque “alleati” contro la scienza, giocarono soprattutto la carta dell’“autorità”, cercando di scoraggiare intellettualmente e moralmente i seguaci delle nuove idee. Eppure attacchi e polemiche, anziché bloccare gli scienziati, li spronarono ad approfondire le loro dottrine, stimolandoli a cercare prove sempre più solide a favore di esse. Così, sia pure lentamente e a prezzo di sofferenze e di battaglie, la nuova scienza finirà per imporsi, dimostrando con i fatti la propria validità e la propria utilità sociale, e quindi il proprio diritto all’esistenza.

Il ricorso all’“autorità”

5. Le conseguenze nel pensiero moderno e contemporaneo Gli effetti profondi della rivoluzione scientifica nella storia della civiltà e della cultura – e quindi della filosofia – li vedremo cammin facendo. Tuttavia, per inquadrare meglio tale processo è bene anticipare fin d’ora qualche considerazione. Dal punto di vista teorico la scienza apparirà innanzitutto, agli occhi dei moderni, come il prototipo di un sapere rigoroso e universale. Da ciò il prevedibile sforzo, da parte di qualche filosofo, di assimilarne il metodo e di estenderlo ai campi più svariati dell’attività umana, ad esempio all’etica e alla politica. Da ciò il tentativo di giustificarne i presupposti di base con nuove teorie della conoscenza (da Cartesio agli empiristi) o con nuove prospettive metafisiche (il meccanicismo). Sul piano pratico, la scienza apparirà come socialmente utile, capace di migliorare la condizione dell’uomo nel mondo, e otterrà l’appoggio sempre più consistente delle borghesie europee. Da ciò la convinzione baconiana che «sapere è potere» e la nuova utopia della scienza, vista come generatrice di una sorta di paradiso in terra. L’idea della scienza come sapere vero e utile al tempo stesso sarà uno dei grandi temi della battaglia illuministica contro l’ignoranza, la superstizione, il sapere ozioso e le storture sociali. La scienza occuperà pure, come vedremo, un posto centrale nella meditazione kantiana intorno ai fondamenti del sapere. Nell’Ottocento, dopo la parentesi idealistica, si svilupperà il positivismo, che tornerà a celebrare la scienza come fonte di conoscenza autentica e di vero progresso, e inseguirà l’idea di una civiltà scientifica planetaria in cui l’uomo possa soddisfare i suoi bisogni e realizzare totalmente se stesso. Nel Novecento, cadute le illusioni del positivismo, si assumerà un atteggiamento criticamente più cauto nei confronti sia delle capacità conoscitive della scienza, sia degli esiti pratici a cui essa può condurre. La scienza, infatti, apparirà ben lontana dallo spiegare “tutto”, e l’equazione “scienza = progresso” sarà messa in crisi dalla drammatica consapevolezza che la scienza, tramite la tecnica, mette nelle mani dell’uomo un potere enorme, che rischia, se male usato, di annullare la vita sul nostro pianeta. Di conseguenza, in alcuni settori della

La scienza come prototipo del sapere

La scienza come sapere utile

Le celebrazioni della scienza nel Settecento e nell’Ottocento

Il rifiuto novecentesco di mitizzare la scienza

99

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Sintesi audio La nascita della scienza moderna

cultura si assisterà a un vero e proprio “processo” alla scienza e ad un “rifiuto” della civiltà scientifico-tecnologica, che nelle sue punte più estremistiche costituisce l’esatto rovescio, altrettanto dogmatico, delle mitizzazioni del secolo precedente. A questa sorta di “cultura dell’apocalisse” continuerà tuttavia a contrapporsi un altro filone, secondo il quale la scienza e la tecnica, se ben dirette, possono aiutare individui e popoli a raggiungere sempre migliori condizioni di vita. Comunque sia, la scienza e la correlativa civiltà tecnologica fanno così parte di noi che il destino umano, nel bene e nel male, appare ormai indissolubilmente legato a esse.

6. La rivoluzione astronomica e la nuova filosofia dell’infinito La rivoluzione astronomica, con cui prende avvio la rivoluzione scientifica, si colloca nella storia dell’Occidente come uno degli avvenimenti culturali che maggiormente hanno contribuito al passaggio dall’età antico-medievale all’età moderna. Le radici della nuova visione dell’universo

Generalmente si crede che tale “rivoluzione” sia dovuta, in sostanza, a Copernico. In realtà ciò è vero solo in parte, poiché Copernico ha semplicemente dato inizio a un processo di pensiero che ha coinvolto, al tempo stesso, astronomia, filosofia e teologia. Anzi, quella che comunemente continua a chiamarsi “la visione copernicana dell’universo”, più che essere il frutto degli studi del solo Copernico o di altri astronomi e fisici come Keplero e Galilei, è il prodotto di intuizioni e deduzioni teoriche che risalgono per lo più a Giordano Bruno, il vero filosofo della nuova visione del cosmo, che in parte sarà confermata dalla scienza successiva e che costituisce ancor oggi lo schema generale del “nostro” universo. Di conseguenza, l’intricato processo della rivoluzione astronomica – intesa soprattutto come un passaggio «dal mondo chiuso all’universo infinito»1 – non è soltanto un fatto astronomico e scientifico, ma anche un appassionante avvenimento filosofico, poiché attraverso i suoi due araldi principali (Copernico e Bruno) ha finito per mutare la visione complessiva del mondo che per secoli era stata propria dell’Occidente, segnando in profondità la cultura moderna.

L’universo degli antichi e dei medievali Per comprendere in modo adeguato la rivoluzione astronomica risulta indispensabile richiamare alla mente i punti essenziali di quel millenario “sistema del mondo” noto come universo aristotelico-tolemaico. Come si è accennato più volte nel primo volume, la cosmologia grecomedievale (seguendo Aristotele e Tolomeo, che avevano finito per imporre il proprio punto di vista alla cultura ufficiale) concepiva l’universo come sostanzialmente unico, chiuso, finito, fatto di sfere concentriche, geocentrico e diviso in due parti qualitativamente distinte. 1 Cfr. A. Koyré, From the Closed World to the Infinite Universe, Baltimora 1957 (trad. it. di L. Cafiero, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970). Segnaliamo questo testo sia per la documentazione, sia per la chiarezza concettuale e linguistica che lo contraddistingue.

100

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

L’universo degli antichi ■■■ era unico, in quanto pensato come il solo universo esistente, e ciò soprattutto in virtù della teoria dei “luoghi naturali”, secondo la quale ogni materia possibile deve trovarsi concentrata in un determinato posto; ■■■ era chiuso, poiché immaginato come una sfera limitata dal cielo delle stelle fisse (cui, in seguito, erano stati aggiunti il nono cielo e il primo mobile), oltre il quale non c’era nulla, neanche il vuoto, poiché Aristotele riteneva che ogni cosa è nell’universo, mentre l’universo non è in alcun luogo, potendoci essere luogo e spazio solo in relazione ai corpi. “Fuori” del cosmo si trovava soltanto, come avrebbero detto i cristiani, “il regno dell’onnipossente Iddio”; ■■■ essendo chiuso, era anche finito, in quanto l’infinito, aristotelicamente parlando, appariva soltanto un’idea e non una realtà attuale; ■■■ era fatto di sfere concentriche, intese non come puri tracciati matematici, in senso moderno, ma come qualcosa di solido e di reale, su cui erano incastonati le stelle e i pianeti. Si avevano così, al di sotto della sfera delle stelle fisse, i cieli di Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, Sole e Luna; ■■■ al di sotto del cielo della Luna stava la zona dei quattro elementi, con la Terra immobile e al centro di tutto (geocentrismo); ■■■ era inoltre pensato come qualitativamente differenziato in due zone cosmiche ben distinte, una perfetta e l’altra imperfetta. La prima era quella dei cieli, o del cosiddetto “mondo sopralunare”, costituito di un elemento divino, l’etere, incorruttibile e perenne, il cui unico movimento era di tipo circolare e uniforme, senza principio e senza fine, eternamente ritornante su se stesso. La seconda era quella del cosiddetto “mondo sublunare”, formato dai quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), aventi ognuno un suo “luogo naturale” e dotati di un moto rettilineo (dal basso verso l’alto o viceversa) che, avendo un inizio e una fine, dava origine ai processi di generazione e di corruzione. Questa visione astronomica appariva conforme non solo al senso comune, e alla sua quotidiana constatazione dell’immobilità della Terra e del moto dei cieli, ma anche alla mentalità “metafisica” prevalente, portata a concepire il mondo come un organismo gerarchico e finalisticamente ordinato e disposto. La teologia patristica e scolastica aveva poi ulteriormente cristianizzato e “sacralizzato” questa cosmologia, intrecciandola con le dottrine della creazione, dell’incarnazione e della redenzione, che, presupponendo la Terra come sede privilegiata della storia del mondo e l’uomo come fine della creazione (antropocentrismo), ben si conciliavano con la centralità spaziale riconosciuta alla Terra (geocentrismo). La testimonianza dei sensi, l’autorità di Aristotele, i teoremi della metafisica e la parola divina della Bibbia avevano quindi finito per convergere in una comune attestazione della validità assoluta del sistema tolemaico.

I caratteri dell’universo aristotelicotolemaico…

… e la loro giustificazione metafisica e religiosa

Dal geocentrismo all’eliocentrismo Copernico: la ricerca di un nuovo sistema astronomico. La prima scossa decisiva all’imperante sistema geocentrico tradizionale, che mise in moto tutto il processo della rivoluzione astronomica, venne dal polacco Niccolò Copernico (Nikolaj Kopernik). Nato a Torun nel 1473, studiò all’Università di Cracovia e poi a Bologna, a Padova e a Ferrara, dove

101

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

si addottorò in diritto canonico (1503). Dopo un secondo soggiorno a Padova (1503-1506) ritornò in patria, dove visse tra le cure amministrative di un suo canonicato e gli studi astronomici. Morì a Frauenburg nel 1543. La sua opera fondamentale, Le rivoluzioni dei corpi celesti (De revolutionibus orbium coelestium), vide la luce solo nel 1543, quando egli era ormai moribondo. Il recupero dell’idea eliocentrica

Studioso di fisica celeste, Copernico, che era soprattutto un teorico e un matematico, riteneva la dottrina tolemaica “antieconomica” e quindi errata per il fatto stesso di essere troppo complessa (nel XIII secolo il sistema tolemaico era divenuto così intricato che si tramanda ad esempio che Alfonso X di Castiglia abbia affermato un giorno che egli, al posto di Dio, avrebbe fatto girare i pianeti più semplicemente!). Cercando nei libri degli antichi, per sua stessa ammissione, delle soluzioni alternative al geocentrismo, Copernico si imbatté nell’idea eliocentrica: Mi sono assunto il compito di rileggere le opere di tutti i filosofi, che fossi in grado di avere, per cercare se qualcuno di loro avesse mai pensato che le sfere dell’universo potessero muoversi secondo moti diversi da quelli che propongono gli insegnanti di matematica nelle scuole. (Le rivoluzioni dei corpi celesti, “Prefazione”)

Postosi su questa strada – avvenimento che tra l’altro manifesta chiaramente l’importanza, anche per la storia della scienza, delle traduzioni umanistiche dei pensatori greci – Copernico scoprì che Iceta, i pitagorici, Eraclide Pontico ecc. erano già pervenuti alla convinzione eliocentrica. Fatta propria tale ipotesi, Copernico si persuase che essa fosse in grado di semplificare notevolmente il calcolo matematico dei movimenti celesti. Dopo tanti secoli l’eliocentrismo, grazie a Copernico, tornò dunque a imporsi all’attenzione degli studiosi, mettendo in crisi la secolare cosmologia aristotelica. Il sistema copernicano

Aspetti conservatori del copernicanesimo

Esercizi interattivi il sistema copernicano

L’operazione di Osiander

102

La descrizione del sistema di Copernico è riassunta nel decimo capitolo della prima delle sei parti di cui si compone il De revolutionibus: al centro dell’universo sta, immobile, il Sole; attorno al Sole ruotano i pianeti; la Terra prende posto tra questi e gira su se stessa, originando così il moto apparente, attorno ad essa, del Sole, dei pianeti e delle stelle; la Luna ruota attorno alla Terra; infine, lontane dal Sole e dai pianeti, stanno, fisse, le stelle. Questa nuova visione prospettica del cosmo, pur essendo di per sé rivoluzionaria, non scalzava però dalle fondamenta la vecchia immagine dell’universo, in quanto il cosmo di Copernico, per più di un aspetto, rimaneva ancora “non-copernicano”, ossia simile a quello degli antichi. L’astronomo polacco, ad esempio, concepiva ancora l’universo come sferico, unico e chiuso dal cielo delle stelle fisse. Inoltre accettava il principio della perfezione dei moti circolari uniformi delle sfere cristalline, pensate ancora come entità reali e incorruttibili. Il motivo stesso per cui, secondo Copernico, il Sole è al centro dell’universo ricorda le “spiegazioni” aprioristiche della scienza antica: dovendo illuminare il cosmo è soltanto dal centro di questo che il Sole può svolgere nel miglior modo la sua funzione. Eppure, i vari elementi di conservazione ancora presenti in Copernico non eliminano la portata oggettivamente innovatrice della sua opera e il suo coraggio di uomo pronto a sfidare, in nome della scienza, dottrine e pregiudizi secolari. A smorzare l’effetto dirompente della nuova dottrina contribuirono però alcuni fattori. Innanzitutto, il teologo luterano Andreas Osiander (1498-1552) premise al capolavoro di Copernico, senza il consenso dell’autore, una prefazione anonima dal titolo Al lettore sulle

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

ipotesi di quest’opera. In essa Osiander sosteneva la natura puramente “ipotetica” e “matematica” della nuova dottrina astronomica, affermando che essa costituiva un puro strumento di calcolo atto, come si disse, a «salvare le apparenze o i fenomeni», senza alcuna pretesa di rispecchiare la realtà autentica del mondo. Ovviamente questa posizione, che venne scambiata come propria di Copernico, attutiva di parecchio la nuova ipotesi e tradiva il vero pensiero dell’astronomo polacco, persuaso, per quel che ne sappiamo, che la sua teoria non fosse una semplice, sia pur “funzionale”, ipotesi matematica, ma la riproduzione fedele della struttura reale del cosmo, ossia non uno dei tanti modelli possibili dell’universo, ma il solo vero. In secondo luogo, la teoria copernicana stentò ad affermarsi perché per molti aspetti non appariva affatto più semplice della teoria tolemaica; anzi in qualche caso risultava perfino matematicamente più complessa e incapace di dar ragione di alcuni movimenti celesti. Inoltre la nuova dottrina si scontrava con ardue questioni di fisica che apparivano irrimediabilmente a suo sfavore, poiché la scienza del tempo non era preparata a risolverle. Emblematici, in questo senso, alcuni quesiti anti-copernicani messi a punto dagli aristotelici: ■■■ se la Terra si muove, perché essa non provoca il lancio di tutti i suoi oggetti mobili lontano dalla superficie terrestre? ■■■ se la Terra si muove, perché non solleva un vento così forte da scuotere cose e persone? ■■■ se la Terra si muove da ovest a est, un sasso lanciato dall’alto di una torre dovrebbe cadere a ovest di essa, poiché la torre durante la caduta deve per forza essersi spostata a est. Ma perché ciò non si verifica e il sasso continua a cadere approssimativamente ai piedi della perpendicolare della torre? Come vedremo, questi e altri problemi verranno risolti scientificamente soltanto da Galilei. Gli ostacoli maggiori al successo del copernicanesimo non provennero tuttavia dall’ambiente scientifico, bensì da quello religioso e filosofico.

La complessità del nuovo sistema…

… e i problemi di fisica da esso sollevati

Brahe: il terzo sistema del mondo. Maggior successo arrise, per lo meno nell’immediato, all’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601). Questi – che tra l’altro ebbe il merito di negare l’esistenza delle sfere solide e reali dell’astronomia antica, sostituendo il concetto fisico di “orbe” con quello matematico di “orbita” – fu l’ideatore del cosiddetto “sistema ticonico”, ossia di un sistema cosmologico “misto”, a metà strada tra i due opposti di Tolomeo e di Copernico. Tale sistema, simile a quello che nell’antichità era stato formulato da Eraclide Pontico (390310 a.C. circa), sosteneva che i pianeti girano intorno al Sole, mentre il Sole gira a sua volta intorno alla Terra, che rimane al centro dell’universo. Questo modello astronomico ebbe migliore accoglienza di quello copernicano, perché, pur mantenendone molti vantaggi matematici, era sostanzialmente “conservatore”, almeno per quanto riguarda la posizione della Terra, e quindi sembrava escludere ogni ragione di conflitto con le sacre scritture.

Un “compromesso” astronomico

Keplero: lo studio delle orbite dei pianeti. Giovanni Keplero (Johannes Kepler) nacque il 27 dicembre 1571 a Weil presso Stoccarda, fu professore di matematica e assistente di Tycho Brahe. Costretto a lottare aspramente con protestanti e cattolici per le sue idee, solo a fatica riuscì a procacciarsi i mezzi per pubblicare le sue opere. Dovette anche adoperarsi per salvare dal rogo sua madre, accusata di stregoneria. Morì a Regensburg il 15 novembre 1630.

103

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

L’armonia e la proporzione matematica dell’universo

Le leggi del movimento dei pianeti

In una sua prima opera, Keplero esaltava liricamente la bellezza, la perfezione e la divinità dell’universo e vedeva in esso l’immagine della Trinità divina. Al centro del mondo starebbe il Sole, immagine di Dio Padre, dal quale deriverebbero ogni luce, ogni calore e ogni vita. Il numero dei pianeti (sei: Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere e Terra) e la loro disposizione intorno al Sole obbedirebbero a precise leggi di armonia geometrica. In quest’opera Keplero attribuiva il movimento dei pianeti a una loro anima motrice o all’anima motrice del Sole; ma lo stesso sforzo di trovare nelle osservazioni astronomiche la conferma di questi filosofemi pitagorici o neoplatonici lo condusse ad abbandonarli. Nei suoi scritti astronomici e ottici, al posto delle intelligenze motrici Keplero pose forze puramente fisiche; ritenne il mondo necessariamente partecipe della quantità e la materia necessariamente legata a un ordine geometrico. Rimase però sempre fedele al principio secondo il quale l’oggettività del mondo risiede nella proporzione matematica implicita in tutte le cose. A questo principio si deve la scoperta maggiore di Keplero: le leggi del movimento dei pianeti. Le prime due leggi – le orbite descritte dai pianeti intorno al Sole sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei fuochi; le aree descritte dal raggio vettore (il segmento di retta che congiunge il pianeta con il Sole) sono proporzionali al tempo impiegato a descriverle – furono pubblicate nell’Astronomia nova del 1609; la terza legge – i quadrati dei tempi impiegati dai diversi pianeti a percorrere interamente la loro orbita stanno tra loro come i cubi degli assi maggiori delle ellissi descritte dai pianeti – apparve per la prima volta nello scritto Harmonices mundi del 1619. Furono le osservazioni di Tycho Brahe che permisero a Keplero di scoprire le sue leggi e di correggere così la dottrina di Copernico, che ammetteva il movimento circolare dei pianeti intorno al Sole. Ma la scoperta di Keplero confermava definitivamente la validità del procedimento che riconosce nella proporzione matematica la vera oggettività naturale.

Dal mondo “chiuso” all’universo “aperto”: da Copernico a Bruno Il secondo momento della rivoluzione astronomica – il più radicale – è opera di Giordano Bruno (v. unità 1), il filosofo che con la sua audacia intellettuale superò definitivamente il mondo degli antichi e prospettò le linee fondamentali di quello dei moderni. Il mondo ancora “chiuso” di Copernico

104

Come si è visto, il mondo di Copernico, a parte l’eliocentrismo, è ancora fondamentalmente un mondo del passato, poiché nel quadro geometrico tracciato ne Le rivoluzioni dei corpi celesti l’universo non solo continua a fare tutt’uno con il sistema solare, pensato con un suo centro intorno al quale ruotano sfere solide e reali, ma risulta limitato «dall’ultima e suprema sfera del mondo», «contenente se stessa e tutte le cose» (1, I, 10). Di conseguenza, sebbene Copernico dica in un passo di lasciare «alle discussioni dei filosofi» il problema dell’infinità del cosmo, di fatto il suo universo è ancora finito, anche se egli ha notevolmente ampliato il cielo delle stelle fisse, affermandone l’incommensurabilità e immensità. Di conseguenza, “la rivoluzione copernicana” avrebbe rischiato di fermarsi a metà, senza l’ulteriore “apertura” del cosmo.

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

Il ripresentarsi di un’idea antica: l’infinità dell’universo. Come sappiamo, l’idea della pluralità dei mondi e dell’infinità del Tutto ebbe origine presso i Greci. In particolare, essa era stata propugnata da Democrito, quindi difesa appassionatamente da Lucrezio nel suo capolavoro poetico-filosofico Sulla natura. Ma le concezioni infinitistiche degli atomisti erano state respinte dalla corrente “ufficiale” della scienza greca, che aveva accettato il modello aristotelico di un mondo finito. Nel Medioevo, il rigetto totale dell’atomismo, ritenuto “filone eretico” della cultura, aveva decretato la definitiva sconfitta di ogni immagine astronomica alternativa a quella sancita dalla Chiesa. I primi dubbi intorno alla cosmologia finitistica greco-cristiana si possono ritrovare, come ha messo in luce la critica novecentesca, soltanto nell’ultima scolastica e nell’occamismo. Ma il pensatore in cui, a cominciare dagli stessi Bruno, Keplero e Cartesio, si è tradizionalmente individuata la prima affermazione dell’infinità del mondo è Cusano. Tale interpretazione, alla luce di studi più recenti, non sembra essere completamente esatta, in quanto Cusano, pur negando che l’universo sia finito e racchiuso tra le “mura” delle sfere celesti, non ne afferma la positiva infinità. A ben vedere, il suo universo, più che infinito (attributo che egli riconosce solo a Dio), è «interminato» (interminatum). Di conseguenza, come nota Koyré1, «il suo mondo non è più il cosmo medievale, ma non è ancora affatto l’universo infinito dei moderni». L’idea dell’universo infinito e aperto è stata attribuita anche a Marcello Palingenio Stellato e a Thomas Digges, due studiosi del Cinquecento. Tuttavia anche in questo caso l’attribuzione è discutibile. Infatti, pur negando in generale la finitezza della creazione di Dio, Palingenio (medico e umanista ferrarese, il cui vero nome fu Pier Angelo Manzoli, 15001543) afferma la finitezza del mondo materiale chiuso e circondato dalle sfere celesti. Perciò, come osserva conclusivamente Koyré, «È il cielo di Dio, e non il suo mondo, che Palingenio afferma essere infinito» (op. cit., p. 28). L’inglese Digges (1546-1595) sostituisce il diagramma copernicano del mondo con un altro, nel quale le stelle sono disposte sia sopra, sia sotto la linea con la quale Copernico rappresentava l’ultima sphaera mundi. Ma poiché egli considera l’orbe delle stelle fisse come la «Corte dell’immenso Iddio», il suo extra-cosmo, più che un cielo astronomico, sembra essere un firmamento teologico (come già avveniva in Palingenio). I casi di questi due autori, se da un lato mostrano come i tempi fossero ormai maturi per una svolta, dall’altro lato rivelano il tentennamento degli intelletti di fronte all’esplicita affermazione dell’apertura e dell’infinità del mondo. In realtà, come sostiene Arthur O. Lovejoy, per quanto gli elementi della nuova cosmografia potessero aver già posto le loro radici in talune menti, è soltanto «Giordano Bruno che deve considerarsi come il rappresentante principale della dottrina di un universo decentrato, infinito ed infinitamente popolato poiché non solo egli predicò questa dottrina per l’Occidente d’Europa col fervore di un evangelista, ma diede anche per primo una compiuta enunciazione dei motivi grazie ai quali essa sarebbe stata poi accettata dal grosso pubblico»2.

I Greci

I medievali

Cusano

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225 Palingenio e Digges

1 A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, trad. it. di P. Zambelli, Einaudi, Torino 1967, p. 26. 2 Cfr. A.O. Lovejoy, La grande catena dell’essere, trad. it. di L. Formigari, Feltrinelli, Milano 1966, p. 122.

105

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

L’astronomia e la filosofia di Bruno. Riprendendo Lucrezio (il cui manoscritto Sulla Il frutto di un’intuizione preesistente alimentata dal copernicanesimo

La deduzione teologica dell’infinità del mondo

natura, scoperto nel 1417, aveva contribuito a diffondere le idee dell’atomismo antico) e forzando in maniera creativa Cusano, Giordano Bruno giunge a una nuova visione dell’universo, che, si badi bene, non deriva da osservazioni astronomiche o calcoli matematici, in cui il filosofo fu poco versato e tecnicamente poco competente, bensì da un’intuizione di fondo del suo pensiero – quella circa l’infinità dell’universo – alimentata dal copernicanesimo. L’idea che l’astronomo polacco fa balenare dinnanzi alla fervida immaginazione di Bruno, dando corpo alla sua preesistente intuizione dell’infinito, è la seguente: se la Terra è un pianeta che gira attorno al Sole, le stelle che si vedono nelle notti serene e che gli antichi immaginarono attaccate all’ultima parete del mondo, non potrebbero essere tutte, o almeno in gran parte, immobili soli circondati dai rispettivi pianeti? Pertanto l’universo, anziché essere composto da un sistema unico, il nostro, non potrebbe ospitare in sé un numero illimitato di stelle-soli, disseminate nei vasti spazi del firmamento e centri di rispettivi mondi? Di fronte a questi interrogativi Bruno, pur ammettendo che «non è chi l’abbia osservato» conclude razionalmente che «Sono dunque soli innumerabili, sono terre infinite, che similmente circuiscono quei soli, come veggiamo questi sette circuire questo sole a noi vicino» (De l’infinito universo e mondi). Tuttavia questa convinzione, sebbene tragga la sua forza dal copernicanesimo, di cui il filosofo vuole liberare tutta la portata rivoluzionaria, viene immediatamente trasportata dal piano astronomico a quello metafisico. Nella mente vulcanica di Bruno, infatti, immaginazione, astronomia e filosofia formano un tutt’uno, da cui scaturisce la medesima conclusione dell’infinità dell’universo, che viene dedotta dal principio teologico, già presente nell’ultima scolastica, secondo cui il mondo, avendo la sua causa in un essere infinito, deve per forza essere infinito. In altre parole, la creazione, per essere perfetta e degna del Creatore, deve essere, essa stessa, infinita e straripante di vita. Da questa asserzione-chiave Bruno deriva il nuovo quadro dell’universo.

Le tesi cosmologiche rivoluzionarie. Combinando insieme gli studi di Lovejoy con le ricerche di Koyré1, si possono individuare quelle che Lovejoy ha definito «le tesi cosmografiche rivoluzionarie dell’età moderna» presenti in Bruno nei punti seguenti: 1) abbattimento delle mura esterne dell’universo; 2) pluralità dei mondi e loro abitabilità; 3) identità di struttura tra cielo e terra; 4) geometrizzazione dello spazio cosmico; 5) infinità dell’universo. L’abbattimento dei confini del cosmo

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225

La prima tesi implica la distruzione dell’idea secolare dei “confini” del mondo, cui lo stesso Copernico, come si è visto, era rimasto fedele, parlando dell’ultima sphaera mundi. Gli uomini, vivendo in città cintate, hanno immaginato anche il cosmo cintato. In realtà, grida Bruno con l’entusiasmo del prigioniero che vede cadere le pareti del suo carcere, le fantastiche muraglie celesti non esistono, perché l’universo è aperto in ogni direzione e le supposte stelle fisse si trovano “disperse” in uno spazio senza limite.

1 Ritenendo incompleto il noto schema di Lovejoy circa le tesi cosmografiche (p. 114 dell’opera citata), abbiamo preferito sostituirlo con un altro più esaustivo, che tiene presenti le fondamentali ricerche di Koyré.

106

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

La seconda tesi, connessa alla prima, implica la moltiplicazione all’infinito dei corpi che “corrono” per il cielo, ossia il concetto di una pluralità illimitata di sistemi solari, che Bruno ritiene popolati da creature viventi, senzienti e razionali: abitati i pianeti del nostro mondo, abitate le costellazioni più lontane, abitati gli “abissi” più remoti dello spazio. Anzi (si veda ad esempio il dialogo III di De l’infinito universo et mondi), alcuni di questi mondi sono certamente più stupendi del nostro e con abitanti di gran lunga migliori della razza dei terrestri. Il presupposto teologico-filosofico che persuade Bruno circa la verità di tutte queste tesi inusitate è sempre lo stesso: Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli: non in una terra, un mondo, ma in diecento mila, dico in infiniti. (De l’infinito universo e mondi, “Epistola dedicatoria”)

La terza tesi, già presente negli atomisti e in Cusano, implica il superamento del “dualismo astronomico” tolemaico (tra mondo sopralunare e mondo sublunare) e l’unificazione del cosmo in una sola, immensa regione. Infatti si sbaglia, dice Bruno, a voler distinguere tra una parte più nobile e una meno nobile dell’universo, poiché procedendo tutto dall’unica mente e dall’unica volontà di Dio, resta preclusa ogni discriminazione gerarchica tra le varie zone del creato. La quarta tesi, strettamente intrecciata alla terza, considera lo spazio come qualcosa di unico e di omogeneo, ossia di fondamentalmente simile a se stesso in tutto l’universo: «Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo». Per Bruno la sede più naturale dell’universo copernicano è infatti il «vuoto infinito» di Democrito e di Lucrezio, immaginato come un immenso contenitore, ripieno soltanto di etere, che «alloggia» le cose. Da ciò quella «geometrizzazione dello spazio» di cui parla Koyré, alludendo alla sostituzione dello spazio aristotelico – insieme finito e gerarchicamente differenziato di luoghi naturali – con uno spazio di tipo euclideo, omogeneo e infinito. In quanto tale, lo spazio del mondo è acentrico, poiché in esso, nota Bruno, non esiste alcun punto assoluto di riferimento (sopra, sotto, destra, sinistra ecc.), essendo i riferimenti sempre relativi fra astro e astro. La quinta tesi, in Bruno, è in realtà la prima, essendo l’idea-madre che sta alla base di tutte le altre (anche se le prime quattro, come vedremo, non implicano necessariamente questa, che noi abbiamo quindi posto intenzionalmente come ultima). Essa, come sappiamo, è anche l’idea prediletta di Bruno, quella che lo riempie di entusiasmo e di passione, portandolo a ritenere l’universo un “senza-limiti” dai caratteri divini: infinito lo spazio, infiniti i mondi, infinite le creature, infinite la vita e le sue forme ecc. Schema interattivo

Pluralità e abitabilità dei mondi

Esercizi interattivi Da Copernico a Bruno

L’unificazione del cosmo

Il carattere omogeneo e acentrico dello spazio

Testo antologico La critica ad Aristotele (Bruno, De immenso)

L’infinità e il carattere divino dell’universo

ConCetti a Confronto

L’universo in Cusano

in Copernico

in Bruno

è interminato, cioè non delimitato da confini, e conoscitivamente indefinito

è finito, cioè sferico e chiuso dal cielo delle stesse fisse (come l’universo degli antichi) ma con al centro il Sole

è infinito, cioè aperto in ogni direzione, unico, omogeneo e senza centro

107

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

La “fredda” accoglienza delle tesi bruniane. A parte la cornice lirico-filosofica e le Il contributo di Bruno alla configurazione dell’“universo dei moderni”

Le posizioni antibruniane degli astronomi del tempo

L’ostilità della vecchia cultura religiosa e filosofica

giustificazioni teologiche, è facile riconoscere, in queste tesi, “l’universo dei moderni” e verificare come quest’ultimo, sebbene sia stato e continui a essere comunemente associato al nome di Copernico, sia in realtà, come si diceva all’inizio, una “scoperta” di Bruno. Da un lato ciò può sembrare un paradosso: Bruno usa un armamentario concettuale del passato e parte da intuizioni extrascientifiche per approdare a risultati radicalmente nuovi e proiettati verso la scienza del futuro. Dall’altro lato, tutto questo conferma pienamente la già citata tesi dei filosofi e degli storici della scienza del XX secolo: e cioè che le novità rivoluzionarie, nella scienza, derivano talora da intuizioni e complessi mentali extrascientifici, che diventano scientifici quando trovano una legittimazione sperimentale, secondo quanto avverrà più tardi per le tesi bruniane. Come scrive Koyré, «la concezione bruniana del mondo è vitalistica e magica […] Bruno non è affatto uno spirito moderno. Tuttavia, la sua concezione è tanto possente e profetica, tanto sensata e poetica, che non possiamo che ammirarla, insieme con il suo Autore. Ed essa ha influenzato così profondamente – almeno nei suoi tratti formali – la scienza e la filosofia moderne, che non possiamo non assegnare a Bruno un posto importantissimo nella storia dello spirito umano» (Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, cit., p. 48). Le tesi di Bruno, tuttavia, apparvero soltanto il frutto di una mente esaltata. Anche i più grandi astronomi del tempo – Tycho Brahe, Keplero e Galilei – le accolsero freddamente o le rifiutarono in gran parte, respingendo soprattutto l’idea della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo. Ciò non avvenne soltanto per ragioni di “correttezza metodologica”, ossia perché queste tesi trascendevano, per quell’epoca, il campo dell’astronomicamente affermabile, ma anche perché esse apparivano oggettivamente “troppo” rivoluzionarie per i padri stessi dell’astronomia moderna. Keplero, ad esempio, negava la moltiplicazione bruniana dei mondi, ritenendo il sistema solare qualcosa di unico nella realtà e di provvidenzialisticamente creato per l’uomo e per i suoi bisogni. Galilei, invece, non entrava apertamente nel merito delle questioni sollevate da Bruno (probabilmente per non rendere più difficile la propria battaglia antitolemaica). Ben più netta fu la reazione degli ambienti legati alla religione e alla vecchia cultura, che fin dalla comparsa del capolavoro di Copernico erano apparsi “preoccupati” dalle nuove idee astronomiche, anche se non tutti reagirono allo stesso modo, e anche se ci volle del tempo affinché si percepisse chiaramente la portata rivoluzionaria delle nuove dottrine.

Dal rifiuto all’accettazione. Se la nuova cosmologia, nonostante reazioni e scossoni vari, finì per affermarsi, ciò non avvenne certo grazie alla scienza, che per lungo tempo non dispose di adeguati strumenti con cui verificare il nuovo quadro cosmologico. Dall’eresia all’ortodossia di Bruno

108

Per uno di quei paradossi di cui è ricca la storia, quella visione che a Bruno aveva procurato tanto odio e disprezzo, finì per affermarsi proprio grazie agli argomenti “teologici” da lui delineati. L’angoscia cosmica e le difficoltà religiose furono infatti superate in virtù dell’idea secondo cui un universo infinito risulta più “adatto” di uno finito a rispecchiare l’infinita potenza di Dio. Se i cieli e la terra narrano la gloria del loro Creatore, che cosa meglio di un cosmo infinito si prestava a celebrarla in tutta la sua grandezza? Tramite l’opera di filosofi, scrittori e poeti (dal filosofo neoplatonico Henry More, 1614-1687, convinto assertore della cosmologia infinitistica, a Bernard Le Bovier de Fontenelle, 1657-1757, il cui libro Entretiens sur la pluralité des mondes contribuì forse più di ogni altro a diffondere il nuovo schema

Capitolo 1 • La rivoluzione scientifica

astronomico presso le persone di media cultura) questa convinzione finì per radicarsi nella mentalità comune e per costituire l’asso vincente dei fautori della nuova astronomia. L’“eresia” bruniana si era così capovolta in convincente “ortodossia”, aprendo la strada al suo completo assorbimento nella cultura “ufficiale”. Si noti tuttavia come, nonostante tutto ciò, la Chiesa abbia continuato per circa due secoli a “diffidare” del copernicanesimo. Solo nel 1757 venne ritirata la condanna contro gli scritti copernicani; nel 1822 venne permessa la stampa dei libri che insegnavano il moto della Terra; nel 1835 venne tolto dall’indice il De revolutionibus.

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225 La “diffidenza” della Chiesa

Le nuove tesi cosmologiche e la scienza contemporanea I cinque schemi cosmografici che abbiamo trovato in Bruno, e che la filosofia successiva ha fatto propri, più tardi hanno finito per essere convalidati, almeno in parte, anche sul piano scientifico. L’inesistenza delle muraglie celesti, la pluralità dei mondi, l’identità di struttura tra cielo e terra e l’omogeneità dello spazio cosmico saranno assunte nel corpo dell’astronomia scientifica, diventandone la cornice di fondo e la base per ulteriori scoperte. Nonostante la mancata certificazione scientifica della tesi dell’esistenza di altri esseri viventi e dell’infinità spaziale dell’universo, e nonostante la dichiarata “insolubilità critica” di quest’ultima ipotesi da parte di Immanuel Kant (v. vol. 2B, unità 7, cap. 2), la visione bruniana dell’universo fu dunque accettata in blocco, entrando a far parte, implicitamente o esplicitamente, della mentalità “moderna” e celebrando i suoi maggiori trionfi nell’Ottocento. Un colpo decisivo a questo quadro cosmologico verrà soltanto dalla fisica del Novecento, in particolare da Einstein, che tornerà a proporre l’idea di un universo finito. Infatti, secondo il modello cosmografico del fondatore della teoria della relatività, la materia si “incurverebbe” su se stessa, per cui il mondo sarebbe illimitato ma finito, simile a una sfera illimitatamente percorribile, anche se finita. Di conseguenza, mentre nel modello euclideo di spazio è possibile tracciare una retta che va all’infinito, nel cosmo di Einstein una retta all’infinito tende a ripiegarsi su se medesima, dando origine a una sorta di circolo, tanto che un ipotetico viaggiatore dell’universo tornerebbe sempre al punto da cui è partito. Sul problema dell’infinità del mondo la scienza contemporanea è dunque paradossalmente tornata a proporre un modello che appare più vicino a quello di Aristotele e Tolomeo che a quello di Bruno, anche se la questione deve tuttora ritenersi scientificamente aperta. La scoperta delle geometrie non euclidee e la loro applicazione nella fisica hanno messo in crisi anche la “geometrizzazione” dello spazio cosmico, ossia l’idea che lo spazio dell’universo reale sia di tipo euclideo, lasciando anche questo punto in sospeso. In conclusione, alla luce della scienza moderna rimangono tuttora problematiche: ■■■ l’esistenza di altre creature viventi e razionali; ■■■ la struttura ultima dello spazio cosmico; ■■■ la questione dell’infinità dell’universo, anche se a proposito di quest’ultimo punto la scienza sembra piuttosto favorevole all’ipotesi della finitezza del cosmo. Di conseguenza, il “nostro” universo, pur non essendo più quello degli antichi, e pur essendo molto vicino a quello di Bruno e della rivoluzione astronomica del Cinquecento, non coincide più totalmente con esso.

La successiva convalidazione scientifica

Einstein e l’idea di un universo finito

Questioni ancora aperte nella scienza contemporanea

Sintesi audio La cosmologia dall’età antica a quella moderna

109

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

MAPPA La rivoluzione scientifica Mappa interattiva

CONCETTI FONDAMENTALI natura come ordine oggettivo e strutturato causalmente, governato da leggi

scienza come sapere sperimentale-matematico e valido intersoggettivamente

PREMESSE STORICO-SOCIALI Stati cittadini

civiltà urbano-borghese

nuove esigenze tecniche, dovute a uno stile di vita più complesso e dinamico

PREMESSE CULTURALI cultura tardo-scolastica

Mappa interattiva

laicizzazione rinascimentale del sapere

La RIVOLUZIONE ASTRONOMICA

Copernico ipotesi eliocentrica per semplificare il calcolo dei movimenti celesti (De revolutionibus orbium coelestium)

110

affermarsi di una prospettiva naturalistica (aristotelismo, filosofia della natura, magia)

Bruno

Keplero universo ancora sferico e chiuso dal cielo delle stelle fisse, come quello aristotelico, diviso in due zone cosmologiche qualitativamente distinte

ipotesi eliocentrica

proporzione matematica dell’universo e leggi del moto dei pianeti

• ipotesi eliocentrica • universo “aperto”,

infinito e qualitativamente omogeneo • esistenza di infiniti mondi • geometrizzazione dello spazio cosmico

CAPITOLO 2

Galilei 1. Una vita consacrata alla scienza Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564, da genitori della media borghesia, che nel 1574 si trasferirono a Firenze, dove egli compì i primi studi di letteratura e di logica. Nel 1581, per volere del padre, si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pisa. Ma per questo tipo di studi non mostrò alcun vero interesse e tornò a Firenze senza aver conseguito titoli accademici. Qui Galileo approfondì la matematica sotto la guida di Ostilio Ricci, discepolo del celebre Tartaglia, e cominciò a compiere osservazioni fisiche. Nel 1583 scoprì l’isocronismo delle oscillazioni pendolari. Negli anni seguenti giunse a formulare alcuni teoremi di geometria e di meccanica, che rese noti solo più tardi. Dallo studio di Archimede fu portato a progettare la bilancetta per determinare il peso specifico dei corpi (1586). Nelle due lezioni tenute nel 1588 all’Accademia fiorentina, Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, e nelle Considerazioni sul Tasso, di poco posteriori, diede anche un saggio della propria cultura letteraria. La sua cultura matematica gli procurò stima e simpatia e nel 1589 ottenne la cattedra di matematica all’Università di Pisa. Rimase in questa città per tre anni, durante i quali scoprì, tra l’altro, la legge di caduta dei gravi. Nel 1592 passò a insegnare matematica all’Università di Padova, dove trascorse 18 anni, che furono i più fecondi e felici della sua vita. Con la costruzione del cannocchiale (1609) si aprì la serie delle grandi scoperte astronomiche, di cui diede l’entusiastico annuncio nel Sidereus nuncius (Ragguaglio astronomico) del 1610. Keplero riconobbe subito l’esattezza e l’importanza di tali scoperte, che accrebbero enormemente la fama di Galilei e gli procurarono il posto, da lui ambito, di matematico dello “Studio” di Pisa. Ma proprio le scoperte astronomiche e le idee copernicane che Galilei professava misero progressivamente lo scienziato pisano in urto con gli aristotelici e con le gerarchie ecclesiastiche. Nel febbraio del 1616, infatti, un’ammonizione del cardinale Bellarmino lo diffidò dal professare la nuova astronomia. Pochi giorni dopo, il 3 marzo, l’opera di Copernico venne messa all’indice.

I primi studi

Matematica, fisica e letteratura

Da Pisa a Padova

Le scoperte astronomiche

L’ammonizione

111

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Il Saggiatore

Il Dialogo

Il processo

I Discorsi

Nonostante la sconfitta, Galilei continuò i suoi studi e nel 1623, polemizzando con il padre gesuita Orazio Grassi, pubblicò Il Saggiatore, dedicato a problemi relativi alle comete, e nello stesso tempo a importanti considerazioni di tipo metodologico. Nel frattempo lavorava al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano, incoraggiato anche dall’ascesa al pontificato del cardinale Barberini (Urbano VIII), che gli aveva sempre mostrato benevolenza. Il Dialogo fu stampato nel febbraio del 1632. Ma già a settembre Galilei veniva citato dal papa a comparire dinnanzi al tribunale del Santo Uffizio di Roma. Il processo durò fino al 22 giugno 1633 e si concluse con l’abiura di Galilei. Il carcere a vita gli venne tramutato in confino, prima nel palazzo dell’arcivescovo di Siena, suo amico, e poi presso la sua villa di Arcetri, dove fu assistito amorosamente dalla figlia, suor Maria Celeste. Nella solitudine di Arcetri Galilei scrisse quello che è forse il suo capolavoro scientifico: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (che sono la teoria della resistenza dei materiali e la dinamica), pubblicato in Olanda nel 1638. L’8 gennaio 1642, Galilei chiudeva per sempre i suoi occhi ormai ciechi, che per primi, nella storia dell’umanità, avevano potuto contemplare sconosciute realtà celesti.

1560

1570 1563 Si chiude il Concilio di Trento

1580

1590

1571 Battaglia di Lepanto

1600

1588 L’Inghilterra sconfigge l’Invincibile Armata spagnola

Eventi storici

1598 Pace di Vervins tra Francia e Spagna; editto di Nantes: fine delle Guerre di religione

1572 Strage degli Ugonotti a Parigi (notte di San Bartolomeo)

Vita di Galilei

Filosofia e Scienza

1574 Si trasferisce con la famiglia a Firenze 1564 Galileo Galilei nasce a Pisa

1565 Telesio: primi due libri de La natura secondo i propri principi

1576 1584 L’astronomo Bruno: Diggens difende il La cena copernicanesimo delle ceneri 1580 Montaigne: Saggi

1563 Bruegel il Vecchio: La torre di Babele

Arte e Letteratura

112

1583 1589 Scopre Cattedra di matematica l’isocronismo a Pisa; scopre la legge delle oscillazioni sulla caduta dei gravi del pendolo 1592 1586 Cattedra Costruisce di matematica la bilancetta per a Padova il peso specifico

1575 Tasso completa la Gerusalemme liberata

1597 Bacone: Saggi di morale e politica

1587-1588 1594-1596 Marlowe: Shakespeare: Romeo e Giulietta Tamerlano il Grande (inizio del teatro elisabettiano) 1596-1598 Caravaggio: Cena in Emmaus

Capitolo 2 • Galilei

2. La battaglia per l’autonomia della scienza e il rifiuto del principio di autorità Il primo risultato storicamente decisivo dell’opera di Galilei è la difesa dell’autonomia della scienza, cioè la salvaguardia dell’indipendenza del nuovo sapere da ogni ingerenza esterna. A differenza di altri dotti del tempo, che avevano scelto di non sfidare le autorità costituite, soprattutto quelle ecclesiastiche, e che tenevano celate le loro scoperte o ne facevano partecipi solo i colleghi, e in modo strettamente tecnico, Galilei intuisce che la battaglia per la libertà della scienza è una necessità storica di primaria importanza, poiché è destinata a influenzare il futuro stesso dell’umanità. Da ciò la sua lotta, combattuta sostanzialmente su due fronti: l’autorità religiosa, personificata dalla Chiesa, e l’autorità culturale, personificata dagli aristotelici.

La difesa della scienza da ogni autorità

La polemica contro la Chiesa e contro i teologi La Controriforma aveva stabilito che ogni sapere dovesse essere in armonia con le sacre scritture, nella precisa interpretazione che ne aveva fornito la Chiesa cattolica.

1600

1610

1600 Giordano Bruno è arso vivo in Campo dei Fiori

1620

1610 Espulsione dei moriscos dalla Spagna

1630

1640

1618 Inizia la Guerra dei trent’anni

1642 In Inghilterra inizia la guerra 1648 civile Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni 1649 Carlo I d’Inghilterra è decapitato

1621 Muore Bellarmino 1623 Maffeo Barberini è papa Urbano VIII

1610 1623 Sidereus nuncius Il Saggiatore 1613 Lettera a Castelli sui rapporti 1600 tra scienza e Bibbia  Nasce la figlia Virginia, 1616 futura suor Maria Celeste Ammonito dal 1601 cardinale Bellarmino Nasce la figlia Livia, futura suor Arcangela 1609 Costruisce il cannocchiale

1602 Campanella: La città del sole

1603 Carracci: Fuga in Egitto

1609 Keplero: Astronomia nova (prime due leggi)

1632 1638 Appena Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze stampato, il Dialogo sopra 1642 i due massimi sistemi del mondo è messo all’indice Ormai cieco, Galilei muore nella sua villa 1633 di Arcetri Processato, Galilei abiura ed è condannato al confino

1620 1637 Bacone: Novum Organum Cartesio: Discorso sul metodo 1616 1627 1641 Il De revolutionibus Bacone: La Nuova Atlantide Cartesio: Meditazioni metafisiche di Copernico 1622 è messo 1628 Campanella: 1641 all’indice Harvey scopre Apologia Torricelli: De motu la circolazione sanguigna di Galileo 1619 1642 Keplero: Harmonices mundi (terza legge) Hobbes: De cive

1611-1612 Reni: Strage degli innocenti

1605 Cervantes: Don Chisciotte della Mancia (primo libro)

1650

1618 Tassoni: La secchia rapita 1622 Bernini: David; Apollo e Dafne

1628-1629 Velasquez: Trionfo di Bacco

1635 Corneille: Medea

1633 Bernini termina il baldacchino di San Pietro

1644 1642 Milton: Areopagitica Rembrandt: Ronda di notte

113

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

La tesi teologica della verità di ogni affermazione scritturale

La posizione di Galilei circa i rapporti tra scienza e fede

Di fronte a tale decreto si poneva la questione se il credente dovesse accettare solo il messaggio religioso e morale della Bibbia, oppure ogni affermazione scritturale, comprese quelle di carattere “scientifico”, che le nuove scoperte mettevano in discussione. Il cardinale Bellarmino, gesuita e filosofo, consultore del Santo Uffizio, sosteneva ad esempio, come la quasi totalità dei teologi, la seconda soluzione, convinto che il negare certi dati di fatto esposti nelle Scritture, pur non intaccando i fondamenti della fede, invalidasse la verità della Bibbia. Questa, infatti, essendo stata scritta sotto ispirazione dello Spirito Santo, non poteva che essere vera in tutte le sue affermazioni: «sarebbe heretico chi dicesse che Abramo non abbia havuti due figlioli e Iacob dodici, come chi dicesse che Christo non è nato di vergine, perché l’un e l’altro lo dice lo Spirito Santo per bocca de’ Profeti ed Apostoli» (Lettera al M.R.P. Paolo Antonio Foscarini). Galilei, scienziato e uomo di fede, pensa invece che una posizione del genere ostacoli il libero sviluppo del sapere e danneggi la stessa religione, che, rimanendo ancorata a tesi dichiarate false dal progresso scientifico, finirebbe inevitabilmente per perdere credibilità agli occhi dei fedeli. Di conseguenza, nelle cosiddette “lettere copernicane” (una inviata a don Benedetto Castelli, suo discepolo, nel 1613, due a monsignor Dini, nel 1615, e una a madama Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana, sempre nel 1615) Galilei affronta il problema dei rapporti tra scienza e fede, pervenendo al seguente schema di soluzione. La natura (oggetto della scienza) e la Bibbia (base della religione) derivano entrambe da Dio, questa come «dettatura dello Spirito Santo», quella come «osservatissima esecutrice degli ordini di Dio» (Lettera a don Benedetto Castelli). Come tali, esse non possono oggettivamente contraddirsi tra loro. Eventuali contrasti tra verità scientifica e verità religiosa sono quindi soltanto apparenti (Galilei rifiuta esplicitamente la teoria della doppia verità) e vanno risolti rivedendo l’interpretazione della Bibbia. Operazione tanto più legittima, per Galilei, se si pensa: a) che le Scritture hanno dovuto «accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati» (Lettera a don Benedetto Castelli) e usare quindi un linguaggio antropomorfico e relativo alle cognizioni del «vulgo», mentre la natura e le sue leggi seguono un corso inesorabile e immutabile, senza doversi piegare alle esigenze umane; b) che la Bibbia non contiene principi che riguardino le leggi di natura, ma verità che si riferiscono al destino ultimo dell’uomo, premendo a essa d’insegnarci «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (Lettera a Madama Cristina).

In conclusione, se la Bibbia è arbitra nel campo etico-religioso, la scienza è arbitra nel campo delle verità naturali, in relazione alle quali non è la scienza che deve adattarsi alla Bibbia, ma l’interpretazione della Bibbia che deve adattarsi alla scienza. L’errore dei teologi consiste dunque nella pretesa che la Scrittura faccia testo anche riguardo alle conoscenze naturali, dimenticando che in questo campo «ella dovrebbe esser riserbata nell’ulECHI DEL PENSIERO timo luogo» (Lettera a don Benedetto Castelli), e che quando la Bibbia appare in contrasto L’idea galileiana con la scienza, essa va adeguatamente reinterpretata, andando al di là del «nudo senso del mondo come libro, p. 140 delle parole».

La “conciliazione” tra la scienza e la Bibbia

La Chiesa e il sapere scientifico

114

Si osservi come la posizione galileiana, che inizialmente non poteva non apparire eretica – e convergente con la tesi protestante del “libero esame” – abbia finito per imporsi non solo alla cultura laica, ma alla Chiesa stessa, che con il tempo è pervenuta a riconoscere l’autonomia operativa della scienza nel campo delle conoscenze naturali, dimostrandosi eventual-

Capitolo 2 • Galilei

mente disposta (vedi la teoria dell’evoluzione) a reinterpretare la lettera dei testi biblici in modo conforme alle scoperte della scienza.

Dio parla tramite

la Bibbia > = libro scritto in lingua popolare

> è finalizzata alla salvezza ed è arbitra in campo etico-religioso

la natura > = libro scritto in lingua matematica

> è finalizzata alla conoscenza ed è arbitra in campo naturale

Esercizi interattivi Scienza e fede in Galilei

I contrasti tra le verità scientifiche e la Bibbia vanno risolti rivedendo l’interpretazione delle Scritture

La polemica contro gli aristotelici Indipendente dall’autorità religiosa della Bibbia, la scienza deve esserlo altrettanto nei confronti di quella culturale di Aristotele e dei sapienti del passato. Pur non essendo tra quelli che si vogliono «lasciar infinocchiar da Aristotile» (Dialogo), Galilei mostra grande stima per lo Stagirita e per gli altri scienziati antichi, ritenendoli uomini amanti della verità e della ricerca. Il suo disprezzo colpisce piuttosto i loro infedeli discepoli, soprattutto gli aristotelici del suo tempo, che, invece di osservare direttamente la natura e di conformare a essa le proprie opinioni, si limitano a consultare i testi delle biblioteche, vivendo in un astratto «mondo di carta», con la convinzione che «il mondo sta come scrisse Aristotile e non come vuole la natura» (Dialogo). Ma se il filosofo greco tornasse al mondo, sostiene Galilei, egli riconoscerebbe lui – e non loro – come suo genuino discepolo e si mostrerebbe certo disposto a cambiare le proprie idee, in armonia con le nuove scoperte. Invece gli aristotelici continuano a offrire il triste spettacolo di un dogmatismo antiscientifico che ostacola l’avanzamento del sapere e inebetisce gli intelletti. Emblematico, a questo proposito, il racconto di uno dei personaggi del Dialogo, il quale, avendo potuto osservare insieme con altri, in casa di un medico, che in un cadavere umano i nervi partono dal cervello e non, come sosteneva Aristotele, dal cuore, ebbe occasione di sentir fare da «un gentil uomo ch’egli conosceva per filosofo peripatetico» un discorso di questo tipo: «Voi mi avete fatto veder questa cosa talmente aperta e sensata, che quando il testo d’Aristotele non fusse in contrario, che apertamente dice i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera».

La stima per Aristotele e il disprezzo per gli aristotelici

Il dogmatismo degli aristotelici

3. Le scoperte fisiche e astronomiche Per comprendere in modo adeguato il metodo di Galilei, risulta utile conoscere prima le scoperte scientifiche, fisiche e astronomiche, nelle quali esso si è incarnato e in relazione alle quali diviene concretamente intelligibile.

115

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Gli studi fisici Il problema del moto

La demolizione della tradizionale visione del cosmo, alla quale Galilei ha dato un basilare contributo, è strettamente connessa ai suoi studi fisici di meccanica, e in particolare a quella parte che riguarda il moto dei corpi (la dinamica). Infatti il problema del moto occupò la mente di Galilei per tutta la vita, dal De motu (1590) ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638), in cui pervenne a risultati così notevoli da poter essere considerato il fondatore della dinamica scientifica moderna.

Il principio d’inerzia. Per la fisica aristotelica la quiete era lo stato naturale dei corpi La dinamica secondo gli antichi

L’intuizione teorica del principio d’inerzia…

… e la discussione intorno alla sua mancata enunciazione da parte di Galileo

L’applicazione “astronomica” del principio d’inerzia

sublunari, essendo il moto qualcosa di temporaneo, che viene meno non appena cessa l’applicazione della forza che lo produce. I moti venivano divisi in due tipi: naturali e violenti. Naturale è il moto con cui un corpo si dirige verso il suo “luogo naturale” (che per i corpi pesanti è il basso e per quelli leggeri l’alto), violento è il moto che lo conduce fuori del suo luogo naturale. E per spiegare come i corpi che si muovono di moto violento (ad esempio, una freccia o i proiettili) potessero continuare a muoversi, per un certo tempo, in una direzione diversa da quella naturale, si ricorreva all’azione motrice dell’aria. Invece, con l’intuizione teorica del principio d’inerzia, secondo il quale un corpo tende a conservare indefinitamente il proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, finché non intervengano forze esterne a modificare tale stato, Galilei superava il doppio pregiudizio per cui la quiete è qualcosa di “naturale” e il moto si mantiene solo finché permane la forza che lo ha provocato. Dal momento che Galilei non diede mai un’enunciazione generale e precisa di tale principio, alcuni critici hanno negato che egli fosse veramente giunto a concepirlo. Ludovico Geymonat scrive invece che «è ben diverso sostenere che Galilei non enunciò mai in tutta la sua generalità il principio di inerzia e affermare che non riuscì neanche a concepirlo. La prima tesi è storicamente esatta, e può venir spiegata molto semplicemente col fatto che Galilei non aveva bisogno, nei problemi particolari da lui presi in esame, di enunciare il principio in tutta la sua generalità. La seconda tesi […] sembra molto più discutibile, poiché rende incomprensibile il fatto che Galilei abbia applicato benissimo, e senza alcuna esitazione, il principio in esame in tutte le argomentazioni […] nelle quali aveva bisogno di usarlo». Interessante è comunque la tesi di Alexandre Koyré, il quale, nei suoi Studi galileiani, afferma che Galilei, non accettando esplicitamente la tesi bruniana dell’infinità dell’universo, e mostrando di fatto di attenersi al modello di un cosmo finito, non poteva giustificare veramente il principio d’inerzia, che implica uno spazio infinito, o almeno, come nella cosmologia di Einstein, finito ma illimitatamente percorribile, come una sfera. Tant’è vero, nota Koyré, che il principio d’inerzia sarà formulato esattamente solo da René Descartes (v. unità 3), nell’ambito di una concezione della non-finitezza dello spazio1. Il principio d’inerzia, valido per la dinamica terrestre, si rivelava utile anche in sede astronomica, in quanto spiegava perché il movimento dei pianeti e della Terra potesse continuare indefinitamente. Tuttavia la delucidazione scientifica dei moti astrali richiedeva la 1 Cfr. A. Koyré, Studi galileiani, trad. it. di M. Torrini, Einaudi, Torino 1979.

116

Capitolo 2 • Galilei

doppia presenza di una forza centrifuga e di una forza centripeta, che saranno fissate soltanto più tardi, rispettivamente da Christiaan Huygens e da Isaac Newton.

Le leggi sulla caduta dei gravi. La fisica aristotelica pensava che la velocità di caduta dei corpi fosse direttamente proporzionale al peso dei corpi che cadono e che essa venisse accelerata dalla spinta che l’aria comunica al moto. Galilei, con un ragionamento teorico (di quelli che si chiamano “esperimenti mentali”) pervenne invece a risultati diversi e per certi aspetti opposti. Se due corpi dello stesso peso – argomenta lo scienziato – cadono insieme, e durante la caduta si uniscono, essi costituiranno un corpo unico, che avrà un peso doppio rispetto a ogni singolo corpo, ma che si muoverà con la medesima velocità, in quanto nessuno dei due varia la propria velocità per il fatto di essere unito o staccato dall’altro (Discorsi). Ciò significa che tutti i corpi, qualunque sia il loro peso, cadono con la stessa velocità. E se l’esperienza immediata sembra confutare tale legge – tipico l’esempio della pietra e della piuma, che paiono smentirla clamorosamente – ciò è dovuto alla resistenza del mezzo, ossia, in questo caso, dell’aria. Nel vuoto la legge si realizza invece nella sua purezza. E poiché Galilei non disponeva ancora della pompa ad aria, che sarà inventata da Torricelli e mediante la quale si possono osservare i corpi cadere nel vuoto, la tradizione vuole che egli abbia eseguito una serie di esperimenti reali, lasciando cadere dall’alto della torre di Pisa una sfera del peso di una libbra e una di cento libbre, constatando come la seconda arrivasse a terra con brevissimo anticipo rispetto alla prima. Che questo esperimento sia stato eseguito o meno (la cosa non è affatto sicura, anzi alcuni la considerano leggendaria), sta di fatto che esso conferma Galilei e smentisce Aristotele, poiché per quest’ultimo, nell’istante in cui la seconda sfera tocca terra, la prima avrebbe dovuto compiere soltanto la centesima parte del percorso, essendo il rapporto di peso di 1 a 100. Per quanto riguarda la piccola diversità riscontrata nella velocità di caduta dei corpi, essa rientrava pienamente nella teoria di Galilei, in quanto dovuta all’aria circostante.

La teoria aristotelica

La teoria galileiana

Il secondo principio della dinamica. In tale contesto di studi Galilei pervenne alla basilare scoperta del cosiddetto “secondo principio della dinamica” – che è un altro dei suoi contributi decisivi alla meccanica moderna –, ossia al principio secondo il quale le forze applicate ai corpi determinano in essi non delle velocità, bensì delle accelerazioni, che risultano proporzionali alle forze che le hanno prodotte. Ciò gli permise di determinare il concetto di accelerazione come variazione di velocità e il concetto di massa di un corpo, come rapporto di proporzionalità tra le forze a esso applicate e le accelerazioni prodotte da tali forze. I celebri esperimenti sulle leggi del moto uniformemente accelerato e le ricerche sulle relazioni tra lo spazio percorso e il tempo impiegato a percorrerlo rappresentano l’ulteriore coronamento di questi studi.

I concetti di accelerazione e di massa

Nonostante il genio di Galileo si sia distinto soprattutto nella meccanica, egli ha spaziato anche in altri settori della fisica – dalla termica all’idrostatica, dall’ottica all’acustica – lasciando in tutti una sua personale impronta. Tuttavia le scoperte che dovevano renderlo più celebre ai suoi tempi e impegnarlo in una battaglia culturale di vasto respiro sono quelle astronomiche.

117

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

La distruzione della cosmologia aristotelico-tolemaica Il rigetto del dualismo tra cielo e terra

La messa in crisi della fisica aristotelica e l’elaborazione di una nuova meccanica si accompagnano strettamente, in Galilei, alla demolizione del sistema tolemaico. Infatti, l’esistenza di un’unica scienza del moto e la negazione della diversità di natura tra moti rettilinei (ritenuti tipici del mondo sublunare) e moti circolari (ritenuti tipici del mondo sopralunare) – entrambi spiegabili alla luce dei due fondamentali principi della dinamica – portano al rifiuto della diversità di struttura tra cielo e terra, fondata appunto sulla diversità dei rispettivi movimenti. Galilei aveva intuito la verità del copernicanesimo fin dall’inizio dei suoi studi. In seguito, grazie all’uso del telescopio, egli pervenne ad alcune importanti scoperte – comunicate nel Sidereus nuncius del 1610 – che rappresentano al tempo stesso la verifica empirica del copernicanesimo e il colpo decisivo alla vecchia cosmologia.

Le scoperte astronomiche. Tradizionalmente si riteneva che la Luna, analogamente Le macchie lunari

I satelliti di Giove

Le macchie solari

118

agli altri corpi celesti e a differenza della Terra, fosse rivestita di una superficie liscia e levigata. Invece le osservazioni telescopiche di Galilei mostrarono come molte delle macchie scure di essa, visibili a occhio nudo, fossero ombre proiettate dalle montagne lunari sotto l’effetto della luce del Sole, e come la superficie della Luna fosse quindi “rugosa” e ricoperta, allo stesso modo di quella terrestre, di prominenze, valli e anfratti. Ovviamente, alla luce di queste scoperte, l’ipotesi escogitata dal gesuita Cristoforo Clavio – che per salvare la presunta “perfezione” dei cieli aveva supposto che la Luna fosse rivestita di una materia cristallina trasparente e sferoidale – appariva a Galilei soltanto uno scorretto sotterfugio di menti ormai costrette alla difensiva. Aristotele credeva che soltanto la Terra, essendo immobile, fosse centro di moti astrali e che un corpo in movimento nello spazio non potesse costituire un nucleo di movimento per altri corpi. Invece Galilei scoprì i quattro satelliti di Giove, battezzati «pianeti medicei», che compiono attorno a esso movimenti analoghi a quelli che la Luna compie attorno alla Terra. Ma se Giove ruota insieme con i propri satelliti intorno al Sole, come suppone Copernico, nulla vieta di pensare, secondo Galilei, che anche la Terra, con il suo satellite, possa ruotare intorno al Sole. La cosmologia tolemaica sosteneva che i corpi celesti, essendo perfetti, fossero incorruttibili e non soggetti al divenire. Questo pregiudizio era già stato messo in dubbio dalla tarda scolastica (Ockham) ed esplicitamente negato, su base teorica, da Cusano, Leonardo e Bruno, ma con Galilei ricevette il colpo di grazia su base sperimentale. Grazie all’uso del telescopio, infatti, lo scienziato toscano scoprì sulla superficie del Sole macchie oscure che si formavano e scomparivano, attestando l’esistenza di un processo di trasformazione in atto e dimostrando clamorosamente come anche i corpi celesti fossero soggetti a fenomeni di alterazione e mutamento. E poiché Galilei parlò subito – a ragione – di «funerali» della scienza aristotelica, i rappresentanti della cultura peripatetico-scolastica reagirono sdegnati. Vi fu chi si rifiutò di guardare al telescopio, ritenendolo strumento “diabolico” o “deformante” delle immagini; chi disse di non vedere ciò che vedeva Galilei; e chi, come il gesuita padre Cristoforo Scheiner,

Capitolo 2 • Galilei

formulò l’ingegnosa ipotesi secondo cui le macchie non erano dovute al Sole, bensì al passaggio di altri corpi celesti davanti a esso. Ma Galilei fece notare, contro Scheiner, che le macchie, nel loro apparire e scomparire, erano intermittenti, e apparivano difformi tra loro, per cui non potevano essere attribuite a passaggi regolari di astri. Nell’antichità e nel Medioevo si era sempre creduto che soltanto la Terra fosse un corpo opaco, illuminato dal Sole e privo di luce propria. Invece la scoperta galileiana delle fasi di Venere, inducendo a pensare che tale astro ricevesse la luce dal Sole girandovi attorno, offriva lo spunto per ritenere che la suddetta spiegazione fosse valida anche per gli altri pianeti, “tenebrosi” per natura e illuminati esclusivamente dal Sole. Sempre grazie al telescopio, Galilei poté scoprire che oltre alle stelle fisse, visibili a occhio nudo, esistevano innumerevoli altre stelle, mai scorte prima, che si “affollavano” davanti al mezzo d’osservazione. Inoltre, poté rendersi conto che la galassia è nient’altro che una congerie di innumerevoli stelle disseminate a gruppi nello spazio e che le nebulose sono parimenti “greggi” di piccole stelle.

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Come si è accennato, nel 1632, durante il pontificato di Urbano VIII, Galilei, fiducioso in un nuovo corso della Chiesa, pubblica quel capolavoro scientifico-letterario che è il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano, in cui, con il pretesto di voler presentare imparzialmente i due maggiori modelli cosmologici della storia, espone in realtà argomenti decisivi a favore del copernicanesimo.

Le fasi di Venere

Le stelle

La difesa del copernicanesimo Testo antologico La difesa del copernicanesimo (Dialogo sopra i due massimi sistemi)

Per presentare la teoria geocentrica Galilei sceglie Simplicio, un pedante dalla mentalità conservatrice e tradizionalista, attaccato al “senso comune” e all’“autorità” di Aristotele. Per difendere la teoria copernicana sceglie Salviati (un nobile fiorentino storicamente esistito, amico di Galilei), che incarna l’intelligenza chiara, rigorosa e anticonformista del nuovo scienziato. Nella parte di neutrale moderatore viene posto Sagredo (un nobile veneziano amico di Galilei, anche lui personaggio storicamente esistito), che rappresenta un tipo di personalità non oppressa dai pregiudizi, e quindi tendenzialmente portata a simpatizzare con le dottrine recenti. Come si vede, già dalla scelta dei personaggi risultano evidenti, al di là di ogni prudente tattica opportunista, le preferenze e gli scopi di Galilei. Il Dialogo è diviso in quattro giornate, nella prima delle quali Galilei pone sotto accusa la distinzione aristotelica tra il mondo celeste e quello terrestre, con argomenti tratti soprattutto dalle osservazioni astronomiche divulgate nel Sidereus nuncius e dai suoi studi di meccanica dei movimenti. La seconda giornata, la più vivace, è dedicata alla confutazione degli argomenti tipici, antichi e moderni, contro il moto della Terra (ad alcuni dei quali si è già accennato parlando di Copernico, v. cap. 1, p. 103). Contro chi sostiene, ad esempio, che la Terra, se ruotasse davvero su se stessa, solleverebbe un vento tale da trasportare tutti gli oggetti, Galilei, per bocca di Salviati, risponde che l’aria partecipa dello stesso movimento della Terra, e quindi in rapporto a essa è ferma, come risulta fermo un individuo su di una nave in moto. Contro chi obbietta che se la Terra si muovesse davvero da ovest a est, le nuvole dovrebbero apparirci continuamente in moto da est a ovest, oppure il volo degli uccelli non potrebbe tener

La prima giornata

La seconda giornata

119

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

dietro al velocissimo spostamento del nostro pianeta, Galilei risponde, per analogia, che l’aria partecipa del moto della Terra, la quale sì come conduce seco le nuvole, così porta gli uccelli ed ogn’altra cosa che in essa si ritrovasse pendente: talché, quanto al seguir la Terra, gli uccelli non v’hanno a pensare, e per questo servizio potrebbero dormir sempre. (Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, a cura di F. Brunetti, utet, Torino 1980, VII, p. 209)

Al noto argomento, uno dei prediletti dagli aristotelici, secondo cui, se la Terra si muovesse davvero da ovest a est, i gravi dovrebbero cadere obliquamente, cioè più verso ovest, essendosi la Terra nel frattempo spostata verso est, Galilei ribatte affermando che il grave partecipa del moto da ovest verso est e quindi, muovendosi con la Terra, cade perpendicolarmente1. Tant’è vero che un sasso, lasciato cadere dalla cima dell’albero di una nave in movimento, si ferma ai piedi dell’albero, proprio come se la nave stesse ferma. Lo stesso avviene all’interno di quel sistema più vasto che è la Terra. Il principio della relatività galileiana

Queste geniali contro-argomentazioni di Galilei, che oppongono il pensiero scientifico al “senso comune” e ai pregiudizi culturali del passato, si ispirano tutte al cosiddetto “principio della relatività galileiana”, secondo cui risulta impossibile decidere, sulla base delle esperienze meccaniche compiute all’interno di un sistema “chiuso” – cioè senza possibilità di riferirsi a qualcosa di esterno –, se esso sia in quiete o in moto rettilineo uniforme. Questa legge, che anticipa la “relatività ristretta” di Einstein è presentata da Galilei in un brano famoso: Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun grande naviglio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso; e stando ferma la nave, […] osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, […] fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma […] le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra di molti palmi. (Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Opere, cit., VII, p. 212)

Testo con analisi attiva L’esperimento del “gran navilio” (Dialogo sopra i due massimi sistemi)

La terza e la quarta giornata

Pertanto, in base a questo principio di relatività, possiamo affermare che, in quel sistema quasi inerziale che è la Terra, l’aria circostante si muove insieme con la Terra stessa e i gravi cadono comportandosi, approssimativamente, come se essa fosse immobile. Nella terza giornata del Dialogo viene dimostrato il moto di rotazione della Terra ed esaltata la concezione copernicana, capace – secondo Galilei – di fornire spiegazioni di fenome1 Il che non è perfettamente vero, giacché la traiettoria di caduta del grave risulta invece lievemente deviata verso est (e non verso ovest, come argomentavano gli aristotelici). L’inesattezza in cui incorre Galilei (di lieve entità, a dire il vero, se la caduta avviene da un’altezza di poche decine di metri) deriva dal non essersi egli avveduto che il moto circolare terrestre non è inerziale, sebbene per gran parte delle nostre esperienze quotidiane la Terra possa essere considerata, con buona approssimazione, un sistema inerziale.

120

Capitolo 2 • Galilei

ni altrimenti inspiegabili e di chiarire con rigore e matematica “semplicità” problemi inutilmente complicati e “sofisticati” dal sistema tolemaico. Nella quarta giornata Galilei espone la sua dottrina delle maree.

La scoperta del cannocchiale e la difesa del suo valore scientifico Il fatto che Galilei non avrebbe potuto rivoluzionare l’astronomia senza il cannocchiale costituisce già di per sé una manifestazione dell’importanza assunta dagli strumenti d’osservazione nel corso della rivoluzione scientifica e una prova ulteriore della convergenza, da essa promossa, tra sapere e tecnica. Tali strumenti si rivelarono subito decisivi non solo per l’osservazione, ma anche per il “cimento” sperimentale, cioè per la possibilità di riprodurre il fenomeno studiato nelle condizioni volute. Ciò comportò un’esplicita attribuzione di valore conoscitivo nei loro confronti, del tutto nuova per i tempi. Infatti, ciò che ai nostri occhi può apparire ovvio – lo strumento come aiuto per la scienza – non lo era affatto nell’epoca di Galilei, a causa di pregiudizi secolari. Di ciò risulta emblematica espressione la vicenda del cannocchiale. Nel Saggiatore Galilei scrive che, venuto a conoscenza del fatto che un olandese aveva presentato un «occhiale» mediante cui «le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fossero state molto vicine», aveva proceduto, grazie a deduzioni teoriche, a costruirne uno per proprio conto, all’inizio poco capace e poi così potente, rispetto alla vista naturale, da riuscire a ottenere oltre trenta ingrandimenti lineari (che, in termini di superfici, forniscono immagini mille volte più grandi). La discussione sulla paternità storica del cannocchiale è tuttora aperta tra gli studiosi. Tuttavia, come ha fatto notare soprattutto Vasco Ronchi in una ricerca apposita, la grandezza di Galilei non consiste tanto nell’aver costruito il cannocchiale, ma nell’averlo usato scientificamente. Infatti le lenti erano note fin dal XIII secolo, o forse dal XII. Ma, come «l’occhiale» olandese di cui parla Galilei, esse erano state considerate semplicemente come fonti di divertimento o di piacevoli giochi di società da parte dei nobili di corte. Gli stessi navigatori e militari ne avevano fatto un uso limitato, mentre la cultura “ufficiale” le guardava con distacco, per l’inveterato pregiudizio contro gli “ordigni meccanici”, oppure le condannava esplicitamente, ritenendole fonti di illusioni ottiche. Molti teologi le consideravano “diabolici” sostituti degli occhi naturali creati da Dio. Da ciò il rifiuto, da parte di alcuni dotti, di accostare i loro occhi al nuovo mezzo. Invece Galilei ebbe la genialità e il coraggio di puntare il cannocchiale verso il cielo, trasformandolo così in telescopio, ossia in uno strumento primario dell’osservazione astronomica, grazie al quale realizzò le sensazionali scoperte divulgate dal Sidereus nuncius. Ma proprio il diritto a usare il cannocchiale come mezzo scientifico gli sarà duramente contestato e costituirà una delle ragioni di fondo della reciproca incomprensione tra lo scienziato da un lato, e i teologi e gli aristotelici dall’altro. Come ci si poteva fidare più di Galilei e dei suoi strumenti che della Bibbia? Come si poteva “seppellire” la scienza astronomica di Aristotele sulla base di un discutibile congegno “meccanico”?

Strumenti di osservazione e rivoluzione scientifica

Il valore conoscitivo degli strumenti

L’uso scientifico del cannocchiale

Sintesi audio Galileo Galilei

121

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

4. Il metodo della scienza Un altro risultato storicamente decisivo dell’opera di Galilei – che fa di lui il padre della scienza moderna – è l’individuazione del metodo della fisica, ossia del procedimento che ha spalancato le porte ai maggiori progressi scientifici dell’umanità, da Newton a Einstein e ai giorni nostri. L’applicazione del metodo

I due momenti del metodo

Tuttavia, Galilei non giunge a formulare una teoria organica del metodo, analoga ad esempio a quella che Bacone proporrà nel Nuovo Organo (v. cap. 3), poiché egli, tutto preso dalle sue ricerche pratiche di fisica e di astronomia, applica il metodo, più che teorizzarlo filosoficamente. Nonostante ciò, nelle sue opere si trovano, disseminati qua e là, alcune preziose osservazioni metodologiche e alcuni tentativi di scandire o di sintetizzare il procedimento della scienza. Ad esempio nel Saggiatore, nel Dialogo e nei Discorsi, Galilei tende ad articolare il metodo della scienza in due parti fondamentali: il momento risolutivo, o analitico, e quello compositivo, o sintetico. a) Il primo consiste nel risolvere un fenomeno complesso nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili, formulando un’ipotesi matematica sulla legge da cui dipende. b) Il secondo risiede nella verifica e nell’esperimento, attraverso cui si tenta di riprodurre artificialmente il fenomeno, in modo tale che, se l’ipotesi supera la prova, risultando quindi verificata (cioè fatta vera), essa venga accettata e formulata in termini di legge, mentre, se non supera la prova, risultando smentita o falsificata (cioè non verificata), venga sostituita da un’altra ipotesi. Questo schema, su cui si sono basate soprattutto le presentazioni tradizionali di Galilei, pur descrivendo in modo formalmente corretto il procedimento della fisica sperimentale, appare un po’ generico e incapace di far comprendere le vie concrete e i modi originali seguiti dallo scienziato pisano nelle sue scoperte. Di conseguenza, data l’importanza dell’argomento, risulta indispensabile scavare più a fondo.

Il metodo di Galilei consta di

> momento risolutivo o analitico

> osservazione dei fenomeni > misurazione matematica dei dati > formulazione di un’ipotesi

> momento compositivo o sintetico

> esperimento e verifica (cimento) > formulazione della legge

Tra «sensata esperienza» e «necessarie dimostrazioni» IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Caravaggio e la rivoluzione scientifica, p. 146

122

Nella lettera a Cristina di Lorena, Galilei scrive: «Pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio». Questo passo, come tendono a riconoscere gli studi più recenti, è altamente significativo, poiché in esso Galilei ha racchiuso il cuore stesso del suo metodo e la strada effettivamente seguita nelle sue scoperte.

Capitolo 2 • Galilei

Con l’espressione sensata esperienza, che alla lettera significa “esperienza dei sensi”, con primario riferimento alla vista, Galilei ha voluto evidenziare il momento osservativoinduttivo della scienza, preponderante in alcune scoperte (come quelle relative ai corpi celesti). Infatti, in certi casi, la scienza galileiana, attraverso un’attenta ricognizione dei fatti e dei casi particolari, induce, sulla base dell’osservazione, una legge generale (ad esempio, quella relativa alle fasi di Venere). È questo il momento più comunemente noto del metodo scientifico, denominato appunto “sperimentale”. Con l’espressione necessarie dimostrazioni Galilei ha voluto evidenziare il momento raziocinativo o ipotetico-deduttivo della scienza, preponderante in altre scoperte (ad esempio, quella sul principio d’inerzia o sulla caduta dei gravi). È questa la parte meno nota, ma anche la più affascinante – e in alcuni casi decisiva – del metodo galileiano. Le «necessarie dimostrazioni», o «matematiche dimostrazioni», sono i ragionamenti logici, condotti su base matematica, attraverso cui il ricercatore, partendo da un’intuizione di base e procedendo per una “supposizione”, formula in teoria le sue ipotesi, riservandosi di verificarle nella pratica. In altre parole, “intuendo” e “ragionando” lo scienziato, anche sulla scorta di pochi dati empirici, perviene talora a delle ipotesi, mediante le quali deduce il comportamento probabile dei fatti, che in seguito si propone di verificare. Tipica, in questo senso, è la via seguita da Galilei nell’intuizione teorica del principio d’inerzia, da lui riportata in modo minuzioso e suadente in un passo del Dialogo. Immaginiamo – scrive Galilei – una superficie «piana, pulitissima come uno specchio e di materia dura come l’acciaio, e che fusse non parallela all’orizzonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente sferica e di materia grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo». Come deduciamo si comporterà tale palla? Starà ferma o si muoverà? Anche senza fare l’esperimento concreto, argomenta Galilei, sappiamo che si muoverà lungo la superficie. E se ipotizziamo mentalmente che sia tolta anche l’azione frenante dell’aria e di altri possibili «impedimenti esterni ed accidentarii», come pensiamo si comporterà? Ovviamente «ella continuerebbe a muoversi all’infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano e con movimento accelerato continuamente; ché tale è la natura dei mobili gravi, che vires acquirant eundo [acquistano forza muovendosi]: che quanto maggior fusse la declività, maggior sarebbe la velocità». Sostituendo poi la superficie inclinata con una orizzontale, si potrà anche dedurre che la medesima palla «perfettissimamente rotonda», se fosse spinta sul medesimo piano «esquisitamente pulito», continuerebbe indefinitamente il suo moto, ammesso che lo spazio «fosse interminato» e che non intervenisse una forza esterna a variarne o arrestarne il moto. Procedendo teoricamente e giustificando tramite un esperimento “ideale” una propria intuizione, Galilei è quindi pervenuto a una basilare scoperta fisica.

Il momento osservativo-induttivo della scienza

Il momento ipotetico-deduttivo della scienza

Esercizi interattivi Il metodo galileiano

L’esempio dell’intuizione del principio d’inerzia

Induzione e deduzione La compresenza, nel metodo di Galilei, delle «sensate esperienze» e delle «necessarie dimostrazioni» ha fatto sì che nella storiografia del passato lo scienziato pisano sia stato presentato talora come un sostanziale “induttivista”, cioè come un ricercatore che dall’osservazione instancabile dei fatti naturali perviene a scoprire le leggi che regolano i fenomeni; oppure, al contrario, come un convinto “deduttivista”, più fiducioso nelle capacità della ragione che in quelle dell’osservazione.

123

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Galilei induttivista e deduttivista

Le «sensate esperienze» presuppongono le «necessarie dimostrazioni»

Le «necessarie dimostrazioni» presuppongono le «sensate esperienze»

In realtà Galilei non è solo, o prevalentemente, induttivista, né solo, o prevalentemente, deduttivista, poiché è tutte e due le cose insieme. Certo, in lui si rileva talvolta, sia nella prassi concreta della scoperta scientifica, sia nella sua consapevolizzazione metodologica di essa, un’innegabile prevalenza del momento sperimentale, osservativo-induttivo, oppure di quello teorico, ipotetico-deduttivo. In un punto del Dialogo egli sostiene ad esempio che «quello che l’esperienza e il senso ci dimostra si deve anteporre ad ogni discorso, ancorché ne paresse assai bene fondato», mentre in un altro luogo fa dire a Salviati che «senza esperienza son sicuro che l’effetto seguirà come vi dico, perché così è necessario che segua». Ma questa alternata e talora enfatizzata prevalenza dell’induzione sperimentale sulla deduzione teorica, o viceversa, non esclude la loro reciproca e indissolubile implicanza di fatto. Le «sensate esperienze» presuppongono sempre un riferimento alle «necessarie dimostrazioni», in quanto, in primo luogo, esse vengono assunte e rielaborate in un contesto matematico-razionale e quindi spogliate dei loro caratteri qualitativi e ridotte alla loro struttura puramente quantitativa. In secondo luogo, esse fin dall’inizio sono “cariche di teoria”, in quanto illuminate da un’ipotesi che le sceglie e le seleziona, fungendo, nei loro confronti, da freccia indicatrice e da setaccio discriminatore. È vero, ad esempio, che Galilei scoprì ignoti fenomeni astronomici basandosi sul senso della vista (potenziato dal telescopio), ma la decisione stessa di studiare i cieli e di puntare il cannocchiale su determinati fenomeni e di interpretarli in un certo modo deriva dalla preliminare accettazione dell’ipotesi copernicana. Anche le «necessarie dimostrazioni» presuppongono sempre un loro implicito o esplicito richiamo alle «sensate esperienze». In primo luogo, l’esperienza fornisce la base e lo spunto per le ipotesi poiché le stesse intuizioni “geniali” non nascono nel vuoto, ma a contatto con l’osservazione e lo studio dei fenomeni. In secondo luogo, intuizioni e ipotesi – che costituiscono il momento teorico delle scienze – acquistano validità solo per mezzo della conferma sperimentale. Infatti anche se quest’ultima sembra talora degradata a semplice verifica semi-superflua di una deduzione che ha già in sé le ragioni della propria verità, la sua importanza è fuori di dubbio, poiché per Galilei un’asserzione teorica risulta scientifica solo se verificata sperimentalmente (v. induzione e deduzione).

>

> sensate esperienze (momento osservativo e induttivo del sapere) La scienza secondo Galilei procede per >

Induzione e deduzione sono indissolubilmente congiunte e si richiamano a vicenda > necessarie dimostrazioni (momento ipotetico e deduttivo del sapere)

124

Capitolo 2 • Galilei

Certo, non sempre è possibile una verifica diretta. Ad esempio, nessuno può “verificare” il principio d’inerzia (ai tempi di Galilei, non essendo ancora stata inventata la macchina per il vuoto, non era neanche possibile osservare direttamente come nel vuoto tutti i gravi cadano con la stessa velocità). Tuttavia, risulta pur sempre possibile una verifica indiretta delle conseguenze che vengono “dedotte” dall’accettazione di tali principi. In altre parole, «non è necessario che tutte le proposizioni della teoria risultino aderenti ai fatti; è necessario invece che tutti i fatti del campo di fenomeni studiati risultino inquadrabili nella teoria»1. Ad esempio, il principio d’inerzia, sebbene non sia constatabile empiricamente, spiega con esattezza i movimenti che si osservano in natura. Si aggiunga inoltre che, tramite opportuni accorgimenti, risulta possibile, in laboratorio, avvicinarsi indefinitamente alla sua verifica. Ciò che si sta dicendo sulle «necessarie dimostrazioni» permette anche di afferrare meglio i rapporti e le differenze tra matematica pura e teoria fisica. Come si è visto, la matematica costituisce, per Galilei, la logica della fisica. Mentre la logica tradizionale, di tipo sillogistico, pur essendo utile per conoscere se i discorsi procedono concludentemente, non serviva a intuire nulla di nuovo, la matematica si pone come uno strumento di scoperta scientifica, poiché essa, con i suoi calcoli e le sue deduzioni, permette di avanzare nuove ipotesi sui fenomeni. E questo giustifica l’enorme importanza che la matematica riveste per la fisica. Infatti, grazie alla rivoluzione scientifica, la più astratta delle scienze trova applicazioni sorprendenti, divenendo il linguaggio e il metodo di lavoro della scienza. Tuttavia, mentre la matematica pura non ha bisogno, per essere vera, di venir “controllata” dall’esperienza, la deduzione matematica, in fisica, ha valore scientifico solo se trova riscontro nella realtà. Tutto questo discorso sulle relazioni intercorrenti tra ragionamento e attestazione dei sensi, teoria ed esperimento, matematica pura e fisica – che costituisce il nodo centrale del metodo galileiano – trova la sua più chiara e compiuta espressione nella lettera scritta a Pietro Carcavy il 5 giugno 1637. In questo documento, che è forse il più prezioso che possediamo circa il metodo di Galilei, lo scienziato, facendo riferimento ai Discorsi, di prossima pubblicazione, scrive:

Verifica diretta e verifica indiretta

L’importanza della matematica per la fisica

La lettera a Carcavy

Io argomento ex suppositione, figurandomi un moto verso un punto, il quale partendosi dalla quiete vada accelerandosi, crescendo la sua velocità con la medesima proportione con la quale cresce il tempo; e di questo tal moto io dimostro concludentemente molti accidenti; soggiungo poi che, se l’esperienza mostrasse che tali accidenti si ritrovassero verificarsi nel moto dei gravi naturalmente descendenti, potremmo senza errore affermare questo essere il moto medesimo che da me fu definito e supposto; quando che no, le mie dimostrazioni fabbricate sopra la mia supposizione niente perdevano della sua forza e concludenza; si ché come niente progiudica alle conclusioni dimostrate da Archimede circa la spirale il non ritrovarsi in natura mobile che in quella maniera spiralmente si muova. Ma nel moto figurato da me è accaduto che tutte le passioni che io ne dimostro si verificano nel moto dei gravi naturalmente descendenti.

Esperienza e verifica Da queste note sul metodo emerge chiaramente come in Galilei i concetti di esperienza e verifica assumano un significato inconfondibile e originale rispetto al passato. 1 L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1976, p. 205.

125

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Esperienza scientifica ed esperienza immediata

IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Caravaggio e la rivoluzione scientifica, p. 146 I tratti della verifica scientifica

L’esperienza di cui parla lo scienziato pisano non è l’esperienza immediata, ma il frutto di un’elaborazione teorico-matematica dei dati, che si conclude con la verifica. Di conseguenza, l’esperienza ordinaria è qualcosa di ancora ben lontano dalla scienza di Galilei: ■■■ in primo luogo, perché l’esperienza quotidiana può essere ingannevole, tant’è vero che Galilei ha dovuto combattere tutta la vita contro le «apparenze» immediate dei fenomeni, che sembravano attestare tesi opposte a quelle della scienza (ad esempio, che la Terra stesse ferma e che i corpi cadessero con velocità differenti). «Mi par duro a credere – esclama Simplicio nei Discorsi – che una lagrima di piombo si abbia a muovere così veloce come una palla di artiglieria», ed è noto come ancor oggi chi inizia a studiare la fisica faccia spesso una certa fatica a impadronirsi dei concetti di base della meccanica, dovendo staccarsi dalle apparenze sensibili. Con Galilei comincia in tal modo ad affermarsi quel divorzio tra mondo della fisica e mondo comune che è una caratteristica della scienza moderna; ■■■ in secondo luogo, perché l’esperienza, di per sé, non ha valore scientifico se non viene legittimata dall’esperimento, al punto che si può dire che l’esperienza, scientificamente intesa, è l’esperimento. Analogamente, la verifica di cui parla Galilei non è quella immediata dei sensi, che può confermare teorie erronee, bensì la verifica intesa come procedura complessa, intenzionalmente volta a creare le necessarie condizioni affinché un certo evento possa prodursi. Infatti, essendo ogni fenomeno una realtà complessa, soggetta a molte influenze, lo scienziato deve cercare di riprodurlo in modo semplificato, astraendo il più possibile dalle circostanze disturbanti (ad esempio, eliminando il più possibile l’attrito). Detto in termini galileiani: quando il filosofo geometra [il fisico matematico] vuol riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i computi aritmetici. (Dialogo sopra i due massimi sistemi)

Lo scienziato è dunque costretto a trovare condizioni “su misura”, che spesso non esistono nella realtà, ma solo in laboratorio, e talvolta neanche in un laboratorio reale, ma solo in uno ideale (come succede ad esempio per il principio d’inerzia). Gli esperimenti mentali

126

Da ciò il ricorso ai celebri (e tanto discussi) “esperimenti mentali”, a cui abbiamo già accennato: trovandosi talvolta a non avere la possibilità di effettuare concretamente la verifica delle proprie teorie – soprattutto per mancanza di strumenti tecnici adeguati –, Galilei è costretto a ricorrere a una sorta di fisica “ideale”, non solo per formulare le ipotesi, ma anche per verificarle. Egli “suppone” infatti l’assenza di forze, “immagina” piani perfettamente levigati, “si raffigura” il movimento nel vuoto ecc. Ad esempio, per confutare la teoria aristotelica della caduta dei gravi escogita, come si è visto, uno dei più famosi esperimenti teorici della storia della scienza: quello dei due corpi che, pur unendosi nella caduta, continuano ad avere la medesima velocità. La stessa cosa avviene per il principio d’inerzia e per altre scoperte. Ovviamente gli esperimenti ideali di Galilei, che fanno parte integrante del suo metodo, non escludono affatto (come emerge ad esempio dalla lettera a Carcavy) il ricorso all’esperienza, e ciò in base al principio che una teoria è veramente scientifica solo quando trovi una diretta o indiretta verifica sperimentale.

Capitolo 2 • Galilei

ConCetti

La conoscenza

a Confronto

in Campanella

in Galilei

si fonda sulla sensibilità, cioè sul sapere originario dell’anima che “sente” se stessa e le proprie modificazioni

si fonda sulle «sensate esperienze» e sulle «necessarie dimostrazioni»

si sviluppa mediante conoscenze acquisite prodotte dalle cose esterne

si costruisce mediante la formulazione di ipotesi e la loro verifica

si serve dei sensi per correggere le conoscenze incerte

si serve dell’esperimento («cimento»), cioè di un’osservazione orientata dalla ragione, per correggere le conoscenze errate

Schema interattivo

5. Metodo e filosofia Con il suo metodo Galilei perviene a quella struttura concettuale che costituisce lo schema teorico della scienza moderna: la natura è un ordine oggettivo e causalmente strutturato di relazioni governate da leggi e la scienza è un sapere sperimentale-matematico intersoggettivamente valido. In particolare, contro ogni considerazione finalistica e antropocentrica del mondo, Galilei afferma che le opere della natura non possono essere giudicate con un metro puramente umano, cioè sulla base di ciò che l’uomo può intendere o di ciò che a lui torna utile. È arroganza, anzi pazzia, da parte dell’uomo, dichiarare inutili quegli elementi naturali di cui egli non comprende l’utilità ai propri fini. Noi non sappiamo a che cosa servano Giove o Saturno e non sappiamo neppure a che cosa servano alcune parti del nostro stesso corpo che non sapremmo neppure di avere se non ci fossero mostrate dagli anatomisti. I nostri pareri o consigli non riguardano la natura e non hanno valore per essa le nostre ragioni probabili. Di conseguenza, non dobbiamo cercare perché la natura opera in un certo modo (causa finale), ma solo come opera (causa efficiente). Analogamente, contro ogni fisica essenzialista che pretenda di spiegare i fatti in base alle “essenze” o alle “virtù” (l’essenza del moto, la virtù del calore ecc.), Galilei ribatte che lo scienziato deve occuparsi esclusivamente delle leggi che regolano i fatti, ossia delle verificabili costanti di comportamento attraverso cui la natura agisce. Con questo discorso Galilei non intende negare, in assoluto, l’esistenza di finalità e di essenze, ma semplicemente accantonarle, ritenendone metodologicamente non-scientifica la ricerca, non essendo dato alla mente di conoscerle:

La struttura concettuale della scienza galileiana

Il rifiuto del finalismo

Il rifiuto dell’essenzialismo

Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno impossibile e per fatica non men vana nelle prossime sostanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me pare essere egualmente ignaro della sostanza della Terra che della Luna.

127

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Presupposti e giustificazioni filosofiche del metodo La struttura concettuale del metodo galileiano si presenta come una costruzione autonoma, che vale di per sé, indipendentemente da possibili giustificazioni filosofiche. Tuttavia, nella mente di Galilei essa si accompagna, di fatto, ad alcuni schemi di natura teorico-filosofica, che ne fungono, al tempo stesso, da motivi ispiratori e da giustificazioni speculative. In altre parole, Galilei, pur non essendo un filosofo e pur non avendo mai proceduto a una fondazione sistematica del proprio metodo, si è ispirato, in concreto, ad alcune idee generali di tipo “filosofico”, attinte per lo più dalla tradizione o da dottrine a lui contemporanee, ma rielaborate in modo originale. La struttura matematica del cosmo

ECHI DEL PENSIERO L’idea galileiana del mondo come libro, p. 140 Proprietà oggettive e proprietà soggettive dei corpi

La fiducia galileiana nella matematica, ad esempio, è incentivata e convalidata al tempo stesso dalla dottrina platonico-pitagorica della struttura matematica del cosmo, ossia dalla persuasione che la “fattura” reale del mondo sia di tipo geometrico. ➔ T1 p. 142 Solo chi conosce il linguaggio matematico risulta pertanto in grado di decifrarla: La filosofia è scritta in questo grandissimo libro, che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’Universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto. (Il Saggiatore)

Il privilegiamento degli aspetti quantitativi del reale e la riduzione dell’oggetto scientifico a struttura matematicamente trattabile vengono corroborati dal ricorso alla distinzione atomistico-democritea tra proprietà oggettive e soggettive dei corpi: proprietà che John Locke (v. unità 5, cap. 3) chiamerà “qualità primarie” e “qualità secondarie”. Le prime caratterizzano i corpi in quanto tali, le seconde esistono solo in relazione ai nostri sensi. Infatti quantità, figura, grandezza, luogo, tempo, movimento, quiete, contatto, distanza, numero sono proprietà inseparabili dai corpi materiali; mentre sapori, odori, colori, suoni sussistono solo negli organi sensibili, ma non sono caratteri oggettivi dei corpi, sebbene siano prodotti da essi. Galilei paragona queste ultime qualità al solletico, che, sebbene prodotto da una piuma, non è una qualità della piuma. ➔ T2 p. 144 Riassumendo il tutto con le caratteristiche parole dello scienziato: stimo che, tolti via gli orecchi, le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso. (Il Saggiatore)

L’uniformità della natura

128

La credenza nella validità del rapporto causale e delle leggi generali scoperte dalla scienza, basate sul principio secondo il quale a cause simili corrispondono necessariamente effetti simili, viene suggerita e avvalorata dalla persuasione dell’uniformità dell’ordine naturale, che seguendo un corso sempre identico a se stesso risulta necessario e immutabile come una verità geometrica.

Capitolo 2 • Galilei

La fiducia nella verità assoluta della scienza viene confortata mediante la teoria secondo cui conoscenza umana e conoscenza divina, pur differenziandosi tra loro per il modo di apprendere e per la quantità delle nozioni possedute, risultano simili per il grado di certezza. Infatti, mentre Dio conosce la verità intuitivamente, cioè in modo immediato, l’uomo la conquista progressivamente attraverso il ragionamento discorsivo. Inoltre, Dio conosce tutte le infinite verità, mentre l’uomo solo alcune di esse. Tuttavia, per quanto riguarda le dimostrazioni matematiche, la qualità della certezza è identica (poiché, ad esempio, 2 + 2 = 4 tanto per noi quanto per Dio). Pertanto, come puntualizza Ernst Cassirer, in Galilei «Non c’è una conoscenza dell’assoluto, ma ci sono bensì conoscenze assolutamente certe»1.

L’uomo e Dio conoscono la verità con lo stesso grado di certezza

Sintesi audio Il metodo galileiano e i suoi presupposti filosofici

Il “realismo” di Galilei Questo gruppo asistematico di giustificazioni filosofiche poggia, a ben vedere, su di un’unica credenza di base, che sta a monte del lavoro scientifico di Galilei e di ogni suo tentativo di legittimazione teorica: la corrispondenza tra pensiero ed essere, ossia la conformità tra ciò che la scienza sostiene e il mondo quale veramente è. Come scrive Cassirer nell’opera citata: «L’accordo generale fra matematica e natura, l’armonia fra il pensiero e la realtà è per lui una convinzione soggettiva, anteriore ad ogni riflessione filosofica» (p. 427). In Galilei vi è infatti una tenace fiducia realistica che lo porta a interpretare il rapporto tra scienza e realtà in termini di riproduzione o rispecchiamento. Ad esempio, in astronomia egli ha sempre rifiutato di essere considerato un semplice matematico, o “calcolista”, ritenendosi uno studioso di fisica celeste, cioè un “matematico e filosofo” al tempo stesso, dove il termine “filosofo”, usato secondo la prassi dei suoi tempi, sta a indicare la portata ontologica, e non puramente matematica o astratta delle sue teorie. Ed è proprio questo uno dei motivi di fondo dello scontro con la Chiesa cattolica e con Bellarmino, che volevano invece “obbligarlo” a parlare del copernicanesimo in termini puramente ipotetici, sulla scia di Osiander. E tale convinzione realistica, nell’uomo e nello scienziato Galilei, è così forte da non lasciarsi scalfire neppure dalle insidie logiche della cosiddetta “argomentazione di Urbano VIII” (che Galilei, nel Dialogo, mette in bocca a Simplicio, definendola opportunisticamente «mirabile e veramente angelica»), secondo cui lo studioso, non conoscendo le «infinite vie» del Creatore, non può mai essere sicuro che una sua teoria corrisponda veramente al modo seguito da Dio nell’ordinare le cose, e deve quindi accontentarsi di parlare per sole «ipotesi». Ovviamente, mentre il ragionamento di Urbano VIII, che affondava le sue radici nella tarda scolastica, era stato escogitato dall’esterno per deprimere le “superbie” della nuova scienza, la fiducia realistica di Galilei nasceva dall’interno della sua opera di ricercatore e più che di argomentazioni teoriche si alimentava dei successi della scienza. In tal modo, però, Galilei lasciava ai filosofi successivi – insoddisfatti delle sue “giustificazioni”, ritenute

La corrispondenza tra scienza e realtà

1 E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, trad. it. di L. Tosti, Mondadori, Milano 1968, p. 449.

129

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Approfondimento L’importanza di Galilei nella storia della filosofia

un po’ grezze e semplicistiche – grossi problemi teorici e gnoseologici, su cui si sarebbero arrovellate molte menti.

LA METODOLOGIA GALILEIANA > il valore delle matematiche Respinge il finalismo (a favore delle cause meccaniche) e l’essenzialismo (a favore della ricerca delle leggi), giustificando

> lo studio delle quantità

> della struttura matematica del cosmo con le teorie

> la validità del principio di causa > la verità della scienza

> della distinzione tra proprietà oggettive e soggettive > dell’uniformità della natura > dell’identica certezza tra conoscenza umana e conoscenza divina

Alla base del lavoro scientifico di Galilei sta la fiducia realistica nella corrispondenza tra pensiero ed essere, tra scienza e realtà

6. Il processo Le polemiche del passato

La nuova attenzione storica ai fatti

Per lungo tempo, e in particolare nel XIX secolo, la condanna di Galilei è stata avvolta nei fumi delle polemiche tra filo-clericali e anti-clericali, tesi gli uni a “comprendere” il comportamento della Chiesa cattolica e a minimizzare la vicenda, gli altri, soprattutto in età risorgimentale e positivista, a “denigrare” la Chiesa, utilizzando il caso di Galilei come atto d’accusa nei confronti dell’“oscurantismo religioso”. Nel XX secolo, essendosi sopite le polemiche, anche se non del tutto ed essendoci stata una riabilitazione di Galilei da parte della Chiesa (attuata sotto il pontificato di Giovanni Paolo II: v. p. 133), la diatriba passionale e di parte sembra aver ceduto il passo all’atteggiamento più equilibrato e scientifico dell’attenzione storica ai fatti.

Le prime accuse da parte del clero e l’ammonizione del 1616 L’attacco dei domenicani

130

Sebbene gli aristotelici pisani e padovani avessero cominciato a guardare con crescente irritazione il copernicanesimo galileiano, le prime consistenti reazioni polemiche nei confronti di Galilei provennero dal clero. Mentre i gesuiti – che all’inizio avevano confermato di fatto, tramite i loro astronomi, le scoperte divulgate nel Sidereus nuncius – mantenevano un atteggiamento globalmente prudente, nonostante le controversie interpretative di Galilei con padre Clavio (a proposito delle macchie lunari) e con padre Scheiner (a proposito delle macchie solari), i domenicani cominciarono ad attaccare apertamente. Uno di loro, Niccolò

Capitolo 2 • Galilei

Lorini, in una predica del 1612, accusò di eresia i copernicani. Lo stesso fece Tommaso Caccini nel 1615. Nel febbraio del 1616 Lorini, prendendo spunto dalla lettera di Galilei a don Benedetto Castelli, citò lo scienziato presso il Santo Uffizio, denunciandone sia il copernicanesimo, sia il modo di intendere il rapporto tra la scienza e le sacre scritture. Il preoccupante estendersi delle polemiche dal piano astronomico-matematico a quello fisico e, infine, a quello religioso, indusse il Santo Uffizio – cui erano note tra l’altro le ardite generalizzazioni bruniane – a passare la “faccenda copernicana” ai teologi. Questi, il 24 febbraio 1616, dichiararono all’unanimità: a) «assurda e falsa in filosofia» e «formalmente eretica» la tesi eliocentrica; b) «assurda e falsa in filosofia» e «per lo meno erronea nella Fede» la mobilità della Terra. In seguito, il 3 marzo 1616, vennero poste all’indice le opere di Copernico e di altri copernicani, ma non si fece cenno a Galilei, dato che le sue “lettere copernicane”, pur essendo abbastanza note, costituivano un fatto di natura privata. Frattanto, il 26 febbraio, Galilei veniva convocato, per ordine di Paolo V, dal cardinale Bellarmino e formalmente “ammonito”, tra l’ufficiale e il privato, in circostanze non del tutto chiare. Il verbale della seduta – che sarà di grande rilievo per il processo del 1633 – è contenuto nell’incartamento segreto dell’Inquisizione e verso la fine, in traduzione italiana, suona in questo modo: il Commissario «fece precetto ed ingiunzione a detto Galilei ancor presente e costituito, in nome del Papa e di tutta la Congregazione del Santo Uffizio, di abbandonare detta opinione [quella copernicana], né altrimenti in qualsiasi modo [quovis modo] di tenerla, insegnarla o difenderla a voce o per iscritto; che altrimenti si procederebbe contro di lui da parte del Sant’Uffizio. Al quale precetto Galilei acconsentì [acquievit] e promise di obbedire». Questo verbale, come del resto tutta la cornice legale della seduta, costituisce ancor oggi un autentico “giallo storico” della vicenda di Galilei. Infatti il foglio su cui è scritto ha l’aspetto di una minuta e di una trascrizione e per di più non reca firme né del notaio, né dei testimoni, né di Galilei (come avrebbe dovuto). Anzi, poiché nel fascicolo dell’Inquisizione, numerato ininterrottamente pagina per pagina, non si trova, in proposito, un documento “originale” e legalmente autentificato, e poiché i termini del verbale appariranno a Galilei, nel processo del 1633, «novissimi et come inauditi», parecchi storici sono giunti a negare l’esistenza di un vero e proprio precetto del 1616, ritenendo il verbale un falso “fabbricato” più tardi, per avere prove scritte contro Galilei1. Comunque, a parte il “giallo giuridico” di questa vicenda2 e a parte la controversia sulla seduta e sul verbale (se non tutti lo ritengono un falso, tutti sono però concordi nel sottolineare il vizio di forma di questa “ammonizione” – più che “processo”, come si continua impropriamente a chiamarla – del 1616), sappiamo che Galilei, dopo essere stato richiamato in

La condanna teologica delle teorie copernicane

L’ammonizione del 1616

Il “giallo storico” del verbale

Il “certificato” di Bellarmino

1 Per un’analisi minuziosa dei problemi relativi al verbale, cfr. G. De Santillana, Processo a Galileo, Mondadori, Milano 1960, soprattutto cap. VIII, pp. 266-292 e cap. XVI, pp. 498-515. 2 “Giallo” che appare ulteriormente complicato dalle tesi sostenute da Pietro Redondi in una voluminosa ricerca dal titolo Galilei eretico (Einaudi, Torino 1983). Basandosi sulla scoperta, nell’archivio romano del Santo Uffizio, di un documento del 1624 «mai prima cercato», Redondi sostiene in questo libro che dietro il movente ufficiale della condanna di Galilei ve ne sarebbe in realtà un altro, tenuto segreto per ragioni politiche ed ecclesiastiche, e consistente nel fatto che lo scienziato, per certe sue idee di tipo «atomista e nominalista» (p. 416), avrebbe violato il dogma tridentino della transustanziazione eucaristica.

131

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

qualche modo dal cardinale Bellarmino circa le teorie copernicane, richiese e ottenne da quest’ultimo un “certificato” da opporre alle invenzioni e alle calunnie che già circolavano sul suo conto. Da questo documento si apprende che lo scienziato, sebbene «calunniato o imputato di aver abiurato in nostra mano, e anco di essere stato perciò penitenziato a penitenzie salutari […] non ha abiurato […] né manco ha ricevuto penitenzie salutari […], ma solo gli è stata denunciata la dichiarazione […] nella quale si contiene che la dottrina attribuita al Copernico […] sia contraria alle Sacre Scritture, e però non si possa né difendere né tenere». In altre parole, stando a questo scritto, Galilei, nel 1616, risulta essere stato “ammonito” di non «difendere né tenere» la teoria copernicana, senza con ciò che egli abbia «abiurato» la medesima o abbia ricevuto «penitenzie salutari».

La condanna del 1633 e l’abiura del copernicanesimo La pubblicazione del Dialogo e i guai con l’Inquisizione

Galilei prigioniero presso il Santo Uffizio a Roma

Gli interrogatori

132

Dopo anni di “silenzio” pubblico sul copernicanesimo, nel 1632 Galilei, incoraggiato dall’elezione di papa Urbano VIII, pubblicò il Dialogo, ricorrendo, come si è visto, allo stratagemma di presentare in maniera “obiettiva” i due più grandi sistemi astronomici della storia. Ma la stizza di Urbano VIII, convinto dagli avversari di Galilei di essere stato preso in giro dallo scienziato nella figura di Simplicio, assertore della «mirabile e veramente angelica dottrina» di cui si è detto, fece sì che la situazione precipitasse e che l’inquisitore di Firenze desse ordine di sospendere immediatamente la diffusione dell’opera. Pertanto, nell’ottobre del 1632 a Galilei venne intimato di trasferirsi a Roma e di mettersi a disposizione del commissario generale del Santo Uffizio. Dopo aver cercato di prender tempo adducendo motivi di salute, Galilei, ormai vecchio e malaticcio, di fronte alla ferma determinazione dell’Inquisizione, fu costretto a recarsi a Roma. Dopo esser giunto nella città il 3 febbraio 1633 e aver soggiornato per un po’ di tempo in uno stato di quasi segregazione presso l’ambasciatore granducale, il 12 aprile dovette trasferirsi «come prigioniero» presso il Santo Uffizio, anche se, considerati l’età e gli acciacchi, non venne rinchiuso nelle carceri in cui avevano sofferto Bruno e Campanella, bensì in stanze più confortevoli. L’accusa più forte contro Galilei era di aver trasgredito il precetto del 1616 – che gli vietava d’insegnare o difendere in alcun modo la dottrina di Copernico – e di non averne fatto cenno a padre Riccardi, il censore pontificio che aveva concesso l’imprimatur al Dialogo. Durante gli interrogatori, Galilei affermò più volte di non rammentare alcun precetto subìto alla presenza di testimoni e si appellò solo alla notifica di Bellarmino e al successivo attestato, nel quale non compariva alcun divieto di “insegnare” la teoria copernicana, ma si parlava solo della proibizione di «difendere e tenere» tale dottrina. Trovandosi a malpartito e senza testimoni (Bellarmino era morto nel 1621), invece di negare valore giuridico al documento del 1616 – minuta priva di firme –, lo scienziato pensò di aggirare le manovre degli inquisitori sostenendo, con un’ingenua quanto plateale bugia, che nel Dialogo non solo non aveva voluto insegnare il copernicanesimo, ma aveva inteso adoprarsi a mostrare la sua erroneità. Questa dichiarazione mise subito Galilei nelle mani dei suoi giudici, che ebbero buon gioco nel dimostrargli, Dialogo alla mano, la sua menzogna. Galilei modificò allora la sua posizione e ammise di essere andato contro l’ammonizione e di aver preso le difese del sistema copernicano (anche se continuò sempre a ribadire che i termini del verbale del 1616 gli suonavano «novissimi et come inauditi»).

Capitolo 2 • Galilei

Dopo un po’ di tempo e dopo un altro interrogatorio, il 22 giugno 1633 gli inquisitori emisero la loro definitiva sentenza, che verso la fine suona in questi termini:

La sentenza

Diciamo, pronunziamo, sentenziamo e dichiariamo che tu, Galilei sudetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Off.° veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole sia centro della Terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo, e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e diffinita per contraria alla Sacra Scrittura; e conseguentemente sei incorso in tutte le censure e pene dai sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Dalle quali siamo contenti sii assoluto, pur che prima, con cuor sincero e fede non finta, avanti di noi abiuri, maledichi e detesti li sudetti errori e eresie, e qualunque altro errore e eresia contraria alla Cattolica e Apostolica Chiesa, nel modo e forma che da noi ti sarà data.

Nello stesso giorno, Galilei, in ginocchio davanti ai cardinali della Congregazione, pronunciò la sua abiura del copernicanesimo. Ecco una parte del testo:

L’abiura

Pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze Vostre e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

La riabilitazione di Galilei e le odierne prese di posizione della Chiesa cattolica Giovanni Paolo II e le ragioni di Galilei. Che le disavventure di Galilei con l’Inquisizione abbiano diffuso un’immagine negativa e oscurantista della Chiesa cattolica è convinzione che fu sostenuta da papa Giovanni Paolo II, il quale il 3 luglio 1981 istituì una Commissione pontificia per lo studio della controversia tolemaico-copernicana (nella quale si inserisce il “caso Galilei”), affidandone il coordinamento prima al cardinale Garrone e quindi al cardinale Poupard. E ciò allo scopo di rivedere la questione e mettere in luce gli “errori”, da qualsiasi parte essi fossero stati commessi. Già nel discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, tenuto il 10 novembre 1979, il pontefice aveva sostenuto:

Una Commissione per un «leale riconoscimento dei torti»

La grandezza di Galileo è a tutti nota, come quella di Einstein; ma a differenza di questi, che oggi onoriamo di fronte al Collegio cardinalizio nel nostro palazzo apostolico, il primo ebbe molto a soffrire – non possiamo nasconderlo – da parte di uomini e organismi di Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto e deplorato certi indebiti interventi: «Ci sia concesso di deplorare – è scritto al n. 36 della Costituzione conciliare Gaudium et spes – certi atteggiamenti mentali, che talvolta non mancarono nemmeno tra i cristiani, derivati dal non avere sufficientemente percepito la legittima autonomia della scienza, e che, suscitando contese e controversie, trascinarono molti spiriti a tal punto da ritenere che scienza e fede si oppongano tra loro».

133

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

A ulteriore sviluppo di quella presa di posizione del Concilio, io auspico che teologi, scienziati e storici, animati da uno spirito di sincera collaborazione, approfondiscano l’esame del caso Galileo e, nel leale riconoscimento dei torti, da qualunque parte provengano, rimuovano le diffidenze che quel caso tuttora frappone, nella mente di molti, alla fruttuosa concordia tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo. A questo compito, che potrà onorare la verità della fede e della scienza, e dischiudere la porta a future collaborazioni, io assicuro tutto il mio appoggio. I punti di incontro tra Galileo e la Chiesa

I risultati della Commissione

134

Nel suo discorso, Giovanni Paolo II si era quindi soffermato a mettere in luce gli aspetti che accomunano le posizioni galileiane e quelle cattoliche: ■■■ la tesi della complementarità di ragione e fede e la convinzione che i risultati della prima non potranno mai contraddire le verità della seconda sono sostenute da Galilei, ma anche dal Concilio Vaticano II: «La ricerca metodica di ogni disciplina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio» (Gaudium et spes, n. 36); ■■■ inoltre Galileo avverte nella sua stessa ricerca scientifica la presenza del Creatore, il quale stimola e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito. Ad esempio, all’inizio del Sidereus nuncius egli menziona il carattere illuminante della grazia divina: «Tutte queste cose sono state scoperte e osservate in questi ultimi giorni per mezzo del telescopio escogitato da me, in precedenza illuminato dalla grazia divina». E questa stessa posizione traspare dalla Gaudium et spes; ■■■ infine, pur riconoscendo la necessità di un’interpretazione dei libri sacri che vada al di là del loro senso letterale, nella lettera a Cristina di Lorena riafferma la verità della Scrittura: «non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che sia penetrato il suo vero sentimento, il quale non credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole» (Le opere di Galileo Galilei, edizione nazionale a cura di A. Favaro, Giunti, Firenze 1998, vol. V, p. 315). Anche questo principio è asserito dalla Chiesa e formulato in termini espliciti da Pio XII. La Commissione istituita da Giovanni Paolo II documentò in primo luogo come, all’interno della Chiesa, già ai tempi di Galilei vi fossero posizioni diversificate, e non una massiccia e indiscutibile condanna del copernicanesimo. Ad esempio, in una lettera del 12 aprile 1615 indirizzata a Paolo Antonio Foscarini, il cardinale Bellarmino si chiede se l’astronomia copernicana sia vera, nel senso che si fondi su prove verificabili, o se invece si basi soltanto su congetture, e se le tesi copernicane siano compatibili con gli enunciati delle Scritture. Cautamente, il cardinale scrive: «Dico che quando ci fusse vera demostratione che il sole stia nel centro del mondo e la terra nel 3° cielo, e che il sole non circonda la terra, ma la terra circonda il sole, allora bisogneria andar con molta consideratione in esplicare le Scritture che paiono contrarie, e più tosto dire che non l’intendiamo, che dire che sia falso quello che si dimostra». In secondo luogo, la Commissione affermò che Galileo non era riuscito a provare in maniera inconfutabile il doppio moto della Terra – la sua orbita annuale intorno al Sole e la sua rotazione giornaliera intorno all’asse dei poli –, pur avendo la convinzione di averne trovata la prova nelle maree oceaniche, delle quali soltanto Newton avrebbe dimostrato la vera origine.

Capitolo 2 • Galilei

Nello stesso tempo, però, la Commissione ammise che, dal canto loro, anche gli avversari di Galilei non avevano, né prima né dopo di lui, scoperto nulla che potesse costituire una confutazione convincente dell’astronomia copernicana. In questo senso, furono i fatti successivi a imporsi, facendo emergere il carattere relativo e riformabile della sentenza pronunciata nel 1633: già nel 1741, di fronte alla prova ottica della rotazione della Terra intorno al Sole, Benedetto XIV fece infatti concedere dal Santo Uffizio l’imprimatur alla prima edizione delle Opere complete di Galilei. E i successivi atti ufficiali della Chiesa cattolica seguirono la medesima direzione: ■■■ nel 1757 un decreto della Sacra Congregazione dell’Indice ritirò dal catalogo dei libri proibiti le opere a favore della teoria eliocentrica; ■■■ nel 1820 il canonico Settele, professore presso l’Università “La Sapienza” di Roma, mentre si apprestava a pubblicare i suoi Elementi di ottica e di astronomia, si scontrò con il rifiuto di padre Anfossi, Maestro del Sacro Palazzo, di concedergli l’imprimatur. Lo studioso si appellò allora a Pio VII, dal quale ricevette nel 1822 una risposta positiva; ■■■ successivamente, padre Olivieri, già Maestro Generale dei Frati Predicatori e Commissario del Santo Uffizio, redasse una relazione favorevole alla concessione dell’imprimatur anche a quelle opere che esponevano l’astronomia copernicana come tesi e non più solo come ipotesi. Nel 1846 questa serie di passi in avanti si concretizzò nella pubblicazione di un nuovo indice aggiornato dei libri proibiti. Da tutti questi fatti e da altri ancora la Commissione concluse (secondo la sintesi del cardinale Poupard) come segue: È in questa congiuntura storico-culturale, ben lontana dal nostro tempo, che i giudici di Galileo, incapaci di dissociare la fede da una cosmologia millenaria, credettero a torto che l’adozione della rivoluzione copernicana, peraltro non ancora definitivamente provata, fosse tale da far vacillare la tradizione cattolica e che fosse loro dovere il proibirne l’insegnamento. Questo errore soggettivo di giudizio, così chiaro per noi oggi, li condusse ad adottare un provvedimento disciplinare di cui Galileo «ebbe molto a soffrire». Bisogna riconoscere questi torti con lealtà.

Alla luce di tutte queste considerazioni, Giovanni Paolo II concluse che la Chiesa – per insormontabili limiti storici – aveva sbagliato nei confronti di Galilei. In tale contesto il pontefice riproponeva la tesi tomista dell’autonomia di scienza e fede (secondo cui la ragione, se ben condotta, non può contraddire la rivelazione) per sostenere che l’autentica dottrina della Chiesa è sempre pienamente compatibile con la scienza moderna. Nel Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze del 31 ottobre 1992 Giovanni Paolo II asseriva infatti:

Scienza e fede secondo Giovanni Paolo II

In virtù della missione che le è propria, la Chiesa ha il dovere di essere attenta alle incidenze pastorali della sua parola. Sia chiaro anzitutto che questa parola deve corrispondere alla verità. Ma si tratta di sapere come prendere in considerazione un dato scientifico nuovo quando esso sembra contraddire delle verità di fede. Il giudizio pastorale che richiedeva la teoria copernicana era difficile da esprimere nella misura in cui il geocentrismo sembrava far parte dell’insegnamento stesso della Scrittura. Sarebbe stato necessario contemporaneamente vincere delle abitudini di pensiero ed inventare una pedagogia capace di illuminare il popolo di Dio. […] Se la cultura contemporanea è segnata da una tendenza allo scientismo,

135

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

l’orizzonte culturale dell’epoca di Galileo era unitario e recava l’impronta di una formazione filosofica particolare. […] La maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione, il che li condusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica. […] A partir dal secolo dei Lumi fino ai nostri giorni, il caso Galileo ha costituito una sorta di mito, nel quale l’immagine degli avvenimenti che ci si era costruita era abbastanza lontana dalla realtà. In tale prospettiva il caso Galileo era il simbolo del preteso rifiuto, da parte della Chiesa, del progresso scientifico, oppure dell’oscurantismo “dogmatico” opposto alla libera ricerca della verità. Questo mito ha giocato un ruolo culturale considerevole; esso ha contribuito ad ancorare parecchi uomini di scienza in buona fede all’idea che ci fosse incompatibilità tra lo spirito della scienza e la sua etica di ricerca, da un lato, e la fede cristiana, dall’altro. Una tragica reciproca incomprensione è stata interpretata come il riflesso di una opposizione costitutiva tra scienza e fede. Le chiarificazioni apportate dai recenti studi storici ci permettono di affermare che tale doloroso malinteso appartiene ormai al passato.

Papa Benedetto XVI e le ragioni dell’Inquisizione. In una conferenza tenuta a Roma il 15 febbraio 1990, presso l’Università “La Sapienza” (Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti, Edizioni Paoline, Roma 1992), l’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca Prefetto della Sacra Congregazione per la Dottrina della fede, sostenne nuovamente l’intrinseca razionalità della fede e la sua piena compatibilità con la scienza. Riferendosi ad alcune interpretazioni filosofiche della teoria galileiana, Ratzinger citò il filosofo austriaco Paul K. Feyerabend (1924-1994), secondo il quale «La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione». La polemica del 2008

136

La citazione di Feyerabend (tratta dal suo celebre saggio Contro il metodo) diede origine a una polemica politica che investì la stampa e il mondo di Internet e che fu ripresa nel gennaio del 2008, quando Ratzinger, ormai divenuto papa con il nome di Benedetto XVI, avrebbe dovuto inaugurare l’anno accademico dell’Università “La Sapienza”. In quell’occasione, si produsse una netta divisione tra chi aveva inteso le parole del pontefice come una giustificazione tout court della condanna di Galilei e chi invece sosteneva che in esse vi fosse un simultaneo distacco dalle tesi relativistiche di Feyerabend: ■■■ per i primi il papa, contestualizzando il processo a Galilei in un’epoca in cui la stessa scienza non aveva ancora elaborato la certezza dell’erroneità della posizione tolemaica, avrebbe di fatto “salvato” il comportamento della Chiesa, la quale non avrebbe agito per interessi ideologici precostituiti e con l’obiettivo di inibire la libertà della ricerca scientifica, ma, più semplicemente, si sarebbe attenuta alle più diffuse nozioni scientifiche del tempo. In tal modo, il pontefice avrebbe quindi “giustificato” la condanna e l’opera censoria della Chiesa nei confronti di Galileo; ■■■ per i secondi, invece, il papa avrebbe difeso la razionalità galileiana contro lo scetticismo e il relativismo della cultura contemporanea, rappresentati da Feyerabend. A sostegno di

Capitolo 2 • Galilei

questa tesi, essi richiamarono alcuni interventi in cui Benedetto XVI aveva mostrato di considerare con ammirazione la celebre affermazione di Galilei secondo cui il libro della natura è scritto nel linguaggio della matematica.

Il “caso Galilei” oggi. Attualmente la Chiesa cattolica considera sostanzialmente chiuso il “caso Galilei”. In coerenza con gli intendimenti di papa Giovanni Paolo II, il riconoscimento “ufficiale” degli errori commessi si accompagna alla volontà di depurare il panorama culturale da quelle “strumentalizzazioni”, nate soprattutto a partire dall’Illuminismo, che hanno trasformato il processo a Galilei in un’arma contro la Chiesa e la fede. Ne deriva una nuova valutazione complessiva dell’immagine dello scienziato, che, proprio per essere stato egli stesso una vittima, è proposto come simbolo della ricerca di un fecondo dialogo tra scienza e fede. In quest’ottica devono essere letti anche gli interventi di Benedetto XVI, che, in vista del 2009 (anno galileiano) ha ricordato lo studioso pisano sia durante l’Angelus del 21 dicembre 2008, data del solstizio d’inverno, sia nella solennità dell’Epifania, il 6 gennaio 2009, quando ha parlato della stella dei Magi. Galilei è ormai presentato come uno scienziato cattolico e come modello della possibile integrazione tra scienza e fede. Domenica 15 febbraio 2009, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, si è svolta una messa solenne in suo onore, promossa dalla Federazione mondiale degli scienziati (guidata da Antonino Zichichi) e celebrata da monsignor Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Durante la messa è stato anche letto un saluto del Segretario di Stato vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone, dove fra l’altro si afferma: «Galileo è stato chiamato a ragione “divin uomo”, perché ha saputo leggere e studiare la scienza attraverso gli occhi della fede». Il sottosegretario del Pontificio Consiglio per la Cultura, monsignor Melchor Sánchez de Toca (coautore di uno studio intitolato Galileo e il Vaticano, che approfondisce i “miti” legati al caso Galilei), ha recentemente affermato: «In realtà il caso Galileo non è mai stato abbandonato: è sempre rimasto aperto. Ciò che ha voluto fare Giovanni Paolo II è stato invitare la Chiesa a gettare luce su questo caso e soprattutto invitare tutta la comunità scientifica e la Chiesa a rimuovere gli ostacoli del passato». In questa direzione va intesa anche la pubblicazione di una nuova edizione degli atti del processo, curata da monsignor Sergio Pagano, prefetto dell’Archivio segreto vaticano, e presentata in Vaticano il 2 luglio 2009, che integra la precedente che risale al 1984. Questa nuova edizione si caratterizza per una maggiore fedeltà agli atti originali del processo, un’ampia introduzione, un’accreditata bibliografia, numerose annotazioni storiche e biografiche, e per il fatto di contenere venti documenti inediti, ritrovati dopo il 1984. Il fermento appare insomma più vivo che mai. Il “nuovo corso” impresso alla questione galileiana dalle iniziative ufficiali del Vaticano, che nel 2009 ha voluto ricordare la figura di Galilei con concerti, celebrazioni liturgiche e congressi, ha insomma suscitato numerose prese di posizione, favorevoli e contrarie, contribuendo a rendere sempre più precisi e documentati gli studi, su qualsiasi versante essi si collochino, e aprendo il dibattito storiografico a possibili ulteriori sviluppi.

Un caso ormai chiuso…

… e un caso sempre aperto

137

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

GLOSSARIO e RIEPILOGO Galilei Scienza e fede p. 114 > Secondo Galilei, la natura (oggetto della scienza) e la Bibbia (base della religione) derivano entrambe da Dio, pertanto non possono oggettivamente contraddirsi tra loro. Eventuali contrasti sono soltanto apparenti (Galilei nega la teoria della doppia verità) e vanno risolti rivedendo l’interpretazione della Bibbia. Infatti, se la Bibbia è arbitra nel campo etico-religioso, la scienza è arbitra nel campo delle verità naturali, in rapporto alle quali non è la scienza che deve adattarsi alle Scritture, ma l’interpretazione di queste che deve adattarsi alla scienza.

Il metodo della scienza p. 122 > Galilei tende a distinguere nel lavoro della scienza due parti fondamentali: il momento risolutivo, o analitico, e quello compositivo, o sintetico. Il primo consiste nel risolvere un fenomeno complesso nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili, formulando un’ipotesi matematica sulla legge che lo governa. Il secondo consiste nella verifica e nell’esperimento, attraverso cui si tenta di riprodurre artificialmente il fenomeno, in modo tale che l’ipotesi venga accolta e trasformata in legge se supera la prova, o sostituita da un’altra ipotesi in caso contrario.

Sensata esperienza p. 123 > Con l’espressione «sensata esperienza» (letteralmente: “esperienza dei sensi”) Galilei indica il momento osservativo-induttivo della scienza, consistente nell’indurre una legge generale attraverso l’osservazione e la ricognizione dei fatti e dei casi particolari. Questo è il momento più noto del metodo scientifico, detto appunto “sperimentale”.

Necessarie dimostrazioni p. 123 > Con l’espressione «necessarie dimostrazioni» (o «matematiche dimostrazioni») Galilei indica i ragionamenti logici, formulati su base matematica, che costituiscono il momento raziocinativo o ipotetico-deduttivo della scienza. Attraverso tali ragionamenti lo scienziato, partendo da un’intuizione di fondo e facendo riferimento anche solo a pochi dati empirici, formula in teoria le sue ipotesi, riservandosi di verificarle nella pratica. Induzione e deduzione p. 124 > Nel metodo scientifico galileiano si riscontra alternativamente la prevalenza del momento sperimentale, osservativo-induttivo, oppure di quello teorico, ipotetico-deduttivo. I due momenti, tuttavia, sono indissolubili e si richiamano sempre a vicenda. Infatti le «sensate esperienze» presup-

138

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia pongono un riferimento alle «necessarie dimostrazioni», in quanto vengono assunte e rielaborate in un contesto matematico-razionale e quindi sono considerate nella loro struttura puramente quantitativa. Inoltre esse, fin dall’inizio, sono “cariche di teoria”, in quanto lette alla luce di un’ipotesi che le seleziona. Anche le «necessarie dimostrazioni» rimandano alle «sensate esperienze», sia perché l’esperienza fornisce lo spunto per le ipotesi, sia perché queste ultime acquistano validità solo per mezzo della conferma sperimentale.

Esperienza e verifica p. 125 > L’“esperienza” di cui parla Galilei non è l’esperienza immediata, bensì il frutto di un’elaborazione teorico-matematica dei dati, che si conclude con la verifica. Allo stesso modo la “verifica” non è quella immediata dei sensi, bensì una procedura complessa, con cui si ricreano artificialmente le condizioni affinché possa prodursi un certo evento, cercando di eliminare le circostanze di disturbo. Struttura matematica del cosmo p. 128 > La fiducia galileiana nella matematica risulta incentivata e convalidata al tempo stesso dalla dottrina platonico-pitagorica della struttura matematica del cosmo, ossia dalla convinzione secondo cui la “fattura” reale del mondo è di tipo geometrico, per cui solo conoscendo il linguaggio matematico è possibile decifrarla.

Proprietà oggettive e soggettive p. 128 > L’attenzione per gli aspetti quantitativi e matematici del reale viene corroborata dal ricorso alla distinzione atomistico-democritea tra “proprietà oggettive” e “proprietà soggettive” dei corpi (che Locke chiamerà “qualità primarie” e “secondarie”). Le prime (quantità, figura, grandezza, luogo ecc.) qualificano i corpi in quanto tali, le seconde (sapori, odori, colori ecc.) esistono solo in relazione ai nostri sensi.

Conoscenza umana e conoscenza divina p. 129 > Secondo Galilei la conoscenza umana, pur essendo diversa da quella divina per il modo di apprendere e per la quantità di nozioni possedute, risulta simile a essa per il grado di certezza. Infatti, mentre Dio conosce la verità intuitivamente, cioè in modo immediato, l’uomo la acquisisce progressivamente mediante il ragionamento discorsivo. Inoltre, Dio conosce tutte le infinite verità, mentre l’uomo solo alcune di esse. Tuttavia, per quanto concerne le dimostrazioni matematiche, la qualità della certezza è identica (in quanto 2 + 2 = 4, sia per noi, sia per Dio).

Capitolo 2 • Galilei

GLOSSARIO MAPPA e RIEPILOGO Galilei I principali BERSAGLI POLEMICI contro la Chiesa e i teologi la scienza si occupa della natura

contro gli aristotelici il dogmatismo ostacola lo sviluppo del sapere

la Bibbia si occupa della religione

derivano entrambe da Dio, quindi sono solo apparentemente in contrasto I RISULTATI SCIENTIFICI

intuizione del principio d’inerzia

leggi sulla caduta dei gravi

secondo principio della dinamica

costruzione del cannocchiale: macchie lunari e solari, satelliti di Giove, fasi di Venere

conferma dell’ipotesi eliocentrica (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo)

principio della relatività del moto

Mappa interattiva

Il METODO SCIENTIFICO fase risolutiva o analitica

fase compositiva o sintetica

scomposizione di un fenomeno nei suoi elementi semplici, quantitativi e misurabili, e formulazione di un’ipotesi che lo spieghi

esperimento di verifica dell’ipotesi e formulazione definitiva della legge

la scienza si muove tra:

• momenti osservativo-induttivi («sensate esperienze») • momenti ipotetico-deduttivi («necessarie dimostrazioni») I PRESUPPOSTI FILOSOFICI del metodo

rifiuto del finalismo e dell’essenzialismo

fiducia nella struttura matematica del cosmo

privilegiamento degli aspetti quantitativi del reale

credenza nell’uniformità della natura e nella validità del rapporto causale

139

Gnoseologia Epistemologia

ECHI DEL PENSIERO L’IDEA GALILEIANA DEL MONDO COME LIBRO Dai triangoli del libro della natura al codice del DNA

I

l metodo sperimentale nato con Galileo Galilei sembra restituire all’uomo un rapporto più immediato con la natura, la quale non viene più conosciuta attraverso i libri di Aristotele o attraverso la Bibbia, ma rivolgendosi direttamente ad essa. Questa relazione non tarda però a rivelarsi allo stesso Galileo come qualcosa di più complesso, che richiede la capacità di riconoscere e comprendere i “segni” tramite i quali la natura rivela se stessa. L’idea che la ricerca scientifica possa coincidere con un’opera di “decifrazione” di qualcosa che è conoscibile, purché venga “tradotto” in un linguaggio a noi comprensibile, si è rivelata nel corso dei secoli come una delle maggiori intuizioni di Galilei.

GALILEI E I DUE LIBRI SCRITTI DA DIO Nella sua polemica con l’autorità ecclesiastica, Galilei contesta innanzitutto l’idea che la filosofia, cioè la vera scienza, possa essere considerata come contenuta in un libro, come l’Iliade o l’Odissea, e che la verità debba essere cercata «non direttamente nella natura ma (così dicono) nel confronto dei testi» (Lettera a Keplero del 19 agosto 1610, p. 423). Tuttavia, come sappiamo, Galilei ricorre proprio alla metafora del libro per evidenziare la peculiarità della conoscenza del mondo naturale rispetto alla conoscenza delle cose sacre: se quest’ultima si apprende nel libro della Bibbia, quella si apprende leggendo direttamente il libro della natura. Il libro della natura, però, non è facilmente comprensibile: il suo linguaggio deve essere “decifrato”, perché è scritto da Dio in caratteri matematici e, se non si conosce questa lingua, la ricerca diventa un puro errare senza costrutto. La filosofia [cioè la vera scienza] è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e conoscer i

140

caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto. (G. Galilei, Il Saggiatore, p. 33)

Dio ha quindi scritto due libri, cui corrispondono due linguaggi differenti: • da una parte la Bibbia, che parla della salvezza dell’uomo («come si vadia al cielo») e che perciò fa uso di un linguaggio “umano”, flessibile e mutevole, adatto alla «capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati»; • dall’altra parte la natura, che ci dice com’è fatto il mondo («come vadia il cielo») e il cui linguaggio è necessariamente immutevole (perché immutevoli sono le leggi naturali) e non a tutti accessibile, perché richiede la preliminare conoscenza della matematica. Rinnovando la tradizione pitagorica e platonica, Galilei vede quindi nella matematica la forma stessa della realtà, sancendo in questo modo un’antitesi radicale tra il mondo umano e il mondo della scienza: quando tra essi sorge un conflitto, può essere risolto reinterpretando in modo corretto il messaggio biblico.

DA GALILEI A FREUD, AGLI STUDI SUL DNA La metafora del libro della natura ha riscosso nella storia del pensiero un grande successo. Essa veicola l’idea che un certo ambito dell’esperienza umana possa a prima vista risultare non facilmente comprensibile, dal momento che richiede un’opera di “decifrazione” o “traduzione”, quasi si avesse a che fare con una lingua straniera di cui è necessario conoscere il lessico e la grammatica. Il libro è pertanto immagine della “decifrabilità” di qualcosa, della sua intelligibilità attraverso un’operazione molto simile a quella della lettura. In un saggio pubblicato nel 1981 e intitolato La leggibilità del mondo, il filosofo tedesco Hans Blumenberg (1920-1996) ha tracciato la storia della metafora del libro nella civiltà occidentale: dall’originaria diffidenza della filosofia nei confronti della scrittura (condannata da Platone nel Fedro, a favore del dialogo vivo, espressione dinamica della dialettica) fino alle frontiere della fisica e della chimica contemporanee. Su due dei momenti evidenziati da Blumenberg vale la pena di soffermare la nostra attenzione. Il primo di questi momenti è la psicoanalisi, la cui nascita coincide con la scoperta di un metodo per decifrare i sogni, considerati da Sigmund Freud come «la via regia verso l’inconscio». La tradizione aveva commesso l’errore, secondo il medico viennese, di considerare i sogni come formazioni psichiche del tutto insignificanti, come stranezze incomprensibili. Egli pensò invece che fossero espressione di pensieri o contenuti psichici latenti, che, non potendo essere espressi direttamente, vengono “mascherati”, anzi “tradotti” nella lingua figurativa del sogno, che proprio come gli antichi geroglifici egizi utilizza le immagini al posto delle lettere: Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto

manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione. Noti questi, i pensieri del sogno ci riescono senz’altro comprensibili. Il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno. (S. Freud, L’interpretazione dei sogni, p. 261)

L’altro grande momento della storia della metafora del libro esaminata da Blumenberg è la scoperta del DNA, che, come sappiamo, oggi è stato ormai completamente “decifrato”. Fin dalle prime ricerche, condotte negli anni Quaranta dal medico canadese Oswald Theodore Avery (1877-1955), l’azione del DNA è stata considerata alla stregua di un’operazione di “trascrizione” o di “copiatura” di informazioni genetiche. E gli studi successivi hanno sempre più avvalorato l’idea che il DNA sia una specie di “testo”, scritto utilizzando pochi simboli che danno luogo a un numero altissimo di combinazioni, proprio come con le poche lettere dell’alfabeto noi scriviamo innumerevoli parole, a loro volta combinate nelle frasi secondo le regole della grammatica: Ed è stata proprio questa la via che ha dato solidità teoretica all’utilizzazione della metafora dello scritto. Per questa prima ed unica volta il procedimento dello scrivere trovò nella natura una corrispondenza precisa: rappresentare una molteplicità pressoché illimitata di variazioni di significato con un piccolo corredo di elementi [...]. (H. Blumenberg, La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, p. 378)

In questo modo, l’operazione fondamentale della vita è intesa come un’operazione di codificazione e di decodificazione, di scrittura e di lettura: un fatto in cui si avverte l’eco non solo di Galilei, ma anche del modo in cui già gli atomisti antichi avevano espresso – utilizzando proprio le lettere – le combinazioni degli atomi che danno origine al mondo visibile.

LABORATORIO DELLE IDEE •

Distinguendo il libro sacro dal libro della natura Galilei ha creato una sorta di cesura tra due mondi, scritti non solo in modo diverso, ma contenenti due tipi diversi di verità. È possibile secondo te che queste due “verità” convivano senza entrare in conflitto? Come pensi si debba procedere se invece questo conflitto si manifesta? (Dopo la teoria eliocentrica, sarà la teoria evoluzionistica di Darwin a sollevare questo problema.) Discutine con i tuoi compagni e con il tuo insegnante, argomentando la tua posizione.

VERSO LE COMPETENZE w Comprendere le radici concettuali e filosofiche dei principali problemi della contemporaneità w Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni

141

I TESTI CAPITOLO 2

Galilei Dal Saggiatore Nell’autunno del 1618 appaiono nei cieli tre misteriose comete, che suscitano un grande interesse sia tra gli studiosi di astronomia, sia tra i profani. Il padre gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio romano, nel marzo 1619 pubblica un opuscolo dal titolo De tribus cometis, in cui cerca di interpretare il fenomeno sostenendo (peraltro a ragione) che le comete sono corpi celesti orbitanti oltre la Luna. Galileo, che dal 1616 (dopo la condanna della teoria copernicana e dopo essere stato “ammonito” dal cardinale Bellarmino) si era chiuso in uno sdegnoso silenzio, risponde a questo scritto con un Discorso delle comete (pubblicato sotto il nome di Mario Guiducci, suo assistente e portavoce), in cui dichiara falsa la spiegazione di padre Grassi e suggerisce l’ipotesi che le comete siano qualcosa di apparente, come l’arcobaleno, e precisamente degli addensamenti di vapore terrestre, depositati nell’atmosfera. Seguendo Copernico, lo scienziato pisano è infatti riluttante a riconoscere l’esistenza di moti irregolari tra quelli circolari e uniformi dei corpi celesti. Nello stesso anno padre Grassi risponde all’opuscolo di Galileo con un altro scritto: Libra astronomica ac philosophica, nascondendosi sotto lo pseudonimo di Lotario Sarsi. Facendo riferimento alla costellazione della Bilancia (la Libra), al cui interno era stata avvistata una delle comete, padre Grassi allude alla necessità di “pesare” con giusta bilancia il contenuto del Discorso delle comete di Galileo. Quest’ultimo, accogliendo la metafora di padre Grassi, risponde a sua volta con Il Saggiatore; invece che una bilancia comune, egli intende utilizzare quella ben più sofisticata dei saggiatori d’oro: il Sarsi – osserva – si è servito «d’una stadera un poco troppo grossa, io ho voluto servirmi d’una bilancia da saggiatori» (Il Saggiatore, a cura di F. Flora, Einaudi, Torino 1977, p.14). Questa è l’origine del Saggiatore, pubblicato nel 1623 e dedicato a Urbano VIII (Maffeo Barberini), eletto papa nello stesso anno.

t1 > Laboratorio sul testo

142

il linguaggio del «grandissimo libro» della natura

Il Saggiatore segue passo passo la Libra del Sarsi, «rintuzzando ogni argomento e mostrandone l’insufficienza, l’arbitrarietà, la vacuità, con abilissimo gioco dialettico, in uno stile perfetto per limpidezza, grazia, arguzia, che talvolta si mutano in sarcasmo e beffa» (F. Flora, “Introduzione” a G. Galilei, Il Saggiatore, cit., p. 227). Quantunque contenga un’ipotesi errata sulle comete, l’opera resta il capolavoro polemico di Galileo, in cui lo scienziato pisano espone una delle sue dottrine più famose: quella del “libro della natura” scritto in un linguaggio matematico.

2 4 6 8 10 12 14 16

Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre autore, sì che [come se] la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur anco, come al Sarsi pare, che l’intelletto nostro debba farsi mancipio dell’intelletto d’un altr’uomo (lascio stare ch’egli, facendo così tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha biasimato nel signor Mario), e che nelle contemplazioni de’ moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s’elegga Ticone, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de’ quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine; cosa ch’io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta l’aver negati gli altri (Il Saggiatore, cit., pp. 33-34) due e promessone un altro, se ben poi non esseguito.

I TESTI

Capitolo 2 • Galilei

Analisi del testo 1-10 Padre Grassi (Lotario Sarsi) sosteneva nella sua Libra astronomica, seguendo la mentalità del tempo, che per fare filosofia fosse necessario appoggiarsi a qualche celebre autore, come se la mente di un uomo dovesse rimanere «sterile ed infeconda», a meno che non si accordasse con una “autorità”. Il principio di autorità è un bersaglio polemico che Galilei affronta frequentemente; nella Lettera a Fortunio Liceti (15 settembre 1640) scrive: «mi par d’esser giudicato per contrario al filosofar peripatetico da quelli che [...] vogliono che il ben filosofare sia il ricevere e sostenere qual si voglia detto e proposizione scritta da Aristotele, alla cui assoluta autorità si sottopongono, e per mantenimento della quale si inducono a negare esperienze sensate, o a dare strane interpretazioni a’ testi di Aristotele» (Lettere, Einaudi, Torino 1978, p. 190). Alla concezione di Sarsi-Grassi Galilei contrappone l’idea secondo cui la filosofia è scritta nel «grandissimo libro» della natura, e in un linguaggio matematico, che dunque è necessario apprendere per poterne decodificare i messaggi. Questa idea ha sollevato presso gli interpreti il problema del “platonismo” galileiano. Secondo Edmund Husserl, ad esempio, è come se Galilei cercasse di tradurre la natura in un «vestito di idee», per determinarne le proprietà e prevederne gli effetti. Del resto, Galilei ammira Platone e lo cita spesso: «che diremo, Sig. Simplicio? Non convien egli confessare la virtù della geometria esser il più potente strumento d’ogni altro per acuir l’ingegno e disporlo al perfettamente discorrere e specolare? E che con gran ragione voleva Platone i suoi scolari pri-

ma ben fondati nelle matematiche?» (Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali, Einaudi, Torino 1990, p. 147). Secondo Alexandre Koyré, parlare di “platonismo” per Galilei è assolutamente lecito (cfr. Studi galileiani, trad. it. di M. Torrini, Einaudi, Torino 1979): bisogna essere già platonici per sostenere che la natura va letta in modo geometrico. Contrario a questa tesi è invece Ludovico Geymonat (Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1969). 10-17 Ma anche ammesso – prosegue Galilei – che il nostro intelletto debba farsi schiavo («mancipio», r. 11) di quello di un altro uomo, non si comprende perché Sarsi abbia scelto Tycho Brahe («Ticone», r. 14) anteponendolo a Tolomeo o a Copernico, i quali, diversamente da Brahe, hanno elaborato sistemi del mondo completi e ben costruiti. (Padre Grassi negava i sistemi di Tolomeo e di Copernico e accettava quello di Tycho Brahe in quanto quest’ultimo cercava di conciliare geocentrismo e copernicanesimo; era la posizione dei gesuiti del tempo.) Il «signor Mario» (r. 13) è Mario Guiducci, l’assistente di Galilei con il cui nome era stato pubblicato il Discorso delle comete. Galileo nelle sue opere è particolarmente duro con Tycho Brahe: l’aver cercato un compromesso tra due opposte dottrine gli pare frutto di ignoranza e di conformismo. Lo scienziato pisano non prenderà in considerazione il “terzo sistema” (quello ticonico) neppure nell’opera successiva al Saggiatore, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, il tolemaico e il copernicano.

143

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

I TESTI

t2 >

La tesi del linguaggio matematico in cui sarebbe scritto il libro della natura è strettamente connessa con un’altra dottrina, altrettanto famosa, anch’essa esposta nel Saggiatore: la distinzione tra le qualità oggettive e soggettive dei corpi. Alle essenze, che secondo Aristotele si rivelano attraverso le qualità sensibili e soggettive (colori, sapori, odori, suoni), Galileo contrappone le «qualità oggettive» (figure, moto, numero), che possono essere quantificate e quindi espresse in linguaggio matematico.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38

144

Qualità oggettive e Qualità soggettive dei Corpi

Restami ora che, conforme alla promessa fatta di sopra a V. S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla proposizione «Il moto è causa di calore», mostrando in qual modo mi par ch’ella possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano al vero, mentre vien creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci. Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse. Io credo che con qualche essempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azzione che vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezzioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, verbigrazia, sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano; e parmi che gravemente errerebbe chi volesse dire, la mano, oltre al moto ed al toccamento, avere in sé un’altra facoltà diversa da queste, cioè il solleticare, sì che il solletico fusse un accidente che risedesse in lei. Un poco di carta o una penna, leggiermente fregata sopra qualsivoglia parte del corpo nostro, fa, quanto a sé, per tutto la medesima operazione, ch’è muoversi e toccare; ma in noi, toccando tra gli occhi, il naso e sotto le narici, eccita una titillazione quasi intollerabile, ed in altra parte a pena si fa sentire. Or quella titillazione è tutta di noi, e non della penna, e rimosso il corpo animato e sensitivo, ella non è più altro che un puro nome. Ora, di simile e non maggiore essistenza credo io che possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre. […] E tornando al primo mio proposito in questo luogo, avendo già veduto come molte affezzioni, che sono reputate qualità risedenti ne’ soggetti esterni, non ànno veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non sono altro che nomi, dico che inclino assai a credere che il calore sia di questo genere,

40 42 44 46 48 50 52 54

e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per la nostra sostanza e sentito da noi, sia l’affezzione che noi chiamiamo caldo, grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d’essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando, sì che grata sia quella penetrazione per la quale si agevola la nostra necessaria insensibil traspirazione, molesta quella per la quale si fa troppo gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza: sì che in somma l’operazion del fuoco per la parte sua non sia altro che, movendosi, penetrare colla sua massima sottilità tutti i corpi, dissolvendogli più presto o più tardi secondo la moltitudine e velocità degl’ignicoli e la densità o rarità della materia d’essi corpi; de’ quali corpi molti ve ne sono de’ quali, nel lor disfacimento, la maggior parte trapassa in altri minimi ignei, e va seguitando la risoluzione fin che incontra materie risolubili. Ma che oltre alla figura, moltitudine, moto, penetrazione e toccamento, sia nel fuoco altra qualità, e che questa sia caldo, io non lo credo altrimenti; e stimo che questo sia talmente nostro, che, rimosso il corpo animato e sensitivo, (Il Saggiatore, cit., pp. 223-227) il calore non resti altro che un semplice vocabolo.

I TESTI

Capitolo 2 • Galilei

Analisi del testo 1-6 Il Saggiatore è scritto in forma di lettera indirizzata a don Virginio Cesarini («V. S. Illustrissima», r. 1), un giovane nobile ecclesiastico romano Maestro di camera di Urbano VIII e accademico dei Lincei, per moltissimi anni legato alla Compagnia di Gesù. Dopo aver ascoltato Galileo durante il suo soggiorno a Roma nel 1615-1616, aveva aderito alle sue idee. L’affermazione aristotelica secondo cui «il moto è causa di calore» si trova nell’opera Sul cielo (II, 7, 20). In questo passo il filosofo greco sostiene che «il movimento ha la capacità di rendere incandescente non solo il legno, ma persino le pietre e il ferro», giungendo alla conclusione che i corpi «si riscaldano essi stessi» (ibidem, 7, 25). Ora, uno degli scopi del Saggiatore, come di tutta l’opera galileiana, è il far crollare le concezioni che sorreggevano le costruzioni fisiche e cosmologiche di Aristotele. Già nel De motu, un manoscritto giovanile, Galileo aveva espresso i suoi dubbi sull’idea che il movimento fosse causa del calore. Affrontando ora lo stesso problema, critica la concezione per cui il caldo è qualcosa di inerente alla materia, e precisamente al fuoco (rr. 5-6). 7-19 Dopo aver elencato un primo tipo di qualità (figura, grandezza, luogo, tempo, movimento ecc.: rr. 8-12), Galileo nota che non è possibile separare la sostanza corporea da queste qualità (r. 11). Non c’è invece motivo di ritenere che il colore, il sapore, l’odore ecc. appartengano necessariamente alla stessa sostanza corporea (rr. 11-13). Sapori, odori, colori ecc. (r. 15) sono dunque soltanto dei nomi, sono presenti solo nel soggetto senziente, rimosso il quale spariscono. La distinzione tra qualità oggettive e qualità soggettive è ormai posta: le prime sono proprietà dei cor-

pi, le seconde esistono solo nell’individuo che sente. Questa distinzione verrà ripresa da John Locke, il quale nel Saggio sull’intelletto umano (1690) chiamerà «primarie» le qualità oggettive e «secondarie» quelle soggettive. 20-36 Attraverso l’immagine del solletico (la cui sensazione è tutta del soggetto senziente e non appartiene in alcun modo alla mano che lo produce), Galileo illustra in modo efficace la natura delle qualità soggettive, che non sono ascrivibili agli oggetti, ma solo ai soggetti che ne fanno esperienza. 37-54 Anche il calore (il «caldo», r. 44) è una qualità soggettiva, che, una volta eliminato il soggetto senziente, si riduce a un puro nome. Galileo spiega il calore (rr. 47-51) rifacendosi a Democrito, a sua volta ripreso da Lucrezio nel De rerum natura: «inoltre sentiamo dei corpi gli odori diversi, e niente vediamo venire alle nari; né i flussi vediamo del caldo e del freddo, né è dato di scorgere il suon della voce: eppur son cose di vita corporea, perché muovono i sensi: infatti toccare ed essere toccato a nulla è possibile che non sia di natura corporea» (Della natura, a cura di F. Cetrangolo, Sansoni, Firenze 1978, p. 21). («Ignicoli», r. 49, è un diminutivo da ignis, fuoco; «minimi ignei», rr. 50-51, è un sinonimo di “ignicoli”.) La spiegazione galileiana del calore è sostanzialmente accettata ancora oggi: il calore viene infatti «considerato come una forma di energia e precisamente come l’energia di movimento posseduta dagli atomi e dalle molecole dei corpi: riscaldare una sostanza significa fornire energia alle particelle che la compongono» (La nuova enciclopedia delle scienze, Garzanti, Milano 1988, p. 251).

145

IL CONCETTO E L’IMMAGINE Caravaggio e la rivoluzione scientifica La curiosità per la realtà naturale Il tratto più evidente della pittura di Michelangelo Merisi detto “Caravaggio” (1571-1610) è certamente il naturalismo, ovvero la capacità di dipingere in modo estremamente realistico, con una cura per i dettagli e un’attenzione per i particolari anatomici che danno alle scene rappresentate sulla tela una veridicità sorprendente. Gli studiosi mettono solitamente in collegamento questa caratteristica della pittura caravaggesca con l’interesse per la natura e con lo sperimentalismo tipici della nascente mentalità scientifica. Del resto, gli studi più recenti sulla biografia di Caravaggio hanno dimostrato che il pittore, ospitato e

146

protetto a Roma dal cardinale Francesco Maria Del Monte (1545-1607) tra il 1594 e il 1600, proprio in quel periodo ebbe modo di conoscere le idee e le ricerche di Galileo Galilei, il quale durante il suo soggiorno romano (1597-1603) frequentò assiduamente la casa del cardinale.

Un pittore incredulo Uno dei quadri più noti del Caravaggio, nonché una delle opere più adatte per esemplificare il legame tra il suo naturalismo pittorico e l’empirismo filosofico-scientifico del suo tempo, è l’Incredulità di San Tommaso.

Caravaggio, Incredulità di San Tommaso, 1602-1603, olio su tela, Potsdam, Schloss Sanssouci, Bildgalerie

VERSO LE COMPETENZE w Individuare i nessi tra la filosofia, le altre forme del sapere e gli altri linguaggi

Ispirata al celebre episodio evangelico in cui l’apostolo Tommaso, dopo la morte di Gesù, afferma che crederà nella sua resurrezione solo quando potrà “toccare con mano” le sue ferite, l’opera di Caravaggio si allontana dagli schemi dell’iconografia tradizionale, che attribuiva agli eventi sacri una rarefatta valenza simbolica, e concentra la propria forza espressiva sulla “materialità” del gesto con cui Tommaso penetra con il dito la carne trafitta del costato di Cristo, e sul suo sguardo, più simile a quello di uno scienziato intento a constatare i fatti che a quello di un discepolo animato dalla fede. Lo storico dell’arte Ferdinando Bologna, nel saggio L’incredulità del Caravaggio, indica in questo dipinto la cifra più profonda dell’opera dell’artista lombardo. Questi, infatti, è costantemente animato da una «incredula ansia sperimentale», dominata dall’esigenza di verifica empirica e dall’attenzione ai fenomeni «nella loro più spregiudicata evidenza»: l’atto che sta compiendo l’uomo della strada in cui è incarnato l’apostolo, di conficcare il dito nella ferita del costato del Cristo, e quasi di cercarvi dentro, non solo costituisce il “fuoco” dell’opera, ma spinge la lettera della narrazione evangelica a una così eccezionale e tremenda fisicità («se non metto il mio dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò»), da rappresentare al massimo dell’evidenza la volontà di verifica – di accertamento per prova –, di accesso alla convinzione unicamente per «esperienza» (porta principale della «natural filosofia», in termini che possiamo dire galileiani a ragion veduta), da cui tutta l’opera del Caravaggio prende il suo vero carattere. (F. Bologna, L’incredulità del Caravaggio, p. 168)

In altri termini, l’opera di Caravaggio può essere interpretata, secondo Bologna, come la trasposizione in pittura della rivoluzione operata da Galileo Galilei, che respinge con forza ogni principio d’autorità, affermando l’importanza di corroborare la conoscenza con le «sensate esperienze».

Tra pittura sacra ed esperimento

Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1608, olio su tela, part., Messina, Museo Regionale Più che pittore della Controriforma e maestro nell’uso del chiaroscuro quale simbolo del peccato (come pure ritengono molti interpreti), per Ferdinando Bologna Caravaggio è un artista poco interessato al sacro (anche se, in apparenza, tutti i suoi soggetti sono ad esso riconducibili) e attratto piuttosto dalla realtà naturale. Esemplare in questo senso è la Resurrezione di Lazzaro (1608), per la cui realizzazione (secondo le fonti) Caravaggio si comportò proprio come gli scienziati del tempo che compivano i loro studi di anatomia sui cadaveri: ne disseppellì uno e lo fece reggere da alcuni facchini, in modo da poterlo osservare e raffigurare il più realisticamente possibile. L’imitazione della natura messa in atto dal pittore lombardo non è dunque una semplice riproduzione, ma l’esito di uno studio attento e sistematico, attivo o “costruttivo”, che implica quell’intreccio tra ragione ed esperienza, teoria e verifica, che è proprio del metodo galileiano. Si spiega, così, l’interesse del Caravaggio per l’esperimento, non ché l’uso che egli fece di specchi, “camere ottiche” e strumenti vari, con cui cercava di riprodurre “in laboratorio” i fatti della natura, per meglio comprenderli e raffigurarli.

147

CAPITOLO 3

Bacone 1. Il profeta della tecnica Se Galilei ha chiarito il metodo della ricerca scientifica, Bacone ha intravisto per primo il potere che la scienza offre all’uomo sul mondo. Bacone ha concepito la scienza essenzialmente come diretta a realizzare il dominio dell’uomo sulla natura, il regnum hominis: ha visto la fecondità delle sue applicazioni pratiche, sicché può dirsi il filosofo e il profeta della tecnica. La vita

L’idea di una scienza al servizio dell’uomo

148

Francesco Bacone nacque a Londra il 22 gennaio 1561 da Sir Nicola Bacone, Lord guardasigilli della regina Elisabetta. Studiò a Cambridge e poi trascorse alcuni anni a Parigi, al seguito dell’ambasciatore d’Inghilterra, dove ebbe modo di completare e arricchire la sua cultura. Di ritorno in patria, volle intraprendere la carriera politica. Finché visse la regina Elisabetta, non poté ottenere alcuna carica importante, nonostante l’appoggio del conte di Essex. Ma salito al trono Giacomo I Stuart (1603), seppe sfruttare l’appoggio del favorito del re, Lord Buckingham, per ottenere cariche e onori. Fu nominato avvocato generale (1607), poi procuratore generale (1613), infine Lord guardasigilli (1617) e Lord cancelliere (1618). Come tale presiedeva le principali corti di giustizia e rendeva esecutivi i decreti del re. Fu inoltre nominato barone di Verulamio e visconte di S. Albano. Ma quando Giacomo I, nel 1621, dovette convocare il parlamento per chiedere l’imposizione di nuove tasse, il parlamento incolpò Bacone di corruzione accusandolo di aver ricevuto doni in denaro nell’esercizio delle sue funzioni. Bacone si riconobbe colpevole. Fu condannato allora a pagare quarantamila sterline di ammenda, a rimanere prigioniero nella Torre di Londra fintanto che il re lo avesse voluto, e fu escluso da tutte le cariche dello Stato (3 maggio 1621). Il re condonò a Bacone l’ammenda e la prigionia: ma la vita politica del filosofo era finita. Bacone si ritirò a Gorhambury e lì trascorse negli studi gli ultimi anni della sua vita. Morì il 9 aprile 1626. La carriera politica di Bacone fu quella di un cortigiano abile e senza scrupoli. Ma quest’uomo ambizioso e amante del denaro e del fasto ebbe un’idea altissima del valore e dell’utilità della scienza al servizio dell’uomo. Tutte le sue opere tendono a illustrare il progetto di una ricerca scientifica che, portando il metodo sperimentale in tutti i campi della realtà, faccia della realtà stessa il dominio dell’uomo. Egli voleva rendere la scienza attiva e operante al servizio dell’uomo e la concepì diretta alla costituzione di una tecnica che doveva dare all’uomo il dominio di ogni parte del mondo naturale.

Capitolo 3 • Bacone

Quando nella Nuova Atlantide, pubblicata postuma nel 1627, volle dare l’immagine di una città ideale, ricorrendo al pretesto, già adoperato da Tommaso Moro nell’Utopia, della descrizione di un’isola sconosciuta, Bacone immaginò un “paradiso” della tecnica, in cui fossero portati a compimento le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo. L’isola è descritta come un enorme laboratorio sperimentale, nel quale gli abitanti cercano di conoscere le forze nascoste della natura «per estendere i confini dell’impero umano ad ogni cosa possibile». I numi tutelari sono i grandi inventori di tutti i paesi; le sacre reliquie sono gli esemplari di tutte le più rare e rilevanti invenzioni. Bacone, tuttavia, non rivolse la propria attenzione soltanto al mondo della natura. I Saggi, la sua prima opera, pubblicati per la prima volta nel 1597, contengono sottili ed erudite analisi di vita morale e politica, nelle quali la sapienza degli antichi è ampiamente utilizzata. Ma la sua maggiore attività fu dedicata al progetto di un’enciclopedia delle scienze che doveva rinnovare completamente la ricerca scientifica ponendola su base sperimentale. Il piano grandioso di questa enciclopedia ci è dato nello scritto Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze, pubblicato nel 1623, e comprende: le scienze che si fondano sulla memoria; quelle che si fondano sulla fantasia; e quelle che si fondano sulla ragione. Di tutte queste scienze egli avrebbe dovuto dare le direttive nella sua Instauratio magna. Ecco in proposito uno schema articolato, nel quale, secondo la definizione baconiana, sono specificate come “mancanti” le scienze che per Bacone erano ancora trattate in modo insufficiente o inadeguato.

Memoria

Fantasia

La Nuova Atlantide come “paradiso” della tecnica

Testo antologico La Casa di Salomone (Nuova Atlantide)

I Saggi

Il progetto di un’enciclopedia delle scienze

> delle creature > dei prodigi (mancante) > delle arti (mancante)

> storia

> naturale > civile > ecclesiastica > letteraria (mancante)

> poesia

> narrativa > drammatica > parabolica (illustra le verità) > prima (mancante): studia i principi o gli assiomi comuni alle varie scienze

Ragione

> divina (teologia naturale)

> filosofia

> speculativa > speciale

> naturale

> umana

> fisica > metafisica (mancante) matematica

> pratica > magia naturale (mancante) > del corpo > dell’anima

149

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Di questo vasto progetto Bacone ha realizzato adeguatamente soltanto il Nuovo Organo (Novum Organum), pubblicato nel 1620. Si possono considerare come abbozzi delle altre parti: La sapienza degli antichi (1609), la Storia naturale (1622) e il già citato Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze (1623), che rappresenta la prima parte dell’Instauratio magna. Negli ultimi anni della sua vita Bacone scrisse e pubblicò anche una Storia di Enrico VII. Altri scritti, talvolta incompiuti, furono pubblicati dopo la morte del filosofo. Tra questi anche i Cogitata et visa, contenenti una critica serrata alla tradizione scientificofilosofica.

2. L’esigenza di interpretare la natura per dominarla La nuova logica della scienza Il rifiuto della vecchia logica

«Sapere è potere»

QUESTIONE La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico?, p. 166 L’antitesi tra anticipazione e interpretazione della natura

150

Il Nuovo Organo consiste in una logica del procedimento tecnico-scientifico che viene polemicamente contrapposta alla logica aristotelica, ritenuta adatta soltanto a prevalere nelle dispute verbali. Con la vecchia logica si espugna l’avversario, con la nuova si espugna la natura. Questa espugnazione della natura è il compito fondamentale della scienza. «Il fine di questa nostra scienza», dice Bacone (Novum Organum, “Distribuzione dell’opera”), «è di trovare non argomenti ma arti, non principi approssimativi ma principi veri, non ragioni probabili ma progetti e indicazioni di opere». La scienza è posta così interamente al servizio dell’uomo; e l’uomo, ministro e interprete della natura, tanto opera e intende, quanto dell’ordine della natura ha osservato, o con l’esperienza, o con la riflessione: al di là di questo non sa né può nulla. Sapere è potere, la scienza e la potenza umana coincidono: l’ignoranza della causa rende impossibile conseguire l’effetto. Non si vince la natura se non obbedendole; e ciò che nell’osservazione sta come causa, nell’operare vale come regola. L’intelligenza umana ha bisogno di strumenti efficaci per penetrare nella natura e dominarla: come la mano, essa non può compiere alcun lavoro senza uno strumento adeguato. Gli strumenti dell’intelligenza sono gli esperimenti, che vanno escogitati e adattati tecnicamente allo scopo che si vuol realizzare. I sensi soltanto non bastano a fornire una guida sicura: solo gli esperimenti sono i custodi e gli interpreti dei loro responsi. L’esperimento rappresenta, secondo l’immagine di Bacone, «il connubio della mente e dell’universo», connubio dal quale egli si attende «una prole numerosa di invenzioni e gli strumenti atti a domare e a mitigare almeno in parte la necessità e le miserie degli uomini» (Novum Organum, I, 3). ➔ T1 p. 158 Ma il connubio tra la mente e l’universo non si può celebrare finché la mente rimane irretita in errori e pregiudizi che le impediscano di interpretare la natura. Bacone oppone l’interpretazione della natura all’anticipazione della natura. ■■■ L’anticipazione della natura prescinde dall’esperimento e passa immediatamente dalle cose particolari sensibili ad assiomi generalissimi. Questa è la via di cui si serve la logica tradizionale, che si limita a sfiorare l’esperienza, per approdare a verità generalissime.

Capitolo 3 • Bacone

■■■ L’interpretazione

della natura, invece, si addentra con metodo e con ordine nell’esperienza e ascende senza salti e per gradi dal senso e dalle cose particolari agli assiomi, giungendo solo da ultimo a quelli più generali. La via dell’anticipazione è sterile, giacché gli assiomi da essa stabiliti non servono a inventare nulla. La via dell’interpretazione è feconda, perché dagli assiomi desunti con metodo e ordine dalle cose particolari facilmente scaturiscono nuove cognizioni particolari, che rendono attiva e produttiva la scienza.

I pregiudizi della mente Il compito preliminare di Bacone nel suo tentativo di stabilire il nuovo organo della scienza è l’eliminazione delle anticipazioni, alla quale è dedicato sostanzialmente il primo libro del Nuovo Organo. Questo libro mira a purificare l’intelletto da quelli che Bacone chiama idòla e stabilisce una triplice critica: delle filosofie, delle dimostrazioni e della ragione umana naturale. Le tre critiche sono dirette a eliminare i pregiudizi che si sono radicati nella mente umana rispettivamente attraverso dottrine filosofiche, attraverso dimostrazioni desunte da principi errati o per la natura stessa dell’intelletto umano. ➔ T2 p. 160 Le anticipazioni che dipendono dalla natura umana sono quelle che Bacone chiama idòla tribus e idòla specus: gli idòla tribus sono comuni a tutti gli uomini, gli idòla specus sono propri di ciascun individuo. L’intelletto umano è portato a supporre nella natura un’armonia di molto maggiore rispetto a quella realmente esistente, a dare importanza più a certi concetti che ad altri, più a ciò che colpisce la fantasia che a ciò che è nascosto e lontano. Inoltre è impaziente, vuol procedere sempre al di là di ciò che gli è dato, e pretende che la natura si adatti alle sue esigenze, respingendo di essa ciò che non gli conviene. Tutte queste disposizioni naturali dell’intelletto umano determinano gli idòla tribus, la cui fonte principale è l’insufficienza dei sensi, ai quali sfuggono tutte le forze nascoste della natura. Gli idòla specus invece dipendono dall’educazione, dalle abitudini e dai casi fortuiti in cui ciascuno viene a trovarsi. Aristotele dopo aver inventato la logica asservì a essa completamente la sua fisica, rendendola sterile: ciò fu dovuto senza dubbio a una particolare disposizione del suo intelletto. Gilbert, lo scopritore del magnetismo, fabbricò sulla sua scoperta un’intera filosofia. E così in generale ogni uomo ha le sue propensioni per gli antichi o per i moderni, per il vecchio o per il nuovo, per ciò che è semplice o per ciò che è complesso, per le somiglianze o per le differenze; e tutte queste propensioni sono fonti di idòla specus, quasi che ogni uomo avesse nel suo interno una spelonca o caverna (specus) che rifrange e distorce il lume della natura.

Gli idòla tribus

Gli idòla specus

Oltre a queste due specie naturali di idoli, ci sono quelli avventizi o provenienti dal di fuori: idòla fori e idòla theatri. Gli idoli della piazza derivano dal linguaggio, cioè dalle convenzioni rese necessarie dai rapporti tra gli esseri umani. Gli uomini credono d’imporre la loro ragione alle parole: ma accade anche che le parole ritorcano e riflettano la loro forza sull’intelletto. Nascono così le dispute verbali, le più lunghe e insolubili, che si possono troncare soltanto con un ricorso

Gli idòla fori

151

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

alla realtà. Gli idoli che derivano dalle parole sono di due specie: o sono nomi di cose che non esistono o sono nomi di cose che esistono ma confusi e male determinati. Della prima specie sono i nomi di “fortuna”, “primo mobile”, “orbite dei pianeti”, “elemento del fuoco”, e simili, che hanno origine da false teorie. Alla seconda specie appartengono, ad esempio, la parola “umido”, che indica cose diversissime, le parole che indicano azioni come “generare”, “corrompere” ecc., e quelle che indicano qualità come “grave”, “leggero”, “poroso”, “denso” ecc. Gli idòla theatri

La necessità di liberarsi dalla riverenza per gli antichi

La via dell’esperimento

Esercizi interattivi La critica di Bacone ai pregiudizi della mente Sintesi audio Francesco Bacone

152

L’ultimo genere di pregiudizi è quello degli idòla theatri che derivano dalle dottrine filosofiche del passato o da dimostrazioni errate. Bacone li chiama così perché paragona i sistemi filosofici del passato a favole, che sono come mondi fittizi o come scene di teatro. Bacone non si propone di confutare le singole dottrine filosofiche, ma si limita a dividere le false filosofie in tre specie: la sofistica, l’empirica e la superstiziosa. Della filosofia sofistica il maggiore esempio è Aristotele, che cercò di adattare il mondo naturale a categorie logiche predisposte e si preoccupò più di dare la definizione verbale delle cose che di cercare la loro verità. Al genere empirico appartiene la filosofia degli alchimisti e di Gilbert, la quale pretende di spiegare ogni cosa per mezzo di pochi e ristretti esperimenti. La filosofia superstiziosa, infine, è quella che si mescola alla teologia, come accade in Pitagora e in Platone e specialmente in quest’ultimo, che Bacone considera più sottile e pericoloso e al quale non esita ad attribuire le qualifiche di «urbano cavillatore, gonfio poeta, teologo mentecatto». Tra le cause che impediscono agli uomini di liberarsi dagli idoli e di procedere nella conoscenza effettiva della natura, Bacone pone in primo luogo la riverenza per la sapienza antica. A questo proposito egli osserva che, se per “antichità” si intende la vecchiaia del mondo, il termine dovrebbe applicarsi ai tempi nostri, non a quella gioventù del mondo che ci fu presso gli antichi. Quell’epoca è antica e maggiore per noi, ma rispetto al mondo è nuova e minore; e come è lecito aspettarsi una maggiore conoscenza del mondo in un uomo anziano anziché in un giovane, così dovremmo aspettarci dall’età nostra molto più che dal passato, perché la conoscenza è stata via via arricchita nel corso del tempo da molteplici esperimenti e osservazioni. La verità, dice Bacone, è figlia del tempo, non dell’autorità. Come Bruno, egli pensa che essa si riveli gradualmente all’uomo, attraverso gli sforzi che si sommano e si integrano nella storia. Per uscire dalle vecchie vie della contemplazione improduttiva e intraprendere la via nuova della ricerca tecnico-scientifica, bisogna mettersi sul terreno dell’esperimento. La semplice esperienza non basta, perché procede a caso e senza direttive. È simile, dice Bacone, a una scopa slegata, al procedere a tentoni di chi vada in giro di notte cercando di trovare la via giusta, mentre sarebbe più utile e prudente aspettare il giorno o accendere un lume e quindi infilare la strada. L’ordine vero dell’esperienza consiste nell’accendere il lume, rischiarando con esso la via, cioè nel cominciare dall’esperienza ordinata e matura e non da quella saltuaria e disordinata. Quindi solo l’esperimento può consentire all’uomo nuove invenzioni e porre le basi della sua potenza e grandezza, conducendolo a estendere sempre più il proprio dominio sulla natura.

Capitolo 3 • Bacone

3. Il metodo induttivo La ricerca scientifica non si fonda né soltanto sui sensi né soltanto sull’intelletto. Se l’intelletto per suo conto non produce che nozioni arbitrarie e infeconde e se i sensi dall’altro lato non danno che indicazioni disordinate e inconcludenti, la scienza non potrà costituirsi come conoscenza vera e feconda di risultati se non in quanto imporrà all’esperienza sensibile la disciplina dell’intelletto e all’intelletto la disciplina dell’esperienza sensibile. Il procedimento che realizza questa esigenza è, secondo Bacone, quello dell’induzione. Bacone si preoccupa di distinguere nettamente la sua induzione da quella aristotelica. L’induzione aristotelica, cioè l’induzione puramente logica che non fa presa sulla realtà, è un’induzione per semplice enumerazione di casi particolari: Bacone la giudica un’esperienza puerile che fornisce conclusioni precarie ed è continuamente esposta al pericolo degli esempi contrari che possono smentirla. L’induzione che è utile all’invenzione e alla dimostrazione delle scienze e delle arti, invece, si fonda sulla scelta e sull’eliminazione dei casi particolari: scelta ed eliminazione ripetute successivamente più volte sotto il controllo dell’esperimento, fino a giungere alla determinazione della vera natura e della vera legge del fenomeno. Questa induzione procede quindi senza salti e per gradi: risale cioè gradualmente dai fatti particolari a principi via via più generali e solo da ultimo giunge agli assiomi generalissimi.

La scienza richiede collaborazione tra sensi e intelletto

L’induzione aristotelica

L’induzione scientifica

Le diverse fasi del metodo La scelta e l’eliminazione sulle quali si fonda l’induzione scientifica suppongono in primo luogo la raccolta e la descrizione dei fatti particolari. Questa fase è definita da Bacone «storia naturale e sperimentale», perché non dev’essere immaginata o escogitata, bensì dettata dall’esperienza, cioè dalla stessa natura. Ma la storia naturale e sperimentale è così varia e vasta che confonderebbe l’intelletto anziché aiutarlo, se non fosse composta e sistemata in un ordine idoneo. A questo fine servono le tavole, che sono catalogazioni delle istanze, cioè dei particolari aspetti di un fatto. ■■■ Le tavole della presenza raccolgono i casi in cui un determinato fenomeno (ad esempio, il calore) si presenta ugualmente, benché in circostanze diverse (ad esempio, le fiamme, i raggi solari, i fulmini). ■■■ Le tavole dell’assenza raccolgono i casi in cui lo stesso fenomeno non si presenta, pur verificandosi condizioni e circostanze vicine o simili a quelle notate nelle tavole di presenza (ad esempio, la luce della luna o delle stelle). ■■■ Le tavole dei gradi, o comparative, raccolgono i casi in cui il fenomeno si presenta nei suoi gradi decrescenti. Sulla scorta di queste tavole si avvia una fase “negativa”, consistente nell’escludere quelle cause che, in base alle stesse tavole, risultano incompatibili con il fenomeno studiato. Dopo questa (lunga) fase di esclusione, si procede alla formulazione di una prima ipotesi (vindemiatio prima) intorno alla natura del fenomeno. Si tratta di un’ipotesi di lavoro che guida l’ulteriore sviluppo della ricerca. L’induzione dovrà infatti procedere mettendo alla prova l’ipotesi mediante successivi esperimenti che Bacone chiama istanze prerogative.

La «storia naturale e sperimentale»

Le “tavole”

Testo antologico I tre tipi di tavole (Novum Organum)

Dalle tavole, per esclusione, alla prima ipotesi

153

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

L’istanza cruciale

Formiche, ragni e api

Testo antologico Formiche, ragni e api (Novum Organum)

Di tali istanze egli enumera molte specie. Quella decisiva è l’istanza cruciale, il cui nome Bacone deriva dalle croci erette nei bivi per indicare la separazione delle vie: quando si è in dubbio sulla causa del fenomeno studiato, poiché esso risulta in rapporto con molti altri fenomeni, l’istanza cruciale dimostra la sua connessione necessaria con uno dei fenomeni e la sua separabilità dagli altri, consentendo perciò di identificare la causa vera (o forma, o natura) del fenomeno in questione. Così, per quanto concerne il calore, dopo aver escluso che la causa di esso sia la luce (quella lunare, ad esempio, è fredda) o la tenuità (ad esempio, sono caldi non soltanto i corpi tenui come l’aria, ma anche quelli densi, come l’oro), si può ipotizzare che tale causa risieda nel movimento espansivo e rapido delle parti minime di un corpo. Movimento che si verifica quando il caldo è presente, manca quando è assente, aumenta o diminuisce a seconda della maggiore o minore intensità. Se questa ipotesi supera l’esame dell’istanza cruciale si può ritenere giusta (Novum Organum, aforismi X-XX). Il metodo di Bacone, globalmente considerato, non vuol essere né una semplice raccolta di fatti (empirismo), né un astratto ragionamento (razionalismo), bensì una razionale interpretazione e selezione dei dati. Assimilando gli empirici alle formiche (che «accumulano» soltanto) e i razionalisti ai ragni (che «ricavano da se medesimi la loro tela»), Bacone paragona il proprio metodo al lavoro delle api, che succhiano il nettare dei fiori, ma poi lo lavorano trasformandolo in miele (v. formiche, ragni e api): Così la nostra speranza è riposta nell’unione sempre più stretta e più salda delle due facoltà, quella sperimentale e quella razionale, unione che non si è finora realizzata (Novum Organum, I, 1)

La teoria della forma L’intero processo dell’induzione tende, secondo Bacone, a stabilire la causa delle cose naturali. E questa causa, come abbiamo visto, è la forma. La critica delle cause aristoteliche

Bacone accetta la distinzione aristotelica delle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale. Ma elimina subito la causa finale, affermando che essa nuoce alla scienza, più che giovarle: La ricerca delle cause finali è sterile: come una vergine consacrata a Dio, non partorisce nulla. (Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze, III, 5)

Bacone non nega che si possano legittimamente contemplare i fini degli oggetti naturali e l’armonia generale dell’universo per rendersi conto della potenza e della saggezza di colui che lo ha creato. Ma questa ricerca deve rimanere consacrata al servizio di Dio e non può essere trasportata sul piano della scienza naturale, perché questa non è contemplativa, bensì attiva, e deve scoprire le cause che consentono all’uomo il dominio sul mondo. Tra le altre cause aristoteliche, Bacone ritiene che l’efficiente e la materiale siano superficiali e inutili per la scienza vera. La causa formale

154

Rimane dunque la sola causa formale, che Bacone però concepisce in modo del tutto diverso da Aristotele. E che cosa egli intenda veramente per forma è il più difficile problema della critica baconiana.

Capitolo 3 • Bacone

Bacone insiste in primo luogo sulla tesi secondo cui soltanto la forma rivela l’unità della natura e rende possibile all’uomo la scoperta e la produzione di quello che non c’è mai stato prima, che non sarebbe mai venuto in mente a nessuno e che né le vicende della natura, né le accortezze sperimentali, né il caso avrebbero mai prodotto: Soltanto dalla scoperta delle forme nasce la contemplazione vera e la libertà dell’operare. (Sulla dignità e sull’accrescimento delle scienze, II, 3)

Per intendere il significato della forma è necessaria un’osservazione preliminare. Bacone distingue in ogni fenomeno naturale due aspetti diversi: ■■■ lo schematismo latente, cioè la struttura o l’ordine intrinseco dei corpi considerati staticamente; ■■■ il processo latente, cioè il movimento intrinseco dei corpi stessi, che li porta alla realizzazione della forma. Ora, la forma è nello stesso tempo il principio dello schematismo e il principio del processo: essa conserva quindi in Bacone una duplicità di significato che rispecchia la duplicità di funzione che egli le attribuisce. Il filosofo vede infatti nella forma: ■■■ da un lato la struttura che costituisce essenzialmente, e quindi individua e definisce, un determinato fenomeno naturale; ■■■ dall’altro la legge che regola il movimento di generazione o di produzione del fenomeno stesso.

Lo schematismo latente e il processo latente

La definizione di “forma”

Sintesi audio Il metodo induttivo

ConCetti

Il metodo scientifico

a Confronto

in Galilei

in Bacone

comprende: • un momento osservativo-induttivo (le «sensate esperienze») • un momento ipotetico-deduttivo (le «matematiche dimostrazioni»)

è induttivo, cioè fondato sulla raccolta e sull’interpretazione razionale di casi particolari

tra loro indissolubilmente legati

messa alla prova mediante esperimenti

si fonda sull’idea che la realtà abbia una struttura matematica, quindi privilegia gli aspetti quantitativi

non attribuisce alcun valore alla matematica

ricerca la causa efficiente dei fenomeni e mira a scoprire le leggi che li regolano

ricerca la causa formale dei fenomeni (intesa come “struttura” e “legge”)

Schema interattivo

I limiti scientifici del metodo baconiano Bacone ha esercitato una scarsa influenza sugli sviluppi teorici della scienza, la quale è stata dominata dalle intuizioni metodologiche di Leonardo, Keplero e Galileo, ma ha pressoché ignorato lo sperimentalismo baconiano. E in realtà lo sperimentalismo scientifico non poteva essere innestato sul tronco dell’aristotelismo: la teoria dell’induzione baconiana doveva fallire in questo tentativo.

155

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Il misconoscimento del ruolo della matematica

Approfondimento Bacone nella cultura moderna

Lo sperimentalismo scientifico aveva già trovato la sua logica e con essa la sua capacità di sistemazione. Questa logica era, come si è visto, la matematica. È significativo come nell’induzione baconiana non trovi posto la matematica. Bacone, in verità, si preoccupò di situare la matematica nella sua enciclopedia delle scienze, aggregandola talvolta alla metafisica, talvolta alla fisica; ma non riconobbe alla matematica stessa alcuna funzione efficace nella ricerca scientifica, ed affermò esplicitamente che essa «è al termine della filosofia naturale, ma non la deve generare né procreare» (Novum Organum, II, 96). Anzi nello stesso luogo egli afferma che la matematica è causa di corruzione della filosofia naturale; e altrove dice che l’astronomia è stata annoverata tra le matematiche non senza scapito della sua dignità. In realtà, lo sperimentalismo di Bacone si mantiene nei quadri della metafisica aristotelica, e pertanto non riesce a fornire alla scienza un nuovo organo di ricerca. La vera grandezza di Bacone consiste piuttosto nell’aver riconosciuto la stretta connessione tra la scienza e la potenza umana.

GLOSSARIO e RIEPILOGO Bacone Sapere è potere p. 150 > «Sapere è potere» è la formula più nota e caratteristica di Bacone. Essa afferma che l’uomo, grazie alla conoscenza della natura e delle sue leggi, risulta in grado di estendere indefinitamente il proprio potere sul mondo.

Idòla p. 151 > Gli idòla sono i pregiudizi che impedisco-

no una retta comprensione della natura. Bacone distingue tra idòla tribus (quelli comuni a tutta la specie), idòla specus (quelli propri di ciascun individuo, ossia dipendenti dall’educazione, dalle abitudini e dalle circostanze), idòla fori (quelli derivanti dalla “piazza”, ossia dal linguaggio e dai suoi equivoci) e idòla theatri (quelli derivanti dalle dottrine filosofiche del passato).

Induzione p. 153 > L’induzione costituisce il metodo

proprio della scienza. Bacone distingue nettamente l’induzione scientifica dall’induzione aristotelica. Quest’ultima consta della semplice enumerazione di casi particolari e, secondo Bacone, offre conclusioni precarie, esposte al pericolo della smentita da parte di casi contrari. L’induzione scientifica, invece, si fonda sulla scelta e sull’eliminazione dei casi particolari: scelta ed eliminazione ripetute più volte sotto il controllo dell’esperimento, fino a giungere alla messa in luce della vera natura e della vera legge del fenomeno. A questo scopo servono le tavole.

156

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Tavole p. 153 > Bacone considera le tavole come coor-

dinazioni delle istanze, ossia degli aspetti specifici di un fatto. In particolare, le tavole della presenza raccolgono i casi in cui un determinato fenomeno (ad esempio, il calore) si presenta ugualmente, benché in circostanze diverse (ad esempio, le fiamme, i raggi solari, i fulmini). Le tavole dell’assenza raccolgono i casi in cui lo stesso fenomeno non si presenta, benché le circostanze siano simili a quelle osservate nelle tavole di presenza (ad esempio, la luce della luna e delle stelle). Le tavole dei gradi, o comparative, raccolgono i casi in cui il fenomeno si presenta nei suoi gradi decrescenti. Le tavole approntano l’intero materiale della ricerca, consentono di escludere fin da subito le cause che risultano incompatibili con il fenomeno studiato e aprono la strada alla formulazione di una prima ipotesi (vindemiatio prima) sulla natura del fenomeno stesso.

Istanze prerogative p. 153 > Per “istanze prerogative” Bacone intende gli esperimenti successivi attraverso i quali viene messa alla prova l’ipotesi di partenza. Istanza cruciale p. 154 > L’“istanza cruciale”, il cui nome richiama le croci erette nei bivi per indicare la separazione delle strade risulta decisiva: quando il fenomeno studiato è collegato a diversi altri fenomeni che potrebbero esserne la causa, l’istanza cruciale dimostra la sua connessione necessaria con uno dei fenomeni e la sua

Capitolo 3 • Bacone

separabilità dagli altri, permettendo così di individuare la causa vera, o forma.

Formiche, ragni e api p. 154 > Bacone differenzia il proprio metodo induttivo sia dalla semplice raccolta di fatti (empirismo), sia dal ragionamento astratto (razionalismo), presentandolo come una razionale interpretazione e selezione dei dati. Assimilando gli empirici alle formiche (che «accumulano soltanto») e i dogmatici o i razionalisti ai ragni (che «traggono la tela da se stessi»), egli paragona il metodo scientifico all’operato delle api, che raccolgono il nettare dai fiori, ma poi lo lavorano trasformandolo in miele. In altri termini, se-

condo Bacone la scienza non si basa soltanto o principalmente sul lavorio della ragione, ma trae dall’esperienza il materiale che poi elabora attraverso l’intelletto.

Forma p. 154 > Pur partendo dalla distinzione delle

quattro cause aristoteliche (materiale, formale, efficiente e finale), Bacone ammette di fatto solo la causa formale, intendendo per “forma” tanto la struttura che costituisce essenzialmente un fenomeno naturale, quanto la legge che governa il movimento di generazione o di produzione del fenomeno stesso. Nel primo senso la forma è intesa come il principio dello schematismo latente del fenomeno, nel secondo come il principio del processo latente.

MAPPA Bacone La concezione della SCIENZA critica della logica aristotelica e proposta di una nuova logica del procedimento tecnico-scientifico (Novum Organum)

scienza come strumento al servizio dell’uomo: «sapere è potere»

necessità di eliminare anticipazioni e pregiudizi che ostacolino il procedere della scienza

• idòla tribus, comuni a tutti gli uomini • idòla specus, propri di ciascun individuo • idòla fori, derivanti dal linguaggio • idòla theatri, derivanti dalle dottrine filosofiche del passato Il METODO SCIENTIFICO

Mappa interattiva

la scienza procede per induzione (intesa come interpretazione e selezione razionale dei dati)

raccolta dei dati («storia naturale e sperimentale»)

elaborazione delle tavole (della presenza, dell’assenza e dei gradi, o comparative)

formulazione di una prima ipotesi (vindemiatio prima) coerente con i risultati delle tavole

messa alla prova dell’ipotesi attraverso successivi esperimenti («istanze prerogative»)

messa a punto di un esperimento decisivo («istanza cruciale»)

l’intero processo tende a stabilire la causa formale («struttura» e «legge») dei fenomeni

157

I TESTI CAPITOLO 3 Bacone

Dai Cogitata et visa I Cogitata et visa, apparsi postumi, sono il frutto della rielaborazione e traduzione latina di un precedente testo baconiano in lingua inglese, non pubblicato dall’autore per il timore di provocare reazioni di indignazione e riprovazione da parte dei dotti dell’epoca. Scritto presumibilmente tra il 1607 e il 1609, in terza persona, il testo è caratterizzato dalla critica radicale della tradizione scientifico-filosofica e dall’annuncio dell’avvento di un nuovo metodo, di tipo empiristico, che consentirà di conoscere la natura ricavandone i più grandi vantaggi per l’umanità.

t1 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14

158

Sapere è potere

Nel brano che segue, Bacone evidenzia come l’uomo sia mosso, in generale, dalla volontà di dominio e come ciò sia accettabile in quanto tale volontà è volta alla sottomissione della natura per il bene dell’umanità. Da questa riflessione discende lo stretto legame istituito dal filosofo tra la scienza, intesa come progresso solo teorico dell’uomo nell’ambito del sapere, e la tecnica, che della scienza costituisce un aspetto imprescindibile.

Considerando poi i desideri e le ambizioni degli uomini, Bacone distingueva tre specie di ambizione, anche se una di esse non è forse degna di questo nome. La prima è quella di coloro che lavorano senza posa per aumentare la loro personale potenza nella loro patria: questa è volgare e degenere. La seconda è quella di coloro che cercano di aumentare la potenza della loro patria nel mondo: questa ha in sé più dignità, ma non minore cupidigia. La terza è quella di coloro che cercano di instaurare ed esaltare la potenza e il dominio dell’uomo stesso, o di tutto il genere umano, sull’universo: quest’ambizione è senza dubbio più sana e più nobile delle due precedenti. Il dominio dell’uomo consiste solo nella conoscenza: l’uomo tanto può quanto sa; nessuna forza può spezzare la catena delle cause naturali; la natura infatti non si vince se non ubbidendole. Bacone ha lungamente meditato per cercare esempi capaci di illustrare non solo la forza pura e semplice delle scoperte, ma anche il modo in cui quella forza si congiungeva con il valore e il beneficio per l’uomo. Essa si manifesta certo con grande evidenza in quelle tre invenzioni che erano ignote agli antichi e le cui origini restano ancora per noi oscure e ingloriose: l’arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola. Queste tre invenzioni, che son poche di numero e non sono molto lontane dalle vie ordinarie della ricerca, hanno cambiato la faccia del mondo e le

16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38

condizioni della vita sulla terra: la prima nella cultura, la seconda nell’arte militare, la terza nella navigazione. Da esse derivarono infiniti mutamenti che si rivelano assai notevoli ad un accurato esame, tanto che nessun impero, nessuna sètta, nessuna stella sembra avere esercitato, sulle cose umane, un maggior influsso ed una maggiore efficacia di queste tre invenzioni meccaniche. Per rendersi conto del valore delle opere, basterà considerare la differenza che passa tra la vita degli uomini in una regione europea altamente civilizzata e quella che si conduce in un qualche territorio barbaro e selvaggio della Nuova India. La differenza è così grande che si può dire con ragione che un uomo può apparire a un altro uomo come un Dio, non solo per gli aiuti e i benefici che può dare, ma anche per il confronto fra le condizioni di vita. Tale differenza non deriva dal terreno, né dal clima, né dalla costituzione fisica, ma dalle arti. Ma il nuovo mondo delle scienze non deve accordarsi con il Nuovo Mondo della geografia nell’essere molto meno coltivato del vecchio mondo. Al contrario, bisogna che i nuovi ritrovati delle arti si rivelino molto più importanti di ciò che è già a nostra disposizione e siano tali da non limitarsi solo a guidare gentilmente la natura, ma capaci di vincerla, di sottometterla e scuoterla dalle fondamenta. Accade quasi sempre che le scoperte raggiunte con facilità diano luogo a opere deboli: le radici delle cose, dove risiede la forza, sono nascoste nel profondo. Può darsi che qualcuno, che dedica alla contemplazione tutto il suo amore e la sua venerazione, avverta qualcosa di sgradevole in questa continua esaltazione delle opere. Sappia costui che, così pensando, va contro ai suoi stessi desideri perché in natura le opere non sono soltanto benefici per la vita, ma anche pegni della verità. Quello stesso che si richiede giustamente nella religione, che cioè la fede sia dimostrata dalle opere, vale anche nella filosofia naturale: anche la scienza deve essere dimostrata dalle opere. La verità emerge ed è dimostrata più dall’indicazione delle opere che dalle argomentazioni o dall’osservazione.

I TESTI

Capitolo 3 • Bacone

(Cogitata et visa. Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scienza operativa, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, utet, Torino 1975, pp. 389-391)

Analisi del testo 1-9 Elencando gli scopi fondamentali che gli uomini si prefiggono di raggiungere con le loro attività, Bacone li individua nella ricerca del dominio e del potere («potenza») per se stessi, per la propria patria e per il genere umano in generale. Se il primo di questi obiettivi è «volgare e degenere», al secondo si riconosce una certa «dignità» (lo stesso Bacone, del resto, in alcuni scritti rivolti alla regina Elisabetta e, successivamente, a Giacomo I, sembra manifestare questa intenzione). Ma certamente lo scopo più nobile che l’uomo possa perseguire è il terzo, ovvero quello di beneficare l’umanità intera contribuendo alla realizzazione del suo dominio sulla natura. Questo risultato può essere ottenuto non certo mediante la forza, ma attraverso la conoscenza delle leggi della natura: solo conoscendo i suoi meccanismi, infatti, è possibile prevederne il “comportamento” o il corso e, di conseguenza, trarne vantaggio, senza cercare invano di piegarlo o forzarlo. 10-25 Nel tentativo di esemplificare quanto appena

detto, Bacone cita tre invenzioni che hanno rivoluzionato la vita dell’uomo moderno: la stampa, la polvere da sparo e la bussola. Invenzioni preziose, di un’importanza senza pari, come risulta considerando l’enorme differenza esistente tra il livello di vita di una regione europea civilizzata e quello di una regione “selvaggia” dell’America (nel primo Seicento). 25-31 Sebbene sia facile adagiarsi sul successo ottenuto mediante una nuova scoperta, questo non deve accadere: l’uomo deve continuamente cercare «le radici delle cose», senza accontentarsi dei risultati già raggiunti. 32-38 Rivolgendosi a coloro che privilegiano la ricerca teorica e disdegnano le applicazioni pratiche, Bacone sottolinea, in chiusura di brano, tutta l’importanza rivestita dalla tecnica anche per il progresso delle ricerche teoriche. Così come la fede dev’essere suffragata dalle opere, in modo analogo, nello studio della natura, la teoria dev’essere convalidata dalla prassi.

159

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

Dal Novum Organum

I TESTI

Contrapposto all’astrattezza dell’Órganon aristotelico, il Novum Organum di Bacone si propone come lo strumento di cui l’uomo deve servirsi per indagare la natura e assoggettarla al proprio volere.

t2 >

Gli «idoli» della mente

Il primo libro del Nuovo Organo ha principalmente lo scopo di richiamare l’attenzione su quei pregiudizi (che Bacone chiama «idoli») che impediscono alla mente umana di conoscere la verità. Coerentemente con la propria prospettiva empiristica, Bacone concepisce la mente come uno specchio in grado di riflettere i raggi della realtà; l’analisi critica degli «idoli» serve dunque a restituire allo specchio della mente questa sua originaria facoltà, perduta a causa delle “deformazioni” prodotte da alcuni pregiudizi sulle immagini della realtà. La teoria degli idoli ha un’ ispirazione almeno in parte religiosa, in quanto Bacone mette in relazione la corruzione dell’intelletto con il peccato originale e ritiene che gli uomini, costruendo immagini deformate e fantastiche del mondo, abbiano rinnovato il peccato di superbia dei loro progenitori.

2

XXXIX. Quattro sono i generi di idoli che assediano la mente umana. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo il primo genere idoli della tribù; il secondo idoli della spelonca; il terzo idoli del foro; il quarto idoli del teatro.

4

XL.

Ricavare i concetti e gli assiomi per mezzo dell’induzione vera: questo è senza dubbio il rimedio adatto per scacciare e rimuovere gli idoli. Anche l’indicazione degli idoli è tuttavia di grande utilità. Infatti la dottrina degli idoli sta all’interpretazione della natura come la dottrina degli elenchi sofistici sta alla comune dialettica.

XLI.

Gli idoli della tribù sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribù o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso è la misura delle cose. Al contrario, tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. L’intelletto umano è simile a uno specchio che riflette irregolarmente i raggi delle cose, che mescola la sua propria natura a quella delle cose e le deforma e le travisa.

XLII.

Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura umana in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conversazione con gli altri, o della lettura di libri e dell’autorità di coloro che vengono onorati e ammirati, o a causa della diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo già condizionato e prevenuto oppure sgombro ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro piccoli mondi privati e non nel più grande mondo a tutti comune.

XLIII.

Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del foro a causa del commercio e del consorzio degli

6

8 10 12

14 16 18 20 22

24

160

uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra straordinariamente l’intelletto. D’altra parte le definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si sono provveduti e con le quali si sono protetti in certi casi, non sono in alcun modo servite di rimedio. Anzi, le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a innumerevoli e varie controversie e finzioni.

26 28 30 32

XLIV. 34 36 38 40 42

Vi sono infine gli idoli che sono penetrati nell’animo degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state accolte e create come altrettante favole presentate sulla scena e recitate, che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle antiche filosofie e delle antiche sètte, perché è sempre possibile comporre e combinare molte altre favole dello stesso tipo: le cause di errori diversissimi possono essere infatti quasi comuni. Né abbiamo queste opinioni solo intorno ai sistemi filosofici, ma anche intorno a molti principî e assiomi delle scienze che sono invalsi per tradizione, credulità e trascuratezza. Ma di ognuna di queste specie di idoli bisognerà parlare più diffusamente e partitamente per mettere in guardia l’intelletto umano.

I TESTI

Capitolo 3 • Bacone

(Nuovo Organo, I, 1, in Scritti filosofici, cit., pp. 559-562)

Analisi del testo 1-7 Bacone classifica quattro specie di «idoli», ovvero di pregiudizi che impediscono la conoscenza della verità (perfezionando così classificazioni precedenti parzialmente diverse, presenti in altre sue opere). Altrove, anziché “idoli”, usa i termini “errori”, “superstizioni”, “fantasmi” ed altri ancora. 8-13 Gli «idoli della tribù» sono quelli comuni a tutti gli uomini; essi riguardano sia i sensi, sia l’intelletto e in ultima analisi dipendono dalla pretesa dell’uomo di concepire il mondo a propria misura. Come Bacone chiarirà più avanti, sono esempi di questo tipo di pregiudizi l’inclinazione ad attribuire alla natura un’armonia maggiore di quella effettiva o l’inclinazione a dare importanza a ciò che colpisce la fantasia, più che a ciò che è nascosto e lontano. 14-23 Gli «idoli della caverna» (si pensi all’omonimo mito platonico) sono quelli che variano da individuo a individuo. Possono essere innati o acquisiti, a seconda che derivino dalla personale inclinazione, dall’educazione ricevuta o dalle conoscenze acquisite. Tipico «idolo della caverna» (chiarirà più avanti Bacone) è ad esempio quello che ha indotto Aristotele a sopravvalu-

tare il metodo deduttivo, o Gilbert a sopravvalutare il magnetismo. Ognuno vive come in un proprio piccolo mondo privato e non, come auspicato da Eraclito, insieme con gli altri uomini nel mondo comune a tutti: «Unico e comune è il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare». 24-32 Gli «idoli del foro» (o della piazza) sono quelli legati al linguaggio. In quanto strumento necessario alla vita di tutti gli uomini (dotti e non), le parole sono spesso utilizzate in modo improprio, che genera incomprensioni ed errori. Si noti tuttavia, in queste righe, l’allusione ironica di Bacone anche all’uso di certi dotti di trincerarsi dietro discorsi fumosi. 33-43 Gli «idoli del teatro», infine, sono quelli derivanti da una totale e acritica adesione a una particolare dottrina filosofica o pseudo-scientifica. Paragonate da Bacone a certe rappresentazioni teatrali, che suggestionano lo spettatore fino al punto da fargli scambiare la finzione per la realtà, tali dottrine possono generare nei singoli individui errori anche molto diversi.

161

verifica verifica

UNITÀ 2 La rivoluzione scientifica, Galilei e Bacone 1. La rivoluzione scientifica

Esercizi attivi

1 Delle quattro cause riconosciute dalla fisica aristoteli-

La natura è un ordine oggettivo, poiché i suoi carat-

ca, la nuova concezione della natura sottesa alla rivoluzione scientifica ammette:

teri non hanno niente a che fare con la dimensione

a la causa formale

c la causa efficiente

b la causa materiale

d la causa finale

.........................................................................,

e i desideri dell’uomo. Mentre il mondo della ..................... ......................................

2 Le tesi della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’uni-

appare come un organismo in cui ogni

cosa possiede un’............................................................ e risulta in rapporto di “.........................................................” o di “.......................................................”

verso sono difese da:

con gli altri esseri, l’universo della ................................ si confi-

a Giordano Bruno

gura come un ordine spogliato di ogni .........................................

b Niccolò Copernico

5 Collega gli elementi della cultura rinascimentale elen-

c Tycho Brahe d Andreas Osiander

3 In base a quanto hai appreso relativamente all’universo degli antichi e dei moderni, indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. L’universo degli antichi era unico

V

F

b. L’universo degli antichi era infinito

V

F

cati di seguito (colonna di sinistra) con i caratteri e le idee che vi corrispondono e che hanno influenzato la nascita della scienza moderna (colonna di destra). a. laicizzazione del sapere

1. ordine naturale immutabile fondato su connessioni causali

b. ritorno all’antico

2. studio di molte opere scientifiche dell’antichità prima trascurate

c. aristotelismo

3. uomo come signore della natura e carattere operativo del sapere

c. L’universo dei moderni è aperto in ogni direzione V

F

d. L’universo dei moderni è qualitativamente differenziato in due zone cosmiche V F

4 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per

162

e quindi con i fini, i bisogni

d. filosofia naturale

4. “geometricità” della natura

completare il passo riportato nella colonna a fianco, relativo alla concezione della natura come ordine oggettivo.

e. magia

5. comprensibilità della natura per mezzo della natura

spirituale - simpatia - antipatia - magia - anima scienza - valore - qualità umana

f. platonismo e pitagorismo

6. ricerca intellettuale libera e svincolata dalla tradizione culturale e religiosa

8 Ricostruisci sinteticamente lo schema concettuale che

del XV e del XVI secolo favoriscono lo sviluppo della (max 6 righe) scienza moderna?

sta alla base della rivoluzione scientifica, specificando i tratti della nuova concezione della natura e della (max 15 righe) scienza.

7 Quali diverse “forze” si trovano alleate contro la nuova scienza?

(max 6 righe)

9 Analizza brevemente le analogie e le differenze tra il sistema di Copernico, quello di Brahe e quello di Ke(max 15 righe) plero.

2. Galilei

Esercizi attivi

10 L’esperienza di cui parla Galilei è: a il frutto di un’elaborazione teorico-matematica

dei dati b l’esperienza immediata dei sensi c la verifica sperimentale d l’esperimento mentale

11 La validità del principio di causa è fondata da Galilei sull’idea: a della struttura matematica del cosmo

VERIFICA

a

6 In che senso le nuove esigenze tecniche della società

Le ................................................................... presuppongono sempre un riferimento alle necessarie ............................................................................... in quanto, in primo luogo, esse vengono assunte e rielaborate in un ........................................................................................................ e quindi spogliate dei loro .................................................................................... e ridotte alla loro ............................................................................................................ In secondo luogo esse, fin dall’inizio, sono “............................ .......................................” in quanto illuminate da un’................................ che le seleziona.

14 Collega le principali scoperte astronomiche di Galilei

b della distinzione tra proprietà oggettive e pro-

prietà soggettive c dell’uniformità dell’ordine naturale

(colonna di sinistra) con le teorie che esse mettono in crisi (colonna di destra). 1. i corpi celesti sono a. satelliti di Giove perfetti e immutabili

d dell’identica certezza della conoscenza umana e

b. macchie solari

di quella divina

12 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.

c. fasi di Venere

2. solo la Terra riceve la luce dal Sole 3. solo la Terra è al centro di moti astrali

a. Il metodo galileiano privilegia la deduzione V

F

b. Esperienza e dimostrazione si implicano vicendevolmente V F c. Alla base delle scoperte e delle intuizioni di Galilei sta l’accettazione della teoria copernicana V F d. Occorre che tutte le ipotesi siano direttamente verificabili V F

13 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato nella colonna a fianco, relativo alla metodologia galileiana. caratteri qualitativi - dimostrazioni - contesto matematico-razionale - sensate esperienze - struttura puramente quantitativa - cariche di teoria - ipotesi

15 Come vanno risolti, secondo Galilei, i contrasti tra la scienza e le sacre scritture?

(max 6 righe)

16 Che cosa sono le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni»?

(max 6 righe)

17 Illustra sinteticamente come sia Copernico sia Galilei, sviluppando la loro visione del cosmo, da un lato cerchino di restare fedeli all’autorità della Chiesa cattolica, dall’altro affermino con forza le proprie convinzioni scientifiche. (max 15 righe)

18 Dopo aver ricostruito i momenti essenziali del processo a Galilei, spiega brevemente in che senso si tratti ancor oggi di un “caso” chiuso e aperto nello stesso tempo. (max 15 righe)

163

UNITÀ 2 • LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA, GALILEI E BACONE

3. Bacone

Esercizi attivi

19 Secondo Bacone il fine ultimo della scienza è:

VERIFICA

a l’eliminazione delle anticipazioni b la conoscenza della natura

..................................................

e l’.................................................. dei casi partico-

lari, sotto la guida dell’.................................................., fino a giungere alla determinazione della vera natura e della vera .................................................. di un fenomeno.

c l’assoggettamento della natura all’uomo d l’elaborazione razionale dei dati dell’esperienza

20 Indica se le affermazioni seguenti sono vere o false. a. La scienza deve realizzare una sintesi tra l’anticipazione e l’interpretazione della natura V F b. La scienza richiede collaborazione tra i sensi e l’intelletto V F c. La verità si rivela gradualmente, grazie agli sforzi compiuti dagli uomini nella storia V F

22 Collega i pregiudizi della mente umana individuati da Bacone (colonna di sinistra) con le rispettive definizioni (colonna di destra). a. idòla tribus

1. derivano dalle filosofie del passato o da dimostrazioni errate

b. idòla specus

2. derivano dagli equivoci del linguaggio

c. idòla fori

3. dipendono dalle disposizioni dell’intelletto

d. idòla theatri

4 dipendono dall’educazione, dalle abitudini e dai casi fortuiti

d. La matematica ha un ruolo centrale nella ricerca scientifica V F

21 Utilizza i termini elencati di seguito per completare la frase riportata sotto. aristotelica - eliminazione - enumerazione - esperimento - legge - scelta - scientifica - smentite Bacone contrappone la propria induzione ............................... .................. all’induzione .................................................. Mentre quest’ultima procede per semplice .................................................. di casi particolari, dà conclusioni precarie ed è soggetta a .................................................., l’induzione scientifica si fonda sulla

LABORATORIO DELLE IDEE Galilei nel teatro di Brecht

23 Quali sono, secondo Bacone, le differenze tra l’anticipazione e l’interpretazione della natura? (max 6 righe)

24 Che cosa rappresenta per Bacone l’esperimento? (max 6 righe)

25 Considera l’atteggiamento di Bacone riguardo alla ricerca scientifica e illustra in che cosa consiste dal punto di vista concettuale il “nuovo organo” proposto dal (max 15 righe) filosofo inglese.

VERSO LE COMPETENZE w Leggere, comprendere e interpretare un testo w Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni

Nella coscienza dell’uomo moderno, Galileo Galilei è diventato il simbolo dell’autonomia della scienza, che si erge con fierezza contro i condizionamenti del potere e dell’autorità. La letteratura, il cinema e il teatro hanno visto in questo personaggio un eroe senza tempo, la cui vicenda è stata variamente riletta e attualizzata, attraverso gli anni, alla luce delle diverse forme via via assunte dal potere. Un esempio eloquente è il celebre dramma teatrale Vita di Galileo di Bertolt Brecht (1898-1956). Nella prima stesura del dramma (1938) Galilei appare come animato da un’incrollabile fiducia nella ragione umana. In quegli anni il nazismo stava trascinando l’Europa nella follia della guerra e Brecht stava provando su di sé il sopruso di un potere cieco e violento: la rappresentazione delle sue opere era stata vietata, i suoi libri censurati e bruciati, e con la sua famiglia egli era stato costretto a un doloroso esilio in Danimarca e in Svezia. Nella versione dell’opera redatta in questi anni, Brecht sembra dunque riconoscersi in Galileo, presentandone l’abiura come una sorta di “ritirata strategica”, come un astuto sottrarsi ai propri persecutori per poter lavorare con maggiore efficacia al servizio della verità e della scienza.

164

Verifica

GALILEO - [...] mi pare che la pratica della scienza richieda particolare coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio; e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. Ora, la gran parte della popolazione è tenuta dai suoi sovrani, dai suoi proprietari di terra, dai suoi preti, in una nebbia madreperlacea di superstizioni e di antiche sentenze, che occulta gli intrighi di costoro. Antica come le rocce è la condizione dei più, e dall’alto dei pulpiti e delle cattedre si suole dipingerla come altrettanto imperitura. Ma la nostra nuova arte del dubbio appassionò il gran pubblico, che corse a strapparci di mano il telescopio per puntarlo sui suoi aguzzini. Questi uomini egoisti e prepotenti, avidi predatori a proprio vantaggio dei frutti della scienza, si avvidero subito che un freddo occhio scientifico si era posato su una miseria millenaria quanto artificiale, una miseria che chiaramente poteva essere eliminata con l’eliminare loro stessi; e allora sommersero noi sotto un profluvio di minacce e di corruzioni, tale da travolgere gli spiriti deboli. Ma possiamo noi ripudiare la massa e conservarci ugualmente uomini di scienza? I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari; ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscrutabili ai popoli. E se la battaglia per la misurabilità dei cieli è stata vinta dal dubbio, la battaglia della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità. Con tutt’e due queste battaglie, Andrea1, ha a che fare la scienza. Finché l’umanità continuerà a brancolare nella sua nebbia millenaria di superstizioni e di venerande sentenze, finché sarà troppo ignorante per sviluppare le sue proprie energie, non sarà nemmeno capace di sviluppare le energie della natura che le vengono svelate. Che scopo si prefigge il vostro lavoro? Io credo che la scienza non possa proporsi altro scopo che quello di alleviare la fatica dell’esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro éureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale.

VERIFICA

A partire dal 1945, tuttavia, Brecht (esule negli Stati Uniti ormai dal 1941) mette in atto un laborioso rifacimento del dramma, con lo scopo dichiarato di suscitare nel lettore e nello spettatore un moto di condanna contro la mancanza di coraggio dimostrata da Galileo. Secondo il “nuovo” Brecht, infatti, la scienza non può limitarsi ad accrescere la conoscenza, ma deve servire a emancipare l’uomo dalla «nebbia madreperlacea» della superstizione e dalla condizione di minorità in cui il potere tenta di ridurlo.

(B. Brecht, Vita di Galileo, trad. it. di E. Castellani, Einaudi, Torino 1963, pp. 237-239) 1 Andrea è il figlio della governante di Galileo, che al termine delle vicende narrate nel dramma è ormai uno scienziato affermato.

Comprensione del testo 1. Nelle prime righe del brano l’autore illustra, per bocca di Galileo, i motivi per cui «la scienza richiede particolare coraggio»: quali sono? 2. Quali sono le due «battaglie» con cui, secondo Galileo-Brecht, ha a che fare la scienza? 3. In che cosa consiste la «nebbia millenaria» in cui è immersa l’umanità?

Riflessione 4. Nelle due prime versioni del dramma (quella del 1938 a cui abbiamo accennato nell’introduzione e quella successiva al 1945, da cui è tratto il brano), Brecht tratteggia due volti di Galileo molto diversi l’uno dall’altro: quale dei due, a tuo avviso, è il più vero? Quello dell’eroe, che crede nell’uomo e nella ragione, o quello dall’antieroe, in cui la debolezza prende il sopravvento? E quale ritieni che sia il volto dello scienziato “ideale”? 5. Il «grido del dolore universale» in chiusura di brano allude alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki il 6 e il 9 agosto 1945: ecco perché l’autore afferma che ogni scoperta («ogni vostro éureka») può scavare «un abisso» tra la scienza e l’umanità. Qual è la tua opionione in proposito?

165

Gnoseologia Epistemologia

QUESTIONE La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico? Bruno, Bacone

Partiamo da un caso concreto Lo stambecco delle Alpi, imponente e agile mammifero diffuso lungo l’arco alpino, nel corso dei secoli è stato una preda molto ambita dai cacciatori per il particolare sapore delle sue carni, per l’imponenza delle sue corna, che venivano esposte come trofeo, e perfino per il potere magico attribuito alle sue ossa, spesso utilizzate come talismano. All’inizio del XIX secolo, a causa della massiccia diffusione delle armi da fuoco, la caccia allo stambecco si fece estremamente rovinosa, fino a causare la scomparsa di questa specie animale da pressoché tutto il territorio delle Alpi. A salvarla dall’estinzione fu la famiglia reale dei Savoia. Dopo che un ispettore forestale piemontese ebbe scoperto che nelle inaccessibili valli del Gran Paradiso era rimasto solo un centinaio di stambecchi, nel 1821 il re di Sardegna Carlo Felice ne proibì la caccia. E nel 1856 il “re cacciatore” Vittorio Emanuele II fece proteggere in una riserva privata gli ultimi esemplari. Un dato paradossale emerge da questi fatti: grazie ai provvedimenti di Carlo Felice e di Vittorio Emanuele II, la popolazione degli stambecchi tornò presto ad aumentare, e questo consentì ai so-

D

vrani piemontesi di non interrompere le loro frequenti battute venatorie, durante le quali venivano uccisi centinaia di esemplari. Lo stambecco fu dunque salvato, ma non per nobili ragioni ecologi-

obbiamo salvare gli stambecchi per poterne fruire meglio nella nostra identità di esseri umani (a livello di godimento venatorio, estetico, educativo, contemplativo; il fine non fa qui molta differenza, in quanto si tratta di una teleologia comun-

che, bensì per garantire il divertimento del re e del suo seguito. La vicenda suggerisce un interrogativo che si rivelerà ricco, come vedremo, di implicazioni teoriche:

que esterna all’organismo che si vuole tutelare), o li dobbiamo salvare, invece, perché gli stambecchi hanno valore in sé, e la loro scomparsa costituisce una perdita irreparabile per l’intera biosfera, e non solo per gli esseri umani privati del piacere della loro fruizione?

(B. Schroeder, S. Benso, Pensare ambientalista. Tra filosofia ed ecologia, p. 27)

166

L’ultimo atto della “difesa” dello stambecco da parte dei Savoia risale al 3 dicembre 1922, quando Vittorio Emanuele III firmò il decreto-legge che istituiva il Parco Nazionale del Gran Paradiso, fissandone, nell’articolo 1 dello Statuto, la finalità generale: «conservare la fauna e la flora e preservare le speciali formazioni geologiche, nonché la bellezza del paesaggio». I termini “conservare” e “preservare” hanno finito per acquisire, nell’odierno dibattito sull’etica dell’ambiente, un significato tecnico specifico. Il filosofo australiano John Passmore oppone infatti i «conservazionisti» ai «preservazionisti»: i primi mirano a salvaguar-

dare l’ambiente allo scopo di non pregiudicare i vantaggi che la specie umana può ricavarne; i secondi partono dal presupposto che, a prescindere dalla sua utilità per l’uomo, la natura ha un valore in sé e la sua alterazione rappresenta un danno per la cosiddetta “comunità biosferica” e non solo per l’essere umano. La divergenza tra queste due prospettive – l’una volta a conservare la natura per l’uomo e l’altra a preservarla dall’uomo – può essere ricondotta all’alternativa tra due visioni del mondo che rispondono in modo diametralmente opposto alla domanda: che cos’è la natura?

Che cos’è la natura? Sulla base delle tue convinzioni personali, rispondi a questo interrogativo scegliendo tra le opzioni che seguono.

1. La natura è un soggetto vivente, di cui l’uomo è parte. Questa è la tesi del modello biocentrico (da bíos, “vita”) o ecocentrico (da óikos, “casa”), secondo il quale l’essere umano non è un soggetto spirituale contrapposto alla natura quale oggetto meccanico, ma il compartecipe e il corresponsabile di un unico ecosistema, cioè di una “dimora” comune (la “comunità biosferica” o “comunità biotica”) di cui è ospite e, in un certo senso, “coinquilino”, insieme con tutte le altre forme di vita.

QUESTIONE

Naturalmente possiamo porci la medesima domanda a proposito di numerose specie di pesci, uccelli o rettili, il cui ambiente di vita (dal mare alle foreste tropicali, ai deserti...) è oggi seriamente minacciato dallo sfruttamento biologico ed economico a cui l’uomo lo sottopone. Ognuno di questi casi mette in luce la questione filosofica generale che è sottesa alla tutela della natura da parte degli esseri umani: per quale ragione, cioè per quale scopo bisogna salvaguardare gli animali e il loro habitat? Per quale ragione o scopo l’uomo deve preservare l’ambiente naturale in cui vive?

VERSO LE COMPETENZE w Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale

2. La natura è un oggetto di cui l’uomo può disporre. Questa è la tesi del modello antropocentrico, secondo il quale l’uomo è l’unico vero soggetto (morale e giuridico) del pianeta, e il suo fine ultimo. Come tale, non ha verso la natura, che è l’oggetto della sua conoscenza e lo strumento dei suoi interessi e dei suoi vantaggi, alcun dovere diretto, ma solo doveri indiretti, dettati dalla responsabilità che l’uomo ha nei confronti degli altri esseri umani o delle generazioni future.

Illustra brevemente le ragioni che ti hanno indotto a prendere questa posizione.

167

QUESTIONE

Approfondiamo la questione QUESTIONE

Dal senso comune alla filosofia 1. La prospettiva biocentrica o ecocentrica è riconducibile a quella tradizione organicistica che fu storicamente sconfitta dal modello meccanicistico imposto dalla rivoluzione scientifica. Essa trova la sua massima espressione nella filosofia della natura del Romanticismo (in particolare in Goethe e in Schelling) e, prima ancora, nel naturalismo vitalistico di Giordano Bruno.

2. La concezione antropocentrica è riconducibile al modello meccanicistico della scienza moderna e, in particolare, al pensiero di Francesco Bacone, secondo il quale «sapere è potere». Conoscere il “meccanismo” della natura e le sue leggi vuol dire poterla dominare e sfruttare a proprio vantaggio.

1. | L’uomo come ospite della natura: Bruno L’omogeneità dell’universo

Diversamente da quanto accadrà in Bacone, il superamento del geocentrismo e l’affermazione di un universo senza centro portano Giordano Bruno a rifiutare, accanto all’idea della centralità fisica dell’uomo, anche quella del suo primato ontologico e biologico, in una prospettiva per certi versi post-cristiana e post-umanistica. Il filosofo di Nola non esclude che l’uomo possa «assomigliarsi» a Dio e farsi addirittura «Dio de la terra», ma riconduce la differenza tra l’uomo e gli altri animali non a «un maggior lume dell’intelletto», ma al possesso di quell’«organo degli organi» che è la mano prensile, la quale ha fatto dell’essere umano il «trionfator veramente invitto sopra le altre specie» (Cabala del cavallo pegaseo, in Dialoghi italiani, vol. 2, p. 887). Che l’uomo non possieda un’intelligenza superiore a quella degli altri animali è provato, secondo Bruno, dal comportamento delle formiche, che castrano i germogli di grano che trasportano nelle gallerie per non farli germogliare. E se i più, «stupidamente», attribuiscono questo previdente modo di fare a un «istinto della natura», Bruno ritiene invece che «quell’istinto è un tipo di senso o (che è lo stesso) un grado o un ramo dell’intelligenza di cui [noi uomini] siamo privi». Del resto, nell’universo unico e omogeneo di Bruno, la differenza tra spirito e materia, uomo e natura, ragione e istinto non ha motivo d’essere. Una volta superata la distinzione gerarchica tra regione sopralunare e sublunare, una volta privato lo spazio di un punto di riferimento assoluto, non è più possibile distinguere il più perfetto dal meno perfetto. Inoltre, per Bruno l’universo è infinito non solo quantitativamente, nell’estensione spaziale, ma anche qualitativamente, nella varietà di forme di vita che ospita, e ogni ente è una manifestazione dell’unica materia vivente e divina, un aspetto dell’infinito che ha la stessa dignità di tutti gli altri: Alla proporzione, similitudine, unione ed identità de l’infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo; perché a quello essere non più ti avvicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica; e però [= perciò] nell’infinito queste cose sono indifferenti. E quello che dico di queste, intendo di tutte l’altre cose di sussisten(De la causa, principio e uno, in Dialoghi italiani, vol. 1, p. 320) za particolare. Un uomo, una formica, una stella... secondo Bruno non sono «parti» o «sostanze» diverse dell’universo (che in sé è unico e indivisibile), ma sue diverse manifestazioni fenomeniche. Tra le piante, gli animali e l’uomo c’è solo una differenza di grado, non di qualità. L’uomo ha lo stesso valore del più piccolo essere vivente e non gode di quella “regalità” assoluta che Bacone, sulla scorta della Bibbia, gli assegnerà.

168

La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico?

La natura come organismo animato

QUESTIONE

Vivendo nell’epoca pre-scientifica della magia e del naturalismo rinascimentale, Bruno concepisce la natura come un organismo vivente in cui ogni cosa ha un’anima, come un macrocosmo analogo al microcosmo dell’uomo. E se Bacone guarderà alla natura come a un ordine meccanico che non suscita emozione e non commuove per la sua bellezza, Bruno si volge ad essa con un atteggiamento di religioso, commosso, «eroico furore», che lo spinge a sentirsi parte viva dell’universo intero e a non dimenticare che l’uomo è anch’egli natura e, perciò, non può ergersi sopra di essa. È il messaggio del celebre mito di Atteone, che Bruno spiega in un dialogo della raccolta intitolata De gli eroici furori: osando contemplare di nascosto la dea Diana nuda al bagno, Atteone “viola”, per così dire, la bellezza naturale e per punizione viene trasformato in cervo. Da cacciatore, o predatore della natura, egli si ritrova così ad essere preda, o natura predata, sancendo la sua identità sostanziale con l’universo. Attratto dalla bellezza luminosa della natura, più che dalla sua utilità per l’uomo, in tutte le sue opere Bruno non fa che celebrare quell’unica, infinita energia produttiva che, come un «artefice interno», genera e anima tutte le cose: forma la materia e le dà figura da dentro: come da dentro del seme o dalla radice manda ed esplica il tronco; da dentro il tronco caccia i rami; da dentro i rami genera altri rami; da dentro questi spiega le gemme. Da dentro forma, figura, intesse, come di nervi, le fronde, i fiori, i frutti; e da dentro, a certi tempi, richiama gli suoi umori da le frondi e frutti alle branche, da le branche agli rami, dagli rami al tronco, dal tronco alla radice. (De la causa, principio e uno, in Dialoghi italiani, vol. 1, p. 233)

Concependo l’universo come una unità e totalità vivente in continua trasformazione, nella quale ogni specie muta e si evolve nella successiva, Bruno sembra in un certo senso precorrere la teoria evoluzionistica di Darwin, che “spodesterà” nuovamente l’uomo dal centro della natura, cioè dalla posizione di dominio attribuitagli per secoli, per trasformarlo da “padrone” del creato in “ospite” di una dimora da condividere con tutti gli altri viventi.

2. | L’uomo come signore della natura: Bacone Il modello antropocentrico, che nel corso dei secoli ha contribuito a giustificare l’idea della superiorità dell’uomo sulla natura, è per certi versi ricollegabile alla tradizione ebraico-cristiana, che nel libro della Genesi fissa il principio secondo cui all’uomo spetta il «dominio della terra». Fatto «a immagine e somiglianza» di Dio, l’uomo è “signore” del mondo e “padrone” della natura, in quanto legittimo prosecutore dell’opera creatrice di Dio: «Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutte le fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”» (Gen, 1, 26). Proprio all’antropocentrismo biblico può essere ricondotto il metodo scientifico di Francesco Bacone, che spoglia la natura di ogni residua dimensione spirituale, facendone il docile e inerte “oggetto” del sapere dell’uomo e del suo dominio manipolatorio. È lo stesso Bacone ad affermare esplicitamente che la conoscenza della natura, in quanto strumento con cui dominarla, risponde alla missione affidata da Dio all’uomo perché possa celebrare la gloria della sua creazione. Regolato da ferree leggi di causa-effetto, per Bacone il mondo è dunque una “macchina”, nulla più che un congegno meccanico che è possibile imparare a far funzionare a proprio vantaggio:

L’antropocentrismo biblico

Sta tutto nella scienza: l’uomo può tanto quanto sa, e non vi sono forze capaci di spezzare la catena delle cause naturali, perché alla natura si comanda solo ubbidendole. (Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scienza operativa, 16, 8, in Opere filosofiche, vol. 1, p. 114)

169

QUESTIONE

QUESTIONE

La tecnocrazia della Nuova Atlantide

In quest’ottica, nella Nuova Atlantide il filosofo descrive l’immaginaria isola di Bensalem, utopistico “paradiso” della scienza e della tecnica in cui la principale istituzione politica e scientifica è la cosiddetta «Casa di Salomone», dove si lavora alacremente per estendere su tutte le cose i confini dell’«Umano Impero»: Il Fine della nostra Fondazione è la conoscenza delle cause e dei segreti moti delle cose e l’allargamento dei confini dell’Umano Impero, per effettuare tutte le cose possibili. (Nuova Atlantide, p. 83)

Nella «Casa di Salomone», i «Padri morali della scienza» sono impegnati nella costruzione di industrie e nella realizzazione di progetti scientifici di utilità sociale, mossi da una concezione di fondo che vede la natura non come la dimora dell’uomo, ma come una sorta di enorme “cava” da cui prelevare materiali utili. Definito come il profeta del successivo sviluppo tecnologico, Bacone è stato forse qualcosa di più: il teorico di una potente tecnocrazia, l’apologeta di una casta di tecnoscienziati che modificano geneticamente piante e animali, compiono audaci esperimenti di vivisezione animale, fabbricano congegni sempre più potenti e distruttivi. La natura è per lui una realtà ormai totalmente desacralizzata, sulla quale è legittimo operare ogni genere di manipolazione e che non desta alcun interesse per la sua bellezza, ma solo per i vantaggi materiali e intellettuali che può offrire all’uomo: Abbiamo frutteti e giardini grandi e diversificati, dove non curiamo tanto la bellezza quanto la varietà del terreno e del suolo, adatti a diversi alberi ed erbe [...]. Qui effettuiamo inoltre tutti gli esperimenti di innesto e di inoculazione, sia degli alberi selvatici, sia di quelli da frutta: e tutto ciò dà molti risultati [...]. Molti di essi li modifichiamo in modo che diventino di uso medicinale. [...] Abbiamo parchi e recinti con ogni sorta di animali e uccelli che usiamo non solo per il loro aspetto o per la loro rarità, ma pure per dissezioni e prove; perché in tal modo possiamo gettare luce su cosa si può fare sul corpo dell’uomo. [...] Su di essi sperimentiamo anche tutti i veleni e le altre medicine, sia per via chirurgica, sia per via medica. [...] Scopriamo strumenti per fare commistioni e copulazioni tra differenti specie; e ciò ha prodotto molte nuove specie, non sterili, com’è opinione comune. (Nuova Atlantide, pp. 87-89)

Alla luce di questa profetica descrizione, è facile scorgere nella celebrazione baconiana del sapere come strumento di dominio dell’uomo sulla natura, così come nell’idea del mondo-macchina, la genesi della civiltà industriale e del primato della tecnica che si sarebbero affermati nei secoli successivi.

VERSO LE COMPETENZE w Saper argomentare una tesi Hai cambiato opinione? dopo aver ascoltato e valutato Ora che hai ascoltato le ragioni dei filosofi, decidi se intendi rimanere fedele alla tua idea iniziale le ragioni altrui o se preferisci cambiarla, e indica in sintesi gli argomenti che ti hanno indotto a questa decisione.

170

La natura: soggetto vivente o oggetto meccanico?

La Nuova Atlantide è parsa a molti, da una parte, una sorta di delirio di onnipotenza degli scienziati moderni e, dall’altra, la megalomane proiezione dell’Inghilterra, che, dopo la vittoria sull’Invincibile Armata di Filippo II di Spagna, si avviava a diventare la prima potenza economica e industriale d’Europa. Lo stretto legame della concezione di Bacone con l’epoca in cui il filosofo si trovò a vivere emerge anche dalle considerazioni del fisico austriaco Fritjof Capra (n. 1939), critico severo del modello culturale baconiano: «la natura, nella concezione di Bacone, doveva essere “rincorsa nelle sue peregrinazioni”, “costretta a servire” e resa “schiava”. Essa doveva esser “messa ai ceppi” e scopo dello scienziato doveva essere quello di “strapparle con la tortura i suoi segreti”. Pare che gran parte di queste immagini violente siano state ispirate dai processi per stregoneria, che erano frequenti al tempo di Bacone. In quanto ministro della giustizia sotto il re Giacomo I, Bacone doveva avere grande familiarità con tali processi, e poiché la natura era considerata di solito femmina, non sorprende che egli trasferisse nei suoi scritti scientifici le metafore usate nei tribunali» (Il punto di svolta, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1982, p. 49). Comunque la si interpreti, quella del rapporto uomo-natura è una questione drammaticamente presente nel dibattito culturale e politico contemporaneo. La constatazione delle tragiche conseguenze determinate dall’idea dell’uomo come “padrone” del creato ha diffuso la persuasione che sia giunto il momento di abbandonare il paradigma antropocentrico tipico dell’Occidente, per ripensare, secondo categorie assolutamente nuove, la collocazione dell’essere umano nel suo ambiente di vita. In particolare, le recenti filosofie ambientaliste, dette anche “ecofilosofie”, hanno individuato e proposto un nuovo principio etico, fondato su un’accezione di “responsabilità” che rispetto a quella legata al modello antropocentrico presenta un più ampio respiro: l’essere umano è tenuto a rapportarsi con la natura valutando le conseguenze delle sue azioni non solo sugli altri uomini e sulle generazioni future, ma anche sul mondo animale. Così, con una svolta netta nei confronti del pensiero occidentale e della sua idea di “uomo” delineata in contrapposizione a quella di “animale”, nella riflessione morale contemporanea si è imposta una vera e propria filosofia animalista, che ha trovato il suo culmine nell’opera di Peter Singer (n. 1946), fondatore della cosiddetta “etica degli animali”. Assumendo una prospettiva biocentrica (e non più antropocentrica), Singer ritiene che soggetto di diritto e destinatario di doveri non sia soltanto l’uomo, ma l’animale in genere, in quanto capace di provare dolore. In Giordano Bruno, e nella sua sfida al modello culturale e religioso dominante e all’idea di una gerarchica separazione tra l’uomo e la natura, è dunque possibile scorgere l’anticipazione della forte sensibilità ecologista che ispira la riflessione filosofica contemporanea. Significativo, a tal proposito, è quanto afferma Anacleto Verrecchia, studioso e traduttore dell’opera di Bruno: «Ho conversato a lungo, su questi argomenti, con Konrad Lorenz, padre dell’etologia moderna. Alla domanda se anche gli animali siano consapevoli, con il tono passionale e affascinante che lo distingue, risponde: “Nessuna persona seria dovrebbe dubitare di questo. Sono pienamente convinto, dico pienamente, che gli animali hanno una coscienza. L’uomo non è il solo ad avere una vita interiore soggettiva”. […] In fondo l’etologia va confermando quello che Giordano Bruno aveva intuito con il suo genio filosofico, e cioè che tutti gli esseri viventi sono fenomeni diversi di un’unica sostanza universale» (tratto da “La Stampa”, 8 settembre 1986).

QUESTIONE

Una questione aperta...

171

I TEMPI E I LUOGHI DELLA FILOSOFIA

Tra Seicento e Settecento: il razionalismo e l’empirismo 1550

1600

1650

1700

1750

1800

HOBBES (1588-1679) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Gassendi (1592-1655) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> CARTESIO (1596-1650) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Arnauld (1612-1694) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> PASCAL (1623-1662) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Geulincx (1624-1669) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Nicole (1625-1695) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> SPINOZA (1632-1677) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> LOCKE (1632-1704) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Malebranche (1638-1715) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Newton (1642-1727) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> LEIBNIZ (1646-1716) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> Berkeley (1685-1753) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> HUME (1711-1776) >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>

172

Stoccolma Hume

Edimburgo

Locke Hobbes

Oxford Londra

Amsterdam

Hannover

Spinoza

Berlino

Lipsia Leibniz

Parigi O C EA NO AT L AN TI C O

La Haye

La Flèche

Vienna

Descartes Pascal

Ginevra

Clermont

Madrid M A R M E D IT E R RA NE O

Roma

I

l periodo compreso tra la Guerra dei trent’anni (1618-1648) e la Guerra dei sette anni (1756-1763) è caratterizzato da un radicale mutamento dell’assetto geo-politico dell’Europa. L’area del Mediterraneo, particolarmente colpita dalla grande crisi economica e demografica del Seicento, appare avviata a un declino irreversibile, che va di pari passo con il tramonto della potenza spagnola. Il baricentro economico e politico del vecchio continente si sposta così nell’area nord-occidentale, dove prospera l’economia mercantile inglese e olandese, e dove si afferma lo Stato moderno, incarnato nel modello assolutistico di Luigi XVI in Francia e nel modello costituzionale e parlamentare in Inghilterra. La riflessione filosofica, per quanto caratterizzata da alcuni elementi comuni (l’accettazione del metodo matematico-sperimentale, l’interesse per una fondazione razionale del potere politico e la tendenza a un’interpretazione laica e tollerante del rapporto tra fede e ragione), si esprime secondo prospettive diverse in Inghilterra e nel continente. Qui, con Cartesio, prende avvio quel filone razionalistico (Malebranche, Arnauld, Gassendi ecc.) che dà i suoi frutti più significativi nei grandi sistemi di Leibniz e Spinoza, e che incontra l’opposizione critica di Pascal; in Inghilterra, dove Hobbes tenta una difesa del potere monarchico travolto dalla guerra civile, all’istanza empiristica preannunciata da Bacone e inaugurata da Locke si ispirano Berkeley, Hume e Newton.

173

3 UNITÀ

3

CARTESIO E IL RAZIONALISMO Il Seicento è un secolo ricchissimo per la storia del pensiero. I filosofi che ne sono protagonisti sottolineano l’importanza della ragione, sviluppando le felici intuizioni di Bacone e, soprattutto, di Galilei.

CAPITOLO 1 Cartesio

CAPITOLO 2 Il razionalismo nel Seicento

174

Il pensiero di Cartesio rappresenta una tappa fondamentale nel passaggio dal Rinascimento all’età moderna. Il filosofo francese muove da un assunto sostanziale: la filosofia non deve essere puramente speculativa, ma deve rispondere anche a esigenze di tipo pratico, fungendo da guida per l’orientamento dell’uomo nel mondo. Per raggiungere questo obiettivo, l’indagine deve seguire regole precise, cioè, trovare un “metodo”, che Cartesio individua nei canoni esatti della ragione matematica. Un secondo aspetto basilare del razionalismo cartesiano è l’interpretazione dualistica della realtà: da un lato la sostanza pensante, consapevole e libera, che costituisce l’io; dall’altro la sostanza corporea, divisibile in parti e quindi estesa, inconsapevole e meccanicamente determinata, che costituisce le cose. Dio garantisce che ciò che io penso di me o delle cose corrisponda a verità, e non sia invece una mera illusione generata dal mio stesso pensiero.

Nel dibattito filosofico seicentesco si intrecciano una strenua lotta per la ragione, che coinvolge correnti molto distanti tra loro, come il libertinismo e il platonismo inglese, e vari tentativi di difendere la fede religiosa, tra cui l’occasionalismo e le riflessioni di Arnauld e di Gassendi.

CAPITOLO 1

Cartesio 1. La vita e gli scritti La personalità di René Descartes, meglio noto come Cartesio, segna la svolta decisiva per il passaggio dal Rinascimento all’età moderna. I temi fondamentali della filosofia rinascimentale – il riconoscimento della soggettività umana e l’esigenza di approfondirla e chiarirla con un ritorno a se stessi; e il riconoscimento del rapporto dell’uomo con il mondo e l’esigenza di risolverlo in favore dell’uomo – diventano nella filosofia cartesiana i termini di un nuovo problema, in cui sono coinvolti sia l’uomo come soggetto, sia il mondo oggettivo. Cartesio è inoltre il fondatore del razionalismo, ossia di quella corrente della filosofia moderna (rappresentata, oltre che dal filosofo francese, soprattutto da Spinoza e da Leibniz) che vede nella ragione il principale organo di verità, nonché lo strumento per elaborare una nuova visione complessiva del mondo. René Descartes nasce il 31 marzo 1596 a La Haye, nella Touraine, e viene educato nel collegio dei gesuiti di La Flèche, dove entra nel 1604 e rimane fino al 1612. Cartesio stesso, nel Discorso sul metodo, sottoporrà a critica gli studi condotti in questo periodo, giudicandoli insufficienti per fornire un orientamento sicuro all’indagine: e proprio alla ricerca di un tale orientamento dedicherà tutti i suoi sforzi. Nel 1619 trova la propria via in modo, per così dire, miracoloso: egli stesso, infatti, racconterà di aver fatto in una notte tre sogni rivelatori, capaci di suscitare in lui la prima intuizione del suo metodo. La prima opera in cui egli esprime tale intuizione è costituita dalle Regole per dirigere l’ingegno (Regulae ad directionem ingenii), composte tra il 1619 e il 1630. In questo periodo Cartesio è nella milizia e partecipa alla Guerra dei trent’anni, ma il costume militare del tempo lascia ai nobili ampia libertà e il filosofo può quindi viaggiare a suo piacimento per tutta l’Europa, dedicandosi agli studi di matematica e di fisica, e continuando a elaborare la propria dottrina del metodo. Nel 1628 si stabilisce in Olanda, sia per godere di quella libertà filosofica e religiosa che è caratteristica del paese, sia per poter lavorare a proprio agio, senza essere distratto da quegli obblighi di società che a Parigi e in provincia gli ruberebbero molto tempo. Egli ha iniziato a comporre un trattato di metafisica, senza tuttavia pensare a una pubblicazione immediata;

I primi studi e l’individuazione della “via”

Focus Gli studi presso il collegio di La Flèche

I viaggi in Europa

Focus Il periodo dei viaggi

Il soggiorno in Olanda: dalla metafisica al Discorso sul metodo

175

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

nel frattempo riprende lo studio della fisica e ha l’idea di scrivere un trattato sul mondo, che pensa di intitolare Trattato della luce. La condanna di Galilei (22 giugno 1633) lo induce ad abbandonare l’idea di pubblicare l’opera, nella quale sostiene la dottrina copernicana. In seguito sceglie di divulgare almeno alcuni dei risultati raggiunti, articolandoli nei tre saggi sulla Diottrica, sulle Meteore e sulla Geometria: a queste tre opere premette una prefazione intitolata Discorso sul metodo, pubblicata a Leida nel 1637. Riprende poi, e conclude, la stesura del trattato di metafisica: nel 1640, grazie all’amico padre Mersenne, l’opera viene inviata a un gruppo di filosofi e teologi affinché espongano le loro osservazioni al riguardo; nel 1641 viene pubblicata con il titolo Meditazioni sulla filosofia prima (o Meditazioni metafisiche), completa delle Obiezioni e delle Risposte di Cartesio.

Focus Il trasferimento in Olanda

L’ultimo periodo

Più tardi Cartesio rielabora il trattato sul mondo dandogli la forma di un sommario destinato alle scuole: i Principi di filosofia (1644). La corrispondenza intrattenuta con la principessa Elisabetta del Palatinato gli suggerisce poi l’idea della monografia psicologica Le passioni dell’anima, pubblicata nel 1649. In questo stesso anno il filosofo cede ai ripetuti inviti della regina Cristina di Svezia e va a stabilirsi presso la sua corte. Nell’ottobre egli giunge a Stoccolma; ma nel rigido inverno nordico si ammala di polmonite e l’11 febbraio 1650 muore.

1580 Linea del tempo interattiva

1590 1588 L’Inghilterra sconfigge l’Invincibile Armata spagnola

Eventi storici

Arte e Letteratura

176

1610

1598 Pace di Vervins tra Francia e Spagna; editto di Nantes; fine delle Guerre di religione 1603 Muore Elisabetta I d’Inghilterra 1600 Giordano Bruno è arso vivo in Campo dei Fiori 1596 René Descartes nasce a La Haye (touraine)

Vita di Descartes Filosofia e Scienza

1600

1610 Espulsione dei moriscos dalla Spagna

1605 Entra nel collegio gesuitico di La Flèche

1597 Alla morte della madre, René è affidato alla nonna materna 1580 Montaigne: Saggi

1597 Bacone: Saggi di morale e politica

1602 Campanella: La città del sole

1584 Bruno: La cena delle ceneri 1587-1588 Marlowe: Tamerlano il Grande (inizio del teatro elisabettiano)

1594-1596 Shakespeare: Romeo e Giulietta

1596-1598 Caravaggio: Cena in Emmaus

1603 Carracci: Fuga in Egitto 1605 Cervantes: Don Chisciotte della Mancia (primo libro)

1609 Keplero: Astronomia nova (prime due leggi) 1610 Galilei: Sidereus Nuncius

Capitolo 1 • Cartesio

2. Il metodo

Mappa concettuale Dal dubbio alla certezza

Come Montaigne, Cartesio non vuole insegnare quanto ha imparato, ma piuttosto descrivere se stesso: per questo parla in prima persona. Il suo problema emerge dal senso di disorientamento avvertito al termine degli studi presso la scuola di La Flèche, dove, pur avendo assimilato con successo il sapere del tempo, egli ritiene di non avere acquisito alcun criterio sicuro per distinguere il vero dal falso, avendo appreso soltanto nozioni che poco o nulla servono alla vita.

I termini del problema L’orientamento, il criterio, il metodo che Cartesio cerca è nello stesso tempo teoretico e pratico: esso, infatti, deve condurre a saper distinguere il vero dal falso anche e soprattutto in vista dell’utilità e dei vantaggi che possono derivarne alla vita umana. La filosofia che ne risulterà dovrà pertanto essere «non puramente speculativa, ma anche pratica, per la quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della natura». Una simile forma di sapere dovrà

1610

1620

1630

1618 1633 Inizia la Guerra dei trent’anni Galilei processato  1619 Ferdinando II incoronato imperatore 1621 Muore Bellarmino 1623 Maffeo Barberini è papa Urbano VIII 1616 termina gli studi di diritto canonico e diritto civile presso l’Università di Poitiers

1640

Una filosofia speculativa e pratica

1650 1648 Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni 1642 In Inghilterra inizia la guerra civile

1649 Carlo I Stuart decapitato

1622 È a Parigi, presso Nicolas Le Vasseur

1618 Volontario in un reggimento francese in olanda

1629 1641 tornato definitivamente in olanda, Meditazioni sulla filosofia prima intraprende il corso di laurea in filosofia 1623 Parte per l’Italia 1630-1633 1644 Scrive Il mondo o Trattato della luce Principi di filosofia 1625 Ritorna a Parigi; studi 1649 1637 di matematica e ottica Le passioni dell’anima; Discorso 1619 1627 ca. sul metodo su invito di Cristina di Svezia, Viaggi nell’Europa si reca a Stoccolma Regole per dirigere l’ingegno centrale

1616 1628 Il De revolutionibus Harvey scopre di Copernico è messo all’indice la circolazione sanguigna 1620 1632 Bacone: Novum Organum Galilei: Dialogo sopra i due massimi sistemi 1619 del mondo (subito Keplero: Harmonices messo all’indice) mundi (terza legge) 1611-1612 Reni: Strage degli innocenti 1622 Bernini: Apollo e Dafne; tassoni: La secchia rapita

1628-1629 1633 Velasquez: Bernini termina Trionfo di Bacco il baldacchino di San Pietro 1635 Corneille: Medea

1650 A Stoccolma, per una polmonite, Descartes muore

1641 torricelli: De motu 1642 Hobbes: De cive

1644 Milton: Areopagitica

1642 Rembrandt: Ronda di notte

177

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

consentire all’uomo l’ideazione di congegni che gli facciano godere senza fatica dei frutti della terra e di altre comodità e dovrà mirare alla conservazione della salute. Cartesio è francamente ottimista sulla possibilità di acquisire un tale sapere, che, egli pensa, potrebbe liberare gli uomini «da un’infinità di malattie, tanto del corpo quanto dello spirito, e forse anche dall’indebolimento della vecchiaia» (Discorso sul metodo, VI, 1). Un unico metodo per molteplici applicazioni

Il metodo matematico…

Il metodo dev’essere dunque un criterio di orientamento unico e semplice, che serva all’uomo in ogni campo teoretico e pratico, e che abbia come fine ultimo il vantaggio dell’uomo nel mondo. Questa unità del metodo, pur nella diversità delle sue applicazioni, viene riconosciuta da Cartesio già nelle Regole per dirigere l’ingegno, in cui egli afferma che la saggezza umana è una sola, quali che siano gli oggetti a cui si applica; ed è una sola perché uno è l’uomo nelle sue diverse attività. Per definire il proprio metodo Cartesio si volge innanzitutto alla matematica: Quelle lunghe catene di ragionamenti, semplici e facili, di cui i geometri si servono per giungere alle loro più difficili dimostrazioni, mi dettero motivo a supporre che tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscenza si seguono nello stesso modo. (Regole per dirigere l’ingegno, III, 5)

Le scienze matematiche, per Cartesio, sono dunque già in possesso del metodo, che applicano normalmente. Eppure prendere coscienza delle regole metodiche della matematica, astrarle da tale disciplina e formularle in generale per poterle applicare a tutte le altre branche del sapere non è sufficiente. È necessario, infatti, anche giustificarle. In altri termini, si tratta di giustificare il metodo e la possibilità della sua applicazione universale, riportandolo al suo fondamento ultimo, cioè all’uomo come soggetto pensante o ragione. Il fatto che le matematiche siano già in possesso della pratica del metodo facilita senza dubbio il ECHI DEL compito del filosofo; ma questo compito comincia davvero soltanto con la giustificazione PENSIERO (o fondazione) delle regole metodiche: giustificazione che sola ne consente e ne autorizza Dal reale al virtuale, p. 198 l’applicazione a tutti i domini del sapere umano. … e il problema della sua “giustificazione”

Il “compito filosofico” di Cartesio

Il compito filosofico che Cartesio fa proprio sarà dunque quello di: a) formulare le regole del metodo, tenendo soprattutto presente il procedimento matematico, nel quale esse sono già applicate; b) fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo individuato; c) dimostrare la fecondità del metodo nei vari rami del sapere.

Le regole Per quanto riguarda il primo punto, la seconda parte del Discorso sul metodo ci dà la formulazione più matura e semplice delle regole del metodo. Esse sono quattro: Evidenza

178

1) Non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza; cioè evitare diligentemente la preoccupazione e la prevenzione; e non comprendere nei miei giudizi niente di più di ciò che si presentasse così chiaramente e così distintamente al mio spirito che io non avessi alcuna occasione di metterlo in dubbio.

Capitolo 1 • Cartesio

Questa è per Cartesio la regola fondamentale, la quale, prescrivendo l’evidenza, impone di accettare come vero solo ciò che si presenta alla mente in modo chiaro e distinto e di escludere ogni elemento sul quale invece sia possibile una qualche forma di dubbio. 2) Dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverla.

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488 Analisi

Questa è la regola dell’analisi, per la quale un problema deve essere suddiviso in sottoproblemi più semplici, da considerarsi separatamente. 3) Condurre i miei pensieri ordinatamente, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscersi per risalire a poco a poco, quasi per gradi, fino alle conoscenze più complesse; supponendo che vi sia un ordine anche tra gli oggetti tra cui non vige alcuna precedenza naturale.

Sintesi

Questa è la regola della sintesi, per la quale si passa dalle conoscenze più semplici alle più complesse gradatamente, presupponendo che ciò sia possibile in ogni campo. 4) Fare in ogni caso enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non omettere nulla.

Questa regola prescrive, in sostanza, di controllare l’applicazione delle due regole precedenti, in quanto mediante l’enumerazione si controlla che l’analisi sia stata condotta correttamente, mentre mediante la revisione si fa altrettanto per la sintesi. ➔ T1 p. 200 > evidenza = accogliere come vero solo ciò che risulta evidente, ossia chiaro e distinto Le regole del metodo

> analisi = suddividere ogni problema complesso nei suoi elementi più semplici > sintesi = risalire dal semplice al complesso > enumerazione e revisione = enumerare tutti gli elementi individuati mediante l’analisi e rivedere tutti i passaggi della sintesi Il metodo non ha in se stesso la propria giustificazione, ma esige di essere filosoficamente legittimato

Enumerazione e revisione Schema audiovisivo Le regole del metodo

Schema audiovisivo Un metodo matematizzante

Esercizi interattivi Il metodo cartesiano

Sintesi audio Cartesio e il suo metodo

3. Il dubbio e il cogito Come abbiamo anticipato, le regole metodiche individuate da Cartesio non hanno in sé la propria giustificazione. Neppure il fatto che la matematica se ne serva con successo le giustifica, perché esse potrebbero avere utilità pratica ai fini delle sole discipline matematiche, ma non essere applicabili in altri campi, e ciò le destituirebbe della necessaria validità assoluta. Cartesio deve quindi tentare di giustificarle risalendo alla loro radice: l’uomo come soggettività, o come ragione.

179

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

Dal dubbio metodico al dubbio iperbolico Il dubbio metodico

Testo con analisi attiva Il dubbio (Discorso sul metodo)

La filosofia e l’arte Realtà e apparenza

Il genio maligno e il dubbio iperbolico

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350 Il cogito Video F. Lomonaco illustra il passaggio dal dubbio al cogito

Trovare il fondamento di un metodo che dev’essere la guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo operando una critica radicale di tutto il sapere già dato. Bisogna sospendere l’assenso a ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare almeno provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungerà a un principio che resiste al dubbio, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire da fondamento per tutte le altre conoscenze. In questo principio si troverà dunque la giustificazione del metodo: da qui il nome di dubbio metodico. Ora, Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottragga al dubbio: innanzitutto si può (e quindi si deve) dubitare delle conoscenze sensibili, sia perché i sensi qualche volta ci ingannano e perciò possono ingannarci sempre, sia perché si hanno nei sogni impressioni o sensazioni simili a quelle che si hanno nella veglia, senza che si possa trovare un sicuro criterio di distinzione tra le une e le altre. Ci sono bensì conoscenze che sono vere sia nel sogno, sia nella veglia, come le conoscenze matematiche (2 + 3 fa sempre 5, sia quando si dorme, sia quando si è svegli), ma neppure queste conoscenze possono essere sottratte al dubbio, dal momento che sono state create o stabilite da Dio, il quale, non avendo alcun limite, avrebbe potuto far sì che 2 + 3 non facesse 5. ➔ T2 p. 202 L’idea che anche le certezze matematiche possano essere illusorie deriva a Cartesio dalla considerazione che, finché non si sappia qualcosa di certo intorno alla nostra origine, si può sempre supporre che siamo stati creati da un «genio maligno», cioè da una potenza malvagia che ci inganna facendoci apparire chiaro ed evidente ciò che è falso e assurdo. Basta fare quest’ipotesi (e la si può fare, dato che al riguardo non si sa alcunché) perché anche le cosiddette “verità eterne”, cioè le verità logico-matematiche, si rivelino dubbie e capaci di celare l’inganno. In tal modo il dubbio si estende a ogni cosa e diventa universale: si giunge così al cosiddetto dubbio iperbolico. ➔ T3 p. 204 Ma proprio nel carattere radicale di questo dubbio si intravede una prima certezza. Io posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi possibili, ma per ingannarmi o per essere ingannato io devo esistere, cioè essere qualcosa e non nulla. La proposizione “io esisto” è dunque la sola assolutamente vera, perché il dubbio stesso la conferma; infatti può dubitare solo chi esiste: cogito ergo sum. ➔ T4 p. 205

Il dubbio metodico

180

> riguarda inizialmente le conoscenze sensibili > con l’ipotesi del «genio maligno» si estende anche alle conoscenze matematiche e diviene

>

dubbio iperbolico o universale

L’unica verità che si sottrae al dubbio (in quanto il dubbio stesso la conferma) è la seguente: cogito ergo sum

Capitolo 1 • Cartesio

La natura del cogito La proposizione “io esisto” contiene evidentemente anche una prima indicazione su ciò che sono io che esisto. Non posso certo dire di esistere come corpo, giacché non so ancora nulla dell’esistenza dei corpi, intorno ai quali il mio dubbio permane. Pertanto io non esisto se non come cosa che dubita, cioè come cosa che pensa.

L’io come soggetto pensante

Io trovo qui che il pensiero è attributo che mi appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo […] io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa che pensa [res cogitans], e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione. (Meditazioni metafisiche, II, 2, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, vol. 1, p. 208)

La certezza del mio esistere concerne tutte e solo le determinazioni del mio pensiero: il dubitare, l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’immaginare, il sentire… Le cose pensate, immaginate, sentite ecc. possono, per quel che ne so, non essere reali; ma certamente sono reali il mio pensare, il mio sentire ecc. La proposizione “io esisto” equivale dunque alla proposizione “io sono un soggetto pensante”, cioè spirito, intelletto o ragione. La mia esistenza di soggetto pensante è certa come non lo è l’esistenza di nessuna delle cose che penso. Può ben darsi che ciò che io percepisco (ad esempio, un pezzo di cera) non esista; ma è impossibile che non esista io, che penso di percepire quell’oggetto. Su questa certezza originaria, che è nello stesso tempo verità necessaria, deve essere dunque fondata ogni altra conoscenza. ➔ T5 p. 206 Il principio cartesiano ripete il movimento di pensiero che già era stato sviluppato da Agostino e da Campanella, ma si sposta nell’orizzonte di un altro problema. Non si tratta, come in Agostino, di stabilire la presenza trascendente della Verità (cioè di Dio) nell’interiorità dell’uomo; e neppure, come in Campanella, di stabilire la natura dell’anima senziente in quanto coscienza delle proprie modificazioni. Si tratta invece di trovare nell’esistenza del soggetto pensante, il cui essere è evidente a se stesso, il principio che garantisce la validità della conoscenza umana e l’efficacia dell’azione umana sul mondo. Non bisogna dimenticare che Cartesio elabora la propria metafisica (comprese le prove dell’esistenza di Dio) come fondamento e giustificazione della fisica: vuole cioè ritrovare nella stessa esistenza dell’uomo, in quanto soggetto o ragione, la possibilità di una conoscenza che gli permetta di dominare il mondo per i suoi bisogni.

Scheda filmica La ricerca della certezza (Istantanee - Proof )

Agostino, Campanella e Cartesio

Esercizi interattivi Il dubbio e il cogito in Cartesio

Le discussioni intorno al cogito* I contemporanei di Cartesio, colpiti dalla scoperta del cogito, o per lo meno dall’originale ripresa di tale principio, lo discutono ampiamente. Qualcuno, tra cui Antoine Arnauld (v. p. 217), accusa il ragionamento cartesiano di essere un “circolo vizioso”, poiché, se il cogito ergo sum viene accettato perché evidente, allora la regola dell’evidenza risulta anteriore allo stesso cogito (di cui appunto fonderebbe l’evidenza) e la pretesa di giustificarla “in virtù” del cogito diventa illusoria.

*

L’accusa di circolo vizioso

Questo paragrafo è stato rivisto e ampliato da Giancarlo Burghi.

181

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

A questa obiezione Cartesio risponde affermando che è l’evidenza quale criterio di verità a fondarsi, in ultima istanza, sulla certezza del cogito, intesa come autoevidenza esistenziale che il soggetto ha di se stesso. L’io, infatti, è assolutamente certo di essere «una cosa che pensa», perché percepisce come impossibile, cioè contraddittorio, pensare di non essere una cosa che pensa (la negazione del cogito implicherebbe in questo senso la sua riaffermazione). Di conseguenza, ogni proposizione che riproduca la necessità logica di questa autoevidenza originaria (non posso pensare di non pensare) risulta assolutamente vera e indubitabile, cioè evidente: in quanto io sono certo di essere una cosa che pensa […], so già che cosa è richiesto perché io sia certo di qualcosa. Di sicuro in quella conoscenza, che ho per prima, non c’è altro che una percezione chiara e distinta di quel che affermo, e cioè appunto che io sono una cosa che pensa; ma di sicuro essa non basterebbe a rendermi certo che quel che affermo è vero anche di fatto, se potesse mai accadere che fosse falso qualcosa che io percepissi con altrettanta chiarezza e distinzione; e quindi mi sembra di poter già stabilire come regola generale che è vero tutto quel che io percepisco molto chiaramente e distintamente. (Meditazioni metafisiche, III, trad. it. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 57-59) L’accusa di sillogismo abbreviato: Gassendi

La critica di Hobbes

Schema audiovisivo La discussione intorno al cogito

182

Secondo l’accusa mossa da Pierre Gassendi (v. p. 218), il presunto principio di Cartesio («Io esisto come pensiero») è in realtà la conclusione di un sillogismo abbreviato: “Tutto ciò che pensa esiste. Io penso. Dunque esisto”. Derivando da qualcosa di più originario, esso non può quindi essere considerato un principio assoluto. Inoltre, con l’ipotesi del genio maligno anche la premessa “Tutto ciò che pensa esiste”, come ogni altra presunta verità, viene a cadere. E, poiché da qualcosa che non è assolutamente certo non si può ricavare alcuna certezza, l’affermazione della mia esistenza come cosa pensante (conclusione del sillogismo) risulta infondata. Analogamente a come aveva fatto per l’accusa di circolo vizioso, a questa obiezione Cartesio risponde che il cogito non è un ragionamento, cioè l’esito di una deduzione, ma un’intuizione immediata della mente. Più insidiosa è l’osservazione di Thomas Hobbes (v. unità 5, cap. 1), secondo il quale Cartesio ha senz’altro avuto ragione nel dire che l’io, in quanto pensa, esiste, ma torto nel pretendere di pronunciarsi su come l’io esiste, ovvero nel definirlo «uno spirito, un’anima». In ciò Cartesio è simile a chi dice: «Io sto passeggiando, quindi sono una passeggiata». Infatti il quid, o la x, che pensa, la sostanza di quell’atto che è il pensiero, potrebbe essere benissimo il corpo o il cervello, ossia qualcosa di materiale. Cartesio replica affermando: 1. che l’uomo non passeggia costantemente, però pensa sempre, per cui il pensiero, per lui, risulta essenziale; 2. che il pensiero, in quanto atto del pensare o facoltà di pensare, esige un sub-iectum, un sostegno: se c’è il pensiero, deve esserci una «cosa» (res) o sostanza che “sta sotto” questa attività e che da essa è definita in modo essenziale. Tale è la res cogitans, la «sostanza o anima pensante», che è immateriale come il pensiero di cui è soggetto e di cui costituisce l’essenza.

Capitolo 1 • Cartesio

4. Dio come giustificazione metafisica delle certezze umane* L’autoevidenza del cogito mi rende sicuro della mia esistenza in quanto soggetto pensante, ma lascia ancora aperta la questione delle altre esistenze. Infatti, io sono un essere pensante che ha idee, dove per idea si intende ogni oggetto o contenuto del pensiero. E sono sicuro del fatto che tali idee esistono nel mio spirito, perché esse, come atti del pensiero, fanno parte di me come soggetto pensante. Non sono invece sicuro che a queste idee corrispondano realtà effettive fuori di me. In altre parole: «il cielo, la terra, la luce, il calore» e tutte le cose percepite dai sensi sono per me delle idee. E queste idee esistono nel mio spirito. Ma esistono anche le cose ad esse corrispondenti, fuori di me? L’ipotesi del «genio maligno» non è riuscita a scalfire l’evidenza della mia esistenza come sostanza che pensa, ma continua a gravare sul mondo esterno a me, che, se anche mi appare con evidenza come esistente, potrebbe essere il frutto dell’inganno di una tale malevola divinità. Per superare anche questo ostacolo, Cartesio dovrà dimostrare l’esistenza di Dio, e di un Dio buono, che, in quanto tale, non inganna l’uomo:

Il problema del rapporto tra pensiero e realtà

La necessità di dimostrare l’esistenza di Dio

per rimuoverla [l’ipotesi del «genio maligno»] dovrò esaminare appunto se Dio esista e se, nel caso che esista, possa darsi che sia ingannatore; perché fino a che non lo sappia, mi pare che non potrò mai essere completamente certo neppure di nient’altro. (Meditazioni metafisiche, III, trad. it. di S. Landucci, cit., p. 61)

La dimostrazione dell’esistenza di un Dio perfetto e buono ha dunque in Cartesio non tanto valore teologico, quanto gnoseologico, poiché Dio costituisce il fondamento e la garanzia sia della verità di ciò che l’uomo conosce, sia dell’esistenza del mondo esterno.

QUESTIONE Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede?, p. 362

Le prove dell’esistenza di Dio Cartesio elabora le sue prove dell’esistenza di Dio con un procedimento a priori, cioè partendo dal cogito, e precisamente dall’analisi dei contenuti del pensiero1. Per costruire la prima prova, in particolare, egli esamina le idee, cioè le «rappresentazioni» (ovvero quei contenuti mentali che “rappresentano” o “stanno per” un determinato oggetto), distinguendole, a seconda della loro origine, in tre categorie (v. tipi di idee): 1) quelle che mi sembrano presenti in me da sempre, cioè non derivate dall’esterno (innate); 2) quelle che mi sembrano estranee a me, cioè derivatemi dal di fuori (avventizie); 3) quelle formate o trovate da me stesso (fattizie). Alla prima classe appartiene, ad esempio, il concetto di “cosa” o “sostanza”: che esisto e che sono una “cosa” (non un niente), e precisamente una “cosa pensante”, diversa da una “cosa

I tipi di idee

*

Questo paragrafo è stato rivisto e ampliato da Giancarlo Burghi. 1 Già presenti nel Discorso sul metodo (1637), le dimostrazioni dell’esistenza di Dio vengono riprese da Cartesio nelle Meditazioni metafisiche, dove sono esposte in maniera più dettagliata e rigorosa.

183

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488 La prima prova: da dove deriva la mia idea di Dio?

Testo con analisi attiva La prima prova (Meditazioni metafisiche)

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225 La seconda prova: da dove derivano le mie “imperfezioni”?

La prova ontologica Schema audiovisivo Le prove dell’esistenza di Dio

estesa” (altra nozione innata) lo so infatti da me, senza bisogno di altro che non sia la mia capacità di pensare. Alla seconda classe appartengono le idee delle cose naturali (ad esempio l’idea di “albero” o di “pietra”). Alla terza classe, infine, appartengono le idee delle cose chimeriche o inventate (ad esempio l’idea di “ippogrifo”, o quella di un “albero di pietra”, costruita da me mediante l’unione dell’idea di “albero” con quella di “pietra”). Per scoprire se a qualcuna delle idee sopra elencate corrisponda una realtà esterna, non c’è altro da fare che interrogarsi sulla loro causa: è possibile, si chiede Cartesio, trovare un’idea che sia causata non da me in quanto soggetto pensante, ma da una realtà extramentale? Tutte le idee che io possiedo non contengono nulla di così perfetto che non possa essere stato prodotto da me: questo vale sia per le idee «fattizie» (di cui io sono evidentemente la causa), sia per quelle «avventizie» (delle cose inanimate, degli animali e degli altri uomini). Ma non vale per l’idea di Dio, o, meglio, per l’idea di infinito (che, non a caso, Cartesio considera innata): è difficile, infatti, supporre che io, creatura finita e imperfetta, abbia potuto produrre da me l’idea di una «sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente», tale cioè da avere tutte le possibili perfezioni. La causa dell’idea di infinito (ovvero di ciò che non ha limiti) dovrà dunque essere esterna a me. Ora, per Cartesio la causa di un’idea deve sempre avere almeno tanta realtà quanta ne possiede l’idea stessa e, quindi, quanta ne possiede l’oggetto che essa rappresenta. Perciò la causa dell’idea di una sostanza infinita e perfetta dovrà essere una sostanza infinita e perfetta effettivamente esistente. Detto in altri termini: una realtà finita come la mente umana non può produrre la rappresentazione dell’infinito. Questa idea dovrà dunque essere causata da una realtà infinita, cioè da un ente infinito effettivamente esistente. Questa è la prima prova cartesiana dell’esistenza di Dio. ➔ T6 p. 208 La seconda prova parte anch’essa dal cogito, ovvero dalla constatazione del fatto che dubito, ossia che compio un atto meno perfetto rispetto al conoscere in modo certo. Ma se sono in grado di riconoscermi come un essere finito e imperfetto, è perché esiste «un essere più perfetto del mio», dal quale io dipendo e da cui ho acquisito le mie (im-)perfezioni. Infatti, se io fossi la causa di me stesso, mi sarei dato (o comunque potrei darmi) tutte le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell’idea di Dio. È dunque evidente che non sono io il creatore di me stesso, ma quel Dio come ente perfettissimo di cui possiedo l’idea. ➔ T6 p. 208 A queste due prove Cartesio ne aggiunge una terza, che è la tradizionale prova ontologica: non è possibile concepire Dio come essere sovranamente perfetto senza ammettere la sua esistenza, perché l’esistenza è una delle sue perfezioni necessarie. Come non si può concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, così non si può concepire un essere perfetto che non esista. ➔ T6 p. 208

Le critiche alle prove dell’esistenza di Dio Le prove cartesiane dell’esistenza di Dio suscitarono naturalmente molte critiche, non parendo a tutti così persuasive e stringenti. L’accusa di circolo vizioso

184

Riproponendo l’obiezione che aveva già rivolto al cogito, Arnauld osservò come l’argomentazione cartesiana su Dio finisse per essere un “circolo vizioso”, pretendendo di dimostrare

Capitolo 1 • Cartesio

l’esistenza di Dio sulla base del criterio dell’evidenza, ma al tempo stesso garantendo l’evidenza ricorrendo all’esistenza di un Dio che non inganna l’uomo. Gassendi, altro grande avversario delle prove cartesiane dell’esistenza di Dio, rivolse la sua critica in particolare all’argomento ontologico, anticipando in un certo senso le obiezioni di Immanuel Kant (v. vol. 2B, unità 7). Per Gassendi l’esistenza non è un concetto presente nella definizione di qualcosa. Quando si dice che una cosa “esiste”, infatti, non si sta indicando una sua proprietà che si aggiunge alle altre, ma si sta affermando che essa “è” anche fuori della mente che la pensa; anzi, proprio questa esistenza extramentale è la condizione perché quella cosa possa avere delle proprietà:

La critica all’argomento ontologico

se una cosa manca d’esistenza, non si dice tanto che è imperfetta, o priva di qualche perfezione, ma piuttosto che è nulla, o che non esiste affatto. (Meditazioni metafisiche, “Quinte Obiezioni”, trad. it. di E. Garin, cit., vol. 1, p. 493)

Gassendi contestò inoltre i due capisaldi della prima prova: a) che l’idea di Dio quale ente infinito fosse innata, cioè da sempre inscritta nella mente umana «allo stesso modo in cui lo è l’idea di me stesso» (Meditazioni metafisiche, III); b) che tale idea fosse positiva o originaria, cioè non derivasse da altri concetti o dall’esperienza. Al contrario, per Gassendi l’idea di Dio come ente infinito è frutto dell’educazione, della trasmissione di una certa cultura e della comunicazione tra gli uomini, oltre a poter essere costruita dalla mente umana per mezzo della negazione di quella finitezza e di quell’imperfezione di cui facciamo esperienza osservando noi stessi e le cose naturali. A quest’ultima obiezione Cartesio rispose in un certo senso “ribaltando” l’argomentazione di Gassendi, cioè ricordando che pensare significa dubitare e, dunque, essere coscienti della propria imperfezione. Ma il pensiero non si saprebbe imperfetto e finito, se non avesse in sé l’idea di un ente perfetto e infinito: questo significa che l’uomo ricava l’idea dell’imperfezione e della finitezza dalla negazione dell’idea di perfezione e di infinito (e non viceversa):

La critica al carattere innato dell’idea di infinito

La risposta di Cartesio a Gassendi

in me la percezione dell’infinito precede in qualche modo quella del finito, vale a dire la percezione di Dio quella di me stesso. (Meditazioni metafisiche, III, trad. it. di E. Garin, cit., vol. 1, p. 426)

In altri termini, la certezza di sé (come essere imperfetto) esige la certezza di Dio (come essere perfetto). Questo non significa che percepiamo immediatamente che Dio esiste: possiamo infatti supporre che non esista, ma certo non possiamo supporre che non sia infinito. L’idea di infinito, quindi, si intuisce come nozione innata e originaria, mentre va dimostrato il fatto che a questa idea corrisponda un ente infinito effettivamente esistente.

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito, p. 225

Dal cogito a Dio, da Dio al mondo: Dio come garante dell’evidenza Con la dimostrazione dell’esistenza di Dio, il percorso preannunciato da Cartesio giunge al suo compimento: una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza trova la

185

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

sua ultima garanzia. Dio, essendo perfetto, non può ingannarmi; la facoltà di giudizio, che ho ricevuto da Lui, non può essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente: essendo Dio sovranamente buono e la fonte di ogni verità, poiché è Lui che ci ha creati, è certo che la potenza o facoltà che ci ha data per distinguere il vero dal falso non sbaglia, quando ne usiamo bene e quando ci mostra con evidenza che una cosa è vera.

Testo con analisi attiva La regola dell’evidenza (Discorso sul metodo)

(Principi di filosofia, IV, 206)

Questo significa che tutto ciò che appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce come tale.

ConCetti a Confronto

L’evidenza

Schema interattivo

Sintesi audio Dal dubbio, a Dio, all’evidenza

in Platone

in Cartesio

caratterizza il grado più alto della conoscenza, cioè la visione intellettuale delle idee

caratterizza la verità, ovvero ciò che si presenta alla mente in modo chiaro e distinto, escludendo ogni possibilità di dubbio

è garantita dalla reminiscenza, ossia dal ricordo del mondo delle idee conservato dall’anima

è garantita dall’esistenza di un dio buono e verace, che non inganna le sue creature

Dio è dunque, per Cartesio, una sorta di “termine medio” che ci permette di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze, secondo lo schema di fondo della sua metafisica. ➔ T7 p. 209 Il proCedImeNTo dI CarTesIo dall’io (= dalla certezza della mia esistenza come sostanza pensante)

> a Dio

> al mondo (= alla certezza delle altre evidenze)

La veracità divina è garanzia della validità del metodo

> 1) Dio esiste e non mi inganna > 2) La mia ragione può conoscere la verità > 3) Esiste un mondo fuori di me (dal momento che mi appare evidente e Dio non mi inganna) > 4) Le verità sul mondo sono attendibili

L’esistenza di Dio consente di affermare l’esistenza del mondo esterno (cioè istituisce l’oggetto stesso della fisica) e permette di conoscerlo correttamente

186

Capitolo 1 • Cartesio

La possibilità dell’errore In un sistema come quello cartesiano, in cui la verità della conoscenza trova la propria garanzia e il proprio fondamento in un Dio buono e perfetto, com’è possibile l’errore? Esso dipende, secondo Cartesio, dal concorso di due cause: l’intelletto e la volontà. L’intelletto umano è limitato, tanto che, come si è visto, noi possiamo pensare un intelletto assai più esteso e addirittura infinito, quello di Dio. La volontà umana invece è libera e quindi assai più estesa dell’intelletto. Essa consiste nella possibilità di fare o non fare, di affermare o negare, di ricercare o fuggire, e può fare queste scelte sia rispetto alle cose che l’intelletto presenta in modo chiaro e distinto, sia rispetto a quelle che non hanno chiarezza e distinzione sufficienti. In questa possibilità di affermare o di negare ciò che l’intelletto non riesce a percepire chiaramente risiede la possibilità dell’errore. L’errore non ci sarebbe, se io affermassi o negassi, cioè dessi il mio giudizio, solo intorno a ciò che l’intelletto mi fa concepire con sufficiente chiarezza e se mi astenessi dal dare il mio giudizio intorno a ciò che non è abbastanza chiaro. Ma poiché la mia volontà, che è libera, può venir meno a questa regola e indurmi a pronunciarmi su ciò che non è abbastanza evidente, ecco che nasce la possibilità dell’errore. Io potrò allora “indovinare” la verità, ma sarà per mero caso (e anche così avrò usato male della mia libertà). Oppure potrò affermare quello che non è vero, e in tal caso sarò senz’altro caduto in errore. L’errore dipende dunque unicamente dal libero arbitrio che Dio ha dato all’uomo e si può evitare soltanto attenendosi scrupolosamente alle regole del metodo, e in primo luogo a quella dell’evidenza. ➔ T7 p. 209

5. Il dualismo cartesiano Fondata sulla stessa veracità di Dio, l’evidenza consente a Cartesio, come abbiamo visto, di eliminare il dubbio che all’inizio del suo ragionamento aveva avanzato sulla realtà delle cose corporee. Io ho l’idea di cose corporee che esistono fuori di me e che agiscono sui miei sensi. Quest’idea, essendo evidente, non può essere ingannevole: devono dunque esistere delle cose corporee corrispondenti alle idee che noi ne abbiamo. Tuttavia, secondo Cartesio, i corpi non possiedono realmente tutte le qualità che noi percepiamo come ad essi inerenti. Questo perché il filosofo francese fa sua la distinzione già stabilita da Galilei (ma in realtà risalente a Democrito) tra proprietà oggettive e proprietà soggettive. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, il numero (cioè tutte le determinazioni quantitative) sono qualità “reali” (oggettive) della sostanza estesa; ma il colore, il sapore, l’odore, il suono ecc. dipendono dalla percezione che ne ha il soggetto (perciò sono dette “soggettive”) e non esistono come tali nella realtà corporea; in quest’ultima corrisponderanno dunque a qualcosa che noi non conosciamo.

L’intelletto e la volontà

L’errore

Mappa concettuale Il dualismo

L’esistenza dei corpi

Le proprietà dei corpi

187

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

Il dualismo tra sostanza pensante e sostanza estesa

TAVOLA ROTONDA Dalla sostanza delle cose al soggetto del mondo, vol. 2B

Ammettendo l’esistenza dei corpi, Cartesio ammette dunque, accanto alla sostanza pensante che costituisce l’io, una sostanza corporea o estesa. In tal modo, egli divide la realtà in due zone distinte ed eterogenee: a) la sostanza pensante (res cogitans), che è incorporea, inestesa, consapevole e libera; b) la sostanza estesa (res extensa), che è corporea, spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata (v. dualismo cartesiano). In questo modo trovano posto tutte le espressioni della realtà: così come il pensare, il desiderare, il volere ecc. sono «modi» (o atti) della sostanza pensante (la quale ne costituisce in un certo senso il “sostegno”), analogamente i corpi, nelle loro diverse configurazioni geometriche o quantitative, sono «modificazioni accidentali» della sostanza estesa. ➔ T8 p. 211 le dUe sosTaNze CarTesIaNe > incorporea e inestesa res cogitans

Schema audiovisivo Le due sostanze cartesiane

Il problema del rapporto mente-corpo e la ghiandola pineale

Testo con analisi attiva Tra anima e corpo: la ghiandola pineale (Le passioni dell’anima)

> consapevole

> corporea e spaziale res extensa

> libera

> inconsapevole > determinata

Dopo aver tracciato questa divisione, Cartesio si trova di fronte al problema di riunire le due sostanze, ovvero di spiegarne il rapporto scambievole, rendendo intelligibile, per quanto riguarda l’uomo, la relazione tra anima e corpo. Egli pensa di risolvere la questione con la teoria della ghiandola pineale (l’odierna epìfisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo doppia, può unificare le sensazioni che vengono dagli organi di senso (che sono tutti doppi). Questa soluzione apparirà pseudo-filosofica e pseudo-scientifica ai pensatori successivi, che cercheranno di risolvere il dualismo cartesiano in modo diverso.

6. Il mondo fisico e la geometria* Luci e ombre della fisica cartesiana

Testo con analisi attiva La concezione meccanicistica della natura (I principi della filosofia)

La fisica cartesiana, sulla base della rigorosa separazione tra sostanza pensante e sostanza estesa, poté eliminare radicalmente i residui finalistici, antropomorfici, animistici, magici e astrologici che agli inizi del Seicento ancora infestavano la fisica. Neppure Galilei seppe con altrettanta coerenza depurare la fisica dalle scorie del passato. E perciò appunto, sebbene i risultati di Cartesio nell’analisi dei singoli fenomeni fisici non potessero reggere il confronto con i successi conseguiti da Galilei, il meccanicismo cartesiano riuscì a incidere profondamente sulla formazione della mentalità scientifica dell’epoca, soprattutto in Francia, e il sistema elaborato dal filosofo, pur con le sue stravaganze, riscosse notevole successo, tanto da rivaleggiare per parecchi decenni con il sistema newtoniano. Nondimeno, l’interesse rivolto prevalentemente al problema metodologico e ai principi di carattere generale, congiunto al desiderio di elaborare un sistema fisico onnicomprensivo adatto a fare da complemento alla metafisica, distolse per lo più Cartesio dall’indagine accurata dei fenomeni e lo indusse a sommarie generalizzazioni, che fornivano una visione gravemente riduttiva della complessità dei fenomeni naturali.

*

188

Paragrafo a cura di Carlo Barghini.

Capitolo 1 • Cartesio

Meccanicismo significa, ovviamente, determinismo: in Cartesio una spontaneità della natura o una sua intrinseca casualità non sono ammissibili, poiché i fenomeni si svolgono secondo quel principio di oggettiva necessità causale che, come abbiamo già visto, è uno dei temi qualificanti della rivoluzione scientifica. Ora, nel momento in cui la scienza fisica assume una struttura matematica, la necessità oggettiva si traduce inevitabilmente in una necessità logico-matematica, che ha il suo fondamento nelle leggi del pensiero; assunta, infatti, un’ipotesi, l’andamento di un fenomeno può essere dedotto matematicamente da quella. Noi siamo oggi consapevoli che la deduzione si limita a esplicitare ciò che è già implicito nell’ipotesi stessa, con tutto il margine di incertezza in essa contenuto, e non prescrive alla natura alcuna ulteriore legge del pensiero. Ma il successo del procedimento deduttivo generava l’illusione che l’evidenza soggettiva delle argomentazioni fosse di per sé garanzia della loro corrispondenza con la realtà esterna, indipendentemente da una conferma sperimentale. Indotto da tale illusione, Cartesio tende a operare anche nella fisica, oltre che nella metafisica, quel salto dall’ordine logico all’ordine ontologico che costituisce da sempre l’aspirazione ultima del razionalismo. Non di rado egli procede, di fatto, guidato dalla convinzione di poter cavare dalla propria testa le leggi che governano il mondo. D’altronde non solo le leggi, ma l’esistenza stessa della res extensa, per Cartesio, trovano fondamento nell’evidenza della nostra idea dello spazio. Su questa base è ovvio, come abbiamo già accennato, che dal mondo della nostra esperienza possiamo assumere come oggettive solo quelle proprietà che siano suscettibili di una trattazione geometrica, mentre le restanti proprietà che attribuiamo al mondo le reputiamo di natura puramente soggettiva. La geometria è perciò l’unica scienza fisica ammessa da Cartesio.

Geometria e fisica deduttiva

L’apriorismo cartesiano

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488

La geometria analitica La Geometria è la più importante delle tre opere introdotte dal Discorso sul metodo e costituisce in qualche modo l’atto di nascita della geometria analitica, la quale si colloca storicamente come punto di incontro tra i progressi dell’algebra realizzati nel corso del Cinquecento e il contemporaneo lento recupero della geometria classica. Cartesio ha chiara consapevolezza dell’unità delle diverse scienze matematiche, le quali, «sebbene i loro oggetti siano differenti, tuttavia si accordano tutte, perché negli oggetti esse considerano soltanto i diversi rapporti o proporzioni». In particolare, perciò, egli ritiene possibile (come abbiamo anticipato) unificare la geometria degli antichi con l’algebra dei moderni; ma questa operazione rende necessaria una revisione di ambedue le scienze. La geometria degli antichi, malgrado i suoi incontestabili successi, è inficiata dal suo procedere episodico, che costringe per ogni costruzione a ricercare una dimostrazione ad hoc; essa, infatti, rimanendo ancorata a un’immediata considerazione dei contenuti intuitivi, non riesce a cogliere i rapporti nella loro universalità e a sollevarsi al livello di generalità necessario per un’impostazione sistematica della scienza. D’altro canto, anche la nuova scienza algebrica appare a Cartesio «un’arte confusa e oscura», sia per l’uso di simboli inadeguati, dei quali talora non si intende appieno il significato, sia per il rapporto di sudditanza che la lega alla geometria.

L’unità di geometria e algebra

ECHI DEL PENSIERO Dal reale al virtuale, p. 198

189

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

La riorganizzazione cartesiana dell’algebra

Gli assi cartesiani

Pertanto Cartesio riordina sistematicamente la simbologia algebrica (che risponde ormai quasi puntualmente a quella odierna) e abbandona l’immediata interpretazione geometrica dei procedimenti algebrici. Così riorganizzata in un linguaggio autonomo, l’algebra diviene idonea a riprodurre entro di sé, cioè in termini puramente formali, la geometria, la quale a sua volta si offre come strumento di chiarificazione intuitiva dei procedimenti dell’algebra, come una sorta di “algebra applicata”. Il numero e la forma divengono in tal modo traducibili l’uno nell’altra. L’operazione, ormai ovvia per noi, richiede soltanto l’assunzione, da una parte, di un’unità di misura che consenta di interpretare un numero come una distanza e, dall’altra, di una coppia di linee fondamentali, che oggi chiamiamo appunto “assi cartesiani”, quale sistema di riferimento. In tal modo punti, rette e curve possono essere individuati univocamente sul piano, in relazione agli assi, attraverso procedimenti algebrici.

La fisica La fisica come geometria

Video La matematica e lo studio della natura (Cartesius)

L’estensione e il moto e la loro origine divina

Testo con analisi attiva Il mondo fisico (Discorso sul metodo)

Lo spazio e la materia

190

Il mondo, come si è detto, per Cartesio si identifica con l’insieme dei corpi, ovvero con l’estensione; perciò la fisica è integralmente riconducibile alla geometria. Neppure l’esistenza del moto può ostacolare una tale riduzione, giacché il tempo può assumere agevolmente i connotati di una dimensione geometrica. Fatta questa premessa, la constatazione, nelle opere di fisica di Cartesio, di un’assenza quasi totale della matematica, può sconcertare. Ma, a ben vedere, non si tratta di una contraddizione. A Cartesio interessa fornire della realtà fisica soltanto un’interpretazione che renda possibile la trattazione matematica, senza che con questo egli si senta obbligato a svolgerla esplicitamente. Di fatto la fisica cartesiana pretende di ricondurre tutta l’infinita varietà dei fenomeni del mondo fisico ai due soli “ingredienti” dell’estensione e del moto. L’una e l’altro hanno origine da Dio, al quale si deve non solo la creazione della res extensa, ma anche il conferimento a essa di una certa determinata quantità di moto, indistruttibile non meno della materia: i due principi fondamentali di conservazione (del moto e della materia) sono pertanto immediatamente deducibili dall’immutabilità di Dio, dalla quale può derivarsi l’immutabilità di quanto egli opera. Altri interventi di Dio nel mondo, oltre al primo atto di creazione della materia e al primo impulso, non sono richiesti. Al Dio di Cartesio, come osserverà Pascal, basta aver dato il primo «colpetto» al mondo; il resto va da sé. L’identificazione della materia con l’estensione comporta alcune conseguenze di grande rilievo: a) lo spazio euclideo è infinito e pertanto infinita è anche la sostanza estesa; b) lo spazio geometrico è infinitamente divisibile, e quindi la materia non può essere costituita di atomi; c) lo spazio è continuo, non ammette interruzioni, buchi, fenditure, di conseguenza non è concepibile il vuoto (l’estensione, d’altronde, è l’attributo di una sostanza, e pertanto non può sussistere senza una sostanza cui inerire); d) le qualità che attribuiamo alla materia in addizione all’estensione sono puramente soggettive, perché lo spazio è qualitativamente indifferenziato.

Capitolo 1 • Cartesio

L’unico motore della grande macchina del mondo è costituito dall’originaria quantità di moto, che può distribuirsi in modi differenti tra i corpi attraverso gli urti. Il che significa che Cartesio esclude dalla spiegazione del mondo ogni forza, attrattiva o repulsiva, e in particolare rifiuta tutte quelle forze che dovrebbero manifestarsi a distanza: forze elettriche, magnetiche, gravitazionali, o di qualsivoglia altra natura. Non era, d’altronde, del tutto ingiustificato questo ripudio delle forze esplicantisi a distanza, che richiamavano il finalismo aristotelico, l’astrologia, l’animismo (come può, infatti, un corpo esercitare un’azione là dove non è?). Lo stesso Galilei le aveva in sospetto, al punto da respingere come farneticazione astrologica l’antica tesi che riconduceva il fenomeno delle maree all’influenza della Luna. Due sole leggi dominano l’universo fisico cartesiano: il principio d’inerzia (che in Cartesio, pur frammentato in due leggi distinte, trova finalmente una formulazione adeguata) e il principio della conservazione della quantità di moto. La riduzione della fisica a geometria si scontra, a dire il vero, con difficoltà insormontabili ove si disponga dei soli strumenti matematici di cui disponeva Cartesio. Entro lo spazio euclideo perfettamente omogeneo non si riesce, infatti, a immaginare qualcosa che possa corrispondere a ciò che chiamiamo movimento. Secondo Cartesio è invece pensabile che frammenti di spazio si muovano rispetto ad altri frammenti di spazio, sebbene non si comprenda come il moto possa essere rilevato, se lo spazio è uniforme. Tuttavia l’aspetto meno convincente della teoria si coglie nel fatto che quel moto, poco chiaro proprio a causa dell’assoluta uniformità del tutto, diventi stranamente esso stesso origine delle disomogeneità presenti nella res extensa, che alla nostra percezione si manifesta come costituita di entità solide, o liquide, o areiformi, o, infine, in quella forma che interpretiamo come spazio vuoto. Ebbene, per Cartesio i differenti aspetti sotto cui la res extensa si presenta ai nostri sensi dipendono esclusivamente dalle diverse condizioni inerziali dei vari frammenti di estensione. Coerenza e durezza di un corpo solido, ad esempio, sono soltanto l’effetto della comune condizione inerziale delle parti del corpo stesso, nel senso che non vi sono entro di esso moti relativi di alcune parti di estensione rispetto ad altre (condizione condivisa più o meno integralmente a seconda della maggiore o minore durezza del corpo). Ovviamente Cartesio, avendo ripudiato ogni tipo di forza, non può fare appello a una coesione attiva delle parti di un corpo per spiegare la sua solidità. La materia sottile (o etere), che riempie tutto ciò che impropriamente viene chiamato “vuoto”, è costituita invece di corpuscoli, cioè di frammenti minutissimi di estensione, privi di ogni coerenza perché soggetti ciascuno a una differente condizione inerziale. Sebbene il moto inerziale sia rettilineo, di fatto l’assenza del vuoto finisce inevitabilmente con il produrre il chiudersi del moto in un circolo. Quando un corpo, infatti, si muove attraverso la materia sottile, è necessario che la materia sottile, che esso sposta davanti a sé, si richiuda sulla sua scia. Il che porta al costituirsi di un complesso sistema di vortici, che assumono una funzione fondamentale nella fisica cartesiana. Da un vortice è avvolta la Terra, e lo stesso vale per ciascun corpo celeste. Ma i vortici che avvolgono la Terra e i singoli pianeti ruotano a loro volta entro un vortice più ampio, da cui è avvolto il Sole. Attraverso questo modello puramente meccanico Cartesio ritiene di poter spiegare la gravità e il moto di rivoluzione dei pianeti senza far ricorso alle aborrite forze a distanza studiate da Newton. Infatti la materia sottile in moto vorticoso spingerebbe verso il suolo terrestre i gravi e analogamente manterrebbe la Terra e i pianeti in orbita intorno al Sole.

Il rifiuto del concetto di forza

Le due leggi dell’universo

Difficoltà del modello geometrico

I corpuscoli

La teoria dei vortici

191

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

La teoria dei vortici, ovviamente non suffragata da alcuna prova sperimentale, e priva di ogni elaborazione matematica, ebbe un certo successo e fronteggiò per qualche tempo la teoria newtoniana della gravitazione. Del resto non le si può negare un merito fondamentale: prima della teoria di Newton, essa unificava terra e cielo, riconducendo a una medesima causa la caduta dei gravi e il moto orbitale dei pianeti. Il meccanicismo e la vita

Questione Gli uomini sono esseri animati o semplici macchine? (Cartesio, La Mettrie)

Video P. Ricoeur illustra il meccanicismo cartesiano

Il contributo di Cartesio alla fisica

Esercizi interattivi La fisica cartesiana

L’implacabile riduzionismo cartesiano non risparmia neppure il mondo della vita. Secondo il filosofo francese, infatti, le funzioni vitali non possiedono alcunché di specifico che le differenzi dai fenomeni di natura meccanica: un essere vivente è solo una macchina, un automa funzionante anch’esso in virtù dell’inerzia e della conservazione della quantità di moto. Cartesio riteneva di poter trovare conferme della propria interpretazione meccanicistica della vita non solo negli studi di anatomia sviluppatisi fin dal Rinascimento (che evidenziavano la funzione meccanica dello scheletro e della muscolatura), ma anche nella scoperta, a lui più vicina, della circolazione del sangue compiuta da William Harvey (1578-1657). In buona sostanza, per Cartesio anche il corpo dell’uomo è una macchina, di cui la res cogitans si serve come di un proprio strumento. E, sebbene il filosofo si affanni a dichiarare che tra anima e corpo esiste un’intima connessione, più profonda di quella che esiste tra il pilota e la sua nave, talora si riceve invece l’impressione che il legame sia di tal natura che con la morte l’anima debba abbandonare il corpo, non più funzionante, proprio come un automobilista abbandona la sua macchina in panne. La presenza di una res cogitans capace di agire sulla res extensa costituisce pertanto un ulteriore motivo di debolezza del sistema cartesiano. Nell’insieme, i contributi specifici di Cartesio ai progressi della scienza fisica non sono molto significativi; o almeno va detto che il loro apprezzamento risulta problematico, giacché il significato di alcuni principi di indubbia validità, come il principio d’inerzia e il principio di conservazione della quantità di moto, è alterato dal sistema entro cui i principi stessi sono inseriti. Ciò nonostante, di Cartesio rimangono essenziali, nel processo di fondazione della fisica classica, il coerente richiamo all’esigenza di una razionalità matematica e la valorizzazione del modello meccanico. In un’età in cui la scienza voleva essere in primo luogo uno strumento di dominio della natura, la visione meccanicistica, che pretende che la natura agisca sempre e soltanto secondo i procedimenti di cui facciamo uso nella costruzione delle macchine, appariva particolarmente seducente, e i modelli meccanici continuarono ancora a lungo ad allettare gli scienziati, per altro mietendo successi in una molteplicità di campi, dall’interpretazione dei fenomeni fisici alla progettazione di macchine.

7. La filosofia pratica La morale “provvisoria” Nella terza parte del Discorso sul metodo, prima di iniziare l’analisi metafisica con l’applicazione del dubbio metodico, Cartesio aveva stabilito alcune regole di morale provvisoria, allo scopo di evitare di rimanere «irresoluto nelle sue azioni mentre la ragione lo obbligava ad esserlo nei suoi giudizi».

192

Capitolo 1 • Cartesio

La prima regola provvisoria prescriveva di obbedire alle leggi e ai costumi del paese, osservando la religione tradizionale e regolandosi in tutto secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi. Con questa regola egli rinunciava programmaticamente a estendere la propria critica al dominio della morale, della religione e della politica. E in realtà questa regola esprime un aspetto non provvisorio, ma definitivo della personalità di Cartesio, che fu sempre caratterizzata dal rispetto per la tradizione religiosa e politica. Al ministro protestante Revius, che lo interrogava al riguardo, sembra che egli rispondesse: «Ho la religione del mio re», «Ho la religione della mia nutrice». In realtà egli distingueva due ambiti diversi: la pratica della vita e la contemplazione della verità. Nel primo, la volontà ha l’obbligo di decidersi senza attendere l’evidenza; nel secondo ha l’obbligo di non decidere finché l’evidenza non sia stata raggiunta. Nel dominio della contemplazione l’uomo non può accontentarsi che della verità evidente, mentre nel dominio dell’azione può accontentarsi anche di una verità solo probabile. La prima regola della morale provvisoria ha dunque per Cartesio, entro certi limiti, un valore permanente e definitivo. La seconda regola prescriveva di essere il più fermi e risoluti possibile nell’azione e di seguire con costanza anche l’opinione più dubbiosa, una volta che fosse stata accettata. Anche questa regola è suggerita dalle necessità della vita, che spesso obbligano ad agire anche in mancanza di elementi sicuri e definitivi. Ma essa perde, ovviamente, ogni carattere provvisorio quando la ragione entri in possesso del suo metodo. In tal caso, infatti, essa implica che «vi sia una ferma e costante risoluzione di seguire tutto ciò che la ragione consiglia senza che ci si lasci deviare dalle passioni o dagli appetiti» (Lettera a Elisabetta, 4 agosto 1645). La terza regola prescriveva di cercare di vincere piuttosto se stessi che la fortuna e di cambiare i propri desideri più che l’ordine del mondo. Cartesio sostenne costantemente che nulla è del tutto in nostro potere tranne i nostri pensieri, che dipendono solo dal nostro libero arbitrio; e ripose sempre il merito e la dignità dell’uomo nell’uso che egli sa fare delle sue facoltà, uso che lo rende simile a Dio. Questa regola rimase pertanto il caposaldo fondamentale della morale di Cartesio. Essa esprime, nella formula tradizionale del precetto stoico, lo spirito del cartesianesimo, il quale esige che l’uomo si lasci condurre unicamente dalla propria ragione, delineando in tal modo l’ideale stesso della morale cartesiana: la saggezza.

La prima regola

La seconda regola

La terza regola

Testo con analisi attiva La morale provvisoria (Discorso sul metodo)

Lo studio delle passioni Tutto preso da interessi prevalentemente metafisici e scientifici, alla sua morale “provvisoria” Cartesio non fece mai seguire una morale “definitiva”. Tuttavia, come si è già accennato in apertura di capitolo, scrisse Le passioni dell’anima, che contengono anche spunti di etica. In questo scritto, Cartesio distingue nell’anima azioni e affezioni: le azioni dipendono dalla volontà, le affezioni sono involontarie e sono costituite da percezioni, sentimenti o emozioni causati nell’anima dagli spiriti vitali, cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo. Evidentemente la forza dell’anima consiste nel vincere le emozioni e nell’arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano, mentre la sua debolezza consiste nel lasciarsi dominare dalle emozioni, le quali, essendo spesso contrarie tra loro, sollecitano l’anima di qua e di là, portandola a combattere contro se stessa e riducendola nello stato più deplorevole.

Testo con analisi attiva Le passioni e la ragione (Le passioni dell’anima)

Azioni e affezioni

Le emozioni

193

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

Ciò d’altronde non vuol dire che le emozioni siano essenzialmente nocive. Esse si rapportano tutte al corpo e sono date all’anima in quanto è congiunta a esso; sicché hanno la funzione naturale di incitare l’anima ad acconsentire e a contribuire alle azioni che servono a conservare il corpo e a renderlo più perfetto. Le due emozioni fondamentali

La saggezza

Questione La ragione può vincere le passioni? (Cartesio, Spinoza) Approfondimento Cartesio nella filosofia moderna

In questo senso la tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali. Provando odio per ciò che le provoca tristezza, l’anima scopre infatti quali sono le cose che nuocciono al corpo e desidera liberarsene. Provando amore per ciò che le procura gioia, essa scopre invece quali sono le cose utili al corpo e le cerca. Alle emozioni è connesso tuttavia uno stato di servitù da cui l’uomo deve cercare di liberarsi. Esse, infatti, quasi sempre rivelano il bene e il male, ma li rappresentano assai più grandi e importanti di quanto non siano, inducendo a cercare l’uno e a fuggire l’altro con più ardore di quanto convenga. Pertanto l’uomo deve lasciarsi guidare, per quanto gli è possibile, non tanto dalle emozioni, quanto dall’esperienza e dalla ragione: solo così potrà distinguere nel loro giusto valore il bene e il male ed evitare gli eccessi. In questo dominio sulle emozioni consiste la saggezza; e la saggezza si ottiene estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto e separando, per quanto è possibile, questo dominio dai movimenti del sangue e degli spiriti vitali, dai quali le emozioni dipendono e con i quali esso è abitualmente congiunto. Proprio in questo progressivo dominio della ragione, che restituisce all’uomo l’uso intero del libero arbitrio e lo rende padrone della sua volontà, risiede il tratto saliente della morale cartesiana.

Sintesi audio Il mondo fisico; La morale e le passioni

GLOSSARIO e RIEPILOGO Cartesio Filosofia p. 177 > Cartesio ritiene che l’obiettivo della filosofia sia di conseguire la saggezza e la scienza di tutto ciò che riesce utile all’uomo (Principi di filosofia, “Prefazione”; Discorso sul metodo, VI). metodo p. 178 > Per “metodo” (dal gr. méthodos, composto di metá, che indica il seguire qualcosa, e hodós, “via”, “strada”) Cartesio intende un procedimento ordinato di indagine che si concretizza in una serie di regole atte a evitare l’errore e a raggiungere risultati validi.

evidenza p. 179 > La regola dell’evidenza prescrive di attenersi soltanto a ciò che si presenta chiaramente e

194

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

distintamente al nostro spirito, ossia con una forza tale da escludere il dubbio. L’evidenza è per Cartesio il principale contrassegno della verità: «tutte le cose che percepiamo con assoluta chiarezza e distinzione sono vere» (Meditazioni metafisiche, III, 1).

analisi p. 179 > La regola dell’analisi prescrive di «dividere ciascuna delle difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili», affinché risulti più semplice la soluzione di un determinato problema (Discorso sul metodo, II).

sintesi p. 179 > La regola della sintesi prescrive di passare gradualmente dalle conoscenze più semplici alle conoscenze più complesse.

Capitolo 1 • Cartesio

enumerazione e revisione p. 179 > La regola dell’enumerazione e della revisione prescrive di controllare l’analisi mediante enumerazioni «complete» e di controllare la sintesi mediante «revisioni generali», in modo da «non omettere nulla» (Discorso sul metodo, II).

si addice il nome di idee: tali, ad esempio, le mie rappresentazioni di un uomo, o di una chimera, o del cielo, o di un angelo, o di Dio stesso» (Meditazioni metafisiche, III, 3).

dubbio metodico p. 180 > Il dubbio metodico è il pro-

gorie: quelle congenite alla nostra mente, quelle che provengono dal di fuori e quelle che sono state formate da noi stessi: «di queste idee, alcune mi sembrano innate; altre, estranee e venute dal di fuori (avventizie), altre ancora formate e inventate da me stesso (fattizie)» (Meditazioni metafisiche, III, 3).

cedimento e lo stratagemma metodologico seguito da Cartesio, il quale, attraverso l’esercizio del dubbio, si propone di approdare a delle conoscenze indubitabili: «pensai che dovevo […] rifiutare come assolutamente falsa qualsiasi opinione su cui potessi nutrire il pur minimo dubbio al fine di stabilire se, fatto ciò, nell’ambito delle mie conoscenze, ne rimanesse qualcuna del tutto indubitabile» (Discorso sul metodo, IV, 1); «Archimede per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove non chiedeva che un punto saldo e immobile, parimenti anche io potrò concepire alte speranze, se avrò tanta fortuna da scoprire una cosa sola che sia certa e indubitabile» (Meditazioni metafisiche, II, 1).

dubbio iperbolico p. 180 > Il dubbio iperbolico è il momento culminante del dubbio metodico, che si concretizza quando – data l’ipotesi di «un genio maligno, potentissimo, astuto, ingannatore, che abbia posto ogni sua industria nell’ingannarmi» – il dubbio si estende a ogni cosa e diventa assolutamente universale.

Cogito p. 180 > Il cogito (formula abbreviata dell’espressione cogito ergo sum, “penso dunque sono”) è l’autoevidenza esistenziale del soggetto pensante, cioè la certezza indubitabile che il soggetto ha di se stesso in quanto sostanza pensante: «Se egli [il genio maligno] mi inganna, non v’è dubbio che io sono; e mi inganni finché vorrà, non potrà mai fare che io non sia nulla, finché penserò di essere qualcosa» (Meditazioni metafisiche, II, 1); «Io sono, io esisto: questo è certo […] io non sono dunque, per parlare con precisione, che una cosa pensante [res cogitans], cioè uno spirito, un intelletto, una ragione» (Meditazioni metafisiche, II, 2). Secondo Cartesio il cogito rappresenta quindi la verità originaria che permette di sconfiggere il dubbio metodico e di procedere alla riedificazione delle altre verità.

Idea p. 183 > Per “idea” Cartesio intende ogni contenuto del pensiero in generale, ovvero ogni oggetto di un atto del pensiero. Le idee si differenziano tra loro a seconda della loro origine (v. “tipi di idee”), ma anche a seconda della loro realtà «oggettiva», che è data dall’oggetto reale da esse rappresentato: «tra i miei atti di coscienza, alcuni sono immagini delle cose, e solo a questi

Tipi di idee p. 183 > Cartesio divide le idee in tre cate-

Idea di dio p. 184 > L’idea di Dio è l’idea di «una sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente» (Meditazioni metafisiche, III, 7). Secondo Cartesio la causa di questa idea non può risiedere nell’uomo, cioè in una sostanza finita, ma soltanto in una sostanza infinita, la quale (prima e seconda prova dell’esistenza di Dio) ha creato l’uomo dandogli quell’idea dell’infinito che rappresenta «il suggello impresso dall’artefice sulla propria opera» (ibidem, III, 9-10). Nell’ottica cartesiana, Dio rappresenta il supremo garante della conoscenza. Infatti – ragiona il filosofo francese – essendo perfetto, Dio non può ingannarci, per cui tutto ciò che ci risulta chiaro ed evidente deve per forza essere vero: «essendo Dio sovranamente buono e la fonte di ogni verità, poiché è Lui che ci ha creati, è certo che la potenza o facoltà che ci ha data per distinguere il vero dal falso non sbaglia, quando ne usiamo bene e quando ci mostra con evidenza che una cosa è vera» (Principi di filosofia, IV, 206). In quanto tale, il Dio di Cartesio si configura come quel terzo termine che ci permette di passare dalla nostra evidenza alle altre evidenze.

errore p. 187 > Per Cartesio l’errore risiede in un atto di precipitazione della volontà, che consiste nel dare l’assenso a ciò che non si presenta in modo sufficientemente chiaro e distinto, cioè evidente. Esso dipende cioè «dal fatto che, essendo la mia volontà molto più ampia ed estesa dell’intelletto, io non la contengo negli stessi limiti di questo, ma la estendo anche alle cose che non intendo e poiché a tali cose essa è per sé indifferente, è facile che essa si smarrisca e che scambi il falso per il vero, il male per il bene. E così avviene ch’io m’inganni o che io pecchi» (Meditazioni metafisiche, IV, 6). dualismo cartesiano p. 188 > Per “dualismo cartesiano” si intende quel tipico procedimento della filosofia di Cartesio che consiste nello spezzare la realtà in due

195

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

zone distinte ed eterogenee: 1. la sostanza pensante (res cogitans), che è inestesa, consapevole e libera; 2. la sostanza estesa (res extensa), che è spaziale, inconsapevole e meccanicamente determinata. trovandosi di fronte alla difficoltà di spiegare il rapporto scambievole tra queste due sostanze, Cartesio ricorre all’ipotesi della ghiandola pineale (l’odierna epìfisi), concepita come la sola parte del cervello che, non essendo doppia, può unificare le sensazioni degli organi di senso, che sono tutti doppi.

Fisica p. 188 > Nella fisica Cartesio studia il mondo della natura, intesa come campo dell’estensione, del movimento e della necessità meccanica. La fisica cartesiana procede in modo deduttivo, poiché partendo da alcuni principi di base costruisce l’intero sistema della natura. Essa è inoltre rigorosamente meccanicistica. meccanicismo p. 188 > Per “meccanicismo”, in riferimento al pensiero di Cartesio, si intende la propensione a considerare il mondo alla stregua di una grande macchina, indagabile secondo le leggi della meccanica e spiegabile in termini di materia in movimento, ossia secondo criteri non più finalistici e qualitativi, bensì quantitativi e matematici: «Nella “filosofia meccanica” la realtà viene quindi ricondotta ad una relazione di corpi o particelle materiali in movimento e tale relazione appare interpretabile mediante le leggi del moto individuate dalla statica e dalla dinamica» (P. Rossi); «Materia e movimento; o meglio – perché la materia cartesiana omogenea e uniforme non è altro che estensione – estensione e movimento; o meglio ancora – poiché l’estensione è strettamente geometrica – spazio e movimento» (Alexandre Koyré).

morale provvisoria p. 192 > La “morale provvisoria” di Cartesio è l’abbozzo di morale delineato dal filosofo prima di iniziare la sua analisi metafisica e di mettere in atto il dubbio metodico: «poiché non basta, prima d’iniziare a ricostruire la casa dove si abita, abbatterla […] ma è pure necessario essersene procurata un’altra, dove si possa alloggiare comodamente durante il tempo in cui procedono i lavori; nello stesso modo, per non rimanere indeciso nelle mie azioni per tutto il tempo in

196

cui la ragione mi imponeva di esserlo nei miei giudizi e per non rinunziare sin da allora a vivere il più serenamente possibile, mi formai una morale provvisoria» (Discorso sul metodo, III). Le regole enunciate da Cartesio sono tre: «La prima prescriveva di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, osservando con fermezza la religione nella quale Dio mi aveva fatto la grazia di essere stato educato fin dall’infanzia e conducendomi in ogni altra occasione secondo le opinioni più moderate e più lontane dagli eccessi, quelle che comunemente seguivano le persone più assennate con cui avrei dovuto vivere […]. La mia seconda massima consisteva nel rimanere sempre risoluto e saldo quanto più potessi nelle mie azioni e nel seguire anche le opinioni più dubbie, una volta che avessi deciso di accettarle, con la stessa costanza con cui seguivo quelle certe e sicure […]. La mia terza massima era di cercare di vincere sempre piuttosto me stesso che la fortuna e di mutare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo» (Discorso sul metodo, III).

emozioni p. 193 > Le “emozioni”, come le percezioni e i sentimenti, secondo Cartesio sono affezioni, ossia modificazioni involontarie e passive causate nell’anima dal movimento degli spiriti vitali, cioè dalle forze meccaniche che agiscono nel corpo. La funzione naturale delle emozioni è quella di indirizzare l’anima verso le azioni che servono a conservare il corpo. In questo senso, la tristezza e la gioia sono le emozioni fondamentali: la prima avverte l’anima delle cose che danneggiano il corpo, inducendola a provare odio verso ciò che le causa tristezza e il desiderio di liberarsene; la seconda avverte l’anima delle cose che risultano utili al corpo, suscitando l’amore verso di esse e il desiderio di acquistarle o di conservarle. saggezza p. 194 > La “saggezza” è quel dominio delle emozioni che si ottiene estendendo il potere del pensiero chiaro e distinto: «la saggezza è principalmente utile nell’insegnare a rendersi talmente padroni delle passioni e a usarle con tanta accortezza, sì che i mali che esse causano siano ben sopportabili, e perfino tali che si tragga qualche gioia da tutti» (Le passioni dell’anima, III, 212).

Capitolo 1 • Cartesio

GLOSSARIO MAPPA e RIEPILOGO Cartesio Le REGOLE del METODO evidenza

sintesi

analisi

enumerazione e revisione Mappa interattiva

Dal DUBBIO al COGITO dubbio metodico conoscenze sensibili

conoscenze matematiche

dubbio iperbolico

superati dal cogito

ipotesi del «genio maligno»

si può dubitare di tutto, tranne che del fatto di dubitare e, quindi, di esistere come soggetto pensante DIO

è garante della verità di tutto ciò che mi appare come evidente

esiste

• prova che parte dall’idea di Dio • prova che parte dall’imperfezione umana • prova ontologica

coesiste con l’errore umano, che deriva da giudizi intorno a cose che non appaiono chiaramente

Mappa interattiva

Il DUALISMO sostanza pensante (res cogitans)

sostanza estesa (res extensa)

incorporea e inestesa, consapevole, libera

corporea e spaziale, inconsapevole, determinata meccanicismo e determinismo La FILOSOFIA PRATICA

le regole della morale provvisoria

• obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese • essere il più possibile fermi e risoluti nell’azione • vincere piuttosto se stessi che la fortuna

le passioni vanno dominate mediante la ragione

197

Gnoseologia Epistemologia

ECHI DEL PENSIERO Dal reale al virtuale

Cartesio e la matematizzazione del mondo

L

a più grande rivoluzione introdotta da Cartesio nella filosofia è il tentativo di sostituire al modo di procedere speculativo della vecchia metafisica un nuovo metodo: quello della matematica. Le conseguenze di questa rivoluzione sono state enormi, tanto che ancora oggi il mondo in cui noi viviamo si può definire come un mondo “cartesiano”.

l’invenzione Della geometria analitiCa Il nome di Cartesio è comunemente associato ai cosiddetti “assi cartesiani”: si tratta, come ogni studente della scuola secondaria di secondo grado sa bene, di un sistema di due rette ortogonali, l’una orizzontale (detta “asse delle ascisse” o “asse x”) e l’altra verticale (detta “asse delle ordinate” o “asse y”) che si intersecano in un punto detto “origine del sistema”. Qualunque punto P del piano su cui tali rette giacciono è univocamente definito da una coppia di numeri reali (a,b) detti “coordinate cartesiane”, il primo dei quali indica l’ascissa, cioè la distanza del punto P dall’asse y, e il secondo l’ordinata, cioè la distanza del punto P dall’asse x. Questo sistema, tramite il quale ogni punto del piano è associato a una coppia di numeri, è la base della geometria analitica, ovvero di quello studio che permette la trattazione di elementi geometrici (linee e figure) tramite funzioni algebriche. In altre parole, l’intuizione di Cartesio ha consentito di unificare geometria e aritmetica – ovvero due discipline che fino a quel momento erano state considerate come distinte e separate – e di studiare le proprietà di una figura geometrica attraverso lo studio delle proprietà di una funzione algebrica. Secondo la leggenda, l’idea di questo sistema sarebbe derivata a Cartesio dall’osservazione del volo di una mosca in una stanza: egli si sarebbe infatti reso conto che sarebbe stato possibile individuare ogni punto della traiettoria di questo volo misurando la sua distanza dalle pareti. A dire il vero, il modo in cui Cartesio ha esposto ed elaborato questa idea nella Geometria (una delle “Appendi-

198

ci” al suo Discorso sul metodo) è alquanto diverso dalle basi dell’odierna geometria analitica, ma l’intuizione di fondo è senz’altro sua: è possibile esprimere gli elementi dello spazio in termini numerici e, quindi, fare della matematica la scienza-regina dello studio del mondo.

Dalla geometria analitiCa alla computer graphic La “matematizzazione” del mondo fisico – che non a caso Cartesio chiamava res extensa – è oggi un fatto scontato. Quel che però scontato non era, e che pure si è man mano realizzato a partire proprio da Cartesio, è l’applicazione della matematica a quasi ogni aspetto della vita: all’economia, alla sociologia, alla psicologia, perfino alla linguistica, alla letteratura e all’arte. Non è raro, studiando queste discipline, imbattersi in “grafici” disegnati su assi cartesiani che rappresentano fenomeni di vario tipo: dall’andamento del prezzo della benzina a quello del livello di istruzione, alla crescita o alla decrescita demografica ecc. Grazie ai computer, poi, l’applicabilità della matematica ha subito un’espansione esponenziale: la digitalizzazione – cioè l’espressione di una grandezza o di un fenomeno in termini numerici – è diventata una pratica “normale”: si possono digitalizzare immagini (mediante gli scanner), suoni (sui CD), operazioni bancarie… praticamente qualsiasi evento della nostra vita. Ma uno dei campi in cui la digitalizzazione ha avuto gli effetti più sorprendenti è la computer graphic. La “grafica computerizzata” è un insieme di tecniche che creano effetti grafici trasformando ed elaborando informazioni nu-

meriche, cioè funzioni o algoritmi (esattamente come, nella geometria analitica, una formula matematica viene “visualizzata” come una retta, una curva, una figura geometrica). Lo schermo del computer è suddiviso in elementi puntiformi detti “pixel” (ad esempio 1024 x 768), che vengono illuminati in un certo modo in base a un’informazione espressa da una formula matematica. I lati del monitor, in un certo senso, sono quindi come gli assi delle ascisse e delle ordinate. Le applicazioni di questa tecnica sono innumerevoli. Inizialmente essa era destinata a un utilizzo di tipo scientifico-industriale, come la progettazione di macchinari o edifici (si pensi ad esempio alla grande facilitazione resa possibile da un programma di architettura come AutoCAD), o medico (sul principio della computer graphic si basa ad esempio la tAC, che permette di visualizzare parti interne del corpo). Ma oggi si è trasformata in una vera e propria tecnica artistica, dal momento che ormai è possibile agire direttamente sullo schermo come se si stesse disegnando a mano libera: è poi il computer a “tradurre” queste operazioni in formule e informazioni digitali. In un libro dedicato alle conseguenze della “matematizzazione” del mondo introdotta da Cartesio, i matematici philippe J. davis e reuben Hersch scrivono:

superficie dello schermo o della tavoletta nel modo convenzionale. Egli può “immergere” il suo “pennello” in una “tavolozza”, indicando il colore, l’intensità e il grado di purezza.

Con la felice introduzione della penna luminosa, dello “sketchpad” e del “joystick”, e con un linguaggio sofisticato a disposizione, l’artista può procedere quasi come se, ma non del tutto, lavorasse con penna, matita o pennello. Utilizzando un programma come Paint o uno di quelli che ne sono derivati, un programma che è collegato con uno schermo a colori, un artista può disegnare sulla

(P.J. Davis e R. Hersch, Il sogno di Cartesio, p. 55)

(P.J. Davis e R. Hersch, Il sogno di Cartesio. Il mondo secondo la matematica, pp. 52-53)

Le raffigurazioni rese possibili dalla computer graphic hanno oggi raggiunto un livello di realismo veramente eccezionale, dal momento che ai sorprendenti risultati ottenuti già dalla grande pittura realistica dell’arte occidentale aggiungono la possibilità di riprodurre “eventi”, cioè immagini in movimento. Cosicché, se Cartesio si proponeva di indagare con la matematica la “vera” realtà – perché, come aveva già detto Galileo, il mondo è scritto in lingua matematica –, oggi il mondo reale rischia di essere “offuscato” da un mondo virtuale creato proprio grazie alla matematica: Gli artifici per dare l’illusione della realtà sono esistiti nell’arte per secoli. Le tecnologie avanzate ci forniscono oggi l’abilità di simulare o forgiare il reale a un livello di fedeltà visiva incredibile. L’arte è sempre illusione, e quando l’illusione è accettata come realtà, questo ci costringe a riprendere in considerazione la domanda filosofica fondamentale: come sappiamo che cosa esiste?

Pur derivando dalle conquiste di Galileo e di Cartesio, gli sviluppi tecnologici odierni sembrano quindi porre in questione le intuizioni stesse da cui discendono: la realtà e la matematica sono davvero corrispondenti o sovrapponibili?

LABORATORIO DELLE IDEE 1. La digitalizzazione del mondo è un fenomeno sempre più pervasivo, che riguarda moltissimi aspetti della vita contemporanea. Essa ovviamente suppone che tutto possa essere espresso in numeri, e cioè che si possa “misurare”. Secondo te, quanto questa idea influenza la vita economica, sociale e politica? Ritieni che proprio tutto si possa quantificare? E, se no, che cosa e perché? 2. L’ultima citazione dal libro di Davis e Hersch ripropone in fondo il tema metafisico centrale di Cartesio: che cosa esiste? Sulla base di quanto è stato detto a proposito della realtà virtuale, rifletti sui limiti che la matematizzazione del mondo incontra proprio nella metafisica cartesiana del cogito.

VERSO LE COMPETENZE w Comprendere le radici concettuali e filosofiche dei principali problemi della contemporaneità w Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni

199

I TESTI CAPITOLO 1 Cartesio Verso un nuovo sapere Pubblicando nel 1637 il Discorso sul metodo, Cartesio si inserisce apertamente in quel fecondo dibattito filosofico che si sviluppa nel corso del XVII secolo e che si pone alle origini della rivoluzione scientifica moderna. Condividendo tutta l’insoddisfazione di Bacone e di Galilei verso la tradizione scolastica e verso la vecchia logica di derivazione aristotelica, anche Cartesio aspira dunque alla costruzione di un nuovo sapere, che si dimostri veridico in virtù della sua applicabilità pratica.

t1 >

il metodo e le sue regole

Cartesio aveva già affrontato il problema metodologico nell’opera giovanile intitolata Regole per dirigere l’ingegno; più sinteticamente, nel Discorso enuncia le note quattro regole del suo metodo, sulla cui base progetta ambiziosamente di definire una màthesis universalis.

2 4 6 8 10 12 14 16 18

200

Quando ero più giovane avevo un po’ studiato, tra le parti della Filosofia, la Logica e, tra le Scienze Matematiche, l’Algebra e l’Analisi dei Geometri: tre arti o scienze che mi pareva dovessero contribuire in qualche modo al mio progetto. Quando però le esaminai, mi avvidi che, quanto alla Logica, i suoi sillogismi e la maggior parte dei suoi precetti servono più a spiegare agli altri quanto già si conosce o, addirittura – come l’arte di Lullo –, a parlare senza discernimento delle cose che si ignorano anziché insegnarle. Per quanto questa scienza contenga realmente molti precetti ottimi e verissimi, tuttavia ve ne sono mescolati insieme tanti altri dannosi e superflui che separarli sarebbe quasi tanto arduo quanto trarre una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato. Quanto poi all’Analisi degli antichi e all’Algebra dei moderni, oltre a riferirsi esclusivamente a materie astrattissime e che sembrano inutili, la prima è sempre talmente vincolata alla considerazione delle figure da non poter esercitare l’intelletto senza affaticare molto l’immaginazione, e la seconda è talmente assoggettata a certe regole e a certe cifre, da divenire un’arte confusa e oscura, che confonde la mente invece di coltivarla. Per tutto questo stimai necessario cercare qualche altro Metodo che, comprendendo i vantaggi di queste tre scienze, fosse esente dai loro difetti. E poiché il gran numero delle leggi fornisce spesso scuse per i vizi, tanto che uno Stato è assai meglio ordinato quando, avendone solo pochissime, vi vengono strettamente osservate, così, in luogo di quel gran numero di precetti che conta la Logica, pensai che mi sarebbero stati sufficienti questi quattro che sto per enumerare, purché decidessi fermamente di non cessare mai, neppure una sola volta, di osservarli.

20 22 24 26 28 30 32 34 36

Il primo prescriveva di non accettare mai per vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza esser tale: evitare cioè accuratamente la Precipitazione e la Prevenzione e non comprendere nei miei giudizi se non ciò che si fosse presentato alla mia mente con tale chiarezza e distinzione da non aver nessun motivo di metterlo in dubbio. Il secondo consisteva nel dividere ciascuna difficoltà che stessi esaminando in tante piccole parti quante fosse possibile e necessario per giungere alla miglior soluzione di essa. Il terzo nel condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per salire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscenza dei più complessi, e supponendo poi un ordine anche tra quelli di cui gli uni non precedono naturalmente gli altri. L’ultimo, infine, era di procedere in ogni caso ad enumerazioni così complete e a rassegne tanto generali da esser certo di non aver omesso assolutamente nulla. Erano state quelle lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili, di cui di solito si servono i Geometri nelle loro più difficili dimostrazioni, che mi avevan dato motivo a pensare che tutte le cose conoscibili dall’uomo si susseguissero nello stesso modo, e che alla sola condizione di non accettare per vere quelle che non lo sono e di osservare sempre l’ordine necessario per dedurre le une dalle altre, non potessero darsi conoscenze così remote da non poter infine esser raggiunte, né così nascoste che non potessero scoprirsi.

I TESTI

Capitolo 1 • Cartesio

(Discorso sul metodo, in Opere scientifiche, a cura di E. Lojacono, utet, Torino 1983, vol. 2, pp. 133-135)

analisi del testo 1-9 Nell’intento di evidenziare i difetti delle tre scienze (logica, algebra e geometria) che più lo hanno colpito nei suoi studi giovanili, Cartesio in primo luogo osserva (come Bacone) che i sillogismi e la maggior parte dei principi della logica tradizionale sono utili non tanto a scoprire qualcosa di nuovo, quanto a spiegare ciò che già si conosce, oppure – come nel caso dell’«arte combinatoria» esposta da Raimondo Lullo (Ars inveniendi veritatem, 1274) – a parlare in maniera brillante di argomenti che in realtà non si conoscono. Proprio a causa di questi limiti della logica tradizionale, l’impresa di separare nella logica i precetti utili da quelli inutili appare a Cartesio come un’enorme fatica. 9-13 Il difetto maggiore della geometria euclidea consiste invece, oltre che nella sua astrattezza, nel suo stretto legame con le figure, che ne limita il campo di applicazione; mentre il problema dell’algebra moderna sta nell’eccessiva complessità del suo sistema notazionale, che la rende «confusa e oscura», oltre che astratta. 13-19 Cartesio intende dunque mettere a punto un metodo che sappia compendiare in sé gli aspetti positivi della logica, della geometria e dell’algebra, superandone però i limiti. E, poiché un gran numero di norme induce spesso (anche nella vita di una società) alla poca chiarezza e, quindi, alla trasgressione, il metodo elaborato da Cartesio dovrà essere composto da poche ed essenziali regole.

20-23 La regola dell’evidenza prescrive di accettare come vere solo quelle idee che si presentino alla mente in modo chiaro e distinto. Come Cartesio spiega nei Principi della filosofia, «idea chiara» è quella presente e manifesta a uno spirito attento, e «idea distinta» è quella che, essendo chiara, è separata da tutte le altre e così precisa da non contenere nient’altro all’infuori di ciò che è chiaro. 24-25 La regola dell’analisi prescrive di semplificare ciò che è complesso scomponendolo nel maggior numero possibile di elementi semplici. 26-29 La regola della sintesi prescrive, in sostanza, di procedere in modo opposto rispetto a quanto si fa nell’analisi, ricomponendo ordinatamente (dal semplice al complesso) ciò che prima si era scomposto. 29-30 La quarta regola prescrive l’enumerazione e la revisione, cioè di passare prudentemente in rassegna tutte le operazioni compiute nell’analisi e nella sintesi, per accertarsi di non aver omesso nulla. 31-36 Nella parte conclusiva del brano, a conferma dell’ispirazione matematico-geometrica del metodo, Cartesio ricorda le «lunghe catene di ragionamenti» della geometria euclidea, la cui chiarezza e il cui rigore egli ritiene di poter applicare a qualunque ambito dello scibile umano, costruendo così una sorta di màthesis universalis capace di spiegare in maniera chiara e sistematica ogni aspetto della realtà.

201

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

Dal dubbio al cogito

I TESTI

Nel tentativo di mostrare la validità universale delle regole del suo metodo, Cartesio ritiene di non poter fare affidamento sul sapere già esistente, ma anzi di dover sottoporre al dubbio ogni conoscenza umana. Questo sistematico (o «metodico») vaglio critico lo condurrà al cogito, ovvero a quell’unica certezza che, avendo resistito al dubbio, potrà costituire la base per rifondare l’intero edificio della conoscenza.

t2 >

Sottoponendo metodicamente ogni conoscenza al vaglio critico del dubbio, si agisce – secondo un paragone proposto dallo stesso Cartesio – come colui che, temendo che qualcuna delle mele del suo cesto sia marcia e guasti le altre, decide di svuotare il cesto per esaminarle una per una. Il brano che segue, tratto dalle Meditazioni metafisiche, offre un esempio di questo sistematico dubitare con cui Cartesio affronta ogni propria opinione, a partire da quelle (a prima vista evidenti e indubitabili) derivate dai sensi.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30

202

il dubbio metodiCo

Già da qualche tempo mi sono accorto che, fin dai miei primi anni, avevo accolto come vere una quantità di false opinioni, onde ciò che in appresso ho fondato sopra princìpi così mal sicuri, non poteva essere che assai dubbio ed incerto; di guisa che m’era d’uopo prendere seriamente una volta in vita mia a disfarmi di tutte le opinioni ricevute fino allora in mia credenza, per cominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se volevo stabilire qualche cosa di fermo e di durevole nelle scienze. […] Ora, dunque, che il mio spirito è libero da ogni cura, e che mi son procurato un riposo sicuro in una pacifica solitudine, mi applicherò seriamente e con libertà a una distruzione generale di tutte le mie antiche opinioni. E non sarà necessario, per arrivare a questo, provare che esse sono tutte false, della qual cosa, forse, non verrei mai a capo; ma in quanto la ragione mi persuade già che io non debbo meno accuratamente trattenermi dal prestar fede alle cose che non sono interamente certe e indubitabili, che a quelle le quali ci appaiono manifestamente false, il menomo motivo di dubbio che troverò basterà per farmele tutte rifiutare. E perciò non v’è bisogno che io le esamini ognuna in particolare, il che richiederebbe un lavoro infinito; ma, poiché la ruina delle fondamenta trascina necessariamente con sé il resto dell’edificio, io attaccherò dapprima i princìpi sui quali tutte le mie antiche opinioni erano poggiate. Tutto ciò che ho ammesso fino ad ora come il sapere più vero e sicuro, l’ho appreso dai sensi, o per mezzo dei sensi: ora, ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati. Ma benché i sensi c’ingannino qualche volta, riguardo alle cose molto minute e molto lontane, se ne incontrano forse molte altre, delle quali non si può ragionevolmente dubitare, benché noi le conosciamo per mezzo loro: per esempio, che io son qui, seduto accanto al fuoco, vestito d’una veste da camera, con questa carta fra le mani; ed altre cose di questa natura. E come potrei io negare che queste mani e questo corpo sono miei? a meno che, forse, non mi paragoni a quegl’insensati, il cervello dei quali è talmente turbato ed offuscato dai neri vapori della bile, che asseriscono costantemente di essere dei re, mentre sono dei pezzenti; di essere vestiti d’oro e di porpora, mentre son nudi affatto; o s’immaginano di essere delle brocche, o d’avere un corpo di vetro. Ma costoro son pazzi; ed io non sarei da meno, se mi regolassi sul loro esempio. Tuttavia debbo qui considerare che sono uomo e che, per conseguenza, ho l’abitudine di dormire e di rappresentarmi nei sogni le stesse cose, e alcune volte delle meno verosimili ancora, che

Capitolo 1 • Cartesio

34 36 38 40 42 44 46 48 50 52 54 56

quegl’insensati quando vegliano. Quante volte m’è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da esser quasi capace di persuadermi che io dormo. […] E per la stessa ragione, benché queste cose generali, cioè degli occhi, una testa, delle mani, e simili, possano essere immaginarie, bisogna tuttavia confessare che vi sono cose ancora più semplici e più universali, le quali sono vere ed esistenti; dalla mescolanza delle quali, né più né meno che dalla mescolanza di alcuni colori veri, tutte queste immagini delle cose, che risiedono nel nostro pensiero, siano esse vere e reali, siano finte e fantastiche, sono formate. Di questo genere di cose è la natura corporea in generale e la sua estensione; e così pure la figura delle cose estese, la loro quantità o grandezza, e il loro numero; come anche il luogo dove esse sono, il tempo che misura la loro durata, e simili. Per questo, forse, noi non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la medicina e tutte le altre scienze che dipendono dalla considerazione delle cose composte, sono assai dubbie ed incerte; ma che l’aritmetica, la geometria e le altre scienze di questo tipo, le quali non trattano se non di cose semplicissime e generalissime, senza darsi troppo pensiero se esistano o meno in natura, contengono qualche cosa di certo e d’indubitabile. Perché, sia che io vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, ed il quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così manifeste possano essere sospettate di falsità o d’incertezza.

I TESTI

32

(Meditazioni metafisiche, I, in Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1967, vol. 1, pp. 199-202)

analisi del testo 1-6 Fin dalle prime righe del brano risulta chiara l’intenzione metafisica di Cartesio, ovvero quella di individuare le “radici” della conoscenza e sottoporle a critica, per rifondare il sapere su basi certissime. In una sua famosa lettera il filosofo paragona infatti la metafisica alle radici di un albero, il cui tronco è la filosofia e i cui rami sono le scienze. 7-16 Raggiunta l’età matura (Cartesio scrive le Meditazioni mentre si sta avvicinando ai 40 anni) e con essa la tranquillità, il filosofo francese decide di eliminare tutte le sue vecchie opinioni non fondate. E puntualizza che per decidere di eliminarle non gli è necessario esaminarle una per una e dimostrarne la falsità, ma è sufficiente accertare che è possibile dubitare della loro verità, qualora si basino su principi non certi. In sostanza, analizzando i princìpi che lo fondano, Cartesio potrà accettare o far “crollare” l’intero sistema delle sue conoscenze.

17-28 La forma di conoscenza che Cartesio analizza per prima è quella sensibile. Al di là della considerazione (che risale al pensiero scettico) che i sensi possono ingannare, pare di poter affermare che esistono opinioni le quali, sebbene siano state ottenute mediante i sensi, sono comunque indubitabili. Ad esempio, dubitare di trovarsi in un certo luogo, vestiti in un determinato modo, con certi oggetti tra le mani sembra un comportamento immotivato, se non addirittura da folli. 29-40 Riflettendo più attentamente, Cartesio nota però che gli è capitato talvolta di ritrovarsi in sogno in situazioni analoghe a quella appena descritta, senza avere modo di accorgersi che non si trattava della realtà. L’impossibilità di distinguere con certezza la veglia dal sonno apre ovviamente la via al dubbio, poiché non vi sono ragioni certe per affermare che l’uomo non si trovi perennemente in una situazione illusoria come quella che sperimenta nel sonno.

>

203

I TESTI

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

41-48 A questo punto il filosofo francese nota però che vi sono cose che si presentano sempre identiche, sia nel sonno sia nella veglia: un uomo avrà sempre due occhi, una testa e due mani, che si stia sognando o che si sia svegli; e un quadrato, sia esso sognato o reale, sarà sempre una figura formata da quattro lati uguali.

t3 >

49-56 Le considerazioni appena svolte portano Cartesio alla conclusione (provvisoria) che le affermazioni dell’aritmetica e della geometria, cioè di quelle scienze che hanno per oggetto gli elementi più semplici della conoscenza, siano veritiere. Come sappiamo, anche questo traguardo sarà superato con l’ipotesi del «genio maligno» (v. T3).

il dubbio iperboliCo

L’indagine critica sui fondamenti della conoscenza era presente già nel Discorso sul metodo, ma nelle Meditazioni si fa più accurata e approfondita. È qui che, da “metodico”, il dubbio si fa “iperbolico”, investendo, mediante l’ipotesi del «genio maligno», anche le verità aritmetiche e geometriche.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di verità, ma un certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero; se, con questo mezzo, non è in mio potere di pervenire alla conoscenza di verità alcuna, almeno è in mio potere di sospendere il mio giudizio. Ecco perché baderò accuratamente a non accogliere alcuna falsità, e preparerò così bene il mio spirito a tutte le astuzie di questo grande ingannatore, che, per potente ed astuto ch’egli sia, non mi potrà mai imporre nulla. Ma questo disegno è penoso e laborioso, ed una certa pigrizia mi riporta insensibilmente nel corso della mia vita ordinaria. E a quel modo che uno schiavo, il quale godeva in sogno d’una libertà immaginaria, quando comincia a sospettare che la sua libertà non è che un sogno, teme d’essere risvegliato, e cospira con quelle illusioni piacevoli, per esserne più lungamente ingannato, così io ricado insensibilmente da me stesso nelle mie antiche opinioni, ed ho paura di risvegliarmi da quest’assopimento, per tema che le veglie laboriose che succederebbero alla tranquillità di questo riposo, invece di portarmi qualche luce e qualche rischiaramento nella conoscenza della verità, non abbiano ad essere insufficienti per illuminare le tenebre delle difficoltà che sono (Meditazioni metafisiche, I, in Opere, cit., vol. 1, pp. 203-204) state agitate testé.

analisi del testo 1-11 L’ipotesi del «genio maligno» mette in crisi ogni certezza, anche quelle che, in una prima fase (v. T2), avevano resistito al dubbio. L’uomo potrebbe essere vittima dell’inganno di una divinità malvagia e tutto quello che vede e sente fuori di sé potrebbe essere solo un’illusione, così come un’illusione potrebbero essere le sue membra e i suoi sensi, che pure egli percepisce come realmente esistenti. A questo punto non rimane

204

altra scelta che sospendere il giudizio su ogni cosa, in modo che, se pure non si può pervenire alla verità, si potrà almeno evitare l’errore. 12-20 A una considerazione più attenta, il proposito della sospensione di ogni giudizio appare estremamente difficile da realizzare. Come uno schiavo che sogna di essere libero, e che quindi spera di risvegliarsi il più tardi possibile, così Cartesio è tentato di non abbandonare

>

Capitolo 1 • Cartesio

t4 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28

si chiude la prima meditazione, Cartesio sembra dunque constatare con amarezza che la ricerca della verità è ben più scomoda e faticosa della permanenza nell’errore.

«io sono, io esisto»

Il dubbio iperbolico, a cui Cartesio, nella prima delle sue Meditazioni, ha sacrificato anche le conoscenze matematiche, nella meditazione successiva viene finalmente superato. Il filosofo approda infatti a una prima certezza assoluta, quella di esistere, certezza che il dubbio non solo non può insidiare, ma anzi avvalora, perché per poter dubitare occorre proprio esistere. Rispetto alla formulazione presente nel Discorso sul metodo (il celebre cogito ergo sum), quella adottata nelle Meditazioni metafisiche («io penso, io esisto») evidenzia maggiormente che Cartesio non considera tale verità come la conclusione di un sillogismo (come gli obietterà Hobbes), ma come una verità intuitiva, che si impone per la sua irresistibile chiarezza.

I TESTI

le vecchie, consolidate e rassicuranti opinioni, temendo che il risveglio da questa sorta di “sonno intellettuale” lo possa precipitare in una fase di pesante e incerto lavoro. Con questa suggestiva immagine, con cui

La meditazione che feci ieri m’ha riempito lo spirito di tanti dubbi, che, oramai, non è più in mio potere dimenticarli. E tuttavia non vedo in qual maniera potrò risolverli; come se tutt’a un tratto fossi caduto in un’acqua profondissima, sono talmente sorpreso, che non posso né poggiare i piedi sul fondo, né nuotare per sostenermi alla superficie. Nondimeno io mi sforzerò, e seguirò da capo la stessa via in cui ero entrato ieri, allontanandomi da tutto quello in cui potrò immaginare il menomo dubbio, proprio come farei se lo riconoscessi assolutamente falso; e continuerò sempre per questo cammino, fino a che non abbia incontrato qualche cosa di certo, o almeno, se altro non m’è possibile, fino a che abbia appreso con tutta certezza che al mondo non v’è nulla di certo. Archimede, per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo altrove, domandava un sol punto fisso ed immobile. Così io avrò diritto di concepire alte speranze, se sarò abbastanza fortunato da trovare solo una cosa, che sia certa e indubitabile. Io suppongo, dunque, che tutte le cose che vedo siano false; mi pongo bene in mente che nulla c’è mai stato di tutto ciò che la mia memoria, riempita di menzogne, mi rappresenta; penso di non aver senso alcuno; credo che il corpo, la figura, l’estensione, il movimento ed il luogo non siano che finzioni del mio spirito [chimerae]. Che cosa, dunque, potrà essere reputato vero? Forse niente altro, se non che non v’è nulla al mondo di certo. Ma che ne so io se non vi sia qualche altra cosa, oltre quelle che testé ho giudicato incerte, della quale non si possa avere il menomo dubbio? Non v’è forse qualche Dio, o qualche altra potenza, che mi mette nello spirito questi pensieri? Ciò non è necessario, perché forse io sono capace di produrli da me. Ed io stesso, almeno, sono forse qualche cosa? Ma ho già negato di avere alcun senso ed alcun corpo. Esito, tuttavia; che cosa, infatti, segue di là? Sono io talmente dipendente dal corpo e dai sensi, da non poter esistere senza di essi? Ma mi sono convinto che non vi era proprio niente nel mondo, che non vi era né cielo, né terra, né spiriti, né corpi; non mi sono, dunque, io, in pari tempo, persuaso che non esistevo? No, certo; io esistevo senza dubbio, se mi sono convinto di qualcosa, o se solamente ho pensato qualcosa. Ma vi è un non so quale ingannatore potentissimo e astutissimo, che impiega ogni suo sforzo nell’ingannarmi sempre. Non v’è dunque dubbio che io esisto, s’egli m’inganna; e m’inganni fin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla, fino a che penserò di essere qualche cosa. Di modo che, dopo avervi ben

205

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

I TESTI

30

pensato, ed avere accuratamente esaminato tutto, bisogna infine concludere, e tener fermo, che questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che (Meditazioni metafisiche, II, in Opere, cit., vol. 2, pp. 205-206) la concepisco nel mio spirito.

analisi del testo 1-8 Naufrago nell’«acqua profondissima» del dubbio, Cartesio decide di proseguire il suo cammino, sapendo che esso lo porterà comunque a una conoscenza certa: o a una nuova, solida base per il sapere umano, o alla certezza che nulla si può sapere con certezza. 9-11 trovare anche «solo una cosa, che sia certa e indubitabile» sarebbe una “scoperta” paragonabile a quella della leva, con la quale Archimede aveva dichiarato di poter sollevare il mondo. 12-28 Dopo aver brevemente ripercorso i vari passaggi con cui nella prima meditazione ha sottoposto al dubbio ogni tipo di conoscenza, Cartesio trova finalmente, proprio nella sconsolante consapevolezza di non poter che dubitare di tutto, quell’appoggio saldo che gli è necessario per ricominciare a risalire verso la

verità: se dubita, se pensa, allora egli esiste. E questa è una certezza che neppure il «genio maligno» può incrinare, dal momento che, per essere ingannati, è necessario esistere. 28-31 Ribadendo, in conclusione di brano, che la proposizione «Io sono, io esisto» è vera «tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito», Cartesio sottolinea un aspetto che si rivelerà importante per rispondere alle obiezioni che saranno mosse alla sua dottrina: la certezza da cui è possibile partire per ricostruire l’intero sistema delle conoscenze umane non è il frutto di un ragionamento (di un sillogismo abbreviato, come suggerirà Gassendi), ma una verità intuitiva, a tal punto immediata da essere accessibile a chiunque, purché dotato di pensiero.

La res cogitans Dopo aver scoperto di poter credere con assoluta sicurezza alla propria esistenza, Cartesio si propone, nella seconda parte della seconda meditazione, di individuare la propria essenza. Egli deve, cioè, definire gli attributi costitutivi dell’io e, per poterlo fare in modo rigoroso, ricorre ancora una volta al dubbio metodico. Giunge così, dopo aver scartato varie ipotesi, alla conclusione che l’unica cosa che può dire di sé con sicurezza è di essere una res cogitans, cioè una sostanza pensante.

t5 >

«ma Che Cosa, dunque, sono io?»

Il brano che segue propone la “via” percorsa da Cartesio per giungere alla certezza della propria esistenza come soggetto pensante.

2 4 6 8 10

206

Ma io non conosco ancora abbastanza chiaramente ciò che sono, io che son certo di essere; di guisa che, oramai, bisogna che badi con la massima accuratezza a non prendere imprudentemente qualche altra cosa per me, e così a non ingannarmi in questa conoscenza che io sostengo essere più certa e più evidente di tutte quelle che ho avuto per lo innanzi. Ecco perché io considererò da capo ciò che credevo che esistesse prima che entrassi in questi ultimi pensieri; e dalle mie antiche opinioni toglierò tutto quel che può essere combattuto con le ragioni da me sopra allegate, sì che resti solo ciò che è intieramente indubitabile. Che cosa, dunque, ho io creduto dapprima di essere? Senza difficoltà, ho pensato di essere un uomo. Ma che cosa è un uomo? Dirò che è un animale ragionevole? No di certo: perché bisognerebbe, dopo, ricercare che cosa è animale, e che cosa è ragionevole, e così, da una sola questione, cadremmo insensibil-

12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32

mente in un’infinità di altre più difficili ed avviluppate, ed io non vorrei abusare del poco tempo ed agio che mi resta, impiegandolo a sbrogliare simili sottigliezze. Ma mi arresterò piuttosto a considerare qui i pensieri, che nascevan prima da se stessi nel mio spirito, e che non mi erano ispirati che dalla mia sola natura, quando mi consacravo alla considerazione del mio essere. […] Ma io, chi sono io, ora che suppongo che vi è qualcuno, che è estremamente potente e, se oso dirlo, malizioso e astuto, che impiega tutte le sue forze e tutta la sua abilità ad ingannarmi? Posso io esser sicuro di avere la più piccola di tutte le cose, che sopra ho attribuito alla natura corporea? Io mi fermo a pensarvi con attenzione, percorro e ripercorro tutte queste cose nel mio spirito, e non ne incontro alcuna, che possa dire essere in me. Non v’è bisogno che mi fermi ad enumerarle. Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima, e vediamo se ve ne sono alcuni che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma, egualmente, non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’essere o d’esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlar con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. […] Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, (Meditazioni metafisiche, II, in Opere, cit., vol. 2, pp. 207-209) e che sente.

I TESTI

Capitolo 1 • Cartesio

analisi del testo 1-7 Guadagnata la certezza della propria esistenza, con altrettanta certezza Cartesio vuole ora capire quale sia la natura fondamentale che lo costituisce. Per questo si accinge a riesaminare le sue opinioni del passato, sottoponendole allo strumento critico del dubbio in modo da poter eliminare quelle non certissime. 7-12 La definizione dell’uomo come animale ragionevole, di origine aristotelica, è scartata subito, sia per la sua complessità, sia per l’incertezza che caratterizza, a ben guardare, il significato di entrambi i termini che la compongono. 12-14 Evitando di soffermarsi sulle definizioni filosofiche dell’io, Cartesio preferisce volgersi a quelle idee che in passato gli si erano spontaneamente presentate alla mente nella riflessione sulla natura del proprio essere. Il filosofo allude (come chiariscono le righe qui omesse) all’idea del corpo come macchina e a quella dell’anima come vento, o fiamma, o aria sottilissima che vivifica il corpo. 15-20 Per quanto riguarda il corpo, poiché qualunque idea sull’esistenza di corpi esterni e sulla natura corpo-

rea del proprio io potrebbe essere il frutto di un inganno del «genio maligno», Cartesio è costretto a sospendere il giudizio su tale ambito. 20-25 Per quanto concerne l’anima, il filosofo deve ovviamente scartare l’idea che essa abbia una qualche facoltà (come la capacità di nutrirsi, la mobilità e la sensibilità) di tipo corporeo. Ma vi è un attributo che è indubitabilmente legato alla natura dell’io: il pensiero. 26-30 L’io è senz’altro pensiero; non può essere certo di esistere se non perché e fin tanto che pensa. In questo senso nessun dubbio può insidiare la certezza che l’essere e il pensiero siano inscindibili. L’io è una sostanza pensante (res cogitans) o, se si preferisce, «uno spirito, un intelletto o una ragione». 31-33 Nel ribadire la scoperta di essere «una cosa che pensa», Cartesio specifica che quest’ultima si manifesta attraverso il suo dubitare, concepire, affermare ecc. In questo modo egli chiarisce che il fondamento della conoscenza è il soggetto, inteso come qualcosa che si può definire attraverso i propri atti, e non attraverso l’oggetto di tali atti.

207

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

Dalla res cogitans alla res extensa: Dio come garante della verità

I TESTI

Come Pascal farà polemicamente notare, Cartesio è interessato a dimostrare l’esistenza di Dio per motivi extra-religiosi. La possibilità di affermare con certezza che Dio (un Dio buono, che non inganna l’uomo) esiste gli è infatti necessaria per sottrarre al dubbio iperbolico l’idea dell’esistenza di una realtà esterna all’io e di natura corporea (res extensa). In questo senso, in Cartesio, Dio assume il ruolo fondamentale di garante della verità di ciò che l’uomo conosce sulla realtà che lo circonda.

t6 >

la neCessità di provare l’esistenza di dio

Il brano riportato di seguito, tratto dal Discorso sul metodo, presenta le tre famose prove cartesiane dell’esistenza di Dio, che nelle Meditazioni metafisiche verranno riprese e approfondite.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30

208

In seguito a ciò, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che quindi il mio essere non era del tutto perfetto – dato che notavo chiaramente che era maggiore perfezione conoscere che dubitare – mi proposi di ricercare donde avessi appreso a pensare qualcosa di più perfetto di quello che in realtà io fossi e conobbi con evidenza che doveva trattarsi di qualche natura effettivamente più perfetta della mia. Non mi preoccupavo poi con altrettanto zelo di sapere donde venissero i pensieri di molte altre cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore e mille altre perché, non ravvisando in questi pensieri nulla che li facesse a me superiori, potevo credere che, se eran veri, dipendessero dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione e, se non lo erano, che mi venissero dal nulla, cioè che esistessero in me per quel che avevo di imperfetto. Ciò però non poteva valere ugualmente per l’idea di un essere più perfetto di me; è infatti manifestamente impossibile trarla dal nulla e, d’altronde essendo tanto inaccettabile che il più perfetto derivi e dipenda da ciò che è meno perfetto quanto che dal nulla proceda qualcosa, non poteva neppure darsi che io ricavassi tale idea da me stesso. Così rimaneva solo che fosse stata posta in me da una natura veramente più perfetta di quello che io fossi, anzi avente in sé tutte le perfezioni di cui potevo avere qualche idea, cioè, per dirla in una parola, che fosse Dio. Inoltre, avendo coscienza di alcune perfezioni che non possedevo, pensai che non ero il solo essere che esistesse (se permettete, userò qui liberamente alcuni termini della Scuola), ma che, necessariamente, doveva essercene qualche altro più perfetto, dal quale dipendessi e da cui avessi acquisito tutto ciò che avevo; se fossi stato solo, infatti, e indipendente da ogni altro, così da aver avuto da me stesso tutto quel poco per cui partecipavo dell’essere perfetto, avrei potuto, per la stessa ragione, darmi tutto il sovrappiù che sapevo mancarmi e, in tal modo, essere anch’io infinito, eterno, immutabile, onnisciente, onnipotente, possedere insomma tutte le perfezioni che potevo notare in Dio. […] Dopo ciò volli ricercare altre verità, ed essendomi proposto l’oggetto dei Geometri, che io concepivo come un corpo continuo o uno spazio indefinitamente esteso in lunghezza e in larghezza, in altezza o profondità, divisibile in varie parti che potevano avere diverse forme e grandezze ed essere mosse o trasposte in tutti i modi – giacché i Geometri suppongono tutto ciò nel loro oggetto –, esaminai alcune delle loro dimostrazioni più semplici. Avendo poi notato che quella gran certezza che tutti attribuiscono ad esse dipende solo dall’evidenza con cui sono concepite, secondo la regola sopra ricordata, mi resi pure conto che non c’era assolutamente nulla che mi assicurasse dell’esistenza del loro oggetto. Per esempio vedevo bene che, supponendo un triangolo, bi-

32 34 36 38

sognava che i suoi tre angoli fossero uguali a due retti, ma nulla vedevo che per questo mi assicurasse che al mondo v’era un qualche triangolo. Quando invece tornavo a prendere in esame l’idea che avevo di un Essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa come nell’idea di triangolo è compreso che i suoi tre angoli sono eguali a due retti, e come in quella della sfera che tutte le sue parti sono poste a una eguale distanza dal centro e perfino con maggior evidenza; e di conseguenza che Dio, cioè questo Essere perfetto, sia o esista, è almeno tanto certo quanto non potrebbe esserlo nessuna dimostrazione di Geometria. (Discorso sul metodo, in Opere scientifiche, cit., vol. 2, pp. 144-146)

analisi del testo 1-5 Il cogito, cioè l’autoevidenza dell’atto del dubitare, ha svelato a Cartesio non soltanto la natura pensante del suo io, ma anche la sua natura imperfetta. Il filosofo si trova così a interrogarsi sull’origine delle proprie idee e, in particolare, sull’origine dell’idea (che egli non può che riconoscere di possedere) di una natura più perfetta della sua. Queste prime righe del brano introducono sia la prima prova dell’esistenza di Dio (che parte dalla domanda sull’origine dell’idea di un ente perfettissimo e che il filosofo affronta nelle righe immediatamente seguenti: rr. 5-15), sia la seconda (che verte sui “gradi” di perfezione e che verrà esposta subito dopo: rr. 16-23). 5-15 Cartesio non si interroga sull’origine delle idee delle cose corporee («il cielo, la terra, la luce, il calore e mille altre»: r. 6), dal momento che nessuna di tali idee gli appare superiore a quella del suo essere ed egli può dunque ipotizzare di esserne egli stesso l’autore. Ma, per quel che concerne l’idea di «una natura veramente più perfetta» della sua, questa non può derivare dal nulla, né da qualcosa di meno perfetto: il filosofo conclude quindi che una tale idea deve essere stata posta nella sua mente da Dio stesso, ovvero da un ente perfetto al massimo grado. È la prima prova dell’esistenza di Dio, che verrà ripresa nella terza delle Meditazioni metafisiche.

t7 >

I TESTI

Capitolo 1 • Cartesio

16-23 Cartesio passa immediatamente alla seconda prova, imperniata sull’osservazione che se lui fosse l’unico essere esistente (e fosse quindi creatore di se stesso), si sarebbe dato quelle perfezioni di cui ha cognizione. Dal momento che invece egli è privo di tali perfezioni, si deve concludere che egli non è l’unico essere esistente, ma ne deve esistere almeno un altro, che possiede in atto quelle perfezioni e dal quale egli dipende: tale essere è Dio. 24-38 Nella terza e ultima prova, che riecheggia quella ontologica anselmiana, si intravede la finalità epistemologica del discorso teologico di Cartesio. Ricordando il suo interesse per la geometria, il filosofo osserva infatti che le dimostrazioni geometriche si impongono per l’evidenza e il rigore dei loro passaggi, ma che nulla dicono con certezza riguardo all’esistenza degli oggetti di cui trattano. L’esempio dell’idea del triangolo e del triangolo realmente esistente serve appunto a ribadire questa osservazione. Diversamente dall’idea degli oggetti geometrici, l’idea di Dio, ovvero di un Essere perfetto, implica l’effettiva esistenza di un tale Essere, esattamente come l’idea di triangolo implica che la somma dei suoi angoli interni sia pari a 180°, o come l’idea di sfera implica che tutti i suoi punti siano equidistanti dal centro. In altre parole, se Dio non esistesse realmente, non sarebbe l’Essere perfetto che è per definizione.

dio, la verità e l’errore

Una volta dimostrata l’esistenza di Dio, il criterio cartesiano dell’evidenza assume validità assoluta. Dio, infatti, essendo perfetto, non può ingannarci (né permettere ad altri di ingannarci) e dunque noi possiamo senz’altro fidarci di quell’inclinazione a credere nelle idee chiare e distinte di cui Egli stesso ci ha dotato. Questo significa che Dio è concepito da Cartesio come una sorta di trait d’union che ci consente di passare dalla certezza del nostro io alla certezza delle altre evidenze (cioè quelle concernenti il mondo). Il brano proposto nella pagina seguente, tratto dalla quarta parte del Discorso sul metodo, offre appunto la soluzione cartesiana al problema del rapporto tra pensiero e realtà.

209

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

2

I TESTI

4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24

Che cosa ci induce […] a credere che i pensieri che ci vengono in sogno siano più falsi degli altri, visto che spesso non sono né meno vivi, né meno chiari? Che i migliori ingegni vi riflettano pure quanto vogliono: quanto a me non credo che possan mai trovare ragione sufficiente per eliminare tale dubbio, se non presuppongono l’esistenza di Dio. In primo luogo infatti, quella stessa affermazione che poc’anzi ho assunto come regola, cioè che son vere tutte le cose che concepiamo in modo del tutto chiaro e distinto, è certa solo in quanto Dio è o esiste ed è un essere perfetto e tutto quanto è in noi viene da lui. Ne consegue che le nostre idee o nozioni, essendo cose reali e provenienti da Dio, in tutto quello che hanno di chiaro e distinto non possono essere che vere. Di modo che, se abbastanza spesso ne professiamo alcune che contengono il falso, deve trattarsi solo di quelle che presentano aspetti confusi ed oscuri, giacché in ciò partecipano del nulla, cioè tali idee sono in noi così confuse solo perché non siamo del tutto perfetti. D’altronde è evidente che come è inaccettabile che la falsità o l’imperfezione, in quanto tale, proceda da Dio, così è altrettanto inaccettabile che la verità o la perfezione venga dal nulla. Se non fossimo però a conoscenza che tutto ciò che è in noi di reale e di vero viene da un essere perfetto ed infinito, per quanto chiare e distinte fossero le nostre idee, non avremmo ragione alcuna che ci facesse certi che esse posseggono la perfezione di essere vere. […] Infine, sia nella veglia che nel sonno, dobbiamo lasciarci persuader soltanto dall’evidenza della nostra ragione. E bisogna notare che dico della ragione, e non dell’immaginazione né dei sensi. Infatti, ad esempio, pur vedendo il sole molto chiaramente, non dobbiamo per questo giudicare che sia tanto grande quanto ci appare e, pur immaginando una testa di leone congiunta ad un corpo di capra, non dobbiamo da ciò concludere che vi sia nel mondo una chimera: la ragione, infatti, non ci dice che è vero quel che così vediamo o immaginiamo, ma ci suggerisce che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità, poiché non potrebbe essere che Dio, che è assolutamente perfetto e veridico, le abbia poste nella nostra mente senza (Discorso sul metodo, in Opere scientifiche, cit., vol. 2, pp. 147-148) che fossero vere.

analisi del testo 1-8 Dopo aver richiamato (nelle righe precedenti a quelle qui riportate) le osservazioni svolte nella terza parte del Discorso sulla fragilità delle nostre certezze sulla realtà esterna, Cartesio le sintetizza nella nota considerazione sull’impossibilità di distinguere le impressioni che abbiamo in sogno da quelle che abbiamo durante la veglia. Il dubbio che i nostri pensieri siano simili ai sogni non può essere veramente eliminato, a meno di non presupporre l’esistenza di Dio. Infatti, la regola che prescrive di accogliere come vere solo quelle idee che ci appaiano chiare e distinte ha valore assoluto soltanto perché Dio esiste, è perfetto e tutto ciò che è in noi proviene da Dio. 8-16 Il fatto che si possa cadere in errore non dipende da Dio, ma dalla superficialità dell’uomo, che, ignorando le regole del metodo (in particolare la prima), segue talvolta anche quelle idee che non gli appaiono in modo

210

chiaro e distinto. Infatti l’uomo (come Cartesio spiegherà meglio nelle Meditazioni), se da un lato partecipa della perfezione divina, dall’altro, essendo finito, partecipa dell’imperfezione del nulla: per questo è soggetto all’errore, che non può in alcun modo derivare da Dio. E in ogni caso, ribadisce Cartesio, anche di quelle idee che ci appaiono come chiare e distinte noi non potremmo avere alcuna certezza, se non sapessimo che tutto quello che è in noi di reale e di vero ci proviene da Dio. 17-25 Cartesio sottolinea che, nella veglia come nel sonno, l’evidenza da assumere come criterio gnoseologico fondamentale è quella razionale e non quella dei sensi. Le impressioni sensoriali e le costruzioni dell’immaginazione devono essere giudicate per mezzo della ragione, per accertare quale sia in esse quel fondamento di verità che tutte le nozioni umane hanno in quanto provenienti da Dio.

Capitolo 1 • Cartesio

la res extensa e le sue proprietà

Se inizialmente aveva ritenuto di dover mettere in dubbio l’esistenza delle cose corporee, ammettendo soltanto l’esistenza della res cogitans, dopo aver dimostrato che Dio esiste ed è garante del criterio dell’evidenza, Cartesio può affermare anche l’esistenza del mondo corporeo, dal momento che l’uomo ne ha un’idea chiara e distinta. Nella pagina delle Meditazioni qui riportata, il filosofo accoglie la distinzione tra proprietà oggettive e soggettive della materia, risalente a Democrito e teorizzata in quegli anni anche da Galilei.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36

Cominciamo dalla considerazione delle cose più comuni, e che noi crediamo di comprendere nel modo più distinto, cioè i corpi che tocchiamo e vediamo. Io non intendo parlare dei corpi in generale, perché queste nozioni generali sono d’ordinario più confuse, ma di qualche corpo in particolare. Prendiamo, per esempio, questo pezzo di cera, che è stato proprio ora estratto dall’alveare: esso non ha perduto ancora la dolcezza del miele che conteneva, serba ancora qualcosa dell’odore dei fiori, dai quali è stato raccolto; il suo colore, la sua figura, la sua grandezza sono manifesti; è duro, è freddo, lo si tocca e, se lo colpite, darà qualche suono. Infine, tutte le cose che possono distintamente far conoscere un corpo, s’incontrano in questo. Ma ecco che, mentre io parlo, lo si avvicina al fuoco: quel che vi restava di sapore esala, l’odore svanisce, il colore si cangia, la figura si perde, la grandezza aumenta, divien liquido, si riscalda, a mala pena si può toccarlo, e benché lo si batta, non renderà più alcun suono. Ma la cera stessa resta dopo questo cambiamento? Bisogna confessare ch’essa resta; e nessuno può negarlo. Che cosa è, dunque, ciò che si conosceva con tanta distinzione in questo pezzo di cera? Certo non può esser niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, poiché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovan cambiate, e tuttavia la cera stessa resta. Forse era ciò che io penso ora: la cera cioè non era né quella dolcezza del miele, né quel piacevole odore dei fiori, né quella bianchezza, né quella figura, né quel suono, ma solamente un corpo, che poco prima mi appariva sotto queste forme, e che adesso si presenta sotto altre. Ma, parlando con precisione, che cosa è ciò che immagino, quando la concepisco in questa maniera? Consideriamolo attentamente, e, allontanando tutte le cose che non appartengono alla cera, vediamo quanto resta. Certo non resta altro che qualcosa di esteso, di flessibile, di mutevole. Ora, che cosa vuol dire: flessibile e mutevole? Non significa forse che io immagino che questa cera, essendo rotonda, è capace di divenir quadrata, e di passare dal quadrato in una figura triangolare? No di certo, non è questo, poiché io la concepisco capace di ricevere un’infinità di simili cangiamenti, e non saprei, tuttavia, percorrere quest’infinità con la mia immaginazione; e, per conseguenza, questo concetto che ho della cera non si ottiene per mezzo della facoltà d’immaginare. Ma che cos’è questa estensione? Non è, essa pure, sconosciuta, poiché nella cera che si fonde aumenta, e si trova ad essere ancora più grande quando è intieramente fusa, e molto più grande ancora, quando il calore aumenta di più? Né io concepirei chiaramente e secondo verità che cosa è la cera, se non pensassi ch’essa è capace di ricevere maggior numero di variazioni, secondo l’estensione, di quel che io non abbia mai immaginato. Bisogna, dunque, che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non v’è se non il mio intelletto che la concepisca: io dico questo pezzo di cera in particolare, poiché, per la cera in generale, la cosa è ancor più evidente. Ora, qual è questa cera, che non può essere concepita se non dall’intelletto o dallo spirito? Certo è la stessa che io vedo, tocco, immagino, e la stessa che conoscevo fin da principio. Ma, e questo è da notare, la percezione, o l’azione per mezzo della quale la si percepisce, non è una visione, né un contatto, né un’immaginazione, e non è mai

I TESTI

t8 >

211

UNITÀ 3 • CARtESIo E IL RAzIoNALISMo

38

I TESTI

40

212

stata tale, benché per lo innanzi così sembrasse, ma solamente una visione della mente [solius mentis inspectio], la quale può esser imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, com’è adesso, secondo che la mia attenzione si porti più o meno verso le cose che sono in (Meditazioni metafisiche, I, in Opere, cit., vol. 1, pp. 210-212) essa, e di cui essa è composta.

analisi del testo 1-11 Le varie qualità sensibili che si possono riscontrare in un pezzo di cera appena estratto dall’alveare sembrerebbero essere tutte proprietà oggettive della materia-cera. Ma queste qualità si dissolvono nel momento in cui avviciniamo la cera al fuoco, facendoci dubitare del fatto che si trattasse effettivamente di proprietà essenziali. 11-15 Anche quando siano svanite tutte le qualità sensibili del pezzo di cera iniziale, possiamo comunque affermare che la cera c’è ancora, ma ha assunto un’altra forma, un’altra consistenza, un altro odore ecc. Ma allora, si chiede Cartesio, poiché non coincidono con le qualità percepite dai sensi (che evidentemente sono mutevoli), in che cosa consisteranno le proprietà essenziali del mio oggetto di cera? 16-18 A ben guardare, ciò che possiamo affermare con certezza sia del pezzo di cera iniziale, sia della cera esposta al calore del fuoco, è che si tratta di un corpo, che prima presentava certe caratteristiche (forma, colore ecc.), mentre ora ne presenta altre. 18-21 Astraendo dalle caratteristiche specifiche del pezzo di cera dell’esempio, Cartesio cerca di individuare i tratti della corporeità in generale, riconoscendoli

nell’estensione, nella flessibilità e nella mutevolezza, ovvero nella capacità di assumere infinite forme (estensioni) diverse. In altre parole, la “sostanza” corporea, ovvero ciò che “sostiene” il mutare delle qualità sensibili dei corpi, è il loro essere qualcosa di esteso. Così come le idee sono “modificazioni” della «sostanza pensante» (res cogitans), analogamente i corpi (con le loro mutevoli qualità sensibili) sono “modificazioni” della «sostanza estesa» (res extensa). 21-34 Riflettendo sull’illimitata modificabilità dei corpi, Cartesio nota poi che la flessibilità, la mutevolezza e, soprattutto, l’estensione possono essere concepite dal pensiero, ma non raffigurate dall’immaginazione. 34-41 La cera concepita o intuita dall’intelletto è ovviamente la stessa cera dell’esempio, percepita dai sensi e raffigurata dall’immaginazione. tuttavia, in quanto solo concepibile, e non immaginabile, la nozione di “estensione” (che è per certi versi assimilabile all’idea dello spazio euclideo) è intuitiva e innata: una pura «visione della mente» che non è possibile ricavare per astrazione dalle qualità sensibili dei corpi (come, apparentemente, Cartesio ha fatto in questo brano mediante l’esempio del pezzo di cera).

CAPITOLO 2

Il razionalismo nel Seicento 1. La lotta per la ragione nella filosofia del Seicento Diffusasi prima in Olanda e poi negli altri paesi d’Europa, la filosofia di Cartesio suscitò una larga messe di reazioni, anche di segno opposto, che testimoniano di come essa fosse destinata a diventare un punto di riferimento imprescindibile per la cultura del tempo. Per comprendere meglio questo aspetto, occorre tenere presente che il cartesianesimo può essere considerato da due punti di vista diversi: ■■■ come tecnica razionale che procede in modo autonomo e geometricamente, cioè utilizzando soltanto le idee chiare e distinte in un ordine rigoroso. In questo senso, il cartesianesimo consiste, in primo luogo, nell’impegno a realizzare l’autonomia della ragione adoperandone spregiudicatamente la tecnica in tutti i campi nei quali la sua applicazione è possibile; e, in secondo luogo, nell’impegno a rispettare le esigenze interne di questa tecnica, respingendo ciò che non può essere ridotto a idee chiare e distinte e all’ordine di tali idee; ■■■ come insieme di dottrine metafisiche e fisiche che concernono principalmente la dualità delle sostanze (anima e corpo), le prove dell’esistenza di Dio, la spiritualità e la libertà dell’anima, la meccanicità della sostanza estesa e, quindi, del mondo vegetale e animale. Cartesio stesso parve tenere più al successo di questo secondo aspetto della sua filosofia, forse perché il successo del primo gli pareva scontato. Tuttavia fu proprio il primo aspetto ad assicurare l’efficacia storica della filosofia cartesiana e a farne la protagonista delle dispute filosofiche del XVII secolo. Per questo aspetto, infatti, il cartesianesimo appare come l’episodio maggiore di quella lotta per la ragione che si può definire come l’insegna della cultura filosofica del Seicento. Questa lotta tende a: a) far prevalere la ragione e la sua autonomia di giudizio nel dominio morale, politico e religioso, oltre che in quello scientifico; b) chiarire il concetto stesso della ragione. Per quel che riguarda il primo punto, la lotta per la ragione va molto al di là degli intenti di Cartesio, che si era rifiutato di estendere l’indagine razionale oltre i confini della scienza e aveva inteso la propria filosofia come una sostanziale conferma della metafisica, della morale e della religione tradizionali.

Il cartesianesimo come metodo e come sistema

La lotta per la ragione

213

UNITÀ 3 • Cartesio e il razionalismo

I due modi di concepire la ragione

Gli eredi del cartesianesimo

La reazione anticartesiana

Il razionalismo non cartesiano

Per quel che riguarda il secondo punto, il cartesianesimo costituisce soltanto una delle due alternative a cui la lotta per la ragione mette capo, e precisamente quella che vede nella ragione una forza unica, infallibile e onnipotente, che come tale non ha bisogno di nulla, al di fuori di sé, per organizzarsi ed esercitare il suo potere di guida. Di fronte a questa alternativa, a partire da Gassendi (v. p. 218) e da Hobbes (v. unità 5, capitolo 1) si delinea il punto di vista secondo il quale, invece, la ragione è una forza finita o condizionata, la cui sfera d’azione è circoscritta dai vari campi della sua attività e che in ciascuno di questi campi soggiace a limiti o a condizioni specifiche. Entrambe queste alternative condividono l’ideale geometrico della ragione, di cui vedono il maggior monumento antico negli Elementi di Euclide, e l’espressione più recente nella scienza galileiana. L’una e l’altra alternativa, inoltre, riconoscono nella ragione la sola guida autonoma dell’uomo e cercano perciò di farne valere gli insegnamenti nello stesso dominio della fede religiosa. Su molti punti, tuttavia, il loro contrasto è radicale. Al cartesianesimo si ispirano prevalentemente Spinoza e Leibniz (v. unità 4, rispettivamente cap. 2 e cap. 3) – il primo dei quali, tuttavia, risente fortemente dell’influsso di Hobbes nelle sue dottrine politiche –, ma anche numerosi pensatori e scienziati che polemizzano contro Cartesio riguardo ad alcune dottrine particolari, come la meccanicità dei corpi viventi, il rapporto tra anima e corpo, e il rapporto tra Dio e il mondo. Sebbene in alcuni casi questi pensatori e scienziati si proclamino “anticartesiani” (come anticartesiani sono da considerarsi, per molti aspetti, Spinoza e Leibniz), tuttavia essi non rinunciano all’eredità maggiore di Cartesio. Il cartesianesimo, inoltre, entra a costituire un altro fenomeno caratteristico di questo secolo, la scolastica occasionalistica (v. p. 215), e viene utilizzato dal giansenismo (v. p. 217 e 233) per una difesa della spiritualità religiosa, ancorché situata al di là della ragione cartesiana, in un dominio ad essa inaccessibile. La vera reazione anticartesiana è invece quella che vede nel cartesianesimo la punta avanzata di un razionalismo invadente, a cui viene contrapposta la scolastica tradizionale, che del resto rimarrà dominante ancora per molto tempo nelle università europee e nei collegi religiosi. Infatti, se si eccettuano gli atenei olandesi, nei quali Cartesio aveva frequentemente trovato espositori e seguaci1, le università europee avevano subìto poco o nulla l’influsso del cartesianesimo. Alla dottrina di Cartesio era rimasta chiusa la stessa Sorbona, perché nel 1625 il Parlamento di Parigi aveva proibito l’insegnamento di nuove dottrine. Talvolta il cartesianesimo riesce a penetrare nelle roccaforti della vecchia scolastica, se non altro come oggetto di confutazione; talvolta la confutazione si limita a una dottrina particolare, mentre altre vengono accolte. La minuta letteratura anticartesiana della seconda metà del XVII secolo è ricca di confutazioni, di critiche, di rettifiche e di accoglimenti parziali, che, nel loro insieme, dimostrano l’importanza via via crescente assunta dal cartesianesimo nella cultura del tempo. Sul fronte del razionalismo non cartesiano si sviluppa invece l’altro fenomeno caratteristico del secolo: il libertinismo erudito (v. p. 219), che utilizza, per la critica delle credenze reli-

1 Uno dei suoi primi scolari, Hendrik van Roy, o Regius (1598-1679), insegnò a Utrecht.

214

Capitolo 2 • Il razionalismo nel Seicento

giose tradizionali, motivi desunti dal Rinascimento italiano e che trova negli scritti di Gassendi la sua maggiore espressione filosofica. L’opera di Hobbes può essere considerata, nel suo insieme, come la prima formulazione rigorosa del concetto di “ragione finita”, concetto che, ripreso da Locke, costituirà il fondamento dell’empirismo e dell’Illuminismo settecentesco. Relativamente indipendente sia dal cartesianesimo, sia dal razionalismo non cartesiano (contro i quali tuttavia si trova occasionalmente a polemizzare) è il neoplatonismo inglese (v. p. 218), che nella lotta per la ragione interviene in difesa del razionalismo religioso, utilizzando gli strumenti desunti dal platonismo rinascimentale italiano.

Il neoplatonismo inglese

2. L’occasionalismo Come abbiamo accennato, una delle principali manifestazioni del cartesianesimo può essere individuata nell’occasionalismo, che è una specie di “scolastica cartesiana”, in quanto utilizza la filosofia e il linguaggio di Cartesio per la difesa della fede religiosa, così come la scolastica medievale aveva utilizzato, allo stesso scopo, la filosofia e il linguaggio dei neoplatonici o di Aristotele.

Geulincx L’opera di Arnold Geulincx (1624-1669), autore tra l’altro di una Metafisica vera, prende lo spunto dalla separazione stabilita da Cartesio tra l’anima come sostanza pensante e il corpo come sostanza estesa, e dalla loro dipendenza da Dio. Geulincx giunge a ritenere Dio come l’unica vera causa di tutto ciò che si verifica nell’una e nell’altra sostanza. La sostanza pensante, cioè l’anima, è certamente in rapporto con la sostanza estesa: difatti le modificazioni del corpo diventano idee (che noi chiamiamo “sensazioni”) e le modificazioni dell’anima, cioè le idee, producono, mediante la volontà, i movimenti del corpo. Cartesio attribuiva questa corrispondenza all’azione del corpo sull’anima o dell’anima sul corpo, ma non spiegava il modo in cui quest’azione potesse verificarsi. In realtà, secondo Geulincx, egli non poteva spiegarlo, dal momento che si tratta di un’azione reciproca inconcepibile. Due sostanze separate di natura diversa non possono agire l’una sull’altra. Non resta dunque che riconoscere che Dio stesso è la causa diretta e immediata delle modificazioni corrispondenti che si verificano nell’anima e nel corpo. In altri termini, né il corpo è causa delle sensazioni, né la volontà è causa dei movimenti corporei: è Dio che direttamente produce nell’anima la sensazione in occasione di una modificazione corporea o produce nel corpo il movimento in occasione di una volizione dell’anima. L’unica vera causa è Dio: ciò che accade nel corpo o nell’anima è soltanto un’occasione per l’intervento della causalità divina (donde il nome di “occasionalismo”). Da ciò deriva – dice Geulincx – che io non sono “attore”, ma “spettatore” del meccanismo della causalità divina che si svolge dentro di me; e perciò l’unico mio atteggiamento possibile è l’umiltà di fronte ai voleri divini.

L’incomunicabilità delle due sostanze

Dio come unica vera causa

215

UNITÀ 3 • Cartesio e il razionalismo

Malebranche Il punto di vista espresso da Geulincx subisce un ulteriore approfondimento grazie all’opera di Nicolas de Malebranche (1638-1715). Vita e opere

La ragione e i dogmi della religione

Dio come garante dell’esistenza dei corpi

La “visione in Dio” delle verità eterne

Il rifiuto del panteismo spinozistico

216

Nato a Parigi, Malebranche entra a far parte della congregazione dell’Oratorio e riceve l’ordinazione sacerdotale. Dopo una formazione improntata allo studio di Agostino, viene in contatto con il cartesianesimo, del quale diventa un seguace entusiasta. Tra il 1674 e il 1675 pubblica la sua opera fondamentale, Ricerca della verità, alla quale seguono altri scritti, tra cui il Trattato della natura e della grazia (1680), che segna l’inizio di una lunga polemica con il giansenista Arnauld (v. par. seg.) sul tema della grazia e della predestinazione, e i Dialoghi sulla metafisica e sulla religione (1688). La filosofia di Malebranche si presenta come una scolastica cartesiana, perché si propone di ricondurre alla ragione di Cartesio l’intero contenuto della fede. Pur affermando che l’evidenza razionale è preferibile alla fede (perché, mentre la fede passa, l’evidenza resta), Malebranche attribuisce tuttavia alla ragione un significato religioso che era estraneo a Cartesio: lo sforzo della ragione che ricerca, l’attenzione, è la “preghiera naturale” dell’uomo e il modo per mettersi in comunicazione con Dio. Ciò che Cartesio aveva compiuto nel dominio della fisica, Malebranche si propone di realizzarlo nel dominio della religione. I dogmi della religione sono per il filosofo ciò che le esperienze sono per il fisico: così come il fisico cerca di accordare la ragione con l’esperienza, allo stesso modo il filosofo deve accordare la ragione con i dogmi. Malebranche parte dalla tesi fondamentale di Cartesio secondo cui l’oggetto immediato della nostra conoscenza è costituito soltanto dalle idee, mentre l’accesso a una realtà diversa dall’idea (fuori del soggetto pensante e di Dio) è problematico. Ora, secondo Malebranche, soltanto Dio garantisce l’esistenza dei corpi. Le nostre idee corrispondono ai corpi non perché siano causate dai corpi, ma unicamente perché Dio le produce in noi in occasione della presenza dei corpi stessi. Soltanto Dio è la causa vera di tutto ciò che accade. L’azione del corpo sull’anima o dell’anima sul corpo non è possibile. Dio solo stabilisce il parallelismo tra le modificazioni del corpo e le sensazioni, tra le volizioni dell’anima e i movimenti corporei. Quanto ai principi generali della coscienza, o verità eterne, l’uomo li vede direttamente in Dio. Che 2 + 2 faccia 4 è una verità immutabile e necessaria, che sussiste in Dio e che Dio stesso svela agli uomini. Ma poiché Dio è la verità (secondo la tesi fondamentale di Agostino), l’uomo, vedendo in Dio le verità eterne, vede Dio stesso: perciò l’attività razionale è un atto di partecipazione alla vita divina. La ricerca della verità è dunque ricerca di Dio e amore di Dio. Per questo la speculazione razionale include per Malebranche l’aspetto propriamente religioso dell’amore ed è veramente preghiera, cioè elevazione dell’uomo, di tutto l’uomo, a Dio. Un contemporaneo di Malebranche, Dortous de Mairan (1678-1771), con il quale Malebranche intrattenne una corrispondenza filosofica, gli obiettò che la sua dottrina della “visione in Dio” conduceva alla conclusione di Spinoza secondo cui tutte le cose sono modi, cioè manifestazioni, della sostanza divina.

Capitolo 2 • Il razionalismo nel Seicento

Malebranche rispose che noi non vediamo in Dio le cose, ma le loro idee, cioè i loro archetipi o modelli; e in effetti egli tenne sempre ferma quella separazione totale tra le cose e la sostanza divina, e tra quest’ultima e l’uomo, che esclude il panteismo spinozistico, il quale vede in ogni realtà una manifestazione di Dio. La dottrina di Malebranche, in questo senso, si mantiene fedele alla trascendenza di Dio; e la cosiddetta “visione in Dio” non è che la tesi dell’agostinismo tradizionale, ripensata sul piano del razionalismo cartesiano.

3. Arnauld e la logica di Port-Royal La scolastica occasionalistica non fu la sola utilizzazione in chiave religiosa del cartesianesimo. Il pensiero di Cartesio trovò infatti un’applicazione analoga, ma più libera e più aderente ai propri principi, nell’ambito del giansenismo, a opera del maggiore rappresentante di esso, Antoine Arnauld (1612-1694), al quale lo stesso cartesianesimo deve quella forma istituzionale che invano il suo fondatore aveva cercato di dargli. I giansenisti, come vedremo parlando di Pascal (v. unità 4, p. 233), riconoscono nell’agostinismo la fonte della loro dottrina sulla grazia. Arnauld cerca di conciliare l’agostinismo con il cartesianesimo. Questa conciliazione, tuttavia, non assume per lui la forma che riceve nella dottrina di Malebranche, cioè quella di una scolastica nella quale il cartesianesimo, opportunamente modificato, viene utilizzato per la difesa delle verità religiose. Arnauld accetta tutte le tesi del cartesianesimo, preoccupandosi solo di far vedere la coincidenza del principio cartesiano del cogito con la posizione fondamentale di Agostino. Questa è infatti la sostanza delle Quarte obiezioni (1640) alle Meditazioni metafisiche di Cartesio. Il cartesianesimo, secondo Arnauld, copre l’intero dominio della conoscenza che l’uomo può conseguire con i suoi mezzi naturali: al di là di questo dominio, la fede, come Cartesio stesso aveva detto, può avere libero corso. Contrario all’idea di far intervenire Dio a ogni passo nel corso delle operazioni conoscitive dell’uomo, Arnauld formula la sua teoria della conoscenza in netta antitesi rispetto a quella di Malebranche, contro il quale è rivolto polemicamente lo scritto in cui tale teoria è esposta, Trattato delle idee vere e false (1683). Se la conoscenza è per Malebranche una visione in Dio, per Arnauld è la percezione immediata di un oggetto. L’idea è, secondo Arnauld, proprio questa percezione. Essa non è un’immagine nel senso in cui un quadro rappresenta l’originale o una parola parlata o scritta rappresenta un pensiero, ma è un’immagine nel senso che è la cosa stessa rappresentativamente o oggettivamente presente nello spirito. A sua volta lo spirito, nel percepire l’oggetto, percepisce anche se stesso: è cioè “coscienza”. Questo punto di vista, che sarà felicemente ripreso da Locke, è il fondamento della Logica, o arte del pensare (comunemente detta “logica di Port-Royal”), che Arnauld scrive in collaborazione con un altro teologo giansenista, Pierre Nicole (1625-1695), e che viene pubblicata nel 1662. La logica tradizionale aveva per oggetto i termini o i segni, cioè le parole con i loro significati e i rapporti tra questi significati. La logica di Port-Royal ha invece per oggetto le operazioni dello spirito: più precisamente, dello spirito in quanto pensiero, cioè attività conoscitiva o teoretica. Queste operazioni sono quattro:

La conciliazione tra cartesianesimo e agostinismo

La teoria della conoscenza, contro l’occasionalismo

La logica di Port-Royal

217

UNITÀ 3 • Cartesio e il razionalismo

1) il concepire, che è l’intuizione delle cose che si presentano allo spirito e che dà luogo all’idea; 2) il giudicare, che consiste nell’unire o disunire le idee a seconda che convengano o meno tra loro (l’unione costituisce la proposizione affermativa, la disunione la proposizione negativa); 3) il ragionare, che consiste nel formare un giudizio a partire da altri giudizi; 4) l’ordinare, che consiste nel disporre diversi giudizi e ragionamenti secondo un metodo. Il mentalismo

In tal modo la logica viene ad assumere quel carattere mentalistico (come oggi si dice) per il quale le operazioni da essa considerate sono atti o attività dello spirito pensante: un tratto che essa ha conservato per molto tempo, fino al sorgere, verso la metà dell’Ottocento, della nuova logica matematica. In questa prospettiva lo spirito viene dunque concepito come attività che divide, ma soprattutto unisce, un certo materiale ordinandolo secondo certi propositi.

4. Il platonismo inglese Buona parte della filosofia inglese, fino alla comparsa dell’opera di Locke, rimane estranea all’influenza del cartesianesimo. Tuttavia, come abbiamo anticipato in apertura di capitolo, non rimane estranea alla lotta per la ragione, che essa conduce soprattutto sul piano della religione, utilizzando molte idee dei filosofi italiani del Rinascimento, e soprattutto di Ficino. La ricerca del nucleo razionale comune a tutte le religioni

Herbert di Cherbury, Cudworth e More

L’obiettivo è quello di liberare la religione dalle superstizioni, dalle credenze irrazionali, e di ridurla al suo nucleo razionale essenziale: nucleo che è identico in tutte le religioni, perché a esso l’uomo può pervenire con le sole forze della ragione, indipendentemente da ogni rivelazione. Si tratta dunque di trovare le credenze fondamentali di una religione “razionale o naturale” che elimini l’antagonismo delle diverse confessioni religiose e renda perciò impossibile l’intolleranza teologica, conducendo alla pace religiosa del genere umano. Questa religione naturale o razionale fu in seguito detta “deismo”. Come fondatore del deismo inglese (che però ha un precedente importante nell’utopia di Tommaso Moro) si è soliti considerare Edward Herbert di Cherbury (1583-1648). I filosofi più significativi tra i platonici di Cambridge furono Ralph Cudworth (1617-1688) e Henry More (1614-1687).

5. Gassendi Una difesa della religione nel senso di un expedit credere (cioè “è saggio credere”), e non nel senso di una scolastica, si può ritenere lo scopo principale dell’attività filosofica di Pierre Gassendi (1592-1655). Egli ritiene che per questa difesa non siano adatti né l’aristotelismo (all’epoca ancora utilizzato dalla filosofia accademica), né il cartesianesimo (che sarebbe stato utilizzato da Malebranche e da Arnauld), poiché, contro entrambe queste dottrine, giudica prevalenti le istanze scettiche che ne minano i capisaldi.

218

Capitolo 2 • Il razionalismo nel Seicento

Allo scetticismo resiste invece, secondo Gassendi, l’alternativa materialistica; a questa dunque bisogna ancorare la possibilità della fede religiosa. Di conseguenza, Gassendi si rivolge alla filosofia di Epicuro, assumendosi il compito di liberarla da tutto ciò che contrasta con la fede cristiana. A questo scopo egli apporta una serie di correzioni ai capisaldi della filosofia epicurea: a) Epicuro considerava gli atomi ingenerabili e incorruttibili; Gassendi li ritiene tali solo rispetto alle forze naturali, ma sostiene che sono stati creati da Dio e che possono essere da lui annientati; b) Epicuro sosteneva che il movimento è inerente agli atomi, quindi eterno; Gassendi afferma che il movimento e la forza, che ne è la causa, derivano da Dio; c) Epicuro asseriva che l’ordine del mondo è un ordine meccanico, dovuto al movimento degli atomi e alle loro azioni casuali; Gassendi lo concepisce invece come un ordine finalistico, voluto da Dio e governato dalla sua provvidenza; d) Epicuro affermava che l’anima è composta di atomi, quindi corporea e mortale; Gassendi ammette, oltre all’anima vegetativa e sensibile, che è corporea, un’anima intellettiva, che è una sostanza immortale e incorporea e per la quale le immagini sensibili sono soltanto “occasioni” per elevarsi a intendere cose che non hanno niente a che fare con il mondo sensibile.

La conciliazione tra epicureismo e fede cristiana

Esercizi interattivi Il razionalismo nel Seicento

6. Il libertinismo La parola “libertino” è rimasta nell’uso corrente soltanto a significare “dissoluto” o “vizioso”: una connotazione che le deriva dagli oppositori polemici del libertinismo, i quali (non sempre in buona fede e sulla scia degli scrittori medievali) ritennero indissolubili lo scetticismo religioso e l’immoralità, interpretando la tesi secondo cui il piacere è l’unico bene come un’indicazione della riprovevole condotta morale dei suoi sostenitori. In realtà “libertino” significò nel XVII secolo “libero pensatore” e per “libertinismo” in questo secolo bisogna intendere l’insieme delle dottrine o degli atteggiamenti che furono propri, specialmente in Francia, di letterati, magistrati, politici, filosofi e moralisti ai quali si deve la critica delle credenze tradizionali e, perciò, la preparazione o l’avvio dell’esplosione illuministica. Questa critica fu in buona parte sotterranea, cioè rimase affidata, oltre che a una serie di scritti, a conversazioni e discussioni private, delle quali tuttavia si conserva traccia nella ricca letteratura anonima o clandestina del tempo. E fu inoltre sempre esercitata sul presupposto che dovesse restare appannaggio di pochi, cioè di un’aristocrazia di dotti, per non mettere in pericolo, con la sua diffusione, istituzioni o costumi ritenuti indispensabili per l’ordine sociale e per il governo politico. Su questo punto il libertinismo, mentre si lega alla cultura del Rinascimento, è in antitesi con l’Illuminismo, che ha come programma la diffusione della verità tra tutti gli uomini. Il libertinismo è un movimento culturale composito, che utilizza e fa proprie, quali strumenti di critica o di liberazione, dottrine appartenenti a ceppi diversi. Filosoficamente, esso è importante come episodio di quella lotta per la ragione che domina la filosofia del XVII secolo e del secolo successivo: un episodio che trova la condizione principale del proprio sorgere nella prevalenza politica che il cattolicesimo aveva acquistato nei paesi latini, con il suo seguito di intolleranza e di condanne.

Il libertinismo del XVII secolo

Il libertinismo come episodio della lotta per la ragione

219

UNITÀ 3 • Cartesio e il razionalismo

Le principali figure del libertinismo

Libertinismo e Illuminismo

Sintesi audio Il razionalismo nel Seicento

Si è già detto che Gassendi appartenne ai circoli libertini di Parigi; anzi, insieme con François de la Mothe le Vayer (1588-1672), Gabriel Naudé (1600-1653) ed élie Diodati (1576-1661), egli fu uno dei grandi eruditi che costituirono il centro d’attrazione del libertinismo francese. Questi amici di Gassendi furono letterati, più che filosofi: non condivisero l’interesse religioso dello stesso Gassendi, di cui accentuarono l’atteggiamento scetticheggiante. Una figura caratteristica del libertinismo fu quella di Hector-Savinien de Cyrano, conosciuto come Cyrano de Bergerac (1619-1655), autore di una commedia intitolata Le pédant houé, rappresentata nel 1645, di una tragedia, La mort d’Agrippine, rappresentata nel 1654, e di due romanzi filosofici (i primi del genere) intitolati Gli stati e gli imperi della luna (1657) e Gli stati e gli imperi del sole (1662). Cyrano si ispira a Campanella, che aveva conosciuto e frequentato a Parigi, e da lui trae il principio dell’universale animazione delle cose. Attraverso l’opera di Fontenelle e di Bayle, il libertinismo trovò continuazione nell’Illuminismo, purificandosi degli elementi più grossolani o fantastici e rinnegando il suo carattere di setta o di contro-religione sotterranea. Ma per raggiungere, con la maturità, il possesso di mezzi concettuali adeguati, l’Illuminismo doveva da un lato far sua l’opera di Locke, nella quale molti temi rinascimentali e libertini trovarono la loro chiarezza razionale; e dall’altro desumere da Newton una concezione della natura che lasciasse definitivamente da parte le vecchie speculazioni dell’animismo e della magia.

MAPPA Il razionalismo nel Seicento Mappa interattiva

L’OCCASIONALISMO Geulincx

due sostanze di natura diversa non possono agire l’una sull’altra

Malebranche le idee corrispondono ai corpi perché Dio le produce in noi in “occasione” della presenza dei corpi

ciò che accade nel corpo o nell’anima è “occasione” per l’intervento della causalità divina

l’attività razionale è visione delle “verità eterne” direttamente in Dio

ARNAULD e i logici di PORT-ROYAL la conoscenza è percezione immediata di un oggetto e autocoscienza

la logica studia le operazioni dello spirito GASSENDI

conciliazione tra epicureismo e fede cristiana

220

critica, insieme con i libertini, delle credenze tradizionali e lotta per la ragione

verifica verifica

UNITÀ 3 Cartesio e il razionalismo 1. Cartesio

Esercizi attivi

1 Il metodo sviluppato da Cartesio:

4 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla prima prova dell’esistenza di Dio.

a non ha bisogno di una “fondazione” filosofica b deve essere filosoficamente legittimato

esistente - io stesso - creatrice - idea di Dio - sostanza infinita - perfezioni - causa - sostanza finita - sostanza

c ha in se stesso la propria giustificazione d vale soltanto nell’ambito della matematica

Per quel che riguarda l’........................................................, cioè di una ............................................... infinita,

2 Il dubbio iperbolico:

tente e

a riguarda soltanto la conoscenza sensibile

...................................,

eterna, onnisciente, onnipo-

è difficile supporre che possa

averla creata ............................................. Difatti io sono privo del-

b si estende a tutte le conoscenze, diventando uni-

versale

le ............................................ che quell’idea rappresenta; e la causa di un’idea deve sempre avere almeno tanta perfe-

c viene sconfitto ricorrendo all’ipotesi del genio ma-

ligno

zione quanta è quella che l’idea stessa rappresenta. La

d finisce per investire anche il cogito

............................................

dell’idea di una sostanza infinita

non posso essere io che sono una .......................................................;

3 In riferimento alla dottrina gnoseologica di Cartesio, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false. a. La conoscenza sensibile è sempre ingannevole V

F

b. L’affermazione “cogito ergo sum” indica in modo evidente che io esisto come soggetto pensante V

F

c. Il cogito è la garanzia di ogni altra certezza V

F

d. Il cogito è un’intuizione

V

F

e. Dio è garanzia della validità del metodo

V

F

f. La veridicità divina fa sì che la conoscenza umana sia esente da errore V F

questa causa dev’essere una ........................................................................, la quale, pertanto, deve essere ammessa come ............... ..................................................

5 Collega i tipi di idee elencati di seguito (colonna di sinistra) con le descrizioni corrispondenti (colonna di destra). a. innate

b. avventizie

c. fattizie

1. formate o trovate da me stesso 2. estranee a me, derivatemi dal di fuori 3. presenti in me da sempre

221

UNITÀ 3 • CarTesIo e IL razIoNaLIsmo

6 Quali sono le quattro regole del metodo cartesiano? (max 6 righe)

8 Il cogito cartesiano sollevò ampie discussioni. esponi brevemente le critiche principali che a esso vennero rivolte e le rispettive risposte di Cartesio. (max 15 righe)

7 Quale problema viene lasciato aperto dal cogito?

VERIFICA

(max 6 righe)

9 esponi in sintesi le prove cartesiane dell’esistenza di Dio.

2. Il razionalismo nel Seicento 10 Nel XVII secolo, la principale reazione anti-cartesiana è rappresentata: a dalla scolastica occasionalistica

(max 15 righe)

Esercizi attivi

epicurea - creati - incorporea - Dio - ingenerabili e incorruttibili - finalistico - movimento - ordine meccanico - mortale

b dalla scolastica tradizionale

Gassendi modifica i capisaldi della filosofia ............................

c dal libertinismo

.................................................:

1. mentre epicuro considerava gli atomi come ..................

d dal platonismo inglese

................................................................................,

11 secondo malebranche le nostre idee corrispondono ai corpi che rappresentano perché:

............................................

da Dio;

2. mentre epicuro considerava il ...........................................................

a ne sono la causa

inerente agli atomi, egli ritiene che derivi da .......................;

b sono causate da tali corpi

3. mentre epicuro considerava l’ordine del mondo

c Dio le produce in noi in occasione della presenza

come un

di tali corpi

e ai principi della “Logica di Port-royal” indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false. V

F

b. La conoscenza è la percezione immediata di un oggetto V F c. L’idea è l’immagine di un oggetto

egli ritiene

4. mentre epicuro considerava l’anima corporea e

12 In riferimento alla teoria della conoscenza di arnauld

a. La conoscenza è una “visione in Dio”

........................................................................................,

che sia un ordine ............................................;

d Dio le produce quando crea i corpi

V

............................................,

egli ritiene che nell’uomo, oltre all’a-

nima vegetativa e sensibile, vi sia anche un’anima immortale e .............................................

14 Collega ciascuna delle correnti elencate di seguito con la rispettiva istanza filosofica (colonna di destra). a. giansenismo

1. critica delle credenze religiose tradizionali sulla base della ragione

b. libertinismo

2. difesa del razionalismo religioso

F

d. La logica ha per oggetto le operazioni dello spirito V

F

e. Il giudicare consiste nell’unire o nel disunire le idee V

F

f. Il ragionare consiste nel disporre diversi giudizi secondo un metodo V F

c. neoplatonismo inglese

3. difesa della spiritualità religiosa, al di là della ragione

d. occasionalismo

4. uso della filosofia cartesiana per la difesa della fede

13 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il testo riportato nella colonna a fianco, relativo alla dottrina di Gassendi.

222

egli ritiene che siano stati

Verifica

15 In che senso Geulincx riconosce in Dio l’unico possibile collegamento tra l’anima e il corpo?

(max 6 righe)

17 Illustra quali sono le due visioni alternative della ragione che si confrontano nel dibattito filosofico del sei(max 15 righe) cento.

16 In che cosa consiste, secondo malebranche, la ricerca (max 6 righe)

18 esponi i principali caratteri del libertinismo erudito del XVII secolo, chiarendo in che senso esso costituisca un episodio specifico della “lotta per la ragione”. (max 15 righe)

VERIFICA

della verità?

VERSO LE COMPETENZE w Leggere, comprendere L’errore di Cartesio e interpretare un testo ll Novecento, se da una parte ha celebrato Cartesio come l’iniziatore della modernità, dall’altra lo ha w Riflettere e argomentare, aspramente criticato. L’errore più grave che gli è stato imputato è certamente il dualismo, che, oppo- individuando collegamenti nendo il corpo (sottoposto alle leggi fisiche e oscura fonte delle passioni) all’anima (indipendente dal e relazioni meccanicismo fisico e fonte di una causalità libera) si sarebbe rivelato una sorta di postulato metafisico e antropologico che ancora oggi condiziona negativamente la scienza, la pratica medica e la stessa rappresentazione che l’uomo ha di se stesso. Con un’espressione divenuta famosa, già il filosofo inglese Gilbert Ryle (1900-1976) aveva parlato del «fantasma nella macchina» (the ghost in the machine), alludendo al “dogma” cartesiano secondo cui nell’involucro meccanico del corpo esisterebbe una sorta di invisibile “spettro” (l’anima o lo spirito). A sua volta, il medico portoghese Antonio Damasio (n. 1944), studioso di neuroscienze e autore tra l’altro di un celebre saggio significativamente intitolato L’errore di Cartesio, osserva come il filosofo francese non abbia compreso che l’individuo è una complessa unità psico-fisica, in cui i processi dell’apparato mentale sono strettamente legati ai meccanismi della «regolazione biologica».

LABORATORIO DELLE IDEE

[Bisogna osservare che] la mente emerge da (o all’interno di) un cervello situato in un corpo, con il quale interagisce; che grazie alla mediazione del cervello la mente è radicata nel corpo vero e proprio; che essa è conservata nell’evoluzione perché contribuisce al mantenimento di quel corpo; e, infine, che la mente emerge da (o all’interno di) un tessuto biologico – le cellule nervose – che condivide le stesse caratteristiche valide per definire gli altri tessuti del corpo. (A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza1, trad. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2003, pp. 228-229)

In particolare, Cartesio riconduceva le emozioni a una sorta di intrusione o intralcio del corpo nella vita “pura” della mente. Anche per Damasio esse hanno una connotazione fisica (nel senso che consistono in una serie di cambiamenti a livello chimico e neurale) ma, anziché essere elementi estranei o di disturbo rispetto ai processi cognitivi, ne costituiscono un aspetto imprescindibile, perché è proprio grazie alle emozioni che l’individuo può selezionare le opzioni che gli sono più vantaggiose dal punto di vista biologico, per applicarle nella vita futura.

1 L’errore di Cartesio è il titolo del primo volume di una trilogia completata da Emozione e coscienza e Alla ricerca di Spinoza. In quest’ultimo libro Damasio indica nel pensatore olandese il primo filosofo che avrebbe superato l’«errore di Cartesio» e anticipato la moderna psicosomatica, intuendo lo stretto legame esistente tra la mente e il corpo quali componenti inseparabili dell’individuo.

223

UNITÀ 3 • CarTesIo e IL razIoNaLIsmo

VERIFICA

Per tutte queste ragioni, secondo Damasio, il paradigma dualistico cartesiano va capovolto e il motto di una nuova prospettiva postcartesiana dev’essere: «Sento, dunque sono», secondo una nuova concezione della coscienza come strumento “ausiliario” di quella «dotazione biologica» mediante la quale ci adattiamo all’ambiente:

L’enunciato [«penso, dunque sono»], il più famoso di tutta la storia della filosofia, esprime esattamente il contrario di ciò che io credo vero riguardo alle origini della mente e riguardo alla relazione tra mente e corpo; esso suggerisce che il pensare, e la consapevolezza di pensare, siano i veri substrati dell’essere. [...] Per noi [invece] all’inizio vi fu l’essere e solo in seguito vi fu il pensiero; e noi adesso, quando veniamo al mondo e ci sviluppiamo, ancora cominciamo con l’essere e solo in seguito pensiamo. Noi siamo, e quindi pensiamo; e pensiamo solo nella misura in cui siamo, dal momento che il pensare è causato dalle strutture e dalle attività dell’essere. (A. Damasio, L’errore di Cartesio, trad. it. di A. Mancuso, Adelphi, Milano 1995, pp. 336-337 e 341)

Comprensione del testo 1. Nel primo dei due passi riportati compaiono tre termini chiave: «mente», «cervello» e «corpo»: quali sono i rapporti fra queste tre “entità” messi in luce dall’autore? 2. Qual è la relazione tra essere e pensiero evidenziata da Cartesio e ricordata nel secondo dei passi riportati, e quale invece quella che Damasio ritiene essere “vera”?

Riflessione 3. Dalla lettura del primo passo sembra affiorare la convinzione che la mente sia qualcosa di “separato” – o comunque “distinto” – dal cervello, dal quale «emerge»: ti sei mai interrogato sulla natura della mente? e quale pensi che sia il suo rapporto con il sistema nervoso? 4. Considera la concezione delle emozioni sottesa alle affermazioni di Damasio che hai letto nei due passi e confrontala con quella di Cartesio: qual è la tua opinione in proposito? anche per te le emozioni sono qualcosa di “vitale” (come per Damasio) oppure sono elementi di disturbo al pensiero, che occorre tenere sotto controllo? 5. Qual è la tua personale opinione riguardo all’«errore» imputato a Cartesio? ritieni che davvero il suo paradigma dualistico abbia improntato negativamente la riflessione occidentale successiva? scegli se prendere le difese del pensatore francese o se “accusarlo” a tua volta, ed esponi le ragioni della tua scelta.

224

Gnoseologia

TAVOLA ROTONDA La “conquista” dell’infinito Partecipanti: Cusano, Bruno, Cartesio Moderatore Nella filosofia greca il termine “infinito” (in greco ápeiron, composto dal prefisso privativo a- e dalla radice di péras, “limite”) presenta una connotazione negativa, in quanto indica ciò che, “mancando” di un confine fisico-spaziale o di una forma concettuale, risulta in-definito o in-determinato. Per Platone e aristotele è la materia ad essere “infinita”, cioè “amorfa” o “informe”, e di conseguenza inconoscibile, perché non può cadere sotto lo “sguardo” del pensiero, che de-finisce le cose de-terminandone la natura. L’immagine aristotelico-tolemaica dell’universo risente di questa impostazione: in quanto “cosmo”, cioè totalità ordinata e opposta al “caos” della mate-

ria informe, l’universo deve essere delimitato. racchiuso dal cielo delle stelle fisse, è una sorta di rassicurante e ben fortificata “cittadella”, al centro della quale si trova l’uomo. ecco perché la demolizione delle “mura esterne” dell’universo – che lo storico della scienza alexandre Koyré ha chiamato «distruzione del cosmo come un tutto finito, chiuso e gerarchicamente ordinato» – è una delle imprese più coraggiose e difficili della modernità. La lenta dissoluzione della cosmologia degli antichi e la rivoluzionaria e moderna “conquista” dell’infinito hanno inizio al tramonto del medioevo, con l’opera di Niccolò Cusano.

Cusano In realtà, nella mia riflessione sull’infinito non ho fatto che sviluppare le intuizioni di alcuni miei predecessori. L’avversione tipicamente greca per l’infinito, infatti, era già entrata in crisi con Plotino, che aveva distinto l’infinità potenziale, relativa alla serie infinita (o, meglio, indefinita) dei numeri, dall’infinità attuale dell’Uno, concepito come dotato di una potenza «illimitata». Questa accezione positiva del termine “infinito” è stata accolta, in seguito, dal pensiero cristiano, per il quale Dio – infinitamente buono, infinitamente potente ecc. – è «ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore», secondo la definizione di Anselmo d’Aosta. Su questa scia, Tommaso d’Aquino ha distinto l’infinità nega-

tiva della materia, cioè la sua mancanza di forma, dall’infinità positiva di Dio, ens perfectissimum che possiede al massimo grado tutte le qualità positive delle cose create. Il Dio cristiano è dunque il «massimo assoluto». E, in quanto tale, è un Deus absconditus, qualcosa di ineffabile, che la nostra mente non può de-finire, né de-terminare. Per progredire nella conoscenza, infatti, essa non ha altra via che istituire analogie o «proporzioni» tra quanto già conosce e ciò che ancora le è ignoto, e tale operazione non è possibile nel caso dell’infinito: Poiché è immediatamente evidente che non c’è proporzione dell’infinito col finito – donde è chiaro che, dove è dato trovare un più e un

225

TAVOLA ROTONDA

TAVOLA ROTONDA

meno, non si giunge al massimo semplice –, il massimo come tale deve essere infinito, perché sono finite sia le cose che ammettono un più, sia quelle che ammettono un meno.

226

(La dotta ignoranza, I, 1, in Opere filosofiche, p. 58)

Cusano Se Dio è coincidentia oppositorum, è anche unità e conciliazione tra l’essere creatore e l’essere creato, tra l’eternità e il tempo, tra la divinità e il mondo. E se, come abbiamo detto, a proposito di Dio non ha senso parlare di centro e di circonferenza (così come di qualunque altra determinazione spaziale, che nell’assolutezza divina perde significato), allo stesso modo, a proposito del mondo, non può avere senso parlare di un centro “assoluto”, né di una circonferenza come confine “ultimo”. Del resto il mondo non può essere racchiuso in una circonferenza, perché, se così fosse, al di là di questa, «al di fuori del mondo, vi sarebbe dell’altro e vi sarebbero altri luoghi ancora», mentre il mondo, coincidendo con Dio, deve comprendere tutta la realtà.

La ragione umana procede dunque comparando tra loro le cose finite, e lo fa sulla base del principio di non-contraddizione, cioè definendo una cosa mediante l’esclusione del suo opposto. Ma Dio, in quanto infinito e assoluto (non relativo), si colloca al di là dello stesso principio di non-contraddizione, poiché accoglie in sé ogni determinazione e opposizione. Per questo l’ho definito coincidentia oppositorum e ho chiarito che l’uomo non può averne una conoscenza “discorsiva”, ma solo una sorta di “visione” o “intuizione”: lo «intuiamo in modo incomprensibile», nel senso che lo cogliamo sapendo di non poterlo afferrare con- Moderatore ma se tra Dio e il mondo non c’è diffecettualmente, con quella particolare modalità renza, l’esito inevitabile è il panteismo... conoscitiva che ho definito «dotta ignoranza». Per esprimere il concetto della coincidentia oppositorum, ho fatto uso di alcune immagini geo- Cusano metriche. Una retta e una curva, ad esempio, In realtà io non ho “negato”, ma “ripensato” la sono tra loro opposte nell’ambito delle grandistinzione tra Dio e il mondo, concependola dezze finite, ma risultano identiche se le loro come differenza non tra due enti di natura dicaratteristiche vengono “infinitizzate”: la linea versa e opposta (secondo quanto affermato dalcurva di una circonferenza infinitamente granla tradizione teologica), ma tra un essere “pieno” de (cioè di diametro infinito) coincide infatti e lo stesso essere che, in un certo senso, si francon una retta, ovvero con una linea in cui la tuma in molteplici forme. Cercherò di chiarire curvatura sia infinitamente piccola. Analogaquesto punto decisivo. mente, in una circonferenza infinita il centro L’universo è l’espressione (explicatio) inadeperde la sua posizione determinata e coincide guata e imperfetta, nel dominio della materia e con la circonferenza: è dovunque e in nessun del tempo, dell’infinità di Dio. Esso «dispiega», luogo. L’opposizione tra curva e retta, tra cennell’ambito della molteplicità e della separaziotro e circonferenza, è quindi simile a quella tra ne, le infinite determinazioni dell’essere (anche grande e piccolo: è valida soltanto nell’ambito quelle opposte), che invece Dio mantiene nella delle quantità finite, dove non possono esserci propria indissolubile, infinita unità (complicaoggetti grandi o piccoli in modo assoluto, ma tio). La differenza tra l’infinità di Dio e l’infinità solo più grandi o più piccoli l’uno dell’altro dell’universo deriva pertanto dal fatto che (grandi o piccoli in modo relativo). quest’ultimo è per sua natura costituito di materia, la quale determina una «contrazione» di Moderatore Questa, però, è più che altro una riDio («forma unica e infinita») nelle forme molflessione sulla natura di Dio: come si passa da una tale analisi a una nuova immagine dell’universo? teplici e finite delle cose.

La forma infinita è ricevuta solo in modo finito, sicché ogni creatura è, per così dire, una infinità finita o un Dio creato […]. (La dotta ignoranza, II, 2, in Opere filosofiche, p. 114)

Una precisazione è però importante: l’infinito materiale, ovvero quello che caratterizza il mondo, ha il “difetto” di essere «infinito in potenza», nel senso che “tende” al «più» o al «meno» infiniti, cioè è suscettibile di un aumento o di una diminuzione “senza limiti”. Per questo, pur negando che il mondo possa essere circoscritto dalle “mura” delle stelle fisse, non ho affermato che esso è “infinito” e ho prudentemente riservato questo attributo solo a Dio, a proposito del quale ho parlato di «infinità negativa», nel senso di assenza (o negazione) di ogni limite alla sua perfezione. L’universo, invece, mi è parso non tanto «infinito» (infinitum), quanto «interminato» (interminatum), cioè non solo non delimitato da un confine estremo, ma anche conoscitivamente indefinito, oggetto di una conoscenza incompleta, imprecisa e congetturale. Ho parlato in questo senso di «infinità privativa», nel senso che esso risulta privo di una precisa determinazione: Siccome è impossibile che il mondo si racchiuda fra un centro corporeo e una circonferenza, esso rimane incomprensibile in quanto il suo centro e la sua circonferenza sono Dio. E sebbene il mondo non sia infinito, non può tuttavia esser concepito come finito, perché è privo di termini entro i quali potrebbe essere racchiuso. (La dotta ignoranza, II, 11, in Opere filosofiche, p. 144)

In tal modo ho applicato il principio della docta ignorantia anche al mondo, oltre che a Dio. Con la sola differenza che Dio è inconoscibile perché è “oltre” il più e il meno (oltre il relativo), mentre l’universo è inconoscibile perché è il dominio del più e del meno, cioè dell’imprecisione. Moderatore Il mondo di Cusano, dunque, «non è più il cosmo medioevale, ma non è ancora l’universo infinito dei moderni» (Koyré). Nonostante la novità dell’eliocentrismo, anche Copernico rimane convinto che l’universo, per quanto «non misurabile»

(immensum), sia delimitato da un’estrema «sphera mundi», con il centro occupato dal sole e «contenente se stessa e tutte le cose» (se ipsam et omnia continens). Nella disputa tra i difensori del finito e i sostenitori dell’infinito, Galileo non prende posizione, ritenendo la questione scientificamente insolubile. Il primo ad affermare con perentoria chiarezza che l’universo è infinito, senza centro e popolato da infiniti mondi è Giordano Bruno.

Bruno

TAVOLA ROTONDA

La “conquista” dell’infinito

È vero, ispirandomi al «divino Cusano», ho affermato il carattere infinito dell’universo con convinzione e, direi, esaltazione: Uno è il loco generale, uno il spacio immenso che chiamar possiamo liberamente vacuo: in cui sono innumerevoli e infiniti globi, come vi è questo in cui vivemo e vegetemo noi. Cotal spacio lo diciamo infinito, perché non è raggione, convenienza, possibilità, senso o natura che debba finirlo. (De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, vol. I, p. 518)

Nel fare questa affermazione mi sono appellato a una sorta di “principio di pienezza”, in virtù del quale l’essere è «totalmente ripieno di se stesso» e non può essere delimitato da nulla. Per questo ho preso posizione contro Aristotele, il quale, negando l’esistenza non soltanto del nulla (eleaticamente impensabile), ma anche del vuoto, a mio avviso si trovava in difficoltà nel chiarire che cosa ci fosse “oltre” i confini del suo cosmo finito: Se il mondo è finito ed estra [fuori] il mondo è nulla, vi dimando: ove è il mondo? Ove è l’universo? Risponde Aristotele: è in se stesso. […] Or che vuoi dire tu, Aristotele, per questo, che «il luogo è in se stesso»?, che mi conchiuderai per «cosa estra il mondo»? […] Se dici (come certo mi par che vogli dir qualche cosa, per fuggir il vacuo e il niente) che estra il mondo è uno ente intellettuale e divino, di sorte che Dio venga ad essere luogo di tutte le cose, tu medesimo sarai molto impacciato per far intendere come

227

TAVOLA ROTONDA

TAVOLA ROTONDA

cosa incorporea, intellegibile, senza dimensione possa esser luogo di cosa dimensionata. In somma […] mi par cosa ridicola il dire che estra il cielo sia nulla, e che il cielo sia in se stesso. […] Perché non possiamo fuggire il vacuo, se vogliamo ponere l’universo finito. […] Dunque è bene che questo spacio, che è equale alla dimensione del mondo […] sia totalmente ripieno. (De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, vol. I, pp. 370-375)

Moderatore La “scoperta” dell’infinito è quindi un’impresa della ragione, che ha fatto valere i suoi principi contro l’autorità di aristotele, della Chiesa e degli stessi sensi?

Bruno Uno dei limiti degli aristotelici consisteva proprio nel loro ingenuo empirismo. All’inizio del dialogo De l’infinito universo e mondi, Filoteo, che il è mio alter ego, afferma che l’infinito è un puro concetto della mente: un concetto inaccessibile ai sensi, che, del resto, ci hanno a lungo ingannato sul moto e sulla posizione della Terra: Non è senso che vegga l’infinito, non è senso da cui si richieda questa conchiusione: per che l’infinito non può essere oggetto del senso; e però [= perciò] chi dimanda di conoscere questo per via di senso, è simile a colui che volesse veder con gli occhi la sustanza e l’essenza.

(De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, vol. I, pp. 380-381)

Moderatore eppure l’idea di un mondo infinito, “gettando” l’uomo nella vertigine di uno spazio privo di punti di riferimento, può determinare un senso di smarrimento e di angosciosa solitudine. Lo stesso Keplero dice di provare “orrore” per l’immagine di un cosmo che, non avendo più un centro dove collocare l’uomo, ne mortifica e deprime la dignità…

Bruno

Del resto la verità in generale si trova soltanto «nella mente in propria e viva forma», mentre gli oggetti sensibili ce la restituiscono riflessa «come in uno specchio». Per questo ho elaborato una “prova” di carattere logico-teologico che, sulla base del principio (evidente alla ragione) che tra causa ed effetto deve sussistere una proporzione, ricava l’infinità dell’universo dall’infinità della sua causa, Dio:

Non credo affatto che l’idea di un universo senza confini rappresenti un’umiliazione per l’uomo. Al contrario, per me la “conquista” dell’infinito è stata esaltante e rigenerante: «con l’entusiasmo del prigioniero che vede cadere le mura del suo carcere» ho annunciato «il crollo delle sfere che ci separano dai vasti spazi vuoti e dagli inesauribili tesori del perennemente mutevole, eterno ed infinito universo» (Koyré). Nella cosmologia geocentrica di Aristotele la Terra era non soltanto una “prigione”, ma anche una sorta di corpo marcio e corruttibile, circondato da cristalli puri inaccessibili all’uomo. Invece nell’universo infinito, in cui ogni cosa (celeste e non) deriva dall’unica mente creatrice di Dio e ha pari dignità, i corpi e le forme di vita terrestri riacquistano il loro giusto valore:

Ora […] perché vogliamo dire che la divina bontà, la quale si può communicare alle cose in-

Non sono fini, termini, margini, muraglia che ne defrodino e suttraggano la infinita copia de

(De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, vol. I, pp. 369-370)

228

finite e si può infinitamente diffondere, voglia essere scarsa ed astrengersi in niente, atteso che [= posto che] ogni cosa finita al riguardo de l’infinito è niente? […] Perché deve esser frustrata la capacità infinita, defraudata la possibilità de infiniti mondi che possono essere, pregiudicata la eccellenza della divina imagine che deverebbe più risplendere in uno specchio incontratto e secondo il suo modo di essere infinito, immenso? Perché doviamo affirmar questo che, posto, mena seco tanti inconvenienti e, senza faurir leggi, religioni, fede o moralità in modo alcuno, distrugge tanti principii di filosofia?

La “conquista” dell’infinito

(De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, vol. I, p. 361)

Ma l’infinito non solo esalta l’uomo, il suo mondo e la sua ragione, che si scopre capace di innalzarsi ad esso, ma celebra anche la gloria di Dio, il quale, essendo potenza infinita, non può che «esplicarsi», come si è già detto, in un effetto infinito, infinitamente esteso e infinitamente vario: Così si magnifica l’eccellenza di Dio, si manifesta la grandezza de l’imperio suo: non si glorifica in uno, ma in soli innumerevoli; non in una terra, un mondo, ma in diecento mila, dico in infiniti. (De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, vol. I, p. 362)

Moderatore Dopo Bruno, l’idea dell’infinito perde via via il carattere eversivo e minaccioso che presentava all’inizio. Ne è una prova la riflessione di Cartesio, che proprio in tale idea (e nella prova dell’esistenza di Dio che su di essa si fonda) individua l’architrave dell’intero suo sistema gnoseologico.

Cartesio In effetti, con il passare del tempo, l’idea dell’infinità del mondo aveva superato anche l’iniziale avversione della Chiesa, che, pur continuando a non accogliere l’ipotesi di una pluralità di mondi abitati, si era tuttavia appropriata dell’argomento bruniano dell’infinito come strumento più adatto a celebrare la grandezza di Dio. In una lettera all’amico Chanut, il quale mi aveva riferito di una preoccupazione di Cristina di Svezia riguardo alla possibile “ereticità” dell’idea di un universo infinito, rispondevo così: il Cardinale di Cusa e molti altri Dottori hanno supposto il mondo infinito, senza che per questo siano mai stati rimproverati dalla Chiesa: al

contrario, si crede che significhi onorare Dio far concepire le sue opere come grandissime. (Lettera a Chanut, 6 giugno 1647, in Tutte le lettere. 1619-1650, 2469)

Ovviamente per la Chiesa, ma anche per me, non poteva non esserci differenza tra l’«infinito in atto» di Dio e l’«infinito in potenza» del mondo. In questo senso ho affermato che, se Dio è propriamente «infinito», nel senso che non manca di nulla e, sotto ogni aspetto, non ha limiti, il mondo è invece «indefinito», nel senso che in qualche suo aspetto (spaziale, temporale ecc.) possiamo sempre procedere oltre, senza mai giungere a una fine, come avviene percorrendo la serie dei numeri:

TAVOLA ROTONDA

le cose. Indi feconda è la terra et il suo mare; indi perpetuo è il vampo del sole, sumministrandosi eternamente esca a gli voraci fuochi et umori a gli attenuati mari: perché dall’infinito sempre nova copia di materia sottonasce.

Ed io pongo qui la distinzione tra l’indefinito e l’infinito. E non v’è nulla che io chiami propriamente infinito, se non ciò, in cui da tutte le parti non trovo limiti; nel qual senso solo Dio è infinito. Ma le cose delle quali, sotto qualche considerazione solamente, non vedo fine, come l’estensione degli spazi immaginari, la moltitudine dei numeri, la divisibilità delle parti della quantità, ed altre cose simili, le chiamo indefinite e non infinite. Poiché non da tutte le parti esse sono senza fine e senza limiti. (Meditazioni metafisiche, “Risposte alle prime obbiezioni”, in Opere, vol. I, pp. 289-290)

Si tratta di una distinzione tradizionale, già presente in Cusano, il quale l’aveva a sua volta ripresa dalla scolastica. Ma nel contesto del mio pensiero si carica di un nuovo significato. Infatti, mentre per Aristotele e per la tradizione cristiana il termine «indefinito» (o “infinito potenziale”) alludeva a qualcosa di incompiuto e imperfetto, cioè a qualcosa di negativo, per me si riferisce invece alla (positiva) “impronta” di Dio nella sua creatura: E certo non si deve trovare strano che Dio, creandomi, abbia messo in me questa idea perché fosse come la marca dell’operaio impressa sulla sua opera; […] quando io rifletto su me, non solamente conosco di essere una cosa imper-

229

TAVOLA ROTONDA

TAVOLA ROTONDA

fetta, incompleta e dipendente da altri, che tende e aspira senza posa a qualche cosa di migliore e di più grande che non sia io, ma conosco anche, in pari tempo, che colui dal quale dipendo possiede in sé tutte le grandi cose alle quali aspiro, e di cui trovo in me le idee; e che le possiede non indefinitamente e solo in potenza, ma ne gode in effetti, attualmente ed infinitamente, quindi che è Dio. (Meditazioni metafisiche, III, in Opere, vol. I, pp. 230-231)

Scrutato nei cieli dagli astronomi, l’infinito alberga anche nel fondo del cuore dell’uomo e si manifesta nel desiderio di perfezione e totalità che lo anima: desiderio che è la traccia o il riflesso, nell’imperfezione della creatura, della perfetta compiutezza del Creatore. Moderatore In questo modo la mentalità antica, di matrice pitagorica e aristotelica, si capovolge totalmente: il limite (péras) non indica più la perfezione della forma, ma è l’espressione di un “difetto”, di una “mancanza”…

Cartesio Sì, ma di una mancanza che, in quanto tale, è il segno di una compiutezza a cui tendiamo. Questo prova che l’uomo possiede in sé, da sempre, un’idea positiva (non relativa, originaria) dell’infinito e della perfezione. Ribaltando l’obiezione di Gassendi (il quale contestava il carattere innato dell’idea di infinito affermando che essa è costruita dall’uomo mediante la negazione della finitezza che egli osserva in se stesso e nelle cose naturali), ho affermato che non ci sapremmo imperfetti e finiti, se non avessimo in noi l’idea di un ente perfetto e infinito.

Moderatore Liberatosi definitivamente dal sospetto e dall’ostilità della tradizione antica, con Cartesio l’infinito diventa, insieme con il cogito, l’espressione più tipica della modernità, che celebra sì il soggetto

230

Né debbo supporre di concepire l’infinito, non per mezzo di una vera idea [innata], ma solo per negazione di ciò che è finito, così come comprendo il riposo e le tenebre per mezzo della negazione del movimento e della luce: poiché, al contrario, vedo manifestamente che […] ho, in certo modo, in me prima la nozione dell’infinito che del finito, cioè prima la nozione di Dio che di me stesso. (Meditazioni metafisiche, III, in Opere, vol. I, p. 225)

Moderatore ma com’è possibile che l’idea di infinito sia un’evidenza originaria e “prima”, se il principio primo del sapere è il cogito? Come può la coscienza dell’infinito precedere la coscienza di sé o l’autocoscienza?

Cartesio Il cogito è la coscienza di sé come pensiero che dubita, vale a dire come pensiero finito. Ma la certezza di sé (come essere imperfetto e finito) esige la certezza di Dio (come essere perfetto e infinito): Perché come potrei conoscere che dubito e che desidero, cioè che mi manca qualcosa, e che non sono perfetto, se non avessi in me nessuna idea di un essere più perfetto del mio, dal cui paragone riconoscere i difetti della mia natura? (Meditazioni metafisiche, III, in Opere, vol. I, p. 225)

L’idea di infinito è quindi una nozione innata e originaria, da sempre inscritta nella mente umana, «allo stesso modo in cui lo è l’idea di me stesso», tanto che «l’idea che ne ho [dell’infinito] è la più vera, la più chiara e la più distinta di tutte quelle che sono nel mio spirito».

come nuovo centro del mondo, ma nella consapevolezza che un infinito lo supera e lo sovrasta. secondo il filosofo francese emmanuel Lévinas (1905-1995), l’analisi dell’idea di infinito condotta da

Cartesio nella terza delle Meditazioni metafisiche è tra le più alte nella storia del pensiero occidentale. In queste pagine, l’io che pensa – e che pure si proclama assoluto – si trova di fronte a qualcosa che, propriamente parlando, non può pensare: “contenitore” di tutto (in quanto pensiero), si scontra con l’impensabile che tutto contiene in sé. Non potendo dunque “pensarlo” (perché ciò significherebbe ridurlo all’orizzonte finito della coscienza), l’io sperimenta l’infinito nel desiderio, e in un desiderio che scuote profondamente la sua autosufficienza: «L’infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce come Desiderio. Non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto» (e. Lévinas, Totalità e infinito, trad. it. di a. Dell’asta, Jaca Book, milano 1980, p. 48). approfondendo il tema del rapporto tra finito e infinito, Baruch spinoza (1632-1677) riduce la finitezza

del soggetto umano a un’accidentale modificazione di un’unica «sostanza infinita». Più o meno negli stessi anni, Blaise Pascal (1623-1662), pur accettando da uomo di scienza la “conquista” dell’infinito, da uomo di fede, «sperduto in questo remoto angolo della natura e da questa piccola cella dove si trova rinchiuso, cioè l’universo», si domanda: «Che cos’è un uomo nell’infinito?» (Pensieri, 72, trad. it. di G. auletta, mondadori, milano 1994, p. 139). e, di fronte all’immensa e fredda macchina del mondo, conclude: «Il silenzio eterno degli spazi infiniti mi sgomenta» (Pensieri, 206, cit., p. 194). Nell’universo infinito dei moderni, l’«uomo copernicano» (per usare il titolo di un libro di antonio Banfi) si trova dunque ad affrontare il proprio destino in maniera disincantata, senza le certezze o le illusioni del passato. Nella solitudine di un mondo senza centro, ormai libero dalla presunzione di essere il padrone di una cittadella fortificata e costruita per lui, può finalmente affidarsi alla sua sola ragione.

TAVOLA ROTONDA

La “conquista” dell’infinito

231

4 UNITÀ

4

CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ In questa unità studiamo il pensiero di tre grandi filosofi del Seicento, i quali affrontano alcuni problemi lasciati insoluti dalle teorie di Cartesio e definiscono, con esiti assai diversi, i campi di applicazione della ragione cartesiana.

CAPITOLO 1 Pascal

CAPITOLO 2 Spinoza

CAPITOLO 3 Leibniz

232

Pascal, pur accettando il metodo razionalistico in ambito scientifico, ritiene che la ragione sia incapace di comprendere la realtà e il senso della vita, che solo il «cuore» e la fede possono spiegare. Con Spinoza la ragione cartesiana viene assunta quale guida per la costruzione di un vero e proprio sistema che “spiega” la natura e il suo rapporto con Dio. Il concetto centrale dell’opera di Spinoza è quello di «sostanza», che il filosofo considera non secondo l’interpretazione dualistica cartesiana, ma in senso onnicomprensivo: la sostanza è Dio, ovvero la Natura stessa. Sulla via di Cartesio e di Spinoza si pone anche Leibniz, secondo il quale l’ordine che domina il mondo non è necessario, bensì contingente e spontaneamente organizzato. Dio, infatti, ha creato liberamente il mondo e, tra tutte le scelte possibili, ha optato per la migliore. Leibniz afferma l’esistenza di una sostanza individuale, la «monade», presupposto metafisico da cui il filosofo deriva la teoria scientifica di una materia composta da monadi e pertanto infinitamente divisibile.

CAPITOLO 1

Pascal 1. Vita e opere: la difesa del giansenismo Il pensiero di Cartesio, come si è visto, costituisce la più importante esperienza filosofica del Seicento, a cui si rifà, per svilupparne l’opera o per criticarla, una fitta schiera di pensatori. Se tra coloro che continuano il cartesianesimo emerge Spinoza (che tratteremo nel prossimo capitolo), tra coloro che invece pongono in discussione Cartesio spicca Pascal. Blaise Pascal nacque a Clermont il 19 giugno 1623. I suoi primi interessi furono diretti alla matematica e alla fisica. A sedici anni compose un Saggio sulle sezioni coniche; a diciotto inventò una macchina calcolatrice; in seguito fece numerose esperienze sul vuoto (descritte nel trattato Sulla pesantezza della massa d’aria, 1651, e in quello Sull’equilibrio dei liquidi, 1652), rimaste classiche. Anche quando la vocazione religiosa ebbe deciso della sua vita, l’interesse per la scienza non lo abbandonò: la teoria della roulette, il calcolo delle probabilità e altre invenzioni lo occuparono negli anni della piena maturità. Nel 1654 la vocazione religiosa divenne chiara in lui. In uno scritto (23 novembre 1654) che fu trovato dopo la sua morte cucito nel suo vestito, Pascal ci ha lasciato il documento dell’illuminazione che si fece nel suo spirito. Eccone alcune frasi:

Gli iniziali interessi scientifici

La vocazione religiosa

Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e degli scienziati. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo.

Da quel momento Pascal entrò a far parte dei solitari di Port-Royal, tra i quali era già una sua sorella carissima, Jacqueline. L’abbazia di Port-Royal era stata ricostruita nel 1636 dall’abate di Saint-Cyran (1581-1643) nella forma di una comunità religiosa, priva di regole determinate, i cui membri si dedicavano alla meditazione, allo studio e all’insegnamento. Con Antoine Arnauld (v. unità 3, p. 217) si affermarono decisamente tra i solitari di PortRoyal le idee del vescovo olandese Cornelio Giansenio (1585-1638). L’Augustinus di Giansenio (pubblicato postumo, nel 1640) era un tentativo di riforma cattolica mediante un ritorno alle tesi fondamentali di Agostino, e soprattutto a quella della grazia. Secondo Giansenio, la

Port-Royal

La dottrina del giansenismo

233

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

dottrina agostiniana implicava l’idea che il peccato originale ha tolto all’uomo la libertà del volere, rendendolo incapace del bene e inclinato necessariamente al male. Dio soltanto concede agli eletti, per i meriti di Cristo, la grazia della salvezza. Gli eletti sono dunque pochi, disseminati in tutto il mondo; e sono tali unicamente per la grazia salvatrice di Dio. Queste tesi erano contrapposte da Giansenio alla rilassatezza della morale ecclesiastica, specialmente gesuitica, secondo la quale la salvezza è sempre a portata dell’uomo: questi possiede infatti una «grazia sufficiente», che, se è suffragata dalla buona volontà e da una vita condotta nel rispetto dei precetti della Chiesa, è in grado di salvarlo. I gesuiti avevano posto questa tesi, formulata dallo spagnolo Luis Molina (v. unità 1, p. 48), a fondamento della loro pratica di proselitismo, diretta a conservare nel seno della Chiesa il maggior numero possibile di persone, anche quelle dotate di scarsa religiosità interiore. Contro questa tesi il giansenismo prospettava un rigorismo morale e religioso alieno da ogni compromesso, facendo dipendere la salvezza, come abbiamo detto, dall’azione della sola «grazia efficace» divina, riservata a pochi. La condanna papale

Il giansenismo suscitò una vivace reazione negli ambienti ecclesiastici e il 31 maggio 1653 una bolla di Innocenzo X condannò le cinque proposizioni nelle quali la Facoltà teologica di Parigi aveva condensato la dottrina dell’Augustinus di Giansenio. Arnauld e i partigiani

1610

Eventi storici

1620 1618 Inizia la Guerra dei trent’anni tra protestanti e cattolici

1630

1640 1633 Galilei è processato e costretto ad abiurare

1621 Muore Bellarmino 1623 Maffeo Barberini è papa Urbano VIII 1619 Ferdinando II incoronato imperatore del Sacro Romano Impero 1623 Blaise Pascal nasce a Clermont

Vita di Pascal

Filosofia e Scienza

Arte e Letteratura

1626 Muore la madre

1610 Galilei: Sidereus nuncius

1611-1612 Reni: Strage degli innocenti

1620 Bacone: Novum Organum 1616 Il De revolutionibus di Copernico è messo all’indice

1632 Galilei: Dialogo sopra 1628 i due massimi Harvey scopre sistemi la circolazione del mondo sanguigna (subito messo 1619 all’indice) Keplero: Harmonices mundi (terza legge)

1618 Tassoni: La secchia rapita

1637 Descartes: Discorso sul metodo

1628-1629 Velasquez: Trionfo di Bacco 1633 Bernini termina il baldacchino di San Pietro

1622 Bernini: Apollo e Dafne

234

1631 Si trasferisce a Parigi con il padre e le due sorelle

1635 Corneille: Medea

Capitolo 1 • Pascal

di Giansenio accettarono la condanna delle cinque proposizioni, ma negarono che, in linea di fatto, esse appartenessero a Giansenio e si ritrovassero nella sua opera; perciò ritennero che la condanna non riguardasse la dottrina giansenista. Dopo qualche anno, la disputa fu ripresa davanti alla Facoltà teologica di Parigi, e Pascal vi intervenne. Il 23 gennaio 1656 Pascal pubblicò con lo pseudonimo di Luigi di Montalto la sua prima Lettera scritta a un provinciale da uno dei suoi amici intorno alle dispute attuali della Sorbona; a questa seguirono altre diciassette lettere, l’ultima delle quali datata 24 marzo 1657. Le Lettere provinciali di Pascal costituiscono un capolavoro di profondità e di umorismo, e uno dei primi monumenti letterari della lingua francese. Nelle prime, Pascal polemizza contro la dottrina molinista: Ma infine, padre, questa grazia data a tutti gli uomini è sufficiente? – Sì, egli disse. – E tuttavia essa non ha effetto senza grazia efficace? – Questo è vero, egli disse. – E tutti gli uomini hanno la sufficiente, continuai io, e non tutti hanno l’efficace? – È vero, egli disse. – Vale a dire, gli dissi io, che tutti hanno abbastanza grazia e che tutti non ne hanno abbastanza; vale a dire che questa grazia basta, sebbene essa non basti affatto; vale a dire che essa è sufficiente di nome e insufficiente di fatto.

1640

1650 1642 In Inghilterra inizia la guerra civile

1660

1648 Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni

1653 Innocenzo X condanna le 5 proposizioni che condensano il giansenismo

Le Lettere provinciali e la critica della dottrina gesuitica

1670

1660 In Inghilterra restaurata la monarchia con Carlo II Stuart

1649 Carlo I Stuart decapitato; abolita la monarchia 1640 Si trasferisce con la famiglia a Rouen; pubblica un breve Saggio sulle sezioni coniche 1641-1642 Realizza la prima macchina calcolatrice

1646 “Prima conversione”: si avvicina al giansenismo

1654 1658 “Seconda Studi sulla roulette conversione”: e sul calcolo probabilistico diventa un “solitario” 1659 di Port-Royal Le sue condizioni di salute 1656-1657 peggiorano 1662 Lettere provinciali; A Parigi, malato ormai De l’esprit géométrique; da tempo, Pascal muore De l’art de persuader

1647 Ritorna a Parigi

1642 Hobbes: De cive

1651 Hobbes: Leviatano

1669 Pubblicati i Pensieri, che raccolgono i frammenti dell’incompiuta Apologia del cristianesimo

1662 In Inghilterra nasce l’accademia scientifica Royal Society

1644 Torricelli dimostra l’esistenza del vuoto 1644 Milton: Areopagitica

1667 Milton: Il paradiso perduto

1642 Rembrandt: Ronda di notte

235

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

A partire dalla quinta lettera le critiche di Pascal si rivolgono anche alla prassi dei gesuiti, ovvero al loro accomodante atteggiamento di tendere le braccia a tutti: essi mettono a posto facilmente la coscienza dei peccatori con una «casistica rilasciata», ma vanno incontro alle anime veramente pie con i loro direttori severi. Ma poiché le anime pie sono poche, «essi non hanno bisogno di molti direttori severi per condurle. Ne hanno pochi per i pochi; mentre la folla dei casuisti rilasciati si offre alla folla di coloro che cercano la rilassatezza» (Lettere, V). La difesa giansenista della teoria agostiniana della grazia

I Pensieri

Nell’ultima lettera, Pascal ribadisce la dottrina agostiniana della grazia. Tra i due punti di vista opposti, quello di Calvino e di Lutero, secondo i quali l’uomo non contribuisce in alcun modo alla sua salvezza, e quello di Molina, il quale non vuole ammettere che la cooperazione umana è dovuta alla forza stessa della grazia, secondo Pascal bisogna riconoscere, con Agostino, che le nostre azioni sono nostre a causa del libero arbitrio che le produce; e che esse sono anche di Dio, a causa della sua grazia, la quale fa sì che il nostro arbitrio le produca. Così, come Agostino dice, Dio ci induce a fare ciò che gli piace, facendoci volere ciò che potremmo non volere affatto. In questa dottrina Pascal vede la vera tradizione della Chiesa, da Agostino a Tommaso e a tutti i tomisti, nonché il vero significato del giansenismo. Mentre pubblicava le Lettere e attendeva al suo lavoro scientifico, Pascal lavorava anche a un’Apologia del cristianesimo, che avrebbe dovuto essere la sua grande opera. Tuttavia, egli non poté condurre a termine questo lavoro, perché la sua salute, malferma fin dall’infanzia, era divenuta sempre più fragile: Pascal morì il 19 agosto 1662, a 39 anni, e i frammenti della sua opera apologetica furono raccolti e ordinati dai suoi amici di Port-Royal e pubblicati per la prima volta nel 1669 con il titolo di Pensieri.

2. Il problema del senso della vita Il mistero del nostro essere al mondo

Secondo Pascal la questione più importante e decisiva per l’uomo è l’interrogativo sul senso della vita. In alcune tra le pagine più note della letteratura filosofica moderna, egli si esprime così riguardo al mistero della vita: Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell’universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po’ di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un’ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare. (Pensieri, 194)1

1 Le traduzioni utilizzate in questo capitolo sono solitamente attinte dall’edizione dei Pensieri curata da Paolo Serini (Einaudi). Il numero dei pensieri è quello della “classica” edizione Brunschvicg.

236

Capitolo 1 • Pascal

Ritenendo che il problema di ciò che l’uomo è a se stesso sia il più vero e importante, Pascal reputa «mostruoso» che gli individui, occupati nelle mille faccende del vivere e assorbiti dalle vanità sociali, possano rimanervi indifferenti. Da ciò la polemica ricorrente contro la cecità di coloro che non sentono l’assillo di tale problema e dei filosofi che non lo pongono al centro delle loro ricerche. Le tematiche esistenziali «c’interessano talmente, ci riguardano così profondamente, che bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di venirne in chiaro» (Pensieri, 194). Pertanto, lo studio dell’uomo e quello correlativo di Dio e dell’anima, ripete Pascal con Agostino, è il solo che risulti appropriato a noi esseri umani. Tutto il resto è «svago», «esercizio intellettuale», «libido sciendi» e «inutile curiosità». L’enigma dell’uomo e della vita, secondo Pascal, non ha alcuna possibilità di soluzione al di fuori della fede. In questa convinzione emerge la curvatura decisamente religiosa del suo pensiero, dalla quale deriva anche il carattere marcatamente apologetico della traccia, o del filo, delle sue meditazioni. Egli intende infatti: a) mostrare lo scacco della mentalità comune, della scienza e della filosofia di fronte al problema dell’esistenza; b) mettere in rilievo la capacità del cristianesimo di dare a tale problema una risposta adeguata (v. apologetica). Questa struttura rivela chiaramente come l’interlocutore-tipo del filosofare apologetico di Pascal sia soprattutto il miscredente, e in particolare il “libero pensatore” dei suoi tempi, che egli vuol portare a riflettere a fondo sul mistero dell’uomo e a prendere in considerazione la “ragionevolezza” della risposta cristiana al problema del senso della vita.

L’enigma che siamo a noi stessi

Il filo conduttore del filosofare pascaliano

3. I limiti della mentalità comune: il divertissement, o lo stordimento di sé Pascal ritiene che l’atteggiamento comune nei confronti dei problemi esistenziali sia quello del divertissement. Questo termine – che viene solitamente tradotto con “distrazione”, “diversione” o “divertimento” – non ha il significato volgare di “sollazzo”, bensì quello filosofico di “oblio e stordimento di sé” nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali. Il divertimento è quindi una “fuga da sé”, ottenuta tramite una qualsivoglia attività, lavorativa o ricreativa. Ma da che cosa fugge l’uomo? Per Pascal sostanzialmente da due cose: dalla propria infelicità costitutiva e dai supremi interrogativi circa la vita e la morte.

Il concetto di divertissement

Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci. (Pensieri, 168)

Niente è così insopportabile all’uomo come il rimanere in riposo, senza passioni, senza cose da fare, senza divertimento, senza applicazioni a cui dedicarsi. Egli sente allora il suo niente, il suo abbandono, la sua impotenza, il suo vuoto interiore. E immediatamente affiorano dal fondo della sua anima l’umor nero, la perfidia, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione e, soprattutto, la noia, attraverso la quale si rivelano all’uomo la sua insufficienza e la sua strutturale miseria. Il pregio fondamentale di tutte le occupazioni risiede proprio nel distrarre l’uomo dalla considerazione di sé e della sua condizione.

La noia

Testo antologico Il «divertimento» (Frammenti)

237

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

L’uomo non cerca le cose, ma la ricerca delle cose

Da qui deriva che il gioco, la conversazione, la guerra, le cariche elevate siano così ricercati. Queste cose non sono cercate in vista della felicità, né si crede sul serio che la vera beatitudine consista nel denaro che si può guadagnare al gioco o nella lepre che si rincorre a caccia, tant’è vero che, se queste cose ci fossero offerte, non le desidereremmo. Non si cerca il loro uso fiacco e pacifico (che ci ricorda anch’esso la nostra disgraziata condizione), né si cercano i pericoli della guerra o le fatiche degli impieghi, ma si ricerca il trambusto che ci distrae, che ci distoglie dal pensare alla nostra condizione. Pertanto, noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose, non viviamo mai nel presente, ma in attesa del futuro: Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e dell’avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente, o se ci pensiamo, è solo per prenderne lume al fine di predisporre l’avvenire. Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad esser felici, è inevitabile che non siamo mai tali. (Pensieri, 172)

Scheda filmica Il dolore dell’esistenza (Mystic River)

Il divertimento, essendo una continua fuga da noi stessi, nel tentativo illusorio di raggiungere una situazione di completo appagamento, non genera certo felicità. Esso viene all’uomo dall’esterno e lo rende soggetto a essere turbato da mille accidenti, che costituiscono le sue inevitabili afflizioni. Così, la sola cosa che può consolarlo delle sue miserie è la più grande delle sue miserie. Senza il divertimento saremmo nella noia e la noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne. Ma il divertimento ci riesce piacevole e così ci fa smarrire e arrivare insensibilmente alla morte. Tuttavia il divertimento non è l’alternativa propria e degna dell’uomo. L’uomo non deve chiudere gli occhi di fronte alla sua miseria, ma deve saper accettare, lucidamente, la propria condizione e tutto ciò che essa implica:

Video Il dolore dell’esistenza (Mystic River)

L’uomo è manifestamente nato a pensare; qui sta tutta la sua dignità e tutto il suo pregio; e tutto il suo dovere sta nel pensare rettamente. Ora, l’ordine del pensiero esige che si cominci (Pensieri, 146) da sé.

L’insostenibilità esistenziale del divertimento

4. I limiti del pensiero scientifico: «spirito di geometria» e «spirito di finezza» Pur essendo uno scienziato e pur nutrendo interesse e considerazione per il sapere esatto, Pascal è convinto che la scienza presenti alcuni limiti strutturali, sia in se medesima, sia in relazione ai problemi dell’uomo. L’imprescindibilità dell’esperienza

L’indimostrabilità dei primi principi

238

Il primo limite della scienza è l’esperienza. Sebbene questa da un lato rappresenti un motivo di forza (Pascal è galileianamente e anti-cartesianamente un fautore del metodo sperimentale), dall’altro lato è pur sempre qualcosa con cui la ragione deve fare i conti, ossia che frena e circoscrive i suoi poteri, che non sono mai assoluti, come invece tendevano a credere, nel loro deduzionismo aprioristico, Cartesio e i cartesiani. Il secondo limite della scienza è costituito dall’indimostrabilità dei suoi primi principi. Infatti, le nozioni che stanno alla base del ragionamento scientifico (lo spazio, il tempo, il movimento ecc.) sfuggono al ragionamento stesso, poiché nel campo del sapere, come ave-

Capitolo 1 • Pascal

vano già notato i filosofi antichi, non risulta mai possibile una regressione dei concetti all’infinito, per cui ci si deve per forza arrestare ad alcuni termini primi, che rappresentano il limite oltre il quale non si può procedere, ma dal quale è costretta a partire la catena deduttiva dei ragionamenti. Tipico, in questo senso, il caso delle matematiche. Se i dogmatici, tentando di fondare i principi primi, non vi riescono, gli scettici, cercando di confutarli, falliscono ancor più clamorosamente, poiché tali principi sono evidenze intuitive e istintive, più sicure di qualsiasi ragionamento. La scienza incontra dunque dei limiti nello stesso dominio che le è proprio. Essa, tuttavia, nel suo ambito è arbitra assoluta. Di conseguenza, Pascal respinge dal dominio delle conoscenze naturali ogni intrusione metafisica o teologica e ogni principio di autorità. La ragione mostra invece la sua totale incapacità nel campo dei problemi esistenziali. Alla ragione scientifica e dimostrativa Pascal oppone infatti, come via d’accesso all’uomo, la comprensione istintiva o, come egli la chiama per lo più, il cuore, che intende come l’“organo” capace di captare gli aspetti più profondi e problematici dell’esistere. ➔ T1 p. 255 Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce.

Il cuore

(Pensieri, 177)

Quest’antagonismo tra ragione e cuore viene talora espresso con la celebre contrapposizione tra esprit de géométrie ed esprit de finesse: ■■■ lo spirito di geometria è la ragione scientifica, che ha per oggetto le cose esteriori o gli enti astratti della matematica e procede dimostrativamente; ■■■ lo spirito di finezza ha per oggetto l’uomo e si fonda sul «cuore», sul sentimento e sull’intuito. Con lo spirito di finezza le cose si “sentono”, più che vedersi; si fatica a farle sentire a quelli che non le avvertono da sé e non si riesce a dimostrarle completamente, poiché non si possiedono i loro principi come si possiedono quelli della geometria. Lo spirito di finezza vede l’oggetto d’un sol colpo e con un solo sguardo, senza passare attraverso il ragionamento discorsivo. Si può esprimere con buona approssimazione la differenza stabilita da Pascal tra spirito di geometria e spirito di finezza dicendo che il primo “ragiona” intellettivamente, il secondo “comprende” intuitivamente. Un certo grado di finezza, ossia di comprensione, è indispensabile anche per fondare il ragionamento geometrico. Anzi, i primi principi del sapere di cui si è parlato vengono colti proprio attraverso lo spirito di finezza, poiché si “sente”, ad esempio, che vi sono tre dimensioni dello spazio e si intuisce che i numeri sono infiniti. Lo spirito di finezza, tuttavia, ha per oggetto specifico il mondo degli uomini, mentre lo spirito di geometria le figure ideali e il mondo della natura. L’eloquenza, la morale, la filosofia sono fondate sullo spirito di finezza, poiché solo il giudizio, il sentimento e il cuore possono realizzare un’eloquenza persuasiva, una morale autentica e una vera filosofia. Invece la scienza, di fronte agli interrogativi umani, risulta impotente, anzi muta ed estranea, venendosi praticamente a trovare nella stessa situazione della mentalità comune e del divertissement. Per questo motivo, in relazione ai destini ultimi dell’individuo, essa risulta vana, come afferma Pascal in tono autobiografico:

Esprit de géométrie ed esprit de finesse

L’esprit de finesse come comprensione intuitiva

Esercizi interattivi I limiti del pensiero scientifico in Pascal

L’impotenza della scienza di fronte ai problemi esistenziali

Avevo trascorso gran tempo nello studio delle scienze esatte, ma la scarsa comunicazione che vi si può avere con gli uomini me ne aveva disgustato. Quando cominciai lo studio dell’uomo, capii che quelle scienze esatte non si addicono all’uomo, e che mi sviavo di più dalla mia condizione con l’approfondire lo studio che gli altri con l’ignorarlo. (Pensieri, 144)

239

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Vanità delle scienze. Nei giorni di afflizione, la scienza delle cose esteriori non varrà a consolarmi dell’ignoranza della morale; ma la conoscenza di questa mi consolerà sempre (Pensieri, 67) dell’ignoranza del mondo esteriore.

In conclusione, la cosa più preziosa, per l’uomo, non è la scienza, bensì la conoscenza dell’uomo stesso: «Bisogna conoscere se medesimi: quand’anche non servisse a trovare la verità, giova per lo meno a regolare la propria vita; e non c’è nulla di più giusto» (Pensieri, 66).

spirito di geometria spirito di finezza

> ha per oggetto le realtà fisiche e gli enti astratti della matematica > procede in modo discorsivo e dimostrativo > ha per oggetto specifico l’uomo e le realtà morali e religiose > si fonda sul cuore, sul sentimento e sull’intuito

I limiti della scienza sono l’esperienza, l’indimostrabilità dei primi principi e l’impotenza di fronte ai problemi esistenziali

5. I limiti della filosofia I filosofi e il problema di Dio A differenza della mentalità comune e della scienza, la filosofia si pone i massimi problemi esistenziali e metafisici, e in ciò risiede la sua nobiltà; essa però non li risolve. Infatti i filosofi hanno vanamente indagato intorno all’uomo e all’essere, e hanno sterilmente cercato di elaborare dimostrazioni dell’esistenza di Dio. L’esistenza di Dio non è razionalmente dimostrabile

Ad esempio, la pretesa dei metafisici di dimostrare, a partire dalla natura, che Dio esiste è falsa, giacché l’ordine e le “meraviglie” del creato, come il corso della luna e dei pianeti o il cielo e gli uccelli, non provano di per sé l’esistenza di Dio; solo agli occhi di chi già crede la natura appare con evidenza come un’opera divina, mentre per chi non crede essa può venire interpretata anche senza Dio: – Come! non dite anche voi che il cielo e gli uccelli provano Dio? – No. – E la vostra religione non lo dice? – No: perché, sebbene ciò in un certo senso sia vero per alcune anime, alle (Pensieri, 244) quali Dio dona questa luce, nondimeno è falso per i più. È veramente singolare che nessun autore canonico si sia servito della natura per dimostrare l’esistenza di Dio. Tutti mirano a far sì che si creda in Lui. Davide, Salomone ecc. non hanno mai detto: Non esiste il vuoto; dunque c’è un Dio. Dovevano essere più savi dei savi venuti dopo, che si servirono di tali argomenti. È un fatto veramente degno di nota. (Pensieri, 243)

240

Capitolo 1 • Pascal

Per Pascal l’esistenza di un Creatore, razionalmente parlando, non è né chiara né certa, bensì oscura e problematica quanto la sua inesistenza: Esaminiamo dunque questo punto, e diciamo: “Dio esiste o non esiste”. Ma da quale parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. (Pensieri, 233)

Inoltre le prove metafisiche dell’esistenza di Dio (che Pascal sostanzialmente svaluta, nonostante qualche oscillazione in proposito) hanno il limite di giungere a una divinità puramente astratta, cioè a un semplice «Dio dei filosofi e degli scienziati», che appare inutile e lontano rispetto all’uomo, essendo un puro ente di ragione: Non posso perdonare a Descartes. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia (naturale), poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto per mettere (Pensieri, 77) in movimento il mondo: dopo di che, non sa che farsi di lui. Il Dio dei Cristiani non è semplicemente un Dio autore delle verità matematiche e dell’ordine cosmico: come quello dei pagani e degli epicurei […]. Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei Cristiani, è un Dio di amore e di consolazione: un Dio che (Pensieri, 556) riempie l’anima e il cuore di coloro che possiede.

I filosofi e la condizione umana Incapace di risolvere la questione di Dio, la filosofia è altrettanto inabile a spiegare la specifica condizione dell’uomo nel mondo e il nodo di grandezza e di miseria che la costituisce. Il centro dell’analisi esistenziale di Pascal è la tesi della posizione mediana dell’uomo nell’ordine delle cose. La sua stessa dislocazione spaziale nel cosmo ne è una prova: compreso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, anzi tra il tutto e il nulla, l’uomo è un nulla di fronte al tutto e un tutto di fronte al nulla, un misto di essere e non essere:

La medietà dell’uomo nell’ordine delle cose…

Chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo – che dianzi non era percepibile nell’universo, che a sua volta era impercettibile in seno al Tutto – sia ora un colosso, un (Pensieri, 72) mondo, anzi un tutto rispetto al nulla?

Questa medietà tra massimo e minimo trova un preciso riscontro anche nell’ordine della conoscenza e nell’ordine pratico. Nella scala del conoscere, l’intelletto occupa lo stesso posto del corpo nell’immensità della natura, poiché se in relazione all’essere si può dire che l’uomo sia e non sia, in quanto è qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla, così, in relazione al sapere, si può dire che egli conosca e non conosca. Tant’è vero che l’uomo non si trova né in una completa insipienza né in una totale sapienza, bensì in una via di mezzo tra l’ignoranza assoluta e la scienza assoluta. Non così ignorante da non sapere nulla, né così dotto da sapere tutto, l’uomo, pur avendo un illimitato desiderio di conoscere, è nell’impossibilità di cogliere il principio e il fine delle cose, e deve accontentarsi – come succede nella scienza, che non è mai cognizione totale – di apprendere qualche cosa della zona mediana dell’universo. Infatti tutte le nostre capacità sono limitate da due estremi, al di là dei quali le cose ci sfuggono perché sono troppo al di sopra o troppo al di sotto di esse. I nostri sensi non percepiscono niente di estremo;

… nell’ordine della conoscenza…

241

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

e troppa giovinezza o troppa vecchiaia rendono impedito lo spirito e lo stesso fanno la troppa o troppo poca istruzione. Le cose estreme sono per noi come se non ci fossero e noi siamo nei loro confronti come se non fossimo: esse sfuggono a noi e noi a loro. … e nell’ordine pratico

La stessa duplicità e medietà che caratterizza l’uomo nell’ordine dell’essere e in quello del conoscere, lo qualifica in relazione al bene e alla felicità. L’uomo non fa che proporsi il bene e inseguire la felicità totale, ma nello stesso tempo risulta inetto a realizzare effettivamente il bene e a ottenere la felicità: L’uomo vuol essere felice, e vuole soltanto essere felice, e non può non voler essere tale. (Pensieri, 169)

Tutti gli uomini, nessuno eccettuato, cercano di essere felici: per quanto impieghino mezzi diversi, tutti tendono a questo fine. Quel che spinge alcuni ad andare alla guerra e altri a non andarci è sempre questo desiderio […]. La volontà non fa mai il minimo passo se non verso quest’oggetto. È il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che s’impiccano. (Pensieri, 425)

E sebbene la “mascherata” sociale tenti di convincere del contrario e corra dietro al mito dello star bene e del piacere, non occorre un’anima molto elevata per comprendere che quaggiù non ci sono soddisfazioni veraci e durature; che tutti i nostri piaceri sono vani e i nostri mali senza numero. (Pensieri, 194)

Tutti si lamentano: principi, sudditi; nobili, plebei; vecchi, giovani; forti, deboli; dotti, ignoranti; sani, infermi; di tutti i paesi, di tutti i tempi, di tutte le età e di tutte le condizioni. (Pensieri, 425)

Salomone e Giobbe sono quelli che meglio hanno conosciuto e meglio hanno parlato della miseria dell’uomo: l’uno, il più felice, l’altro il più sventurato; l’uno, conoscendo per esperienza la vanità dei piaceri, l’altro la realtà dei mali. (Pensieri, 174) L’uomo come desiderio frustrato

Questa situazione esistenziale mediana determina, nell’uomo, uno scarto incolmabile tra aspirazione e realtà e fa sì che egli, filosoficamente parlando, sia un desiderio frustrato. Incapace di sentirsi appagato per quel che è, ma anche di attingere quel che vorrebbe essere, l’uomo pascaliano, preso tra volere e non potere, si trova in uno strutturale, tragico dissidio con se medesimo. Da ciò la sua miseria costitutiva. Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza. Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte. Siamo incapaci di non aspirare alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di certezza e di felicità. (Pensieri, 437) Noi vaghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi. (Pensieri, 72)

242

Capitolo 1 • Pascal

Dall’altro lato, se nell’uomo vi sono la spinta verso la verità assoluta, la nostalgia di un bene totale e l’istinto di una felicità piena, vuol dire che in lui esiste una vocazione naturale verso un ordine superiore di essere e di valore, ossia un barlume di grandezza e di nobiltà. Inoltre la coscienza della propria miseria è già un segno di grandezza, perché una pianta o un verme, ad esempio, non sanno riconoscersi miseri. Anche la facoltà del pensiero, in cui risiede l’umanità stessa dell’uomo, è di per sé grandezza, poiché se dal punto di vista spaziale, come insegna la nuova astronomia, l’uomo non è che una parte infinitesima del Tutto, in balìa delle forze della natura, dal punto di vista del valore egli è ben superiore alla materia e ai suoi inconsapevoli meccanismi. L’essenza dell’uomo, la specificità della sua condizione, sta proprio in questa ambigua compresenza di miseria e grandezza, che fa di lui un «mostro incomprensibile», una «chimera», un «prodigio», un «paradosso di fronte a se stesso», ossia qualcosa di unico al mondo, «giudice di tutte le cose e debole verme della terra, depositario della verità e cloaca d’incertezza e d’errore, gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo garbuglio?» (Pensieri, 434). Ma se la condizione umana è tutta in questa paradossalità, cioè in questa duplicità ineliminabile di miseria e di grandezza, ogni tentativo di sottolineare un aspetto a scapito dell’altro è destinato a fallire. Lo sbaglio della filosofia è stato quello di aver oscillato, in ogni tempo, tra la celebrazione della grandezza dell’uomo, com’è avvenuto nei “dogmatici”, e la puntualizzazione della sua miseria, com’è avvenuto nei “pirroniani”, ossia negli scettici. Incapaci di spiegare la dualità insita nella nostra specie, i maestri della filosofia umana hanno cercato di annullarla, elidendo l’uno o l’altro dei due termini (v. dogmatismo o scetticismo). In realtà, sostiene Pascal, è pericoloso mostrare troppo all’uomo quant’è simile ai bruti, senza indicargli insieme la sua grandezza. E ugualmente pericoloso è fargli vedere troppo la sua grandezza, senza richiamargli nel contempo la sua bassezza. Se esso si esalta, lo deprimo; se si abbassa, lo esalto, e sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un mostro incomprensibile. (Pensieri, 420)

Miseria e grandezza dell’uomo

Testo antologico La dignità dell’uomo consiste nel pensare (Frammenti)

L’errore della filosofia

Esercizi interattivi La concezione pascaliana dell’uomo

I filosofi e i principi pratici Secondo Pascal la ragione filosofica fallisce anche in un altro settore di fondamentale importanza: quello dei principi pratici morali e politici. Gli uomini, argomenta Pascal, sulla base della sola ragione non hanno saputo mettersi d’accordo sulle regole del vivere e del comportamento, e non sono riusciti a elaborare un’etica immutabile e universale. Ad esempio, per quanto concerne le leggi e i costumi:

La sola ragione non è in grado di stabilire che cos’è il bene

Nulla si vede di giusto o d’ingiusto che non muti qualità col mutar di clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche […]. Singolare giustizia, che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là […]. Il furto, l’incesto, l’uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose. Si può dar cosa più spassevole di questa: che un uomo abbia il diritto di ammazzarmi solo perché abita sull’altra riva del fiume e il suo sovrano è in lite con il mio, sebbene io non lo sia con lui? (Pensieri, 294)

243

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Così, su tutto ciò che si riferisce al bene regna da sempre la massima confusione. Per gli uomini comuni il bene sta nelle ricchezze, nelle cose esterne e nel divertimento. I filosofi, pur contestando in genere queste cose, differiscono tra loro nel determinare l’essenza del sommo bene, poiché l’uno ritiene che consista nella virtù, l’altro nel piacere, l’uno nella ragione, l’altro nella natura, l’uno nella vita attiva, l’altro nella contemplazione ecc. Altri affermano invece che non si può trovare o che risiede nell’“atarassica” rinuncia a cercarlo. Filosofi o non filosofi, sta di fatto che non appena si riflette su di una qualunque norma etica, subito si presentano alla mente dubbi insolubili: Che cosa può esser chiamato un bene? La castità? No, perché il mondo si spegnerebbe. Il matrimonio? No, perché è migliore la continenza. Il non uccidere? No, ché ne seguirebbero orribili disordini, e i malvagi ucciderebbero i buoni. L’uccidere, allora? No, perché la natura ne sarebbe distrutta. (Pensieri, 385) I cosiddetti “principi etici” dipendono da fattori extra-etici

I cosiddetti principi “universali” del comportamento, che gli uomini comuni considerano certi e i filosofi reputano naturali e razionali, sono nient’altro, a ben vedere, che frutto di convenzione, di abitudine, di storia, di interesse, di forza o di arbitrio: la giustizia è quel che è stabilito l’abitudine è una seconda natura, che distrugge la prima la moda, come determina il piacevole, così determina il giusto è tutto effetto della consuetudine, la quale violenta la natura

(Pensieri, 312) (Pensieri, 93) (Pensieri, 309) (Pensieri, 97)

non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto (Pensieri, 298) non essendosi potuto rendere forte la giustizia, si è giustificata la forza

(Pensieri, 299)

perché si seguono le antiche leggi e le credenze tradizionali? perché sono le più savie? no, solo perché sono le sole in vigore, e così è eliminata ogni ragione di dissenso (Pensieri, 301) Pascal e il relativismo

Questa sottile dialettica pascaliana – volta a mostrare l’extra-razionalità e la mutevolezza delle regole comportamentali e a svelare quel sottile inganno per cui, nella mente degli uomini, ciò che è storico diviene naturale, ciò che è relativo assoluto, ciò che è convenzione legge, ciò che è interesse giustizia, ciò che è forza arbitrio – trae ispirazione dal pensiero scettico di tutti i tempi, da Montaigne e dai libertini del XVII secolo in particolare. Ovviamente con questa radicale differenza: che mentre per questi ultimi il relativismo è un’arma filosofica che funge da solvente delle credenze sociali e religiose precostituite e da giustificazione della libertà dei costumi, per Pascal il relativismo – secondo lo schema di tutta la sua filosofia – è solo uno strumento per mostrare come la ragione, con le sole sue forze, non risulta in grado di fondare solide norme comportamentali e come l’uomo in generale, senza la luce della fede, sia destinato a vagare nell’incerto e ad approdare allo scetticismo: Ci sono, senza dubbio, leggi naturali, ma questa bella ragione ha corrotto tutto. (Pensieri, 294)

Il pirronismo è nel vero: perché, in fin dei conti, prima di Gesù Cristo, gli uomini ignoravano come fossero. (Pensieri, 432)

244

Capitolo 1 • Pascal

6. La meta-filosofia di Pascal e la “ragionevolezza” del cristianesimo I limiti della filosofia nei confronti dei problemi di Dio, della condizione esistenziale concreta dell’uomo e dei principi pratici sono i limiti stessi della ragione e il segno della sua impotenza di fronte agli interrogativi più alti. Di conseguenza, secondo Pascal, l’unica vera filosofia è una sorta di meta-filosofia1 consapevole dei limiti della filosofia: «beffarsi della filosofia è filosofare davvero» (Pensieri, 4), «il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano» (Pensieri, 267). Ovviamente, se Pascal si fermasse a questa critica della ragione, condotta per mezzo della ragione stessa («nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione», Pensieri, 272), allora sarebbe ancora tutto nella filosofia, e precisamente in una forma raffinata di scetticismo. Invece la meta-filosofia di Pascal, essendo la cerniera che unisce ragione e religione, risulta al servizio della fede e ne costituisce un originale preambolo, in quanto mette dialetticamente capo al cristianesimo, visto come messaggio sovra-razionale in grado di risolvere quei nodi che la ragione, da sola, non riesce a sciogliere (v. filosofia, metafilosofia e cristianesimo). Quindi, pur essendo sterile, la filosofia, nella prospettiva di Pascal, risulta pur sempre fondamentale, poiché, lasciando insoluti l’enigma della nostra natura e l’incognita del nostro destino, funge da stimolo a cercare le risposte altrove, e precisamente in quella superiore forma di conoscenza che è la rivelazione religiosa. Infatti, contro ogni concezione naturalistica e autonomistica, che vorrebbe rinvenire nell’uomo la spiegazione dell’uomo stesso, Pascal ritiene che l’uomo sia un problema la cui soluzione si trova soltanto in Dio. Ora, secondo Pascal, tra tutte le religioni, l’unica vera è quella cristiana, poiché essa soltanto fornisce una risposta al problema dell’uomo che si accorda con i dati di fondo della nostra condizione: «Perché una religione sia vera, è necessario che abbia conosciuto la grandezza e la miseria, e le cause dell’una e dell’altra. Chi, tranne la religione cristiana, l’ha conosciuta?» (Pensieri, 433). Solo il cristianesimo e la dottrina biblica del peccato originale, parlando di una caduta della nostra specie da una situazione paradisiaca, spiegano la specifica condizione esistenziale di quel “mostro” che è l’uomo. Infatti, che uno stesso soggetto accolga in sé due opposti o è una tragica assurdità oppure è il segno che l’uomo non è come dovrebbe essere e che risulta privo di qualcosa che un giorno deve aver posseduto. Come un «sovrano decaduto» (roi déchu), che in esilio conservi il ricordo degli antichi splendori, non può adattarsi all’idea di non possederli più ed è tormentato dalla nostalgia della dignità regale, che sente consona alla sua persona, così l’uomo, pur avendo perduto, dopo Adamo, la Verità, il Bene e la Felicità, avverte la sofferenza della loro mancanza e l’anelito al loro possesso.

Una filosofia dei limiti della filosofia

Il cristianesimo risolve i nodi insoluti della ragione

Il peccato originale spiega sia la grandezza, sia la miseria dell’uomo…

Se l’uomo non fosse mai stato corrotto, godrebbe sicuro, nella propria innocenza, della verità e della felicità. E se fosse sempre stato corrotto, non avrebbe nessuna idea né della verità né della felicità. Ma, sventurati che siamo (e molto più che se nel nostro essere non ci fosse nessun vestigio di grandezza), noi abbiamo un’idea della felicità, e non possiamo 1 Il termine “meta-filosofia” non compare nei testi di Pascal. Tuttavia, a nostro giudizio, rende bene il suo pensiero e serve a distinguere tra la filosofia che egli critica, ossia quella tradizionale dei filosofi, e la propria filosofia dell’“impotenza” della filosofia.

245

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

conseguirla; sentiamo che c’è in noi un’immagine della verità, e possediamo soltanto la menzogna: egualmente incapaci di ignorare in modo assoluto e di conoscere con assoluta certezza, tanto è manifesto che siamo vissuti in un grado di perfezione, dal quale siamo (Pensieri, 434) sventuratamente caduti! […] chi si sente infelice di non essere re, se non un re spodestato? Forse che Paolo Emilio era considerato infelice, perché non era più console? Al contrario, tutti lo stimavano fortunato di esserlo stato, perché la sua condizione non era d’esserlo sempre. Invece si giudicava infelicissimo Perseo di non essere più re, giacché la sua condizione era di esserlo sempre. (Pensieri, 409) … sia la sua perenne inquietudine

Gettando un decisivo fascio di luce sulla simultanea dignità e bassezza dell’uomo, la religione cristiana spiega, nel contempo, la perenne inquietudine e frustrazione dell’uomo, che, nato per l’infinito, in quanto ad Deum creatus, cerca vanamente nel finito la soddisfazione del proprio desiderio di felicità, dimenticando che il vuoto abissale e la carenza ontologica che porta dentro di sé possono essere colmati solo da Dio. Che mai ci gridano, dunque, quest’avidità e quest’impotenza se non che un tempo ci fu nell’uomo una vera felicità, di cui gli restano ora soltanto il segno e l’impronta affatto vuota, che esso cerca invano di colmare con tutto quanto lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti, e che non può essergli dato da nessuna, perché quell’abisso infinito può esser colmato soltanto da un oggetto infinito ed immutabile: ossia, (Pensieri, 425) da Dio stesso? Schema interattivo

ConCetti a Confronto

L’uomo in Pico della Mirandola

in Montaigne

in Pascal

è libero artefice di se stesso, capace di definire il proprio ruolo nel mondo

vive una vita incerta, instabile, limitata e dipendente dalle cose

è intreccio di miseria e grandezza, “a metà strada” nell’ordine delle cose, della conoscenza e dell’azione

può degenerare nelle cose inferiori oppure rigenerarsi in quelle superiori

deve accettare la propria «miserabile condizione», senza pretendere di essere nulla più che un uomo

può riconoscere la propria condizione paradossale, e spiegarla mediante la fede

La “ragionevolezza” del cristianesimo

246

Ma se il cristianesimo possiede la chiave esplicativa del mistero dell’uomo, significa che esso – pur non essendo un sistema “razionale”, ossia un corpo dimostrato di verità a cui si accede attraverso il solo intelletto – è tuttavia “ragionevole”, ossia conforme a ragione. Anzi, pur essendo una fede e non una filosofia, il cristianesimo è così aderente alla ragione da essere in grado di chiarire ciò che essa non chiarisce, sollecitando, da parte dell’intelletto, un’autonoma sottomissione: «La ragione non si sottometterebbe mai se non giudicasse che ci son casi in cui si deve sottomettere» (Pensieri, 270). Di conseguenza, secondo Pascal, la fede non

Capitolo 1 • Pascal

intende essere una fuga gratuita nell’irrazionale, poiché consiste nel credere in qualcosa che, pur essendo meta-razionale, cioè superiore alla ragione, risulta pur sempre l’unico modo per spiegare ciò che la ragione, con le sole sue forze, non spiega (v. “ragionevolezza” del cristianesimo).

L’uomo è un essere paradossale, poiché in lui coesistono

> grandezza («se si abbassa, lo esalto») > miseria («se si esalta, lo deprimo»)

Solo la teoria cristiana della caduta giustifica la sua condizione di «re spodestato», ossia di essere particolare che, essendo stato in rapporto con la Verità, il Bene e la Felicità, ne sente la mancanza e la nostalgia

7. La “scommessa” su Dio Per mostrare ulteriormente la “ragionevolezza” della fede, Pascal, rivolgendosi in modo particolare ai “liberi pensatori”, elabora il celebre argomento della scommessa, il quale afferma che l’uomo deve scegliere tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse; né può sottrarsi a questa scelta, giacché non scegliere è già una scelta negativa. Se la ragione non può aiutarlo in questa scelta, tanto vale che egli consideri qual è la scelta più conveniente. Si tratta di un gioco, di una scommessa, nella quale bisogna considerare da un lato la posta, dall’altro la perdita o la vincita eventuale. ➔ T2 p. 257 Chi scommette sull’esistenza di Dio, se guadagna, guadagna tutto, se perde, non perde nulla: bisogna quindi scommettere senza esitare. In altri termini, l’uomo ha interesse a scommettere su Dio, perché in caso di perdita perderà solo dei beni “finiti” (cioè, per Pascal, i piaceri mondani), mentre in caso di vincita guadagnerà quel bene infinito che è costituito da Dio e dalla beatitudine eterna. La scommessa è già ragionevole quando si tratta di una vincita finita e di poco superiore alla posta, ma essa diventa tanto più conveniente quando la vincita è infinita e infinitamente superiore alla posta. Né vale dire che l’infinita distanza tra la certezza di ciò che si scommette e l’incertezza di ciò che si può guadagnare rende uguale il bene finito che si rischia certamente a quello infinito che è incerto. Ogni giocatore azzarda con certezza per guadagnare con incertezza; e azzarda certamente il finito (poniamo 10) per guadagnare incertamente il finito (poniamo 20) senza peccare contro la ragione. In un gioco in cui vi sono uguali probabilità di vincere o di perdere, rischiare il finito per guadagnare l’infinito ha evidentemente la convenienza massima1.

La necessità di scommettere

Il nucleo dell’argomentazione

1 Questa dottrina pascaliana, soprattutto per un certo spirito di “utilità” che ne sta alla base e per l’armamentario matematico con cui risulta espressa – e che in taluni punti la rende poco chiara – non ha trovato molta accoglienza nell’ambito della cultura e della filosofia moderne. Invece è piaciuta la tesi generale per cui l’uomo, a parte eventuali calcoli di convenienza, è obbligato a “scommettere” su Dio, cioè a “decidersi” nei confronti di una divinità la cui esistenza o non-esistenza appare “problematica”.

247

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Scommettendo su Dio

> se Dio esiste si guadagna l’infinito (la beatitudine eterna)

Scommettendo contro Dio

> se Dio esiste si perde l’infinito (la beatitudine eterna)

> se Dio non esiste si perde il finito (i piaceri transeunti del mondo)

> se Dio non esiste si guadagna il finito (i piaceri transeunti del mondo)

«Dovunque ci sia l’infinito, e non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare», cioè bisogna disporsi a rischiare il finito per guadagnare l’infinito

La necessità di impegnarsi nella fede con tutto il nostro essere

Esercizi interattivi La scommessa pascaliana su Dio

Nonostante tutto, Pascal riconosce che non si può credere a comando e che, anche ammettendo il valore delle considerazioni sulla “ragionevolezza” del cristianesimo, ci si può sentire con le mani legate e la bocca muta, incapaci di credere. Ma egli dice che bisogna lavorare per convincersi, non già aumentando le prove dell’esistenza di Dio, bensì diminuendo le passioni che ostacolano la fede. Inoltre bisogna entrare nei “meccanismi” della fede, far tutto come se si credesse: prender l’acqua benedetta, mettersi in ginocchio, pregare con le labbra, far dire messe ecc. Ciò farà tacere i dubbi e indurrà l’abitudine della fede. In altri termini, Pascal crede che l’uomo non possa impegnarsi nella fede con la sola ragione, che tutt’al più lo può condurre alle soglie di essa: deve invece impegnarsi con tutto se stesso, anche nell’esteriorità delle sue abitudini e nel “meccanismo” delle sue azioni (v. vous abˆetira). Anche queste cose, infatti, fanno parte integrante dell’uomo, che non è soltanto ragione. Trovato Dio, anche la morale, secondo Pascal, diventa qualcosa di saldo, poiché i suoi precetti vengono derivati dall’“amor di Dio” e fondati su di esso.

8. Dalla ragione alla fede: il “cuore” e Dio Che il cristianesimo, spiegando alcuni dati di base della condizione umana, sia conforme alla ragione non significa tuttavia, secondo Pascal, che esso: a) sia completamente riportabile alla ragione e totalmente giustificabile per mezzo di essa; b) si fondi sulla ragione. Il cristianesimo non è del tutto riconducibile alla ragione

Circa il primo punto, Pascal sostiene: Non intendo sottomettiate a me la vostra fede senza ragione, e non pretendo di assoggettarvi con tirannia. E neppure intendo rendervi ragione di ogni cosa. (Pensieri, 430)

Anzi, per quanto riguarda la stessa dottrina del peccato originale (su cui, come si è visto, si radica gran parte dell’apologetica pascaliana), Pascal dichiara le difficoltà e perfino le “offese” alla ragione che vi sono implicite, pur ribadendo nello stesso tempo, non senza una sorta di circolo vizioso, che solo l’accettazione di tale mistero rende comprensibile il mistero dell’uomo e la scissione primordiale del suo essere: È indubbio infatti che nulla offende maggiormente la nostra ragione come il dire che il peccato del primo uomo ha reso colpevoli coloro che, essendo lontanissimi da tale origine,

248

Capitolo 1 • Pascal

sembrano incapaci di avervi parte. Una tale trasmissione ci sembra non solo impossibile, ma anche sommamente ingiusta: perché c’è nulla di più contrario alle norme della nostra miserabile giustizia come il dannare per l’eternità un bambino ancora incapace di volontà, per un peccato al quale sembrerebbe non aver avuto parte, essendo stato commesso seimila anni prima che nascesse? Certo, nulla ci urta più fortemente di questa dottrina, eppure, senza questo mistero, il più incomprensibile di tutti, noi siamo incomprensibili a noi stessi. Il nodo della nostra condizione si avvolge e si attorce in questo abisso: sicché l’uomo è più inconcepibile senza questo mistero di quanto questo mistero non sia inconcepibile per l’uomo. (Pensieri, 434)

Di conseguenza, per Pascal, tra ragione e fede non vi è solo passaggio – come vorrebbero i critici che sottolineano soprattutto i preamboli intellettuali della religione – ma anche rottura e salto, poiché la logica della fede è, per propria natura, meta-razionale, in quanto, se le cose di natura trascendono la ragione, «che dire di quelle soprannaturali?» (Pensieri, 267). Anzi, in certi casi essa è perfino contro-razionale, almeno dal punto di vista dei nostri “miserabili” lumi. E poiché la fede, nonostante la sua “ragionevolezza” di base, è, in concreto e in ultima istanza, qualcosa di fondamentalmente extra-razionale, il suo organo autentico è il cuore.

Il “salto” tra la ragione e la fede

Il cuore come organo della fede

Il cuore e non la ragione sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, e non alla ragione. (Pensieri, 278)

Ora, sebbene il cuore di cui discorre Pascal non sia qualcosa di puramente emotivo e sentimentale, esso – sia che venga inteso come specifica facoltà dell’infinito, sia come fiamma d’amore spirituale verso Dio – è pur sempre qualcosa di diverso dalla ragione e che va ben oltre il suo orizzonte: «una tal fede è nel cuore, e fa dire non già scio, bensì credo» (Pensieri, 248). Per quanto riguarda il secondo punto, non si può certo dire che la fede, secondo Pascal, sia fondata dalla ragione. Anzi, a rigor di termini, non si può neanche asserire che ne sia preparata: La fede è un dono di Dio. Non crediate che diciamo che è un dono del ragionamento.

QUESTIONE Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede?, p. 362 La fede non scaturisce dalla ragione, ma da Dio

(Pensieri, 279)

La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio.

Sintesi audio Pascal

(Pensieri, 248)

9. Ricerca umana e grazia divina La concezione della fede come puro «dono di Dio» fa sì che l’opera di Pascal risulti nel complesso ambigua. Da un lato, egli sembra dare grande importanza alla persuasione razionale degli intelletti e alla scelta della fede, al punto da delineare un’apologia del cristianesimo. Dall’altro lato, proclamando che la fede è (solo) un dono di Dio e non (anche) una conquista dell’uomo e della mente, sembra mettere in forse il valore stesso dell’impegno apologetico. Tutto ciò si connette alla sua ambigua concezione della grazia e, in fondo, ne discende. Come si è accennato nel primo paragrafo, sulla scia del modello agostiniano il filosofo francese afferma infatti che le azioni dell’uomo da un lato sono dell’uomo, in virtù del libero arbitrio che le produce, ma dall’altro sono di Dio, che, in virtù della grazia, fa sì che la volontà umana le generi. Pertanto, nonostante lo sforzo “conciliatorista” nei confronti della

L’ambiguità di fondo dell’opera pascaliana

249

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Chiesa cattolica e di Tommaso, e nonostante il desiderio di evitare il calvinismo, la posizione di Pascal sulla grazia rimane sostanzialmente legata al giansenismo, e quindi oggettivamente più vicina alle tesi protestanti. Il “Dio nascosto”

Questo spiega perché egli, nonostante sembri valorizzare la ricerca umana, di fatto l’annulli, come dimostra emblematicamente la dottrina del “Dio nascosto”, secondo la quale Dio si manifesta e si nasconde al tempo stesso, risultando, per gli uomini, non così manifesto da non poter essere negato, né così occulto da non poter essere affermato: Se il mondo esistesse per istruire l’uomo intorno a Dio, la divinità vi splenderebbe dappertutto in maniera incontestabile […]. Quel che in esso appare non indica né un’esclusione totale né una presenza manifesta della divinità, ma la presenza di un Dio che si nasconde. (Pensieri, 556)

IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Il “Dio nascosto” di Pascal nella pittura del Seicento, p. 260 La visione giansenista della fede

QUESTIONE Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede?, p. 362 La negazione dell’iniziativa umana e la perdita di senso dell’apologetica

Il rischio del misticismo fideistico

Approfondimento Pascal nella cultura moderna

250

Sottolineando l’«ambiguité» del modo di darsi di Dio, questa dottrina sembra fatta apposta per attribuire all’uomo il merito o il demerito della fede: Non è vero che tutto riveli Dio né che tutto lo nasconda. Ma è vero a un tempo ch’egli si (Pensieri, 557) nasconde a coloro che lo tentano e si rivela a coloro che lo cercano.

Tuttavia Pascal lascia intendere che i segni chiaroscuri attraverso cui Dio si manifesta, pur essendo, in linea di principio, davanti a tutti, acquistano la loro effettiva rilevanza solo per gli animi che, avendo già in sé la grazia, sono predisposti a raccoglierli. Pertanto è Dio, in ultima analisi, che, con la grazia, ci dà l’occhio per vedere e l’orecchio per udire, cioè la sensibilità per captare le sue manifestazioni, scegliendo, nel suo imperscrutabile giudizio, pochi “eletti” e lasciando nella gran “massa dei dannati” tutti gli altri: Tutto si converte in bene per gli eletti, anche le oscurità della Scrittura, perché essi le onorano in virtù delle luci divine. E tutto si converte in male per gli altri, anche le cose chiare, perché essi le bestemmiano, a cagione delle oscurità che sono loro incomprensibili. (Pensieri, 575)

Ma se l’iniziativa della fede, secondo Pascal, parte in ogni caso da Dio, l’ombra del mistero della predestinazione – che Giansenio aveva definito «il decreto eterno col quale Dio prevede e prepara le grazie e i mezzi in virtù dei quali sono certissimamente salvati coloro che saranno salvati, lasciando gli altri, con un giudizio assai giusto, nella massa della perdizione» (Augustinus, XIV) – risulta così fitta da abolire ogni libera iniziativa da parte dell’uomo. In tal modo la stessa costruzione apologetico-filosofica di Pascal, volta a “persuadere” lo scettico della “ragionevolezza” del cristianesimo e a predisporlo a esso, rischia di essere svuotata di senso. A meno di ammettere – come faranno certi ingegnosi critici di Pascal – che l’apologia conservi il suo valore anche in una rigorosa prospettiva giansenista, poiché potrebbe rientrare nei piani divini che taluni ottengano la fede tramite prove e apologie. In realtà quest’ultima supposizione, pur nella sua sottigliezza teologica, non è altro che una “ipotesi di salvataggio”, la quale mette ulteriormente a nudo l’equivocità di fondo della posizione pascaliana, che, in virtù del suo giansenismo, rischia a ogni passo di pervenire a un misticismo fideistico in cui il problema dell’uomo sparisce come tale e in cui il Pascal teologo mette praticamente a tacere il Pascal filosofo, che pure, in virtù della sua “pittura dell’esistenza”, continua a essere di gran lunga il più originale, interessante e storicamente decisivo (v. ambiguità del fideismo pascaliano).

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Capitolo 1 • Pascal

GLOSSARIO e RIEPILOGO

Pascal Senso della vita p. 236 > L’interrogativo sul “senso della vita” è il problema più importante e decisivo che si pone all’uomo: «Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa di tutto» (Pensieri, 194). Le tematiche esistenziali «c’interessano talmente, ci riguardano così profondamente, che bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di venirne in chiaro» (ibidem).

Apologetica p. 237 > Viene definita “apologetica” (dal gr. apologhía, “discorso in difesa”) la tendenza propria del filosofare pascaliano, il quale si propone di mostrare: 1. lo scacco della mentalità comune, della scienza e della filosofia di fronte al problema del senso della vita; 2. la capacità del cristianesimo di dare una risposta adeguata a tale problema. L’interlocutore privilegiato di questo filosofare apologetico è il miscredente, nella specifica figura del “libero pensatore” del XVII secolo, contro il quale Pascal si sforza di far valere le istanze del cristianesimo.

Divertissement p. 237 > Con il termine “divertissement” (dal lat. de-vertere, “volgere lontano da qualcosa”) – che viene solitamente tradotto con “distrazione”, “diversione” o “divertimento” – Pascal intende l’oblio e lo stordimento di sé nella molteplicità delle occupazioni quotidiane e degli intrattenimenti sociali. Esso rappresenta un modo per sottrarsi alla consapevolezza della nostra miseria e ai supremi interrogativi circa la vita e la morte: «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci» (Pensieri, 168). N.B. In quanto tentativo illusorio di allontanarsi dal centro del proprio essere, cioè dal problema del senso della vita, il divertimento rappresenta quindi una sorta di contraddizione differita. In altri termini, il divertimento è «una sorta di impasse esistenziale: attraverso di esso l’uomo differisce (sposta, rinvia) la soluzione della contraddizione che lo costituisce, e in questo modo né la sopprime né si pone sulla via per risolverla» (Claudio Ciancio). Limite della scienza p. 238 > Pur essendo uno scienziato, Pascal è convinto che la scienza abbia alcuni limiti strutturali. In primo luogo, la ragione è vincolata al-

l’esperienza, che ne frena e circoscrive i poteri. In secondo luogo, la scienza si scontra con l’impossibilità di dimostrare i suoi stessi principi primi. Infine, il sapere scientifico è del tutto impotente di fronte ai problemi esistenziali.

Cuore p. 239 > Il “cuore” è quella comprensione istintiva di cui l’uomo si avvale: 1. per cogliere i primi principi delle dimostrazioni: «Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i princìpi primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarne la certezza» (Pensieri, 268); 2. per captare gli aspetti più tipici e profondi dell’esistere: «Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» (ibidem, 177); 3. per rapportarsi a Dio: «Il cuore e non la ragione sente Dio» (ibidem, 278). La contrapposizione tra ragione e cuore viene espressa anche dalla celebre coppia “esprit de géométrie ed esprit de finesse” (v.).

Esprit de géométrie ed esprit de finesse p. 239 > Lo “spirito di geometria” è la ragione scientifica, che ha per oggetto le realtà esteriori o gli enti astratti della matematica e procede dimostrativamente. Lo “spirito di finezza” ha per oggetto l’uomo e si fonda sul cuore, sul sentimento e sull’intuito. N.B. Sebbene lo spirito di finezza sia indispensabile anche per cogliere i primi principi delle scienze, il suo ambito specifico è costituito dal mondo umano e dalle realtà etico-religiose.

Dimostrazioni dell’esistenza di Dio p. 240 > Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, secondo Pascal, non sono autentiche dimostrazioni, poiché convincono solo chi già crede: «– Come! non dite anche voi che il cielo e gli uccelli provano Dio? – No. – E la vostra religione non lo dice? – No: perché, sebbene ciò in un certo senso sia vero per alcune anime, alle quali Dio dona questa luce, nondimeno è falso per i più» (Pensieri, 244). Inoltre esse sono inutili e astratte: «Le prove metafisiche di Dio sono così lontane dal comune modo di pensare degli uomini e così astruse che riescono poco efficaci» (ibidem, 543). Infine, il Dio cui esse pervengono è un freddo ente di ragione, cioè un Dio «autore delle verità matematiche e dell’ordine cosmico» e non certo «un Dio di amore e di consolazione» come «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei cristiani» (ibidem, 556).

251

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Posizione mediana p. 241 > Secondo Pascal, l’uomo si trova in una posizione “mediana” sia nell’ordine delle cose, in quanto si colloca tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, anzi tra il tutto e il nulla; sia nell’ordine della conoscenza, in quanto è a metà strada tra l’ignoranza assoluta e la sapienza; sia nell’ordine pratico, in quanto aspira al bene e alla felicità, ma non è in grado di raggiungerli.

Desiderio frustrato p. 242 > Filosoficamente parlando, l’uomo è un “desiderio frustrato”, poiché desidera la verità e la felicità, ma si trova esistenzialmente impossibilitato a raggiungerle: «Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza. Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte. Siamo incapaci di non aspirare alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di certezza e di felicità» (Pensieri, 437).

Miseria e grandezza p. 243 > Nella condizione “paradossale” (v.) dell’uomo si intrecciano ambiguamente miseria e grandezza. Infatti, se nell’uomo si trova una vocazione naturale verso un ordine superiore di essere e di valore, vuol dire che in lui alberga un barlume di nobilità, che lo rende grande nonostante la sua miseria. Inoltre la coscienza stessa della propria miseria è già un segno di grandezza, come lo è la presenza del pensiero in generale: «L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma è una canna che pensa» (Pensieri, 347); «Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra, e i suoi reami non valgono il minimo tra gli spiriti, perché questo conosce tutte quelle cose, e se stesso; e i corpi, nulla» (ibidem, 793).

Paradossalità p. 243 > La “paradossalità” è il tratto caratteristico della condizione umana, nella quale non soltanto coesistono, ma addirittura si implicano coppie di contrari (quali la sapienza e l’ignoranza, il bene e il male, la grandezza e la miseria ecc.). N.B. Secondo Pascal tale paradossalità non va misconosciuta o negata, come hanno fatto i filosofi, bensì lucidamente affermata e difesa. Infatti, sostiene Pascal, è pericoloso mostrare all’uomo la sua grandezza senza la sua miseria o viceversa: «Se esso si esalta, lo deprimo; se si abbassa, lo esalto, e sempre lo contraddico, finché non comprenda che è un mostro incomprensibile» (Pensieri, 420).

Dogmatismo o scetticismo p. 243 > Quella tra “dogmatismo” e “scetticismo” è l’alternativa tipica prospettata dalla filosofia tradizionale, la quale ha cercato di assolutizzare il momento della grandezza dell’uomo

252

(dogmatismo) o quello della sua miseria (scetticismo), senza riuscire a tenere insieme i contrari che sostanziano la condizione umana e ne definiscono la paradossalità (v.).

Principi pratici p. 243 > Secondo Pascal la ragione, da sola, non è in grado di stabilire regole universali di comportamento. Tant’è che i “principi pratici” (morali e politici) cosiddetti “razionali” dipendono, a ben vedere, da fattori esterni quali la convenzione, l’abitudine, la storia, l’interesse, la forza ecc.: «Nulla si vede di giusto o d’ingiusto che non muti qualità col mutar di clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche» (Pensieri, 294). N.B. Con osservazioni di questo tipo Pascal non vuole, ovviamente, rimanere prigioniero del relativismo, bensì umiliare la ragione per far posto alla fede. In altri termini, il succo del suo discorso è che, senza il Vangelo, lo scetticismo risulta inevitabile: «Il pirronismo è nel vero: perché, in fin dei conti, prima di Gesù Cristo, gli uomini ignoravano come fossero» (ibidem, 432).

Filosofia, meta-filosofia e cristianesimo p. 245 > A differenza della mentalità comune e della scienza, la filosofia si pone i massimi problemi – e in ciò risiede la sua nobiltà umana – e tuttavia non li risolve. I suoi limiti coincidono con i limiti stessi della ragione. Di conseguenza, secondo Pascal, l’unica vera filosofia è una sorta di “meta-filosofia” (il termine non è pascaliano ma rende bene il suo pensiero) consapevole dei limiti della filosofia: «beffarsi della filosofia è filosofare davvero» (Pensieri, 4); «il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano» (ibidem, 267). Questa meta-filosofia rappresenta la cerniera che unisce ragione e religione, in quanto mette dialetticamente capo all’accettazione del cristianesimo, inteso come messaggio sovra-razionale capace di dare una risposta a quei problemi che la ragione lascia insoluti. N.B. Pur essendo sterile, la filosofia, nella prospettiva pascaliana, risulta pur sempre fondamentale, poiché lasciando irrisolti i massimi problemi, funge da stimolo a cercare le risposte altrove, e precisamente nella fede. Caduta p. 245 > Secondo Pascal, l’unica autentica religione è quella cristiana, poiché solo il cristianesimo, parlando di una “caduta” della nostra specie da una primordiale situazione paradisiaca, riesce a spiegare la condizione esistenziale di quel “mostro” che è l’uomo.

Capitolo 1 • Pascal

L’uomo è infatti un «re spodestato», che, per essere stato in rapporto con la Verità, il Bene e la Felicità, dopo averli perduti ne avverte la tormentosa nostalgia.

“Ragionevolezza” del cristianesimo p. 247 > Da quanto si è detto finora segue che il cristianesimo, pur non essendo una costruzione “razionale”, è tuttavia “ragionevole”, cioè conforme a ragione. Anzi, pur essendo una fede e non una filosofia, il nucleo del cristianesimo, secondo Pascal, è così aderente alla ragione da essere in grado di chiarire ciò che essa non chiarisce (v. la problematica della grandezza e della miseria dell’uomo), sollecitando, da parte dell’intelletto, un’autonoma sottomissione: «La ragione non si sottometterebbe mai se non giudicasse che ci son casi in cui si deve sottomettere» (Pensieri, 270). N.B. Che il cristianesimo sia “ragionevole” non implica né che esso sia riportabile totalmente alla ragione e giustificabile con mezzi razionali, né che esso si fondi sulla ragione. Infatti, secondo Pascal, tra ragione e fede non c’è solo passaggio, ma anche rottura e salto: la logica della fede è meta-razionale e talvolta addirittura contro-razionale. La fede, inoltre, è sempre un dono di Dio e non del ragionamento.

Scommessa p. 247 > Quello della “scommessa” è il famoso argomento di Pascal in favore della fede. Poiché non si può provare né che Dio esista, né che non esista, egli dimostra che è conveniente per l’uomo scommettere sull’esistenza di Dio, perché, in caso di perdita, si perderanno solo beni “finiti” (i piaceri mondani), mentre, in caso di vincita, si guadagnerà un bene infinito, cioè Dio e la beatitudine eterna. Ora, se ogni giocatore di questo mondo azzarda con certezza il finito per guadagnare con incertezza il finito, a maggior ragione deve essere disposto a rischiare la certezza del finito per l’incertezza dell’infinito.

Vous abêtira p. 248 > Pascal afferma che bisogna sforzarsi di entrare nei “meccanismi” della fede, comportandosi, almeno esteriormente, come se si credesse. Ciò, conclude il filosofo, «vi farà credere e vous abêtira» (Pensieri, 233). N.B. L’espressione usata da Pascal (che deriva dal verbo abêtir e che suona letteralmente “vi abbrutirà”, “vi istupidirà”) è risultata sconcertante. Tant’è vero che gli editori di Port-Royal non l’hanno riprodotta. Anzi, vi è stato perfino chi ha cercato di espungerla dal testo, leggendo invece “vous alestira”, che significherebbe “vi renderà pronti” (B. Gaillard). In realtà l’espressione pascaliana non intende ridurre la fede all’abbrutimento, ma si rife-

risce alla tesi secondo cui la fede deve investire non soltanto lo spirito dell’uomo, ma anche la macchina, l’automa che è nell’individuo (cfr. Pensieri, 250), cioè il complesso delle abitudini che fissano la fede stessa e contribuiscono a sottrarla al dubbio. Ecco perché Adriano Bausola preferisce tradurre: “vi renderà come una bestia” (sei, Torino 1979), avvertendo che «a parte la (voluta, peraltro) violenza del termine, il senso è chiaro nella sua accezione niente affatto brutalizzante. D’altra parte, già Montaigne aveva usato il termine, là dove diceva che bisogna, per divenire saggi, abêtir. In fondo, si tratta di farsi bête, assumendo cartesianamente che le bestie siano solo macchine; è appunto questo ciò che Pascal propone: fatevi abitudine, meccanismo, in servizio del bene» (p. 102).

Giansenismo p. 250 > Il giansenismo è la dottrina del vescovo Giansenio esposta nell’opera Augustinus. Difendendo la concezione agostiniana del peccato originale e della salvezza mediante la grazia divina, Giansenio sosteneva: 1. che il peccato originale ha privato l’uomo della libertà di volere, rendendolo incapace del bene e inclinandolo necessariamente al male; 2. che la grazia della salvezza è concessa da Dio, attraverso il sacrificio di Cristo, soltanto a pochi eletti disseminati in tutto il mondo. Giansenio contrapponeva queste tesi alla rilassatezza della morale ecclesiastica e all’impostazione dottrinale dei gesuiti, i quali, seguendo il pensiero di padre Molina, ritenevano invece che la salvezza fosse sempre a portata di ogni individuo, alla sola condizione che egli seguisse i precetti della Chiesa. Nel 1653 Innocenzo X condannò le cinque proposizioni nelle quali la Facoltà teologica di Parigi aveva sintetizzato la dottrina dell’Augustinus. In quell’occasione Arnauld e i solitari di Port-Royal (che si erano schierati in favore del giansenismo) ritennero che le proposizioni condannate non esprimessero in realtà il pensiero di Giansenio e che, pertanto, la condanna non riguardasse tale dottrina. In favore del giansenismo, tra il 1656 e il 1657 Pascal pubblicò le Lettere provinciali.

Ambiguità del fideismo pascaliano p. 250 > L’impostazione giansenistica fa sì che nell’opera di Pascal alberghi un’ambiguità di fondo. Infatti, se da un lato egli pare attribuire grande importanza alla persuasione razionale degli intelletti e alla scelta della fede, tanto da delineare un’apologetica del cristianesimo, dall’altro lato, proclamando che la fede è un dono di Dio e non anche una conquista della mente umana, sembra pregiudicare il proprio stesso impegno apologetico.

253

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

MAPPA Pascal L’UOMO

è un essere intermedio fra il tutto e il nulla, fra grandezza e miseria

Mappa interattiva

è limitato e fragile ma aspira all’infinito e alla felicità

deve accettare i limiti della propria condizione

nella fede può trovare soluzione al mistero della propria esistenza

La PROSPETTIVA GIANSENISTA e la SCOMMESSA su DIO

rigorismo morale e religioso

scommettendo sull’esistenza di Dio: • se si vince, si vince tutto • se si perde, non si perde nulla

bisogna acquisire l’abitudine alla fede aderendovi con tutto il proprio essere

l’uomo è inclinato al male dal peccato originale e può salvarsi solo in virtù della grazia divina

RAGIONE e CUORE

esprit de géometrie (ragione scientifica) studia gli oggetti fisici o gli enti matematici

254

procede dimostrativamente

esprit de finesse ha per oggetto l’uomo

si fonda sul «cuore» e quindi sull’intuizione

I TESTI CAPITOLO 1 Pascal

Ragione e cuore Tra le argomentazioni di Pascal, la distinzione tra «ragione» e «cuore» è forse quella che nel nostro secolo ha suscitato più interesse. Non senza motivo, l’apologia pascaliana delle “ragioni del cuore” è stata considerata come «la prima e più suggestiva affermazione di quella corrente anti-intellettualistica della filosofia francese, la quale ha fatto valere, di contro alla raison astratta e geometrizzante della tradizione cartesiana e illuministica, i diritti dell’intuizione, del sentimento, della raison vivante: che è quanto dire, l’esigenza di una filosofia meglio adeguata alla complessità e problematicità del reale» (P. Serini, Pascal, Einaudi, Torino 1975, pp. 238-239).

t1 >

«i prinCipi si sentono,

le proposizioni si dimostrano»

Il brano che segue chiarisce la distinzione pascaliana tra «cuore», o facoltà intuitiva, e «ragione», o facoltà discorsiva, e sottolinea come l’uomo debba ricorrere a entrambe queste facoltà per progredire nelle sue conoscenze.

2 4 6 8 10 12

282. Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In quest’ultimo modo conosciamo i principî primi; e invano il ragionamento, che non vi ha parte, cerca d’impugnarne la certezza. I pirroniani, che non mirano ad altro, vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione razionale, sappiamo di non sognare; e quell’incapacità serve solo a dimostrare la debolezza della nostra ragione, e non, come essi pretendono, l’incertezza di tutte le nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi principî – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri – è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie.) Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al

255

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

14

I TESTI

16 18 20 22 24

cuore prove dei suoi primi principi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle. Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la ragione fosse capace d’istruirci. Piacesse a Dio che, all’opposto, non ne avessimo mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento. Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l’hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza. (Pensieri, 282, trad. it. di P. Serini, Mondadori, Milano 1985)

Analisi del testo 1-3 Con il termine «cuore» (coeur) Pascal indica in generale un atto di conoscenza attraverso il quale giungiamo all’oggetto in maniera immediata e intuitiva. Il «cuore» si oppone in questo senso alla «ragione», ovvero a una forma di conoscenza discorsiva, che procede attraverso catene dimostrative. Queste prime righe del brano chiariscono tuttavia come per Pascal la conoscenza intuitiva e quella razionale non si escludano a vicenda, ma siano piuttosto complementari, dal momento che è mediante l’intuizione, o il sentimento, che vengono colti gli stessi assiomi scientifici (i «principi primi»). Si noti che il coeur è essenzialmente l’atto di conoscenza della fede e delle verità rivelate; usando il termine “cuore” anche per la conoscenza immediata dei «principi primi» (che tutti considerano certi, anche se la ragione non può dimostrarli), il filosofo sembra dunque voler in qualche modo ribadire la certezza delle stesse verità di fede. 3-15 Che l’uomo possa giungere ai «primi principi» solo attraverso l’intuizione, e non attraverso il ragionamento, è provato anche dal fatto che gli scettici (i «pirroniani») cercano invano di dimostrarne (razionalmente, o discorsivamente) la falsità. Pertanto, se l’uomo conosce alcune verità solo attraverso la facoltà intuiti-

256

va, questo non significa che non si tratti di verità, ma soltanto che la ragione non è in grado di coglierle, sebbene poi debba basarsi su di esse per «fondarvi tutta la sua attività discorsiva». Gli assiomi scientifici sono dunque certi, proprio come certe sono le dimostrazioni della ragione, ma l’uomo giunge agli uni e alle altre mediante due facoltà diverse. È bene ricordare che uno degli scopi apologetici dei Pensieri è l’affermazione della verità cristiana nei confronti degli scettici (i «pirroniani»), tra i quali Pascal annovera anche Montaigne. 16-21 La debolezza (l’«impotenza») della ragione è frequentemente posta in risalto da Pascal, il quale intende mettere in guardia contro la pretesa razionalistica di poter giudicare di tutto, comprese le verità di fede. D’altra parte, Pascal non è un irrazionalista: per questo ribadisce che l’uomo ha bisogno della ragione, dal momento che la natura lo ha dotato di pochissime conoscenze raggiungibili mediante il solo istinto o sentimento. 22-25 Senza «sentimento del cuore», anche la religione è ben poca cosa. La fede autentica non può basarsi solo sul ragionamento, perché, se così fosse, non avrebbe nulla di divino e, dunque, non potrebbe condurre l’uomo alla salvezza (che dipende solo da Dio).

Capitolo 1 • Pascal

Il pari (come comunemente è chiamato l’argomento pascaliano della scommessa) non è una dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma un’esortazione alla fede. Esso ha quindi un significato pratico, concreto, e non teorico. Non a caso, Pascal lo rivolge agli scettici, cioè a coloro che non sono né cristiani, né atei, invitandoli ad abbandonare la loro neutralità. Per fare questo, è costretto a utilizzare il linguaggio “razionale” e rigoroso del calcolo probabilistico.

t2 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26

perChé è ragionevole sCommettere sull’esistenza di dio

I TESTI

L’argomento della scommessa

Nel testo che segue sono riconoscibili due sezioni principali: una prima parte in cui è esposto l’argomento della “scommessa”, e una seconda parte in cui Pascal si rivolge a chi, ormai convinto della ragionevolezza della scelta di scommettere su Dio, non riesca tuttavia ad abbracciare la fede con il «sentimento del cuore». A costoro il filosofo suggerisce di comportarsi, meccanicamente, come se credessero, in attesa di ricevere realmente da Dio il dono della fede autentica.

233. Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: «Dio esiste o no?». Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla. «No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutti e due in errore: l’unico partito giusto è di non scommettere punto». Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v’interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l’errore e l’infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste. «Ammirevole! Sì, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo». Vediamo. Siccome c’è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c’è eguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c’è un’eternità di vita e di beatitudine. Stando così le cose, quand’anche ci fosse un’infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pur sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un’infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un’infinità di vita infinitamen-

257

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

28

I TESTI

30 32 34 36 38 40 42

te beata. Ma qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l’infinito, e non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare: bisogna dar tutto. […] «Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?». È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l’aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall’incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire messe ecc. In maniera (Pensieri, 233, cit.) del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi abbrutirà.

Analisi del testo 1-5 Riguardo all’esistenza di Dio, la ragione non può affermare nulla, non potendo dimostrare né che esista, né che non esista. Dal momento che riguarda l’infinito, ovvero una realtà inattingibile per l’uomo, la decisione su Dio è quindi come una “partita”, o come una “scommessa”, che l’uomo è costretto a giocare nella totale mancanza di elementi utili per prendere una posizione piuttosto che l’altra. 6-17 La soluzione scettica, cioè l’epoché o la sospensione del giudizio, non è ammissibile, perché il non scegliere è già una scelta. Se dunque bisogna scommettere, la ragione suggerisce di assumere una prospettiva utilitaristica e valutare quale sia la “posta in gioco”. Ora, poiché, qualunque sia l’esito della partita, la ragione o la conoscenza non ne ricaverà alcun danno, bisogna piuttosto considerare «il guadagno e la perdita» nell’ambito della «beatitudine». E qui la situazione è differente, perché, nel caso in cui si vinca, si vince tutto, cioè la vita eterna, mentre, nel caso in cui si perda, non si perde nulla, perché nulla sono i beni mondani rispetto al bene infinito della vita eterna.

258

18-31 Pascal rafforza il suo argomento mediante un vero e proprio “calcolo” dell’eventuale guadagno in proporzione al rischio. Ora, la perdita di una vita (la propria) sarebbe già un rischio tollerabile rispetto alla possibilità di guadagnarne due, e a maggior ragione rispetto alla possibilità di guadagnarne tre. Ma, scommettendo su Dio, non si parla di due, né di tre, ma di «un’eternità di vita e di beatitudine» e quindi è senz’altro ragionevole rischiare. Anche nell’ipotesi in cui ci fossero infinite probabilità non favorevoli, contro una sola favorevole, sarebbe comunque conveniente scommettere sull’esistenza di Dio, considerata l’infinità dell’eventuale guadagno. Di fatto, però, le possibilità di perdita sono finite e ciò che si rischia è pure finito, mentre infinito è il guadagno in caso di vincita; quindi non bisogna esitare, bisogna «dar tutto»: rischiare tutto ciò che si ha (la propria vita materiale finita) per avere la possibilità di guadagnare Dio e l’infinito. 32-43 La risposta dell’immaginario interlocutore è positiva («Sta bene», r. 32), ma solo parzialmente: una

>

persona che sia «forzata a scommettere», ovvero che sia indotta a scegliere di scommettere su Dio dalla considerazione della ragionevolezza di una tale scelta, ma che tuttavia sia fatta «in modo da non poter credere», cioè da non riuscire ad aderire alla fede nel profondo del proprio cuore, come dovrà comportarsi? Pascal risponde indicando un «cammino», che bisogna seguire, almeno inizialmente, anche senza essere convinti che sia quello giusto. Si tratta di una via che altri hanno già percorso, passando dall’incredulità alla fede. Un tale «metodo» consiste nel fare ogni cosa come se si credesse (rr. 41-42): in maniera del tutto naturale questo atteggiamento porterà alla fede e «abbrutirà» chi ha scommesso su Dio. L’espressione originale utilizzata da Pascal è vous abêtira (da bête, “bestia” o “bruto”). Si trat-

ta di un’espressione molto forte, che gli editori di PortRoyal, nel 1668, preferirono omettere. Compresa meglio, tuttavia, la frase risulta del tutto accettabile: come chiarisce Paolo Serini, «s’abêtir […] ha qui il significato di attuare in sé le condizioni soggettive della fede par la bête (attraverso la bestia), ossia par la machine (attraverso la macchina, cfr. il frammento 246), facendo contrarre non solo al nostro corpo, ma anche alla nostra prassi, mediante la pratica letterale, abiti non più contrastanti, ma docili alla disciplina morale della fede» (in B. Pascal, Pensieri, cit., p. 164). Si tratta, in altre parole, di fare in modo che la fede, non riguardando ancora lo spirito dell’uomo, lo raggiunga gradualmente, passando, per così dire, attraverso le azioni “meccaniche” del corpo.

I TESTI

Capitolo 1 • Pascal

259

IL CONCETTO E L’IMMAGINE Il “Dio nascosto” di Pascal nella pittura del Seicento La «visione tragica» di Pascal In un fortunato saggio del 1955, intitolato Il dio nascosto, il filosofo francese Lucien Goldmann (10231970) osserva come la filosofia di Blaise Pascal sia dominata da una «visione tragica», ovvero dall’immagine di un Dio che si “nasconde”, cioè che interpella l’uomo, negandogli però ogni indizio della sua esistenza e lasciandolo drammaticamente solo. Il Dio cristiano, infatti, sfugge alla comprensione umana e, diversamente dagli idoli pagani, non è rappresentabile: è dunque un Dio “assente”, nel

«Non guardarmi!» Alcuni grandi maestri della pittura francese del Seicento sembrano raccogliere la sfida di Pascal. Il loro tentativo è infatti quello di rendere presente e percepibile, mediante la raffigurazione artistica, ciò che presente e percepibile non è, dal momento che ap-

senso che non si offre all’evidenza della ragione e chiama piuttosto in causa l’incertezza della fede. Inafferrabile per la ragione umana corrotta dal peccato, il Dio di Pascal non lascia tracce neanche nella natura. Per la scienza cartesiana e moderna, infatti, tutto è spiegabile in termini meccanicistici e Dio finisce per dare solo un «colpetto» al mondo, il quale, una volta messo in moto, poi funziona da sé. In questa desolante e fredda “macchina” non c’è posto per il calore di un Dio che salva e ama: «Il silenzio eterno di questi spazi infiniti – scrive Pascal – mi sgomenta» (Pensieri, 206). È questa la ragione della “tragedia” dell’epoca moderna. partiene al dominio dell’Invisibile. È il caso, ad esempio, di Laurent de La Hyre (1606-1656), autore de L’apparizione del Cristo alla Maddalena (1656). Conosciuta anche con il titolo Noli me tangere (Non toccarmi!), l’opera raffigura l’episodio narrato nel Vangelo di Giovanni (20, 11-18) in cui Maria di Mag-

Laurent de La Hyre, L’apparizione del Cristo alla Maddalena, 1656, pittura, Grenoble, Musée des Beaux Arts

260

VERSO LE COMPETENZE w Individuare i nessi tra la filosofia, le altre forme del sapere e gli altri linguaggi

dala, piangente presso il sepolcro di Gesù, incontra il Cristo risorto, il quale, una volta riconosciuto, frena lo slancio della donna. Nell’interpretazione di La Hyre, il Cristo copre gli occhi della Maddalena con la mano, quasi per dirle «Non guardarmi!» anziché «Non toccarmi!». Il senso del dipinto è dunque chiaro: Dio non si può catturare con i sensi e il vero credente è colui che “crede senza aver visto”. Il dipinto richiama anche il mistero della resurrezione (che resta affidato all’insicura fragilità della fede), rappresentandolo nell’angelo che compare in secondo piano, seduto sul sepolcro vuoto e avvolto di luce sebbene nascosto nel buio della roccia. Anche l’abito di Gesù è particolare: non è rosso vivo (il calore della carità e del martirio, secondo la tradizione iconografica) ma blu, come se l’artista avesse voluto privare il Risorto di ogni altisonante spettacolarità. Il Cristo, poi, non mostra le stimmate (il segno tangibile della divinità): l’aspetto “sensibile” dell’evento di fede è come nascosto, trattenuto in una dimensione latente, intima, enigmatica.

Gli interpreti hanno visto in questo dipinto una “apologia dell’oscurità”, un’estetica e una poetica della meditazione notturna, che richiama la presenza di un Dio che si svela (e nasconde) nella fiamma vacillante della candela (e nel suo riflesso). È come se La Tour volesse rappresentare sulla tela l’idea pascaliana della “rivelazione” divina (re-velatio) come manifestazione e insieme nascondimento (velatio), l’idea di una divinità che si svela per speculum in aenigmate (“come in uno specchio e in un’immagine”, secondo un’espressione di san Paolo), e scegliesse di farlo dando forma e colore a una serie di ossimori: “presenza assente”, “luce tenebrosa”, “chiara oscurità”.

La Maddalena penitente La figura della Maddalena, “amante penitente” di un Dio che si nasconde, ricorre spesso nei quadri dell’epoca. Particolarmente suggestivi sono in questo senso i dipinti di Georges de La Tour (15931652), artista francese fortemente influenzato dall’opera di Caravaggio, che la ritrae in più versioni. La Maddalena penitente qui riprodotta risale al 1936 e raffigura una donna dalla bellezza tersa e semplice, appena richiamata dai lunghi capelli e dalle carni candide e lisce. Con pensosa malinconia, la donna volge lo sguardo alla luce di una candela e tiene le mani incrociate su un teschio appoggiato in grembo, emblema della vanità del mondo ma anche della speranza nella resurrezione. Georges de La Tour, La Maddalena penitente, 1636, olio su tela, New York, The Metropolitan Museum of Art

261

CAPITOLO 2

Spinoza 1. Un’esistenza appartata e dedita al sapere Tra i grandi sistemi del Seicento che celebrano il trionfo della ragione cartesiana, il più notevole è senz’altro quello di Baruch (Benedetto) Spinoza. L’abbandono dell’ebraismo e la scomunica

Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia ebraica che era stata costretta ad abbandonare la Spagna per l’intolleranza religiosa di quel paese. Fu educato nella comunità israelitica di Amsterdam, ma nel 1656 venne da essa scomunicato ed espulso per «eresie pratiche ed insegnate». Ecco un passo della “maledizione”: Col giudizio degli angeli e la sentenza de’ santi, noi dichiariamo Baruch de Espinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità, al cospetto dei sacri libri, nei quali sono scritti i seicento e trenta precetti, pronunciando contro di lui la maledizione con cui Eliseo colpì i fanciulli e tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia egli maledetto quando si corica, e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai più perdonarlo, né riconoscerlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribù d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge; e possiate tutti voi, che siete obbedienti al Signore Iddio nostro, esser salvi fin d’ora. Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dimorare sotto lo stesso suo tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti, e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno.

Una vita modesta e tranquilla

262

Qualche anno più tardi egli abbandonò Amsterdam e si stabilì dapprima nel villaggio di Rijnsburg, presso Leida, e poi all’Aia, dove passò il resto della sua vita. In ottemperanza al precetto rabbinico che prescrive a ogni uomo di imparare un lavoro manuale, egli aveva appreso l’arte di fabbricare e pulire lenti per strumenti ottici. Questo mestiere lo mise in grado di sopperire sufficientemente ai suoi limitati bisogni e gli diede una certa fama di ottico che precedette la sua celebrità di filosofo. Di salute cagionevole, geloso della sua indi-

Capitolo 2 • Spinoza

pendenza spirituale, Spinoza condusse una vita modesta e tranquilla. Quando un suo scolaro e amico, Simone De Vries, volle fargli un dono di duemila fiorini, egli rifiutò; e quando più tardi lo stesso De Vries volle assicurargli una pensione di 500 fiorini annui, Spinoza affermò che erano troppi e non volle accettarne più di 300. La prima opera a cui Spinoza attese fu il Trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità (noto con il nome di Breve trattato) che andò perduto e fu ritrovato e pubblicato verso la metà dell’Ottocento. Nel 1663 uscì l’unico scritto di Spinoza al quale egli diede il suo nome, Principi di filosofia cartesiana. Pensieri metafisici. Lo scritto era in origine un sommario dei Principi di filosofia di Cartesio, che Spinoza aveva composto per un suo scolaro; su richiesta di alcuni suoi amici, fu pubblicato con l’appendice dei Pensieri metafisici, nei quali venivano accennate le divergenze dell’autore da Cartesio. Nel 1670 comparve anonimo il Trattato teologicopolitico, che era destinato a dimostrare che «in una libera comunità dovrebbe essere lecito ad ognuno pensare quello che vuole e dire ciò che pensa». Il libro fu subito condannato dalla Chiesa protestante e dalla Chiesa cattolica e Spinoza dovette impedire la pubblicazione di una traduzione olandese per evitare che fosse proibito in Olanda. Da anni egli stava lavorando alla sua opera fondamentale, l’Ethica ordine geometrico demonstrata (Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico), che nel 1674 era terminata e cominciava a circolare manoscritta nella cerchia dei suoi amici. Spinoza ne rinviò la pubblicazione, per evitarne la condanna; sicché l’opera fu data alle stampe solo dopo la sua morte, nel 1677, in un volume di Opere postume che comprendeva, oltre l’Etica, un Trattato politico, un Trattato sull’emendazione dell’intelletto, entrambi incompiuti, e un certo numero di Lettere. Solo molto più tardi (1852) venne trovato e pubblicato il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità nella traduzione olandese. Spinoza morì a soli 44 anni, il 21 febbraio 1677.

Gli scritti

Le opere pubblicate postume

2. Le fonti e il “carattere” del sistema Nel pensiero di Spinoza – la cui tesi centrale è l’identificazione panteistica di Dio con la Natura – convergono temi e motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate. Fin dall’Ottocento, la critica ha individuato come fonti principali: ■■■ la teologia giudaico-cristiana; ■■■ la filosofia neoplatonico-naturalistica del Rinascimento; ■■■ il razionalismo cartesiano. Ogni tentativo di “ridurre” Spinoza alle sue fonti o di distinguere “fasi” evolutive del suo sistema si è però mostrato, finora, fallimentare. Segno che lo spinozismo nasce probabilmente da un nucleo di fondo che, pur nutrendosi di fonti diverse, le supera criticamente in un’intuizione originale del mondo, la quale, sebbene sviluppandosi e arricchendosi nel tempo, rimane sostanzialmente unitaria. Questo punto di vista, rigorosamente inteso, esclude la possibilità di privilegiare una fonte a scapito di altre, com’è spesso avvenuto nella critica, che ha di volta in volta assolutizzato la componente rinascimentale, quella cartesiana, quella scolastica e, soprattutto recentemente, quella cabalistico-teosofica, dimenticando che nello spinozismo convergono suggestioni diverse, e tutte importanti, e che a quelle già cita-

L’impossibilità di ridurre lo spinozismo alle sue fonti

263

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

te vanno aggiunte, ad esempio, le influenze della filosofia ellenistica, del pensiero arabo e di Hobbes. Il rapporto con la rivoluzione scientifica

Il primo esplicito rigetto della tradizione biblica e cristiana

A questa serie “aperta” di influenze bisogna inoltre aggiungere la rivoluzione scientifica, che, pur non costituendo una fonte in senso stretto (e questo spiega perché talora sia stata trascurata o ignorata), rappresenta il retroterra mentale e culturale indispensabile per comprendere il concetto spinoziano del Dio-Natura. Infatti, come vedremo, la caratteristica di base del pensiero di Spinoza è la sintesi che esso realizza fra la tradizionale visione metafisicoteologica del mondo e gli esiti della nuova scienza. L’idea che rende possibile questa originale fusione è proprio il concetto di Dio come ordine geometrico del mondo, che da un lato, per quanto concerne le sue implicanze teologiche, riporta alle grandi metafisiche e teologie dell’Occidente, e dall’altro, per quanto riguarda le sue valenze naturalistico-matematiche, richiama il nuovo modo scientifico di intendere il reale. Un’altra caratteristica storica essenziale del pensiero di Spinoza, che forse andrebbe maggiormente sottolineata, è il suo rapporto con la civiltà cristiana europea. Con questo filosofo l’Occidente cessa, dopo tanti secoli, di essere soltanto cristiano. Infatti Spinoza è il primo autore dell’età moderna con cui la cultura “ufficiale” occidentale elabora un pensiero uni-

1620

Eventi storici

1630

1623 Maffeo Barberini è papa Urbano VIII

1640 1633 Galilei è processato e costretto ad abiurare

1650 1642 In Inghilterra inizia la guerra civile

1648 Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni 1649 Carlo I Stuart decapitato; abolita la monarchia

1632 Baruch Spinoza nasce ad Amsterdam

Vita di Spinoza

Filosofia e Scienza

Arte e Letteratura

264

1639 Inizia gli studi presso la scuola della comunità giudaico-portoghese

1620 Bacone: Novum Organum

1628 Harvey scopre la circolazione sanguigna 1625 Grozio: Il diritto della guerra e della pace

1622 Bernini: Apollo e Dafne

1628-1629 Velasquez: Trionfo di Bacco

1637 Descartes: Discorso sul metodo 1632 Galilei: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (subito messo all’indice) 1632 Rembrandt: Lezione di anatomia del dottor Tulp

1642 Hobbes: De cive 1644 Torricelli dimostra l’esistenza del vuoto 1642 Rembrandt: Ronda di notte 1644 Milton: Areopagitica

Capitolo 2 • Spinoza

versale che sintetizza motivi greci, latini, ebrei, cristiani, arabi ecc., e il primo filosofo con cui avviene l’esplicito rigetto della concezione biblico-cristiana di Dio, del mondo e dell’uomo, che fino a quel momento era stata sostanzialmente presupposta da tutti gli studiosi. E ciò rappresenta un evento le cui conseguenze oggettive sono di grande importanza storica. Quanto si è detto mostra anche come Spinoza non sia affatto, secondo una certa immagine romantica che ne è stata data, un “genio solitario” avulso dai suoi tempi e tutto preso dalle sue speculazioni metafisiche. Legato indubitabilmente al passato, ma ancorato senz’altro al presente, e per certi aspetti avveniristicamente proiettato verso il futuro, egli si inserisce pienamente – come del resto rivela il suo epistolario – nel dialogo della cultura moderna, di cui il suo pensiero costituisce uno dei nodi essenziali. Nel contempo Spinoza appare saldamente inserito nel contesto politico e culturale di quella civiltà olandese del “secolo d’oro” che fu non solo l’isola europea della tolleranza religiosa, ma anche la terra d’elezione di una borghesia commerciale e marinara della cui mentalità aperta e attiva l’etica e la politica razionalistica e utilitaristica del filosofo rappresentano, in parte, significativi riflessi.

1650

1660 1652 Prima guerra anglo-olandese

1670

1660 In Inghilterra restaurata la monarchia con Carlo II Stuart

1653 Innocenzo X condanna le 5 proposizioni che condensano il giansenismo

1656-1657 Pascal: Lettere provinciali

I legami con la civiltà olandese

1680 1672 Terza guerra anglo-olandese

1679 In Inghilterra promulgato l’Habeas Corpus

1665 Seconda guerra anglo-olandese

1654 1660 Morte del padre Si trasferisce a Rijnsburg, presso Leida 1656 1663 Scomunicato dalla comunità israelitica, si avvicina Principi di filosofia cartesiana. Pensieri metafisici; all’ambiente cristiano si trasferisce a Voorburg, 1658-1659 Compone il Trattato presso L’Aia sull’emendazione dell’intelletto 1651 Hobbes: Leviatano

Il rapporto con la cultura moderna

1662 In Inghilterra nasce l’accademia scientifica Royal Society

1670 1674 Esce anonimo Termina la stesura dell’Etica il Trattato teologico-politico 1677 All’Aia, il 21 febbraio, Spinoza muore; 1676 nello stesso anno viene Compone il pubblicato un volume Trattato politico di Opere postume

1669 Pascal: Pensieri (postumi)

1667 Milton: Il paradiso perduto

1670 ca. Giordano: Gesù tra i dottori

1677 Racine: Fedra 1673 Molière: Il malato immaginario

265

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

3. La filosofia come catarsi esistenziale e intellettuale Nel 1661 Spinoza completa il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, che è stato considerato dai critici come una sorta di “Discorso sul metodo” spinoziano, parallelo a quello di Cartesio. La filosofia come strumento di salvezza

La ricerca del bene autentico

In realtà, in questo scritto, Spinoza rivela una concezione della filosofia come via verso la salvezza esistenziale che va ben oltre le preoccupazioni prevalentemente metodologichegnoseologiche di Cartesio e che lo avvicina a certa tradizione filosofico-religiosa, dai pensatori dell’ellenismo ad Agostino. Come appare dall’introduzione al Trattato – che è la parte più bella dell’opera, nonché una delle gemme della letteratura filosofica di tutti i tempi – lo spinozismo nasce da una delusione di fondo nei confronti dei comuni valori della vita e si alimenta della ricerca di un bene vero, capace di dare un significato all’esistenza e di colmare la sete umana di felicità: Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che occorrono nella vita comune sono vane e futili, e dopo che ebbi visto che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, stabilii finalmente di cercare se non si desse qualcosa che fosse un vero bene, capace di comunicarsi a noi e da cui soltanto, abbandonate tutte le altre cose, l’animo fosse mosso.

La condanna dei beni finiti, in quanto assolutizzati

266

Con una rapida quanto incisiva analisi dei beni universalmente agognati dagli uomini – le ricchezze, gli onori e i piaceri dei sensi – Spinoza fa comprendere chiaramente come essi siano “vani” perché: ■■■ non appagano veramente l’animo e i suoi bisogni profondi; ■■■ sono transeunti ed esteriori; ■■■ generano per lo più inquietudini e inconvenienti vari. Eppure, nonostante questa loro natura ingannevole – la consapevolezza della quale si identifica con l’illuminazione che spinge l’uomo verso una nuova esistenza e, quindi, verso la filosofia – essi hanno la forza di incatenare la mente, oscurandone le facoltà e ostacolando la ricerca di valori superiori. Per quanto riguarda la «libidine», ad esempio, «l’anima è presa da essa come se si trattasse di qualche bene ed è impedita completamente di pensare a qualche altro bene. Ma dopo la fruizione dei piaceri dei sensi, segue una somma tristezza, la quale, se non annienta la mente, tuttavia la perturba e la rende ottusa». Ancora, per quanto concerne l’onore, «per ottenerlo si deve necessariamente condurre la vita secondo le opinioni altrui, sfuggendo ciò che generalmente si sfugge e cercando ciò che generalmente si cerca». Infine, per ciò che attiene alle ricchezze, vi sono «molti esempi di coloro che hanno sopportato la persecuzione sino alla morte […] e anche di coloro che, per procacciarsele, si esposero a tanti pericoli da scontare la pena della loro stoltezza con la vita». Tuttavia Spinoza non intende colpire i beni comuni in quanto tali, ma solo in quanto scambiati per il sommo bene e, di conseguenza, in quanto impedimenti al raggiungimento di esso. In altre parole, il filosofo non condanna i beni finiti dell’esistenza, ma la loro assolu-

Capitolo 2 • Spinoza

tizzazione e la loro quotidiana trasformazione da mezzi in fini. Pertanto l’ascesi di Spinoza (presentata in chiave autobiografica, ma proposta a tutti) non implica un rifiuto totale dei valori comuni, ma soltanto una loro relativizzazione in vista di qualcosa di più alto: vidi che l’acquisizione del denaro, la libidine e la gloria tanto più movevano l’animo quanto più venivano cercate per sé e non come mezzi in vista di qualche altra cosa. Cercate come mezzi, sono capaci di misura e possono non nuocere, anzi, come a suo luogo dimostrerò, possono essere, al fine per cui si cercano, anche utili.

Ora, il modello di bene che Spinoza ha in mente e che vuole inseguire con tutto se stesso, a costo di lasciare il certo (i beni volgari) per l’incerto (l’ipotetica perfezione ideale), deve essere tale da poter soddisfare appieno l’animo, procurandogli l’agognata serenità e letizia. Ma come aveva già insegnato Agostino, teso a un’analoga ricerca della realizzazione autentica dell’uomo, l’unico bene capace di “far riposare” l’animo e di curare in profondità la sua inquietudine è meta-temporale e meta-finito: «l’amore per la cosa eterna ed infinita – scrive Spinoza – riempie l’animo di pura letizia e lo rende immune da ogni tristezza», poiché rende la mente beata non di una gioia passeggera, ma di una felicità stabile e ferma, come l’essere che ne costituisce l’oggetto. Tuttavia, mentre per i filosofi cristiani la «cosa eterna ed infinita» si identifica con Dio e la gioia suprema con il suo raggiungimento celeste, per Spinoza l’infinito e l’eterno si identificano con il cosmo (panteismo) e la gioia suprema con «l’unione della mente con la natura». E questo traguardo di «beatitudine», di cui nei prossimi paragrafi vedremo i caratteri concreti, viene presentato da Spinoza in chiave non solo terrena, ma anche comunitaria (e non individualistica): nell’introduzione al Trattato, egli dichiara infatti esplicitamente: «appartiene alla mia felicità fare in modo che gli altri comprendano le cose come le comprendo io».

La ricerca dell’eterno e dell’infinito

L’esito panteistico e la sua chiave comunitaria

4 La metafisica* Il metodo geometrico Il capolavoro di Spinoza, l’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico è una sorta di enciclopedia delle scienze filosofiche che tratta di vari problemi: metafisici, gnoseologici, antropologici, psicologici, morali ecc., con particolare attenzione, come suggerisce il titolo, all’etica. L’opera è suddivisa in cinque parti, la prima delle quali è dedicata a temi di ambito metafisico-teologico. Il metodo seguito da Spinoza, anche questo evidenziato dal titolo, è di tipo geometrico: ispirandosi agli Elementi di Euclide di Alessandria, il filosofo si serve infatti di un procedimento espositivo che si scandisce secondo definizioni, assiomi, proposizioni (= teoremi), dimostrazioni, corollari e scolii (= delucidazioni).

*

L’Etica

La scelta espositiva di Spinoza e i suoi limiti

Questo paragrafo è stato rivisto e ampliato da Giovanni Fornero e Giancarlo Burghi.

267

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Gli studiosi si sono chiesti molte volte perché Spinoza abbia scelto questo metodo per trattare i massimi problemi della filosofia. Tra le molte risposte possibili le più plausibili sono probabilmente le seguenti: ■■■ Spinoza era influenzato dalla moda matematizzante dell’epoca, che perseguiva l’ideale di un sapere rigoroso e universalmente valido; ■■■ Spinoza era un ammiratore delle matematiche e vedeva nella trattazione geometrica, come in parte nel latino, una garanzia di precisione e di sinteticità espositiva, nonché di distacco emotivo nei confronti dell’argomento trattato; ■■■ Spinoza era convinto (come vedremo meglio più avanti) che il reale costituisse una struttura necessaria, di tipo geometrico, con tutte le cose logicamente concatenate tra loro e quindi “deducibili” sistematicamente l’una dall’altra. Tuttavia, in generale, gli interpreti sono apparsi poco entusiasti del geometrismo filosofico spinoziano e lo hanno per lo più considerato come una sorta di “camicia di forza” imposta a un contenuto refrattario, con il risultato di rendere spesso più difficile la lettura e incompleta l’esposizione.

Il concetto di sostanza Il concetto fondamentale da cui Spinoza parte per dedurre tutto il sistema del sapere metafisico è quello di sostanza. La concezione tradizionale

La concezione cartesiana

La definizione spinoziana

268

Nella tradizione greco-medievale, per “sostanza” si intendeva sia la forma, cioè l’essenza necessaria di una cosa, sia (aristotelicamente) il cosiddetto “sinolo”, ossia l’individuo concreto esistente in cui essa è incarnata, e si considerava il mondo come un insieme di sostanze gerarchicamente ordinate. Cartesio, insistendo sull’autonomia e sull’autosussistenza della sostanza (la quale, a differenza degli accidenti, esiste di per sé), aveva finito per riferirla non più agli individui, bensì a Dio, inteso come realtà originaria e autosufficiente per eccellenza, che, essendo causa sui (causa di sé), non riceve l’esistenza da altro. Tuttavia Cartesio non era stato completamente fedele a se stesso, poiché accanto a Dio aveva ammesso, come sostanze seconde o derivate, la res extensa e la res cogitans, intese come due realtà che per esistere hanno bisogno unicamente di Dio. L’ambiguità cartesiana era dunque evidente: se da un lato la sostanza era definita come una cosa che per esistere non ha bisogno che di se medesima, dall’altro lato comprendeva realtà (il pensiero e l’estensione) che per esistere hanno bisogno di un’altra sostanza (Dio). Andando oltre Cartesio, Spinoza si propone dunque di sviluppare con la massima coerenza tutte le implicanze logiche della nozione di sostanza. Egli intende per sostanza «ciò che è in sé e per sé si concepisce, vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato» (Etica, I, def. III). ■■■ Con la prima parte della formula («è in sé») Spinoza intende dire che la sostanza, essendo da sé (in sé = da sé), deve la propria esistenza unicamente a se stessa ed è quindi una realtà autosussistente e autosufficiente, che per esistere non ha bisogno di altri esseri. ■■■ Con la seconda parte della formula («per sé si concepisce») intende affermare che la nozione di sostanza, essendo concepibile soltanto per mezzo di se medesima, rappresenta un concetto che per essere pensato non ha bisogno di altri concetti.

Capitolo 2 • Spinoza

Pertanto la sostanza gode di una totale autonomia ontologica e concettuale, poiché si identifica con una realtà che non presuppone l’esistenza di alcuna altra realtà, ma è anzi presupposta da ogni altra possibile realtà, e con un concetto che non presuppone alcun altro concetto, ma è anzi presupposto da ogni altro possibile concetto. Oltre che di sostanza, Spinoza, come vedremo analiticamente tra poco (v. “Attributi e modi”, p. 270), parla anche di «attributi» (= le proprietà essenziali della sostanza) e di «modi» (= i modi di essere o le affezioni della sostanza).

TAVOLA ROTONDA Dalla sostanza delle cose al soggetto del mondo, vol. 2B

Le proprietà della sostanza e la sua unicità Poste queste premesse, dalla definizione della sostanza come «ciò che è in sé e per sé si concepisce» Spinoza deriva una serie di proprietà di base che la caratterizzano: ■■■ la sostanza è increata (def. I), in quanto, essendo, per natura, causa di sé (causa sui), cioè un ente «la cui essenza implica l’esistenza», non ha bisogno di altro per esistere; ■■■ la sostanza è eterna, perché essa possiede, come sua nota costitutiva, l’esistenza, che non riceve da altro: «intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della sola definizione di una cosa eterna» (def. VIII); ■■■ la sostanza è unica, perché «nella natura non si possono dare due o più sostanze della medesima natura ossia del medesimo attributo» (prop. 5). Spinoza ragiona per assurdo: se ci fossero più sostanze della medesima natura, esse si differenzierebbero o per avere attributi diversi o per avere modi diversi. Ma se si distinguessero soltanto per la diversità degli attributi, si ammetterebbe, per ciò stesso, che «non esiste se non una sola sostanza del medesimo attributo [non dari, nisi unam eiusdem attributi]». Viceversa, se si distinguessero per la diversità delle affezioni, poiché la sostanza è per natura anteriore alle sue affezioni, si dovrebbe ammettere che la diversità delle affezioni non tocca la sostanza in quanto tale, la quale non può quindi essere distinta da un’altra soltanto per le affezioni1; ■■■ la sostanza è infinita, perché se fosse finita, «dovrebbe essere limitata da un’altra della medesima natura, la quale a sua volta dovrebbe esistere necessariamente» (prop. 8). Ma in tal modo esisterebbero due sostanze di un medesimo attributo, il che (per la prop. 5) è assurdo. Inoltre la sostanza è infinita nel senso che la sua essenza non ha limiti e consta di infiniti attributi (v. proprietà di base della sostanza). Questa sostanza increata, eterna, infinita, unica (e quindi anche indivisibile) non può essere che Dio, ovvero quell’Assoluto di cui hanno sempre parlato le filosofie e le religioni, e della cui esistenza Spinoza è più certo di quanto lo sia dell’esistenza di qualunque altra realtà2. Così, mentre gli empiristi prendono le mosse dalla certezza delle cose sensibili (v. unità 5) e Cartesio dalla certezza del soggetto che pensa, come principio del sapere Spinoza assume Dio, la cui esistenza si impone alla ragione come verità evidente: per questo la lunga sezione con cui si apre l’Etica è intitolata Dio (De Deo).

Le proprietà di fondo della sostanza

Esercizi interattivi La sostanza

La sostanza è Dio e non può non esistere

1 Come è stato osservato, Spinoza dimostra soltanto che non possono esistere sostanze dello stesso attributo, e non già che non possano esistere sostanze di attributi diversi. Anzi, su questo punto egli tace del tutto, facendosi forza, probabilmente, del fatto che due sostanze aventi attributi diversi avrebbero anche una diversa natura e quindi non avrebbero nulla in comune tra loro, risultando logicamente impossibili. 2 Per evidenziare meglio il carattere assoluto e divino dell’unica Sostanza ammessa da Spinoza, useremo d’ora in poi l’iniziale maiuscola.

269

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Dell’esistenza di Dio Spinoza accetta le prove tradizionali: ■■■ pensare a Dio significa pensare a una realtà che, avendo in sé la propria ragion d’essere, non può non esistere (prova ontologica o a priori); ■■■ «noi esistiamo in noi o in un’altra cosa che esiste necessariamente» (Etica, I, prop. 11): poiché non siamo causa della nostra esistenza, deve esistere un ente necessario (Dio o Sostanza) che, avendo in sé la causa del proprio esistere, sia pure la causa degli esseri contingenti (prova a posteriori). Deus sive Natura: il panteismo spinoziano

Fin qui sembra che Spinoza, rispetto ai pensatori precedenti, non sia poi così originale. In realtà, egli si stacca nettamente da gran parte della metafisica occidentale, e in particolare dal filone ebraico-cristiano, quando afferma che Dio e il mondo non sono due sostanze separate, ma la stessa sostanza. L’identificazione della Sostanza con Dio implica infatti che Egli non sia “esterno” al mondo creato, ma coincida con quell’unica, assoluta e infinita realtà che è la Natura: Deus sive Natura, dice Spinoza, cioè “Dio ovvero la Natura”. Questo principio-chiave del pensiero spinoziano si fonda, di fatto, sulla sua concezione dell’unicità della Sostanza. Infatti, se la Sostanza è unica, essa sarà come una circonferenza infinita che ha tutto dentro di sé e nulla fuori di sé, per cui le cose del mondo saranno per forza la Sostanza o la manifestazione in atto di tale Sostanza: Tutto ciò che è, è in Dio, e senza Dio nessuna cosa può essere concepita. (Etica, I, prop. 15)

In tal modo, Spinoza perviene a una forma di panteismo che, identificando Dio o la Sostanza con la Natura, considera anche quest’ultima come una realtà increata, eterna, infinita e unica, dalla quale tutte le cose derivano e nella quale tutte le cose sono.

Attributi e modi Per chiarire la natura del rapporto tra Dio e il mondo, Spinoza ricorre ai concetti di “attributo” e di “modo”. La Sostanza ha infiniti attributi

L’estensione e il pensiero

270

Gli attributi sono «ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza» (Etica, I, def. IV), ossia le qualità essenziali o strutturali della Sostanza. Ora, poiché la Sostanza è infinita (cioè dall’essenza illimitata), anche i suoi attributi saranno infiniti ed essa sarà simile a un unico immenso prisma dalle illimitate facce. Tuttavia, degli infiniti attributi della Sostanza, e quindi (in virtù dell’equazione “Sostanza = Natura”) degli infiniti volti della Natura, l’uomo ne conosce soltanto due: l’estensione e il pensiero, ovvero la materia e la coscienza, che sono le due “facce” o ambiti della realtà di cui è partecipe. Si noti come Spinoza, che è giunto ad affermare l’infinità degli attributi della Sostanza derivandola logicamente dalla definizione di quest’ultima, debba ora, “scontrarsi” con l’esperienza, e limitarsi a considerare gli unici due attributi che all’uomo è dato conoscere. In questo senso si è parlato di “deduzione logica” dell’infinità degli attributi, e di “deduzione empirica” della loro dualità. Come scriverà Schelling (v. vol. 2B, unità 8), «Spinoza non perviene alla dualità degli attributi partendo dalla sostanza, a priori […]. Egli li accoglie semplicemente a posteriori dall’esperienza, perché è costretto a riconoscere che il mondo non è semplicemente spirito o pensiero, ma in parte anche materia o estensione, e parimenti che esso non è

Capitolo 2 • Spinoza

semplicemente materia, ma in parte anche spirito o pensiero» (Lezioni monachesi, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1950, p. 46). Analogamente, il filosofo contemporaneo Augusto Guzzo afferma che «La dottrina degli attributi nasce dal bisogno di spiegare la varietà del mondo, ammessa senz’altro a titolo di fatto, non da una necessità intrinseca del concetto di sostanza infinita» (Il pensiero di Spinoza, La Nuova Italia, Firenze 1924, p. 222). L’infinitezza dell’essenza divina viene dunque “filtrata”, in un certo senso, dalla mente finita dell’uomo, che la de-finisce mediante le due proprietà essenziali di cui partecipa. Tuttavia, affermare che conosciamo soltanto due degli infiniti attributi della Sostanza pone grosse difficoltà: infatti, se la Sostanza è sempre la medesima in tutti i suoi infiniti attributi, perché l’uomo ne scorge solo una minima parte? Attribuire questo dato di fatto a una deficienza mentale umana significa introdurre un motivo “soggettivo” che rischia di apparire estraneo all’assoluta “oggettività” perseguita dall’esposizione spinoziana. In altri termini, nella definizione degli attributi («ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza»), compare una nozione – quella di “intelletto” – che Spinoza non ha né definito preliminarmente (ad esempio chiarendo se si tratti della mente finita dell’uomo, o del pensiero in generale), né dedotto dalle altre definizioni postulate all’inizio. La questione rimane senza risposta e rappresenta una delle cosiddette “aporie”, o difficoltà, dello spinozismo. I modi di cui parla Spinoza sono invece «le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per mezzo del quale è anche concepito» (Etica, I, def. V). Se gli attributi sono proprietà essenziali della Sostanza (nel senso che sono la Sostanza stessa, nelle diverse modalità in cui essa si esprime), i modi sono modificazioni accidentali della Sostanza (nel senso che esistono e possono essere pensati dall’uomo solo in riferimento all’estensione e al pensiero). In altre parole, i modi sono le manifestazioni o le concretizzazioni particolari degli attributi, e si identificano quindi con i singoli corpi (modificazioni dell’estensione) e con le singole menti con le loro idee (modificazioni del pensiero). In questo senso non hanno sostanzialità (sono «ciò che è in altro, per mezzo del quale è anche concepito»), in quanto esistono e possono essere pensati soltanto in virtù degli attributi della Sostanza. Anche su questo punto Spinoza cerca dunque di restituire coerenza al discorso cartesiano: ogni corpo è modificazione accidentale dell’unica materia o estensione (come per Cartesio), e ogni mente è modificazione accidentale dell’unico pensiero (diversamente da Cartesio che concepisce la mente individuale, che chiama «anima», come sostanza). Ma l’estensione che “sorregge” i singoli corpi non è sostanza, proprio come non lo è il pensiero che “sorregge” le singole menti e i singoli pensieri. Il “sostegno” di ogni realtà (fisica e psichica) è Dio, unica sostanza infinita. Spinoza distingue due tipi di modi: quelli infiniti e quelli finiti. ■■■ I modi infiniti seguono direttamente o indirettamente dagli attributi, nel senso che sono proprietà strutturali degli attributi stessi. Ad esempio, dato l’infinito attributo dell’estensione, ne seguono, da sempre, «il movimento o la quiete», così come, dato l’infinito attributo del pensiero, ne seguono, da sempre, «l’intelletto e la volontà». Un modo infinito è anche l’universo come totalità, ossia, come scrive Spinoza, «la faccia di tutto l’universo, la quale, benché l’universo varii in infiniti modi, rimane sempre la stessa». ■■■ I modi finiti sono invece gli esseri particolari, cioè “questo” corpo o “quella” idea, che, all’interno delle rispettive serie dei corpi e dei pensieri, sono tra loro legati in una catena causale infinita (v. p. 277).

Una domanda senza risposta

I modi

TAVOLA ROTONDA Dalla sostanza delle cose al soggetto del mondo, vol. 2B

Modi infiniti e modi finiti

271

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Natura naturante e Natura naturata: Dio come causa del mondo Un esempio per comprendere il panteismo spinoziano

Dio come causalità immanente

Esercizi interattivi Attributi e modi

Dio come causalità libera e necessaria

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350

272

Cerchiamo ora di chiarire e ricapitolare con un esempio quanto si è detto fino a questo punto: la Sostanza di Spinoza può essere paragonata a un oceano sconfinato ed eterno; gli attributi, che ne costituiscono l’essenza, all’estensione acquatica; i modi infiniti (che sono le proprietà permanenti degli attributi) al movimento incessante del mare; i modi finiti (che sono le determinazioni particolari degli attributi) alle varie onde. Ora, mentre le singole onde, come le cose finite del mondo, vanno e vengono in quanto rappresentano pieghe o modi di essere transeunti dell’unica massa marina, l’oceano e le sue proprietà, come il sistema Sostanza-attributi-modi infiniti, permane in eterno, pur continuando incessantemente a specificarsi nella serie infinita delle onde. Ritraducendo il tutto in termini filosofici: la Sostanza di Spinoza è la Natura come realtà infinita ed eterna, che si manifesta in un’infinità di dimensioni (gli attributi, tra i quali noi percepiamo il pensiero e l’estensione) e che si concretizza in un’infinità di maniere o forme d’essere (i modi). Al di là del linguaggio tecnico, è facile capire che cosa intenda Spinoza quando afferma che tutto ciò che esiste o è un attributo di Dio, o è una modificazione interna ai suoi attributi: Dio è la totalità e l’unità di tutte le “cose”, le quali, infatti, o sono idee o sono corpi, ovvero sono eventi che cadono o nel dominio del pensiero o in quello della materia, e che esistono e possono essere pensati solo se ricondotti a questi due orizzonti infiniti. Ora, per quanto pensiero ed estensione siano concetti originari (perché «concepibili per sé»), sussistono solo in virtù di un “sostegno” ulteriore, la sostanza divina di cui sono manifestazioni. Per questo Dio è «cosa che pensa» (Etica, II, prop. 1) e «cosa estesa» (Etica, II, prop. 2), pensiero e materia: è la realtà profonda, o fondamento, che “sostiene” le menti e i corpi. Pertanto, quando Spinoza distingue tra la Natura naturante (cioè Dio e i suoi attributi, considerati come causa) e la Natura naturata (cioè l’insieme dei modi, visti come effetto), non fa che ribadire panteisticamente che la Natura è madre e figlia di se medesima. In apparente accordo con il lessico della tradizione teologica, anche Spinoza afferma che Dio «deve essere detto causa di tutte le cose» (Etica, I, prop. 25, scolio), ma la causalità divina rispetto al mondo acquista nel pensiero spinoziano il significato assolutamente innovativo di attività produttrice il cui prodotto non esiste fuori della causa (secondo il tradizionale schema della «causalità transitiva»), bensì in essa stessa, secondo uno schema di causalità immanente. In altre parole, dal momento che «nulla è fuori di Dio» (non essendoci un “fuori” rispetto all’infinito), Dio non “crea” qualcosa di diverso da sé, ma piuttosto si “modifica”, cioè si esprime in infiniti «modi determinati» (le menti e i corpi). ➔ T1 p. 298 Oltre che immanente, la causalità divina è anche libera, ma non nel senso che Dio avrebbe potuto scegliere di non produrre il mondo (sulla base di un libero arbitrio, come nel caso del concetto biblico di “creazione”), bensì nel senso che Dio agisce seguendo le sole leggi della propria natura, senza alcun condizionamento esterno (dal momento che è sostanza infinita o totalità, all’esterno della quale non c’è nulla che possa limitarla o condizionarla). Dunque in Dio la libertà (intesa come assenza di costrizione) e la necessità (intesa come azione determinata dalle leggi della propria natura) coincidono (v. libertà e necessità in Dio). ➔ T2 p. 300

Capitolo 2 • Spinoza

Sostanza = ciò che è in sé e per sé si concepisce (Dio)

> increata > eterna > infinita

Attributi = qualità essenziali della Sostanza

> unica

> estensione (extensio) > pensiero (cogitatio)

Natura naturante (causa)

> movimento e quiete Modi = modificazioni accidentali degli attributi della Sostanza

> infiniti (proprietà strutturali degli attributi) > finiti (modificazioni accidentali degli attributi, ovvero gli esseri particolari)

> intelletto e volontà > il mondo come totalità > i singoli corpi

Natura naturata (effetto)

> le singole menti e le singole idee

Sostanza = Dio = Natura (panteismo)

Ma perché «l’estensione infinita» si concretizza necessariamente in una «serie infinita di corpi finiti»? E perché «il pensiero infinito» si concretizza necessariamente in una «serie infinita di idee finite»? In altre parole, perché, a un certo momento, l’infinito spinoziano si finitizza? Anche in questo caso, il filosofo dell’Etica è costretto ad abbandonare il piano delle pure deduzioni logiche, e quindi delle spiegazioni metafisiche, per ricorrere semplicemente all’attestato dell’esperienza. Come scrive ancora Schelling, «Su questo punto Spinoza non dà alcuna risposta e del resto non ne può dare alcuna […]. Spinoza pone determinazioni nella sostanza infinita, non perché in essa o nel suo concetto ci sia una necessità di darsi determinazioni, ma perché egli può pensare le cose solo come autodeterminazioni della sostanza infinita: non gli verrebbe in mente, per dir così, di porre affezioni nella sostanza infinita, se egli non trovasse alcuna cosa nell’esperienza» (Lezioni monachesi, cit., p. 51). Analogamente, osserva Guzzo, «Dall’infinito non si cava la serie infinita delle cose finite se non intervenga a far identificare l’infinità con la serie infinita l’esigenza di spiegare le cose finite» (Il pensiero di Spinoza, cit., p. 239).

Perché l’infinito si finitizza

IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Spinoza nella pittura seicentesca, p. 310

I due problemi fondamentali dello spinozismo A parte le numerose questioni particolari, gli interrogativi di base che emergono dall’Etica – e su cui continuano ad affaticarsi i critici – sono essenzialmente due: 1) che cos’è, in definitiva, la Sostanza di Spinoza? 2) che rapporti esistono, precisamente, tra la Sostanza e i suoi modi? E poiché in queste domande si gioca il senso stesso dello spinozismo, è opportuno, ai fini di un’adeguata comprensione del sistema, focalizzare adeguatamente il discorso su di esse.

273

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

La Sostanza come ordine necessario. Per quanto riguarda la prima questione, riIl Dio-Natura è l’ordine geometrico dell’universo

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350 Una traduzione metafisica della visione galileiana della Natura

spondere, come si è fatto fin qui, che la Sostanza è la Natura significa mantenersi ancora nel vago, se non si puntualizza che, per Spinoza, la Natura non è una forza che “genera” le cose, ma un ordine da cui “seguono” i modi. Infatti, mentre nella tradizione popolare e filosofica – come in parte nel Breve trattato di Spinoza, ancora vicino all’intuizione rinascimentale dell’universo – la realtà viene concepita mediante schemi vitalistici e antropomorfici, che vedono nella Natura una potenza dinamica e procreante, nell’Etica la Natura tende a identificarsi con l’ordine necessario e razionale del Tutto. In altre parole, il Dio-Natura di Spinoza è, in ultima analisi, l’ordine geometrico dell’universo, cioè il sistema o la struttura globale del Tutto. Come tale, la Natura spinoziana non è il puro insieme o la semplice somma delle cose, ma il sistema o l’ordine intrinseco che le struttura e le regola secondo precise e immutabili concatenazioni. Spinoza si serve del linguaggio della tradizione metafisico-teologica occidentale e continua a discorrere di “sostanza”, “attributi”, “modi”, “causa”, “essenza”…, ma il significato che questi termini rivestono nel suo pensiero maturo è completamente diverso rispetto al passato. Parlando della Sostanza o di Dio, egli infatti non intende indicare nessuna delle “figure” metafisiche tradizionali, bensì, come abbiamo visto, l’ordinamento complessivo dell’essere e la struttura geometrica del cosmo. Di conseguenza, il panteismo (Dio è in tutto) e il panenteismo (tutto è in Dio) costituiscono, in Spinoza, una forma rigorosa di naturalismo, ripensato alla luce della rappresentazione scientifica e moderna della realtà. Anzi, da un certo punto di vista, lo spinozismo può essere considerato una traduzione metafisica del modo galileiano di considerare la Natura. Come sappiamo, infatti, per Galilei quest’ultima non è più l’essenza o la potenza generatrice delle cose, bensì l’insieme delle leggi che governano i fenomeni. Analogamente, per Spinoza la Natura non è più l’anima o l’energia intrinseca della materia, bensì il sistema o l’ordine strutturale delle relazioni tra le cose, ovvero il complesso delle leggi universali dell’essere. Ma poiché Spinoza esprime questo suo pensiero di fondo mediante i concetti e i teoremi della metafisica e della teologia classiche, e lo pervade di un forte afflato mistico-religioso, nei suoi scritti abbondano difficoltà ed equivoci, che lo rendono suscettibile di varie e contrastanti interpretazioni. Schema interattivo

ConCetti a Confronto

Dio in Cartesio

274

in Pascal

in Spinoza

è un Dio della ragione (nozione filosofica)

è il Dio-persona del cristianesimo

è il Dio-Natura, unica Sostanza (nozione metafisica e fisica che si esprime come pensiero ed estensione)

la sua esistenza si può dimostrare razionalmente (prove a priori)

la sua esistenza non è dimostrabile razionalmente, ma è intuita dal cuore, organo della fede

la sua esistenza si può dimostrare e si impone alla ragione come verità evidente (prove a priori)

è garante della conoscenza

offre una soluzione all’enigma dell’uomo

è l’ordine geometrico, necessario e razionale dell’universo

Capitolo 2 • Spinoza

Il rapporto tra la Sostanza e i suoi modi. Per quanto riguarda il secondo problema, relativo al rapporto tra la Sostanza e i modi, Spinoza scarta i due modelli tradizionali: la dottrina della creazione e la dottrina dell’emanazione. ■■■ Egli esclude formalmente la dottrina della creazione sulla base di tre considerazioni di fondo: 1. con una rappresentazione antropomorfica della divinità, una tale dottrina riduce il modo d’agire della Sostanza al modo d’agire dell’uomo; un atto creatore presuppone infatti intelletto, volontà, arbitrio, scelta…: tutte cose che, secondo Spinoza, non hanno senso se riferite alla Sostanza, ovvero al Dio-Natura; 2. il concetto biblico di “creazione” implica quello di “nulla” (da cui Dio avrebbe tratto il mondo), che è impensabile; 3. la prospettiva creazionistica presuppone erroneamente che una causa possa essere eterogenea rispetto all’effetto, ma, poiché è evidente che «due cose, le quali non hanno nulla in comune, non possono essere l’una causa dell’altra» (Epistolario, IV), conclude che la causalità di Dio produce un effetto dal nulla (cioè un effetto del tutto estraneo alla propria natura), anziché ammettere che Dio è anche corporeo. ■■■ Ma escludere la dottrina della creazione non significa accogliere la dottrina dell’emanazione, che farebbe della teoria spinoziana una sorta di ripetizione di quella di Bruno. Tra Spinoza e Bruno ci sono Galileo, Cartesio e Hobbes (v. unità 5, cap. 1): vi è, cioè, l’apparire della scienza moderna, interamente polarizzata intorno al concetto della natura come ordine oggettivo e matematicamente strutturato. Se la Sostanza spinoziana non è l’unità ineffabile dalla quale scaturiscono le cose per emanazione, secondo l’antica dottrina neoplatonica, essa non è neppure la natura infinita che per la sovrabbondanza della sua potenza genera infiniti mondi, secondo il naturalismo di Bruno. La Sostanza è piuttosto un ordine cosmico, o un teorema eterno, dal quale scaturiscono o “seguono” in modo necessario tutte le cose, esattamente come dalla definizione del triangolo “segue” che la somma dei suoi angoli interni è uguale a due retti. La forma matematica dell’Etica si alimenta appunto della convinzione incrollabile che l’ordine geometrico è la sostanza stessa delle cose e che i singoli modi derivano dalla Sostanza esattamente come i singoli teoremi, corollari, scolii derivano dai principi della geometria. La necessità, matematicamente pensata, diventa quindi per Spinoza la fondamentale categoria esplicativa della realtà. Di conseguenza, nell’universo spinoziano non vi è nulla di contingente, poiché in esso ciò che è possibile si realizza necessariamente – esattamente come in geometria le verità implicite degli assiomi si esplicitano necessariamente nei teoremi – per cui possibilità e realtà sono nient’altro che necessità in potenza e necessità in atto. Delle tre categorie modali (possibilità, realtà e necessità) in Spinoza rimane dunque la sola necessità.

Il rifiuto di creazionismo ed emanazionismo

La necessità matematica dell’ordine cosmico

L’esclusione del contingente

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350

La critica alla visione finalistica del mondo e al Dio biblico La concezione di Dio come ordine geometrico dell’universo contrappone Spinoza a quella millenaria visione finalistica del mondo che si era espressa nella metafisica greca e nella dottrina ebraico-cristiana di un Dio che crea liberamente il mondo secondo progetti implicanti la subordinazione intenzionale delle cose all’uomo (finalismo antropocentrico). Si dice spesso che l’antifinalismo spinoziano sia un portato della rivoluzione scientifica.

L’antifinalismo di Spinoza

275

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Ciò è vero solo in parte, e non solo, come si è notato, perché esso discende dai postulati del sistema, ma anche perché Spinoza, in questo campo, va oltre gli esiti stessi della scienza moderna e della filosofia meccanicistica cartesiana. Galileo, infatti, non aveva escluso le cause finali, limitandosi a sostenere che noi non possiamo conoscerle. E Cartesio aveva incluso il proprio universo meccanicistico nei piani liberi e razionali del Creatore. Spinoza, invece, superando Cartesio e spostando la questione dal piano gnoseologico-metodologico a quello ontologico, afferma risolutamente che le cause finali non esistono, né in natura, né in Dio. In tal modo, egli porta la critica al finalismo a uno dei punti più estremi toccati dalla filosofia moderna. Il finalismo come “pregiudizio” umano

Gli errori concettuali del finalismo

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350

276

Secondo Spinoza, ammettere l’esistenza di cause finali è un pregiudizio dovuto alla costituzione dell’intelletto umano. Gli uomini ritengono tutti di agire in vista di un fine, cioè di un vantaggio o di un bene che desiderano conseguire. E poiché trovano a loro disposizione un certo numero di mezzi per raggiungere i loro fini (ad esempio gli occhi per vedere, il sole per illuminare, le erbe e gli animali per nutrire ecc.), sono portati a considerare come mezzi tutte le cose naturali. E poiché sanno che tali mezzi non sono stati da loro stessi prodotti, credono che siano stati preparati per loro da Dio. Nasce così il pregiudizio che la divinità produca e governi le cose per l’uso degli uomini, per legare gli uomini a sé e per essere da loro onorata. Osservando poi come la natura offra loro non soltanto agi e comodità, ma anche disagi e svantaggi di ogni genere (malattie, terremoti, intemperie ecc.), gli uomini credono che questi malanni derivino dallo sdegno della divinità per le loro mancanze. E sebbene l’esperienza di ogni giorno mostri con infiniti esempi che vantaggi e danni si distribuiscono ugualmente tra persone pie e persone empie, gli uomini preferiscono, anziché abbandonare il loro pregiudizio, ricorrere a un altro pregiudizio per puntellare il primo; e ammettono che il giudizio divino superi di gran lunga l’intelletto dell’uomo. Tutto ciò, nota Spinoza, sarebbe bastato a far sì che la verità si nascondesse in eterno al genere umano, se la matematica (che non concerne gli scopi, ma soltanto le essenze e le proprietà delle figure) non avesse mostrato agli uomini quell’altra norma di verità che è la visione a-finalistica delle cose. ■■■ Il

limite maggiore del finalismo, filosoficamente parlando, è di considerare come causa ciò che in natura è effetto e viceversa, mettendo dopo ciò che in natura è prima. Ad esempio: non è il calore trasmesso agli esseri viventi la causa del sole, ma il sole la causa del calore trasmesso agli esseri viventi (per chiarire ulteriormente il pensiero di Spinoza, si potrebbe dire che l’errore del finalismo consiste nel non rendersi conto che non è l’ambiente a conformarsi ai viventi, ma sono i viventi a conformarsi all’ambiente). ■■■ Inoltre, il finalismo rende imperfetto ciò che è perfetto. Secondo Spinoza, infatti, perfetto è l’effetto che è prodotto immediatamente da Dio, imperfetto quello che, per essere prodotto, ha bisogno di cause intermedie. Evidentemente, se alcune cose fossero fatte da Dio come mezzi per conseguire un certo fine, esse sarebbero meno perfette di altre. ■■■ Infine, la dottrina delle cause finali non solo elimina la perfezione del mondo, ma toglie anche la perfezione di Dio. Se Dio agisse per un fine, necessariamente vorrebbe qualcosa di cui difetta. La concezione finalistica del mondo non è che un prodotto dell’immaginazione: consiste nel tentativo di spiegare il mondo mediante nozioni come il bene, il male, l’ordine, la confusione, il caldo, il freddo, il bello, il brutto, le quali non esprimono se non il modo in cui le cose stesse colpiscono gli uomini e non hanno valore oggettivo né possono comunque valere come criteri per intendere la realtà stessa. ➔ T3 p. 302

Capitolo 2 • Spinoza

La critica spinoziana al finalismo si accompagna al deciso rifiuto di ogni riduzione di Dio nei limiti dell’umano e, quindi, al rigetto di ogni antropomorfismo religioso. Per Spinoza, la visione biblica di Dio, considerato come una specie di super-uomo, che ha una mente e una sensibilità simili alle nostre e che ama, odia, si ingelosisce, si arrabbia e punisce, è soltanto il prodotto dell’immaginazione superstiziosa di individui che «si vennero forgiando Dio a immagine dell’uomo, ora adirato, ora misericordioso, ora proteso nell’attesa del futuro, ora preso dalla collera e dal sospetto, e ora persino preso in trappola dal demonio» (Epistolario, XIX). Al Dio del volgo e dei teologi, che reputa frutto di una visione distorta della realtà, Spinoza sostituisce quindi la propria idea filosofica di un Dio sovra-personale, coincidente con il Tutto cosmico. Di conseguenza, la spaccatura tra lo spinozismo e la rappresentazione ebraico-cristiana della divinità risulta netta e radicale.

Contro l’antropomorfismo religioso

TAVOLA ROTONDA Dio e lo “scandalo” del male, p. 356

Il parallelismo tra pensiero ed estensione Muovendo da Cartesio, Spinoza ritiene che pensiero ed estensione siano due realtà qualitativamente eterogenee, in quanto lo spirito non può mai essere materiale e la materia non può mai essere spirituale. Come tali, esse non possono influenzarsi a vicenda. Tant’è vero che la causa di un’idea è sempre un’altra idea, così come la causa di un corpo è sempre un altro corpo, non trovandosi mai un’idea che sia causa di un corpo o un corpo che sia causa di un’idea. Come si spiega, allora, la connessione, che pure esiste, tra pensiero ed estensione, cioè tra mente e corpo? Spinoza ritiene che, pur non influenzandosi a vicenda, ossia pur non trovandosi mai in un rapporto scambievole di causa ed effetto, le serie dei corpi e delle idee concordino necessariamente tra loro, quasi come in una sorta di corrispondenza biunivoca, nella quale a ogni moto corporeo corrisponde un’idea e viceversa, nulla potendo accadere al corpo «che non sia percepito dalla mente» (Etica, II, prop. 12). Ciò avviene in quanto il corpo, per Spinoza, non è altro che l’aspetto esteriore della mente, così come la mente non è che l’aspetto interiore del corpo. Per fare un esempio: nell’ottica spinoziana uno stato esistenziale – come un’emozione – può esprimersi simultaneamente sia in termini fisiologici (battito più rapido del cuore, pallore, rossore ecc.), sia in termini psichici (paura, piacere ecc.), senza per questo che cessi di essere il medesimo, proprio come l’arco di una circonferenza, presentandosi concavo da un lato e convesso dall’altro, è pur sempre lo stesso arco. Come si può notare, questo parallelismo psico-fisico costituisce un nuovo modo filosofico di rappresentare i rapporti tra corpo e psiche, che si differenzia sia da quello cartesiano della ghiandola pineale, sia da quello materialistico di Hobbes (v. unità 5, cap. 1), sia da quello occasionalistico, secondo cui materia e spirito, pur essendo indipendenti, di fatto sono resi paralleli da un intervento provvidenziale di Dio (v. unità 3, cap. 2). Secondo Spinoza, ciò che garantisce e fonda la correlazione necessaria tra mente e corpo, facendo sì che i due ordini del pensiero e dell’estensione si corrispondano perfettamente, è l’ordine unitario dell’essere:

Il parallelismo psico-fisico

L’ordine unitario dell’essere

sia che concepiamo la natura sotto l’attributo dell’Estensione, sia che la concepiamo sotto l’attributo del Pensiero, o sotto un qualunque altro attributo, troveremo un solo e medesi(Etica, II, prop. 7, scolio) mo ordine, o una sola e medesima connessione di cause.

277

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Esercizi interattivi Pensiero ed estensione

E quest’ordine, questa connessione, questa realtà è appunto la Sostanza, il Deus sive Natura, la struttura unitaria e matematica del cosmo. Di conseguenza, il parallelismo psico-fisico di Spinoza sottintende in realtà un monismo metafisico, che vede nel pensiero e nell’estensione non due sostanze, ma due attributi diversi di una medesima Sostanza, e quindi due traduzioni distinte e simultanee di una stessa realtà di fondo. In tal modo, nello spinozismo, il rapporto tra le idee e la realtà cessa di essere un problema gnoseologico, poiché, se «l’ordine e la connessione delle idee si identificano con l’ordine e la connessione delle cose», resta garantita la validità della nostra conoscenza. Ovviamente, però, non di qualunque conoscenza, ma soltanto di quella che Spinoza chiama «conoscenza adeguata», cioè della conoscenza che sa riprodurre esattamente, tramite l’intelletto, l’ordine oggettivo delle cose (v. “I generi della conoscenza”, p. 288).

PENSIERO = ordine delle idee

La serie delle idee A>B>C>D La serie dei corpi A1 > B1 > C1 > D1

ESTENSIONE = ordine delle cose

La causa (A) di un’idea (B) è sempre un’idea > La causa (A1) di un corpo (B1) è sempre un corpo

L’ordine delle idee corre parallelo a quello dei corpi. Il corpo è l’espressione esteriore della mente; la mente è l’espressione interiore del corpo.

Ciò che garantisce la corrispondenza tra le dimensioni eterogenee del pensiero e dell’estensione è l’unicità della Sostanza, di cui gli attributi sono espressioni distinte e simultanee

Sintesi audio Spinoza; La metafisica

GLOSSARIO e RIEPILOGO La metafisica Filosofia p. 266 > La filosofia per Spinoza non si esaurisce nel momento puramente conoscitivo o teoretico, ma rappresenta una via verso la saggezza e la beatitudine. Di conseguenza, come suggerisce il titolo stesso del capolavoro spinoziano, la metafisica risulta finalizzata all’etica, programmaticamente intesa (secondo un modello di tipo ellenistico) come ars vivendi.

278

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Sostanza p. 268 > Per “sostanza” Spinoza intende «ciò che è in sé e per sé si concepisce [id, quod in se est et per se concipitur], vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato» (Etica, I, def. III). Con la prima parte della formula (id, quod in se est), egli intende dire che la sostanza, essendo da sé (in sé = da sé), in quanto deve soltanto a se stessa la propria esistenza, è una realtà autosussistente e autosufficiente, che per esistere non ha bisogno di

Capitolo 2 • Spinoza

altri esseri. Con la seconda parte della formula (et per se concipitur), intende dire che la nozione di sostanza, essendo concepibile solo per mezzo di se medesima, costituisce un concetto che per essere pensato non ha bisogno di altri concetti. La sostanza gode dunque di una totale autonomia, sia dal punto di vista ontologico, sia dal punto di vista concettuale, in quanto si identifica con una realtà che non presuppone alcuna altra realtà, ma è eventualmente presupposta da ogni altra possibile realtà, e con un concetto che non presuppone alcun altro concetto, ma è eventualmente presupposto da ogni altro possibile concetto.

Proprietà di base della sostanza p. 269 > La sostanza è caratterizzata da una serie di proprietà di base, che derivano necessariamente dalla sua stessa definizione. Infatti, posta l’idea di sostanza, si deduce che essa è increata (in quanto per esistere non ha bisogno di altro, essendo, per natura, causa di sé), eterna (in quanto possiede, come sua nota costitutiva, l’esistenza, che non riceve da altro), infinita (poiché se fosse finita dipenderebbe da qualcos’altro, contraddicendo se stessa, e perché la sua essenza non ha limiti), unica (poiché «nella natura non si possono dare due o più sostanze della medesima natura ossia del medesimo attributo», Etica, I, prop. 5).

Dio p. 269 > Dio per Spinoza è la Sostanza stessa, intesa appunto come realtà infinita ed eterna: «Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè una sostanza costituita da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita» (Etica, I, def. VI). Panteismo p. 270 > Spinoza ritiene che Dio e mondo

li della Sostanza. Dal momento che quest’ultima è infinita, in quanto la sua essenza è illimitata, saranno infiniti anche i suoi attributi. N.B. Degli infiniti attributi della Sostanza, e quindi degli infiniti volti della Natura, l’uomo ne conosce solo due: l’estensione e il pensiero.

Modi p. 271 > I “modi” per Spinoza sono i «modi determinati» di essere della Sostanza (cioè le sue manifestazioni o concretizzazioni particolari). Come tali, essi esistono e possono essere pensati solo nella Sostanza e in virtù della Sostanza: «Intendo per modo le affezioni della sostanza [substantiae affectiones], ossia ciò che è in altro [quod in alio est], per il cui mezzo è pure concepito» (Etica, I, def. V). N.B. Spinoza distingue due tipi di modi: quelli infiniti, che coincidono con le proprietà strutturali degli attributi, e quelli finiti, che sono i singoli corpi e le singole menti.

Natura naturante p. 272 > Per “Natura naturante” Spinoza intende la Natura vista come causa, ovvero Dio e i suoi attributi: «per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia quegli attributi della sostanza che esprimono un’essenza eterna ed infinita, cioè Dio in quanto è considerato come causa libera» (Etica, I, 29, scolio).

Natura naturata p. 272 > Per “Natura naturata” Spinoza intende la Natura vista come effetto, ovvero l’insieme dei modi: «per Natura naturata intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio, o di ciascuno degli attributi di Dio, cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto sono considerati come cose che sono in Dio e che senza Dio non possono né essere né essere concepite» (Etica, I, 29, scolio). N.B. Con la distinzione tra Natura naturante e naturata Spinoza ribadisce panteisticamente che la Natura, essendo l’unica realtà esistente, risulta nel contempo madre e figlia di se stessa.

non siano due enti separati, bensì uno stesso ente, in quanto Dio non è fuori dal mondo, ma nel mondo, e costituisce, con esso, quell’unica realtà globale che è la Natura (Deus sive Natura, dice Spinoza: Dio, ovvero la Natura). Spinoza perviene al panteismo sulla base dell’unicità della Sostanza. Infatti, se la Sostanza è unica, essa avrà tutto dentro di sé e nulla fuori di sé, per cui le cose del mondo saranno per forza la Sostanza o la manifestazione in atto (i “modi”) di tale Sostanza. Il panteismo di Spinoza coincide di fatto con una forma di panenteismo, secondo cui «Tutto ciò che è, è in Dio» (Etica, I, prop. 15).

spinoziano, Dio, rispetto alle cose, non è “causa transitiva” (causa transiens), cioè un’attività produttrice il cui prodotto esiste fuori di essa, bensì “causa immanente” (causa immanens), cioè un’attività produttrice il cui prodotto esiste in essa stessa.

Attributi p. 270 > Gli “attributi” per Spinoza sono «ciò

Libertà e necessità in Dio p. 272 > Secondo Spinoza,

che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza [tanquam eiusdem essentiam constituens]» (Etica, I, def. IV), vale a dire le qualità essenzia-

la “libertà” di Dio non risiede nel libero arbitrio: «La vera libertà consiste unicamente nel fatto che la causa prima, senza essere costretta né necessitata da alcuna al-

Causalità immanente p. 272 > Secondo il panteismo

279

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

tra cosa, per la sua sola perfezione, produce tutte le perfezioni» (Breve trattato, 1, 4). Di conseguenza, Dio risulta libero e necessitato al tempo stesso. Libero perché agisce senza alcun condizionamento esterno, necessitato perché agisce necessariamente in virtù delle leggi immanenti del suo essere o della sua perfezione: «Dio agisce per le sole leggi della sua natura, e senza essere costretto da nessuno» (Etica, I, prop. 17). Di conseguenza, la libertà dell’agire di Dio consiste precisamente nella sua necessità, cioè nella sua perfetta conformità alle leggi della natura divina. Il che significa che tutto ciò che Dio può, lo fa, e lo fa necessariamente dall’eternità, ovvero che la Natura è un ordine immutabile.

Ordine geometrico dell’universo p. 274 > Con l’espressione “ordine geometrico dell’universo” si suole riassumere il senso del panteismo spinoziano, il cui DioNatura si identifica, in ultima analisi, con l’ordinamento complessivo delle cose, cioè con il sistema o la struttura globale del Tutto e delle sue leggi. Rapporto tra la Sostanza e i modi p. 275 > Per spiegare il rapporto tra la Sostanza e i suoi modi Spinoza non ricorre né al modello creazionistico, né a quello emanatistico: la Sostanza spinoziana, infatti, non è né la causa creante della metafisica cristiana, né la causa emanante della metafisica neoplatonica. Essa non è neppure la Natura infinita che per la sua sovrabbondanza di potenza genera infiniti mondi, secondo il naturalismo di Bruno. Si configura piuttosto come un ordine cosmico, o un teorema eterno, da cui le cose scaturiscono o «seguono» in modo necessario, esattamente come dalla definizione del triangolo “segue” che la somma dei suoi angoli interni è uguale a due retti (Etica, I, 17, scolio).

Antifinalismo p. 275 > La concezione di Dio come ordine geometrico dell’universo mette il pensiero di Spinoza in antitesi a ogni forma di finalismo. Spinoza sostiene infatti che «tutte le cause finali non sono altro che finzioni umane [nisi humana esse figmenta]» (Etica, I, ”Appendice”) nate dal fatto che gli uomini, «in sé e fuori di sé, trovano non pochi mezzi che contribuiscono non poco al raggiungimento del loro utile, come, per esempio, gli occhi per vedere, i denti per masticare, le

280

erbe e gli animali per l’alimentazione, il sole per illuminare, il mare per nutrire i pesci» (ibidem). In altri termini, sentenzia Spinoza, le cause finali non sono altro «se non lo stesso appetito umano, in quanto è considerato come il principio o la causa primaria d’una cosa» (Etica, IV, “Prefazione”). Tuttavia, la dottrina finalistica è radicalmente sbagliata. 1. In primo luogo, essa «sovverte totalmente la natura», poiché «considera come effetto ciò che in realtà è causa, e viceversa», facendo «posteriore ciò che per natura è anteriore» (ibidem). 2. Inoltre, il pregiudizio (praeiudicium) del finalismo rende imperfetto ciò che è perfetto. Perfetto è, infatti, l’effetto che è prodotto immediatamente da Dio, imperfetto quello che, per essere prodotto, ha bisogno di cause intermedie. Evidentemente, se determinate cose fossero fatte da Dio come mezzi per conseguire un certo fine, esse sarebbero meno perfette delle altre. 3. Infine, la dottrina delle cause finali non solo elimina la perfezione del mondo, ma anche quella di Dio, «giacché, se Dio agisce per un fine, egli allora necessariamente appetisce qualche cosa che gli manca» (Etica, IV, “Prefazione”).

Parallelismo psico-fisico p. 277 > Con l’espressione “parallelismo psico-fisico” si intende la dottrina spinoziana circa i rapporti tra pensiero ed estensione. Spinoza ritiene infatti che pensiero ed estensione siano due realtà qualitativamente eterogenee, che, pur non influenzandosi a vicenda, risultano in un rapporto di corrispondenza biunivoca, nel quale a ogni moto corporeo corrisponde un’idea e viceversa. Ciò avviene in quanto il corpo è nient’altro che l’aspetto esteriore della mente, così come la mente è nient’altro che l’aspetto interiore del corpo. N.B. Secondo Spinoza la corrispondenza tra i due ordini del pensiero e dell’estensione si fonda sull’ordine unitario dell’essere: «sia che concepiamo la natura sotto l’attributo dell’Estensione, sia che la concepiamo sotto l’attributo del Pensiero, o sotto un qualunque altro attributo, troveremo un solo e medesimo ordine, o una sola e medesima connessione di cause» (Etica, II, 7, scolio). Il parallelismo psico-fisico di Spinoza sottintende perciò un monismo metafisico: pensiero ed estensione, intesi come attributi diversi di un’unica Sostanza, non sono altro che due “traduzioni” diverse di una medesima realtà di fondo.

Capitolo 2 • Spinoza

5. L’etica* L’analisi “geometrica” dell’uomo Come si è visto a proposito del Trattato sull’emendazione dell’intelletto, in Spinoza l’amore della ricerca filosofica nasce dal desiderio di trovare quella serenità e quella beatitudine dell’animo che le ricchezze, gli onori e i piaceri non sono in grado di assicurare. Di conseguenza, nell’Etica (come suggerisce il titolo stesso) la riflessione metafisica risulta finalizzata alla riflessione morale, programmaticamente intesa (alla maniera ellenistica) come ars vivendi. Questo aspetto emerge dalla stessa articolazione interna dell’opera, che si divide in tre ambiti tematici: Dio (libro I); la mente che conosce (libro II); la libertà dell’uomo dalle passioni (libri III, IV e V). Ci si trova così di fronte a un’opera sistematica, che si apre con una trattazione di teologia o ontologia, prosegue con un’indagine di gnoseologia e solo alla fine affronta il tema propriamente morale della virtù e della felicità. Questa sequenza trova una rigorosa giustificazione anche nel fatto che, secondo Spinoza, l’uomo è parte di un ordine necessario (Dio o Natura), per cui non si può indagare la sua destinazione morale quale ente finito, senza comprendere la sua collocazione in quell’Infinito di cui è manifestazione accidentale. Il presupposto di base del discorso morale di Spinoza, che discende coerentemente dalla sua ontologia, è la tesi della naturalità dell’uomo. Contro l’antropologia tradizionale dei filosofi, che avevano considerato l’uomo come una sorta di eccezione all’interno della natura, come «un impero in un impero» perché svincolato, in quanto soggetto libero di agire secondo la propria volontà, dalle leggi deterministiche, Spinoza afferma che la nostra specie costituisce una manifestazione naturale come tutte le altre, sottoposta alle comuni leggi dell’universo. Così come la nuova astronomia aveva tolto alla Terra la sua centralità spaziale, allo stesso modo Spinoza toglie all’uomo il suo presunto statuto ontologico di creatura “privilegiata”, in base al principio che «la Natura è sempre la medesima» e, quindi, che le regole «secondo cui tutto avviene e muta da una forma all’altra sono ovunque e sempre le stesse, e unico e identico deve perciò essere il modo di comprendere la natura di qualunque cosa» (Etica, III, “Prefazione”). ➔ T4 p. 306 Essendo nient’altro che casi particolari di leggi universali, le azioni umane obbediscono a regole fisse e necessarie, che possono essere studiate con “matematica” obiettività. «Considererò le azioni umane e gli umani appetiti – dice Spinoza – come se si trattasse di linee, di piani e di corpi» (ibidem). In questa prospettiva, l’unico atteggiamento filosofico conveniente di fronte alle passioni non è quello di deriderle, compiangerle o condannarle, ma quello di comprenderle (non ridere, neque lugere, neque detestari, sed intelligere), trattandole «non come vizi della natura umana, ma quali proprietà che le appartengono necessariamente, così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, il temporale, il tuono e simili» (Trattato politico, I, par. IV). E con il lucido realismo di un “Machiavelli dell’etica”, Spinoza elabora una morale non tanto “prescrittiva”, quanto “descrittiva”, scagliandosi con-

*

La finalità etica della metafisica

La naturalità dell’uomo

Il geometrismo morale

Questo paragrafo è stato rivisto e ampliato da Giancarlo Burghi.

281

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Scheda interdisciplinare Passioni e razionalità nel Seicento olandese: da Rembrandt a Vermeer

tro quella “razza” di moralisti che credono di «attingere il colmo della sapienza, quando hanno appreso a lodare in mille modi una natura umana che non esiste e a perseguitare con i propri detti quella che realmente esiste, concependo gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero» (ibidem). Sulla base di questi presupposti, Spinoza costruisce una vera e propria geometria delle emozioni (o delle passioni, o degli «affetti»), proponendosi di: a) individuare le leggi e le forze basilari che reggono la condotta pratica degli individui; b) ricondurre la «schiavitù» dell’uomo alla «potenza delle passioni» e la sua «libertà» alla «potenza dell’intelletto» (v. geometrismo morale).

Gli affetti “primari” Affetti, azioni e passioni

Quelle che noi chiameremmo genericamente “emozioni”, o “passioni”, Spinoza le definisce «affetti», termine con cui indica, in generale, «le affezioni [modificazioni] del Corpo, dalle quali la potenza d’agire del Corpo stesso è accresciuta o diminuita, assecondata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni» (Etica, III, def. III). Il filosofo distingue poi gli affetti in «azioni» e «passioni». ■■■ Le «azioni» sono per Spinoza gli affetti di cui siamo «causa adeguata»: Dico che noi agiamo allorquando, in noi o fuori di noi, accade qualcosa di cui siamo causa adeguata, cioè […] quando dalla nostra natura, in noi o fuori di noi, segue qualcosa che può essere compreso con chiarezza e distinzione mediante essa sola. (Etica, III, def. II) ■■■ Le

«passioni» (intese in senso stretto, rigorosamente spinoziano) sono invece gli affetti che subiamo, cioè di cui non siamo «causa adeguata»: dico che noi patiamo quando in noi accade qualcosa, o dalla nostra natura segue qualcosa, di cui noi non siamo causa se non parziale. (ibidem)

Lo sforzo di autoconservazione nell’uomo

Letizia e Tristezza

Gli affetti primari

282

L’analisi spinoziana delle passioni (v. discriminazione degli affetti) muove dal principio secondo cui «Ogni cosa, per quanto sta in essa, tende a perseverare nel proprio essere» (Etica, III, prop. 6). Traduzione antropologica del principio di inerzia, questo sforzo (conatus) di autoconservazione costituisce, secondo Spinoza, l’essenza attuale della cosa stessa (Etica, III, propp. 6-8). Nel caso dell’uomo, corrisponde: ■■■ alla «Volontà» (Voluntas), quando si riferisce alla mente sola; ■■■ all’«Appetito» (Appetitus), quando si riferisce alla mente e al corpo. L’Appetito è quindi «la stessa essenza dell’uomo» e, quando è cosciente di sé, si chiama «Cupidità» (Cupiditas). La Cupidità, o il Desiderio (che, come abbiamo appena visto, non è che la forma cosciente che lo sforzo di autoconservazione assume nell’essere umano), è il primo e più fondamentale degli affetti, dal quale “seguono” la Letizia (Laetitia), che è l’affetto o l’emozione connessa al passaggio da una perfezione minore a una maggiore, e la Tristezza (Tristitia), che è l’emozione connessa al passaggio da una perfezione maggiore a una minore. La Cupidità, la Letizia e la Tristezza sono i tre affetti primari o fondamentali dai quali derivano tutti gli altri affetti secondari, ovvero tutte le possibili passioni umane (in senso lato), come vedremo meglio nel prossimo paragrafo.

Capitolo 2 • Spinoza

Dagli affetti primari scaturiscono anche il bene e il male, che per Spinoza non sono entità ontologiche assolute, ma qualità relative (alla Cupidità). Infatti il bene è ciò che giova allo sforzo di autoconservazione (ed è fonte di Letizia), mentre il male è ciò che nuoce a esso (ed è fonte di Tristezza): noi non tendiamo a nulla, nulla vogliamo, appetiamo, né desideriamo perché giudichiamo che sia buono; ma, al contrario, noi per questa ragione giudichiamo che qualche cosa è buona, perché tendiamo ad essa, la vogliamo, appetiamo e desideriamo.

Il bene e il male

TAVOLA ROTONDA Dio e lo “scandalo”

(Etica, III, prop. 9, scolio) del male, p. 356

Dallo sforzo di autoconservazione (Cupidità) seguono

Da questi tre affetti primari seguono

> Letizia (passaggio a una perfezione maggiore) > Tristezza (passaggio a una perfezione minore) > tutti gli affetti secondari > il bene (ciò che giova alla conservazione) > il male (ciò che ostacola la conservazione)

Gli affetti “secondari” Quando Letizia e Tristezza sono accompagnate dall’idea di una causa esterna, danno origine a quei due basilari affetti secondari che sono l’Amore e l’Odio. Ma, come abbiamo già detto, dagli affetti primari Spinoza ricava tutti gli affetti secondari (o passioni derivate), “deducendoli” con geometrica necessità e mostrandone i meccanismi profondi con una tale forza di penetrazione che in lui si è visto un precursore della psicologia scientifica. Ecco, ai fini di un possibile approfondimento, una sintesi estratta dal testo spinoziano che riporta il quadro completo delle passioni derivate (cfr. “Definizioni degli affetti”, al termine della terza parte dell’Etica):

L’Amore, l’Odio… … e le altre passioni derivate

Definizioni degli affetti VI. L’Amore è una Letizia accompagnata dall’idea d’una causa esterna. VII. L’Odio è una Tristezza accompagnata dall’idea d’una causa esterna. VIII. La Propensione è Letizia accompagnata dall’idea d’una cosa che è per accidente causa di Letizia. IX. L’Avversione è Tristezza accompagnata dall’idea d’una cosa che è per accidente causa di Tristezza. X. La Devozione è Amore verso colui che ammiriamo. XI. L’Irrisione è Letizia che nasce dall’immaginare che qualche cosa che disprezziamo si trova in una cosa che odiamo. XII. La Speranza è una Letizia incostante, nata dall’idea d’una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo in qualche misura.

283

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

XIII.

La Paura è una Tristezza incostante, nata dall’idea d’una cosa futura o passata, del cui esito dubitiamo in qualche misura. XIV. La Sicurezza è Letizia nata dall’idea d’una cosa futura o passata, riguardo alla quale è stata tolta ogni causa di dubbio. XV. La Disperazione è Tristezza nata dall’idea d’una cosa futura o passata, riguardo alla quale è stata tolta ogni causa di dubbio. XVI. Il Gaudio è Letizia accompagnata dall’idea d’una cosa passata, accaduta insperatamente. XVII. Il Rimorso è Tristezza accompagnata dall’idea d’una cosa passata, accaduta contro la nostra Speranza. XVIII. La Commiserazione è Tristezza accompagnata dall’idea d’un male, accaduto ad un altro che immaginiamo simile a noi. XIX. Il Favore è Amore verso qualcuno che ha fatto bene ad un altro. XX. L’Indignazione è Odio verso qualcuno che ha fatto male ad un altro. XXI. La Stima consiste nel tener di conto, per Amore, qualcuno più del giusto. XXII. Il Disprezzo consiste nel tener di conto, per Odio, qualcuno meno del giusto. XXIII. L’Invidia è Odio in quanto s’impadronisce talmente dell’uomo che questi si rattrista della felicità altrui, e, al contrario, gode del male altrui. XXIV. La Misericordia è Amore in quanto s’impadronisce talmente dell’uomo che questi gode del bene altrui, e, al contrario, si rattrista del male altrui. XXV. La Soddisfazione di noi stessi è Letizia nata dal fatto che l’uomo considera se stesso e la sua potenza d’agire. XXVI. L’Umiltà è Tristezza nata dal fatto che l’uomo considera la sua impotenza o la sua debolezza. XXVII. Il Pentimento è Tristezza accompagnata dall’idea d’un fatto che crediamo d’aver compiuto per libero decreto della Mente. XXVIII. La Superbia consiste nel sentire di sé, per Amore di se stesso, più del giusto. XXIX. L’Abbiezione consiste nel sentire di se stesso meno del giusto, per Tristezza. XXX. La Gloria è Letizia accompagnata dall’idea d’una nostra azione che immaginiamo lodata da altri. XXXI. La Vergogna è Tristezza accompagnata dall’idea d’un’azione che immaginiamo biasimata da altri. XXXII. Il Desiderio è Cupidità o Appetito di possedere una cosa, che è alimentato dal ricordo di questa cosa e che, nello stesso tempo, è ostacolato dal ricordo di altre cose che escludono l’esistenza della cosa desiderata. XXXIII. L’Emulazione è Cupidità d’una cosa, che si genera in noi perché immaginiamo che altri hanno la medesima Cupidità. XXXIV. La Riconoscenza o Gratitudine è Cupidità o sollecitudine d’Amore, mediante la quale ci sforziamo di far del bene a chi ci ha arrecato un beneficio per un uguale affetto di Amore. XXXV. La Benevolenza è Cupidità di far del bene a colui del quale abbiamo commiserazione. XXXVI. L’Ira è Cupidità dalla quale siamo incitati per Odio a far male a colui che odiamo. XXXVII. La Vendetta è Cupidità dalla quale siamo incitati per Odio reciproco a far male a colui che per un uguale affetto di Odio ci ha arrecato danno. XXXVIII. La Crudeltà o la Sevizia è Cupidità dalla quale uno è incitato a far male a colui che amiamo, o di cui abbiamo commiserazione.

284

Capitolo 2 • Spinoza

XXXIX. Il Timore è Cupidità d’evitare un male maggiore che paventiamo con un male minore. XL. L’Audacia è Cupidità dalla quale uno è incitato a fare qualche cosa con un rischio che i suoi uguali hanno paura di affrontare. XLI. La Pusillanimità si dice di colui la cui Cupidità è ostacolata dal timore d’un rischio che i suoi uguali osano affrontare. XLII. La Costernazione si dice di colui la cui Cupidità d’evitare un male è ostacolata dall’ammirazione del male che teme. XLIII. La Cortesia o la Modestia è Cupidità di fare ciò che piace agli uomini, e di omettere ciò che ad essi dispiace. XLIV. L’Ambizione è Cupidità immoderata di Gloria. XLV. L’Ingordigia è Cupidità immoderata, o anche Amore, di banchettare. XLVI. L’Ubriachezza è Cupidità immoderata e Amore di bere. XLVII. L’Avarizia è Cupidità immoderata e Amore delle ricchezze. XLVIII. La Libidine è pure Cupidità e Amore dell’unione dei corpi.

La schiavitù e la libertà dell’uomo Spinoza è convinto che lo sforzo di autoconservazione, che si identifica con la ricerca del proprio utile e da cui, nel caso dell’uomo, deriva tutto il complesso sistema degli affetti, rappresenti la comune legge di comportamento di tutti gli esseri viventi. Di conseguenza, ogni tentativo di sottrarsi alla forza delle passioni si rivela illusorio, in quanto equivale al tentativo di sottrarsi alle leggi deterministiche che reggono l’intero mondo naturale, provocando un’inconcepibile rottura nell’ordine necessario del Tutto. In questo senso il libero arbitrio di cui hanno favoleggiato i filosofi è solo un’illusione: «Gli uomini si credono liberi, perché sono consci dei loro voleri e desideri, ma ignorano le cause per cui sono condotti a desiderare e a bramare» (Etica, I, “Appendice”). E in ciò, dice Spinoza in una sua lettera, fanno venire in mente una pietra che, una volta messa in movimento da una forza esterna, credesse di dirigere autonomamente la sua traiettoria e di scegliere il luogo e il momento della sua caduta: «Proprio questa è quell’umana libertà che tutti si vantano di possedere» (Epistolario, LVIII). E aggiunge: il bambino crede di desiderare liberamente il latte, il fanciullo rissoso la vendetta, e il timido la fuga. L’ubriaco crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che poi da sobrio preferirebbe aver taciuto. Così il delirante, il chiacchierone e molti altri di simil risma credono di agire di libera iniziativa, anziché di essere trasportati da un impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in ogni uomo, è difficile liberarsene. (Epistolario, LVIII)

Tuttavia Spinoza si domanda se l’uomo, pur senza pretendere di evadere dal determinismo naturale, possa raggiungere, in virtù della ragione, una qualche forma di libertà. Ma ha senso parlare di “libertà” in un orizzonte deterministico? Come è possibile essere «liberi dagli affetti», se questi sono necessari? In questo problema e nella relativa risposta (cioè nel nuovo modo di intendere la «libertà dalle passioni») risiedono il cuore e l’originalità dell’etica di Spinoza, a cui egli dedica la quarta e la quinta parte del suo capolavoro, rispettivamente intitolate “La schiavitù umana, ossia la forza delle passioni” e “La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana”.

L’illusione del libero arbitrio

Testo con analisi attiva Il libero arbitrio e la predestinazione (Etica)

Il problema dell’etica spinoziana

285

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Schiavitù e libertà, ossia comportamento passionale e razionale

La virtù come ricerca dell’utile e come conoscenza adeguata

Testo antologico La virtù (Etica)

Il potere della mente sulle passioni

Spinoza definisce la schiavitù umana come «l’impotenza dell’uomo a moderare e a reprimere gli affetti; giacché l’uomo sottoposto agli affetti non è padrone di sé, ma in balia della fortuna» (Etica, IV, “Prefazione”). Ora, se l’uomo fosse solo passione, non sarebbe mai libero, poiché sarebbe sempre dominato da forze esterne che lo tiranneggiano, rendendolo simile a un burattino. Però l’uomo è anche ragione, cioè conoscenza. E come tale, anziché subire inconsapevolmente lo sforzo di autoconservazione, egli può anche porsi di fronte ad esso in modo consapevole e intelligente. Mentre il comportamento passionale è sempre dettato da una conoscenza inadeguata della realtà, cioè da idee «oscure e confuse», nei cui confronti ci si sente impotenti e passivi, al contrario il comportamento razionale è dettato da idee «chiare e distinte», in virtù delle quali si è attivi e causa di atti consapevoli. Pertanto, quando Spinoza parla di libertà, non intende riferirsi a un impossibile tentativo di mettere tra parentesi il determinismo naturale, ossia la ferrea legge dell’autoconservazione e della ricerca dell’utile (personale o collettivo), ma alla possibilità di acquistare consapevolezza di tale meccanismo e non sentirsi “schiacciati” da esso. Infatti noi agiamo sempre in vista dell’utile, comunque inteso o interpretato, e in questo senso non siamo liberi, ma determinati. Tuttavia l’alternativa che si apre di fronte all’uomo è tra l’agire per l’utile in modo istintivo e inconsapevole (schiavitù delle passioni) e l’agire per l’utile in modo consapevole (libertà dalle passioni). Solo in questo senso, secondo Spinoza, possiamo essere liberi, pur senza violare le leggi del determinismo. Per l’uomo, l’unica forma possibile di libertà consiste dunque nel porsi come soggetto attivo e non puramente passivo della propria tendenza all’autoconservazione: «poiché la ragione nulla esige contro la natura» (Etica, IV, prop. 18, scolio), essa non può che riconoscere e assecondare la naturale inclinazione dell’uomo verso il proprio benessere o utile. La virtù consisterà quindi nell’«agire, vivere, conservare il proprio essere secondo le leggi della propria natura» (cioè tendendo all’utile), ma «sotto la guida della ragione» (Etica, IV, prop. 24), vale a dire in modo consapevole, avendo di tutte le cose (comprese le passioni) una «conoscenza adeguata». È questa, nell’orizzonte del determinismo spinoziano, l’unica possibile «liberazione» dalla «schiavitù degli affetti». La tesi spinoziana può essere formulata anche in questo modo: quanto più conosciamo adeguatamente un affetto, tanto meno ne siamo travolti o dominati. Un affetto, dunque, è tanto più in nostro potere e la mente ne patisce tanto meno, quanto più lo conosciamo. (Etica, V, prop. 3)

Questione La ragione può vincere le passioni? (Cartesio, Spinoza)

La conoscenza della necessità

286

Infatti la mente, non potendo agire sull’ordine delle cause esterne, non può “agire” neppure sugli affetti. Tutto ciò che essa può fare è averne una conoscenza adeguata, così da poter modificare l’idea della causa che li produce. In questo senso le passioni non possono essere represse o estirpate, ma possono essere private della loro forza perturbante e nociva, se comprese in modo adeguato. Ora, la conoscenza adeguata è quella che percepisce le cose «sotto l’aspetto della necessità». Secondo Spinoza, infatti, l’affetto prodotto da ciò che immaginiamo nella sua particolarità, slegato da altre cause e dalla totalità in cui è inserito, risulta più forte e nocivo di un affetto che comprendiamo razionalmente come parte di un ordine necessario di cause. Questo perché quando comprendiamo che non c’è nulla di contingente e che tutto è necessa-

Capitolo 2 • Spinoza

rio, la forza violenta dell’affetto e la carica di minaccia che esso trattiene si stemperano. Ad esempio, «la tristezza per un bene perduto si mitiga appena l’uomo che lo ha perduto considera che tale bene non poteva essere conservato in nessun modo» (Etica, V, prop. 6). Si perviene così a una situazione paradossale: la conoscenza adeguata restituisce all’uomo il senso della sua dipendenza dal Tutto. Pertanto la libertà non è altro che la consapevolezza della propria necessità ed è virtuoso e felice solamente chi sa di essere una modificazione finita e transitoria dell’infinito e nell’infinito.

Il paradosso dell’etica spinoziana

La virtù tra ragione ed emozione In quanto fonte di «libertà», la conoscenza adeguata è per l’uomo «bene supremo» e sorgente di «beatitudine»: essa consiste, come abbiamo visto, nel comprendere la realtà alla luce dell’ordine necessario del mondo, cioè alla luce della Sostanza divina, percependo le cose finite e molteplici «sotto la specie», o dal punto di vista, «dell’eternità» e dell’unità di Dio. Tale supremo grado del conoscere (come vedremo) è definito da Spinoza «conoscenza di Dio» o «amore intellettuale di Dio», poiché Dio non è altro che l’ordine della natura da comprendere e in cui riconoscere se stessi e le cose come parti di una totalità:

La conoscenza di Dio come «bene supremo»

Il bene supremo della Mente è la conoscenza di Dio, e la suprema virtù della Mente è conoscere Dio. (Etica, III, prop. 28)

Con l’espressione «amore intellettuale di Dio» Spinoza sottolinea che la conoscenza di Dio è anche amore, nel senso che è un’emozione di gioia che accompagna la mente quando comprende l’ordine necessario del mondo. In questo indissolubile legame tra ragione ed emozione consiste uno degli aspetti più originali dell’etica spinoziana, che proprio per questo motivo non può essere ridotta a una variante dell’etica stoica. Infatti, se (per Spinoza come per gli stoici) la suprema virtù e felicità consiste nel vivere secondo ragione, tuttavia (per Spinoza) la ragione non riesce “da sola” a renderci liberi e felici, ma è efficace quando genera delle emozioni – letizia, gioia, amore – con cui vincere la tristezza, il risentimento e l’odio, che sono propri dell’uomo ignorante e che sono fonte di malessere. In questo senso, per avere un qualche «potere» sulle emozioni negative la ragione deve farsi essa stessa emozione, gioia che scaturisce dal possesso della verità e dall’esercizio di una conoscenza razionale adeguata: La conoscenza vera […] non può, in quanto vera, impedire alcun affetto, ma solo in quanto (Etica, IV, prop. 14) è un affetto, se è più forte dell’affetto da impedire, potrà impedirlo.

Secondo Spinoza, infatti, un affetto negativo (che produce tristezza) «non può essere ostacolato né tolto se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare», capace di produrre letizia (Etica, IV, prop. 7). Ecco perché la felicità non consiste nella virtù intesa come “repressione” delle passioni, ma nel “superamento” delle passioni negative da parte di una passione “superiore”: l’«amore di Dio», cioè la conoscenza appassionata e coinvolgente della natura, capace di generare un sentimento stabile, piacevole, scevro da gelosia, invidia e paura. La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le nostre voglie. (Etica, V, prop. 42)

Ragione ed emozione

IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Spinoza nella pittura seicentesca, p. 310 Felicità e virtù

Esercizi interattivi L’etica in Spinoza

287

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Mediante la gioia che deriva dall’amore per la conoscenza del Deus sive Natura quale totalità necessaria, il sapiente, vale a dire l’uomo virtuoso e libero, vince il malessere che può derivare da passioni e amori caduchi, nonché la tristezza che scaturisce dal più grande dei timori, quello della morte: l’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte, in quanto la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita. (Etica, IV, prop. 67) Tra antichità e modernità: la dimensione sociale della moralità

In Spinoza sembrano dunque incontrarsi l’antica saggezza greca e il proposito rinascimentale-moderno di vivere l’esistenza nella sua perfezione mondana: la ragione nulla esige contro la natura, ma vuole che ciascuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che è veramente utile, e appetisca tutto ciò che conduce veramente l’uomo ad una perfezione maggiore. (Etica, IV, prop. 18)

Tuttavia, contrariamente al carattere individualistico di certa etica greca (soprattutto ellenistica) e in armonia con lo spirito dei moderni, Spinoza concepisce la virtù e la ricerca dell’utile in chiave sociale. Per lui l’uomo morale è un uomo sociale, in quanto la ragione spinge l’individuo a unirsi ai suoi simili, per meglio conseguire un utile che, in tal modo, diventa utile collettivo (v. moralità e socialità).

Sintesi audio La concezione etica di Spinoza

Nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso: nulla, dico, di più eccellente per conservare il proprio essere gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto in modo che le Menti e i Corpi di tutti formino quasi una sola Mente ed un solo Corpo […] e tutti cerchino insieme per sé l’utile comune di tutti; donde segue che gli uomini che sono guidati dalla ragione […] non appetiscono nulla per sé, che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti. (Etica, IV, prop. 18)

6. I generi della conoscenza La liberazione dalle passioni, come abbiamo visto, si raggiunge soltanto con la contemplazione del Dio-Natura, ossia con ciò che Spinoza chiama «l’amore intellettuale di Dio». Ciò risulta evidente anche dalla teoria dei tre generi della conoscenza, che costituisce la ricapitolazione sintetica della metafisica, della gnoseologia e dell’etica di Spinoza, e lo sbocco ultimo delle sue meditazioni. Conoscenza e azione

Testo antologico I tre generi della conoscenza (Etica)

Fin dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto, Spinoza aveva articolato il processo conoscitivo secondo alcuni stadi o momenti, facendoli corrispondere ad altrettante maniere di concepire la realtà e di atteggiarsi di fronte a essa. Analogamente ai filosofi del mondo classico e ai grandi sistemi dell’Oriente, egli ritiene infatti che il progresso conoscitivo proceda parallelamente al progresso morale e che la vita mentale e la vita pratica formino un tutt’uno. In questa prospettiva vanno dunque compresi i tre generi o gradi della conoscenza, che Spinoza distingue (non a caso) nel secondo libro dell’Etica.

I primi due generi La conoscenza di primo genere

288

La conoscenza di primo genere consiste nella percezione sensibile, o immaginazione, mediante la quale la mente coglie la realtà in modo slegato e parziale, tramite idee «oscure e

Capitolo 2 • Spinoza

confuse», che essa si limita a “subire” senza comprendere, come se fossero «conseguenze senza premesse». La cognizione di primo genere si identifica quindi con la conoscenza pre-scientifica del mondo, la quale, anziché connettere causalmente tra loro le varie realtà, collocandole nell’ordine dovuto, si limita a percepirle isolatamente, oppure a unirle in “classi” etichettate da nomi comuni (i cosiddetti “universali”: uomo, cavallo ecc.). L’errore di questo tipo di conoscenza consiste nella sua inadeguatezza, ossia nel modo parziale e confuso di rappresentare le cose. Non si tratta, quindi, di un errore vero e proprio (“positivo”), ma piuttosto di una “mancanza” o “privazione” di conoscenza adeguata (cognitionis privatio), cioè di quella forma di sapere che sola è in grado di cogliere l’ordine in cui si collocano, e divengono intelligibili, le varie parti della realtà. Il corrispondente etico di questa forma di conoscenza è la schiavitù delle passioni, ovvero quella situazione in cui l’uomo, non comprendendo di non poter sfuggire alla necessità dell’ordine naturale, si lascia sopraffare dalle proprie emozioni. La conoscenza di secondo genere scaturisce invece dalla ragione e si fonda sulle «idee comuni». Con questa espressione, di origine stoica, Spinoza non intende gli “universali” della tradizione (da lui relegati, come abbiamo visto, nel primo genere della conoscenza, perché ritenuti, nominalisticamente, rappresentazioni schematiche e confuse delle cose, prive di un autentico valore gnoseologico), bensì quelle idee adeguate, chiare e distinte, che sono proprie della ragione e che riproducono le caratteristiche strutturali delle cose (estensione, figura, movimento ecc.), vale a dire i concetti della moderna scienza meccanicistica. La cognizione di secondo genere si identifica dunque con quella visione razionale del mondo che trova nella scienza la sua tipica espressione. Diversamente dal primo genere di conoscenza, essa connette le cose tra loro, considerandole nei loro rapporti di causa-effetto e nel loro ordine necessario. L’equivalente comportamentale di questa fase conoscitiva è la vita secondo ragione o secondo virtù, in cui l’uomo padroneggia il proprio sforzo di autoconservazione e dirige intelligentemente la propria condotta.

La conoscenza di secondo genere

Il terzo genere e l’«amore intellettuale» di Dio Alla conoscenza scientifica, che avanza discorsivamente di causa in causa e che non esaurisce mai totalmente l’infinita catena causale degli esseri, Spinoza fa seguire una conoscenza di terzo genere, che egli chiama «scienza intuitiva» e di cui tratta soprattutto nella quinta e ultima parte dell’Etica, dedicata alla «libertà umana». Questa terza e suprema forma di cognizione, che si fonda sull’intelletto, consiste (come abbiamo anticipato nel paragrafo precedente) nel concepire la realtà alla luce della Sostanza, cogliendone adeguatamente la struttura ontologica e l’articolazione triadica Sostanzaattributi-modi. La conoscenza intuitiva si identifica dunque con la metafisica, ossia con la visione delle cose nel loro scaturire da Dio, o, se si vuole, con quella suprema intuizione attraverso cui si coglie l’Uno nei molti e i molti nell’Uno.

La scienza intuitiva delle cose

289

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Con la conoscenza di terzo genere la mente, innalzandosi al di sopra delle limitazioni del finito (che ancora permangono nel secondo genere), si colloca dal punto di vista di Dio. Tant’è vero che l’Etica di Spinoza, nelle intenzioni del suo autore, vuole essere una sorta di colpo d’occhio divino gettato sul mondo. Il mondo secondo i sensi e secondo l’intelletto

Esercizi interattivi I generi della conoscenza

L’amore intellettuale di Dio

La massima libertà dell’uomo

Considerato dalle vertiginose altezze della metafisica, l’universo appare totalmente diverso da ciò che sembra al pensiero comune e al primo genere di conoscenza. In questo senso si può affermare che, in Spinoza, al dualismo gnoseologico tra conoscenza inadeguata (primo genere) e conoscenza adeguata (secondo e terzo genere) corrisponde, come hanno fatto notare taluni interpreti, un radicale dualismo ontologico, che per certi versi ricorda quello eleatico e platonico. Ai sensi e all’immaginazione il mondo appare molteplice, contingente e temporale, ossia come una pluralità di cose, esistenti in relazione a un certo spazio e a un certo tempo, e tali che, pur essendo, potrebbero non essere. Per l’intelletto esso si configura invece come qualcosa di unitario, in quanto la molteplicità è solo l’insieme dei modi d’essere dell’unica Sostanza; di necessario, poiché il contingente è solo ciò di cui ignoriamo le cause; di eterno, in quanto ciò che pare svolgersi nel tempo è in realtà la manifestazione di una struttura meta-temporale, e ogni “modo”, considerato in Dio, risulta eterno. Non a caso, Spinoza distingue nettamente tra la considerazione dell’universo sub specie temporis, ossia dal punto di vista del tempo, e quella sub specie aeternitatis, ossia dal punto di vista dell’eternità. Ai sensi e all’immaginazione, inoltre, il mondo può apparire talora come imperfezione e male. Dal punto di vista dell’intelletto, invece, bene, male, perfezione, imperfezione, ordine e disordine sono categorie solamente umane e soggettive, in quanto relative all’utile degli individui. Alla letizia che nasce dalla conoscenza di quell’ordine necessario che è la stessa sostanza di Dio Spinoza dà il nome di amore intellettuale di Dio. ➔ T5 p. 308 L’amore intellettuale di Dio è eterno ed è parte dell’amore infinito con cui Dio ama se stesso. Questa concezione rivela chiaramente l’ultimo pensiero di Spinoza per ciò che riguarda Dio e la conoscenza adeguata dell’uomo: ■■■ Dio è l’ordine geometrico dell’universo; ■■■ la conoscenza di ogni singola cosa come elemento o manifestazione necessaria di quest’ordine è contemplazione di Dio e amore intellettuale di Lui. Così come il misticismo di Giordano Bruno era in realtà un naturalismo, poiché non tendeva ad attingere l’Unità trascendente, ma il principio immanente della natura, analogamente il misticismo di Spinoza è in realtà una metafisica geometrizzante, per la quale l’unione mistica con Dio non è altro che il cogliere la sostanza ultima delle cose nella struttura matematica dell’universo. L’amore intellettuale di Dio coincide (lo ripetiamo) anche con la «beatitudine», ovvero rappresenta il grado più alto dell’ascesi etica dell’uomo e si identifica con la libertà e la virtù portate ai loro massimi livelli: Quanto più la Mente gode di quest’Amore divino, ossia della beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la potenza che ha sugli affetti, e tanto meno essa patisce dagli affetti che sono cattivi. (Etica, V, prop. 42, dimostrazione)

290

Capitolo 2 • Spinoza

A questo punto, al di là del linguaggio misticheggiante del quinto libro dell’Etica e delle numerose difficoltà a cui esso dà luogo, risulta chiaro che cosa sia quella «somma perfezione» esistenziale che Spinoza, fin dal Trattato sull’emendazione dell’intelletto, aveva posto come traguardo per il genere umano. Perseguire l’utile in modo razionale e vivere la vita nella miglior maniera possibile, rapportandosi serenamente al Tutto eterno e necessario di cui si è transitorie manifestazioni: ecco la beatitudine secondo Spinoza e il messaggio ultimo della sua filosofia.

Il messaggio ultimo di Spinoza

7. Lo Stato, la religione, la libertà di pensiero La teoria dello Stato La dottrina spinoziana dello Stato, esposta nel Trattato politico e nel Trattato teologicopolitico, è orientata al realismo politico. Ciò avvicina Spinoza a Hobbes (v. unità 5, cap. 1), con il quale il filosofo olandese condivide anche l’intenzione di considerare con il metodo geometrico i rapporti umani che danno origine alle comunità politiche. Come Hobbes, anche Spinoza muove dalla descrizione di un ipotetico stato di natura, nel quale il diritto di ciascun uomo coincide con la sua potenza, giacché dalla natura ogni essere riceve tanto diritto quanta è la sua forza di esistenza e di azione. Ogni uomo è quindi di diritto altrui finché è sotto il potere altrui ed è nel proprio diritto quando può respingere ogni violenza, vendicare il danno che gli è stato fatto e vivere come gli pare. Ma questa condizione determina uno stato di «guerra di tutti contro tutti» (secondo una definizione già di Hobbes), in cui il singolo individuo non può difendersi da solo e in cui, di conseguenza, il suo diritto naturale su tutto è reso nullo e fittizio. Se inoltre si considera che gli uomini non possono neppure provvedere ai loro bisogni senza un aiuto reciproco, si vede subito che la condizione di precarietà che caratterizza lo stato di natura spinge gli uomini a cercare un comune accordo per una pacifica convivenza. E poiché quanti più individui si associano, tanto più cresce la loro potenza, e quindi il loro diritto, dalla loro associazione deriva un diritto più forte, che appartiene a ciò che si chiama governo. Il sorgere di un diritto comune, dovuto all’istituzione di un governo, fa nascere le valutazioni morali, che si giustificano solo nell’ambito di una comunità organizzata, mentre non hanno senso al di fuori di essa. La giustizia e l’ingiustizia nascono così a opera del diritto comune. Così come l’individuo nello stato naturale, allo stesso modo lo Stato ha nei confronti dei singoli tanto diritto quant’è la sua potenza. Il diritto dello Stato limita quindi il potere dell’individuo, ma, propriamente parlando, non annulla il suo diritto naturale: tanto nello stato di natura quanto nella società l’uomo agisce secondo le leggi della propria natura e mira al proprio utile, sicché, in entrambe le condizioni, è spinto ad agire o a non agire dalla speranza o dalla paura. La differenza fondamentale tra lo stato di natura e lo stato civile è che in quest’ultimo tutti temono le stesse cose e per tutti ci sono una sola garanzia di sicurezza e un

Dallo stato di natura…

… all’istituzione di un governo

La dimensione sociale della morale

La preferibilità dello stato civile

291

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

solo modo di vivere. Ciò non significa che all’individuo sia tolta la facoltà del giudizio: si può dunque non condividere le leggi dello Stato; ma i vantaggi dello stato civile sono comunque tali che la ragione consiglia a ciascuno di sottomettersi alle sue regole. I limiti del potere statale

Spinoza non ritiene tuttavia che il diritto dello Stato sia assoluto, cioè illimitato. Come ogni altra cosa naturale, lo Stato non può esistere e conservarsi se non si conforma alle leggi della propria natura. Il limite della sua azione è perciò determinato da quelle leggi senza le quali esso cessa di essere “Stato”. Lo Stato, dice Spinoza, pecca quando fa o tollera cose che possono causare la sua rovina; pecca nel senso in cui i filosofi e i medici dicono che pecca la natura, cioè nel senso che agisce contro il dettame della ragione. In altri termini, lo Stato è sottomesso a leggi nello stesso senso in cui vi è sottomesso l’uomo nello stato naturale: nel senso, cioè, che è obbligato a non distruggere se stesso. Così come per l’uomo singolo, dunque, anche per lo Stato la regola migliore sarà quella di fondarsi sui precetti della ragione, che sono i soli che garantiscano la sua conservazione. E poiché i fini dello Stato sono la pace e la sicurezza della vita, così la legge fondamentale che limita l’azione dello Stato deriva da questa sua intrinseca finalità, senza la quale esso viene meno alla sua stessa natura, cioè allo scopo per il quale è sorto.

La religione come obbedienza La fede non concerne la verità, ma l’obbedienza

Il Trattato teologico-politico è esplicitamente diretto a sottrarre l’uomo alla schiavitù della superstizione e a restituirlo alla sua libertà di pensiero. Spinoza analizza pertanto criticamente l’intero contenuto della Bibbia, allo scopo di dimostrare che ciò che essa insegna concerne la vita pratica e l’esercizio della virtù, e non la verità. Egli offre dunque una definizione della fede che la pone completamente al di là della credenza in determinati dogmi, riconducendola piuttosto a un atto pratico di obbedienza: La fede consiste nell’avere, nei confronti di Dio, quei sentimenti tolti i quali viene tolta l’obbedienza a Dio e che sono posti necessariamente quando è posta tale obbedienza. […] Chi non vede che il vecchio e nuovo Testamento non sono altro che una disciplina dell’obbedienza e che a null’altro tendono se non a che gli uomini sinceramente obbediscano? Mosè non cercò di convincere gli israeliti per mezzo della ragione, ma cercò di obbligarli con l’alleanza, coi giuramenti e coi benefici; e affinché osservassero la legge li minacciò con le pene e li spronò con i premi: mezzi tutti che nulla hanno a che vedere con la scienza e mirano soltanto all’obbedienza. Né la dottrina evangelica contiene null’altro oltre la semplice fede: cioè il credere a Dio, l’onorarlo, o, il che è lo stesso, obbedirlo. (Trattato teologico-politico, 14)

L’unico precetto che la Scrittura insegna è l’amore per il prossimo; sicché, in base alla Scrittura, a nient’altro si è tenuti a credere se non a ciò che è assolutamente necessario per ottemperare a questo precetto. Fede e ragione

292

La riduzione della fede all’obbedienza al comandamento divino dell’amore elimina, secondo Spinoza, ogni pericolo di dissenso religioso, perché riconduce ogni credo a quei (pochi) dogmi «l’ignoranza dei quali rende assolutamente impossibile l’obbedienza». Ma la riduzione della fede all’obbedienza rende impossibile anche il conflitto tra ragione e fede, ovvero tra filosofia e teologia, dal momento che queste si occupano di ambiti del tut-

Capitolo 2 • Spinoza

to diversi: la prima dell’ambito conoscitivo della verità; la seconda dell’ambito pratico dell’obbedienza a Dio. Pertanto, se il filosofo deve fare riferimento ai concetti scientifici, il teologo deve invece fare riferimento alle Scritture.

Testo antologico La fede come obbedienza e la «libertà di filosofare» (Trattato teologico-politico)

La libertà di pensiero L’analisi spinoziana dell’organizzazione politica e la sua definizione della fede come obbedienza hanno come fine prioritario quello di difendere e garantire all’uomo la libertà della ricerca filosofica. Così come nessuna religione può costringere un uomo a credere nella verità di tutti i suoi dogmi (ma solo, come abbiamo visto, di quelli strettamente necessari per non trasgredire il precetto dell’amore verso il prossimo), allo stesso modo lo Stato non può privare gli uomini di tutti i loro diritti, fino al punto che essi nulla possano fare senza la volontà di coloro che governano. In qualsiasi comunità politica l’uomo conserva infatti una parte dei suoi diritti, e il diritto più geloso e meno trasferibile è la facoltà di pensare e di giudicare liberamente. Né su questa facoltà è possibile alcuna forma di costrizione: i governi possono tenere a freno la lingua degli uomini, ma non il loro pensiero. Bisogna quindi annoverare tra i governi violenti quelli che pretendono di esercitare una costrizione sul pensiero e di prescrivere a ognuno ciò che deve riconoscere come vero o come falso e le opinioni da cui deve essere mosso nella devozione a Dio: Il fine dello Stato non è quello di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in macchine, ma al contrario quello di garantire che la mente e il corpo di essi adempiano con sicurezza alla loro funzione, che essi si servano della libera ragione e non si combattano con odio, ira o inganno, né si affrontino con animo iniquo. (Trattato teologico-politico, 20)

L’autentico fine dello Stato è quindi, a ben guardare, l’esercizio della libertà, come è la libertà il fine ultimo del percorso conoscitivo e morale dell’uomo. Filosofo della necessità (che concepisce Dio, la sua azione creatrice e il suo governo nel mondo come una vivente geometria infallibile), Spinoza non ha infatti altro scopo nella sua opera speculativa che quello di garantire all’uomo la libertà dalle passioni, la libertà religiosa, la libertà politica. VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Il diritto di pensare e di giudicare liberamente

Testo antologico La libertà di pensiero e di espressione (Trattato teologico-politico)

Filosofo della necessità o della libertà? Approfondimento Spinoza nella cultura moderna Sintesi audio La conoscenza e la politica in Spinoza

GLOSSARIO e RIEPILOGO

L’etica e la politica Naturalità dell’uomo p. 281 > Contro l’antropologia filosofica tradizionale, che considerava l’uomo come una sorta di eccezione ontologica, Spinoza afferma la “naturalità dell’uomo”, che egli ritiene sottoposto alle leggi dell’universo, al pari di tutti gli altri elementi natu-

rali. «La maggior parte di quelli che hanno scritto sugli affetti e sulla maniera di vivere degli uomini», osserva Spinoza, «sembra che trattino non di cose naturali che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero in un impero. Credono, infatti, che l’uomo turbi l’ordine della natura più

293

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

di quel che lo segua» (Etica, III, “Prefazione”). In verità, controbatte il filosofo della necessità cosmica, «le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutto avviene e si muta da una forma all’altra, sono dovunque e sempre le medesime [sunt ubique, et semper eadem] e quindi una sola e medesima deve pure essere la maniera di conoscere la natura delle cose, quali che esse siano, e cioè mediante le leggi e le regole universali della natura» (Etica, III, “Prefazione”).

Geometrismo morale p. 282 > Essendo nient’altro che casi particolari di leggi universali, le azioni umane obbediscono a regole fisse e necessarie; pertanto, l’unico atteggiamento filosofico conveniente di fronte alle passioni non è quello di deriderle, compiangerle o condannarle, ma quello di comprenderle, trattandole «non come vizi della natura umana, ma quali proprietà che le appartengono necessariamente, così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, il temporale, il tuono e simili» (Trattato politico, I, par. IV). Le passioni sono dunque oggetto di uno studio condotto con “matematica” obiettività; scrive Spinoza: «Considererò le azioni umane e gli umani appetiti come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi» (Etica, III, “Prefazione”).

Discriminazione degli affetti p. 282 > Spinoza analizza i singoli affetti, al fine di scorgere quali di essi siano conformi o difformi rispetto alla ragione. In tal modo, egli discrimina le emozioni, a seconda che promuovano l’intensità e la perfezione della vita oppure la ostacolino e la deprimano. Vi sono affetti, osserva Spinoza, che di per sé sono sempre buoni (la letizia, la gaiezza ecc.); altri che sono di per sé cattivi (la tristezza, l’odio ecc.); altri che sono buoni o cattivi a seconda della loro “misura” (l’amore, il desiderio ecc.). Tra gli affetti disapprovati da Spinoza vi sono anche la compassione, l’umiltà, la superbia, il pentimento e, soprattutto, il timore della morte: «L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte, e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita» (Etica, IV, prop. 67).

Sforzo (conatus) di autoconservazione p. 282 > Lo “sforzo di autoconservazione” è il principio fondamentale che regge il comportamento dell’individuo. «Questo sforzo [conatus], quando è riferito soltanto alla Mente, si chiama Volontà [Voluntas]; ma, quando è riferito insieme alla Mente e al Corpo, si chiama Appetito [Appetitus]; questo, quindi, non è altro se non la stessa essenza dell’uomo» (Etica, III, 9, scolio). Quando l’Appetito è cosciente di sé si dice Cupidità (Cupiditas).

294

Affetti p. 282 > Per “affetto” (affectus) Spinoza intende «le affezioni [modificazioni] del Corpo, dalle quali la potenza d’agire del Corpo stesso è accresciuta o diminuita, assecondata o impedita, e insieme le idee di queste affezioni» (Etica, III, “Definizioni”). Gli affetti si dividono in “azioni” e “passioni” (v.). Letizia p. 282 > Per “Letizia” (Laetitia) Spinoza intende l’emozione «per la quale la Mente passa ad una perfezione maggiore» (Etica, III, 11, scolio), ovvero «il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione» (Etica, III, “Definizione degli affetti”).

Tristezza p. 282 > Per “Tristezza” (Tristitia) Spinoza intende l’emozione «per la quale essa [Mente] passa ad una perfezione minore» (Etica, III, 11, scolio), ovvero «il passaggio dell’uomo da una maggiore ad una minore perfezione» (Etica, III, “Definizione degli affetti”).

Affetti primari p. 282 > Cartesio aveva parlato di passioni primitive – dalle quali risultano composte tutte le altre – identificandole nell’ammirazione, nell’amore, nell’odio, nel desiderio, nella gioia e nella tristezza. Analogamente, Spinoza parla di «affetti primari» e li identifica nello sforzo di autoconservazione, nella Letizia e nella Tristezza, scrivendo: «oltre questi tre non riconosco altro affetto primario; mostrerò infatti, poi, che gli altri derivano da questi tre» (Etica, III, 11, scolio). Da questi tre affetti primari derivano anche le nozioni di bene e di male (v.).

Affetti secondari p. 282 > Gli “affetti secondari” sono quelli che derivano dai tre sopra citati affetti primari (v.). Nel libro III dell’Etica Spinoza ne offre un’analisi dettagliata, presentandone, nelle “Definizioni degli affetti”, un quadro sintetico. Passioni p. 282 > Per “passioni” (in senso stretto e rigoroso) Spinoza intende gli affetti che subiamo o patiamo, cioè di cui non siamo causa adeguata; per “azioni” gli affetti di cui possiamo essere causa adeguata. «Se noi dunque possiamo essere causa adeguata di alcuna di queste affezioni, allora per Affetto intendo un’azione; altrimenti intendo una passione» (Trattato politico, I). N.B. 1. Le azioni della mente nascono da idee adeguate (chiare e distinte); le passioni invece dipendono da idee inadeguate (oscure e confuse). 2. Azioni e passioni corrispondono, rispettivamente, alla libertà (v.) e alla schiavitù (v.) dell’uomo.

Il bene e il male p. 283 > Il “bene” e il “male”, per Spinoza, sono tali unicamente in rapporto alla natura propria

Capitolo 2 • Spinoza

dell’uomo, cioè all’istinto di autoconservazione. Il bene sarà dunque ciò che favorisce l’autoconservazione, il male ciò che la ostacola: «Noi chiamiamo buono o cattivo ciò che giova o nuoce alla conservazione del nostro essere, ciò che accresce o diminuisce, asseconda od ostacola la nostra potenza d’agire. In quanto, dunque, noi percepiamo che una cosa ci fa provare Letizia o Tristezza, noi la chiamiamo buona o cattiva» (Etica, IV, prop. 8).

Determinismo p. 285 > In accordo con i presupposti necessitaristici del sistema, Spinoza professa una forma di determinismo che riduce il libero arbitrio a un’illusione della mente, derivante dal fatto che gli uomini «sono consapevoli delle loro azioni e dei loro appetiti, ma ignari delle cause da cui sono determinati ad appetire qualche cosa» (Etica, IV, “Prefazione”).

miamo un’idea chiara e distinta» (Etica, V, 3). 2. Con questa dottrina Spinoza stabilisce un nesso tra virtù - attività - ragione - utilità - libertà - potenza - felicità che è tra i più originali della nostra tradizione filosofica.

Ragione ed emozione p. 287 > Persuaso che «un affetto non può essere ostacolato né tolto se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare» (Etica, IV, prop. 7), Spinoza ne deduce che la conoscenza del bene e del male, cioè la ragione, può vincere le emozioni solo a patto di farsi, essa stessa, emozione: «La conoscenza vera del bene e del male non può, in quanto vera, impedire alcun affetto, ma solo in quanto è considerata come un affetto» (Etica, IV, prop. 14).

Moralità e socialità p. 288 > Contrariamente al carat-

noza intende «l’impotenza dell’uomo a moderare e a reprimere gli affetti; giacché l’uomo sottoposto agli affetti non è padrone di sé, ma in balia della fortuna; al cui potere è così soggetto che spesso è costretto a fare il peggio, benché veda il meglio» (Etica, IV, “Prefazione”).

tere individualistico di certa etica greca, soprattutto ellenistica, Spinoza concepisce la virtù e la ricerca dell’utile in chiave sociale. Infatti se «nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso», «segue che gli uomini che sono guidati dalla ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscono nulla per sé, che non desiderino per gli altri uomini» (Etica, IV, prop. 18).

Libertà umana p. 286 > La “libertà umana”, secondo

Generi della conoscenza p. 288 > Nel processo cono-

Spinoza, non consiste in un’impossibile evasione dal determinismo naturale, quale si esprime nella ferrea legge dell’autoconservazione e della ricerca dell’utile, ma nella possibilità, da parte dell’uomo, di esercitare il potere della ragione sugli affetti (Etica, V, “Prefazione”), ponendosi come soggetto attivo, e non puramente passivo, della propria tendenza all’autoconservazione. In questo senso la libertà fa tutt’uno con la virtù (v.).

scitivo Spinoza distingue tre stadi o «generi», che fa corrispondere ad altrettanti modi di concepire la realtà e di atteggiarsi di fronte a essa. Egli ritiene infatti che il progresso nella conoscenza sia parallelo al progresso morale e che vita mentale e vita pratica siano una cosa sola.

Schiavitù umana p. 286 > Per “schiavitù umana” Spi-

Virtù p. 286 > La “virtù”, per Spinoza, non è altro che «l’agire secondo le leggi della propria natura» (Etica, IV, prop. 18), ossia lo sforzo di autoconservazione divenuto cosciente di sé e saggiamente diretto. In quanto tale, la virtù è una tecnica razionale del ben vivere: «agire per virtù non è altro che agire, vivere, conservare il proprio essere sotto la guida della ragione, e ciò sul fondamento del proprio utile» (Etica, IV, prop. 24). N.B. 1. L’uomo agisce virtuosamente e attivamente solo in quanto ha una conoscenza vera delle cose e possiede delle idee adeguate. Infatti, quando ce ne facciamo un’idea chiara e distinta, le passioni (che pure non possono essere completamente eliminate, essendo l’uomo un essere finito costretto a subire l’azione di cause esterne) cessano di essere tali: «Un affetto, che è una passione, cessa di essere una passione, appena ne for-

Conoscenza di primo genere p. 288 > La “conoscenza di primo genere” coincide, secondo Spinoza, con la percezione sensibile e con l’immaginazione. Si tratta di una forma di conoscenza pre-scientifica, che coglie soltanto aspetti parziali della realtà e non riconosce i nessi causali. La rappresentazione del mondo che ne deriva è limitata e confusa. Il corrispondente sul piano etico di questo momento della conoscenza è costituito dalla condizione in cui l’uomo è schiavo delle passioni.

Conoscenza di secondo genere p. 289 > La “conoscenza di secondo genere” si deve alla ragione e si fonda sulle «idee comuni», ovvero su quelle nozioni (della scienza moderna) che riproducono le caratteristiche strutturali delle cose (ad es. l’estensione, la figura, il movimento…). Questo tipo di conoscenza, che nei procedimenti razionali del sapere scientifico trova la sua massima espressione, considera le cose nei loro rapporti di causa-effetto e nel loro ordine necessario. L’equivalente

295

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

etico di questa fase conoscitiva è la vita secondo virtù (v.) e libertà (v.).

Conoscenza di terzo genere p. 289 > La “conoscenza di terzo genere” si fonda sull’intelletto e consiste nel concepire la realtà alla luce di una scienza intuitiva che, innalzandosi al di sopra delle limitazioni del finito e della conoscenza di secondo genere (la quale avanza discorsivamente di causa in causa, ma non perviene mai alla fonte prima degli esseri), arriva a cogliere l’Uno nei molti e i molti nell’Uno. In altri termini, il terzo grado di conoscenza si identifica con la metafisica stessa di Spinoza, ossia con la visione delle cose nel loro scaturire da Dio. Tale visione consiste nel cogliere l’universo sub specie aeternitatis, cioè dal punto di vista dell’eternità. Il culmine di questo stadio conoscitivo è l’amore intellettuale di Dio (v.). Amore intellettuale di Dio p. 290 > Per “amore intellettuale di Dio” (amor Dei intellectualis) Spinoza intende la letizia che nasce dalla conoscenza di quell’ordine necessario che è la stessa sostanza di Dio. L’amore intellettuale di Dio è eterno ed è parte dell’amore infinito con cui Dio ama se stesso. Poiché Dio coincide con l’ordine geometrico dell’universo, la conoscenza di ogni singola

296

cosa come elemento o manifestazione necessaria di quest’ordine è contemplazione di Dio e amore intellettuale di Lui. L’amore intellettuale di Dio si pone al culmine dell’ascesi etica dell’uomo e si identifica con la libertà e la virtù portate ai massimi livelli.

Stato p. 291 > Dalla considerazione dello stato di natura, nel quale il diritto di ogni individuo coincide con la sua forza, Spinoza passa a delineare le caratteristiche dello stato civile, che nasce dal comune accordo tra gli individui e nel quale soltanto si giustificano le valutazioni morali, e in particolare i concetti di “giustizia” e di “ingiustizia”. Lo stato civile è vantaggioso per l’uomo e pertanto la ragione suggerisce a ciascuno di sottomettersi alle sue leggi. Il diritto dello Stato non è tuttavia assoluto, poiché anche lo Stato, come ogni cosa naturale, è limitato dalla sua intrinseca finalità, senza la quale cessa di esistere; e poiché il fine dello Stato è, in ultima analisi, la libertà, ogni comunità politica dovrà garantire ai suoi componenti l’esercizio della libera ragione.

Fede p. 292 > Secondo Spinoza la fede consiste in un atto pratico di obbedienza e pertanto non ha a che fare con la verità, il che elimina alla radice le dispute di carattere religioso e i conflitti tra fede e ragione.

Capitolo 2 • Spinoza

MAPPA Spinoza La SOSTANZA

Mappa interattiva

è ciò che è in sé

è ciò che si concepisce per sé

si identifica con Dio

per esistere non ha bisogno di altro

il suo concetto non ha bisogno di altri concetti per essere inteso

è increata, eterna, infinita, unica e indivisibile

La NATURA

la Sostanza è Natura, in quanto coincide con l’ordine necessario e razionale del Tutto

il Dio-Natura è un ordine geometrico da cui tutto scaturisce in modo necessario

la concezione finalistica non è che un prodotto dell’immaginazione e della superstizione

Le PASSIONI

devono essere analizzate con metodo geometrico in quanto sottostanno alle medesime leggi che regolano i fenomeni dell’universo

hanno origine dallo sforzo di autoconservazione (tendenza a perseverare nel proprio essere)

I GRADI della CONOSCENZA

la percezione sensibile o immaginazione offre rappresentazioni parziali e confuse e non coglie il nesso causale tra i fenomeni

rendono l’uomo schiavo ma possono essere dominate con la ragione

Mappa interattiva

la ragione

l’intelletto

offre idee chiare e distinte e stabilisce il nesso tra le cause e gli effetti

coincide con l’«amore intellettuale di Dio» e consente di intuire la suprema unità dell’universo

297

I TESTI CAPITOLO 2 Spinoza

La metafisica A differenza di quanto il titolo potrebbe far pensare, il capolavoro di Spinoza, l’Ethica ordine geometrico demonstrata, non riguarda esclusivamente il problema morale, ma ha un carattere enciclopedico. L’opera è infatti articolata in cinque parti o libri, dedicati rispettivamente: a Dio; alla natura e all’origine della mente; all’origine e alla natura delle passioni; alla «servitù umana», ovvero alla «forza delle passioni»; alla «potenza dell’intelletto», cioè alla libertà dell’uomo. I brani che seguono sono tratti dalla prima parte dell’Etica, e quindi espongono la concezione metafisico-teologica di Spinoza.

t1 >

Le definizioni fondamentaLi

Nella filosofia di Spinoza trova forse la massima espressione l’entusiasmo dei pensatori razionalisti del XVII secolo per il metodo geometrico. Indubbiamente influenzato, sul piano metodologico, da Cartesio, nella composizione dell’Etica Spinoza si ispira agli Elementi di Euclide e struttura l’opera come un trattato di geometria, imperniandola su una serie di definizioni, assiomi, proposizioni (ovvero teoremi), dimostrazioni, corollari e scolii (ovvero chiarificazioni). Il brano che segue contiene alcune delle definizioni fondamentali presentate da Spinoza in apertura della prima parte dell’opera.

2 4 6 8

298

Definizioni I. Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente. II. Si dice finita nel suo genere una cosa che può essere limitata da un’altra della stessa natura. Per esempio diciamo che un corpo è finito perché ne concepiamo sempre un altro più grande. Così pure un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma né un corpo può essere limitato da un pensiero né un pensiero da un corpo. III. Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé: ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato.

Capitolo 2 • Spinoza

12 14 16 18 20 22 24

IV.

Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza. V. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro per mezzo del quale è anche concepito. VI. Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita. Spiegazione Dico assolutamente infinito, ma non infinito nel suo genere; infatti di qualsiasi cosa, infinita soltanto nel suo genere, possiamo negare un’infinità di attributi; invece all’essenza di ciò che è assolutamente infinito appartiene tutto ciò che esprime essenza e non contiene alcuna negazione. VII. Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e si determina da sé sola ad agire: invece si dice necessaria o, meglio, coatta, quella cosa che è condizionata ad esistere e ad agire da qualcos’altro, secondo una precisa e determinata ragione. VIII. Per eternità intendo l’esistenza stessa, in quanto concepita come necessariamente conseguen(Etica, I, in Etica e Trattato teologico-politico, te dalla sola definizione di cosa eterna.

I TESTI

10

a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, utet, Torino 1988, pp. 85-86)

Analisi del testo 1-3 La formula causa sui rimanda, nella definizione di Spinoza, a un essere che esiste necessariamente, ossia a un essere che (eleaticamente) non può non essere e che, in quanto tale, è condizione per l’esistenza e la conoscenza di tutta la realtà. L’espressione “causa di sé” è equivalente, in questo senso, a “causa prima”. Si noti fin d’ora che le definizioni spinoziane riecheggiano generalmente la terminologia aristotelico-scolastica (che anche Cartesio aveva utilizzato), ma subiscono una rielaborazione che porterà a conclusioni di tipo panteistico, monistico e deterministico, cioè a concezioni differenti tanto da quelle scolastiche, quanto da quelle cartesiane. 4-7 La seconda definizione è importante (come si chiarirà poco oltre) per comprendere la concezione spinoziana di Dio quale «ente assolutamente infinito» (def. VI, r. 14). Solo Dio è sostanza assolutamente infinita, cioè la sostanza la cui essenza è illimitata (ovvero, come si vedrà, costituita da infiniti attributi), mentre qualunque altra realtà può essere al massimo «infinita nel suo genere» (rr. 17-18), cioè relativamente a un solo attributo. Una cosa si dice invece «finita nel suo genere» se esiste necessariamente un’altra cosa della sua stessa natura (corporea o ideale) che, differenziandosi da essa, la limita e ne è limitata.

8-13 Le definizioni di “sostanza”, di “attributo” e di “modo” sono di importanza basilare, perché su di esse è imperniata l’intera metafisica spinoziana. Sostanza è ciò che è pienamente autosufficiente sul piano ontologico e concettuale; attributo è ciò che viene concepito come proprietà essenziale della sostanza; modo ciò che non esiste in sé e per sé, ma solo come modificazione non necessaria della sostanza o, meglio, di un suo attributo. 14-25 Le ultime tre definizioni riportate in questo brano hanno tutte come oggetto Dio: la prima direttamente, la seconda e la terza chiarendone la natura libera ed eterna. La definizione di Dio presuppone quelle di “sostanza” e “attributo”, e rimanda (per opposizione, come abbiamo visto) alla definizione II. La libertà è definita non in opposizione, bensì in correlazione con la necessità perché per Spinoza essa consiste nell’adeguazione alla propria natura: in questo senso il suo contrario non è la necessità, bensì la costrizione, o il condizionamento, da parte di qualcosa di esterno. L’eternità non è concepita come una determinazione temporale, ma è identificata con l’esistenza necessaria; ciò che è eterno (la sostanza divina) è tale non perché abbia una durata illimitata, ma perché è assolutamente necessario, al di là del tempo.

299

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

t2 >

I TESTI

Procedendo nella dimostrazione delle proposizioni (o, come si potrebbe anche dire, dei teoremi), Spinoza trasforma la propria metafisica in una teologia panteistica. Nel brano che segue sono riportate alcune proposizioni basilari (e le relative dimostrazioni) che illustrano tale concezione: la proposizione 11, che afferma l’esistenza di Dio; la proposizione 14, che afferma l’unicità della sostanza divina; la proposizione 18, che afferma che Dio non può che essere causa immanente e non transitiva («transeunte») del mondo. Da quest’ultima proposizione deriva l’identificazione panteistica (o panenteistica) di Dio con la Natura.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30

32 34

300

iL panteismo

Proposizione XI Dio, cioè la sostanza costituita da una infinità di attributi ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita, esiste necessariamente. Dimostrazione Se lo neghi, pensa, se è possibile, che Dio non esista. Allora la sua essenza (per l’Assioma 7) non implica l’esistenza. Ma questo è assurdo (per la Prop. 7): dunque Dio esiste necessariamente. – C.D.D. Altra dimostrazione A ogni cosa deve essere assegnata una causa, o ragione, del perché essa esiste o non esiste. Per esempio, se un triangolo esiste, ci deve essere una causa, o ragione; se invece non esiste, ci deve essere lo stesso una causa, o ragione, che gli impedisce di esistere, che lo priva cioè dell’esistenza. Questa causa o ragione deve trovarsi o nella natura della cosa o fuori di essa. Per esempio la ragione per cui non esiste un cerchio quadrato, la indica la sua stessa natura, poiché implica una contraddizione. Perché invece esista la sostanza risulta ancora dalla sua sola natura, che appunto implica l’esistenza (v. Prop. 7 [Alla sostanza compete d’esistere]). Ma la ragione per cui un triangolo o un cerchio esiste o non esiste, non dipende dalla loro natura ma dall’ordine dell’intera natura corporea; da essa infatti deve dipendere o che un triangolo esiste già necessariamente o che è impossibile che esista già. E questo è di per sé evidente. Ne consegue che esiste necessariamente una cosa quando non c’è alcuna ragione, né causa, che le impedisca di esistere. Se dunque non ci può essere alcuna ragione, né causa, che impedisce che Dio esista, o che gli toglie l’esistenza, bisogna concludere assolutamente che egli necessariamente esiste. Ma se tale causa, o ragione, ci fosse, essa dovrebbe trovarsi o nella stessa natura di Dio o al di fuori di essa, cioè in un’altra sostanza di altra natura. Infatti se fosse della stessa natura si ammetterebbe automaticamente che Dio esiste. Ma una sostanza che fosse di altra natura non potrebbe avere nulla in comune con Dio (per la Prop. 2 [Due sostanze che hanno attributi diversi non hanno nulla in comune]) e quindi né dargli né togliergli l’esistenza. Poiché dunque la ragione, o causa, che gli nega l’esistenza non può trovarsi al di fuori della natura di Dio, dovrà necessariamente essere, se Dio non esiste davvero, nella sua stessa natura, che perciò implicherebbe una contraddizione. Ma affermare questo dell’Ente assolutamente infinito e sommamente perfetto è assurdo; quindi né in Dio, né fuori di Dio, vi è alcuna causa che gli tolga l’esistenza, e perciò Dio esiste necessariamente. – C.D.D. […] Proposizione XIV All’infuori di Dio non può esserci, né essere concepita, alcuna sostanza. Dimostrazione Poiché Dio è l’ente assolutamente infinito del quale non si può negare alcun attributo che espri-

36 38 40 42 44 46 48 50

52 54 56 58 60

ma l’essenza di una sostanza (per la Def. 6) e poiché Egli esiste necessariamente (per la Prop. 11), se ci fosse qualche sostanza all’infuori di Dio la si dovrebbe spiegare con qualche attributo di Dio, e così esisterebbero due sostanze dello stesso attributo, il che è assurdo (per la Prop. 5 [Non possono esistere due o più sostanze della stessa natura, ovvero con lo stesso attributo]); non ci può essere quindi alcuna sostanza al di fuori di Dio, e di conseguenza non può nemmeno essere concepita. Infatti, se potesse essere concepita, dovrebbe necessariamente essere concepita come esistente, il che (per la prima parte di questa Dimostrazione) è assurdo. Dunque all’infuori di Dio non può esserci, né essere concepita, alcuna sostanza. – C.D.D. Corollario I Da ciò deriva molto chiaramente 1): che Dio è unico, ossia (per la Def. 6) nella natura c’è una sostanza sola e assolutamente infinita, come già abbiamo accennato nello Scolio della Prop. X. Corollario II Deriva 2) che la cosa estesa e la cosa pensante o sono attributi di Dio o (per l’Assioma 1 [Tutto ciò che esiste, esiste in sé, o in altro]) sono affezioni degli attributi di Dio. […]

I TESTI

Capitolo 2 • Spinoza

Proposizione XVIII Dio è causa immanente, e non transeunte, di tutte le cose. Dimostrazione Tutte le cose che sono, sono in Dio e devono essere concepite per mezzo di Dio (per la Prop. 15 [Tutto ciò che esiste, esiste in Dio, e nulla può esistere, né essere pensato senza Dio]), cioè (per il Cor. I della Prop. 16 [Dio è causa efficiente di tutte le cose che possono cadere sotto un intelletto infinito]) Dio è causa delle cose che sono in lui; questo in primo luogo. All’infuori di Dio, quindi, non ci può essere alcuna sostanza (per la Prop. 14), cioè alcuna cosa che sia in sé al di fuori di Dio (per la Def. 3); e questo in secondo luogo. Dunque Dio è causa immanente, e non transeunte, di (Etica, I, in Etica e Trattato teologico-politico, cit.) tutte le cose. – C.D.D.

Analisi del testo 1-7 Spinoza propone una dimostrazione “per assurdo” dell’esistenza di Dio: egli parte, cioè, dalla negazione di quanto intende provare, mostrando che le conseguenze di una tale assunzione sono contraddittorie. Se si concepisce Dio come non esistente, allora la sua essenza non implica l’esistenza (l’assioma 7 dice infatti che «L’essenza di tutto ciò che può essere concepito come non esistente, non implica l’esistenza»). Ma questa affermazione contraddice la proposizione 7 (preliminarmente dimostrata da Spinoza), secondo la quale «Alla natura della sostanza compete d’esistere». Si noti che nei passaggi precedenti Spinoza ha dimostrato che una sostanza non può essere prodotta da un’altra sostanza (prop. 6): essa è dunque causa sui, il che significa (per la def. I, v. T1) che la sua essenza implica l’esistenza.

8-31 Alla dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio Spinoza ne fa seguire una seconda, imperniata sul principio secondo cui tutto deve avere una «causa, o ragione»: sia che esista (in tal caso ci sarà una causa della sua esistenza), sia che non esista (in tal caso ci sarà qualcosa che gli impedisce di esistere). Attraverso l’esempio del cerchio quadrato (che ha nella contraddittorietà della sua natura la ragione della sua non-esistenza) e del triangolo o del cerchio (che devono avere nell’ordine necessario «dell’intera natura corporea» la ragione sia della loro esistenza necessaria, sia della loro non esistenza), Spinoza chiarisce che, se qualcosa non esiste, è perché esiste una causa che ne impedisce l’esistenza. A questo punto gli è facile mostrare che, nel caso di Dio, è impossibile che una tale causa esista, perché se esistesse e fosse “esterna” a Dio (cioè di altra natura), essa non

>

301

I TESTI

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

potrebbe “comunicargli” l’esistenza, ma se esistesse e fosse “interna” alla natura di Dio, implicherebbe una contraddizione (si ricordi che Dio è stato definito come «la sostanza che consta di inifiniti attributi, ognuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita», v. T1). 32-50 Nella proposizione 14 Spinoza afferma che Dio è necessariamente unico perché, se così non fosse, si avrebbero due sostanze dello stesso attributo, il che è assurdo. Infatti, essendo «l’ente assolutamente infinito», Dio è la totalità che contiene in sé tutti i possibili attributi che esprimono l’essenza di una sostanza. Se ci fosse una sostanza “diversa” da Dio la si dovrebbe definire con un attributo che, però, è anche di Dio. Ma non possono esistere due sostanze dello stesso attributo, perché sarebbero identiche. Una sostanza esistente al di fuori di Dio non può neanche essere concepita, perché dovrebbe essere concepita come esistente, il che, per quanto già detto, è assurdo. Il primo corollario ribadisce quanto già affermato nella proposizione 1, e cioè che in natura esiste un’unica so-

t3 >

stanza con infiniti attributi. Spinoza aveva chiarito, nella proposizione 10, che «Ogni attributo di una sostanza deve essere conosciuto per sé solo» e, nello scolio di tale proposizione, che ciò non significa ammettere l’esistenza di due diverse sostanze, ma solo (secondo la definizione di Dio) la coesistenza eterna, all’interno dell’unica sostanza, di infiniti attributi indipendenti l’uno dall’altro. Da qui il secondo corollario, in cui Spinoza smentisce Cartesio: la res extensa e la res cogitans non possono essere due sostanze diverse, ma solo due attributi di Dio o due affezioni di tali attributi (più avanti si chiarirà che si tratta, come sappiamo, di attributi). 51-60 Coerentemente con la definizione di “sostanza” e con le proposizioni immediatamente precedenti, Spinoza definisce Dio come causa “immanente” del mondo, cioè come causa il cui effetto è ad essa interno; egli dunque non accetta il modello creazionistico cristiano, secondo il quale Dio è invece causa transitiva («transeunte») del mondo, ovvero una causa il cui effetto è qualcosa di diverso e di “esterno” ad essa.

L’origine e La natura deL «pregiudizio» finaListiCo

Alla prima parte dell’Etica Spinoza aggiunge una “Appendice”, nella quale chiarisce meglio, e questa volta in modo discorsivo, la propria concezione panteistica, o panenteistica, del mondo: la realtà è costituita da un’unica, infinita sostanza divina, dalla cui natura seguono necessariamente tutte le cose esistenti, concatenate tra loro secondo un ordine anch’esso necessario di cause-effetti. Nel brano che segue, in particolare, Spinoza cerca di mostrare la falsità del «pregiudizio» finalistico e antropocentrico diffuso tra i filosofi: Dio è «causa libera» del mondo non nel senso che crei e governi tutte le cose in vista di un fine (che peraltro all’uomo non può che restare sconosciuto), ma nel senso che tutte le cose esistono in Lui, come manifestazioni o esplicazioni necessarie della sua natura infinita.

2 4 6 8 10

302

Con ciò che precede ho dato un’idea chiara della natura di Dio e delle sue proprietà: ossia del suo esistere necessariamente; del suo essere unico; del suo essere ed agire per la sola necessità della sua natura; del suo essere causa libera di tutte le cose, e del come esser causa libera; ho chiarito che tutte le cose sono in Dio, e che dipendono da lui in modo tale da non potere, astraendo da Dio, né esistere né esser pensate; e infine ho chiarito che ogni cosa è stata predeterminata da Dio – ma non già mediante una sua libertà di volere o una sua scelta arbitraria, bensì in conseguenza della sua natura considerata in sé, che corrisponde al suo infinito potere. Dovunque poi ne abbia avuto l’occasione io ho cercato di rimuovere i pregiudizi che potevano impedire la comprensione delle mie dimostrazioni: ma poiché restano ancora parecchi pregiudizi che possono, come quelli già rimossi, e anche più, impedire che i lettori afferrino la concatenazione delle cose nella maniera in cui io l’ho spiegata, ho pensato di esaminare qui alla luce della ragione anche quei pregiu-

12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 52 54

dizi restanti. E poiché tutti i pregiudizi che m’accingo a sottoporre ad esame dipendono da quest’unico, che gli umani immaginano comunemente che le cose della natura òperino, come essi stessi fanno, mirando a uno scopo (addirittura essi danno per certo che Dio stesso diriga le cose a un fine determinato: avendo egli fatto ogni cosa a pro dell’Uomo, e avendo fatto l’Uomo per essere da lui adorato), io prenderò dapprima in considerazione questo solo pregiudizio; e cercherò di scoprire, per cominciare, la causa per cui la maggioranza degli umani se ne sta tranquilla in questo pregiudizio, e la totalità è per natura così propensa ad accettarlo; mostrerò poi la falsità del pregiudizio in parola; e infine mostrerò come dal pregiudizio stesso siano sorti gli altri pregiudizi che concernono il bene e il male, il merito e il peccato, la lode e il biasimo, l’ordine e il disordine, la bellezza e la bruttezza, e via dicendo. Non è questo il luogo per mostrare come tali pregiudizi derivino dalla natura della mente umana: qui basterà riconoscere – ed io lo prenderò come fondamento – ciò che tutti debbono ammettere: cioè che tutti gli umani nascono ignorando le cause delle cose, e tutti sono portati istintivamente a cercare il loro utile, e di questo hanno coscienza. Di qui derivano alcune conseguenze. 1°, Gli umani sono convinti di essere liberi perché sono consapevoli delle loro volizioni e dei loro desideri istintivi e perché non pensano neanche in sogno – dato che ne sono ignari – alle cause che li orientano a desiderare e a volere. 2°, Gli umani agiscono in ogni caso in vista di un fine, cioè in vista dell’utile che appetiscono: e ne deriva che essi si preoccupino sempre di conoscere soltanto le cause finali di ciò che hanno compiuto, e, quando le abbiano apprese, smettano di preoccuparsi: e questo è ragionevole, poiché a questo punto non hanno motivo di porsi altri dubbi. (Non avendo nessuno che gli dia spiegazioni corrette, perché tutti si trovano nelle stesse condizioni, gli umani sono costretti a prendere se stessi come esemplare e a riflettere sui fini che di solito spingono ciascuno a compiere le azioni più comuni: e in questo modo col metro del loro sentimento misurano tutto il resto della natura.) D’altronde gli umani trovano in se stessi, e all’esterno di sé, troppi mezzi assai efficaci per conseguire il loro utile – quali gli occhi per vedere, i denti per masticare, i vegetali e gli animali per nutrirsi, il sole che li illumina, il mare che alimenta per loro i pesci – perché essi non considerino da sempre, spontaneamente, tutte le cose della natura come mezzi per raggiungere il loro utile; e poiché sanno di non aver essi stessi apprestato quei mezzi, ma di averli trovati, ne hanno tratto il motivo per credere che ci sia qualcuno, estraneo alla specie umana, che abbia apprestato quei mezzi per loro uso. Dopo avere scoperto nelle cose la qualità di mezzi, gli umani non hanno, evidentemente, potuto credere che quelle cose si siano fatte da sé; e, tenendo conto di come essi si apprestano i mezzi di cui hanno bisogno, hanno dovuto concludere che esistano uno, o più, reggitori della natura, forniti di libertà come gli umani, che hanno disposto a favore degli umani tutte le cose e le hanno tutte destinate al loro uso. E anche il sentimento di quei reggitori – del quale essi non hanno mai avuto notizia diretta – gli umani hanno dovuto immaginare in base al proprio: ed hanno così stabilito che gli Dei dirigono tutte le cose per uso degli umani, così da legarseli e da esser tenuti da loro nel massimo onore; e di qui poi ognuno ha escogitato, secondo il suo modo di vedere, i diversi modi di render culto a Dio, così da essere amato da Dio più degli altri e da meritare che Dio rivolga l’intera natura a pro della sua cieca cupidigia e della sua insaziabile avidità. E questo pregiudizio, diventato superstizione, s’è profondamente radicato nelle menti: ed è stato la causa per cui tutti si sono dedicati con ogni impegno a capire e a spiegare le cause finali di tutte le cose. Ma si direbbe che questo cercar di mostrare che la natura non fa nulla invano (cioè nulla che non sia utile agli umani) è riuscito a mostrare soltanto che la stessa follia

I TESTI

Capitolo 2 • Spinoza

303

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

56

I TESTI

58 60 62 64 66 68 70 72 74 76 78 80 82 84 86 88 90 92 94 96

che è negli umani è anche nella natura e negli Dei. Vediamo un po’ a qual punto la cosa è arrivata. Fra i tanti vantaggi offerti dalla natura i ricercatori hanno dovuto trovare non poche cose svantaggiose, quali tempeste, terremoti, malattie eccetera: e hanno stabilito che questo si verifica perché gli Dei sono irati a causa di offese recate loro dagli umani o di scorrettezze commesse nel culto; e sebbene l’esperienza quotidiana affermi a gran voce e mostri con infiniti esempi che fortune e sfortune toccano nella stessa maniera e indistintamente ai pii e agli empi, quei ricercatori non hanno dimesso il pregiudizio ormai inveterato, giudicando che porre quella incomprensibile uniformità fra le altre cose ignote, delle quali non si conosce il perché, e conservare così la loro presente e innata condizione di ignoranza, sia più facile che demolire tutte quelle loro costruzioni e concepirne un’altra, nuova: e su una tale base hanno decretato, come cosa certa, che le risoluzioni degli Dei superano di gran lunga il comprendonio umano. Questa causa, da sola, sarebbe stata sufficiente a che la verità restasse in eterno nascosta al genere umano, se la Matematica – che si occupa non dei fini, ma delle essenze e delle proprietà delle figure – non avesse mostrato agli umani un altro criterio di verità […]. Aggiungerò ancora un’osservazione: che questa dottrina dei fini sconvolge completamente la natura. Essa infatti considera come effetto ciò che invero è causa, e viceversa; poi mette dopo ciò che per natura è prima; e infine riduce imperfettissimo ciò che per natura è supremo e perfettissimo. Lasciamo da parte i primi due punti, che sono evidenti di per sé. Quanto al terzo […] è perfettissimo quell’effetto che è prodotto da Dio immediatamente, ed una cosa è tanto più imperfetta quante più sono le cause intermedie di cui essa ha bisogno per essere prodotta: ma se le cose che sono state prodotte immediatamente da Dio fossero state fatte perché Dio conseguisse un suo fine, allora le ultime – a causa delle quali sono state fatte le prime – sarebbero necessariamente le più eccellenti. Inoltre, questa dottrina annienta la perfezione di Dio: dato che necessariamente, se agisce in vista di un fine, Dio manca di qualcosa, che desidera e cerca. […] Ma ora lascio questo argomento per passare a quello che ho stabilito di trattare in terzo luogo. Essendosi persuasi che tutto ciò che accade è finalizzato a loro, gli umani hanno dovuto arrivar a giudicare che in ogni cosa il più importante è ciò che è più utile a loro, e che le cose più eccellenti sono quelle che danno a loro maggior piacere. Su questa base essi hanno, logicamente, dovuto formare le nozioni con le quali potere spiegare la natura delle cose: cioè le nozioni di Bene, di Male, di Ordine, di Confusione, di Bellezza, di Bruttezza; e dalla convinzione di esser liberi, che essi hanno, sono poi sorte le nozioni di Lode e di Biasimo, di Peccato e di Merito. […] Gli umani dunque hanno chiamato Bene tutto ciò che favorisce la salute e inclina al culto di Dio, e Male ciò che è contrario a queste cose. Essi, poiché non penetrano intellettualmente la natura delle cose, ma si limitano all’apparenza di esse, che colpisce la loro immaginazione, non possono – prendendo l’immaginazione per l’intelletto – esprimere sulle cose giudizi corrispondenti al vero; e così, ignari della natura delle cose, e anche della natura propria, credono fermamente che nelle cose ci sia un ordine. […] e dicono che Dio ha creato le cose con ordine, attribuendo con ciò a Dio, senza saperlo, un’immaginazione, o magari convincendosi che Dio, a favore dell’immaginazione umana, abbia disposto le cose in modo da poter essere immaginate con la maggior agevolezza. […] Ho così sistemato i pregiudizi che mi ero proposto di mettere in evidenza. Se ne restano altri dello stesso tipo, ciascuno potrà facilmente emendarsene con un poco di riflessione. (Etica, I, “Appendice”, trad. it. di R. Peri, Aedes Spinoziana, Bologna 2001)

304

Capitolo 2 • Spinoza

1-12 Dopo aver brevemente richiamato le tesi dimostrate nella prima parte della sua opera, Spinoza osserva che, nonostante la chiarezza e la non oppugnabilità del metodo geometrico adottato, nel lettore possono tuttavia sopravvivere alcuni «pregiudizi» che ne ostacolano la piena comprensione. Proprio al superamento di tali «pregiudizi restanti» è volta questa “Appendice”, la quale, sebbene sia redatta in modo discorsivo e non più geometrico, non per questo sarà meno “razionale”. 12-19 Il pregiudizio fondamentale, fonte di tutti gli altri, che è necessario sconfiggere consiste, secondo Spinoza, nella visione finalistica del mondo, secondo la quale 1. ogni cosa in natura agisce per un fine; 2. in generale, la natura tutta è stata creata da Dio per l’uomo; 3. l’uomo è stato creato per adorare Dio. Per questo il primo punto trattato in questa “Appendice” sarà proprio tale concezione finalistica, di cui Spinoza cercherà di indagare la causa. 19-21 Chiarita l’origine della visione finalistica del mondo, Spinoza ne sosterrà la falsità, per poi passare a mostrare come da essa derivino le più comuni, fallaci convinzioni degli uomini in campo etico. 21-25 Non intendendo soffermarsi sul fatto che il pregiudizio finalistico sia in ultima analisi legato alla natura finita della mente umana, Spinoza entra subito nel vivo dell’argomento e, per chiarire l’origine della prospettiva finalistica, sottolinea due aspetti «che tutti debbono ammettere» (potremmo dire due “dati di fatto”): da un lato l’ignoranza (che caratterizza ogni uomo al momento della nascita) dei rapporti di causa-effetto che regolano gli eventi, e dall’altro l’atteggiamento utilitaristico (questo sì, consapevole) che ognuno istintivamente adotta nella sua vita. 25-31 L’ignoranza dell’ordine deterministico della realtà e l’atteggiamento utilitaristico sono tra loro strettamente collegati: Spinoza prosegue infatti l’argomentazione chiarendo che, proprio perché sono consapevoli dei loro desideri, e al tempo stesso ignari che tali desideri nascano da cause ben precise, gli uomini ritengono di essere liberi di scegliere che cosa desiderare. Questa considerazione, unita all’osservazione che, di fatto, gli uomini desiderano ciò che è loro utile, conduce ad affermare che l’uomo è naturalmente portato a spiegare le proprie azioni in termini di cause esclusivamente finali (e non efficienti). 31-45 Nel corso del tempo, la prospettiva finalistica adottata dall’uomo per spiegare il proprio comportamento è stata “proiettata”, per così dire, su tutta la natura, che è apparsa quindi perfettamente organizzata per soddisfare i bisogni umani. A questo punto, non essen-

do egli stesso l’artefice della natura (ma sperimentando nella vita quotidiana la sua capacità di progettare e costruire strumenti per potersene servire per i propri fini), l’uomo ha ipotizzato l’esistenza di «uno, o più, reggitori della natura», anch’essi liberi, che l’hanno progettata e costruita per lui. 45-53 Perseverando nel loro errore, gli uomini hanno quindi corredato la prospettiva finalistica e antropocentrica di un ulteriore elemento, e cioè della convinzione che Dio abbia creato il mondo finalizzandolo all’uomo allo scopo di essere da quest’ultimo onorato e venerato. Si noti che questa considerazione anticipa per certi versi quello che sarà l’argomento portante di Spinoza nel trattare il terzo punto da lui preannunciato (v. rr. 1921), e cioè come dal pregiudizio finalistico derivino pericolosi pregiudizi morali. Infatti, osserva Spinoza, una volta radicatasi l’idea che Dio dispone le cose in favore dell’uomo perché quest’ultimo lo ricambi amandolo e venerandolo, il passaggio alla riflessione e alla discussione sul modo migliore di «render culto a Dio» (e quindi su che cosa è bene o male) è risultato naturale. 53-68 Volendo spiegare finalisticamente ogni evento naturale, compresi quelli che all’uomo non portano alcun vantaggio, ma che anzi lo danneggiano, si è giunti ad attribuire a Dio il medesimo “folle” (v. rr. 53-55) modo di ragionare degli uomini, nonché il sentimento dell’ira e il conseguente desiderio di punire l’empietà dei comportamenti umani. E all’osservazione che, di fatto, le malattie e le calamità naturali non colpiscono solo gli uomini ingiusti si è ovviato affermando l’incomprensibilità, per l’uomo, dell’operato divino. Dire che le scelte divine sono imperscrutabili equivale a dire che l’uomo non può comprendere fino in fondo il dispiegarsi della realtà. Ecco perché Spinoza osserva che anche solo questa affermazione (di cui ha mostrato l’origine nella concezione finalistica) «sarebbe stata sufficiente a che la verità restasse in eterno nascosta». Ma l’affermarsi, con Cartesio, del metodo di indagine geometrico (che non procede analizzando le cause finali, ma, viceversa, parte dalle definizioni delle essenze per derivarne, con evidente certezza, le proprietà) ha aperto un nuovo scenario alla conoscenza umana. 69-78 L’assunzione della prospettiva finalistica induce l’uomo a sovvertire l’ordine della natura, confondendo tra loro le cause e gli effetti, cioè a considerare come causa di una certa cosa quella che in realtà non è che la conseguenza della sua natura e a considerare anteriore ciò che al contrario è posteriore (per riprendere uno degli esempi proposti dallo stesso Spinoza nella prima

I TESTI

Analisi del testo

>

305

I TESTI

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

parte dell’“Appendice”: è l’essenza o la natura del sole che “causa” o “precede” la sua capacità di illuminare e non è la sua capacità di illuminare gli esseri viventi che, come causa finale o scopo, precede e determina la sua natura). A questo “capovolgimento” metodologico della conoscenza umana, si affiancano altre due contraddizioni insite nell’approccio finalistico: 1. se si afferma che Dio agisce in vista di un fine, si rende imperfetto ciò che è perfetto. Per Spinoza è perfetto l’effetto causato immediatamente da Dio e imperfetto quello che ha bisogno di cause intermedie. Ora, se alcune cose sono state volute da Dio come mezzi per realizzare altre cose, le prime sarebbero meno perfette delle seconde, pur essendo anch’esse volute da Dio: in sostanza, come potrebbe Dio volere qualcosa di meno che perfetto?; 2. se Dio è un ente libero che agisce in vista di un fine, allora Egli non è perfetto, ma “manca” di ciò che desidera.

79-96 Passando al terzo punto che si proponeva di trattare, Spinoza osserva che, sempre in virtù della loro visione finalistica del mondo, gli uomini hanno assegnato alle cose anche un determinato valore morale (definendo il bene, il male, l’ordine, la confusione, il merito ecc.) basandosi non su ragioni oggettive, ma sulla considerazione di ciò che rappresenta per loro un vantaggio o uno svantaggio. Il fatto poi, osserva infine Spinoza, di assegnare un «ordine» alle cose, concatenandole tra loro mediante rapporti del tipo mezzo-fine, significa utilizzare l’«immaginazione» al posto dell’«intelletto» (che, come si è già detto, nella sua indagine dovrebbe partire dall’essenza delle cose, e non dai legami di queste ultime con le altre cose), così come affermare che tale «ordine» è stato creato da Dio significa attribuire anche a Dio la facoltà dell’immaginazione.

L’etica e la gnoseologia Concluso il discorso riguardante l’ambito teologico-metafisico, Spinoza passa a quello gnoseologico e a quello morale, che, sviluppati in piena coerenza e corrispondenza reciproche, costituiscono il cuore dell’opera.

t4 >

L’anaLisi geometriCa degLi «affetti»

Il brano seguente riporta per intero la “Prefazione” che apre la terza parte dell’Etica, dedicata all’origine e alla natura delle passioni. In accordo con i principi della sua metafisica, Spinoza intende analizzare con metodo geometrico anche gli «Affetti» dell’uomo («come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi»), mettendo in evidenza i “meccanismi” che ne spiegano il sorgere.

2 4 6 8 10 12

306

La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose che sono al di fuori della natura. Sembra anzi che concepiscano l’uomo nella natura come un impero nell’impero. Infatti credono che l’uomo sconvolga l’ordine della natura, più che seguirlo, e che abbia sulle proprie azioni un potere assoluto, e che non sia determinato da altro che da se stesso. Attribuiscono poi la causa dell’impotenza e dell’incostanza umana non al comune potere della natura, ma a un presunto vizio della natura umana, e perciò la compiangono, la deridono, la disprezzano, o, più comunemente, la detestano; e chi con maggior eloquenza o arguzia sa cogliere l’impotenza della Mente umana passa per uomo divino. Tuttavia non sono mancati uomini assai illustri (alla cui fatica e operosità riconosciamo di dover molto) che hanno scritto cose eccellenti sul giusto modo di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di saggezza; ma nessuno, che io sappia, ha determinato la natura e le forze degli Affetti, e che cosa possa fare la Mente per domi-

14 16 18 20 22 24 26 28 30 32

narli. So bene che il celeberrimo Cartesio, benché anch’egli abbia creduto che la Mente è dotata di un potere assoluto sulle sue azioni, ha cercato tuttavia di spiegare gli Affetti umani mediante le loro cause prime e, nello stesso tempo, ha cercato di indicare la via per cui la Mente potesse ottenere il potere assoluto sugli Affetti; ma secondo me non ha dimostrato altro che l’acume del suo grande ingegno, come a suo tempo dimostrerò. Infatti io voglio tornare a coloro che preferiscono detestare e irridere gli Affetti e le azioni degli uomini piuttosto che comprendere. A costoro sembrerà certamente strano che io mi accinga a trattare dei vizi e delle stoltezze umane secondo il metodo geometrico, e che voglia dimostrare con un ragionamento rigoroso cose che essi proclamano incompatibili con la ragione, vane, assurde, orrende. Ma ecco qual è il mio argomento. Nella natura nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la natura è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della natura, secondo le quali ogni cosa accade e da una forma si muta in un’altra, sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo d’intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della natura. Quindi gli Affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtù della natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza come le proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a dilettarci. Tratterò dunque della natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi, con lo stesso Metodo con cui nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi.

I TESTI

Capitolo 2 • Spinoza

(Etica, III, “Prefazione”, in Etica e Trattato teologico-politico, cit.)

Analisi del testo 1-9 La “Prefazione” si apre con la critica dell’antropologia tradizionale. Attribuendo all’uomo la capacità di dominare in totale autonomia la propria volontà, lo si “svincola” dall’ordine deterministico che regge il mondo naturale, facendo di lui il signore assoluto di un improbabile «impero» situato all’interno del più vasto «impero» della natura. L’uomo diventa così il solo “responsabile” delle proprie azioni e, nel caso in cui queste siano giudicate “malvagie”, viene “compianto” “deriso”, “disprezzato” o “detestato” per la sua colpevolezza. 9-17 Vi è stata comunque una minoranza di valenti pensatori, verso i quali Spinoza si dichiara debitore, che hanno trattato l’argomento con maggior realismo, anche se nessuno di loro ha saputo compiere un’indagine veramente esauriente. Egli cita a questo proposito Cartesio, il quale, a suo giudizio, ha oscillato tra un’analisi realistica degli affetti umani (di cui ha saputo cogliere le vere cause, ovvero quelle efficienti) e il vecchio pre-

giudizio secondo cui le passioni, o gli affetti, possono essere dominati dalla volontà. 17-30 Polemizzando con i moralisti («coloro che preferiscono detestare e irridere gli Affetti e le azioni degli uomini piuttosto che comprendere»), Spinoza dichiara di voler utilizzare il metodo geometrico anche nell’analisi dei «vizi» e delle «stoltezze» degli uomini, poiché le leggi della natura sono universali e valgono anche per l’uomo, qualunque sia l’aspetto che se ne prende in considerazione. 31-33 La “Prefazione” si chiude con una dichiarazione metodologica, per così dire, “solenne”: Spinoza intende trattare le questioni pratiche o morali con quello stesso metodo geometrico che ha utilizzato in ambito metafisico, in modo da spiegare il sorgere delle passioni (o degli «Affetti») nell’uomo mediante quegli stessi rapporti di causa-effetto che reggono ogni evento naturale.

307

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

t5 >

I TESTI

Laboratorio sul testo

2 4 6 8

10 12 14

L’amore inteLLettuaLe di dio

Nel secondo libro dell’Etica Spinoza ha descritto i tre generi della conoscenza: la conoscenza di primo genere, che corrisponde alla percezione sensibile, si limita a “registrare” i dati forniti dai sensi; la conoscenza di secondo genere, che si fonda sulle idee «chiare e distinte» della ragione, è la conoscenza propria della scienza meccanicistica; infine la conoscenza di terzo genere, che Spinoza chiama «scienza intuitiva», consiste nel concepire la realtà alla luce della Sostanza, ovvero di Dio. Nel quarto e nel quinto libro dell’Etica Spinoza collega questi tre generi di conoscenza con altrettanti “livelli” morali. Egli analizza dunque: 1. la «schiavitù» delle passioni (libro IV), individuandone l’origine nella conoscenza inadeguata che l’uomo ha di se stesso; 2. il comportamento virtuoso (libro IV), che, basandosi sulla conoscenza chiara e distinta (causale) delle proprie passioni, si identifica con un comportamento guidato dalla ragione; 3. la «libertà» dalle passioni (libro V), raggiungibile grazie al terzo genere di conoscenza, ovvero a quell’intuizione intellettuale che ci mostra come tutte le cose non siano che «modi» degli «attributi» divini e ci riempie così di «Letizia»: è quello che Spinoza chiama «amore intellettuale di Dio» (amor Dei intellectualis), che consiste nella «gioia accompagnata dall’idea di Dio come causa», cioè nell’accettazione gioiosa di tutto ciò che accade in quanto accade in Dio e da Lui proviene. L’Etica si chiude così con la soluzione di quel problema morale che rappresenta l’oggetto prioritario di tutto il pensiero di Spinoza; e la soluzione non è altro che il prodotto delle sue riflessioni ontologiche, teologiche, gnoseologiche e antropologiche: l’uomo è sommamente felice, raggiunge lo stato di «beatitudine», in quanto ama Dio.

Proposizione XXXII Siamo allietati da tutto ciò che comprendiamo con il terzo genere di conoscenza, e questa gioia [o Letizia] è accompagnata dall’idea di Dio come causa. […] Corollario Dal terzo genere di conoscenza nasce necessariamente l’Amore intellettuale di Dio. Infatti da questo genere di conoscenza nasce […] la Letizia accompagnata dall’idea di Dio come causa, cioè […] l’Amore di Dio, non in quanto lo immaginiamo come presente […] ma in quanto comprendiamo che Dio è eterno: e questo è ciò che io chiamo Amore intellettuale di Dio. Proposizione XXXIII L’Amore intellettuale di Dio, che nasce dal terzo genere di conoscenza, è eterno. Dimostrazione Infatti il terzo genere di conoscenza (per la Prop. 31 di questa parte [La Mente, in quanto eterna, è causa adeguata del terzo genere di conoscenza] e per l’Ass. 3 della I parte [Da una causa data determinata segue necessariamente l’effetto]) è eterno; perciò (per il medesimo Ass. della I parte) l’Amore che ne nasce è esso pure necessariamente eterno. – C.D.D. […]

16 18 20

308

Proposizione XXXVI L’amore intellettuale della Mente verso Dio è l’Amore stesso di Dio, con cui Dio ama se stesso, non in quanto infinito, ma in quanto può esplicarsi attraverso l’essenza della Mente umana, considerata sotto specie di eternità; cioè l’Amore intellettuale della Mente verso Dio è una parte dell’infinito Amore con cui Dio ama se stesso. […]

22 24 26 28 30

Corollario Ne consegue che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini e, di conseguenza, l’Amore di Dio verso gli uomini e l’Amore intellettuale della Mente verso Dio sono una sola e medesima cosa. Scolio Da ciò comprendiamo chiaramente in che cosa consiste la nostra salvezza o beatitudine o Libertà, ossia nel costante ed eterno Amore verso Dio, cioè nell’Amore di Dio verso gli uomini. Questo Amore o beatitudine, nei libri Sacri è chiamato Gloria, e non a torto. Infatti questo Amore, sia che si riferisca a Dio, sia che si riferisca alla Mente, può essere giustamente chiamato soddisfazione dell’animo, che in realtà (per le Def. 25 [Riposo/Quiete dell’Anima come autocontemplazione dell’uomo] e 30 [Gloria come gioia accompagnata dall’idea di una nostra azione che immaginiamo procuri gioia agli altri] degli Affetti) non si distingue dalla Gloria.

I TESTI

Capitolo 2 • Spinoza

(Etica, V, in Etica e Trattato teologico-politico, cit.)

Analisi del testo 1-8 La proposizione 32 e il suo corollario, collegando il terzo genere di conoscenza con uno stato di letizia accompagnato dall’idea di Dio come causa, e questo stato di letizia con l’«amore intellettuale di Dio», sanciscono definitivamente la coincidenza del piano gnoseologico con quello morale. Proprio questo, del resto, è l’obiettivo della formula «amore intellettuale» utilizzata da Spinoza, a sottolineare che la conoscenza che l’intelletto ha di Dio come causa esula dalla dimensione spazio-temporale: «comprendiamo che Dio è eterno» (cioè necessario al di là di ogni tempo) non con la ragione, ma con un’intuizione che è insieme un atto d’amore creaturale. 9-15 All’eternità di Dio non può non corrispondere l’eternità dell’amore di Dio. È da ricordare a questo proposito che Spinoza definisce la conoscenza di terzo genere come conoscenza sub specie aeternitatis, cioè “dal punto di vista dell’eternità”; in altre parole, ciò che appariva svolgersi nel tempo si rivela, nell’intuizione di

Dio, come ordine necessario del mondo, manifestazione di una Struttura razionale meta-temporale. 16-23 La proposizione 36 evidenzia la compenetrazione di individuo e divinità: compenetrazione ontologica ignota ai più, viene invece colta da chi pervenga all’ultima fase dello sviluppo intellettuale e morale. In queste ultime pagine dell’Etica il metodo geometrico coesiste con un innegabile slancio mistico: l’uomo conosce l’ordine divino di tutte le cose e lo accetta gioiosamente, cioè si abbandona a Dio e lo ama, è partecipe dell’infinito amore con cui Dio ama se stesso, ossia il mondo e gli uomini. 24-31 Nello scolio Spinoza interpreta in chiave immanentistica il concetto di beatitudine presente nei libri sacri con il nome di Gloria: non si tratta di un premio ultraterreno per la nostra virtù, bensì della letizia suprema provata da chi è virtuoso al massimo grado e si è elevato all’amore intellettuale di Dio.

309

IL CONCETTO E L’IMMAGINE Spinoza nella pittura seicentesca L’etica “gioiosa” di Spinoza In ambito morale, la riflessione filosofica seicentesca tende a rimuovere gli antichi precetti che imponevano all’uomo di rinunciare alle proprie passioni e ai propri desideri, per recuperare una visione dell’essere umano “riconciliato” con la concretezza e la vitalità del mondo. Emblematica in questo senso è l’etica di Baruch Spinoza, con il suo fermo rifiuto di ogni morale del sacrificio e della rinuncia: sia quella di matrice platonica (fondata sulla filosofia come “preparazione alla morte”), sia quella stoica (fondata sul disprezzo delle passioni), sia quella ispirata all’ideale cristiano della vanità del mondo terreno.

L’uomo, per Spinoza, non è spirito immateriale destinato alla trascendenza, ma è un animale desiderante, che ama la vita e la felicità. Ecco perché il filosofo olandese considera degne di biasimo la passività e l’inclinazione alla solitudine e alla tristezza, mentre esalta la vitalità e la gioia che scaturiscono dalla relazione con gli altri e dal godimento delle cose. È proprio dell’uomo saggio ristorarsi e rinforzarsi con cibi e bevande moderate e gradevoli, come anche con odori, con l’amenità delle piante verdeggianti, con gli ornamenti, con la musica, coi giochi che esercitano il corpo […]. (B. Spinoza, Etica, IV, prop. XLV)

La vitalità delle nature morte Leggendo le parole di Spinoza non possiamo non pensare alle opere di molti artisti fiamminghi o olandesi più o meno contemporanei del filosofo: Georg Flegel (1566-1638), Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625), Floris van Dyck (15751651), Johannes Bosschaert (1610-1650) e tanti altri, i quali hanno dato un contributo decisivo al diffondersi delle cosiddette “nature morte”. Le nature morte sono raffigurazioni estremamente realistiche, straripanti di oggetti raffigurati con colori accesi e nei minimi dettagli: fiori, cibi e bevande che diventano il simbolo di una vita godibile in tutta la sua pienezza. Un significativo esempio di questo genere pittorico è la Natura morta con pappagallo (1635) di Georg Flegel. Lungi dal rappresentare (come talvolta si sostiene) la caducità delle cose e la vanità del mondo, le “nature morte” appaiono piuttosto come “nature vive”, espressione di un’unica e infinita sostanza: Georg Flegel, Natura morta con pappagallo, 1635, olio su tela, Monaco, Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Alte Pinakothek

310

Se consideriamo uno dei temi tipici dei quadri olandesi, potremo renderci conto che le espres-

sioni “natura morta”, Stilleben o still-life, sono in parte svianti, perché si tratta in realtà di vegetali o animali (fiori, frutta, cacciagione, ostriche, pesci: tutte cose pensate per la gioia e il godimento dell’uomo) che […] testimoniano insieme – e con pari forza – i piaceri della vita e la loro vanità, i momenti lieti e il loro trascorrere, l’utilità e la bellezza dei beni quotidiani e il loro breve destino […]. Sottoposti alla prospettiva spinoziana, che li considera sub specie aeternitatis, apparirebbero tuttavia – nella loro natura di “cose particolari” intuite dall’amore intellettuale – “nature vive” piuttosto che “nature morte”. Del resto la tendenza a salvare le res particulares nella complessità delle loro relazioni con un tutto senza centro e periferia sembra uno dei tratti specifici della grande pittura europea del Seicento.

VERSO LE COMPETENZE w Individuare i nessi gli eventi ordinari. Nei suoi quadri tra la filosofia, le altre forme del sapere l’oggetto inanimato non appare più e gli altri linguaggi come ornamento della figura umana, ma diventa anch’esso protagonista della rappresentazione artistica.

La vita quotidiana, nella calma luminosa dei dipinti di Vermeer, appare sotto l’aspetto dell’eternità. […] oggetti e soggetti importano solo come macchie di colore, sono cose (quelle cose) individuate dalla luce: il soggetto del quadro è, senza compromessi con alcuna azione o contenuto, unicamente oggetto della visione. Il risultato è la rappresentazione dell’evento, la dignità del finito, la serenità e la precisione della visione. (R. Diodato, Vermeer, Góngora, Spinoza. L’estetica come scienza intuitiva, pp. 13-15)

(R. Bodei, Geometria delle passioni, pp. 124-125)

La rivalutazione del finito Anche il senso della dignità ontologica del finito che anima la pittura del Seicento trova dunque il suo sfondo teorico nella filosofia spinoziana, per la quale le cose finite sono espressione della libera potenza del Dio-Natura. Nell’ontologia di Spinoza, gli enti finiti e gli individui non si dissolvono nell’infinito, bensì l’infinito si esprime nella loro singolarità, conferendole valore e legittimità. Ecco perché il filosofo afferma: «quanto più conosciamo le cose particolari, tanto più conosciamo Dio» (Etica, V, prop. XXIV). Rifiutando l’antropocentrismo di matrice biblica, Spinoza ritiene che l’ordine della natura non ammetta gradazioni o gerarchie, né tra l’uomo e gli altri animali, né tra il corpo e l’anima: ogni aspetto della realtà va considerato come l’espressione multiforme di Dio. Uno dei pittori olandesi che meglio esprime questa “estetica del finito” è Jan Vermeer (1632-1675), un artista che si dedicò soprattutto alla pittura d’interni, animato da una particolare attenzione per le cose e

Jan Vermeer, La lattaia, olio su tela, 1660 ca., Amsterdam, Rijksmuseum

311

CAPITOLO 3

Leibniz 1. Una mente “universale” La dottrina di Spinoza è una filosofia dell’ordine geometrico del mondo. La dottrina di Leibniz, pur affermando con pari energia l’ordine del mondo, vede in esso una libera creazione di Dio e si sforza di conciliare il meccanicismo con il finalismo, la nuova scienza della natura con i principi della metafisica. La vita

312

Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia il 21 giugno 1646. Si laureò in giurisprudenza ad Altdorf, presso Norimberga, e a Norimberga si affiliò alla società alchimistica dei Rosacroce, nel cui ambito poté dedicarsi alla ricerca naturalistica. Nella stessa città fece la conoscenza del barone di Boyneburg e per suo tramite divenne consigliere del principe elettore di Magonza. Nel periodo in cui esercitò questa carica (1668-1671) compose vari scritti politici e giuridici; inoltre si occupò di logica e di fisica e pubblicò le prime opere. Nel 1672 fu inviato a Parigi al seguito di una missione diplomatica che doveva distogliere il re Luigi XIV dalla progettata invasione dell’Olanda, invogliandolo alla conquista dell’Egitto. A Parigi venne in contatto con gli uomini più famosi del tempo, si occupò di matematica e di fisica e approfondì la sua conoscenza della filosofia cartesiana. Nel 1676 scoprì il calcolo integrale, che però rese pubblico soltanto nel 1684 negli “Acta eruditorum”. Questo tipo di calcolo era già stato scoperto una decina di anni prima da Newton; ma Leibniz lo formulò autonomamente e in modo da renderlo più fecondo, consentendone una più rapida e comoda applicazione. Nel 1676 Leibniz divenne bibliotecario del duca di Hannover Giovanni Federico di Lüneburg, che gli affidò diversi incarichi. Iniziò con tutti gli uomini dotti del tempo una fitta corrispondenza intorno alle più svariate questioni scientifiche. Si occupò inoltre di storia e, per determinare la genealogia della casa di Lüneburg, viaggiò per tre anni (1687-1690) in Germania e in Italia. Fautore della riunione della Chiesa protestante con quella cattolica, lavorò lungamente a questo progetto, che si rivelò utopistico. Lavorò inoltre intensamente all’organizzazione delle scienze in tutta l’Europa; e nel 1700 fondò a Berlino quella che fu poi l’Accademia

Capitolo 3 • Leibniz

prussiana delle scienze, sul modello delle Società di Parigi e di Londra. Morì a Hannover il 14 novembre 1716. Leibniz fu uomo di vasti e grandiosi progetti e si applicò alla soluzione dei più diversi problemi. I suoi scritti concernono la giurisprudenza, la politica, la storia, la teologia, la matematica e la fisica. Non ha lasciato opere sistematiche. Gli scritti filosofici furono da lui composti occasionalmente. Tra i più notevoli c’è il cosiddetto Discorso di metafisica (1686), breve ma fondamentale esposizione del suo pensiero. Seguirono: il Nuovo sistema della natura, della comunicazione tra le sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo (1695); i Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione (1714); i Principi della filosofia (1714), universalmente noti con il titolo di Monadologia; i Nuovi saggi sull’intelletto umano (1703-1704), pubblicati postumi, che sono una critica del Saggio di Locke uscito nel 1690. Furono poi pubblicati nel 1710 i Saggi di teodicea, scritti in francese, che contengono un insieme di osservazioni «sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male» (come dice il sottotitolo), in polemica con le tesi esposte da Bayle nell’articolo Rorarius del suo Dizionario storico-critico della filosofia.

Le opere filosofiche

2. L’ordine contingente del mondo Il pensiero che domina tutte le multiformi attività di Leibniz è questo: esiste un ordine del mondo, non geometricamente determinato e quindi necessario, ma spontaneamente organizzato e quindi libero. Si può dire che il lavoro di Leibniz sia consistito nel ricercare quest’ordine in tutti i campi dello scibile e nel riconoscerne la possibilità o il fondamento. Il concetto di quest’ordine è espresso da Leibniz nel Discorso di metafisica:

L’idea di un ordine determinato e tuttavia contingente

Nulla accade nel mondo che sia assolutamente irregolare e non si può neppure immaginare nulla di simile. Supponiamo che qualcuno segni a caso sulla carta una quantità di punti: dico che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme, secondo una regola determinata e tale che passi per tutti questi punti proprio nell’ordine in cui la mano li ha tracciati. Se qualcuno traccia una linea continua, ora retta ora circolare, ora dall’altra natura, è possibile trovare una nozione o regola o equazione comune a tutti i punti di questa linea, in virtù della quale i mutamenti stessi della linea risultano spiegati. […] Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e fornito di un ordine generale. (Discorso di metafisica, par. 6)

È facile scorgere qui la differenza grandissima tra la concezione di Leibniz e la concezione di Spinoza: ■■■ per Spinoza c’è un solo ordine univoco e necessario, che è Dio stesso; ■■■ per Leibniz c’è invece un ordine non necessario ma contingente, che risulta il frutto di una scelta. Infatti Leibniz presenta Dio come colui che ha scelto, tra i vari ordini possibili dell’universo, il migliore o il più perfetto. Un ordine che includa la possibilità della scelta (non solo divina, ma anche umana) e che sia suscettibile di essere determinato dalla scelta stessa è quello che Leibniz cercò di riconoscere e realizzare in tutti i campi della realtà.

Leibniz e Spinoza

313

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Lo spirito conciliazionista e “universale” di Leibniz

Questione Il linguaggio significa idee o comunica sentimenti? (Leibniz, Rousseau)

La distinzione tra piano filosofico e piano scientifico

L’idea di un tale ordine sta infatti alla base dei più disparati aspetti del pensiero di Leibniz: dalla ricerca di un’arte combinatoria o di una caratteristica universale, capace di rintracciare o di stabilire l’ordine del sapere, al tentativo – che costituisce il nucleo storicamente più decisivo del suo pensiero – di conciliare meccanicismo e finalismo, materialismo e spiritualismo, scienza e metafisica, filosofia dei moderni e ontologia degli antichi. L’esigenza di un ordine universale fondato sulla libertà e sul rispetto della pluralità sta anche alla base della sua multiforme attività pratica, ispirata agli ideali della pace politica, della riconciliazione tra le Chiese e dell’organizzazione di una repubblica delle scienze. L’appello a un ordine libero e intelligente di origine divina sta anche alla base della distinzione leibniziana tra il piano filosofico-metafisico (proteso a spiegare la realtà nel suo insieme e nei suoi aspetti sostanziali e finalistici) e il piano scientifico (proteso a spiegare la natura nei suoi aspetti fenomenici di tipo matematico e meccanicistico). Tale distinzione assume in Leibniz la forma concreta di un tentativo di mediazione o di sintesi tra l’antico e il nuovo, ossia tra la filosofia delle “forme sostanziali” della tradizione greco-medievale (che egli denomina philosophia perennis) e la filosofia matematizzante e meccanicisticamente orientata dei philosophi novi dell’età moderna.

1640

Eventi storici

Vita di Leibniz

Filosofia e Scienza

1650 1642 Prima rivoluzione inglese 1648 Pace di Westfalia: fine della Guerra 1649 dei trent’anni Carlo I Stuart decapitato

314

1679 In Inghilterra promulgato l’Habeas Corpus

1667 1672 A Norimberga, laureatosi Missione diplomatica a Parigi, in giurisprudenza, dove, sotto la guida di Huygens, perfeziona le conoscenze entra a far parte della società dei Rosacroce matematiche e fisiche 1675 1668 Comincia a Entra al servizio 1676 elaborare i principi del principe del calcolo Bibliotecario presso elettore di Magonza differenziale il duca di Hannover

1651 Hobbes: Leviatano

1644 Torricelli dimostra l’esistenza del vuoto

1680

1680 Luigi XIV inizia la persecuzione degli Ugonotti

1652 Morte del padre

1642 Hobbes: De cive

1670

1661 In Francia muore il cardinale Mazzarino; Luigi XIV al potere

1646 Gottfried Wilhelm Leibniz nasce a Lipsia

1642 Rembrandt: Ronda di notte

Arte e Letteratura

1660

1656-1657 Pascal: Lettere provinciali

1662 In Inghilterra nasce l’accademia scientifica Royal Society 1669 Pascal: Pensieri (postumi)

1673 Huygens: Horologium Oscillatorium 1677 Spinoza: Etica (postuma)

1670 ca. Giordano: Gesù tra i dottori

1677 Racine: Fedra

1673 Molière: Il malato immaginario

Capitolo 3 • Leibniz

3. Verità di ragione e verità di fatto L’opera di Leibniz è dunque diretta a giustificare la possibilità di un ordine contingente. Il primo aspetto di questa giustificazione consiste nel dimostrare che “ordine” non significa “necessità”. La necessità, secondo Leibniz, è al suo posto nel mondo della logica, non nel mondo della realtà. Un ordine reale non è mai necessario. Tale è il significato della distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto. Le verità di ragione sono necessarie (come, la proposizione “Il triangolo ha tre lati”), ma non riguardano la realtà. Esse sono “identiche” (nel senso che il loro predicato non fa che ripetere la medesima cosa espressa dal soggetto, senza dire nulla di nuovo) e risultano fondate sui principi di identità e di non-contraddizione, i quali affermano, rispettivamente, che “ogni cosa è ciò che è” e che “una proposizione è o vera o falsa” (che vuol dire che una proposizione non può essere contemporaneamente vera e falsa, né può essere non vera e non falsa). Tutte le verità fondate su questi principi sono necessarie e infallibili, ma non dicono nulla circa la realtà esistente di fatto. Esse non possono dunque derivare dall’esperienza e, pertanto, sono innate.

1680

1690

1700

1684 1690 Federico Inizia il regno di Brandeburgo dello zar sposa Pietro il Grande Sofia Carlotta 1688 di Hannover Seconda rivoluzione inglese: deposto Giacomo II 1686 Discorso di metafisica 1689 Viaggio in Italia

Le verità di ragione

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350

1710

1700 Muore Carlo II di Spagna 1701 Scoppia la Guerra di successione spagnola

1720 1713 Pace di Utrecht: fine della Guerra di successione spagnola 1714 Pace di Rastadt tra Impero e Francia

1716 1700 1710 Ad Hannover A Berlino fonda la futura Escono anonimi Accademia prussiana delle scienze i Saggi di teodicea Leibniz muore 1713 1704 A Vienna, come In risposta al Saggio di Locke, consigliere di corte scrive i Nuovi saggi sull’intelletto umano, 1714 che saranno pubblicati Principi della filosofia 1705 solo nel 1765 (Monadologia) Morte della moglie

1687 Newton: legge di gravitazione universale 1689 Locke: Lettera sulla tolleranza 1690 Locke: Saggio sull’intelletto umano

1705 Mandeville: La favola delle api

1714 Fahrenheit inventa il termometro a mercurio

1717 Watteau: L’imbarco per Citera

315

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Leibniz si oppone qui alla critica dell’innatismo condotta da John Locke (v. unità 5, cap. 3); tuttavia egli afferma che le idee innate non sono pienamente consapevoli, ma confuse e oscure: sono piccole percezioni, possibilità o tendenze, che l’esperienza renderà attuali, cioè del tutto chiare e distinte (v. p. 325).

Contro Locke

Le verità di ragione delineano il mondo della pura possibilità, che è assai più vasto ed esteso di quello della realtà. Ad esempio, tanti mondi sarebbero, in generale, possibili, in quanto la loro nozione non implica contraddizione; ma uno solo è il mondo reale. Le verità di fatto, invece, sono contingenti e concernono la realtà effettiva. Esse delimitano dunque il dominio ristretto della realtà nel campo molto più esteso del possibile. Queste verità non sono fondate sui principi di identità e di non-contraddizione, il che vuol dire che il loro contrario è possibile. Sono fondate invece sul principio di ragion sufficiente. In base a questo principio, nulla si verifica senza una ragion sufficiente, cioè senza che sia possibile, a colui che conosca sufficientemente le cose, dare una ragione che basti a spiegare perché è così e non altrimenti. Ma questa ragione non è una causa necessitante: è un principio di ordine e di concatenazione per il quale le cose che accadono si legano le une con le altre, senza però formare una catena necessaria.

Le verità di fatto e il principio di ragion sufficiente

Verità di ragione

> identiche (il predicato non dice nulla di nuovo rispetto al soggetto) > si basano sui principi di identità e di non-contraddizione (il loro contrario è impossibile) > non sono identiche (il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto)

Verità di fatto

> non si basano sui principi di identità e di non-contraddizione (il loro contrario è possibile)

Sono necessarie e infallibili; riguardano il mondo della logica e non della realtà Sono contingenti; riguardano la realtà effettiva

> si fondano sul principio di ragion sufficiente

I mondi possibili e la scelta divina

TAVOLA ROTONDA Dio e lo “scandalo” del male, p. 356 La causa finale Testo antologico La causa finale (Discorso di metafisica)

316

Il principio di ragion sufficiente è il principio proprio di quell’ordine che Leibniz si è sforzato di trovare in ogni aspetto dell’universo: un ordine che non escluda, ma includa la scelta libera. Ad esempio, se ci si chiede perché tra tutti i mondi possibili (cioè il cui concetto non implica contraddizione) questo solo è reale, bisognerà trovare la ragion sufficiente della sua realtà, cioè della sua scelta da parte di Dio. E questa ragion sufficiente sarà che esso è il migliore di tutti i mondi possibili e che Dio nella sua perfezione doveva fare questa scelta (v. p. 330). Il “doveva” qui non implica una necessità assoluta, ma l’atto della volontà di Dio, che ha liberamente scelto in conformità della sua natura perfetta. La ragion sufficiente, dice Leibniz, “inclina” senza necessitare: essa spiega ciò che accade in modo infallibile e certo, e tuttavia senza necessità, perché il contrario di ciò che accade è sempre possibile. ➔ T2 p. 335 Il principio di ragion sufficiente, secondo Leibniz, implica la causa finale. Su questo punto Leibniz si stacca da Cartesio e da Spinoza per riallacciarsi alla metafisica scolastica. Se Dio ha creato questo mondo, perché è il migliore, egli ha agito in vista di un fine; e questo fine è la vera causa della sua scelta.

Capitolo 3 • Leibniz

4. La sostanza individuale Il principio di ragion sufficiente conduce Leibniz a formulare il concetto centrale della sua metafisica, quello di sostanza individuale. Se in una verità di ragione il soggetto e il predicato sono identici, onde non si può negare quel predicato di quel soggetto senza contraddirsi, al contrario in una verità di fatto il predicato non è identico al soggetto, tanto che può essere anche negato di esso, senza dare adito ad alcuna contraddizione logica. Il soggetto deve però contenere la ragion sufficiente del suo predicato. Ora, un soggetto di questo genere, che, trattandosi di una verità di fatto, è sempre un soggetto reale o esistente, cioè una sostanza, è ciò che Leibniz chiama «sostanza individuale». La natura di una sostanza individuale, dice Leibniz, è dunque di avere una nozione così compiuta, da essere sufficiente a far comprendere e dedurre tutti i predicati del soggetto a cui essa è attribuita. Ad esempio, la nozione individuale di Alessandro Magno include la ragion sufficiente di tutti i predicati che si possono attribuire a lui con verità, ad esempio che egli vinse Dario e Poro, fino a permettere di conoscere a priori se egli sia morto di morte naturale o avvelenato. L’uomo, che non ha mai una nozione compiuta di una sostanza individuale, è costretto a desumere dall’esperienza o dalla storia gli attributi che le si riferiscono. Ma Dio, la cui conoscenza è perfetta, è in grado di scorgere nella nozione di ogni sostanza la ragion sufficiente di tutti i suoi predicati e quindi, ad esempio, può leggere nell’anima di Alessandro i residui di tutto ciò che gli è accaduto, i segni di tutto ciò che gli accadrà e anche le tracce di ciò che accade nell’intero universo. Questo non significa che la sostanza individuale sia necessitata ad agire in un certo modo, ad esempio che Alessandro non poteva fare a meno di vincere Dario. Poteva anche non farlo, in quanto il non farlo non avrebbe implicato contraddizione, ma che lo avrebbe fatto era un dato certissimo, poiché la sua natura era quella e poiché la sua natura rispondeva all’ordine generale dell’universo voluto da Dio. ➔ T1 p. 334 Appare evidente che, dopo aver distinto le verità di fatto dalle verità di ragione, Leibniz finisce per modellare sulle verità di ragione le stesse verità di fatto, in quanto afferma che tutti gli attributi di una sostanza individuale sono deducibili dalla nozione di questa sostanza e quindi prevedibili in modo infallibile.

Ragion sufficiente e sostanza individuale

Conoscenza umana e conoscenza divina della sostanza individuale

Esercizi interattivi La sostanza individuale

5. Fisica e metafisica: il concetto di «forza» La natura non costituisce un’eccezione al carattere non necessario dell’ordine universale: questa convinzione, che dominò lo spirito di Leibniz, lo spinse a modificare via via le dottrine che aveva esposto nello scritto giovanile intitolato Hypothesis physica nova, nel quale ammetteva la diversità (stabilita da Cartesio) tra l’estensione e il movimento e anche (con Gassendi) la costituzione atomica della materia.

317

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

La legge della continuità e il rifiuto dell’atomismo Testo antologico Contro l’atomismo e il cartesianesimo (Nuovo sistema della natura)

La forza come elemento originario del mondo fisico

TAVOLA ROTONDA Spazio e tempo, vol. 2B La forza come principio metafisico che fonda le leggi della fisica

La forza come elemento di natura spirituale

Sintesi audio Leibniz; L’ordine del mondo

318

Alla costituzione atomica della materia Leibniz rinunciò quando giunse a formulare quella che egli stesso definì una delle sue grandi massime, cioè la legge della continuità: il principio che «la natura non fa mai salti» (natura non facit saltus). Sulla base di questo principio si deve ammettere che per passare dal piccolo al grande, o viceversa, bisogna passare attraverso infiniti gradi intermedi e che, di conseguenza, il processo di divisione della materia non può fermarsi a elementi indivisibili, come sarebbero gli atomi, ma deve procedere all’infinito (v. anti-atomismo). In seguito Leibniz smise di vedere nell’estensione e nel movimento, che erano gli elementi della fisica cartesiana, i costituenti originari del mondo fisico e riconobbe invece l’unico elemento originario nella forza. Ciò accadde quando si convinse che il principio cartesiano dell’immutabilità della quantità di movimento era falso e che bisognava sostituirlo con il principio della conservazione della forza o azione motrice. Ciò che rimane costante nei corpi che si trovano in un sistema chiuso non è la quantità di movimento, ma la quantità di azione motrice o “forza viva” (oggi diremmo: l’energia cinetica), la quale è pari al prodotto della massa per il quadrato della velocità. La forza viva rappresenta la possibilità di produrre un determinato effetto, ad esempio il sollevamento di un peso; in tal modo essa implica un’attività o produttività, esclusa, invece, dal movimento, il quale consiste nella semplice traslazione nello spazio. Leibniz considera perciò la forza come assai più reale del movimento. Il movimento non è reale di per se stesso, come non sono reali di per se stessi spazio e tempo, che devono piuttosto essere considerati come enti di ragione, attraverso i quali esprimiamo i rapporti di coesistenza e di successione tra le cose, così come essi appaiono alla nostra mente. La forza è invece la vera realtà dei corpi. ➔ T3 p. 337 Il concetto di forza serve a Leibniz per oltrepassare il meccanicismo nella spiegazione dei fenomeni naturali. Leibniz accetta il meccanicismo cartesiano solo come una spiegazione provvisoria, che esige di essere integrata da una spiegazione più alta, fisico-metafisica. Egli ammette che nella natura tutto avvenga meccanicamente e cioè che tutto si possa spiegare in essa con le nozioni di figura e di movimento. Ma nello stesso tempo ritiene che i medesimi principi della meccanica e le leggi del movimento nascano da qualcosa di superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica che dalla geometria. La forza è appunto questo superiore principio metafisico che fonda le leggi stesse della fisica. Leibniz distingue infatti la forza passiva, che costituisce la massa di un corpo ed è la resistenza che il corpo oppone alla penetrazione del movimento, dalla forza attiva, cioè dalla vera e propria forza, che è conatus o tendenza all’azione. Questa forza attiva è avvicinata da lui all’entelechìa aristotelica (entelécheia), intesa come una perfezione avente in se stessa il principio del proprio agire. Al di là della forza attiva, è evidente che anche la massa materiale, una volta che sia stata ridotta a “forza” (passiva), non è più nulla di corporeo. Sicché l’ultimo risultato della fisica di Leibniz è la risoluzione della realtà fisica in una realtà incorporea. L’elemento costitutivo della natura, riconosciuto nella forza, gli si rivela di natura spirituale. Il dualismo cartesiano tra sostanza estesa e sostanza pensante viene negato, giacché nell’universo non esistono veramente né estensione, né corporeità, né materia: tutto è spirito e vita, perché tutto è forza.

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Capitolo 3 • Leibniz

GLOSSARIO e RIEPILOGO

La metafisica e la fisica Ordine del mondo p. 313 > Mentre la dottrina di Spi-

noza è una filosofia dell’ordine geometrico, unico e necessario, del mondo, la dottrina di Leibniz, pur affermando con pari energia l’ordine determinabile del mondo («non solamente nulla accade nel mondo che sia assolutamente fuori della regola, ma neppure si riesce ad immaginare nulla di simile»), vede in esso un prodotto contingente, ovvero una libera creazione di Dio, in grado di salvaguardare anche la libertà umana. L’esigenza di difendere la possibilità e la conoscibilità di quest’ordine sta alla base dei più disparati aspetti del pensiero di Leibniz: dalla ricerca di una «caratteristica universale» (v.), capace di stabilire o di rintracciare tale ordine in tutti i campi del sapere, al tentativo di conciliare la scienza moderna con la metafisica.

Caratteristica universale p. 314 > Con l’espressione

«caratteristica universale» (o con quelle equivalenti di «caratteristica», «arte caratteristica generale», «lingua universale», «lingua razionale» ecc.) Leibniz designò quella che in un primo tempo aveva chiamato «arte combinatoria», ovvero il progetto o, meglio, l’ideale di una scienza che, partendo da un linguaggio simbolico o da una scrittura ideografica universale composta di tanti segni (o “caratteri”) quanti sono i concetti elementari o primitivi, fosse in grado di combinare in tutti i modi possibili questi segni primitivi, al fine di ottenere tutti i possibili concetti composti: «È dunque chiaro che se riuscissimo a trovare dei caratteri o dei segni adatti ad esprimere tutti i nostri pensieri con la stessa esattezza e precisione con cui l’aritmetica esprime i numeri e l’analisi geometrica esprime le linee, potremmo realizzare in tutte le materie, nella misura in cui esse si basano sul ragionamento, tutto ciò che già si può fare in aritmetica e in geometria. Tutte le indagini che dipendono dal ragionamento verrebbero infatti realizzate mediante la trasposizione di tali caratteri e attraverso una specie di calcolo. Ciò renderebbe molto facile la scoperta di belle cose, perché non occorrerebbe più rompersi la testa come ci tocca fare attualmente. […] Inoltre saremmo in grado di convincere tutti delle nostre scoperte e conclusioni, poiché sarebbe facile verificare il calcolo o rifacendolo o cercando qualche prova simile a quella del nove in aritmetica. E se qualcuno dubitasse dei miei risultati gli direi: “calcoliamo, Signore” e, prendendo pen-

na e inchiostro, risolveremmo subito la questione» (Prefazione alla “Scienza generale”, trad. it. in L. Perissinotto [a cura di], Logica e linguaggio in Leibniz e nella filosofia del XVII secolo, Paravia, Torino 1989, p. 55).

Verità di ragione p. 315 > Le “verità di ragione” sono quelle verità assolutamente necessarie e perfettamente evidenti che riguardano l’ambito della logica, ma non la realtà. Esse sono “identiche”, «perché sembra che non facciano che ripetere la stessa cosa, senza insegnarci nulla» (Nuovi saggi sull’intelletto umano, IV, 2, par. 1), e sono fondate sui principi di identità e di noncontraddizione, i quali affermano, rispettivamente, che “ogni cosa è ciò che è” e che “una proposizione è o vera o falsa”. Tutte le verità fondate su questi principi sono necessarie e infallibili, ma non dicono nulla circa la realtà esistente di fatto. Verità di questo tipo non possono derivare dall’esperienza e sono quindi innate, sia pure sotto forma di semplici possibilità o tendenze. Verità di fatto p. 316 > Le “verità di fatto” sono quelle

verità contingenti che riguardano la realtà effettiva (ad es. la proposizione “Cesare passò il Rubicone”). Tali verità non sono fondate sui principi di identità e di noncontraddizione, il che significa che il loro contrario è sempre possibile. Sono fondate invece sul principio di ragion sufficiente.

Principio di ragion sufficiente p. 316 > Il “principio

di ragion sufficiente” è quello «in virtù del quale consideriamo che nessun fatto può essere vero o esistente […] senza che vi sia una ragione sufficiente perché sia così e non altrimenti, per quanto queste ragioni il più delle volte non possano esserci conosciute» (I principi della filosofia o monadologia, prop. 32). Tale principio (nihil est sine ratione) non rimanda a una causa necessitante, poiché si limita a mettere in luce perché qualcosa esista o accada, pur ammettendo che ciò che si realizza avrebbe potuto realizzarsi in modo differente. In altri termini, esso spiega senza necessitare.

Il migliore di tutti i mondi possibili p. 316 > Leibniz

applica il principio di ragion sufficiente anche al problema del perché, tra tutti i mondi possibili (cioè tra quelli il cui concetto non implica contraddizione), questo solo è reale. Egli afferma che il nostro è il migliore di tutti i mondi possibili e che perciò Dio, nella sua perfezione, “doveva” sceglierlo.

319

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

N.B. Il “doveva”, in questo caso, non implica una necessità assoluta o metafisica, ma un dover essere morale, al quale Dio, in quanto perfezione, si è liberamente attenuto.

Sostanza individuale p. 317 > Secondo la tradizione

aristotelica, la sostanza individuale era un soggetto di cui erano predicabili certi attributi, ma che non era a sua volta predicabile di altri soggetti. Leibniz, tuttavia, considerando come, nelle «verità di fatto», il predicato non sia «compreso» necessariamente nel soggetto (tanto che può anche essere negato di esso) perviene a una nuova definizione della sostanza individuale: «Bisogna che il termine del soggetto racchiuda sempre quello del predicato, in modo tale che colui che comprendesse perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe anche giudicare che il predicato gli appartiene. Stando così la cosa, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è di avere una nozione così completa, da essere sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto al quale quella nozione si attribuisce» (Discorso di metafisica, VIII). Ad esempio, Alessandro Magno è una sostanza individuale, perché la sua nozione include la ragion sufficiente di tutti i predicati che si possono dire di lui con verità, ad esempio che egli sconfisse Dario e Poro. N.B. L’uomo non può avere una nozione compiuta o completa delle sostanze individuali; pertanto è costretto a desumere dall’esperienza o dalla storia gli attributi (o i predicati) che si possono veridicamente riferire a una determinata sostanza. Ma Dio, la cui conoscenza è perfetta, è in grado di scorgere nella nozione di ogni sostanza la ragion sufficiente di tutti i suoi predicati. Questo non vuol dire che la sostanza individuale sia necessitata ad agire in un certo modo, ad esempio che Alessandro non poteva fare a meno di sconfiggere Dario. Poteva anche non farlo, senza che ciò implicasse contraddizione. Tuttavia, che lo avrebbe fatto era cosa certa, dato che il farlo rientrava nella sua natura e che quest’ultima rispondeva all’ordine generale dell’universo, scelto da Dio. Come si può notare, dopo aver distinto le verità di fatto da quelle di ragione, Leibniz finisce per modellare sulle verità di ragione le stesse verità di fatto, in quanto sostiene che tutti gli attributi di una sostanza individuale sono deducibili dalla nozione di questa sostanza e sono quindi prevedibili in modo infallibile.

Legge della continuità p. 318 > Con l’espressione

“legge della continuità” Leibniz allude al principio secondo cui «la natura non fa mai salti». Tale principio af-

320

ferma che, per passare dal piccolo al grande o viceversa, bisogna attraversare infiniti gradi intermedi: «l’impiego di questa legge è molto importante nella fisica. Essa importa che dal piccolo al grande e dal grande al piccolo si passa sempre attraverso un termine medio, così nei gradi come nelle parti» (Nuovi saggi, “Prefazione”).

Anti-atomismo p. 318 > L’applicazione della legge

della continuità alla materia porta a concludere che il processo di divisione della materia non può fermarsi a quegli elementi indivisibili che sarebbero gli atomi, ma deve procedere all’infinito. Di conseguenza, risulta impossibile ogni forma di atomismo materialistico.

Forza p. 318 > Leibniz cessò di vedere i costituenti origi-

nari del mondo fisico nell’estensione e nel movimento, cioè negli elementi della fisica cartesiana, quando si convinse che il principio cartesiano secondo cui ciò che resta costante nei fenomeni meccanici è la quantità di movimento (mv, “massa” x “velocità”) era un «errore memorabile», e che tale principio andava sostituito con quello secondo cui ciò che si conserva effettivamente è la «forza viva» (oggi diremmo: l’energia cinetica), la quale è pari al prodotto della massa per il quadrato della velocità (mv2, “massa” x “velocità” al quadrato). Dire che l’unico elemento reale del mondo è la forza equivale, secondo Leibniz, a dire che il principio ultimo della realtà è di natura incorporea o spirituale. Sicché l’estremo risultato delle indagini fisiche di Leibniz è che alla base della fisica si trova un principio di natura metafisica: «Devo dichiarare inizialmente che a mio parere tutto avviene meccanicamente nella natura e che per rendere una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno particolare (come per esempio della pesantezza, della elasticità) bastano le nozioni di figura o di movimento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi del movimento nascono a mio parere da alcunché di superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica che dalla geometria».

Spazio e tempo p. 318 > Spazio e tempo, secondo Lei-

bniz, non sono delle realtà ontologiche a sé stanti, ma dei concetti o degli enti di ragione attraverso cui esprimiamo le relazioni delle cose, così come appaiono alla nostra mente. In particolare, lo spazio esprime i rapporti di coesistenza e il tempo i rapporti di successione. N.B. Pur essendo qualcosa di bene fundatum (ben fondato), spazio e tempo sono pur sempre dei fenomeni, ossia delle maniere umane e soggettive con cui ci appare l’ordine oggettivo e assoluto delle cose rappresentato dall’armonia prestabilita (v. p. 328).

Capitolo 3 • Leibniz

6. L’universo monadistico Leibniz doveva dunque giungere a riconoscere che unico è l’elemento ultimo che entra a comporre sia il mondo dello spirito, sia il mondo dell’estensione. Nel Discorso di metafisica del 1686 egli aveva elaborato il concetto di «sostanza individuale», riferendosi prevalentemente all’individualità umana. Come si è detto, la sostanza individuale è lo stesso principio logico della ragion sufficiente elevato a entità metafisica e cioè a elemento costitutivo di un ordine contingente e libero. In quello scritto Leibniz aveva bensì accennato all’esigenza che anche i corpi fisici avessero in sé una «forma sostanziale» che corrispondesse alla sostanza individuale umana, ma non aveva spinto oltre la sua analogia. Verso il 1696 egli comincia a introdurre la parola e il concetto di monade. L’acquisizione di questo termine sancisce per Leibniz la possibilità di estendere al mondo fisico il proprio concetto dell’ordine contingente e, perciò, di unificare il mondo fisico e il mondo spirituale in un ordine universale libero.

Dal concetto di sostanza individuale a quello di monade

Le caratteristiche della monade La monade è un atomo spirituale, una sostanza semplice, senza parti e, quindi, priva di estensione o di figura e indivisibile. Come tale, non si può disgregare ed è eterna: soltanto Dio può crearla o annullarla. Ogni monade è diversa dall’altra: non vi sono in natura due esseri perfettamente uguali, cioè che non siano caratterizzati da una differenza interiore. Leibniz insiste su questo principio, che egli chiama dell’identità degli indiscernibili. Due cose non possono differire solo localmente o temporalmente, cioè essere manifestazioni “quantitativamente” diverse di una medesima sostanza, ma è necessario sempre che intercorra tra esse una differenza sostanziale, o “qualitativa”. Due cubi uguali esistono solo in matematica, non in realtà. Gli esseri reali (viventi e non) si diversificano tutti l’uno dall’altro; e anche se la loro diversità consistesse soltanto in una diversa posizione nello spazio, questa diversità di posizione (o di quantità) si trasformerebbe immediatamente in una diversità di qualità, ovvero di sostanza, e non rimarrebbe quindi una semplice differenza estrinseca. ➔ T4 p. 338 In quanto sostanze semplici e immateriali, le monadi non possono influenzarsi a vicenda, ma sussistono come altrettanti mondi chiusi, privi di “finestre” attraverso cui qualcosa possa uscire o entrare (v. autosufficienza e incomunicabilità delle monadi). Di conseguenza, le altre monadi sono presenti alla singola monade soltanto in maniera ideale, cioè sotto forma di rappresentazione (che è l’unico modo in cui una molteplicità può essere presente in un’unità semplice e immateriale), al punto che ogni monade si configura come uno specchio vivente dell’universo, sia pure da uno specifico e particolare punto di vista. Dire che la monade è un centro attivo di rappresentazioni significa dire che essa è costituita a somiglianza della nostra anima e che consta di due attività fondamentali: la percezione (cioè la stessa attività rappresentativa) e l’appetizione (cioè il tendere da una percezione all’altra). Attribuire a tutte le monadi la capacità della percezione può apparire paradossale solo a chi confonda la vita rappresentativa con la vita cosciente, ossia il percepire con la consapevolezza

La monade

Il principio dell’«identità degli indiscernibili»

La monade come attività rappresentativa

Percezione, appetizione e appercezione

321

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

di percepire. Leibniz denomina tale consapevolezza appercezione, riferendola soltanto a quelle monadi più elevate che sono le «anime» in senso stretto. Del resto anche nella nostra anima, osserva Leibniz, esistono delle piccole percezioni, o «percezioni insensibili», di cui non abbiamo consapevolezza. Ammettendo l’esistenza di queste piccole percezioni, il filosofo riconosce che l’anima pensa sempre, anche quando non si accorge di pensare e in ciò si oppone a Cartesio e a Locke, che avevano identificato il pensare con la coscienza di pensare. Schema interattivo

ConCetti a Confronto

La sostanza in Cartesio

in Spinoza

in Leibniz

in senso proprio, è Dio, sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnipotente e onnisciente

è unica e coincide con Dio, sostanza increata, eterna, infinita e indivisibile, principio immanente del Tutto

è la monade, sostanza individuale, immateriale, semplice e indivisibile, eterna

si articola in: • sostanza pensante (res cogitans) • sostanza estesa (res extensa)

si manifesta in: • pensiero • estensione (attributi)

le infinite monadi si aggregano in infiniti corpi e agiscono in quanto attività rappresentative

La gerarchia delle monadi

I gradi di perfezione delle monadi sono determinati dai gradi delle loro percezioni. C’è una differenza fondamentale tra Dio (che è anch’egli una monade) e le monadi create, che sono per loro natura finite, in quanto queste ultime rappresentano il mondo soltanto da un determinato punto di vista, mentre Dio lo rappresenta da tutti i punti di vista possibili ed è in questo senso la monade delle monadi. Tra Dio e le monad i create c’è poi una differenza ulteriore, consistente nel fatto che le monadi create non si rappresentano la totalità dell’universo con lo stesso grado di chiarezza. Le percezioni delle monadi create sono sempre in qualche misura confuse, simili a quelle che si hanno quando si cade in uno stato di deliquio o di sonno. Le monadi pure e semplici sono quelle che possiedono solo percezioni di questo tipo, cioè confuse; le monadi fornite di memoria sono quelle che costituiscono le anime degli animali; quelle fornite di ragione costituiscono gli spiriti umani. Leibniz ammette quindi, contro Cartesio, che gli animali abbiano un’anima, sebbene non identica a quella degli uomini e capace soltanto di stabilire tra le percezioni una concatenazione che “imita” la ragione, ma ne rimane distinta.

Le monadi sono

> centri di forza e di attività > forme o atomi immateriali > diverse le une dalle altre (principio dell’ identità degli indiscernibili) > autonome (dotate di vita propria e di interna perfezione e finalità) > specchi dell’universo (da una particolare prospettiva) > centri di vita psichica

Le monadi formano una gerarchia al cui vertice c’è Dio, monade perfetta, onnisciente e creante

322

> semplici > inestesi > indivisibili > percezione > appercezione > appetizione

Capitolo 3 • Leibniz

Materia prima e materia seconda Anche la materia è costituita di monadi. Essa non è veramente né sostanza corporea, né sostanza spirituale, ma piuttosto un “aggregato” di sostanze spirituali. La materia è infinitamente divisibile, nel senso che è “scomponibile ” in infiniti elementi ultimi (le monadi), ma questi elementi ultimi non hanno niente di corporeo. Sono “atomi di sostanza”, o “punti metafisici”, che sono“contenuti” in numero infinito da ogni ente:

La materia

Ciascuna porzione di materia può essere concepita come un giardino di piante o come uno stagno pieno di pesci. Ma ciascun ramo della pianta, ciascun membro dell’animale e ogni goccia dei suoi umori è ancora un giardino o uno stagno dello stesso genere. (Monadologia, par. 67)

Leibniz chiama materia seconda la materia intesa in questo modo, cioè come aggregato di monadi. Chiama invece materia prima la potenza passiva (forza di inerzia o di resistenza) che è nella monade e che, insieme alla potenza attiva o entelechìa, costituisce la monade. Nelle monadi superiori, che sono le anime umane, la potenza passiva o materia prima è l’insieme delle percezioni confuse, le quali costituiscono ciò che vi è di propriamente finito, cioè di imperfetto, nelle monadi spirituali create. Leibniz osserva a questo proposito che da un punto di vista rigorosamente metafisico, considerando come azione ciò che avviene alla sostanza spontaneamente e dal suo stesso “fondo”, ogni sostanza non fa che agire, poiché tutto (dopo la creazione) le proviene da se stessa ed essa non subisce l’azione di alcuna altra sostanza. Ma aggiunge che, considerando come azione un esercizio di perfezione e come passione il contrario, non vi è azione nelle sostanze se non quando la loro percezione si sviluppa e diviene più distinta; e non vi è passione se non quando diviene più confusa. Sicché le percezioni confuse corrispondono nelle monadi spirituali a ciò che è l’inerzia o l’impenetrabilità delle monadi corporee, cioè a quella che Leibniz chiama «materia prima». Le percezioni confuse indicano, per Leibniz, la nostra imperfezione, le nostre affezioni, la nostra dipendenza dall’insieme delle cose esterne o dalla materia, mentre la perfezione, la forza, il dominio, la libertà e l’azione dell’anima consistono nei nostri pensieri distinti. Tuttavia, in fondo, i pensieri confusi non sono altro che una molteplicità di pensieri in se stessi uguali e distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente non eccita la nostra attenzione e non è distinguibile. Ecco perché le percezioni confuse sono ricondotte a quelle «piccole percezioni» di cui Leibniz si era servito per giustificare la presenza innata nello spirito di verità di cui esso non è pienamente cosciente. Il corpo degli uomini e degli animali è, secondo Leibniz, materia seconda, cioè aggregato di monadi. Questo aggregato è tenuto insieme e dominato da una monade superiore che è l’anima vera e propria (monade dominante). Ma sebbene tra il corpo, che è aggregato di monadi, e l’anima, che è la monade dominante, non ci sia diversità sostanziale o metafisica (perché tra l’una e le altre c’è soltanto una differenza nei gradi di chiarezza delle rispettive percezioni), Leibniz ammette tuttavia che il corpo e l’anima seguono leggi indipendenti. I corpi, dice Leibniz, agiscono tra di loro secondo leggi meccaniche, mentre le anime agiscono secondo le leggi delle finalità. E non c’è modo di concepire l’azione dell’anima sul corpo o del corpo sull’anima, giacché non si può spie-

Materia prima e materia seconda

Azione e passione nella monade

Anima e corpo

323

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

Esercizi interattivi Le monadi e la materia

gare in alcun modo come le variazioni corporee, cioè le leggi meccaniche, facciano nascere una percezione o come dalla percezione possa derivare un cambiamento di velocità o di direzione nei corpi. Bisogna concludere quindi che l’anima e il corpo seguono ognuno la propria legge separatamente, senza che le leggi corporee siano turbate dalle azioni dell’anima o che i corpi trovino finestre per far entrare nell’anima il loro influsso. Nasce così il problema di intendere l’accordo dell’anima con il corpo.

I rapporti tra le monadi e l’«armonia prestabilita» Al problema del rapporto tra l’anima e il corpo si riconduce la questione più generale della comunicazione reciproca tra le monadi che costituiscono l’universo. Il problema dell’accordo reciproco delle monadi…

… e le soluzioni possibili

La dottrina dell’armonia prestabilita

324

Tutte le monadi sono perfettamente chiuse in se stesse e “senza finestre”, cioè senza possibilità di comunicare direttamente l’una con l’altra. Ma nello stesso tempo, le monadi sono in un certo senso “legate” l’una all’altra, nella misura in cui ognuna di esse costituisce un “aspetto” del mondo, cioè una rappresentazione più o meno chiara di tutte le altre monadi. In altre parole, le monadi sono come tante diverse vedute di una medesima città e come tali si accordano insieme a costituire la veduta totale e complessiva dell’universo, che si trova pienamente espressa e riassunta nella monade suprema: Dio. Ma sebbene ogni monade rappresenti l’intero universo, essa rappresenta più distintamente il corpo che le si riferisce particolarmente, e di cui costituisce l’entelechìa; e siccome tale corpo, costituito di monadi, esprime tutto l’universo, così l’anima, rappresentandosi il corpo che le appartiene, si rappresenta insieme tutto l’universo. In questo modo il problema della comunicazione tra le monadi viene a configurarsi in Leibniz nella forma particolare che esso aveva assunto nella filosofia cartesiana, cioè come problema del rapporto tra l’anima e il corpo. Leibniz distingue tre possibili soluzioni di questo problema. a) Se si paragonano l’anima e il corpo a due orologi, il primo modo di spiegare il loro accordo è quello di ipotizzare l’influenza reciproca dell’uno sull’altro. È questa la dottrina della filosofia volgare, che urta contro la tesi dell’incomunicabilità delle monadi e contro l’impossibilità di ammettere un influsso tra due sostanze (spirituale e materiale) che seguono nelle loro azioni leggi eterogenee. b) La seconda maniera di spiegare l’accordo è quella che Leibniz chiama dell’assistenza, e che è propria del sistema delle cause occasionali: due orologi anche cattivi possono essere tenuti tra loro in armonia da un abile orologiaio che provveda a regolarli in ogni istante. Questo sistema, secondo Leibniz, ha il torto di introdurre un Deus ex machina in un fatto naturale e ordinario, nel quale Dio non deve intervenire se non allo stesso modo in cui concorre in tutti gli altri fatti della natura. c) Non resta allora che la terza maniera, cioè quella di supporre che i due orologi siano stati costruiti con tanta arte e perfezione da essere in futuro sempre d’accordo. Questa è la dottrina dell’armonia prestabilita sostenuta da Leibniz. Secondo questa dottrina l’anima e il corpo seguono entrambi le proprie leggi; ma il loro accordo è stato fissato preventivamente da Dio nell’atto di stabilire queste stesse leggi. Il corpo seguendo le leggi meccaniche e l’anima seguendo la propria interna spontaneità sono

Capitolo 3 • Leibniz

a ogni istante tra loro in armonia, e questa armonia è stata prestabilita da Dio all’atto della creazione. ➔ T5 p. 339

Il problema dell’accordo reciproco tra le monadi può essere risolto ipotizzando

> un’influenza reciproca (soluzione cartesiana)

orologi che si influenzano a vicenda

> un intervento dall’esterno (soluzione occasionalista)

intervento continuo di un orologiaio

> un’armonia prestabilita, ossia un accordo predisposto da Dio fin dall’eternità (soluzione leibniziana)

orologi costruiti in modo da garantire una perfetta sincronia

La dottrina dell’armonia prestabilita costituisce dunque lo sbocco e la conclusione ultima della filosofia di Leibniz, sebbene non sia (come spesso si è ritenuto) il suo pensiero centrale e animatore. Secondo tale dottrina il corpo organico (degli animali o dell’uomo) è una specie di macchina divina o di automa naturale, le cui manifestazioni non sono per nulla influenzate dagli atti spirituali. È solo per l’armonia prestabilita, dice Leibniz, che nell’anima del cane entra il dolore quando il suo corpo è colpito.

L’innatismo Abbiamo già detto che la vita dell’anima (della monade-anima) si sviluppa con perfetta spontaneità dal suo interno. Essa è una specie di “sogno” ben congegnato, nel quale le percezioni si susseguono in virtù di una legge che è inscritta nella natura stessa della monade e che Dio ha stabilito all’atto della sua creazione. Ecco perché Leibniz giunge a dire che l’anima è una specie di “automa immateriale”. Ed ecco perché Leibniz sostiene un innatismo totale: la monade è tutta innata a se stessa, giacché nulla può ricevere dall’esterno. Non solo le verità di ragione e i principi logici su cui essa si fonda sono innati (v. p. 316), ma anche le verità di fatto e perfino le sensazioni provengono dall’interno della monade: dal suo fondo oscuro costituito dalle piccole percezioni, le quali divengono via via, almeno in parte, distinte. Leibniz espone la propria prospettiva innatistica nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, che già nel titolo contengono un riferimento polemico al Saggio di Locke (v. unità 5, cap. 3). In questo scritto si afferma che le verità di ragione non possono derivare dall’esperienza, in quanto hanno una necessità assoluta che le conoscenze empiriche non possiedono. Ciò non toglie, precisa Leibniz, elaborando una forma di innatismo sui generis, o “virtuale”, che le verità innate siano presenti alla mente non in modo attuale, bensì potenziale, cioè sotto forma di possibilità o tendenze. Per chiarire il carattere specifico del suo innatismo e la maniera con cui le idee passano dalla virtualità all’attualità, Leibniz si serve dell’esempio del blocco di marmo. L’anima, scrive il filosofo, è simile a un blocco di marmo in cui siano

Un innatismo totale…

… e “virtuale”

325

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

impresse delle venature che delineano una certa figura; saranno sufficienti pochi colpi di martello per eliminare il marmo superfluo e fare apparire la statua: se nel marmo vi fossero venature che delineassero la figura di Ercole a preferenza di altre, questo marmo vi sarebbe in qualche modo predisposto e la figura dell’Ercole vi sarebbe in qualche modo innata, benché sarebbe necessario pur sempre un certo lavoro per scoprire queste venature, per ripulirle togliendo ciò che impedisce loro di apparire. (Nuovi saggi, “Prefazione”)

In altri termini, l’anima ricava da se stessa le idee (la statua), portando alla luce e rendendo attuali le predisposizioni e le tendenze che possiede (le venature del marmo) mediante la riflessione (i colpi di martello). Oltre Locke, verso Kant

Sintesi audio Le monadi

Con un tale innatismo virtuale, Leibniz non solo si oppone all’empirismo di Locke, ma per certi versi prefigura il trascendentalismo di Immanuel Kant (v. vol. 2B, unità 7), affermando che l’anima dispone per proprio conto di “categorie” («l’essere, la sostanza, l’uno» ecc.) che i sensi non potrebbero fornirle: «Mi si opporrà forse quel celebre assioma molto diffuso tra i filosofi: nulla si trova nell’anima che non derivi dai sensi. Ma bisogna escludervi l’anima stessa e le sue attività: nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, excipe: nisi ipse intellectus. Ora l’anima contiene l’essere, la sostanza, l’uno, l’identico, la causa, la percezione, il raziocinio, o una quantità di altre nozioni che i sensi non possono fornire» (Nuovi saggi, II, 1, par. 2). In maniera assai efficace (excipe: nisi ipse intellectus), Leibniz corregge dunque l’«assioma» della tradizione empirista (nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu). Con questa formula, o con quella altrettanto famosa secondo cui «l’anima è innata a se stessa», Leibniz ribadisce quindi l’idea secondo cui la monade esce dalle mani di Dio compiuta nella sua natura e determinata (sebbene non necessariamente) in tutti i suoi pensieri e in tutte le sue azioni. Per questo, con una suggestiva espressione, Leibniz chiama le monadi «fulgurazioni continue» della divinità, sottolineando come le monadi, limitate dalla ricettività che caratterizza le creature, dipendano di momento in momento da una sorta di “illuminazione” divina. ➔ T6 p. 342

GLOSSARIO e RIEPILOGO Le monadi Monade p. 321 > Con il termine “monade” (dal gr. monás-monádos, “unità”, “semplice”, “ciò che è indivisibile”, deriv. di mónos, “solo”, “unico”), usato ad esempio dai pitagorici e ripreso da Cusano e da Bruno, Leibniz intende quei centri immateriali di forza che costituiscono gli elementi di base della realtà e che si identificano con

326

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia le sostanze individuali (v.). In altri termini, la monade è un atomo spirituale, una sostanza semplice, senza parti, e quindi priva di estensione o di figura e indivisibile: «La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè, senza parti»; «E debbono esserci sostanze semplici, perché ve ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di sempli-

Capitolo 3 • Leibniz

ci»; «Ora, laddove non ci sono parti, non c’è né estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose» (Monadologia, propp. n. 1, n. 2 e n. 3). Come tale, la monade non si può disgregare ed è eterna: soltanto Dio può crearla o annullarla. Ogni monade, in virtù del principio dell’identità degli indiscernibili (v.), è diversa dall’altra.

Identità degli indiscernibili p. 321 > Quello dell’“iden-

tità degli indiscernibili” è il principio metafisico secondo cui in natura non vi possono essere due cose tra loro assolutamente uguali, ossia «due esseri che siano perfettamente l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca» (Monadologia, prop. n. 8). Infatti, se ci fossero due sostanze indiscernibili (ossia indistinguibili), esse coinciderebbero e sarebbero un’unica e identica sostanza. N.B. Questo principio, di cui Leibniz fu l’orgoglioso teorico (al punto da scrivere che esso, insieme a quello di ragion sufficiente, avrebbe mutato «lo stato della metafisica»), giustifica due dottrine essenziali nel sistema filosofico leibniziano: l’individualità di ciascuna sostanza e la varietà infinita del creato. A proposito del primo punto Leibniz scrive: «Il principio d’individuazione si riduce, negli individui, al principio di distinzione […]. Se due individui fossero del tutto simili e uguali e, in una parola, indistinguibili di per se stessi, non si avrebbe principio d’individuazione, ed oso dire che non vi sarebbe, posta quella condizione, alcuna distinzione individuale o differenza d’individui» (Nuovi saggi, II, 27, par. 3).

Autosufficienza e incomunicabilità delle monadi p. 321 > In quanto sostanze semplici e immateriali, cioè prive di parti, le monadi non possono influenzarsi a vicenda, ma sussistono come altrettanti mondi chiusi, sprovvisti di “finestre” sull’esterno: «non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato […] come accade nei composti, nei quali c’è mutamento tra le parti. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire» (Monadologia, prop. n. 7).

Rappresentazione p. 321 > Posta l’autosufficienza e

incomunicabilità delle monadi, l’universo può essere presente a ognuna di esse soltanto in maniera ideale, cioè sotto forma di “percezione” o “rappresentazione”,

che è l’unico modo in cui una molteplicità può essere presente in un’unità semplice e immateriale.

Specchio vivente dell’universo p. 321 > In quanto attività rappresentativa, ogni monade si configura come uno «specchio vivente» dell’universo. Non per questo la conoscenza di ogni singola monade è identica a quella delle altre. Ogni monade, infatti, rappresenta l’universo da un particolare punto di vista: «come una medesima città, guardata da punti differenti, sembra tutt’altra e come moltiplicata secondo le prospettive, così accade, analogamente, che, per la molteplicità infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi che però non sono che le prospettive d’un unico universo, secondo i diversi punti di vista di ciascuna monade» (Monadologia, prop. n. 57). Percezione e appetizione p. 321 > La monade è co-

stituita a somiglianza della nostra anima e consta di quelle due attività fondamentali che sono la percezione (ovvero l’attività rappresentativa) e l’appetizione (ossia il tendere da una percezione all’altra). Una monade, scrive Leibniz, non può «essere distinta da un’altra che per qualità ed azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue percezioni (cioè le rappresentazioni, nel semplice, del composto o di ciò che è esterno); e le sue appetizioni (cioè le sue tendenze da una percezione all’altra), che costituiscono i princìpi del cambiamento» (Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, prop. n. 2).

Appercezione p. 322 > Con il termine “appercezione” Leibniz intende la consapevolezza delle proprie percezioni: «è opportuno distinguere tra la percezione, che è lo stato interiore della monade che si rappresenta le cose esterne, e l’appercezione, che è la coscienza o conoscenza riflessa di quello stato interno» (Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, prop. n. 4). N.B. Mentre le percezioni appartengono anche agli animali e alle piante, l’appercezione è propria di quella monade più elevata che è l’anima umana. Piccole percezioni p. 322 > Contro Cartesio e Locke,

che avevano identificato il pensare con la coscienza di pensare, Leibniz afferma che l’anima possiede delle “piccole percezioni” (petites perceptions) o “percezioni insensibili”, cioè che essa pensa sempre, anche quando non si accorge di pensare.

Gradi di perfezione delle monadi p. 322 > Le monadi sono ordinate gerarchicamente in base ai loro gradi di perfezione, i quali dipendono a loro volta dai gradi

327

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

delle loro percezioni, cioè dalla maggiore o minore chiarezza con cui esse percepiscono l’universo. Al vertice delle monadi vi è Dio, che possiede una conoscenza totale e perfettamente chiara dell’universo.

Materia prima p. 323 > La materia, in generale, è se-

condo Leibniz un “composto” o un “aggregato” di infinite realtà immateriali, ovvero di quegli “atomi spirituali” che sono le monadi. La “materia prima” è la potenza passiva (forza di inerzia o di resistenza) che è nella monade. Nelle monadi superiori, cioè nelle anime umane, tale potenza passiva è data dall’insieme delle percezioni confuse, le quali costituiscono ciò che vi è di propriamente finito, cioè di imperfetto, nelle monadi spirituali create.

Materia seconda p. 323 > La “materia seconda” è costituita da un aggregato di monadi il quale, nel corpo degli uomini e degli animali, è tenuto insieme e diretto da una monade superiore che è l’anima vera e propria (monade dominante). Leibniz ammette tuttavia che il corpo e l’anima seguono leggi indipendenti. Nasce allora il problema del loro rapporto, che Leibniz risolve con la dottrina dell’armonia prestabilita (v.).

Armonia prestabilita p. 324 > La dottrina dell’armo-

nia prestabilita permette a Leibniz di rispondere al seguente interrogativo: posto che le monadi sono dei mondi chiusi, come andrà inteso il loro rapporto? Scartata la soluzione dell’influenza reciproca, che risulta in contraddizione con il concetto di monade, e quella dell’assistenza (occasionalismo), che fa di Dio un Deus ex machina, non rimane, secondo Leibniz, che quella dell’“armonia prestabilita”, cioè la dottrina secondo cui l’accordo tra le varie monadi (compreso quello tra le monadi-anima e le monadi-corpo) è stato predisposto da Dio fin dall’eternità, in modo tale che le modificazioni interne di ciascuna monade corrispondano perfettamente alle modificazioni di tutte le altre monadi. N.B. Un’illustrazione didatticamente efficace di questo concetto è quella degli orologi sincronici. La concordanza tra due orologi, osserva Leibniz, può avvenire o perché l’uno influisce sull’altro, o perché un orologiaio regola di continuo i loro movimenti, cercando di farli corrispondere a vicenda, o perché essi, pur essendo indipendenti tra loro e pur non necessitando di una regolazione continua, sono stati costruiti in modo così perfetto che il loro accordo è garantito fin dall’inizio.

Innatismo totale p. 325 > Il concetto della monade

come totalità isolata e autosufficiente porta Leibniz a

328

un “innatismo totale”. Infatti, posta la nozione della monade come entità senza “finestre”, Leibniz è costretto a sostenere non solo l’innatismo sui generis delle verità di ragione, ma anche quello delle verità di fatto. In altri termini, non ricevendo nulla dall’esterno, le monadi devono trarre da sé tutto ciò che possiedono: «Ciò – scrive Leibniz – fu inteso in modo eccellente da Platone, quando avanzò la sua teoria della reminiscenza, la quale, se bene intesa, è molto solida, purché la si purifichi dall’errore della preesistenza, evitando di immaginare che l’anima debba già aver saputo e pensato distintamente altra volta quando nel presente apprende e pensa» (Discorso di metafisica, XXVI).

Innatismo sui generis p. 325 > Nei Nuovi saggi sull’in-

telletto umano Leibniz difende l’esistenza di idee innate. Tali sono le verità di ragione, le quali non possono derivare dall’esperienza, in quanto hanno una necessità assoluta che le conoscenze empiriche non possiedono. Ciò non toglie che le verità innate siano presenti alla mente non in modo attuale, bensì “potenziale” o “virtuale”, cioè sotto forma di possibilità o tendenze. Per chiarire il significato di questa affermazione, Leibniz ricorre all’esempio del blocco di marmo e delle venature in esso contenute: «se nel marmo vi fossero venature che delineassero la figura di Ercole a preferenza di altre, questo marmo vi sarebbe in qualche modo predisposto e la figura dell’Ercole vi sarebbe in qualche modo innata, benché sarebbe necessario pur sempre un certo lavoro per scoprire queste venature, per ripulirle togliendo ciò che impedisce loro di apparire» (Nuovi saggi, “Prefazione”).

Nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, excipe: nisi ipse intellectus p. 326 > «Non vi è nulla

nell’intelletto, che non sia stato nel senso, eccepisci: se non l’intelletto stesso»: con questa celebre affermazione, volta a colpire l’empirismo lockiano, Leibniz intende dire che l’anima dispone per proprio conto di “categorie” che i sensi non potrebbero fornirle: «Mi si opporrà forse quel celebre assioma molto diffuso tra i filosofi: nulla si trova nell’anima che non derivi dai sensi. Ma bisogna escludervi l’anima stessa e le sue attività: nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, excipe: nisi ipse intellectus» (Nuovi saggi, II, 1, par. 2). Con questa formula, e con quella altrettanto famosa secondo cui «l’anima è innata a se stessa», Leibniz intende quindi ribadire il proprio innatismo, il quale trova un’ulteriore fondazione e un ampliamento nella dottrina della monade (v.) come ente privo di “finestre”.

Capitolo 3 • Leibniz

7. Dio e i problemi della «teodicea» La filosofia di Leibniz, concludendosi nel sistema dell’armonia prestabilita, diventa a questo punto speculazione teologica. E in tale speculazione Leibniz accoglie i temi tradizionali della teologia, a cominciare dalle prove dell’esistenza di Dio, che egli elabora a suo modo, per finire con una trattazione dei problemi inerenti a ogni teologia: il problema della libertà e della predeterminazione e il problema del male.

Le prove dell’esistenza di Dio In primo luogo, Leibniz elabora una delle prove tradizionali dell’esistenza di Dio, prova che egli definisce a posteriori. Si tratta della terza prova tra quelle enumerate da Tommaso d’Aquino nella Somma teologica (v. vol. 1B, unità 7, cap. 2), e precisamente di quella desunta dal rapporto tra il possibile e il necessario. Leibniz formula questa prova ricorrendo al principio di ragion sufficiente. Dio, egli dice, è la prima ragione delle cose, giacché le cose limitate, come sono tutte quelle che vediamo e sperimentiamo, sono contingenti e non hanno in sé nulla che renda necessaria la loro esistenza. Bisogna dunque cercare la ragione dell’esistenza del mondo; e bisogna cercarla nella sostanza che porta in se stessa la ragione della sua esistenza e che perciò è necessaria ed eterna. Se un mondo solo esiste, tra innumerevoli mondi tutti ugualmente possibili e tutti con una pretesa all’esistenza, la ragion sufficiente di esso non può che essere costituita da un intelletto che ha le idee di tutti i mondi possibili e da una volontà che ne sceglie uno: l’intelletto e la volontà di Dio. La potenza della sostanza divina rende poi efficace la volontà (Saggi di teodicea, I, 7; Monadologia, parr. 37-39). Dio è quindi nello stesso tempo la ragion sufficiente del mondo che esiste di fatto e la ragion sufficiente di tutti i mondi possibili. Anche le pure possibilità, infatti, devono in qualche modo fondarsi su qualcosa di reale o di attuale: si fondano sull’esistenza dell’essere necessario, la cui essenza implica l’esistenza, o al quale basta essere possibile per essere attuale. Dio è in tal modo la fonte non soltanto di ogni realtà, ma anche delle essenze possibili e delle verità eterne (Monadologia, parr. 43-44). Queste ultime, tuttavia, non dipendono dalla volontà divina, come Cartesio aveva sostenuto, ma soltanto dall’intelletto divino, di cui sono l’oggetto interno. Dalla volontà divina dipendono invece le verità di fatto, che concernono le esistenze reali (Monadologia, par. 46). In secondo luogo, Leibniz elabora l’argomento ontologico di Anselmo d’Aosta (v. vol. 1B, unità 7, cap. 1), utilizzando però il proprio concetto del possibile. Alla forma cartesiana dell’argomento ontologico oppone che si può dedurre l’esistenza, in quanto perfezione, dal concetto di un essere che possieda tutte le perfezioni solo dopo aver dimostrato che il concetto di questo essere è possibile (cioè privo di contraddizioni interne). Sicché, in realtà, quell’argomento non può concludere dalla perfezione di Dio alla sua esistenza, ma deve concludere dalla possibilità di Dio alla sua esistenza. Questa è dunque la forma vera dell’argomento secondo Leibniz:

La prova a posteriori

Dio come intelletto, volontà e potenza

Il rapporto di Dio con le verità eterne e di fatto

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne, p. 350 La prova ontologica

Dio solo, ovvero l’essere necessario, ha questo privilegio: che, se è possibile, bisogna che esista. E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna

329

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

negazione, quindi alcuna contraddizione, ciò solo basta per riconoscere a priori l’esistenza di Dio. (Monadologia, par. 45) Esercizi interattivi Le prove dell’esistenza di Dio

In Dio, dunque, possibilità e realtà coincidono: tale è, secondo Leibniz, il significato della necessità della sua natura. Posto che sia riconosciuto possibile, dev’essere riconosciuto esistente; e non c’è dubbio che possa e debba essere riconosciuto possibile, data la totale assenza di limitazioni intrinseche che lo caratterizza.

I problemi del male e della libertà La “questione del male”, affrontata dai filosofi fin dall’antichità, riguarda, in ultima analisi, la possibilità di conciliare l’idea di un Dio creatore buono e onnipotente con la presenza, nel mondo creato, del dolore e del male. Con il termine teodicea, da lui stesso coniato, Leibniz indica dunque la “giustificazione” di Dio, ovvero il tentativo di scagionarlo dall’accusa di essere responsabile dell’esistenza del male nel mondo. Male metafisico, male morale, male fisico

La volontà divina e il male

TAVOLA ROTONDA Dio e lo “scandalo” del male, p. 356 La libertà umana

330

Rifacendosi in parte allo schema agostiniano (v. vol. 1B, unità 6, cap. 2), Leibniz distingue tre tipi di male: ■■■ il male metafisico, che è implicito nella limitazione o nella finitudine delle creature ed è una forma di non-essere; ■■■ il male morale, che coincide con il peccato, o con la colpa; ■■■ il male fisico, che deriva dal male metafisico (in quanto conseguenza di una natura imperfetta) o dal male morale (in quanto punizione di una colpa). Di questi tre tipi di male, è principalmente quello morale a rendere necessaria la “giustificazione” di Dio, dal momento che, se è voluto da Dio, allora Dio non è massimamente buono, e se Dio non lo vuole ma non può impedirlo, allora non è onnipotente. La questione del male morale è il problema fondamentale della teodicea, e viene affrontato da Leibniz alla luce di quella “regola del meglio” che egli reputa la norma fondamentale dell’azione divina e, quindi, dell’ordine del mondo. Il filosofo distingue infatti, in Dio, una «volontà antecedente» che vuole il «bene in sé» e una «volontà conseguente» che, scontrandosi con la necessità del principio di non-contraddizione, sceglie il «meglio». In quanto infinitamente buono, Dio vuole il bene assoluto, o «bene in sé», e quindi vuole (volontà antecedente) portare all’esistenza ogni cosa massimamente buona, tra cui la libertà dell’uomo e la sua assenza di colpa. Ma la libertà umana non può coesistere con una totale assenza di colpa: questi sono due beni che non possono essere realizzati entrambi in maniera assoluta, neppure da Dio, perché la loro coesistenza violerebbe una legge logica necessaria. Ecco perché Dio sceglie (volontà conseguente) di creare non il mondo perfetto, bensì il migliore possibile, che contiene sia il bene della libertà, sia quello dell’assenza di colpa, anche se non in misura assoluta. Leibniz parla dunque di una volontà «permissiva» di Dio rispetto al peccato (che deriva interamente dalla scelta libera dell’uomo), nel senso che Dio lo “permette” in base alla sua volontà conseguente, cioè in base alla sua scelta del meglio. ➔ T7 p. 343 Si è già visto (v. “La sostanza individuale”, p. 317) come Leibniz non ritenga che la predeterminazione divina e la prescienza (che ne è condizione) annullino la libertà umana. I motivi tradizionali, che egli a questo proposito riprende, assumono risonanze nuove solo in virtù del

Capitolo 3 • Leibniz

principio fondamentale che ispira tutta la sua speculazione: quello secondo il quale l’ordine dell’universo è contingente e libero. Creato da un atto libero della divinità, l’ordine dell’universo è conservato e svolto dalla libertà delle monadi, e soprattutto delle monadi spirituali, nelle quali meglio si riflette e si riconosce la sostanza divina. Il principio di ragion sufficiente, sul quale è fondato l’ordine del mondo, conduce Leibniz a vedere quest’ordine orientato secondo il meglio, che è il fine della volontà divina e di quella umana. La predeterminazione divina, agendo per il tramite della volontà che tende al meglio, non è quindi necessitante, ma inclinante; e la scelta del meglio da parte delle creature rimane libera e responsabile. Sono senza dubbio reali le difficoltà che Bayle, Jaquelot e altri contemporanei, e dopo di loro innumerevoli critici, hanno individuato nella teologia di Leibniz. Ma la teologia, se è il punto di arrivo della speculazione di Leibniz, non è tutta la sua filosofia. E indubbiamente il principio ispiratore della sua filosofia, come di tutta la sua opera logica, politica, storica, giuridica e di tutta la sua vita, è la libertà dell’ordine universale. Leibniz cercò di realizzare nella propria filosofia la giustificazione dell’atteggiamento che egli assunse costantemente di fronte ai problemi di ogni genere che ebbe ad affrontare nel corso della vita: l’atteggiamento di chi vuol promuovere e fondare nel mondo umano, e riconoscere in tutto l’universo, un insieme di attività che liberamente si incontrano, si limitano e finiscono per trovare la loro pacifica coordinazione.

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Scheda filmica La severa leggerezza dell’esistenza (Appuntamento a Belleville) Video La severa leggerezza dell’esistenza (Appuntamento a Belleville)

Le discussioni sulla teologia di Leibniz

Sintesi audio La teodicea

GLOSSARIO e RIEPILOGO

La teologia Prove dell’esistenza di Dio p. 329 > Leibniz rielabora la terza prova a posteriori addotta da Tommaso in favore dell’esistenza di Dio (quella desunta dal rapporto tra il possibile e il necessario), offrendone una formulazione fondata sul principio di ragion sufficiente: poiché il mondo non contiene la ragion sufficiente della propria esistenza, dato che tutto ciò che esiste è contingente e rimanda ad altro, deve esistere un ente necessario che sia la “ragion sufficiente” di se stesso e del mondo; in caso contrario, si sarebbe costretti ad ammettere un regresso all’infinito nella catena delle cause. Leibniz riformula anche l’argomento ontologico di Anselmo, affermando che per riconoscere a priori l’esistenza di Dio basta riconoscere che il concetto di Dio, in quanto essere che non implica alcun limite, è possibile, cioè privo di contraddizioni interne.

Teodicea p. 330 > Con il termine “teodicea” Leibniz indica la “giustificazione di Dio”, cioè il tentativo razionale di

scagionarlo dall’accusa di essere responsabile del male che affligge il mondo. L’idea del filosofo è che in Dio esistano una volontà «antecedente», che in virtù della sua perfetta bontà vuole il «bene in sé», e una volontà «conseguente», che, limitata dalla necessità logica del principio di non-contraddizione (per cui un mondo in cui l’uomo sia assolutamente libero non è compatibile con un mondo totalmente privo di colpa), vuole il «meglio». Tra gli infiniti mondi possibili, Dio sceglie dunque “il migliore” e in questo senso “permette” il male in vista del meglio.

Libertà umana p. 330 > Secondo Leibniz l’ordine con-

tingente e libero dell’universo creato da Dio si riflette nella libertà delle monadi, in particolare delle monadi spirituali, che contribuiscono a mantenere e a sviluppare tale ordine, finalisticamente orientato al meglio. La predeterminazione divina, agendo per il tramite della volontà che persegue il meglio, non è necessitante, bensì inclinante; e la scelta del meglio da parte delle creature resta libera e responsabile.

331

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

8. Il calcolo infinitesimale All’idea fondamentale di un ordine contingente, e tuttavia regolare e determinabile, si connette la scoperta del calcolo infinitesimale. La continuità e le differenze minime

La ricerca di nuovi simboli per il calcolo degli infinitesimi

La disputa tra Leibniz e Newton

Approfondimento Leibniz nella filosofia moderna

332

Un ordine di quel genere, infatti, suppone una continuità tra le cose, gli enti o le idee da cui risulta. Ma la continuità a sua volta suppone che si possano considerare le differenze minime tra i termini di cui si tratta. In altre parole, in tutti i campi si può riconoscere continuità (cioè ordine) solo se si prendono in considerazione le differenze minime o infinitesime, ovvero quelle che si possono rendere sempre più piccole. Ora, la considerazione di queste differenze infinitamente piccole non può essere fatta con gli strumenti del calcolo che considera le grandezze finite. Per questo Leibniz cercò di individuare nuovi simboli, che permettessero di sottoporre a determinate operazioni anche i cosiddetti “infinitesimi”. Il contributo di Leibniz a questo tipo di calcolo consiste proprio nell’aver individuato dei simboli che rendevano possibili le ricerche infinitesimali, esattamente come i simboli algebrici avevano reso possibile l’analisi delle grandezze finite. In questo consiste anche la superiorità di Leibniz su Newton rispetto al calcolo infinitesimale. La disputa tra Leibniz e Newton e i loro seguaci per la priorità della scoperta fu lunga e aspra, e segnò per un certo periodo gli studi matematici. Già verso il 1677 Leibniz aveva in mente di pubblicare una memoria sul calcolo infinitesimale. Ma essa fu pubblicata solo nel 1684 negli “Acta eruditorum”, un periodico scientifico che Leibniz stesso aveva fondato. La polemica ebbe inizio nel 1699, quando un matematico inglese affermò in una pubblicazione che il primo inventore del nuovo calcolo non era Leibniz, ma Newton. In seguito, la Società Reale di Londra decise per la priorità cronologica di Newton. Ma la disputa continuò a lungo aspramente. Ciò che oggi si può dire è che l’opera di Newton e quella di Leibniz furono talmente preparate dai lavori dei matematici precedenti che stabilire la priorità cronologica dell’uno o dell’altro non ha molta importanza. Tuttavia, poiché la parte formale del nuovo metodo (cioè i simboli adoperati) ebbe in seguito un ruolo decisivo nello sviluppo del calcolo, i moderni, pur senza sminuire i meriti di Newton, sono propensi ad attribuire il merito maggiore a Leibniz, come a colui che per l’appunto escogitò e mise in uso il simbolismo adatto.

Capitolo 3 • Leibniz

MAPPA Leibniz

L’UniVerso

esiste un ordine dell’universo spontaneamente organizzato e libero

Dio ha scelto secondo ragione il migliore dei mondi possibili

a fondamento della realtà fisica vi è un principio meta-fisico, la forza viva, che è l’essenza delle sostanze individuali o monadi

Mappa interattiva

Le Monadi

sono entità autosufficienti e chiuse in se stesse

sono centri di rappresentazione del mondo la percezione (oscura e confusa)

hanno due modalità di conoscenza l’appercezione (chiara e distinta)

sono regolate dall’armonia prestabilita accordo perfetto tra gli eventi che accadono in ciascuna di esse

La teodicea

in Dio esistono una volontà antecedente, che vuole il bene in sé, e una volontà conseguente, che vuole il meglio possibile

Dio ammette il libero arbitrio e permette il male e il peccato come mezzi per raggiungere il meglio

la predeterminazione divina non è necessitante ma inclinante le scelte dell’uomo rimangono libere e responsabili

333

I TESTI CAPITOLO 3 Leibniz

Metafisica e gnoseologia Redatto a cavallo tra il 1685 e il 1686, il Discorso di metafisica è la prima esposizione complessiva delle tesi di Leibniz, in cui, in difesa dell’idea di un Dio personale e libero creatore del mondo, si afferma che la realtà è retta da un “ordine contingente”, ovvero da un ordine universale liberamente scelto da Dio tra tutti quelli possibili.

t1 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14

334

La nuova definizione

deLLa sostanza individuaLe

Posta la distinzione tra le «verità di ragione» (necessarie, fondate sui principi di identità e di noncontraddizione e riguardanti il mondo della logica) e le «verità di fatto» (contingenti, fondate sul principio di ragion sufficiente e riguardanti il mondo reale), dalle condizioni di verità di queste ultime Leibniz deriva il proprio concetto di «sostanza individuale». Il brano che segue, tratto dalla prima parte del Discorso di metafisica, presenta appunto la definizione leibniziana della «sostanza individuale» come soggetto reale che contiene in sé la ragion sufficiente dei suoi predicati.

È ben vero che, quando parecchi predicati si attribuiscono al medesimo soggetto, se questo soggetto non si attribuisce più ad alcun altro, lo si chiama sostanza individuale; ma ciò non basta, perché questa spiegazione è soltanto nominale. Bisogna perciò considerare cosa significhi l’essere attribuito veramente ad un certo soggetto. Ora è costante che ogni vera predicazione ha qualche fondamento nella natura delle cose e, quando una proposizione non è identica, cioè quando il predicato non è espressamente compreso nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente; ed è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Bisogna, quindi, che il termine del soggetto racchiuda sempre quello del predicato, in modo tale che colui che comprendesse perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe anche giudicare che il predicato gli appartiene. Stando così la cosa, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un essere completo è di avere una nozione così completa da essere sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati dal soggetto al quale la nozione è attribuita. L’accidente è, invece, un essere la cui nozione non racchiude tutto ciò che si può attribuire al soggetto al quale quella nozione si attri-

16 18 20

buisce. Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro il Grande, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata a un individuo e non racchiude le altre qualità dello stesso soggetto, né di tutto ciò che la nozione di questo principe comprende; invece Dio, mentre vede la nozione individuale o ecceità di Alessandro, vi vede al tempo stesso il fondamento e la ragione di tutti i predicati che ad essa si possono con verità attribuire, come, per esempio, che egli vincerà Dario e Poro, fino a riconoscervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o di veleno, cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia. (Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, a cura di D.O. Bianca, utet, Torino 1967, pp. 70-71)

Analisi del testo 1-10 Definire la sostanza come un soggetto a cui ineriscono diversi predicati, ma che non è predicabile di altro, significa muoversi su un piano meramente logico, o formale, insufficiente per rendere conto della realtà delle cose. Per definire la sostanza individuale in modo più adeguato, Leibniz considera dunque quali siano le condizioni che una proposizione deve soddisfare per essere veridica. Il problema non si pone per le proposizioni «identiche» (cioè per le verità di ragione), in cui il fatto che il predicato sia «compreso» nel soggetto discende dalla stessa definizione leibniziana delle verità di ragione. Ma, nel caso di proposizioni “di fatto”, un certo predicato “inerisce al”, o “è nel”, o “è compreso nel” soggetto quando chi comprende la definizione del soggetto vede anche che quel predicato gli appartiene. 11-21 Ricavata dalle condizioni di verità delle proposizioni di fatto, la nuova definizione di «sostanza individuale» (e, quindi, di «accidente») proposta da Leibniz finisce per coincidere con quella di «essere completo»,

t2 >

I TESTI

Capitolo 3 • Leibniz

cioè di un ente la cui nozione è ragion sufficiente di tutti i suoi possibili predicati. In questo nuovo senso, sarà una sostanza individuale Alessandro Magno, mentre la regalità sarà un suo «accidente», non essendo la nozione di “re” abbastanza determinata (o «completa») da permettere di ricavarne tutti i possibili attributi. Si noti che, nell’esemplificare la “sostanzialità individuale” (l’«ecceità») di Alessandro Magno, Leibniz fa riferimento all’intelletto divino, non a quello umano. Se nel caso di una verità di ragione la relazione tra soggetto e predicato è manifesta anche all’uomo, nel caso di una verità di fatto essa è evidente per Dio, ma può non esserlo per l’uomo, che, a causa del suo intelletto finito, non può ricavarla in modo immediato dalla nozione del soggetto. In altri termini: davanti a un’essenza individuale, noi non siamo in grado di “dedurre” (con un procedimento a priori) le sue proprietà accidentali, ma possiamo solo “indurle” (procedendo a posteriori, cioè a partire dall’esperienza).

La Contingenza deLL’ordine deL mondo

Il brano proposto di seguito (anch’esso, come quello precedente, tratto dal Discorso di metafisica) espone l’argomentazione con cui Leibniz afferma la contingenza dell’ordine del mondo.

2 4 6 8 10

[…] ogni connessione o derivazione è di due tipi: la prima è assolutamente necessaria e di essa il contrario implica contraddizione, e questa deduzione si verifica nelle verità eterne, quali sono quelle della geometria; l’altra, invece, non è necessaria che ex hypothesi, e, per così dire, per accidente, ma in se stessa è contingente, perché il suo contrario non implica contraddizione. Questa connessione è fondata non già sulle idee pure di Dio o sul suo intelletto puro e semplice, ma sulle sue libere decisioni e sul sistema dell’universo. […] Ma così potrebbe sembrare che vada distrutta la differenza tra verità contingenti e verità necessarie, che la libertà umana non abbia più luogo e che una fatalità assoluta regni su tutte le nostre azioni, come su tutti gli avvenimenti del mondo.

335

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

12

I TESTI

14 16 18 20 22

[…] preferisco risolvere queste difficoltà, piuttosto che scansarle con l’addurre esempi di altre difficoltà analoghe, e ciò che dirò servirà a chiarire tanto le une quanto le altre. È qui che bisogna applicare la distinzione delle due connessioni ed io dico che ciò che deriva in conseguenza di quelle anticipazioni è sicuro, ma non necessario e che, se qualcuno facesse il contrario, non farebbe nulla che sia, in se stesso, impossibile, benché sia impossibile (ex hypothesi) che avvenga. Infatti, se un uomo fosse capace di condurre a termine tutta la serie di dimostrazioni, in virtù delle quali si potrebbe provare la connessione fra il soggetto, che è Cesare, e il predicato, che è una sua impresa vittoriosa, costui farebbe vedere in effetti che la dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento nella nozione o natura di Cesare, che c’è in essa la ragione per cui ha deciso di passare il Rubicone anziché fermarsi, e per cui ha vinto anziché perdere a Farsalo; e che perciò era ragionevole, e di conseguenza certo, che tutto ciò accadesse, ma non che fosse in sé necessario, né che (Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, cit., pp. 76-78) il contrario implicasse contraddizione.

Analisi del testo 1-4 Se il contrario di una verità di ragione è una contraddizione, il contrario di una verità di fatto non lo è: in questa differenza è racchiuso il cuore della distinzione tra una connessione «necessaria» (come quelle espresse dalle verità di ragione) e una connessione «contingente» (come quelle espresse dalle verità di fatto). Se affermo che la somma degli angoli interni di un triangolo corrisponde a 360°, dico una cosa assurda, che non può essere vera, mentre se dico che un foglio bianco (che io non posso vedere, magari perché sono al buio) è rosso, dico una cosa fattualmente falsa, ma possibile o verosimile. Non esisteranno mai triangoli la cui somma degli angoli interni non sia 180°, mentre possono certamente esistere dei fogli rossi: se accenderò la luce, controllerò la veridicità della mia affermazione. Questa differenza, come sappiamo (v. T1) vale solo per l’intelletto finito dell’uomo; per la mente infinita di Dio, invece, in qualunque soggetto (cioè in qualunque sostanza individuale, compreso il mio foglio bianco) è già analiticamente inclusa la totalità dei suoi predicati: Egli, pertanto, sa quali proposizioni di fatto siano “verità” e quali invece non lo siano, senza avere bisogno di “controllarle” mediante l’esperienza. 4-6 Le verità di ragione (cioè le verità necessarie della logica e della matematica) sono il contenuto eterno dell’intelletto divino; le verità di fatto esprimono invece l’ordine del mondo scelto da Dio: in questo senso, in una proposizione di fatto, la «connessione» tra il sog-

336

getto e il predicato è vera non in virtù di una legge logica (contenuta nel divino intelletto), bensì in virtù della libera scelta compiuta dalla volontà divina. 8-10 Se l’ordine dell’universo, in ogni sua connessione, è stato stabilito (o scelto) da Dio nel momento della creazione, allora sembra plausibile l’ipotesi di un determinismo universale: non è possibile che io scelga, in un certo momento, di compiere una certa azione, perché in realtà sto per compiere quello che da sempre è scritto nella mia natura sostanziale e che Dio da sempre conosce. Affiora qui il tradizionale problema di conciliare la prescienza divina con la libertà umana. Il tema suscitò l’attenzione dei contemporanei di Leibniz e costituì l’argomento del carteggio che il filosofo intrattenne tra il marzo 1680 e il marzo 1690 con il teologo giansenista Antoine Arnauld (1612-1694, v. unità 3), il quale contestava alla teoria leibniziana di concludere in un fatalismo distruttore di ogni libertà e responsabilità umana. 11-22 La risposta di Leibniz richiama la fondamentale distinzione tra il «sicuro», o il certo, e il «necessario»: il fatto che una determinata cosa sia conosciuta (o prevista) da Dio significa che essa rispetta l’effettivo ordine del mondo: in questo senso è certa; ma non è necessaria se non nel caso in cui il suo contrario sia una contraddizione. Detto in altri termini: Dio non decide, solo possiede un “lungo sguardo” (che l’uomo non possiede), mediante il quale anticipa ciò che (liberamente) accadrà in seguito.

Capitolo 3 • Leibniz

Un passo decisivo sulla strada che conduce Leibniz a risolvere l’intera realtà in un complesso di “atomi spirituali”, le «monadi», è costituito dall’introduzione del concetto di «forza», che è insieme fisico e metafisico. Negli intenti di Leibniz, la forza consente di superare il dualismo cartesiano tra sostanza estesa e sostanza pensante, eliminando di fatto la corporeità e la materia a favore di un’unica realtà, incorporea e spirituale.

t3 >

La «forza»

Nel marzo del 1686 Leibniz aveva denunciato sugli “Acta eruditorum” l’«errore memorabile» commesso da Cartesio a proposito della conservazione del movimento. Nel paragrafo XVII del Discorso di metafisica egli riassume i contenuti della sua critica.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32

I TESTI

Metafisica e fisica

I nuovi filosofi si servono spesso di questa regola famosa che Dio conserva nel mondo la stessa quantità di movimento. In effetti sembra una regola plausibile e negli anni passati la ritenevo indubitabile. Ma più tardi ho trovato dove consiste l’errore. Il signor Descartes e molti abili matematici hanno creduto che la quantità di movimento, cioè la velocità moltiplicata per la grandezza del mobile, equivalga interamente alla forza motrice o, per esprimerci geometricamente, che le forze sono in ragione composta delle velocità dei corpi. Ora è ragionevole che la stessa forza si conservi sempre nell’universo. Così, quando si prendono in considerazione i fenomeni, si vede che il movimento meccanico perpetuo non ha luogo perché altrimenti la forza di una macchina, che è sempre attenuata dall’attrito e pertanto deve finire, si ricostituirebbe e di conseguenza aumenterebbe da sé, senza un nuovo impulso dall’esterno; inoltre si osserva che la forza di un corpo non è diminuita se non in misura di ciò che essa cede a qualche corpo contiguo o alle sue proprie parti, in quanto hanno un movimento separato. […] la forza dev’essere valutata in base alla quantità dell’effetto che essa può produrre, per esempio dall’altezza, alla quale un corpo pesante di una certa grandezza e specie può essere sollevato, ciò che è ben differente dalla velocità che gli si può imprimere. E per imprimergli una velocità doppia è necessario più che il doppio della forza. Questa considerazione della forza distinta dalla quantità del movimento è abbastanza importante non solamente nella fisica e nella meccanica per trovare le vere leggi della natura e le regole del movimento, nonché per correggere molti errori di pratica che si sono introdotti negli scritti di alcuni valenti matematici, ma anche nella metafisica per meglio comprendere i princìpi, perché il movimento, se vi si considera solo ciò che esso comprende precisamente e formalmente, cioè il mutamento di posto, non è una cosa del tutto reale, e quando più corpi cambiano di posizione non è possibile determinare, sulla base della semplice considerazione dei movimenti, a quale tra loro debba essere attribuito il movimento o la quiete, come potrei dimostrare geometricamente, se volessi trattenermi sulla questione. Ma la forza o causa prossima di questi mutamenti è qualche cosa di più reale e vi è sufficiente fondamento per attribuirla ad un corpo piuttosto che ad un altro; sicché solo per questo si riesce a sapere a chi il movimento appartenga in misura maggiore. Ora questa forza è qualcosa di differente dalla grandezza, dalla figura e dal movimento; e da ciò si può giudicare che tutto ciò che si conosce dei corpi non consiste solamente nella estensione e nelle sue modificazioni, come sostengono i moderni. Così siamo obbligati a ristabilire quegli esseri o forme, che essi hanno (Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, cit., pp. 82-86) bandite.

337

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

I TESTI

Analisi del testo 1-25 Dopo aver ridotto la totalità del mondo fisico ai due elementi dell’estensione e del movimento, Cartesio aveva formulato la legge della conservazione del moto fondandola sull’immutabilità della volontà divina. Si ricordi che per Cartesio il movimento era il prodotto della massa (la «grandezza del mobile») per la velocità. Persuaso che l’essenza dei corpi consista nella forza, e non nell’estensione o nel movimento, Leibniz corregge Cartesio e formula la legge della costanza della forza (o della conservazione dell’energia, per utilizzare un’espressione a noi più familiare): non è la «quantità del movimento» (mv) a rimanere costante, ma la forza, che Leibniz identifica con il prodotto della massa per il quadrato della velocità (mv2). Si tratta della «forza viva» (da cui il nome di “teorema delle forze vive” con cui è conosciuta l’affermazione leibniziana) o, come diremmo oggi, dell’“energia cinetica”.

26-32 La questione rimarrà aperta per lungo tempo e impegnerà Leibniz in diverse polemiche con studiosi come Catelan, Malebranche e Papin, per trovare una soluzione definitiva solo più tardi, a opera di D’Alembert. Ma qual è il rilievo filosofico di questa posizione? Che cosa comporta l’introduzione del quadrato della velocità? «Il prodotto della massa per la velocità (mv) è un “fenomeno”, come il moto, che si sviluppa interamente nello spazio e si offre fino in fondo alla nostra esperienza. Ma se noi eleviamo al quadrato la velocità, troviamo qualcosa che non si riduce più a un mutamento di posizione nello spazio: troviamo una forza, i cui effetti si fanno bensì sentire sul piano fenomenico, ma che non è un fenomeno essa stessa» (V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, Laterza, Roma-Bari 1976, p. 20). La fisica di Leibniz implica dunque un rinvio all’ambito della metafisica.

L’universo monadistico Per indicare la sostanza individuale, Leibniz usa per la prima volta il termine “monade” (che in filosofia ha una tradizione antichissima) nella lettera del 22 luglio 1695 al matematico Guillaume de L’Hôpital. In realtà, la scelta di un principio monadico come costituente minimo del mondo era già chiara nel Discorso di metafisica. La Monadologia (1714) non presenta rispetto a quell’opera alcuna novità rivoluzionaria, e tuttavia offre una riformulazione della metafisica leibniziana in base al “vocabolario” monadologico.

t4 >

Le CaratteristiChe deLLe monadi

In questo brano, tratto dalla Monadologia, Leibniz riprende la trattazione della sostanza presente nel Discorso di metafisica, ribadendo le principali caratteristiche di quelle «sostanze semplici» che ora egli designa inequivocabilmente con il nome di «monadi».

2 4 6 8 10

338

La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè senza parti. E debbono esserci sostanze semplici, poiché ve ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di semplici. Ora, laddove non ci sono parti, non c’è estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. Non c’è da temere alcuna dissoluzione e non è concepibile alcun modo per il quale una sostanza semplice possa naturalmente estinguersi. Per la stessa ragione non c’è alcun modo per il quale una sostanza semplice possa avere un’origine naturale, perché essa non può formarsi per composizione.

12 14 16 18 20 22 24

Così si può affermare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè, che possono cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto, comincia o finisce per parti. Di conseguenza, non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o diminuito, come accade nei composti, nei quali c’è mutamento fra le parti. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare o uscire. […] Bisogna ammettere che ogni monade sia differente da ogni altra. In natura, infatti, non vi sono mai due esseri che siano perfettamente l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca. […] Ritengo come ammesso che ogni essere creato, e perciò anche la monade creata, è soggetto a mutamento, e che questo mutamento è continuo in ciascuna. Da quanto abbiamo detto, consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da un principio interno, perché una causa esterna non potrebbe influire nel suo interno.

I TESTI

Capitolo 3 • Leibniz

(Monadologia, in Scritti filosofici, cit., pp. 283-284)

Analisi del testo 1-18 Le caratteristiche delle monadi sono: la semplicità (rr. 1-4), il carattere atomico (rr. 5-6), l’impossibilità che muoiano (rr. 7-8) e nascano (rr. 9-10) e l’impossibilità che vengano alterate da qualcosa di esterno (rr. 1418). 19-21 Nel Discorso di metafisica Leibniz aveva formulato il cosiddetto “principio dell’identità degli indiscernibili”, sostenendo che «non è vero che due sostanze possano somigliare interamente e differire solo numero». Qui egli ripropone lo stesso principio, insistendo

t5 >

sul carattere intrinseco della distinzione: non possono esistere due esseri identici, dei quali tuttavia l’uno sia qui e l’altro lì, poiché essi sono diversi proprio (ed eventualmente solo) per il fatto che l’uno è qui e l’altro lì. Tutte le determinazioni appartengono infatti essenzialmente alla cosa e non c’è spazio, nell’impostazione leibniziana, per l’accidentalità. 22-25 Come sappiamo, tutti i mutamenti che riguardano la monade non possono che avere un’origine ad essa interna.

La ComuniCazione tra Le monadi e L’armonia prestabiLita

La dottrina dell’armonia prestabilita, che postula un accordo tra le monadi fissato preventivamente da Dio fin dall’eternità, negli intenti di Leibniz deve sia risolvere il problema dei rapporti tra l’anima e il corpo dei viventi, sia, più in generale, spiegare perché le rappresentazioni delle singole monadi concordino tra loro, al punto da poter essere considerate, secondo il noto paragone proposto dal filosofo, come molteplici vedute della medesima “città”.

2 4

La creatura si dice che agisce verso l’esterno, in quanto ha perfezione, e che patisce, da parte di un’altra, in quanto imperfetta. Così alla monade si attribuisce azione, in quanto ha percezioni distinte, e passione, in quanto le ha confuse. […] Ma nelle sostanze semplici non si ha che un’influenza ideale di una monade sull’altra, che non può avere il suo effetto se non per l’intervento di Dio, in quanto nelle idee di Dio, una monade

339

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

6

I TESTI

8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38

giustamente domanda che Dio, regolando sin dal principio le altre, abbia riguardo ad essa. E ciò perché, non potendo avere una monade creata un’influenza fisica nell’interno dell’altra, è soltanto per questo mezzo che l’una può subire una dipendenza da un’altra. Ed è a questo modo che, tra le creature, le azioni e le passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due sostanze semplici tra loro, trova in ciascuna ragioni che l’obbligano ad adattarvi l’altra; e di conseguenza ciò che è attivo sotto certi aspetti, è passivo da un altro punto di vista; attivo in quanto ciò che in essa è conosciuto distintamente serve a rendere ragione di ciò che accade in un’altra; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade in essa si trova in ciò che si conosce distintamente nell’altra. Ora, poiché nelle idee di Dio c’è un’infinità di universi possibili, mentre non può che esisterne uno solo, bisogna che ci sia una ragione sufficiente della scelta di Dio, la quale lo determini all’uno piuttosto che all’altro. E questa ragione non può trovarsi che nella convenienza o nei gradi di perfezione che questi mondi contengono e ciò perché ogni perfezione possibile ha il diritto di pretendere all’esistenza nella misura della perfezione che implica. E ciò è la causa dell’esistenza del meglio, che la Saggezza fa conoscere a Dio, che la sua Bontà gli fa scegliere e la sua Potenza gli fa produrre. Ora questo legame o questo adattamento di tutte le cose create a ciascuna e di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice abbia rapporti che esprimano tutte le altre e che essa sia, di conseguenza, un vivente e perpetuo specchio dell’universo. E come una medesima città, guardata da punti differenti, sembra tutt’altra e come moltiplicata secondo le prospettive, così accade analogamente che, per la molteplicità infinita delle sostanze semplici, vi sono come altrettanti universi che però non sono che le prospettive di un unico universo, secondo i diversi punti di vista di ciascuna monade. È questo il modo di ottenere la massima varietà possibile, congiunta col maggior ordine possibile, cioè il mezzo per ottenere la massima perfezione possibile. Questi princìpi mi hanno offerto la possibilità di spiegare, secondo i princìpi naturali, l’unione o meglio la conformità dell’anima e del corpo organico. L’anima segue le sue proprie leggi ed il corpo, del pari, le sue; essi poi s’incontrano in virtù dell’armonia prestabilita fra tutte le sostanze, perché sono entrambi rappresentazioni dello stesso universo. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, per appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. Ma i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono in armonia fra loro. (Monadologia, in Scritti filosofici, cit., pp. 291-292 e 295-296)

Analisi del testo 1-3 Come già sappiamo, in linea con la struttura monadologica della totalità le sostanze non hanno azione o passione nel senso che agiscano su altro o da altro siano influenzate, bensì a seconda della chiarezza della propria attività rappresentativa. 4-14 Quello che noi riteniamo il frutto dell’influenza diretta di una monade sull’altra è in realtà il risultato dell’adattamento complessivo che Dio ha prodotto tra

340

le sue creature, in altre parole, dell’armonia prestabilita: in questo senso Dio si può ritenere colui che “media” tra le varie monadi. Attività e passività infine saranno tendenze non alternative, ma poste in linea di continuità. La concezione monadologica integra, non escludendola, la visione tradizionale degli accadimenti mondani: se sul piano fisico sarà corretto parlare di individui correlati, di una causalità meccanica, di una mutua influen-

>

za, sul piano metafisico vige il ricorso esclusivo alle monadi. Poiché ogni monade rispecchia lo stesso mondo, non servirà che davvero esse siano in contatto, essendo sufficiente che Dio produca la loro coordinazione una volta per tutte. È stata più volte messa in rilevo la differenza tra la soluzione leibniziana e quella occasionalistica: quest’ultima richiede che Dio agisca di continuo sulla sostanza pensante per far sì che essa si adegui agli eventi che contemporaneamente hanno luogo nell’ambito dell’estensione e viceversa, tanto da suscitare la celebre critica del cattivo orologiaio. Leibniz invece ritiene tale armonia “prestabilita”, ossia fissata una volta per tutte al momento della creazione del mondo. Ma una differenza non meno importante è che mentre nell’universo degli occasionalisti è solo Dio ad agire, nel sistema leibniziano anche la natura deve operare. Inoltre, Dio, più che continuare ad agire, ha agito una volta per tutte, ha “programmato” il creato e lascia che esso effettui quanto già deciso, suscitando l’obiezione che ironicamente così formula Alexandre Koyré: «il suo Dio non è il signore newtoniano che fa il mondo a piacimento e continua ad agirvi come il Dio biblico nei primi sei giorni della creazione. Egli è, se posso continuare la similitudine, il Dio biblico nel giorno del Sabbath, il quale ha finito l’opera e la trova buona, anzi, il migliore dei mondi possibili, e perciò non deve più agire su di esso o in esso, ma solo preservarlo e conservarlo in essere» (Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 182-183). Sembra cioè che lo spazio che Leibniz conferisce a Dio all’interno del suo sistema sia in contrasto con i compiti che poi di fatto gli attribuisce. 15-31 Il passo ribadisce il principio del meglio, che già abbiamo incontrato. Quindi spiega che parlare della gerarchia tra le monadi significa parlare dell’armonia prestabilita: in effetti quest’ultima celebre espressione possiede un duplice significato. Da un lato e su un piano particolare essa indica la felice coordinazione della monade anima con le varie monadi che compongono il corpo; dall’altro e più in generale si riferisce alla globale armonia delle monadi tra loro. E poiché l’intelletto diviene l’essere intero, la totalità dei suoi contenuti, vale an-

che l’inverso: in ogni contenuto c’è tutto l’essere, poiché c’è tutto l’intelletto; ogni singolo pensiero riflette la totalità dal suo specifico punto di vista, ogni singola monade è «specchio dell’universo». 32-38 Quest’armonia determina un’uscita – per vero inautentica, solo apparente, o meglio formulabile nei termini della fisica, ma inammissibile nella rigorosa visione metafisica – dal solipsismo. Nel linguaggio quotidiano io affermo di condividere con altri le mie esperienze, di esperire oggetti, di essere influenzato da eventi esterni. In realtà, dato che le monadi non hanno né porte né finestre, ma sono autarchicamente chiuse nella loro attività rappresentativa, devo invertire i termini del problema. Io non ho le stesse rappresentazioni di un altro perché entrambi riceviamo dall’esterno gli stessi stimoli, ma credo di ricevere gli stessi stimoli dell’altro perché ho rappresentazioni analoghe alle sue. Ad esempio, io e la mia dirimpettaia non crediamo di vivere a Venezia e ce la rappresentiamo in modo assai simile (anche se ciascuno dal proprio punto di vista, sempre leggermente diverso da quello altrui) perché ci viviamo, ma poiché abbiamo rappresentazioni assai simili crediamo di vivere entrambi proprio a Venezia; e poiché siamo monadi inestese, è chiaro che non ci troviamo fisicamente in alcun posto. Tuttavia questo non deve portarci a pensare che il mondo esterno sia solo una parvenza insussistente o, peggio, ingannevole: «Il mondo, infatti, sussiste anzitutto a livello di mondo possibile, nella mente divina; in secondo luogo a livello monadizzato, come prospezione individuale di tale mondo possibile da parte di infiniti punti di vista imperfetti; infine, come mondo oggettivo, grazie alla coordinazione di tutti questi punti di vista per virtù divina» (V. Mathieu, op. cit., p. 35). Ma che cosa mi garantisce che davvero vi siano altre monadi? Se tutto non è che mia rappresentazione, la stessa esistenza del mondo esterno e del mio corpo potrebbero essere pure e semplici chimere. Leibniz risponde che in effetti non esistono argomenti che dimostrino con assoluta certezza l’esistenza del mondo esterno, riconoscendo in tal modo che l’ipotesi di Berkeley (v. unità 5, cap. 4) non è insensata.

I TESTI

Capitolo 3 • Leibniz

La teologia Elaborando il principio dell’armonia prestabilita, Leibniz pone al centro del proprio universo monadistico Dio, monade di tutte le monadi, che tutte riflettono, seppure ciascuna in misura imperfetta e limitata. Indirizzandosi a Dio, la speculazione leibniziana deve accogliere i temi tradizionali della teologia: dalle prove razionali dell’esistenza di Dio alla questione dell’esistenza del male.

341

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

t6 >

dio: La sua esistenza e Le sue CaratteristiChe

I TESTI

Tra ragione e fede esiste, per Leibniz, piena conformità: certo, la fede ci porta fin dove la ragione non può spingersi, ma tra le due non sorge alcun contrasto. Il filosofo ammette quindi la possibilità di “provare” l’esistenza di Dio e, accanto a una versione ritoccata dell’argomento ontologico anselmiano, propone una dimostrazione a posteriori che riprende la struttura delle prove di Tommaso. Nel brano che segue, tratto dalla Monadologia, Leibniz richiama appunto l’argomento che muove dalla contingenza delle creature alla necessità del Creatore, sottolineando poi come le «monadi create» riproducano, in misura imperfetta e limitata, le tre “facoltà” divine della «Potenza», della «Volontà» e della «Conoscenza», possedute da Dio al massimo grado.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28

[…] la ragione ultima delle cose deve trovarsi in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei mutamenti si trovi in modo eminente come in una fonte: è quello che chiamiamo Dio. Ora, poiché questa sostanza è la ragione sufficiente di tutto quel dettaglio, che così è tutto legato, non c’è che un solo Dio e questo Dio è sufficiente. […] Ne consegue ancora che le creature traggono le loro perfezioni dall’influsso di Dio, mentre le loro imperfezioni derivano dalla loro natura, incapace d’essere senza limiti. Ed in ciò si distinguono da Dio. È vero altresì che Dio non è soltanto la fonte delle esistenze, ma delle essenze, in quanto reali, o di ciò che vi è di reale nel possibile. E ciò perché Dio è il luogo delle verità eterne o delle idee da cui esse dipendono e senza di Lui non ci sarebbe nulla di reale nei possibili e non solamente nulla di esistente, ma neppure di possibile. Infatti, se c’è una realtà nelle essenze o nei possibili, oppure nelle verità eterne, questa realtà bisogna che si fondi su qualche cosa d’esistente o di attuale; e, di conseguenza, sull’esistenza dell’essere necessario, nel quale l’essenza includa l’esistenza o al quale è sufficiente essere possibile per essere attuale. […] or ora l’abbiamo [l’esistenza di Dio] provata, anche a posteriori, perché esistono esseri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione ultima o sufficiente che nell’essere necessario, che ha in se stesso la ragione della sua esistenza. […] Così Dio soltanto è l’unità primitiva o la sostanza semplice originaria, dalla quale tutte le monadi create o derivate sono produzioni e nascono, per così dire, in virtù di Fulgurazioni continue della Divinità di momento in momento, limitate dalla recettività della creatura alla quale è essenziale essere limitata. In Dio c’è la Potenza, che è la sorgente di tutto; la Conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, infine la Volontà, che opera i mutamenti o le produzioni secondo il principio del meglio. E ciò corrisponde a quello che nelle monadi create costituisce il soggetto o base, la facoltà percettiva e la facoltà appetitiva. Ma in Dio questi attributi sono assolutamente infiniti o perfetti; nelle monadi create o entelechìe […] non sono che imitazioni, a seconda della perfezione di ciascuna. (Monadologia, in Scritti filosofici, cit., pp. 289-291)

Analisi del testo 1-5 L’idea che l’ordine in cui si collocano le monadi sia di tipo gerarchico è una conseguenza del principio degli indiscernibili: visto che non possono esserci due

342

monadi uguali, esse non possono che disporsi secondo la loro maggiore o minore perfezione; e se non c’è limite all’imperfetto (preso un individuo, possiamo sempre

>

pensarne o trovarne uno meno perfetto), si dà invece un termine alla catena delle perfezioni, costituito dall’essere sommamente perfetto: Dio. In effetti ci deve essere una causa per cui proprio quest’ordine è quello attuatosi, ed essa è Dio. L’argomentazione riproduce l’andamento delle tradizionali prove a posteriori. 6-8 Come già nella tradizione patristica e scolastica, diventa a questo punto necessario spiegare che tutto è dovuto a Dio, tranne il male (le «imperfezioni» delle creature), che viene qui sommariamente imputato al carattere difettivo e limitato delle creature. Com’è noto, il problema del male sarà invece al centro dei Saggi di teodicea (v. T7). 9-19 Sviluppando maggiormente quanto già affermato in precedenza (rr. 1-5), Leibniz richiama in queste righe l’argomento detto ex contingentia mundi: tutte le cose create sono contingenti, in quanto non hanno in sé nulla che ne renda necessaria l’esistenza. Risalendo nella catena delle cause dell’esistenza delle cose, si perviene dunque a una “ragione prima”, o “causa prima”,

t7 >

ovvero a una sostanza che rechi in sé la ragione della propria esistenza: tale è Dio, il quale, se esiste il mondo, non può non esistere. 20-28 Dio risulta essere la monade delle monadi, la cui potenza “travasa” nel creato, il quale tuttavia, per limite intrinseco, non è disposto ad accoglierla pienamente e resta una copia sempre e comunque inadeguata, così come gli oggetti mondani erano in Platone imitazioni imperfette dell’idea. Così, in Dio sono rintracciabili la «Potenza», in virtù della quale il mondo viene creato (cioè portato all’esistenza), la «Volontà», in virtù della quale Dio sceglie il mondo da portare all’esistenza, e la «Conoscenza» non solo di tutte le verità di ragione (in base alle quali Dio sceglie il migliore dei mondi possibili), ma anche di tutte le verità di fatto (che deriveranno dalla sua scelta). A queste “facoltà” divine, che in Lui si manifestano con un grado massimo di perfezione, nelle «monadi create» corrispondono la capacità d’agire che caratterizza ogni sostanza individuale, la facoltà appetitiva e quella percettiva (o, meglio, appercettiva).

I TESTI

Capitolo 3 • Leibniz

iL probLema deL maLe

Pubblicati anonimi nel 1710 ad Amsterdam, i Saggi di teodicea (come suggerisce il titolo, costituito da un neologismo coniato da Leibniz) intende essere una «giustificazione di Dio». I due problemi fondamentali di cui si occupa sono il concetto di necessità e il ruolo di Dio nel peccare dell’uomo. Nel passo che segue, in particolare, è affrontata la questione della presenza del male nel mondo: se questo nostro mondo creato da Dio è il migliore dei mondi possibili, perché in esso albergano il peccato e la sofferenza? Leibniz risponde a questa domanda appellandosi alla distinzione tra volontà divina «antecedente» e «conseguente».

2 4 6 8 10 12 14 16

Ora questa suprema saggezza, congiunta ad una bontà che non è meno infinita di quella, non poteva mancare di scegliere il meglio. […] Qualche avversario, non potendo rispondere a questo argomento, risponderà, forse alla conclusione, con un argomento contrario, sostenendo che il mondo sarebbe potuto essere senza il peccato e senza il dolore; ma io nego che allora sarebbe stato il migliore. Perché bisogna riflettere che tutto è connesso in ciascuno dei mondi possibili: l’universo, qualunque fosse per essere, è tutto d’un pezzo, come un Oceano; il minimo movimento estende il suo effetto a qualunque distanza, di modo che Dio ha tutto regolato in anticipo ed una volta per tutte […]. […] Così, se il più piccolo male che accade nel mondo non accadesse, non sarebbe più questo mondo, che tutto sommato e soppesato, è apparso il migliore al Creatore che l’ha scelto. […] Per quanto riguarda il peccato o il male morale, benché accada spesso che possa servire come mezzo per ottenere un bene o per impedire un altro male, non è questo tuttavia che lo rende un oggetto sufficiente della volontà divina, o un oggetto legittimo della volontà creata; bisogna che non sia ammesso e permesso se non in quanto venga considerato come una conseguenza certa di un dovere imprescindibile; di modo che colui il quale non volesse permettere il peccato di un altro verrebbe egli stesso meno al proprio dovere […].

343

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

18

I TESTI

20 22 24 26 28

Ma in rapporto a Dio, niente è dubbio, niente potrebbe essere opposto alla regola del meglio che non soffre alcuna eccezione o dispensa. Ed in questo senso Dio permette il peccato; perché egli mancherebbe a ciò che deve a sé, alla sua saggezza, alla sua bontà, alla sua perfezione, se non seguisse il risultato di tutte le sue tendenze al bene e se non scegliesse quello che è assolutamente il meglio, nonostante il male di colpa che si trova incluso in forza della necessità suprema delle verità eterne. Da tutto ciò bisogna concludere che Dio vuole il bene in sé antecedentemente, il meglio conseguentemente, come fine […]. Ora è esattamente in questo senso che Dio permette il peccato, poiché verrebbe meno a ciò che deve a se stesso, a ciò che deve alla propria saggezza e alla propria bontà e perfezione se non […] scegliesse ciò che è assolutamente il migliore, nonostante il male di colpa [male morale] che vi si trova implicato per la suprema necessità delle verità eterne […]. Da tutto ciò bisogna concludere che Dio […] vuole soltanto permettere il male morale se non in quanto condizione senza la quale non si otterrebbe il meglio […]. (Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, cit., pp. 462-463 e 473-474)

Analisi del testo 1-10 Il punto di partenza di Leibniz non può che essere la perfezione di Dio: posto che Egli è «suprema saggezza» e «bontà … infinita», non può che aver creato quello che gli è parso come il migliore dei mondi possibili. E poiché in ogni mondo possibile tutto è collegato armonicamente con tutto il resto (passato, presente o futuro), anche «il più piccolo male» non potrebbe essere eliminato senza che un tale mutamento non ne provocasse infiniti altri (ad esso collegati), che renderebbero il mondo almeno un po’ peggiore di questo. 11-28 Rifacendosi alla tradizionale classificazione patristica (ma distaccandosi, come vedremo, dall’uso agostiniano), Leibniz distingue: il male metafisico, che tuttavia giudica poco rilevante, in quanto deriva dalla necessaria differenza del creato rispetto al Creatore (più che di un male effettivo, si tratta di una imperfezione, ovvero della cifra di cui il finito, per sua stessa natura, non può fare a meno); il male fisico, che considera o come una necessaria conseguenza del male metafisico, o come una giusta punizione per il peccato commesso dall’uomo; il male morale. È quest’ultimo a necessitare di una spiegazione: come si concilia, infatti, la possibilità umana di compiere il male con la bontà e l’onnipotenza di Dio? Dio vuole forse impedire la malvagità dell’uomo, ma non può (cioè non è onnipotente)? Oppure può, ma non vuole (cioè non è buono)? L’idea di un ordine, che l’uomo non riesce a cogliere e che è evidente solo all’infinita saggezza divina, in cui certi mali sarebbero necessari per la realizzazione di

344

beni maggiori non soddisfa Leibniz. Così come non lo soddisfa la soluzione agostiniana della predestinazione ripresa dai protestanti, sia perché implica la necessità di spiegare il motivo per cui Dio scelga di destinare alcuni alla salvezza e altri alla dannazione, sia perché priva l’uomo di quella libertà di scelta che il filosofo intende invece difendere. La via scelta da Leibniz non è priva di difficoltà. Egli afferma che, in quanto infinitamente buono, Dio non può che volere il bene assoluto (il «bene in sé»), ovvero l’effettiva realizzazione di tutti i beni pensati dal suo intelletto. Ma Egli si scontra, per così dire, con dei limiti di tipo “logico”: infatti la totale libertà umana (che è evidentemente una cosa buona) non può coesistere con una totale assenza di colpa (cosa altrettanto buona). Non potendo quindi far esistere “insieme” il bene in sé della libertà assoluta e quello dell’assoluta mancanza di colpa, Dio sceglie di realizzarli entrambi, ma in misura minore, “mescolandoli” nel miglior modo possibile, cioè quello in cui ci sia la maggior quantità possibile di libertà e la minor quantità possibile di colpa o di male (morale). In questo senso Leibniz afferma che, anche se la volontà antecedente di Dio sceglie il bene in sé, la sua volontà conseguente sceglie il meglio, tollerando o permettendo una certa quantità di male, e cioè la minima possibile. Qualunque “altro” mondo avrebbe presentato una quantità maggiore di male: ecco perché il nostro è il migliore dei mondi possibili.

verifica verifica

UNITÀ 4 Critici e continuatori di Cartesio: Pascal, Spinoza e Leibniz 1. Pascal

Esercizi attivi

1 Secondo Pascal l’interrogativo più importante per a l’esistenza di Dio

il tutto e il nulla - posizione mediana - esistenziale infinitamente grande - tutto - nulla - essere e non essere

b i limiti del sapere scientifico c il senso della vita

Il centro dell’analisi .............................................. di Pascal è la tesi della ............................................................................... dell’uomo nell’ordine delle cose. La sua stessa dislocazione spaziale nel cosmo ne è una prova: compreso tra l’.................................................... .......................... e l’infinitamente piccolo, anzi tra ................................. ....................................................., l’uomo è un ......................................... di fronte al tutto e un ..................................... di fronte al nulla, un misto di ...............................................................................

d il rapporto tra cuore e ragione

2 Per Pascal la fede è: a fondata sulla ragione b ragionevole c la dimostrazione dell’esistenza di Dio d una condizione casuale

3 In riferimento al pensiero di Pascal, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false. a. La ragione può arrivare solo fino alle soglie della fede V F b. Le prove metafisiche dell’esistenza di Dio pervengono a una divinità astratta V F c. La dottrina del peccato originale spiega la miseria dell’uomo, ma non la sua grandezza V F d. La religione cristiana non può spiegare l’inquietudine dell’uomo V F e. L’uomo sceglie in ogni caso se vivere come se Dio ci fosse o come se Dio non ci fosse V F f. Il cuore sente Dio

4 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla concezione pascaliana dell’uomo.

l’uomo riguarda:

V

F

5 Attribuisci correttamente le facoltà e le caratteristiche elencate sotto (colonna di sinistra) all’esprit de géométrie o all’esprit de finesse (colonna di destra). a. la ragione scientifica b. la comprensione intuitiva c. l’avere per oggetto l’uomo

1. esprit de géométrie

d. il procedere dimostrativamente e. l’avere per oggetto le cose esteriori o gli enti matematici

2. esprit de finesse

f. il cuore, il sentimento e l’intuito

345

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

6 Che cosa indica Pascal con il termine divertissement? (max 6 righe)

7 In che senso, secondo il filosofo francese, l’uomo è

VERIFICA

«paradosso a se stesso»?

(max 6 righe)

9 Illustra brevemente la posizione di Pascal sui temi del libero arbitrio e della grazia, e spiega come la visione sostanzialmente giansenista del pensatore francese getti un’ombra di ambiguità su tutta la sua opera filo(max 15 righe) sofica.

8 Esponi sinteticamente l’argomentazione con la quale Pascal invita a scommettere su Dio.

2. Spinoza

(max 15 righe)

Esercizi attivi

10 L’espressione Deus sive Natura nella filosofia di Spinoza indica: a l’unicità della Sostanza b l’identificazione tra Dio e la Natura c la trascendenza di Dio rispetto alla Natura d l’esistenza necessaria di Dio

11 Lo “sforzo di autoconservazione”, secondo Spinoza, è: a un istinto primordiale tipicamente umano

associazione - governo - natura - diritto comune - valutazioni morali - bisogni Secondo Spinoza, nello stato di

..............................................

gli

uomini cercano un accordo per provvedere ai propri ........................................................ e per superare la reciproca ostilità.

L’.............................................. tra gli individui, attraverso l’istituzione di un ...................................................., determina il sorgere di un ........................................................... più forte di quello individuale. Con il governo nascono anche le ............................................................ .....................................,

che non hanno senso al di fuori di esso.

b uno degli affetti secondari basilari c il principale affetto primario d l’affetto da cui derivano gli appetiti e la volontà

12 In riferimento alla teoria della conoscenza di Spinoza, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false.

14 Collega le definizioni riportate di seguito (colonna di sinistra) con i corrispondenti concetti dell’ontologia spinoziana (colonna di destra). a. ciò la cui essenza implica l’esistenza

a. I generi della conoscenza corrispondono ad altrettanti livelli morali V F

b. ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza

b. La conoscenza di primo genere non contempla le connessioni causali V F

c. ciò che è in altro, per il cui mezzo viene anche percepito

c. La conoscenza di secondo genere si fonda sugli universali V F

d. affezioni della sostanza

d. La conoscenza di secondo genere è la «scienza intuitiva» V F e. La conoscenza di terzo genere è fondata sulla ragione V F f. L’amore intellettuale di Dio è parte dell’amore infinito con cui Dio ama se stesso V F

1. causa di sé

2. sostanza

3. Dio

e. ciò che è in sé e per sé si concepisce f. la sostanza che consta di infiniti attributi

4. attributi

g. ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato

5. modi

13 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato nella colonna a fianco e relativo alla concezione politica di Spinoza.

346

15 Che cos’è, per Spinoza, la “sostanza” e quali sono le sue proprietà?

(max 6 righe)

Verifica

ziano?

18 Illustra che cosa intende Spinoza per “schiavitù” e “li-

(max 6 righe)

bertà” dell’uomo, chiarendo anche il risvolto gnoseo(max 15 righe) logico di questa teoria.

17 Che cosa sono, per Spinoza, gli «affetti» e in base a

19 Spiega brevemente la concezione spinoziana della

quale criterio si distinguono in «azioni» e «passioni»? (max 6 righe)

3. Leibniz

fede, illustrando in che modo essa sia funzionale alla (max 15 righe) difesa della libertà di pensiero.

Esercizi attivi

20 L’ordine del mondo, secondo Leibniz, è: a geometricamente determinato b unico e necessario c contingente e determinato da una scelta d contingente e continuamente mutevole

21 Nella prospettiva di Leibniz, l’elemento originario del

seconda - prima - percezioni confuse - spirituali - passiva - inerzia Leibniz chiama «materia ...........................................................» la materia intesa come aggregato di monadi, cioè di sostanze .................................................................. Chiama invece «materia ...........................................................»

la potenza ..........................................................., o

forza di ........................................................... o di resistenza, che si tro-

mondo fisico è:

va nella monade insieme all’entelechìa. Nelle mona-

a la materia

di superiori la materia prima è costituita dall’insieme

b lo spazio

delle ..................................................................................................................

c il movimento d la forza

22 In riferimento al pensiero di Leibniz, indica quali tra le

24 Attribuisci correttamente le caratteristiche elencate di seguito (colonna di sinistra) alle «verità di ragione» o alle «verità di fatto» (colonna di destra).

seguenti affermazioni sono vere e quali false.

a. si fondano sul principio di ragion sufficiente

a. Principio di ragion sufficiente: per ogni cosa esistente c’è una condizione necessaria e sufficiente che ne spiega l’esistenza V F

b. si fondano sui principi di identità e di non-contraddizione

b. Il principio di ragion sufficiente permette di spiegare l’ordine contingente del mondo V F c. Il nostro è il migliore dei mondi perché è stato scelto da Dio V F d. Il principio di ragion sufficiente implica la causa finale V F e. In ogni sostanza individuale il predicato è identico al soggetto V F f. Dio conosce la ragion sufficiente di tutti i predicati di ogni sostanza individuale V F

VERIFICA

16 In che cosa consiste il parallelismo psico-fisico spino-

c. non predicano nulla di nuovo del soggetto

1. verità di ragione

d. dicono qualcosa di nuovo relativamente al soggetto e. il loro contrario è possibile f. riguardano il mondo della logica

2. verità di fatto

g. riguardano il mondo della realtà

25 Che cos’è una monade?

(max 6 righe)

23 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato nella colonna a fianco e relativo alla concezione leibniziana della materia.

26 Che cosa intende Leibniz, rispettivamente, per «percezione», «appetizione» e «appercezione»? (max 6 righe)

347

UNITÀ 4 • CRITICI E CONTINUATORI DI CARTESIO: PASCAL, SPINOZA E LEIBNIZ

27 In che senso Leibniz distingue in Dio una volontà “an-

29 Chiarisci in che modo, in Leibniz, il problema della co-

tecedente” e una volontà “conseguente”? (max 6 righe)

municazione tra le monadi si specifichi come problema del rapporto tra l’anima e il corpo. Esponi quindi la soluzione leibniziana, mettendola a confronto con le soluzioni prospettate, rispettivamente, dalla filosofia (max 15 righe) cartesiana e dall’occasionalismo.

VERIFICA

28 Se Spinoza parla di un ordine necessario del mondo, Leibniz parla invece di un ordine contingente: spiega brevemente le due espressioni, commentandole op(max 15 righe) portunamente.

VERSO LE COMPETENZE w Leggere, comprendere Un ateo traboccante di Dio: Spinoza e Borges e interpretare un testo Il termine “Dio” ricorre decine di volte nell’Etica di Spinoza, ma, nonostante ciò, egli è stato ripetutaw Riflettere e argomentare, mente accusato di ateismo. Percepito come un ateo traboccante di Dio, ovvero come una sorta di ossi- individuando collegamenti moro vivente, il filosofo olandese è stato maledetto come “l’uomo più empio del secolo” e, insieme, e relazioni benedetto come un “santo Cristo”. Del resto, non conservando nessuno dei tratti personali e trascendenti del Dio biblico, il Deus sive Natura spinoziano presentava un carattere fortemente eversivo per l’epoca e, se per alcuni era il segno di una visione totalmente atea della realtà, per altri indicava una religiosità ribelle, eterodossa e periferica rispetto alle religioni ufficiali. Dopo l’espulsione dalla comunità ebraica, Spinoza si era ritrovato doppiamente esule e reietto: ebreo per i cristiani ed eretico per gli ebrei. Da apostata perseguitato, si era volto al Dio dei suoi padri e della sua educazione per annullarlo, ma nello stesso tempo per farlo rivivere in una ragione pura e trasparente. Il poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) immagina Spinoza – che nel suo esilio solitario, esercitando il mestiere di ottico, molava il vetro delle lenti – modellare Dio «con geometria raffinata», per trasfigurarlo nella luce purissima di un arduo vetro: l’infinito. Così scrive Borges:

LABORATORIO DELLE IDEE

L’occaso, caligine d’oro, barbaglia Sulla finestra. L’assiduo manoscritto Aspetta, già pregno d’infinito. Qualcuno costruisce Dio nella penombra. Un uomo genera Dio. È un ebreo Di tristi occhi e pelle olivastra; Il tempo lo trasporta come trascina il fiume Una foglia nell’acqua che discende. Non importa. Il mago insiste e foggia Dio con geometria raffinata; Dalla sua debolezza, dal suo nulla, Seguita a modellare Dio con la parola. Il più generoso amore gli fu elargito, L’amore che non chiede di essere amato. (J.L. Borges, Baruch Spinoza, in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1982, vol. II, p. 1005)

348

Verifica

Comprensione del testo 1. La descrizione di Borges coglie Spinoza in un particolare momento della giornata: quale e, secondo te, per quale motivo? 3. Borges si sofferma con forza sulla “costruzione” o “generazione” di Dio da parte di un uomo: in quali versi e, a tuo avviso, con quale intento? 4. A che cosa sono paragonati Spinoza e il tempo? 5. Quali sono il riferimento e il senso dell’affermazione «Non importa»? 6. A che cosa vuole alludere l’autore con l’espressione «con geometria raffinata»?

VERIFICA

2. Qual è il «manoscritto» cui fa riferimento il testo e in che senso è definito «pregno d’infinito»?

7. In che senso Borges afferma che Spinoza modella Dio «con la parola» e che cosa richiama questa immagine? 8. L’espressione «amore che non chiede di essere amato» allude all’amor intellettualis Dei, che nel sistema di Spinoza coincide con il terzo grado della conoscenza e con la maggiore felicità e beatitudine possibile. Perché Borges descrive questa forma di amore come disinteressata e gratuita?

Riflessione 9. Pierre Bayle (1647-1706), nel suo Dizionario storico-critico, formulerà una definizione dello spinozismo come «ateismo sistematico» che dominerà tutto il Settecento, mentre altri interpreti, a partire da Georg W.F. Hegel (1770-1831), affermeranno che la risoluzione spinoziana del finito nell’infinito ha una coloritura fortemente religiosa e che, più che di ateismo, cioè di negazione di Dio, a proposito della filosofia di Spinoza si deve parlare di «acosmismo», cioè di negazione del mondo: «È dunque vero il contrario di quanto si sostiene da coloro che incolpano Spinoza di ateismo: se mai in lui c’è troppo Dio» (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, parte III, cap. I, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1981). Nel Novecento, il carattere paradossale dello spinozismo verrà colto anche da Albert Einstein (1879-1995), il quale, ebreo e ateo, a un rabbino che lo interrogherà sull’esistenza di Dio dichiarerà di credere «nel Dio di Spinoza», che «si rivela nell’ordinaria armonia di ciò che esiste», e «non in un Dio che si preoccupa del destino e delle azioni degli esseri umani». Prendendo spunto dall’esposizione manualistica, esprimi la tua personale opinione: in che senso Spinoza può essere considerato un pensatore ateo e in che senso un pensatore religioso? Propendi maggiormente per un’interpretazione ateistica del suo pensiero, sull’esempio di quella di Bayle, o per un’interpretazione “religiosa”, come quella di Hegel e, per certi versi, di Einstein?

349

Gnoseologia

TAVOLA ROTONDA Le verità eterne Partecipanti: Cartesio, Leibniz, Spinoza Moderatore Nell’Eutifrone, uno dei dialoghi giovanili di Platone, il personaggio che dà il nome al dialogo, rispondendo a Socrate che lo invita a definire la pietà, dichiara: «Ciò che piace agli dei è pio, ciò che a loro non piace è empio». Socrate però non è d’accordo: dal momento che anche la divinità è un essere razionale, essa amerà ciò che è buono e degno di apprezzamento in sé, cioè secondo una ragione. Con il cosiddetto “dilemma di Eutifrone” (un atto è buono perché piace agli dei o piace agli dei perché è buono?) Platone inaugura una questione filosofica che attraversa il Medioevo e che si pone al centro di un vivace dibattito tra i massimi filosofi del Seicento: la Bibbia afferma che Dio, dopo aver creato il mondo, «vide che era buono»; ma ciò che Dio crea è buono in se stesso e per questo Dio sceglie di realizzarlo, o è buono solo perché Dio lo ha fatto, con la

Cartesio È così. Sono sempre stato convinto che anche le “verità eterne”, ovvero le affermazioni logicomatematiche che noi riconosciamo come assolutamente necessarie, siano state, esattamente come le cose materiali, create da Dio, il quale, «come un sovrano legislatore, le ha ordinate e stabilite da tutta l’eternità». Nella sua infinita potenza, Dio ha deciso che è vero (e necessario) che uno più uno sia uguale a due, ma avrebbe anche potuto render vero che uno più uno fosse

350

conseguenza che se avesse creato qualcos’altro, quest’altro sarebbe stato buono? Pur riconoscendo e difendendo l’onnipotenza di Dio, Tommaso d’Aquino e, in genere, tutti i pensatori medievali si schierano in favore del razionalismo di Socrate, affermando che l’agire divino trova un limite nelle leggi eterne della morale e della ragione. L’intelletto di Dio, infatti, ha di fronte a sé dei principi morali assoluti, che precedono e orientano la sua stessa volontà (neppure Dio può rendere giusto ciò che è ingiusto); e ancora più evidenti sono i limiti incontrati dalla potenza divina in campo logico-matematico (Dio non può far sì, ad esempio, che il tutto sia minore della parte o che un triangolo sia un poligono di quattro lati). Il primo (e forse l’unico) pensatore a seguire Eutifrone sulla strada dell’assoluto volontarismo o arbitrarismo teologico è stato Cartesio.

uguale a tre, così come avrebbe potuto creare un cerchio quadrato. Dio è quindi la sola e ultima “ragione” del mondo: le verità matematiche che voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio e ne dipendono interamente, come fanno tutte le restanti creature. In effetti, dire che queste verità sono indipendenti da Dio significa parlare di lui come di un Giove o di un Saturno e assoggettarlo allo Stige o al Destino. (Lettera a Mersenne, 15 aprile 1630, in Tutte le lettere. 1619-1650, p. 147)

il nostro spirito è finito e creato di una natura tale da poter concepire come possibili [= pensabili] le cose che Dio ha voluto che fossero effettivamente possibili […]. (Lettera a Mesland, 2 maggio 1644, in Tutte le lettere. 1619-1650, p. 1913)

Pertanto dipende da Dio anche il fatto che alcune nozioni ci appaiano impossibili, cioè contraddittorie, anche se questo non significa che esista qualcosa «che debba dirsi impossibile per Dio», ma solo che Egli, in quanto autore delle nostre strutture logiche, ha voluto che l’uomo non potesse pensare tali nozioni. Poiché tutto ciò che vi è di vero e di bene dipende dalla sua onnipotenza, non oserei neppure dire che Dio non possa far sì che vi sia un monte senza valle, o una somma di uno e due che non faccia tre; ma dico solo che Dio mi ha dato una mente tale da non poter concepire un monte senza valle, o una somma di uno e due che non faccia tre, e così via, e che tali cose implicano una contraddizione nel mio pensiero. (Lettera ad Arnauld, 29 luglio 1648, in Tutte le lettere. 1619-1650, p. 2581)

Questa dottrina della creazione delle verità eterne è, a mio avviso, l’unica che possa derivare da una corretta concezione della natura di Dio. Infatti «in Dio volere e conoscere non sono che una sola e medesima cosa; di modo che, per ciò stesso che vuole qualcosa, la conosce, e perciò soltanto tale cosa è vera» (Lettera a Mersenne, 6 maggio 1630, in Tutte le lettere. 1619-1650, p. 151). Non esiste una verità o una bontà riconosciuta e pensata dall’intelletto di Dio, ma realizzata solo successivamente dalla sua volontà: se qualche ragione o apparenza di bontà avesse preceduto la sua preordinazione, essa l’avreb-

be, senza dubbio, determinato a fare ciò che fosse stato meglio. Ma, al contrario, poiché egli si è determinato a fare le cose che sono al mondo, per questa ragione, come è detto nella Genesi, «esse sono molto buone»; cioè la ragione della loro bontà dipende dal fatto che egli ha voluto farle così. (Meditazioni metafisiche, “Risposte alle seste obiezioni”, in Opere, vol. 1, p. 584)

TAVOLA ROTONDA

Il carattere incontrovertibile delle verità logicomatematiche, come di quelle morali, si fonda quindi sull’immutabilità del volere di Dio, che dall’eternità e per l’eternità ha stabilito ciò che la mente umana non può non pensare o pensare diversamente:

Del resto, se non avessi presupposto che le verità della logica e della matematica (compreso il principio di non-contraddizione) sono una creazione arbitraria di una mente superiore a quella umana, non avrei potuto formulare l’ipotesi del «genio ingannatore», con la quale ho sottoposto la stessa matematica (come le conoscenze di origine sensibile) alla prova del dubbio. Le verità della logica e della matematica, infatti, possono essere il frutto dell’inganno di una «mente potentissima» e hanno quindi bisogno di un Dio buono e onnipotente quale «garante della verità» solo se sono concepite come contingenti e create. Moderatore Il volontarismo o arbitrarismo teologico di Cartesio trova un acerrimo avversario in Leibniz, che combatte tenacemente questa dottrina.

Leibniz In effetti, l’idea che la volontà divina «non presupponga una qualche ragione di volere» e non muova da criteri o principi assoluti mi è parsa non solo debole da un punto di vista filosofico, ma anche moralmente pericolosa, poiché rischia di fare di Dio un tiranno capriccioso che pretende che sia buono tutto ciò che vuole: sostenendo che le cose non sono buone per una regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si distrugge, senza farci caso, mi sembra, tutto l’amore di Dio e tutta la sua gloria. Perché infatti lodarlo per quanto ha fatto, quando sarebbe altrettanto degno di lode se avesse fatto tutto il contrario? Dove finiranno dunque la

351

TAVOLA ROTONDA

TAVOLA ROTONDA

sua giustizia e la sua saggezza, se non resta che un certo potere dispotico, se la volontà tiene luogo di ragione [stat pro ratione voluntas: cfr. Giovenale, Satire, VI, 223] e se, come nella definizione dei tiranni, ciò che piace al più potente, per ciò stesso soltanto, è giusto? (Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, vol. 1, p. 262)

La posizione di Eutifrone, a cui quella di Cartesio è assimilabile, va dunque respinta con forza. Moderatore Per Cartesio le verità eterne sono tali perché trovano la loro origine in Dio che le ha create; per Leibniz, invece, sono tali perché sono principi assoluti che neanche Dio può violare. Eppure anche per Leibniz provengono all’uomo da Dio. Ma allora in che senso Dio è all’origine delle verità logico-matematiche, se non le ha Egli stesso create?

Leibniz Dio è all’origine delle verità eterne, che io ho denominato «verità di ragione», in un senso diverso da quello in cui si dice che è all’origine delle cose. Le verità eterne riguardano il piano logico dell’essenza di qualcosa, cioè l’ambito del possibile (ciò che si può pensare senza contraddizione) e dipendono dall’intelletto di Dio; le cose create concernono invece il reale (ciò che, oltre a essere possibile o pensabile, esiste anche nella realtà) e dipendono dalla volontà di Dio. Il “ponte” tra l’ambito del possibile e quello del reale è costituito dalla creazione divina, che consiste nel portare le essenze all’esistenza. Dio crea gli individui concreti, che sono il frutto contingente della sua volontà, ma non crea le essenze eterne (ad esempio l’idea di giustizia o di triangolo ecc.), che infatti sussistono da sempre nella sua mente. La mente di Dio non è altro che il «luogo dei possibili», cioè di tutto ciò che, non essendo contraddittorio, può passare all’esistenza. Le essenze e le verità eterne derivano dunque da Dio non perché sono “create” da Lui, ma perché sono il contenuto eterno del suo intelletto, quei pensieri

352

che neppure Dio può non pensare o pensare in modo diverso: Dio è causa dell’esistenza delle cose, non, in verità, della loro essenza; […] è causa del fatto che qualche triangolo esista, non invero della natura del triangolo, né delle sue proprietà. (Opera omnia, vol. 4, sezione II)

Moderatore Ma se le idee o le essenze del mondo sono eterne e non sono create, non finiranno per “limitare” l’intelletto di Dio, proprio come in Platone le idee “limitavano” l’opera del demiurgo?

Leibniz In effetti qualche interprete, a proposito del “mio” Dio «che non è autore del proprio intelletto» ed è orientato dalle «forme delle cose», ha parlato, e forse non a torto, di “platonismo cristiano”. Dio, secondo me, non può creare le essenze delle cose, né modificarle: non può creare un cerchio quadrato, così come non può far sì che il falso sia vero o che ciò che è ingiusto sia giusto. L’idea di una impossibilità logica con la quale Dio è costretto, per così dire, a “fare i conti” è del resto determinante per la soluzione al problema del male che ho elaborato nei miei Saggi di teodicea. Se Dio fosse il libero creatore dei principi logici e delle essenze eterne, potrebbe creare un mondo in cui l’uomo sia nello stesso tempo assolutamente libero e assolutamente innocente, esattamente come potrebbe pensare e creare un cerchio quadrato. Ma Dio non può realizzare l’impossibile o l’impensabile; non può “pensare insieme” la libertà e la totale mancanza di colpa. In questo senso il male trova la sua radice «nella suprema necessità delle verità eterne»: Dio ha scelto di creare questo mondo, con il male che lo caratterizza, perché non ha potuto che riconoscerlo come il migliore possibile (essendo la libertà preferibile alla completa assenza di malvagità); e non è (viceversa) la scelta di Dio che fa di questo mondo il migliore possibile. Se volessimo istituire un paragone politico, si potrebbe sostenere che il mio Dio è una sorta

di “monarca costituzionale”, il cui agire trova un limite in un ordine di valori o principi che precedono la sua volontà. Solo un Dio di tal natura è pienamente «intelligibile» per la mente umana, poiché quest’ultima è sottoposta a quelle stesse regole e a quegli stessi criteri di giudizio con cui Egli opera.

Cartesio In questo modo si salvaguarda, forse, l’intelligibilità di Dio, ma a scapito della sua onnipotenza, dal momento che, nella prospettiva leibniziana, Dio non può pensare (e quindi neanche volere) ciò che alla mente umana appare impossibile. A ben guardare, solo la mia dottrina della creazione delle verità eterne permette di garantire veramente l’onnipotenza di Dio. Per riprendere il paragone politico, secondo me Dio è una sorta di “monarca assoluto” il cui volere è superiore a ogni legge, di cui, anzi, rappresenta la fonte e l’origine: è giusto ciò che Egli ordina e per il semplice fatto che lo ordina. Moderatore Tra il volontarismo cartesiano e il razionalismo leibniziano, tra il Dio “tirannico” di Cartesio (che potrebbe anche rivelarsi un «genio ingannatore») e quello “moderato” e razionale di Leibniz, si fa strada una terza posizione: quella di Spinoza, che Leibniz definisce «empia e irreligiosa», forse più di quella cartesiana.

Spinoza È vero, nella mia prospettiva non si può dire né che questo sia il migliore dei mondi possibili perché è stato scelto da Dio, né che Dio scelga il migliore dei mondi possibili sulla base di una ragione che precede e orienta la sua volontà. In realtà, Dio non sceglie affatto, dal momento che non è una persona che pensa e vuole, ma l’ordine necessario del mondo (Deus sive Natura). Attribuire a Dio volontà e desiderio, del resto, significa parlarne in maniera superstiziosa e antropomorfica, come se Dio potesse “vo-

lere” qualcosa, quando il “volere” implica la mancanza di ciò che si desidera. Rappresentarsi Dio in questo modo vuol dire immaginarlo come un uomo “in grande”, che valuta, progetta, approva o disapprova. Nei confronti di un mio critico, che giudicava empia o irreligiosa la mia concezione di Dio, ho usato un tono sarcastico, per mostrare come fosse piuttosto la concezione teologica tradizionale a essere irrispettosa nei confronti della divinità:

TAVOLA ROTONDA

Le verità eterne

Quando poi mi dite che, se io nego in Dio gli atti del vedere, dell’intendere, dell’attendere, del volere ecc., e se non ammetto che essi si trovano in lui in grado eminente, allora voi non sapete quale sia il mio Dio, mi inducete a credere che per voi non esistono perfezioni maggiori degli attributi suddetti. E la cosa non mi sorprende, perché credo che, se il triangolo avesse la possibilità di parlare, direbbe allo stesso modo che Dio è eminentemente triangolare; e il cerchio direbbe egualmente che egli è eminentemente circolare […]. (Epistolario, LVI, p. 242)

Distinguere, come fa Leibniz, tra l’ambito della logica (che concerne la necessità delle verità eterne) e quello della realtà (che concerne la contingenza dei fatti) non ha senso nel mio sistema filosofico. Tutto ciò che accade deve accadere. Niente può essere diverso da come è: nel mondo non c’è spazio per una scelta libera, né da parte di Dio, né da parte dell’uomo. Moderatore Eppure nell’Etica si legge che Dio è «causa libera di tutte le cose» (Etica, I, “Appendice”, p. 85).

Spinoza Sì, ma non perché “scelga” di creare un mondo piuttosto che un altro, come se fosse un ente personale dotato di intelletto e volontà. Egli, piuttosto, «agisce per la sola necessità della sua natura»: solo in questo senso non è condizionato da altro ed è «causa libera» di tutto. In

353

TAVOLA ROTONDA

TAVOLA ROTONDA

altre parole, tutto ciò che accade rientra nell’ordine della natura, ma la natura (o Dio), essendo totalità infinita, non ha una causa “fuori” di sé: non esiste alcuna “ragione” a essa esterna che le possa imporre di realizzare una cosa piuttosto che un’altra. Per questo il razionalismo dei seguaci di Leibniz, «che stabiliscono che Dio fa ogni cosa in vista del bene», mi è sembrato ancor più grossolano ed erroneo del volontarismo di Cartesio (che pure va respinto): Costoro, infatti, sembra che pongano al di fuori di Dio qualcosa che non dipende da Dio, e a cui Dio guarda, come a un modello, nel suo operare, o a cui egli tende come verso uno scopo determinato. Il che, senza dubbio, non significa altro che sottoporre Dio al fato; cosa, questa, della quale nessuna più assurda si può ammettere intorno a Dio, del quale abbiamo mostrato che è la prima e l’unica causa libera tanto dell’essenza di tutte le cose quanto della loro esistenza. (Etica, I, prop. 33, scolio II, p. 83)

Del resto, se la analizziamo a fondo e la liberiamo dei suoi tratti antropomorfici, la concezione leibniziana si rivela assai più vicina alla mia di quanto non sembri a prima vista. Solo apparentemente, infatti, il Dio di Leibniz “sceglie” il meglio, poiché, se è per sua natura buono e perfetto, allora “non può che volere” il migliore dei mondi possibili. In altri termini: la presunta “volontà” del Dio leibniziano non è che “obbedienza alla sua natura”, cioè, in ultima analisi, “necessità”. In fondo, per Leibniz come per me, il mondo è quindi una conseguenza necessaria dell’esistenza di Dio. E il migliore dei mondi possibili è l’unico mondo possibile, esattamente come afferma la proposizione 33 della mia Etica: Le cose non avrebbero potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte. (Etica, I, prop. 33, p. 83)

354

Leibniz Devo confessare che ho speso molte energie intellettuali per evitare il «precipizio» di questo esito spinozistico. In un incontro avuto con Spinoza all’Aia, una delle questioni dibattute è stata proprio questa: Dio avrebbe potuto non scegliere il migliore dei mondi? Sono pensabili altri mondi non realizzati da Dio o questo è l’unico mondo possibile? Si trattava di una questione cruciale, che rischiava di vanificare il senso stesso della mia filosofia, volta proprio a recuperare quell’idea del mondo come progetto libero di un Dio personale che Spinoza aveva dissolto. In un commento all’Etica redatto nel 1678, poco dopo il mio incontro con Spinoza, ho affermato che la proposizione 33 prima ricordata «è vera o falsa a seconda di come la si spiega». Se si assume che Dio è per sua natura necessariamente buono, Dio non può che scegliere questo mondo. Eppure sono logicamente possibili (cioè pensabili) infiniti altri mondi: Dio, essendo quel che è, non può sceglierli, cioè portarli all’esistenza, ma ciò non significa che essi siano impossibili. Moderatore Eppure il richiamo alla dimensione della possibilità logica (cioè a un “livello ontologico” diverso da quello della realtà esistente) non sembra essere sufficiente per risolvere la questione della libertà di Dio: come si può sostenere che Dio è libero (di scegliere questo mondo) se si afferma che non poteva creare un mondo diverso?

Leibniz L’ho già ammesso: si tratta di una questione complicata, dietro la quale si nasconde lo “spettro” dello spinozismo che mi ha tormentato per tutta la vita. Ed è paradossale che, dopo aver combattuto Spinoza così tenacemente, io sia stato accusato di spinozismo proprio su questo punto… In realtà, in Spinoza le cose derivano da Dio con la stessa necessità con cui i teoremi derivano dai postulati matematici. Nel mio sistema, invece, Dio è dotato di “libertà” se con la parola “libertà” si intende la capacità di agire sulla base di ciò

che l’intelletto valuta essere la cosa migliore. Per quanto sia moralmente impossibile che Dio scelga diversamente, la sua resta comunque una scelta “libera”, in quanto orientata dalla valutazione e comparazione di possibilità logiche diverse. Insomma, che Dio voglia questo e non un altro mondo è una necessità morale, e non una necessità logica o metafisica (tale per cui il contrario implica contraddizione): Quelle cose [che Dio non vuole realizzare] restano possibili anche se Dio non le sceglie. Infatti, è possibile che esista anche ciò che Dio non farà

Moderatore Il dibattito sulle cosiddette “verità eterne” non riguarda soltanto il dominio astratto della teologia o della metafisica, ma coinvolge il nostro modo di concepire la morale, i valori e, in generale, il senso del mondo, il “perché le cose sono come sono”. Si tratta, insomma, di un interrogativo “perenne”, la cui attualità è sottolineata con grande efficacia dal filosofo statunitense Steven Nadler: «Vi sono questioni centrali della filosofia, della teologia, della morale e della politica che dipendono dal modo in cui il dilemma di Eutifrone viene risolto. Se Eutifrone ha ragione e qualcosa è buono soltanto perché è amato da Dio, allora la bontà – e molti altri valori insieme con essa – è, in ultima istanza, un qualcosa di arbitrario e soggettivo. […] Se si segue la prospettiva di Socrate, per contro, ciò che è pio o buono è così indipendente da quel che Dio (o un qualunque altro agente razionale) ama o desidera o pensa, che deve darsi un parametro universale e oggettivo di bontà che spieghi o stabilisca perché determinate cose sono buone. […] Il volontarismo teologico sopravvive in quelle persone che credono che i valori e i principi morali dipendano soltanto dalla volontà divina. Per loro, senza la fede in un Dio che li stabilisca, i valori semplicemente non esistono. L’attuale fondamentalismo etico-religioso è l’erede della posizione di Eutifrone. Perché è moralmente sbagliato uccidere, o rubare, o mentire? Perché lo dice Dio. Se Dio non si fosse pronunciato sulla questione o avesse decretato cose diverse, uccidere o rubare non sarebbero cose sbagliate (questa è l’implicazione di tale posizione). Per i non credenti e anche per un certo tipo

esistere, perché esso sarebbe in grado di esistere, in base alla sua natura, se Dio ne volesse l’esistenza. Obietti: Dio non può volerne l’esistenza. Sono d’accordo, e tuttavia esso resta possibile in base alla propria natura anche se non è possibile rispetto alla volontà di Dio. Si definisce infatti possibile per sua natura tutto ciò che non implica una contraddizione in se stesso, anche se la sua coesistenza con Dio può implicare una qualche forma di contraddizione.

TAVOLA ROTONDA

Le verità eterne

(Textes inédits, cit. in S. Nadler, Il migliore dei mondi possibili, p. 264)

di credenti – come mostrano i casi di Leibniz e Malebranche – il volontarismo etico e teologico presta il fianco a obiezioni molto forti. Perché, per esempio, pretendere che un’azione sia resa “moralmente corretta” dal comando divino, e non semplicemente “pia” o “osservante”? […] Inoltre è molto difficile accettare l’idea che, se Dio non esistesse, non esisterebbe nemmeno la dimensione morale come tale. Ha veramente ragione Ivan Karamazov quando afferma che “se Dio non esiste, tutto è permesso”? Per contro il razionalismo morale fonda i giudizi sul bene e il male, sul giusto e l’ingiusto senza riferimenti alle preferenze individuali, alle scelte o ai desideri degli agenti. Per il razionalista, i principi morali sono scoperti, non creati. La loro verità è indipendente da quel che ciascun soggetto – umano o divino – vuole o giudica. Inoltre, è la ragione – una ragione impersonale, spassionata, universale, diversa dal sentimento come dalla rivelazione divina – a scoprire tali principi. In altre parole, nell’ambito di una filosofia secolarizzata, il vero erede del razionalismo di Leibniz è Kant. Secondo l’etica kantiana, la legge morale è la legge della ragione e non ha nulla a che fare con le inclinazioni soggettive. […] La legge morale vale per tutti gli esseri razionali, umani, divini o altro. I valori incorporati nella legge morale (in primo luogo il rispetto per la dignità e l’autonomia degli altri esseri razionali) e nei giudizi morali che ne derivano rappresentano parametri oggettivi e razionali, proprio come i principi che guidano il Dio di Leibniz nella scelta del migliore dei mondi possibili» (S. Nadler, Il migliore dei mondi possibili, trad. it. di F. Piro, Einaudi, Torino 2009, pp. 211-212 e 277-279).

355

Teologia

TAVOLA ROTONDA Dio e lo “scandalo” del male Partecipanti: Bayle, Leibniz, Spinoza Moderatore Di fronte all’esperienza inquietante del male fisico (il dolore) e del male morale (la malvagità) l’uomo prova da sempre un sentimento di angoscia, turbamento e sdegno. La ribellione umana di fronte allo “scandalo” di un’esperienza dolorosa che appare gratuita, insensata e senza ragione trova voce anche nel libro biblico di Giobbe, il cui protagonista, «uomo integro e retto», che «teme Dio ed è alieno dal male» (Gb, 1, 8), viene colpito da un gran numero di sventure e rivolge al suo Signore un grido sofferente e incredulo: «Che è quest’uomo che […] ad ogni istante lo metti alla prova? […] Perché m’hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso?» (Gb, 7, 17-20); «Ecco, grido contro la violenza, ma non ho risposta, chiedo aiuto, ma non c’è giustizia!» (Gb, 19, 7). Che un giusto possa soffrire, e viceversa un malvagio essere felice, in effetti non è scandaloso “di per sé”: l’uomo percepisce il male come un problema che esige una soluzione, o come un’offesa che implora una riparazione, solo nel caso in cui creda che il mondo è opera di un Autore divino. Già Epicuro, che pure era estraneo alla tradizione ebraico-cristiana, aveva indi-

Bayle Come ho affermato nel mio Dizionario storicocritico, sono convinto che l’unica spiegazione ragionevole dell’origine del male sia quella dualistica propria del mazdeismo. Secondo questa antica religione, denominata anche “zoroastrismo” dal nome del profeta Zoroastro o

356

viduato il dilemma sotteso alla questione del male e, con un ragionamento stringente, aveva concluso che l’esistenza di un Dio buono e onnipotente è incompatibile con la presenza del male nel mondo: «La divinità o vuol togliere i mali e non può, o può e non vuole, o non vuole né può, o vuole e può. Se vuole e non può è impotente, e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?» (H. Usener, Epicurea, fr. 374, a cura di L. Massa Positano, cedam, Padova 1969). Intorno a questi antichi e ardui interrogativi si svolge, all’inizio del Settecento, un appassionato “duello” filosofico tra Gottfried Wilhelm Leibniz e lo scettico francese Pierre Bayle (v. vol. 2B, unità 6, cap. 3). Il confronto prende le mosse proprio da un’osservazione di quest’ultimo, il quale nota come sia necessario, per spiegare razionalmente l’esistenza del male, ammettere due principi metafisici tra loro opposti.

Zarathustra, l’uomo non può essere «opera di un solo principio sovranamente buono, santo, potente», perché, se così fosse, come potrebbe «essere esposto – come è in realtà – alle malattie, al freddo, al caldo, alla fame, alla sete, al dolore, alle disgrazie»? Come potrebbe «avere tanti cattivi istinti» e «commettere tanti delitti»? (Dizionario storico-critico, p. 267) Per questo,

Zoroastro […] porrà questa domanda: Dio ha previsto che l’uomo si sarebbe servito male del suo libero arbitrio? Se si risponde di sì […] allora devo concludere che gli avrebbe impedito di peccare, perché l’idea di ordine non consente che una causa infinitamente buona e santa, in grado di impedire l’insorgere del male morale, si rifiuti di farlo, soprattutto quando comportandosi in questo modo sarà obbligata a infliggere alla sua stessa creatura gravi sanzioni. Se Dio non ha previsto la caduta dell’uomo, doveva almeno pensare che essa era possibile e

che se si fosse verificata egli veniva a trovarsi nelle condizioni di dovere rinunciare alla propria paterna bontà per rendere i suoi figli infelici giudicandoli severamente. (Dizionario storico-critico, pp. 267-269)

Moderatore Sulla base di queste considerazioni, il male si rivela dunque incomprensibile alla ragione, a meno di non rinunciare all’onnipotenza, all’unicità o alla bontà di Dio…

TAVOLA ROTONDA

nella prospettiva mazdeistica, l’universo è retto da due divinità, o principi metafisici, tra loro in conflitto: il Bene e il Male, cioè un Dio buono (Ahura Mazda), a cui va ricondotto ciò che nel mondo e nella volontà umana opera per il bene, e un Dio cattivo (Ahriman), origine di ciò che tende al male o fa male. Al contrario, per i filosofi della tradizione monoteistica il male non è un principio ontologico: esiste un solo Dio onnipotente, la cui volontà buona non è limitata da nulla (neanche dalla materia, che non può essere, come per Platone, la causa metafisica del negativo). È l’uomo che, peccando e ribellandosi a Dio, introduce il male in un mondo creato buono. Il dolore, secondo questa prospettiva, può dunque essere “spiegato” come la “giusta” punizione (malum poenae) per il peccato dell’uomo (malum culpae). Il monoteismo lascia però aperta una domanda: posto che il male sia il frutto di una libera scelta dell’uomo, da dove viene la “possibilità” di questa scelta? Nella Bibbia, infatti, l’alternativa tra il bene e il male non è istituita dalla volontà umana, ma la precede. Il male “è già lì” (almeno come possibilità), in un certo senso “previsto” da Dio, che ha creato l’uomo capace di compierlo. Senza contare che, nel Nuovo Testamento, si dice con chiarezza che «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi» (Prima lettera a Timoteo, 2, 3). Ma allora perché Dio concede il libero arbitrio all’uomo, sapendo, nella sua onniscienza e preveggenza, che non lo userà bene, votandosi alla dannazione?

Bayle È così. Il male è un dato di fatto tragicamente evidente, e se non si vuole attribuire al Dio (unico, onnipotente e buono) della tradizione monoteista la responsabilità della sua esistenza o della sua possibilità (come la ragione suggerirebbe), allora bisogna rinunciare a qualunque tentativo di “spiegarlo”, scegliendo piuttosto di “accettarlo” con un atto di fede nella «rivelazione della Scrittura»: Là noi troviamo i mezzi per confutare vittoriosamente l’ipotesi dei due principi e tutte le obiezioni di Zoroastro, vi troviamo l’unità di Dio, le sue infinite perfezioni, il peccato del primo uomo e ciò che lo seguì. Ci si venga pure a dire con un grande apparato di ragioni che non è possibile che il male morale si introduca nel mondo ad opera di un principio infinitamente buono e santo: noi risponderemo che tuttavia ciò è accaduto e che quindi è possibilissimo. (Dizionario storico-critico, pp. 270-271)

Moderatore È proprio questa netta separazione tra ragione e fede ad apparire a Leibniz inaccettabile, inducendolo a prendere posizione contro Bayle.

Leibniz Di fronte alla “sfida” del male, ho cercato di difendere comunque l’idea della «conformità della fede con la ragione». Convinto che non possano esistere due verità, ho costruito quella che, con un termine che io stesso ho coniato, ho chiamato «teodicea», cioè una “giustificazione di Dio” (dal

357

TAVOLA ROTONDA

TAVOLA ROTONDA

greco theós, “dio”, e díke, “giustizia”), ovvero un tentativo, condotto dalla ragione, di scagionarlo dall’accusa di essere responsabile del male che affligge l’uomo. Ed è stato proprio il serrato confronto polemico con Bayle a darmi l’occasione di scrivere, nel 1710, i Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male: l’unico mio libro pubblicato in vita. In sintesi, la soluzione che ho proposto è la seguente: il mondo creato non è (come pure Dio vorrebbe) l’ottimo – tant’è che in esso c’è il male – ma è comunque il migliore possibile, poiché per eliminare il male Dio avrebbe dovuto o non creare alcun mondo, o crearne uno peggiore, ovvero un mondo abitato da esseri incapaci di peccare e forse più felici, ma non liberi. Dio, quindi, non vuole il male, né tanto meno lo realizza (in tal senso è buono), ma «permette» che l’uomo possa compierlo per ottenere un bene maggiore, la libertà: Dio vuole antecedentemente il bene e conseguentemente il meglio […]. Ora è esattamente in questo senso che Dio permette il peccato, poiché verrebbe meno a ciò che deve a se stesso, a ciò che deve alla propria saggezza e alla propria bontà e perfezione se non […] scegliesse ciò che è assolutamente il migliore, nonostante il male di colpa [male morale] che vi si trova implicato per la suprema necessità delle verità eterne […]. Da tutto ciò bisogna concludere che Dio […] vuole soltanto permettere il male morale in quanto condizione senza la quale non si otterrebbe il meglio […]. (Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, vol. 3, pp. 124-125)

Moderatore Ma in che senso la presenza del male in questo nostro mondo, che è il migliore tra tutti quelli che Dio avrebbe potuto creare, si deve alla «suprema necessità delle verità eterne»?

Leibniz Poiché è buono, Dio vorrebbe che «tutte le perfezioni possibili» (quelle pensate dal suo intelletto) diventassero effettivamente esistenti. Ma non tutti i possibili sono «com-possibili», cioè pensabili

358

insieme e compatibili nello stesso mondo reale. In particolare, la libertà umana è un valore positivo, ma è evidentemente incompatibile con una totale assenza di colpa, che pure è una cosa altrettanto positiva. Non potendo volere ciò che per il suo intelletto risulta impensabile (cioè logicamente impossibile), Dio non può realizzare un mondo in cui siano “combinate” la libertà dell’uomo e la sua assoluta incapacità di fare il male, perché sarebbe come pensare e realizzare un cerchio quadrato, violando la «suprema necessità delle verità eterne». Tra i diversi mondi possibili, costituiti dalle diverse combinazioni di qualità positive, Dio sceglie pertanto quello che implica il male minore (cioè quello in cui l’uomo è libero, e quindi libero anche di essere malvagio). Anche per Platone l’azione del demiurgo incontrava un limite, ma esso era per così dire “esterno” alla divinità, consistendo nella materia «increata e indipendente da Dio». La fede ci dice però che Dio crea il mondo “dal nulla”: per questo la ragione che rende il male necessario (e inevitabile per la scelta di Dio) «va trovata nell’intelletto divino», senza che però quest’ultimo ne costituisca l’origine: La fonte [del male] si trova nelle forme o idee dei possibili: poiché [tale fonte] deve essere eterna, mentre la materia non lo è [poiché è creata]. Ora Dio […] avrebbe creato la fonte del male se essa non consistesse nella possibilità delle cose o delle forme, unica cosa che Dio non ha creato, poiché non è autore del proprio intelletto e [poiché] le forme possibili sono anteriori agli atti della volontà di Dio. (Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, vol. 3, pp. 375-376)

Moderatore La prospettiva ottimistica secondo cui noi viviamo nel migliore dei mondi possibili viene contestata dal pensatore francese François-Marie Arouet, più conosciuto come Voltaire (v. vol. 2B, unità 6, cap. 3). In un romanzo pubblicato nel 1759, in cui narra le disavventure del giovane Candido (da cui il titolo del romanzo), Voltaire tratteggia la figura dell’ingenuo Pangloss, maestro di Candido e seguace della filosofia leibniziana, che, di fronte ai clamorosi mali di cui i due cadono vittime, continua a rite-

Dio e lo “scandalo” del male

Leibniz Voltaire non coglie proprio nel segno. Dire che questo è il migliore dei mondi possibili non significa negare che il male sia pervasivo, capillare e tremendamente reale; piuttosto significa affermare che ogni altro mondo che Dio avesse creato sarebbe stato di natura peggiore. Questo mondo è il migliore possibile non malgrado il male che ospita, ma proprio in virtù di esso. Sono pensabili (cioè possibili) infiniti mondi in cui la sofferenza delle persone potrebbe essere complessivamente inferiore, ma tali mondi non sarebbero migliori di questo (né, quindi, più degni di essere scelti da Dio). Infatti, se anche una sola volta Dio intervenisse per impedire un disastro naturale o un delitto, questa sarebbe un’interferenza da parte Sua nelle leggi della natura o nella libertà umana. Il che renderebbe questo mondo forse più felice, ma certo peggiore. In altre parole, il senso della mia teodicea non consiste in una riflessione di tipo “empirico”, secondo la quale nel mondo la quantità complessiva di bene è superiore alla quantità complessiva di male. Se così fosse, avrebbe ragione Voltaire. Il principio «considera il tutto», che ho formulato nei miei Saggi di teodicea, va inteso diversamente: questo mondo è metafisicamente migliore di tutti gli altri perché è governato da leggi naturali semplici e immutabili, e perché, nonostante ciò, ospita soggetti liberi e responsabili delle loro azioni (anche se, in quanto tali, capaci di compiere il male e quindi di meritare una punizione). Se fosse possibile, Dio vorrebbe un mondo senza dolori, che consentisse a tutti di essere felici nell’aldiquà e, nello stesso tempo, degni di meritare la salvezza nell’aldilà. Ma Dio vuole, prima di tutto, salvaguardare la libertà umana, seppure all’interno del corso ordinario dei fenomeni naturali. Moderatore Di fronte al Dio di Leibniz, che “deve” obbedire alle supreme leggi della logica, Bayle

obietta che si tratta di un Dio fatto “a immagine e somiglianza dell’uomo”…

Bayle Certo, è così: Dio non può far sì che il cerchio sia quadrato o che la libertà sia pensabile insieme all’innocenza: la sua volontà è condizionata dai contenuti del suo intelletto, che tuttavia non sono stati creati da Lui (come lo stesso Leibniz, senza temere il paradosso, ha da poco ammesso affermando che Dio «non è autore del proprio intelletto»). Da questo punto di vista, il Dio leibniziano non è affatto diverso dal demiurgo di Platone, che sceglie il bene, ma non decide ciò che è bene (idea che lo supera e lo precede). Nella prospettiva monoteistica e creazionistica, invece, il bene non può essere se non ciò che Dio liberamente stabilisce, senza doversi conformare ad alcuna idea o regola assoluta che si imponga alla sua intelligenza:

TAVOLA ROTONDA

nere di vivere nel migliore dei mondi. Con amara ironia, Voltaire sembra dunque suggerire l’idea che è possibile giustificare Dio e “salvarne” la bontà solo a patto di negare l’evidenza dei fatti…

[Per Leibniz] non c’è dunque nessuna libertà in Dio: questi è necessitato dalla propria saggezza a creare e, per di più, a creare esattamente una tale opera e, infine, a crearla esattamente secondo queste vie e non altre. Sono tre servitù che creano un fato più che stoico e che rendono impossibile tutto ciò che non è nella loro sfera. (cit. da Leibniz in Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, vol. 3, p. 277)

Leibniz Non sono d’accordo. Con la mia dottrina non ho mai inteso mettere in discussione la libertà di Dio, ma anzi salvaguardarla. Certo, per me il termine “libertà” non indica la possibilità di agire in totale assenza di regole, ma piuttosto quella di scegliere sulla base di ciò che l’intelletto valuta essere la cosa migliore. Si tratta, insomma, di una «felice necessità», perché, senza di essa, Dio «non sarebbe né buono né saggio» e il suo comportamento sarebbe arbitrario e dispotico: questo presunto fatum [di cui parla Bayle] che obbliga anche la divinità, non è altro che la natu-

359

TAVOLA ROTONDA

ra propria di Dio, il suo proprio intelletto che fornisce regole alla sua saggezza e alla sua bontà.

re dei mondi possibili, dal momento che, a ben guardare, esso è semplicemente l’unico possibile.

TAVOLA ROTONDA

(Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, vol. 3, p. 252)

Se, tra gli infiniti mondi possibili, Dio sceglie proprio questo, è per una necessità morale e non logica. Libero di scegliere tra infinite possibilità logiche, Dio è moralmente obbligato, dalla bontà e perfezione della propria natura, a scegliere quella che “in sé” è la cosa più buona e perfetta possibile. Dio vuole le cose che comprende essere le migliori […]. Essendo Dio la mente più perfetta, è impossibile che […] non venga necessitato dalla stessa idealità delle cose a volere il meglio. Ciò non toglie alcuna libertà. La suprema libertà, infatti, è venire costretti all’ottimo dalla retta ragione. (Scritti di logica, p. 446) Il centro della questione è proprio questo: difendere la saggezza di Dio, cioè la razionalità della sua scelta, prima ancora della sua onnipotenza. Anche della inevitabilità del male deve quindi esserci, nell’intelletto di Dio, una “ragione”, e per di più una ragione che risulti comprensibile anche al nostro intelletto. In altri termini, possiamo riconoscere la razionalità e la bontà della scelta divina proprio perché essa si conforma a quelle medesime «verità eterne» e a quel medesimo «ordine morale del mondo» a cui deve attenersi l’uomo. È quindi la stessa «natura delle cose», che Dio non ha creato e non può sovvertire, a rappresentare non soltanto il vincolo eterno di ogni volizione divina, ma anche la condizione perché l’uomo la possa comprendere: Affermo che, affinché Dio voglia una cosa, non è in causa la sua volontà (nessuno infatti vuole perché vuole, ma perché ritiene che la cosa sia degna di essere voluta), bensì la natura delle cose in se stesse. (Professione di fede di un filosofo, in Dialoghi filosofici e scientifici, p. 31)

Moderatore Se esiste un «ordine necessario» che, fondato sulla «natura delle cose in se stesse», in quanto tale, determina la scelta di Dio, allora come si può attribuire a Dio una volontà libera? A muovere a Leibniz questa obiezione è Baruch Spinoza, per il quale non ha senso chiedersi se questo sia il miglio-

360

Spinoza In effetti, nel mio sistema filosofico non è necessaria alcuna “teodicea”, perché, in un certo senso, mancano i due termini della questione: lo “scandalo” del male morale di cui lamentarsi e un Dio personale da “querelare” e condurre di fronte al tribunale della ragione per rimproverargli di essere malvagio o non onnipotente. In un mondo in cui non c’è libertà, non può esserci un “colpevole”, sia esso Dio (che avrebbe creato l’uomo capace del male) oppure l’uomo (colpevole di agire in un modo piuttosto che in un altro). Bayle e Leibniz, pur nella loro divergenza, partono da un presupposto comune, e cioè l’ammissione di un Dio personale che conosce il bene e vuole realizzarlo (idea che Bayle ritiene non si possa che accettare per fede, e che Leibniz cerca di difendere con la ragione). Il mio Deus-Natura, invece, non sceglie nulla. Non è un artigiano che “costruisce” il mondo sulla base di un “progetto” a cui deve attenersi. Essendo totalità infinita, nulla “fuori” o “sopra” di Lui può imporgli di realizzare una cosa piuttosto che un’altra: tutto è in Dio; dunque nessuna cosa ci può essere fuori di lui dalla quale egli sia determinato o costretto ad agire […]. Da ciò segue che non esiste nessuna causa che dall’esterno o dall’interno inciti Dio ad agire se non la perfezione (Etica, prop. 17, p. 45) della sua natura. A mio avviso, la convinzione che il mondo risponda a una libera scelta di Dio non è che un «pregiudizio finalistico» privo di fondamento, che nasce perché l’uomo, non sapendo che la realtà è un ordine oggettivo e necessario, interpreta la natura in base alle nozioni di perfezione e imperfezione, ordine e disordine, proiettando sulle cose la sua valutazione soggettiva circa ciò che per lui rappresenta un vantaggio (tale è il “bene”) o uno svantaggio (tale è il “male”). Superando l’orizzonte della metafisica finalistica (di matrice platonica e biblica), ho voluto re-

stituire l’uomo, il mondo e Dio all’“innocenza” di una natura che non ospita il bene o il male in senso morale, che non sottende una colpa originaria (di Dio o dell’uomo), un “difetto di fabbricazione”. Nel mondo tutto accade secondo necessità, secondo un ordine naturale e non morale in cui, in assenza di cause finali rispetto alle quali formulare valutazioni, niente può essere considerato manchevole o imperfetto.

Esattamente. La denuncia umana del male, inteso come mancanza o imperfezione, non soltanto non può evitare di coinvolgere il Dio-per-

sona della tradizione ebraico-cristiana, ma anzi lo implica o lo “esige” quale presupposto teorico. Per un ateo, così come per un panteista, il male è invece qualcosa di “naturale”, che non può essere ricondotto né a una colpa dell’uomo verso Dio, né a un’ingiustizia (o a un limite) di Dio nei confronti dell’uomo. La mia vuole dunque essere una prospettiva “post-cristiana”, nella quale il male (dolore) è l’altra faccia ineliminabile del bene (piacere) ed è insito nel vivere stesso, perché l’uomo, come ogni altro vivente, rifugge dal dolore e cerca il piacere, in un’alternanza naturale di ben-essere e mal-essere. Il male, così inteso, acquista un profilo mondano e in un certo senso “laico”: concerne la natura (compreso quell’ente naturale che è l’uomo) e non chiama in causa la costituzione metafisica del mondo, la sua origine o il suo scopo. Non chiama in causa Dio.

Moderatore Il male, la libertà dell’uomo e la scelta di Dio: sono questi i termini intorno a cui ruota ogni tentativo di “teodicea”. Non a caso, questi tre elementi sono presenti già nel racconto biblico della Genesi, che nella “rappresentazione” dell’origine del male fa comparire, accanto all’uomo e a Dio, un terzo “personaggio”: il serpente. Residuo di una visione dualistica che al principio del bene oppone un principio del male, il serpente simboleggia l’esistenza di una possibilità che precede l’uomo e che, proprio in quanto possibilità esistente, può attirarlo a sé. L’immagine del serpente tentatore suggerisce che la “causa” del male non è Dio, ma neanche totalmente l’uomo. Così, se da una parte Dio permette il male (per lasciare libero l’uomo), ma non ne è responsabile, dall’altra l’uomo, pur essendo libero di sceglierlo, non ne è l’origine ultima, che va ricondotta a una possibilità aperta all’uomo da Dio stesso (anche il serpente è una creatura divina). L’inestricabile aporia del male, che lo “scettico” Bayle mette in evidenza e che Leibniz cerca di sciogliere con la forza della ragione, sembra dunque annidarsi nel cuore stesso della dottrina cristiana. Lo affermerà con chiarezza, quasi un secolo dopo, Immanuel Kant (v. vol. 2B, unità 7) nello scritto Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea (1791). La nostra ragione – è questa la tesi kantiana – è incapace di rintracciare nella natura, quale ci è data dall’esperienza, il segno o

la prova di una saggezza morale che l’ha creata e la governa. A questa «teodicea dottrinale», che è votata al fallimento, Kant oppone una «teodicea autentica», che rende vane le accuse rivolte alla bontà o all’onnipotenza divine sulla base non di una comprensione razionale del senso ultimo della realtà (precluso alla ragione umana), ma di un impegno morale che ci spinge al bene e ci induce a sperare (aver fede) in un Reggitore giusto del mondo. Di questo secondo tipo di teodicea Kant trova un esempio proprio nel personaggio biblico di Giobbe, il quale, diversamente dagli «amici» con cui dialoga – che si affannano a cercare argomenti razionali per convincerlo della “giustizia” delle sue disgrazie –, si piega ai misteriosi e apparentemente ingiusti disegni di Dio, accettandoli con rassegnazione. In tal modo «egli mostra di non fondare la sua moralità sulla fede, ma la fede sulla moralità; e in questo caso la fede, per quanto debole possa essere, è d’una specie più pura e autentica d’ogni altra, tale cioè da fondare una religione che non consiste nella ricerca di favori, ma nella buona condotta» (Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea, in Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, Mursia, Milano 1989, p. 61). Per Kant la presenza in noi di una legge morale che ci spinge al bene è l’unico motivo che ci consente di sperare che il male che ci attanaglia possa essere non compreso, ma vinto.

Moderatore Questo significa che il male costituisce un problema solo se si ammette un Dio personale che sia il creatore del mondo…

Spinoza

TAVOLA ROTONDA

Dio e lo “scandalo” del male

361

Teologia

QUESTIONE Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede? Cartesio, Pascal

Partiamo da un libro Giuseppe Prezzolini (1882-1992), uno dei più originali e anticonformisti intellettuali italiani del Novecento, nel 1969 ha dato alle stampe un’opera dal titolo suggestivo e sottilmente provocatorio: Dio è un rischio. Quale sia lo scopo dello scritto è lo stesso autore a spiegarlo con alcuni versi ironici: È un libro senza Dio che trova il posto a Dio per chiunque abbia un Dio che debba trovare un posto. (G. Prezzolini, Dio è un rischio, Rusconi, Milano 1979, p. 149)

Con scrittura sottile e penetrante, l’autore affronta una questione cruciale, che lo ha appassionato fin da giovane: Dio esiste? E la sua esistenza si può provare con la ragione o si deve credere per fede? E dove cercare le “tracce” di Dio: nell’ordine della natura oppure nell’interiorità silenziosa della coscienza? O forse dobbiamo rassegnarci al fatto che di Dio non c’è

alcuna traccia e che l’unico “segno” che abbiamo di Lui è la sua “assenza” o il suo “silenzio”? Nelle ultime pagine, Prezzolini svela il senso del titolo del libro: Dio non può essere l’esito di un’indagine razionale, semmai il risultato di una scelta incerta e rischiosa. Inconoscibile e indimostrabile, la sua esistenza può essere solo oggetto di fede. La fede, dunque, «salva tutto, ma non può anche valersi della ragione. È una pretesa eccessiva» (Dio è un rischio, cit., p. 32). Anzi, la grandezza e l’autenticità della fede sta proprio nell’essere una scelta “senza ragione”, “gratuita”, tanto più preziosa agli occhi di Dio

S

e Dio fosse dimostrabile come un teorema di geometria, o come il centro della terra, non ci sarebbe più merito nel crederci. Nessuno si fa ammazzare per un teorema, mentre centinaia di migliaia

quanto meno appare giustificata agli occhi dell’uomo: sono morti per un Dio nel quale credevano senza poterne dimostrare l’esistenza. Essi la testimoniavano, il che vale più del dimostrarla. L’incertezza di Dio è la ragione principale della sua attrazione. (G. Prezzolini, Dio è un rischio, cit., p.144)

362

Per l’onestà intellettuale che lo animava, il libro di Prezzolini suscitò l’interesse dell’allora pontefice Paolo VI, il quale, dopo la pubblicazione dell’opera, ebbe con l’autore un intenso scambio epistolare che in seguito venne pubblicato in appendice al volume. L’idea di fondo di Prezzolini è che la fede sia abbandono cieco e irragionevole alla grazia di Dio («Nessuno ce la può dare – egli dice –

salvo il Caso, per uno che non crede, o, per chi crede, Dio stesso»). Coincidendo con il “cuore” del fideismo di Lutero (il quale affermava che la “follia” del credente supera infinitamente la ragione dei filosofi), questa idea non poteva che incontrare il contrasto del papa, che, con discrezione e garbo, invitò Prezzolini a «convertirsi», dal momento che esistono buone “ragioni” per scegliere di credere. Lo scrittore replicò con fermezza e coerenza, affermando che la fede può venire solo da «un’illuminazione interiore che io non posso chiedere (perché il chiederla sarebbe già aver raggiunto ciò che avrei richiesto) né procurarmi con l’intelligenza e lo studio (perché attraverso questi non troverei che ragioni di dubbio, contraddizioni di logica,

insufficienze di testi e di testimonianze)» (op. cit., pp. 171-172). La risposta del pontefice, in linea con la tradizione tomistica della Chiesa cattolica, fu altrettanto netta e insistente: «A noi cristiani ciò non può bastare. Il cristianesimo non può prescindere dall’esercizio dell’intelligenza e del pensiero» (op. cit., p. 174). Il confronto leale e aperto tra papa Paolo VI e l’agnostico Giuseppe Prezzolini finisce insomma per mettere in luce due posizioni tra loro inconciliabili, a cui è sotteso un interrogativo perenne: dell’esistenza di Dio abbiamo qualche prova razionale, oppure Dio è una “scommessa” a cui ci si abbandona per fede, al di là di ogni ragionevolezza?

Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede? Sulla base delle tue convinzioni personali, rispondi a questo interrogativo scegliendo tra le opzioni che seguono.

1. L’esistenza di Dio può essere affermata dalla ragione sulla base di alcune “prove”: alcune partono dall’esperienza della natura, che nella sua fragilità esige un sostegno divino, e nella sua bellezza e nel suo ordine rimanda a una Mente superiore che l’ha progettata (prove a posteriori); altre partono dall’idea di Dio presente nella mente umana e da essa ricavano la sua esistenza (prove a priori).

QUESTIONE

Confessando di non essere riuscito a scegliere la via di questa fede “priva di ragioni”, Prezzolini mostra però di essere approdato a una forma di ateismo “scettico”, cioè disponibile anche alla possibilità di essere smentito, in un’avvincente “partita” con Dio che non può che rimanere aperta.

VERSO LE COMPETENZE w Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale

2. Indagare razionalmente l’esistenza di Dio non ha senso: Dio è oggetto di fede, cioè di una “fiducia” che va oltre la ragione o che sorge quando la ragione prende coscienza dei suoi limiti. Non è l’uomo che, con una sua impresa razionale, arriva a conoscere Dio, ma è Dio stesso che si “china” sugli uomini, rivelandosi e rendendoli partecipi della “grazia” della fede.

Illustra brevemente le ragioni che ti hanno indotto a prendere questa posizione.

363

QUESTIONE

Approfondiamo la questione QUESTIONE

Dal senso comune alla filosofia 1. La prima posizione caratterizza il razionalismo teologico e può essere ricondotta a René Descartes, il quale, pur rifiutando le prove a posteriori della tradizione aristotelico-tomistica, ne elabora alcune a priori: partendo dall’analisi di alcuni contenuti della mente umana (l’idea dell’infinito, l’idea dell’ens perfectissimum e l’idea, svelata dal cogito, dell’imperfezione della natura umana), egli deduce l’esistenza di un ente infinito o perfettissimo che l’uomo chiama “Dio”.

2. La seconda posizione caratterizza il fideismo teologico e può essere ricondotta a Blaise Pascal, il quale, in polemica con Cartesio, ritiene che l’uomo, corrotto dal peccato, con la sola ragione non possa innalzarsi alla conoscenza della divinità. Dio si manifesta solo a coloro che gli si abbandonano con fede: se il Dio di Cartesio si impone alla ragione umana con la stessa evidenza delle verità matematiche, il Dio pascaliano rimane inaccessibile, avvolto nel mistero, e richiede una fede che è una vera e propria “scommessa”.

1. | Il Dio della ragione: Cartesio Un Dio che “salva” la conoscenza umana

Il Dio cartesiano è un Dio “della” ragione in un duplice senso: in primo luogo perché la sua esistenza è attestata in modo incontrovertibile dalla ragione (e per di più da una ragione assolutamente autonoma e indipendente dall’esperienza) e in secondo luogo perché l’esistenza di Dio costituisce il momento culminante di un percorso dimostrativo compiuto dalla ragione stessa per dare un fondamento al sapere. In effetti la dimostrazione dell’esistenza di Dio, nel sistema cartesiano, non ha tanto un valore teologico o apologetico (confutare l’ateismo e giustificare la fede), quanto una finalità gnoseologica: Dio non è tanto colui che salva (il «Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe»), quanto una nozione filosofica che svolge la precisa funzione di garantire la conoscenza umana. A questa posizione Cartesio perviene partendo dall’idea che tutto ciò che appare evidente alla ragione potrà essere preso per vero solo se la ragione saprà «rimuovere» l’ipotesi dell’esistenza di un «genio maligno», che inganna l’uomo: Ma, per poterla rimuovere, debbo esaminare se Dio esista e se, nel caso che esista, possa darsi che sia ingannatore; perché fino a che non lo sappia, non vedo come io possa essere certo di qualcosa [se non del cogito, cioè del fatto di esistere come soggetto pensante]. (Meditazioni metafisiche, III, in Opere, vol. 1, p. 217)

In altre parole, quella di Cartesio è una sorta di leibniziana “teodicea” (giustificazione di Dio), ma del tutto particolare: che esista un Dio, e un Dio onnipotente e buono, è infatti necessario per “salvare” la conoscenza umana, che in caso contrario potrebbe essere il frutto illusorio della malvagità di una mente superiore e ingannevole. Secondo Cartesio, infatti, le «verità eterne» della matematica, che la ragione dell’uomo riconosce come incontrovertibili, non trovano il loro fondamento in se stesse, ma sono create da Dio mediante una decisione arbitraria e imposte all’uomo. Nella sua onnipotenza, Dio potrebbe anche far sì, ad esempio, che il triangolo non abbia tre angoli o che il tutto non sia maggiore della parte. Se non “gioca” con le regole dell’evidenza e garantisce il buon funzionamento della mente umana, questo accade perché è buono. Un “ponte” tra il soggetto e gli oggetti

364

Dio rappresenta dunque una “tappa” obbligata del percorso cartesiano del dubbio, e non solo in quanto fonte e garanzia delle «verità eterne», ma anche in quanto “ponte” tra la certezza che l’io ha di se stesso e la certezza dell’esistenza delle cose esterne all’io. È ovvio, infatti,

che, fino a quando sulla conoscenza umana graverà l’ipotesi di un Dio ingannatore, l’evidenza del cogito non sarà sufficiente a fondare l’evidenza con cui l’uomo percepisce gli oggetti esterni, perché quest’ultima potrebbe essere un’illusione. Ora, tra tutte le idee o rappresentazioni mentali possedute dall’uomo, l’idea di Dio, ovvero di una «sostanza infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente», è l’unica grazie alla quale l’io può spezzare il cerchio solipsistico in cui sembra essersi chiuso, poiché gli consente di afferrare un ente “esterno” effettivamente esistente, il quale a sua volta garantisce la corrispondenza tra le idee e le cose esterne. Le “prove” cartesiane dell’esistenza di Dio sono principalmente tre: una prima che parte dall’idea di “infinito”; una seconda che prende avvio dall’imperfezione della natura umana svelata dal cogito; una terza che ripropone l’argomento ontologico anselmiano. Per quel che riguarda la prima prova, il ragionamento di Cartesio è, in sintesi, il seguente: io posso essere la causa di tutte le mie idee (o rappresentazioni mentali), tranne che dell’idea dell’infinito, cioè di un ente (che chiamiamo “Dio”) dotato di tutte le perfezioni, il quale ha messo nel mio intelletto questa idea come traccia della sua esistenza. La seconda prova parte invece dal cogito, cioè dall’autoevidenza dell’atto del dubitare: il cogito svela la natura pensante dell’uomo, ma anche la sua natura imperfetta, che di conseguenza gli rivela come egli debba necessariamente dipendere da un ente perfetto. Anche l’argomento ontologico prende le mosse dell’analisi di un contenuto del cogito: io ho l’idea dell’«ens perfectissimum», così come ho l’idea del “triangolo” come poligono di tre lati. Ora, così come vedo in modo chiaro e distinto che nella definizione di “triangolo” è inclusa la proprietà di avere la somma degli angoli interni uguale a 180 gradi, con altrettanta evidenza vedo che a Dio (cioè all’«ente perfettissimo») non può non competere l’esistenza, proprietà inclusa nella sua essenza. Dal momento che l’esistenza è una perfezione (perché qualcosa che non esiste è meno perfetto di qualcosa che ha l’esistenza), allora Dio esiste necessariamente.

Le prove dell’esistenza di Dio

Quest’ultimo ragionamento, in particolare, mostra che per Cartesio l’ateismo non è un difetto della fede, ma un errore logico. L’ateo si comporta come chi non sa di matematica: la connessione necessaria che intercorre tra il concetto di Dio («ente perfettissimo») e la sua esistenza è lo stessa che c’è in matematica tra una definizione e le proprietà dell’ente definito, che proprio da tale definizione si deducono in modo incontrovertibile.

L’ateismo come errore logico

QUESTIONE

Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede?

2. | Il Dio della fede: Pascal Il freddo Dio del razionalismo cartesiano, che “serve” alla ragione e imprime il movimento alla “macchina” del mondo, ma che non si fa carico della domanda di senso e di felicità degli uomini, secondo Pascal ha poco in comune con il Dio-persona della Bibbia, che si nasconde ai dotti e ai sapienti, si rivela nella storia («il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe») e interpella la fede degli uomini per salvarli («il Dio di Gesù Cristo»):

Non si può fare a meno di Dio

Non posso perdonarla a Cartesio, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di fargli dare un colpetto al mondo per metterlo (B. Pascal, Pensieri, 77, p. 147) in moto; dopo di che non sa più che farne di Dio. «Cartesio inutile e incerto» (Pensieri, 78) sentenzia dunque Pascal con severità: “inutile” perché un tale Dio della ragione può garantire la conoscenza della natura, ma non soddisfa la sete di senso e di salvezza che l’uomo ha in sé; “incerto” perché ha voluto fondare l’esistenza di Dio sulla presunzione di una ragione che è invece fallibile e fragile.

365

QUESTIONE

Non ragionamento, ma intuizione del cuore e grazia divina

L’“organo” della fede, per Pascal, non è la ragione, ma il «cuore» (coeur). Infatti, di Dio non si può avere dimostrazione razionale, ma solo intuizione: il cuore «sente» la presenza di Dio, mentre (o proprio perché) la ragione non ne ha segni evidenti:

QUESTIONE

Il cuore e non la ragione sente Dio. Ecco che cos’è la fede: Dio sensibile al cuore e non alla (Pensieri, 278, p. 218) ragione. In quanto infinito, Dio sfugge ad ogni possibile “cattura” conoscitiva da parte della ragione dell’uomo, corrotta dal peccato originale e decaduta: Dio non si “ap-prende” con un ragionamento, ma si “intra-vede” con un sentimento. Credere o meno nell’esistenza di Dio è quindi una questione di scelta: la fede consiste in un “affidarsi”, o “fidarsi”, “senza ragione”. Tra fede e ragione non è possibile alcuna collaborazione, e anche quando si cerchi di mostrare la “ragionevolezza” della prima (come lo stesso Pascal tenta di fare con il famoso argomento della “scommessa”, o pari), una tale «prova» acquista valore ed efficacia soltanto se si rivolge a qualcuno a cui Dio abbia già elargito la grazia della fede: La fede è differente dalla dimostrazione; questa è umana, l’altra è un dono di Dio. Justus ex fide vivit1; orbene la prova è spesso lo strumento di questa fede che Dio stesso infonde nel cuore, fides ex auditu2; ma questa fede è nel cuore e fa dire non già scio, bensì credo. (Pensieri, 248, p. 210) Una scelta ragionevole

La posizione di Pascal, però, non può essere ridotta a un fideismo irrazionalistico che disprezzi o neghi la ragione. Lo dimostra il seguente frammento: Se si sottomette tutto alla ragione, la nostra religione non avrà niente di misterioso e di soprannaturale. Se si offendono i principii della ragione, la nostra religione sarà assurda e (Pensieri, 273, p. 217) ridicola. Ma com’è possibile conciliare un uso autonomo della ragione con una fede che non è tenuta a “sottomettersi” ad essa? In che senso il cristianesimo, pur non essendo razionale (le sue verità non sono giustificabili con la ragione) è pur sempre ragionevole? Semplificando, possiamo individuare in Pascal due possibili risposte a questo interrogativo. In primo luogo, la ragione non è completamente estranea all’esperienza di fede, che infatti inizia là dove essa, riconoscendo i propri limiti, rinuncia al proprio potere liberamente, in base a un’esigenza che essa per prima ammette: Niente è così conforme alla ragione come questa rinunzia della ragione.

(Pensieri, 272, p. 217)

Il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano; essa è debole se non arriva a conoscere questo. (Pensieri, 267, p. 216) In secondo luogo, il cristianesimo è “ragionevole” perché svela i tratti paradossali e aporetici di quel «mostro incomprensibile» (Pensieri, 420) che è l’uomo, gettando su di lui la luce di una «verità» che nessuna dimostrazione o sperimentazione può fornire. Con la sua dottrina della creazione (per cui il mondo nasce perfetto) e del peccato originale (per cui il male corrom-

1 «Il giusto vive di fede» (Lettera ai Romani, 1, 17). 2 «La fede deriva dall’ascolto della parola di Dio» (Lettera ai Romani, 10, 17).

366

Dio si conosce con la ragione o si sceglie per fede?

pe questa perfezione), il cristianesimo in qualche modo “spiega” sia la dignità, sia la bassezza dell’uomo, creatura divina decaduta, «re spodestato»:

Il Dio cristiano svela il carattere tragico e paradossale dell’esistenza umana anche offrendosi all’uomo come termine di un’aspirazione mai compiuta, di una «scommessa» incerta, sgomentandolo più con la sua assenza che con la sua presenza. In tal senso, la nozione di “rivelazione” assume in Pascal un significato diverso da quello che le attribuisce Cartesio: se per quest’ultimo essa è la compiuta manifestazione di Dio all’evidenza della ragione (“re-velare” come “togliere il velo”, “scoprire”), per Pascal è l’offrirsi di Dio al rischio della fede nel nascondimento, cioè attraverso segni enigmatici (“re-velare” come “nascondere di nuovo”). Re-velatus, per Pascal, è dunque il Dio che si svela e si nasconde a un tempo, proponendo buone ragioni sia per credere, sia per non credere; il che rende più meritoria la scelta della fede:

QUESTIONE

Se l’uomo non si fosse mai corrotto, godrebbe ancora della sua innocenza, della verità e della felicità con sicurezza; e se fosse stato sempre corrotto, non avrebbe alcuna idea né della verità né della beatitudine. Ma, per quanto infelici [...] noi abbiamo un’idea della felicità e non possiamo giungervi; intuiamo un’immagine della verità e non possediamo che menzogna [...] tanto è evidente che siamo stati in un grado di perfezione da cui sventuratamente siamo caduti! Ed è sorprendente che il mistero più remoto della nostra conoscenza, che è quello della trasmissione del peccato, sia una cosa senza la quale non (Pensieri, 434, p. 271) possiamo avere alcuna conoscenza di noi stessi! Il Dio “ri-velato”

C’è dunque abbastanza luce per coloro che desiderano vedere e c’è abbastanza oscurità per (Pensieri, 430, p. 267) coloro che hanno una disposizione contraria. Non è un caso che Pascal, nei Pensieri, citi per ben quattro volte il versetto del profeta Isaia (45, 15): «Vere tu es Deus absconditus» (Davvero Tu sei un Dio nascosto), sottolineando così il carattere incerto e paradossale di questo Dio che si “ri-vela” all’uomo nascondendoglisi. Nella riflessione di Pascal, la stessa incarnazione è, nel medesimo tempo, il massimo manifestarsi di Dio e il suo celarsi, poiché rappresenta il «confondersi» della divinità sotto le forme dell’umanità. La “divinità incarnata” di Gesù è il non visibile per eccellenza: che Gesù sia Dio non è percepibile, né evidente alla ragione; solo la fede può crederlo.

Hai cambiato opinione? Ora che hai ascoltato le ragioni dei filosofi, decidi se intendi rimanere fedele alla tua idea iniziale o se preferisci cambiarla, e indica in sintesi gli argomenti che ti hanno indotto a questa decisione.

VERSO LE COMPETENZE w Saper argomentare una tesi dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui.

367

QUESTIONE

QUESTIONE

Una questione aperta...

368

Il confronto tra il razionalismo di Cartesio e il fideismo di Pascal assume nella teologia cristiana un significato esemplare. Quello di Cartesio è un Dio che “viene all’idea”, che “ha luogo” nel pensiero. In quanto “discorso su Dio”, infatti, la teo-logia non può che includere il suo “oggetto” nel lógos. Eppure questo stesso oggetto, in quanto trascendente, deve rimanere irriducibile al pensiero e, come sottolinea Pascal, deve interpellare il rischio della fede e non l’evidenza della ragione. Il Deus revelatus (manifesto alla ragione) deve insomma essere anche Deus absconditus (scelto per fede). Tra fede e sapere si instaura così un rapporto aporetico: da una parte bisogna affermare che il contenuto della fede è conforme alla ragione naturale, perché non si possono ammettere due verità (una di fede e l’altra di ragione); dall’altra bisogna riconoscere il carattere soprannaturale della conoscenza di Dio, che solo la grazia divina, e non la ragione, rende possibile. Proprio su questa difficile relazione tra una ragione che esige evidenza e trasparenza, e una fede che esige trascendenza e nascondimento si cimenterà la riflessione su Dio dei secoli successivi. La Chiesa cattolica (come si è accennato in apertura) rimarrà fedele al razionalismo tomistico, denunciando il «dramma della separazione tra fede e ragione» (Fides et ratio, 45). In accordo con il fideismo luterano, la teologia protestante insisterà invece sulla prospettiva antirazionalistica di Pascal (il quale, del resto, era seguace del giansenismo, dottrina teologica elaborata nel XVII secolo da Giansenio, che, con toni simili a quelli di Lutero, affermava che, senza la grazia, l’uomo è incapace di conoscere Dio e di fare il bene). Il più importante teologo luterano del Novecento, Karl Barth (1886-1968), farà propria l’idea pascaliana del «Dio nascosto», che, in quanto tale, si pone come il «totalmente Altro», offrendosi all’uomo come l’impensabile, ovvero l’inaccessibile alla ragione. Sul carattere incerto, e dunque drammatico, della fede farà luce anche Lucien Goldmann (filosofo e sociologo francese di origine romena, 1913-1970), che proprio alla «visione tragica» di Pascal dedicherà un fortunato saggio significativamente intitolato Il dio nascosto. Secondo Goldmann la filosofia di Pascal è dominata da un Dio assente dalla natura, e che non lascia tracce neanche nella ragione umana, corrotta dal peccato: è proprio questo il motivo per cui, in Pascal, l’ordine della natura e della ragione deve lasciar spazio a quello della grazia e della fede.

5 UNITÀ

5

RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME Se il cartesianesimo è legato a una matrice razionalistica e metafisica, i pensatori d’Oltremanica elaborano il concetto di ragione su base empiristica e nominalistica. Il culmine di tale impianto speculativo viene raggiunto con l’empirismo, che nell’esperienza individua l’unica fonte della conoscenza e il solo criterio di verità.

CAPITOLO 1 Hobbes

CAPITOLO 2 Newton

CAPITOLO 3 Locke

CAPITOLO 4 Berkeley

CAPITOLO 5 Hume

Riducendo tutta la realtà a due soli elementi, la materia e il movimento, Hobbes circoscrive in questo dominio il campo d’azione della ragione, la quale non è che un calcolo, reso possibile dal linguaggio. Padre della fisica classica e ispiratore dell’empirismo inglese, Newton propone l’ideale di una scienza puramente descrittiva della natura. Indagando le modalità della conoscenza, Locke conclude che la mente è come un foglio bianco, su cui l’intelletto “scrive” le idee fornite dai sensi. Tutto ciò che esula dall’esperienza, perciò, non è conoscibile. Sulla stessa linea di Locke si pone Berkeley, il quale, partendo dalla tesi secondo cui le cose non esistono al di fuori della mente che le pensa, conclude che la materia non esiste. Con Hume l’empirismo assume una dimensione scettica: egli sostiene infatti che ciò che conosciamo attraverso i sensi è valido solo per noi, pertanto nulla può dirsi conosciuto con certezza e ogni nostra acquisizione rientra nel campo del meramente probabile.

369

CAPITOLO 1

Hobbes

1. Un’alternativa a Cartesio La filosofia di Hobbes rappresenta, nei confronti di quella di Cartesio, l’altra grande alternativa a cui l’elaborazione del concetto di “ragione” mette capo nel XVII secolo. E ciò non soltanto perché essa è legata a presupposti materialistici e nominalistici, mentre la riflessione di Cartesio è legata a una metafisica spiritualistica, ma anche e soprattutto perché Hobbes scorge nella ragione una tecnica per molti aspetti diversa o addirittura opposta a quella individuata da Cartesio. La vita e gli scritti

La finalità politica della filosofia di Hobbes

370

Thomas Hobbes nacque a Westport, in Inghilterra, il 5 aprile 1588 e compì i suoi studi a Oxford. Tuttavia egli dovette la sua formazione soprattutto ai frequenti contatti con l’ambiente culturale europeo, contatti che stabilì durante i viaggi e le permanenze sul continente. Dimorò a lungo a Parigi, dove frequentò Gassendi e gli ambienti libertini francesi, e fu amico di Galilei e di padre Mersenne, attraverso il quale fece giungere a Cartesio le sue Obiezioni alle Meditazioni cartesiane. La sua opera principale è considerata il Leviatano, che fu pubblicato nel 1651 e che, come recita il sottotitolo, ha per temi «la materia, la forma e il potere di uno Stato ecclesiastico e civile». Nella trilogia costituita da Il cittadino (De cive, 1642), Il corpo (De corpore, 1655) e L’uomo (De homine, 1658), Hobbes espose invece ordinatamente il proprio sistema, in tutte le sue parti. Occupò gli ultimi anni della sua vita in polemiche di varia natura, tra cui quella con il vescovo Bramhall, contro il quale difese la corporeità di Dio. Morì a Londra il 4 dicembre 1679, a 91 anni. La filosofia di Hobbes ha come scopo quello di porre i fondamenti di una comunità ordinata e pacifica, che egli crede possibile soltanto sulla base di uno Stato assoluto. Una filosofia metafisica, come quella di Aristotele e degli scolastici, sarebbe, secondo Hobbes, incapace di fornire questo fondamento. Il filosofo inglese intende infatti costruire una filosofia puramente razionale, “umanamente” razionale, che escluda ogni rivelazione soprannaturale così come l’autorità dei libri e degli autori antichi, e che trovi ispirazione esclusivamente nel mondo della natura.

Capitolo 1 • Hobbes

2. Ragione e calcolo Anche gli animali, secondo Hobbes, possiedono la ragione, per lo meno in un certo grado, perché sanno appagare i loro bisogni e conservare la loro vita imparando dall’esperienza passata e prevedendo il futuro, sia pure in modo molto limitato. Ma, a differenza degli animali, l’uomo può prevedere e progettare a lunga scadenza la propria condotta e i mezzi per raggiungere i propri fini. E può farlo perché possiede il linguaggio, che, per Hobbes, consiste nell’uso di segni arbitrari o convenzionali. I gridi e le voci degli animali (come dell’uomo quando non usi le parole) sono anch’essi segni, ma non costituiscono linguaggio: questo si ha solo quando si usano le parole, cioè segni convenzionali che significano i concetti delle cose che si pensano. La ragione dell’uomo è condizionata da questi segni artificiali, perché solo le parole consentono quelle generalizzazioni che guidano il pensiero. Ad esempio, senza la parola “triangolo”, di fronte a ogni triangolo particolare ci si dovrebbe rendere conto delle sue proprietà; ma una volta inventata questa parola, si sa che ogni triangolo, comunque sia disegnato o formato, possiede le stesse proprietà: si ha cioè una generalizzazione che consente di abbracciare con un solo colpo d’occhio un numero indefinito di casi simili. Per questa sua funzione, il linguaggio rende possibile il ragionamento, che è sempre calcolo, cioè addizione o sottrazione di concetti, come mostrano i seguenti esempi: uomo = corpo + animato + razionale; animale = corpo + animato – razionale. Da questo punto di vista la forma generale del ragionamento è il sillogismo ipotetico, che ha la forma seguente: «Se qualcosa è uomo, è anche animale. Se qualcosa è animale, è anche corpo. Se qualcosa è uomo, è anche corpo». Qui l’«addizione», come la chiama Hobbes, dei termini “uomo” e “animale” e dei termini “animale” e “corpo” porta, come conseguenza, all’addizione di “uomo” e “corpo”. Il sillogismo ipotetico mette in luce la causa di un certo fatto: quello appena riportato, ad esempio, serve a dimostrare che l’uomo è corpo perché è animale, cioè che l’essere animale è per l’uomo la causa del suo essere corpo. E poiché la scienza è fatta di dimostrazioni di questo genere, ogni discorso scientifico non fa che mostrare la connessione per la quale da una determinata causa si genera un determinato effetto (v. scire per causas). Questo accade specificamente nelle scienze che hanno per oggetto cose (di qualsiasi natura) prodotte dall’uomo, dal momento che, proprio in quanto le produce, l’uomo può conoscerne la causa. Perciò l’autentica conoscenza scientifica, cioè quella dimostrativa, che va dalla causa all’effetto, è possibile solo per quegli oggetti che sono creati dall’uomo. E Hobbes ritiene che solo le scienze matematiche e le scienze morali, cioè la politica e l’etica, abbiano oggetti di questa natura. Infatti è l’uomo che costruisce le figure geometriche tracciandone a suo arbitrio le linee, così come è l’uomo che crea le cause della giustizia e dell’ingiustizia stabilendo le leggi e le convenzioni che sono alla base dell’etica e della politica: perciò nella matematica, nell’etica e nella politica si possono avere dimostrazioni necessarie, le quali costituiscono vere e proprie scienze. Le cose naturali sono invece prodotte da Dio e non dagli uomini: perciò gli uomini non ne conoscono le cause, cioè il modo in cui esse sono generate o prodotte. Per questo tipo di oggetti, una dimostrazione necessaria, che vada dalla causa all’effetto, non è quindi possibile.

L’importanza antropologica del linguaggio

Il ragionamento come calcolo

Testo antologico Il ragionamento come calcolo (Il corpo)

Le dimostrazioni a priori

Le dimostrazioni a posteriori

371

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Si può risalire soltanto dagli effetti, cioè dai fenomeni che vediamo in natura, alle loro cause supposte, ma poiché uno stesso effetto può essere prodotto da cause diverse, si raggiungono conclusioni probabili, ma non necessariamente vere.

Testo antologico Dimostrazioni a priori e a posteriori (L’uomo)

Hobbes e Vico

È questo un punto di vista che, già accennato da Cusano, sarà accettato da Vico (1668-1744: v. vol. 2B, unità 6, cap. 1), il quale lo porrà a fondamento della propria filosofia. Vico lo esprimerà dicendo che il vero e il fatto significano la stessa cosa: si può conoscere con verità solo ciò che si fa e perciò, mentre la scienza delle cose naturali è riservata a Dio che le ha create, e di esse l’uomo può avere solo una scienza approssimativa o probabile, la scienza delle cose fatte dall’uomo, cioè degli enti matematici e degli eventi storici, è il patrimonio proprio dell’uomo stesso. > dimostrazioni a priori, di tipo deduttivo (dalle cause agli effetti)

Il sapere consiste nel conoscere le cause generatrici dei fenomeni e si articola in

1580

Eventi storici

Vita di Hobbes

Filosofia e Scienza

Arte e Letteratura

> dimostrazioni a posteriori, di tipo induttivo (dagli effetti alle cause)

1590

1587 Maria Stuarda decapitata

1600

pervengono a conclusioni probabili e riguardano oggetti non prodotti dall’uomo (scienze naturali)

1610 1603 Muore Elisabetta I d’Inghilterra

1598 Pace di Vervins tra Francia e Spagna; editto di Nantes: fine delle Guerre di religione

1620

1630

1621 Muore Bellarmino 1623 Maffeo Barberini è papa Urbano VIII 1588 L’Inghilterra respinge 1628 l’attacco dell’Invincibile Il Parlamento inglese impone Armata spagnola a Carlo I la Petizione dei Diritti 1588 1596 1608 1628 Thomas Sempre a Westport, A Oxford consegue il baccellierato Traduce la Storia passa a una scuola alle Arti; diventa precettore Hobbes nasce del Peloponneso privata e si appassiona di William Cavendish, a Westport di Tucidide allo studio del greco futuro secondo conte di Devonshire 1629 Viaggia in Francia 1592 1603 1610-1613 e a Ginevra; Inizia a frequentare Si iscrive Viaggia in Francia e in Italia, studia gli Elementi la scuola della chiesa alla Magdalen dove entra in contatto di Euclide di Westport Hall di Oxford con circoli galileiani 1600 A Roma, Giordano Bruno è arso vivo

1584 Bruno: La cena delle ceneri

1597 Bacone: Saggi di morale e politica 1594-1596 Shakespeare: Romeo e Giulietta

1596-1598 Caravaggio: Cena in Emmaus

372

pervengono a conclusioni necessarie e riguardano oggetti prodotti dall’uomo (matematica, etica, politica)

1618 Inizia la Guerra dei trent’anni

1616 Il De revolutionibus di Copernico è messo all’indice 1610 1620 Galilei: Bacone: Sidereus nuncius Novum Organum

1628 Harvey scopre la circolazione sanguigna 1625 Grozio: Il diritto della guerra e della pace

1605 1611-1612 Cervantes: Reni: Strage degli innocenti Don Chisciotte della Mancia (primo libro) 1622 Bernini: Apollo e Dafne

Capitolo 1 • Hobbes

3. Il materialismo Il materialismo meccanicistico La ragione e la scienza possono rivolgersi con successo solo a oggetti di cui si può conoscere (a priori o a posteriori) la causa produttrice, quindi a oggetti generabili. Quando si tratta di oggetti non generabili, come Dio, gli angeli e in generale tutte le cose incorporee, la ragione non ha modo di esercitarsi e la scienza non è possibile. Ora, poiché i soli oggetti generabili, che in quanto tali hanno una causa conoscibile della loro genesi, sono i corpi, ovvero gli oggetti estesi o materiali, secondo Hobbes questi sono i soli oggetti possibili della ragione. In questa tesi consiste il materialismo di Hobbes. Egli riproduce su questo punto la dottrina degli stoici, i quali affermavano che solo il corpo esiste, perché solo il corpo può agire o subire un’azione. La parola “incorporeo”, afferma Hobbes, è per l’uomo priva di significato: anche quando è riferita a Dio, esprime non una sua caratteristica autentica, ma solo la pia intenzione di rendergli omaggio con un attributo onorifico che lo distingua da ciò che c’è di più grossolano nella natura. Nella polemica con il vescovo Bramhall, Hobbes afferma che dire che Dio è incorporeo equivale a sostenere che non esiste affatto.

1630

1640 1633 Condanna e abiura di Galilei 1642 In Inghilterra inizia la guerra civile

1650

1660

1648 Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni 1658 Morte di Cromwell 1653 1649 In Inghilterra Carlo I Stuart Cromwell decapitato al potere

1640-1641 Elementi di legge naturale e politica; si trasferisce a Parigi; Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio 1634-1636 1642 Nuovo viaggio De cive in Europa; contatti con Galilei e con i seguaci di padre Mersenne 1632 1641 Galilei: Dialogo sopra Descartes: i due massimi sistemi Meditazioni metafisiche del mondo (subito 1644 messo all’indice) Torricelli 1637 dimostra Descartes: l’esistenza Discorso del vuoto sul metodo 1635 1642 Corneille: Rembrandt: Ronda di notte Medea

Solo i corpi sono oggetto di scienza

Tutto è corpo…

1670

1680

1660 1672 In Inghilterra restaurata Terza guerra la monarchia con Carlo II Stuart anglo-olandese 1679 In Inghilterra promulgato l’Habeas Corpus

1665 Seconda guerra anglo-olandese

1651 1666 1675 Leviatano; ritorna Dialogo tra un filosofo Traduce l’Iliade e l’Odissea a Londra e uno studioso 1658 1678 del diritto comune De homine 1654 Decameron d’Inghilterra Con il trattato Della libertà physiologicum e la necessità suscita le polemiche 1670 1679 del vescovo Bramhall Behemot, o il Lungo Parlamento Ad Hardwicke (Londra), 1655 in casa dei conti di De corpore Devonshire, Hobbes muore 1656-1657 Pascal: Lettere provinciali

1669 1677 Pascal: Spinoza: Pensieri (postumi) Etica (postuma) 1670 1662 Spinoza: In Inghilterra nasce Trattato teologico-politico l’accademia scientifica Royal Society 1670 ca. Giordano: Gesù tra i dottori

1677 Racine: Fedra

1673 Molière: Il malato immaginario

373

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

… e movimento

Anche l’anima è corpo

Le partizioni della filosofia

Da questo punto di vista, è ovvio che neppure lo spirito umano è incorporeo. La sensazione non è che l’immagine apparente dell’oggetto corporeo che la produce nei nostri organi di senso. Ma sia l’oggetto, sia la sensazione non sono altro che movimenti: movimenti sono le qualità sensibili che sono nell’oggetto, e movimenti sono le sensazioni che tali qualità producono nell’uomo. Movimento è anche l’immaginazione, che conserva le immagini dei sensi ed è quindi una specie di “inerzia” dei movimenti che si originano dall’esterno con la sensazione. La stessa anima pensante non è dunque che corpo. Come abbiamo visto a proposito di Cartesio (v. p. 182), per Hobbes è illegittimo il passaggio dall’affermazione «io sono una cosa che pensa», che è indubitabile, all’affermazione «io sono una sostanza pensante». Non è necessario, infatti, che la cosa che pensa sia pensiero: anzi, per Hobbes essa è il corpo stesso. In altri termini, l’anima umana è materiale; e non potrebbe non esserlo, dato che i suoi atti (idee, sentimenti ecc.) sono movimenti, prodotti dai movimenti dei corpi esterni. Il corpo è dunque l’unica realtà, cioè l’unica sostanza che esista realmente in se stessa; e il movimento è l’unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali, giacché a esso si riducono anche i concetti di causa, di forza e di azione. Poiché solo i corpi esistono e ci possono essere corpi naturali e corpi artificiali, ci saranno una filosofia naturale, che ha per oggetto i corpi naturali, e una filosofia civile, che ha per oggetto i corpi artificiali, cioè le società umane. La filosofia civile, a sua volta, si dividerà nell’etica, che tratta delle emozioni, dei bisogni e dei costumi dell’uomo, e nella politica, che tratta dei doveri civili.

La filosofia (scienza dei corpi) si divide in

> filosofia naturale che studia i corpi naturali > filosofia civile che studia i corpi artificiali e si divide in

> etica > politica

La filosofia prima

Esiste, oltre a queste due parti della filosofia, una filosofia prima, che ha lo scopo di chiarire gli attributi fondamentali di tutti i corpi, come lo spazio, il tempo, nonché i concetti di causa, di effetto, di potenza e atto, di identità e diversità, di quantità ecc., dei quali comunemente ci serviamo per comprendere la genesi dei corpi.

Il materialismo etico Bene e male sono valutazioni soggettive

374

Se le valutazioni teoriche (vero e falso) sono puramente convenzionali, le valutazioni morali (bene e male) sono puramente soggettive, cioè relative all’individuo singolo e alle situazioni in cui l’individuo viene a trovarsi. Non c’è nulla che sia assolutamente buono o cattivo e non c’è una norma che valga a distinguere assolutamente il bene dal male, giacché queste determinazioni non sono inerenti alla natura delle cose, ma dipendono dagli individui, dove non

Capitolo 1 • Hobbes

esiste lo Stato, o, dove c’è lo Stato, dalla persona che lo rappresenta, o da un arbitro o giudice che gli individui in disaccordo tra loro scelgono affinché la sua sentenza serva loro di legge. In generale, si chiama bene ciò che si desidera e male ciò che si odia; e poiché il raggiungimento di ciò che si desidera procura piacere, e il piacere aumenta e rafforza il movimento della vita, così le cose che danno piacere si chiamano “giovevoli” e “belle”. Quando nella mente dell’uomo si alternano desideri diversi e opposti, speranze e timori, e si presentano le conseguenze buone e cattive di un’azione possibile, si è in uno stato che si chiama di deliberazione. Esso termina con l’atto della volontà, che decide di agire o di non agire. La volontà conclude dunque temporaneamente i dubbi, le oscillazioni, le incertezze dell’uomo; ma questi rinascono subito, giacché l’uomo non può raggiungere uno stato definitivo di tranquillità e di quiete. Perciò non si può parlare di un sommo bene e di un fine ultimo nella vita dell’uomo. Per poter essere definito “ultimo”, un bene dovrebbe essere tale che, dopo di esso, non si dovesse desiderare nient’altro. Ma poiché il desiderio si accompagna necessariamente alla sensibilità, l’uomo che avesse raggiunto il fine ultimo non solo non desidererebbe più nulla, ma neppure sentirebbe e quindi non vivrebbe affatto:

Deliberazione e volontà

Non esiste un fine ultimo

La vita è un movimento incessante che, quando non può continuare in linea retta, si trasforma in moto circolare. (L’uomo, 11)

Nella vita umana così intesa non c’è posto per la libertà. Hobbes definisce la libertà come «l’assenza di tutti gli impedimenti all’azione che non sono contenuti nella natura e nell’intrinseca qualità dell’agente». Questa definizione riduce la libertà alla libertà di azione, ovvero a una condizione in cui la volontà non sia impedita nelle sue manifestazioni esteriori, ma nega la libertà del volere. Quando un uomo ha appetito o volontà di qualche cosa di cui nell’istante anteriore non aveva né appetito né volontà, la causa della sua volontà non è la volontà stessa, ma qualcosa di diverso, che non dipende da lui. La stessa volontà è dunque causata necessariamente da altre cose: in quanto hanno cause necessarie, le azioni umane sono necessitate. Hobbes, che nella polemica con il vescovo Bramhall chiarisce e difende il suo determinismo, insiste sul fatto che la volontà è intrinsecamente necessitata dalle cause e dai motivi che le sono inerenti, motivi che in ultima analisi sono dovuti alla totalità della natura, giacché tutti gli atti dello spirito umano (comprese la deliberazione e la volontà) sono movimenti connessi con i movimenti degli oggetti esterni: «Difficilmente v’è qualche azione che, per quanto sembri casuale, non sia prodotta da tutto ciò che esiste in natura».

La volontà delibera di agire valutando le conseguenze dell’azione 

> bene: è ciò che si desidera

> male: è ciò che si odia

La negazione del libero arbitrio e il determinismo

Esercizi interattivi Il materialismo di Hobbes

La libertà si riduce all’assenza di impedimenti all’azione Sintesi audio Hobbes; Razionalismo e materialismo

375

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

GLOSSARIO e RIEPILOGO I presupposti materialistici Ragione p. 371 > La ragione umana, per Hobbes, è la capacità di prevedere e di progettare a lunga scadenza la propria condotta e i mezzi per raggiungere i propri fini. Tale capacità presuppone il linguaggio.

Linguaggio p. 371 > Il linguaggio, inteso come espressione verbale dei “concetti delle cose che si pensano”, consiste, per Hobbes, in un insieme di segni arbitrari o convenzionali con i quali cataloghiamo le nostre esperienze, allo scopo di conservarle meglio nella memoria e di poterle partecipare ad altri: «Il nome è una voce umana usata ad arbitrio dall’uomo, perché sia una nota con la quale si possa suscitare nella mente un pensiero simile ad un pensiero passato e che, disposta nel discorso, e profferita ad altri, sia per essi segno di quale pensiero si sia prima avuto o non avuto in colui stesso che parla» (Il corpo, I, II, 4). Il linguaggio sta alla base del ragionamento.

Ragionamento p. 371 > Per “ragionamento” (ratiocinatio), scrive Hobbes, «intendo il calcolo. Calcolare è cogliere la somma di più cose l’una aggiunta all’altra, o conoscere il resto sottratta una cosa all’altra»; «Ragionare dunque è la stessa cosa che addizionare o sottrarre concetti» (Il corpo, I, II, 2).

Scire per causas p. 371 > Hobbes ritiene che il sapere consista nel conoscere le cause generatrici di una determinata realtà, poiché «dove non c’è generazione non c’è neppure filosofia». Tuttavia esistono due modi di filosofare. Il primo consiste in dimostrazioni a priori, che vanno dalle cause agli effetti. Il secondo in dimostrazioni a posteriori, che risalgono dagli effetti o dai fenomeni alle cause che possono averli generati: «La filosofia è la conoscenza acquisita attraverso il retto ragionamento degli effetti o fenomeni sulla base della concezione delle loro cause o generazioni, e ancora delle generazioni che possono esserci sulla base della conoscenza degli effetti» (Il corpo, I, II, 2). Il primo tipo di filosofia perviene a conclusioni necessarie, poiché riguarda oggetti che sono stati creati dall’uomo e dei quali egli può quindi conoscere le cause generatrici (sono tali gli oggetti del-

376

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

la matematica, dell’etica o della politica). Il secondo tipo di filosofia perviene a conclusioni probabili, poiché riguarda oggetti che non sono stati prodotti dall’uomo e dei quali egli non può quindi conoscere le cause generatrici (ad es. i corpi fisici). N.B. Secondo Hobbes dall’ambito della filosofia esulano sia Dio sia le cose incorporee, in quanto sono realtà di cui non è possibile addurre (né a priori né a posteriori) la causa generatrice.

Materialismo p. 373 > Secondo il materialismo o il “corporeismo” di Hobbes esistono o sono conoscibili unicamente i corpi, poiché solo essi possono agire o subire un’azione qualsiasi. In concreto, tale materialismo si risolve in una forma di meccanicismo che spiega tutto in termini di materia e movimento, all’insegna del più rigido determinismo: «se causa necessaria si definisce quella, supposta la quale, non può non seguire un effetto, si ricaverà anche che qualunque effetto sia stato prodotto, è stato prodotto da una causa necessaria» (Il corpo, I, IX, 5). Bene e male p. 375 > Bene e male, secondo Hobbes, non sono qualità oggettive inerenti alle cose stesse, ma valutazioni soggettive che dipendono dai nostri appetiti: «ogni uomo dal canto suo chiama ciò che gli piace ed è per lui dilettevole bene, e male ciò che gli dispiace» (Elementi di legge naturale e politica, I, VII, 3). N.B. Questo relativismo etico, che sarebbe letale per ogni forma di coesistenza umana, trova un argine di fatto nello Stato (v. “Stato o società civile”, p. 387), il quale, con le sue leggi, stabilisce ciò che è bene o male per tutti: «solo nella vita civile si trova una misura comune della virtù e del vizio; e questa misura, per la stessa ragione, non può essere costituita da altro che dalle leggi di ciascuna comunità» (L’uomo, XIII, 9). Libertà p. 375 > La libertà non consiste per Hobbes nel libero arbitrio (cioè nell’assenza di costrizioni interiori), ma solo nella libertà di azione (cioè nell’assenza di costrizioni esteriori). In altri termini, nell’ottica deterministica di Hobbes l’unica forma di libertà concessa all’uomo è la capacità di realizzare senza alcun impedimento (esteriore) i propri desideri (interiori).

Capitolo 1 • Hobbes

4. La politica Hobbes ha voluto costruire la sua politica sul fondamento di principi necessari e ha concepito questa scienza in analogia con la geometria, ossia come fondata su pochi principi, dai quali l’intera costruzione viene necessariamente dedotta (v. geometrismo politico). La necessità della scienza politica è per Hobbes un riflesso della necessità che agisce nelle volontà umane: pertanto, se si mettono in luce i principi necessari dell’azione umana, partendo da essi si potrà costruire una politica more geometrico. ➔ T1 p. 392 Sotto questo aspetto (ma, come vedremo, anche più in generale), la visione politica hobbesiana – come ha messo in luce un importante filone critico – si confronta costantemente, anche se spesso in forma implicita, con le posizioni del giusnaturalismo (v. unità 1, cap. 4, p. 58), da cui si distanzia per molti e fondamentali aspetti, ma da cui trae anche alcuni presupposti: ■■■ il primo è precisamente la convinzione che la politica possa essere trattata come una scienza. Era stato Grozio, infatti, il primo ad affermare, nei Prolegomeni (par. 60) al De iure belli ac pacis (Il diritto della guerra e della pace), che intendeva comportarsi come i matematici, i quali nell’esaminare le figure fanno astrazione dai corpi reali; ■■■ il secondo presupposto è la tendenza a prescindere dalla storia. Ed è proprio Hobbes a liquidare, più di ogni altro, la tradizione storica del diritto di matrice aristotelica (cioè quella che studiava le tradizioni giuridiche passate per individuare i diritti comuni e prevalenti) e ad abbracciare, sotto il profilo metodologico, un «procedimento razionalizzante» (Norberto Bobbio), che, prescindendo dal divenire storico concreto, fa leva su un modello ideale del tutto teorico.

Il geometrismo politico

I presupposti giusnaturalistici

La condizione presociale e il diritto di natura I «postulati certissimi intorno alla natura umana», dai quali discende l’intera scienza politica, secondo Hobbes sono due: ■■■ la bramosia naturale per la quale ognuno pretende di godere da solo dei beni comuni; ■■■ la ragione naturale per la quale ognuno rifugge dalla morte violenta come dal peggiore dei mali naturali. ➔ T1 p. 392 Il primo di questi postulati esclude che l’uomo sia per natura un “animale politico”. Hobbes non nega, a questo proposito, che gli uomini abbiano bisogno gli uni degli altri («I bambini hanno bisogno dell’aiuto altrui per vivere, gli adulti per vivere bene», egli dice), ma nega che gli uomini abbiano per natura un istinto che li porti alla benevolenza e alla concordia (v. egoismo naturale). L’obiettivo polemico di questa critica hobbesiana della vecchia definizione dell’uomo come animale politico o sociale è, probabilmente, l’interpretazione che di essa aveva dato Grozio, secondo la quale, anche se gli uomini non traessero alcuna utilità dal vivere in comune, dovrebbero ugualmente accettarlo per un’esigenza della loro ragione naturale. In

I postulati certissimi della natura umana

L’uomo è spinto verso l’altro uomo dall’interesse e dal timore

377

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

altri termini, ciò che Hobbes nega è l’esistenza di un amore naturale dell’uomo verso il suo simile: Se gli uomini si accordano per commerciare, ciascuno si interessa non del socio, ma del proprio avere. Se per dovere d’ufficio nasce un’amicizia formale, è più timore reciproco che amore, sicché da essa nasce talvolta una fazione, mai la benevolenza. Se si associano per diletto o a scopo di divertimento, ciascuno si compiace soprattutto di ciò che eccita il riso per sentirsi superiore (com’è nella natura del ridicolo) nel confronto con la bruttezza o l’infermità altrui. (Il cittadino, I, 2)

Insomma, «ogni associazione spontanea nasce o dal bisogno reciproco o dall’ambizione, mai dall’amore o dalla benevolenza verso gli altri» (ibidem). Lo stato di natura come guerra di tutti contro tutti

Lo stato di natura come ipotesi teorica

QUESTIONE L’uomo, per natura, è cattivo o buono?, vol. 2B Il diritto naturale come assenza di legge e come istinto insopprimibile

Se, dunque, l’origine delle più grandi e durature società non risiede nella naturale benevolenza dell’uomo verso i propri simili, ma piuttosto nella ricerca del proprio interesse e nel «timore reciproco», occorre indagare le cause di un tale timore. Esse sono: ■■■ in primo luogo, l’uguaglianza naturale tra tutti gli uomini, che Hobbes intende come comune vulnerabilità: poiché la natura ha equamente distribuito intelligenza e forza, allora chiunque può dare la morte a un altro uomo e quindi tutti vivono nella paura; ■■■ in secondo luogo, la volontà naturale (che, come abbiamo visto, accomuna ogni uomo) di godere dei beni messi a disposizione dalla natura: unita all’insufficienza di tali beni per tutti e all’antagonismo che deriva dal contrasto delle opinioni, essa porta gli uomini a danneggiarsi a vicenda. E proprio questa naturale volontà di nuocersi a vicenda fa sì che lo stato di natura sia un incessante stato di guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). ➔ T2 p. 394 È bene osservare che lo stato di natura è per Hobbes una pura ipotesi razionale. Egli, infatti, a differenza di quanto farà più tardi Rousseau (v. vol. 2B, unità 6, cap. 5), non crede che in un determinato momento storico l’umanità sia venuta a trovarsi in questa condizione, poiché, se così fosse, il bellum omnium contra omnes avrebbe fatalmente portato, protraendosi nel tempo, all’estinzione della nostra specie. Ciò che per Hobbes è presumibilmente esistito – e che tuttora esiste – è invece uno stato di natura parziale. A conferma di questa idea, Hobbes ritiene che dalla creazione in poi il genere umano non sia mai stato del tutto privo di un’organizzazione civile, ovvero di un potere superiore che regolasse i rapporti tra gli individui. Quest’ultima circostanza può infatti verificarsi solo in pochi e ben precisi casi: ■■■ durante le guerre civili, perché vi si instaura una condizione di totale anarchia; ■■■ in talune società primitive, come quella dei barbari dell’antichità o – secondo la concezione di allora – degli indigeni delle Americhe; ■■■ tra gli Stati sovrani, che si trovano tra loro in un rapporto del tutto analogo a quello vigente tra gli individui nello stato di natura (si ricordi che non esisteva, al tempo di Hobbes, alcun diritto internazionale). Da queste premesse consegue che nello stato naturale nulla possa essere detto “giusto” o “ingiusto”: Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e ingiustizia non vi hanno luogo. (Leviatano, I, XIII)

378

Capitolo 1 • Hobbes

Infatti le nozioni della giustizia e dell’ingiustizia nascono solo dove c’è una legge, e la legge nasce dove c’è un potere comune: «Laddove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è legge non vi è ingiustizia» (Leviatano, I, XIII). Questo significa, detto in altri termini, che nello stato naturale vige il diritto di tutti su tutto (ius omnium in omnia), compresa la vita degli altri; e in virtù di tale diritto ogni uomo risulta necessariamente un “lupo” per ogni altro uomo (homo homini lupus).➔ T2 p. 394 Un siffatto “diritto” non ha nulla a che fare con la «legge di natura», la quale per Hobbes (come vedremo meglio nel prossimo paragrafo) consiste piuttosto nell’eliminazione, o almeno nella radicale limitazione, di esso. È piuttosto un istinto naturale insopprimibile, giacché: ciascuno è portato a desiderare ciò che per lui è bene e a fuggire ciò che per lui è male e soprattutto a fuggire il maggiore di tutti i mali naturali che è la morte; e ciò con una necessità di natura non minore di quella con cui la pietra è portata verso il basso. (Il cittadino, I, 7)

Questo istinto naturale non è, date le circostanze, contrario alla ragione, perché non è contrario alla ragione far di tutto per sopravvivere. Infatti il diritto in generale è appunto «la libertà che ciascuno ha di usare delle facoltà naturali secondo la retta ragione» (ibidem): pertanto l’istinto che porta ciascun uomo a fare tutto ciò che è in suo potere (anche uccidere un altro uomo) per difendersi e per prevalere sugli altri può essere considerato un diritto. E questo vale finché l’uomo, obbedendo alla stessa ragione, non abbia trovato un altro strumento più efficace o più comodo per la propria sopravvivenza. ➔ T3 p. 396 Con questa concezione del diritto naturale, Hobbes si contrappone al punto di vista giusnaturalistico. Infatti, una delle asserzioni basilari del giusnaturalismo era l’affermazione dell’esistenza di un diritto naturale pre-statuale, inteso però come insieme di diritti inviolabili e inalienabili caratterizzanti ogni essere umano fin dalla sua nascita. Tra tali diritti – a cui nella prospettiva giusnaturalistica nessuno può rinunciare, nemmeno volontariamente – si annovera innanzitutto la vita, ma anche l’autonomia, alcune forme di libertà e (per alcuni pensatori, tra cui Locke: v. cap. 3) la proprietà, vista non come semplice “possesso”, ma come una forma imprescindibile dell’esistenza dell’uomo, che non può e non deve rinunciare a quanto ha di “proprio” (i suoi beni, ma anche il suo corpo).

Il diritto naturale per Hobbes e per i giusnaturalisti

TAVOLA ROTONDA La fondazione del potere politico, vol. 2B

ConCetti

Il diritto naturale

a Confronto

in Grozio

in Hobbes

è un insieme di principi universali e immutabili che l’uomo possiede fin dalla nascita e che definiscono la sua naturale tendenza alla socievolezza

è il diritto di ognuno su tutto (ius omnium in omnia) che caratterizza lo stato di natura, in cui l’uomo è spinto ad agire dal proprio naturale egoismo

deriva dalla natura razionale dell’uomo e avrebbe valore anche se Dio non ci fosse

è l’istinto naturale dell’uomo

fonda e giustifica il patto tra sovrano e sudditi che sta alla base dello Stato

viene superato nel patto tra sovrano e sudditi, che è lo strumento più efficace per garantire la sopravvivenza e l’incolumità

Schema interattivo

379

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La ragione calcolatrice e la legge naturale L’abbrutimento dell’uomo nello stato di natura

I “suggerimenti” della ragione

Come si è detto, la condizione di guerra universale che caratterizza la vita degli uomini nello stato di natura non può realizzarsi e stabilizzarsi in modo totale, perché porterebbe all’annientamento del genere umano. Ma di un tale stato si possono trovare esempi parziali in alcune società primitive o “selvagge”, così come si possono trovare conferme del timore naturale che l’uomo prova nei confronti dell’altro uomo in certi comportamenti abituali, o addirittura quotidiani: dall’abitudine di armarsi quando si viaggia in regioni poco note a quella di chiudere a chiave la porta di casa. Questi semplici esempi aiutano a comprendere come, indipendentemente dal reale pericolo che si corre, la semplice minaccia di uno stato di guerra e di conflitto impedisca ogni attività industriale o commerciale, l’agricoltura, la navigazione, la costruzione di case e, in generale, l’arte e la scienza, ponendo l’uomo al livello di un animale solitario abbrutito dal timore e incapace di disporre del proprio tempo. Se l’uomo fosse privo di ragione, lo stato di natura si trasformerebbe in una condizione di guerra totale e insormontabile, e l’abbrutimento o la distruzione della specie umana sarebbero il principio e la fine della sua storia. Ma la ragione umana è (come abbiamo visto: v. p. 371) la capacità di prevedere e di provvedere, mediante un calcolo accorto, ai bisogni e alle esigenze dell’uomo: essa indica dunque una via d’uscita da una tale precaria condizione, proibendo a ciascun individuo di fare ciò che provoca la distruzione della vita e di omettere ciò che serve a conservarla meglio. Questo principio, suggerito all’uomo dalla ragione, è il fondamento di tutte le leggi naturali. ➔ T2 p. 394 Una legge di natura è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla. (Leviatano, I, XIV)

Come si vede, la legge naturale di cui parla Hobbes non ha niente a che fare con l’ordine divino e universale nei cui termini era stata concepita dagli stoici, dai Romani e da tutta la tradizione medievale. Per Hobbes, come per Grozio e per tutto il giusnaturalismo moderno, la legge naturale è un prodotto della ragione umana. Ma se per Grozio la ragione umana è un’attività speculativa capace di determinare in modo assolutamente autonomo (cioè indipendentemente da ogni condizione o circostanza e dalla stessa natura umana) ciò che è bene o male in sé, per Hobbes è invece un’attività finita e, quindi, condizionata dal contesto in cui opera, una tecnica calcolatrice capace di prevedere le situazioni future e di fare in vista di esse le scelte più convenienti. La naturalità del diritto, quindi, per Hobbes (come per tutta la tradizione giusnaturalistica) consiste nella sua “razionalità”, ma il significato di questa razionalità è strettamente corECHI DEL relato a quello della “ragione”, che Hobbes (a differenza dei giusnaturalisti) intende come PENSIERO facoltà finita di fare previsioni e scelte opportune, e non di fissare valori o principi asLegge e giustizia, p. 390 soluti. La nozione hobbesiana di legge naturale

Le tre leggi naturali fondamentali

380

Pertanto le norme fondamentali della legge naturale sono dirette, secondo Hobbes, a sottrarre l’uomo al gioco spontaneo e autodistruttivo degli istinti e ad imporgli una disciplina

Capitolo 1 • Hobbes

che gli procuri una sicurezza almeno relativa e la possibilità di dedicarsi alle attività che rendono agevole la sua vita. La prima di queste regole “tecniche” per l’autoconservazione è: Cercare e conseguire la pace in quanto si ha la speranza di ottenerla; e, quando non si può ottenerla, cercare e usare tutti gli ausili e i vantaggi della guerra. (Leviatano, I, XIV; Il cittadino, II, 2)

Da questa legge fondamentale (pax est quaerenda) derivano tutte le altre, e in particolare il principio seguente: l’uomo spontaneamente, quando anche gli altri lo facciano e per quanto lo giudicherà necessario alla pace e alla sua difesa, deve rinunciare al suo diritto su tutto e accontentarsi di avere tanta libertà rispetto agli altri quanta egli stesso ne riconosce agli altri rispetto a sé. (Leviatano, I, XIV; Il cittadino, II, 3)

In fondo, nota Hobbes, questa seconda legge (ius in omnia est retinendum) non è che lo stesso precetto evangelico: “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Essa implica la rinuncia, da parte di ogni uomo, al suo diritto illimitato su tutto, perché solo a condizione di una tale rinuncia è possibile uscire dallo stato di natura, cioè dalla guerra continua di tutti contro tutti. La seconda norma fondamentale ne implica una terza, ugualmente imprescindibile: «bisogna stare ai patti, cioè osservare la parola data» (pacta servanda sunt). Questo perché si può scegliere di rinunciare al proprio diritto su tutto solo se anche tutti gli altri uomini si impegnano a fare altrettanto mediante un patto. Ma, ovviamente, i patti per essere tali devono essere mantenuti. Da queste tre leggi seguono tutte le altre, che Hobbes analizza in una minuziosa casistica. Anche per quel che riguarda la concezione della legge naturale Hobbes si differenzia in modo notevole dai giusnaturalisti. Questi ultimi la intendono infatti come una sorta di patrimonio di cui è dotato ogni essere umano e che, pertanto, gli appartiene sempre e comunque. Invece in Hobbes l’espressione «leggi di natura» indica i mezzi che, alla luce della considerazione razionale, si sono mostrati maggiormente idonei a garantire la sopravvivenza. Mezzi, dunque, che traggono il loro valore semplicemente dalla loro efficacia. Essi non sono valori assoluti, non sono “biologicamente” connaturati all’individuo, al punto che, se l’indagine razionale ne trovasse di più efficaci e di più atti allo scopo primario di garantire la sopravvivenza, potrebbero essere tranquillamente sostituiti. C’è dunque un fondamento naturale dell’insorgenza dello Stato (che nasce per garantire l’efficacia della legge naturale), ma i modi della sua realizzazione sono artificiali (poiché le tre norme di base della legge naturale sono esse stesse semplici convenzioni, assunte come regole soltanto in virtù della loro efficacia). Per questo motivo si è parlato, a proposito di Hobbes, di fondazione giusnaturalistica del giuspositivismo, intendendo, con questa formula, il fatto che in Hobbes il diritto naturale non è fonte di contenuti normativi (come accade invece nel giusnaturalismo), bensì fondamento della validità dell’ordinamento giuridico positivo nel suo complesso. Questa formula storiografica mostra tutta la complessità – e il carattere controverso – del rapporto tra Hobbes e il giusnaturalismo. Rapporto che, nonostante i numerosi punti di contrasto (che stiamo di volta in volta mettendo in luce), non può essere semplicisticamente ridotto a un’opposizione radicale.

La legge di natura per Hobbes e per i giusnaturalisti

Tra giusnaturalismo e giuspositivismo

TAVOLA ROTONDA La fondazione del potere politico, vol. 2B

381

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Lo Stato e l’assolutismo Dall’inefficacia delle sole leggi naturali…

… alla nascita dello Stato

Lo Stato come volontà di tutti

Benché siano dettate dalla ragione naturale presente in tutti gli uomini, abbiamo visto che per Hobbes le leggi di natura non sono comandi assoluti, ma regole “prudenziali” condizionate al fine da conseguire. Nello stato di natura non c’è dunque alcuna garanzia che esse vengano effettivamente rispettate da tutti, dal momento che nessun individuo è abbastanza forte da poter costringere gli altri a metterle in pratica. Come efficacemente fa notare Norberto Bobbio, «le leggi naturali ci sono, cioè sono valide, ma non sono efficaci», per cui «sarebbe il colmo dell’imprudenza seguire le regole della prudenza […]. Ne consegue che l’unica via per rendere efficaci le leggi naturali, cioè per far in modo che gli uomini agiscano secondo ragione e non secondo passione, è l’istituzione di un potere tanto irresistibile da rendere svantaggiosa ogni azione contraria. Questo potere irresistibile è lo Stato» (Thomas Hobbes, Einaudi, Torino 2004, pp. 46-47). L’atto che segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile è quindi il trasferimento del potere illimitato di cui ogni uomo gode nello stato di natura a una sola persona (fisica o giuridica), che con la forza possa obbligare tutti gli uomini al rispetto delle leggi. La nascita della società civile avviene dunque in conformità con la seconda legge naturale, cioè mediante la stipulazione di un contratto con il quale gli uomini rinunciano al loro diritto illimitato per trasferirlo a un solo individuo. ➔ T4 p. 398 Questo trasferimento è indispensabile affinché il contratto possa costituire un vantaggio per tutti. Solo se ciascun individuo si sottomette a un unico uomo o a un’unica assemblea e si obbliga a non fare resistenza all’individuo o all’assemblea a cui si è sottomesso, si ha un’efficace difesa della pace e dei patti di reciprocità in cui essa consiste. Lo Stato o la società civile è detto anche «persona civile», perché, conglobando la volontà di tutti, si può considerare una sola persona. È pertanto possibile offrire la seguente definizione dello Stato: l’unica persona la cui volontà, in virtù dei patti contratti reciprocamente da molti individui, si deve ritenere la volontà di tutti questi individui: onde può servirsi delle forze e degli averi dei singoli per la pace e per la comune difesa. (Il cittadino, V, 9)

Tra stato di natura e Stato: continuità o frattura?

Il sovrano

Nel modello aristotelico, così come in quello di alcuni teorici conservatori, c’è continuità piena tra stato di natura e istituto statale. Lo Stato, cioè, è inteso come una sorta di “grande famiglia”, ovvero come l’estensione di quella prima naturale società costituita appunto dalla famiglia (non a caso il primo libro della Politica di Aristotele si occupa dell’amministrazione familiare). Invece, per Hobbes, da un lato lo Stato nasce per garantire il diritto alla vita di cui l’individuo gode nello stato di natura, ma dall’altro resta a quest’ultimo strutturalmente antitetico, in quanto prodotto artificiale della ragione. Chi rappresenta lo Stato o la persona civile è il sovrano, o Leviatano. Quest’ultimo (che, lo ripetiamo, può essere un individuo o un’assemblea) ha potere assoluto; tutti gli altri sono sudditi. Dice Hobbes: Questa è l’origine di quel grande Leviatano o per usare maggior rispetto, di quel dio mortale al quale, dopo il Dio immortale, dobbiamo pace e difesa: giacché, per l’autorità conferi-

382

Capitolo 1 • Hobbes

tagli da ogni singolo uomo della comunità, ha tanta forza e potere che può disciplinare, col terrore, la volontà di tutti in vista della pace interna e dell’aiuto scambievole contro i nemici esterni. (Leviatano, II, XVII)

Lo stato di natura e le sue caratteristiche

Lo Stato civile

> egoismo > diritto naturale di tutti su tutto > guerra di tutti contro tutti

> nasce da un contratto con cui ciascun uomo aliena il proprio diritto e potere a un sovrano (uomo o assemblea)

La legge naturale e i suoi precetti di base

> bisogna cercare la pace (pax est quaerenda) > bisogna rinunciare al diritto su tutto (ius in omnia est retinendum) > bisogna stare ai patti (pacta servanda sunt) > garantisce il patto

Il sovrano

> riunisce in se stesso ogni forza o potere (Dio mortale, Leviatano)

La teoria hobbesiana dello Stato e del potere sovrano è comunemente ritenuta peculiare dell’assolutismo politico. ■■■ Hobbes, infatti, insiste in primo luogo sulla irreversibilità e unilateralità del patto fondamentale. Una volta costituito lo Stato, i cittadini non possono dissolverlo negando a esso il proprio consenso: il diritto dello Stato nasce dai patti dei sudditi tra loro, non da un patto tra i sudditi e lo Stato, che potrebbe essere revocato da parte dei primi. ■■■ In secondo luogo, secondo Hobbes, il potere sovrano è indivisibile, nel senso che non può essere distribuito tra poteri diversi che si limitino a vicenda (v. monarchia). Secondo Hobbes, questa divisione non garantirebbe neppure la libertà dei cittadini: perché, se i poteri divisi agissero d’accordo, questa libertà ne soffrirebbe e, se fossero discordi, s’arriverebbe presto alla guerra civile. ■■■ In terzo luogo, appartiene allo Stato, e non ai cittadini, il giudizio sul bene e sul male. Questo aspetto è strettamente legato all’unilateralità del patto, che a sua volta fonda l’assolutezza del potere sovrano. Dal momento che è estraneo al patto, il sovrano è “sciolto” (ab-solutus) da qualsiasi vincolo, compresa la volontà dei cittadini. Del resto, la regola che consente di distinguere tra bene e male, tra giusto e ingiusto ecc. non potrebbe essere affidata all’arbitrio dei singoli. Se questo avvenisse, l’obbedienza allo Stato sarebbe condizionata dalla varietà dei criteri individuali e lo Stato si dissolverebbe. Inoltre, l’intera volontà del singolo è stata trasferita con il patto nella volontà del sovrano, per cui ciò che lo Stato vuole è sempre giusto (lo deve volere anche l’individuo): Con le leggi dello Stato è come con le regole di un gioco: qualsiasi cosa i giocatori stabiliscono di comune accordo non è ingiusta per nessuno di loro. (Leviatano, II, XXX)

Si ritrova in questo terzo punto l’aspetto “positivistico” del diritto hobbesiano. Per Hobbes, infatti, la legge non prescrive un comportamento perché esso è costitutivamente “buono” – come se esistesse un bene preesistente alla fondazione del diritto –, ma, al contrario, un

Caratteri fondamentali dell’assolutismo politico hobbesiano

Scheda filmica Il prezzo della sicurezza collettiva (Minority Report) Video Il prezzo della sicurezza collettiva (Minority Report)

Il “giuspositivismo” di Hobbes

383

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

comportamento è buono perché prescritto dalla legge. È la legge che istituisce la morale, e non viceversa, e qualsiasi cosa istituita dalla legge è bene proprio e solo per questo: Il giusto e l’ingiusto non esistevano prima che fosse istituita la sovranità; la loro natura dipende da ciò che è comandato; e ogni azione, per se stessa, è indifferente: che sia giusta o ingiusta, dipende dal diritto del sovrano. (Elementi filosofici sul cittadino, XII, 1, in Opere politiche, utet, Torino 1971, p. 233) Altri tratti assolutistici

Pactum unionis e pactum subiectionis

L’alienazione dei diritti è totale e definitiva

TAVOLA ROTONDA La fondazione del potere politico, vol. 2B I limiti dell’azione dello Stato

384

■■■ In

quarto luogo, fa parte della sovranità il diritto di esigere obbedienza anche per ordini ritenuti ingiusti o peccaminosi. ■■■ In quinto luogo, la stessa sovranità esige che si escluda la liceità del tirannicidio. ■■■ Ma il tratto più caratteristico dell’assolutismo hobbesiano è la sua negazione dell’idea che lo Stato (o il sovrano) sia in qualche modo soggetto alle leggi dello Stato: tesi che Hobbes difende con l’argomento che lo Stato non ha alcun obbligo né verso i cittadini (i quali, al contrario, contraggono unilateralmente e irreversibilmente l’obbligo di obbedire allo Stato), né verso se stesso, perché nessuno si può obbligare se non verso un altro. Anche su quest’ultimo punto si evidenzia l’opposizione di Hobbes al giusnaturalismo. Per i giusnaturalisti, infatti, l’insorgenza dello Stato si compie secondo una duplice scansione. Vi è dapprima un pactum unionis, compiuto ancora nello stato di natura. Gli uomini, pur naturalmente socievoli e per lo più disposti a rispettare i diritti naturali degli altri, si rendono tuttavia conto che ci può sempre essere qualcuno che li viola. Per sanzionare gli eventuali trasgressori e per ripristinare la situazione di diritto è allora necessario rivolgersi a un’autorità superiore. A questo punto gli uomini decidono pacificamente e di comune accordo, cioè appunto attraverso il pactum unionis, di sottomettersi allo Stato, che quindi è il frutto di un pactum subiectionis. ➔ T4 p. 398 Per Hobbes, invece, nello stato di natura, data l’indole aggressiva dell’uomo, sarebbe impossibile quell’accordo che sfocia nel pactum unionis, poiché gli uomini si dilanierebbero nel trovarlo e non vi giungerebbero mai. Per Hobbes, dunque, pactum unionis e pactum subiectionis coincidono. Inoltre, per i giusnaturalisti il pactum subiectionis è parziale e provvisorio: ■■■ è parziale, perché il sovrano non può violare i diritti naturali dell’individuo, trovando in essi un limite e anzi dovendo ispirarsi alle leggi di natura nella sua azione legislatrice. Per contro, in Hobbes gli individui alienano interamente i loro diritti: nessuno, cioè, può mantenere nemmeno in parte lo ius in omnia, poiché questo farebbe ripiombare nell’arbitrio e nella conflittualità dello stato di natura; ■■■ è provvisorio, nel senso che il sovrano che venisse meno ai patti violando tali leggi naturali potrebbe essere deposto dalla collettività allo stesso modo in cui è stato nominato. A differenza di Hobbes, per il quale il conferimento dell’autorità al sovrano è definitivo, in quanto fondato su un patto unilaterale, i giusnaturalisti continuano a concepire la nomina del sovrano come reversibile, in quanto legittimata da un patto bilaterale, cioè stipulato dal sovrano e dai cittadini. Tutto questo non significa però che la teoria politica di Hobbes non ponga limiti all’azione dello Stato. Neppure lo Stato può comandare a un uomo di uccidere o ferire se stesso o una persona cara, o di non difendersi, o di non mangiare o respirare o bere o qualunque altra cosa necessaria alla vita; né può comandargli di confessare un delitto, perché nessuno può

Capitolo 1 • Hobbes

essere costretto ad accusare se stesso. Ma per tutto il resto il suddito è libero solo in ciò che il sovrano ha omesso di regolare con le leggi; perciò la sua libertà in diversi luoghi e tempi è maggiore o minore a seconda dei criteri seguiti dallo Stato sovrano. Lo Stato, invece, è sempre libero perché non ha obblighi ed è una specie di “anima della comunità”, giacché, se quest’anima si allontanasse dal corpo, le membra di quest’ultimo non riceverebbero più alcun movimento. Ancora una volta, i limiti posti da Hobbes all’assolutismo derivano esclusivamente da quel fondamento (gius)naturalistico che è il diritto alla vita. Se il sovrano viola questa condizione, l’unica che lo vincoli, decade dalla sua funzione e si ritorna allo stato di natura, dove l’uomo può difendersi come meglio crede. Anche in questo caso, però, a ben guardare non c’è ribellione contro lo Stato, perché esso ha già cessato di esistere. Come anima della comunità, lo Stato congloba in sé anche l’autorità religiosa e non può riconoscere un’autorità religiosa indipendente: pertanto Chiesa e Stato coincidono.

Stato e Chiesa

> l’irreversibilità e l’unilateralità del patto > l’indivisibilità del potere sovrano L’assolutismo di Hobbes prevede

> la legge civile come unica regola del bene e del male > l’obbedienza assoluta al sovrano > la negazione del tirannicidio

Il tratto più tipico è la non sottomissione dello Stato (il sovrano) alle leggi dello Stato

> il conglobamento dell’autorità religiosa in quella statale Limiti del potere statale: il sovrano non può obbligare nessuno a violare il proprio diritto alla vita o ad autoaccusarsi. I sudditi sono liberi relativamente a quanto non prescritto dalle leggi

Esercizi interattivi Il pensiero politico di Hobbes

Sintesi audio La politica in Hobbes

5. Hobbes nella filosofia moderna Con la sua teoria dello Stato, Hobbes ha avuto una notevole influenza su alcuni pensatori a lui contemporanei (ad esempio su Spinoza), fino a diventare, con il tempo, uno dei “classici” del pensiero politico moderno, le cui tesi più radicali e caratteristiche, come quella dell’uomo-lupo, hanno avuto vasta risonanza presso il pubblico colto d’Europa. Nonostante questo, per quasi due secoli Hobbes è stato considerato un filosofo “minore” della scuola empiristica inglese e una sorta di epigono di Bacone. La sua figura “inquietante”, inoltre, è apparsa a lungo come il simbolo stesso dell’immoralismo e dell’irreligione (Norberto Bobbio ha parlato di «scrittore maledetto»); la sua metafisica materialistica, la sua antropologia pessimistica e il suo assolutismo politico hanno suscitato più spesso condanne che interpretazioni positive. Ciò ha limitato la conoscenza effettiva delle idee di Hobbes e ostacolato un confronto diretto con il suo pensiero, tant’è vero che le prime monografie organiche e critiche su questo filosofo sono apparse solo alla fine del secolo.

Fortuna e sfortuna di Hobbes

385

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La rivalutazione novecentesca

Ma è soltanto negli ultimi decenni del Novecento che il pensiero di Hobbes è divenuto oggetto di interesse e di ampio dibattito. Sostanzialmente d’accordo nel riconoscere il legame del suo materialismo meccanicistico con la rivoluzione scientifica e nel sottolineare la “modernità” delle sue osservazioni di gnoseologia, logica, filosofia della scienza e filosofia del linguaggio, gli studiosi contemporanei sono invece in disaccordo sulla valutazione del significato preciso del suo materialismo e delle connessioni di questo con le teorie etico-politiche: è la prospettiva materialistica che fonda la teoria dello Stato o viceversa? Oppure le due sezioni della filosofia di Hobbes sono indipendenti tra loro? Analoghi dissensi interpretativi riguardano il pensiero politico: Hobbes è un teorico della prassi assolutistica delle monarchie nazionali e un profeta del totalitarismo moderno, oppure un giusnaturalista con “spirito liberale”, che, nel momento stesso in cui fonda l’assolutismo, pone dei limiti all’assolutismo stesso, sui quali farà leva il liberalismo successivo? Queste e altre domande sono tuttora oggetto di confronto tra gli studiosi.

GLOSSARIO e RIEPILOGO La politica Geometrismo politico p. 377 > Per “geometrismo politico” si intende il procedimento tipico della filosofia di Hobbes, la quale parte da pochi postulati, o assiomi, intorno alla natura umana per poi dedurre da essi, con matematica necessità, tutto il sistema delle conoscenze politiche.

Postulati certissimi p. 377 > I «postulati certissimi intorno alla natura umana», dai quali discende l’intera scienza politica, sono: «1. il desiderio naturale (cupiditas naturalis), per cui ciascuno richiede per sé l’uso di cose che sono in comune; 2. la ragione naturale (ratio naturalis), per cui ciascuno si sforza di evitare una morte violenta come il più grande dei mali naturali» (Il cittadino, “Lettera dedicatoria”).

Egoismo naturale p. 377 > In antitesi al filone dominante della cultura occidentale, Hobbes nega che l’uomo sia, per natura, un animale socievole o politico. Infatti, ciò che spinge l’uomo verso l’altro uomo non è, propriamente, l’amore o la benevolenza, ma il bisogno o il timore: «L’origine delle grandi e durevoli società deve essere stata non la mutua simpatia degli uomini, ma il reciproco timore» (Il cittadino, I, 3).

Stato di natura p. 378 > Lo “stato di natura” è quella ipotetica condizione in cui gli uomini, non essendo ancora associati tra loro e disciplinati da una serie di leggi

386

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia positive comuni, sono spinti dal proprio egoismo a perseguire il proprio bene a scapito di quello di tutti gli altri.

Guerra di tutti contro tutti p. 378 > La “guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes) è la situazione inevitabile dello stato di natura (v.), in cui l’uomo, in virtù del suo diritto su tutto, risulta necessariamente un “lupo” per l’altro uomo (homo homini lupus): «se due uomini desiderano la stessa cosa, e tuttavia non possono entrambi goderla, diventano nemici, e sulla via del loro fine (che è principalmente la loro propria conservazione, e talvolta solamente il loro diletto) si sforzano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro» (Leviatano, I, 13). Diritto di tutti su tutto p. 379 > Il diritto naturale di tutti su tutto (ius omnium in omnia), da non confondersi con la legge naturale (v.), è la situazione stessa dello stato di natura (v.), nel quale, non essendoci leggi, tutti vantano un diritto illimitato su tutto. Dall’esercizio di questo diritto deriva necessariamente la guerra endemica che caratterizza lo stato di natura.

Legge naturale p. 380 > Nello stato di natura (v.), lamenta Hobbes, «v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Inoltre, in tale condizione, «non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per

Capitolo 1 • Hobbes

mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società» (Leviatano, I, 13). Ora, se l’uomo fosse soltanto un bruto, tale situazione sarebbe insormontabile. Invece, grazie ai “suggerimenti” della ragione, che è la facoltà di prevedere e di provvedere, l’uomo arriva a individuare alcuni precetti atti a sottrarlo alla sua miserevole condizione di partenza e a garantirgli una migliore forma di vita. Tali precetti, o tecniche di sopravvivenza, sono appunto le “leggi di natura”: «Una legge di natura (lex naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che vieta ad un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita o che gli toglie i mezzi per preservarla, e di omettere ciò con cui egli pensa possa essere meglio preservata» (Leviatano, I, 14).

Norme fondamentali della legge naturale p. 380 > Le leggi naturali fondamentali sono tre. La prima ordina di «cercare la pace e conseguirla» (Leviatano, I, 14). La seconda prescrive «che un uomo sia disposto, quando anche altri lo sono, per quanto egli penserà necessario per la propria pace e difesa, a deporre questo diritto a tutte le cose; e così si accontenti di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta egli ne concederebbe ad altri uomini contro di lui». Questa, osserva Hobbes, «è la legge del Vangelo: tutto ciò che tu richiedi che gli altri ti facciano, fallo a loro; e la legge di tutti gli uomini: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris» (ibidem). Infine, «Da quella legge di natura, per la quale siamo obbligati a trasferire ad altri quei diritti che, se vengono trattenuti, ostacolano la pace del genere umano, ne segue una terza, questa, che gli uomini adempiano i patti fatti da loro» (Leviatano, I, 15). A queste tre leggi di base Hobbes fa seguire una lunga serie di norme (restituire i benefici ricevuti, adattarsi agli altri, perdonare i pentiti ecc.) atte a garantire la convivenza sociale.

Stato o società civile p. 382 > Lo Stato, o società civile, nasce in virtù di un contratto, mediante il quale gli individui trasferiscono il proprio ius in omnia a un sovrano (uomo o assemblea) in grado di salvaguardare il rispetto dei patti e la pace della comunità. Infatti, senza un potere coercitivo esterno, che costringa gli individui a rispettare i patti, questi ultimi sarebbero inevitabilmente violati e si tornerebbe allo stato di natura. Da ciò la formula del contratto: «io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto e autorizzi le sue azioni in maniera simile»

(Leviatano, II, 17). In altri termini, lo Stato, o società civile, è quella condizione in cui ciascuno, rinunciando ai propri diritti naturali (tranne che a quello di sopravvivenza) conferisce tutto il proprio potere e la propria forza a un sovrano, capace di tutelare il cittadino dalle aggressioni interne ed esterne: «La sola via per erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione straniera e dalle ingiurie reciproche, e con ciò di assicurarli in modo tale che con la propria industria e con i frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfatti, è quella di conferire tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa ridurre tutte le loro volontà, per mezzo della pluralità delle voci, ad una volontà sola; ciò è come dire designare un uomo o un’assemblea di uomini a sostenere la parte della loro persona, e ognuno ad accettare e riconoscere se stesso come autore di tutto ciò che colui che sostiene la parte della loro persona, farà o di cui egli sarà causa, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comuni» (Leviatano, II, 17).

Leviatano p. 382 > Leviathan è quel mostro marino, simile a un coccodrillo, che nelle Scritture (Giobbe, 40 e 41) è descritto come la più potente e terribile delle creature terrestri. Hobbes si serve del nome del mostro biblico per alludere alla potenza assoluta dello Stato, concepito come una persona (il sovrano) nella quale si riassumono tutte le altre persone (i sudditi). Infatti, nel frontespizio del suo capolavoro, il sovrano era graficamente raffigurato come un individuo immenso formato dalle teste di tutti gli altri individui e nel corso dell’opera l’autorità statale viene celebrata come una sorta di Dio terrestre. «Questa – scrive Hobbes parlando dell’origine dello Stato – è la generazione di quel grande Leviatano, o piuttosto (per parlare con più riverenza) di quel dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, per mezzo di questa autorità […] è tanta la potenza e tanta la forza che gli sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni» (Leviatano, II, 17).

Assolutismo p. 383 > La filosofia politica di Hobbes mette capo a una prospettiva assolutistica che si incarna in una serie di tesi tipiche, quali: l’unilateralità e l’irreversibilità del patto (che non nasce da una revocabile intesa bilaterale tra i sudditi da una parte e il sovrano dall’altra, bensì da un unilaterale e irrevocabile impe-

387

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

gno degli individui tra di loro, al quale il sovrano risulta estraneo); l’indivisibilità del potere sovrano (che non può essere distribuito tra poteri diversi che si limitano a vicenda); la legge civile come unica fonte del bene e del male; il dovere dell’obbedienza; la negazione della liceità del tirannicidio; il rifiuto di sottomettere lo Stato, e quindi il sovrano, alle leggi stesse dello Stato (non essendo legato ad alcun patto, il sovrano non deve osservare alcuna regola, anzi, come si è visto, è, egli stesso, la fonte di ogni regola o legge); il conglobamento dell’autorità religiosa in quella statale (conformemente alla prassi anglicana, che scorge nel sovrano il capo della Chiesa) ecc.

Monarchia p. 383 > Tra le varie forme di governo ammesse da Hobbes (monarchia, aristocrazia e democrazia), egli privilegia la monarchia, ritenendo che essa risponda meglio ai requisiti della sovranità statale. N.B. 1. «Hobbes personalmente era monarchico, nel senso che preferiva, fra tutte le forme di governo, la monarchia, e quindi il sovrano da lui concepito era in primo luogo il re; tuttavia la scelta monarchica non era essenziale alla sua concezione dello Stato, tant’è vero che lui stesso ammise la possibilità che il sovrano fosse un dittatore eletto dal popolo o addirittura un’assemblea, per esempio il Parlamento, come accadde in Inghilterra dopo la prima rivoluzione; l’importante, secondo Hobbes, era che fosse in grado di assicurare l’ordine pubblico, e la condizione indispensabile a questo fine era che esso, monarca o assemblea, fosse un sovrano assoluto,

388

dotato di tutti i poteri» (Enrico Berti). 2. Secondo il caustico giudizio di Hobbes, la democrazia «non è altro che una aristocrazia di oratori, interrotta talvolta dalla temporanea monarchia di un solo oratore» (Elementi, II, II, 5).

Pactum unionis e pactum subiectionis p. 384 > Prima di Hobbes i teorici del contratto sociale distinguevano due patti: un pactum unionis, in cui un gruppo di individui costituiva una società, e un pactum subiectionis, o pactum de imperio, in cui il popolo della neo-costituita società delegava il potere sovrano (l’imperium) a un individuo o ad un’assemblea che lo esercitasse in suo nome. Hobbes fa sparire questa distinzione, ritenendo che il pactum unionis coincida, di fatto e di diritto, con il pactum subiectionis, intendendo, per quest’ultimo, non già un patto stipulato tra sudditi e sovrano, ma tra individuo e individuo. Da ciò l’assolutismo (v.) di Hobbes.

Limiti all’azione dello Stato p. 384 > Secondo Hobbes, neppure lo Stato può obbligare un uomo a compiere azioni contro la propria vita e quella dei propri cari; né può comandargli di confessare un delitto, perché nessuno può essere indotto ad accusare se stesso. Inoltre il suddito è libero in tutti quei comportamenti che il sovrano ha omesso di regolare con una legge apposita. In altri termini, la libertà dipende dal «silenzio della legge». Libertà che è in qualche paese maggiore, in qualche altro minore, in qualche tempo di più, in qualche altro di meno, secondo l’opinione di coloro che detengono la sovranità (cfr. Leviatano, II, 21).

Capitolo 1 • Hobbes

MAPPA Hobbes La PROSPETTIVA MATERIALISTICA

la scienza studia le realtà generabili (che hanno una causa conoscibile), cioè gli oggetti estesi o materiali, e può essere deduttiva (conclusioni necessarie)

Mappa interattiva

nell’universo tutto è corpo e movimento, compresa l’anima umana

la filosofia è la scienza dei corpi e può essere naturale: studia i corpi naturali

induttiva (conclusioni probabili)

civile: studia i corpi artificiali, cioè le società umane

L’ETICA

nella vita umana non esiste il libero arbitrio

non esiste una norma che valga a distinguere il bene dal male

la libertà si riduce a libertà d’azione

si chiama bene ciò che si desidera, male ciò che si odia

La POLITICA

l’uomo non è un animale politico è spinto verso l’altro solo dal bisogno o dal timore

lo stato di natura diritto naturale (diritto illimitato su tutto) e guerra di tutti contro tutti

legge naturale: regole dettate dalla ragione per garantire la sopravvivenza

Mappa interattiva

la società civile nasce con la stipula di un contratto sociale gli uomini rinunciano al proprio diritto illimitato e lo trasferiscono al sovrano

il sovrano riunisce in sé ogni forza e potere per garantire la pace

389

Politica

Cittadinanza e Costituzione

ECHI DEL PENSIERO Legge e giustizia Dal giuspositivismo di Hobbes allo statuto dei diritti dell’uomo

L

a descrizione offerta da Thomas Hobbes del passaggio dell’umanità dallo stato di natura alla società civile comporta una serie di conseguenze sul piano filosofico e giuridico che hanno alimentato, e tutt’oggi alimentano, un grande dibattito, in particolare riguardo al rapporto tra il diritto positivo e il diritto naturale.

Hobbes: L’iDentità tra Legge positiva e giustizia Come sappiamo, per Hobbes nello stato di natura ognuno può privatamente difendere il proprio diritto naturale, innescando così una vera e propria «guerra di tutti contro tutti». Per passare allo “stato civile” occorre rinunciare a questo diritto privato e sottomettersi a un potere sovrano coattivo. La prima espressione di questo potere sovrano e il primo atto di pacificazione sociale è la legge civile, che stabilisce che cosa è giusto e che cosa non lo è, obbligando tutti i sudditi a rispettarla. La legge civile è artificiale: essa, infatti, è lex positiva, “posta” dal sovrano, il quale può essere un solo uomo (come nella monarchia) o un’assemblea (come nell’aristocrazia o nella democrazia). Il sovrano è perciò l’organo dello Stato che “fa” le leggi, e poiché “fare” le leggi significa anche poterle abrogare con un nuovo atto legislativo, il sovrano è di fatto “al di fuori” della legge, non è soggetto ad essa: Infatti, avendo il potere di fare e abrogare le leggi, può liberarsi quando vuole dalla loro soggezione revocando le leggi che lo impacciano e facendone di nuove; sicché ne era già libero prima. (T. Hobbes, Leviatano, p. 220)

Il sovrano è perciò legibus solutus, “sciolto” dalle leggi: l’assolutismo di Hobbes consiste proprio in questa affermazione della libertà del sovrano di porre le leggi e di abrogarle, cosicché il diritto discende completamente dalla sua decisione, e non da una fonte esterna. Ma qual è allora il rapporto tra il diritto naturale e la legge civile, cioè il diritto positivo? Hobbes scrive che «la legge di natura e la legge civile si contengono reciprocamente e sono di pari estensione» (Leviatano, p. 221), il che significa che, con la creazione dello Stato, la legge naturale viene completamente “assorbita” nella legge positiva, che da allora in poi funge da “norma”, stabilendo che cosa è giusto e che cosa è ingiusto. Prima dell’istituzione dello Stato, la giustizia, la gratitudine e le altre virtù morali sono solo “qualità” che non hanno forza di legge, “inclinazioni” a cui gli uomini possono essere più o meno propensi, ed è solo con la legge positiva che si trasformano in diritto. Non ha perciò senso chiedersi se ci sia una giustizia al di là della legge, perché la legge è la giustizia: Alla cura del sovrano appartiene il fare buone leggi. Ma qual è una buona legge? Per buona legge io intendo non una legge giusta, poiché nessuna legge può essere ingiusta. La legge è fatta dal potere sovrano, e tutto ciò che è fatto da tale potere è autorizzato e riconosciuto da ogni appartenente al popolo – e ciò che ha per ognuno tale status, nessuno può dire ingiusto. (T. Hobbes, Leviatano, p. 282)

390

Da Hobbes aLLa DicHiarazione Dei Diritti umani Le idee hobbesiane della legge positiva come unica fonte del diritto e della giustizia come conformità alla legge sono state al centro di un dibattito che ha visto contrapporsi, da una parte, il “positivismo giuridico” (o giuspositivismo), riconducibile proprio a Hobbes, e dall’altra il giusnaturalismo. Si tratta, rispettivamente, di una concezione monista del diritto, perché considera il diritto positivo come l’unico ammissibile, e di una concezione dualista, perché ritiene che accanto al diritto positivo ci sia anche un diritto naturale, costituito da norme eterne e universali, in base alle quali il diritto positivo può essere eventualmente criticato. In questa seconda prospettiva, dunque, una legge positiva può essere ritenuta “ingiusta” dal punto di vista del diritto naturale. Il dibattito tra giuspositivismo e giusnaturalismo è diventato di grande attualità con la costituzione degli Stati moderni e torna a presentarsi con grande forza ogni qual volta si verifichi una situazione di contrasto tra la legislazione vigente in un certo Stato e quel che comunemente è detto “senso della giustizia”: nel caso, ad esempio, di leggi che legittimino una discriminazione dei cittadini sulla base della razza, della religione praticata o del sesso, o nel caso di violazioni dei diritti della persona. Proprio al fine di evitare tali discrepanze tra il diritto positivo e il diritto naturale, la comunità internazionale – riunita nell’Assemblea delle Nazioni Unite – il 10 dicembre 1948 ha promulgato la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”, in cui si enunciano una serie di diritti dell’individuo che tutte le legislazioni positive dovrebbero rispettare, tra i quali: Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di co-

scienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. (art. 1) Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione. (art. 2) Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione e credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche del culto e nell’osservanza dei riti. (art. 18) (Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo)

Poiché non fa parte di un diritto positivo specifico, la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” non ha forza di legge: è piuttosto un “codice etico”, espressione, come scrive Norberto Bobbio (1909-2004), di un «diritto disarmato», in quanto, a differenza del diritto positivo, non può essere fatto valere con la forza. Tuttavia, il fatto che i diritti umani considerati universali e inviolabili siano stati enunciati in una dichiarazione sottoscritta da molti paesi (una condizione, per Hobbes, del riconoscimento del potere sovrano al quale ci si sottomette) fa sì che in qualche modo essa sia anche passata a far parte del diritto storico-positivo, e quindi debba essere assunta come valida anche da chi non riconosce un diritto naturale. Da questo punto di vista, la tensione tra giuspositivismo e giusnaturalismo è oggi in qualche modo attenuata e trasformata: il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico. (N. Bobbio, Sul fondamento dei diritti dell’uomo, p. 309)

LABORATORIO DELLE IDEE 1. I casi in cui è riscontrabile un conflitto tra diritto e giustizia sono innumerevoli: si può dire che anche la storia della filosofia sia cominciata con un conflitto di questo tipo, cioè con l’ingiusta condanna a morte di Socrate, che ispirò la speculazione di Platone. Alla luce del dibattito tra giuspositivismo e giusnaturalismo, riconsidera la vicenda di Socrate e il suo comportamento: qual è la tua opinione in proposito? In che senso una condanna basata su una legge positiva può essere definita ingiusta? 2. Un altro modo di vedere il conflitto tra diritto positivo e giustizia è quello di considerare se sia auspicabile che essi coincidano: è pensabile uno Stato la cui legislazione sia (o presuma di essere) del tutto conforme ad alcuni principi di giustizia universali e inviolabili? Una tale idea non è forse l’inizio di un potere totalitario? E, se è così, allora come dev’essere concepita la giustizia?

VERSO LE COMPETENZE w Comprendere le radici concettuali e filosofiche dei principali problemi della contemporaneità w Riflettere e argomentare, individuando collegamenti e relazioni

391

I TESTI CAPITOLO 1 Hobbes

Il geometrismo giuridico-morale Dalla distinzione tra “dimostrazioni a priori” (che da cause conosciute ricavano gli effetti in maniera deduttiva e necessaria) e “dimostrazioni a posteriori” (che risalgono dagli effetti alle cause, ma senza pervenire ad affermazioni necessariamente vere, ma solo a ipotesi probabili) Hobbes fa discendere la sua concezione geometrico-deduttiva della «scienza» come indagine e conoscenza di quegli oggetti (artificiali) che sono creati dall’uomo. Da ciò derivano non soltanto l’esclusione dall’ambito scientifico (puro) della fisica (la quale si occupa di oggetti naturali, creati da Dio), ma anche l’inclusione in questo stesso ambito dell’etica e della politica.

t1 >

Un nUovo metodo per la filosofia pratiCa

Una volta chiarita la natura scientifica (cioè geometrico-deduttiva) della filosofia pratica, Hobbes cerca di individuare quei principi primi riguardanti la natura umana sui quali è possibile costruire una nuova e solida «scienza politica», analogamente al modo in cui Euclide aveva costruito la sua geometria sulla base di alcuni assiomi e postulati. Queste riflessioni metodologiche sono esposte dal filosofo nella “Lettera dedicatoria” con cui si apre il De cive, indirizzata a William Cavendish, conte di Devonshire e autorevole sostenitore degli Stuart.

2 4 6 8 10 12

392

La filosofia si divide in tanti rami quanti sono i generi delle cose a cui la ragione umana può applicarsi, e cambia nome secondo la diversità della materia che tratta. Se tratta delle figure, si chiama Geometria; se dei moti, Fisica; se del diritto naturale, Morale; e tutte sono Filosofia; così come è tutto Oceano il mare che qui è detto Britannico, lì Atlantico, altrove Indiano, dai lidi che bagna. Gli studiosi della Geometria hanno molto ben coltivato il loro campo. Difatti, tutto quell’aiuto alla vita umana che si può trarre dall’osservazione delle stelle, dalla descrizione della terra, dalla misura del tempo, dalle lunghe navigazioni; tutto quel che appare di bello negli edifici, di solido nelle fortezze, di meraviglioso nelle macchine; tutto quel che distingue i tempi moderni dall’antica barbarie, è quasi completamente un benefico effetto della Geometria; poiché quello che dobbiamo alla Fisica, la Fisica stessa lo deve alla Geometria. Se i filosofi morali avessero compiuto i loro studi con esito altrettanto felice, non vedo come l’ingegno umano avrebbe potuto contribuire meglio alla propria felicità in questa vita. Se si conoscessero con ugual certezza le regole delle azioni uma-

Capitolo 1 • Hobbes

16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46

ne come si conoscono quelle delle grandezze in geometria, sarebbero debellate l’ambizione e l’avidità, il cui potere s’appoggia sulle false opinioni del volgo intorno al giusto e all’ingiusto; e la razza umana godrebbe una pace così costante, che non sembrerebbe di dover mai più combattere, se non per il territorio, in ragione del continuo aumento della popolazione. Ora, invece, la guerra, con le armi o con la penna, è continua; non si sa nulla di più oggi di quel che non si sapesse una volta di diritto o di leggi naturali; ogni partito difende il proprio diritto trincerandosi dietro teorie filosofiche; alcuni lodano e altri biasimano la medesima azione; uno stesso individuo approva ora quel che in un altro momento aveva condannato, e usa due pesi e due misure nel giudicare, quando sono gli altri a compiere le stesse sue azioni; tutto questo è un segno ben chiaro che gli scritti pubblicati sino ad oggi dai filosofi morali sono serviti ben poco alla conoscenza della verità; e che questi scritti sono piaciuti, non perché illuminavano le menti, ma perché confermavano con parole ornate e secondando le passioni di chi le ascoltava, opinioni già accettate imprudentemente. A questa parte della filosofia tocca la stessa sorte delle strade pubbliche, che tutti imboccano percorrendole in su e in giù; alcuni vi camminano per diletto; altri vi attaccano lite; ma non vi si conclude nulla. L’unica ragione di questo risultato negativo sembra essere che nessuno di quelli che hanno trattato tale materia ha scelto un giusto punto di partenza per la sua teoria. […] Una specie di filo conduttore del ragionamento comincia nelle stesse tenebre del dubbio, e seguendone la guida si può arrivare alla chiarezza più luminosa; da questo punto bisogna incominciare il nostro insegnamento, e poi, volgendoci indietro, bisogna tornare a far luce sui dubbi ancora da sciogliere. […] Perciò, quando ho diretto i miei studi alla ricerca della giustizia naturale, sono stato avvertito dal nome stesso di giustizia, che significa una volontà costante di attribuire a ciascuno ciò che gli spetta, di cercare prima perché qualcuno dica sua una cosa piuttosto che altrui. Essendomi risultato che ciò proveniva non dalla natura, ma da un accordo degli uomini (quel che la natura ha offerto, gli uomini se lo sono poi distribuito fra loro), sono passato ad un’altra questione, cioè da quale vantaggio e da quale necessità siano stati spinti gli uomini a preferire di possedere in proprio quello che prima era di tutti. Così ho notato che dall’essere tutto in comune doveva di necessità seguire la guerra, e da essa ogni genere di disgrazia, dato che gli uomini si contendevano colla violenza l’uso di ogni cosa; ma dalla guerra tutti rifuggono per natura. Ho trovato, dunque, due postulati sicurissimi della natura umana: 1) il desiderio naturale, per cui ciascuno richiede per sé l’uso di cose che sono in comune; 2) la ragione naturale, per cui ciascuno si sforza di evitare una morte violenta come il più grande dei mali naturali. Partendo da questi princìpi mi pare d’aver dimostrato in questo mio scritto, con la massima evidenza e il massimo rigore, la necessità di stringere patti e di tenervi fede, e quindi gli elementi della virtù morale e dei doveri civili.

I TESTI

14

(Elementi filosofici sul cittadino, “Lettera dedicatoria”, a cura di N. Bobbio, utet, Torino 1988, pp. 63-65)

Analisi del testo 1-10 Dopo aver richiamato l’unitarietà della filosofia, che assume nomi diversi solo perché concerne materie diverse, Hobbes esprime il proprio entusiasmo per la geometria. Si tratta di quello stesso entusiasmo riscontrabile in Cartesio, in Spinoza e nei filosofi razionalisti in

genere, che vedono il progresso della società come l’effetto dell’applicazione del metodo geometrico anche al di fuori del suo ambito originario. 10-16 Se il metodo geometrico fosse applicato in maniera rigorosa anche alla morale, quest’ultima potreb-

>

393

I TESTI

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

be finalmente progredire in modo significativo. Se si individuassero con precisione geometrica le regole del comportamento umano (e questo è proprio il compito che Hobbes ritiene di poter assolvere), si troverebbe finalmente il modo per assicurare la pace tra gli uomini. 17-25 Hobbes denuncia la confusione e le contraddizioni ancora regnanti nella filosofia pratica, nella quale ha contato più che altro l’eleganza formale dei discorsi, che ribadivano antichi pregiudizi demagogici. 26-33 Priva di un metodo rigoroso, la filosofia pratica è simile a un incrociarsi di «strade» che tutti possono percorrere in qualunque direzione. È dunque necessario, seguendo la via aperta da Cartesio, ignorare ogni risultato finora raggiunto e individuare un nuovo, «giusto punto di partenza», da cui prendere avvio per sviluppare da capo (in maniera rigorosamente deduttiva)

ogni ragionamento e pervenire a nuovi, ma questa volta certi, criteri di comportamento. 34-45 Ripercorrendo brevemente le tappe attraverso le quali ha sviluppato la propria riflessione giuridicopolitica, Hobbes richiama i «due postulati sicurissimi della natura umana» a cui è giunto, e che andrà esponendo nell’opera. Il primo è il «desiderio naturale», che ogni uomo prova, di godere da solo di ciò che è in comune; il secondo è la «ragione naturale», che induce ogni uomo a cercare di evitare la morte violenta. 45-47 Il brano si chiude con l’anticipazione del contenuto dell’opera, in cui Hobbes ritiene di aver dedotto con geometrico «rigore», dai due «postulati» sopra richiamati, la necessità per gli uomini di «stringere patti e di tenervi fede», fondamento imprescindibile, come vedremo meglio nei testi che seguono (v. T3), per la nascita contrattualistica dello Stato.

Lo stato di natura Nel Leviatano, la sua opera politica più celebre, Hobbes propone una concezione fortemente pessimistica della natura umana, che dipinge l’uomo come un essere egoista e asociale. Per questo il cosiddetto “stato di natura” non potrà essere altro che una situazione di anarchia e di guerra di tutti contro tutti. Da una tale condizione, tuttavia, è possibile liberarsi, a patto di ascoltare i “consigli” della ragione presente in tutti gli esseri umani.

t2 >

la gUerra di tUtti Contro tUtti

La totale assenza di regole e la conseguente continua paura che caratterizzano la vita nello stato di natura producono incertezza economica e culturale, che Hobbes descrive nel Leviatano con accenti particolarmente cupi.

2 4 6 8 10 12 14

394

[…] si trovano nella natura umana tre principali cause di conflitto: la competizione, la diffidenza, la gloria. La prima fa sì che gli uomini entrino in lotta tra loro per il profitto; la seconda per la sicurezza; la terza per la reputazione. Nel primo caso si adopera la violenza per impadronirsi della persona di altri uomini, delle loro donne, dei loro fanciulli e delle loro mandrie di bestiame; nel secondo per difenderli; nel terzo si fa uso di sciocchezze, come per es. di una parola, di un sorriso, di una opinione diversa, e di qualunque altro segno di disistima, sia direttamente rivolto ad una persona, oppure indirettamente mediante un apprezzamento sulla sua parentela, i suoi amici, la sua nazione, o professione, od il suo nome. Da ciò appare chiaro come, durante il tempo in cui gli uomini sono sprovvisti di un potere comune che li tenga soggetti, essi si trovino in quella condizione che è chiamata guerra, e tale guerra è di ciascuno contro l’altro. Infatti la guerra non consiste soltanto in una battaglia od in una serie di operazioni militari, ma in un periodo di tempo in cui appare chiara la volontà di combattere, e perciò l’elemento tempo deve essere considerato come compreso nella natura della guerra, così come lo è nella natura delle mutazioni atmosferiche. Infatti come la natura di una

Capitolo 1 • Hobbes

18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 52

burrasca non consiste soltanto in uno o due scrosci di pioggia, ma nella inclinazione al cattivo tempo per molti giorni insieme; così la natura della guerra non consiste nei suoi particolari episodi, ma in un atteggiamento ostile, durante la durata del quale non vien data requie al nemico. Tutto l’altro tempo è pace. Tutto ciò dunque che è conseguente allo stato di guerra in cui ognuno è nemico dell’altro, è anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza all’infuori di quella che vien loro offerta dalla forza e dall’astuzia che sono in grado di sviluppare. In tale condizione non c’è posto per l’applicazione al lavoro perché il frutto di esso è incerto, e perciò non si coltiva la terra, non ci si dedica alla navigazione, né si fa uso di quelle cose utili che vengono importate per via di mare, non si costruiscono comodi edifici, né macchine per sollevare e trasportare oggetti che richiedono molta forza, non ci si applica a conoscere la superficie della terra, non si coltiva la storia, le arti, le lettere, i rapporti sociali, e ciò che è peggio si vive in uno stato di continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, ripugnante, brutale e breve. Può sembrare strano a chi non abbia ben considerato queste cose, che la natura sia stata capace di dividere così gli uomini e di renderli capaci di distruggere gli altri ed invadere le loro proprietà, e, di conseguenza, non riponendo alcuna fiducia in questa prova derivata dalle passioni, desidererà forse di averne la conferma dall’esperienza. Pensi egli dunque come, quando si mette in viaggio, prende con sé le armi e cerca di essere ben accompagnato; quando va a letto, chiude a chiave tutte le porte, ed anche quando è in casa chiude i suoi scrigni, e ciò pur sapendo che esistono leggi e pubblici ufficiali armati che hanno il compito di punire ogni ingiuria a lui arrecata. Nel fare ciò si renderà conto di quale sia l’opinione che ha del suo prossimo, quando viaggia armato; dei suoi vicini di casa, quando chiude a chiave le porte, e dei suoi stessi figli e servitori quando chiude i suoi scrigni. Non accusa egli forse con le sue azioni il genere umano allo stesso modo che io lo accuso con le mie parole? Ma né io né lui accusiamo la natura dell’uomo. I desideri e le altre passioni umane non sono in se stesse peccato, e nemmeno le azioni che scaturiscono da quelle passioni finché non si conosce una legge che le vieti, la qual legge non può essere conosciuta finché non viene formulata, né si può promulgare alcuna legge se non ci si mette d’accordo di eleggere la persona capace di far ciò. […] Da questa guerra di ciascuno contro l’altro deriva anche questa conseguenza: che nulla può essere ingiusto: non vi è posto qui per i concetti di equo e non equo, di giustizia ed ingiustizia. Dove non c’è un potere comune non c’è legge, e dove non c’è legge non c’è ingiustizia. […] Deriva anche da quella condizione di guerra il fatto che non esiste proprietà, né concetto del dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma soltanto che ognuno si impadronisce di ciò che può, e per tanto tempo quanto è in grado di conservarlo. E ciò basti per quel che riguarda quella misera condizione nella quale l’uomo è posto dal semplice stato di natura, sebbene egli abbia la possibilità di uscirne, in parte servendosi delle passioni, in parte della ragione.

I TESTI

16

(Leviatano, I, cap. XIII, a cura di P. Giammanco, utet, Torino 1955, pp. 158-162)

Analisi del testo 1-9 Tra gli uomini, secondo Hobbes, esiste un’originaria uguaglianza, ma in negativo, nel senso che tutti sono dominati dalle stesse passioni (qui ben concretizzate nella «competizione», nella «diffidenza» e nella

«gloria» come «cause di conflitto») e portati ad affermare se stessi, in vario modo, a scapito dei propri simili. Altrove Hobbes esprime questa medesima idea usando la celebre ed efficace formula homo homini lupus.

>

395

I TESTI

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

10-19 La condizione inevitabile degli uomini, se non sono tenuti a freno da un potere sovra-individuale, o statale, è quella della guerra di tutti contro tutti («di ciascuno contro l’altro», r. 11). Che un conflitto reale sia o meno in corso è del tutto ininfluente nella definizione dello stato di natura come di uno stato di “guerra”, poiché tale condizione è caratterizzata da un atteggiamento incessante di ostilità e diffidenza reciproche. 20-28 In questa condizione conflittuale, in cui ognuno può (e deve) fare affidamento solo sulla propria «forza» e sulla propria «astuzia», vengono trascurate le varie attività produttive e culturali, in un clima generale di paura per la propria vita. 29-39 Chi stenti a credere alle crude parole di Hobbes viene invitato a pensare a tutte le precauzioni che, pur vivendo in una condizione di maggiore tutela rispetto allo stato di natura, prende per salvaguardare la propria incolumità e i propri averi.

t3 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

396

39-44 Con una precisazione importante, Hobbes richiama qui la sua concezione convenzionalistica del diritto e della morale, secondo cui le passioni e le azioni umane non sono né buone né cattive, ne giuste né ingiuste, ma diventano tali solo in riferimento a una legge. 45-52 Il convenzionalismo di Hobbes emerge ancora una volta con grande evidenza: nello stato di natura nulla può dirsi “giusto” o “ingiusto”, perché la giustizia e l’ingiustizia nascono solo dove ci sia una legge (cioè un potere legiferante) che le determini. Analogamente non esiste, nello stato di natura, la proprietà, poiché tutti possono ritenersi padroni di tutto. Le «passioni» (cioè la paura di perdere la vita) e la «ragione» (cioè il “calcolo” di ciò che può essere più conveniente) condurranno l’uomo a superare la precarietà dello stato di natura.

diritto natUrale e leggi di natUra

Se da un lato descrive la natura umana come egoista, asociale e dominata dalle passioni, dall’altro Hobbes ritiene che gli uomini siano naturalmente portati ad ascoltare la ragione, la quale prescrive loro alcune norme finalizzate a una coesistenza pacifica. Si tratta di quelle che Hobbes chiama «leggi di natura», ammonendo a non confonderle con il «diritto naturale», cioè con quel diritto soggettivo illimitato (ius in omnia) che gli uomini detengono nello stato di natura.

Il diritto di natura, comunemente definito dagli scrittori come Ius Naturale, è la libertà che ciascuno possiede di usare il proprio potere nel senso che vuole, allo scopo di preservare la propria natura, cioè la sua vita, e conseguentemente di fare qualunque cosa che, secondo il giudizio e la ragione, gli sembra essere il mezzo più adatto a realizzare quel fine. Per libertà s’intende, secondo il più esatto significato della parola, l’assenza di impedimenti esterni, i quali possono spesso stornare una parte del potere dell’uomo dal fare ciò che egli si propone, ma non possono impedirgli completamente di usare il potere che gli rimane, seguendo i dettami del suo giudizio e della ragione. Legge di natura [Lex Naturalis] è un precetto o regola generale scoperta dalla ragione, a causa della quale è vietato all’uomo di far ciò che può distruggere la sua vita, o privarlo dei mezzi per conservarla, o tralasciare ciò mediante cui egli pensa di poterla meglio conservare. Infatti, sebbene coloro che trattano questo argomento siano abituati a confondere Diritto e Legge [Ius e Lex], tuttavia dovrebbero essere distinti, perché il diritto consiste nella libertà di agire o di non agire, laddove la legge codifica ed impone di fare una delle due cose, di modo che la legge ed il diritto differiscono allo stesso modo dell’obbligo e della libertà, che risultano inconsistenti se coesistono nella medesima situazione. E dato che la condizione dell’uomo, come si è detto nel precedente capitolo, è uno stato di guerra di ciascuno contro l’altro, nel qual caso ognuno è guidato dalla propria ragione e non esiste nulla di cui egli possa servirsi che non abbia un’utilità nel preservare la sua vita dalla minaccia dei nemici; da ciò deriva che, in una tale condizione, ciascuno ha diritto ad ogni cosa anche alla persona fisica dell’altro. Dunque, finché esiste questo diritto naturale di ciascuno ad ogni cosa, non

22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42

ci può essere sicurezza per nessuno, per quanto saggio o forte possa essere, di vivere per tutto quel tempo che la natura ordinariamente consente agli uomini. Di conseguenza è un precetto, o regola generale della ragione, che ciascuno debba sforzarsi di procurare la pace nella misura in cui ha speranza di ottenerla; e quando gli è impossibile realizzare ciò, deve cercare ed adoperare tutti gli espedienti e vantaggi della guerra. La prima proposizione di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura: cioè cercare la pace e conservarla. La seconda il principale dei diritti di natura: cioè difendersi con tutti i mezzi a disposizione. Da questa fondamentale legge di natura che ordina agli uomini di sforzarsi di procurare la pace, deriva questa seconda legge; che ciascuno di buon grado, quando anche gli altri fanno ciò e per quanto crederà necessario alla propria pace e difesa, tralasci questo suo diritto sopra tutte le cose, e si contenti di usufruire, nei confronti degli altri, di tanta libertà quanta egli stesso concederebbe agli altri nei suoi confronti. Infatti fino a che ciascuno conserva questo diritto di fare ciò che gli piace, tutti gli uomini rimangono nello stato di guerra. Ma se gli altri non tralasceranno di usare di quel loro diritto così come lui, allora non c’è motivo che uno solo se ne privi, perché ciò vorrebbe dire esporsi come preda, alla qual cosa nessuno è tenuto, anziché porsi in un atteggiamento di pace. Questa è quella legge evangelica che dice: «Fai agli altri quello che vorresti gli altri facessero a te»; e quella legge di tutti gli uomini: «Quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris». […] Da quella legge di natura dalla quale siamo obbligati a trasferire quei diritti che se vengono conservati ostacolano la pace del genere umano, deriva la terza legge e cioè che gli uomini debbono mantenere i patti da essi stipulati, senza di che i patti sarebbero vani e nient’altro che vuote parole, e continuando ad esistere il diritto di tutti a tutte le cose, gli uomini si troverebbero ancora allo (Leviatano, I, cap. XIV, cit., pp. 162-164 e 177) stato di guerra.

I TESTI

Capitolo 1 • Hobbes

Analisi del testo 1-4 Compare qui la definizione del «diritto di natura», che per Hobbes è la libertà, di cui ogni uomo gode nello stato di natura, di adoperarsi nel modo che ritiene più conveniente per l’auto-conservazione. Il diritto naturale non va confuso con la «legge di natura», di cui Hobbes fornirà la definizione poco oltre. 5-8 Non ammettendo il libero arbitrio (cioè la libertà del volere), Hobbes non può che concepire la libertà come «assenza di impedimenti esterni» alla realizzazione del fine che ci si prefigge. Si noti che tali «impedimenti esterni» possono limitare, ma non annullare il potere di azione di un individuo. 9-16 Diversamente dal diritto di natura, che consiste, in ultima analisi, in una libertà illimitata, la «legge di natura» è una vera e propria prescrizione («precetto o regola generale») dettata dalla ragione, la quale ordina all’uomo di non fare ciò che può nuocere alla sua sopravvivenza, e di fare ciò che invece può giovare ad essa. 17-28 Nello stato di natura, in cui ognuno può esercitare il proprio diritto (ius naturale) su tutto, vige ovviamente uno stato di «guerra di ciascuno contro l’altro»: è in una tale tragica situazione che interviene la ragione,

prescrivendo (come si è visto) che si faccia di tutto per preservare la propria vita. Questa «regola generale» si specifica in tre precetti altrettanto generali, il primo dei quali prescrive all’uomo di ricercare la pace («prima proposizione») e, nel caso in cui la pace non sia realizzabile, di difendersi con qualunque mezzo possibile («seconda proposizione»). 29-38 Connessa alla prima è la seconda legge di natura, che prescrive a ciascuno di rinunciare a parte del suo originario diritto su tutte le cose, in cambio del medesimo impegno da parte di tutti gli altri. Con questo secondo «precetto», la ragione suggerisce cioè di non pretendere una libertà illimitata, ma di accontentarsi di una libertà uguale a quella che si concede agli altri nei propri confronti. Condizione imprescindibile per l’attuazione di questa legge (da Hobbes paragonata alla massima evangelica che ci invita a fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a noi) è ovviamente la reciprocità. 39-43 In base alla terza legge di natura (che discende in modo diretto dalla seconda) gli uomini sono tenuti a rispettare i patti che stipulano; in caso contrario, si riaffermerebbe il diritto di tutti su tutto e gli uomini regredirebbero allo stato di guerra.

397

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La fondazione dello Stato

I TESTI

La geometria politica hobbesiana trova la sua logica conclusione nella “deduzione” della fondazione dello Stato. Dopo che la ragione ha calcolato quello che più conviene per emanciparsi dall’infelice condizione dello stato di natura, dettando le leggi naturali, gli uomini non possono che scegliere la via di un grande accordo, di un «patto» mediante il quale trasferiscono il proprio ius in omnia ad un’autorità sovra-individuale.

t4 >

il «leviatano», ovvero lo stato Come «dio mortale»

Nella prospettiva hobbesiana, il “contratto” che dà vita allo Stato non è un semplice patto “di unione” che lega tra loro una molteplicità di individui, ma anche (e soprattutto) un patto “di sottomissione”, stipulato da tale molteplicità di individui nei confronti di un’autorità sovra-individuale esclusa dal patto stesso e, dunque, dotata di un potere illimitato.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24

398

Il solo modo per dar vita alla costituzione di un potere comune capace di difendere gli uomini dalle invasioni degli altri popoli e dalle reciproche ingiurie, ed insomma di garantire la loro sicurezza in modo che con la propria attività e con i prodotti della terra essi possano nutrirsi e vivere comodamente, consiste nell’investire di tutto il proprio potere e di tutta la propria forza un uomo o un’assemblea di uomini che sia in grado di ridurre tutte le varie opinioni, per mezzo della pluralità dei voti, ad una sola volontà; il che è come dire di dare incarico ad un uomo o ad un’assemblea di uomini di rappresentare la persona dei singoli cittadini e riconoscersi, ciascuno per quanto riguarda se stesso, come l’autore di qualsiasi cosa che colui che è stato eletto a rappresentarli farà o farà in modo che venga fatta, in quelle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, ed in questo ridurre le proprie volontà ciascuno alla volontà di lui, ed i loro giudizi al giudizio di esso. Ciò è più di un consenso o di un accordo; è una concreta unità di tutti i componenti dello Stato in una sola e medesima persona, resa possibile da un patto di ciascuno con l’altro, come se uno di essi dicesse all’altro: «Do autorizzazione e trasferisco il mio diritto di governare me stesso a questo uomo o a questa assemblea di uomini, a condizione che anche tu ceda il tuo diritto a lui e nello stesso modo ne autorizzi tutte le azioni». Quando si è fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona è chiamata uno Stato, in latino Civitas. Questa è la fondazione di quel grande Leviatano o piuttosto, per parlare con più reverenza, di quel dio mortale a cui, al disotto del Dio immortale, noi siamo debitori della nostra pace e difesa. Infatti, attraverso questa autorità di cui è stato investito da ogni singolo individuo nello Stato, esso è in grado di usare tanto potere e tanta forza che gli è stata conferita, sì da piegare col terrore le volontà di tutti e fare in modo da rivolgerle al mantenimento della pace interna ed all’aiuto reciproco contro i nemici esterni. In esso è l’essenza dello Stato, che può essere definito come una persona dei cui atti una moltitudine, attraverso reciproco accordo, si è fatta autore, in modo che quella persona che riassume le loro volontà possa usare la forza e le risorse di tutti i componenti per garantire la comune pace e (Leviatano, II, cap. XVII, cit., pp. 209-210) difesa.

Capitolo 1 • Hobbes

1-11 Nella concezione contrattualistica hobbesiana, la costituzione di un potere sovra-individuale capace di eliminare gli inconvenienti dello stato di natura è possibile solo se tutti gli uomini rinunciano al loro originario diritto su tutto, per conferirlo a una sola persona (o a una sola assemblea di persone). Espressione di un patto stretto da tutti i cittadini, la volontà di chi detiene questo nuovo potere sovra-individuale sarà, in un certo senso, la volontà stessa dei singoli. 11-16 A fondamento dello Stato c’è un pactum unionis (un «consenso» o un «accordo») tra tutti i cittadini, con il quale essi si impegnano vicendevolmente a deporre lo ius in omnia di cui godono nello stato di natura. Ma nello stesso tempo c’è un pactum subiectionis, ovvero un atto di sottomissione piena, mediante il quale i singoli trasferiscono tutti i loro poteri a un unico uomo o ad un’unica assemblea. Lo Stato è quindi concepito

da Hobbes come «una sola persona», nella quale si riassumono tutte le altre persone: non a caso, il frontespizio del Leviatano riportava la raffigurazione di un gigantesco individuo, formato dalle teste di molteplici altri individui. 16-25 Paragonando lo Stato a Leviathan, il mostro spaventoso nominato nelle Scritture, e subito dopo definendolo «dio mortale», Hobbes non potrebbe esprimere più efficacemente la sua prospettiva assolutistica. Se è vero che nello stato di natura gli uomini vivono come bestie feroci, ne deriva che lo Stato dovrà avere un potere non limitato o moderato, bensì illimitato, poiché solo in questo modo potrà imporsi a tutti con il terrore, al fine di garantire la pace e la difesa della nazione. Del resto, ribadisce ancora una volta il filosofo inglese, come potrebbe il potere dello Stato essere limitato, dal momento che «riassume» in sé le volontà di tutti i cittadini?

I TESTI

Analisi del testo

399

CAPITOLO 2

Newton 1. Il padre della “fisica classica” Un basilare punto di riferimento

Gli studi e le prime scoperte

400

Con Newton la rivoluzione scientifica iniziata da Copernico e Galilei perviene al suo compimento, sia sul piano del metodo, sia su quello dei contenuti, giungendo a delineare quell’immagine dell’universo che è divenuta familiare all’uomo moderno e che dopo Einstein si è soliti chiamare “fisica classica”. L’importanza di Newton non è solo scientifica, ma anche culturale e filosofica, poiché egli ha plasmato di sé un’epoca intera del pensiero umano, diventando un punto di riferimento imprescindibile del sapere dei moderni. Come vedremo, la sua metodologia ispira innanzitutto l’empirismo inglese, che, a cominciare da Locke, elabora un concetto di ragione diverso da quello seicentesco-cartesiano, e facente capo all’esperienza, intesa come campo operativo e strumento di verifica di indagini intellettuali. Tramite l’empirismo, Newton influirà profondamente anche sulla cultura illuministica, che vedrà in lui il metodologo per eccellenza e il portatore dell’autentico modello del sapere. In parte, dunque, la ragione illuministica sarà la ragione newtoniana, e l’appello allo scienziato inglese costituirà la base teorica della messa in discussione della metafisica tradizionale. Newton costituirà il simbolo per eccellenza della verità scientifica anche agli occhi di Kant, la cui filosofia può essere definita, per certi versi, come un tentativo di giustificazione critica della fisica newtoniana. Isaac Newton nacque a Woolsthorpe (Contea di Lincoln) il giorno di Natale del 1642, lo stesso anno della morte di Galilei. Entrò nel 1661 al Trinity College di Cambridge, dove ebbe come maestro il matematico Isaac Barrow. Tra il 1665 e il 1667 un’epidemia di peste lo costrinse ad abbandonare Cambridge e a ritornare a Woolsthorpe. Al suo rientro a Cambridge, Newton conseguì i suoi gradi universitari e nel 1669 successe al maestro nella cattedra di matematica. Cominciò allora il periodo più fecondo per le sue scoperte. Si occupò dapprima di ottica e concepì quel telescopio a riflessione che ancora oggi reca il suo nome. Divenuto membro della Royal Society di Londra, Newton comunicò a questo sodalizio un’altra scoperta – quella delle varie rifrangibilità dei raggi che costituiscono la luce bianca – che fu accolta con critiche spesso violente e che tuttavia si sarebbe rivelata di enorme importanza per la scienza.

Capitolo 2 • Newton

La conoscenza dell’opera dell’astronomo olandese Christiaan Huygens (1629-1695) intitolata Horologium oscillatorium (1673) lo indirizzò allo studio della gravitazione. Furono anni di intenso lavoro, che misero capo a una delle opere più grandi della scienza di tutti i tempi: Philosophiae naturalis principia mathematica (Principi matematici della filosofia naturale). L’opera fu pubblicata nel 1687 a spese dell’astronomo Edmund Halley. Nel 1687 Newton fu scelto dall’Università di Cambridge come difensore dei suoi diritti storici minacciati dal re; e il successo che ottenne in questa missione fece sì che la stessa Università lo eleggesse come proprio rappresentante in Parlamento, dove Newton fu deputato dal 1689 al 1690. Egli difese in questa carica i principi della libertà religiosa e civile. Un grave attacco di nevrastenia lo colpì nell’autunno del 1692 e lo tenne lontano dagli studi per circa diciotto mesi. Nel 1694 il suo amico Lord Halifax lo nominò ispettore della Zecca di Londra, della quale in seguito divenne, fino alla morte, il direttore. Newton adempì anche a questo ufficio con competenza e zelo. Nel 1699 fu nominato membro straniero dell’Accademia delle Scienze di Parigi e nel 1703 fu eletto presidente della Royal Society di Londra. Nel 1705, in occasione di una visita della regina Anna all’Università di Cambridge, gli venne conferito il titolo di Sir, di cui amò sempre fregiarsi. Gracile nella giovinezza, Newton si era andato irrobustendo nella maturità. A ottant’anni, nel 1722, subì un primo attacco di calcolosi; un altro attacco di questo male lo condusse alla morte il 20 marzo del 1727. Una tomba sontuosa gli fu eretta nell’abbazia di Westminster, dove sono sepolti i re d’Inghilterra. Nel corso della sua vita Newton aveva pubblicato, oltre ai Principi matematici, l’Ottica (1704) e l’Arithmetica universalis (1707). Gli opuscoli matematici che egli aveva comunicato privatamente ad altri studiosi e vari scritti filologici e filosofici furono pubblicati dopo la sua morte.

I Principia mathematica

La carriera e gli ultimi anni

Gli altri scritti

2. Il calcolo delle flussioni Con Newton l’unità di matematica e fisica, pionieristicamente scandagliata da Galilei, astrattamente formulata da Cartesio e attiva di fatto nelle ricerche di una molteplicità di teorici e tecnici che operarono nel corso del Seicento, trova piena attuazione in un modello unitario e organico, che per due secoli ha dominato pressoché incontrastato nella scienza. Ma la saldatura tra le due scienze richiedeva nuovi strumenti matematici, l’esigenza dei quali si era già manifestata quando Galilei si era trovato a dover calcolare l’accelerazione di gravità e lo spazio percorso da un grave in un intervallo di tempo fissato. Il problema da affrontare era, per assumere la terminologia newtoniana, quello delle grandezze fluenti e delle loro flussioni, cioè delle grandezze che variano con continuità e delle loro variazioni considerate istante per istante. In primo luogo, ovviamente, si trattava di studiare il moto accelerato: la velocità (prima flussione), l’accelerazione (seconda flussione), l’incremento di accelerazione (terza flussione), gli spazi percorsi. In termini geometrici, seguendo Newton, se «le linee vengono descritte, non mediante addizioni di parti, ma per un moto continuo di punti, le superfici per moto di linee», i problemi del moto si traducono nei più tradizionali problemi delle tangenti e delle quadrature: trovare la direzione di una curva in ciascun punto (tangente o derivata) e l’area delimitata dalla curva stessa (quadratura o integrale).

Il problema delle grandezze fluenti e delle loro flussioni

401

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

L’infinito e il calcolo infinitesimale

Questi studi rendevano necessari dei procedimenti che portavano prepotentemente in scena quell’infinito che la scienza aveva solitamente guardato con sospetto e che volentieri aveva abbandonato alle speculazioni metafisiche. Comunque il problema che si poneva a Newton risultava tutt’altro che inesplorato dai precedenti matematici, a partire da Archimede. In tempi più recenti era stato affrontato a più riprese, con metodi diversi, oltre che da Galilei, da Bonaventura Cavalieri (1591 ca. - 1647), allievo di Galilei, nella sua Geometria degli indivisibili (1635), da Cartesio, da Fermat, e soprattutto, in Inghilterra, da John Wallis (1616-1703) e da Isaac Barrow (1630-1677), maestro di Newton e suo predecessore all’Università di Cambridge. Ma a Newton si devono la prima organica esposizione del metodo, divenuto canonico, per determinare derivate e integrali e la definizione della loro reciproca relazione. Da questo punto di vista, Newton viene considerato, insieme con Leibniz (v. unità 4, p. 332), il fondatore del calcolo infinitesimale.

3. La gravitazione universale L’aneddoto della mela

I precedenti storici

L’identità del moto dei pianeti con il moto dei gravi sulla Terra

La formulazione della legge

Le conferme

Una leggenda diffusa da Voltaire vuole che l’idea della gravitazione sia venuta in mente a Newton osservando la caduta di una mela da un albero, circostanza che lo avrebbe indotto a domandarsi che cosa sarebbe accaduto se la mela fosse caduta da un albero alto quanto la Luna dista dalla Terra. In realtà, la scoperta di Newton (come qualsiasi altra scoperta) non nasce da un’illuminazione improvvisa, ma dal perfezionamento di tentativi anteriori, storicamente determinati. Ad alcuni di questi tentativi si è già fatto cenno. Copernico aveva riconosciuto la gravità come una forza che attrae tra loro i corpi celesti. Huygens aveva elaborato la formula della forza centrifuga. L’italiano Giovanni Alfonso Borelli nel 1666 aveva osservato che, per mantenere i pianeti nelle loro orbite, la forza centrifuga deve essere bilanciata da un’altra forza, centripeta o attrattiva. Il colpo d’ala di Newton consiste nell’aver abbracciato con una sola formula la forza che mantiene i pianeti nelle loro orbite e quella che fa cadere i gravi sulla Terra. A prima vista, questi due fenomeni sono completamente diversi, perché i corpi celesti non cadono, ma si mantengono sempre alla stessa distanza dal corpo che li attrae. Ma se si pensa che un mobile lanciato con una certa velocità iniziale lungo la tangente di un cerchio si muove per inerzia lungo questa retta, si vede subito che l’incurvarsi della sua traiettoria in modo da formare un’orbita circolare è, ad ogni istante, una specie di caduta. Riconosciuta l’identità del moto dei pianeti con il moto dei gravi sulla Terra, Newton poté formulare la sua legge della gravitazione universale: i corpi si attraggono proporzionalmente al prodotto delle masse e in ragione inversa del quadrato delle distanze. Egli riuscì così a spiegare il movimento dei pianeti intorno al Sole e dei satelliti intorno ai pianeti. Newton aveva cercato la conferma della sua legge sulla base della misura del raggio terrestre calcolata da Snellio1 nel 1617, ma non aveva raggiunto il suo intento perché quella misura

1 Italianizzazione di “Snellius”, nome latino dell’olandese Willebrord Snell van Royen (1580 ca. - 1626).

402

Capitolo 2 • Newton

era sbagliata. Nel 1682 il francese Jean Picard in una seduta della Royal Society di Londra fornì l’esatta misura del raggio terrestre. Newton fece i suoi calcoli e trovò allora la prova definitiva della sua legge. Solo dopo questa conferma Newton si decise a comunicare al mondo la sua scoperta, dapprima con le Proposizioni sul moto (1684) e poi nei Principi matematici della filosofia naturale (1687). Newton dedusse la formula della gravitazione universale dalle leggi di Keplero, ma la fecondità della sua teoria apparve evidente dal fatto che essa permetteva di correggere quelle stesse leggi. Poiché in generale due corpi si attraggono sempre reciprocamente, ci sarà un’attrazione non soltanto tra Sole e pianeti e tra pianeti e satelliti, ma anche tra i pianeti stessi. Newton poté così riconoscere una causa perturbatrice del movimento dei pianeti, giungendo a comprendere, ad esempio, che la Terra non descrive intorno al Sole un’ellisse, ma una curva più complicata, cioè un’ellisse «perturbata» dall’azione degli altri pianeti che le sono intorno. Per quanto Newton si sia reso conto di queste perturbazioni, lo studio preciso di esse ha richiesto l’opera di molti grandi matematici del Settecento e dell’Ottocento, ai quali accenneremo in seguito di volta in volta. La spiegazione di Newton della gravitazione universale è una spiegazione meccanica, ma non solo. Ammessa la forza attrattiva e ammesso che i pianeti si trovino in un determinato istante mossi da una velocità iniziale (nella direzione della tangente all’orbita), la dottrina di Newton spiega come l’inerzia di un pianeta e la forza attrattiva esercitata su di esso dal Sole si compongano insieme in modo che il pianeta descriva un’orbita ellittica. Essa non spiega tuttavia il fatto che il pianeta possieda una velocità iniziale. Da dove gli deriva questa velocità? Newton ammette qui come causa l’atto creativo della divinità, che avrebbe comunicato ai corpi celesti un impulso iniziale. Soltanto un secolo più tardi Pierre-Simon de Laplace tenterà una spiegazione naturalistica della stessa velocità iniziale, considerando i pianeti come generati dal distacco di una certa quantità di materia dalla massa fluida rotante del Sole: in tal modo, la massa distaccata possiederebbe naturalmente una certa velocità iniziale.

Newton e Keplero

Una spiegazione meccanica e teologica

4. La dinamica Newton ha dato alla dinamica la sua forma classica, che è rimasta immutata per molto tempo. Gli sviluppi di questa parte della meccanica nel Settecento e nell’Ottocento sono stati, infatti, quasi esclusivamente analitici, cioè formali, e non ne hanno intaccato i principi e i concetti fondamentali. Dalla meccanica di Galilei e di Huygens, quella di Newton si distacca per l’introduzione del concetto di massa, per la generalizzazione del concetto di forza e per l’estensione della validità delle leggi meccaniche all’intero universo. Per primo Newton ha distinto la massa, ossia la quantità di materia che non cambia mai per un oggetto dato, dal peso, il quale è una forza che varia a seconda della regione del globo in cui il corpo si trova. Per primo, inoltre, ha generalizzato la nozione di forza e l’ha collegata con quella di accelerazione (secondo principio della dinamica). Per primo, infine, ha enunciato il principio secondo cui ad ogni azione segue una reazione uguale e contraria.

Massa e peso, forza e accelerazione, azione e reazione

403

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

I tre principi fondamentali della dinamica

Moto, spazio e tempo assoluti

TAVOLA ROTONDA Spazio e tempo, vol. 2B

Egli ha potuto così stabilire i tre principi fondamentali della dinamica: ■■■ il principio d’inerzia: ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo e uniforme fino a quando non sia costretto a mutare tale stato da forze impresse. Questo principio, enunciato per la prima volta da Leonardo, era stato generalizzato da Galilei e da Cartesio; ■■■ il principio di proporzionalità tra la forza e l’accelerazione: la forza è proporzionale all’accelerazione, cioè alla variazione di velocità nell’unità di tempo, e non alla velocità stessa. Questo principio era stato riconosciuto da Galilei limitatamente al fenomeno della caduta dei gravi, ma era stato trascurato da Cartesio; ■■■ il principio di azione e reazione: ogni azione ha una reazione uguale e contraria, cioè le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e di senso contrario. L’enunciato generale di questa legge, già applicata in casi particolari da Huygens e da Wallis, è uno dei contributi più importanti di Newton alla meccanica generale. È poi essenziale alla meccanica di Newton il concetto di un moto assoluto, che sarebbe quello riferito allo spazio vuoto, moto assoluto che suppone a sua volta un tempo e uno spazio assoluti. Newton poneva infatti un tempo assoluto “vero e matematico” fluente uniformemente, in sé e senza relazione a qualcosa di esterno; e uno spazio assoluto, anch’esso non relativo a qualcosa di esterno, ma permanente, sempre simile e immobile.

5. L’ottica La questione della natura e della velocità della luce

L’accettazione della teoria corpuscolare

404

Il fenomeno della luce era stato spiegato da Cartesio come dovuto all’elasticità di un fluido sottile, l’etere, nel quale la luce si sarebbe trasmessa istantaneamente. Il problema se la luce abbia una velocità finita di propagazione era stato già trattato, con mezzi insufficienti, da Galilei, che non poté giungere a una conclusione. Alla risposta si pervenne solo nel 1675, grazie all’astronomo danese Olaf Römer e ai suoi studi sulle eclissi dei satelliti di Giove. Le leggi di Keplero permettono infatti di calcolare con esattezza l’istante in cui questi satelliti si rendono invisibili, mentre l’osservazione dà un tempo diverso. La differenza si spiega se si ammette che la luce solare, per giungere alla Terra, impieghi circa 8 minuti primi; il che significa che essa si propaga a una velocità di circa 300 mila chilometri al minuto secondo. Questa velocità fu poi misurata con esperienze terrestri, nel XIX secolo, da Fizeau e da Foucault. La teoria cartesiana della luce fu precisata da Huygens, il quale considerò la luce una vibrazione dell’etere, propagantesi per onde. Ma Newton accolse e fece prevalere la teoria corpuscolare. Secondo questa teoria, l’agitazione dell’etere produce, nei corpi incandescenti, l’emissione di particelle luminifere, che variano di grandezza a seconda del colore della luce. La percezione del colore, tuttavia, sarebbe prodotta dalla diversa frequenza delle vibrazioni prodotte dai corpuscoli luminosi sul nervo ottico. Le particelle luminose agiscono a distanza sulle particelle dei corpi, mettendole in vibrazione; queste vibrazioni si trasmettono all’etere.

Capitolo 2 • Newton

6. Il metodo e le sue regole L’ideale della scienza che il metodo difeso da Newton tende a delineare e a realizzare è quello di una scienza puramente descrittiva dei fatti della natura e delle sue leggi: cioè di una scienza che eviti qualsiasi ipotesi metafisica o comunque qualsiasi ipotesi che trascenda le possibilità di verifica fornite dai fatti stessi. Questo è ciò che Newton intese dire con la sua affermazione famosa «hypotheses non fingo», cioè: mi rifiuto di immaginare ipotesi. Le ipotesi a cui faceva riferimento sono quelle che ammettono qualità occulte o forze nascoste, o comunque fattori o elementi che non risultino evidenti all’osservazione scientifica e non possano essere sottoposti al calcolo matematico. La prima regola enunciata da Newton nei Principi dice:

L’ideale descrittivo della scienza

Hypotheses non fingo

La prima regola

Bisogna ammettere solo quelle cause che sono necessarie per spiegare i fenomeni, giacché la natura non fa niente invano e farebbe cosa inutile se si servisse di un numero maggiore di cause per fare ciò che si può fare con un numero minore di cause.

Questa regola esclude che si possano ammettere forze che non hanno effetti riconoscibili. Ad esempio, è inutile ammettere, oltre la gravità, altre forze che agiscano nei movimenti celesti, dal momento che per spiegare tali movimenti è sufficiente la gravità. La seconda regola dice:

La seconda regola

Effetti dello stesso genere devono sempre essere attribuiti, finché è possibile, alla stessa causa.

Anche questa regola non pretende di esprimere una verità assoluta, cioè metafisica. Essa suggerisce che, ad esempio, poiché la pesantezza e la gravitazione consistono nello stesso fenomeno, esse vanno attribuite all’azione della stessa forza: quella di gravità. La terza regola dice: Le qualità che non sono suscettibili di aumento e di diminuzione e che appartengono a tutti i corpi dei quali si può fare esperienza, devono essere considerate come appartenenti a tutti i corpi in generale.

La terza regola

Si può scorgere in questa regola l’autorizzazione all’induzione scientifica, cioè all’estensione a tutti i casi possibili di una legge che è stata verificata solo per un numero ristretto di casi. La quarta regola infatti dice: Nella filosofia sperimentale, le proposizioni raggiunte mediante induzioni dai fenomeni devono essere considerate, nonostante le ipotesi contrarie, esattamente o approssimativamente vere fino al momento in cui altri fenomeni le confermino interamente o facciano vedere che sono soggette a eccezioni. [...] Un’ipotesi infatti non può indebolire i ragionamenti fondati su indicazioni suggerite dall’esperienza.

Quest’ultima regola soprattutto rivela lo spirito della metodologia scientifica newtoniana, in base alle quale le verità sperimentali vanno considerate certe finché rispondono, con una certa approssimazione, ai fatti.

La quarta regola

Esercizi interattivi Newton

Sintesi audio Newton

405

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

MAPPA Newton La nuova VISIONE del COSMO

il moto dei pianeti e il moto dei gravi sulla Terra sono governati da una stessa legge

i corpi si attraggono tra loro in misura proporzionale al prodotto delle masse e in ragione inversa del quadrato delle distanze (legge di gravitazione universale)

l’inerzia dei pianeti e la forza attrattiva del Sole su di essi si compongono in modo da far descrivere ai pianeti delle orbite ellittiche

Mappa interattiva

I PRINCIPI FONDAMENTALI della DINAMICA

principio di inerzia ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo e uniforme finché non è costretto da qualche forza a mutare il proprio stato

principio di proporzionalità tra la forza e l’accelerazione

principio di azione e reazione

la forza è proporzionale alla variazione di velocità nell’unità di tempo, e non alla velocità stessa

ogni azione corrisponde a una reazione uguale e contraria (le azioni reciproche di due corpi sono sempre uguali e di senso contrario)

Le REGOLE del METODO SCIENTIFICO

bisogna ammettere solo quelle cause che sono necessarie per spiegare i fenomeni

406

effetti dello stesso tipo devono essere attribuiti alla medesima causa

le qualità appartenenti a tutti i corpi di cui si può fare esperienza possono essere considerate come appartenenti a tutti i corpi (induzione)

le ipotesi scientifiche ricavate per induzione vanno considerate approssimativamente vere fino a quando non vengano del tutto confermate o negate da un’eccezione

CAPITOLO 3

Locke

1. L’empirismo inglese e il suo fondatore Le origini e i caratteri generali dell’empirismo inglese Una lunga tradizione (che risale a Hegel) vede in Locke il fondatore del cosiddetto empirismo inglese, ossia di quella corrente della filosofia moderna, proseguita da Berkeley e da Hume (v. capp. 4 e 5), che si sviluppa a cavallo tra Seicento e Settecento e che in parte si inscrive già nell’atmosfera illuministica, di cui risulta una delle componenti di fondo. Sebbene gli abusi della storiografia idealistica abbiano prodotto un certo “sospetto” verso il termine “empirismo”, di fatto esso continua ad essere usato, o per lo meno presupposto, dagli studiosi, anche da quelli più critici nei suoi confronti. Segno evidente che il termine, spogliato dalle ipoteche interpretative di tipo hegeliano, o liberato dagli schematismi troppo rigidi, continua ad essere storiograficamente utile per evidenziare la mutata “atmosfera” culturale in cui si muovono Locke, Berkeley e Hume rispetto a Cartesio, Spinoza e Leibniz. Sul piano storico-genetico, l’empirismo si innesta nella tradizione del pensiero inglese (da Ruggero Bacone a Guglielmo di Ockham, a Francesco Bacone) e rappresenta un punto di incontro di tale tradizione con il cartesianesimo (da cui desume concetti e terminologia) e con la rivoluzione scientifica (da cui ricava l’appello all’esperienza e una nuova metodologia del sapere). Filosoficamente parlando, l’empirismo risulta caratterizzato, rispetto al razionalismo, dalla teoria della ragione come insieme di poteri limitati dall’esperienza, intesa, quest’ultima: ■■■ quale fonte e origine del processo conoscitivo; ■■■ quale criterio di verità o strumento di certificazione delle tesi dell’intelletto, che risultano valide solo se suscettibili di controllo empirico. Mentre il primo aspetto riconnette l’empirismo a tutta la tradizione anti-innatistica della filosofia occidentale (a cominciare da Aristotele), il secondo aspetto, che è il carattere più originale e decisivo dell’empirismo moderno, pur essendo presente in Locke, viene fatto valere in tutta la sua forza e coerenza solo da Hume.

L’empirismo

Matrici storiche

La concezione empiristica dell’esperienza

407

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La tendenza critica e anti-metafisica

Empirismo e Illuminismo

Locke e Newton

Il richiamo costante all’esperienza fa sì che l’empirismo, in antitesi al razionalismo, tenda ad assumere un atteggiamento limitativo o critico nei confronti delle possibilità conoscitive dell’uomo e a seguire un indirizzo anti-metafisico, che esclude dalla filosofia e da ogni ricerca legittima i problemi riguardanti realtà che non sono accessibili agli strumenti mentali di cui l’uomo dispone. Abbiamo usato intenzionalmente il verbo “tendere”, poiché tale prospettiva anti-metafisica (così come il secondo significato di “esperienza” sopra richiamato) risulta presente in modo esplicito e rigoroso solo in Hume, in quanto né Locke, né soprattutto Berkeley tagliano completamente i ponti con la metafisica. In ogni caso dall’empirismo inglese, a cominciare da Locke, scaturisce quel concetto della filosofia come analisi del mondo umano, nei suoi vari campi, che sarà proprio dell’Illuminismo, il quale lo farà valere in modo polemico contro la tradizione culturale del passato. Nel 1687 furono pubblicati i Principi matematici di Newton. Nel 1690 comparve il Saggio sull’intelletto umano di Locke. Queste due opere caratterizzarono il periodo storico in cui apparvero e costituirono un punto di riferimento fondamentale per il XVIII secolo, cioè per il secolo dell’Illuminismo. La frase di Voltaire «La filosofia è Newton e Locke è il suo profeta» esprime bene la connessione tra le due opere e il comune orientamento che esse trasmi-

1620

1630

1640 1633 Condanna e abiura di Galilei

Eventi storici

1650 1642 In Inghilterra inizia la guerra civile

1648 Pace di Westfalia: fine della Guerra dei trent’anni

1649 Carlo I Stuart decapitato; abolita la monarchia

1632 John Locke nasce a Wrington, vicino a Bristol 1620 1628 1637 1641 1651 Bacone: Novum Harvey scopre Descartes: Descartes: Hobbes: Organum la circolazione Discorso Meditazioni metafisiche Leviatano sul metodo 1642 1625 sanguigna Hobbes: De cive 1632 Grozio: Galilei: Dialogo sopra i due Il diritto 1644 massimi sistemi del mondo della guerra Torricelli dimostra (subito messo all’indice) e della pace l’esistenza del vuoto 1635 Corneille: Medea

Arte e Letteratura 1622 Bernini: Apollo e Dafne

408

1653 In Inghilterra Cromwell al potere 1652 Intraprende gli studi universitari a Oxford

Vita di Locke

Filosofia e Scienza

1660

1642 Rembrandt: Ronda di notte

1658 Diventato Maestro delle arti, comincia a insegnare presso l’Università di Oxford

1656-1657 Pascal: Lettere provinciali

Capitolo 3 • Locke

sero alla cultura del secolo successivo. La filosofia di Locke rappresenta infatti, da un lato, la giustificazione dei procedimenti scientifici che avevano permesso a Newton le sue scoperte e, dall’altro lato, la rielaborazione originale dei nuovi ideali politici e religiosi scaturiti dalla Rivoluzione inglese.

Locke: la vita e le opere Nato il 29 agosto 1632 a Wrington, John Locke visse la sua giovinezza in un periodo turbinoso della storia inglese, segnato dalla prima rivoluzione e dalla decapitazione di Carlo I (1649). Studiò all’Università di Oxford, il cui cancelliere John Owen era sostenitore di una politica di tolleranza verso le differenti religioni, idea che influenzò il giovane Locke. Nel 1658 conseguì il grado di Maestro delle arti e fu chiamato a insegnare nella stessa Università di Oxford. Cominciò allora il periodo più importante della sua formazione. La maggiore influenza fu esercitata su di lui dalle opere di Cartesio; ma egli studiò anche Hobbes e probabilmente Gassendi. Nel 1666 cominciò a occuparsi di studi naturali e di medicina, e, sebbene non abbia mai conseguito il titolo di dottore, fu chiamato dagli amici “dottor Locke”.

1660

1670

1680

1660 In Inghilterra restaurata la monarchia con Carlo II Stuart 1661 In Francia muore il cardinale Mazzarino: Luigi XIV assume il potere 1667 Si stabilisce a Londra presso Lord Ashley Cooper, futuro conte di Shaftesbury; Saggio sulla tolleranza

1690

1700

1710

1685 1695 1679 Luigi XIV di Francia In Inghilterra abolita In Inghilterra revoca l’editto di Nantes la censura sulla stampa promulgato 1690 l’Habeas Corpus; 1701 Inizia il regno dello Shaftesbury presidente Guerra di successione zar Pietro il Grande del Consiglio del re spagnola 1688 Seconda rivoluzione inglese: deposto Giacomo II, sale al potere Guglielmo III d’Orange

1675 Caduto Shaftesbury in disgrazia, si ritira in Francia

1682 1691 1693 Dopo la fuga Si trasferisce ad Oates, Pensieri sull’educazione di Shaftesbury, presso Sir Masham ripara a Oxford 1689 Ritorna a Londra; 1683 1679 Lettera sulla tolleranza (anonima) Si rifugia Con Shaftesbury nuovamente in Olanda al potere, ritorna a Londra 1695-1697 1668 Ragionevolezza Nominato membro 1672-1674 del cristianesimo della Royal Society Incarichi politici su nomina di Shaftesbury 1690 Due trattati sul governo (anonimi); 1662 1670 1677 Saggio sull’intelletto umano In Inghilterra Spinoza: Spinoza: Etica nasce l’accademia Trattato (postuma) scientifica teologico-politico Royal Society 1669 Pascal: Pensieri (postumi) 1667 Milton: Il paradiso perduto

La vita

1677 Racine: Fedra

1670 ca. Giordano: Gesù tra i dottori 1673 Molière: Il malato immaginario

1689 Purcell: Didone ed Enea

1704 Ad Oates, assistito da Lady Masham, Locke muore

1705 Mandeville: La favola delle api 1704 Leibniz: Nuovi saggi sull’intelletto umano

1697 ca. Fischer von Erlach progetta il castello di Schönbrunn a Vienna 1699 Fénelon: Le avventure di Telemaco

409

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Si occupò anche di problemi economici e politici, e nella politica militante entrò verso i 35 anni, quando divenne segretario di Lord Ashley, che fu in seguito conte di Shaftesbury. Nel 1672 Lord Ashley fu nominato Lord cancelliere e Locke partecipò attivamente alla vita politica, nonostante la sua salute cagionevole. Nel 1675 Shaftesbury cadde in disgrazia presso il re Carlo II e Locke si ritirò in Francia, dove visse per circa quattro anni, dedicandosi alla preparazione del Saggio. Tornò a Londra verso la fine del 1679 per essere di nuovo vicino a Shaftesbury, che era ritornato al potere. Ma questi, incolpato di alto tradimento, fu presto costretto a fuggire in Olanda, dove morì poco dopo (1682). Nonostante il suo contegno prudente, Locke cadde in sospetto e nel 1683 si recò in volontario esilio in Olanda, dove rimase per più di cinque anni. Qui prese parte attiva ai preparativi della spedizione di Guglielmo d’Orange in Inghilterra, spedizione che venne effettuata nel novembre 1688 e che portò alla fuga del re Giacomo II e all’ascesa al trono di Guglielmo e della moglie Maria. Al seguito di quest’ultima, nel 1689 Locke ritornò in patria, dove la sua autorità divenne grandissima, poiché in lui si vide il rappresentante intellettuale e il difensore filosofico del nuovo regime liberale. Cominciò allora anche il periodo più intenso della sua attività letteraria. Gli scritti

Nel 1667 Locke scrisse il Saggio sulla tolleranza; nel 1689 uscì anonima la Lettera sulla tolleranza. Sempre anonimi, nel 1690 furono pubblicati i Due trattati sul governo. Nel 1690 comparve finalmente il Saggio sull’intelletto umano, che ebbe subito un successo grandissimo. Negli anni seguenti Locke attese ad altre opere filosofiche, tra le quali la polemica con Stillingfleet, il trattato pubblicato postumo sulla Condotta dell’intelletto e l’Esame di Malebranche. Nel 1693 pubblicò i Pensieri sull’educazione; tra il 1695 e il 1697 la Ragionevolezza del cristianesimo. Fin dal 1691 Locke aveva accettato l’ospitalità di Sir Francis Masham nel castello di Oates (Essex), a circa venti miglia da Londra, dove fu circondato dalle amorose cure di Lady Masham, che era figlia del filosofo Ralph Cudworth. Lì egli si spense il 28 ottobre del 1704. In seguito fu pubblicato un certo numero di appunti o abbozzi che Locke aveva lasciato inediti.

2. Ragione ed esperienza I limiti della ragione lockiana

Per Locke, che si ispira a Hobbes, la ragione non possiede nessuno di quei caratteri che Cartesio le aveva attribuito: non è unica o uguale in tutti gli uomini, perché essi ne partecipano in misura diversa; non è infallibile, perché spesso le idee di cui dispone sono in numero troppo limitato o sono oscure o non si lasciano concatenare tra loro nella forma di un ragionamento, e anche perché può essere tratta in inganno da falsi principi e dallo stesso linguaggio, del quale non può fare a meno; inoltre la ragione non può ricavare da sé idee e principi, ma deve ricavarli dall’esperienza, che ha sempre limiti e condizioni.

La ragione come unica guida

Ma debole e imperfetta com’è, la ragione è comunque l’unica guida efficace di cui l’uomo dispone e l’intera opera di Locke è diretta a estendere il campo della sua azione a tutto ciò che interessa l’uomo, comprese la morale, la politica e la religione.

L’origine del Saggio

La stessa idea dell’opera maggiore di Locke, il Saggio sull’intelletto umano, nasce dal bisogno di affrontare problemi non strettamente filosofici, come Locke stesso dichiara in una “Epistola al lettore” premessa al Saggio: in una riunione di cinque o sei amici (avvenuta proba-

410

Capitolo 3 • Locke

bilmente nell’inverno del 1670) si discuteva di argomenti che non avevano nulla a che fare con quello che fu poi l’oggetto dell’opera. Nella discussione si incontravano varie difficoltà e non si riusciva a trovare una soluzione ai dubbi. Venne allora in mente a Locke che, prima di intraprendere indagini di quella natura, era necessario esaminare le capacità proprie dell’uomo e vedere quali oggetti il suo intelletto fosse o non fosse in grado di considerare. Da allora Locke iniziò il lavoro per il Saggio. E in quel momento, si può dire, nacque la prima indagine critica della filosofia moderna, cioè la prima indagine diretta a stabilire le effettive possibilità umane, con il riconoscimento dei limiti che sono propri dell’uomo. Questi limiti sono propri dell’uomo perché sono propri della sua ragione; ma sono propri della sua ragione perché essa deve fare i conti con l’esperienza. È l’esperienza, infatti, che fornisce alla ragione il materiale che essa adopera, e cioè le «idee semplici», che sono gli “elementi” di ogni sapere umano. La ragione può bensì combinare e ordinare questo materiale, formando idee complesse e ragionamenti; ma anche in questa attività deve essere controllata dall’esperienza, in modo da non produrre costruzioni arbitrarie o fantastiche. Se controllata dall’esperienza, la ragione impedisce all’uomo di avventurarsi in problemi che sono al di là delle sue capacità, come ad esempio quelli della metafisica tradizionale. Ed è sempre la ragione, guidata dall’esperienza, che consente all’uomo di intendere i fondamenti della morale e della politica, nonché l’essenza permanente della religione, al di fuori dei miti e della superstizione a cui quest’ultima è andata soggetta.

Testo antologico Lo scopo della ricerca (Saggio sull’intelletto umano)

L’indirizzo critico

L’esperienza come limite della ragione

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488

3. Le idee semplici e la passività della mente Locke desume da Cartesio il punto di partenza della sua indagine: l’oggetto della nostra conoscenza è l’idea. Pensare e avere idee sono la stessa cosa. Ma subito Locke introduce la prima fondamentale limitazione rispetto al cartesianesimo: le idee derivano esclusivamente dall’esperienza, cioè sono il frutto non di una spontaneità creatrice dell’intelletto umano, ma piuttosto della sua passività di fronte alla realtà. E poiché per l’uomo la realtà o è realtà esterna (le cose naturali) o è realtà interna (il suo spirito), le idee possono derivare dall’una o dall’altra di queste realtà e si chiameranno idee di sensazione se derivano dal senso esterno e idee di riflessione se derivano dal senso interno. Sono idee di sensazione, o più semplicemente sensazioni, il giallo, il caldo, il duro, l’amaro e, in generale, tutte le qualità che attribuiamo alle cose. Sono idee di riflessione la percezione, il pensiero, il dubbio, il ragionamento, la conoscenza e, in generale, tutte le idee che si riferiscono a operazioni del nostro spirito. ➔ T1 p. 428 Locke si mantiene fedele al principio cartesiano secondo il quale avere un’idea significa percepirla, cioè esserne cosciente, ma di questo principio si avvale proprio nella critica dell’innatismo esposta nel primo dei quattro libri del Saggio. Questa critica si riduce sostanzialmente a un unico argomento. Le idee non ci sono quando non sono pensate; giacché, per l’idea, esistere significa essere pensata. Le idee innate dovrebbero esistere in tutti gli uomini, quindi anche nei bambini, negli idioti e nei “selvaggi”;

Le idee e la loro genesi empirica

Idee di sensazione e di riflessione

Testo antologico La passività della mente (Saggio sull’intelletto umano)

La critica dell’innatismo Testo antologico La critica dell’innatismo (Saggio sull’intelletto umano)

411

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

ma poiché da queste persone non sono pensate, esse non esistono in loro, perciò non possono considerarsi innate. Si dice che i bambini giungono alla coscienza di esse nell’età della ragione; ma nell’età della ragione si giunge anche a conoscenze che non sono ritenute innate: nulla vieta dunque che si possa giungere anche a quelle che si ritengono tali. Locke adduce come esempi di principi pretesi innati i principi logici di identità e di noncontraddizione (“tutto ciò che è è”, “è impossibile che la stessa cosa sia e non sia”) e ripete la stessa critica per i principi morali, che egli ritiene abbiano tutti bisogno di dimostrazione e non possano, dunque, considerarsi innati. Idee semplici e idee complesse

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488 Il limite ultimo dell’intelletto umano

Qualità primarie e secondarie

Testo antologico Qualità primarie e qualità secondarie (Saggio sull’intelletto umano)

Se tutta la nostra conoscenza risulta di idee e se le idee derivano dall’esperienza, l’analisi della nostra capacità conoscitiva dovrà in primo luogo fornire una classificazione (cioè un inventario sistematico) di tutte le idee che l’esperienza ci fornisce. L’esperienza ci fornisce soltanto idee semplici; le idee complesse sono prodotte dal nostro spirito mediante la riunione di varie idee semplici. Difatti, quando l’intelletto è provvisto, dalla sensazione e dalla riflessione, di idee semplici, esso ha la capacità di riproporle, paragonarle, riunirle in modi infinitamente vari. La conoscenza umana è la costruzione che risulta da questa capacità di combinazione che è propria dell’intelletto. ➔ T2 p. 429 Ma neppure l’intelletto più potente può inventare o creare un’idea semplice nuova, cioè non derivante dall’esperienza, o distruggere qualcuna di quelle che l’esperienza fornisce. Questo è il limite insuperabile dell’intelletto umano. Ignorare o disconoscere tale limite significa, secondo Locke, abbandonarsi a sogni chimerici. Su questa base Locke compila un elenco delle idee semplici che derivano dalla sensazione e dalla riflessione. Per ciò che riguarda le idee di sensazione, Locke distingue tra le sensazioni da una parte e le qualità delle cose che le producono in noi dall’altra, e a questo proposito riprende la distinzione tra qualità oggettive e qualità soggettive già elaborata da Galileo e Cartesio, e che egli desume dal fisico Robert Boyle. Locke chiama dunque qualità originarie o primarie quelle oggettive, che egli definisce anche «reali», intendendo affermare che esistono “realmente” nei corpi, a prescindere dal fatto che vengano o meno percepite (tali sono l’estensione, la figura, il movimento ecc.); e qualità secondarie quelle soggettive (come «i colori, i suoni, i gusti ecc.»), che sussistono finché c’è un soggetto che le percepisce: Se togliamo la sensazione che abbiamo di queste qualità, se facciamo che l’occhio non veda né luce né colori, che l’orecchio non percepisca suoni, né il palato sapori, né il naso odori, vedremo scomparire e cessare colori, sapori, odori e suoni, in quanto idee particolari, che vengono così ridotti alle loro cause, cioè alla mole, alla figura e al movimento delle parti. (Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, utet, Torino 1971, p. 172)

Le idee semplici sono il materiale di base della conoscenza e si dividono in

> idee di sensazione > prodotte dalle (ricevute passivamente dall’esperienza esterna) qualità primarie delle cose > idee di riflessione (ricevute passivamente dall’esperienza interna) L’esperienza è la fonte primaria della conoscenza. Non esistono idee innate, né idee semplici “create” dall’intelletto

412

Capitolo 3 • Locke

4. L’attività della mente Se nel ricevere le idee semplici lo spirito è puramente passivo, esso diventa invece attivo nel servirsi di tali idee come di un materiale per le sue costruzioni, cioè nel riunire e organizzare in vario modo le idee semplici. Questa attività dello spirito può dar luogo a idee complesse e a idee generali. Le idee complesse, per quanto infinite di numero, si lasciano ricondurre a tre categorie fondamentali, e cioè: a) i modi sono quelle idee non considerate sussistenti di per sé, ma solo come manifestazioni di una sostanza: ad esempio, “triangolo”, “gratitudine”, “delitto” ecc.; b) le sostanze sono le idee complesse che vengono considerate come esistenti di per sé: ad esempio, “uomo”, “piombo”, “pecora” ecc.; c) le relazioni sono le idee che scaturiscono dal mettere a confronto più idee, istituendo tra esse un rapporto. ➔ T2 p. 429 Di tutti questi tipi di idee complesse Locke si ferma a considerare le forme principali. La sua analisi risulta particolarmente importante per ciò che concerne l’idea complessa di sostanza. Considerando che varie idee semplici sono costantemente unite tra loro (a formare ad esempio ciò che chiamiamo un uomo o un tavolo o un pezzo di piombo), la nostra mente è portata inavvertitamente a considerarle come un’unica idea semplice; e poiché non arriva a immaginare come un’idea semplice possa sussistere di per sé, si abitua a supporre un qualche substratum che ne sia la base. Locke afferma chiaramente il carattere arbitrario di questo “sostrato”, cioè della sostanza, in quanto esso supera la testimonianza dell’esperienza. ➔ T3 p. 431

L’attività dello spirito

Le idee complesse

L’analisi critica dell’idea di sostanza

Se qualcuno chiederà che cosa è il sostrato al quale il colore o il peso ineriscono, si risponderà che tale sostrato sono le stesse parti estese e solide; se si domanda a che cosa ineriscano la solidità e l’estensione, non si potrà rispondere che come quell’indiano il quale, dopo aver affermato che il mondo è sostenuto da un grande elefante, fu richiesto su che cosa l’elefante poggiasse; al che rispose: su una grande tartaruga; ma essendogli ancora domandato quale appoggio avesse la tartaruga rispose: su qualcosa che io non conosco affatto. L’idea alla quale noi diamo il nome generale di sostanza non è altro che tale supposto ma sconosciuto sostegno delle qualità effettivamente esistenti. (Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. XXIII, 2)

Ciò vale sia per la sostanza corporea, sia per la sostanza spirituale: la prima è il substrato sconosciuto delle qualità sensibili, la seconda è il substrato altrettanto sconosciuto delle operazioni dello spirito. Da questa critica della sostanza alla negazione della sostanza, cioè alla negazione dell’esistenza di una realtà “soggiacente” ai fenomeni del senso interno e del senso esterno, non c’è che un passo, che tuttavia non è Locke a compiere, ma Berkeley per ciò che riguarda la sostanza materiale (v. cap. seg.) e Hume per ciò che riguarda anche la sostanza spirituale (v. cap 5). In realtà, il concetto di “sostanza” è del tutto estraneo all’empirismo e potrà avere una nuova impostazione, assai diversa da quella tradizionale che Locke critica, solo nella dottrina di Kant.

La sostanza come x sconosciuta

Il concetto di sostanza e l’empirismo

TAVOLA ROTONDA Dalla sostanza delle cose al soggetto del mondo, vol. 2B

413

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Le idee di relazione

L’identità della persona

Le idee generali

Esercizi interattivi L’attività della mente in Locke

Come abbiamo detto, tra le idee complesse ci sono anche quelle di relazione. L’intelletto, infatti, non si limita a considerare le cose in maniera isolata, ma procede sempre oltre, per riconoscere i rapporti in cui esse stanno con le altre cose. Nascono così le relazioni e i nomi relativi con cui si indicano le cose che sono poste in relazione. Tra le relazioni sono fondamentali quelle di causa ed effetto, di identità e di diversità. A proposito di queste ultime, Locke affronta il problema dell’identità della persona. Egli scorge questa identità nella coscienza che accompagna gli stati o i pensieri che si succedono nel senso interno. L’uomo non solo percepisce, ma percepisce di percepire: a tutte le sue sensazioni e percezioni si accompagna la consapevolezza che è il suo io a sentire o a percepire. È proprio questa consapevolezza a permettere che le varie sensazioni o percezioni costituiscano un unico io e a rappresentare di conseguenza il fondamento dell’unità della persona. Per quanto riguarda invece la formazione di idee generali, queste, secondo Locke, non indicano alcuna realtà, ma sono soltanto segni di un insieme di cose particolari. I nomi generali sono dunque segni di idee generali; ma le idee generali sono a loro volta segni di gruppi di cose particolari, tra le quali è possibile riconoscere una certa somiglianza. Alle idee generali non corrisponde pertanto alcuna realtà generale o universale, ma soltanto un certo rapporto di somiglianza tra le cose particolari, che sono le sole esistenti. Ad esempio, non c’è una realtà universale o un’essenza “uomo”: il nome e l’idea generale “uomo” sono segni di quegli esseri ai quali, dati i loro comuni caratteri, noi riferiamo il termine “uomo”. Una volta formatasi, mediante l’osservazione delle somiglianze che sussistono tra gli uomini, l’idea generale di uomo, il nostro intelletto riconosce come appartenenti alla specie “uomo” tutti gli individui somiglianti. La specie “uomo” è quindi soltanto un segno, cioè una parola adoperata nei discorsi in luogo di un gruppo di cose particolari.

Idee complesse (formate mettendo insieme più idee semplici)

Idee generali (formate per astrazione)

L’arbitrarietà del linguaggio e la conoscenza come semiotica

414

> modi = qualità o affezioni delle sostanze > sostanze = sostrati delle qualità > relazioni = rapporti (causa-effetto, identità ecc.) > segni di gruppi di cose particolari tra loro somiglianti

Locke non è il primo ad affermare il carattere convenzionale del linguaggio: si pensi ad esempio alla dottrina nominalistica che era stata esposta nel XIV secolo da Guglielmo di Ockham (v. vol. 1B, unità 7, cap. 3). Tuttavia tale dottrina viene estremizzata: per la maggior parte dei pensatori precedenti il linguaggio era arbitrario solo nel senso che il significante (il nome) era considerato un segno convenzionale (al quale però corrispondeva un concetto uguale per tutti). A questa arbitrarietà del significante Locke aggiunge quella del significato, cioè dello «schema di mediazione» tra i nomi e le cose. Affermando infatti che anche l’idea generale è un segno convenzionale, a cui non corrisponde «nulla di essenziale nelle cose», il filosofo “sgancia”, per così dire, non solo il linguaggio, ma anche la conoscenza dal-

Capitolo 3 • Locke

la realtà effettiva. La natura offre similitudini, non essenze: i generi e le specie non sono ambiti o strutture dell’essere, ma strumenti classificatori, come lo stesso Locke chiarisce bene con il seguente esempio: se un Inglese cresciuto in Giamaica, che forse non ha mai visto il ghiaccio, arrivasse in Inghilterra durante la stagione invernale e scoprisse che l’acqua, con cui riempie la sua catinella la sera, la mattina dopo per la maggior parte sarà ghiacciata, e, non conoscendo della cosa nessun nome peculiare, la chiamasse acqua indurita, io domando se questa non sia per lui una nuova specie, differente dall’acqua. E credo che si risponderebbe di no […]. E se le cose stanno così, è evidente che le nostre specie distinte non sono altro se non le nostre idee complesse, alle quali sono stati associati nomi distinti. (Saggio sull’intelletto umano, III, VI, 13)

La dottrina della conoscenza si riduce così, nella prospettiva lockiana, a semiotica, ovvero a dottrina dei segni.

Sintesi audio Locke; Esperienza e ragione; Le idee

5. La conoscenza e le sue forme L’esperienza fornisce il materiale della conoscenza, ma non è la conoscenza stessa. Questa, infatti, ha sempre a che fare con le idee, ma non si riduce alle idee, perché consiste nella percezione di un accordo o di un disaccordo delle idee tra loro. Come tale, la conoscenza può essere di due specie diverse. È conoscenza intuitiva quando l’accordo o il disaccordo di due idee è visto immediatamente e in virtù di queste idee stesse, senza l’intervento di altre idee. Così si percepisce immediatamente che il bianco non è nero, che tre sono più di due ecc. Questa conoscenza è la più chiara e la più certa che l’uomo possa raggiungere ed è quindi il fondamento della certezza e dell’evidenza di ogni altra conoscenza. Si tratta invece di conoscenza dimostrativa quando l’accordo o il disaccordo tra due idee non è percepito immediatamente, ma viene reso evidente mediante l’uso di idee intermedie che si chiamano “prove”. La conoscenza dimostrativa consiste evidentemente in una catena di conoscenze intuitive. Ogni passo di un ragionamento che tende a dimostrare la relazione di due idee a prima vista lontane consiste infatti nel mettere in rapporto queste due idee con idee intermedie che a loro volta siano tra loro in rapporto intuitivo. La certezza della dimostrazione si fonda dunque su quella dell’intuizione. Ma specialmente nelle lunghe dimostrazioni, quando le prove sono molto numerose, l’errore diventa possibile, perciò la conoscenza dimostrativa è assai meno sicura di quella intuitiva. Accanto a queste due specie di conoscenza, ce n’è anche un’altra, che è la conoscenza delle cose esistenti al di fuori delle idee. Locke è consapevole del problema che emerge dalla stessa impostazione della sua dottrina. Se lo spirito, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, non ha a che fare se non con idee, se la conoscenza consiste nel percepire l’accordo o il disaccordo tra le idee, in che modo sarà possibile giungere a conoscere una realtà diversa dalle idee? Ridotta la conoscenza a idee e rapporti tra idee, non la si è ridotta a un puro castello in aria, a una fantasia non diversa dal più chimerico sogno? È certo, secondo Locke, che la conoscenza è vera solo se c’è una conformità tra le idee e le cose reali. ➔ T4 p. 433

La natura della conoscenza

La conoscenza intuitiva Testo antologico La conoscenza intuitiva (Saggio sull’intelletto umano)

La conoscenza dimostrativa

La conoscenza delle cose esistenti al di fuori delle idee

415

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Ma come può essere verificata questa conformità, se le cose reali sono conosciute solo attraverso le idee? Ora, ci sono tre ordini di realtà: l’io, Dio e le cose; e ci sono tre modi diversi di giungere alla certezza di queste tre realtà. Noi abbiamo conoscenza: ■■ dell’esistenza del nostro io attraverso l’intuizione; ■■ dell’esistenza di Dio attraverso la dimostrazione; ■■ dell’esistenza delle cose attraverso la sensazione. ➔ T5 p. 434 L’intuizione dell’io

La dimostrazione dell’esistenza di Dio

La sensazione attuale delle cose

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488 A favore dell’esistenza delle cose esterne

La conoscenza probabile Testo antologico La conoscenza probabile (Saggio sull’intelletto umano)

416

Per ciò che riguarda l’esistenza dell’io, Locke si avvale del procedimento cartesiano. Io penso, ragiono, dubito e con ciò intuisco la mia propria esistenza e non posso dubitare di essa. Per ciò che riguarda l’esistenza di Dio, Locke rielabora la prova causale della tradizione. Il nulla, egli dice, non può produrre nulla; se qualcosa c’è, vuol dire che è stato prodotto da un’altra cosa e dunque, non potendosi risalire all’infinito, si deve ammettere un essere eterno che ha prodotto ogni cosa. Poiché questo essere rappresenta la fonte di ogni potenza e di ogni intelligenza, sarà onnipotente e onnisciente. Questo essere eterno, potentissimo e intelligentissimo è Dio. Quanto all’esistenza delle cose, l’uomo non ha altro mezzo di conoscerla tranne che la sensazione, e precisamente la sensazione attuale. Come abbiamo visto parlando del linguaggio e delle idee generali, non c’è alcun rapporto necessario tra l’idea e la cosa a cui essa si riferisce: l’idea potrebbe esserci anche se non ci fosse la cosa, come ci possono essere un’immagine o un dipinto senza che esistano o siano mai esistite la persona o la cosa che l’immagine o il dipinto rappresentano. Ma il fatto che noi riceviamo attualmente l’idea dall’esterno ci fa conoscere che qualcosa esiste in questo momento fuori di noi e produce in noi l’idea. Nel momento in cui noi riceviamo una sensazione, siamo certi che esiste la cosa che la produce in noi; e questa certezza basta, secondo Locke, a garantire la realtà della cosa esterna. Non è ammissibile che le nostre facoltà ci ingannino a tal punto; una fiducia nelle nostre facoltà è indispensabile, dal momento che non possiamo conoscere queste stesse facoltà se non adoperandole. La certezza che la sensazione attuale ci dà dell’esistenza delle cose esterne, pur non essendo assoluta, è sufficiente per tutti gli scopi umani. Locke, tuttavia, ritiene che essa possa essere confermata da alcune ragioni supplementari: ■■■ le idee vengono a mancarci quando ci manca l’organo di senso adeguato: il che è una prova che le sensazioni sono prodotte da cause esterne che colpiscono i nostri sensi; ■■■ le idee sono prodotte nel nostro spirito senza che noi le possiamo evitare: il che vuol dire che non sono prodotte da noi, ma da una causa esterna; ■■ molte idee sono prodotte in noi con piacere o con dolore, mentre quando sono soltanto ricordate non sono più accompagnate da piacere o da dolore: il che vuol dire che solo l’oggetto esterno produce in noi piacere o dolore quando colpisce i nostri sensi; ■■ i sensi si offrono testimonianza reciproca, ad esempio il tatto e la vista confermano l’esistenza di una cosa e così rafforzano la certezza dell’esistenza delle cose. Ma queste ragioni, come la prima e fondamentale certezza della realtà esterna dovuta alla sensazione, valgono soltanto per l’istante in cui la sensazione è ricevuta. Quando l’oggetto non è più testimoniato dai sensi, la certezza della sua esistenza sparisce ed è sostituita da una semplice probabilità. È ragionevole supporre che le cose e gli uomini continuino a esistere anche quando io non ne ho una percezione attuale e che, tra essi, esistano anche quelli di cui non ho mai avuto una tale percezione. Ma tutto ciò costituisce probabilità, non conoscenza certa.

Capitolo 3 • Locke

Perciò Locke, accanto al dominio della conoscenza certa, che è limitato all’intuizione (esistenza dell’io), alla dimostrazione (esistenza di Dio) e alla sensazione attuale (esistenza delle cose), ammette il dominio della conoscenza probabile, che è assai più esteso. Conoscenza probabile è quella nella quale si afferma la verità o la falsità di una proposizione non già per la sua evidenza (che manca), ma per la sua conformità con l’esperienza passata o con la testimonianza di altri uomini (oppure per analogia: ad esempio, dal fatto che io penso ipotizzo che anche gli altri pensino). La conoscenza certa e quella probabile costituiscono il dominio della ragione. Dalla ragione si distingue la fede, che è fondata soltanto sulla rivelazione. La ragione rimane tuttavia il criterio della stessa fede, perché solo essa può decidere dell’attendibilità e del valore della rivelazione. Perciò la fede non può né turbare né negare la ragione, ma solo condurla là dove non potrebbe arrivare da sola. Se essa prescindesse dalla ragione, tutte le stravaganze e tutti i fanatismi sarebbero inconfutabili.

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?, p. 488 La fede

Sintesi audio La conoscenza

> intuitiva = percezione immediata di un accordo o di un disaccordo tra idee La conoscenza può essere

> dimostrativa = percezione mediata di un accordo o di un disaccordo tra idee

> l’io (per intuizione)

> delle cose esterne

> Dio (per dimostrazione) > le cose percepite (per sensazione attuale)

Accanto alla conoscenza certa (io, Dio, cose)

> esiste la

>

conoscenza probabile, basata sulla conformità con l’esperienza passata o con la testimonianza altrui (o sull’analogia)

La conoscenza certa e quella probabile costituiscono l’ambito della ragione. Da quest’ultima si distingue la fede, che si basa sulla rivelazione

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

GLOSSARIO e RIEPILOGO

La gnoseologia Empirismo inglese p. 407 > L’empirismo inglese interpreta l’esperienza: 1. come fonte e origine del processo conoscitivo; 2. come criterio di verità delle tesi della ragione (v.), che risultano valide solo se suscettibili di con-

trollo empirico. Il primo aspetto collega l’empirismo alla tradizione anti-innatistica della filosofia occidentale, a partire da Aristotele. Il secondo aspetto costituisce invece il carattere più originale dell’empirismo moderno: pur essendo presente in Locke, esso verrà fatto valere in tutta la sua coerenza soltanto con Hume.

417

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Ragione p. 410 > La ragione, per Locke, non è un’entità infallibile e onnipotente, ma un’entità finita e imperfetta, che risulta limitata dall’esperienza. Ciò non toglie che essa sia l’unica guida efficace di cui l’uomo dispone in tutti i campi del conoscere e dell’agire.

Qualità originarie o primarie p. 412 > Le “qualità pri-

Indagine critica p. 411 > Quello critico è uno degli

sono quelle che non esistono nei corpi, ma sono prodotte in noi dalle varie combinazioni delle qualità primarie e corrispondono a proprietà soggettive come i colori, i suoni, i sapori, gli odori ecc.

aspetti più caratteristici della filosofia di Locke (sarà ripreso in modo sistematico da Kant), il quale ritenne che prima di dedicarsi a ricerche complesse fosse necessario «esaminare la nostra stessa capacità, e vedere quali oggetti il nostro intelletto fosse o non fosse in grado di trattare» (Saggio sull’intelletto umano, “Epistola al lettore”, trad. it. di M. e N. Abbagnano, utet, Torino 1971). Infatti, il compito principale che Locke si propone di risolvere nel suo capolavoro è quello di «indagare sull’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana» (Saggio, “Introduzione”).

Qualità secondarie p. 412 > Le “qualità secondarie”

Modi p. 413 > I “modi” sono le idee che esistono solo

te, «qualunque cosa che è l’oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa» (Saggio, “Introduzione”).

come manifestazioni di una sostanza, ovvero «le idee complesse che, comunque composte, non contengono in sé la supposizione di sussistere di per sé, ma sono considerate come dipendenze o affezioni delle sostanze» (Saggio, II, XII, 4). N.B. Nell’ambito dei modi Locke distingue tra «modi semplici», che sono semplicemente «variazioni o combinazioni» di una stessa idea semplice, e «modi misti», che risultano dalla combinazione di modi di diversa specie.

Idee di sensazione p. 411 > Le “idee di sensazione”

Sostanze p. 413 > Le “sostanze” sono le idee di ciò che

sono quelle che derivano dal senso esterno (l’estensione, la figura, il giallo, il caldo, il duro, l’amaro…).

è percepito come esistente di per se stesso. In realtà, argomenta Locke con una celebre analisi, noi percepiamo soltanto idee semplici. Ma non sapendo immaginare «in quale maniera queste idee semplici possano sussistere da sole, ci abituiamo a supporre che ci sia qualche substratum, in cui sussistono e dal quale risultano, che chiamiamo perciò sostanza» (Saggio, II, XXIII, 1). Tuttavia, di tale substratum noi non possediamo alcuna nozione chiara e verificabile. Pertanto, l’idea a cui noi diamo il nome generale di “sostanza” non è altro che «il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti» (Saggio, II, XXIII, 2). N.B. Questo discorso vale non solo per la sostanza corporea, ma anche per quella spirituale: «col supporre una sostanza in cui sussistano il pensare, il conoscere, il dubitare ecc., abbiamo un’idea della sostanza dello spirito altrettanto chiara quanto quella che abbiamo del corpo. Infatti si suppone che l’una (senza sapere che cos’è) sia il substratum di quelle idee semplici che riceviamo dall’esterno e l’altra (con altrettanta ignoranza di che cosa sia) il substratum di quelle operazioni che avvertiamo all’interno di noi stessi» (Saggio, II, XXIII, 5).

Idea p. 411 > Per “idea” Locke intende, cartesianamen-

Idee di riflessione p. 411 > Le “idee di riflessione” sono quelle che derivano dal senso interno (la percezione, il pensiero, il dubbio…).

Critica dell’innatismo p. 411 > Secondo Locke le presunte “idee innate” dovrebbero essere conosciute da tutti gli uomini e allo stesso modo. Ciò non accade (come mostrano i casi dei bambini, degli idioti e dei “selvaggi”) e dunque bisogna concludere che tali idee non esistono. Infatti, poiché per un’idea esistere ed essere pensata è la stessa cosa, le idee non ci sono quando non sono pensate.

Idee semplici p. 412 > Le “idee semplici” sono quelle idee, non decomponibili in idee più elementari, che fungono da “materiale” di tutta la nostra conoscenza. Tali idee sono ricevute passivamente dall’esperienza interna ed esterna. Tant’è che neppure l’intelletto più potente può inventarne una nuova (o distruggere qualcuna di quelle che già ci sono).

Idee complesse p. 412 > Le “idee complesse” sono quelle prodotte attivamente dal nostro intelletto, mediante la riunione di varie idee semplici. Per quanto infinite di numero, le idee complesse si riducono a tre categorie fondamentali: modi, sostanze e relazioni.

418

marie” sono quelle «originarie» dei corpi e inseparabili da essi, ossia proprietà oggettive come l’estensione, la figura, il movimento ecc.

Relazioni p. 413 > Le “relazioni” sono le idee complesse che scaturiscono dal mettere a confronto due o più idee, istituendo tra esse un rapporto. Le più importanti sono quelle di causa-effetto, di identità e di diversità.

Capitolo 3 • Locke

Idee generali p. 414 > Le “idee generali” non indicano,

tutte le altre cose, questo stesso dubbio mi fa percepire GLOSSARIO e RIEPILOGO secondo Locke, alcuna realtà, ma sono soltanto segni di la mia propria esistenza e non mi permette di dubitarne insiemi di cose particolari che hanno tra loro qualche affinità. Tali idee sono ottenute mediante un processo di “astrazione” che, prescindendo dalle differenze specifiche sussistenti all’interno di un gruppo di cose, fissa (sebbene in modo arbitrario) ciò che è comune a esse.

Conoscenza p. 415 > La “conoscenza” in generale consiste, secondo Locke, nella percezione di un accordo o di un disaccordo delle idee tra loro (cfr. Saggio, IV, I, 2).

Conoscenza intuitiva p. 415 > La “conoscenza intuitiva” è quella in cui l’accordo o il disaccordo tra due idee è colto immediatamente e in virtù di queste stesse idee.

Conoscenza dimostrativa p. 415 > La “conoscenza dimostrativa” è quella in cui l’accordo o il disaccordo tra due idee viene reso esplicito attraverso l’uso di idee intermedie, definite “prove”. La conoscenza dimostrativa poggia su quella intuitiva e si configura come una catena di conoscenze intuitive. Cose esistenti al di fuori delle idee p. 415 > Il problema delle realtà esistenti al di fuori di noi, cioè al di fuori delle idee, discende dall’impostazione stessa della filosofia lockiana. Infatti, se lo spirito, in tutti i suoi pensieri e ragionamenti, ha a che fare soltanto con idee, in che modo si può giungere a conoscere una realtà diversa dalle idee? Locke risponde che ci sono tre ordini di realtà (l’io, Dio e le cose) e tre modi diversi di pervenire alla certezza di tali realtà.

Esistenza dell’io p. 416 > L’esistenza dell’io è attinta mediante un’intuizione di tipo cartesiano: «Se dubito di

[…]. L’esperienza ci convince che abbiamo una conoscenza intuitiva della nostra propria esistenza, e una percezione interna infallibile che noi esistiamo. In ogni atto di sensazione, ragionamento o pensiero, noi siamo consci, di fronte a noi stessi, del nostro essere e su questo punto non manchiamo del più alto grado di certezza» (Saggio, IV, IX, 3).

Esistenza di Dio p. 416 > L’esistenza di Dio è attinta per via dimostrativa. Poiché dal nulla non può derivare nulla, si deve concludere che se qualcosa c’è, è stato prodotto da un essere eterno che ha prodotto ogni cosa. Poiché questa eterna fonte di tutti gli esseri deve anche essere la fonte e l’origine di tutti i poteri, essa sarà onnipotente. Inoltre, poiché tale fonte ha creato l’uomo, che è intelligenza, deve essere essa stessa intelligenza al massimo grado.

Esistenza delle cose p. 416 > L’esistenza delle cose è certificata dalle sensazioni attuali: «solo la ricezione attuale delle idee dall’esterno ci dà notizie dell’esistenza delle altre cose e ci fa conoscere che in quel momento esiste fuori di noi qualcosa che causa quell’idea in noi, anche se forse non sappiamo né consideriamo come faccia» (Saggio, IV, XI, 2).

Conoscenza probabile p. 417 > La “conoscenza probabile” è quella in cui si afferma la verità o la falsità di una proposizione non già per la sua evidenza (che manca), bensì per la sua conformità con l’esperienza passata o con la testimonianza di altre persone (oppure per analogia).

6. La politica Il diritto naturale Locke, come si è detto, fu mosso a intraprendere le ricerche delle quali il Saggio costituisce il risultato da problemi di tutt’altra natura. Sappiamo che si trattava di questioni riguardanti la politica e la morale, che gli furono imposte o suggerite dalle vicende della sua vita e alle quali egli tenne costantemente rivolto lo sguardo, sia durante la preparazione del Saggio, sia dopo la sua pubblicazione.

419

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Un’etica fondata sulla ragione

La fondazione del liberalismo

I Due trattati e la legge di natura

Differenze rispetto a Hobbes

Testo con analisi attiva Lo stato di natura (Secondo trattato sul governo)

Esercizi interattivi Il pensiero politico di Locke

420

Sulla morale in senso stretto, Locke non ci ha lasciato scritti. Sappiamo dal Saggio (I, 2) che egli affermava il carattere razionale o dimostrativo dell’etica, in quanto sosteneva che non si può proporre alcuna regola morale di cui non si sappia dar ragione; che la ragione di tali regole dovrebbe essere la loro utilità per la conservazione della società e per la felicità pubblica; che, pertanto, nella disparità delle regole morali seguite nei differenti gruppi in cui l’umanità si divide, occorrerebbe isolare e raccomandare quelle che si rivelano veramente efficaci a questo scopo. Ma una ricerca secondo queste direttive, Locke non l’ha mai intrapresa. Nel dominio del pensiero politico e religioso, invece, Locke ci ha lasciato contributi fondamentali: la Lettera sulla tolleranza, i Due trattati sul governo e la raccolta di scritti sulla Ragionevolezza del cristianesimo gli assicurano in questo campo un posto altrettanto importante di quello che il Saggio gli assicura nel campo più strettamente filosofico. Queste opere fanno di Locke il fondatore del liberalismo moderno, cioè uno dei primi e più efficaci difensori delle libertà dei cittadini, della tolleranza religiosa e della libertà delle Chiese: ideali che a lui appaiono teoremi dimostrati e dimostrabili a opera di quella ragione finita di cui il Saggio ha chiarito la natura e le regole d’uso. Ma noi sappiamo dagli scritti inediti che le conclusioni raggiunte in queste opere costituiscono il risultato di una lunga ricerca, non priva di oscillazioni e di contrasti. Il primo dei Due trattati sul governo è destinato a confutare le tesi contenute nel Patriarca o la potenza naturale dei re (1680) di Robert Filmer, secondo il quale il potere dei re deriva per diritto ereditario da Adamo, al quale furono conferiti da Dio l’autorità su tutti i suoi discendenti e il dominio del mondo. Il secondo dei Due trattati contiene invece la parte positiva della dottrina, ossia l’affermazione dell’esistenza di una legge di natura che è la ragione stessa in quanto ha per oggetto i rapporti tra gli uomini e che prescrive la reciprocità perfetta di tali rapporti. Anche per Locke, come per Hobbes, lo stato di natura è caratterizzato da una condizione di uguaglianza di tutti gli uomini, ma mentre per Hobbes si tratta di un’uguaglianza di forza, per Locke si tratta di un’uguaglianza di diritti: tutti hanno l’identico diritto di disporre di se stessi e dei propri beni. Nello stato di natura ogni uomo è dunque perfettamente libero, cioè non sottoposto ad alcun potere: in questo senso gode di un diritto “naturale”, cioè prepolitico, alla vita, alla libertà e alla proprietà. Per quanto caratterizzato dalla libertà, questo stato di natura non coincide però con una condizione (come quella descritta da Hobbes) in cui ciascuno possa «vivere come gli piace» (Due trattati sul governo, II, 4, 22), perché è regolato dalla «legge di natura». Questa, secondo Locke, è una «legge della ragione», ma non nel senso che indica all’uomo come conseguire il vantaggio della sopravvivenza, bensì nel senso che rivela a tutti gli uomini, in quanto ugualmente dotati di ragione, alcuni limiti invalicabili: non si può violare la propria vita, né la vita e i beni degli altri. Lo stato di natura è governato dalla legge di natura, che collega tutti; e la ragione, la quale è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti uguali e indipendenti, nessuno deve danneggiare l’altro nella vita, nella salute, nella libertà e nella proprietà. (Due trattati sul governo, II, 2, 6)

Capitolo 3 • Locke

Il diritto naturale dell’uomo è dunque limitato alla propria persona: alla propria vita, alla propria libertà e alla proprietà, intesa come il prodotto del proprio lavoro. Questo diritto implica indubbiamente anche quello di essere giudici ed esecutori della legge di natura, cioè di applicare la «giustizia naturale» rivelata dalla ragione: di fronte a una violazione della legge naturale (che prescrive, lo ripetiamo, il rispetto della propria e altrui vita) ognuno può e deve reagire in modo proporzionato alle offese, assumendo il ruolo del giudice che risarcisce un danno con una giusta pena. Ma neppure questo diritto autorizza l’uso di una forza assoluta o arbitraria, ma solo quella reazione che la ragione indica come proporzionata alla trasgressione.

Il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà

TAVOLA ROTONDA La fondazione del potere politico, vol. 2B

ConCetti

Lo stato di natura

a Confronto

in Hobbes

in Locke

è fondato sull’egoismo e sull’identico diritto di tutti su tutto

è fondato sull’identico diritto di tutti gli uomini di disporre di sé e dei propri beni

non è limitato da alcuna regola e genera uno stato di guerra di tutti contro tutti

è limitato dalla legge di natura, che impone a ogni individuo di non danneggiare gli altri, garantendo (entro certi limiti) una convivenza pacifica

è una condizione pre-morale, in cui non esistono giusto e ingiusto

coincide con una condizione di giustizia naturale

Schema interattivo

Stato e libertà Per Locke, dunque, lo stato di natura non è necessariamente, come voleva Hobbes, uno stato di guerra, bensì una condizione di pacifica coesistenza. Ma può diventare uno stato di guerra quando una o più persone ricorrono alla forza, o a un’intenzione dichiarata di forza, per ottenere ciò che la norma naturale vieterebbe di ottenere, cioè un controllo sulla libertà, sulla vita e sui beni degli altri. Proprio per evitare questo stato di guerra, gli uomini si pongono in società e abbandonano lo stato di natura: perché un potere a cui si possa fare appello per ottenere soccorso esclude la permanenza indefinita nello stato di guerra. Ma la costituzione di un potere civile non toglie agli uomini i diritti di cui godevano nello stato di natura, tranne quello di farsi giustizia da sé; giacché, anzi, la giustificazione del potere civile consiste nella sua efficacia a garantire agli uomini, pacificamente, questi diritti. Se la libertà naturale consiste per l’uomo nell’essere limitato soltanto dalla legge di natura (che è la ragione stessa), la libertà dell’uomo nella società consiste «nel non sottostare ad altro potere legislativo che a quello stabilito per consenso, né al dominio di altra volontà o alla limitazione di altra legge da quella che questo potere legislativo stabilirà conformemente alla fiducia riposta in lui» (Due trattati sul governo, II, 4, 22). In altri termini, originandosi dal consenso dei cittadini, il potere civile è scelto dagli stessi cittadini e, quindi, nello stesso tempo è un atto e una garanzia di libertà dei cittadini medesimi.

IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Lorenzetti e l’”architettura” del bene comune, p. 440 Lo Stato garantisce i diritti naturali originari

421

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

L’esclusione di un potere assoluto o illimitato

Sintesi audio La politica

Pertanto la legge di natura non implica, come riteneva Hobbes, ma esclude che il contratto che dà origine a una comunità civile legittimi un potere assoluto o illimitato. L’uomo, che non possiede alcun potere sulla propria vita (che per legge di natura ha il dovere di conservare), non può, con un contratto, rendersi schiavo di un altro e porre se stesso sotto un potere assoluto che disponga della sua vita come gli piace. Soltanto il consenso di coloro che partecipano a una comunità stabilisce il diritto di questa comunità sui suoi membri; ma questo consenso, come è un atto di libertà, cioè di scelta, così è diretto a mantenere o garantire questa libertà stessa e non può convalidare l’assoggettamento dell’uomo all’incostante, incerta e arbitraria volontà di un altro uomo. Anche per questo Locke (a differenza di Hobbes, secondo cui il sovrano non sottoscrive alcun contratto con i sudditi) prevede la stipulazione di un contratto, oltre che tra i sudditi, anche tra questi e il sovrano. Di conseguenza, quest’ultimo non è l’origine di ogni legge e di ogni diritto, ma risulta, esso stesso, soggetto alla legge e al diritto. Tant’è che anche dopo la costituzione di una società politica, il popolo conserva il diritto di difendersi contro gli stessi legislatori, allorquando essi siano così pazzi o malvagi da manomettere le libertà e i beni dei sudditi.

7. Tolleranza e religione L’importanza storica della Lettera sulla tolleranza

Il compito dello Stato e i suoi limiti

La fede non può essere imposta con la forza

La Lettera sulla tolleranza, pubblicata nel 1689, è uno dei più solidi monumenti elevati alla libertà di coscienza. Come vedremo, gli argomenti addotti in questo scritto in favore della libertà religiosa e del non intervento dello Stato in materia di fede conservano anche oggi, a distanza di secoli, la loro validità. Questo fu il solo scritto sull’argomento che Locke pubblicò, cioè il solo nel quale egli espresse le proprie convinzioni mature e definitive. Altri scritti precedenti su questo tema (tra cui il Saggio sulla tolleranza) rimasero infatti inediti finché Locke fu in vita. Nella Lettera1 Locke mette a confronto lo Stato e la Chiesa, individuando nel concetto di tolleranza il punto d’incontro tra i compiti e gli interessi delle due istituzioni. Lo Stato, dice Locke, è «una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili», intendendosi per «beni civili» la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, il possesso delle cose esterne. Questo compito stabilisce i limiti della sovranità dello Stato; e la salvezza dell’anima è chiaramente al di là di questi limiti. L’unico strumento di cui il magistrato civile dispone è la costrizione; ma la costrizione è incapace di condurre alla salvezza, perché nessuno può essere salvato suo malgrado. La salvezza dipende dalla fede e la fede non può essere indotta negli animi con la forza: ➔ T6 p. 436 Se qualcuno vuole accogliere qualche dogma, o praticare qualche culto per salvare la propria anima, deve credere con tutto il suo animo che quel dogma è vero e che il culto sarà gradito e accetto a Dio; ma nessuna pena è, in nessun modo, in grado di istillare nell’anima una convinzione di questo genere. (Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, utet, Torino 1977, p. 137) 1 Cfr. R. Cortese (a cura di), La “Lettera sulla tolleranza” di Locke e il problema della tolleranza nella filosofia del Seicento, Paravia, Torino 1990.

422

Capitolo 3 • Locke

D’altra parte, né i cittadini né la Chiesa stessa possono chiedere l’intervento del magistrato in materia religiosa. La Chiesa, dice Locke, è «una libera società di uomini che si riuniscono spontaneamente per onorare pubblicamente Dio nel modo che credono sarà accetto alla divinità, per ottenere la salvezza dell’anima». Come società libera e volontaria, la Chiesa non fa nulla né può far nulla che concerna la proprietà dei beni civili o terreni, né può far ricorso alla forza per alcun motivo, dal momento che la forza è riservata al magistrato civile. La forza, d’altronde, anche se esercitata dalla Chiesa, è inutile e dannosa allo scopo di promuovere la salvezza. Certamente, la Chiesa ha il diritto di espellere dal suo seno coloro le cui credenze ritiene incompatibili con i propri principi. Ma la scomunica non deve in alcun modo trasformarsi in una diminuzione dei diritti civili del condannato. ➔ T7 p. 437 Per quanto né nel Saggio sulla tolleranza, né nella Lettera, nonostante tutto, la tolleranza trovi un riconoscimento radicale, in quanto Locke ritiene che «coloro che negano l’esistenza di Dio non possono essere tollerati in alcun modo»1, questi scritti rappresentano ancora oggi la migliore giustificazione della libertà di coscienza che la storia della filosofia ci abbia offerto. D’altro canto, però, Locke non intende negare o sminuire il valore della religione, riducendolo alla pura fede nel senso in cui la fede si contrappone alla ragione. Gli scrittori libertini (che Locke conosceva) mostravano la tendenza a confinare nel dominio della fede le credenze ripugnanti o assurde per la ragione. Locke, pur accettando alcuni degli argomenti di cui essi si avvalevano per negare alla religione valore razionale (ad esempio, la pluralità e disparità delle fedi e dei culti religiosi), afferma e difende la possibilità del carattere razionale della religione e riconosce nel cristianesimo una religione razionale. L’opera intitolata Ragionevolezza del cristianesimo intende individuare nel cristianesimo quel nucleo essenziale e spoglio di superstizioni che lo rende accettabile dalla ragione e ne fa l’alleato migliore della ragione stessa per ciò che riguarda la vita morale del genere umano.

Stato

> società costruita per promuovere i beni civili

Chiesa

> società formata spontaneamente per onorare Dio e ottenere la salvezza

La Chiesa come società libera e volontaria

ECHI DEL PENSIERO Locke e il principio della laicità dello Stato, p. 426 Il “limite” della tolleranza Testo antologico Il “limite” della tolleranza (Saggio sulla tolleranza)

Un «ragionevole» cristianesimo

Approfondimento Locke nella filosofia moderna

Gli ambiti e i ruoli di Stato e Chiesa sono distinti e autonomi

1 Dall’area della tolleranza Locke esclude anche quelle religioni i cui capi (come il pontefice di Roma) siano principi stranieri (esplicita allusione alla polemica contingente contro il cattolicesimo romano).

423

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

GLOSSARIO e RIEPILOGO La politica Liberalismo p. 420 > Il liberalismo è la prospettiva politica di cui Locke può essere considerato «il fondatore» (Norberto Bobbio). Secondo tale prospettiva, lo Stato ha come compito primario quello di garantire i diritti fondamentali dell’individuo. Diritti che secondo Locke esistono già in natura (il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà) e che lo Stato deve semplicemente cercare di tutelare meglio attraverso le sue leggi: «il fine della legge non è di precludere o reprimere la libertà ma di conservarla e ampliarla» (Due trattati sul governo, II, VI, 57).

Tolleranza p. 422 > Nella Lettera sulla tolleranza, da un lato Locke afferma che lo Stato è «una società umana costituita unicamente al fine della conservazione e della promozione dei beni civili», per cui «la cura delle anime non è affidata al magistrato civile»; dall’altro lato

424

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

sostiene che la Chiesa è una società libera e volontaria che non può far ricorso alla forza per nessun motivo. La forza, d’altronde, anche se esercitata dalla Chiesa, è inutile e dannosa al fine di promuovere la salvezza. N.B. Per quanto neppure nella Lettera la tolleranza trovi un riconoscimento totale (dal momento che gli atei e i cattolici ne vengono esclusi), lo scritto di Locke costituisce la migliore giustificazione che la storia della filosofia moderna ci abbia offerto della libertà di coscienza. Quest’opera rappresenta inoltre una delle matrici teoriche del cosiddetto “Stato laico” che sta alla base delle democrazie occidentali.

Ragionevolezza del cristianesimo p. 423 > Per «ragionevolezza del cristianesimo», che è anche il titolo di una sua opera, Locke intende quel nucleo essenziale del cristianesimo, debitamente spogliato da ogni elemento fantastico e superstizioso, che lo rende accettabile dalla ragione e dal buon senso.

Capitolo 3 • Locke

MAPPA GLOSSARIO e RIEPILOGO Locke Mappa interattiva

Le IDEE sono l’oggetto della conoscenza e si distinguono in

idee semplici, prodotte dall’esperienza dal senso interno: idee di riflessione

idee complesse, prodotte dal nostro spirito

dal senso esterno: idee di sensazione

modi

La CONOSCENZA

sostanze

relazioni

Mappa interattiva

consiste nella percezione di un accordo o di un disaccordo tra le idee

si distingue in conoscenza intuitiva, se l’accordo o il disaccordo è immediato

conoscenza dimostrativa, se l’accordo o il disaccordo è reso evidente mediante idee intermedie (prove)

è vera quando c’è conformità tra le idee e le cose

è probabile quando si basa sull’esperienza passata o sulla testimonianza altrui

siamo certi: • dell’esistenza dell’io grazie all’intuizione • dell’esistenza di Dio tramite dimostrazione • dell’esistenza degli oggetti grazie alla sensazione attuale

La POLITICA

nello stato di natura vige la legge di natura coincide con la ragione e prescrive la reciprocità dei rapporti tra gli uomini

gli individui fondano la società civile per evitare che qualcuno ricorra alla forza per subordinare gli altri

lo Stato deve garantire i diritti naturali di tutti gli uomini e il suo potere non può essere assoluto o illimitato

425

Politica

Cittadinanza e Costituzione

ECHI DEL PENSIERO LOCKE E IL PRINCIPIO DELLA LAICITÀ DELLO STATO Dalla Lettera sulla tolleranza alla Costituzione italiana

I

l termine “laicità”, nella sua accezione più comune, indica la separazione tra il potere politico e quello religioso, tra le leggi civili e i codici ecclesiastici, tra il reato (perseguibile dallo Stato) e il peccato (sanzionabile dalla Chiesa). Uno Stato “laico” – diversamente da quello “confessionale” o “etico” – è quello che non privilegia alcuna visione religiosa o non religiosa, ma garantisce la libertà di pensiero e di culto di tutti i cittadini, senza interferire nelle loro scelte personali in materia di fede, di etica o di convinzioni ideologiche. In quanto espressione di una concezione liberale del potere, John Locke può essere considerato il primo teorico dello Stato laico.

LA VOCE DI LOCKE Nella celebre Lettera sulla tolleranza, Locke teorizza la separazione radicale tra la sfera politica e la sfera religiosa, cioè tra lo Stato e la Chiesa. Lo Stato è un’associazione di uomini «costituita solo in vista della conservazione e della promozione dei beni civili», vale a dire «la vita, la libertà, l’integrità e l’assenza di dolore, e la proprietà di oggetti esterni» (Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, p. 135). Esso può e deve usare la forza per evitare i reati, cioè la violazione del corpo, della libertà e dei beni dei cittadini. La Chiesa, al contrario, è una libera associazione che nasce «per adorare pubblicamente Dio nel modo che gli uomini credono gradito alla divinità al fine della salvezza delle anime» (ibidem, p. 138). Essa non deve evitare i reati ma scoraggiare i peccati: per questo non userà la forza della legge positiva ma la persuasione, il consiglio e l’ammonimento. Infatti, dal momento che le fede implica l’adesione di una volontà libera, questa non può essere costretta con la forza, altrimenti non sarebbe neanche meritoria: L’autorità civile […] non deve prescrivere con legge civile articoli di fede o dogmi, o forme del culto divino […]. Se uno vuole abbracciare un dogma o un culto per salvare la sua anima, bisogna che egli creda in cuor suo che quel dogma è vero, e che quel culto è gradito e ben accetto a Dio; ma una tale persuasione non c’è pena che possa instillarla nell’animo umano. (J. Locke, Lettera sulla tolleranza, in op. cit., pp. 136-137)

426

Tra Chiesa e Stato, tra cielo e terra, Locke innalza così un muro insormontabile. Questa scelta ha il duplice esito di garantire, per quanto concerne la religione, la piena autonomia delle scelte di ciascuno, senza che la pubblica autorità possa interferire nel foro inviolabile della coscienza individuale, e, per quanto riguarda la politica, di assicurare l’uguaglianza di tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro opinioni etico-religiose.

DA LOCKE ALLA NOSTRA COSTITUZIONE Il principio lockiano dell’indipendenza fra Stato e Chiesa – cioè, in sostanza, il principio della laicità – è stato una lenta e spesso faticosa conquista degli Stati moderni. Diversamente da quella francese, la nostra Costituzione non contiene (tra i «principi fondamentali» che compongono la prima parte del testo) un riferimento esplicito alla laicità dello Stato, anche se garantisce l’uguaglianza dei cittadini escludendo ogni discriminazione per motivi religiosi (art. 3) e sancisce la libertà di religione e di culto (art. 19), nonché la libertà di pensiero (art. 21). Durante la stesura della nostra carta costituzionale, la forte pressione del Vaticano e della Democrazia Cristiana, con il benevolo consenso del Partito Comunista di Togliatti (sensibile alla «pace religiosa» degli italiani), portò alla stesura del ben noto articolo 7, che riconosce il ruolo primario svolto nella storia italiana dalla Chiesa cattolica e stabilisce che i rapporti fra Stato e Chiesa siano regolamentati dai Patti Lateranensi del 1929.

Secondo molti giuristi e costituenti, il rimando ai Patti lateranensi (non modificabili senza il consenso delle due parti) rappresentava un’incrinatura nella laicità della nascente repubblica. È quanto fecero notare, tra gli altri, il filosofo Benedetto Croce (1866-1952) e il giurista Piero Calamandrei (1889-1956). L’articolo 1 del Concordato fra Stato e Chiesa (contenuto nei Patti Lateranensi) affermava infatti che il cattolicesimo era l’unica religione di Stato, fissando così, anche se in maniera non esplicita, il carattere confessionale dello Stato italiano. L’articolo 8 compensava in parte questo “privilegio” concesso al cattolicesimo, affermando che «tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge». In ogni caso, a partire dalla fine degli anni Sessanta del Novecento, l’evoluzione politica e culturale dell’Italia portò alla progressiva conquista di una laicità più piena da parte del nostro ordinamento. Nel 1984, dopo la stipulazione di «intese» con altre chiese e confessioni religiose (in attuazione dell’articolo 8), si arrivò così a una «revisione» del Concordato, ovvero alla stesura di un protocollo addizionale che affermava che «non si considera più in vigore il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano».

Questa rimozione per via concordataria del carattere confessionale della Repubblica italiana portò a una decisiva evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale nel frattempo, sulla scia della Corte suprema tedesca, stava elaborando una tavola di «principi supremi» dell’ordinamento costituzionale, vale a dire un elenco di valori o norme che prevalgono sulle altre norme di rango costituzionale, comprese quelle relative all’articolo 7 (che conteneva i vincoli concordatari). Nel 1989 (in occasione della sentenza n. 203), tra questi «principi fondamentali» venne enunciato anche il «principio supremo della laicità dello Stato»: Gli articoli 3 e 19 della Costituzione evidenziano i valori della liberà religiosa nella duplice specificazione del divieto: a) che i cittadini siano discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare nessuna religione. I valori richiamati concorrono […] a strutturare il principio supremo della laicità dello Stato, che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica. Il principio di laicità […] implica non indifferenza dello Stato davanti alle religioni ma garanzia dello Sato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale.

LABORATORIO DELLE IDEE

VERSO LE COMPETENZE Il pronunciamento del 1989 da parte della Corte costituzionale arrivava al termine di una complicata vicenprendere le radici da giudiziaria riguardante l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, insegnamento w Com ali e filosofiche dei principali concettu che il nuovo Concordato manteneva ma, per quanto concerne le scuole superiori (oggi secondarie di seconproblemi della contemporaneità do grado), nella forma della «facoltatività» (cioè a richiesta dello studente) e non dell’obbligatorietà (con w Riflettere e argomentare, possibilità di «esonero»). individuando collegamenti Alcune disinvolte disposizioni ministeriali avevano dato un’interpretazione restrittiva del nuovo regime cone relazioni cordatario: chi decideva di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica non avrebbe potuto allontanarsi dalla scuola, essendo obbligato a scegliere insegnamenti o attività alternative. La sentenza della Corte costituzionale, invece, sancì che «l’alternativa» per coloro che sceglievano di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica (IRC) «è uno stato di non-obbligo. La previsione infatti di altro insegnamento obbligatorio verrebbe a costituire un condizionamento per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l’esercizio della libertà costituzionale di religione». 1. La sentenza della Corte costituzionale richiama piuttosto direttamente il principio enunciato da Locke secondo cui l’adesione a una determinata religione deve essere il frutto di una scelta totalmente libera. Esponi la tua opinione in proposito, riflettendo anche sul «rispetto della libertà di coscienza» e sull’«autodeterminazione dei cittadini» esplicitamente richiamati dal pronunciamento della Corte costituzionale. 2. Con l’aiuto dell’insegnante e del manuale di storia, prova a ripercorrere le tappe dell’affermazione del principio della laicità nei maggiori Stati moderni europei.

427

I TESTI CAPITOLO 3 Locke La dottrina della conoscenza Redatto durante gli anni dell’esilio olandese e pubblicato integralmente in Inghilterra solo nel 1690, il Saggio sull’intelletto umano esprime gli esiti maturi e complessivi della riflessione di Locke sulla conoscenza.

t1 >

L’origine deLLe idee

Nel brano riportato di seguito l’assunto empiristico della gnoseologia lockiana trova la sua formulazione più nota: mostrando di prendere alla lettera il vecchio adagio tomista secondo cui «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu», Locke afferma che «tutto il materiale della ragione e della conoscenza» deriva dall’esperienza. La distinzione tra idee di sensazione e idee di riflessione sottolinea però che l’empirismo lockiano non va confuso con una forma di sensismo tout court, dal momento che implica, da parte dell’intelletto, un comportamento almeno parzialmente attivo.

2 4 6 8 10 12 14 16 18

428

Supponiamo dunque che lo spirito sia per così dire un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo verrà ad esserne fornito? Da dove proviene quel vasto deposito che la fantasia industriosa e illimitata dell’uomo vi ha tracciato con una varietà quasi infinita? Da dove si procura tutto il materiale della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. Su di essa tutta la nostra conoscenza si fonda e da essa in ultimo deriva. La nostra osservazione, adoperata sia per gli oggetti esterni sensibili, sia per le operazioni interne del nostro spirito che percepiamo e sulle quali riflettiamo, è ciò che fornisce al nostro intelletto tutti i materiali del pensare. […] In primo luogo, quando i nostri sensi vengono in rapporto con oggetti sensibili particolari, trasmettono allo spirito molte percezioni distinte dalle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui nostri sensi. E così veniamo ad avere le idee del giallo, del bianco, del caldo, del freddo, del morbido, del duro, dell’amaro, del dolce e di tutte quelle che chiamiamo qualità sensibili. E quando dico che i sensi le trasmettono allo spirito intendo che dagli oggetti esterni essi trasmettono allo spirito ciò che vi produce queste percezioni. Chiamo sensazione questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, che dipendono interamente dai nostri sensi, dai quali l’intelletto le deriva. In secondo luogo, l’altra sorgente dalla quale l’esperienza trae le idee che fornisce all’intelletto è la percezione delle operazioni del nostro spirito in noi stessi, così com’è applicato alle idee che ha;

20 22 24 26 28 30

operazioni che, quando l’anima ci riflette e le considera, forniscono all’intelletto un altro insieme di idee che non potrebbero essere ottenute dalle cose esterne. Tali sono il percepire, il pensare, il dubitare, il credere, il ragionare, il conoscere, il volere e tutte le diverse azioni del nostro spirito; e giacché ne siamo consapevoli e le osserviamo in noi stessi, ne riceviamo nel nostro intelletto idee tanto distinte quanto quelle che ci provengono dai corpi che agiscono sui nostri sensi. Ogni uomo ha in sé questa fonte di idee; e sebbene non si tratti di un senso, poiché non ha nulla a che fare con gli oggetti esterni, tuttavia è molto simile ad esso e potrebbe propriamente essere chiamata senso interno. Ma così come chiamo l’altra sensazione, chiamo questa riflessione, perché le idee che essa ci dà sono soltanto quelle ottenute dallo spirito quando riflette in se stesso sulle proprie operazioni. […] Io dico che queste due cose, cioè le cose esterne materiali quali oggetti della sensazione, e le operazioni del nostro spirito dentro di noi quali oggetti della riflessione, sono le sole origini dalle quali tutte le nostre idee hanno inizio.

I TESTI

Capitolo 3 • Locke

(Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. 1, trad. it. di M. e N. Abbagnano, utet, Torino 1971, pp. 133-135)

Analisi del testo 1-8 Utilizzando l’immagine, notissima, del «foglio bianco», Locke paragona la condizione originaria della mente umana a quella di una sorta di “contenitore” vuoto, pronto ad accogliere in modo passivo quella «varietà quasi infinita» di idee di cui diverrà «deposito» nel corso della vita. 9-17 La nostra conoscenza non è rivolta direttamente alle cose, ma alle idee delle cose (ideismo). Nel caso in cui tali idee si riferiscano a (o derivino da) oggetti o eventi a noi “esterni” (il libro che mi sta di fronte, l’infuriare del temporale ecc.), si ha a che fare con «idee di sensazione», ovvero con idee che «dipendono interamente dai nostri sensi». 18-29 Se le idee di sensazione derivano interamente dai sensi, le «idee di riflessione» derivano interamente da quello che Locke chiama «senso interno», cioè dalla consapevolezza delle operazioni svolte dall’intelletto sulle idee. Si noti come, per Locke, le idee che l’uomo possiede (siano esse idee di sensazione, cioè di “cose esterne”, oppure di riflessione, cioè di “cose interne”) derivino sempre da una percezione (cfr. rr. 10, 11 e 19), ovvero da un atteggiamento passivo dell’intelletto. Il fatto però di poter

t2 >

cogliere (passivamente) le idee delle operazioni “interne” del nostro spirito testimonia l’esistenza di un’attività dell’intelletto stesso. 29-31 Facendo riferimento agli «oggetti» della sensazione e della riflessione (le «cose esterne materiali» e le «operazioni del nostro spirito») come fondamento ultimo di ogni nostra conoscenza, Locke sembra abbracciare una prospettiva di realismo scientifico. La convinzione, che pure emerge in queste righe, che la nostra conoscenza si “riduca” a tutte e sole le nostre idee apre tuttavia la possibilità di un’interpretazione della gnoseologia lockiana anche in senso “ideistico”, o “idealistico”. In altre parole, seguendo la tradizione cartesiana, secondo la quale le idee costituiscono la rappresentazione intramentale di oggetti extra-mentali, da un lato Locke ritiene che le idee dipendano direttamente dalle cose, o dagli «oggetti», dall’altro si ritrova a fare i conti con la questione del rapporto tra res cogitans e res extensa, che egli sembra però risolvere senza cedere allo scetticismo. Egli, infatti, afferma non soltanto l’attendibilità della mediazione operata dalle idee tra oggetto e soggetto, ma anche la sua verificabilità grazie alla metodica reiterazione delle percezioni e al confronto con gli altri.

idee sempLiCi e idee CompLesse

Locke utilizza il termine “idea” in almeno due diverse accezioni: 1. dato immediato dei sensi, nel caso in cui si abbia una qualche sensazione attuale; 2. contenuto mentale che risulta causalmente da quel dato, ad esempio nella memoria. Ma allora in Locke “idea” è sia la forma del triangolo (cioè qualcosa che esiste ex parte obiecti), sia l’idea che noi abbiamo di quella forma (che esiste ex parte subiecti) e

429

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

I TESTI

da questo confuso uso terminologico sorgono non pochi problemi. La distinzione lockiana tra idee semplici e idee complesse risente di questa incertezza e assume che la struttura delle realtà ideali sia analoga a quella delle realtà fisiche, ossia composta di particelle atomiche.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42

430

Per meglio capire la natura, il modo e l’estensione della nostra conoscenza, una cosa va attentamente osservata circa le idee che abbiamo: alcune di esse sono semplici, altre complesse. Sebbene le qualità che agiscono sui nostri sensi siano, nelle cose stesse, così unite e mescolate che non c’è separazione né distanza tra loro, è chiaro tuttavia che le idee prodotte da esse nello spirito vi entrano, per via dei sensi, semplici e non mescolate. Infatti, anche la vista e il tatto ricevono spesso nello stesso tempo diverse idee dallo stesso oggetto, come ad esempio quando si vedono ad un tempo il movimento ed il colore, o quando la mano avverte la mollezza e il calore nello stesso pezzo di cera, tuttavia le idee semplici, così unite nello stesso soggetto, sono così nettamente distinte come quelle che arrivano da sensi diversi. La freddezza e la durezza che si sentono in un pezzo di ghiaccio sono idee altrettanto distinte nello spirito quanto l’odore e la bianchezza di un giglio o il sapore dello zucchero e l’odore di una rosa. Nulla c’è di più evidente per un uomo della percezione chiara e distinta che ha di quelle idee semplici; ognuna delle quali, non essendo in se stessa composta, contiene in sé null’altro che una sola apparenza uniforme o concezione nello spirito, e non può essere distinta in idee diverse. Le idee semplici, che sono i materiali di tutta la nostra conoscenza, sono suggerite e fornite allo spirito solamente per quelle due vie sopra menzionate, cioè la sensazione e la riflessione. Una volta che l’intelletto ha immagazzinato le idee semplici, ha il potere di ripeterle, confrontarle, e unirle assieme, in una varietà quasi infinita, e così può formare a suo piacere nuove idee complesse. Ma neppure l’ingegno più esaltato o l’intelletto più vasto hanno il potere, per vivace e vario che sia il loro pensiero, di inventare o foggiare una sola idea semplice, nuova nello spirito, che non sia appresa nei modi già menzionati; e neppure può la forza dell’intelletto distruggere quelle che ci sono. […] Ma mentre lo spirito è interamente passivo nel ricevere tutte le sue idee semplici, esso esercita per conto suo numerosi atti mediante i quali altre idee sono foggiate con le idee semplici, quali materiali e fondamenti di esse. Gli atti con cui lo spirito esercita il suo potere sulle idee semplici sono principalmente questi tre: 1) Combinare varie idee semplici per formarne una complessa; così sono formate tutte le idee complesse. 2) Mettere assieme due idee, semplici o complesse, e giustapporle in modo da vederle insieme senza unirle; così lo spirito ottiene tutte le sue idee di relazioni. 3) Separar le idee da tutte le altre che le accompagnano nella loro esistenza reale, e questo si chiama astrazione: in tal modo sono formate tutte le idee generali. […] Comunque siano composte o decomposte, per infinito che sia il loro numero e senza limiti la loro varietà, che occupa e impegna i pensieri degli uomini, credo che le idee complesse possano tuttavia essere riportate sotto questi tre capi: 1) Modi. 2) sostanze. 3) relazioni. In primo luogo, chiamo modi le idee complesse che, comunque composte, non contengono in sé la supposizione di sussistere per sé, ma sono considerate come dipendenze o affezioni delle sostanze: tali sono le idee designate dalle parole triangolo, gratitudine, omicidio ecc. […] In secondo luogo, le idee di sostanze sono le combinazioni di idee semplici di cui si assume che rappresentino cose particolari distinte che sussistono per sé, e di cui l’idea presunta o confusa di sostanza, quale che sia, è sempre la prima e la più importante. Così, se alla sostanza uniamo l’idea

Capitolo 3 • Locke

46

(Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. 2, cit., pp. 149-150 e 201-204)

Analisi del testo 1-11 Come si identificano le idee semplici? Il primo criterio offerto da Locke sembra essere di tipo psicologico-genetico: esse si possono distinguere solo nello spirito, e a seconda del senso da cui provengono, poiché negli oggetti le corrispondenti caratteristiche sono tra loro congiunte. Ciò significa che, se da un punto di vista immediato vengono prima le idee complesse, da un punto di vista strutturale sono quelle semplici ad avere la precedenza. 11-14 Il secondo criterio, più preciso, è di tipo logico: le idee semplici sono quelle che non possono contenerne altre. Esse non si possono definire in base ad altre idee: sono idee “atomiche”, non ulteriormente scomponibili. 15-21 Le idee semplici costituiscono il limite insuperabile di ogni conoscenza, nel senso che l’azione di accorpamento compiuta dall’intelletto nel generare le idee complesse non può creare qualcosa di veramente nuovo, ma solo differenti combinazioni di un materiale che è sempre lo stesso. 22-36 Passivo solo nel momento della ricezione delle idee semplici, lo spirito interviene invece attivamente sui «materiali» così ottenuti, componendoli spontaneamente per formare nuove idee. Le operazioni dell’intelletto in questa fase sono la combinazione, la relazione e l’astrazione. Il primo caso si ha nel processo (inconsapevole dal punto di vista psicologico) mediante il quale, ad esempio, ricevendo le idee semplici del rosso, del dolce, del profumato, io le assommo e ottengo l’idea complessa del nuovo oggetto “mela”. Nel secondo caso istituisco una correlazione tra due oggetti che già possiedo e creo un qualcosa che non si può propriamente definire un nuovo oggetto: ad esempio, nel considerare il rapporto che intercorre tra padre e figlio, genero l’idea della “pa-

t3 > Laboratorio sul testo

ternità”, che tuttavia non è una nuova entità che sta a metà tra il padre e il figlio. Nell’ultimo caso determino un’entità generale, e perciò astratta, sottraendo a un gruppo di individui tra loro simili ciò che essi possiedono di particolare: ad esempio, partendo dai vari Tizio, Caio, Sempronio ecc. e prescindendo dal fatto che l’uno è biondo e l’altro bruno, l’uno grasso e l’altro magro, pervengo all’universale “uomo”, che tutti li accomuna. L’attività principale dello spirito è indubbiamente quella associativa o combinatoria (tanto da far affermare a Locke che «così sono formate tutte le idee complesse»: v. r. 27). Le idee di relazione e, soprattutto, le idee generali sembrano invece scaturire da forme diverse di attività: di correlazione e di confronto, piuttosto che di vera e propria combinazione. 37-39 I modi sono idee complesse di predicato, qualcosa che non può sussistere indipendentemente da qualcos’altro; si potrebbe dire che sono “ciò che è in altro”. Ad esempio, l’ubriachezza (e di conseguenza la sua idea) non può esistere se non ci sono uomini ubriachi, e l’idea di furto comporta l’istituzione di complesse relazioni, tanto per cominciare della proprietà. 40-44 Con una definizione che ricorda quella spinoziana, la “sostanza” viene qui descritta come ciò che gode di autonomia ontologica, non avendo bisogno di altro per esistere, e di autonomia gnoseologica, non necessitando di altre idee per essere capita. 45-46 Più chiaramente di modi e sostanze, le relazioni sembrano essere costruzioni soggettive. Questo avrà conseguenze di notevole importanza soprattutto per quanto riguarda l’idea della causalità, a proposito della quale Locke si mostrerà assai incerto, concependola come relazione ora tra le cose, ora tra le idee, peraltro riproponendo una confusione tipica del suo pensiero.

I TESTI

semplice di un certo colore biancastro e opaco, con certi gradi di pesantezza, durezza, duttilità e fusibilità, abbiamo l’idea del piombo […]. In terzo luogo, l’ultima specie delle idee complesse è quella che io chiamo relazione, la quale consiste nel considerare e confrontare un’idea con un’altra.

44

La CritiCa aLL’idea di sostanza

Il brano che segue, che riporta la celebre critica lockiana all’idea di sostanza, va affrontato con cautela, per evitare di rendere il pensiero di Locke tanto incoerente da offrire troppo facilmente il fianco alle critiche di Berkeley o tanto radicale da anticipare troppo Hume.

431

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

2

I TESTI

4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28

Poiché lo spirito, come ho già detto, è fornito di un gran numero di idee semplici, ad esso convogliate dai sensi così come si trovano nelle cose esterne o dalla riflessione sulle proprie operazioni, esso si accorge anche che un certo numero di queste idee semplici vanno costantemente insieme. Presumendo che esse appartengano ad una cosa sola, e poiché le parole si adattano alle apprensioni comuni e sono usate per un rapido scambio, queste idee, così unite in un solo soggetto, vengono chiamate con un nome solo; che inavvertitamente ci capita in seguito di menzionare e di considerare come una sola idea semplice, mentre invece è una complicazione di molte idee messe assieme. Infatti, come ho detto, poiché non immaginiamo in quale maniera queste idee semplici possano sussistere da sole, ci abituiamo a supporre che ci sia qualche substratum in cui sussistono e dal quale risultano, che chiamiamo perciò sostanza. Se qualcuno vorrà esaminare la propria nozione di sostanza pura in generale, troverà che non ne ha nessun’altra idea se non la supposizione di non si sa quale sostegno di quelle qualità che sono capaci di produrre idee semplici in noi; qualità che comunemente si chiamano accidenti. […] L’idea quindi alla quale diamo il nome generale di sostanza non è altro che il sostegno supposto ma sconosciuto di quelle qualità che scopriamo esistenti, che non possiamo immaginare sussistano sine re substante, senza qualcosa per sostenerle; e chiamiamo perciò quel sostegno sub-stantia […]. Avendo formato in tal modo un’idea oscura e relativa della sostanza in generale, giungiamo alle idee di particolari specie di sostanze, raccogliendo quelle combinazioni di idee semplici che l’esperienza e l’osservazione dei sensi umani ci hanno fatto scorgere come esistenti insieme, e si suppongono quindi scaturite dalla particolare costituzione interna o dall’essenza sconosciuta di quella sostanza. Così giungiamo ad avere le idee di un uomo, un cavallo, l’oro, l’acqua ecc.; e mi appello all’esperienza di ognuno per sapere se chiunque abbia un’idea chiara di tali sostanze al di fuori di certe idee semplici che coesistono. Mi sembra quindi probabile che le idee semplici che riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione siano i confini dei nostri pensieri, al di là dei quali lo spirito, per quanti sforzi faccia, non è in grado di avanzare di un passo; né può fare alcuna scoperta quando vuole sbirciare nella natura e (Saggio sull’intelletto umano, libro II, cap. 23, pp. 350-351 e 368-369) nelle cause nascoste di quelle idee.

Analisi del testo 1-10 Il metodo lockiano può essere detto “fenomenista”, nel senso che riduce i problemi ai soli termini fenomenologici. Ora, la sensazione ci convince dell’esistenza di sostanze estese e la riflessione dell’esistenza di sostanze pensanti: mediante la sensazione, infatti, percepiamo alcune proprietà che supponiamo ineriscano alla stessa cosa o sostanza; ad esempio, siamo convinti che gli uomini abbiano sempre e comunque due braccia e due gambe, che gli alberi portino innumerevoli foglie verdi ecc. Analogamente, mediante la riflessione, percepiamo le operazioni del nostro intelletto e supponiamo ineriscano allo stesso soggetto o sostanza pensante. 11-17 Il cuore della critica lockiana è contenuto in queste righe, in cui si passa dalle idee delle sostanze particolari a quella della sostanza in generale, che, svuotata degli «accidenti» che di volta in volta le attri-

432

buiamo, non corrisponde più a nulla che noi possiamo in qualche modo raggiungere. Il problema del “che cosa” sia la sostanza si dissolve così in quello del “come” la costruiamo. 18-24 La differenziazione tra la «nozione di sostanza in generale» e le «idee particolari di sostanza» è di fondamentale importanza, poiché segna il discrimine tra ciò che Locke accetta e ciò che rifiuta. Egli non riconosce la sostanza intesa come “sostrato” (nozione generale) a causa dell’oscurità di quest’idea, ma ammette l’esistenza di quelle che lui stesso chiama “sostanze” (idee particolari), intendendole semplicemente come composti di determinazioni. Possiamo dire, ad esempio, che il cavallo è una sostanza, se con questa espressione ci riferiamo a un animale (particolare) con coda e criniera, in grado di correre e nitrire; non siamo invece in grado di dire se

>

lo sia, qualora, intendendolo come qualcosa che non può essere indicato con una o più proprietà (accidentali), andassimo in cerca di un’entità che assomma in sé, in modo del tutto “astratto”, le caratteristiche di avere una coda e una criniera, come di correre e di nitrire ecc. 25-28 La conclusione lockiana è aperta: il filosofo non nega l’esistenza delle sostanze, ma esclude con decisione la possibilità dell’intelletto umano di ottenerne una qualche conoscenza. È lo stesso Locke a dissipare equivoci e interpretazioni inadeguate della sua dottrina nella lettera a Stillingfleet, vescovo di Worcester, datata

t4 >

1697, asserendo: «io fondo non l’esistenza, ma l’idea di sostanza sull’abitudine nostra di supporre un qualche substratum: perciò qui parlo solo dell’idea della sostanza e non del suo essere. Sempre ho affermato che un uomo è una sostanza e ho proseguito nei miei ragionamenti su un simile fondamento; non è dunque possibile supporre che io metta in questione o che dubiti dell’esistenza della sostanza, fin tanto che non metto in questione o in dubbio il mio proprio essere» (Lettera a Edward Stillingfleet, in J. Locke, Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Sina, Rusconi, Milano 1979, p. 507).

I TESTI

Capitolo 3 • Locke

La verità Come Conformità tra Le idee e Le Cose

L’impostazione “ideistica” della dottrina lockiana rischia di chiudere l’intelletto in se stesso, privando la conoscenza di un criterio sicuro con cui distinguere le affermazioni reali da quelle che non lo sono. Per ovviare a questo inconveniente, Locke indica un nuovo criterio di verità nella «concordanza» tra le idee e le cose esterne.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24

Non dubito che a questo punto il lettore sarà incline a pensare che ho costruito finora solo un castello in aria; e sarà pronto a dirmi: A quale scopo darsi tanto da fare? La conoscenza, voi dite, è solo la percezione dell’accordo o disaccordo tra le nostre idee: ma chissà che cosa queste idee possono essere? C’è nulla di così stravagante come le immaginazioni del cervello umano? Dov’è una testa che non abbia chimere? O, se c’è un uomo sobrio e saggio, quale differenza ci sarà, in base alle vostre regole, tra la sua conoscenza e quella della più stravagante fantasia che c’è al mondo? […] È evidente che lo spirito non conosce le cose immediatamente, ma solo per l’intervento delle idee che ha di esse. La nostra conoscenza, perciò, è reale solo in quanto c’è conformità tra le nostre idee e la realtà delle cose. Ma quale sarà qui il criterio? Come farà lo spirito, che percepisce solo le sue idee, a conoscere che esse concordano con le cose stesse? Per quanto non manchi di difficoltà, credo tuttavia che ci siano due specie di idee di cui possiamo essere sicuri che concordano con le cose. Primo. La prima è quella delle idee semplici che lo spirito, come è stato mostrato, non può creare da sé e devono necessariamente essere il prodotto di cose che agiscono sullo spirito in modo naturale, producendo in esso le percezioni che dalla saggezza e volontà del nostro Creatore sono ordinate e adattate alle cose stesse. Di qui segue che le idee semplici non sono finzioni della nostra fantasia, ma produzioni naturali e regolari delle cose fuori di noi, che realmente agiscono su di noi; e sono così dotate della conformità cui sono dirette o che il nostro stato esige […]. In secondo luogo, tutte le nostre idee complesse, eccetto quelle delle sostanze, essendo archetipi che lo spirito costruisce per suo conto e non riferendosi all’esistenza di qualcosa come al loro originale, non hanno bisogno della conformità necessaria alla conoscenza reale. Infatti ciò che non intende rappresentare altro che se stesso non può essere capace di una rappresentazione sbagliata […]; e tali, eccetto quelle di sostanze, sono tutte le nostre idee complesse. Terzo. C’è un’altra specie di idee complesse che, essendo riferite ad archetipi fuori di noi, possono differire da essi e così la nostra conoscenza può esser priva di realtà. Tali sono le idee di sostanza,

433

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

26

I TESTI

28

le quali, consistendo in una collezione di idee semplici che si presumono desunte dalle opere della natura, possono differire da queste perché uniscono idee in maggior numero o diverse, rispetto a quelle che si trovano unite nelle cose stesse. Perciò accade che possono non essere, e spesso non sono, esattamente conformi alle cose. (Saggio sull’intelletto umano, libro IV, cap. 4, cit., pp. 646-648 e 651)

Analisi del testo 1-7 Dopo aver definito la conoscenza come la percezione di un accordo o di un disaccordo tra idee, Locke avverte l’esigenza di uscire dal dominio dell’intelletto, per confrontarsi con ciò che sta fuori di esso. Il tentativo è quello di non ridurre la verità a sola coerenza interna all’intelletto, in modo che un testo di geografia e la fiaba di Biancaneve, per quanto siano entrambi internamente coerenti, possano avere un diverso grado di plausibilità. 8-11 Alla ricerca di un nuovo e più “potente” criterio di verità della conoscenza, capace di oltrepassare i confini dell’intelletto, Locke lo indica qui nella «conformità» tra le idee e la «realtà delle cose». Così, se nei primi tre libri del Saggio ha sostenuto una teoria sostanzialmente coerentista della verità, in questo quarto e ultimo libro sembra elaborare una teoria corrispondentista, che in qualche modo pretende di mettere in relazione i contenuti della mente umana con la realtà effettivamente esistente al suo esterno. 11-18 Vi sono per nostra fortuna delle idee sulla cui conformità alla realtà possiamo esser certi: innanzitutto le idee semplici, poiché la nostra passività nei loro confronti fa sì che non possiamo alterarle in alcun modo quando le riceviamo e dunque tutto ciò che esse

t5 >

ci dicono deriva fedelmente da quanto le ha provocate. Per quanto concerne il riferimento alla «saggezza e volontà del nostro Creatore», va specificato che in questa affermazione non è lasciato spazio ad alcun fideismo, in quanto per Locke il volere divino coincide in modo pieno e perfetto con la più completa razionalità. 19-23 Anche la verità delle idee complesse (eccetto quelle delle sostanze) è in qualche modo garantita: non tanto nel senso che esse corrispondano a realtà extramentali effettivamente esistenti, quanto nel senso che, essendo creazioni interamente nostre e intra-mentali, per esse non si può sollevare il problema della corrispondenza, ma solo quello della coerenza interna. Ciò è particolarmente chiaro, secondo Locke, se si considera la matematica, ma anche la morale, i cui principi sono stabiliti da noi. 24-29 Resta però un terzo e ultimo caso di più difficile soluzione: quello delle sostanze. Esse non sono date nel mondo come oggetti precostituiti, ma vengono “costruite” dall’attività di combinazione del soggetto: non c’è dunque nulla che garantisca che il legame istituito dal soggetto tra certe determinazioni rispecchi l’effettivo ordine in cui esse sono collegate nella realtà.

L’esistenza di noi stessi, di dio e deLLe Cose

Dopo che ha indicato nella conformità alle cose la garanzia di verità dei contenuti del nostro intelletto, e nelle idee semplici gli elementi della cui conformità con il reale possiamo essere certi, a Locke resta da affrontare il problema dell’esistenza effettiva della realtà, e cioè del nostro io, di Dio e delle cose.

2 4 6

434

[…] procediamo ora ad indagare la nostra conoscenza dell’esistenza delle cose e come giungiamo ad essa. Dico allora che abbiamo la conoscenza della nostra propria esistenza per intuizione; dell’esistenza di Dio per dimostrazione e delle altre cose per sensazione. Circa la nostra propria esistenza, noi la percepiamo così semplicemente e certamente che essa non ha bisogno né è capace di prova. Niente può essere per noi più evidente della nostra propria esistenza. Io penso, io ragiono, io sento piacere e dolore: può una di queste cose essere per me più evidente della mia propria esistenza? Se dubito di tutte le altre cose, questo stesso dubbio mi fa

8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38

percepire la mia propria esistenza e non mi permette di dubitarne. […] L’esperienza ci convince che abbiamo una conoscenza intuitiva della nostra propria esistenza e una percezione interna infallibile che noi esistiamo. In ogni atto di sensazione, ragionamento o pensiero, noi siamo consci di fronte a noi stessi del nostro proprio essere e su questo punto non manchiamo del più alto grado di certezza. Oltre a ciò l’uomo sa, per intuitiva certezza, che il puro niente non produce un essere reale più che non possa essere uguale a due angoli retti. […] Se perciò noi sappiamo che c’è qualche essere reale e che il non-ente non può produrre un essere reale, questa è la dimostrazione evidente che dall’eternità c’è stato qualcosa; perché ciò che non esiste dall’eternità ha avuto un inizio; e ciò che ha avuto un inizio dev’essere prodotto da qualcosa d’altro. Inoltre è evidente che ciò che ha il suo essere e il suo inizio da altro deve anche avere da altro tutto ciò che è nel suo essere e gli appartiene. Tutti i poteri che ha devono essere dovuti alla stessa sorgente e devono essere ricevuti da essa. Allora questa sorgente eterna di tutto l’essere deve anche essere la sorgente e l’origine di ogni potere; perciò l’Essere eterno deve essere anche il più potente. La conoscenza del nostro essere, l’abbiamo per intuizione. L’esistenza di Dio la ragione ce la fa chiaramente conoscere, com’è stato mostrato. La conoscenza di ogni altra cosa possiamo averla solo per sensazione: giacché non essendoci connessione necessaria tra l’esistenza reale e un’idea che l’uomo ha nella sua memoria né tra ogni altra esistenza, tranne quella di Dio, e l’esistenza di un uomo particolare, nessun uomo particolare può conoscere l’esistenza di un altro essere, tranne quando questo agisce attualmente su di lui e si fa percepire da lui. Avere l’idea di qualcosa nel nostro spirito non prova l’esistenza di questa cosa più che il ritratto di un uomo non renda evidente la sua esistenza nel mondo o che le visioni di un sogno costituiscano come tali una storia vera. Perciò solo la ricezione attuale delle idee dall’esterno ci dà notizie dell’esistenza delle altre cose e ci fa conoscere che in quel momento esiste fuori di noi qualcosa che causa quell’idea in noi. […] Ma questa conoscenza si estende solo sin dove arriva la testimonianza presente dei sensi, adoperati circa oggetti particolari che agiscono su di essi, e non oltre. Giacché, se ho visto una collezione di idee semplici, comunemente detta uomo, esistenti insieme un minuto fa, ed ora sono solo, non posso esser certo che lo stesso uomo esista ora, dal momento che non c’è connessione necessaria tra la sua esistenza di un minuto fa e la sua esistenza di ora.

I TESTI

Capitolo 3 • Locke

(Saggio sull’intelletto umano, libro IV, cap. 9, cit., pp. 706-709, 721 e 726)

Analisi del testo 1-12 Riconoscendo nella realtà tre tipi di enti, e cioè il nostro io, Dio e le cose, Locke deve ora chiarire come l’uomo giunga ad averne conoscenza, in modo da essere certo della loro esistenza. Per quanto riguarda l’esistenza del proprio io, ciascuno potrà convenire che si tratta di una certezza a cui si perviene intuitivamente: essa porta dunque con sé la garanzia immediata che Locke sta cercando. L’argomentazione è di palese derivazione cartesiana, fondata sull’autoevidenza del cogito. 13-22 Altrettanto semplice pare la soluzione del pro-

blema intorno all’esistenza della sostanza divina: poiché il nostro intelletto è in grado di dimostrarne l’esistenza, anche in questo caso otteniamo, sia pure in modo mediato, la garanzia di cui abbiamo bisogno. È chiaro che un empirista come Locke non poteva accettare la prova a priori dell’esistenza di Dio, pertanto egli si rifà alle dimostrazioni a posteriori, e precisamente all’argomento ex contingentia mundi. 23-38 Per quanto riguarda l’esistenza delle cose, solo la sensazione la può garantire, fornendone una conoscenza che, se non ha la certezza indubitabile di quella intui-

>

435

I TESTI

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

tiva dell’io e di quella dimostrativa di Dio, si attesta su un livello comunque accettabile. La testimonianza dei sensi presenta però un limite, poiché non è in grado di valicare l’attualità: noi sappiamo che la cosa esiste solo fintanto che essa agisce sui nostri sensi. Questo non significa tuttavia che Locke si apra allo scetticismo, soprattutto se ricordiamo che egli non guarda tanto alla speculazione, quanto alla convenienza pragmatica. Locke stesso ci

dice: «Colui che, nelle faccende ordinarie della vita, ammettesse solo la semplice e diretta dimostrazione, non sarebbe sicuro di niente in questo mondo, se non di perire subito. La salubrità del suo cibo o della sua bevanda non gli darebbe mai una ragione sufficiente per arrischiarsi a usarli; e vorrei proprio sapere che cosa potrebbe fare su fondamenti che non fossero capaci di alcun dubbio e di alcuna obiezione» (Saggio, cit., p. 727).

L’invito alla tolleranza Convinto in gioventù che la coesistenza pacifica tra persone di confessioni religiose diverse sia di difficile realizzazione, Locke ammorbidisce nel corso degli anni questa posizione, fino a comporre, nel 1685, la nota Lettera sulla tolleranza, in cui, sulla base di una netta distinzione di ambiti e di ruoli tra Stato e Chiesa, afferma con forza il principio secondo cui lo Stato deve rispettare il diritto dei cittadini di professare liberamente la propria fede.

t6 >

La toLLeranza Come «segno distintivo» deLL’autentiCo Cristiano

Nel 1685 sale al trono d’Inghilterra Giacomo II Stuart, deciso promotore di una restaurazione del cattolicesimo romano. In quello stesso anno Locke, rifugiatosi ad Amsterdam con l’amico Shaftesbury (capo del partito antiassolutistico, o progressista), compone la Lettera sulla tolleranza, che verrà pubblicata, sempre in Olanda, nel 1689. In quest’opera Locke precisa i due significati fondamentali della tolleranza, che egli intende come: 1. carattere distintivo del cristianesimo autentico; 2. dovere dello Stato liberale, che deve assicurare ai cittadini la libertà di professione religiosa. Il brano che segue mette in evidenza il primo di questi aspetti.

2 4 6 8 10 12 14

436

Illustrissimo Signore, Poiché mi chiedete la mia opinione sulla tolleranza reciproca tra i Cristiani, vi rispondo in poche parole che la ritengo il principale segno distintivo della vera Chiesa. Infatti, per quanto alcuni possano vantare antichità di luoghi di culto e di titoli, o magnificenza di riti; altri la riforma a cui hanno sottoposto il loro insegnamento; e tutti infine l’ortodossia della loro fede (perché ciascuno è ortodosso per se stesso), questi, ed altri dello stesso genere, possono essere segni di una contesa tra uomini, per il potere e il dominio, anziché segni della Chiesa di Cristo. Uno che possegga tutte queste doti non è ancora cristiano, se manca di carità, di mitezza e di benevolenza verso tutti gli uomini in generale, anche quelli che non professano la fede cristiana. […] Se infatti dobbiamo prestar fede al Vangelo e agli Apostoli, nessuno può essere cristiano senza carità, e senza la fede che agisce con l’amore, non con la forza. […] Che qualcuno voglia che un’anima, la cui salvezza egli intensamente desidera, spiri tra i tormenti, quando per giunta non è ancora convertita, mi stupisce davvero, e insieme a me, credo, stupirà altri; ma una cosa è certa: che nessuno può pensare che un tale comportamento derivi dall’amore, dalla benevolenza, dalla carità. Se gli uomini hanno da essere costretti col ferro e col

16 18 20 22 24 26 28

fuoco ad abbracciare determinati dogmi, e se gli si deve imporre con la violenza un culto esteriore, senza che peraltro siano posti minimamente in discussione i loro costumi; se qualcuno converte alla fede gli eterodossi, nel senso di costringerli a professare ciò che non credono, e di permettere loro di compiere azioni che il Vangelo non permette ai Cristiani, e il fedele non permette a se stesso; se è così, non dubito che costui voglia che un numeroso consesso professi insieme a lui queste stesse cose; ma chi può pensare che ciò che egli vuole sia la Chiesa di Cristo? […] La tolleranza verso coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto consona al Vangelo e alla ragione, che appare una mostruosità che ci siano uomini ciechi, di fronte a una luce così chiara. Io non voglio qui accusare l’orgoglio e l’ambizione degli uni, la mancanza di moderazione e il fanatismo privo di carità e di mitezza degli altri: questi sono difetti forse non estirpabili dalle cose umane, e tuttavia tali che nessuno vuole che gli siano apertamente imputati; non c’è quasi nessuno che, stornato dalla retta via per colpa loro, non cerchi di coprirli di un’apparenza diversa e onorevole, per essere lodato.

I TESTI

Capitolo 3 • Locke

(Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, utet, Torino 1977, pp. 131-132 e 133-135)

Analisi del testo 1 Locke indirizza la Lettera sulla tolleranza all’amico Philippus van Limborch, professore di teologia nel Collegio dei rimostranti di Amsterdam. 2-11 La Lettera si apre con il richiamo al messaggio evangelico, che, al di là di ogni disputa dottrinale, deve rappresentare il solo valido punto di riferimento per un cristiano. È evidente che la tolleranza rientra in quell’unico, fondamentale invito alla «carità», alla «mitezza» e alla «benevolenza» verso tutti gli uomini che assomma in sé tutti i precetti di Cristo. 12-21 Non si può costringere con la forza ad abbracciare una certa fede. Al massimo, si può imporre un certo culto esteriore, ma con quale vantaggio? Nel profondo della propria coscienza, colui che è stato “convertito” con la forza continuerebbe a credere ciò che vuole. Inoltre, se l’uso della forza fosse stato legittimo, lo stesso Cristo

t7 >

avrebbe fatto ricorso all’«esercito delle sue legioni celesti» per distogliere gli uomini dal peccato e diffondere la vera fede. Con queste ragionevoli argomentazioni, Locke sottolinea, ancora una volta, la contrapposizione tra la cultura ecclesiastica (romana) della persecuzione e il messaggio di pace e di amore che permea il Vangelo. 22-28 Come è emerso già dalle righe precedenti, la tolleranza è un atteggiamento conforme non soltanto al Vangelo, ma anche a quella ragione che tutti, indipendentemente dalla confessione religiosa a cui appartengono, si vantano di seguire. La debolezza e i difetti della natura umana possono certo portare all’intolleranza; ma in questo caso ognuno riconoscerà in cuor suo di aver assunto un atteggiamento profondamente iniquo, tanto che cercherà di giustificarlo dandogli «un’apparenza diversa e onorevole».

La distinzione tra stato e Chiesa

Come Condizione deLLa toLLeranza Prosecuzione di quello precedente, il brano riportato di seguito illustra la seconda accezione della tolleranza secondo Locke, sottolineando come lo Stato debba non solo consentire, ma anche garantire la libertà di culto entro i propri confini. Locke fa derivare questo “dovere” dalla stessa «giurisdizione» dello Stato: il potere civile deve occuparsi di difendere i «beni civili» dei cittadini, senza intromettersi in questioni di fede. Queste ultime spettano invece alla Chiesa, la quale, simmetricamente, non può né deve occuparsi di questioni materiali.

437

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

2

I TESTI

4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44

438

[…] affinché nessuno copra la persecuzione e una crudeltà poco cristiana col pretesto della sollecitudine per lo Stato e dell’osservanza delle leggi, né, per converso, altri esigano, in nome della religione, licenza per i loro costumi dissoluti e impunità per i loro delitti; affinché nessuno, dico, faccia imposizione a sé o ad altri, nella veste di suddito fedele del sovrano o in quella di sincero adoratore di Dio, ritengo che si debba innanzitutto far distinzione tra materia civile e religiosa, e che si debbano fissare convenientemente i confini tra Chiesa e Stato. Se non si fa questo, non si possono in alcun modo regolare i conflitti tra quelli che hanno a cuore effettivamente, o fingono di avere a cuore, la salvezza delle anime, o quella dello Stato. Lo Stato è, a mio modo di vedere, una società umana costituita unicamente al fine della conservazione e della promozione dei beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità fisica e l’assenza di dolore, e la proprietà di oggetti esterni, come terre, denaro, mobili ecc. È compito del magistrato civile conservare sana e salva una giusta proprietà di questi beni, che riguardano questa vita, per tutto il popolo in generale e per ogni singolo suddito in particolare, mediante leggi valide ugualmente per tutti; e se qualcuno vuole violarle, contro il giusto e il lecito, la sua audacia deve essere frenata dal timore della pena, che consiste nella sottrazione o nella diminuzione di quei beni di cui altrimenti egli avrebbe potuto e dovuto fruire. […] E che la giurisdizione tutta del magistrato si estende soltanto a questi beni civili, e che ogni diritto e potere di un’autorità civile è limitato e circoscritto alla cura e alla promozione di questi beni soli, né può o deve in alcun modo essere esteso alla salvezza delle anime, mi pare sia dimostrato dalle considerazioni seguenti. In primo luogo, la cura delle anime non è affidata al magistrato civile più che ad altri uomini. Non lo è stata da Dio, poiché non risulta in alcun luogo che Dio abbia attribuito a uomini una tale autorità sugli uomini, da poter costringere altri ad abbracciare la loro religione. Né quell’autorità può essere stata attribuita al magistrato dagli uomini, poiché nessuno può rinunciare alla cura della sua salvezza eterna, al punto di abbracciare necessariamente ogni culto ed ogni fede che gli venga prescritta da altri, sia sovrano o suddito; poiché nessuno può, anche volendo, credere in base ad una prescrizione altrui […]. In secondo luogo, la cura delle anime non può riguardare il magistrato civile, poiché la sua autorità consiste interamente nella costrizione. Ma, consistendo la religione vera e salutare nella fede interiore, senza la quale nulla ha valore presso Dio, la natura dell’umano intelletto è tale, che esso non può essere costretto da alcuna forza estrinseca. Se anche i beni vengono sottratti, e il corpo è tormentato nella prigionia o nelle torture, sarà invano, se l’intenzione è di mutare il giudizio della mente con questi supplizi. […] In terzo luogo, la cura della salvezza delle anime non può in alcun modo riguardare il magistrato civile, poiché, anche ammesso che l’autorità delle leggi e la forza delle pene fossero efficaci a convertire gli spiriti umani, purtuttavia ciò non gioverebbe affatto alla salvezza delle anime. […] Vediamo ora che cos’è la Chiesa. A mio modo di vedere, la Chiesa è una libera società di uomini che si uniscono volontariamente per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono gradito alla divinità al fine della salvezza delle anime. Dico che è una società libera e volontaria. Nessuno nasce membro di una Chiesa; altrimenti ciascuno erediterebbe, insieme alle terre, la religione dei padri e degli antenati, e ciascuno sarebbe debitore della fede ai suoi natali: che è la cosa più assurda che si possa immaginare. Le cose, dun-

46 48 50 52 54 56 58 60

que, stanno così. L’uomo, senza che la natura lo vincoli ad alcuna Chiesa, né lo assegni ad alcuna setta, si unisce spontaneamente a quella società in cui ritiene di aver trovato la vera religione, e un culto gradito a Dio. Sicché la speranza di salvezza che vi trova, come è l’unica ragione per entrare nella Chiesa, così, allo stesso modo, è anche il criterio per rimanervi. […] […] Il fine di una società religiosa è, come si è detto, il culto pubblico di Dio e l’acquisizione della vita eterna per mezzo di esso. A ciò dunque deve tendere ogni ordinamento; da questi confini devono essere limitate tutte le leggi ecclesiastiche. In questa società non si tratta, né si può trattare di beni civili o di proprietà terrene; non vi si deve impiegare per nessuna ragione la forza, che riguarda completamente il magistrato civile, alla cui autorità sono sottoposti la proprietà e l’uso dei beni esteriori. Si dirà: ma allora, quale sanzione farà osservare le leggi ecclesiastiche, se non ci deve essere nessuna forma di coazione? Rispondo: quella, è ovvio, che si addice a cose la cui professione o osservanza esteriore a nulla giova, se non sono profondamente radicate nell’animo, e non vi ricevono la piena adesione della coscienza; e dunque le esortazioni, i consigli, le ammonizioni sono le armi di questa società, con cui tenere a segno i suoi membri.

I TESTI

Capitolo 3 • Locke

(Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, cit., pp. 135-141 passim)

Analisi del testo 1-8 Gli atteggiamenti di intolleranza sono spesso dovuti all’indebita ingerenza del potere civile in quello religioso, o del potere religioso in quello civile. Per questo Locke si propone innanzitutto di circoscrivere i due ambiti, specificando nel modo più chiaro possibile quali compiti spettino allo Stato e quali alla Chiesa. 9-17 In modo sintetico, ma non per questo meno efficace, Locke richiama qui la sua definizione dello Stato come società liberamente costituita dagli uomini al fine di meglio preservare la loro vita, la loro libertà e la loro proprietà. A tal fine lo Stato promulga le leggi, che fa rispettare con la minaccia di opportune sanzioni. 18-39 La limitazione della «giurisdizione» dello Stato a quelli che Locke ha definito come «beni civili», con la conseguente esclusione delle questioni religiose dall’ambito d’azione del potere civile, viene qui affermata sulla base di due principali ordini di considerazioni: 1. di un tale potere il «magistrato» non è stato mai investito, né da Dio (che non può che essere oggetto di una fede libera e spontanea, non certo imposta da un uomo all’altro), né dagli uomini (che non hanno certamente rinunciato alla possibilità di scegliere in modo autonomo la via della propria salvezza); 2. il solo strumento di cui dispone il potere civile per indurre al rispetto delle leggi è la forza, ma questa nulla può, come Locke ha già chiarito, in questioni di fede, che riguardano l’interiorità della coscienza; e anche se, per assurdo, fosse possibile convertire le anime mediante l’uso della violenza, questo non condurrebbe certo alla salvezza.

40-49 Anche la Chiesa, come lo Stato, è una società di uomini, ma alla quale si sceglie di appartenere in tutta libertà, per quello stesso principio, più volte richiamato, della spontaneità e dell’interiorità della fede. E, così come vi si aderisce liberamente, altrettanto liberamente si deve poterla abbandonare. 50-60 Con la stessa chiarezza con cui ha fissato nei «beni civili» i confini della giurisdizione dello Stato, Locke fissa qui i confini della giurisdizione della Chiesa nel «culto pubblico di Dio» e nell’«acquisizione della vita eterna». A tale diversità di ambiti corrisponde un’altrettanto netta diversità di strumenti utilizzati: se lo Stato “costringe” (talvolta con la forza, che solo il potere costituito può legittimamente usare), la Chiesa “esorta”, “consiglia”, “ammonisce”, ma non può in alcun modo imporre i propri precetti con la violenza. La dimensione civile e quella religiosa hanno dunque oggetti, orizzonti, linguaggi e mezzi diversi e incommensurabili, e solo riconoscendo questo principio fondamentale sarà possibile salvaguardare la pacifica convivenza dei cittadini, “tollerandone” i costumi e i credo diversi. Locke si fa così difensore della “laicità” dello Stato, la quale, non a caso, consiste nella separazione tra potere religioso e potere civile, tra vita religiosa e vita politica e, soprattutto, tra peccato e reato. Non si può e non si deve “impedire” il peccato con strumenti coercitivi, perché la salvezza esige «il merito della libera scelta». Al contrario, si può e si deve “impedire” il reato, dal momento che danneggia la proprietà e la libertà altrui.

439

IL CONCETTO E L’IMMAGINE Lorenzetti e l’”architettura” del bene comune Un affresco “laico” e civile L’Allegoria del Buono e del Cattivo Governo del pittore senese Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) è un grandioso ciclo di affreschi realizzato tra il 1337 e il 1339 nella “Sala dei Nove” del Palazzo Pubblico di Siena. Essendo stato commissionato non dalla Chiesa, come per lo più accadeva in quel tempo, ma dal partito politico che era al potere in quel periodo, è considerato la prima opera pittorica di carattere laico e civile della storia dell’arte italiana.

Il cattivo governo La rappresentazione di Lorenzetti si articola in quattro scene fondamentali, la prima delle quali, l’Allegoria del Cattivo Governo, lo raffigura come un uomo vestito di nero e con le corna (evidente simbolo del demonio), circondato dalle rappresentazioni allegoriche della Crudeltà, della Discordia, della Guerra, della Perfidia, della Frode, dell’Ira, della Tirannide, dell’Avarizia, della Superbia e della Vanagloria. La seconda scena ritrae gli Effetti del Cattivo Governo in città e in campagna: una città dominata dal disordine e dalla paura, e il contado circostante con campi incolti, rovine e scene di violenza e di rapina.

Ambrogio Lorenzetti, Allegoria del Cattivo Governo, 1337-1339, affresco, part., Siena, Palazzo Pubblico, “Sala dei Nove”

440

Il buon governo L’Allegoria del Buon Governo, che costituisce la terza scena del ciclo, rappresenta un vecchio e saggio monarca che siede sul trono, circondato dalle figure allegoriche della Giustizia, della Temperanza, della Magnanimità, della Prudenza, della Fortezza e della Pace. La Giustizia, in particolare, tiene

in grembo una pialla da carpentiere, allusione a una capacità costruttiva che si contrappone alla divisione e alla lacerazione simboleggiate dalla sega presente nella scena del Cattivo Governo.

VERSO LE COMPETENZE w Individuare i nessi tra la filosofia, le altre forme del sapere e gli altri linguaggi

Allegoria del Buon Governo, part.

Alla base della rappresentazione del buon governo c’è la nozione aristotelica e tomistica del primato del bene comune su quello individuale, cioè l’idea della necessità di subordinare l’interesse privato ai bisogni della comunità. Quest’ultima esige la pace e la sicurezza dei suoi membri, a cui tende mediante la forza e la concordia: la prima è rappresentata da Lorenzetti con la raffigurazione di un corteo di prigionieri e soldati, simbolo del potere coercitivo dello Stato; la seconda da quella di una

corda (che la Concordia riceve dalla Giustizia) che unisce tra loro i ventiquattro consiglieri della repubblica, anch’essi ritratti in corteo. L’uso di questa immagine si spiega con un’etimologia erronea della parola “concordia”, che invece che dal latino concordis (“con lo stesso cuore”) viene fatta derivare da cum-chorda (“con la corda”). In ogni caso, il tendersi di un’identica fune rende efficacemente il senso di un’impresa collettiva, di un bene che è frutto di un “patto”, cioè di un legame reciproco.

441

IL CONCETTO E L’IMMAGINE

Gli effetti del buon governo La quarta e ultima scena del ciclo, gli Effetti del Buon Governo in città e in campagna, costituisce la parte più suggestiva dell’intera composizione. Si tratta di una veduta della città di Siena e del contado circostante, da cui promana un clima di serena operosità. Grazie al buon governo, la sicurezza e la pace regnano dentro e fuori le mura: sulle strade e sulle piazze, dominate da eleganti edifici policromi disposti in ordinata armonia, i cittadini di questa prosperosa repubblica conversano rallegrati dalle danze delle fanciulle. Oltre le mura turrite, i campi, tracciati con lo stesso ordine geometrico, appaiono fecondi e solcati da animali carichi di merci. Su questa ingegnosa costruzione architettonica, contraddistinta dall’armonia delle parti e da un’ordinata coralità, campeggia la Securitas, fanciulla che vola nel cielo, tra la città e il contado, reggendo una forca dalla quale pende un criminale. Nel cartiglio che tiene in mano si legge: Senza paura ogni uomo libero cammini e lavorando semini ciascuno finché questo Comune conserverà questa Dama [la Securitas stessa] in sua signoria […].

442

Il messaggio dell’opera è chiaro: una moltitudine dispersa di individui si trasforma in uno Stato quando evita la lacerazione causata dai conflitti e dalle guerre civili, quando cioè gode della pace, rappresentata da Lorenzetti con una figura femminile vestita di bianco, con il capo cinto da un ramo d’ulivo e adagiata su un divano tra le figure che circondano il Buon Governo (v. pag. prec.). Mettendo al centro della rappresentazione il benessere pubblico e mondano, conseguito con la forza dello Stato quale costruzione della ragione, questa opera pittorica costituisce un interessante antecedente della filosofia politica moderna. In generale, l’intera cultura umanistica e rinascimentale, con la sua esaltazione della virtù civile dell’uomo, aveva progressivamente sostituito la cura dell’anima e la speranza nella felicità oltremondana con la ricerca di una prosperità terrena affidata alle capacità razionali dell’uomo. Basti pensare alla centralità che nella pittura e nell’architettura moderne assumono la città e la piazza, simboli della vita associata e dell’impegno politico dell’uomo. In quanto unico mezzo efficace per prevenire la guerra e tutelare la pace, lo Stato costituisce il cen-

Lorenzetti e l’”architettura” del bene comune

tro d’interesse del nuovo pensiero politico, che lo considera il frutto di un ingegnoso artificio della ragione “armata” di forza. Nel pensiero contrattualistico moderno la politica, arte costruttiva e architettonica per eccellenza, è una risorsa affidata alle sole capacità dell’uomo, e per questo tanto fragile quanto preziosa, piena di potenza e asperità, di rischio e di sfida. Una comune convinzione lega molti pensatori politici moderni, e cioè che la tutela della securitas, mediante l’ingegno costruttivo della ragione e la forza del potere, rappresenti l’origine e lo scopo dell’organizzazione statuale. Hobbes fissa con chiarezza quest’idea: «fuori dello Stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità. Nello Stato è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza» (Elementi filosofici sul cittadino, X, 1). Anche per Locke l’uomo è esposto, in natura, alla prepotenza dei suoi simili: per questo egli sceglie la vita sociale per garantire sicurezza alla propria esistenza.

Questo diritto alla sicurezza rivendicato dalla ragione è al centro anche dei due testi fondativi delle moderne democrazie, che si ispirano agli ideali dell’Illuminismo: nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776 troviamo scritto: «il popolo ha il diritto di organizzare i poteri nella forma che gli sembri meglio atta a procurare la sua sicurezza e la sua felicità»; nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino promulgata in Francia il 26 agosto 1789 si legge: «il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione». La passione civile e politica che anima il Rinascimento trova dunque il suo compimento nell’Illuminismo, che esalta la forza riformistica della ragione capace di conseguire il benessere del maggior numero di uomini.

Effetti del Buon Governo in città e in campagna, part.

443

CAPITOLO 4

Berkeley 1. Empirismo e religione L’empirismo di Locke viene assunto da Berkeley come punto di partenza e fondamento per una difesa dei valori spirituali e religiosi. Berkeley sta di fronte all’empirismo nella stessa posizione in cui Malebranche sta di fronte al cartesianesimo: entrambi utilizzano l’una o l’altra filosofia per una difesa della religione. La vita e gli scritti

George Berkeley nacque a Dysert, in Irlanda, il 12 marzo 1685. Si laureò a Dublino nel 1707 e giunse prestissimo a formulare il principio fondamentale della sua filosofia: l’immaterialismo. Pubblicò allora il Saggio di una nuova teoria della visione (1709), il Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) e i Tre dialoghi tra Hylas e Philonous (1713). Dopo alcuni anni trascorsi in studi e viaggi e nella frequentazione della società brillante di Londra, concepì il grande disegno di evangelizzare e civilizzare i “selvaggi” d’America. Credendo di avere attirato sul suo progetto l’attenzione del pubblico e del governo, partì nel 1728 per fondare un collegio nelle isole Bermuda. Si fermò a Rhode Island per attendere (inutilmente) i sussidi che gli erano stati promessi e vi rimase sino alla fine del 1731. In questi anni compose l’Alcifrone, dialogo polemico contro i “liberi pensatori” del tempo. Ritornato a Londra, continuò i suoi studi; chiese e ottenne di essere nominato vescovo di Cloyne in Irlanda e lì si stabilì, dedicandosi a opere filantropiche e morali. In occasione delle epidemie che colpirono l’Irlanda nel 1740, credette di individuare nell’acqua di catrame un medicamento miracoloso. Scrisse allora la Siris (1744), in cui, partendo dall’analisi delle proprietà di questo elemento, elaborò una dottrina metafisica di stampo neoplatonico. Nel 1752 si trasferì a Oxford, dove morì il 20 febbraio 1753.

2. Contro le idee astratte: il nominalismo radicale La presunta capacità di formare idee astratte

444

La causa principale degli errori e delle incertezze che si incontrano in filosofia consiste, per Berkeley, nel credere che il nostro spirito possieda la capacità di formare idee astratte. Lo spirito umano, quando ha riconosciuto che tutti gli oggetti estesi hanno come tali qualcosa in comune, isola questo elemento comune dagli altri elementi (grandezza, figura, colore

Capitolo 4 • Berkeley

ecc.) che differenziano gli oggetti stessi e forma l’idea astratta dell’estensione, che non è né linea, né superficie, né solido e che non ha né figura, né grandezza, ma è completamente separata da tutte queste cose. Allo stesso modo forma l’idea astratta del colore, che non è nessuno dei caratteri singoli, ma li comprende tutti. Ora, Berkeley nega che lo spirito umano possieda effettivamente capacità astrattive e, pertanto, afferma che le idee astratte non sono legittime. L’idea di “uomo” è in realtà sempre l’idea di un uomo particolare, bianco o nero, alto o basso ecc. L’idea di “estensione” è sempre quella di un particolare oggetto esteso, dotato di una determinata figura, di una determinata grandezza e così via. L’idea di “uomo” in generale, ovvero l’idea di un uomo che non presenti alcun carattere particolare, non esiste, così come un uomo di tal genere non esiste nella realtà. Queste considerazioni servono a Berkeley per difendere un nominalismo che, come quello di Locke, discende direttamente da Ockham, ma che, rispetto a quello lockiano, è ancora più radicale. Quelle che Locke chiama «idee generali» non sono, per Berkeley, idee astratte (come ritiene Locke), ma idee particolari assunte come segni di un gruppo di altre idee particolari tra loro affini. Pertanto, il presunto carattere di universalità di un’idea deriva, a ben guardare, soltanto dalla funzione di “segno” che essa può svolgere nei confronti di altre idee, in luogo delle quali può stare. Il triangolo che un geometra ha presente per dimostrare un qualsiasi teorema è sempre un triangolo particolare, ad esempio isoscele; ma poiché di quel carattere particolare del triangolo non si fa menzione nel corso della dimostrazione, il teorema dimostrato vale indistintamente per tutti i triangoli, ognuno dei quali può prendere il posto di quello considerato. Questa è la sola universalità che le nostre idee possono possedere.

Le idee generali come idee particolari

3. L’immaterialismo Esse est percipi Berkeley fa suo il principio cartesiano, già accettato da Locke, secondo il quale i soli “oggetti” della conoscenza umana sono le idee, non la realtà esterna. Ciò che noi chiamiamo “cose” non sono altro, per quanto ci è dato sapere, che collezioni di idee: ad esempio, una mela è l’insieme delle idee di un certo colore, di un certo odore, di una figura e di una consistenza determinate. Ora, le idee per esistere hanno bisogno di essere percepite: il loro esse, dice Berkeley, consiste nel loro percipi (esse est percipi) e questo vale non soltanto per le idee dei nostri pensieri o sentimenti (cioè per quelle che Locke chiama «idee di riflessione»), ma anche per le idee impresse dai sensi. Comunemente si crede che le cose naturali (gli uomini, le case, le montagne ecc.) abbiano un’esistenza reale distinta dalla percezione che l’intelletto ne ha: si distingue l’essere percepito di una cosa dal suo essere reale. Ma questa distinzione non è altro che una delle tante astrazioni che Berkeley condanna. L’oggetto e la percezione sono la stessa cosa e non possono essere astratti o separati l’uno dall’altra:

La realtà si risolve in un insieme di idee

per me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti (Trattato sui principi della conoscenza umana, o dalle cose pensanti che le percepiscono. parte I, par. 3, a cura di M.M. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 32-33)

445

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La materia non esiste come oggetto della conoscenza…

Testo antologico Esse est percipi (Trattato sui principi della conoscenza umana)

… né come modello delle idee

Qualità primarie e qualità secondarie

Esercizi interattivi Berkeley

Il presunto substrato materiale delle qualità sensibili

446

Questo vuol dire che non esiste una sostanza corporea o una materia, nel senso in cui comunemente s’intende, cioè come oggetto (esterno) immediato della nostra conoscenza. Questo oggetto è soltanto un’idea, e l’idea non esiste se non è percepita. L’unica sostanza reale è dunque lo spirito che percepisce le idee (v. immaterialismo spiritualistico). Afferma Berkeley: Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprir gli occhi per vederle. Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, che insomma tutti quei corpi che formano l’enorme impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti. E di conseguenza, finché non vengono percepiti attualmente da me, ossia non esistono nella mia mente né in quella di qualcun altro spirito creato, non esistono affatto, o altrimenti sussistono nella mente di qualche Eterno Spirito: poiché sarebbe assolutamente incomprensibile, e porterebbe a tutte le assurdità dell’astrazione, l’attribuire a qualunque parte dell’universo un’esistenza indipendente da ogni spirito. (Trattato sui principi della conoscenza umana, parte I, par. 6, cit., pp. 34-35)

Accanto alla dottrina che afferma l’esistenza di una materia “esterna” immediatamente conoscibile dal nostro intelletto ve n’è un’altra più raffinata, per la quale si ammette che i corpi materiali non sono percepiti in maniera immediata, ma sono comunque i modelli delle nostre idee, che di essi sono copie o immagini. Ma Berkeley ribatte che, se questi esemplari esterni, questi «originali» delle nostre idee sono percepibili, allora sono anch’essi interni alla mente, cioè idee, e se non sono percepibili, allora è impossibile che possano “somigliare” alle idee che li rappresentano, giacché un colore, ad esempio, non sarà mai simile a qualcosa che per sua natura è invisibile, così come il duro e il soffice non potranno mai essere simili a qualcosa che non si può toccare. Ma in tal caso non potremo mai saperne nulla, né tanto meno paragonarli alle nostre rappresentazioni. Confutata la teoria rappresentazionale di Locke, per il quale le idee di sensazione “rappresentavano” in modo certo le qualità primarie degli oggetti esterni, Berkeley può confutare anche la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, tra le quali, a suo parere, non c’è alcuna differenza. Le qualità primarie, infatti, non esistono senza quelle secondarie: non c’è, ad esempio, un’estensione che non sia colorata. E in ogni caso la forma, il movimento, la grandezza ecc. sono idee esattamente come i colori, i suoni ecc. Non possono dunque sussistere al di fuori di uno spirito che le percepisca e non sono più obiettive delle cosiddette qualità secondarie. L’ultimo rifugio del materialismo potrebbe essere quello di ammettere l’esistenza di una sostanza materiale quale substrato o “sostegno” delle qualità sensibili. Ma anche un tale substrato materiale, dovendo per definizione essere diverso dalle idee sensibili, non avrebbe alcun rapporto con la nostra percezione, il che significa che non ci sarebbe modo di dimostrarne l’esistenza. Né potrebbe essere ritenuto la causa delle idee, perché non si può arrivare a concepire come un corpo agisca su uno spirito o possa produrre un’idea, trattandosi di due dimensioni del tutto eterogenee. L’affermazione dell’esistenza reale di oggetti materiali “esterni” allo spirito è dunque per Berkeley assolutamente priva di senso. Noi possiamo indubbiamente pensare a un gruppo di alberi in un parco o di libri in una biblioteca che esistono senza che nessuno li per-

Capitolo 4 • Berkeley

cepisca, ma questo significherebbe pensarli come non pensati, il che è una contraddizione evidente.

>

Berkeley nega

le idee astratte (esistono solo idee particolari)

le qualità primarie > (non esistono senza le secondarie, cioè senza una mente che le pensi) la sostanza materiale > (non può essere immediatamente conosciuta e non può fungere da causa attiva delle idee)

Testo antologico La materia non esiste (Trattato sui principi della conoscenza umana)

affermando che esse est percipi (= la realtà consta di idee che per esistere hanno bisogno di essere percepite)

Tutto ciò che esiste è idea (pensata) o spirito (pensante)

Gli spiriti finiti e lo Spirito infinito Le idee, osserva Berkeley, devono indubbiamente avere una causa; ma questa non può essere, come si è visto, la materia. Né può essere qualche altra idea, dal momento che le idee sono essenzialmente inattive, cioè prive di forza e di azione. Attivo è soltanto lo spirito che le possiede. Il nostro spirito può quindi agire sulle idee, sulle quali infatti agisce, unendole e variandole liberamente:

La “causa” delle idee

oltre a questa infinita varietà di idee, o di oggetti della conoscenza, v’è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, e esercita su di esse diversi atti come il volere, l’immaginare, il ricordare ecc. Questo essere che percepisce e agisce è ciò che chiamo “mente”, “spirito”, “anima”, “io”. (Trattato sui principi della conoscenza umana, parte I, par. 2, cit., p. 32)

Ma il nostro spirito non ha alcun potere sulle idee percepite attualmente, cioè su quelle che noi chiamiamo abitualmente “cose naturali”. Queste idee sono più forti, più vive e più distinte di quelle dell’immaginazione. Hanno anche un ordine e una coerenza assai superiori a quelli delle idee raggruppate dagli uomini. Devono dunque essere prodotte in noi da uno Spirito superiore (v. causa delle idee), che è Dio.

Dio e le idee percepite attualmente

Le idee impresse […] non sono creazioni della mia volontà. V’è dunque qualche altra volontà, ossia un altro spirito che le produce. (Trattato sui principi della conoscenza umana)

Quelle che noi chiamiamo leggi di natura sono le regole fisse e i metodi (modi) costanti mediante i quali Dio produce in noi le idee dei sensi. Noi apprendiamo quelle regole dall’esperienza, la quale ci insegna che un’idea è accompagnata da un’altra nel corso ordinario delle cose. Così siamo in grado di regolarci per i bisogni della vita; e sappiamo, ad esempio, che gli alimenti nutrono, il fuoco brucia ecc. L’ordine con cui le idee naturali si presentano dimostra quindi la bontà e la saggezza dello spirito che ci governa.

Le “leggi di natura”

447

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Lo spirito

> finito (l’uomo) = riceve passivamente le idee > infinito (Dio) = invia attivamente le idee

Le leggi di natura sono le regole fisse con cui Dio produce in noi le idee

Berkeley intende in questo modo salvaguardare la realtà della conoscenza, evitando il rischio di ridurla a fantasia o a sogno. Affermando che le idee che noi chiamiamo “cose reali” sono prodotte nei nostri sensi da Dio e che quelle altre, assai meno regolari e vive, che noi chiamiamo propriamente “idee”, sono le immagini delle prime, il filosofo ritiene infatti di avere saldamente stabilito la differenza tra realtà e fantasia. Egli non è neppure contrario all’uso del termine “cose” per indicare le idee reali provenienti da Dio. Si tratta solo di parole: l’importante è non attribuire alle cosiddette “cose” una realtà esterna allo spirito. Dio percepisce le “cose” senza interruzione

L’inconciliabilità di materialismo e religione

La natura come linguaggio divino

448

Il ricorso allo Spirito infinito di Dio permette inoltre a Berkeley di non dover ammettere che, negli intervalli in cui non sono percepite da alcuno spirito finito, le idee non esistono. Le idee non sono annientate e create in ogni momento, poiché, quando non sono percepite da noi, sono percepite da Dio. In questo senso le cose possono anche essere dette “esterne”, in quanto non sono generate dall’interno di quello spirito finito che è l’uomo, ma sono impresse in esso da uno Spirito diverso, dal quale sono costantemente percepite in modo attuale. Questa dottrina, unita a quella della negazione della materia, presenta secondo Berkeley degli indubbi vantaggi al fine di una convincente giustificazione della religione. Quella tra materialismo e spiritualismo, infatti, è un’alternativa senza alcuna possibilità di compromesso: se si ammette che la materia è reale, l’esistenza di Dio diventa inutile perché la materia stessa diventa la causa di tutte le cose e delle idee che sono in noi. Il materialismo non può dunque che aprire la strada alla negazione di ogni disegno provvidenziale, di ogni libertà e intelligenza nella formazione del mondo, dell’immortalità dell’anima e della possibilità della resurrezione. L’esistenza della materia è il principale fondamento teorico dell’ateismo e del fatalismo, senza contare che dal materialismo dipende lo stesso principio d’idolatria. Al contrario, una volta bandita la materia dalla realtà esistente, non si può ricorrere che a Dio per spiegare l’origine, l’ordine e la bellezza delle nostre idee sensibili; e in questo senso l’esistenza delle cose sensibili si palesa come l’evidenza immediata dell’esistenza di Dio. La considerazione e lo studio della natura acquistano così un immediato significato religioso, poiché rendersi conto delle leggi naturali significa interpretare il linguaggio attraverso il quale Dio svela all’uomo i suoi attributi e lo guida verso la felicità autentica. La scienza della natura è una specie di grammatica del linguaggio divino: considera i segni, più che le cause reali. La filosofia è la vera lettura del linguaggio divino della natura, giacché scopre il suo significato religioso. La scienza della natura si ferma ai segni di questo linguaggio e ai loro rapporti; la filosofia risale invece alla grandezza, alla saggezza e alla benevolenza del Creatore. In altre parole, la maggior parte delle idee, essendo ciò che chiamiamo “opere della natura”, ci rivela direttamente l’azione di Dio come di uno Spirito unico, infinito e perfetto. L’esistenza di Dio è in questo senso assai più evidente di quella degli uomini.

Capitolo 4 • Berkeley

L’immaterialismo rende inoltre indubitabile l’immortalità dell’anima. Lo spirito, ovvero la sostanza che pensa, che percepisce e che vuole, non ha alcun carattere in comune con le idee. Le idee sono passive, lo spirito è attività; le idee sono labili e mutevoli, lo spirito è una realtà permanente e semplice, estranea a ogni composizione o scomposizione. Come tale, l’anima dell’uomo è naturalmente immortale. Lo spirito e le idee sono così diversi tra loro che dello spirito non possiamo neppure dire di avere un’idea. Lo conosciamo, sì, e con assoluta certezza; ma questa conoscenza bisognerà piuttosto chiamarla una «nozione», in quanto è di natura completamente diversa rispetto a quella delle idee che costituiscono il mondo naturale. Gli spiriti diversi dal nostro, invece, li conosciamo attraverso le idee che producono in noi. La conoscenza che abbiamo di loro, quindi, non è immediata (come quella che abbiamo del nostro spirito), ma mediata e indiretta.

L’immortalità dell’anima

La conoscenza del nostro spirito e di quello altrui

Sintesi audio Berkeley

4. Il secondo Berkeley I capisaldi dottrinali esposti fin qui costituiscono le tesi delle prime opere di Berkeley (Saggio di una nuova teoria della visione, Trattato sui principi della conoscenza umana, Tre dialoghi tra Hylas e Philonous). Ma già in queste opere essi non sono considerati come fini a se stessi, bensì come mezzi adatti a difendere e a rafforzare la morale e la religione negli uomini. Questo intendimento diventa sempre più dominante nelle opere successive, le quali, pur non ripudiando le tesi dell’immaterialismo e della riduzione delle cose naturali a semplici idee, in qualche modo le mettono tra parentesi, insistendo sempre più su una metafisica religiosa desunta dal neoplatonismo. Così l’Alcifrone è, come dice il sottotitolo, una “Apologia della religione cristiana contro i così detti liberi pensatori” e quindi costituisce una polemica, condotta in forma di dialogo, contro quella religione naturale alla quale il deismo illuministico rimaneva fedele. Sebbene le prime opere di Berkeley esprimessero un concetto della divinità assai vicino a quello dei cosiddetti “liberi pensatori”, perché fondato solo sulla ragione naturale (e non sulla rivelazione), l’Alcifrone afferma recisamente l’insufficienza della religione naturale. Questa non arriva mai ad essere un’autentica e sentita fede, che si manifesti in preghiere e in atti esterni di culto, neppure in coloro che la professano; né può diventare mai la religione popolare o nazionale di un paese. La rivelazione è necessaria alla religione perché questa sia veramente operante nello spirito e nelle azioni degli uomini ed eserciti un’azione benefica sui loro costumi. Ancora più lontana dalla gnoseologia delle prime opere è la Siris, il cui sottotitolo è: “Catene di riflessioni filosofiche e di indagini sulle virtù dell’acqua di catrame e su altri diversi argomenti connessi e derivanti l’uno dall’altro”. Dopo aver parlato delle virtù dell’acqua di catrame, Berkeley passa a spiegare il modo in cui essa agisce e giunge a riconoscere che il principio della sua azione è lo stesso che opera in tutto l’universo: un fuoco invisibile, luce, etere o spirito animale dell’universo. L’etere anima ogni cosa comunicando a tutti gli esseri una scintilla vitale, la quale, dopo la fine del singolo essere, torna a fondersi nell’etere. Ma l’etere è solo il mezzo universale di cui si serve Dio, causa prima, per esplicare la sua azione.

Una metafisica religiosa

La necessità della rivelazione per la fede

L’intelligenza divina come causa prima di tutti gli effetti del mondo

449

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

Approfondimento Berkeley nella filosofia moderna

Infatti l’etere è materia e tutto ciò che è materia è passivo e deve avere una causa fuori di sé. La causa prima non può che essere spirituale, perché solo lo spirito è attivo. È dunque l’intelligenza divina che attraverso l’etere produce tutti gli effetti del mondo. Qui non si fa più cenno all’irrealtà delle cose materiali e alla loro riduzione a idee. Tuttavia questa metafisica neoplatonica è sostanzialmente identica a quella già presupposta nelle prime opere, in quanto considera pur sempre le cose solo come manifestazioni dell’azione divina: non hanno realtà né attività per loro conto, ma in esse agisce e si rivela Dio stesso.

GLOSSARIO e RIEPILOGO Berkeley Nominalismo p. 445 > Berkeley professa un nominali-

smo radicale, in quanto sostiene che le presunte «idee generali» di cui parla Locke non sono idee astratte o universali, ma semplici idee particolari assunte come segni di un gruppo di altre idee particolari tra loro affini. Di conseguenza, l’universalità, secondo Berkeley, non risiede tanto nelle idee, quanto nell’intelletto, il quale, riferendo una determinata idea particolare a tutte le altre idee particolari della medesima specie, le dà valore e significato universale, considerandola come segno di tutte le altre idee particolari ad essa affini e tale, dunque, che può stare per esse. Ad esempio «quando dimostro una qualunque proposizione sui triangoli, bisogna supporre che abbia in vista l’idea universale di un triangolo: ma questo non lo si deve intendere nel senso che io possa formarmi l’idea di un triangolo che non sia equilatero né scaleno ecc.; ma soltanto che quel triangolo particolare che io considero, di qualunque tipo esso sia, rappresenta sempre e sta in luogo di qualsivoglia triangolo rettilineo, ed è in questo senso che è universale» (Trattato sui principi della conoscenza umana, “Introduzione”, par. 15, cit., p. 21).

Esse est percipi p. 445 > Esse est percipi (l’essere consiste nell’essere percepito) è la celebre formula che riassume la filosofia di Berkeley, il quale ritiene che la realtà si risolva in un insieme di idee che, per esistere, hanno bisogno di essere percepite da uno spirito: «L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti» (Trattato, parte I, par. 3, cit., p. 33).

450

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

Immaterialismo spiritualistico p. 446 > L’immaterialismo spiritualistico è la dottrina berkeleiana che, in virtù della tesi dell’esse est percipi, esclude l’esistenza “assoluta” delle cose, cioè la possibilità che vi siano realtà materiali indipendenti dalla mente. Infatti, per Berkeley, tutto ciò che esiste è idea, oppure spirito: «oltre a questa infinita varietà di idee, o di oggetti della conoscenza, v’è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, ed esercita su di esse diversi atti come il volere, l’immaginare, il ricordare ecc. Questo essere che percepisce ed agisce è ciò che chiamo “mente”, “spirito”, “anima”, “io”» (Trattato, parte I, par. 2, cit., p. 32).

Qualità primarie e qualità secondarie p. 446 > Ber-

keley nega la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, argomentando che le qualità primarie non esistono concretamente senza le secondarie, cioè senza una mente che le pensi: «l’estensione, la forma ed il moto, astratti dalle altre qualità sensibili, sono inconcepibili. Dove dunque sono le altre qualità sensibili vi saranno anche le qualità primarie: cioè, saranno anch’esse nella mente e non altrove» (Trattato, parte I, par. 10, cit., p. 38).

Substrato p. 446 > Berkeley respinge l’idea di un “sub-

strato” (substratum) materiale delle qualità sensibili (che rappresenta l’ultimo rifugio del materialismo), affermando che esso, dovendo essere, per definizione, diverso dalle idee sensibili, non avrà alcun rapporto con la nostra percezione, per cui non ci sarà modo di dimostrarne l’esistenza. Inoltre, aggiunge Berkeley, tale substrato non può essere considerato come la causa delle idee, in quanto non si concepisce come un corpo possa agire sullo spirito e generare un’idea.

Capitolo 4 • Berkeley

Causa delle idee p. 447 > La causa delle idee, secondo Berkeley, non può essere individuata né in un ipotetico substrato materiale, né nelle idee stesse. Infatti le idee percepite attualmente dai nostri sensi (ovvero quelle che chiamiamo “cose naturali”) sono qualcosa che il nostro spirito, nella sua finitudine, non produce, ma subisce. Esse devono dunque venir impresse in noi da uno Spirito infinito, cioè da Dio. Dio p. 447 > Dio, secondo Berkeley, non rappresenta

solo una verità ontologica necessaria per spiegare la causa delle idee, ma anche qualcosa di indispensabile per chiarire la sorte delle idee quando noi non le pensiamo. In altri termini, Dio si configura come la Mente infinita grazie a cui le idee (cioè le cose) esistono anche quando non vengono percepite. Per illustrare questo punto decisivo del pensiero di Berkeley, Bertrand Russell, nella sua Storia della filosofia occidentale, riporta una simpatica strofetta con risposta di Ronald Knox:

Si stupiva un dì un allocco: «Certo Dio trova assai sciocco che quel pino ancora esista se non c’è nessuno in vista». «Molto sciocco, mio Signore, è soltanto il tuo stupore. Tu non hai pensato che se quel pino sempre c’è è perché lo guardo io. Ti saluto e sono Dio».

Leggi di natura p. 447 > Le cosiddette “leggi di natura” per Berkeley sono le regole fisse e i modi costanti mediante i quali Dio produce in noi le idee: «e noi apprendiamo queste per mezzo dell’esperienza che ci insegna che queste o quelle idee si accompagnano con queste o quelle altre, nel corso ordinario delle cose» (Trattato, parte I, par. 30, cit., p. 51).

MAPPA Berkeley Le Premesse

l’immaterialismo (esse est percipi)

il nominalismo le idee astratte non esistono: sono idee particolari assunte come segni di gruppi di idee particolari tra loro simili

Mappa interattiva

la realtà non è che un insieme di idee: non esiste una sostanza corporea come oggetto (esterno) immediato della nostra conoscenza

tra qualità primarie e secondarie non c’è differenza

Dalla GNOseOLOGIA alla TeOLOGIA

la causa delle idee percepite attualmente è uno Spirito superiore: Dio

le leggi di natura sono le regole con cui Dio produce in noi le idee

le “cose” esistono anche quando noi non le percepiamo, in quanto percepite da Dio

451

CAPITOLO 5

Hume

1. Dall’empirismo allo scetticismo Restringendo la conoscenza umana nei limiti dell’esperienza, Locke non aveva inteso diminuirne il valore; le aveva anzi riconosciuto, in quei limiti, una piena validità. Hume conduce invece l’empirismo a un esito scettico: l’esperienza non è in grado di fondare la validità della conoscenza, la quale, ricondotta entro i suoi legittimi confini, non è certa, ma soltanto probabile. La vita e gli scritti

452

David Hume nacque il 26 aprile 1711 a Edimburgo, in Scozia, dove studiò giurisprudenza. Ma i suoi interessi erano rivolti alla filosofia e alla letteratura. Dopo un fiacco e brevissimo tentativo di fare l’avvocato a Bristol, si recò in Francia, dove rimase tre anni (1734-1737) a proseguire i suoi studi. In questo periodo compose la prima e fondamentale sua opera, il Trattato sulla natura umana, che fu pubblicato tra il 1739 e il 1740 e non ebbe alcun successo. Ritornato in Inghilterra, pubblicò nel 1742 la prima parte dei Saggi morali e politici, che ebbero invece un’accoglienza favorevole. Tra il 1745 e il 1748 ebbe diversi incarichi politici, tra cui quello di segretario del generale St. Clair, che lo portò con sé nelle sue ambasciate militari presso le corti di Vienna e di Torino. Si trovava appunto a Torino, quando nel 1748 uscì a Londra la Ricerca sull’intelletto umano, che rielaborava in forma più semplice e piana la prima parte del Trattato. Nel 1752 Hume ebbe un posto di bibliotecario a Edimburgo e cominciò a comporre una Storia dell’Inghilterra. Nello stesso anno pubblicò la Ricerca sui principi della morale, rielaborazione della terza parte del Trattato, opera che egli considerava come il migliore dei suoi scritti. Del 1757 è la Storia naturale della religione. Ma a quell’epoca Hume aveva già composto i Dialoghi sulla religione naturale, che sarebbero stati pubblicati postumi (1779). Nel 1763 Hume divenne segretario del conte di Hartford, ambasciatore d’Inghilterra a Parigi. Qui rimase fino al 1766, frequentando, assai bene accolto, la società intellettuale della capitale francese. Tornato in Inghilterra, ospitò in casa sua Jean-Jacques Rousseau, ma il

Capitolo 5 • Hume

carattere ombroso del filosofo svizzero provocò una rottura tra i due. Dal 1769 in poi, ormai benestante, Hume condusse una vita ritirata e tranquilla. Morì a Edimburgo il 25 agosto del 1776. Nonostante l’insuccesso inizialmente riscosso, l’opera principale di Hume è il Trattato sulla natura umana, sebbene nella Ricerca sull’intelletto umano e nella Ricerca sui principi della morale egli ne abbia riesposto in modo assai più rapido e chiaro i capisaldi essenziali.

L’opera principale

2. La “scienza” della natura umana Alla base del filosofare di Hume vi è l’ambizioso progetto di costruire una scienza della natura umana su base sperimentale, analoga a quella teorizzata da Bacone per quanto riguarda la natura fisica. In altri termini, Hume (che tiene presenti le ricerche dei “moralisti” inglesi, da Shaftesbury a Butler: v. vol. 2B, unità 6) intende essere una sorta di “Newton” della natura umana, in grado di offrire un’analisi sistematica delle varie dimensioni che la costituiscono: dalla ragione al sentimento, dalla morale alla politica. Del resto, Hume è persuaso che la natura umana costituisca la «capitale» del regno del sapere e che quindi una scienza che se ne occupi risulti più basilare e urgente delle altre: Il solo mezzo per ottenere dalle nostre ricerche filosofiche l’esito che ne speriamo è di abbandonare il tedioso, estenuante metodo seguito fino ad oggi; e invece d’impadronirci, di tanto in tanto, d’un castello o d’un villaggio alla frontiera, muovere direttamente alla capitale, al centro di queste scienze, ossia alla stessa natura umana: padroni di esso, potremo sperare di ottener ovunque una facile vittoria. Movendo di qui, potremo estendere la nostra conquista su tutte le scienze più intimamente legate con la vita umana […]. Non c’è questione di qualche importanza la cui soluzione non sia compresa nella scienza dell’uomo, e non ce n’è nessuna che possa essere risolta con certezza se prima non ci rendiamo padroni di quella scienza. Accingendoci, quindi, a spiegare i principi della natura umana, noi in realtà miriamo a un sistema di tutte le scienze costruito su di una base quasi del tutto nuova.

Un “Newton” della natura umana

La scienza dell’uomo come «capitale» del regno del sapere

(Trattato sulla natura umana, “Introduzione”, in Opere filosofiche, a cura di E. Lecaldano, Laterza, Roma-Bari 1987, vol. 1, p. 7)

La tendenza empiristica e anti-metafisica che sta a monte del procedimento di Hume è a sua volta riassunta da una celebre immagine: Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio, di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni.

La tendenza empiristica e antimetafisica

(Ricerca sull’intelletto umano, sez. XII, 3, in Opere filosofiche, cit., vol. 2, p. 175)

Come vedremo, questa scelta empiristica finirà per mettere capo a una forma di scetticismo nel quale le pretese conoscitive della natura umana risultano fortemente limitate. Da ciò la funzione storicamente “provocatoria” esercitata dalla filosofia di Hume, a cui Kant riconoscerà il merito di averlo svegliato dal suo «sonno dogmatico».

L’esito scettico

453

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

3. Il percorso della conoscenza Impressioni e idee Nella sua analisi della conoscenza umana – volta a sondare «la portata e la forza dell’intelletto umano», nonché «la natura delle idee» e «delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti» – Hume divide le percezioni della mente in due classi, che si distinguono tra loro per il grado diverso di forza e di vivacità con cui colpiscono lo spirito: a) le percezioni che penetrano con maggior forza ed evidenza nella coscienza si chiamano impressioni e sono tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, nell’atto in cui vediamo o sentiamo, amiamo o odiamo, desideriamo o vogliamo; b) le immagini illanguidite di queste impressioni si chiamano idee o pensieri. ➔ T1 p. 470 La differenza tra impressioni e idee

La differenza tra un’impressione e un’idea è, ad esempio, la stessa che intercorre tra il dolore provato per un calore eccessivo e il ricordo di questo dolore. L’idea non può mai raggiungere la vivacità e la forza dell’impressione e anche in casi eccezionali, quando la mente è disordinata dalla malattia o dalla pazzia, la differenza permane.

1700

1710

1701 Guerra di successione spagnola

Eventi storici

Vita di Hume

Filosofia e Scienza

1720 1714 Pace di Rastadt tra Impero e Francia 1713 Pace di Utrecht: fine della Guerra di successione spagnola

1720 Pace dell’Aia: la Spagna rinuncia alle pretese sull’Italia

1711 David Hume nasce a Edimburgo

454

1740 1733 Guerra di successione polacca: Francia e Spagna contro Impero e Russia 1738 Pace di Vienna: fine della Guerra di successione polacca

1734 Dopo una breve esperienza lavorativa a Bristol, si trasferisce in Francia (prima a Reims, poi a La Flèche), dove redige il Trattato 1725 sulla natura umana Terminato il college, intraprende gli studi di giurisprudenza

1704 1714 1725 Leibniz: Nuovi saggi Fahrenheit inventa Vico: sull’intelletto umano il termometro a mercurio; Scienza nuova Leibniz: Monadologia 1705 Mandeville: 1721 La favola delle api Montesquieu: Lettere persiane 1707 Newton: Arithmetica universalis 1717 Watteau: L’imbarco per Citera

Arte e Letteratura

1730

1719 Defoe: Le avventure di Robinson Crusoe

1737 Ritorna a Londra 1739 Pubblicati i primi due libri del Trattato

1733 John Kay inventa la spoletta volante 1735 Linneo: Systema naturae

1726 Swift: I viaggi di Gulliver

1721 Bach: Concerti brandeburghesi

1733 Pergolesi: La serva padrona

1740 ca. Canaletto: Il bacino di San Marco verso est

Capitolo 5 • Hume

Ogni idea deriva dalla corrispondente impressione e non esistono idee o pensieri di cui non si sia avuta precedentemente l’impressione. L’illimitata libertà di cui pare che goda il pensiero dell’uomo trova il suo limite invalicabile in questo principio. L’uomo può senza dubbio comporre le idee nei modi più arbitrari e fantastici, e spingersi con il pensiero fino agli estremi limiti dell’universo; ma non farà mai realmente un passo al di là di se stesso, perché non avrà mai in suo possesso altra specie di realtà che quella delle sue impressioni. Da un capo all’altro della sua analisi, Hume si mantiene rigidamente fedele a questo principio fondamentale.

Ogni idea deriva da una corrispondente impressione

Locke, pur dopo aver ammesso che l’unico oggetto della conoscenza umana era l’idea, aveva riconosciuto, al di là di essa, la realtà dell’io, di Dio e delle cose. Berkeley, pur negando la materia, aveva ammesso la realtà degli spiriti finiti e dello spirito infinito di Dio, realtà entrambe irriducibili alle idee. Solo Hume risolve totalmente la realtà nel molteplice delle idee attuali (cioè delle impressioni sensibili e delle loro copie) e nulla ammette al di là di esse. Per spiegare la realtà del mondo e dell’io, egli non ha a sua disposizione se non le impressioni, le idee e i loro rapporti. Ogni realtà deve per lui risolversi nei rapporti con cui si connettono tra loro le impressioni e le idee. Tuttavia, per il suo stesso punto di partenza, questo tentativo non può riuscire a fondare le realtà esaminate, ma solo a risolverle nei loro elementi originari. La conclusione scettica è inevitabile.

1740 1740 Guerra di successione austriaca

1750

1760

1748 Pace di Aquisgrana: fine della Guerra di successione austriaca

1757 Attentato contro Luigi XV: scoppia la Guerra dei Sette anni

La negazione delle idee astratte in Locke e Berkeley

1770 1765 Gli inglesi impongono alle colonie americane lo Stamp Act 1763 Trattato di Parigi: fine della Guerra dei Sette anni

1780

1776 Dichiarazione di indipendenza delle colonie americane 1776 A Edimburgo, Hume muore

1748 1757 1763 1741-1742 Ricerca sull’intelletto Storia naturale Segretario del conte di Hartford, Si ritira a Ninewells; umano ambasciatore inglese a Parigi; della religione Saggi morali e politici 1754 contatti con l’ambiente (anonimi) Primo volume della 1779 dei philosophes 1745-1747 1761 1752 Storia d’Inghilterra Il nipote David pubblica postumi Segretario Completa la Bibliotecario i Dialoghi sulla religione naturale pubblicazione 1766 a Edimburgo; del generale della Storia Rientra in Inghilterra, dove per breve tempo accoglie Ricerca sui principi St. Clair a Vienna d’Inghilterra Rousseau, esule dopo la pubblicazione del Contratto sociale della morale e a Torino 1746 Condillac: Saggio sull’origine delle conoscenze umane

1741 Händel: Il Messia

1750 1755 1762 Baumgarten: Rousseau: Rousseau: Estetica Discorso sull’origine Il contratto sociale della disuguaglianza 1763 1751 Voltaire: Trattato sulla tolleranza Primo volume 1759 dell’Encyclopédie 1764 1748 Condanna Beccaria: Dei delitti e delle pene Montesquieu: Lo spirito delle leggi; ufficiale La Mettrie: L’uomo macchina dell’Encyclopédie 1752 Goldoni: La locandiera 1755 Winckelmann: Considerazioni sull’imitazione delle opere greche

1768 Prima opera di Mozart: La finta semplice

1776 Smith: Ricerca sulla natura e causa della ricchezza delle nazioni 1777 Verri: Osservazioni sulla tortura 1774 Goethe: I dolori del giovane Werter 1777 Alfieri: Della tirannide

455

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La negazione delle idee astratte in Hume

La funzione dell’abitudine

Hume fa dunque sua la negazione delle idee astratte già operata da Berkeley. Non esistono idee astratte, cioè idee che non abbiano caratteri particolari (un triangolo che non sia né equilatero né isoscele né scaleno, un uomo che non sia questo o quell’uomo ecc.); esistono unicamente idee particolari, assunte come segni di altre idee particolari a esse simili. ➔ T2 p. 471 Per spiegare la funzione del segno, cioè la capacità di un’idea di richiamare un gruppo di idee tra loro simili, Hume ricorre a un principio di cui si servirà largamente in tutte le sue analisi: l’abitudine. Quando abbiamo scoperto una certa somiglianza tra idee che per altri aspetti sono diverse (ad esempio tra le idee di diversi uomini e di diversi triangoli), noi adoperiamo un unico nome (“uomo” o “triangolo”) per indicarle. Si forma così in noi l’abitudine di considerare in qualche modo unite tra loro le idee designate da un unico nome; sicché il nome stesso risveglierà in noi non una sola di quelle idee, ma l’abitudine che abbiamo di considerarle assieme. La funzione puramente logica del segno concettuale, che Locke e Berkeley avevano desunto da Ockham, diventa così in Hume un fatto psicologico, un’abitudine.

>

impressioni = le percezioni immediate in tutta la loro forza e vivacità originaria

>

idee = le immagini o il ricordo sbiadito delle impressioni

Le percezioni si dividono in

Il principio di associazione L’immaginazione

Il principio di associazione e i suoi criteri

Testo antologico L’immaginazione (Trattato sulla natura umana)

Le idee complesse

456

La facoltà di stabilire relazioni tra idee è detta, da Hume, immaginazione. Sebbene essa operi liberamente, non risulta completamente affidata al caso, come emerge considerando il fatto che anche nei sogni e nelle «fantasticherie più sfrenate e vagabonde» troviamo che «viene sempre mantenuta una connessione tra le diverse idee che si succedono l’una all’altra». Questa connessione è garantita da una forza che rappresenta, per la mente, ciò che la forza di gravità rappresenta per la natura. Tale è il cosiddetto principio di associazione delle idee, che Hume descrive come «una dolce forza che comunemente s’impone, facendo che la mente venga trasportata da un’idea all’altra». Questa «dolce forza» di attrazione opera secondo tre criteri fondamentali: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la causalità. Un ritratto, ad esempio, conduce naturalmente i nostri pensieri al suo originale (somiglianza); il ricordo dell’appartamento di una casa porta a discorrere degli altri appartamenti della stessa casa (contiguità); l’idea di una ferita fa pensare al dolore che ne deriva (causa ed effetto). ➔ T3 p. 472 Hume ritiene che l’associazione stia alla base di quelle che Locke chiama «idee complesse». Tra queste idee le più importanti sono quelle di spazio, di tempo, di causa ed effetto, di sostanza (corporea o spirituale). A tali idee noi attribuiamo consistenza e oggettività. Invece Hume si propone di mostrare come ad esse non corrisponda alcuna impressione.

Capitolo 5 • Hume

Tanto per cominciare, argomenta Hume, lo spazio e il tempo non sono «impressioni», ma «maniere di sentire» le impressioni, ovvero modi con cui le impressioni si «dispongono» dinnanzi allo spirito. Ad esempio, l’idea di tempo «non deriva da un’impressione particolare mescolata ad altre, ma nasce dalla maniera complessiva con la quale le impressioni si affacciano alla mente senza essere nessuna di esse. Cinque note suonate nel flauto ci danno l’impressione e l’idea di tempo, ma il tempo non è una sesta impressione che si presenti all’udito o ad un altro senso». Parimenti destituite di oggettività sono le idee di causa ed effetto (v. “L’analisi critica del principio di causalità”, p. seg.) e di sostanza materiale e spirituale (v. “La credenza nel mondo esterno e nell’identità dell’io”, p. 460).

L’immaginazione

è la facoltà di stabilire relazioni tra idee > mediante il principio di associazione, che opera secondo tre criteri:

Spazio e tempo

> somiglianza > contiguità spazio-temporale > causalità

L’associazione sta alla base delle idee complesse, e in particolare delle idee di spazio, tempo, causa-effetto e sostanza corporea o spirituale

Sintesi audio Hume; La conoscenza

Proposizioni che concernono relazioni tra idee e proposizioni che concernono dati di fatto Così come Leibniz aveva distinto le “verità di ragione” dalle “verità di fatto”, Hume distingue le proposizioni che concernono relazioni tra idee (come le proposizioni matematiche) dalle proposizioni che concernono fatti (come le proposizioni delle scienze naturali). Le prime, precisa Hume, si possono scoprire «per mezzo della sola operazione del pensiero, indipendentemente da ciò che è realmente esistente in una qualsiasi parte dell’universo». Si tratta infatti di proposizioni che noi costruiamo basandoci semplicemente sul principio di non-contraddizione. Ad esempio, posta la definizione di triangolo rettangolo, ricaviamo per via puramente razionale che «il quadrato dell’ipotenusa è uguale al quadrato di due lati». Nella terminologia instaurata da Kant, tali proposizioni sono dette analitiche, in quanto il predicato è già implicitamente contenuto nel soggetto, dal quale può venire razionalmente ricavato per via di analisi. Le proposizioni che concernono relazioni tra idee hanno quindi in se stesse la loro validità: «Anche se non vi fossero, in natura, cerchi o triangoli – sentenzia Hume – le verità dimostrate da Euclide conserverebbero intatta la loro certezza e la loro evidenza». Invece, le proposizioni che concernono dati o materie di fatto (matter of fact) non sono fondate sul principio di non-contraddizione, bensì sull’esperienza, giacché il contrario di un fatto è sempre possibile e «ogni cosa che è, può non essere». Infatti, argomenta Hume con un’immagine divenuta celebre, la proposizione “il sole domani non si leverà” è una proposizione non meno intelligibile, né più contraddittoria di “il sole domani si leverà”.

Relazioni tra idee

Relazioni tra dati di fatto Testo antologico «Relazioni di idee» e «materie di fatto» (Ricerca sull’intelletto umano)

457

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

L’analisi critica del principio di causalità La relazione tra causa ed effetto si basa sull’esperienza

Tutti i ragionamenti che riguardano realtà o fatti si fondano sul rapporto causa-effetto. Se si chiede a una persona perché creda a un fatto qualsiasi, ad esempio che un suo amico è in campagna, egli addurrà un altro fatto, ad esempio che ha ricevuto da lui una lettera o che ha precedentemente conosciuto la sua intenzione di recarsi in campagna. Ora, la tesi fondamentale di Hume è che la relazione tra causa ed effetto non può mai essere conosciuta a priori, cioè con il puro ragionamento, ma soltanto per esperienza. Nessuno, messo di fronte a un oggetto che per lui sia nuovo, è in grado di scoprire le sue cause e i suoi effetti prima di averli sperimentati e soltanto ragionando su di essi. Adamo, anche se le sue facoltà razionali siano supposte dal principio perfette, non avrebbe mai potuto inferire dalla fluidità e trasparenza dell’acqua che essa poteva soffocarlo o dalla luce e dal calore del fuoco che esso poteva consumarlo. Nessun oggetto scopre mai, per mezzo delle qualità che appaiono ai sensi, le cause che lo producono o gli effetti che sorgeranno da esso; né può la nostra ragione, senza l’aiuto dell’esperienza, effettuare alcuna induzione che concerna realtà o fatti. (Ricerca sull’intelletto umano, sez. IV, 1, in Opere filosofiche, cit., p. 33)

La connessione tra causa ed effetto è priva di qualsiasi necessità oggettiva

L’esperienza illumina il passato, non il futuro

Video La problematicità dell’esperienza sensibile (La cantatrice calva)

Da cause simili ci attendiamo effetti simili

458

Questo significa che la connessione tra causa ed effetto, anche dopo che è stata scoperta per esperienza, rimane arbitraria e priva di qualsiasi necessità oggettiva. Causa ed effetto sono due fatti interamente diversi, ognuno dei quali non ha nulla in sé che richiami necessariamente l’altro. Quando vediamo una palla da biliardo che corre verso un’altra, anche supponendo che nasca per caso in noi il pensiero del movimento della seconda palla come risultato del loro incontro, potremmo benissimo concepire altre possibilità: ad esempio, che le due palle rimangano entrambe ferme, o che la prima ritorni indietro lungo la traiettoria già percorsa, o che devii lateralmente. ➔ T4 p. 473 Tutte le diverse possibilità dell’esempio non possono essere escluse, perché non sono contraddittorie in se stesse. L’esperienza ci dice che una sola di esse si verificherà, e cioè che l’urto della prima palla metterà in movimento la seconda; ma l’esperienza non ci illumina se non intorno a fatti che abbiamo già sperimentato in passato, senza dirci nulla circa i casi futuri. Anche dopo che l’esperienza è stata fatta, la connessione tra la causa e l’effetto rimane infatti arbitraria e non potrebbe essere assunta come fondamento in nessuna previsione e in nessun ragionamento sul futuro: ➔ T5 p. 475 Il pane che prima mangiavo mi nutriva; cioè un corpo con certe qualità sensibili era dotato di segrete forze in quel tempo; ma ne segue che un altro pane debba nutrirmi pure in un altro tempo e che qualità sensibili simili debbano sempre essere accompagnate da eguali forze segrete? La conseguenza non sembra affatto necessaria. (Ricerca sull’intelletto umano, sez. IV, 2, in Opere filosofiche, cit., p. 32)

Che il corso della natura possa cambiare, che i legami causali che l’esperienza ci ha testimoniato per il passato possano non verificarsi nell’avvenire, è ipotesi che non implica alcuna contraddizione e che perciò rimane sempre possibile. Né la continua e reiterata conferma fattuale della maggior parte delle connessioni causali muta la questione, dal momento che tali conferme riguardano sempre il passato, mai il futuro. Tutto ciò che “impariamo” dall’esperienza è che da cause che ci appaiono simili ci aspettiamo effetti simili. Ma questa

Capitolo 5 • Hume

“attesa” non è giustificata dall’esperienza, essendo piuttosto il presupposto ingiustificabile dell’esperienza. Se ci fosse anche solo qualche sospetto che il corso della natura potesse cambiare e che il passato non servisse da regola per il futuro, ogni esperienza diverrebbe inutile e non potrebbe dare origine ad alcuna inferenza o conclusione. È impossibile quindi che argomenti tratti dall’esperienza possano dimostrare la rassomiglianza del passato con il futuro: al contrario, sono tutti questi argomenti ad essere fondati sulla supposizione di quella rassomiglianza. Queste considerazioni di Hume escludono che il legame tra causa ed effetto possa essere dimostrato come oggettivamente necessario, cioè come assolutamente valido. L’uomo, tuttavia, lo crede necessario e fonda su di esso l’intero corso della sua vita. La necessità di tale legame è quindi puramente soggettiva e va cercata in un principio della natura umana. La ripetizione di un atto qualsiasi, a lungo andare, produce nell’uomo la disposizione a ripetere lo stesso atto senza che intervenga il ragionamento: questa disposizione è l’abitudine (o costume). Quando abbiamo visto più volte congiunti due fatti o oggetti (ad esempio la fiamma e il calore, o il peso e la solidità), siamo portati dall’abitudine ad aspettarci l’uno quando l’altro si mostra. È l’abitudine che ci spinge a credere che domani il sole si leverà come si è sempre levato; è l’abitudine che ci fa prevedere gli effetti dell’acqua o del fuoco o di qualsiasi fatto o evento naturale o umano; è l’abitudine che guida e sorregge tutta la nostra vita quotidiana, dandoci la sicurezza che il corso della natura non muta, ma si mantiene uguale e costante, offrendoci la possibilità di regolarci per il futuro. ➔ T6 p. 476 Senza l’abitudine, noi saremmo del tutto ignoranti riguardo a qualunque questione di fatto, salvo quelle immediatamente presenti ai nostri sensi o alla nostra memoria. Non sapremmo adattare i mezzi ai fini, né impiegare i nostri poteri naturali per produrre un qualsiasi effetto. Ogni azione sarebbe finita in se stessa e così pure la parte principale della speculazione. Ma l’abitudine spiega la congiunzione che noi stabiliamo tra i fatti, non la loro connessione necessaria. Spiega “perché” noi crediamo alla necessità dei legami causali, ma non giustifica, né fonda questa necessità. Del resto, come abbiamo anticipato, questa necessità è ingiustificabile. L’abitudine, come l’istinto degli animali, è una guida infallibile per la pratica della vita, ma non è un principio di giustificazione razionale o filosofico. E un principio di questo genere non c’è.

Il rapporto causale non è giustificabile

> a priori, ossia con il puro ragionamento, in quanto si basa sull’esperienza > a posteriori, in quanto l’esperienza ci dice soltanto che B segue A, non che B deve seguire A

Un’aspettativa fondata sull’abitudine

Esercizi interattivi La critica di Hume al principio di causalità

L’abitudine non giustifica la necessità dei legami causali Sintesi audio La critica alla causalità

La presunta necessità oggettiva del rapporto causale scaturisce dalla necessità soggettiva prodotta dall’abitudine

Essendo abituati a vedere che cause simili producono effetti simili (ad es. che il fuoco produce calore), siamo indotti a ritenere che ciò avverrà anche in futuro

459

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

La credenza nel mondo esterno e nell’identità dell’io La natura “istintuale” e “naturale” della credenza

La “credenza” nel mondo esterno

La credenza istintiva nell’esistenza continua delle cose

La distinzione filosofica tra immagini e cose oggettive

460

Ogni credenza riguardante realtà o fatti, in quanto (come abbiamo appena visto) risultato di un’abitudine, è un sentimento o un istinto, non un atto di ragione. Tutta la conoscenza della realtà è quindi priva di necessità razionale e rientra nel dominio della probabilità, non della conoscenza scientifica. Con questo Hume intende “salvare” la differenza esistente tra la credenza e la finzione. La prima, infatti, è un sentimento naturale, che non soggiace ai poteri dell’intelletto. Se dipendesse dall’intelletto o dalla ragione, allora potremmo credere qualunque cosa, poiché l’intelletto ha pieni poteri sulle sue idee; invece «noi possiamo, nel nostro concetto, congiungere la testa di un uomo con il corpo di un cavallo, ma non è in nostro potere credere che un tale animale esiste realmente». La credenza è quindi, in ultima analisi, riconducibile alla maggiore vivacità che le impressioni possiedono rispetto alle idee: il sentimento della realtà presenta la stessa vivacità e la stessa intensità delle impressioni. Gli uomini credono abitualmente nell’esistenza di un mondo esterno, il quale viene “creduto” diverso ed estraneo (permanente) rispetto alle impressioni (mutevoli) che se ne hanno. Hume si sofferma lungamente nel Trattato (I, 4, 2) e brevemente nella Ricerca (XII, 1) per spiegare la genesi naturale di questa credenza. Egli comincia con il distinguere la credenza nell’esistenza continua delle cose, che è propria di tutti gli uomini e anche degli animali, dalla credenza nell’esistenza esterna delle cose, la quale suppone la distinzione semi-filosofica o pseudo-filosofica delle cose dalle impressioni sensibili. Per quanto riguarda la prima, Hume osserva che dalla coerenza e dalla costanza di certe impressioni l’uomo è tratto a immaginare che esistano cose dotate di un’esistenza continua e ininterrotta, e quindi tali che esisterebbero anche se ogni creatura umana fosse assente o annientata. In altri termini, la coerenza e la costanza di certi gruppi di impressioni ci fa dimenticare, o trascurare, che le nostre impressioni sono sempre interrotte e discontinue, e ce le fa considerare come riunite in oggetti persistenti e stabili. In questa fase si crede, ad esempio, che le stesse immagini prodotte dai sensi siano gli oggetti esterni. La credenza nella permanenza delle cose appartiene alla parte irriflessiva e a-filosofica del genere umano (e quindi a tutti gli uomini, indipendentemente dal tempo in cui vivono) ed è presto distrutta dalla riflessione filosofica, la quale insegna che ciò che si presenta alla mente è soltanto l’immagine e la percezione dell’oggetto, e che i sensi sono soltanto le porte attraverso le quali queste immagini entrano, senza che ci sia mai un rapporto immediato tra immagini e oggetti. La tavola che vediamo sembra rimpicciolirsi quando ce ne allontaniamo, ma noi sappiamo che la tavola reale, che esiste indipendentemente da noi, non subisce alterazioni: questo significa che alla nostra mente è presente soltanto l’immagine di essa. Con ragionamenti analoghi a questo, la riflessione filosofica conduce a distinguere le percezioni, soggettive, mutevoli e interrotte, dalle cose, oggettive ed esternamente e continuamente esistenti (sotto forma di ciò che i metafisici chiamano anche “sostanza materiale”).

Capitolo 5 • Hume

In verità, ribatte Hume contro i (semi-)filosofi, la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni; le sole inferenze che possiamo fare sono quelle fondate sul rapporto di causa ed effetto, che si verifica anch’esso solo tra le percezioni. Una realtà che sia diversa dalle percezioni ed esterna a esse non si può affermare né sulla base delle impressioni dei sensi, né sulla base del rapporto causale. La realtà esterna è dunque ingiustificabile, ma l’istinto a credere in essa è ineliminabile; il dubbio filosofico intorno alla sua esistenza non si può sradicare, ma la vita ci distoglie da questo dubbio e ci rinsalda nella credenza istintiva: Scommetto che, qualunque sia in questo momento l’opinione del lettore, di qui a un’ora egli sarà convinto che esiste tanto un mondo esterno quanto un mondo interno. (Trattato sulla natura umana, libro I, parte IV, sezione II)

Una spiegazione analoga trova, nelle analisi sviluppate da Hume, la credenza nell’unità e identità dell’io. Infatti, secondo Hume, noi non facciamo alcuna esperienza, né abbiamo alcuna “impressione” del nostro “io” (inteso come entità unitaria e immutabilmente identica a se stessa), ma solo dei nostri stati d’animo successivi, che “compaiono” nella nostra coscienza come in una specie di teatro. In altri termini, ciò che noi sperimentiamo come “io” è soltanto, rigorosamente parlando, un fascio di impressioni che si susseguono nel tempo. ➔ T7 p. 478

L’ingiustificabilità della realtà esterna

Testo antologico La credenza nel mondo esterno (Trattato sulla natura umana)

La credenza nell’unità e nell’identità dell’io

Testo antologico La nostra esistenza in quanto corpi (Trattato sulla natura umana)

ConCetti

L’io

a Confronto

in Cartesio

in Hume

è una sostanza pensante, cioè una realtà spirituale

è un fascio di impressioni che si susseguono nel tempo e non possono essere ricondotte a una sostanza unitaria

resiste al dubbio iperbolico

svanisce con la “messa in parentesi” delle impressioni

quindi

quindi

è il fondamento del sapere

non può fondare alcuna conoscenza

Ancora una volta, la credenza e la filosofia, l’istinto e la ragione appaiono in contrasto tra loro. Tale contrasto, secondo lo scetticismo di Hume (che egli stesso definisce «moderato»), non va tuttavia inteso alla maniera di un dualismo insanabile. La natura umana, infatti, per lui rimane fondamentalmente sentimento e istinto, più che ragione. Tant’è vero che la stessa ragione indagatrice, la stessa filosofia, si radica nella curiosità istintiva che porta l’uomo a interrogarsi su ciò in cui crede. Ma tutto questo non toglie, lo ripetiamo, che Hume abbia cominciato a insistere su di un tema – l’antitesi tra ragione e sentimento – che avrà significativi sviluppi nella cultura europea tra Settecento e Ottocento.

Schema interattivo

L’antitesi tra ragione e istinto

Sintesi audio La credenza nel mondo esterno e nell’io

461

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

GLOSSARIO e RIEPILOGO La conoscenza Scienza della natura umana p. 453 > Hume perse-

gue l’ideale di una scienza della natura umana su base sperimentale, analoga a quella teorizzata da Bacone per quanto concerne la natura fisica. Tant’è che il Trattato reca il sottotitolo: “Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali”.

Percezioni p. 454 > Le “percezioni” secondo Hume

comprendono «tutto ciò che può essere presente alla mente». Le percezioni si dividono in impressioni e idee.

Impressioni e idee p. 454 > «Tutte le percezioni della mente umana – scrive Hume – si possono dividere in due classi, che chiamerò impressioni e idee. La differenza fra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza, possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare» (Trattato sulla natura umana, libro I, parte I, sez. I). Idee astratte p. 456 > Rifacendosi alla “scoperta” di Berkeley, che egli definisce «una delle maggiori e più importanti che siano state fatte in questi ultimi anni nella repubblica delle lettere» (Trattato, I, I, VII), Hume considera le idee astratte come idee particolari, congiunte con un nome generale in grado di richiamare altre idee particolari simili alle prime e abitualmente associate a esse: «Un’idea particolare diventa generale col venire unita a un termine generale: a un termine cioè, che per un’associazione abituale, si trova in relazione con molte altre idee particolari e prontamente le richiama all’immaginazione» (ibidem).

Abitudine p. 456 > Per “abitudine” Hume intende la disposizione, prodotta dalla ripetizione di un atto, a rinnovare l’atto stesso, senza che intervenga la riflessione o il ragionamento (cfr. Ricerca sull’intelletto umano, V, 1). Hume ritiene che sull’abitudine si fondi gran parte della nostra vita psichica e ricorre a essa per spiegare sia le idee astratte (v.), cioè la possibilità, da parte di idee par-

462

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia

ticolari, di richiamare altre idee particolari simili, sia il rapporto di causa ed effetto (v.).

Immaginazione p. 456 > Per “immaginazione” Hume intende la facoltà che accompagna le varie forme di attività mentale e che consiste nello stabilire relazioni tra le idee. A differenza della memoria, che riproduce passivamente connessioni già date, l’immaginazione opera attivamente e in libertà: «l’immaginazione non è tenuta al medesimo ordine e alla medesima forma delle impressioni originarie: la memoria, invece, è in certo modo in condizione d’inferiorità, in quanto non ha il potere di far cambiamenti» (Trattato, I, I, III). Ciò non implica che l’immaginazione sia completamente affidata al caso. Infatti, la sua attività risulta disciplinata dal principio di associazione (v.). Principio di associazione p. 456 > Il “principio di as-

sociazione” costituisce, per Hume, «la struttura stessa del conoscere e del ragionare ed è il principio su cui egli fonda la sua concezione del sapere scientifico» (Silvio Zaghi). Tale principio, che rappresenta per la mente ciò che la forza di gravità rappresenta per la natura, viene descritto come una «dolce forza» (gentle force) o un «segreto legame» tra le idee, che opera attraverso i criteri della somiglianza, della contiguità spazio-temporale e della causalità. Questi criteri «sono realmente, per noi, il cemento dell’universo», ovvero «i soli legami che tengono insieme i nostri pensieri» (Estratto del Trattato sulla natura umana). Infatti, scrive Hume, «Se le idee fossero interamente slegate e sconnesse, soltanto il caso potrebbe congiungerle; ma è impossibile che le stesse idee semplici si raccolgano regolarmente in idee complesse (come di solito accade) senza un legame che le unisca tra loro, senza una proprietà associativa, sì che un’idea ne introduca un’altra naturalmente. Questo principio d’unione fra le idee non deve esser considerato come una connessione indissolubile: infatti, questa già l’abbiamo esclusa dalla immaginazione; né, quindi, dobbiamo concludere che senza questo principio la mente non possa congiungere due idee: non c’è infatti niente di più libero di quella facoltà. Noi dobbiamo invece considerarlo semplicemente come una dolce forza che comunemente s’impone, ed è la causa, fra l’altro, per cui le lingue han-

Capitolo 5 • Hume

no tanta corrispondenza tra loro: la natura sembra inGLOSSARIO e dicare a ognuno le idee semplici più adatte ad esser riunite in idee complesse. Le proprietà che danno origine a quest’associazione e fan sì che la mente venga trasportata da un’idea all’altra sono tre: rassomiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, causa ed effetto» (Trattato, I, I, IV). N.B. Del principio di associazione Hume fu particolarmente orgoglioso, al punto di scrivere che «se qualcosa può meritare all’autore il nome glorioso di inventore, questo è l’uso che egli fa del principio di associazione delle idee, che entra a costituire parte integrante di quasi tutta la filosofia» (Estratto).

Relazioni tra idee p. 457 > Le “relazioni tra idee” sono

le proposizioni basate sul principio di non-contraddizione. Esse hanno in se stesse la loro validità, in quanto il loro contrario è impensabile e quindi impossibile. Su tali proposizioni si fondano «le scienze della geometria, dell’algebra e dell’aritmetica» (Ricerca sull’intelletto umano).

Materie di fatto p. 457 > Le “materie di fatto” (matter of

fact) sono le proposizioni basate sull’esperienza e che risultano prive di necessità, in quanto il loro contrario è sempre possibile: «Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intelligibile e che non implica più contraddizione dell’affermazione che esso sorgerà» (Ricerca). Infatti, se tale affermazione fosse davvero contraddittoria, puntualizza Hume, non potremmo concepirla, esattamente come non possiamo concepire una montagna senza vallata (Trattato). N.B. In questo modo Hume stabilisce, tra le conoscenze matematiche e le conoscenze empiriche, una distinzione che non è di grado o di quantità, ma di struttura o di qualità.

Rapporto causa-effetto p. 458 > L’analisi di Hume si

articola in due momenti di fondo, strettamente concatenati tra loro. Nel primo, Hume mostra il carattere empirico del legame causale, ossia l’impossibilità di derivare a priori da una qualsiasi causa un qualsiasi effetto. Nel secondo, Hume fa vedere come la presunta necessità oggettiva del rapporto causale (per cui ad A deve seguire B) scaturisca invece da una necessità soggettiva, ossia dal fatto che noi, avendo constatato per abitudine che nel passato ad A è seguito B, siamo portati a “credere” che anche nel futuro ad A seguirà immancabilmente B.

Tale credenza risulta tuttavia arbitraria e ingiustificata RIEPILOGO dal punto di vista logico-filosofico.

Credenza p. 460 > Per “credenza” Hume intende la predisposizione istintiva della natura umana a riconoscere la realtà di qualcosa. La credenza, scrive Hume, si configura come «uno dei più grandi misteri della filosofia». Tant’è vero che egli, rinunciando a spiegarla, la presenta come un’esperienza o un sentimento (feeling o sentiment) naturale e irriducibile.

Mondo esterno p. 460 > Dalla coerenza e dalla costan-

za di certe impressioni l’uomo comune è tratto a immaginare che esistano cose dotate di un’esistenza continua. Tuttavia, a una prima fase (quella dell’uomo comune) in cui non si distingue ancora tra le immagini dei sensi e gli oggetti esterni, segue una seconda fase (quella semi-filosofica o pseudo-filosofica) in cui si distingue tra percezioni soggettive, mutevoli e intermittenti, e cose oggettive, continuativamente ed esternamente esistenti sotto forma di un’ipotetica “sostanza materiale”. In verità, ribatte Hume contro i (semi-)filosofi, la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle percezioni. Una realtà che sia diversa da esse ed esterna a esse non si può affermare. La “credenza” nel mondo esterno è ingiustificabile, anche se l’istinto che ci porta a credere in esso è ineliminabile.

Unità e identità dell’io p. 461 > Secondo Hume noi non abbiamo alcuna «impressione» del nostro io (inteso come entità unitaria e immutabilmente identica a se stessa), ma solo dei nostri stati d’animo successivi, che compaiono nella nostra coscienza come in una specie di teatro. In altri termini, ciò che “crediamo” di percepire come io (e che i filosofi chiamano “sostanza spirituale”) è solo, rigorosamente parlando, un fascio di impressioni: «l’io, o la persona, non è una impressione: è ciò a cui vengon riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata» (Trattato, I, IV, VI).

463

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

4. Morale e società Il metodo empirico

Tra sentimento e ragione

Secondo quanto emerge dallo stesso sottotitolo del Trattato sulla natura umana (“Un tentativo per introdurre il metodo del ragionamento sperimentale negli argomenti morali”), l’intento principale di Hume non è quello di prescrivere certi comportamenti (in base a principi morali assoluti), ma quello di descrivere, partendo dall’osservazione empirica, come e secondo quali principi gli uomini si comportino nella loro vita. Fedele a questo assunto metodologico, egli analizza dunque tutti gli elementi che entrano a costituire il “merito” o il “valore” di una persona (le qualità, le abitudini, i sentimenti, le facoltà che rendono un individuo degno di stima o di disprezzo), trasformando in tal modo il problema morale in una questione di fatto. In questa sua analisi, Hume parte dal presupposto che le valutazioni morali dipendano sia dal sentimento, sia dalla ragione. Il primo è l’origine di tutte le inclinazioni al bene e dell’avversione al vizio; la seconda, formulando giudizi di approvazione e di disapprovazione, fa da arbitra in tutte le questioni che nascono nella vita morale. Ciò non toglie che, nell’ambito della morale così come nell’ambito dell’estetica (v. “Le dottrine estetiche”, p. 467), al sentimento Hume attribuisca un’importanza particolare, considerandolo il fondamento dell’azione dell’uomo e, di conseguenza, della valutazione morale. Egli afferma infatti che ogni uomo è dotato di una sorta di “gusto” morale, che gli fa avvertire una certa azione come preferibile (in un certo senso come più “piacevole”) rispetto a un’altra. A ben guardare, quindi, non è la ragione a dirigere la volontà, tanto più che essa non può in alcun modo controllare le passioni: Nulla può ostacolare o rallentare l’impulso di una passione se non un impulso contrario. (Trattato sulla natura umana, libro II, parte III, sezione III, in Opere filosofiche, cit., p. 435)

Incapace di reprimere o modificare le passioni, la ragione non può neppure valutare la bontà del loro oggetto, poiché ogni passione non è che un impulso naturale, vale a dire un “fatto” che accade e che si può solo constatare, al di là di ogni approvazione o biasimo. Ciò che la ragione può fare è però mostrare l’eventuale “irragionevolezza” di un impulso (ad esempio svelando che l’oggetto a cui si tende non esiste, o che non si dispone di mezzi sufficienti per raggiungerlo), contribuendo in questo modo al suo affievolimento. Utilità collettiva e simpatia

464

Avendo chiarito che il fondamento della valutazione morale non risiede nella sfera razionale, Hume non può quindi che cercarlo in un sentimento specifico e universale. Nella sua indagine egli nota come l’approvazione o la riprovazione di certe azioni si fondino entrambe sulla valutazione implicita o esplicita della loro utilità collettiva: alla base della morale vi è dunque la percezione dell’utilità o della dannosità sociale di un certo comportamento. L’uomo non rimane indifferente al benessere dei suoi simili e giudica facilmente da sé che è bene ciò che promuove la felicità di tutti gli uomini, e male ciò che tende a procurare la loro miseria. In tal modo Hume attribuisce al criterio dell’utile, individuato come fondamento del «sentimento morale», una valenza universale, grazie alla quale è possibile superare il rischio di un’etica individualistica ed egoistica. Del resto, egli è convinto che il benessere e la felicità in-

Capitolo 5 • Hume

dividuali siano simpateticamente congiunti al benessere e alla felicità collettivi. La morale poggia quindi, secondo Hume, su un sentimento di «simpatia» per gli altri e su un «generoso interesse» per l’umanità. Per questo motivo la sua etica è denominata anche “morale della simpatia”. Per rafforzare la tesi secondo cui il bene morale coincide con ciò che è percepito e valutato come utile per la collettività degli uomini, Hume ricorre a un esempio efficace: in una situazione in cui fosse concessa al genere umano una dotazione inesauribile di tutte le comodità e di tutti i beni materiali, cioè in cui l’uomo non dovesse preoccuparsi delle sue necessità materiali, la giustizia sarebbe inutile e non potrebbe neppure nascere. Infatti, così come nessuno è indotto a commettere ingiustizia per poter utilizzare e godere dell’aria, poiché questa è data a tutti in quantità illimitata, allo stesso modo nessuno commetterebbe ingiustizia in una condizione in cui tutti i beni fossero forniti all’uomo in quantità illimitata. Questo vuol dire che l’obbligo alla giustizia che ciascuno sente come doveroso serve per regolare la distribuzione e l’uso dei beni, e quindi è l’espressione di ciò che è utile a preservare la vita degli uomini in società. Secondo Hume, ciò è vero a tal punto che non ci si sente tenuti a rispettare le regole della giustizia nei confronti di quelle creature che, pur vivendo insieme con gli uomini, sono incapaci di qualunque resistenza o reazione nei loro confronti. È il caso degli animali (che Hume ritiene dotati di capacità inferiori a quelle dell’uomo per grado, ma non per natura), verso i quali nessuno si sente obbligato ad agire in modo “giusto”. Ciò significa che quest’obbligo nasce unicamente dall’utilità che la giustizia presenta per la natura umana. L’obbligo della giustizia non nascerebbe neppure nel caso in cui l’uomo bastasse a se stesso e potesse vivere in completo isolamento dagli altri uomini. Il fatto che la giustizia sia necessaria a mantenere in vita la società umana è dunque il suo solo fondamento. Ora, poiché la giustizia è considerata una virtù, si può supporre che l’utilità per la collettività umana sia il fondamento di tutte le virtù (l’umanità, la benevolenza, l’amicizia, la socievolezza, la fedeltà, la sincerità ecc.), compresa la massima virtù politica: l’obbedienza. Difatti è l’obbedienza che mantiene i governi, e i governi sono indispensabili per conseguire quella felicità a cui la natura umana tende con tutte le sue forze. Sottolineando la necessità della morale e della virtù per la vita associata degli uomini, Hume ne riconosce in qualche modo la “naturalità” e la “spontaneità”. In questa stessa direzione va l’indicazione della «simpatia» come sentimento morale che accomuna tutti gli uomini. In un certo senso, Hume sembra in questo modo voler togliere alla morale l’“abito da lutto” con il quale l’hanno rivestita teologi e filosofi, per mostrarla «gentile, umana, benefica, affabile; anzi in certi momenti giocosa, allegra e gaia». La morale, egli precisa, non parla di inutili austerità e rigori, di sofferenze e umiliazioni; il suo solo fine è di rendere gli uomini contenti e felici per ogni istante della loro esistenza:

QUESTIONE Il bene consiste nell’utile o nel dovere?, vol. 2B Il bene come ciò che è utile per la collettività umana

L’utilità sociale come fondamento della virtù

Testo antologico La convenienza della morale (Trattato sulla natura umana)

Una morale «gentile»

Il solo disturbo che essa domanda è quello di calcolare giustamente e di preferire costantemente la felicità maggiore. E se le si avvicinano pretendenti austeri, nemici della gioia e del piacere, si vedono respinti come ipocriti o ingannatori; o, se sono accettati al suo seguito, sono posti però tra i meno favoriti dei suoi seguaci. (Ricerca sui principi della morale, sezione IX, II, in Opere filosofiche, cit., vol. 2, p. 296)

465

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

5. Religione e natura umana L’analisi della religione condotta da Hume è decisiva per quella corrente del deismo che dominerà la filosofia inglese del XVIII secolo e che ispirerà il pensiero religioso dell’Illuminismo di tutti i paesi. Alcune tesi

La critica alle prove dell’esistenza di Dio

Le radici umane della religione

Testo antologico Le radici della religione (Storia naturale della religione)

Monoteismo e intolleranza

«Il tutto è un indovinello»

All’analisi della religione Hume dedica i Dialoghi sulla religione naturale, pubblicati postumi nel 1779, e la Storia naturale della religione, pubblicata nel 1757 ma posteriore ai Dialoghi. Nella Ricerca sull’intelletto umano, in un capitolo sui miracoli, il filosofo afferma che bisogna ammettere il miracolo solo nel caso in cui la falsità della testimonianza in suo favore sia più miracolosa del miracolo testimoniato, e in un capitolo sulla provvidenza mostra le difficoltà di ogni considerazione teologica. Inoltre, in un saggio pubblicato postumo (Sull’immortalità dell’anima, 1777) critica le ragioni metafisiche, morali e fisiche addotte in sostegno dell’immortalità e riduce la credenza in quest’ultima a puro oggetto di fede. Nei Dialoghi sulla religione naturale, Hume istituisce una critica alle prove dell’esistenza di Dio che prelude a quella svolta da Kant nella Critica della ragion pura. Le prove ontologica, cosmologica e teleologica vengono messe in discussione sulla base del principio secondo cui l’esistenza è sempre materia di fatto o di esperienza e quindi non può essere “dimostrata” o “provata” con argomentazioni puramente logiche. ➔ T8 p. 480 Esclusa la possibilità di una giustificazione teoretica della religione, di essa si può tuttavia tracciare una storia naturale: si possono cioè individuare le sue radici nella natura umana, anche se queste radici non sorgono da un istinto, da un’impressione originaria, ma dipendono da principi secondari. Le idee religiose non nascono dalla contemplazione della natura, ma dall’interesse per gli eventi della vita e, quindi, dalle speranze e dai timori incessanti che agitano l’uomo. Sospeso tra la vita e la morte, tra la salute e la malattia, tra l’abbondanza e la privazione, l’uomo attribuisce a cause segrete e sconosciute i beni di cui gode e i mali da cui è continuamente minacciato. La varietà e la disparità delle vicende lo induce a pensare a cause diverse e contrastanti del mondo, cioè a molteplici divinità, di volta in volta benigne o vendicative. All’origine di ogni religione si trova quindi il politeismo, poiché il primo concetto della divinità non implica per nulla l’idea di un potere illimitato e di una natura infinita. A concepire Dio come infinito, e quindi come assolutamente perfetto, gli uomini sono condotti in seguito, e non dalla riflessione filosofica, ma dal bisogno di adulare la divinità per ingraziarsela. Anche il concetto filosofico di Dio come essere infinito e perfetto ha dunque il suo fondamento in un istinto naturale dell’uomo. Il monoteismo, che bandisce l’idolatria, è senza dubbio superiore all’idolatria stessa, ma presenta a sua volta un gravissimo pericolo, che è quello dell’intolleranza. Riconosciuto un unico oggetto di devozione, il culto di altre divinità è infatti considerato assurdo ed empio, e fornisce spesso il pretesto per persecuzioni e condanne. Al politeismo è invece estranea l’intolleranza. L’ultima convinzione di Hume in fatto di religione emerge in maniera chiara dalla chiusa dei Dialoghi: Il tutto è un indovinello, un enigma, un mistero inesplicabile. Dubbio, incertezza, sospensione del giudizio sembrano i soli risultati delle nostre più accurate indagini intorno a

466

Capitolo 5 • Hume

questo argomento. Ma tale è la fragilità della ragione umana e tale l’irresistibile contagio dell’opinione, che anche questo dubbio deliberato può essere difficilmente sostenuto. Non cerchiamo oltre e, opponendo una specie di superstizione all’altra, abbandoniamole tutte alle loro querele. Noi, mentre dura la loro furia e la loro contesa, rifugiamoci felicemente nelle calme, sebbene oscure, regioni della filosofia.

Esercizi interattivi Le idee di Hume sulla religione

6. Le dottrine estetiche Come nel caso delle valutazioni morali, anche in quello delle valutazioni estetiche Hume è convinto che alla loro base vi sia il sentimento. La bellezza, infatti, non può essere definita intellettualmente, ma si può discernere soltanto mediante il gusto. Ora, sebbene la bellezza esista soltanto nello spirito che la contempla, e sebbene ogni spirito percepisca una bellezza differente, vi è un criterio generale di approvazione o di biasimo – una specie di “senso comune” estetico – che restringe il valore della tradizionale espressione “Dei gusti non si può discutere”. Ma questo criterio non può essere fissato mediante ragionamenti a priori o astratte conclusioni dell’intelletto. Si può determinare il criterio del gusto solo ricorrendo all’esperienza e all’osservazione dei sentimenti comuni della natura umana, senza pretendere che in ogni occasione i sentimenti degli uomini siano conformi a quel criterio. Il criterio del gusto va quindi ricercato in determinate condizioni della natura umana:

Sentimento, gusto e bellezza

In ciascuna creatura vi è uno stato sano e uno stato difettoso; e il primo soltanto ci dà un vero criterio del gusto e del sentimento. Se nello stato sano dell’organo vi è una completa o considerevole uniformità di sentimento fra gli uomini, possiamo derivare da esso un’idea della perfetta bellezza.

La condizione umana che rende possibile l’apprezzamento della bellezza è, per Hume, soprattutto la delicatezza dell’immaginazione. È questa delicatezza che fa avvertire immediatamente nell’oggetto estetico le qualità che sono più adatte a produrre il piacere della bellezza. Altre condizioni sono la pratica e l’assenza di pregiudizi. In particolare, con l’esperienza il gusto si affina e la capacità di cogliere il bello (e di goderne) diventa sempre più pronta: «Sensi fini, sentimento delicato, esercizio della pratica, perfezionamento dei paragoni rendono critico il giudizio estetico».

Le condizioni per apprezzare la bellezza Questione Il bello è soggettivo o universale? (Voltaire, Hume, Kant)

7. La politica Le idee politiche di Hume sono il risultato di un’analisi della vita associata condotta con lo stesso criterio delle precedenti, cioè mirante a rintracciare nella natura umana i fondamenti della socialità e della vita politica. In un saggio intitolato Il contratto originario, egli prospetta le due tesi opposte dell’origine divina del governo e del contratto sociale, e afferma che sono entrambe giuste, sebbene non nel senso che esse pretendono. ■■■ ■La teoria del diritto divino è giusta come tesi generale, perché tutto ciò che accade nel mondo dovrebbe rientrare nei piani della provvidenza, ma essa giustifica nello stesso

Le principali teorie sull’origine del potere

467

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

tempo ogni specie di autorità: quella di un sovrano legittimo come quella di un usurpatore, quella di un magistrato come quella di un pirata. ■■■ La teoria del contratto sociale è anch’essa giusta, in quanto afferma che il popolo è l’origine di ogni potere e giurisdizione e che gli uomini volontariamente e in vista della pace e dell’ordine abbandonano la libertà nativa e accettano leggi dai loro eguali e compagni. Ma questa dottrina non si trova verificata dappertutto, né mai completamente. I governi e gli Stati nascono il più delle volte da rivoluzioni, conquiste e usurpazioni. E l’autorità di questi governi non può essere ritenuta fondata sul consenso dei sudditi. I doveri umani

Il dovere dell’obbedienza civile

Approfondimento Hume nella filosofia moderna

Hume distingue i doveri umani in due classi. ■■■ Vi sono doveri ai quali l’uomo è spinto da un istinto naturale, che opera in lui indipendentemente da ogni obbligo e da ogni considerazione di pubblica o privata utilità. Tali sono l’amore dei figli, la gratitudine per i benefattori e la pietà per gli sfortunati. ■■■ E vi sono doveri i quali invece scaturiscono unicamente da un senso di obbligo, derivante dalle necessità della società umana, che sarebbe impossibile se essi fossero trascurati. Tali sono la giustizia o il rispetto della proprietà altrui, la fedeltà o l’osservanza delle promesse, e tale è anche l’obbedienza politica o civile. Quest’ultimo dovere nasce dalla riflessione sul fatto che la società non può mantenersi senza l’autorità dei magistrati e che questa autorità è nulla, se non è seguita dall’obbedienza dei cittadini. Il dovere dell’obbedienza civile non nasce quindi, come sostiene la dottrina del contratto sociale, dall’obbligo di fedeltà a un patto originario, giacché anche quest’ultimo obbligo non si intenderebbe senza l’esigenza di mantenere in vita la società civile. La sola ragione dell’obbedienza civile è che senza di essa la società non potrebbe sussistere. Conseguentemente Hume assume un atteggiamento intermedio tra la dottrina della resistenza alla tirannia proclamata da Locke e quella della passiva obbedienza affermata, ad esempio, da Hobbes. Hume, che è un Tory, rifiuta le conseguenze che Locke ha tratto dalla sua dottrina del contratto sociale e che gli sembrano incitare alla ribellione. D’altro canto, tuttavia, egli ritiene che la dottrina dell’obbedienza non vada condotta all’estremo e che sia necessario insistere sulle eccezioni che essa comporta e difendere i diritti della verità e della libertà offesa.

Sintesi audio Morale, religione, estetica e politica

GLOSSARIO e RIEPILOGO La morale e l’estetica Morale p. 464 > Secondo Hume le regole della morale

nascono sulla base di un vero e proprio «sentimento morale» (moral taste) e in vista della pubblica utilità. Infatti, si giudicano buoni o cattivi i comportamenti degli individui a seconda che apportino vantaggi o svantaggi alla comunità: «Se, dunque, l’utilità è fonte di sentimento morale, e se questa utilità non si consi-

468

VERSO LE COMPETENZE w Utilizzare il lessico e le categorie specifiche della filosofia dera sempre con riferimento a noi stessi, ne segue che tutto ciò che contribuisce alla felicità della società si raccomanda direttamente alla nostra approvazione e alla nostra buona volontà» (Ricerca sui principi della morale, V, 2). N.B. La morale poggia quindi, in Hume, su un sentimento di «simpatia» per gli altri e su un «generoso interesse» per l’umanità. Per questo motivo, la sua etica è denominata anche “morale della simpatia”.

Capitolo 5 • Hume

Religione p. 466 > La religione, per Hume, ha un fonda-

mento extra-razionale, in quanto nasce dalle speranze e dai timori che agitano l’uomo, il quale – sospeso tra la vita e la morte, la salute e la malattia, l’abbondanza e la privazione – attribuisce a cause misteriose i beni di cui gode e i mali da cui si sente minacciato.

Gusto p. 467 > Anche il gusto (estetico), come il sentimento morale, procede dal sentimento e, pur essendo individuale, si manifesta nelle persone con una tendenziale uniformità. Tale uniformità si esprime in una sorta di “senso comune” estetico, che restringe la portata del motto tradizionale “Dei gusti non si può discutere”.

MAPPA Hume Mappa interattiva

La GNOSEOLOGIA

la realtà si riduce alla molteplicità delle idee attuali

le percezioni della mente si distinguono in impressioni (percezioni attuali e vivide)

idee, o pensieri (immagini illanguidite delle impressioni)

le idee astratte sono idee particolari, assunte come segni di gruppi di idee particolari

le relazioni tra le idee sono istituite dall’immaginazione che opera spinta dal principio di associazione: • somiglianza • contiguità • causalità

La CRITICA al principio di CAUSALITÀ il legame causa-effetto

Mappa interattiva

non è necessario

è fondato sull’abitudine

si basa sull’esperienza (non su un ragionamento a priori) e l’esperienza non garantisce il futuro

è privo di oggettività

Il MONDO e l’IO sono ingiustificabili, poiché la sola realtà di cui siamo certi è costituita dalle nostre percezioni (io come «fascio di percezioni») La MORALE

il bene è ciò che è utile alla felicità collettiva

il benessere e la felicità individuali sono simpateticamente congiunti al benessere e alla felicità collettivi

469

I TESTI CAPITOLO 5 Hume

Dalle impressioni alle idee e alle relazioni tra idee Il Trattato sulla natura umana di Hume rappresenta il tentativo di realizzare «un sistema di tutte le scienze costruito su una base del tutto nuova, e la sola su cui possiamo poggiare con sicurezza»: la base sperimentale tipica della scienza moderna. Coerentemente con questo obiettivo, Hume sceglie un’impostazione di fondo empiristica e anti-metafisica.

t1 >

impressioni e idee

Il principio empiristico che sta a monte di tutta la filosofia di Hume, e che lo condurrà inevitabilmente a un esito scettico, consiste nella riduzione dell’intera realtà alle «percezioni», ovvero ai contenuti mentali, i quali, a loro volta suddivisi in «impressioni e idee», consistono tutti in impressioni sensibili o in “copie” di impressioni sensibili.

2 4 6 8

Tutte le percezioni della mente umana si possono dividere in due classi, che chiamerò impressioni e idee. La differenza fra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare: ad esempio le percezioni suscitate dal presente discorso, eccettuate quelle dipendenti dalla vista o dal tatto e il piacere o il dolore immediato ch’esso può causare. (Trattato sulla natura umana, libro I, sez. VII, a cura di A. Carlini, riv. da E. Lecaldano ed E. Mistretta, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 13)

Analisi del testo 1-2 Il punto di partenza di Hume, come quello di ogni empirista, è l’esperienza. Tuttavia, mentre per Locke il termine “percezione” equivaleva a “sensazione”, per Hume «percezioni» sono, in generale, i contenuti della mente.

470

2-8 Le impressioni sono i dati immediati dell’esperienza, mentre le idee sono le tracce lasciate nella nostra mente dalle impressioni. Così come Locke riconduceva tutte le nostre conoscenze alle idee semplici, in modo

>

analogo Hume intende riportarle alle impressioni: noi abbiamo idee (ricordi, pensieri, idee generali) solo di oggetti che prima ci siano apparsi con la chiarezza e l’immediatezza dei contenuti percettivi. Il criterio per distinguere le impressioni dalle idee sembra dunque di natura genetica e non strutturale. Del resto, la differenza fondata sulla forza e sulla vivacità delle impressioni rispetto al carattere debole delle idee è posta su fragili basi, mancando di un discrimine chiaro e preciso. È opportuno ricordare, infatti, che, se l’idea è un’impressione illanguidita, «si andrebbe fuori strada se si qualificasse a sua volta l’impressione come un’idea forte e vivace» (Silvio Zaghi). Al di là di queste considerazioni, emerge qui il generale presupposto metodologico a cui si ispira Hume, il suo

t2 >

principio empiristico. Scrive il filosofo nella Ricerca sull’intelletto umano: «Quando […] noi nutriamo qualche sospetto che un termine filosofico sia usato senza qualche significato o idea (come avviene troppo spesso), dobbiamo soltanto stabilire da quale impressione sia derivata quella supposta idea. E se è impossibile assegnarne una, ciò servirà a confermare il nostro sospetto» (Ricerche sull’intelletto umano e sui princìpi della morale, Laterza, Roma-Bari 1978, pp. 24-25). In altre parole, il significato si riduce sempre all’esperienza. Si noti infine che, in linea con la radicalità del suo empirismo, Hume non fa distinzione tra l’atto che percepisce e il contenuto percepito, assorbendoli entrambi nel termine «percezione».

I TESTI

Capitolo 5 • Hume

La negazione deLLe idee astratte

Riprendendo le riflessioni svolte in questo senso da Locke e da Berkeley, e in perfetta coerenza con il suo principio empiristico, Hume nega l’esistenza delle idee astratte, ovvero di quelle idee “generali” che si supponevano corrispondere alle “essenze”.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

Se l’idea astratta di uomo rappresenta gli uomini di tutte le grandezze e qualità, ne consegue che essa non può far ciò se non o col rappresentare insieme tutte le possibili grandezze e qualità, o col rappresentarne nessuna in particolare. Ora, essendo stata ritenuta cosa assurda sostenere la prima proposizione, in quanto implica una capacità infinita della mente, si è preferita comunemente la seconda, sostenendo che le idee astratte non rappresentano nessun grado particolare di quantità né di qualità. Ma cercherò di dimostrare che questa conclusione è errata […]. Quando abbiamo trovata una somiglianza fra diversi oggetti che ci capitano spesso innanzi, diamo a tutti lo stesso nome, qualunque siano le differenze che possiamo osservare nei gradi della loro quantità e qualità, e qualunque altra differenza possa apparire tra loro. Acquistata quest’abitudine, nell’udire quel nome l’idea di uno di quegli oggetti si risveglia, e fa sì che l’immaginazione la concepisca in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni. Ma, siccome la stessa parola fu probabilmente usata di frequente per altri individui, differenti sotto molti aspetti dall’idea presente immediatamente alla mente, la parola, non essendo capace di far rivivere l’idea di tutti questi individui, si limita a toccar l’anima, se così posso esprimermi, e fa rivivere l’abitudine che abbiamo contratta nell’esaminarli. Essi non sono realmente, di fatto, presenti alla mente, ma solo in potenza; né li facciamo sorgere tutti distintamente nell’immaginazione, ma ci teniamo pronti a prender in considerazione l’uno o l’altro di essi, secondo che ci spinga qualche intento o necessità presente. […] Questa è, dunque, la natura delle nostre idee astratte e dei termini generali; ed è in questo modo che possiamo rendere conto del paradosso precedente, che alcune idee sono particolari per loro natura, ma generali per ciò che rappresentano. (Trattato sulla natura umana, libro I, sez. IV, cit., pp. 30-34)

471

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

I TESTI

Analisi del testo 1-6 Hume avvia la sua analisi sul tema delle idee astratte, assai dibattuto nella riflessione filosofica dell’epoca, affermando che un’idea astratta non può essere né un’idea costituita dalla collezione di tutte le idee particolari, né un’idea che prescinda da ogni riferimento a idee particolari. Nel primo caso, attribuiremmo alla mente umana la capacità di pensare a un’infinità di oggetti, cioè di avere capacità illimitate, il che è palesemente falso. Nel secondo caso, la mente dovrebbe pensare un oggetto privo di determinazioni particolari, cosa che essa non è in grado di fare: come Berkeley, Hume ritiene che l’idea sia una sorta di immagine che deve possedere dei tratti ben definiti. E, così come non ci è possibile disegnare un triangolo senza che i suoi lati siano di una qualche misura o senza che esso sia equilatero o isoscele o scaleno, allo stesso modo non siamo in grado di pensarlo. 7-18 Come già per Locke e per Berkeley, anche per Hume non esistono idee generali, ma solo nomi attribuiti a classi di idee particolari, tra le quali si sia riscon-

t3 >

trata una certa somiglianza. L’utilizzo del nome richiama dunque un’idea particolare («in tutte le sue particolari circostanze e proporzioni»), che, a seconda dei casi, può essere sostituita da un’altra idea particolare appartenente alla medesima classe, ma non può in alcun modo richiamare un’idea generale, ossia priva di determinazioni quantitative e qualitative specifiche. Né è possibile richiamare alla mente (magari una dopo l’altra) tutte le idee particolari appartenenti al medesimo gruppo di somiglianza, sebbene tali idee siano comunque tutte “disponibili” («presenti … in potenza»), pronte per essere richiamate dall’immaginazione nel caso in cui il ragionamento lo richieda. 19-21 L’apparente paradosso delle idee astratte, che Hume definisce «particolari per natura», ma «generali per ciò che rappresentano», sembra così essere risolto in una prospettiva non tanto nominalistica (pura), quanto “intellettualistica”, dal momento che per lui l’idea generale è un principio classificatorio convenzionale usato dall’intelletto nelle sue operazioni conoscitive.

iL ruoLo deLL’immaginazione tra Libertà e naturaLità

Una volta ricevute dall’intelletto, le impressioni possono ripresentarsi, secondo Hume, o con una forza minore ma non troppo diversa da quella originaria, e in questo caso si parla di «memoria», oppure con una forza parecchio diminuita, e in questo caso si parla di «immaginazione». Mentre la memoria richiama i contenuti delle impressioni e, insieme con essi, i loro rapporti reciproci (Hume parla di ordine e posizione), l’immaginazione li usa come “mattoni” tra loro irrelati, libera di disporli secondo un ordine nuovo, che può anche non avere nulla in comune con quello originario. È dunque l’immaginazione a svolgere la funzione sintetica che presiede alla formazione delle idee complesse: funzione che tuttavia non è svolta casualmente, in totale assenza di criteri, ma seguendo un «principio d’unione» che si impone in modo naturale e, per così dire, «dolce».

2 4 6 8 10

472

Dato che tutte le idee semplici possono essere separate dall’immaginazione, e di nuovo unite nella forma che più le piace, le operazioni di questa facoltà sarebbero del tutto inesplicabili se non fosse guidata da princìpi universali che la rendano in certa misura uniforme in tutti i tempi e i luoghi. Se le idee fossero interamente slegate e sconnesse, soltanto il caso potrebbe congiungerle; ma è impossibile che le stesse idee semplici si raccolgano regolarmente in idee complesse (come di solito accade) senza un legame che le unisca tra loro, senza una proprietà associativa, sì che un’idea ne introduca un’altra naturalmente. Questo principio d’unione non deve esser considerato come una connessione indissolubile: infatti, questa già l’abbiamo esclusa dall’immaginazione: né, quindi, dobbiamo concludere che senza questo principio la mente non possa congiungere due idee: non c’è infatti niente di più libero di quella facoltà. Noi dobbiamo invece considerarlo semplicemente come una dolce forza che comunemente s’impone […]. Le proprietà che danno

Capitolo 5 • Hume

12

origine a quest’associazione e fan sì che la mente venga trasportata da un’idea all’altra sono tre: rassomiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, causa ed effetto.

Analisi del testo 1-11 Nonostante la libertà che la caratterizza, l’immaginazione non è per questo del tutto priva di regole: essa agisce infatti secondo criteri associativi che tuttavia Hume, come egli stesso ammette, non è in grado di spiegare: «quanto alle sue cause, queste sono, per lo più, sconosciute, e non si può altro che riguardarle come proprietà originarie della natura umana, che non ho la pretesa di spiegare» (Trattato, cit., p. 24). Si tratta quindi di un impulso innato o, secondo l’ormai celebre definizione qui riportata, di una «dolce forza» che ci conduce ad associare certe idee con certe altre piuttosto che con altre ancora. Le idee complesse formate dall’immaginazione sono anche per Hume (che conserva la classificazione formulata da Locke) modi, sostanze e relazioni, anche se, per

maggior coerenza con i suoi stessi presupposti, Hume avrebbe forse dovuto parlare solo di relazioni. 11-13 I criteri associativi che “guidano”, senza tuttavia necessitarla, l’azione dell’immaginazione sono la somiglianza, la contiguità spazio-temporale e il rapporto di causalità. È quest’ultimo, però, a svolgere il ruolo di maggior peso nella costruzione delle nostre credenze, mentre la somiglianza e la contiguità spazio-temporale servono piuttosto a “catalizzare” la nostra attenzione in una direzione anziché in un’altra: «mentre le prime due provvedono le direzioni in cui si muove la nostra attenzione, la terza è la fonte principale da cui s’alimentano le nostre effettive credenze» (A.J. Ayer, Hume, Dall’Oglio, Milano 1980, p. 77).

I TESTI

(Trattato sulla natura umana, libro I, sez. IV, cit., p. 22)

La critica del principio di causalità e la «credenza» nel corso uniforme della natura Gli assunti gnoseologici richiamati nei testi precedenti portano Hume a quella che rappresenta probabilmente la sua massima conquista teorica: la negazione della validità logica (o razionale) del principio di causalità e, conseguentemente, del metodo induttivo utilizzato nella ricerca scientifica. Consapevole tuttavia del valore pragmatico di tali strumenti argomentativi e conoscitivi, Hume ne rintraccia l’origine nei meccanismi “naturali” della mente umana, nel tentativo di garantire alla conoscenza un certo grado di universalità e oggettività.

t4 >

CausaLità, Contiguità e suCCessione

I due brani che seguono presentano la celebre analisi humiana del rapporto causale, che perde il suo carattere di “legge” necessaria per essere ridotto alle due relazioni (non necessarie) di contiguità e successione. La trattazione ha dato e continua a dare motivi di discussione a filosofi ed epistemologi, tanto che il problema qui considerato può dirsi anche ai giorni nostri tutt’altro che risolto.

2

Diamo, dunque, uno sguardo a due di quegli oggetti che chiamiamo causa ed effetto, e rivolgiamoli da tutti i lati, al fine di trovare quell’impressione che produce un’idea d’importanza così prodigiosa. Vedo subito che non devo cercarla in nessuna delle particolari qualità degli oggetti,

473

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

4

I TESTI

6 8 10 12 14 16 18 20

poiché, qualunque di queste io scelga, trovo oggetti che non la possiedono, e tuttavia son chiamati cause o effetti. Ed invero non esiste nulla nell’oggetto né esternamente né internamente, che non si possa considerare o come causa o come effetto, sebbene sia evidente che non c’è nessuna qualità che appartenga universalmente a tutte le cose e dia loro il diritto a questa denominazione. L’idea, dunque, di causalità deve derivare da qualche relazione esistente tra gli oggetti, e questa relazione dobbiamo cercare di scoprire. In primo luogo, trovo che gli oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui; e che niente potrebbe agire su altro se tra essi ci fosse il minimo intervallo di tempo o di spazio. […] Dobbiamo, quindi, considerare il rapporto di contiguità come essenziale a quello di causalità […]. La seconda relazione che io considero come essenziale a quella di causalità non è universalmente riconosciuta, anzi è controversa, e consiste nella priorità di tempo della causa sull’effetto […]. Avendo così scoperto, o supposto, che le due relazioni di contiguità e di successione sono essenziali a quella di causalità, mi accorgo che sono costretto a fermarmi e che, quale che sia il caso particolare di causalità, non posso aggiungere altro. Il movimento di un corpo è considerato come la causa, in seguito a un urto, del movimento di un altro corpo. Considerati questi oggetti con la massima attenzione, trovo che l’uno si avvicina all’altro, e che il suo movimento precede quello dell’altro, sebbene senza un sensibile intervallo. È inutile torturarsi con ulteriori pensieri e riflessioni: qui è tutto quello che si può osservare in questo caso. (Trattato sulla natura umana, libro I, sez. III, cit., pp. 86-90)

Analisi del testo 1-9 Se la causalità fosse una proprietà rintracciabile negli oggetti, dovremmo essere in grado di identificare una qualità comune, un tratto presente in tutte le cose, che corrisponda a ciò che chiamiamo “causa”; ma un tale tratto non esiste. Pertanto la causalità concerne, piuttosto, la relazione tra le cose. 9-14 Chiaramente imparentata con il rapporto di causa-effetto è, secondo Hume, la contiguità spazio-temporale. Il filosofo è infatti convinto che una cosa possa essere causa di un’altra solo nel caso in cui non sia separata (nello spazio o nel tempo) da essa. Inoltre, se le cause fossero contemporanee agli effetti, non vi sarebbe divenire, ma tutte le cose dovrebbero coesistere, il che è assurdo: per questo Hume indica la «priorità» temporale della causa sull’effetto come «seconda relazione» implicita nel rapporto di causalità, sottolineando, di fatto, la maggior importanza della contiguità temporale rispetto a quella spaziale. Del resto, la vicinanza nello spazio non sembra essere indispensabile: vi sono oggetti che, pur essendo legati tra loro da una relazione di tipo causale, tuttavia non sono “vicini”, anzi non sono collocabili in alcuno spazio vero e proprio (si pensi ad esempio alle passioni). 15-21 A ben guardare, non è fondamentale stabilire

474

se, di fatto (al di là di quanto qui enunciato), la relazione tra causa ed effetto sia per Hume di successione e di contiguità spazio-temporale, oppure di successione e di contiguità solo temporale, dal momento che, per sua stessa ammissione, il fatto che due elementi siano contigui e successivi l’uno all’altro non è sufficiente per affermare che sono legati da un rapporto di causalità. Tale rapporto prevede infatti anche il carattere della necessità, che tuttavia non è empiricamente constatabile: la contiguità e la successione sono dunque tutto quanto noi possiamo “osservare” laddove ci sia causalità. Può essere utile illustrare la riflessione di Hume con un esempio di Bertrand Russell. Un viaggiatore ignaro delle nostre usanze transita in treno, tutti i giorni, alle cinque del pomeriggio, davanti a una fabbrica, dalla quale vede uscire gli operai; avendo reiterato l’esperienza innumerevoli volte, egli può essere (erroneamente) portato a credere che il passaggio del treno costituisca per gli operai il segnale della fine della giornata lavorativa e, quindi, in un certo senso, la “causa” della loro uscita dalla fabbrica. Questo esempio di classica (scorretta) inferenza dal post hoc al propter hoc evidenzia bene la non riducibilità del rapporto causale alle relazioni di contiguità e successione.

Capitolo 5 • Hume

t5 >

La Connessione CausaLe non è neCessaria

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

[…] è massima generale in filosofia che tutto ciò che comincia ad esistere deve avere una causa della sua esistenza. Lo si ammette in tutti i ragionamenti senza dare né richiedere alcuna prova. Si suppone che la verità di questa massima sia intuitiva, e che sia una di quelle, di cui, anche negate a parole, nessuno può realmente dubitare nel suo cuore. Ma, se esaminiamo questa massima alla luce dell’idea della conoscenza su esposta, non vi vedremo nessun segno di tale certezza intuitiva […]. Invece, ecco un argomento che prova senz’altro non esser quella proposizione né intuitivamente né dimostrativamente certa. Infatti, non si può affermare la necessità di una causa per ogni nuova esistenza, o nuova modificazione d’esistenza, senza dimostrare nello stesso tempo che una cosa cominci mai a esistere senza un principio produttore: qualora la seconda proposizione non potesse esser dimostrata, neppure potremmo sperar mai di dimostrar la prima. Orbene, che la seconda proposizione sia assolutamente incapace di una prova dimostrativa, ci è assicurato dalla considerazione che, siccome le idee distinte sono separabili, e le idee di causa e di effetto sono evidentemente distinte, è facile per noi concepire un oggetto non esistente in quel momento ed esistente il momento dopo senz’unirvi l’idea, da esso distinta, di una causa o di un principio produttore. La separazione, quindi, dell’idea d’una causa da quella di un cominciamento di esistenza evidentemente è possibile all’immaginazione; e per conseguenza l’attuale separazione dei loro oggetti è tanto possibile da non implicare nessuna contraddizione né assurdità, e però [perciò] non può esser rigettata da un ragionamento che muova da pure idee: del quale, pure, non si può fare a meno per dimostrare la necessità di una causa.

I TESTI

Negando la necessità logica da sempre attribuita al principio di causalità, Hume intende criticarne non tanto l’utilizzo, quanto le conseguenze teoriche, che hanno portato a due millenni di metafisica, ovvero di conoscenza illusoria.

(Trattato sulla natura umana, libro I, sez. III, cit., pp. 91-92)

Analisi del testo 1-6 L’idea che tutto ciò che inizia inizi in virtù di una causa è condivisa dal senso comune e da tutta la filosofia (a partire da quella greca), a tal punto che sembra non richiedere dimostrazione alcuna. Ma, per l’assunto metodologico humiano secondo cui tutte le idee derivano da impressioni («alla luce dell’idea della conoscenza su esposta», rr. 4-5), tale idea non risulta né intuitivamente certa, né dimostrabile. 7-20 Benché non indichi esplicitamente per quali ragioni la «massima» appena enunciata non sia intuitivamente certa, Hume si sofferma però a chiarire in che senso essa non sia dimostrabile. Dietro la necessità che noi attribuiamo al principio di causalità si trova la convinzione (assunta come necessaria) che tutto ciò che giunge all’esistenza (o la cui esistenza sia modificata) vi giunga grazie all’azione di un «principio produttore» (o modificante), cioè in virtù di una causa. In realtà, oggetti differenti (e tali sono una causa e un effetto) sono

sempre distinguibili, cosicché è possibile concepire (avere l’idea di) un effetto anche senza avere al tempo stesso l’idea della sua causa. Questa è almeno una buona ragione perché l’effetto possa anche esistere senza la causa, dal momento che ciò che è concepibile è per Hume possibile, almeno sul piano logico. In altre parole, poiché ammette come possibile la propria negazione, il principio di causalità non può essere considerato necessario. Esso non è, a ben guardare, che la proiezione sul futuro di relazioni di fatto (contiguità e successione) constatate nella nostra esperienza passata: relazioni che non è legittimo trasporre sul piano della necessità logica. Scopriamo che l’acqua disseta o soffoca e che il fuoco scalda o brucia non ragionando sull’essenza di queste entità, ma sperimentando l’effetto che producono su di noi. Nessuno sarebbe in grado di individuare a priori, mediante l’uso esclusivo della ragione, l’effetto di una certa causa: chi, non avendo mai assistito

>

475

I TESTI

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

a un analogo evento, potrebbe prevedere che una palla che procede verso un’altra la urterà e le comunicherà il movimento? I principali argomenti razionali (cioè non derivati dall’esperienza) con cui i filosofi del tempo dimostravano la necessità del principio di causalità erano i seguenti: 1. se non vi fossero cause, le cose si produrrebbero da sé,

t6 >

ma per far ciò dovrebbero esistere ancor prima di venire all’esistenza (Clarke, Wollaston); 2. se non vi fossero cause, le cose si produrrebbero dal nulla, il che è assurdo perché il nulla, non esistendo, non può produrre nulla (Hobbes, Locke). Per Hume tali argomentazioni sono in realtà delle petizioni di principio, poiché presuppongono la validità del principio che intendono dimostrare.

L’abitudine Come origine deLLe Leggi CausaLi

Completata la pars destruens della sua analisi della causalità, Hume si trova nella scomoda posizione di chi, dopo aver mostrato che un principio della conoscenza umana non appartiene alla sfera della razionalità, è tenuto comunque a giustificarlo. La via scelta è quella descrittiva, o fenomenologica, che mostrerà l’origine “naturale” di tale costrutto della mente umana.

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20 22 24 26 28

476

Non vi è oggetto che implichi l’esistenza di un altro, se consideriamo questi oggetti in se stessi e non guardiamo al di là delle idee che di essi ci formiamo. […] Solo con l’esperienza, dunque, possiamo inferire l’esistenza di un oggetto da quella di un altro. Quest’esperienza consiste in ciò: noi ci ricordiamo di aver avuto frequenti esempi dell’esistenza di una specie di oggetti, e rammentiamo anche che certi esponenti di un’altra specie di oggetti li hanno sempre accompagnati con una regolarità costante di contiguità e di successione. […] Pian piano siamo, così, arrivati a scoprire […] una nuova relazione fra causa ed effetto: la relazione, dico, di congiungimento costante. […] essa implica semplicemente questo: che oggetti simili si sono sempre presentati in una relazione simile di contiguità e di successione; e sembra evidente, almeno a prima vista, che con questo mezzo noi non potremo mai scoprire un’idea nuova, e potremo solo moltiplicare, ma non approfondire gli oggetti della mente. […] Dalla semplice ripetizione, anche all’infinito, di impressioni passate, non sorgerà mai un’idea nuova, originale, come quella della successione necessaria, e in questo caso il numero delle impressioni non conta più di una sola. […] […] si domanda se l’esperienza produce tale idea [quella di relazione causale] mediante l’intelletto o mediante l’immaginazione: se siamo spinti dalla ragione a operare questo passaggio, ovvero da una certa associazione e relazione di percezioni. Se è la ragione che ci determina, essa procederà dal seguente principio: I casi dei quali non abbiamo avuto nessun’esperienza debbono somigliare a quelli dei quali l’abbiamo avuta, e il corso della natura continua uniformemente sempre lo stesso. […] Il nostro precedente metodo dimostrativo ci convince facilmente che non vi possono essere argomenti dimostrativi sufficienti a provare che quei casi dei quali non abbiamo avuto nessun’esperienza somigliano a quelli dei quali l’abbiamo avuta. È, per lo meno, possibile concepire un cambiamento nel corso della natura: ciò basta a provare che un tale cambiamento non è assolutamente impossibile. […] Ora, la sola connessione o relazione di oggetti che può condurre oltre l’immediata impressione di memoria e di senso è quella di causa e di effetto, e ciò perché questa è la sola su cui possiamo fondare una giusta inferenza da un oggetto all’altro. L’idea di causa ed effetto è derivata dall’esperienza, la quale c’informa che certi particolari oggetti, in tutti i casi passati, sono andati costante-

30 32 34 36 38 40 42

mente uniti insieme. E poiché un oggetto simile a uno di questi si suppone che sia immediatamente presente alla nostra impressione, si presume l’esistenza anche di quell’altro, simile a esso, che l’accompagnava usualmente. […] Quando, dunque, la mente passa dall’idea o impressione d’un oggetto all’idea o credenza d’un altro, non è determinata dalla ragione, ma da certi princìpi che associano tra loro le idee di questi oggetti e le uniscono nell’immaginazione. […] la credenza, che accompagna l’impressione presente ed è prodotta da numerose impressioni e congiunzioni passate, sorge immediatamente, senza nessuna nuova operazione né della ragione, né dell’immaginazione. Di questo posso esser certo, perché non ho nessuna coscienza di una tale operazione, né, d’altronde, saprei dove trovar un fondamento di essa. Se, dunque, chiamo abitudine ciò che procede da un’antecedente ripetizione, senza nessun nuovo ragionamento o inferenza, possiamo stabilire come verità certa che ogni credenza, la quale segua un’impressione presente, ha in questa la sua unica origine. Quando siamo abituati a vedere due impressioni congiunte insieme, l’apparire o l’idea dell’una immediatamente ci porta all’idea dell’altra.

I TESTI

Capitolo 5 • Hume

(Trattato sulla natura umana, libro I, sez. III, cit., pp. 100-106 e 117)

Analisi del testo 1-14 Dopo aver mostrato che il rapporto (logico) causale non è (razionalmente o dimostrativamente) riducibile alle relazioni (empiriche) di contiguità e successione, Hume deve ora chiarire in che modo avvenga, di fatto, il passaggio da tali relazioni al presunto principio di causalità. Il taglio assunto è dunque quello di un’analisi psicologica, volta a illustrare i meccanismi mentali che ci conducono a “credere” nell’effettiva esistenza di nessi causali tra gli oggetti. Descrivendo passo per passo tali meccanismi, Hume può accostare alla contiguità e alla successione (già individuate come essenziali per definire la relazione di causalità) un terzo elemento: il «congiungimento costante», ovvero la regolarità con cui, nella nostra esperienza passata, oggetti simili ci si sono presentati come tra loro contigui e successivi. Ma, così come la contiguità e la successione, anche il «congiungimento costante», in quanto relazione di fatto, non possiede alcuna necessità logica, e a nulla giova in questo senso che si tratti di una regolarità constatata un elevato numero di volte. Oggi diremmo che, crescendo il numero dei casi di un certo fenomeno di cui si sia fatta esperienza, cresce la probabilità che quello stesso fenomeno si ripresenti in futuro, ma questa probabilità non potrà mai essere pari al 100%, tale cioè da trasformarsi in certezza. 15-25 Se ricordiamo di aver constatato una congiunzione costante e regolare tra due avvenimenti e ne inferiamo un legame causale, allora stiamo operando in base al presupposto che gli eventi abbiano luogo in modo sempre uniforme: ma anche tale principio non è né intuitivamente certo, né dimostrabile, poiché un

mutamento nelle “regole” della natura è del tutto concepibile. 26-35 Benché la relazione di causa ed effetto sia dotata, per la mente umana, della forza necessitante della verità logica, essa ha comunque origine empirica (come Hume ha ampiamente mostrato). Questo significa che anche il principio secondo cui il futuro assomiglia al passato (fondamento del principio di causalità) ha una tale origine e non può pertanto ricevere il carattere della necessità logica da motivazioni razionali o oggettive, ma solo soggettive, ovvero legate al modo di funzionare della mente umana. Hume sta qui cercando una soluzione al noto problema dell’induzione, cioè di come sia possibile giustificare l’inferenza da una “collezione” di casi particolari (per quanto numerosi possano essere) alla totalità dei casi, ovvero a una “regola”. Dal fatto che in passato le cose si sono sempre svolte secondo una certa modalità, noi “induciamo” che ciò accadrà anche in futuro, ma in tale operazione applichiamo precisamente quel principio (di causalità) che stiamo cercando di dimostrare. È proprio a causa dell’impossibilità di giustificare deduttivamente l’induzione, cioè di “dimostrarne” (in senso logico-matematico) la validità, che Hume si volge al funzionamento della mente umana. 36-43 La «credenza» (naturale, non razionale) nella necessità di certi legami tra gli oggetti viene definita da Hume «un’idea vivace prodotta dalla relazione con un’impressione presente» (Trattato, cit., p. 110): la “vivacità” a cui allude il filosofo è essenziale per differenziare una «credenza» da un’idea qualunque, ma la definizione humiana è tutt’altro che chiara, tanto che lo stesso

>

477

I TESTI

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME Hume afferma, o piuttosto ammette: «qualsiasi ragionamento di probabilità si riduce a una specie di sensazione. Non è soltanto nella poesia e nella musica che dobbiamo seguire il nostro gusto, ma anche in filosofia» (Trattato, cit., pp. 117-118). Il principio di causalità non è dunque oggetto di intuizione, né di dimostrazione, ma, in un certo senso, di “fede”. Non si tratta però di un atteggiamento irrazionale, o immotivato, ma di una fiducia (ben) fondata sull’«abitudine», cioè sulla prassi

reiterata: si tratta di un comportamento, cioè, se non filosofico, certo «naturale», che risponde a un “meccanico” o istintivo modo di operare del nostro intelletto. Hume sa bene di non poter fondare razionalmente la validità delle leggi causali, ma sa altrettanto bene di non poter fare a meno di utilizzarle, nella vita quotidiana come nella ricerca filosofica. E, in un certo senso, è proprio in questa “ineluttabilità” che egli indica la “ragione” della validità di tali leggi.

Il problema dell’unità e dell’identità dell’io L’assunto empiristico che Hume pone a fondamento metodologico del suo pensiero gli impedisce di risolvere il problema degli oggetti esterni e del proprio corpo: egli è infatti convinto che sia impossibile “dimostrare” che tali “oggetti” esistono al di fuori della mente, come entità unitarie e costanti. Allo stesso modo è destinato a fallire il tentativo di dimostrare l’esistenza dell’io, o dell’anima, come “sostegno” unitario e permanente delle percezioni.

t7 > Laboratorio sul testo

2 4 6 8 10 12 14 16 18 20

478

L’io Come «finzione»

Con Hume entra in crisi non soltanto la mia esistenza in quanto corpo, ma la nozione stessa di “io”, o di “anima”, che perde quell’unità e stabilità su cui tanto la filosofia quanto il pensiero comune avevano da sempre fatto affidamento.

[…] ciò che chiamiamo mente, non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni, e che si suppongono, sebbene erroneamente, dotate di una perfetta semplicità e identità. Ora, siccome ogni percezione è distinguibile da un’altra, e può esser considerata come esistente separatamente, ne vien di conseguenza che non c’è alcuna assurdità a separare una percezione particolare dalla mente, a spezzare cioè tutte le sue relazioni con la massa collegata di percezioni che costituisce un essere pensante. […] Ma, poiché qui non soltanto formiamo la finzione di questa continuata esistenza, ma ci crediamo, sorge la domanda: donde proviene questa credenza? […] Ci sono alcuni filosofi, i quali credono che noi siamo in ogni istante intimamente coscienti di ciò che chiamiamo il nostro io […]. Disgraziatamente, tutte queste recise affermazioni sono contrarie all’esperienza stessa da noi invocata: noi non abbiamo nessuna idea dell’io, nel modo che viene qui spiegato. Da quale impressione potrebbe derivare tale idea? […] Ci vuol sempre una qualche impressione per produrre un’idea reale. Ma l’io, o la persona, non è un’impressione: è ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le nostre diverse impressioni e idee. Se ci fosse un’impressione che desse origine all’idea dell’io, quest’impressione dovrebbe rimanere invariabilmente la stessa attraverso tutto il corso della nostra vita, poiché si suppone che l’io esista in questo modo. Invece, non c’è nessuna impressione che sia costante e invariabile: dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni, si alternano continuamente, e non esistono mai tutti insieme. Non può essere, dunque, da nessuna di queste impressioni, né da alcun’altra, che l’idea dell’io è derivata: per conseguenza, non esiste tale idea. […]

22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 52

Per parte mia, quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso, e si può dire che realmente, durante quel tempo, non esisto. […] La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. Né c’è, propriamente, in essa nessuna semplicità in un dato tempo, né identità in tempi differenti, qualunque sia l’inclinazione naturale che abbiamo ad immaginare quella semplicità e identità. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta. Che cos’è, dunque, che ci dà così forte inclinazione ad attribuire un’identità a queste percezioni successive, e a noi stessi un’invariabile e ininterrotta esistenza attraverso il corso di tutta la vita? […] Noi abbiamo un’idea distinta di un oggetto che rimane invariabile e ininterrotto attraverso una data variazione di tempo: quest’idea noi la chiamiamo d’identità o di medesimezza. Abbiamo anche un’idea distinta di molti e differenti oggetti esistenti successivamente e connessi da una stretta relazione: essa, guardata in fondo, ci dà una così perfetta nozione della diversità come se non ci fosse nessuna relazione fra gli oggetti. Ma, sebbene queste due idee, d’identità e di successione di oggetti in relazione siano in se stesse perfettamente distinte e anche contrarie, è certo, tuttavia, che nel nostro abituale modo di pensare vengono generalmente confuse l’una con l’altra. L’atto dell’immaginazione, col quale consideriamo un oggetto ininterrotto e invariabile, lo sentiamo quasi identico a quello col quale riflettiamo su una successione di oggetti in relazione; né lo sforzo del pensiero richiesto per quest’ultimo è maggiore che pel primo, perché la relazione facilita il passaggio della mente da un oggetto all’altro e lo rende così piano come se essa contemplasse un oggetto solo e continuo. Questa somiglianza è la causa dell’errore, perché ci fa sostituire la nozione d’identità a quella di oggetti in relazione. […] Così ci fingiamo una continuata esistenza delle nostre percezioni sensibili per negarne l’interruzione, e ricorriamo alla nozione di un’anima, di un io, di una sostanza, per mascherare la variazione.

I TESTI

Capitolo 5 • Hume

(Trattato sulla natura umana, libro I, sez. IV, cit., pp. 220-221 e 263-266)

Analisi del testo 1-8 Con la celebre immagine della mente come «fascio» di «percezioni differenti», Hume sottolinea che noi non abbiamo di noi stessi alcuna idea razionalmente fondata. È evidente, infatti, che dal carattere discreto o irrelato delle percezioni (impressioni, idee o relazioni tra idee) deriva in modo immediato che non c’è alcun buon motivo per affermare che una tale «massa» di percezioni sia effettivamente “mia”, cioè in qualche modo legata a un «essere pensante» che chiamo “io” e che ne costituisce il riferimento unitario e stabile.

Così come non abbiamo ragioni sufficienti per credere alla nostra esistenza come soggetti pensanti (secondo l’accezione cartesiana), allo stesso modo non ne abbiamo per non crederci. Anzi, la «credenza» nella «finzione» di questa nostra «continuata esistenza» è un dato di fatto, di cui Hume si propone di svelare l’origine. 9-21 In polemica con la prospettiva cartesiana, secondo cui l’esistenza dell’io non ha bisogno di essere dimostrata, in quanto oggetto di un’autoevidenza originaria (il cogito), e fedele al suo presupposto empiristico, per

>

479

I TESTI

UNITÀ 5 • RAGIONE ED ESPERIENZA NEL PENSIERO INGLESE: DA HOBBES A HUME

cui ogni idea deriva da un’impressione, Hume contesta la stessa esistenza di un’idea di “io”, che, per essere tale, dovrebbe permanere nella mente di un uomo sempre identica a se stessa. Ma, se osserviamo con attenzione le nostre impressioni e le nostre idee, scopriamo che non esistono mai tutte insieme e che sono in continuo cambiamento. Non esiste alcuna impressione stabile e continua che possa essere prodotta a giustificazione dell’idea di “io”. L’io non è un “contenuto” della nostra mente, semmai il loro “contenitore”, o meglio un “qualcosa” di immutabile a cui noi «supponiamo» di poter riferire i “nostri” mutevoli contenuti. La prospettiva cartesiana è rovesciata: all’autonomia e all’originarietà dell’io (del cogito) Hume sostituisce il suo carattere “derivato”. L’io non è un’intuizione originaria, ma un “costrutto” dovuto all’attività percettiva della mente umana. 22-27 Il capovolgimento della prospettiva di Cartesio viene seguito in tutte le sue implicazioni: non è la coscienza (o, meglio, l’autocoscienza) a rendere possibili le percezioni, ma, viceversa, sono le percezioni a fondare la coscienza: quando sono assenti (come nel sonno), manca anche la consapevolezza di sé come soggetto. 28-37 Con la metafora del «teatro» Hume conferma, con uguale forza suggestiva, i tratti della mente già evidenziati (in apertura di brano) con l’immagine del «fa-

scio di percezioni»: la separatezza delle percezioni tra loro e dall’io a cui vengono riferite. Si noti il richiamo all’«inclinazione naturale», in virtù della quale l’uomo immagina l’esistenza di un “sé” semplice e permanente: riproponendo uno schema espositivo che assume ciò che non si può giustificare per via deduttiva come “dato” di cui si deve indagare la genesi psicologica, Hume analizzerà l’origine di tale «forte inclinazione». 38-52 La successione di percezioni tra loro in relazione (che è necessariamente discontinua) viene collegata dall’immaginazione, che tende a cancellare o “colmare” i momenti di interruzione tra una percezione e l’altra non soltanto con le idee di oggetti esterni permanenti, ma anche con l’idea di un io sempre uguale a se stesso. Questa idea di una «continuata esistenza» dell’io (formata soprattutto grazie al contributo della memoria) facilita anche il formarsi delle relazioni tra le idee. In un complesso intreccio tra la presunta identità degli oggetti percepiti e la presunta identità del soggetto che li percepisce, si forma così l’erronea idea dell’io come «sostanza» immateriale ed eterna, detta anche «anima». Frutto di finzione, sebbene indotta da un’«inclinazione naturale», l’io non è dunque che una nozione linguistica, ingiustificabile in base a criteri empirici o razionali.

La religione Sebbene le dottrine più note di Hume siano senz’altro quelle riguardanti il suo principio empiristico e la critica radicale al principio di causalità, non bisogna dimenticare che l’intero Trattato sulla natura umana vuole essere un tentativo di introdurre il rigore argomentativo proprio della scienza moderna anche negli ambiti morale e religioso.

t8 >

La CritiCa aLLe prove deLL’esistenza di dio

I Dialoghi sulla religione naturale (redatti tra il 1749 e il 1751, ma pubblicati postumi) sono concepiti come il resoconto, fatto da Panfilo al suo amico Ermippo, di una conversazione tra Cleante (razionalista e teista, che condivide alcune delle tesi di Hume), Filone (scettico come Hume, ma poco accurato in alcune sue argomentazioni) e Demea (sostenitore dell’ortodossia religiosa, il personaggio più distante da Hume). In questo passo, in particolare, Hume dà voce prima a Filone e poi a Cleante per evidenziare i limiti delle prove dell’esistenza di Dio. L’importanza di queste critiche risiede nel fatto che il loro impianto sarà ripreso, sostanzialmente invariato, da Kant.

2 4

480

Le nostre idee non oltrepassano la nostra esperienza; noi non abbiamo esperienza delle operazioni e degli attributi di Dio; non ho bisogno di concludere il mio sillogismo e potete ricavare voi stesso la conclusione. […] Vedendo una casa, o Cleante, noi concludiamo con la massima certezza che questa ha un architetto o un costruttore, perché è precisamente questa sorta di effetto che abbiamo visto nell’espe-

6 8 10 12 14 16 18 20 22

rienza provenire da un tal genere di causa. Ma sicuramente voi non affermerete che l’universo possiede una tale somiglianza con una casa che noi si possa con la stessa certezza inferire una causa simile, né che l’analogia sia qui intera e perfetta. La dissomiglianza è così evidente che il massimo cui voi possiate pretendere di arrivare su questo punto è una supposizione, una congettura, una presunzione relativa ad una causa simile; e come questa pretesa sarà accolta nel mondo lo lascio considerare a voi. […] Comincerò con l’osservare che c’è un’evidente assurdità nel pretendere di dimostrare una cosa di fatto, o di provarla con qualche argomento a priori. Niente è dimostrabile all’infuori di ciò il cui contrario implica contraddizione; niente di ciò che si può distintamente concepire implica contraddizione; tutto ciò che concepiamo come esistente, lo possiamo anche concepire come non esistente. Non c’è dunque un Essere la cui non esistenza implichi contraddizione. Per conseguenza non c’è un Essere la cui esistenza sia dimostrabile. […] Si pretende che la Divinità sia un Essere necessariamente esistente; e si cerca di spiegare questa necessità della sua esistenza affermando che, se noi conoscessimo in modo perfetto la sua essenza o natura, percepiremmo che per essa è così impossibile che non esista, come a due per due di non far quattro. Ma è evidente che questo non potrà mai accadere finché le nostre facoltà saranno (Dialoghi sulla religione naturale, quelle che sono al presente.

I TESTI

Capitolo 5 • Hume

in Opere filosofiche, cit., vol. 4, pp. 136-138 e 195)

Analisi del testo 1-3 Per escludere ogni possibilità di pervenire alla dimostrazione dell’esistenza di Dio sarebbe sufficiente il conciso ragionamento esposto in queste righe, che oppone alle supposizioni metafisiche il principio dell’origine empirica di tutte le nostre idee legittime. 4-11 Chi sta parlando qui è Filone, il quale critica la pretesa del suo avversario Cleante di applicare a Dio e all’universo il principio di causalità che si ritiene valere per l’uomo e le cose del mondo. È vero che, da un punto di vista astrattamente concettuale, Hume ritiene che le prove a posteriori siano più plausibili dell’argomento ontologico; ma è pur vero (come è emerso nelle righe precedenti) che tali prove pretendono di oltrepassare i limiti dell’esperienza per asserire delle verità metafisiche, il che, per un empirista come Hume, non è ammissibile. 12-22 In questo passo è invece Cleante a rispondere a Demea, il quale, contro le incertezze delle dimostrazioni a posteriori, propone di ricorrere all’argomento ontologico. La prova ontologica incontra ovviamente l’opposizione anche di Filone, cioè di Hume, che ammette la possibilità di «dimostrare» (ovvero di provare per via deduttiva) soltanto le verità logico-matematiche, cioè le uniche affermazioni la cui negazione implica una contraddizione. Al contrario, delle proposizioni che riguardano «materie di fatto» (e tale è ogni proposizione che affermi l’esistenza di un essere, anche nel caso in cui si tratti di Dio) è sempre possibile concepire

il contrario, il che implica evidentemente l’impossibilità di dimostrarle razionalmente, o a priori. Anticipando la critica kantiana della teologia razionale, Filone concluderà i Dialoghi affermando: «Pare che alcuni sostengano che l’insieme della teologia naturale si risolve in una sola proposizione semplice […], cioè che la causa o le cause dell’ordine nell’universo probabilmente presenta o presentano qualche remota analogia con l’intelligenza umana. Se questa proposizione non si può né estendere, né modificare, né spiegare più determinatamente; se non fornisce alcuna inferenza che interessi la vita dell’uomo o che possa essere la fonte di una qualunque azione o di una qualunque astensione; e se l’analogia, imperfetta com’è, non può essere estesa che all’intelligenza umana, mentre non potrebbe essere trasferita, con qualche apparenza di probabilità, alle altre qualità della mente; se le cose stanno proprio così, che cosa può fare l’uomo anche più dotato di amore per la ricerca, per la contemplazione e per la religione che dare un assenso franco e filosofico alla proposizione, ogni volta che si presenta e credere che gli argomenti su cui essa si fonda sono superiori alle obiezioni che la contestano?» (op. cit., p. 243). Queste affermazioni non segnano, tuttavia, il passaggio dallo scetticismo a una fede irrazionale e fondata su una sorta di credo quia absurdum. Hume sembra piuttosto rimanere ancorato a una modesta professione teista.

481

verifica verifica

UNITÀ 5

Ragione ed esperienza nel pensiero inglese: da Hobbes a Hume

1. Hobbes

Esercizi attivi

1 La realtà, secondo Hobbes, si riduce a:

4 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla concezione hobbesiana dello Stato.

a materia e movimento b materia e spirito

pace - assemblea - volontà - illimitato - contratto patti di reciprocità - stato di natura - unico uomo

c corpo e spirito d corpi naturali e corpi artificiali

L’atto fondamentale che segna il passaggio dallo stato di natura allo stato civile è la stipulazione di un

2 Nello Stato civile teorizzato da Hobbes i cittadini:

................................................... con il quale gli uomini rinunciano al

a hanno pari diritti su tutto

diritto ................................................... di cui godono nello ............................

b possono farsi guerra l’uno con l’altro

...............................................................

Questo trasferimento è indispensabile: infatti, solo

d hanno trasferito i loro diritti al sovrano

se ciascun individuo sottomette la propria ...............................

3 In riferimento al materialismo di Hobbes, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false.

a un ................................................................. o a una sola ......................................., si possono garantire la ........................ e i .......................................................... in cui essa consiste.

a. Gli oggetti materiali sono i soli oggetti possibili della ragione V F b. La cosa che pensa si identifica con il pensiero V

F

c. Soltanto Dio è incorporeo

V

F

d. L’anima è materiale

V

F

e. Le sensazioni producono movimenti

V

F

5 Collega i rami della filosofia (colonna di sinistra) con quelli che Hobbes ritiene essere i loro oggetti specifici (colonna di destra). a. filosofia naturale

b. filosofia civile

V

1. attributi di tutti i corpi (spazio, tempo) e concetti di causa-effetto, potenza-atto ecc. 2. corpi naturali

f. Le sensazioni e l’immaginazione sono movimenti

482

e lo trasferiscono al “sovrano”.

c hanno stipulato un patto tra loro

F

c. filosofia prima

3. corpi artificiali

9 Analizza brevemente le nozioni hobbesiane di “diritto

(max 6 righe)

7 Nell’ottica deterministica hobbesiana, qual è l’unica forma di libertà riconosciuta all’uomo?

naturale” e di “legge naturale”, individuandone analogie e differenze rispetto alle corripondenti nozioni del (max 15 righe) giusnaturalismo.

(max 6 righe)

10 Elenca e spiega sinteticamente le caratteristiche fon8 Quali sono, secondo Hobbes, le caratteristiche dello stato di natura?

2. Newton

damentali dello Stato assoluto teorizzato da Hobbes.

(max 6 righe)

(max 15 righe)

VERIFICA

a

6 Che cosa sono per Hobbes il bene e il male?

Esercizi attivi

Bisogna ammettere solo quelle ................................................... che

11 Con Newton trova piena attuazione la saldatura tra:

sono ................................................... per spiegare i fenomeni, giac-

a aritmetica e geometria

ché la ................................................... non fa nulla invano e farebbe

b matematica e fisica

cosa inutile se si servisse di ...........................................................................

c matematica e dinamica

di cause per fare ciò che si può fare con .......................................

d fisica e teologia

...........................................................

12 La meccanica di Newton si distacca da quella di Galileo per l’introduzione del concetto di:

di cause.

15 Collega le ultime tre regole del metodo newtoniano (colonna di sinistra) con le loro corrette enunciazioni (colonna di destra).

a massa b peso c forza d accelerazione

13 In base a quanto hai appreso delle teorie di Newton, indica se le affermazioni seguenti sono vere o false.

a. seconda regola

a. Le leggi meccaniche valgono per l’intero universo V

F

b. La forza è inversamente proporzionale all’accelerazione V F

b. terza regola

c. La scienza deve mirare alla mera descrizione dei fatti della natura e delle sue leggi V F d. La scienza deve ammettere anche ipotesi metafisiche V F c. quarta regola

14 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare la frase riportata nella colonna a fianco, relativa alla prima regola del metodo newtoniano. natura - un numero minore - necessarie - cause - un numero maggiore

1. le qualità che non sono suscettibili di aumento e di diminuzione e che appartengono a tutti i corpi dei quali si può fare esperienza, devono essere considerate come appartenenti a tutti i corpi in generale 2. effetti dello stesso genere devono sempre essere attribuiti, finché è possibile, alla stessa causa 3. le proposizioni raggiunte mediante induzioni dai fenomeni devono essere considerate esattamente o approssimativamente vere fino al momento in cui altri fenomeni le confermino o facciano vedere che sono soggette a eccezioni

483

UNITÀ 5 • RAGIoNE ED ESpERIENzA NEL pENSIERo INGLESE: DA HoBBES A HUmE

16 Di che tipo è la scienza che Newton si propone di realizzare con il proprio metodo?

(max 6 righe)

17 In che cosa consiste la teoria corpuscolare della luce?

VERIFICA

(max 6 righe)

18 Che cosa significa l’affermazione newtoniana «Hypotheses non fingo»?

3. Locke

19 Esponi con parole tue e commenta le quattro regole del metodo enunciate da Newton.

(max 15 righe)

20 Spiega perché la formulazione della legge di gravitazione universale da parte di Newton rappresenta una tappa fondamentale nella storia del pensiero scien(max 15 righe) tifico.

(max 6 righe)

Esercizi attivi

21 per Locke la ragione è:

24 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla critica lockiana dell’idea di sostanza.

a uguale in tutti gli uomini b infallibile in ogni sua operazione c capace di guidare l’uomo in tutti i campi del co-

“sostanza” - una sola idea - semplici - un’idea semplice substratum - esperienza

noscere e dell’agire osservando che varie idee ................................................... sono co-

d in grado di ricavare da se stessa idee e principi

stantemente unite tra loro, la nostra mente è portata a considerarle come ..................................................................: poiché

22 per dimostrare l’esistenza di Dio Locke ammette:

non riesce a immaginare come ............................................... possa

a l’argomento ontologico

sussistere di per sé, si abitua a supporre un qualche

b la prova causale

..........................................................................

c la prova fondata sul rapporto tra possibile e ne-

cessario

...................................................,

d la certezza che deriva dalla rivelazione

in quanto essa supera la testimo-

nianza dell’....................................................

23 In riferimento al pensiero di Locke, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false.

25 Collega i tipi di conoscenza (colonna di sinistra) con le relative spiegazioni (colonna di destra).

a. La mente umana non è in grado di creare idee semplici nuove V F

a. conoscenza intuitiva

b. Le sostanze sono idee complesse che la mente considera erroneamente come esistenti di per se stesse V

F

c. La coscienza delle mie sensazioni e percezioni costituisce l’unità del mio io V F d. Le idee generali scaturiscono dalla combinazione di idee complesse V F e. Attraverso l’intuizione raggiungo la conoscenza dell’esistenza del mio io V F f. La fede rientra nel dominio della conoscenza probabile V F

484

che ne sia la base. Locke af-

ferma chiaramente il carattere arbitrario di una tale

b. conoscenza dimostrativa

c. conoscenza delle cose esterne

1. intuizione dell’io, dimostrazione di Dio, sensazione attuale 2. percezione immediata di un accordo o disaccordo delle idee tra loro 3. percezione mediata dell’accordo o del disaccordo tra idee

26 Quali sono le tre categorie fondamentali in cui si dividono le idee complesse e che cosa indicano? (max 6 righe)

Verifica

sori del liberalismo?

(max 6 righe)

28 In che cosa consiste, per Locke, la legge di natura? (max 6 righe)

30 Nella sua appassionata difesa della tolleranza, Locke teorizza la divisione degli ambiti di competenza e di azione dello Stato e della Chiesa: illustra brevemente i termini di questa distinzione ed esponi la tua posizio(max 15 righe) ne al riguardo.

VERIFICA

27 In che senso Locke è uno dei primi e più efficaci difen-

29 Esponi brevemente l’analisi critica dell’idea di sostanza svolta da Locke.

4. Berkeley

(max 15 righe)

Esercizi attivi

immediato - sostanza corporea - percepita - lo spirito conoscenza - idea

31 Le idee generali secondo Berkeley sono idee: a astratte b particolari che nascono dalla somma di altre idee

Non esiste una ....................................................................., o materia, nel senso in cui comunemente s’intende, cioè come og-

particolari c particolari assunte come segni di altre idee par-

ticolari

getto ................................................... della nostra .................................................... Un simile oggetto, infatti, è soltanto un’......................................,

d particolari assunte come segni di oggetti mate-

riali

e l’idea non esiste se non è .................................................... L’unica sostanza reale è dunque ................................................... che percepisce le idee.

32 La materia secondo Berkeley: a è l’unico oggetto immediato della nostra cono-

35 Collega i concetti elencati di seguito (colonna di sinistra) con le critiche che a ciascuno di essi muove Berkeley (colonna di destra).

scenza b non esiste

a. idee astratte

c esiste solo come substrato delle qualità sensibili

b. qualità primarie

d costituisce i modelli delle nostre idee

33 In riferimento alla filosofia di Berkeley, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false. a. Le idee sono rappresentazioni della realtà esterna allo spirito V F b. Le idee sono inattive

V

F

c. Le qualità primarie delle cose sono oggettive, mentre quelle secondarie sono soggettive V F d. Le idee attuali sono creazioni della volontà umana V

F

c. sostanza materiale

1. non può essere dimostrata e non può fungere da causa attiva delle cose 2. esistono solo idee particolari 3. non esistono senza una mente che le pensi

36 Che cosa intende Berkeley quando afferma: «Esse est percipi»?

(max 6 righe)

37 In che senso le idee sono essenzialmente inattive? (max 6 righe)

38 Che cosa sono, secondo Berkeley, le leggi di natura? (max 6 righe)

e. Le idee attuali sono le manifestazioni dell’esistenza di Dio V F

39 Esponi brevemente la critica di Berkeley al concetto di

f. Degli spiriti diversi dal nostro abbiamo una conoscenza diretta V F

sostanza, evidenziandone le ripercussioni sul proble(max 15 righe) ma della conoscenza delle cose.

34 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per

40 Spiega in che modo, dal punto di vista di Berkeley, la

completare il passo riportato nella colonna a fianco, relativo all’immaterialismo di Berkeley.

negazione della materia risulta vantaggiosa per la reli(max 15 righe) gione.

485

UNITÀ 5 • RAGIoNE ED ESpERIENzA NEL pENSIERo INGLESE: DA HoBBES A HUmE

5. Hume

Esercizi attivi

41 Spazio e tempo per Hume sono:

VERIFICA

a impressioni b pensieri c i nostri modi di sentire le impressioni d i nostri modi di connettere tra loro le impressioni

42 Alla base della morale, Hume riconosce:

non può essere definita .............................................................................., ma si può discernere soltanto mediante una sorta di ................................................. estetico. ora, sebbene la bellezza esista soltanto nello spirito che la contempla e ogni spirito percepisca una bellezza differente, vi è un ......................................................................................... di approvazione o di biasimo che ................................................... il valore della tradizionale espressione «Dei gusti non si può discutere».

a l’approvazione dell’utilità sociale dei comporta-

45 Collega i concetti della filosofia di Hume (colonna di

menti b l’esigenza di conciliare tra loro i singoli moventi

egoistici c un mero calcolo razionale, finalizzato a equilibra-

re bene e male

sinistra) con le relative spiegazioni (colonna di destra). a. abitudine 1. la predisposizione istintiva della natura umana a riconoscere la realtà di qualcosa b. credenza

d l’intento di salvaguardare l’obbedienza civile

43 In riferimento alla gnoseologia humiana, indica quali tra le seguenti affermazioni sono vere e quali false.

2. le percezioni immediate in tutta la loro forza c. impressioni

a. Le idee sono più nitide e più forti delle impressioni b. ogni idea deriva da un’impressione

V

F

V

F

c. Le proposizioni che riguardano relazioni tra idee hanno in se stesse la loro validità V F d. Le proposizioni che riguardano dati di fatto si fondano sul principio di non-contraddizione V F e. La credenza è un atto di ragione

V

e. immaginazione

4. la f coltà di stabilire relazioni tra idee 5. la disposizione a rinnovare un atto ripetuto

46 Che cos’è il principio di associazione e quali sono i tre criteri della sua azione?

(max 6 righe)

F

f. L’unica realtà di cui siamo certi è costituita dalle nostre percezioni V F

44 Utilizza le espressioni e i termini elencati di seguito per completare il passo riportato sotto, relativo alla concezione estetica di Hume.

486

d. idee

3. le immagini o il ricordo sbiadito delle impressioni

47 Qual è la differenza tra le proposizioni che concernono relazioni tra idee e le proposizioni che concernono materie di fatto? (max 6 righe)

48 Su quale assunto di base si fondano le critiche humiane alle prove dell’esistenza di Dio?

(max 6 righe)

restringe - bellezza - sentimento - “gusto” - intellettualmente - criterio generale

49 Esponi brevemente l’analisi critica del principio di cau-

Secondo Hume alla base delle valutazioni estetiche vi è il ................................................................ La ..................................................., infatti,

50 Illustra l’atteggiamento di Hume nei confronti della

salità condotta da Hume.

religione.

(max 15 righe)

(max 15 righe)

Verifica

VERSO LE COMPETENZE w Leggere, comprendere Il ruolo della paura in Hobbes e interpretare un testo Nelle pagine iniziali della sua autobiografia, Thomas Hobbes dichiara di essere nato «gemello della w Riflettere e argomentare, paura», poiché la madre lo aveva partorito prematuramente, spaventata per l’imminente arrivo individuando collegamenti dell’Invencible Armada spagnola. In effetti, al di là di questo elemento biografico, il filosofo attribuisce e relazioni alla paura un ruolo centrale nella vita dell’individuo e del cittadino: è la paura della morte violenta, e non una naturale inclinazione sociale, a spingere gli individui a uscire dallo stato di natura e a costituire la società civile; ed è mediante la paura della pena che il potere costituito costringe i cittadini al rispetto delle leggi. Il brano seguente, tratto dal saggio Geometria delle passioni di Remo Bodei, chiarisce bene quest’idea.

VERIFICA

LABORATORIO DELLE IDEE

Hobbes attribuisce alla paura – e soprattutto alla paura della morte violenta – una missione civilizzatrice essenziale, ponendola non solo all’origine della ragione e dello Stato, ma attribuendole anche il compito della loro successiva conservazione contro ogni possibile ricaduta nell’inferno sociale della violenza estrema e dello stato di natura. La paura primitiva, condivisa con gli altri animali, si sublima nell’uomo in paura razionale e costituisce la sorgente prima di ogni calcolo di reciprocità, ossia della ratio in quanto tale, che nasce dalla comprensione della reversibilità e della simmetria speculare di tutte le minacce di violenza. (R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 83- 84).

Comprensione del testo 1. In che senso Bodei afferma che Hobbes attribuisce alla paura una «missione civilizzatrice»? 2. Quali sono la «paura primitiva» e la «paura razionale» menzionate nel passo e in che cosa consiste la loro differenza? 3. Che cos’è la «ratio in quanto tale» menzionata nel passo e qual è la sua origine?

Riflessione 4. Rifletti sull’inscindibile legame che, secondo Hobbes, tiene insieme la ragione e la paura quale «passione d’ordine» che si trova alla radice di ogni società e prova ad esporre la tua personale opinione su questo complesso tema. 5. L’importanza attribuita da Hobbes alla paura si riscontra anche nella sua antropologia, dove, insieme con il desiderio (o «appetito»), essa rappresenta un moto elementare e originario dell’animo umano, collegato da una parte alla sensibilità e, dall’altra, alla volontà. Il passo riportato di seguito, tratto dagli Elementi di legge naturale e politica, chiarisce quest’idea. «L’appetito e il timore [...] sono i primi inavvertiti inizi delle nostre azioni [...]. Questa alternata successione di appetito e timore, che dura tutto il tempo in cui è in nostro potere di compiere o no l’azione, è ciò che noi chiamiamo deliberazione [...]. Nella deliberazione l’ultimo appetito, come anche l’ultimo timore, è chiamato volontà, cioè l’ultimo appetito volontà di fare, l’ultimo timore volontà di non fare o volontà di tralasciare» (T. Hobbes, Elementi di legge naturale e politica, XII, 1, trad. it. di A. pacchi, Sansoni, Firenze 2004, pp. 69-70). Commenta questo passaggio della riflessione hobbesiana e chiarisci la tua opinione in proposito.

487

Gnoseologia Epistemologia

QUESTIONE La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza? Cartesio, Locke

Partiamo da un aneddoto… per “smascherare” le convinzioni rassicuranti dell’empirismo ingenuo, che crede di poter fondare la

F

conoscenza su una presunta “evidenza dei fatti”, il filosofo inglese Bertrand Russell (1872-1970) rac-

in dal primo giorno questo tacchino osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle nove del mattino. E da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta gamma di circostanze: di mercoledì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così arric-

conta la divertente storiella del “tacchino induttivista”:

chiva ogni giorno il suo elenco di una proposizione osservativa in condizioni le più disparate. Finché la sua coscienza induttivista non fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: “Mi danno il cibo alle nove del mattino”. Purtroppo, però, questa concezione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato.

(cit. in A.F. Chalmers, Che cos’è questa scienza?, trad. it. di A. Runfola, Mondadori, Milano 1979, p. 24)

Dietro l’ironia divertita di Russell si nasconde una questione filosofica ardua: l’induzione – cioè quel procedimento che dall’osservazione di casi particolari perviene alla formulazione di una regola generale – può essere da sola uno strumento efficace per individuare le leggi universali della natura? In altre parole, il fatto che i corvi che ho osservato fino ad oggi fossero neri è sufficiente perché io possa affermare con certez-

488

za che “tutti i corvi sono neri”? Evidentemente no, dal momento che non ci sono ragioni sufficienti per escludere a priori che nel futuro nasca anche un solo corvo di un altro colore. La validità universale richiesta a una “legge” di natura non è dunque raggiungibile per via induttiva, a meno che non si presupponga che il corso naturale delle cose è uniforme o regolare, il che, però, è esattamente ciò che si intende ricavare dall’osservazione

empirica di alcuni casi che si ripetono regolarmente. Se il tentativo di fondare la validità logica del ragionamento induttivo conduce a una “circolarità” da cui è impossibile liberarsi, il ragionamento deduttivo (che parte da proposizioni universali per ricavarne proposizioni particolari) sembra anch’esso insufficiente per garantire il progresso della conoscenza. Ad esempio, il sillo-

Il vero problema sarà quindi scoprire se e in quale modo sia possi-

bile ricavare le affermazioni universali da cui le deduzioni prendono avvio, sapendo di non potersi rivolgere all’esperienza, a meno di non imbatterci (circolarmente) nel problema dell’induzione a cui abbiamo appena accennato. In sostanza: da una parte l’induzione, “prigioniera” dei dati empirici, non dà garanzie di validità universale; dall’altra la deduzione, muovendosi “entro se stessa”, senza alcun rapporto con la realtà, non sembra in grado di ampliare il nostro sapere sulle cose. La conoscenza delle leggi della natura sembra

quindi dover essere il frutto di una “collaborazione” tra deduzione e induzione, tra ragione ed esperienza, entrambe indispensabili ed entrambe insufficienti se utilizzate da sole. Questa convinzione è forse la più grande conquista teorica della scienza moderna. ma, procedendo per gradi, possiamo analizzare i risvolti filosofici della questione partendo dal seguente interrogativo: la conoscenza si basa sui collegamenti istituiti dalla ragione tra le idee, o sull’osservazione dei fatti? In termini ancora più generali:

Su che cosa si fonda la conoscenza? Sulla base delle tue convinzioni personali, rispondi a questo interrogativo scegliendo tra le opzioni che seguono.

1. La conoscenza si fonda sulla ragione, la quale, partendo da alcuni suoi saldi principi e operando al di là dell’incertezza dei sensi, è in grado di produrre una conoscenza universale e rigorosa. In questa prospettiva, è vero ciò che si impone allo “sguardo” della mente con chiarezza ed evidenza, mentre i sensi attingono solo un sapere confuso, ingannevole e oscuro.

QUESTIONE

gismo classico “tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale” è certamente valido, poiché, una volta assunta come vera la premessa “tutti gli uomini sono mortali”, è corretto affermare che, in quanto uomo, lo è anche Socrate. Si tratta però di un’affermazione per certi versi “superflua”, implicita già nella premessa di partenza, e in questo senso la deduzione si riduce a vuota tautologia.

VERSO LE COMPETENZE w Sviluppare la riflessione personale, il giudizio critico e l’attitudine alla discussione razionale

2. La conoscenza si fonda sull’esperienza, cioè sull’osservazione di “dati” sensibili, da cui si ricavano, per astrazione, i concetti universali con cui comprendere il mondo e le leggi generali della natura. L’esperienza è l’unico criterio di verità del sapere: una rappresentazione mentale o “idea” è vera se è conforme ai fatti che esprime.

Illustra brevemente le ragioni che ti hanno indotto a prendere questa posizione.

489

QUESTIONE

Approfondiamo la questione QUESTIONE

Dal senso comune alla filosofia 1. L’idea che la conoscenza si basi sulla ragione trova la sua fondazione filosofica nel razionalismo di Cartesio, il quale afferma che esistono nella mente alcune nozioni innate, che si impongono per la loro chiarezza ed evidenza e sulle quali è possibile costruire, deduttivamente, l’edificio del sapere umano.

2. L’idea che la conoscenza si basi sull’esperienza trova la sua formulazione nell’empirismo di Locke, il quale, diversamente da Cartesio, assegna all’esperienza sensibile un ruolo determinante sia come fonte di tutte le nostre conoscenze, sia come criterio per il controllo della loro verità.

1. | Il modello razionalista: Cartesio Ciò che è evidente…

per Cartesio la garanzia della verità si trova esclusivamente nella ragione e, più precisamente, nell’adozione della «regola dell’evidenza» quale criterio per distinguere il vero dal falso: mi sembra che si possa stabilire per regola generale, che tutte le cose che noi concepiamo molto chiaramente e molto distintamente sono vere. (Cartesio, Meditazioni metafisiche, III, in Opere filosofiche, vol. 1, pp. 215-216)

Applicando il criterio dell’evidenza, Cartesio afferma che l’esistenza dell’io, cioè della «sostanza spirituale», è indubitabile in quanto s’impone come evidente alla mente umana, e che quella di Dio è dimostrabile a priori, cioè a partire proprio dall’autoevidenza originaria del cogito. … e ciò che non lo è

ma l’esistenza delle cose esterne risulta incerta e dubitabile, in quanto attestata dai sensi, che ci informano sulle qualità sensibili degli oggetti in modo «oscuro e confuso»: una prova certa dell’esistenza di cose corporee non si può trarre da quel che è percepito (Cartesio, Meditazioni metafisiche, VI, 91, p.251) con quel modo di pensare che chiamo senso. per avere la certezza dell’esistenza dei corpi e per conoscerne l’essenza, cioè la loro vera natura, la mente deve mettere da parte le ingannevoli percezioni sensoriali e «rivolgersi in qualche modo a se stessa»: solo analizzando le «idee» o rappresentazioni mentali dei corpi materiali sarà infatti possibile stabilire che cosa l’io possa conoscere in modo certo della realtà esterna.

L’evidenza dell’estensione dei corpi

490

Come per Galilei, anche per Cartesio le qualità sensibili (colore, odore, sapore, suono...), che sono mutevoli, confuse e soggettive (relative, cioè, al soggetto senziente), non appartengono ai corpi in quanto tali. Ciò che delle cose materiali la ragione concepisce in modo «chiaro e distinto», e dunque ciò che afferisce alla vera natura dei corpi, sono le proprietà geometriche e misurabili, ossia il fatto di avere una certa figura, certe dimensioni, di occupare un determinato spazio, di muoversi o di essere in quiete. In un brano delle Meditazioni metafisiche Cartesio chiarisce ulteriormente questo punto con il famoso esempio della cera. Se prendiamo un oggetto di cera e lo facciamo sciogliere avvicinandolo al fuoco, tutte le sue qualità sensibili verranno meno, tanto che l’oggetto originario non cadrà più sotto i sensi (non sarà più visibile nella sua forma iniziale, non emetterà più suoni se

La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?

QUESTIONE

percosso ecc.). Eppure qualcosa permarrà in questa trasformazione, tanto da permetterci di riconoscere la stessa cera prima e dopo il mutamento. In che cosa consiste, dunque, questa «sostanza» della cera, questo qualcosa che, permanendo identico, “sostiene” il trasformarsi delle sue qualità sensibili? Di sicuro niente di quel che vi ho notato per mezzo dei sensi, perché tutte le cose che cadevano sotto il gusto o l’odorato o la vista o il tatto o l’udito si trovano cambiate, e (Cartesio, Meditazioni metafisiche, II, p. 211) tuttavia la cera stessa resta. La conclusione di Cartesio è chiara: la sostanza dei corpi è il loro essere «qualcosa di esteso». Così come il pensare, il desiderare, il volere ecc. sono «modi» della «sostanza pensante» (res cogitans), analogamente i corpi, con la loro possibilità di assumere diverse configurazioni geometriche, sono «modificazioni» accidentali della «sostanza estesa» (res extensa). L’«estensione» non è però un dato percettivo, o sensibile (frutto del nostro osservare che la cera da quadrata diventa rotonda, o viceversa), poiché le infinite possibilità di configurazione della sostanza estesa possono essere concepite dal pensiero, ma non raffigurate mediante l’immaginazione sensibile. Diversamente dalla materia, che è qualitativamente determinata in quanto cade sotto i sensi, l’estensione (che è assimilabile allo spazio euclideo) è uniforme e qualitativamente indifferenziata. In quanto tale, non è un concetto ricavato mediante astrazione dall’esperienza delle qualità sensibili delle cose, bensì una nozione intuitiva e innata, una pura «visione della mente». La differenza tra «immaginazione sensibile», con cui «contempliamo la figura o appunto l’immagine di qualcosa di corporeo», e «intellezione pura», con cui concepiamo in modo chiaro e distinto che le proprietà geometriche di un tale corpo si “appoggiano” a una «sostanza estesa», è esemplificata, secondo Cartesio, dal fatto che è possibile, ad esempio, concepire l’idea di un chiliagono (cioè di un poligono di mille lati) anche senza possederne l’immagine. Questo significa che l’intellezione pura è in grado di distinguere idee (come quella del chiliagono rispetto a quella di un altro poligono con un numero molto elevato di lati) che l’immaginazione non riesce invece a mettere a fuoco:

Idee e immagini, intellezione e immaginazione

Bisogna dunque che ammetta che con l’immaginazione non saprei concepire che cosa sia questa cera, e che non vi è se non il mio intelletto che la concepisca […]. La percezione di essa non è un vedere, né un contatto, né un immaginazione, e non lo è stato mai, nonostante che prima sembrasse così, ma è solamente una visione della mente [solius mentis inspectio], la quale può essere o imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e (Cartesio, Meditazioni metafisiche, II, pp. 211-212) distinta, come è ora1 […]. Una volta ridotta la materia (sensibile) a estensione geometrica (idea innata), la conoscenza del mondo coincide per Cartesio con la costruzione deduttiva della geometria. Il filosofo francese afferma spesso di voler costruire una fisica a priori, che cioè prenda le mosse da alcuni principi primi fondati sull’evidenza della ragione, e non sull’esperienza: ora, poiché il dominio dei corpi materiali coincide con il concetto di estensione, ovvero con la nostra idea di mondo, le leggi che governano quest’ultimo saranno quelle dedotte con rigore dimostrativo da tale nozione prima ed evidente.

Il modello geometrico del sapere

1 Il sapere, per Cartesio, è sempre un “vedere”, cioè un cogliere la presenza delle cose alla mente. Il “prima” e l’“ora” si riferiscono al fatto che, inizialmente, l’io si forma un’idea «confusa» delle cose esterne, condizionata dalle immagini sensibili, mentre in un secondo tempo, platonicamente, vede con chiarezza l’essenza degli oggetti corporei.

491

QUESTIONE

2. | Il modello empirista: Locke Se per Cartesio l’esperienza ha una funzione tutto sommato irrilevante nel processo conoscitivo, per Locke il dato empirico costituisce invece la fonte e il criterio di controllo di ogni conoscenza: è dall’esperienza che la ragione ricava le idee, cioè i contenuti della mente, ed è l’esperienza a segnare il limite oltre il quale non è lecito avventurarsi senza rischiare di realizzare costruzioni illusorie ed erronee. Questo non significa però che Locke riduca il sapere scientifico a pura osservazione empirica. Egli afferma infatti che la scienza esige “oggettività”, cioè universalità e necessità, e che questa non si trova nella semplice raccolta dei dati, bensì nella concatenazione necessaria delle idee, cioè nell’evidenza della ragione.

Tra realismo e mentalismo

Coerentemente con questi assunti di base, Locke afferma che, se la “ricezione” del “materiale” della conoscenza (le «idee semplici») è un’operazione involontaria, su tale materiale l’intelletto esercita invece il proprio libero potere costruttivo, riunendo, organizzando e separando in diversi modi le idee semplici conservate nella memoria. In tal modo, sottolineando a un tempo la passività della mente nella raccolta dei dati empirici e la sua attività combinatoria esercitata su questi stessi dati, Locke oscilla tra l’esigenza del realismo, che impone di collegare qualsiasi contenuto mentale ai dati percettivi dell’esperienza, e la tendenza al mentalismo, per cui la conoscenza concerne «la percezione della concordanza o della discordanza tra le idee». Alla fine del Saggio sull’intelletto umano, di fronte all’alternativa se la verità sia in re, cioè nella corrispondenza tra le idee dell’intelletto e le cose, o in dicto, cioè nella coerenza tra segni (ossia tra le idee espresse dai nomi), Locke si schiera però a favore di questa seconda ipotesi:

QUESTIONE

Il primato dell’esperienza

Mi sembra che la verità, nel significato proprio della parola, non significhi altro che l’unione o la separazione di segni, in quanto le cose da essi designate sono reciprocamente in accordo o in disaccordo fra loro. [...] Così che la verità appartiene propriamente solo alle proposizioni, di cui esistono due tipi: proposizioni mentali e verbali, come vi sono due tipi di segni di cui si fa comunemente uso, ossia le idee e le parole. (J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, IV, V, 2)

ma se la conoscenza concerne unicamente le relazioni tra i segni (concettuali e linguistici), come possiamo stabilire la conformità o meno «delle nostre idee con la realtà delle cose esistenti fuori di noi»? In altri termini, come può l’uomo uscire dal cerchio della propria mente, per attingere la concretezza della realtà extra-mentale? Il fondamento della verità

I limiti dell’empirismo

492

Locke ritiene che, entro certo limiti, possiamo essere certi che alle nostre idee corrispondano delle cose. Dell’esistenza dell’io siamo certi per intuizione (secondo il procedimento cartesiano); la conoscenza di Dio la otteniamo per dimostrazione (in base alle tradizionali prove a posteriori); alla conoscenza delle cose esterne, infine, perveniamo attraverso la sensazione e, in particolare, attraverso la «sensazione attuale», mediante la quale sappiamo che “in quel momento” esiste fuori di noi qualcosa che causa nella nostra mente “quella idea”. Quando invece non si percepisce alcuna qualità sensibile in atto, la certezza dell’esistenza della cosa viene meno: che gli oggetti sussistano anche una volta terminata la percezione che ho di essi, e che esistano cose che io non percepisco è una convinzione “ragionevole”, ma di cui non possiamo essere certi. Questo significa che Locke ammette una conoscenza certa (Knowledge) che può basarsi sull’evidenza intuitiva (del mio io), sulla forza dimostrativa della ragione (che perviene a Dio) e sulla sensazione attuale (che mi informa dell’esistenza degli oggetti che sto percependo men-

tre li sto percependo); ma, accanto a questa, riconosce anche una conoscenza probabile, che non è altro che la conoscenza empirica (ottenuta mediante induzione) delle cose come oggetti stabili e permanenti al di là della mia percezione. Il filosofo inglese, dunque, nonostante la sua fedeltà a un empirismo rigoroso, mostra di comprenderne tutti i limiti. proviamo ad approfondire questo aspetto. In uno dei capitoli conclusivi del Saggio, Locke osserva che l’unico modo per produrre una conoscenza certa sarebbe quello di procurarsi idee «adeguate», cioè perfettamente rispondenti alle essenze degli oggetti che vogliamo conoscere, per poi dedurne con inoppugnabile certezza le proprietà. Nella prospettiva di Locke, però, questo non è possibile perché la scienza naturale assume come punto di partenza non l’evidenza cartesiana delle idee sostanziali, bensì l’esperienza baconiana. Tutto il “materiale” della conoscenza è costituito dalle «idee semplici» fornite dall’esperienza, idee che l’intelletto collega senza sapere se esista davvero un “sistema” di sostanze quali sostrati permanenti delle diverse proprietà delle cose. Ad esempio, non possiamo sapere a priori che l’oro, il quale ci appare giallo, pesante e fusibile, è anche malleabile. Se ne conoscessimo l’«essenza reale», potremmo dedurne le proprietà essenziali e l’ordine con cui esse si connettono tra loro. In assenza di tale conoscenza, possiamo tuttavia individuare le proprietà che entrano a costituire l’idea di quella “cosa” che denominiamo “oro” sulla base di ulteriori osservazioni rispetto a quelle che hanno portato alla determinazione del significato iniziale fissato convenzionalmente mediante il nome generale “oro”. La riflessione gnoseologica ed epistemologica di Locke approda così a un’idea di scienza come «congettura». Solo induttivamente, mediante «osservazioni regolari», sarà possibile conoscere meglio la natura e fare ipotesi più corrette, senza tuttavia poter mai pervenire a una conoscenza della realtà esterna che sia salda come quella matematica.

La scienza come congettura

Locke prefigura in tal modo l’esito scettico di Hume: fondata su generalizzazioni solo probabili, la scienza della natura sacrifica l’universalità e la necessità del modello matematico alla fecondità di un sapere che si accresce per via ipotetica:

Verso Hume

QUESTIONE

La conoscenza si fonda sulla ragione o sull’esperienza?

Questo modo di procurarci e accrescere la nostra conoscenza delle sostanze, sulla base della sola esperienza […], fa sorgere in me il sospetto che la filosofia naturale [cioè la conoscenza della natura] non sia capace di trasformarsi in scienza [cioè in un sapere uni(J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, IV, XII, 11) versale e necessario].

Hai cambiato opinione? Ora che hai ascoltato le ragioni dei filosofi, decidi se intendi rimanere fedele alla tua idea iniziale o se preferisci cambiarla, e indica in sintesi gli argomenti che ti hanno indotto a questa decisione.

VERSO LE COMPETENZE w Saper argomentare una tesi dopo aver ascoltato e valutato le ragioni altrui

493

QUESTIONE

QUESTIONE

Una questione aperta... Quella tra Cartesio e Locke, come abbiamo constatato, non è una vera alternativa, poiché anche l’empirista Locke riconosce la forza conoscitiva della deduzione matematica (che però non può dirci nulla sulle cose) e ammette la fragilità dell’induzione (che approda a un sapere solo probabile). La stessa scienza moderna, del resto, fin dal suo sorgere trova il proprio fondamento nella reciproca implicazione di deduzione e induzione, di ragione ed esperienza, o, per usare il linguaggio di Galilei, nell’intreccio delle «necessarie dimostrazioni» con le «sensate esperienze». Anche Bacone, con una celebre immagine utilizzata nel Nuovo organo, coglie il rapporto che nella scienza unisce empirismo e razionalismo: gli empiristi ingenui («empirici»), simili alle formiche che ammassano il cibo, accumulano induttivamente informazioni e dati senza però elaborarli; al contrario, i razionalisti puri («dogmatici») si possono paragonare ai ragni, in quanto “tessono” deduttivamente le relazioni tra le idee “estraendole” dalla mente senza un confronto con la realtà. Invece lo scienziato moderno, secondo Bacone, non deve né accontentarsi di ciò che osserva, né fidarsi dogmaticamente delle sue idee, pretendendo che corrispondano alla realtà: Coloro che trattarono le scienze furono o empirici o dogmatici. Gli empirici, come le formiche, accumulano e consumano. I razionalisti, come i ragni, ricavano da se medesimi la loro tela. La via di mezzo è quella delle api, che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini o dei campi, e la trasformano e la digeriscono in virtù di una loro propria capacità. Non dissimile è il lavoro della vera filosofia [la scienza sperimentale], che non si deve servire soltanto o principalmente delle forze della mente; la materia prima che essa ricava dalla storia naturale e dagli esperimenti meccanici, non deve esser conservata intatta nella memoria, ma trasformata e lavorata dall’intelletto. Così la nostra speranza è riposta nell’unione sempre più stretta e più salda delle due facoltà, quella sperimentale e quella razionale, unione che non si è finora realizzata. (F. Bacone, Nuovo organo, I, 1, in Scritti filosofici, pp. 607-608)

Indipendentemente dalla scelta di abbracciare l’empirismo o il razionalismo, per la modernità il comune punto di partenza dell’indagine gnoseologica è comunque cartesiano: pensare vuol dire avere idee, il che significa che l’oggetto della conoscenza non sono le “cose”, bensì, appunto, le “idee”, che delle cose sono immagini mentali e soggettive. S’impone così una questione cruciale, che attraverserà l’intera filosofia moderna: se tutto ciò di cui possiamo avere consapevolezza sono le nostre rappresentazioni mentali, allora il mondo reale sarà inconoscibile, o conoscibile solo in modo problematico, attraverso la mediazione dell’idea. In altre parole, il soggettivismo moderno ha in sé il rischio di un esito scettico: una volta messa in dubbio (con Cartesio) la corrispondenza tra le nostre rappresentazioni mentali e la presunta realtà esterna, Locke spezza del tutto il legame tra il piano dell’essere e il piano della conoscenza e del linguaggio, affermando che delle cose non si può cogliere l’essenza oggettiva, ma solo una collezione di qualità unificate sotto un segno arbitrario e soggettivo (il «nome», o l’«idea generale»). È aperta la via verso lo scetticismo gnoseologico radicale di Hume, il quale negherà qualsiasi possibilità di mettere in relazione le nostre rappresentazioni mentali soggettive con un presunto mondo reale oggettivo. Per assistere alla “liberazione” della filosofia dallo scetticismo e per ritornare a scorgere nel soggetto non la ragione del relativismo, ma l’unica garanzia possibile di una conoscenza oggettiva, bisognerà attendere le riflessioni di Immanuel Kant, con il quale l’io, conferendo oggettività ai dati sensoriali mediante le sue «forme pure», sarà la fonte delle stesse condizioni di possibilità di una conoscenza universale e necessaria.

494

INDICE DELLE VOCI DEI GLOSSARI A Abitudine Affetti Affetti primari Affetti secondari Ambiguità del fideismo pascaliano Amore intellettuale di Dio Analisi Anti-atomismo Antifinalismo Apologetica Appercezione Armonia prestabilita Assolutismo Attributi Autosufficienza e incomunicabilità delle monadi

462 294 294 294 253 296 194 320 280 251 327 328 387 279 327

B Bene e il male (il) Bene e male

294 376

C Caduta Caratteristica universale Causa delle idee Causalità immanente Cogito Conoscenza Conoscenza dimostrativa Conoscenza di primo genere Conoscenza di secondo genere Conoscenza di terzo genere Conoscenza intuitiva Conoscenza probabile Conoscenza umana e conoscenza divina Cose esistenti al di fuori delle idee Credenza

252 319 451 279 195 419 419 295 295 296 419 419 138 419 463

Critica dell’innatismo Cuore

418 251

D Desiderio frustrato Determinismo Dimostrazioni dell’esistenza di Dio Dio Diritto di tutti su tutto Discriminazione degli affetti Divertissement Dogmatismo o scetticismo Dualismo cartesiano Dubbio iperbolico Dubbio metodico

252 295 251 279, 451 386 294 251 252 195 195 195

E Egoismo naturale Emozioni Empirismo inglese Enumerazione e revisione Errore Esistenza delle cose Esistenza dell’io Esistenza di Dio Esperienza e verifica Esprit de géométrie ed esprit de finesse Esse est percipi Evidenza

386 196 417 195 195 419 419 419 138 251 450 194

F Fede 296 Filosofia 194, 278 Filosofia, meta-filosofia e cristianesimo 252 Fisica 196 Forma 157 Formiche, ragni e api 157 Forza 320

G Generi della conoscenza Geometrismo morale Geometrismo politico Giansenismo Gradi di perfezione delle monadi Guerra di tutti contro tutti Gusto

295 294 386 253 327 386 469

I Idea Idea di Dio Idee astratte Idee complesse Idee di riflessione Idee di sensazione Idee generali Idee semplici Identità degli indiscernibili Idòla Immaginazione Immaterialismo spiritualistico Impressioni e idee Indagine critica Induzione Induzione e deduzione Innatismo sui generis Innatismo totale Istanza cruciale Istanze prerogative

195, 418 195 462 418 418 418 419 418 327 156 462 450 462 418 156 138 328 328 156 156

L Legge della continuità Legge naturale Leggi di natura Letizia Leviatano Liberalismo

320 386 451 294 387 424

495

Indice delle voci dei Glossari

Libertà Libertà e necessità in Dio Libertà umana Limite della scienza Limiti all’azione dello Stato Linguaggio

376 279 295, 331 251 388 376

M Materialismo Materia prima Materia seconda Materie di fatto Meccanicismo Metodo Metodo della scienza (il) Migliore di tutti i mondi possibili (il) Miseria e grandezza Modi Monade Monarchia Mondo esterno Morale Morale provvisoria Moralità e socialità

376 328 328 463 196 194 138 319 252 279, 418 326 388 463 468 196 295

N Naturalità dell’uomo 293 Natura naturante 279 Natura naturata 279 Necessarie dimostrazioni 138 Nihil est in intellectu, quod non fuerit in sensu, excipe: nisi ipse intellectus 328 Nominalismo 450 Norme fondamentali della legge naturale 387

O Ordine del mondo Ordine geometrico dell’universo

496

319 280

P Pactum unionis e pactum subiectionis Panteismo Paradossalità Parallelismo psico-fisico Passioni Percezione e appetizione Percezioni Piccole percezioni Posizione mediana Postulati certissimi Principio di associazione Principio di ragion sufficiente Principi pratici Proprietà di base della sostanza Proprietà oggettive e soggettive Prove dell’esistenza di Dio

S 388 279 252 280 294 327 462 327 252 386 462 319 252 279 138 331

Q Qualità originarie o primarie Qualità primarie e qualità secondarie Qualità secondarie

418 450 418

R Ragionamento Ragione Ragione ed emozione “Ragionevolezza” del cristianesimo Ragionevolezza del cristianesimo Rapporto causa-effetto Rapporto tra la Sostanza e i modi Rappresentazione Relazioni Relazioni tra idee Religione

376 376, 418 295 253 424 463 280 327 418 463 469

Saggezza Sapere è potere Schiavitù umana Scienza della natura umana Scienza e fede Scire per causas Scommessa Sensata esperienza Senso della vita Sforzo (conatus) di autoconservazione Sintesi Sostanza Sostanza individuale Sostanze Spazio e tempo Specchio vivente dell’universo Stato Stato di natura Stato o società civile Struttura matematica del cosmo Substrato

196 156 295 462 138 376 253 138 251 294 194 278 320 418 320 327 296 386 387 138 450

T Tavole Teodicea Tipi di idee Tolleranza Tristezza

156 331 195 424 294

U Unità e identità dell’io

463

V Verità di fatto Verità di ragione Virtù Vous abêtira

319 319 295 253

INDICE DEI NOMI Il neretto indica le pagine in cui l’autore è trattato analiticamente e la relativa sezione antologica; il corsivo segnala la trattazione nelle rubriche.

A Achillini Alessandro, 34 Agostino, 19, 20, 37, 42, 45, 51, 75, 76, 181, 216, 217, 233, 236, 237, 266, 267 Alberto di Sassonia, 95 Alessandro di Afrodisia, 27, 39 Alfonso X di Castiglia, 102 Althusius Johannes, 60, 61 Anfossi Filippo, 135 Anna Stuart d’Inghilterra, 401 Anselmo d’Aosta, 225, 329, 331 Archimede, 96, 111, 206, 402 Aristotele, 14, 21, 26, 27, 28, 29, 30, 32, 33, 34, 35, 39, 40, 47, 67, 71, 92, 98, 100, 101, 109, 115, 117, 118, 121, 140, 144, 145, 151, 152, 154, 161, 215, 225, 227, 228, 229, 370, 382, 407, 417 Arnauld Antoine, 181, 184, 216, 217-218, 233, 234, 253, 336, 351 Ashley Anthony Cooper (v. Shaftesbury Anthony Ashley Cooper conte di) Avery Oswald Theodore, 141 Averroè, 27, 28, 71 Ayer Alfred Jules, 473

B Bacone Francesco (Bacon Francis), 18, 96, 122, 148-161, 168, 169-170, 171, 200, 201, 385, 407, 453, 462, 494 Bacone Nicola (Bacon Nicholas, padre di Francis), 148 Bacone Ruggero (Bacon Roger), 407 Banfi Antonio, 231 Barbaro Ermolao, 32 Barberini Maffeo cardinale (v. Urbano VIII papa) Barghini Carlo, 188 Barrow Isaac, 400, 402 Barth Karl, 368 Bausola Adriano, 253 Bayle Pierre, 220, 313, 331, 349, 356-357, 358, 359, 360, 361 Bellarmino Roberto cardinale, 48, 111, 114, 129, 131, 132, 134, 142 Benedetto XIV papa, 135 Benedetto XVI papa, 136, 137 Benso Silvia, 166

Berkeley George, 341, 407, 408, 413, 431, 444-451, 455, 456, 462, 471, 472 Berti Enrico, 388 Bertone Tarcisio cardinale, 137 Bessarione Basilio, 29 Blumenberg Hans, 141 Bobbio Norberto, 377, 382, 385, 391, 424 Bodei Remo, 310, 487 Bodin Jean, 59-60 Böhme Jakob, 47 Bologna Ferdinando, 147 Bombast von Hohenheim Philipp Theophrast (Paracelso), 64-65 Borelli Giovanni Alfonso, 402 Borges Jorge Luis, 348, 349 Bosschaert Johannes, 310 Botero Giovanni, 58 Boyle Robert, 412 Boyneburg Philipp Wilhelm von, 312 Brahe Tycho, 103, 104, 108, 143 Bramhall John vescovo, 370, 373, 375 Brecht Bertolt, 164, 165 Brueghel Jan (il Vecchio), 310 Bruni Leonardo, 21, 22, 26 Bruno Giordano, 9, 15, 16, 41, 66, 67, 68-74, 75, 81-82, 100, 104, 105, 106, 107, 108, 109, 118, 132, 152, 168-169, 171, 227-229, 275, 280, 290, 326 Burckhardt Jacob, 9, 10, 17 Burdach Konrad, 10, 18 Burghi Giancarlo, 181, 183, 267, 281 Buridano Giovanni, 95 Butler Joseph, 453

C Caccini Tommaso, 131 Calamandrei Piero, 427 Calvino Giovanni (Calvin Jean), 46-47, 236 Campanella Tommaso, 9, 16, 66, 67, 75-78, 127, 132, 181, 220 Capra Fritjof, 171 Caravaggio Michelangelo Merisi da, 146-147 Carcavy Pietro, 125, 126 Cardano Gerolamo, 65 Carlo Felice di Savoia, 166 Carlo I d’Inghilterra, 409

Carlo II d’Inghilterra, 410 Cartesio (v. Descartes René) Cassirer Ernst, 17, 129 Castelli Benedetto, 114, 131 Catelan Francois de, 338 Caterina d’Aragona, 59 Cavalieri Bonaventura, 402 Cavendish William, 392 Cesarini Virginio, 145 Chalmers Alan F., 488 Chanut Pierre, 229 Ciancio Claudio, 251 Cicerone (Marco Tullio), 19, 21 Cinti Federico, 51 Clarke Samuel, 476 Clavio Cristoforo, 118, 130 Colombo Cristoforo, 76 Copernico Niccolò (Kopernik Mikołaj), 30, 66, 70, 91, 96, 98, 100, 101-103, 104, 107, 108, 111, 118, 119, 131, 132, 142, 143, 227, 400, 402 Cornelio Agrippa di Nettesheim, 64 Cortese Roberto, 422 Cosimo de’ Medici, 26 Costantino (Flavio Valerio), 22 Cristina di Lorena, 114, 122, 134 Cristina di Svezia, 176, 229 Cristo (v. Gesù di Nazareth) Croce Benedetto, 427 Cudworth Masham Damaris, 410 Cudworth Ralph, 218, 410 Cusano Niccolò (Nikolaus Chrypffs), 29-31, 32, 33, 37-39, 41, 73, 105, 106, 107, 118, 225-227, 229, 326, 372 Cyrano de Bergerac Hector-Savinien, 220

D D’Alembert Jean-Baptiste Le Rond, 338 Damasio Antonio, 223, 224 Dante Alighieri, 19, 21, 111 Darwin Charles Robert, 141 Davis Philippe J., 199 Del Monte Francesco Maria, 146 Democrito, 96, 105, 107, 145, 187, 211 De Santillana Giorgio, 131 Descartes René, 24, 67, 76, 99, 105, 116, 175-212, 213, 214, 215, 223, 224, 229-230, 231, 233, 238,

497

Indice dei nomi

260, 263, 266, 268, 271, 274, 275, 276, 277, 294, 298, 299, 302, 305, 307, 316, 317, 322, 327, 329, 337, 338, 350-351, 352, 353, 354, 364-365, 367, 368, 370, 374, 393, 394, 401, 402, 404, 407, 409, 410, 411, 412, 461, 480, 490-491, 492, 494 De Vries Simone, 263 Digges Thomas, 105 Dilthey Wilhelm, 17 Dini Piero monsignore, 114 Diodati Élie, 220 Diodato Roberto, 311 Duns Scoto Giovanni, 32

E Eckhart Johannes (detto Maestro Eckhart), 47 Einstein Albert, 109, 116, 120, 122, 349, 400 Elisabetta del Palatinato, 176, 193 Elisabetta di York, 59, 69, 148, 159 Enrico III di Valois, 69 Enrico VII d’Inghilterra, 150 Enrico VIII d’Inghilterra, 59 Epicuro, 219, 356 Eraclide Pontico, 102, 103 Eraclito di Efeso, 161 Erasmo da Rotterdam (Geert Geertsz), 23, 42-44, 45, 50-51, 52-53, 54, 88, 89 Erone di Alessandria, 96 Euclide matematico, 214, 267, 298, 309, 392, 457

F Fermat Pierre de, 402 Feuerbach Ludwig Andreas, 12 Feyerabend Paul Karl, 136 Ficino Marsilio, 7, 26, 27, 31-32, 33, 41, 218 Filippo II di Spagna, 171 Filmer Robert, 420 Fizeau Armand-Hippolyte-Louis, 404 Flegel Georg, 310 Flora Ferdinando, 142 Fornero Giovanni, 267 Foscarini Paolo Antonio, 114, 134 Foucault Léon, 404 Fracastoro Girolamo, 65 Francesco d’Assisi (santo), 18, 56 Freud Sigmund, 141

G Galilei Galileo, 16, 18, 30, 66, 67, 91, 92, 93, 95, 96, 98, 100, 103, 108, 111-145, 146, 148, 155, 164, 165, 176, 187, 188, 191, 199, 200, 211, 227, 274, 275, 276, 370, 400, 401, 402, 403, 404, 412, 490, 494

498

Galilei Virginia (suor Maria Celeste), 112 Garin Eugenio, 10, 12, 18 Garrone Gabriel-Marie cardinale, 133 Gassendi Pierre, 182, 185, 206, 214, 215, 218-219, 220, 230, 317, 370, 409 Gemisto Pletone Giorgio, 29 Gentili Alberico, 60 Gesù di Nazareth, 41, 43, 44, 46, 48, 50, 51, 56, 74, 89, 147, 234, 253, 367, 437 Geulincx Arnold, 215, 216 Geymonat Ludovico, 116, 125, 143 Giacomo I Stuart, 148, 159, 171 Giacomo II Stuart, 410, 437 Giansenio Cornelio, 233, 234, 235, 250, 253, 368 Gilbert William, 151, 152, 161 Gioacchino da Fiore, 18 Giovanni evangelista, 8 Giovanni Federico di Lüneburg duca di Hannover, 312 Giovanni Paolo II papa, 130, 133, 134, 135, 137 Giulio II papa, 42, 88, 89 Goethe Johann Wolfgang von, 168 Goldmann Lucien, 260, 368 Gracián y Morales Baltasar, 48 Grassi Orazio, 112, 142, 143 Grozio Ugo (Huig van Groot), 16, 60-61, 377, 379, 380 Guglielmo III d’Orange, 410 Guicciardini Francesco, 48, 57 Guiducci Mario, 142, 143 Guzzo Augusto, 271, 273

H Halifax Charles Montagu conte di, 401 Hall Alfred Rupert, 91 Halley Edmund, 401 Harvey William, 192 Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 349, 407 Herbert di Cherbury Edward, 218 Hersch Reuben, 199 Hobbes Thomas, 182, 205, 214, 215, 264, 275, 277, 291, 370-399, 409, 410, 420, 421, 422, 443, 468, 487 Hume David, 407, 408, 413, 417, 431, 452-481, 493, 494 Husserl Edmund, 143 Huygens Christiaan, 117, 401, 402, 403, 404

I Iceta di Siracusa, 102 Innocenzo X papa, 234, 253 Isaia profeta, 367

J Jaquelot Isaac, 331

K Kant Immanuel, 109, 185, 326, 355, 361, 400, 413, 418, 453, 457, 466, 480, 494 Keplero Giovanni (Kepler Johannes), 30, 66, 100, 103-104, 105, 108, 111, 140, 155, 228, 403, 404 Knox Ronald, 451 Koyré Alexandre, 100, 105, 106, 107, 108, 116, 143, 196, 225, 227, 228, 341 Kristeller Paul Oskar, 10, 27, 28

L Lady Masham (v. Cudworth Masham Damaris) La Hyre Laurent de, 260-261 La Mothe Le Vayer François de, 220 Laplace Pierre-Simon de, 403 La Tour Georges de, 261 Le Bovier de Fontenelle Bernard, 108, 220 Leibniz Gottfried Wilhelm von, 175, 214, 312-344, 351-353, 354-355, 356, 357-359, 359-360, 402, 407, 457 Leonardo da Vinci, 31, 66, 95, 96, 118, 155, 404 Leto Giulio Pomponio, 7 Lévinas Emmanuel, 230, 231 L’Hôpital Guillaume-François-Antoine de, 338 Liceti Fortunio, 143 Limborch Philippus van, 437 Locke John, 128, 138, 145, 215, 217, 218, 220, 313, 316, 322, 325, 327, 400, 407-439, 443, 444, 445, 446, 450, 452, 455, 456, 468, 470, 471, 472, 473, 490, 492-493, 494 Lorenzetti Ambrogio, 440-443 Lorenzo de’ Medici (detto il Magnifico), 13 Lorini Niccolò, 131 Lovejoy Arthur Oncken, 105, 106 Lucrezio, 105, 106, 107, 145 Luigi XIII di Francia, 75 Luigi XIV di Francia, 312 Lullo Raimondo, 201 Lutero Martin, 9, 16, 43, 44-45, 47, 52, 53-54, 236, 363, 368

M Machiavelli Niccolò, 9, 16, 55-57, 58 Maestro Eckhart (v. Eckhart Johannes) Mairan Jean-Jacques Dortous de, 216 Malebranche Nicolas de, 216-217, 218, 338, 355, 410, 444

Indice dei nomi

Manetti Giannozzo, 12 Maria II Stuart d’Inghilterra, 410 Marx Karl, 12 Masham Francis, 410 Mathieu Vittorio, 338, 341 Melantone Filippo (v. Schwarzerd Philipp) Mersenne Marin, 176, 350, 351, 370 Mesland Denis, 351 Michelangelo Buonarroti, 88 Mocenigo Giovanni, 69 Molina Luis de, 48, 234, 236, 253 Montaigne Michel Eyquem de, 23-24, 177, 244, 246, 256 Mordente Fabrizio, 70 More Henry, 108, 218 Moro Tommaso (More Thomas), 59, 149, 218

N Nadler Steven, 355 Naudé Gabriel, 220 Newton Isaac, 91, 97, 117, 122, 134, 191, 192, 220, 312, 332, 400-405, 408, 409 Nicola di Oresme, 95 Nicole Pierre, 217 Nietzsche Friedrich Wilhelm, 12 Nifo Agostino, 34

O Ockham Guglielmo di, 30, 44, 95, 118, 407, 414, 445, 456 Olivieri Maurizio, 135 Osiander Andreas, 102, 103, 129 Owen John, 409

P Pagano Sergio monsignore, 137 Palingenio Stellato Marcello, 105 Palissy Bernard, 98 Paolo di Tarso, 8, 44 Paolo V papa, 131 Paolo VI papa, 363 Papin Denis, 338 Paracelso (v. Bombast von Hohenheim Philipp Theophrast) Pascal Blaise, 24, 190, 208, 217, 231, 233-261, 274, 364, 365-367, 368 Pascal Jacqueline, 233 Passmore John, 167 Petrarca Francesco, 19-20, 26 Petronio Giuseppe, 12 Picard Jean, 403

Pico della Mirandola Giovanni, 11, 12, 32-34, 41, 64, 71, 246 Pio VII papa, 135 Pio XII papa, 134 Pitagora, 33, 152 Platone, 14, 21, 26, 29, 31, 32, 33, 40, 41, 47, 71, 78, 141, 143, 152, 186, 225, 343, 350, 352, 357, 358, 359 Plotino, 26, 31, 32, 73, 225 Pomponazzi Pietro, 34-36, 39-40 Pontano Giovanni, 7 Poupard Paul cardinale, 133, 135 Prezzolini Giuseppe, 362, 363

R Raffaello Sanzio, 88 Ratzinger Joseph cardinale (v. Benedetto XVI papa) Ravasi Gianfranco monsignore, 137 Redondi Pietro, 131 Reefsen Jakob, 193 Regius Henricus (v. Roy Hendrik van) Revius Jacobus (v. Reefsen Jakob) Riccardi Niccolò, 132 Ricci Ostilio, 111 Römer Olaf, 404 Ronchi Vasco, 121 Rossi Paolo, 196 Rousseau Jean-Jacques, 60, 378, 452 Roy Hendrik van, 214 Russell Bertrand Arthur William, 451, 474, 488 Russo Luigi, 6 Ryle Gilbert, 223

S Saint Clair James, 452 Saint-Cyran Jean Duvergier de Hauranne abate di, 233 Salutati Coluccio, 13, 20-21 Sánchez de Toca Melchor monsignore, 137 Sartre Jean-Paul, 12 Scheiner Cristoforo, 118, 119, 130 Schelling Friedrich Wilhelm Joseph, 168, 270, 273 Schroeder Brian, 166 Schwarzerd Philipp, 47 Serini Paolo, 255, 259 Serveto Michele, 47 Settele Giuseppe, 135 Shaftesbury Anthony Ashley Cooper conte di, 410, 437, 453 Singer Peter, 171 Snell van Royen Willebrord (Snellio), 402

Socini Fausto, 47 Socini Lelio, 47 Socrate, 20, 38, 39, 350, 355 Spinoza Baruch, 15, 175, 214, 216, 223, 231, 233, 262-311, 312, 313, 316, 319, 322, 348, 349, 353-354, 360-361, 385, 393, 407 Stillingfleet Edward, 410, 433 Suárez Francisco, 48

T Tartaglia Niccolò, 111 Tasso Torquato, 111 Telesio Bernardino, 7, 9, 16, 64, 66-67, 68, 70, 75, 80-81, 96 Tito Livio, 56 Tolomeo Claudio, 100, 103, 109, 143 Tolomeo Leonico, 34 Tommaso apostolo, 146, 147 Tommaso d’Aquino, 26, 27, 32, 35, 39, 40, 51, 61, 98, 225, 236, 249, 329, 331, 342, 350 Torricelli Evangelista, 117 Trapezunzio Giorgio, 29

U Urbano VIII papa, 112, 119, 129, 132, 142, 145 Usener Hermann, 356

V Valla Lorenzo, 21-22 Van Dyck Floris, 310 Vermeer Jan, 311 Vernia Nicoletto, 34 Veronese Guarino, 7 Verrecchia Anacleto, 171 Vico Giambattista, 372 Vittorio Emanuele II di Savoia, 166 Vittorio Emanuele III di Savoia, 167 Voigt Georg, 9, 10 Voltaire (pseudonimo di François-Marie Arouet), 358, 359, 402, 408

W Wallis John, 402, 404 William Wollaston, 476 Wojtyla Karol (v. Giovanni Paolo II papa)

Z Zaghi Silvio, 462, 471 Zichichi Antonino, 137 Zoroastro (Zarathustra), 356 Zwingli Huldrych, 46

499

REFERENZE BIBLIOGRAFICHE DEI TESTI CITATI NELLE RUBRICHE Bacone Francesco ◗ Nuova Atlantide, a cura di G. Schiavone, Rizzoli, Milano 2009 ◗ Nuovo Organo, in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, utet, Torino 1975 ◗ Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scienza operativa, in Opere filosofiche, trad. it. di E. De Mas, Laterza, Roma-Bari 1965, vol. 1

Bayle Pierre ◗ Dizionario storico-critico, a cura di G.P. Brega, Feltrinelli, Milano 1957

Blumenberg Hans ◗ La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, trad. it. di B. Argenton, Il Mulino, Bologna 1984

Bobbio Norberto ◗ Sul fondamento dei diritti dell’uomo, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1965, XLII, 2

Bodei Remo ◗ Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003

Bologna Ferdinando ◗ L’incredulità del Caravaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1992

Bruno Giordano ◗ Cabala del cavallo pegaseo, in Dialoghi italiani, a cura di G. Aquilecchia, Sansoni, Firenze 1985, vol. 2 ◗ De la causa, principio e uno, in Dialoghi italiani, cit., vol. 1 ◗ De l’infinito universo e mondi, in Dialoghi italiani, cit., vol. 1

Capra Fritjof ◗ Il punto di svolta, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1982

Cusano Niccolò ◗ La dotta ignoranza, in Opere filosofiche, a cura di G. Federici Vescovili, utet, Torino 1972

Davis Philippe J. - Hersch Reuben ◗ Il sogno di Cartesio. Il mondo secondo la matematica, trad. it. di P. Pagli, Edizioni di Comunità, Milano 1988

500

Descartes René ◗ Lettera ad Arnauld, in Tutte le lettere. 1619-1650, a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Milano 2005 ◗ Lettera a Chanut, in Tutte le lettere. 1619-1650, cit. ◗ Lettera a Mersenne, in Tutte le lettere. 1619-1650, cit. ◗ Lettera a Mesland, in Tutte le lettere. 1619-1650, cit. ◗ Meditazioni metafisiche, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1967, vol. 1

Diodato Roberto ◗ Vermeer, Góngora, Spinoza. L’estetica come scienza intuitiva, Bruno Mondadori, Milano 2007

Erasmo da Rotterdam ◗ Il lamento della pace, a cura di F. Cinti, Rizzoli, Milano 2005 ◗ Sei saggi politici in forma di proverbi, a cura di S. Seidel Menchi, Einaudi, Torino 1980

Freud Sigmund ◗ L’interpretazione dei sogni, trad. it. di E. Fachinelli e H. Trettl, Bollati Boringhieri, Torino 1973

Galilei Galileo ◗ Lettera a Keplero del 19 agosto 1610, in Opere, Barbera, Firenze 1968, vol. 10 ◗ Il Saggiatore, Einaudi, Torino 1977

Goldmann Lucien ◗ Il dio nascosto, trad. it. L. Amodio e F. Fortini, Laterza, Roma-Bari 1971

Hobbes Thomas ◗ Elementi filosofici sul cittadino, in Opere politiche, a cura di N. Bobbio, utet, Torino 1988 ◗ Leviatano, trad. it. di A. Lupoli, M.V. Predaval e R. Rebecchi, Laterza, Roma-Bari 2003

Leibniz Gottfried Wilhelm ◗ Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, utet, Torino 2000, vol. 1 ◗ Opera omnia, a cura di L. Dutens, De Tournes, Genève 1768 ◗ Professione di fede di un filosofo, in Dialoghi filosofici e scientifici, a cura di F. Piro, Bompiani, Milano 2007

◗ Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, in Scritti filosofici, cit., vol. 3 ◗ Scritti di logica, a cura di F. Barone, Zanichelli, Bologna 1968 ◗ Textes inédits, a cura di G. Grua, Puf, Paris 1948, cit. in S. Nadler, Il migliore dei mondi possibili, trad. it. di F. Piro, inaudi, Torino 2009

Pascal Blaise ◗ Pensieri, a cura di G. Auletta, Mondadori, Milano 1994 ◗ Pensieri, a cura di P. Serini, Mondadori, Milano 1978

Prezzolini Giuseppe ◗ Dio è un rischio, Rusconi, Milano 1979

Schroeder Brian - Benso Silvia

Lévinas Emmanuel ◗ Totalità e infinito, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980

◗ Pensare ambientalista. Tra filosofia ed ecologia, Paravia, Torino 2000

Spinoza Baruch

Locke John ◗ Lettera sulla tolleranza, in Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, utet, Torino 2005 ◗ Saggio sull’intelletto umano, trad. it. di V. Cicero e M.G. D’Amico,

◗ Epistolario, a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1974 ◗ Etica, trad. it. di G. Durante, Sansoni, Firenze 1984

Usener Hermann ◗ Epicurea, a cura di L. Massa Positano, cedam, Padova 1969

Bompiani, Milano 2004

INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI p. 2

Andrea Palladio, Villa La Rotonda, 1566-1570, Vicenza

p. 4

Vittore Carpaccio, Storie di Sant’Orsola: incontro dei fidanzati e partenza dei pellegrini, 1498, olio su tela, part., Venezia, Gallerie dell’Accademia

p. 90

Andreas Cellarius, Astronomi che guardano il cielo con un telescopio, part. da Atlas celesti seu harmonia macrocosmica di Andreas Cellarius, Amsterdam, 1660-1661

p. 172 Place des Vosges, 1605-1612, Parigi p. 174 Henri Testelin, Jean-Baptiste Colbert presenta l’Accademia Reale delle Scienze a Luigi XIV, 1667 ca., olio su tela, part., Versailles, Château de Versailles p. 232 Jan Davidsz de Heem, Natura morta, 1640, olio su tavola, collezione privata p. 369 La banchina del porto sul canale di Bristol, XVIII sec., stampa

REFERENZE FOTOGRAFICHE Archivio Iconografico Pearson Italia Archiv für Kunst und Geschichte, Berlino The Bridgeman Art Library The Bridgeman Art Library/Archivi Alinari Contrasto Araldo De Luca Andrew Dunn Fotolia

The Granger Collection, New York iStockphoto Lessing Photo Archive/Contrasto Marka The Metropolitan Museum of Art/Art Resource/ Scala, Firenze Museum of Fine Arts, Boston Collezione Conte Pontalto

Foto Scala, Firenze Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin Foto Scala, Firenze/Heritage Images Kurt Vinion/Stringer/Getty Images White Images/Scala, Firenze

Si ringrazia: 20th Century Fox

501

Coordinamento redazionale: Elisa Bruno Redazione: Elisa Bruno, Cristina Bertola, Luisa Gallo Progetto grafico e copertina: Sunrise Advertising, Torino Coordinamento grafico: Elena Petruccelli Ricerca iconografica: Chiara Simonetti, Paola Barbieri Impaginazione elettronica: Essegi, Torino Controllo qualità: Andrea Mensio Segreteria di redazione: Enza Menel Sono in tutto o in buona parte di Giovanni Fornero il cap. 1 dell’unità 1, i capp. 1 e 2 dell’unità 2; i capp. 1 e 2 dell’unità 4. Sono in tutto o in buona parte di Nicola Abbagnano, con revisione di Giovanni Fornero, i capp. 2, 3, 4 e 5 dell’unità 1; il cap. 3 dell’unità 2; il cap. 2 dell’unità 3; il cap. 3 dell’unità 4; i capp. 1, 3, 4 e 5 dell’unità 5. È di Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Giancarlo Burghi e Carlo Barghini il cap. 1 dell’unità 3. È di Nicola Abbagnano il cap. 2 dell’unità 5. Per il cap. 2 dell’unità 4 ha collaborato Giancarlo Burghi. Le presentazioni della vita e delle opere dei filosofi sono in gran parte di Nicola Abbagnano. I riepiloghi visivi e i glossari sono di Giovanni Fornero. Giancarlo Burghi ha curato: - le Tavole rotonde; - le Questioni; - le rubriche “Echi del pensiero”: Le ragioni della pace, Locke e il principio della laicità dello Stato ; - le rubriche “Il concetto e l’immagine”: Caravaggio e la rivoluzione scientifica, Il “Dio nascosto” di Pascal nella pittura del Seicento, Spinoza nella pittura seicentesca, Lorenzetti e l’“architettura” del bene comune ; - le pagine di inquadramento storico-geografico “I tempi e i luoghi della filosofia”; - i quadri cronologici relativi alla vita di Bruno, Galilei, Descartes, Pascal, Spinoza, Leibniz, Hobbes, Locke, Hume; - le rubriche “Laboratorio delle idee” che chiudono le Verifiche di fine unità. Gaetano Chiurazzi ha curato: - le rubriche “Echi del pensiero”: L’idea galileiana del mondo come libro, Dal reale al virtuale, Legge e giustizia.

Tutti i diritti riservati © 2015, Pearson Italia, Milano - Torino

978 88 395 22313 A Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org

Stampato per conto della casa editrice presso Grafica Veneta, Trebaseleghe (PD), Italia Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8

Anno 15 16 17 18 19 20