Comunità di ricerca filosofica e formazione. Pratiche di coltivazione del pensiero

Gli autori di questo volume affrontano la domanda "Che cos'è una comunità di ricerca filosofica?''.

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Comunità di ricerca filosofica e formazione. Pratiche di coltivazione del pensiero

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Impariamo a pensare Collana diretta da A. Cosentino, M. Santi, M. Striano

Antonio Cosentino, Stefano Oliverio

Comunità di ricerca filosofica e formazione Pratiche di coltivazione del pensiero

Liguori Editore

Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore (http://www.liguori.it/areadownload/LeggeDirittoAutore.pdf). Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla citazione, alla riproduzione in qualsiasi forma, all’uso delle illustrazioni, delle tabelle e del materiale software a corredo, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla registrazione analogica o digitale, alla pubblicazione e diffusione attraverso la rete Internet sono riservati. La riproduzione di questa opera, anche se parziale o in copia digitale, fatte salve le eccezioni di legge, è vietata senza l’autorizzazione scritta dell’Editore. Liguori Editore Via Posillipo 394 - I 80123 Napoli NA http://www.liguori.it/ © 2011 by Liguori Editore, S.r.l. Tutti i diritti sono riservati Prima edizione italiana Dicembre 2011 Cosentino, Antonio : Comunità di ricerca filosofica e formazione. Pratiche di coltivazione del pensiero/Antonio Cosentino, Stefano Oliverio Impariamo a pensare (Philosophy for Children) Napoli : Liguori, 2011 ISBN-13  978 - 88 - 207 - 5522 - 5 1. Pratica filosofica  2. Educazione del pensiero, Philosophy for Childeren I. Titolo  II. Collana  III. Serie Aggiornamenti: ————————————————————————————————————— 18 17 16 15 14 13 12 11 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

Indice

Introduzione

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PARTE PRIMA La comunità di ricerca filosofica come istanza etica Premessa: Pratica filosofica e comunità

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Capitolo I: Comunità 1. Gemeinschaft e Gesellschaft 2. Comunità come con-essere 3. Pratica e comunità di pratica

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Capitolo II: La comunità di ricerca 1. La “comunità di ricerca”: origine e senso 2. L’organizzazione che apprende 3. Il paradosso della pratica riflessiva

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Capitolo III: Comunità di ricerca filosofica 1. Filosofia come pratica sociale 2. Il setting della CdRF 3. Philosophy for children e Philosophy for community

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Bibliografia

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PARTE SECONDA La comunità di ricerca filosofica come istanza educativo-politica Premessa: La ricostruzione pedagogica della civitas. Lipman tra Platone e Dewey 119 Capitolo I: Il con-filosofare educante di Socrate e l’Accademia come Bund filosofico-educativo 1. La dinamica erotico-educativa della ricerca filosofica “sulla strada per la piazza” 129 2. L’Accademia come Bund del con-filosofare 164

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Capitolo II: La comunità di ricerca come progetto politicoeducativo in John Dewey 1. Il misreading deweyano di Platone: la community of inquiry come spazio della educazione democratica 189 2. L’educabilità del pensiero oltre la ‘coibentazione’ epistemologica della modernità 216 Capitolo III: Un modo socratico di andare oltre Dewey: la comunità di ricerca filosofica di Matthew Lipman 1. Tra Socrate e Peirce: la comunità di ricerca filosofica come dispositivo educativo-politico 259 2. Indagine (filosofica) come vita sociale 286 Bibliografia

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Introduzione

Gli autori di questo lavoro si sono trovati a condividere una domanda, una domanda che ha preso forma a partire da una pratica condivisa, la pratica del confilosofare in quella “comunità di ricerca” che costituisce la cifra di tutto il progetto conosciuto con la denominazione di Philosophy for children (P4C). L’emergere della domanda e il suo assillo ha fatto da campanello di allarme per il pensiero riflessivo, quel genere di attività che la P4C pone al primo posto nella sua agenda e nell’ordine delle sue finalità. È questo che vuole essere questo lavoro: una prova di riflessività che, in quanto tale, è orientata a ri-pensare il piano e gli oggetti dell’esperienza e dell’agire; a ripensarla, ora, in una pratica di costruzione di senso, di orientamento rispetto a una cornice – da cercare ma anche da costruire – e rispetto a coordinate che aiutino a indicare un posizionamento riconoscibile. Siamo ben consapevoli che la riflessione sulla pratica non sostituisce la pratica in questione, ma, anzi, in un certo senso, la tradisce e, nello stesso tempo, la traduce nelle diverse operazioni che sono il contenuto di questo libro. Ma veniamo alla domanda. Essa si presenta con tutti gli attributi più classici della domanda filosofica: Che cos’è una comunità di ricerca filosofica (CdRF)? Il “che cos’è?” (tì estí) evoca, infatti, la ricerca di un universale, di un’essenza, di un’invariante da isolare e descrivere a fronte della contingenza del molteplice, di una classe a cui ricondurre, con una definizione, la serie dei casi particolari. Ora, se la domanda l’avessimo intesa in questi termini, dovremmo dichiarare il fallimento della nostra impresa. In realtà, noi non la abbiamo intesa in questo senso. Alla luce del nostro tentativo di risposta, si potrebbe qualificare la prospettiva

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adottata per certi versi come ricerca di “somiglianze di famiglia” e, per altri, come scavo genealogico. Resta il fatto che la comunità di ricerca filosofica, nella forma e nelle specifiche modalità di base che provengono dalla pratica della P4C, rappresenta una qualche forma di atopìa, che lascia irrisolto un margine di inclassificabilità rispetto ai generi già definiti e conferma, nello stesso tempo, il suo carattere di sfida e, pertanto, di utopìa. D’altra parte è abbastanza evidente come lo stesso costrutto linguistico di comunità di ricerca filosofica comporti un tale livello di complessità da scoraggiare subito qualunque promessa di definizione e di classificazione sbrigative. Ognuno dei termini che lo compongono, anche presi isolatamente, rinviano a una polisemanticità che è connessa a un’ampia varietà di contesti d’uso e, sul piano dell’analisi teorica, a lunghe storie di ricerca e di riflessione che investono la sociologia e la psicologia sociale, gli studi sull’organizzazione e sulla comunicazione, l’epistemologia, la sociologia della conoscenza, la pedagogia e la filosofia, per elencare solo i principali campi di sapere in cui questo costrutto può trovare elementi di analisi, di comparazione, di interpretazione e di spiegazione. Il livello di complessità è destinato, poi, a elevarsi di fronte al progetto di intrecciare questi termini e i loro rispettivi campi di significato in una gestalt capace di tenerli insieme in modo sistemico e dinamico. Si impone, allora, una prospettiva che non può essere lineare e classificatoria, ma circolare e variata nelle strategie euristiche: dall’interrogazione puntuale dei testi all’esplorazione dei luoghi più significativi delle letterature di pertinenza, dalle descrizioni della pratica alla valutazione delle proiezioni socio-culturali di essa, dalla comparazione critica delle categorie disponibili all’assaggio di composizioni teoriche da mettere alla prova. L’indagine si colloca all’interno di un orizzonte nitidamente pedagogico, non solo perché Matthew Lipman e Ann Sharp hanno ideato la CdRF – con un’inventiva appropriazione di un costrutto originariamente peirceano – all’interno di una riflessione su come ricostruire/trasformare le

Introduzione

pratiche educative ma, soprattutto, perché nell’esplorazione della CdRF ne va di un ri-pensamento dell’educazione quale volano di emancipazione umana e perfezionamento della democrazia come forma di vita. C’è una peculiare ambivalenza nella CdRF: da una parte, essa è un setting e un modo di esercitare la pratica della P4C; dall’altra ha la vocazione a porsi come possibile modello di ristrutturazione dei modi di organizzazione della vita sociale e delle forme di partecipazione democratica. Il termine medio è rappresentato dall’ambizione di trasformare i contesti anzitutto formali (le classi) ma anche non-formali e informali dell’educazione in comunità di ricerca filosofica, così da favorire l’emergere di una Grande Comunità di Ricerca, secondo quella dinamica fra il livello locale e il livello globale che già Dewey aveva individuato. Con ciò non si vuole indulgere a un eccesso di pedagogizzazione, all’idea cioè che spetta alla sola innovazione pedagogica la soluzione dei molti problemi che affliggono le nostre società in questa alba fosca di millennio. Ma è certo che lo smorzarsi della tensione etica e civile, l’appannarsi della democrazia e – nel contempo – il desiderio di partecipazione che rischia sovente di assumere forme facilmente manipolabili in termini di populismo ovvero di radicalismo inconcludente richiedono una risposta (anche) pedagogica: e la CdRF si offre come la riproposizione – negli attuali scenari – dell’idea che la coltivazione del pensiero critico e riflessivo sia una via maestra per una convivenza interumana più giusta e avanzata e per una vita degna di essere vissuta. In questo senso, l’orientamento fondamentalmente pedagogico della nostra ricerca non esclude contributi provenienti da altri campi di sapere ma non esclude neanche una presa di posizione rispetto alla stessa pedagogia, rispetto alle sue legittimazioni e ridefinizioni a fronte delle sfide che la complessità e la globalizzazione impongono alla riflessione in vista dell’educazione a nuove forme e dimensioni della cittadinanza, a nuove forme e stili di vita che la multiculturalità fa transitare da un contesto a un altro, alla stessa logica di sviluppo della conoscenza tra

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contestualizzazione, decontestualizzazione e transcontestualizzazione; processi che difficilmente potranno essere controllati e governati dall’alto come è successo all’interno degli stati nazionali della modernità. Pratiche come la riflessività, la capacità di dialogo, l’auto-critica, la relazione di riconoscimento reciproco nella differenza, l’impegno comune a immaginare mondi migliori e a cominciare a costruirli insieme sono alcuni dei dispositivi e delle risorse di una traiettoria formativa che la pedagogia in primis contribuisce a capitalizzare. Nella nostra ricerca abbiamo messo in gioco diversi autori, ascoltando la loro lezione, ma, soprattutto, cercando di dialogare con loro nel seguire un percorso definito strada facendo, sempre aperto all’inaspettato, alla scoperta e all’invenzione; un cammino che non si conclude con questa pubblicazione; che, anzi, grazie ad essa ci auguriamo possa proseguire, arricchendosi di altre voci e altri contributi. Gli autori

PARTE PRIMA La comunità di ricerca filosofica come istanza etica Antonio Cosentino

Premessa: Pratica filosofica e comunità La “comunità di ricerca filosofica” (CdRF) si presenta come un ambiente relazionale e discorsivo impegnato a trasformare i processi spontanei, quelli del mondo della vita e dell’esperienza quotidiana, in attività orientate e consapevoli, riflessivamente controllate. La CdRF si inscrive nell’ordine delle pratiche sociali a ragione del fatto che il suo orizzonte non è primariamente l’insieme dei prodotti della sua teorizzazione esplicita, ma include a pieno titolo lo sfondo vitale in cui emerge la figura della riflessione in stile filosofico. Come “pratica riflessiva” spinge al suo estremo limite la relazione tra vita e pensiero e fa saltare lo schema dualistico che tradizionalmente ha separato le due sfere senza, tuttavia, semplificare riducendo uno dei due termini all’altro. Resta il fatto che la riflessione, in quanto tale, non coincide con il suo oggetto ma, non per questo si dimentica di essere, a sua volta, una pratica. La CdRF non si dà, ma si può costruire e coltivare mediante una graduale trasformazione delle norme e delle logiche che regolano le pratiche sociali spontanee. L’istanza trasformativa mette in gioco i dispositivi della formazione e, inevitabilmente, invoca opzioni di rilevanza etica. Si impongono, a questo punto, domande che riguardano il valore da assegnare alla pratica della CdRF e, più specificamente, si pone il problema della legittimazione della proposta a partire dal fatto che la costruzione di una CdRF non emerge come processo spontaneo all’interno di un con-

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CdRF: pratiche di coltivazione del pensiero

testo discorsivo. Sia in situazioni scolastico-formative, sia in contesti sociali più o meno informali, l’esperienza della pratica riflessiva in stile filosofico è dovuta a una sorgente esterna: a proporla è un “filosofo” animato da intenzioni formative o un “formatore” che ha scelto di investire nelle risorse della filosofia. D’altra parte, un percorso di ricerca filosofico non può non essere una “pratica di libertà”1 per la ragione essenziale che si deve trattare di un movimento adottato e portato avanti autonomamente dal pensiero di ognuno. Il processo riflessivo non può essere imposto dall’esterno. Proprio perché è “riflessivo”, se non vuole negare se stesso, non può essere appreso ma deve essere prodotto dal soggetto pensante come pensiero che pensa il pensiero. È plausibile interpretare in questo senso la posizione espressa da Platone quando sostiene che la filosofia non è una scienza come le altre, giacché «[e]ssa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima»2.

Abbiamo detto che nessuna comunità o gruppo si istituisce e si sviluppa spontaneamente nella direzione della pratica filosofica. Dove e come, allora, si costituisce una CdRF? In un contesto e col tempo. Se, tuttavia, proviamo a indicare con precisione cronologica l’inizio di una CdRF, allora avremo delle difficoltà. In mezzo, tra il tempo in cui la CdRF ancora 1

La suggestione è legata rispettivamente al titolo dato all’intervista a Foucault raccolta da R. Formet-Betancourt, H. Becker Gomez-Müller il 20 Gennaio 1984 e originariamente pubblicato in «Concordia: Internationale Zeitschrift für Philosophie», n° 6, 1984, pp. 99-116, tr. it., L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, 1978-1985, Milano: Feltrinelli, 1988; e, inoltre, dell’opera di Paulo Freire Educação como prática da liberdade, Rio de Janeiro: Paz e Terra, 1967, tr. it., L’educazione come pratica di libertà, Mondadori, Milano 1973. Non meno suggestivo è il lavoro di B. Hooks, Teaching to Transgress: Education as Practice of Freedom, New York: Routledge, 1994. 2 Platone, Lettera VII, in Opere, Roma-Bari: Laterza, 1967.

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

non c’è e quello in cui appare, si trova una serie indefinibile di altri eventi, cambiamenti, movimenti di avvicinamento che renderanno estremamente improbabile la proclamazione puntuale di un atto di nascita della CdRF. Adotteremo, allora, uno schema metodologico che indica la nozione di “processo” come principio esplicativo e come idea-guida a cui dovremo fare appello per dare conto della nascita, della vita e della morte di una CdRF. Se quella di “processo” è la lente generale con cui guardare il fenomeno, l’idea di “storia” rappresenta la fonte di strumenti di lettura e di analisi utilizzabili in situazione. Ogni CdRF ha una sua storia ed è la sua storia. L’inizio della storia non poggia sul nulla, ma possiamo intenderlo come coincidente con un punto di svolta di una storia precedente: un processo in cui più storie si succedono in corrispondenza della punteggiatura in cui si articola e si ordina l’esperienza. La CdRF, se proviamo a traguardare la sua “pratica” con le lenti dell’astrazione e dell’analisi, ci appare come un paradosso. C’è, intanto, una presunzione di proporzionalità tra le coppie di termini “comunità-ricerca filosofica” e “pratica-libertà”. Rappresentare la CdRF come pratica di libertà sarebbe come dire che “comunità” sta a “ricerca filosofica” come “pratica” sta a “libertà”. Come possiamo definire la relazione isomorfa che intercorrerebbe tra i primi due e i secondi due termini dell’equazione? A ben guardare si tratta di una relazione di opposizione, se non di radicale esclusione. La “comunità”, infatti, per come viene riconosciuta e letta dalla trazione sociologica e antropologia, non meno che dal senso comune, è il luogo della sicurezza, il “cerchio caldo” che protegge e rassicura, ma, nello stesso tempo, inevitabilmente ingabbia. Il termine “ricerca” evoca, al contrario, la tensione a infrangere gli accerchiamenti, a sottrarsi ai contesti di vita comuni; dal calore emozionale della relazione comunitaria, tende verso i cieli, un po’ più freddi, della decontestualizzazione, verso linguaggi impersonali, definizioni tanto disincarnate quanto valide per tutti e ovunque. Insomma “comunità” e “ricerca” non sembrano andare d’accordo. D’altra parte tra “pratica” e “libertà” le

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cose non sembrano andare diversamente. Anche la nozione di pratica, come quello di comunità, rinvia a un contesto, a una regolarità e a una regolazione congiunta ad una tradizione riconoscibile, a una inclusione gestaltica che non sembra facilmente compatibile con il concetto di libertà e con tutti i suoi possibili sensi. Allora dovremmo ritenere più vera l’affermazione: “comunità” non sta a “ricerca” come “pratica” non sta a ”libertà”. Sarebbe più legittimo sostenere una “comunità di pratica” contrapposta a una “libertà della ricerca”. Questo esito sarebbe più conforme al senso comune, ma sarebbe ancora un modo per reiterare i tradizionali dualismi tra teoria e pratica, conoscere e agire, ragione e emozioni, mente e corpo, e così via. In ultima analisi, una “comunità di ricerca come pratica di libertà” è in contraddizione con una serie di significati e di relazioni logiche fissate nella nostra tradizione culturale. Pertanto, o è insostenibile o deve avere qualche argomento per mettere in discussione innanzitutto l’eredità di una visione dualistica e, in secondo luogo, per giustificare la sostenibilità di un costrutto di elevata complessità capace di dare ragione non solo della fusione di pratica comunitaria e libertà della ricerca, ma anche dei processi che possono trasformare una “comunità” data in “comunità di ricerca” e quest’ultima in “comunità di ricerca filosofica”. La “comunità” prende forma in quella situazione in cui un certo numero di individui condividono un’esperienza in modo abbastanza prolungato e si sentono legati tra loro dal senso di identità comunitaria che questa condivisione di esperienza genera. In questa accezione, la comunità si costituisce e vive in modo pre-riflessivo e preterintenzionale. Una tale comunità può attivare al suo interno processi di riflessione e, quindi, di ricerca (Comunità di ricerca). In questo caso la riflessione è orientata sulle pratiche che la comunità si trova ad agire e a condividere. La CdRF conserva la comunità e la riflessione, ma, muovendosi sul terreno proprio della filosofia, è portata a compiere delle mutazioni che retroagiscono sia sul senso e le connotazione della comunità che sullo stile e gli oggetti della riflessione,

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

trasformando entrambe. Si tratta, in questo caso, di una comunità di pratica aperta a una riflessione che non ha per oggetto una pratica distinta e separabile, ma che assume la riflessione come la pratica da abitare e, così facendo, costruisce il suo mondo possibile come forma e stile di vita. Si hanno, così, tre diverse possibilità: 1) una pratica senza riflessione esplicita (comunità di pratica); b) una riflessione nella e sulla pratica (comunità si ricerca); c) una pratica della riflessione filosofica (Comunità di ricerca filosofica). La ricerca come ritorno riflessivo sulla pratica in cui si è immersi scatta quando si incorre in qualche strappo del corso ordinario delle cose, quando i risultati attesi dell’azione non corrispondono a quelli effettivamente raggiunti. Il salto dalla pratica non-riflessiva alla riflessione può avvenire per effetto di circostanze critiche. Questa condizione, tuttavia, non sempre è sufficiente, giacché una pratica contiene delle routine e degli habitus molto resistenti ai cambiamenti. Il salto, poi, dalla riflessione alla riflessione sulla riflessione richiede condizioni speciali; non si genera per movimento interno e per spinte autonome all’interno di una comunità e neanche di una comunità di ricerca. In vista di questi potenziali salti da un livello di conoscenza meno riflessiva a livelli sempre più carichi di riflessività è richiesto un tipo di apprendimento che ha bisogno di essere supportato con “impalcature” adeguate. Anche a rischio di cadere nei luoghi comuni della critica alle attuali condizioni sociali, non si può non sottolineare il fatto che nella società attuale la riflessività, sebbene affermata e diffusa nella maggior parte delle moderne scienze sociali e nelle pratiche correlate, ha mancato di influenzare la massa degli individui. Si potrebbe dire che, come generale proprietà umana, la riflessività si è sviluppata in stretta correlazione con la diffusione della logica alfabetica della scrittura e che, con lo sviluppo della scienza moderna, essa è diventata sempre più sistematica. A questo proposito così scrive Anthony Giddens: «La riflessività della vita sociale moderna consiste nel fatto che le pratiche sociali vengono costantemente esaminate e

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riformate alla luce dei nuovi dati acquisiti in merito a queste stesse pratiche, alterandone così il carattere in maniera sostanziale […] Tutte le forme di vita sociale sono costituite in parte dal sapere che gli agenti hanno di esse»3.

Si tratta del fatto che il lavoro “istituzionale” della società riproduce l’ordine sociale che ha prodotto quelle istituzioni attraverso un processo di doppia ermeneutica. Ma, la riflessività di cui parlano sociologi come Anthony Giddens, Niklas Luhmann e altri4 è riferita al sistema sociale in generale oppure ai vari sotto-sistemi. In tal senso le analisi di Michel Foucault sono particolarmente eloquenti rispetto alla circolarità dei rapporti tra sapere e potere e di come le scienze umane costruiscano i loro oggetti in quanto dispositivi di “potere-sapere”5. Nel corso di questo dispiegamento della riflessività nelle sue forme storicamente istituzionalizzate, si sono prodotti strumenti e tecniche di disciplinamento e di controllo sugli individui e sulle loro biografie e, pertanto, dal punto di vista dei vissuti individuali il processo di progressiva razionalizzazione innescato dalla modernità ha prodotto un effetto opposto a quanto prometteva allorché poneva l’individuo al centro dell’universo gnoseologico e a fondamento dell’ordine giuridico-politico. In altre parole, l’individuo è stato trattato più come “oggetto” delle scienze umane anziché come “soggetto”6. Possiamo rilevare la prova più macroscopica della mancata integrazione della riflessività nei processi di formazio3 A. Giddens, The Consequences of Modernity, Stanford: Stanford University Press, 1990, tr. it., Le conseguenze della modernità, Bologna: il Mulino, 1994, p. 46. 4 N. Luhmann, K. E. Schorr, Reflexionsprobleme im Erziehungssystem, Stuttgart: Ernst Klett, 1979, tr. it., Il sistema educativo, Roma: Armando, 1988. Cfr. anche U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Reflexive modernization, Cambridge: Polity Press, 1994. 5 Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir. La naissance de la prison, Paris : Gallimard, 1975, tr. it., Sorvegliare e punire, Torino: Einaudi, 1976. 6 Cfr. A. Cosentino, La pratica del filosofare per lo sviluppo di una professionalità riflessiva, in Id. (a cura di), Pratica filosofica e professionalità riflessiva, Napoli: Liguori, 2005.

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

ne individuali nella struttura dei curricoli formativi prevalenti nei sistemi scolastici, sempre più orientati verso la valorizzazione delle competenze tecnico-applicative. Le discipline umanistiche, nella misura in cui sono presenti nei curricoli della scuola secondaria superiore, configurate scolasticamente come “storie di…”, restano vincolate al paradigma del “vir bonus dicendi peritus” e stentano a essere riconosciute come campi di sapere che formano alla cittadinanza, al saper essere, al saper stare insieme; in altre parole, come campi di saper fare e non soltanto come discorsi. Il progetto di un’educazione animata dallo spirito della ricerca del senso e della interrogazione critica dell’esperienza, preoccupata, nello stesso tempo, del progressivo ma inesorabile declino della mente alfabetica a favore dello sviluppo ipertrofico della mente mimetica, corollario inevitabile dell’avanzata del mass-media, non può evitare lo scontro con un sistema scolastico che, particolarmente in Italia oggi, è sempre più lontano dalle promesse del riformismo degli anni Settanta del secolo scorso. L’alfabetizzazione di massa è fallita e al suo posto si è compiuta la mass-mediatizzazione globale. E, mentre l’alfabetizzazione prometteva alla massa l’emancipazione individuale, il curricolo della televisione, che, secondo Postman7, è diventato il primo e più influente, rende ancora più uniforme e indistinta la massa, ne fa un “grosso animale”, per usare un’espressione platonica8, incapace di pensare e di reagire. Al primato dei desideri che aspettano di trasformarsi in progetti si sostituisce il regime dei bisogni indotti; all’euforia rivoluzionaria segue la depressione da insoddisfazione cronicizzata. Il nichilismo si fa storia e, come “ospite inquietante”, si manifesta in storie di cui è difficile cogliere il senso9. 7 Cfr. N. Postman, Teaching as a Conserving Activity, New York: Delacorte Press, 1979, tr. it., Ecologia dei media. La scuola come contropotere, Roma: Armando, 1981. 8 Platone, Repubblica, VI, 493 a-d, in Opere, cit. 9 U. Galimberti, L’ospite inquietante: il nichilismo e i giovani, Milano: Feltrinelli, 2007.

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Capitolo I Comunità 1. Gemeinschaft e Gesellschaft Nella storia che si conosce, la comunità appare tutt’altro che l’Eden che la sua ricorrente mitizzazione raffigura. Se si pensa all’avvento della società come quella svolta che ha determinato la scomparsa della comunità, bisognerà raffigurarsi, innanzitutto, l’evento storicamente circoscritto dell’urbanizzazione moderna all’interno del più ampio processo della rivoluzione industriale. Dal punto di vita delle trasformazioni sociali che la nascita e la crescita delle città ha prodotto, il primo riferimento va al trasferimento di masse di contadini nelle aree urbane. L’ambiente di vita tipico della civiltà contadina è senz’altro comunitario: la famiglia, il vicinato. Perché, appena se n’è data la possibilità, i contadini hanno abbandonato la comunità per correre verso la società? Perché non hanno indietreggiato di fronte a nessuna difficoltà? Perché, in altre parole, hanno preferito la vita miserabile di proletari nelle grandi città dello sviluppo capitalistico e non si sono rifugiati, tornando ai luoghi di nascita, nelle comunità di provenienza? Non ci sono dubbi che a questa domanda si può rispondere facendo appello a una molteplicità di fattori, ma mi sembra altrettanto indubbio che dal novero di questi fattori non si può escludere quella valutazione personale sul confronto tra una situazione in cui la sfera individuale viene completamente assorbita dalla totalità comunitaria e una condizione in cui la sfera di vita individuale viene percepita come svincolata dal controllo sociale. Il prezzo da pagare per questo passaggio dalla comunità rurale alla città era, d’altronde, un nuovo asservimento di certo molto pesante, ma di diverso genere: l’alienazione individuale prodotta dal capitalismo nella fabbrica e riverberata con effetti tragici su tutta la condizione sociale del

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CdRF: pratiche di coltivazione del pensiero

proletariato non è dello stesso genere dell’assorbimento comunitario. L’inclusione nella comunità-gabbia o non viene percepita affatto, o, nel momento in cui appare alla coscienza, viene avvertita come limitazione: gabbia sociale perché esercita un controllo feroce sullo spazio di vita di ognuno; gabbia mentale perché impone ai suoi membri norme rigide e strette senza giustificarle e, anzi, dissimulando la loro forza coercitiva. Scrive Zygmunt Bauman, a questo proposito: «La ‘comunità realmente esistente’, qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare. Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri la tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa piacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Installa un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare gli estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una»1.

Nell’epoca dell’insicurezza generalizzata, la voglia di comunità tende a trasformarsi nel suo opposto, perché, se basata sull’esclusione, sulla chiusura e sulla paura dello straniero, agisce esattamente come la gabbia: dà sicurezza in cambio di una drastica riduzione di libertà. Una comunità-gabbia ha ragione di essere fino a quando chi sta dentro non si rende conto della sua condizione, e questo avviene in due casi: quando la gabbia è troppo grande per vederne le sbarre e quando i confini sono mura impenetrabili. Del secondo caso gli studi antropologici forniscono molti esempi, riconducibili, forse con un eccesso di semplificazione, allo schema formulato dall’antropologo 1 Z. Bauman, Missing Community, Cambridge: Polity Press, 2000, tr. it., Voglia di comunità, Roma-Bari: Laterza, 2001, p. 6.

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

Robert Redfield alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Così egli scrive: «Che cosa, allora, intendiamo più specificamente per piccola comunità? Suggerisco, in primo luogo, l’attributo della distinzione; dove la comunità comincia e dove finisce è evidente. La distinzione è chiara all’osservatore esterno e si esprime della coscienza di gruppo degli appartenenti alla comunità. In secondo luogo, la comunità con cui abbiamo a che fare è piccola, tanto piccola che […], sebbene un po’ più ampia ma ancora omogenea, fornisce in qualunque sua parte un’unità di osservazione personale pienamente rappresentativa del tutto. […] In terzo luogo, la comunità alla quale guardiamo […] è omogenea. Le attività e gli stati mentali sono molto simili in tutte le persone dello stesso sesso e della stessa età; la strada percorsa da una generazione ripete quella della precedente. Così inteso, omogeneo equivale a ‘cambiamento lento’. Come quarto attributo si può dire che la comunità che abbiamo in mente è auto-sufficiente e provvede a tutte o alla maggior parte delle attività e dei bisogni dei suoi membri»2.

Quello che i resoconti antropologici mostrano come “comunità reali” sono, dunque, aggregazioni umane caratterizzate da una marcata distinzione, una dimensione molto piccola, un alto livello di omogeneità e di auto-sufficienza: entità sociali ristrette, chiuse e statiche. In questo tipo di comunità non ci sono regole scritte. Tutto è severamente regolato attraverso il linguaggio, la comunicazione quotidiana, i miti, i fatti e i personaggi esemplari. Tutti sanno, senza sapere come lo sanno, quali sono le cose da fare. Qualunque forma di anticonformismo è semplicemente impossibile perché impossibile è lo stesso pensiero dell’al-

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R. Redfield, The Little Community and Peasant Society and Its Culture, Chicago: The University of Chicago Press, 1956, tr. it., La piccola comunità, la società e la cultura contadina, Torino: Rosenberg & Seller, 1976, p. 6. L’Autore sottolinea come man mano che queste qualità tendono a sparire ci avviciniamo alla società moderna. Le piccole comunità presenti nella società, che pure esistono, mancano soprattutto della caratteristica dell’omogeneità.

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ternativa, della differenza. E quando la differenza si espone e chiede riconoscimento, allora si scatena la furia e la violenza contro gli “empi”, i “folli”, le “streghe”. La caccia alle streghe e, complessivamente, la storia dell’Inquisizione, sono effetti di un progetto di comunità e del suo fallimento, o il segno che una comunità non c’era già più. Lo stesso si può dire delle comunità progettate e realizzate in nome di mitologie politiche, dal nazifascismo al comunismo. L’idea di comunità difficilmente è esente dall’inclusione di un ordine gerarchico, della scomparsa delle singolarità, di una visione organicistica e deterministica. L’unica libertà possibile è quella di interiorizzare la norma comune, di riconoscerla come la propria. Nessuno spazio è concesso per l’atopía3. “Comunità” è un termine che sembra sfuggire alla dicibilità scientifica. Eppure, se facciamo riferimento alle scienze sociali, e in particolare alla sociologia, troviamo una storia che sembra smentire decisamente questa affermazione. Di fatto, a partire da Tönnies, passando per Durkheim, e poi avanti con Weber, Simmel, Parsons, buona parte della sociologia tra fine Ottocento e primo Novecento ha cercato di fare i conti col costrutto di “comunità”. Nonostante ciò, nel resoconto che si può fare oggi di questi percorsi di ricerca, emerge una sostanziale presa di distanza dal concetto stesso di “comunità”. Riferisce, per esempio, Arnaldo Bagnasco: «Alcuni autori non si sono limitati a evitarne l’uso, ma in modo esplicito e argomentato hanno sostenuto la necessità di bandirlo dal vocabolario delle scienze sociali»4. 3 Scrive Pierre Hadot a questo proposito: «Si potrebbe dire che Socrate è il primo individuo della storia del pensiero occidentale […] Sta certo qui, come ha osservato Kierkegaard, il senso profondo dei termini atopos, atopìa, atopotatos, […] La parola atopos significa etimologicamente ‘fuori posto’, ‘non a luogo’, dunque strano, stravagante, assurdo, inclassificabile, sviante» (P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Paris: Editions Alin Michel, 2002, tr. it., Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino: Einaudi, 2005, cit., p. 101). 4 A. Bagnasco, Tracce di comunità, Bologna: il Mulino, 1999, p. 18. L’Autore, fa riferimento esplicito a quanto scrive T. Geiger nella voce

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La tradizione classica degli studi sociologici sulla comunità ha mostrato due grandi limiti: la visione dicotomica e oppositiva tra “comunità” e “società” e la tendenza verso un essenzialismo che ha portato a disegnare la “comunità” come un’entità sostanziale. Si tratta di vincoli nei confronti di un contesto storico dominato dalle contrapposizioni tra campagna e città, proletariato e borghesia, economia agricola ed economia industriale, in cui il concetto di comunità è stato invocato, più che analizzato, come contrappeso all’avanzata della società capitalistica. Lungo questa tradizione l’opera di Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft del 1887 rappresenta il punto di riferimento classico5. Nel confronto tra le due categorie sociologiche di “comunità” (Gemeinschaft) da una parte e “società” (Gesellschaft) dall’altra l’autore fissa una gerarchia valoriale per cui alla comunità fa corrispondere una vita buona e incorrotta6 destinata a perdersi con l’avvento della “società”. Cosicché egli può affermare: «[I]l giovane viene messo in guardia contro la cattiva società; ma parlare di ‘cattiva comunità’ è contrario al senso della lingua»7. E, rispetto al piano della relazione, «la comunità, come vincolo del ‘sangue’, è in primo luogo un rapporto tra i corpi, che si esprime quindi in atti e in parole, mentre è di natura secondaria la relazione comune con oggetti che non vengono tanto scambiati quanto posseduto e goduti in comune»8.

Nel riconoscimento delle forme che la comunità ha assunto nel corso della storia, Tönnies utilizza come criterioguida fondamentale l’organizzazione economica: da una parte un’economia domestica (oikos), più o meno allargata Gemeinschaft dello Handwörterbuch der Soziologie curato da Alfred Vierkandt (Stuttgart, 1931). 5 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Leipzig: Reisland, 1887, tr. it., Comunità e società, Milano: Edizioni di comunità, 19631, 19792. 6 In questa valutazione appare chiara la ripresa da parte dell’Autore del il mito del buon selvaggio e della sua interpretazione roussoviana. 7 F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, cit., p. 45 (tr. it.). 8 Ivi, p. 97 (tr. it.).

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in uno spazio descrittivo capace di comprendere la casa classica ellenico-romana dove tutto viene prodotto autonomamente, così come la casa contadina, la comunità di villaggio, i Comuni rinascimentali e la stessa polis; dall’altra, per la società, il modello di un’economia governata fondamentalmente dallo scambio sulla base di un valore sociale delle merci rappresentato astrattamente dal danaro. La società non è un raggruppamento naturale, ma un «aggregato unito dalla convenzione e dal diritto naturale. […] La possibilità di un rapporto sociale non presuppone altro che una pluralità di persone capaci di fornire qualche prestazione, e quindi anche di promettere qualcosa»9.

È chiaro che la società che Tönnies sta descrivendo, utilizzando le categorie e gli strumenti dell’economia politica (da Smith a Marx), è quella borghese di fine ‘800. Contrapposto a essa, un modello di comunità che mostra i suoi connotati di mito sia per la vaghezza della contestualizzazione storico-geografica, sia per il carico simbolico di cui è appesantita. Sono le grandi città che stanno allargando sempre più le loro dimensioni a rappresentare emblematicamente il luogo di sviluppo della società. La città – afferma Tönnies – perde i suoi caratteri comunitari «quando si sviluppa in grande città […] Come la città perdura nell’ambito della grande città – come è espresso dallo stesso nome di questa – così le forme di vita comunitarie perdurano, sia pure atrofizzandosi e estinguendosi, nell’ambito di quelle sociali, come le uniche forme di vita reali […] La grande città non consiste se non di persone libere, le quali entrano continuamente in contatto tra loro nel traffico, scambiando e collaborando tra loro, senza che tra essi sorga una comunità e una volontà comunitaria se non sporadicamente o come residuo di condizioni precedenti che stanno ancora alla sua base»10.

Quello della “comunità” e della “società” non sono soltanto due modelli di relazione sociale e, pertanto, la rap9 10

Ivi, p. 95 (tr. it.). Ivi, p. 290 (tr. it.).

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presentazione di due mondi qualitativamente differenti; sono anche, agli occhi di Tönnies, due età della storia, la prima costituita sulla concordia, il costume e la religione; la seconda sulla convenzione, sulla politica e sull’opinione pubblica. In questa prospettiva di evidente sapore storicistico egli delinea delle precise tappe dello sviluppo storico, visto come «tendenza da un comunismo originario (semplice e familiare) e da un conseguente individualismo fondato su di esso (rurale-cittadino), verso un individualismo indipendente (universale e proprio della grande città) e un socialismo posto da esso (statale e internazionale)»11. Nel lavoro di Tönnies viene allo scoperto una visione tendenzialmente deterministica e una marcata filosofia della storia all’interno della quale si snoda la sua pur lucida analisi del contesto sociale di fine ‘800. Egli, infatti, prevede chiaramente gli sviluppi del capitalismo occidentale verso la globalizzazione con tutte le sue disaggregazioni e i suoi attacchi alle condizioni locali-comunitarie dell’esistenza. L’idea di una contrapposizione netta tra una comunità come stato di armonia perduto e società come lacerazione e corruzione di un presunto “stato naturale” rimane ancora vivo e riutilizzato nel secolo XIX come chiave di lettura delle trasformazioni epocali legate all’avanzata del capitalismo e agli effetti delle rivoluzioni industriali. Negli Stati Uniti d’America è John Dewey che riecheggia questo schema sociologico mettendo a confronto la “grande società delle macchine” con le piccole comunità dei pionieri. La differenza è sostanziale, come spiega Dewey: «Vi è una differenza tra una società – nel senso di associazione – e una comunità. Elettroni, atomi e molecole sono in associazione tra loro. Nulla di isolato esiste in nessun luogo nella natura. Le associazioni naturali sono condizione dell’esistenza della comunità; ma la comunità ha in più la funzione di comunicare, di partecipare cioè sentimenti e idee nello stesso modo con cui ci si impegna in azioni comuni. Le forze economiche hanno straordinariamente allargato il

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Ivi, p. 299 (tr. it.).

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campo delle attività associate. Ma esso si è allargato a spese della intimità e della immediatezza degli interessi e delle attività della comunità»12.

Diversamente da Tönnies, Dewey crede ottimisticamente nella possibilità di recuperare le condizioni della comunità dopo la società. Questo compito passa per la realizzazione di una forma di democrazia che consenta di rifondare lo spazio del “pubblico”, quello spazio che era stato vitale nelle democrazie spontanee delle piccole comunità e che è andato perso nella società prodotte dall’industrializzazione13. La tesi di fondo di Dewey può essere così riassunta. La democrazia (spontanea) nasce nelle piccole comunità dei pionieri. Nel corso della storia degli USA le piccole comunità sono diventate Società perdendo il senso del “pubblico” e, quindi, della sostanza della vita democratica. La prospettiva ottimistica di Dewey è che la Grande Società si possa trasformare (nel “suo” futuro) in Grande Comunità. «Abbiamo strumenti materiali di comunicazione che non abbiamo mai avuto nel passato; ma i pensieri e le aspirazioni conformi a tali strumenti non si comunicano e quindi non diventano comuni a tutti. Senza tale comunicazione di idee il pubblico rimarrà oscuro e informe, cercandosi spasmodicamente, ma afferrando e trattenendo la sua ombra anziché la sua sostanza. Finché la Grande Società non si convertirà in una Grande Comunità, il Pubblico rimarrà in uno stato di eclisse. Solo la comunicazione delle idee può creare una grande comunità»14.

Come si vede, Dewey ritiene che dopo la società si possa ricostituire la comunità a patto che si riesca a riguadagnare lo spazio del “pubblico” che è lo spazio politico di una democratica sostanziale, basato essenzialmente 12

J. Dewey, Freedom and Culture, New York: Putnam’s Sons, 1939, tr. it., Libertà e cultura, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 182. 13 J. Dewey, The Public and its Problems, New York: Henry Holt & C., 1927, tr. it., Comunità e potere, La Nuova Italia, Firenze 1971. 14 Ivi, pp. 111-112 (tr. it.).

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sulla partecipazione alla vita politica. Tra le conseguenze dell’avanzata dell’industrializzazione, una particolarmente disastrosa è proprio l’abbassamento del livello di partecipazione al dibattito politico. «Un pubblico comincia ad esistere quando si verificano conseguenze indirette, estese, durevoli e gravi dell’azione aggregata degli individui, conseguenze suscettibili di agire su ognuno di loro e tali da far nascere in questo pubblico un interesse comune a controllare tali conseguenze. Ma l’età delle macchine ha allargato, moltiplicato, intensificato e complicato in maniera così enorme la portata delle conseguenze indirette, essa ha messo in moto delle unioni così immense e compatte, più sulla base dell’anonimato che su una base di comunità, che il pubblico che ne risulta non riesce a identificare e a distinguersi. Imprescindibile condizione, quest’ultima, di qualsiasi organizzazione efficace del pubblico […] Il problema di un pubblico democraticamente organizzato è principalmente ed essenzialmente un problema intellettuale, in una misura ignota alle situazioni politiche di età precedenti»15.

La condizione essenziale per trasformare la Grande Società in Grande Comunità: «Dal punto di vista dell’individuo essa consiste nell’avere una parte responsabile, secondo le capacità, alla formazione e alla direzione dell’attività dei gruppi ai quali appartiene, e nel partecipare, secondo il bisogno, ai valori che il gruppo difende. Dal punto di vista dei gruppi, essa esige la liberazione delle energie potenziali dei componenti un gruppo in armonia con gli interessi e i beni che sono comuni»16.

Rispetto a questa possibile trasformazione della Grande Società in Grande Comunità, Dewey ripone una grande fiducia nella cultura e nell’educazione. Egli ritiene che il metodo della scienza naturale, se applicato anche in campo sociale, porterà ad una progressiva democratizzazione. Crede fermamente nel potere emancipativo della diffusione della conoscenza, alla libertà di espressione, al confronto 15 16

Ivi, p. 99 (tr. it.). Ivi, p. 116 (tr. it.).

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aperto delle idee. Lamenta uno “stato di infantilismo” delle scienze sociali che impedisce, nella sua valutazione, «di renderci conto del bisogno fondamentale che è quello che i concetti in nostro possesso siano utilizzabili come strumenti di ricerca controllata, destinati ad essere messi alla prova, ad essere rettificati e ad essere sviluppati grazie ad un uso concreto»17.

La dicotomia comunità-società incomincia a perdere terreno già nella sociologia di Max Weber. È vero che egli usa ampiamente il concetto di comunità, ma è vero anche che il sistema concettuale di cui lo inserisce è ben più articolato. Weber assume come avvio del discorso la nota tipologia formale dell’agire sociale dotato di senso. In base a essa l’agire sociale viene distinto in quattro forme: c’è un agire sociale guidato dalla razionalità rispetto allo scopo e un agire sociale guidato dalla razionalità rispetto al valore; c’è, poi, un agire sociale guidato dall’affettività e, infine, un agire sociale guidato dall’adesione a una tradizione18. Rispetto a questo schema, Weber definisce “comunità” una relazione sociale «se, e nella misura in cui, la disposizione dell’agire sociale poggia su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o tradizionale) dagli individui che ad essa partecipano»19. Per quanto tenga in vita le categorie di Tönnies, Weber, ragionando in termini di ideal-tipi e non di entità sostanziali, utilizza entrambe le categorie di comunità e di società per analizzare gli stessi fatti: un gruppo famigliare può, nello stesso tempo, essere percepito come comunità o utilizzato come associazione e non è facile tenere distinte e separate le due forme di relazione. Rimane, in ogni caso, il fatto che la Gemeinschaft – sia nella prospettiva di Tönnies quanto in quella di Weber – mantiene tutte le sue promesse di calore, di solidarietà, di 17

Ivi, p. 131 (tr. it.). M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen: Mohr, 1922, tr. it., Economia e società, Milano: Comunità, 1961. 19 Ivi, p. 38 (tr. it.). 18

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comprensione reciproca e sicurezza, mentre la Gesellschaft corrisponde ad una dimensione relazionale che presto rivela le sue insidie, gli inganni, la conflittualità, l’insicurezza e i pericoli di una lotta per la sopravvivenza. L’esperienza dell’una e dell’altra condizione riguarda la storia della socialità umana e la sua fenomenologia, ma anche l’esperienza individuale. In questo senso, la condizione comunitaria è l’appartenenza ingenua ad un originario contesto di vita in cui, nel passato, si era destinati a restare. In Occidente, con l’avvento della modernità, nessuno resta intrappolato per sempre nell’originario contesto di vita. Scrive a proposito Bauman: «L’aprirsi di una breccia nelle mura fortificate della comunità apparve un epilogo inevitabile con l’avvento dei mezzi di trasporto meccanici; veicoli di informazioni alternative (o di persone la cui stessa estraneità costituiva un’informazione distinta e in conflitto con la conoscenza internamente disponibile) poterono ora in via di principio viaggiare con uguale o maggiore rapidità del sistema del passaparola inventato a adottato entro i confini della ‘naturale’ mobilità umana. La distanza, un tempo la più formidabile delle difese comunitarie, perse gran parte della sua rilevanza. Il colpo di grazia alla ‘naturalezza’ della comprensione comunitaria giunse, tuttavia, con l’avvento dell’informatica, vale a dire con l’emancipazione del flusso di informazioni dal movimento dei corpi»20.

Ma, è proprio vero che l’avvento e il dispiegamento moderno e postmoderno della società globalizzata ha cancellato per sempre la comunità? Possiamo dire che la “comunità” precede la “società”, ma non scompare con l’avvento di questa? Esistono, oggi, comunità all’interno della società, contro la società, nelle utopie di una post-società? Non solo, ma “comunità” è soltanto l’etichetta di una qualche entità sociale empiricamente definibile e riconoscibile? Oppure è, forse ancora più decisamente, una condizione, un insieme non sempre compatto di possibilità, di atteggiamenti e di 20

Z. Bauman, Missing Community, cit., p. 14 (tr. it.).

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modi di essere? Di fatto i riferimenti alla “comunità” sono oggi assai diffusi, in molti luoghi e in numerosi contesti di discorso. Come nota Eric Hobsbawm: «Mai il termine ‘comunità’ è stato usato in modo tanto insensato e indiscriminato come nei decenni in cui le comunità nel senso sociologico del termine sono diventate sempre più difficili da trovare nella vita reale»21.

La sociologia, se da una parte ha decretato la morte del costrutto “comunità” come utile categoria per analisi e descrizioni attendibili e ha smontato la sua pretesa tradizionale di strumento di lettura e di restituzione di entità sociali sostanziali, dall’altra tende a recuperare singole e distinte componenti di quel costrutto. Come sostiene Bagnasco, «[i]dentità, reciprocità, fiducia sono parole che appartengono al vocabolario della comunità, ma che oggi sono usate senza riferimento al vecchio concetto»22.

Così, sembra che una concettualizzazione del termine “comunità” venga negato, mentre il suo uso si intensifica e si diffonde nel linguaggio comune generando un vero e proprio arcipelago di giochi linguistici in cui è possibile trovare i più sparuti abbinamenti, dalla “Comunità di recupero” alla “Comunità territoriale” (Comunità montana, europea, ebraica, ecc.), dalla “Comunita terapeutica” alla “Comunità monastica”, alla “Comunità virtuale”, e così via. Certo, le 94 differenti definizioni di comunità che circolano nella letteratura sociologica23 sembrano dare ragione a chi tende a rinunciare all’impresa di elaborare un costrutto unico e onnicomprensivo della nozione di comunità. Bisogna, forse accontentarsi di metafore come quella di “capitale sociale”24 21 E. Hobsbawm, The Age of Extremes, London: Michael Joseph, 1994, p. 428 (traduzione a cura di chi scrive). 22 A. Bagnasco, Tracce di comunità, cit., p. 30. 23 G. A. Hillery Jr., “Definitions of Community: Areas of Agreement”, «Rural Sociology», Vol. 20, No. 4, 1955. 24 Nella definizione di Robert D. Putnam il capitale sociale è «il va-

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o navigare tra le diverse isole dell’arcipelago e rinunciare ad una supposta univocità semantica del termine. Anche in ambito psicologico gli studi sulla comunità si sono ritagliati uno spazio di autonomia e di riconoscimento a partire dagli studi seminali di Samuel Sarason, il quale introdusse per la prima volta l’espressione “senso psicologico di comunità” intendendolo come «una delle basi principali per l’auto-definizione»25. Seguirono gli studi di Chavis e Pretty26 e di McMillan e Chavis27. Questi ultimi hanno identificato quattro componenti per il “senso di comunità”: 1) appartenenza, 2) influenza, 3) integrazione soddisfazione di bisogni, 4) connessione emotiva condivisa. Parenti stretti della psicologia di comunità sono tutte quelle proposte e quei programmi che si muovono nell’area delle iniziative sociali per l’empowerment classificabili come “costruzione di comunità” (community building) o “organizzazione di comunità” (community organizing), iniziative per lo più animate da intenzioni formative. Particolarmente rappresentativo, in questo ambito di ricerca, è il lavoro di Scott Peck28. Egli, dopo aver rilevato la crisi che sembra oggi vivere lo spirito di comunità, sostiene che una lore collettivo di tutti i network sociali (che le persone conoscono) e le inclinazioni che emergono da questi network per fare delle cose gli uni per gli altri (norme di reciprocità)» Cfr. R. D. Putnam, Bowling Alone: The Collapse and Revival of American Community, New York: Simon & Schuster, 2000. 25 S. B. Sarason, The Psychological Sense of Community: Prospects for a Community Psychology, Oxford: Jossey Bass, 1974, p. 157. 26 D. M. Chavis, G. Pretty, “Sense of Community: Advances in Measurement and Application”, «Journal of Community Psychology», No. 6, 1999, pp. 35-42. 27 D. W. McMillan, D. M. Chavis, “Sense of Community: a Definition and Theory”, «Journal of Community Psychology», No. 14, 1986, pp. 6-23. Quella formulata da questi autori è una delle poche teorie formali del “senso psicologico di comunità” (PSC) ed è diventata la più largamente impiegata e accettata in questo settore di ricerca. La teoria e lo strumento di misurazione che la accompagna, Sense of Community Index (SCI) segue l’approccio ipotetico-deduttivo classico alla costruzione di una teoria e poggia su due assunti tipici del positivismo logico: riduzionismo e generalizzabilità. 28 M. Scott Peck, The Different Drum: Community-Making and Peace, New York: Touchstone, 19881, 19982.

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comunità, se non si forma spontaneamente, si può costruire intenzionalmente mettendo in moto un processo incentrato sulla dinamica dei ruoli e tenendo presente che la vita di una comunità passa attraverso quattro fasi: Pseudo-comunità. La fase in cui i partecipanti mostrano la parte più gradevole della loro personalità e sono gentili tra di loro. Caos. La fase in cui i partecipanti superano l’inautenticità della pseudo-comunità e mettono in scena i lati meno evidenti del loro Sé. È qui che il gruppo cerca una leadership forte ed efficace per creare un’organizzazione, ed è qui che bisogna resistere a questa tentazione. Vuoto. La fase in cui i partecipanti si proiettano oltre gli sforzi di mettere ordine, di prendersi cura e di convertire della fase del caos; quando ognuno diventa capace di farsi carico personalmente delle ferite e delle lacerazioni comuni a tutti gli uomini. Vera comunità: La fase in cui i partecipanti maturano profondo rispetto e vero ascolto rispetto ai bisogni degli altri componenti. Nei movimenti di community building si trova una grande varietà di istanze e di obiettivi, così come una vasta gamma di specificità rispetto ai luoghi e ai contenuti, ma il tratto che sembra rilevante e condiviso è l’idea che comunità non è necessariamente un frutto spontaneo dovuto a circostanze non controllabili, una specie di “dono di Dio” irrimediabilmente perduto. Se si mette insieme una spinta di carattere etico-sociale, se non propriamente politico, e un pizzico di ingegneria sociale, le comunità possono essere costruite, anche se, come osserva lo stesso Scott Peck, è più facile far nascere una comunità che tenerla in vita in un mondo, come il nostro, caratterizzato dalla precarietà, dalla mobilità, dai cambiamenti accelerati. Questo breve e sommario excursus in alcuni soltanto degli ambiti di attività e di ricerca in cui il termine “comunità” è di casa mostra in modo abbastanza inequivocabile da una parte come i sensi e i significati di questa parola sono illimitati, dall’altra come essa non cessi di essere un

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potente centro di interesse e polo inesauribile di suggestioni per l’essere umano. Si tratta, indubbiamente, di uno dei grandi temi della nostra storia, intrecciato da sempre con quelli della socialità umana, della politica, dell’economia, della religione, del diritto, dell’etica.

2. Comunità come con-essere In questo senso l’idea di comunità è stata oggetto di riflessione della filosofia occidentale fin dai suoi inizi. Se diamo uno sguardo al pensiero filosofico della comunità, scopriremo che il tema è di grande attualità ancora oggi e che occupa una posizione di primo piano in numerosi percorsi di ricerca29. La matrice comune delle ricerche più recenti è, senza dubbio, Heidegger, il cui pensiero viene considerato un punto di svolta decisivo rispetto alla possibilità di rilanciare una filosofia della comunità sulla base di una sorta di rifondazione rispetto a una tradizione segnata in particolare dai nomi di Hobbes, Rousseau, Kant30. In che senso si può dire che Heidegger disegna le condizioni per una riproposizione del discorso sulla comunità che si colloca in una posizione di fondamentale discontinuità con la tradizione? Perché secondo Heidegger – spiega Roberto Esposito – «la comunità non sta né prima né dopo la società. Non è né ciò che questa ha soppresso né l’obiettivo che essa deve porsi. Così come non è il risultato di un patto, di una volontà o di una semplice esigenza condivisa dagli individui. Ma neanche il luogo arcaico da cui essi provengono e che hanno abbandonato. E ciò per il semplice dato di fatto che non esistono individui fuori dal loro essere-in-un-mondo-comune. […] Quella heideggeriana non 29 Per un orientamento sul dibattito attuale cfr. C. Schülter, L. Clausen (hrsg.), Renaissance der Gemeinschaft? Stabile Theorie und neue Theoreme, Berlino: Duncker & Humblot, 1990; M. Brumlik, H. Brunkhorst, K. O. Apel, (hrsg.), Gemeinschaft und Gerechtigkeit, Frankfurt a. M.: Fischer Taschenbuch, 1993. 30 R. Esposito, Communitas, Torino: Einaudi, 19981, 20062.

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è una filosofia politica, ma precisamente la sua decostruzione nel pensiero della comunità. Mentre la filosofia politica parte sempre dagli individui precostituiti, […] il pensiero della comunità parte sempre dal rapporto di condivisione»31.

La tradizione di filosofia politica che Heidegger ha decostruito ha inizio con la Repubblica di Platone e, lungo il suo corso, ha sempre, in tutte le diverse declinazioni del discorso sulla comunità, tenuto fermo un assunto, ossia, con le parole di Esposito, «che la comunità sia una ‘proprietà’ dei soggetti che accomuna: un attributo, una determinazione, un predicato che li qualifica come appartenenti ad uno stesso insieme, o anche una ‘sostanza’ prodotta dalla loro unione»32.

Su questo comune terreno concettuale si sono mosse tutte quelle filosofie che hanno guardato alla comunità come un pieno, un’autenticità; un’autenticità perduta, come nella sociologia organicistica di Tönnies o nelle filosofie di Rousseau, Hobbes e Locke, o che aspetta di essere realizzata pienamente, come in tutte le filosofie utopistiche (Moro, Bacone, Campanella) o nel pensiero di Marx o, infine, in quello dei comunitaristi americani33. Un nuovo pensiero della comunità deve cominciare sgombrando il terreno dal peso di una tradizione intrisa di mitologia e di romantico pathos alla quale è facilmente ascrivibile anche il filone della tradizione religiosa cristiana34. 31

Ivi, p. 90. Ivi, p.VIII. 33 Per la tradizione del comunitarismo punti di riferimento essenziali sono: M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge: Cambridge University Press, 1998, tr. it., Il liberalismo e i limiti della giustizia, Milano: Feltrinelli, 1994; A. MacIntyre, After Virtue: A Study in Moral Theory, Londra: Duckworth, 1981, tr. it., Dopo la virtù: saggio di teoria morale, Roma: Armando, 2007; R. D. Putnam, “Bowling Alone: America’s Declining Social Capital”, «Journal of Democracy», Vol. 6, No. 1, Jan. 1995, pp. 65–78. 34 Sul concetto di “comunità” nell’ambito della tradizione cristiana si veda P. C. Bori, Koinonia. L’idea di comunione nell’ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Brescia: Paideia, 1972. 32

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Nella prospettiva della radicalizzazione del pensiero della comunità, la riflessione di Aldo Masullo si colloca in una posizione critica rispetto alla tesi di Heidegger e fa valere le ragioni della pluralità, oltre a quelle della temporalità. L’heideggeriana estatica apertura dell’esistenza sembra fin troppo vincolata ad una oggettività – quella delle strutture dell’esistenza – sovraordinata all’individuo35. L’essere aperto dell’uomo è orientato, per Masullo, verso un’oggettività che egli interpreta, piuttosto, come «interiorità comune storica, sulla quale l’individuo s’affaccia e partecipando alla quale assurge a soggetto»36. È vero che anch’egli intende sostenere, rispetto alla tradizione, un rovesciamento del rapporto individuo-comunità. È vero che «la comunità si svela […] come il fondamento di quel trovare che è l’uomo»37, ma il discorso di Masullo si carica di eticità e la sua lettura del soggettivismo moderno passa attraverso la categoria del solipsismo inteso non soltanto come dottrina filosofica ma come descrizione di un modo di esistere, come la categoria che qualifica paradigmaticamente il senso della modernità e, pertanto, anche il suo complessivo atteggiamento morale. Lo stesso hegelismo non appare come antidoto al solipsismo, quanto piuttosto l’approdo opposto delle stesse premesse, per cui, come scrive l’autore: «Il solipsismo in breve è il dramma di una spiritualità oscillante, nella sua proiezione ideologica, tra Cartesio e Hegel, tra l’unicità del cogito e l’unità dello spirito. La pluralità resta allora soltanto un accidente, una ‘complicazione’»38.

35 Nella lettura di Masullo, anche Heidegger rimarrebbe invischiato in quel «capovolgimento ontologico […] per cui non è l’unità funzione della pluralità, ma la pluralità funzione dell’unità, onde derivano l’immediatezza e la necessità della coincidenza dell’universale e dell’individuale» (A. Masullo, Il senso del fondamento, Napoli: Libreria Scientifica, 1967, p. 102). 36 A. Masullo, La comunità come fondamento, Napoli: Libreria Scientifica, 1965, p. 23. 37 Ivi, p. 22. 38 Ivi, p. 20.

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Né la monade dell’individualismo moderno, né l’hegeliana universalità dello spirito danno ragione dell’intersoggettività, la quale, soltanto, può essere pensata come fondamento della soggettività. L’altro è, nello stesso tempo, il termine di uno strappo da cui la soggettività si origina e il telos sul quale la soggettività è costitutivamente aperta. Scrive, a questo proposito Masullo: «Il soggettivo è, in breve, la pluralità comunicante: pluralità comunicante intra-soggettiva (tempo e memoria), che suppone a sua volta la fondamentale pluralità comunicante inter-soggettiva (la comunità). ‘Comunicare’ è avere ‘oggetti’ in comune. Se fossi solo, l’unico, non avrei ‘oggetti’, ma non sarei neppure soggetto»39.

La “comunità” appare, allora, come l’ambiente storicoculturale della comunicazione fondata sul regno del simbolico e della mediatezza che si apre in seguito all’originaria lotta con l’altro per l’indipendenza e si alimenta del senso di indigenza di ogni soggettività e della sempre rinnovata apertura nel gioco della dialettica intersoggettiva. Lo stare in comunicazione permette la costruzione del mondo con gli strumenti umano-sociali e fa sì che «l’uomo, con la sua vivente temporalità, salv(i) il mondo, ‘eternandolo’, sollevandolo dalla dissipazione dell’insignificanza e fissandolo negli oggetti […] La comunità fonda l’uomo come salvatore del mondo»40.

Nella modernità, finché ha dominato la metafisica del soggetto, la comunità doveva necessariamente essere lasciata nello sfondo: pensata o come un prima mitizzato o come un dopo utopistico. Il mito di una condizione originaria perduta, sia nella versione di paradiso che in quella hobbesiana di giungla selvaggia, è chiamato a dar conto della nascita di un soggetto inscritto nella cornice dell’individualità responsabile e distinta, sia nella lotta 39 40

Ivi, p. 111. Ivi, p. 138.

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che nell’aggregazione. Quest’ultima prende corpo come “società”, ossia come somma di individui che stabiliscono relazioni bisognose di garanzie formali (convenzioni, contratti, sottoscrizioni). Anche rispetto alla figura dello Stato, rimane l’ineliminabile senso dell’associazione come limite dello spazio individuale, come “male necessario”. È il caso di notare che tra la visione del liberalismo classico e quella hegelo-marxiana, tra l’esaltazione dell’individualità e quella, opposta, della totalità sostanziata, la filosofia politica di Dewey ha rappresentato un tentativo di mediazione in cui il suo impegno di indebolire entrambe le categorie di “individuo” e di “società” apre un varco verso un pensiero della comunità che non si lascia dissolvere nella tradizione della filosofia politica corrispondente alla metafisica del soggetto. Secondo la sua prospettiva, le teo­ rie “individualistiche” (Cartesio, Locke, utilitarismo, ecc.) hanno creato le condizioni teoriche per la contrapposizione tra individuo e stato: lo stato viene visto come l’ostacolo della espansione della sfera individuale di libertà41. Come è noto, per Dewey si tratta di una contrapposizione fittizia in quanto individuo e società sono, al suo sguardo, sempre necessariamente compresenti e, si potrebbe dire, rappresentano soltanto distinzioni a posteriori di una medesima situazione. Per questa ragione Dewey appare come l’autore che può meglio dialogare con la visione post-heideggeriana di comunità. Dal punto di vista di Jean-Luc Nancy, la comunità, come referente della proiezione mitica, non è mai esistita. Prendendo nette distanze dalla tradizione, egli sostiene: «La comunità, lungi dall’essere ciò che la società avrebbe perso o infranto, è ciò che ci accade – questione, attesa, evento, imperativo – a partire dalla società […] Perduti siamo solo noi stessi, noi sui quali il ‘legame sociale’ (i rapporti, la comunicazione), nostra invenzione, ricade pesantemente come la rete di una trappola economica, tecnica, politica, culturale. 41

J. Dewey, The Public and its Problems, cit.

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Impigliati nelle sue maglie ci siamo forgiati il fantasma della comunità perduta»42.

Ora, dopo il crollo della metafisica del soggetto, il pensiero della “comunità” ha nuove possibilità: «Ciò che non è un soggetto apre e si apre immediatamente su una comunità, il cui pensiero eccede a sua volta le risorse della metafisica del soggetto»43. Quello che Nancy intende sostenere è che la comunità non è soltanto, pur nelle sue multiformi rappresentazioni, origine perduta o utopia rincorsa, il segno di una deriva di senso prodotta dalla volontà di costruire delle incarnazioni identificabili di comunità, come può essere stato, per esempio, il nazi-fascismo. Il senso più proprio della comunità è, piuttosto nel fatto che «La comunità ci è data – e noi siamo dati e abbandonati secondo la comunità: non è un’opera da fare, ma un dono da rinnovare, da comunicare. È piuttosto un compito, un compito infinito nel cuore della finitezza»44.

A partire dal pensiero di Heidegger, ma andando anche oltre ciò che egli ha esplicitamente detto, Nancy pone la questione della comunità su un piano squisitamente ontologico quando scrive: «[E]siste dunque ciò che impropriamente si potrebbe chiamare una ‘socialità originaria’ o ontologica, la quale, nel suo principio, va ben oltre il semplice motivo dell’essere-sociale dell’uomo (lo zôon politikón è secondo rispetto alla comunità. […] La comunità indica invece ciò a partire da cui soltanto qualcosa come l’uomo può essere pensato)»45.

La dimensione comunitaria, dunque, appartiene intrinsecamente all’essere inteso come con-essere originario, ragione per cui il pensiero della comunità migra dalla doman42

J.-L. Nancy, La communauté désouvrée, Paris: Bourgois, 1986, tr. it., La comunità inoperosa, Napoli: Cronopio, 1992, p. 37. 43 Ivi, p. 42 (tr. it.). 44 Ivi, p. 79 (tr. it.). 45 Ivi, p. 66 (tr. it.).

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da sull’“essere della comunità” verso la domanda, ben più radicale, che riguarda la “comunità dell’essere”. Non solo, ma avanzando sul cammino spianato da Heidegger, Nancy sostiene decisamente che non solo l’Essere è un con-essere (Mit-sein), ma anche l’uomo, come Da-sein, è costitutivamente un Mit-da-sein. Nello spirito del pensiero di Heidegger ha il primato l’essere-nel-mondo, il “ci” dell’esistenza umana. Con Nancy diremo che viene prima la comunità se la interpretiamo come la condizione – in cui da sempre ci troviamo – di “esposizione”46 agli altri. La logica dell’essere-con emerge dalla situazione dei viaggiatori di uno stesso scompartimento in un treno. Con le parole di Nancy: «Questa sospensione caratterizza l’essere-con: un rapporto senza rapporto, un’esposizione simultanea al rapporto e all’assenza di rapporto […] Questa esposizione al rapporto/ non rapporto non è altro che l’esposizione delle singolarità le une alle altre […] la ‘singolarità’ indica proprio ciò che forma ogni volta un punto di esposizione, ciò che traccia un’intersezione di limiti, sulla quale c’è esposizione»47.

Un altro recente contributo particolarmente interessante al pensiero filosofico della comunità viene da Roberto Esposito48. La radicalizzazione dell’indagine, in questo caso, si affida, in prima istanza, all’etimologia del termine “comunità”. Il significato corrente di tale termine sembra determinato dall’opposizione a “proprio”, a “privato” a “individuale”, ma se si bada all’etimologia latina “cum-munus”, si scopre una complessità semantica che conduce, invece, verso un nucleo costituito dall’idea di “dovere”. Il “munus”, rileva l’autore, è un dono obbligato:

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Il concetto di “esposizione” gioca un ruolo particolarmente significativo nell’indagine di Nancy. Essa «è prima di ogni identificazione, e la singolarità non è un’identità: essa è l’esposizione stessa, la sua attualità puntuale» (ivi, p. 184 tr. it.). 47 Ivi, p. 183 (tr. it.). 48 R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Torino: Einaudi, 19981, 20062.

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«una volta che qualcuno abbia accettato il munus, è posto in obbligo (onus) di ricambiarlo o in termini di beni o di servizio (officium). […] Questo, insomma, è il dono che si dà perché si deve dare e non si può non dare […] Il munus indica solo il dono che si dà, non quello che si riceve»49.

In questo senso esso indica una posizione di obbligo riconosciuto nei confronti degli altri, un pegno che non implica nessuno scambio e nessuna reciprocità; non riguarda gli oggetti, i beni, le sostanze che possono essere possedute in comune, neanche nella forma politicamente pregnante di una res publica. Come sintetizza l’Autore: «Ne risulta che communitas è l’insieme di persone unite non da una ‘proprietà’, ma, appunto, da un dovere o da un debito. Non da un ‘più’, ma da un ‘meno’, da una mancanza, da un limite che si configura come un onere, o addirittura una modalità difettiva, per colui che ne è, invece, ‘esente’ o ‘esentato’ […] Il munus che la communitas condivide non è una proprietà o un’appartenenza. Non è un avere, ma, al contrario, un debito, un pegno, un dono-da-dare. E dunque ciò che determinerà, che sta per divenire, che virtualmente già è, una mancanza. I soggetti della comunità sono uniti da un ‘dovere’ […] che li rende non interamente padroni di se stessi. E che più precisamente li espropria, in parte o per intero, della loro proprietà iniziale, della loro proprietà più propria – vale a dire della loro stessa soggettività»50.

È il castello della soggettività che viene preso d’assalto col risultato potenziale di una ridefinizione che annulla tutte le definizioni di soggetto come trasparente autocoscienza, come fondamento epistemico e giuridico della modernità. L’immagine che si profila è quello di una soggettività depotenziata, decentrata, in bilico tra un “dentro” e un “fuori” nel cui confine tendono a consumarsi i margini di movimento. Come “soggetti della propria mancanza” non sono essi che, sommandosi e interagendo tra loro, danno vita alle aggregazioni comunitarie, quanto piuttosto è la 49 50

Ivi, pp. XI-XII. Ivi, pp. XIII-XIV.

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

costitutiva condizione di “con-essere” che costituisce la loro «esposizione a ciò che ne [del soggetto] interrompe la chiusura e la rovescia all’esterno – una vertigine, una sincope, uno spasmo nella continuità del soggetto»51. Ma la modernità ha eretto le sue colonne su una opzione opposta a quella della “communitas”. La costituzione dell’individuo moderno è resa possibile, piuttosto, da una condizione di “immunitas”. Come chiarisce Esposito: «la gratitudine che sollecita il dono non è più sostenibile dall’individuo moderno che assegna ad ogni sua prestazione il suo specifico prezzo […] Gli individui moderni divengono davvero tali – e cioè perfettamente individui, individui ‘assoluti’, circondati da un confine che a un tempo li isola e li protegge – solo se preventivamente liberati dal ‘debito’ che li vincola l’un l’altro. Se esentati, esonerati, dispensati da quel contatto che minaccia la loro identità esponendoli al possibile conflitto con il loro vicino. Al contagio della relazione»52.

Il pensiero di Hobbes, da questo punto di vista, è paradigmatico: di fronte alla “uccidibilità generalizzata” che gli uomini avvertono di avere in comune, l’unica possibilità di esorcizzare la paura sembra essere quella di negare la comunità: «Se la comunità comporta delitto, l’unica possibilità di sopravvivenza individuale sta nel delitto della comunità»53. Un delitto che lascia sensi di colpa, tracce di una perdita e nostalgia; una questione irrisolta, insomma, che attraversa tutta la filosofia moderna come un “fiume carsico”, restando sommersa e tra le righe, in una filigrana che aspetta di essere portata in piena luce e affrontata una volta che è compiuta la disgregazione dei caratteri moderni della soggettività. Esposito esplora i passaggi cruciali di questo “fiume carsico” andando a scavare nelle filosofie di Hobbes, di Rous­ seau, di Kant, di Heidegger, di Bataille, inseguendo nelle pieghe delle loro opere il tarlo del pensiero della comunità; quella domanda che la modernità ha cercato di tenere a 51 52 53

Ivi, p. XV. Ivi, p. XXI. Ivi, pp. XXII-XXIII.

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bada, quasi a volerla esorcizzare, ma non ha risolto e che riemerge con tutta la sua forza dirompente nel pensiero di Heidegger nel quadro della sua messa in discussione radicale di tutta la tradizione metafisica. In un’interpretazione “positiva” del nichilismo la figura del niente può descrivere, secondo Esposito, un senso della comunità per il quale il niente non deve essere confuso con ciò che non è più o non è ancora. Se la comunità è una non-cosa, questo va inteso nel senso che «[l]a comunità, in altre parole, non è interdetta, oscurata, velata – ma costituita dal niente. Ciò vuol dire semplicemente che essa non è un ente. Né un soggetto collettivo, né un insieme di soggetti. Ma è la relazione che non li fa essere più tali – soggetti individuali – perché interrompe la loro identità con una barra che li attraversa alterandoli: il ‘con’, il ‘fra’, la soglia su cui essi s’incrociano in un contatto che li rapporta agli altri nella misura in cui li separa da se stessi»54.

Come si vede, “comunità” è, pertanto, quella dimensione su cui ci affacciamo esteriorizzandoci, lì dove con-dividiamo, ossia dividiamo e non accomuniamo, ma dividiamo insieme riconoscendo la nostra estraneazione e abitandola senza rincorrere punti di arrivo, reificazioni identitarie. Scrive ancora Esposito: «La comunità non è mai un luogo di arrivo, ma sempre di partenza. È anzi la partenza stessa verso ciò che non ci appartiene e che non potrà mai appartenerci. Perciò la communitas è ben lontana da produrre effetti di comunanza, di accomunamento, di comunione. Non riscalda e non protegge. Al contrario espone il soggetto al rischio più estremo: quello di perdere, con la propria individualità, i confini che ne garantiscono l’intangibilità da parte dell’altro. Di scivolare improvvisamente nel niente della cosa»55.

A ben guardare, il discorso sulla comunità non è che l’altra faccia – o una delle altre facce – del discorso sulla 54 55

Ivi, p. 149. Ivi, pp. 150-1.

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

soggettività postmoderna, nella misura in cui si saggiano, per questa via, delle possibilità di una sua ridefinizione e ricostruzione. Ricostruzione non nel segno della ri-soggettivazione che segue alla de-soggettivazione, ma nel segno del riconoscimento critico della de-soggettivazione come condizione da abitare senza illusioni e senza nostalgie. Il percorso di pensiero di Michel Foucault sulle relazioni tra sapere e potere, sulla sessualità, sulla follia ha avuto, nei suoi approdi ultimi, una focalizzazione complessiva sul tema della soggettività. La domanda su cosa ne è del soggetto nell’epoca della globalizzazione s’intreccia intimamente con quella sul destino e il senso della comunità. Foucault ha mostrato le tecniche della soggettivazione; ha svelato i sottili intrecci di giochi di verità e di potere, del potere veritativo che produce identità e assegna confini e percorsi della soggettività. D’altra parte le forme di vita in cui siamo immersi – della globalizzazione, del consumismo, della onnipotenza della tecnica e dell’impotenza della politica, della retoricizzazione mass-mediale della verità – appaiono come le tipiche tecniche di soggettivazione del nostro tempo. Non bisogna, tuttavia, dimenticare e sottovalutare il fatto che il nostro tempo è quello del nichilismo annunciato da Nietzsche, quel tempo in cui l’annuncio della morte di Dio ha a che fare non tanto con il destino di un Dio. Se Dio “muore” – e non certo di morte naturale – sono coloro che lo hanno “ucciso” ad avere qualche problema. Il potere degli assassini è lo stesso che teneva in vita quel Dio e ora si rivolta contro loro stessi: il deicidio coincide con la morte della loro verità. Il soggetto ha perso se stesso, il suo centro, e le categorie filosofiche che lo potevano assicurare a se stesso nella modernità hanno perso il loro terreno e i significati familiari. Tra i poli consunti di “universale” e “particolare” acquista voce la “singolarità qualunque” come forma di soggettività in cui l’universale e l’individuale si accartocciano nell’esemplarità prodotta dal linguaggio come luogo vuoto, di oscillazione tra dentro e fuori56. Tra una 56

G. Agamben, La comunità che viene, Torino: Bollati Boringhieri, 2001.

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presunta essenza universale dell’umanità e l’uomo come individuo contingente, l’attenzione è spostata verso il “volto umano” che, scrive Giorgio Agamben, «non è né l’individuarsi di una facies generica né l’universalizzarsi di tratti singolari: è il volto qualunque, nel quale ciò che appartiene alla natura comune e ciò che è proprio sono assolutamente indifferenti»57.

La condizione di “piccola borghesia planetaria” in cui l’avanzare del nichilismo ha ridotto l’umanità contemporanea nasconde una possibilità inedita che è quella, secondo Agamben, di riconoscere come proprio il movimento centripeto rispetto alla proprietà, di accettarsi come «singolarità senza identità, una singolarità comune e assolutamente esposta – se gli uomini potessero, cioè, non esser-così, in questa o quella identità biografica particolare, ma essere soltanto il così, la loro esteriorità singolare e il loro volto, allora l’umanità accederebbe per la prima volta a una comunità senza presupposti e senza soggetti, a una comunicazione che non conoscerebbe più l’incomunicabile»58.

Come ha posto in evidenza Pier Aldo Rovatti, per avvicinarci a una percezione della post-soggettività, è necessario prendere congedo dai termini assertivi della metafisica e lasciarsi accompagnare da quelle parole del linguaggio che indicano oscillazione, paradossalità, ricorsività, doppiezza. Di questo genere di parole alcune sono state pronunciate dalla filosofia più o meno recente: sospensione (epoché fenomenologica), soglia, gioco, oasi, decostruzione, doppio vincolo59.

57

Ivi, p. 21. Ivi, p. 53. 59 Cfr. P. A. Rovatti, Abitare la distanza, Milano: Raffaello Cortina, 20072; Id., Il paiolo bucato. La nostra condizione paradossale, Milano: Raffaello Cortina, 1988; Id., Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale, Udine: Forum, 2007. 58

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È ancora Rovatti che, riprendendo il vocabolario di Peter Sloterdijk60, rimarca le caratterizzazioni dei cittadini del villaggio globale: “turisti a tempo pieno”, “turisti per forza”, «sgravati […] dal senso e dalla finalità del loro agire»61, de-localizzati rispetto a qualunque luogo abitabile. Nella condizione di de-soggettivazione, la cui radicalità non lascia passare nessuna forma di ri-soggettivazione se non come illusione da cui stare in guardia, sono parole come “gioco” che lasciano intravedere la misura dello spostamento. Scrive Rovatti: «Il gioco […] è questa oscillazione tra interno ed esterno, tra attivo e passivo, in cui ne va della certezza dell’identità soggettiva, ma che permette in positivo una serie di chiarimenti virtuosi sulla nostra complessiva condizione di soggetti de-soggettivati. È insomma l’esperienza del gioco, con le sue conseguenze teoriche, che fornisce lo stile, la complessità e la curvatura dell’esperienza della verità che tutti stiamo cercando»62.

Se assumiamo che la situazione di gioco possa agevolmente condensare e chiarire un possibile senso generale delle indicazioni di Rovatti, bisognerà concentrarsi sulla produttività del paradosso e sottolineare – come ci ha insegnato Bateson – il fatto che i suoi effetti paralizzanti riguardano un certo uso della razionalità, ma non allo stesso modo il mondo delle pratiche63. Bisognerà chiedersi se la filosofia post-metafisica possa essere intesa anche

60 Cfr. P. Sloterdijk, Im Weltinnenraum des Kapitals. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrischen Globalisierung, Frankfurt a. M.: Surkhamp, 2005, tr. it., Il mondo dentro il capitale, Roma: Meltemi, 2006. 61 P. A. Rovatti, Possiamo addomesticare l’altro? La condizione globale, cit., p. 18. 62 Ivi, p. 37. 63 Di Gregory Bateson si vedano, in particolare, i saggi “The Logical Categories of Learning and Communication” (1964) e “Double Bind” (1969), entrambi raccolti nel volume Steps to an Ecology of Mind, Chicago: University of Chicago Press, 1972, tr. it., Verso un’ecologia della mente, Milano: Adelphi, 1977.

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come un “giocare” e un mettere in gioco il pensiero con mosse “transcontestuali”. E mettere in evidenza, infine, che ogni campo di gioco è necessariamente una scommessa di socialità.

3. Pratica e comunità di pratica Se le scienze sociali sembrano aver fallito nel loro sforzo di cogliere descrittivamente la comunità e di fornirne un costrutto esplicativo esauriente; se, d’altra parte, la filosofia politica della modernità ha concentrato la sua attenzione prevalente sulla “società” esorcizzando, in un certo senso, il pensiero della comunità, ciò nondimeno la comunità permane, come sempre, a evocare una tensione e una intenzionalità eticamente connotate, nella cui prospettiva resta imbattuto il valore fondamentalmente positivo che si tende a riconoscere ad essa. Lo spirito comunitario sembra sopravvivere a tutte le società e a tutti i formalismi, a tutti i contratti e alle burocrazie spersonalizzanti. Anzi, con l’avanzata dei mezzi di comunicazione di massa (escludendo il giornale), sembra che le possibilità di ridare fiato alle comunità siano rinnovate e rilanciate, con nuovi strumenti, in nuove dimensioni e con logiche in parte diverse da quelle del passato. È un segno eloquente che la globalizzazione passi essenzialmente per la metafora del “villaggio” e che prenda forma inizialmente e principalmente come esperienza comunicativa. Quel che sembra rimanere – o ritornare sempre di nuovo – della tönniesiana Gemeinschaft è la sua riducibilità a una serie di pratiche sociali pre-riflessive. La comunità si forma e si riforma ogni volta che un gruppo di persone condivide una pratica sociale per un tempo abbastanza lungo e con una certa continuità. Dopo aver assunto la “pratica” come l’incubatore privilegiato della costituzione, dello sviluppo e della sopravvivenza della comunità, la utilizzeremo anche come idea-guida da seguire nel prosieguo della nostra analisi del costrutto di “comunità”,

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

se non come «principio epistemologico»64 particolarmente promettente rispetto alla forme della conoscenza comunitaria, alle modalità del suo sviluppo e alle sue qualificazioni socio-cognitive. A questo scopo si rende necessario un lavoro di esplorazione più approfondita della stessa nozione di “pratica”. In questa prospettiva, un contributo significativo è rappresentato dalle ricerche antropo-sociologiche e dalle connesse riflessioni epistemologiche e di metodo sviluppate da Pierre Bourdieu. All’interno della sua teoria dell’azione egli sostiene la tesi che gli agenti sociali sviluppano delle strategie di azione basate su un certo numero di disposizioni inconsapevoli acquisite nel corso della socializzazione, e denomina habitus queste condensazioni, intesi come una sorta di grammatica che fornisce le regole di fondo e gli schemi su cui innestare la varietà e la molteplicità delle azioni richieste dall’ambiente sociale. Alla padronanza degli habitus è connesso lo sviluppo del “senso pratico”, il quale, dunque, da una parte viene incorporato come insieme di regole e di schemi dati e, dall’altra, è tale da fornire risposte diversificate alle variazioni del contesto sociale e alle sue richieste. Il “senso pratico” agisce efficacemente soltanto se confrontato con un contesto sociale familiare, corrispondente, nelle sue strutture, alle strutture incorporate negli habitus, più precisamente definiti dall’autore come «sistemi di disposizioni durature e trasmissibili, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, cioè in quanto principi generatori e organizzatori di pratiche e rappresentazioni che possono essere oggettivamente adatte al loro scopo senza presupporre la posizione cosciente di fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, oggettivamente ‘regolate’ e ‘regolari’ senza essere affatto prodotte dall’obbedienza a regole e, essendo tutto questo, collettivamente orchestrate senza 64

S. Gherardi, “La pratica quale concetto fondante di un rinnovamento nello studio dell’apprendimento organizzativo”, «Studi organizzativi», N° 1, 2000.

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essere prodotte dall’azione organizzatrice di un direttore d’orchestra»65.

In fin dei conti l’insieme coerente degli habitus vigenti in un determinato mondo storico-sociale si identifica col senso comune e con la sua funzione di orizzonte di senso condiviso dai più, anche come misura e limite della ragionevolezza delle variazioni. In questo senso, scrive Bourdieu, l’habitus «è ciò che permette di produrre pratiche in numero infinito e relativamente imprevedibili (come le situazioni corrispondenti), limitate tuttavia nella loro diversità. In breve, essendo un prodotto di una classe determinata di regolarità oggettive, l’habitus tende a generare tutte le condotte, e soltanto quelle ‘ragionevoli’, di ‘senso comune’, che sono possibili nei limiti di queste regolarità, e che hanno tutte le possibilità di essere positivamente sanzionate; […] in tal modo, l’habitus tende a escludere ‘senza violenza, senz’arte, senza argomentazioni’, tutte le ‘follie’ (‘questo non fa per noi’), cioè tutte le condotte destinate a essere negativamente sanzionate in quanto incompatibili con le condizioni oggettive»66.

È abbastanza chiaro che questa visione di Bourdieu ribadisce la natura a-riflessiva della pratica e, sebbene egli riconosca e sottolinei la forza generatrice di novità degli habitus, distinguendoli dalle mere abitudini, tuttavia la creatività individuale, l’a-topía, resta fuori da questo schema interpretativo. Le differenze individuali e le condotte divergenti restano nei limiti delle «singolarità delle traiettorie sociali, alle quali corrispondono serie di determinazioni cronologicamente ordinate e irriducibili le une alle altre: l’habitus che, in ogni momento, struttura in funzione delle strutture prodotte dalle esperienze anteriori le nuove esperienze che modificano queste strutture nei limiti definiti dal loro potere di selezione, realizza un’integrazione unica, dominata dalle prime esperienze, 65

P. Bourdieu, Le sens pratique, Paris: de Minuit, 1980, tr. it., Il senso pratico, Roma: Armando, 2005, p. 84. 66 Ivi, p. 88-9 (tr. it.).

La comunità di ricerca filosofica come istanza etica

delle esperienze statisticamente comuni ai membri di una stessa classe»67.

Una pratica sociale resta tale e non si deve confondere con gli schemi teorici che tentano di spiegarla e descriverla. Le due logiche, quella della interrogazione teorica della pratica e quella della relazione pratica con la pratica, restano profondamente differenti. Una prima, sostanziale differenza consiste nel fatto che la pratica si sviluppa nel tempo. Da questa condizione derivano le qualificazioni conseguenti della irreversibilità e del ritmo. Diversamente che per la scienza, il tempo della pratica è “durata” ed è analogo al tempo musicale: ha a che fare innanzitutto col futuro, in una percezione globale dove presente e futuro sono indistinti, senza soluzioni di continuità. Un’altra connotazione significativa che Bourdieu riconosce alla pratica è l’”urgenza”, essa, scrive l’Autore, è «il prodotto della partecipazione al gioco e della presenza al futuro che essa implica: basta mettersi fuori-gioco, fuoriposta, come fa l’osservatore, per far scomparire le urgenze, gli appelli, le minacce, i passi da compiere che fanno il mondo reale, cioè realmente abitato. […] Il senso del gioco è il senso dell’a-venire del gioco, il senso del senso della storia del gioco che dà il suo senso al gioco»68.

La ricerca sociale, secondo Bourdieu, fallisce costantemente il bersaglio del mondo della pratica, sia quando adotta un approccio oggettivistico e distanziante in cui la strumentazione teorica appare con tutta evidenza nella sua discontinuità col fenomeno indagato, sia anche quando adotta un approccio fenomenologico-soggettivistico. Entrambe queste opzioni di metodo appaiono, in realtà, «opposti al modo pratico di conoscenza che fonda l’esperienza ordinaria del mondo sociale»69.

67 68 69

Ivi, p. 96 (tr. it.). Ivi, p. 128 (tr. it.). Ivi, p. 43 (tr. it.).

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Winograd e Flores utilizzano l’esempio del martellare per distinguere, in una prospettiva heideggeriana, la conoscenza pre-riflessiva (incastonata in una pratica) e quella riflessiva. Nella pratica del martellare non esiste il “martello” come nozione categorizzabile in base all’operazione di inclusione di classe. Il martello, nell’azione complessiva del falegname, non è oggetto distinto dal martellare. Solo la condizione di inutilizzabile rende il martello disponibile per il pensiero riflessivo. Seguendo questa prospettiva, gli autori hanno estrapolato le seguenti conseguenze che caratterizzano la condizione di chi prende parte a una pratica: 1. «Non potete evitare di agire: le vostre azioni influenzano la situazione e voi stessi, spesso contro il vostro volere. 2. Non potete prendere le distanze e riflettere sulle vostre azioni: siete lasciati alle vostre intuizioni e dovete far fronte a tutto ciò che succede nel modo in cui succede. 3. Gli effetti delle azioni non possono essere previsti: la natura dinamica del comportamento sociale preclude ogni previsione accurata. 4. Non avete una rappresentazione stabile della situazione: a fatto avvenuto possono evidenziarsi delle strutture significative, ma nello svolgersi di un flusso non ci sono che frammenti arbitrari che potrebbero organizzarsi entro molteplici strutture diverse, o forse nessuna. 5. Ogni rappresentazione è un’interpretazione: non c’è modo di determinare se una qualsiasi interpretazione sia giusta o sbagliata, per cui una ‘analisi obiettiva’ di ciò entro cui si è stati gettati è impossibile. 6. Il linguaggio è azione: ogni volta che qualcuno dice qualcosa, crea una situazione piuttosto che descriverla, il che significa che è impossibile mantenere un distacco da quello che emerge, a meno di non dire nulla, che però è un modo di reagire talmente strano da deformare comunque la situazione»70.

70

Cfr. T. Winograd, F. Flores, Understanding Computer and Cognition: A New Foundation for Design, Reading (MA): Addison-Wesley Professional, 1987, tr. it., Calcolatori e conoscenza. Un nuovo approccio alla progettazione delle tecnologie dell’informazione, Milano: Mondadori, 1987, pp. 58-9.

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Elementi di indiscutibile suggestione per una definizione di pratica possiamo individuarli in quello che Wittgentein ha chiamato “giuoco linguistico”. Nella sua interpretazione del linguaggio nelle Ricerche Filosofiche, il filosofo austriaco ha segnato una svolta a partire dalla quale la nozione di pratica si riveste di abiti completamente nuovi e inediti. L’operazione essenziale del secondo Wittgentein consiste nella demitizzazione del linguaggio e nel suo svuotamento rispetto a tutti i suoi presunti referenti extralinguistici (metafisici). In questo senso, un linguaggio non è mai un fatto privato, ma sociale. I significati sono dati all’interno di pratiche sociali regolate. Possedere un concetto vuol dire imparare a obbedire alle regole di una data pratica e condividere una specifica “forma di vita”. Così scrive l’autore: «Ciò che chiamiamo ‘seguire una regola’ è forse qualcosa che potrebbe esser fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita? […] Non è possibile che un solo uomo abbia seguito una regola una sola volta. Non è possibile che una comunicazione sia stata fatta una sola volta, una sola volta un ordine sia stato dato e compreso, e così via. […] Seguire una regola, fare una comunicazione, dare un ordine, giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni). Comprendere una proposizione significa comprendere un linguaggio. Comprendere un linguaggio significa essere padroni di una tecnica»71.

In altre parole, le pratiche sociali in cui siamo immersi e le cui regole non ci appaiono in primo piano sono le condizioni per la definizione e la condivisioni dei significati e dei sensi delle parole. Queste, pertanto, non sono etichette che stanno al posto di oggetti, ma strumenti. Come chiarisce l’Autore: «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, 71

L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford: Basil Blackwell, 1953, tr. it., Ricerche filosofiche, Torino: Einaudi, 19671, 19952, p. 107-8.

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un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti – Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (e ci sono somiglianze qua e là). Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, o che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente, non quando facciamo filosofia!»72.

Il “giuoco linguistico” è una pratica comunicativa basata sulle regole del gioco, di ogni gioco. Quel che è interessante, qui, è, anche, il gioco che lo stesso Wittgenstein sta giocando. A lui si dovrebbe rinviare la domanda: “Che gioco è quello di descrivere il linguaggio come una famiglia di ‘giochi’?”, “In che senso questo gioco è ancora dentro rispetto al linguaggio?”, “Quale ‘forma di vita’ è tale da includere un gioco simile?”. Quel che Wittgenstein suggerisce, con la sua pratica descrittiva, è che in ogni campo di gioco c’è la possibilità di spingersi verso le linee periferiche più estreme, lì dove i confini appaiono con chiarezza per quello che sono, lì dove è possibile spingere lo sguardo al di là dei confini del gioco e, anzi, riposizionare lo stesso sguardo in modo da poter vedere dall’esterno la scena del gioco. È esattamente questa la mossa che Wittgenstein sta non descrivendo ma testimoniando praticamente come mossa possibile. È una mossa, tuttavia, che non può allontanare da sé quel destino di paradossalità che ha messo in evidenza Gregory Bateson nei suoi studi sull’umorismo, sul gioco e, più in generale, sulle “cornici” e il loro ruolo nella comunicazione e nella conoscenza umana, mettendo in chiaro come l’interazione umana sia mediata da due piani compresenti di comunicazione e di meta-comunicazione e come la seconda sia normalmente immersa e dissolta nella pratica all’interno della quale agisce conservando il suo statuto di conoscenza tacita73. 72

Ivi, p. 15 (tr. it.). M. Polanyi, The Tacit Dimension, New York: Doubleday, 1966, tr. it., La conoscenza inespressa, Roma: Armando, 1979. 73

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Le comunità, dunque, dove esistono si presentano come “comunità di pratica” e come tali, stando alla definizione di Etienne Wenger, si strutturano intorno a tre categorie fondamentali: Impegno reciproco. Consiste di «azioni di cui [i partecipanti] negoziano reciprocamente il significato»74. L’essere soggetti di tali azioni è titolo di appartenenza alla comunità, per cui l’appartenenza non ha carattere formale. In questo la “comunità di pratica” è diversa da un semplice net-work. Per il mantenimento di una “comunità di pratica” sono indispensabili intense relazioni di impegno reciproco organizzato intorno ai compiti da svolgere. Impresa comune. Si costituisce sulla base di una responsabilizzazione reciproca come parte della pratica. L’impresa viene definita dai partecipanti in azione e mai preventivamente. Essa non è basata sul consenso; il dissenso è ammesso e gioca un ruolo importante per lo sviluppo della pratica. L’impresa, allora, è comune perché «viene negoziata in maniera comunitaria»75. Sia nella forma “indigena” che in quella “negoziata” l’impresa non è mai dipendente e definita dall’esterno: «[È] la comunità che negozia la sua impresa»76. Repertorio condiviso. Costituisce l’insieme delle risorse per la negoziazione di significato. Include routine, parole, strumenti, modi di operare, storie, gesti, simboli, stili che sono entrati a far parte della pratica. Un repertorio è il frutto della storia di una comunità. In quanto tale, offre materiali e stili a cui attingere per reinterpretarli sempre di nuovo. In realtà, come afferma Wenger, «Le storie di interpretazione creano punti di riferimento comuni, ma non impongono un significato. Le parole, gli oggetti, i gesti e le routine sono utili non solo perché sono riconoscibili nella loro relazione con una storia di impegno 74

E. Wenger, Communities of Practice, Learning, Meaning and Identity, Cambridge: Cambridge University Press, 1998, tr. it. Comunità di pratica. Apprendimento, significato e identità, Milano: Cortina, 2006, p. 88. 75 Ivi, p. 94 (tr. it.). 76 Ivi, p. 96 (tr. it.).

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reciproco, ma anche perché possono essere reimpegnati in nuove situazioni»77.

Come si vede, il carattere dominante di una “comunità di pratica” è la sua natura informale e fortemente autoreferenziale. Essa non può essere progettata, non può essere trasformata e orientata dall’esterno, non può essere irrigidita in una identità reificata e chiusa. Così intese – come chiarisce Wenger – «le comunità di pratica sono dappertutto; e tutti noi apparteniamo a delle comunità di pratica. A casa, sul lavoro, a scuola, negli hobby, in qualunque fase della nostra vita»78.

Anche quando si trovano all’interno di istituzioni e di organizzazioni, le “comunità di pratica” non coincidono con le strutture formali dell’organizzazione, ma nascono e prosperano nelle sue maglie, per lo più all’insaputa – o nell’indifferenza – dell’organizzazione formale. Quel che appare rilevante rispetto ai processi di apprendimento è che tutto ciò che un individuo apprende in una “comunità di pratica” ha un valore trasformativo molto più alto di qualsiasi altro apprendimento formalizzato e istituzionalizzato. Questa osservazione, tuttavia, non deve portarci ad una classificazione di valore. Non sempre e necessariamente le CdP sono fonti di emancipazione. Non sono, di per sé, né positive né negative. Quel che è certo che «in quanto luogo di impegno nell’azione, di relazioni interpersonali, di conoscenze condivise e di negoziazione di imprese, queste comunità detengono la chiave per una reale trasformazione, quella che produce effetti reali sulla vita delle persone»79.

Per meglio comprendere il potenziale trasformativo dell’apprendimento all’interno della “comunità di pratica” è

77 78 79

Ivi, p. 99 (tr. it.). Ivi, p. 13 (tr. it.). Ivi, pp. 101-2 (tr. it.).

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necessario risalire alle qualità che Lave e Wenger attribuiscono al fenomeno dell’apprendimento e alla teoria che lo inquadra nella classe di pratica sociale. In questa prospettiva, piuttosto che acquisizione di conoscenze proposizionali, l’apprendimento è collocato nel contesto di specifiche forme di co-partecipazione sociale80. L’individuo che apprende non acquisisce una quantità definita di conoscenze astratte che poi trasporterà e riapplicherà successivamente in altri contesti, ma acquisisce l’abilità di agire impegnandosi nel procedimento e nelle condizioni della “partecipazione periferica legittima”. Quest’ultima, come chiariscono gli autori, indica «la particolare modalità di partecipazione della persona-cheapprende coinvolta nella pratica reale di un esperto, ma solo in misura parziale e con una responsabilità limitata rispetto al prodotto finale complessivo. Non implica necessariamente che la persona-che-apprende acquisisca delle rappresentazioni mentali che restano fisse da quel momento in poi, né che la ‘lezione’ insegnata consista di per sé in una serie di rappresentazioni astratte»81.

La costruzione del significato, la comprensione e l’apprendimento si definiscono non in una mente individuale, bensì in relazione ai contesti d’azione e sono processi che avvengono all’interno di una cornice partecipativa come frutto di mediazione e negoziazione tra le diverse prospettive dei compartecipanti. Questa dimensione dell’apprendimento – in cui hanno un ruolo costitutivo l’improvvisazione, i casi reali di interazione e altri processi – può essere considerata un tipo speciale di pratica sociale caratterizzata dalla “partecipazione periferica legittima”. Questo vuol dire che l’apprendimento è nell’azione e, quindi, può essere considerato un aspetto della pratica, presente in qualunque attività e, inoltre, che esso prende forma allorché viene legittimata una partecipazione alla pratica 80 J. Lave, E. Wenger, Situated Learning. Legitimate Peripheral Participation, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, tr. it., L’apprendimento situato, Trento: Erickson, 2006. 81 Ivi, p. 10 (tr. it.).

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stessa. È il caso dell’acquisizione spontanea del linguaggio, dove la persona che apprende è un partecipante periferico legittimo che interagisce con persone che padroneggiano bene una determinata lingua. Oppure, per fare un altro esempio, è il caso di una persona che apprende dopo aver cambiato contesto di lavoro e che si integra all’interno di nuovi campi di partecipazione, dove diventa gradualmente capace di eseguire concretamente delle pratiche. Per quanto riguarda il ruolo del linguaggio nell’apprendimento, Lave e Wenger mettono in discussione l’idea che la spiegazione verbale sia un metodo d’insegnamento particolarmente efficace o superiore alla dimostrazione diretta. Se l’apprendimento implica un maggiore accesso all’attività, allora il modo migliore per ottimizzare l’apprendimento consiste nell’agire e non nel parlare dell’attività. “La partecipazione periferica legittima” non è una semplice struttura di partecipazione in cui un apprendista ricopre un ruolo particolare ai margini di un processo più ampio, ma è un processo interattivo in cui l’apprendista interviene eseguendo simultaneamente diversi ruoli ciascuno dei quali implica un diverso genere di responsabilità, un insieme distinto di relazioni di ruolo e un coinvolgimento interattivo differente. A ben guardare, la nozione di “partecipazione periferica legittima” ci permette di parlare delle relazioni fra nuovi arrivati e veterani nonché di attività, identità, strumenti e comunità di conoscenza e pratica. Si riferisce al processo mediante il quale i nuovi arrivati entrano a far parte di una comunità di pratica. Nel processo con il quale una persona diventa partecipante a pieno titolo di una pratica socioculturale si esprimono le intenzioni di apprendere e si configura il significato dell’apprendimento. Il concetto di “partecipazione periferica legittima”, in definitiva, viene proposto per descrivere la partecipazione alla pratica sociale, di cui l’apprendimento è un elemento costitutivo. La perifericità allude al fatto che esistono molti modi differenti, più o meno partecipativi e inclusivi, di essere collocati nei campi di partecipazione definiti da una comunità. La

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perifericità, quando è attivata, richiama un’apertura, un modo di aver accesso alle fonti di comprensione attraverso un coinvolgimento crescente. La “partecipazione periferica legittima” non è di per sé una forma o una tecnica di insegnamento ma è un modo di intendere l’apprendimento, nella misura in cui esso avviene a prescindere dalle forme di insegnamento esplicito che il contesto fornisce nonché dalla presenza di una qualsiasi forma d’insegnamento intenzionale. È interessante sottolineare che la teoria dell’apprendimento situato si distingue rispetto a una tradizione che, facendo capo a Vygotskji, ha interpretato i processi di apprendimento come “internalizzazione”82. Infatti, a differenza dell’apprendimento inteso come internalizzazione, l’apprendimento descritto come partecipazione a una comunità di pratica riguarda l’intera persona che agisce nel mondo e fornisce una immagine più transattiva della relazione interno-esterno. Concependo l’apprendimento in termini di partecipazione si richiama l’attenzione sul fatto che esso è un insieme di relazioni in evoluzione e sempre nuove; ciò è coerente con una visione relazionale delle persone, delle loro azioni e del mondo, tipica di una teoria della pratica sociale. Cosicché il concetto di partecipazione si configura come il perno della teoria dell’apprendimento, il luogo in cui si realizza la costante interazione tra la comprensione e l’esperienza, l’evento che coinvolge l’intera persona in un processo che ha a che fare con la costruzione di identità. Considerare l’apprendimento come “partecipazione periferica legittima” significa riconoscere che esso non è semplicemente una condizione per l’appartenenza ma è di per sé una forma di appartenenza in evoluzione che concerne sia lo sviluppo di identità di persone consapevolmente abili 82 Cfr. L. S. Vygotskij, Myšlenie i recˇ’, Mosca: Gos. Soc.-Ekon. Izd, 1934, tr. it., Pensiero e linguaggio, Roma-Bari: Laterza, 1992; J. V. Wertsch (ed.), Culture, Communication, and Cognition: Vygotskian Perspectives, Cambridge: Cambridge University Press, 1985; B. Rogoff, Apprenticeship in Thinking: Cognitive Development in Social Context, Oxford: Oxford University Press, 1990.

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nella pratica, sia la riproduzione e la trasformazione delle comunità di pratica. In questo senso, l’apprendimento non è mai semplicemente un processo di trasferimento o assimilazione. Quando è visto come pratica sociale, esso implica sempre la trasformazione e il cambiamento83. Passare dal concetto della singola persona-che-apprende all’idea di “partecipazione periferica legittima” a una comunità di pratica significa decentrare l’analisi dell’apprendimento e rivedere, nello stesso tempo, la relazione maestroallievo, la cui accentuata bipolarità della tradizione viene ripensata in termini di distribuzione: «La maestria – sostengono Lave e Wenger – non è nel maestro ma nell’organizzazione della comunità di pratica a cui egli appartiene»84. Attraverso il coinvolgimento diretto nelle attività, si modificano le relazioni sociali e si sviluppano le conoscenze e le abilità degli apprendisti di una comunità. La perifericità legittima dei nuovi arrivati non fornisce loro solo un posto di osservazione ma comporta la partecipazione come mezzo di apprendimento della “cultura della pratica”, per assorbirla ed esserne assorbiti. Da una posizione largamente periferica, gli apprendisti costruiscono gradualmente un’idea generale della pratica della comunità. Il termine “comunità” implica “partecipazione a un sistema di attività in cui si condivide una stessa rappresentazione di ciò che si sta facendo e di cosa esso significhi nella vita personale e della propria comunità”, ed è essenzialmente definibile come «una serie di relazioni fra alcune persone, un’attività e il mondo, sia nel loro divenire sia in rapporto ad altre comunità di pratica tangenziali e in parte sovrapposte. Una comunità di pratica è una condizione essenziale per l’esistenza della conoscenza»85.

83 J. Merizow, Transformative Dimension of Adult Learning, S. Francisco (CA): Wiley & Sons 1991, trad. it., Apprendimento e trasformazione, Milano: Cortina, 2003. 84 J. Lave, E. Wenger, Situated Learning. Legitimate Peripheral Participation, cit., p. 61 (tr. it.). 85 Ivi, p. 64 (tr. it.).

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Il profilo wengeriano della comunità di pratica, per i suoi stretti legami con i modelli tradizionali di apprendistato, rende conto della rilevanza della partecipazione diretta e informale ai contesti di azione nei processi di apprendimento. Mette, d’altra parte, in luce i limiti di una relazione formativa giocata sul trasferimento di conoscenze proposizionali de-contestualizzate, ma, nello stesso tempo lascia aperta la domanda sulla trasformabilità delle competenze incluse in una pratica. In altre parole, se è vero che un individuo apprende più efficacemente e in modo più significativo attraverso una “partecipazione legittima” ad una pratica, non è altrettanto vero che la comunità di pratica, presa nella sua globalità e nella sua identità separata, apprende altrettanto. Fintanto che rimane comunità, non consente lo sviluppo di riflessività e, quindi, di autotrascendimento. La CdP non è riflessiva per definizione. In essa l’apprendimento è definito in termini di partecipazione periferica legittima. Sulla base di questa premessa, si deve supporre che l’apprendimento riguarda i soggetti che partecipano muovendosi tra la periferia e il centro, ma che, nel suo complesso, la CdP non apprende niente. Rimane, per quanto riguarda la quantità e la qualità del suo bagaglio conoscitivo, inalterata e, nel momento in cui dovesse apprendere, cesserebbe di essere “comunità di pratica” per trasformarsi in “comunità di ricerca”.

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Capitolo II La comunità di ricerca 1. La “comunità di ricerca”: origine e senso Il significato della locuzione “comunità di ricerca” (CdR) è ben nota a chi, a diverso titolo e per diverse ragioni, ha intrattenuto qualche rapporto col mondo della Philosophy for children. Nella pratica didattica incorporata in questo curricolo, l’espressione denota lo specifico setting operativo e l’insieme di atteggiamenti e figure che la relazione formativa assume. Molto spesso, nella comunicazione corrente, ha un rinvio di tipo negativo per indicare un assetto che non è quello della tradizionale classe scolastica e, in questo senso, i referenti dell’espressione sono la disposizione in cerchio, un certo uso della lavagna, un certo ruolo dell’insegnante-facilitatore, e così via. Nell’orizzonte della pratica e riguardo al suo contenuto denotativo, l’espressione CdR sembra sufficientemente definita e chiara. Ma, questa chiarezza semantica vale soltanto per chi ha fatto esperienza della pratica corrispondente alla CdR. Cerco di chiarire con un’analogia. Se partecipo ad una festa tradizionale cinese e poi mi dicono la parola cinese che indica quell’evento, io mi sarò appropriato compiutamente del contenuto denotativo di quella parola. Se, però, cerco di appropriarmi del significato di una parola cinese sulla scorta di spiegazioni verbali (preferibilmente in lingua italiana), allora il risultato sarà molto diverso ed è assai probabile che, a quel punto, il referente di quella parola sarà un contenuto molto più somigliante al folklore del mio paese. In questo secondo caso le fonti della connotazione hanno la meglio su quelle della denotazione e la significazione si alimenta più a connessioni interne e soggettive che a “dati” esterni. In una situazione analoga si trova l’espressione “comunità di ricerca” rispetto a chi non ne ha una conoscenza

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per partecipazione diretta ed esperienza personale. Nei limiti in cui ciò può essere possibile, è necessario, allora, esplicitare gli strati di connotazione, ossia le reti di rinvii semantici che l’espressione può implicare legittimamente, segnando anche i necessari confini dell’estensione dei contesti di riferimento. In altre parole, si tratta anche di mettere l’espressione al riparo rispetto al rischio che possa funzionare come slogan fortemente omonimo, buono per molti usi e per svariati contesti, ricco di suggestioni, ma foriero, a causa della intrinseca polisemia dei termini coinvolti, di possibili equivoci e fraintendimenti. Abbiamo visto nel capitolo precedente come il termine “comunità” sia sfuggente e aperto. Ma, la stessa cosa si può dire del termine “ricerca”. Come ripararsi dai pericoli di imprevedibili derive di significato quando si ha a che fare con termini che hanno un uso così ampio nel linguaggio comune? L’operazione da fare è quella di circoscrivere un’area di significazione e precisarla rispetto ai suoi confini e alle sue peculiarità, ripercorrerne la storia e individuarne la provenienza. Operazione che, rispetto alla locuzione “comunità di ricerca” ci riporta, infatti, a una precisa storia, intessuta di eventi, personaggi, idee e prospettive filosofiche e pedagogiche ed è quella che cercheremo di evocare nei suoi passaggi più significativi. Non c’è dubbio che ognuno si trova ad appartenere, generalmente, a una o più “comunità di pratica” per effetto dei suoi personali posizionamenti nel mondo e delle sue destinazioni. In altre parole, le comunità di pratica pre-riflessive, nei loro molteplici assetti e forme, non sono state progettate da nessuno: sono un portato della socialità umana. Se una “comunità” c’è, una “comunità di ricerca”, invece, si deve formare per effetto di qualche trasformazione e lo stesso si dovrà dire della CdRF. Né la pratica riflessiva contestualizzata, né quella in stile filosofico si sviluppano spontaneamente negli ambienti sociali e comunicativi. Sappiamo, infatti, che un’organizzazione tende a conservare staticamente i suoi equilibri e le sue procedure; anzi, si attrezza con potenti routine difensive di fronte alle

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prospettive di cambiamento concettuale1. Sappiamo anche che il pensiero convergente e conformistico è più comodo e anche il più diffuso. Come e quando, allora, si attiva il pensiero riflessivo? Ritorniamo a John Dewey per chiarire, in prima istanza, l’emergenza dell’attività riflessiva. In Come pensiamo, e poi nella Logica il pensatore americano ha sostenuto la tesi che le forme logiche hanno una matrice sociale e operativa e, pertanto, derivano dallo sviluppo dell’indagine, non pre-esistono rispetto ad essa2. Quello che Dewey vuole rimarcare è la circolarità tra forme e regole logiche, da una parte, e procedure e pratiche di ricerca, dall’altra. Enuncia, infatti, a questo proposito, la sua convinzione che «l’indagine possa sviluppare nel corso del suo stesso svolgimento i criteri logici e le forme alle quali l’ulteriore ricerca debba essere sottoposta»3. Avendo riportato la logica alle dimensioni spazio-temporali, Dewey ne rivendica il carattere storico-evolutivo, la determinazione operativa4 dei suoi contenuti, la motivazione sociale della sua origine e della sua destinazione come 1 Ho approfondito il tema del mutamento concettuale nel mio Costruttivismo e formazione, Napoli: Liguori, 2002. Nella letteratura di riferimento si veda, in particolare, S. Toulmin, Human Understanding, Princeton (NJ): Princeton University Press, 1972; K. A. Strike, G. Posner, A Revisionist Theory of Conceptual Change, in R. A. Duschl et alii (eds.), Philosophy of Science, Cognitive Psychology, and Educational Theory and Practice, New York: State University of New York Press, 1992; J. D. Novak, Learning, Creating, and Using Knowledge: Concept Maps as Facilitative Tools in Schools and Corporations, Hills­dale (NJ): Lawrence Erlbaum Associates, 1998. 2 J. Dewey, How We Think, Lexington (MA): D. C. Heat, 1910, tr. it., Come pensiamo, Firenze: La Nuova Italia, 1994; Id., Logic: The Theory of Inquiry, New York: Henry Holt, 1938, tr. it., Logica, teoria dell’indagine, Torino: Einaudi, 19491, 19652. 3 Ivi, p. 14 (tr. it.). 4 Operativo, nel vocabolario di Dewey, significa «il modo in cui e grazie al quale la materia d’indagine è trasformata in mezzi per il fine della ricerca, cioè per l’istituzione di determinate situazioni esistenziali […]. ‘Operativo’ esprime le condizioni grazie alle quali la materia è 1) resa atta a servire come mezzo e 2) effettivamente funziona come mezzo per compiere la trasformazione obiettiva che è il fine dell’indagine». Ivi, p. 26 in nota (tr. it.).

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riflessione su problemi emergenti dall’esperienza, e, infine, sostiene la sostanziale coincidenza tra ricerca e pensiero riflessivo o, meglio, la coincidenza del pensiero riflessivo con nient’altro che la pratica della ricerca. Con le sue parole: «Non sappiamo quale significato sia da attribuirsi al ‘pensiero riflessivo’ salvo quello relativo a ciò che l’indagine dell’indagine può assodare»5. Pertanto, conclude l’autore, «Indagine è la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata in altra che sia determinata, nelle distinzioni e relazioni che la costituiscono, in modo da convertire gli elementi della situazione originale in una totalità unificata»6.

La posizione di Dewey mette in chiaro la continuità di azione e pensiero, ma anche la differenza di piani tra un’esperienza immediata, in cui gli elementi di pensiero sono impastati con la pratica e irriconoscibili come tali e una esperienza mediata, di secondo livello, in cui l’attività di pensiero si riconosce e si separa dalla pratica per assumere quest’ultima come oggetto di analisi e poi di ricostruzione. Sulla base di uno schema gnoseologico di matrice pragmatista, possiamo definire il campo semantico della locuzione “comunità di ricerca” nel modo seguente. La “ricerca” è una riflessione sulla pratica ed è anche l’indicazione di una metodologia da condividere nella “comunità” dei ricercatori. Il primato che i pragmatisti attribuiscono all’esperienza primaria deriva dal fatto che questa rappresenta la sola e unica fonte della ricerca, come appare con chiarezza nella definizione che fornisce Peirce: «L’irritazione del dubbio provoca uno sforzo (struggle) per raggiungere uno stato di credenza. Io chiamo questo sforzo ricerca (inquiry)»7. Il termine “comunità”, in questo caso viene utilizzato per 5

Ivi, p. 34 (tr. it.). Ivi, p. 135 (tr. it.). Il corsivo è dell’autore. 7 C. S. Peirce, The Fixation of Belief, nel vol. E. C. Moore (ed.), C. S. Peirce: The Essential Writings, New York: Harper & Row, 1972, p. 126 (traduzione a cura di chi scrive). 6

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sottolineare la natura sociale della ricerca e l’appello alla condivisione intersoggettiva per la definizione di un concetto di verità in campo scientifico. Per come è stata assunta e utilizzata nella pratica della Philosophy for children l’espressione “comunità di ricerca” contiene elementi di definizione molto più articolati, soprattutto per i significati da assegnare al termine “comunità”. Sia per la sua configurazione empirica che per le proiezioni operative e funzionali, la “comunità” della Philosophy for children rinvia a un confronto con i costrutti propri della sociologia e dell’antropologia, ma anche degli studi organizzativi e della comunicazione. Per quanto riguarda il termine “ricerca”, c’è da osservare, in prima istanza, lo spostamento operato già da Lipman rispetto alla sua principale fonte di ispirazione: la Logica di John Dewey. Questi considerava la scienza moderna come la realizzazione vivente del metodo e dello spirito della ricerca, mentre vedeva la filosofia ancora arretrata, malata di metafisica e di astrattismo. Per essa auspicava un risanamento che non doveva sembrargli a portata di mano se nel 1948 rilanciava, con la ripubblicazione dell’opera Reconstruction in philosophy8, una sfida già espressa nel 1919. Lipman, invece, modella un programma di formazione in cui sembra realizzarsi l’auspicio deweyano di una filosofia “risanata”, capace di fuoruscire dalla tradizionale autoreferenzialità per aprirsi ai problemi che il mondo storico-sociale impone. In questa prospettiva anche la filosofia viene conquistata alla logica dell’inquiry e, perché questo risultato di realizzi compiutamente, la speculazione filosofica deve trasformarsi in una “pratica sociale”. È la classe scolastica il primo ambiente sociale in cui questa pratica viene messa alla prova; il luogo dove ha mostrato, nel corso della sua ormai lunga storia, le sue potenzialità 8

J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, New York: Henry Holt & C., 1920 (nuova edizione ampliata The Beacon Press: Boston, 1948), tr. it., Rifare la filosofia, Roma: Donzelli, 1998.

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trasformative ma anche la sua fragilità rispetto a sistemi scolastici fortemente ancorati a modelli di educazione incompatibili con la visione sottesa nella pratica della Philosophy for children. A partire dalle premesse poste da Peirce e da Dewey, Lipman ha sviluppato, col contributo di Ann Sharp (particolarmente rilevante in questo ambito9), la sua idea di “comunità di ricerca”. In alcuni passaggi della sua riflessione sulla natura e la conformazione della “comunità di ricerca” Lipman dichiara il suo debito nei confronti della tradizione pragmatista e precisa alcuni punti particolarmente importanti. Premesso che Dewey ha appreso da Peirce essenzialmente un metodo, Lipman osserva che egli non ha mai cessato di pensare alla scienza come al “metodo dell’intelligenza”, ossia come al metodo della ricerca in generale10. In How We Think Dewey mostra la continuità tra metodo scientifico e pensiero riflessivo dell’esperienza comune. In Democracy and Education egli sottolinea la dimensione sociale dell’inquiry come fondamento insostituibile per la democrazia e Lipman, a questo proposito, rimarca: «È come se Dewey avesse cominciato a sospettare che democrazia e ricerca non fossero alleati naturali, sebbene con un certo sforzo potessero essere rese compatibili reciprocamente […] La comunità è il termine medio o l’anello di congiunzione tra il metodo scientifico e la pratica democratica […] Il problema è che il pensiero può essere un naturale alleato della scienza non più che la democrazia»11.

In altri termini, né il pensiero né la democrazia sembrano a Lipman alleati naturali della scienza. La domanda, cruciale, che egli pone è la seguente: il tipo di pensiero funzionale alla democrazia è quello scientifico o quello filosofico? Dewey non ha mai posto esplicitamente questa al9

D. Kennedy, Ann Sharp’s Contribution: A Conversation with Matthew Lipman, «Childhood & Philosophy», Vol. 6, No. 11, 2010. 10 M. Lipman, Thinking in Education, Cambridge: Cambridge University Press, 20032. 11 Ivi, p. 36.

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ternativa, verosimilmente per la ragione che, dal suo punto di vista, filosofia e scienza non sono in opposizione. Nella visione di Dewey la scienza o, meglio, il suo metodo di inquiry, è un paradigma a cui ricondurre anche una filosofia risanata12. Ma Lipman, su questo, ha diverse convinzioni. Infatti afferma senza mezzi termini: «La filosofia e la scienza sono imprese indipendenti in nessun caso riducibili l’una all’altra»13. In ultima analisi, mi sembra di poter dire che per Dewey la filosofia rimane, in ogni caso, una riflessione separata dalle pratiche di formazione14. L’atteggiamento fortemente critico che Dewey sostiene ripetutamente nei confronti della tradizione filosofica potrebbe essere una spiegazione sufficiente per questa esclusione. L’auspicio che egli esprime è che la filosofia, per uscire dalla sua secolare malattia, cessi «di essere un congegno per trattare i problemi dei filosofi e si trasformi in metodo, coltivato dai filosofi, per trattare i problemi degli uomini»15. Ma, questa speranza gli sembra fortemente compromessa quando nel 1948 ripubblica Reconstruction in Philosophy con la forte tentazione di sostituire la “in” del titolo con “of”. L’operazione di Lipman sembra essere il compimento di quel passo che Dewey non intese fare nel rapporto tra educazione e filosofia e si configura, pertanto, come l’espressione di un ottimismo verso la filosofia che Dewey non coltivava nella stessa misura. Ritiene Lipman, circa trent’anni più tardi della pubblicazione di Reconstruction in Philosophy, che la filosofia occidentale sia stata “risanata”? Che, inoltre, questo risanamento debba consistere – 12

Cfr. J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, cit. M. Lipman, Thinking in Education, cit., p. 36. 14 Nella sua opera The Sources of a Science of Education (New York: Horace Liveright, 1929; tr. it., Le fonti di una scienza dell’educazione, Firenze: La Nuova Italia, 1951) Dewey indica la filosofia dell’educazione come una delle “fonti” della scienza educativa. In quanto “fonte” essa è destinata a esercitare la sua influenza dall’esterno rispetto alla pratica educativa. 15 J. Dewey, The Need for a Recovery of Philosophy, in Id., Creative Intelligence: Essays in the Pragmatic Attitude, New York: Holt 1917, p. 65. 13

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come Dewey riteneva – nell’estensione alla stessa filosofia del metodo scientifico? Che la filosofia sia definitivamente uscita dalla sua malattia? Mi pare che a queste domande non ci siano risposte semplici. In realtà Lipman mette in gioco nel suo curricolo l’intera tradizione che Dewey aveva fortemente criticato. Il primo racconto che Lipman scrive per uso didattico è una riscrittura della logica aristotelica16. Non solo, ma nel curricolo sono piuttosto sbiaditi i riferimenti alle filosofie del Novecento, quelle che, cominciando con Nietzsche e continuando con Husserl, Wittgenstein, Heidegger e così via, hanno testimoniato la crisi della tradizione filosofica occidentale. Questo è vero e, tuttavia, c’è qualcosa di più importante da mettere in luce ed è il fatto che i contenuti filosofici che provengono dalla tradizione non sono assunti come inerti materiali da apprendere, bensì come fonti di problematizzazione; gli autori non sono interrogati per le risposte che hanno fornito, bensì indirettamente utilizzati come fonti esemplari del domandare filosofico. Così nel curricolo troviamo, nelle trame dei racconti, tutte le tracce della tradizione, ma vediamo realizzato, almeno nella finzione del racconto, il sogno deweyano di una filosofia che si confronta con il piano dell’esperienza ordinaria, che si occupa dei problemi degli uomini. Tutto si gioca non su contenuti e sulla loro presunta verità o falsità, ma sull’impegno e sugli habitus della ricerca, sull’inquiry come «pratica auto-critica […] sociale o comunitaria (pubblica) per natura, dato che poggia sul fondamento del linguaggio, di operazioni scientifiche, di sistemi simbolici, o misurazioni, e così via»17.

In questa prospettiva, l’attenzione è focalizzata sulla “comunità” come soggetto e contesto in cui la ricerca viene

16 Mi riferisco al racconto il cui titolo suona come “la scoperta di Aristotele” (Harry Stottlemeier’s Discovery, Upper Montclair: IAPC, 1974, tr.it., Il prisma dei perché, Napoli: Liguori, 2004). 17 M. Lipman, Thinking in Education, cit., p. 83.

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riconosciuta e condivida come l’impegno grazie al quale la stessa comunità incessantemente si trascende e si ricostruisce e mai si irrigidisce vincolandosi alla tradizione. E non sono i contenuti che tengono insieme la “comunità di ricerca”, ma la pratica condivisa, ossia la coabitazione attiva di uno spazio di socialità e la condivisione di un ricco “capitale sociale”. Sul piano dell’apprendimento, questo vuol dire che non si imparano delle abilità isolate e poi si esercitano nei contesti della socializzazione, ma che i processi di socializzazione sono il terreno di coltura delle abilità e precedono l’apprendimento delle abilità18. Dal punto di vista di Lipman, «è stato Mead […] colui che per primo colse le profonde implicazioni educative della fusione, concepita da Peirce, delle due indipendentemente potenti nozioni di ricerca e di comunità nell’unico concetto trasformativo di comunità di ricerca»19.

La “comunità di ricerca” sembra essere, per Peirce, Dewey e Mead, il risultato di una concezione fortemente sociale dello sviluppo della conoscenza, con un significativo accento da parte di Dewey sul valore politico e pedagogico di un impegno per lo sviluppo e la diffusione sociale di un approccio “intelligente” ai problemi. Con Dewey si potrebbe dire che la “comunità di ricerca” si costituisce là dove si mette in atto un’attività riflessiva come pratica sociale. Tutto questo appare, inoltre, come la conditio sine qua non per la salvaguardia e lo sviluppo della democrazia. La difesa della comunità, in questo quadro, è a garanzia di un rapporto virtuoso tra democrazia e conoscenza (scientifica) che non è garantito di per sé e, anzi, appare tanto meno garantito quanto più avanza la “Grande società” delle macchine e, con essa, lo svuotamento dello spirito di una democrazia sostanziale. 18

Cfr. G. H. Mead, “The Psychology of Social Consciousness Implied in Instruction”, «Science», 31, 1910, pp. 688-93. 19 M. Lipman, Thinking in Education, cit., p. 84.

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Lipman non ha dubbi sulla valenza sociale dell’apprendimento e sul potenziale emancipativo dell’educazione. Ha molte riserve sulla capacità del sistema scolastico americano degli anni Settanta del secolo scorso di realizzare pienamente questo obiettivo ed è sull’onda della sua critica alla debolezza e inadeguatezza del sistema scolastico che indica nella filosofia e in una efficace utilizzazione delle sue risorse formative la soluzione più innovativa e più rispondente alle sfide della società contemporanea. Così egli propone la trasformazione della classe scolastica in “comunità di ricerca” e indica la “comunità di ricerca filosofica” come il “prototipo” di ogni “comunità di ricerca” dichiarandosi convinto che «le comunità di ricerca in altre discipline avranno successo soltanto nella misura in cui si avvicinano a questo prototipo»20. Dal punto di vista della pratica didattica non appare così scontato il rapporto tra un’eventuale “comunità di ricerca” impegnata su una delle tante aree disciplinari del curricolo scolastico e una “comunità di ricerca filosofica”. Infatti, una “comunità di ricerca” tende a sviluppare una riflessività di tipo interno; il suo campo di azione può corrispondere a una didattica disciplinare impostata in modo attivo e riflessivo, una didattica per scoperta o per concetti, per esempio. Immaginando di muoverci sul terreno della matematica, poniamo una questione che, andando al di là della competenza sulle tecniche e le regole di calcolo, investe una domanda di senso e spinge la riflessione verso aree di confine. La questione è questa: “Prendere 2 pillole al giorno per 5 giorni equivale a prendere 5 pillole al giorno per 2 giorni?”. Le regole dell’aritmetica impongono una risposta affermativa. Infatti siamo tutti d’accordo nel ritenere che 2x5 è equivalente a 5x2, ma… Lo spazio che si apre di fronte al “ma…” è chiaramente uno spazio riflessivo che si affaccia su questioni di natura epistemologica e può chiudersi sull’accertamento del valore solo formale dell’aritmetica. Qual è, allora, la distanza che 20

Ivi, p. 101.

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corre tra l’operazione di sommare dei numeri, quella di domandarsi i limiti di legittimità dell’aritmetica e quella, infine, di domandarsi cos’è una somma o cos’è un numero? Quello che, qui, è in gioco è propriamente il discrimine tra una “ricerca” che sia ancora “matematica” e la riflessione filosofica. L’impianto epistemologico e metodologico del lavoro di una “comunità di ricerca” lipmaniana è la riproduzione dello schema dell’inquiry descritto da Dewey nella sua Logica. Ma, quel che segna le differenze rispetto alle modellizzazioni precedenti è l’approccio complessivo di Lipman, il suo punto di vista. In realtà, egli non sta costruendo un modello, ma sta proponendo, descrivendo e analizzando una pratica e la sta collocando nello sfondo di una presa di posizione complessiva (e radicale) sull’educazione occidentale riferita a un tempo storico che corrisponde all’ultimo trentennio del XX secolo21. La pratica che egli propone è quella del dialogo filosofico secondo una generale ispirazione socratico-platonica. Quel che è in primo piano non è la discussione epistemologica, né una ripresa del discorso sul metodo, quanto piuttosto una convinta difesa del valore insostituibile della filosofia per la formazione. Nella sua critica al modello di educazione in vigore, Lipman fa appello, per una riforma dei sistemi scolastici, alla filosofia intesa come strada maestra della formazione22. L’appello è rivolto alla filosofia anche in un altro senso, come sollecitazione a non irrigidirsi e non monumentalizzarsi nel suo “pensato”, a riattualizzarsi, al 21

È appena il caso di ricordare che sono gli anni in cui risuonano molte voci che auspicano cambiamenti profondi dei sistemi educativi occidentali. In Italia si era conclusa nel 1967 l’esperienza di don Milani a Barbiana (Lettera a una professoressa, Firenze: Libreria Editrice Fiorentina, 1967); è del 1968 Pedagogia do oprimido di Paulo Freire (Rio de Janeiro: Paz e Terra, tr. it., La pedagogia degli oppressi, Milano: Mondadori, 1971, poi riedito a Torino: EGA, 2002), mentre le critiche di Ivan Illich e la proposta di descolarizzazione della società sono affidate al suo Deschooling Society, New York: Harper & Row, 1971, tr. it., Descolarizzare la società, Milano: Mondadori, 1972. 22 M. Lipman, “Pratica filosofica e riforma dell’educazione”, «Bollettino SFI», No. 135, 1988, ripubblicato in A. Cosentino (a cura di), Filosofia e formazione, Napoli: Liguori, 2002.

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contrario, come pensiero in movimento, come attività intrecciata al mondo della vita, in una parola come pratica. Lipman auspica, specificamente, un recupero della pratica dialogica socratico-platonico, contrapponendola alle “filosofie” manualistiche, intese come teorie concluse da imparare e ripetere. Ma non si limita a questo. Traduce questo auspicio in progetto, più propriamente in un curricolo; procede ad indicare le condizioni che possono rendere praticabile un tale insegnamento e apprendimento del filosofare, concentrando la sua attenzione principalmente sui testi, sul setting comunicativo e, infine, sul ruolo dell’insegnante. Dalle sue considerazioni sul problema dei testi filosofici nasce il proposito di produrre ex novo una letteratura, di cui egli fornisce il primo esempio con i racconti che costituiscono il curricolo della Philosophy for children.

2. L’organizzazione che apprende “Comunità di ricerca” nel senso deweyano del termine possono essere considerate le organizzazioni che apprendono (learning organizzations) così come sono state tematizzate e trattate da Chris Argyris e Donald Schön nella cornice generale che include sia l’action science del primo che la reflective practice del secondo23. Tra i pur numerosi riferimenti teorici che i due autori riconoscono come termini di confronto, spicca l’inquiry deweyana che, con la sua architettura, fornisce le linee guida per l’apprendimento organizzativo. Che un’organizzazione, in quanto tale, possa apprendere non è così scontato. Infatti, l’apprendimento di un’organizzazione, se si realizza, deve poter essere riconosciuto come un risultato non riconducibile alla somma degli apprendimenti (individuali) dei suoi membri. In quanto tale, 23 La cornice teorica generale condivisa dai due autori è consegnata all’opera inaugurale Organizational Learning: A Theory of Action Perspective, Reading (MA): Addison-Wesley, 1978 e alla sua ripresa e ampliamento in Organizational Learning II. Theory, Method and Practice, Reading (MA): Addison-Wesley 1996, tr.it., Apprendimento organizzativo, Milano: Guerini e Associati, 1998.

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si tratterebbe, insomma, di una specie di apprendimento “trans-soggettivo”, anche se realizzato attraverso il concorso di attività individuali. Questa premessa rinvia, con una certa evidenza, alla definizione di gruppo come un macro-soggetto capace di sviluppare un’identità e delle dinamiche che appartengono in modo esclusivo e caratterizzante al campo di relazioni tipiche e localizzate piuttosto che essere ricavabili dall’elenco delle caratteristiche dei singoli componenti del gruppo. Fenomeni come il “clima”, la “leadership”, i “valori” denotano un gruppo nella sua globalità e funzionano come norme per i soggetti che varcano in entrata i confini del gruppo. Questo spiega perché un individuo si comporta in un certo modo quando partecipa alla vita del gruppo A e si comporta in modo diverso quando partecipa alla vita del gruppo B (per es. a scuola e in famiglia). Ora, si può affermare che un’organizzazione è un gruppo? Che le due nozioni coincidono? A questa domanda si può rispondere che un gruppo è anche sempre un’organizzazione, ma che un’organizzazione non sempre e non necessariamente è un gruppo. In primo luogo dobbiamo tenere presente il caso in cui un’organizzazione può essere così estesa e complessa da incorporare più di un gruppo. Inoltre, bisogna notare che un’organizzazione è tale se ubbidisce ad una qualche forma di strutturazione formale per lo più basata su motivazioni esplicite e sul perseguimento di un risultato ben preciso che la struttura organizzativa consente di raggiungere. Si potrebbe dire che il gruppo nasce mentre si sta facendo qualcosa insieme, l’organizzazione nasce per fare qualcosa insieme. Un’organizzazione è tale se ha l’aspetto della “polis”, se, cioè, ha la capacità di agire secondo regole che definiscono i suoi confini e se, «sono gli individui che decidono e agiscono, ma essi lo fanno nell’interesse della collettività, in quanto suoi agenti»24. In molti casi, tuttavia, il confine 24 C. Argyris, D. A. Schön, Organizational Learning II. Theory, Method and Practice, cit., p. 22 (tr. it).

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tra “gruppo” e “organizzazione” tende ad apparire piuttosto sfumato e questo si può vedere abbastanza chiaramente se si prendono in esame i processi di apprendimento distribuiti, ossia quei percorsi di strutturazione e di reframing della conoscenza che prendono corpo in un network e che non sono riconducibili ad un singolo autore: prendono vita dai processi comuni e fanno parte della micro-cultura del gruppo. L’apprendimento, considerato non tanto come acquisizione ed elaborazione di informazioni, quanto soprattutto come complesso di operazioni di ordinamento, valutazione, sistematizzazione e gestione delle conoscenze, mostra inevitabilmente coinvolti ed impegnati due versanti: quello personale-psicologico e quello pubblico-sociale. Si possono immaginare casi in cui un’organizzazione sa meno dei suoi membri e, nello stesso tempo casi in cui una organizzazione sa molto più di ciascuno dei suoi membri. Una tale visione dell’apprendimento, mettendo tra parentesi l’opposizione individuo-gruppo, trova posto in un’area di confine tra le due principali tradizioni di pensiero riguardo alla genesi e allo sviluppo dei processi dell’apprendimento: quello fondamentalmente psico-genetica di matrice piagetiana e quella socio-genetica di matrice vygotskiana25. La teoria dell’azione è una meta-teoria che comprende sia la dimensione tecnica che quella umana dell’analisi e controllo dell’azione. La sua finalizzazione dichiarata consiste nel contribuire ad aumentare l’efficacia professionale agendo sulle resistenze al cambiamento dovute alla fossilizzazione di un modello rigido di apprendimento. In questo senso, l’utilizzazione della teoria dell’azione nelle organizzazioni si propone di ridurre le routine difensive e di promuovere movimenti di pensiero comune in grado di attivare modelli di apprendimento flessibili e riflessivi. A ben guardare, la teoria dell’azione sembra avere come suo oggetto due diversi bersagli collocati a due differenti 25 O. Liverta Sempio, Vygotskij, Piaget, Bruner, Milano: Cortina, 1998.

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livelli logici. Il primo comprende l’insieme di teorie che il soggetto agente utilizza per organizzare e guidare la sua stessa azione. Come chiariscono gli autori: «La nostra premessa iniziale è che gli esseri umani progettano le loro azioni e implementano i loro progetti. Chiamiamo questi progetti ‘teorie dell’azione’, distinguendo […] tra le teorie dell’azione che gli individui professano e quelle che effettivamente utilizzano, le loro teorie-in-uso»26.

A questo livello la teoria – ma preferirei denominarla “teorizzazione” – è impastata all’azione del progettista che opera sul campo, in accordo con un modello di professionalità che Donald Schön ha definito “riflessiva”27. Un secondo livello è più propriamente quello della meta-teoria, ossia la stessa teoria di Argyris e Schön che descrive le forme e i processi che riguardano il rapporto tra teorizzazione e azione. Seguendo la presentazione dei due autori, vediamo quali sono gli snodi più significativi del loro modello di learning organization. La prima distinzione da tener presente è quella tra “teoria dichiarata” e “teoria-in-uso”. La prima è la «teoria dell’azione proposta per spiegare o giustificare un dato schema di attività»28. La teoria dichiarata corrisponde al progetto di azione e alle intenzioni esplicite; contiene l’indicazione degli obiettivi e delle ragioni da cui l’azione ha la sua origine; essa è pubblica e discutibile. La “teoria-in-uso”, invece, è implicita e “tra le righe”, fa tutt’uno con la stessa azione. Per lo più essa non è dichiarabile per due diversi motivi. Primo perché i soggetti che la adoperano non ne sono pienamente coscienti; secondo perché sono interessati a proteggerla da eventuali critiche e hanno interesse a non metterla in discussione. 26 C. Argyris, D. A. Schön, Organizational Learning II. Theory, Method and Practice, cit., p. 96 (tr. it.). 27 Cfr. D. A. Schön, The Reflective Practitioner, New York: Basic Books, 1983, tr. it., Il professionista riflessivo, Roma: Dedalo, 1993. 28 C. Argyris, D. A. Schön, Organizational Learning II. Theory, Method and Practice, cit., p. 27 (tr. it.).

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Ora, questa distinzione implica necessariamente che i due tipi di teoria non debbano coincidere o che, nel caso in cui coincidessero, allora la “teoria-in-uso” si sarebbe trasformata in “teoria dichiarata” o viceversa. Proprio la mancata coincidenza tra “teoria dichiarata” e “teoria-inuso” costituisce una interessante situazione da esplorare e su cui intervenire, tenendo presente che rispetto al piano di azione e al costituirsi e perpetuarsi dell’identità di un’organizzazione sono molto più influenti le “teorie-in-uso”. A riprova di questa tesi gli autori considerano l’esempio dell’esercito: «Se si studia l’evoluzione della teoria-in-uso implicita nelle pratiche militari dell’esercito e si scopre che alcune delle sue strategie, dei suoi valori (ad esempio quelli relativi al comando e controllo, alla promozione e all’addestramento) sono rimasti relativamente costanti per cinquant’anni, si dovrebbe ritenere che tale teoria sia la chiave per spiegare l’identità nel tempo dell’esercito»29.

L’apprendimento organizzativo si verifica quando un’organizzazione riesce a modificare le proprie “teorie-in-uso” e ad operare, di conseguenza, un riassetto della sua struttura e una ridefinizione della sua immagine. Un simile risultato si può realizzare solo in determinate condizioni giacché il cambiamento viene vissuto sempre come rischio. Non solo, ma, per operare un cambiamento, è necessario riflettere e la riflessione è un’operazione che prende l’avvio dalla mente individuale. Un apprendimento organizzativo, allora, passa per una serie di iniziative e di scambi che mettono in rapporto gli apprendimenti individuali e quelli collettivi. Con le parole degli autori: «L’apprendimento organizzativo si verifica quando gli individui all’interno di un’organizzazione sperimentano una situazione problematica e, nell’interesse dell’organizzazione, la indagano. Essi esperiscono la sorpresa della mancata corrispondenza tra i risultati attesi e i risultati effettivi dell’azione, reagendo con 29

Ivi, p. 28 (tr. it.).

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un processo di pensiero e di nuovi corsi d’azione che conducono a modificare le immagini dell’organizzazione e il modo di intendere i fenomeni organizzativi, e a ristrutturare le attività così da allineare risultati e aspettative, modificando, in questo modo, la teoria-in-uso organizzativa»30.

Un’altra distinzione particolarmente significativa è quella che introduce e definisce tre tipologie di apprendimento organizzativo: Apprendimento a circuito singolo (single loop), il quale – come chiariscono gli autori –è un «apprendimento strumentale che modifica le strategie d’azione o gli assunti ad esse sottostanti in modi che lasciano immodificati i valori di una teoria dell’azione»31. Un processo di apprendimento a circuito singolo scatta quando si rileva che l’azione non ha prodotto il risultato atteso. Si cercano, allora, le cause dell’errore all’interno dei meccanismi organizzativi interessati e si interviene per cambiare le procedure e gli assunti delle azioni inefficaci. Apprendimento a doppio circuito (double loop) è quello che «dà luogo a un mutamento, oltre che delle strategie e degli assunti, anche dei valori della teoria-in-uso e si verifica quando la correzione dell’errore richiede che l’indagine modifichi i valori e le norme organizzative»32. In questo caso il processo di riflessione si rivolge ad aspetti più strutturali dell’organizzazione, mettendone in discussione la stessa identità nella misura in cui questa è connessa con valori, norme, mission. Si può trattare di rivedere gli stessi obiettivi dell’organizzazione e, quindi, di doversi misurare con una valutazione degli stessi in rapporto ad un determinato contesto e in rapporto a criteri di desiderabilità da negoziare; oppure di dover interpretare nuovi contesti in cui si opera sulla base di parametri di lettura di ordine generale (storico-culturale) che, spesso, generano conflitti difficili da risolvere. 30 31 32

Ivi, p. 30 (tr. it.). Ivi, p. 35 (tr. it.). Ivi, p. 35-6 (tr. it.).

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Deutero-apprendimento è denominato quello «attraverso il quale i membri di un’organizzazione possono scoprire e modificare il sistema di apprendimento che condiziona gli schemi egemonici di indagine organizzativa»33. Questo tipo di apprendimento a doppio circuito riguarda essenzialmente i processi di pensiero messi in atto e non tanto i prodotti.

3. Il paradosso della pratica riflessiva Vale la pena soffermarsi più approfonditamente sulla nozione di deutero-apprendimento per le implicazioni che esso contiene. Originariamente da Gregory Bateson è stato definito come processo di “apprendere ad apprendere”, dove è chiara la distinzione tra un apprendimento primario (“proto-apprendimento”, corrispondente per Bateson all’apprendimento meccanico di tipo pavloviano) e un apprendimento che si sviluppa a partire da quello primario e da esso emerge. In estrema sintesi, il deutero-apprendimento è una intuizione gestaltica del contesto in cui si verificano gli apprendimenti primari. Un indicatore del suo verificarsi negli esperimenti è la progressiva facilità con cui un soggetto apprende risposte meccaniche nella ripetizione di un compito simile, come, per esempio, quello di apprendere sequenze di lettere senza senso. Secondo Bateson, lungo lo svolgimento dell’apprendimento primario emerge una comprensione della logica e delle regole contestuali che fa scattare un tipo sovraordinato di apprendimento34. Si tratta, insomma, di un «cambiamento nel processo dell’Apprendimento 1, per esempio un cambiamento correttivo dell’insieme di alternative

33

Ivi, p. 44-5 (tr. it.). Bateson fornisce questa definizione di deutero-apprendimento nel saggio del 1942 “Social Planning and the Concept of Deutero-learning” (ora in Steps to an Ecology of Mind, cit.). Riprenderà successivamente il tema dei livelli di apprendimento nel 1964 nel saggio “The Logical Categories of Learning and Communication”, cit. 34

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entro il quale si effettua la scelta, o un cambiamento nella segmentazione della sequenza delle esperienze»35.

In altre parole, il deutero-apprendimento è quello che genera le nostre prospettive e i nostri tipici modi di organizzare l’esperienza e di guardare il mondo. In questo senso è la sorgente del nostro “io” col suo particolare carattere. Per questa stretta connessione con l’identità personale gli effetti del deutero-apprendimento hanno invariabilmente la tendenza ad auto convalidarsi. Come osserva Bateson, «[l’]apprendista stregone non rinuncia alla sua visione magica degli eventi quando l’incantesimo non funziona»36. Questo significa che gli schemi di comportamento e di interpretazione dell’esperienza acquisiti mediante i processi di deutero-apprendimento sono molto resistenti al cambiamento, sono tendenzialmente latenti e non si espongono al confronto critico né coi fatti né con diversi punti di vista. Infatti, conclude Bateson, «[q]uanto poi al fatto che queste abitudini di segmentazione sono inconsce, osserviamo che l’’inconscio’ comprende non solo il materiale represso, ma anche la più parte dei processi e delle ‘abitudini’ di percezione delle Gestalten. Soggettivamente ci rendiamo conto della nostra ‘dipendenza’ ma non siamo in grado di dire chiaramente come questa struttura sia stata costruita o quali spunti siano stati da noi seguiti per attuarla»37.

Come si può vedere, nella presentazione di Bateson il deutero-apprendimento consiste fondamentalmente nella comprensione delle regole contestuali e ha a che fare, altresì, con quelli che egli definisce segna-contesto, quei messaggi, per lo più impliciti, che indicano ad un organismo come interpretare uno stimolo e che spiegano perché si possano avere risposte diverse ad uno stesso stimolo da parte del medesimo soggetto. Esempi di segna-contesto 35 36 37

G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind, cit., p. 339 (tr. it.). Ivi, pp. 347-8 (tr. it.). Ivi, p. 348 (tr. it.).

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sono, secondo Bateson, il soglio pontificio, il placebo, una sirena d’allarme. Avere una percezione gestaltica delle norme che regolano il contesto in cui una singola relazione è situata permette di gestire con più flessibilità le azioni e consente un grande risparmio di energia in quanto il riconoscimento del contesto contiene una generalizzazione estensibile ad una gamma di casi il più vasta possibile. Il placebo, in particolare, mostra il limite estremo della tendenza a far valere uno schema contestuale più che la specifica relazione stimolo-risposta. Il deutero-apprendimento è, insomma, un cambiamento che retroagisce sul processo dell’apprendimento primario (proto-apprendimento). Infatti, come afferma Bateson: «I fenomeni dell’Apprendimento 2 possono essere tutti classificati come cambiamenti nel modo in cui il flusso di azione ed esperienza è segmentato o suddiviso in contesti, insieme con cambiamenti nell’uso dei segna-contesto»38.

Ma bisogna ripensare l’osservazione, riportata sopra, che “L’apprendista stregone non rinuncia alla sua visione magica degli eventi quando l’incantesimo non funziona”. Anche qui, come nel caso del placebo, è la cornice generale ad imporsi e non la contingenza particolare dei fatti osservati. L’apprendimento di secondo livello genera l’atteggiamento magico, così come l’atteggiamento fatalista o quello scientifico. Ma, è possibile un apprendimento, di terzo livello, capace di operare cambiamenti sui risultati del deutero-apprendimento? Come dire, si può imparare a cambiare le abitudini, frutto tipico di questo livello di apprendimento? La risposta di Bateson è che il passaggio da un contesto a un altro o la relativa trasformazione di un contesto non rappresenta di per sé un indicatore di apprendimento di livello superiore. Quest’ultimo dovrebbe più propriamente riguardare i contesti dei contesti e non sarebbe necessariamente un incremento di conoscenza sui contesti del deutero-apprendimento; anzi, potrebbe essere 38

Ivi, p. 339 (tr. it.).

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esattamente il contrario. “Abituarsi a qualsiasi cosa è terribile”, dice il maestro Zen39. Cambiare abitudini è una cosa (ed è possibile), abituarsi a non avere abitudini è il livello sovra-ordinato; e può essere “terribile”. Questo perché, a livello individuale psicologico il deutero-apprendimento costruisce l’io, ma, precisa Bateson, «[n]ella misura in cui un uomo consegue l’Apprendimento 3 e impara a percepire e ad agire in termini dei contesti dei contesti, il suo ‘io’ assumerà una sorta di irrilevanza. Il concetto dell’‘io’ non fungerà più da argomento cruciale nella segmentazione dell’esperienza»40.

Questo tipo di apprendimento è considerato come una possibilità accessibile soltanto al genere umano, ma risulta piuttosto raro, rilevabile a volte in psicoterapia, nelle conversioni religiose e in altre situazioni in cui si realizza una profonda ristrutturazione del carattere. Io credo che nel novero di “altre situazioni” si debba includere la pratica filosofica. Il tema sarà trattato ampiamente più avanti, ma c’è motivo di introdurlo sin da ora per sottolineare la sua stretta connessione con una certa visione dell’apprendimento e notare, pertanto, gli effetti trasformativi che la pratica filosofica può esercitare nella sfera della strutturazione del Sé. Gli studi recenti hanno messo in evidenza come la filosofia, nel passato, fosse non tanto distacco speculativo, quanto adesione a uno stile di vita. Professarsi epicureo, o stoico o cinico voleva dire “realizzare una profonda ristrutturazione del carattere”; e così è stato anche per la mistica cristiana. Esercizi spirituali e “cura di sé” avevano di mira non l’acquisizione di una conoscenza e il possesso di una verità, ma essenzialmente il lavoro trasformativo su di sé, una sorta di adeguamento della propria soggettività rispetto ad una forma di vita considerata degna di essere vissuta41. In 39

Riferito da Bateson (ivi, p. 351 (tr. it.)). Ivi, p. 351 (tr. it.). 41 P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, cit.; M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France, 1981-1982, Paris: 40

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questo senso, la filosofia non appare come l’espressione di una riflessività di sistema, ma come il luogo privilegiato di una riflessività localizzata, regionale. Viene richiamata ad abitare lo spazio personale della comunità. Abbiamo visto come l’emergenza della riflessività trasforma una “comunità di pratica” in “comunità di ricerca”. L’attività che può fare da ponte in questo passaggio è quella del raccontare su cui si possono innescare attività discorsive distinte dal sapere pratico. Si tratta di una potenzialità che una comunità di pratica non necessariamente porta a compimento. Non è così assodato che, come sostiene Silvia Gherardi, «Le pratiche discorsive interne ad una comunità di lavoro sono inscindibili dal fare e dall’apprendere, in quanto nel parlare in pratica e sulla pratica una comunità mette a punto l’intelligibilità di quanto fa, dice, giustifica, crea, rappresenta. La riflessività è dunque una caratteristica di tutte le attività sociali produttrici di ordine, sia perché ‘l’essenziale riflessività degli accounts’ è usata per creare un senso di ordine per l’azione, sia perché essa riflessivamente crea il contesto stesso dell’azione»42.

La riflessività, come attività connotativa della comunità nella sua interezza, non sembra essere una possibilità intrinseca alla vita di una comunità. Questo appare più chiaro se teniamo distinti due livelli di riflessività. Una prima, che rimane espressione del parlare all’interno della pratica e non opera nessun salto verso la comprensione della logica della pratica, come suggerisce Bourdieu: «Al contrario della logica la pratica esclude qualsiasi interesse formale. Il ritorno riflessivo sull’azione stessa, quando sopraggiunge (cioè, quasi sempre, in caso di fallimento degli Gallimard Seuil, 2001, tr. it., L’ermeneutica del soggetto, Milano: Feltrinelli, 2003; M. Foucault, “L’etica della cura di sé come pratica della libertà”, in Archivio Foucault 3, 1978-1985, Milano: Feltrinelli, 1988; R. Madera, L. V. Tarca, La filosofia come stile di vita, Milano: Mondadori, 2003. 42 S. Gherardi, “La pratica quale concetto fondante di un rinnovamento nello studio dell’apprendimento organizzativo”, cit., p. 64.

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automatismi), resta subordinato al perseguimento del risultato e alla ricerca (che non si percepisce necessariamente come tale) della massimizzazione del rendimento dello sforzo speso»43.

È a questo tipo di riflessività che sembra riferirsi la maggior parte dei programmi di ricerca nel campo degli studi dell’organizzazione44. Un secondo livello di riflessività mette in gioco uno spostamento logico o di cornice che, per verificarsi, ha bisogno di un nuovo posizionamento rispetto alla pratica in cui si è immersi. Si tratta di innescare il gioco delle virgolette e della ricorsività e di collocarsi in una strutturazione logica del tipo descritto nella tabella seguente: A

B

Azione/fatto

Nominare

C D Nominare di nomi- Nominare di nominanare re di nominare

Va notato che la relazione tra le pratiche della colonna A e quelle della colonna B è la più spontanea, mediata soltanto dai processi di socializzazione inintenzionali. Essa è costitutiva del senso comune, del linguaggio e della comunicazione, così come della possibilità del Sé. È la relazione che ci permette di trascendere il piano dell’azione e dell’esperienza primaria e di aprire lo spazio della soggettività e della intersoggettività. Le caselle della colonna “B”

43

P. Bourdieu, Le sens pratique, cit., p. 142 (tr. it.). Non è questa la sede per un approfondimento e un’analisi accurata delle diverse posizioni e tradizioni in questo campo di ricerca. Mi limito a dare qualche indicazione bibliografica: U. Beck, A. Giddens, S. Lash, Reflexive Modernization, cit.; F. Backler, “Il processo di conoscenza come prodotto di comunità”, «Studi organizzativi», 3, 1999, pp. 5-18; Y. Engestrom, Learning, Working and Imagining: Twelve Studies in Activity Theory, Helsinki: Orientat, 1990; D. Demetrio (a cura di), Apprendere nelle organizzazioni, Roma: La Nuova Italia Scientifica, 1994; B. Hooks, Teaching to Transgress: Education as Practice of Freedom, cit.; C. Zucchermaglio, “Etnografia al lavoro: uno studio empirico sulle pratiche lavorative in un contesto tecnologico”, «Studi organizzativi», No. 1, 1999, pp. 167-187. 44

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possono essere riempite con tutte le parole del dizionario. Se guardiamo alla Colonna “C”, vediamo che le sue caselle ammettono soltanto i termini che indicano alcuni atti mentali (espressi da verbi) e sono sempre più complesse, appartenendo a un ordine simbolico di secondo e di terzo livello. È proprio a questo livello che si pongono problemi di trascontestualità, direbbe Bateson. Il problema dei problemi scatta quando nella tabella C viene negato ciò che si afferma in B, con un’asserzione che ingarbuglia la lineare relazione denotativa, ossia la relazione con la la colonna “A”. Il paradosso del mentitore, in realtà, è soltanto il paradigma di tutti i loop che si generano quando un meta-messaggio implica la negazione del contenuto del messaggio.4546 A

B

Azione/fatto

Affermo

C affermo di affermare il falso

Azione/fatto

Giuro

giuro di non mantenere il giuramento

Azione/fatto

Ordino

ordino di non ubbidire45

Azione/fatto

Suono

suono il silenzio46

Queste situazioni e le molte altre simili che possiamo immaginare mettono a dura prova l’ordine che il linguaggio e la logica sembrano garantire e che appartiene al mondo del senso comune, quello che si costituisce come mondo delle certezze47. I processi riflessivi, in quanto si indirizzano non all’esperienza primaria ma a quella se45 Questa esemplificazione e la precedente sono una interpretazione aristotelica del paradosso del mentitore. Cfr. Aristotele, Confutazioni sofistiche (XXV). 46 Il musicista John Cage ha scritto un pezzo per pianoforte intitolato Composizione 4'33", conosciuto anche come Silenzio. L’esecuzione di questo brano consiste nel sedersi al pianoforte senza suonare nulla. Il senso del messaggio è paradossale: sto comunicando che non ho nulla da comunicare. Un’altra interpretazione artistica molto nota del paradosso è il quadro di Magritte intitolato Ceci n’est pas une pipe e raffigurante una pipa. 47 L. Wittgenstein, On Certainty, Oxford: Basil Blackwell, 1969, tr.it., Della certezza, Torino: Einaudi, 1978, 1999.

La comunità di ricerca

condaria della semiosi e del pensiero, tendono a mettere in discussione l’ordine costituito indirizzando il loro sguardo verso le cornici che fanno da premesse implicite all’organizzazione del mondo. È allora che possono spingersi fin dove la linea di confine appare come la soglia che chiude e, nello stesso tempo, apre; dove il dentro e il fuori può essere scambiato; laddove l’incredibile può pretendere alla verità tanto quanto ciò che è scontato; laddove il fondamento sul quale don Chisciotte poggia il suo mondo non sembra tanto diverso da quello su cui poggia il mondo del senso comune condiviso. È il bilico su cui si ripropone la domanda di William James «In quali circostanze consideriamo le cose reali?»48, alla quale fa eco quella di Alfred Schütz: «Come fa Don Chisciotte, e come facciamo noi Sanchi Panza, a riuscire a a conservare la fede nella realtà del delimitato sotto-universo che scegliamo come casa-madre, nonostante le diverse irruzioni di esperienze che lo trascendono?»49.

Sulle soglie che tengono relativamente separate le molte realtà che possiamo abitare – e, di fatto, abitiamo – è in agguato la vertigine del paradosso ogni volta che uno dei mondi ne include un altro che, nel contempo, nega. È in questo passaggio, in questa situazione di doppio vincolo, che si determinano anche possibilità come il “sapere di non sapere” e il “non sapere di sapere” insieme col più lineare “sapere di sapere”. Si tratta, come sostiene Bateson, di quei “labirinti transcontestuali” che, invece di paralizzarci in un’oscillazione senza uscita come se fossimo computer o semplici campanelli elettrici, permettono la creatività umana, la nostra libertà dalle gabbie della logica che può esplodere in un’opera d’arte, come in una 48 W. James, The Principles of Psychology, 2 vols., New York: Dover Publications, 1950 [ed. orig. 1890], tr. it., Principi di psicologia, Milano: Principato, 1965, p. 28. 49 A. Schütz, “Don Quijote y el problema de la realidad”, «Anuario de Filosofia», I, 1955, tr. it., Don Chisciotte e il problema della realtà, Roma: Armando, 2008, pp. 27-8.

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battuta umoristica, nel gioco e nell’ironia50, come in una risata51. Volendo utilizzare la tabella precedente, si potrebbe dire che una “comunità di pratica” si iscrive nella colonna “A” con qualche apertura verso la colonna “B”; una “comunità di ricerca” si iscrive nella colonna “B” con aperture verso la colonna “C”; una comunità di ricerca filosofica, infine, è posizionabile nella colonna “C” con tutte le implicazioni che questa collocazione comporta, che non sono soltanto e semplicemente le possibili aperture verso la colonna “D”. Se la riflessione è rivolta ad una pratica che si autodefinisce “riflessiva”, viene attivata una riflessione di secondo livello che è propriamente il luogo della filosofia. Se, però, si aggiunge che anche la riflessione di secondo livello è, a sua volta, una pratica, allora, al posto della “filosofia” abbiamo la “pratica filosofica”.

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G. Bateson, The Position of Humor in Human Communication, New York: Macy Foundation, 1953, tr. it., L’umorismo nella comunicazione umana, Milano: Cortina, 2006; Id., The Message “This is a play”, New York: Macy Foundation, 1956, tr. it., “Questo è un gioco”, Milano: Cortina, 1996. 51 H. Blumenberg, Das Lachen der Thrakerin. Eine Urgeschichte der Theorie, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1987, tr. it., Il riso della donna di Tracia. Una preistoria della teoria, Bologna: il Mulino, 1988. Rispetto a questo tema è interessante la notazione di Rocco De Biase, che «l’umorismo condivide con l’ironia una componente paradossale la cui rilevanza è anche filosofica […] L’ironia, se non la intendiamo come mera antifrasi, implica la capacità di assumere una distanza, di manipolare le cornici della comunicazione» (R. De Biase, “I frames dell’umorismo”, in G. Bateson, The Position of Humor in Human Communication, p. 84 (tr. it.)).

Capitolo III Comunità di ricerca filosofica 1. Filosofia come pratica sociale Riassumendo, abbiamo mostrato come la nozione di “comunità” da una parte non cessa di essere riconducibile a una qualche proiezione mitica corrispondente e rispondente a un richiamo di natura assiologica, dall’altra che essa ha subito una serie di significative riscritture nell’ambito degli studi sociali e nella riflessione filosofica post-heideggeriana. Abbiamo rintracciato nel concetto di “pratica” una connotazione primaria della comunità e abbiamo analizzato questo concetto. Lo abbiamo, in particolare, messo in relazione con quello di “riflessione”, distinguendo una riflessività situata su un piano più interno alla pratica e una riflessività di confine che mette in luce la problematicità di questa stessa relazione anche in termini di paradossalità. Il punto in cui siamo potrebbe essere rappresentato da un immaginario confronto tra l’asserzione che conclude il Tractatus logico-philosophicus1 di Wittgenstein e la sfida di Gregory Bateson: da una parte: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere», dall’altra «Ciò di cui non si può parlare, non si deve tacere. Se ne deve, anzi, parlare di più, perché è forse l’unico argomento di cui valga la pena di parlare»2. Ciò di cui vale la pena di parlare, nella prospettiva di Bateson, sono proprio le regole dei “giochi linguistici” del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, quelle «cose che non possono essere comunicate apertamente: le premesse del modo in cui intendiamo la vita, del modo in cui costru-

1

L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Londra: Kegan Paul, 1922, tr. it., Torino: Einaudi, 19682. 2 P. Bertrando, “Cornici che collassano. Umorismo, psicoterapia”, in G. Bateson, The Position of Humor in Human Communication, cit., p. 182 (tr. it).

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iamo le nostre visioni della vita, e così via»3, quegli aspetti più ordinari e quotidiani della nostra esperienza che non vediamo «perché li abbiamo sempre sotto gli occhi»4. Dire “li abbiamo sempre sotto gli occhi” è da intendere anche nel senso che li abbiamo sugli occhi, come le lenti che determinano le dimensioni, la chiarezza, la colorazione degli oggetti della visione, come baconiani idola che funzionano sia come limitazioni che come potenzialità. Come potenzialità perché ci permettono di inquadrare e organizzare il mondo e l’esperienza, come limitazioni perché ci impongono un “così” di fronte al quale la nostra fondamentale impotenza corrisponde esattamente al livello di certezza ostentato. La concezione wittgensteiniana del linguaggio come pratica sociale situata non esclude, a mio modo di vedere, l’impegno riflessivo nella direzione dell’indietreggiare/spaziare alla ricerca dei limiti del gioco in cui si è immersi. Esaminiamo la seguente riflessione del filosofo austriaco: «La risposta corretta alla domanda filosofica: ‘l’immagine visiva di quest’albero è composta? E quali sono le sue parti costitutive?’, è ‘Dipende da ciò che tu intendi per ‹‹composto››’. (E questa, naturalmente, non è una risposta, ma un rifiuto della domanda.)»5.

Qui Wittgenstein da una parte indica la direzione per una risposta situabile verso la soglia del gioco, dall’altra, però, interpreta la soglia come un messaggio di chiusura, una barriera invalicabile nella pratica corrente. Riprendendo un’osservazione precedente, quel che sembra aprire una possibilità, qui, non è tanto ciò che il filosofo dice del linguaggio, quanto quel che dice di sé. Ci interessa, in altre parole, non tanto la fotografia, quanto il gesto del fotografo, ossia, il gioco che lo stesso Wittgenstein sta giocando. Si tratta, evidentemente, di un gioco che non appartiene ai giochi che egli descrive e analizza e, comunque, di una posi3 G. Bateson, The Position of Humor in Human Communication, cit., p. 47 (tr. it). 4 L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, cit., p. 129 (tr. it.). 5 Ivi, p. 35 (tr. it.).

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zione paradossale e di doppio vincolo: con quale linguaggio si può sostenere che non si può fuoruscire dalla “città” del linguaggio? Dove si trova l’osservatore a cui appare la vista della città e anche l’inganno della sua presunta unità? Se si assegna una distanza, tradisce il suo discorso, se non se la assegna resta avviluppato nel paradosso, ma, anche immerso nella pratica e, possibilmente, nella comunità. C’è comunità nella misura in cui c’è voce e c’è relazione, ossia una pragmatica della comunicazione dal cui punto di vista apparirebbero i significati di una relazione con una voce i cui messaggi espliciti non sono comprensibili e verrebbero in qualche misura illuminati i meta-messaggi che regolano la pratica comunicativa6. In una assunzione del linguaggio come evento stratificato e complesso «Dobbiamo lasciar cadere l’idea che il linguaggio sia costi­ tuito da parole e che le parole siano sequenze, prive di toni, di lettere su un foglio (quantunque anche su un foglio ci sia la possibilità di intonazioni poetiche). Abbiamo a che fare qui con il linguaggio in un senso molto generale, che include le posture, i gesti, le intonazioni»7.

Se la CdRF è impegnata a portare avanti una pratica condivisa, allora ha bisogno di un setting, il cui disegno prende le mosse dalla definizione di una cornice. Nel senso in cui la intende Bateson, questa ha, innanzitutto, la funzione di un meta-messaggio o, se si vuole, di un segnacontesto che predispone a una regolazione caratteristica dell’ambiente. Come per lo svolgimento di un gioco, o di una seduta di psicoterapia, o di un rituale, l’apertura di una sessione di pratica filosofica è subordinata agli effetti del messaggio tacito “Questa è una sessione di pratica filosofica”. Per rendersi conto dell’imprescindibilità di questa premessa, basta notare come non funzionerebbe un gioco se 6

P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. Jackson, Pragmatics of Human Communication, New York: Norton & Co. Inc., 1967, tr. it., Pragmatics of Human Communication, Roma: Astrolabio, 1971. 7 G. Bateson, The Position of Humor in Human Communication, cit., p. 23 (tr. it).

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i partecipanti non avessero, prima di cominciare, condiviso il contenuto del messaggio “Questo è un gioco”8. Come abbiamo visto, incorniciare significa impostare una relazione figura-sfondo e porre, in tal modo, delle precise condizioni per la produzione di significati. Questo modo di funzionare delle pratiche sociali è strettamente connesso al loro carattere di spontaneità, ossia quando si tratta di pratiche la cui regolazione è stata interiorizzata attraverso i processi di socializzazione che hanno generato gli habitus corrispondenti. Ma, anche se una pratica come la riflessione filosofica non può essere, certo, annoverata tra quelle che fanno parte del panorama ordinario delle interazioni sociali, non possiamo ritenerla possibile se non in questa forma. Si tratta, in altre parole, di progettare un’ambientazione e di metterla alla prova rispetto al proposito di praticare la filosofia. Soffermiamoci più ampiamente sul senso del progettare. Voglio mettere in evidenza che, in generale, si tratta di un’attività che comprende arte e scienza, che stringe insieme particolare e generale, fare e sapere, attenzione al contesto e visione più distanziata dei problemi. Il forte vincolo verso la situazione di riferimento specifica non esclude le garanzie attingibili a un fascio di pertinenti scienze di base. In questo senso la progettazione si inquadra nell’ideal­-tipo della professionalità riflessiva proposto da Donald Schön9 secondo il quale la pratica competente non è una mera applicazione al caso singolo delle conoscenze teoriche provenienti dalle scienze di base, ma – alla luce della sua epistemologia del sapere pratico – un’arte di usare la scienza formulando teorie del caso unico, sapendo progettare inazione grazie all’abilità dell’improvvisazione, sapendo stare in ascolto attento rispetto alle variabili dinamiche del contesto. Si tratta di una progettazione che sembra muoversi dall’interno dell’oggetto da progettare. È, perciò un’attività che si infiltra nei processi in atto di un contesto esistente 8 9

G. Bateson, The Message “This is a play”, cit. D. A. Schön, The Reflective Practitioner, cit.

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e ne favorisce una serie di trasformazioni che indirizzano i processi stessi verso fini-in-vista10. La finalizzazione è un’operazione fondamentale e inalienabile per la figura del progettista e su questo terreno si misura la differenza con un “programmatore”. Agendo dall’interno della cornice nel rispetto delle sue regolazioni, l’intenzionalità trasformativa del progettista esclude finalità decontestualizzate, assunte aprioristicamente come guida del suo intervento. La nozione di “fine-in-vista” implica la “visione” del fine da parte di qualcuno e potrebbe essere, in questo senso, un’operazione troppo soggettiva. In realtà il valore e la rilevanza dei fini-in-vista sono strettamente correlati con la situazione complessiva e le sue dinamiche delle quali il progettista è un osservatore partecipante, ma di cui si rende anche interprete. L’interpretazione richiede la compresenza di più chiavi di lettura e la capacità di metterle in relazione. Tornando alla progettazione di una CdRF, non c’è dubbio, in ogni caso, che la contestualizzazione e il simultaneo movimento di trascendimento del contesto non potrebbero aver luogo se non a partire da un’ipotesi riguardante il confine tra “filosofico” e “non-filosofico”. Questa consapevolezza contribuisce alla definizione dei contenuti da collegare al meta-messaggio “Questa è una sessione di pratica filosofica”. È essenziale chiarire che tutti i contenuti del meta-messaggio, per essere efficaci rispetto alla pratica, non devono essere dichiarati esplicitamente nella forma di istruzioni, consigli o regole. Devono essere disseminate nel contesto, devono trasudare dalle sue pieghe, dalle sue linee di costruzione. La disposizione in cerchio, che caratterizza il setting della CdR lipmaniana, esemplifica bene come una certa regolazione delle interazioni dipenda esclusivamente dalla disposizione nello spazio. Stando seduti in cerchio alcuni atteggiamenti si auto-precludono, sono semplicemente incompatibili, non appartengono a quella cornice e non fanno parte di quel gioco. 10 J. Dewey, Theory of Valuation, Chicago: The University of Chicago Press 1969 [ed. orig. 1939].

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Se all’interno della pratica e nel corso del suo sviluppo sarà decisiva la qualificazione di “filosofico”, il metamessaggio “Questa è una pratica filosofica” non ha, a sua volta, contenuto filosofico. Ne, costituisce, semplicemente, l’orizzonte sociale e comunicativo. Rinvia, come soglia, allo sfondo dal quale la CdRF emerge come figura. Separa e connette nello stesso tempo il “gioco” filosofico dal mondo della esperienza ordinaria, Talete e la serva tracia. E, come in ogni efficace espressione di umorismo, basta capovolgere il rapporto tra figura e sfondo perché la risata trovi sempre di nuovo spazio. Quella della CdRF è pratica sociale non solo perché è immersa in un ambiente sociale a cui si rapporta, ma lo è anche nella misura in cui la riflessione filosofica non si compone di discorsi disincarnati e separabili dagli autori. Nella prevalente oralità della pratica filosofica, il discorso è il luogo stesso dell’esposizione di chi lo pronuncia; rappresenta e veicola la sua messa in gioco nel campo di relazioni a cui partecipa. La corporeità è chiamata in causa in tutte le sue implicazioni e i suoi riverberi, di carattere emotivo, sociale, etico. Se la comunità è nelle trame del conessere a cui ognuno è esposto, l’altro deve avere un volto, una voce, deve “convocarmi”, nel senso in cui Emmanuel Levinas qualifica questa relazione: «Volto dell’altro uomo in quanto luogo originario di ciò che ha senso […] Il volto è nudità e indigenza dell’espressione come tale, cioè l’estrema esposizione, il senza-difese, la vulnerabilità stessa […] Ma questo stare di fronte del volto nella sua espressione – nella sua mortalità – mi convoca, mi rivolge richieste, mi reclama: come se la morte invisibile alla quale fa fronte il volto dell’altro – alterità pura, in qualche modo separata da ogni insieme – fosse affar mio […] è proprio in questo richiamo della mia responsabilità da parte del volto che mi convoca, mi rivolge richieste e mi reclama, è proprio in una simile messa in questione che altri è prossimo»11. 11

E. Levinas, A. Paperzak, Ethics as First Philosophy, New York & London: Routledge, 1995, tr. it., Etica come filosofia prima, Milano: Guerini e Associati, 1989.

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Inoltre, la socialità interna della CdRF – che possiamo già far coincidere con la sua essenza politica – ha a che fare con un ideale di democrazia che connota la sua stessa eticità. Si tratta di una visione della democrazia che ha come referenti tutte le forme di democrazia diretta e, insieme, le interpretazioni in senso non solo formalistico della democrazia come forma di governo. Come democrazia sostanziale la comunità riflette costantemente su se stessa e, pertanto, mette continuamente in discussione le sue “verità”. Qualcosa del genere è avvenuto in Atene e, in diverse forme, nell’Europa moderna. Si tratta di un evento che non sembra avere precedenti nella storia dell’umanità, i cui risultati sono stati, come ci ricorda Castoriadis: «[L]a nascita di uno spazio politico pubblico e la creazione del libero esame, dell’interrogazione illimitata»12. Questo evento unico e straordinario consiste nel fatto che l’ordine sociale istitui­ to, e generalmente legittimato con l’appello a fondamenti esterni (sacri), è tale da formare individui che «in essa non vedono più qualcosa d’intoccabile»13. Questa esperienza è il fondamento dell’autonomia, ossia di una condizione in cui la legge deriva da una fonte umano-sociale e viene riconosciuta e trattata come tale, cioè rivedibile e mutabile. Si tratta del fondamento della democrazia e, nello stesso tempo, della sua tragicità: «[L]a democrazia è il regime dell’autolimitazione»14. Quello che l’autore vuole mettere in risalto è, qui, la comune genealogia di democrazia e filosofia. Nel caso della CdRF, si dà vita ad una esperienza “istituente” – per restare nel vocabolario di Castoriadis – che ha di mira contemporaneamente e contestualmente i valori della democrazia e l’ideazione della filosofia15. Riprendere 12

C. Castoriadis, “Institution prèmiere de la societé et institution se­ condes” (1985), in Id., Figures du pensable, Le Carrefours du labyrinthe, VI, Paris: Seuil, 1999, tr. it., “L’istituzione della società e le istituzioni sociali”, in F. Ciaramelli (a cura di), Cornelius Castoriadis. La rivoluzione democratica, Milano: Elèuthera, 2001, p. 37. 13 Ivi, p. 39 (tr. it.). 14 Ivi, p. 40 (tr. it.). 15 Per un approfondimento del tema del rapporto tra filosofia e democrazia mi permetto di rinviare ai miei lavori “Filosofia per la formazione.

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e ristabilire il legame profondo, intrinseco, tra filosofare e spirito democratico per come Socrate emblematicamente lo testimonia, significa restaurare, sebbene nel piccolo ed effimero cerchio della CdRF, quella dimensione del “politico”, che Hannah Arendt considera scomparsa con l’avvento e la supremazia dell’homo laborans16. Secondo la Arendt, nel corso della storia della civiltà occidentale, l’epoca moderna ha costituito una svolta in cui è andato completamente perso lo spazio politico, che per i Greci era coincidente con la vita e la dimensione della polis. Quel che nella modernità è indicato come società non aveva nessuna esistenza nelle poleis greche. Piuttosto lo schema dell’organizzazione si incentrava sui due poli della sfera domestica, corrispondente al privato, e della sfera politica corrispondente al pubblico. La differenza radicale rispetto all’organizzazione moderna consiste nell’avvenuta sostituzione del politico col sociale, che ha comportato un oscuramento della distinzione tra dominio pubblico e dominio privato, tra polis e famiglia, tra le “attività relative a un mondo comune e quelle relative alla conservazione della vita”, per cui «Nel nostro modo di pensare la distinzione si è completamente oscurata, perché noi vediamo i popoli e le comunità politiche riflessi nell’immagine di una famiglia le cui faccende quotidiane devono essere sbrigate da una gigantesca amministrazione domestica su un piano nazionale, la disciplina che corrisponde a questo processo non è tanto la scienza politica quanto l’’economia nazionale’ o l’’economia sociale’ […] una specie di economia domestica collettiva»17.

Questa distanza incolmabile tra uno stato nazionale moderno e una polis greca, implica, da una parte, nell’ambito domestico, la legittimazione della schiavitù e di una Il curricolo della ‘philosophy for children’”, «Prospettive EP», No. 2-3, 2002 e Filosofia come pratica sociale, Milano: Apogeo, 2008. 16 H. Arendt, The Human Condition, Chicago: The University of Chicago Press, 1958, tr. it., Vita activa, Milano, Bompiani, 1994/2006. 17 Ivi, p. 22 (tr. it.).

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struttura fortemente gerarchizzata che si reggeva sull’esercizio di un potere dispotico, ma, dall’altra, la configurazione dello spazio pubblico come spazio di libertà condiviso da quei capi-famiglia che, in quanto cittadini, potevano considerarsi uguali e non soggetti ad alcun potere superiore. Al contrario, nello stato nazionale, «la libertà è situata nel dominio del sociale, e la forza o la violenza diventa il monopolio del potere»18. L’uomo greco che gode del privilegio della cittadinanza, è libero in un doppio senso: «Essere liberi significava sia non essere soggetti alle necessità della vita o al comando di un altro sia non essere in una situazione di comando. Significava non governare né essere governati»19.

La libertà del cittadino, nella democrazia della polis, si concretizza nelle due dimensioni dell’agire e del parlare, entrambe strettamente e inevitabilmente correlate all’abitare un mondo comune, insieme con gli altri. Il fare discorsi non può prescindere dalla presenza dell’altro ed è in questa relazione discorsiva con l’altro che si costituisce l’identità del Sé. Come chiarisce la Arendt: «Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelando attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano. […] Questo rivelarsi del ‘chi’ qualcuno è, in contrasto con il ‘che cosa’ […] è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia»20.

Nel nostro mondo quello che è venuto a mancare è questo spazio “politico” dell’agire e del fare discorsi liberamente, ossia senza vincoli rispetto alle necessità della vita. L’homo laborans ha fatto valere sempre più la sua prospettiva produttiva e riproduttiva fino a renderla coincidente col ritmo circolare e ripetitivo della stessa vita: produrre per consumare e consumare per produrre. In questa circo18 19 20

Ivi, p. 23 (tr. it.). Ivi, p. 24 (tr. it.). Ivi, p. 130 (tr. it.).

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larità biologica del consumismo non resta più spazio né per l’homo faber, la cui attività era diretta a produrre utensili e opere duraturi e destinati a trascendere la caducità personale, né per l’azione, sostituita dal comportamento, né per il pensiero sostituito dalla cognizione. Si può dire legittimamente che nella CdRF si fa esperienza, sebbene limitata e precaria, sia dell’azione sia del pensiero sia della libertà? Questa domanda è destinata a restare aperta e funzionare piuttosto come sfida. Una risposta possibile – o un auspicio da condividere – è quanto scrive la Arendt a conclusione del suo The Human Condition: «Il pensiero, infine […] è ancora possibile, e senza dubbio efficace, ovunque gli uomini vivano in condizioni di libertà politica. Disgraziatamente […] nessun’altra facoltà umana è così vulnerabile, e di fatto è molto più facile agire in condizioni di tirannia che non pensare. Come esperienza di vita, il pensiero è sempre stato ritenuto, forse erroneamente, appannaggio di pochi. Forse non è presunzione credere che questi pochi sono ancora numerosi nel nostro tempo. Può non avere importanza o averne poca, per il futuro del mondo; non è senza importanza per il futuro dell’uomo»21.

La scomparsa di uno spazio “pubblico”, come una delle conseguenze dell’avanzata dello spirito della modernità è un tema particolarmente caro anche a John Dewey22. Nonostante le diverse prospettive di indagine, sia la Arendt sia Dewey vedono lo spazio del sociale e della politica degli stati nazionali moderni come un ampliamento della sfera privata a tutto discapito dell’autonomia del “pubblico” come sfera più propria del “politico”. In entrambe le interpretazioni lo spazio “pubblico” delle poleis greche così come delle comunità dei pionieri in America è organizzato in modo democratico e basato sul libero esercizio del discorso. Una conclusione, questa, che potrebbe essere espressa anche con le parole di Jean-Luc Nancy: 21 22

Ivi, p. 242 (tr. it.). Si veda specialmente J. Dewey, The Public and Its Problems, cit.

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«Filosofia e comunità sembrano inseparabili […] Prima ancora di darsi un ‘oggetto’, la filosofia sarebbe un fatto della comunità, il ‘filosofare’ avrebbe luogo in comune, dentro e attraverso questo ‘in’ (che non sarebbe quindi niente di collettivo, ma destinato a sottrarsi infinitamente all’opposizione e alla coppia ‘individuale/collettivo’»23.

In definitiva, il pubblico coincide con lo spazio del “between”24, e del “con” che ci unisce e, nello stesso tempo, ci tiene distinti; lo spazio dell’esposizione in cui ognuno può diventare quello che è, apparendo agli altri e riconoscendo gli altri per “chi” essi sono, in una comune impresa di costruzione di senso. In rapporto al filosofare come domanda e ricerca relative al senso Nancy scrive: «Il senso è comune, comunicante, comunicato, in comune per definizione […] Il senso costituisce il mio rapporto a me in quanto in rapporto ad altro. Un essere senza altro (o senza alterità) non avrebbe senso, non sarebbe che l’immanenza della sua propria posizione […]. Viceversa qualcosa come un ‘comunità’ sembra implicare una filosofia o filosofia semplicemente, la partizione articolata di un senso che dia luogo, appunto, alla comunità»25.

Una comunità che cerca il suo senso è intrinsecamente politica dal momento che ha spostato il suo baricentro dal cerchio delle soggettività in lotta tra loro al campo aperto della relazionalità, il «luogo – come sostiene Nancy – di un’esposizione, in cui il ‘pensiero’ si mette a rischio abbandonandosi alla ‘comunità’ così come la ‘comunità’ al ‘pensiero’. Ciò può subito far pensare alla figura di una ‘comunità pensante’»26. Una democrazia, se intesa non soltanto come forma e contenitore giuridico-istituzionale, ha a che fare con l’etica e con la pratica della ricerca e richiede uno spostamento dall’epistemologia alla politica: dalla spiegazione del rapporto tra ragione e realtà alla spiegazione del 23 24 25 26

J.-L. Nancy, La communauté désouvrée, cit., p. 173 (tr. it). Cfr. M. Buber, Between Man and Man, London: Kegan Paul, 1947. J.-L. Nancy, La communauté désouvrée, cit., p. 174 (tr. it). Ivi, p. 188-9.

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funzionamento e degli effetti della ricerca in un contesto di libertà politica. È questo il senso complessivo dello sforzo di Dewey di riscrivere la logica come “teoria dell’indagine”27. Allorché l’indagine si configura come un impegno comunitario che attraversa, a vari livelli, l’esperienza di abitare il mondo, può realizzare la possibilità di tenere all’interno del discorso umano anche la questione della fondazione che, nella democrazia, è un processo di ricerca da tenere sempre aperto e vivo, interrogandosi quotidianamente su che cosa è la verità, il bene, la giustizia. Allorché in un contesto intersoggettivo si fa pratica filosofica, si esercita, in primo luogo, l’autonomia come autogoverno e auto-istituzione di una comunità che persegue la ricerca come finalità primaria della sua istituzione e della sua azione. Si fa esperienza concreta e attuale della negoziazione di significati e valori. Si impara a riconoscere l’altro come partner di una comune impresa di sapere e di agire. A questo proposito, sostiene Martha Nussbaum: «Per promuovere una democrazia riflessiva e deliberativa, piuttosto che semplicemente un’arena per gruppi di interesse in competizione, una democrazia cioè che prenda realmente a cuore il bene comune, dobbiamo formare cittadini che abbiano la capacità socratica di ripensare criticamente le proprie convinzioni. Non è un bene per la democrazia che le persone votino sulla base di sentimenti assorbiti dai mass-media e mai messi in discussione. Questa mancanza di spirito critico crea una democrazia nella quale le persone parlano tra loro, ma senza mai avere un vero e proprio dialogo»28.

27

R. Rorty, Contingency, Irony, and Solidarity, Cambridge: Cambridge University Press, 1989, p. 68. Sulla dimensione intrinsecamente politica, ma anche pedagogica, dell’inquiry deweyana cfr. M. Striano, “An Educational Theory of Inquiry”, in J. R. Shook, P. Kurtz, Dewey’s Enduring Impact: Essays on America’s Philosopher, Amherst-New York: Prometheus Books, 2011. 28 M. C. Nussbaum, Cultivating humanity: A Classical Defense of Reform in Liberal Education, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1997, tr. it., Coltivare l’umanità, Carocci, Roma 1999, p. 33.

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2. Il setting della CdRF Come sappiamo, il “giardino” filosofico per eccellenza è quello di Epicuro e gli epicurei erano detti “quelli del giardino”. Possiamo immaginarlo come un luogo che rivendica un forte vincolo alla terra e ad una natura mitizzata in una sua presunta “bontà” che nella Lettera a Meneceo si conferma nella gerarchia epicurea dei desideri: solo quelli naturali e necessari sono compatibili con una vita felice. Non è, però, questo aspetto che invita ad assumere quella del “giardino” come metafora dello spazio filosofico. Quel che più importa dal nostro punto di vista, è, soprattutto, il fatto che un giardino si configura come un luogo aperto-chiuso. Può non avere solide mura di recinzioni e, tuttavia, non è un campo. Lo immaginiamo come spazio contiguo con la casa, esteso tra il dentro e il fuori, in un’area di confine tra l’intimità del focolare domestico e l’eccesso di distanza del resto del mondo. Per Epicuro è il luogo della filosofia e dell’amicizia, della comunità filosofica, una cerchia ristretta di devoti che hanno scelto di condividere uno stile di vita conforme agli insegnamenti del maestro; una comunità cementata più dal dogmatismo e dalla venerazione verso la figura di un Maestro, molto “chiusa” dal punto di vista della ricerca filosofica, sebbene “aperta” rispetto ai titoli di ammissione e non selettiva dal punto di vista delle differenze sociali, tanto che essere donna o schiavo non era un motivo di esclusione. Le comunità filosofiche dell’antichità non sono state, in realtà, luoghi dell’indagine filosofica e, sebbene avessero molto a che fare con una interpretazione della filosofia come pratica e come stile di vita, consideravano proprio il campo della teorizzazione e della riflessione filosofica come spazio riservato a un maestro o a una tradizione dogmatica. In definitiva, essere epicurei piuttosto che stoici, scettici o cinici voleva dire l’opzione per uno stile di vita riconoscibile alla luce delle dottrine corrispondenti, che rimanevano indiscusse fonti di un’etica. Confrontando le scuole filosofiche di età ellenistica con l’originaria esperienza socratica di una filosofia circolan-

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te nella polis – il cui luogo privilegiato non è il giardino ma l’agorà – si può guardare a queste comunità filosofiche come a esempi di reificazione dell’apertura comunitaria della pratica filosofica; un processo di trasformazione, questo, che è già avviato dall’Accademia platonica. Il trasferimento della pratica filosofica dallo spazio dell’ἀγορά, metafora dello spazio pubblico, a quello del κῆπος, metafora dello spazio della piccola comunità e del “vivere nascosto” in uno spazio più privato ha accompagnato, nella Grecia antica, le trasformazioni storiche che hanno visto il progressivo declino delle poleis di fronte all’avanzata di Alessandro Magno e la costituzione dell’impero alessandrino fino alle trasformazioni radicali verificatesi nell’area mediterranea dopo la morte di Alessandro nel 323 a. C. e l’inizio dell’età ellenistica. Estrapolate dai loro contesti storici, agorà e giardino rappresentano due possibili cornici della CdRF e, come tali, suggeriscono un quadro di connotazioni interessanti anche per il presente. Entrambe, io credo, indicano dei bisogni e del vuoti caratteristici del mondo in cui viviamo. Una connotazione “agoretica” della pratica filosofica rinvia alla valorizzazione del “pubblico”, inteso come relazionalità tra pari liberata dalle ipoteche della sfera economica e orientata verso una ricerca interessata a questioni di senso e di valore. Una connotazione “comunitaria”, incorniciabile nella metafore del “giardino”, richiama il bisogno, molto diffuso nel “villaggio globale”, di una relazionalità in-presenza, della valorizzazione dell’esperienza vissuta in una prospettiva di parentesi di gioco e di godimento fine a se stesso, anch’esso svincolato dagli assilli del mondo ordinario: “staccare la spina”, come si dice, per sottolineare un desiderio di uno spazio e di un tempo dell’autonomia, separati, sebbene in una pausa racchiusa tra parentesi, da un sistema a cui, normalmente, la nostra “spina” deve essere connessa. Si tratta di un luogo di autonomia e di affrancamento dalle logiche e dagli affari ordinari che non deve essere confusa né con l’evasione né con l’affannosa ricerca e organizzazione del tempo libero.

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Il viaggio di una CdRF porta in territori che, per essere attraversati e vissuti, richiedono impegno e coinvolgimento; è un viaggio verso un esercizio del pensiero che si fa pratica della cura-di-sé con gli altri, che si fa distanziamento dal senso comune e impegno riflessivo a tutto campo per il quale la domanda e il saper domandare in modo radicale diventa più produttivo di ogni risposta. Sono i territori dove la comunicazione non è né funzionale alla trasmissione di informazioni, né pratica espressiva e narrativa di autocompiacimento estetico. Parlare “a partire da sé”, piuttosto che “parlare di sé”29 dà vita a un movimento che apre il campo del con-essere. Mentre, infatti, nel primo caso il pensiero individuale, con tutta la peculiarità del suo stile e dei suoi contenuti, è proposto come il potenziale tassello di un mosaico che si va costruendo, nel secondo caso, il Sé individuale rimane ripiegato e chiuso e tende a reificare strumentalmente la comunità come uditorio passivo. Lo stile filosofico dei percorsi di indagine che la CdRF attiva al suo interno comporta una dislocazione del pensiero su un piano dove i riferimenti e i vincoli alla sfera del sé individuale vengono filtrati e, sebbene non esclusi, tendono a presentarsi come sfocati e mediati concettualmente. Il peso della soggettività, nel contesto del dialogo, si misura non tanto dal punto di vista della comunicazione esplicita, quanto piuttosto da quello della pragmatica; si esplica nella presenza attiva del corpo e del suo linguaggio, così come nella circolazione delle emozioni e nell’intreccio delle relazioni sociali. Queste componenti che agiscono tacitamente sono decisive rispetto alla genesi e alla sopravvivenza della comunità e del suo senso e sono, inoltre, la fonte di energia per l’attività riflessiva. Diversamente da quanto è portata a fare la psicoterapia, la pratica filosofica non è centrata sulla sfera emotiva e, in generale, sui comportamenti. È il soggetto in quanto agisce nella comunità che ha rilevanza ed è polo di attenzione e di cura. Il soggetto, nella misura in cui si decentra, prende distanza da sé, si espone nello 29

Cfr. Diotima, La sapienza a partire da sé, Napoli: Liguori, 1996.

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spazio agoretico, si presenta come sorgente di un discorso che è, potenzialmente, per tutti e di nessuno. Il suo parlare non è rivolto a nessun soggetto particolare e, così, nella CdRF ognuno parla a tutti o, meglio, ogni soggettività si trascende nello spazio pubblico esponendo il proprio pensiero. Il risultato sarà non già una vetrina dei discorsi dei partecipanti, ma un logos “comune” esattamente nel senso che esso prende forma nello spazio della relazione e nel senso che non è comune perché appartiene a tutti, ma, all’opposto, perché nessuno può reclamarlo come suo: esso è da tutti, ma non è di nessuno. Quali sono le condizioni, gli strumenti, le vie che consentono la nascita, lo sviluppo e il funzionamento di una CdRF, disegnata secondo l’idea di pratica filosofica di comunità che andiamo esponendo? Le competenze e gli habitus che si mettono in gioco nella CdRF non sono soltanto le qualità personali già in possesso dei suoi membri. Quello che intendo dire è che un corredo dato a priori di condotte potenzialmente generative di una CdRF è difficilmente sostenibile come premessa sufficiente per dare vita a una significativa esperienza di pratica filosofica di comunità. Al contrario, è la partecipazione prolungata a questa esperienza che ha la forza di indurre cambiamenti negli atteggiamenti e nelle condotte individuali e fornisce, attraverso la partecipazione, le specifiche attitudini a questo tipo di impegno. Queste premesse sembrano spingerci in una situazione ingarbugliata, giacché quello che viene prospettato come un risultato appare anche come condizione preliminare: le competenze personali di contribuire alla vita di una CdRF si sviluppano sul campo e in azione nel contesto della pratica dialogica sulla base, potremmo dire, della partecipazione legittimata, ma la pratica riflessiva della comunità, a sua volta, si alimenta dei contributi e della partecipazione dei suoi membri. Ora, se riguardo a una comune pratica sociale, volessimo cercare un suo primo inizio, credo che ci renderemmo conto ben presto della difficoltà dell’impresa, soprattutto riguardo al rapporto tra individuo e contesto:

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i costumi condivisi non hanno autori riconoscibili. Quello che vale, in generale, è il campo di pratica già strutturata, anche se guardiamo, con Bourdieu, la struttura come forza strutturante. Questo significa che la vita di una CdRF inizia non predisponendo, prima e al di fuori del suo cerchio, gli atteggiamenti e le abilità che poi serviranno per il suo sviluppo, ma prendendo le mosse da un già iniziato, da un contesto di pratica già in corso, come succede per tutte le pratiche sociali. Come è possibile ottenere una situazione del genere se, come possiamo agevolmente costatare, la pratica filosofica non è certo una delle pratiche sociali più diffuse e spontanee nella nostra società? È qui che Platone ha qualcosa di importante da suggerire. Possiamo, a mio avviso, interpretare la composizione dei suoi Dialoghi come una geniale soluzione al problema che abbiamo davanti. Si tratta, in buona misura, di quello stesso problema che Platone esprimeva in termini di oscillazione tra oralità e scrittura, una posizione di vero e proprio doppio vincolo. Considerando, sul modello socratico, la filosofia come pratica sociale, attribuiva al dialogo in presenza e – come scrive nella Lettera VII – a una «vita vissuta in comune»30, una funzione insostituibile per la ricerca della verità. Sapeva, d’altra parte, quanto instabili e contingenti sono le conoscenze affidate alla comunicazione orale. Si rendeva conto che il destino di morte avrebbe investito non solo la persona del maestro Socrate, ma anche la sua opera filosofica, che sarebbe stata dispersa nel vento dell’umano conversare, flatus vocis unico e irripetibile inghiottito irrimediabilmente dal flusso irreversibile del discorso. Platone vedeva nella scrittura, che al suo tempo andava sempre più diffondendosi in Grecia, una condanna a morte della pratica sociale del dialogo socratico. Come possiamo leggere nel Fedro: «La scrittura è in una strana condizione, simile veramente a quella della pittura. I prodotti cioè della pittura ci stanno

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Platone, Lettera VII, cit.

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davanti come se vivessero; ma se li interroghi, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano le parole scritte: crederesti che potessero parlare quasi che avessero in mente qualcosa; ma se tu, volendo imparare, chiedi loro qualcosa di ciò che dicono esse ti manifestano una cosa sola e sempre la stessa. E una volta che sia messo in iscritto, ogni discorso arriva alle mani di tutti, tanto di chi l’intende tanto di chi non ci ha nulla a che fare; né sa a chi gli convenga parlare e a chi no. Prevaricato ed offeso oltre ragione esso ha sempre bisogno che il padre gli venga in aiuto, perché esso da solo non può difendersi né aiutarsi»31.

Nonostante questa ferma condanna, Platone comprendeva anche abbastanza chiaramente che la pratica della scrittura avrebbe potuto dare stabilità e permanenza alla conoscenza e alle verità che la filosofia poteva esprimere. Se dobbiamo considerare oralità e scrittura come pratiche distinte e per certi versi opposte, i Dialoghi platonici rappresentano una specie di mossa transcontestuale che risolve in modo virtuoso la situazione paradossale generata dalla relazione tra oralità e scrittura: la forma del dialogo consente di scrivere l’oralità e parlare la scrittura. Dal punto di vista di una pratica filosofica, l’ideazione platonica della forma del dialogo filosofico acquista un nuovo valore e anche nuovi significati32. Lipman, quando ha dato vita all’impresa di scrivere i racconti del curricolo della Philosophy for children, ha intuito, reinterpretato e operazionalizzato queste potenti implicazioni della scrittura del dialogo per la pratica filosofica. Ed è proprio qui che troviamo la soluzione al problema dell’avvio di una pratica filosofica in una comu31

Platone, Fedro, in Opere, cit., 274c-276a. L’evidente riferimento alle “dottrine non scritte” di Platone non va nella direzione di un’adesione alle interpretazioni inaugurate dalla Scuola di Tubinga e ispirate a istanze di tipo metafisico-sistematiche (Cfr. H. Krämer, Platone e i fondamenti della metafisica, Milano: Vita e Pensiero, 1982; G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Milano: CUSL, 1984, 199110). Piuttosto, la nostra attenzione è focalizzata sulla pratica dell’oralità come contesto dialogico (Cfr. M.Isnardi Parente, “Il Platone non scritto e le auto testimonianze”, «Elenchos», V, 1984; Id., L’eredità di Platone nell’Accademia antica, Milano: Guerini, 1989). 32

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nità. Nella metodologia lipmaniana l’inizio della pratica di una comunità di ricerca è costituito da una pratica già strutturata che, però, è solo raccontata nella fiction letteraria. Si presenta, perciò, come un’esperienza remota, già conclusa, ma, nello stesso tempo, come memoria pronta a essere rivivificata nell’incontro con i lettori della comunità reale. È così che oralità e scrittura possono intrecciarsi nella vita della comunità. Senza confondersi, trovano una loro continuità nel comune ancoraggio alla pratica; è come se la scrittura – nella forma della narrazione e del dialogo – fungesse da ponte e da punteggiatura tra i molteplici eventi di pratica dialogica, dislocabili sia diacronicamente che sincronicamente. Ecco perché nessuna CdPF si trova, in assoluto, di fronte al problema del suo inizio. Può, infatti, percepirsi come un ulteriore e creativo sviluppo della comunità di pratica incontrata nel racconto. Da quest’ultima può ereditare stili di comportamento, atteggiamenti euristici, posizioni assiologiche, suggerimenti di metodo. Mediante questa circolazione di oralità e scrittura si ottiene la partecipazione a una pratica che travalica idealmente i confini della singola comunità e dell’esperienza puntuale. Va sottolineato il fatto che la scrittura, come medium in grado di conservare e trasferire le tracce di un’esperienza, ha delle connotazioni che non devono essere confuse con quelle di altri media più recenti e anche più diffusi nella nostra epoca. In altre parole, se si sostituisce il racconto scritto di una discussione filosofica con una video-registrazione, non possiamo aspettarci gli stessi effetti e le stesse possibilità di sviluppo. Dobbiamo tenere presente, in primo luogo, che la decodificazione procede in modo completamente diverso a seconda che si tratti di linguaggio scritto o di linguaggio iconico. Mentre quest’ultimo fa appello specialmente all’attività percettiva e richiede attenzione alle sintesi gestaltiche, il primo, invece, fa appello alle operazioni mentali dell’analisi e della sintesi concettuale, richiede abilità di memorizzazione, di riflessione e creatività ermeneutica. Quest’ultima, in particolare, comporta per il lettore ampi margini di autonomia costruttiva rispet-

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to ai significati estrapolabili da un testo. Non così per lo spettatore, più passivo nella ricezione del messaggio e più vincolato alla globalità non scomponibile dell’immagine. Con questo voglio sottolineare come la scrittura, e solo la scrittura, può svolgere nel modo più efficace quella funzione di ponte tra una pratica di oralità dileguata e un suo rilancio in un nuovo contesto e con altri protagonisti. Solo la scrittura può assumere la forma del pre-testo, il quale, come tale, non impone dei significati conclusi, ma, mentre mostra un modello della pratica da condividere, suggerisce dei contenuti che convocano i membri della comunità a interrogarsi sulle questioni che hanno senso e valore per loro e a proseguire autonomamente la ricerca. Oralità e scrittura sono componenti essenziali dell’ambientazione comunicativa della CdRF, senza, per questo, escludere che possano essere utilmente utilizzati i linguaggi iconici e attivi. Questi altri linguaggi possono essere molto efficaci per vari scopi, definibili di volta in volta sulla base delle caratteristiche della comunità, ma non possono sostituire il gioco oralità-scrittura riguardo alle istanze della pratica descritte sopra33. Lo scenario in cui è situata la pratica comprende nella sua architettura tutto l’insieme delle variabili che fanno la qualità del contesto: dai linguaggi e le modalità della comunicazione all’organizzazione dello spazio, dalla posizione e il movimento dei corpi alla disposizione degli oggetti fino all’arredamento. Queste variabili che costituiscono lo sfondo sul quale deve stagliarsi, come figura, l’evento dialogico, tendono a restare nella dimensione tacita. Agiscono, pertanto, in modo influente soprattutto sulla pragmatica 33

Una diversa considerazione è da fare sul linguaggio teatrale e, in generale, sulla drammatizzazione. In questo caso si tratta di una diversa rappresentazione del testo scritto, non attraverso la lettura ma con l’allestimento scenico per cui, complessivamente, si conserva l’impianto di base. È il caso di ricordare, a questo proposito, che in Pixie, uno dei racconti del curricolo, vengono presentate delle drammatizzazioni di un racconto della stessa protagonista in un contesto narrativo che mette in luce la stretta continuità tra oralità, scrittura e rappresentazione teatrale.

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della comunicazione e sulla dinamica del gruppo. Come meta-messaggi, disegnando i confini di una cornice, dettano implicitamente le regole, i vincoli e le possibilità dello spazio interno. Di questo scenario è fattore determinante la disposizione a cerchio dei partecipanti, la sola che permetta a tutti di potersi guardare in faccia e di dirigere lo sguardo gli uni sugli altri. È, poi, particolarmente rilevante che la disposizione a cerchio sia tale da lasciare lo spazio interno libero, senza tavoli o altri oggetti. Esso sta a rappresentare lo spazio “pubblico”, del con-essere, sulla cui soglia ognuno dei partecipanti può sporgersi ed esporsi. È altrettanto importante impostare una decisa informalità nei rapporti sociali (darsi del tu, identificarsi con un nome proprio anche diverso da quello anagrafico, ecc.). Per avvicinarci ulteriormente alla descrizione della vita interna di una CdRF, possiamo utilizzare un’analogia. L’operazione dell’orchestrare suggerisce con buona approssimazione quel che succede in una CdRF. L’orchestra, infatti, fornisce due canoni particolarmente pertinenti a caratterizzare i processi che si attivano. Il primo riguarda il rapporto tra parte e tutto (il singolo strumento rispetto al risultato musicale finale); il secondo riguarda il ruolo del direttore d’orchestra. Cominciando da quest’ultimo, si può affermare che il ruolo che egli svolge in buona misura definisce, per analogia, quello del “facilitatore” della CdRF. Il compito è quello di coordinare gli interventi, stabilire il tempo e le dinamiche, interagire con gli attori in maniera da strutturare armoniosamente il risultato d’insieme. Nella CdRF la relazione tra singolo partecipante e logos comune è esattamente come nell’orchestra. Nell’ordine delle finalità il primato spetta al risultato complessivo, all’opera comune ascrivibile, alla fine, alla comunità. E, tuttavia, questo non implica che ogni singolo debba intonare la stessa musica. Anzi, è dalla differenza e specificità della singola voce, comprese le dissonanze, che deriva l’armonia del tutto. In questo paragone non possiamo non vedere le differenze. L’esecuzione orchestrale è basata su uno spartito e, nella sua essenza, vincolata ad esso: il contenuto è già

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prestabilito, scritto da un autore assente. Il fatto che se ne possano fare innumerevoli esecuzioni conferma che le variazioni possibili sono minime e le interpretazioni strettamente sorvegliate da una sostanziale aderenza a un “testo” già scritto. La CdRF, al contrario, non si misura con un contenuto prestabilito che aspetta solo di essere re-interpretato e rimesso in scena. Se così fosse, sarebbe una comunità – o semplicemente un gruppo – di apprendimento filosofico. Si potrebbe dire che, da questo punto di vista, l’orchestrazione in una CdRF è molto più simile a quella tipica del jazz in cui la distinzione tra il ruolo del compositore e quello dell’esecutore tende a sfumare e l’esecuzione è, ogni volta di nuovo, una invenzione; i vari strumenti dialogano tra loro, rispondendo, parafrasando, provocando, commentando, rilanciando34. Questa differenza nella definizione del contenuto ha dei riflessi significativi anche sulla figura del “facilitatore” nel confronto col direttore d’orchestra. Laddove il contenuto è pre-scritto, chi ha il compito di orchestrare deve inevitabilmente costituirsi come ponte tra l’autore assente e gli orchestrali che eseguono la composizione. Egli, nella misura in cui è consentito, è anche l’unico interprete riconosciuto dell’opera eseguita. Se, ora, facciamo il caso della CdRF per la quale il contenuto da portare a espressione non è un testo pre-scritto, ma un testo da scrivere coralmente in itinere, è chiaro che questa circostanza toglie al “maestro” una delle sue funzioni più ricca di connotazioni e di prestigio:

34 L’analogia col jazz è stata utilizzata da Neri Pollastri in riferimento alla questione del metodo della consulenza filosofica. Citando Davide Sparti, (Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella musica improvvisata, Bologna: il Mulino, 2005), l’autore sostiene che «la pratica filosofica […] ha molto a che fare con l’agire improvvisato: essa mantiene l’ethos assegnato alla filosofia, sulla traccia di Platone, da Sini; porta con sé il riferimento serrato al patrimonio filosofico che ci è stato tramandato dalla storia, che è da un lato una ‘via’, dall’altro una pluralità di contenuti e metodi potenzialmente tutti a nostra disposizione nell’agire discorsivo» (N. Pollastri, “Pratica della filosofia e consulenza filosofica”, in R. Longo, D. Miccione (a cura di), Vivere con filosofia, Acireale-Roma: Bonanno, 2006, p. 59).

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essere l’unico titolato ad interpretare il testo originale, il solo legittimato a fare da ponte tra un contenuto originario e la sua ennesima esecuzione. Restiamo ancora sulla questione del contenuto. Se per la “comunità di pratica” i contenuti sono nient’altro che le sue pratiche spontanee e tendenzialmente ripetitive; se, per la “comunità di ricerca” i contenuti sono le sue pratiche assunte riflessivamente come oggetto d’indagine e di azioni correttive o ricostruttive, qual è il contenuto più proprio della CdRF? In un certo senso abbiamo incominciato a chiarire questa questione in negativo. Abbiamo asserito che dal piano dei contenuti è da escludere il Sé e i suoi vissuti più soggettivi; abbiamo escluso, altresì, i contenuti provenienti da fonti esterne autorevoli, così come escludiamo le possibili produzioni personali del “facilitatore”. Che cosa rimane? La possibilità che rimane è una “creazione”, una produzione inedita che prende forma nello spazio del pensiero comune, una costruzione sociale il cui inizio è piuttosto una sfida, un sospetto, un dubbio, una domanda. Il processo di costruzione di un logos distribuito potrebbe essere paragonato, per certi versi, alla produzione di un disegno di gruppo: il primo dei giocatori traccia un segno senza significato e gli altri, a seguire, aggiungono, a loro volta, un segno al risultato dei precedenti interventi. In questo gioco, se un significato finale definito e riconoscibile emerge, esso è il risultato di un dialogo tra i giocatori. Ogni mossa è dettata da un ascolto-interpretazione delle mosse precedenti e, nello stesso tempo, costituisce una proiezione e un vincolo per la mossa successiva. Man mano che si va avanti si evidenzia una logica interna della costruzione che nessuno ha singolarmente determinato, ma a cui ognuno ha contribuito in modo non meramente sommativo. Si vede qui una dinamica produttiva della relazione parti-tutto in cui la logica del tutto, allorché appare con sufficiente chiarezza, ha una funzione di orientamento e di posizionamento rispetto alle parti. Si vede anche, però, come la gestalt che assegna valori e significati non è altro che una costruzione del movimento delle parti.

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Tutto questo, per la CdRF, si potrebbe sintetizzare dicendo che il contenuto della sua attività è la ricerca di un percorso e, nello stesso tempo, quel percorso di ricerca spinto sempre più avanti secondo la sua direzione intrinseca. Seguire l’argomento dove esso conduce significa, per Lipman, saper cogliere, dal punto di vista della produzione individuale, la “qualità terziaria della situazione”, quella che Dewey ha individuato come connotazione globale che si avverte dall’interno, si vive con una percezione immediata e costituisce il criterio per la rilevanza o l’irrilevanza di ciascun intervento35. Volendo riutilizzare il paragone col gioco del disegno collettivo, questo significa saper assegnare, per ogni mossa grafica che si aggiunge, un significato d’insieme a quel che è stato prodotto fino a quel momento e saper immaginare coerentemente gli sviluppi successivi: assecondare la caratterizzazione gestaltica contribuendo al suo riconoscimento e alla sua ulteriore definizione. Il contenuto della pratica di una CdRF è, allora, la costruzione “artistica” di un’opera di pensiero orientata verso una meta, dotata di una chiara direzione e sostenuta da un impegno di ricerca, la cui consistenza e identità emerge nello spazio della comunità, quello spazio che si estende tra un individuo e l’altro. In questa prospettiva, il contenuto coincide, da una parte, con la pratica stessa (come nella forma pre-riflessiva di comunità), con la differenza, decisiva, che la pratica della CdRF è consapevolmente e intenzionalmente connotata come esercizio di riflessione in stile filosofico. Lo “stile filosofico” comporta la possibilità di riflettere sulla riflessione. Per questa ragione la CdRF è una “comunità di ricerca” che, in quanto tale, riflette sulla sua pratica, la cui pratica, però, è elettivamente la riflessione.

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M. Lipman, Thinking in Education, cit., pp. 84-5.

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3. Philosophy for children e Philosophy for community Nello scenario fin qui delineato, come si colloca la figura che abbiamo in via preliminare identificato come “facilitatore”? Qual è, al di là del nome col quale riconoscerlo, il posizionamento, il ruolo, il set di competenze che qualificano questa figura che funge, in prima istanza, da progettista della CdRF? Come ho già detto, la costituzione di una CdRF non è un evento spontaneo della socialità ordinaria, ma risponde a un’intenzionalità che implica una presa di posizione eticamente orientata. Questa prospettiva indica un ruolo e una funzione che non è situabile all’interno della comunità stessa, richiede un soggetto motore che abbia ben chiaro il valore e gli effetti di una pratica filosofica e che abbia anche delle buone ragioni per assumere la responsabilità e l’impegno di operare per il suo sviluppo. Nella tradizione della Philosophy for children, la figura in questione è quella del “facilitatore” e il suo profilo, data la prevalente utilizzazione in ambiente scolastico del curricolo di Lipman, è stato definito soprattutto nel confronto con quello del docente. Possiamo immaginare la figura del facilitatore come il risultato di una serie di sottrazioni operate sulla tradizionale professionalità docente. In altre parole: un docente senza una disciplina/materia da trasmettere, senza il potere della valutazione sommativa, senza un’autorità formalmente riconosciuta, senza ingaggio per il disciplinamento dei corpi e dei comportamenti; infine, senza risposte e certezze e, pertanto, completamente azzerato rispetto alle aspettative che l’immagine comune di scuola legittima e sostiene. Questa metamorfosi richiesta all’insegnante che aderisce alla proposta della Philosophy for children è una sfida difficile da vincere e da portare fino in fondo. Non si possono nascondere gli ostacoli che obiettivamente si impongono per la disomogeneità dei paradigmi messi criticamente a confronto. La Philosophy for children è un dispositivo pedagogico della riflessività che, nel momento in cui viene attivato e

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sostenuto all’interno delle istituzioni che ubbidiscono storicamente al paradigma della normalità36, mette in risalto le molte discontinuità, avanza la pretesa di una serie di salti che finiscono per mettere in discussione le colonne portanti del sistema scolastico tradizionale. La sfida di Lipman è stata quella di cercare una possibile convivenza tra due paradigmi pedagogici come mossa iniziale di un percorso auspicato che avrebbe potuto portare alla vittoria di una scuola completamente rinnovata. L’aspetto vincente della sua mossa consiste nell’affidare il progetto del rinnovamento educativo ai protagonisti stessi dei processi formativi, studenti, insegnanti, dirigenti e genitori impegnati in un’alleanza per un’educazione riflessiva e per un apprendimento significativo, per una scuola non strumentalizzata rispetto a finalità decise altrove, ma luogo di dialogo e di elaborazione di significati e di senso, spazio di socialità democratica e di esercizio quotidiano di cittadinanza attiva. Nel quadro di questo progetto il “facilitatore” appare come l’insegnante in negativo e rischia ad essere iscritto in una prospettiva di pedagogia della socializzazione e del permissivismo, di una mitizzazione puerocentrica che ha fatto il suo tempo. Se alla sottrazione di quanto ha a che fare col dirigismo formalistico si affianca l’integrazione di ulteriori qualificazioni in chiave positiva, allora il profilo professionale del facilitatore si definisce in vista di essere qualcosa d’altro e non soltanto un’immagine sbiadita dell’insegnante. Si tratta, insomma, di configurare un profilo di professionalità del tutto nuovo, adeguato a una visione completamente rinnovata dell’educazione e coerente con logiche che sono difficilmente compatibili con i sistemi scolastici degli stati nazionali moderni, mentre appaiono con ogni probabilità meglio rispondenti alle profonde trasformazioni che stanno avvenendo sotto i nostri occhi a livello planetario. Con lo sguardo attento al presente e proiettato verso il futuro si può, forse, intravedere il destino di inarrestabile 36

Ivi, passim.

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declino dei sistemi scolastici attuali e delle istituzioni formali che lo sorreggono. È già ampiamente in atto la globalizzazione delle informazioni e la trasparenza crescente del mondo e della conoscenza; un processo dal quale la vecchia scuola sembra essere tagliata fuori, per quanto testardamente si sforzi di operare in concorrenza con Internet, con la multimedialità, con la televisione. Stando così le cose, il fine principale dell’educazione non è già più la selezione delle conoscenze degne di essere conservate e la loro trasmissione. In un mondo sempre più globalizzato e multiculturale l’impegno dell’educazione dovrà ispirarsi a un’antropologia più che alle politiche nazionali, a un’attenzione unitaria al destino dell’uomo e del suo mondo più che alla consacrazione delle gabbie culturali delle tradizioni locali37. È vero, infatti, che, mentre la globalizzazione avanza, prendono contemporaneamente fiato i localismi: etnie, culture locali, minoranze e tradizioni radicate nei territori danno voce ad un bisogno di rivolta contro l’omologazione e la stereotipizzazione universale. Le rivendicazioni dei vari localismi da una parte interpretano il senso e il bisogno di riconoscimento di identità differenti e multiple, dall’altra sono animate da un certo spirito tribale o campanilistico che, in molti casi, sfocia nella chiusura etnocentrica e nella ricerca del conflitto. Questo per dire che demonizzare la globalizzazione per rifugiarsi in un localismo romantico non rappresenta la soluzione dei nostri problemi sociali. E, tuttavia, la strada della democrazia non è quella della globalizzazione, se per governo democratico dobbiamo intendere qualcosa di ben diverso dall’azione dell’ONU o di altri organismi che tendano ad agire a livello planetario. Oggi l’impegno significativo non è tanto verso il riconoscimento del valore della democrazia tanto scontato quanto generico. Diversamente da quanto avveniva in Europa negli anni ’20, quando i progetti di stato totalitario prendevano le mosse da una delegittimazione della democrazia, 37 F. Cambi, Incontro e dialogo. Prospettive della pedagogia interculturale, Roma: Carocci, 2006.

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nel nostro tempo la democrazia è formalmente legittimata, ma, non sono, con questo, sconfitte le tentazioni antidemocratiche. Queste – come sostiene Giovanni Sartori – sono ben vive e diffuse quanto dissimulate, così che «la strategia di conquista dittatoriale delle democrazie è graduale e molto più raffinata. È una strategia che sviluppa ‘Costituzioni incostituzionali’ e cioè che ne elimina senza dare nell’occhio le strutture garantistiche»38.

Tutto questo è in assoluto contrasto con quanto sostenuto, a livello nazionale e internazionale, dai protagonisti della ricerca e della pratica della formazione di orientamento critico e riflessivo. Basti menzionare la svolta auspicata da Jacques Delors nel Rapporto dell’UNESCO sull’educazione del 199639 e, all’interno di questo documento, il ruolo decisivo riconosciuto all’educazione nella vita degli individui, il superamento della tradizionale distinzione tra educazione iniziale, educazione permanente, educazione degli adulti, tutte ricomposte nella prospettiva del lifelong learning. L’apprendimento continuo e stratificato su vari livelli è il pilastro dell’educazione del prossimo futuro. Mentre le aree dell’imparare a conoscere e dell’imparare a fare sono state in diversa misura oggetto dell’educazione nel passato, l’imparare a vivere insieme e l’imparare ad essere sono sempre state lasciate al caso e escluse dall’intenzionali­tà formativa. Considerato alla luce di queste aperture, l’apprendimento, se è significativo e trasformativo, non ha come suoi oggetti eminenti i contenuti specifici di qualche area del sapere, ma soprattutto la conoscenza procedurale e, di conseguenza, le sue stesse modalità di funzionamento. Procedendo in modo ricorsivo, si impara ad imparare, cosicché l’apprendimento rappresenta, per così dire, l’inizio e la fine del processo formativo, nel senso in cui l’intende Maura Striano, quando afferma: 38

G. Sartori, Il sultanato, Roma-Bari: Laterza, 2009, p. VIII. J. Delors, Learning: the Treasure Within, Parigi: UNESCO, 1996, tr. it., Nell’educazione un tesoro, Roma: Armando, 1997. 39

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«L’apprendimento viene, pertanto, inteso sia come condizione di possibilità sia come obiettivo del processo formativo: se è vero che l’essere umano è biologicamente predisposto ad apprendere, e l’apprendimen­to rappresenta l’elemento propulsivo dell’evoluzione e della crescita, è vero anche che i contesti formativi non possono più riconoscere quest’ultimo come ‘risorsa’, ma anche come ‘fine in vista’, per dirla in termini deweyani»40.

Gran parte delle proposte pedagogiche più avanzate sottolineano il bisogno di considerare la formazione come processo di costruzione di identità, come dialogo interculturale, come educazione ad un rinnovato senso della cittadinanza, come esercizio di riflessività critica. Per far luce su questo netto contrasto tra sistema scolastico e orizzonti e prospettive indicate per il destino e le funzioni della formazione nel nuovo millennio, bisogna, credo, chiamare di nuovo in causa gli scenari politici e sociali e lanciare uno sguardo anche verso la stratificazione storica del problema. Non dobbiamo dimenticare che i sistemi scolastici sviluppatisi in Occidente a partire dall’Ottocento ubbidiscono alla ragione di Stato, hanno avuto la funzione primaria di cinghia di trasmissione e di perpetuazione di una leadership di classe o di ceto che non poteva lasciare spazio alla soggettività divergente, alla creatività, alla ricerca di nuovi e diversi assetti socio-culturali. I sistemi scolastici di stato hanno, sì, esteso progressivamente l’istruzione a fasce sempre più ampie di cittadini, ma hanno, nello stesso tempo, burocratizzato l’istruzione, con tutte le conseguenze che questa istituzionalizzazione doveva comportare rispetto al controllo e alla distribuzione del potere. Lo scambio è stato vantaggioso per chi? Se ha ragione Ivan Illich, nella sua critica alla scuola-sistema, si è trattato di una manovra che nascondeva un inganno, che veicolava una promessa di emancipazione che non poteva essere mantenuta e che oggi possiamo vedere che non è sta40 M. Striano, I tempi e i «luoghi» dell’apprendere. Processi di apprendimento e contesti di formazione, Napoli: Liguori, 1999, p. 10.

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ta mantenuta. La “istituzionalizzazione dei valori”, come egli chiama questo inganno, consiste nel fatto che, come scrive nel 1971 in Descolarizzare la società, «le cure mediche vengono scambiate per protezione della salute, le attività assistenziali per miglioramento della vita comunitaria, la protezione della polizia per sicurezza personale, l’equilibrio militare per sicurezza nazionale, la corsa al successo per lavoro produttivo»41.

Ma io vedo che c’è stato un inganno più specifico, più interno alla pratica dell’insegnamento, e che ha a che fare con la padronanza dei linguaggi. La sfida educativa, che animava Freire come don Milani, quella di dare la parola a chi non ce l’ha, ha acquistato, nel nostro tempo, una valenza nuova e si deve misurare con nuovi modi di intendere l’esercizio della parola. Sono cambiati i luoghi stessi che danno valore alla parola: una cosa è parlare in piazza; tutt’altra cosa è poter parlare in televisione! L’inganno meno visibile, ma non per questo meno rovinoso per la democratizzazione della società, è stato perpetrato dalla scuola di massa rispetto alla promessa di estendere a tutti l’accesso alla scrittura; la scrittura intesa non come semplice strumentalità, ma come veicolo di costruzione di menti critiche, auto-correttive, autonome; come strumento primario dell’appello kantiano al “sapere aude” e come chiave di accesso all’esercizio del pensiero riflessivo. Chi non ha una mente “alfabetica” è destinato a rispondere in modo “mimetico” al mondo che lo circonda42. Il regno della mimesis, a cui Platone contrapponeva la razionalità discorsiva, oggi è ritornato a farsi valere, ad imporre le sue logiche della tribù, dell’emotività elevata a valore supremo, dell’irresponsabilità etica e della mitopoiesi collettiva. Se la scuola di massa ha mediamente fallito nel dotare i cittadini degli strumenti essenziali di una cittadinanza 41

I. Illich, Deschooling Society, cit. 42 Cfr. E.A. Havelock, Preface to Plato, Harvard: President and Fellows of Harvard College, 1963, trad. it., Cultura orale e civiltà della scrittura, Roma-Bari: Laterza, 1983, 1995.

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attiva e consapevole, è destinata a svalutarsi sempre più, a sopravvivere, al massimo, come luogo di un ricatto rispetto alla possibilità di sopravvivenza e di rilevanza per il consumo. In realtà, come prodotto di un potere esterno, le istituzioni scolastiche hanno interiorizzato la logica da cui sono nate e si sono sviluppate intorno all’organizzazione e al controllo del potere interno. Si tratta di organizzazioni “che non apprendono”, ossia fortemente resistenti al cambiamento e allo spirito della ricerca. Nella prospettiva del passaggio da una concezione “bancaria” dell’educazione a una concezione “problematica”43, la P4C di Lipman continua a rappresentare, a più di 40 anni dalla sua prima gestazione, un orizzonte di possibilità completamente ignorate o scartate dalla tradizione scolastica. Ridisegnare il setting di una classe scolastica vuol dire non solo intervenire su variabili che riguardano la comunicazione e la dinamica del gruppo, ma significa, più propriamente, assumere un impegno critico nei confronti di specifici punti di applicazione del bio-potere. Quello che di interessante emerge dagli studi di Foucault sulle pratiche antiche della “cura di sé” non è tanto la scoperta di modelli che potrebbero essere riutilizzati oggi, ma piuttosto la messa in luce e l’analisi di un campo di rapporti possibili tra relazioni di potere e processi di soggettivazione. La storia delle pratiche di “cura di sé” mostra come un individuo diventa quel soggetto che è, e mette a nudo le tecniche e i dispositivi di potere che nel corso della storia hanno governato le pratiche di costruzione dell’identità44. La posta in gioco è alta, perché, in fin dei conti, si tratta del destino del soggetto e della possibilità di ri-pensarlo dopo Nietzsche. Se il soggetto cartesiano è morto e quello greco-romano rappresenta soltanto uno sfondo con cui fare i conti per la consapevolezza della nostra provenienza, quel che rimane della soggettività nel mondo contemporaneo sembra essere 43 44

P. Freire, Pedagogia do oprimido, cit. M. Foucault, L’herméneutique du sujet, cit.

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un corteo di ombre che si lasciano condurre e governare da ogni promessa di salvezza, permanentemente infelici e stressate, sempre spasmodicamente protese ad inseguire la felicità attraverso la soddisfazione di sempre nuovi bisogni e pronte ad affidare a mani esperte la loro fragilità. I dispositivi di potere-sapere della post-modernità disperdono la soggettività nelle pratiche del consumo senza tregua, della omologazione di massa, della comunicazione retorica e del disimpegno etico. Se gli esseri umani vengono incatenati nel fondo di sempre nuove caverne, la filosofia non dovrebbe cessare di assumersi l’impegno di riproporsi sempre di nuovo come esperienza di emancipazione; non dovrebbe rinunciare a rivitalizzare l’appello al “conosci te stesso” e alla “cura di sé” che, nell’antichità, costituivano il cuore della formazione intesa come auto-formazione e come ethos. In questa prospettiva una pratica filosofica, come è sperimentata nella CdRF, può essere il modo, oggi, di affrontare il compito di «promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli»45? Quali forme individuare per dare nuova linfa e nuova sostanza alla έπιμέλεια έαυτοΰ della tradizione greco-romana? Come, infine, proporre, rapportandosi con la contemporaneità, pratiche di costruzione di sé incentrate sull’appello all’autonomia e sulla proiezione verso un’etica della responsabilità, individuale e pubblica? A fronte di queste domande una pratica filosofica di comunità può trovare la sua legittimazione come modello di auto-formazione e di emancipazione assistita e supportata dalla progettazione di occasioni e di ambientazioni che favoriscano l’incontro dialogico nella distanza, in uno spazio 45 M. Foucault, “Why Study Power? The Question of the Subject”, “Afterword” a H. L. Dreyfus, P. Rabinow (eds.), Michel Foucault: Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago: The University of Chicago Press, 1983, tr. it., “Perché studiare il potere: la questione del soggetto”, in H. L. Dreyfus, P. Rabinow (a cura di), La ricerca di M. Foucault, Firenze: Ponte alle Grazie, 1989, p. 244.

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da costruire a partire dai diversi posizionamenti, ma non sommando e allineando le differenze. Nella CdRF non è il relativismo tollerante e neppure l’integrazione intollerante il principio guida, ma l’apertura e la strutturazione di un mondo del tutto nuovo di cui tutti i partecipanti al dialogo sono agenti attivi. In questo senso, l’attività è focalizzata sul presente e orientata in avanti, verso la determinazione di un futuro. Se è vero che la scuola, come luogo dell’istruzione formale, è stata considerata come ambiente privilegiato per la potenziale coltivazione di comunità di ricerca riflessive e democraticamente organizzate, una filosofia come pratica sociale – o, se si vuole, come Philosophy for community – aspira a uscire “fuori le mura” delle istituzioni educative disponendosi ad abitare luoghi che – siano essi più simili al giardino o alla piazza – non abbiano l’etichettatura e l’ordinamento di luoghi della formazione. Il carcere, per esempio, luogo a sua volta di ben altra istituzionalizzazione, è apparso, nell’esperienza pionieristica di Giuseppe Ferraro, come confine interno della città dove portare una filosofia “fuori luogo”46. Quando avviene questo sconfinamento, la filosofia si ritrova di fronte a se stessa nella sua nudità, chiamata a rispondere alla domanda della sua stessa ragione d’essere: «Che ne è allora della filosofia quando la si porta sui luoghi di confine interni e interiori della città? Che ne è quando la si porta tra i detenuti, in prigione, quasi a consegnarla sul luogo della sua metafora più ricorrente, sui luoghi perciò simbolici della sua storia, il carcere e il tribunale, sia il tribunale della ragione o il carcere della condanna alla cicuta?»47

Le comunità di tossicodipendenti sono luoghi anch’essi estremi che pongono questioni di senso; gli ospedali e gli ambienti di lavoro sono tutti spazi possibili per la pratica filosofica di comunità quando si annuncia come oasi di pen46 47

G. Ferraro, Filosofia fuori le mura, Napoli: Filema, 2010. G. Ferraro, L’innocenza della verità, Napoli: Filema, 2008, p. 17.

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siero riflessivo e spazio di relazione paritaria dove avere la parola non ha più a che fare col diritto e col potere ma non l’essere con gli altri e l’essere riconosciuti. All’interno di un rinnovato impegno della filosofia verso una pratica sociale emancipativa48, questa figura – che abbiamo chiamato “progettista”, ma anche “facilitatore” – non finisce per somigliare abbastanza a quel “prigioniero” della caverna platonica che è riuscito, dopo non poche peripezie, a esplorare la caverna e a raggiungere il suo estremo limite fin dove un’apertura la separa e la collega rispetto a un mondo altro? Questa figura non rispecchia quella di un filosofo che, dopo la metafisica platonica e abbandonata la pretesa di interpretare la realtà come divisa tra la “caverna” e la “luce”, si renda capace di abitare le soglie tra una caverna e l’altra, consapevole della contingenza ma anche del valore che ogni caverna porta con sé rispetto a una visione del mondo non come edificio da scalare ma come «sinfonia»49? La figura che stiamo cercando di definire possiamo chiamarla anche “tafano” e “maieuta” nella misura in cui si avvicina al mito socratico. Come “tafano” disturberà la comunità filosofante quando essa tenderà a compiacersi delle certezze o ad appiattirsi sul conformismo, punzecchierà energicamente le eventuali acquiescenze a forme non argomentate di asserzioni, farà domande “inaudite”, di quelle che provocano meraviglia e disorientamento perché toccano le pareti di una caverna, domande – di cui Socrate era maestro – come «Il santo, perché è santo lo amano gli dei, o perché lo amano gli dei è santo?»50, che suonano come invito a compiere un salto di prospettiva nell’elaborazione della conoscenza. Come “maieuta”, reinterpretando 48

Sulle implicazioni di “emancipazione” connesse ad una filosofia come pratica sociale diffusa, mi permetto di rinviare al mio A. Cosentino, Filosofia come pratica sociale, cit. 49 M. Zambrano, Persona y democracia. La historia sacrifical, VélezMálaga: Fundación María Zambrano, 1958, tr. it., Persona e democrazia. La storia sacrificale, Milano: Bruno Mondadori, 2000, pp. 195-196. 50 Platone, Eutifrone, XII 9c-10e in Opere, cit.

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la visione platonica della conoscenza come reminiscenza (ἀνάμνησις) alla luce di un’epistemologia costruttivistica, aiuterà la comunità e i singoli partecipanti a partorire le proprie verità che, in questo caso, riguardano non tanto gli oggetti della conoscenza ma una conoscenza della conoscenza al cui livello contano piuttosto il senso del conosciuto e del conoscere, il valore che autonomamente si assegna alla ricerca, le strutture complessive del sapere e le ecologie mentali che vengono messe in gioco. Tutto questo è necessariamente fuori dalla portata dell’azione di qualunque maestro. Ma l’azione maieutica, intesa come un “aiutare ad aiutarsi”51, risponde agli effetti di cura della pratica filosofica, che non ha nulla a che fare con la pervasiva cultura terapeutica di oggi52. Come possiamo sintetizzare qui con l’affermazione di Foucault: «Che non sia possibile occuparsi di sé senza l’aiuto di un altro è un principio generalmente ammesso. Seneca diceva che nessuno è mai abbastanza forte per liberarsi da solo dello stato di stultitia in cui si trova»53.

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PARTE SECONDA La comunità di ricerca filosofica come istanza educativo-politica Stefano Oliverio

Premessa: La ricostruzione pedagogica della civitas. Lipman tra Platone e Dewey Due figure della storia della pedagogia e della filosofia informano più di altre1, in un’appropriazione pedagogicamente creativa e trasfigurante da parte di Matthew Lipman, la concezione del curricolo della Philosophy for Children (d’ora in poi P4C, secondo la formula internazionale): Platone e Dewey. Al primo Lipman si collega anzitutto per l’idea dialogica del filosofare, inteso non come un’esposizione sistematica di teorie già confezionate ma come pratica della ricerca in comune. In questo senso i testi prodotti da Lipman sono solo pre-testi per una indagine filosofica da condurre nel 1 È importante sottolineare che non si vuole sostenere che Platone e Dewey costituiscano la sola fonte di ispirazione della proposta pedagogica lipmaniana. Fra le altre influenze che si possono rintracciare vi sono la psicologia evolutiva e la pedagogia di Vygotskij, la pedagogia di Paulo Freire, Martin Buber e il suo principio dialogo; né si deve dimenticare il confronto con l’impostazione ermeneutica di Gadamer e con la riflessione di Habermas sull’agire comunicativo. Vi è poi la matrice pragmatista (oltre il citato Dewey, anche Charles Sanders Peirce – da cui deriva l’espressione comunità di ricerca – e George Herbert Mead), su cui si tornerà. Ma, nonostante questo ricco bacino di sorgenti ispirative, che vanno a costituire in unitate multiplici il congegno lipmaniano, è legittimo enfatizzare, sulla scorta di uno scrutinio attento della produzione di Lipman, il ruolo giocato da Platone e Dewey e – più precisamente, come si cercherà di argomentare – dalla loro interazione, ossia dalla rilettura, o mislettura, per adoperare un termine di Harold Bloom, incrociata e reciprocamente contaminantesi del loro legato.

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vivo di una discussione in presenza, all’interno di una comunità consacrata al con-filosofare. Gli stessi racconti elaborati dal creatore della P4C, lontani dai fasti letterari dei dialoghi platonici, ci si avvicinano per alcune caratteristiche: sono in forma dialogica, presentano una ricerca filosofica2 e recano spesso come titolo il nome di uno dei soggetti impegnati nell’indagine (Kio e Gus3, Elfie4, Pixie5, Mark6, Lisa7 prendono il posto di Fedone, Critone, Protagora, Gorgia, Liside, Lachete etc.8). L’uso dei testi di Lipman 2 La più significativa differenza rispetto al dialogo filosofico platonico non è tanto la presenza di bambini/adolescenti, quanto l’assenza di Socrate. Anche nel Platone dei primi dialoghi, infatti, prima cioè che nella Politeia si ammonisse che solo dopo i trenta anni si poteva apprendere la dialettica, si trova – per esempio nel Liside o nel Lachete o nel Teeteto – Socrate che filosofa con giovani (pre)adolescenti (il punto è stato finemente rimarcato da Ekkehard Martens nel suo pregevole, Philosophieren mit Kindern. Eine Einführung in die Philosophie, Stutt­ gart: Reclam, 1999, pp. 86 sgg.). Rilevante è, invece, nei testi di Lipman, la mancanza di un Socrate, ossia di un personaggio che conduce il dialogo, sia pure con mera funzione maieutica, senza cioè indottrinare o erogare conoscenze ma – come si legge nel Teeteto – limitandosi ad assistere l’interlocutore nelle doglie del parto intellettuale. All’assenza di un Socrate nei testi corrisponde nella pratica lipmaniana del confilosofare il peculiare ruolo del facilitatore, sicché non si tratta di una mera curiosità del plot dei racconti, ma di un aspetto emblematico del modello della Philosophy for Children, su cui si ritornerà nel prosieguo del presente saggio. 3 M. Lipman, Kio & Gus, Upper Montclaire (New Jersey): Institute for the Advancement of Philosophy for Children 1981 (adattamento e cura dell’edizione italiana di Marina Santi, Napoli: Liguori, 1999). 4 M. Lipman, Elfie, Upper Montclaire (New Jersey): Institute for the Advancement of Philosophy for Children 1987 (adattamento, cura e traduzione italiana di Maura Striano, Napoli: Liguori, 1999). 5 M. Lipman, Pixie, Upper Montclaire (New Jersey): Institute for the Advancement of Philosophy for Children 1981 (adattamento, cura e traduzione italiana di Antonio Cosentino, Napoli: Liguori, 1999). 6 M. Lipman, Mark, Upper Montclaire (New Jersey): Institute for the Advancement of Philosophy for Children 1986 (adattamento per l’edizione italiana di Sergio Bellagamba, Napoli: Liguori, 2004). 7 M. Lipman, Lisa, Upper Montclaire (New Jersey): Institute for the Advancement of Philosophy for Children, 1983. 8 Lipman ha costruito un vero e proprio curricolo, con materiali destinati alle varie fasce di età (dalla scuola primaria alla secondaria), che si focalizzano di volta in volta su diversi temi, tenendo presente lo sviluppo delle abilità di pensiero sulla scorta di una idea deweya-

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come materiali-stimolo per l’attività dell’indagine da svolgersi – oralmente – durante una sessione pare riprodurre, inoltre, almeno in parte, il circuito dialettico di oralità/ scrittura che animava la ricerca all’interno dell’Accademia platonica9. A Dewey Lipman è legato per il modo di intendere l’indagine e per la valorizzazione dell’educazione al pensiero riflessivo (il titolo stesso del lipmaniano opus magnum, Thinking in Education, è preso da quello del cap. XII di Democracy and Education). La mossa più significativa compiuta da Lipman nel suo rifarsi a Dewey andando oltre di lui10 è stata quella di restituire alla nozione deweyana di inquiry il suo spessore filosofico, congedando quelle interpretazioni funzionalistiche11 che ne facevano uno na di continuità dell’educazione. I singoli racconti, che recano il nome di differenti protagonisti, sono quindi indirizzati a diversi destinatari. Anche in questo si può intravedere un’interessante analogia con il corpus platonico. Come infatti gli interpreti della scuola di Tubinga e di Milano hanno sottolineato, «nei singoli dialoghi [Platone] presenta una discussione sulla cosa di cui tratta non in astratto, bensì in concreto, ossia secondo la dimensione imposta dalle capacità dell’interlocutore, e quindi in giusta proporzione con le caratteristiche dell’anima del deuteragonista, sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo» (G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano: BUR, 1998, p. 92. Corsivi nell’originale). 9 Cfr. E. Berti, Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Roma-Bari: Laterza, 2010; G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, cit. 10 Lo stesso Lipman ha dichiarato in una intervista: «Penso che Philosophy for Children sia un metodo per introdurre la filosofia di Dewey nella pratica educativa. In questo senso ‘va oltre’ Dewey, che era profondamente deluso dagli sforzi di sviluppare la sua filosofia fatti quando era ancora in vita. Penso che molti filosofi oggi si definiscano deweyani senza rendersi conto che essere un vero deweyano non significa ripetere o parafrasare quello che Dewey ha detto, ma ‘andare oltre’ Dewey, continuando a lavorare nel suo spirito» (M. Striano, “La filosofia come educazione del pensiero. Una conversazione pedagogica con Matthew Lipman”, ora in A. Cosentino, Filosofia e formazione. 10 anni di Philosophy for Children in Italia (1991-2001), Napoli: Liguori, 2002. La citazione è a p. 63). 11 Per un’esaustiva rassegna di questo modo di intendere l’inquiry cfr. J. S. Johnston, Inquiry and Education. John Dewey and the Quest for Democracy, Albany: State University of New York Press, 2006, specialmente il cap. II, part 1, pp. 16-27.

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strumento di formazione alla mentalità tecno-scientifica in un’accezione angusta del termine: «La tradizione pragmatista a sua volta si applicò in modo particolare ai problemi educativi, attenendosi alla nozione illuminista per cui l’educazione universale deve essere identificata con la diffusione della conoscenza scientifica. I pragmatisti tentarono di apportare all’educazione non tanto i risultati della scienza quanto il suo metodo. Perfino in Dewey l’educazione deve essere apparentemente rivitalizzata attraverso una dedizione radicale al metodo dell’indagine. Tale dedizione rappresentava un enorme avanzamento rispetto alla concezione tradizionale dell’educazione, ma il costante incoraggiamento di Dewey affinché i bambini si impegnassero nella riflessione indipendente su tutte le dimensioni dell’esperienza non fu mantenuto dai suoi seguaci. La straordinaria comprensione che Dewey aveva delle possibilità dell’educazione fu limitata solamente al metodo dell’indagine, che era visto come una tecnica razionale di problemsolving da applicare alle aree gestibili della vita umana. Ciò escludeva quasi per definizione gli interessi filosofici e le questioni metafisiche ed epistemologiche venivano ignorate. La formulazione e la risoluzione delle situazioni problematiche era proposta come il solo paradigma valido per esplorare e comprendere il mondo»12.

Il passo di Lipman e Sharp è rivelativo: non è la deweyana inquiry in quanto tale a essere destinata a espungere da sé la ricognizione di tematiche ‘filosofiche’, attinenti cioè la sfera dei significati e non quelle delle conoscenze fattuali13, 12 M. Lipman, A. M. Sharp, Growing up with Philosophy, Dubuque (Iowa): Kendall/Hunt Publishing Company, 1994, pp. 4-5. Tutte le traduzioni dei testi dei quali non si indica una edizione italiana sono a cura di chi scrive. 13 Che la differenza fra ‘filosofia’ e ‘scienza’ corrisponda a quella fra interrogazione sui significati e indagine conoscitiva è posizione che connota l’approccio deweyano (cfr. infra cap. 2). Siffatta ‘ripartizione’ ha qualche punto di contatto con quella sviluppata da Hannah Arendt in The Life of Mind (New York-London: Harcourt Brace Jovanovich, 1978), ove si distingue il campo del conoscere da quello del pensare, l’uno avente come suo oggetto la verità, l’altro il significato. Non può essere questa la sede per una più dettagliata ricognizione delle affinità e dei contrasti fra l’impianto deweyano e quello arendtiano. Per gli interessi della presente riflessione basti sottolineare un punto: la distinzione di

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ma è stata solo una specifica torsione pedagogica di essa che l’ha spogliata di quel potenziale che le apparteneva e che la legava al progetto illuminista di un’educazione al pensiero critico come volano di emancipazione dell’umanità (secondo una linea lessinghiana e kantiana). In questo senso, il principale gesto di Lipman – dalle profonde valenze pedagogiche – è stato quello di ri-proporre il valore filosofico dell’indagine come forma del pensiero riflessivo e di collocarla al centro di un modello educativo che sinfonizza dialogo di matrice socratica e inquiry deweyana. Si può azzardare la seguente formulazione: Lipman ha riscoperto la profondità filosofica dell’idea deweyana di indagine proprio rileggendola alla luce della tradizione del dialogo socratico-platonico e, in questa operazione, ha fornito una peculiare interpretazione tanto di Platone (enfatizzandone il legato più squisitamente socratico) quanto della pedagogia deweyana. interrogazione filosofica e indagine scientifica in Dewey non ha alcun carattere dicotomico-oppositivo, non presenta confini invalicabili, frontiere fisse, ma anzi postula un continuo scambio, intersezione, transito fra scienza e filosofia (anche in considerazione che unico è il metodo – in un’accezione non cartesiana del termine – di entrambe). In Hannah Arendt, la quale sconta la sua impostazione decisamente kantiana, vi pare essere, invece, una soluzione di continuità fra i due tipi di indagine, quasi che le questioni del significato potessero essere investigate prescindendo dalle più avanzate conoscenze che la scienza produce (invero non si può attribuire alla Arendt una conclusione esplicita così netta ma, se la sfera del significato è quella propria del pensiero che si ritira dal mondo dei fenomeni, che cosa impedisce di sostenere che si possa pensare senza tener conto di quali siano le interpretazioni che la scienza avanza del mondo dei fenomeni? Laddove in Dewey la riflessione filosofica non può mai trascurare quelle che sono le conoscenze scientifiche). Sia detto a titolo di anticipazione di quanto sarà oltre argomentato: è proprio per questo scambio fra scienza e filosofia, tipico della tradizione pragmatista, che Lipman può utilizzare la nozione peirceana di community of inquiry (che originariamente è la comunità degli scienziati), letta attraverso Dewey, come dispositivo pedagogico di educazione al pensiero, contaminandola con il modello del dialogo socratico. E, nonostante in lui vi sia un certo ‘tradizionalismo filosofico’, che gli fa opporre decisamente scienza e filosofia (proprio come in Arendt), la sua comunità di ricerca filosofica ha, proprio in virtù della eredità pragmatista, caratteristiche che la oppongono decisamente al modo in cui Arendt intende l’attività del pensare (cfr. infra cap. III, § 2).

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Queste notazioni hanno solo un carattere introduttivo e servono per illustrare le ragioni della scelta tematica compiuta nella presente riflessione su Lipman: nel momento in cui ci si interroga sullo specifico della lipmaniana community of inquiry può essere un’utile strategia ermeneutica accostarla a partire dai modelli di comunità di ricerca avanzati dai due pensatori cui Lipman più manifestamente si richiama. La riflessione qui sviluppata non ha alcun intento genealogico in senso stretto, non intende cioè sostenere una filiazione diretta, deterministica e li­ neare del dispositivo lipmaniano dall’Accademia platonica o dalle investigazioni di Dewey sul significato della comunità nell’epoca della scienza (e dalla rilettura deweyana di Peirce e di Mead). Piuttosto vuol far risaltare il proprium della proposta lipmaniana sullo sfondo di due esperienze (e delle connesse meditazioni su di esse) di organizzazione della ricerca condivisa, svolte da pensatori il cui impatto su Lipman è innegabile. Identificando e fissando le coordinate teorico-pratiche e le matrici strutturali del modello platonico di con-filosofare e di quello deweyano di comunità di ricerca, si appronteranno degli strumenti interpretativi per leggere i modi in cui la lipmaniana community of inquiry opera e in cui in essa si pratica l’educazione al pensiero. Più in particolare, la ‘via lunga’ adottata, l’argomentazione ‘aggirante’ prescelta, intendono contribuire a far luce sulla paradossalità della nozione di community of inquiry che associa due termini che, a sondarne la Begriffsgeschichte, parrebbero costituire un ossimoro. Da una parte comunità che, da Tönnies in poi14, veicola il senso di una totalità organica, in cui i partecipanti risolvono la propria individualità nell’appartenenza al tutto, del quale sono solo ‘membri’, e in cui le norme codificate dalla consuetudine non sono suscettibili di essere revocate in questione, ana14

F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen Soziologie, Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 2005 [ed. orig. 1887].

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lizzate, vagliate, ma stabiliscono i canoni comportamentali e valoriali cui conformarsi. Come ha notato Bauman, «[l’]attrazione che il sogno comunitario esercita sulla comunità poggia sulla promessa della semplificazione; portata al suo limite logico, semplificazione significa un livello minimo di varietà in un mare di identicità. Questo obiettivo può essere raggiunto soltanto attraverso l’espunzione delle differenze: riducendo la probabilità di incontrarne e restringendo il flusso della comunicazione»15.

In virtù delle sue caratteristiche l’idea di comunità è oggetto di un investimento emotivo forte e sempre connotato in senso positivo: «[L]a comunità è un luogo ‘caldo’, un posto intimo e confortevole. […] All’interno della comunità la comprensione reciproca è garantita, possiamo fidarci di ciò che sentiamo, siamo quasi sempre al sicuro e non capita quasi mai di restare spiazzati o essere colti alla sprovvista»16.

Tali elementi distintivi paiono essere opposti proprio ai caratteri dell’indagine, che postula un’esplorazione originale, innescata dall’emergere di eventi inattesi che revocano in dubbio le nostre certezze e i nostri quadri categoriali e ci spingono nell’ignoto. Nell’inquiry che – si rammenti – ha nel metodo della ricerca scientifica il suo modello, non vi sono principi statuiti cui conformarsi e sulla scorta dei quali leggere la realtà, ma le ipotesi vanno di volta in volta testate e costituiscono degli strumenti di lavoro per avanzare nel rischiaramento di una situazione problematica, e per questo incerta e indeterminata. La condivisione dell’obiettivo (chiarificare un problema e escogitare una soluzione) anima una ricerca sì congiunta, ma ciò non implica uno svanimento dell’apporto individuale, ma – al contrario – la pluralità dei punti di vista, il contributo autonomo di ciascuno è un pre-requisito dell’indagine. 15

Z. Bauman, Missing Community, Cambridge: Polity Press, 2000, tr. it., Voglia di comunità, Roma-Bari: Laterza, 2003, p. IX. 16 Ivi, pp. 3-4.

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L’abbinamento di comunità e indagine, per quanto evocativo esso sia, abbisogna di una delucidazione che, passando attraverso il riconoscimento del loro paradossale connubio, sprigioni tutte le valenze del costrutto e illustri la sua forza in quanto dispositivo pedagogico. Sia pure in forme molto diverse, come si cercherà di mostrare, tale paradossalità è scontata tanto da Platone (il cui modello di ‘comunità di ricerca’, l’Accademia, nasce proprio a partire dal tragico epilogo dello scontro fatale fra l’archetipo stesso dell’indagine filosofica, Socrate, e una comunità stricto sensu – la polis greca) quanto da Dewey (nel cui congegno argomentativo si incontrano, secondo una dialettica che trova nell’ideale democratico il suo punto di convergenza, l’enfasi sul carattere sperimentale dell’esperienza e quella sulla comunità come rete di relazioni faccia-a-faccia). Nel dispositivo lipmaniano si possono leggere – quasi si trattasse di un palinsesto – alcune delle paradossalità appena accennate, cui se ne aggiunge una ulteriore, ‘endogena’, per così dire, all’approccio lipmaniano: la comunità di ricerca filosofica si costituisce per ogni sessione di P4C all’interno della classe e si ‘scioglie’ al termine della sessione. Certo, vi può essere una storia delle singole comunità di ricerca (che nel corso di più anni, con il dispiegarsi di un progetto educativo continuato, crescono, si sviluppano e si consolidano), ma esse vivono in quanto tali, in quanto cioè comunità di ricerca, nel momento della ricerca filosofica, nell’ora della sessione di Philosophy for Children. In questo senso, la comunità di ricerca di Lipman parrebbe essere consegnata ad una peculiare labilità, a un’irredimibile evanescenza, a un’irriducibile transitorietà che, se da una parte sventano i rischi di chiusure e ossificazioni comunitariste, non sembrerebbero però raccomandarla – come pur Lipman esplicitamente fa – come modello per una riedificazione della civitas politica17. Installarsi nel pa-

17 Cfr. E. Frauenfelder, O. De Sanctis, E. Corbi (a cura di), Civitas educationis. Interrogazioni e sfide pedagogiche, Napoli: Liguori, 2011.

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radosso della lipmaniana community of inquiry significa anche, quindi, insediarsi nella sfida per una ricostruzione della democrazia per il XXI secolo18 e comprendere come e in virtù di quali sue caratteristiche un dispositivo pedagogico quale la comunità di ricerca possa fungere da orizzonte di siffatta ricostruzione.

18

Il tema – di chiara matrice deweyana – è al centro del volume di G. Spadafora (a cura di), John Dewey. Una nuova democrazia per il XXI secolo, Roma: Anicia, 2003.

Capitolo I Il con-filosofare educante di Socrate e l’Accademia come Bund filosofico-educativo 1. La dinamica erotico-educativa della ricerca filosofica “sulla strada per la piazza” In un celebre passo dell’Etica Nicomachea Aristotele definisce l’amicizia una comunione [koinonía gàr he philía] e descrive le diverse forme di questa comunione: «E per ciascun tipo di uomini, qualunque sia per loro il senso dell’esistenza, ovvero ciò per cui per loro la vita è desiderabile, è in questo che essi vogliono trascorrere il tempo in compagnia degli amici. E per questo che alcuni bevono insieme, altri giocano insieme ai dadi, altri fanno ginnastica e cacciano insieme, o fanno filosofia insieme [sumphilosopoûsin], e che trascorrono insieme le giornate, ciascuno dedito a ciò che ama più di tutto nella vita» [Eth. Nic., IX, 12, 1172, a 1-7]1 .

Enrico Berti ha di recente avanzato la congettura che «[n]ello scrivere queste parole Aristotele non poteva aver dimenticato i vent’anni da lui trascorsi nell’Accademia di Platone, dove ebbe la più grande occasione di tutta la sua vita, quella di fare filosofia insieme (sumphilosopoûsin) con gli amici»2. Alla luce di questa ipotesi il passo aristotelico disegna una costellazione tematica, elucidare la quale permetterà di stabilirsi al centro della questione dell’Accademia platonica in quanto protomodello di ‘comunità di ricerca filosofica’. I temi della comunità, meglio della philía come koinonía e della dimensione con-filosofante della pratica di vita, attivano un campo di forze all’interno del quale 1 La traduzione è dall’edizione a cura di Claudio Mazzarelli, Milano: Rusconi, 1993, p. 369. 2 E. Berti, Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, cit., p. VII.

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leggere anche l’esperienza della lipmaniana community of philosophical inquiry. Il termine sumphilosopheîn appare per la prima volta proprio nel testo aristotelico ma la nozione di una comunanza di vita fra coloro che sono impegnati nella ricerca filosofica e a un tempo con l’oggetto della indagine sembra echeggiare, come finemente suggerito da Alessandro Volpone3, in un luogo strategico della Lettera VII [341b-341c] di Platone: «So che alcuni hanno scritto su questi stessi argomenti, ma chi siano, neppure loro lo sanno. Questo ho da dire su tutti quelli che hanno scritto o scriveranno, quanti sostengono di conoscere l’oggetto delle mie indagini [perì hôn egò spoudazo], sia per averlo ascoltato da me sia da altri sia per averlo scoperto da se stessi: non è possibile, a mio parere, che costoro abbiano capito niente dell’argomento. Certamente non esiste un mio scritto sul tema né mai esisterà. Infatti non può essere enunciato in nessun modo come gli altri insegnamenti; ma in seguito a una lunga frequentazione del suo oggetto, e dal conviverci [all’ek pollês sunousías gignoménes perì to prâgma autò kaì toû suzên], all’improvviso, come una luce che si accende da una scintilla di fuoco, compare nell’anima e si nutre ormai di se stesso»4.

Questo passo è una delle architravi della interpretazione di Platone fornita dalla scuola di Tubinga, che ha enfatizzato come vi siano delle dottrine (riguardanti i Principi) che Platone non ha affidato alla scrittura, riservandone

3 Nella cornice di quella che è certamente la più matura riflessione sulle pratiche filosofiche svolta in Italia, Volpone è stato colui il quale con più forza ha rimarcato come la loro caratteristica sia proprio il confilosofare. Si ricorrerà ancora ad alcuni dei suoi spunti nel contesto della lettura che si proporrà della lipmaniana community of inquiry (cfr. infra cap. 3). Di Volpone cfr. anzitutto “Le pratiche filosofiche da un punto di vista epistemologico: filosofia del sumphilosopheîn”, in C. Brentari, R. Màdera, S. Natoli, L. Vero Tarca (a cura di), Pratiche filosofiche e cura di sé, Milano: Bruno Mondadori, 2006, pp. 224-238. Il riferimento a Platone e Aristotele è a p. 226. 4 Platone, Lettera VII, in Tutte le opere, vol. V, Roma: Newton Compton, 1997, p. 725.

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l’insegnamento a coloro i quali ne fossero degni, a quei pochi capaci di arrivarci da se stessi attraverso una minima indicazione [341e]. Ciò che qui interessa non è tanto il pur fondamentale versante della questione concernente il rapporto oralità-scrittura nel filosofare platonico (che, in forme diverse, ritorna nelle sessioni di con-filosofare lipmaniano) quanto piuttosto la sottolineatura della esigenza di una sunousía e di un suzên, di una co-esistenza e convivenza, che è – sia detto con una certa torsione esegetica, che accoglie e sviluppa l’indicazione di Volpone5 – tanto con l’oggetto quanto con gli amici in grado di attingere questa conoscenza, secondo una dinamica circolare: senza il prâgma intorno a cui ruota la ricerca non vi sarebbe alcuna comunanza, koinonía; ma, al contempo, è la philía, l’amicizia, che sorregge il processo della ricerca e lo intenziona all’oggetto degno con cui soggiornare e scongiura così il pericolo che l’indagine si trasformi in lotta eristica per il predominio in una tenzone para-dialettica, ossia traditrice dell’autentica dialettica. Tale dinamica filiaca, in quanto contrapposta all’eristica, è tema ricorrente nei dialoghi platonici e – significativamente – soprattutto quando l’interlocutore è un giovane, quasi a sottolineare l’autentica natura della relazione educativa. A Menone, nel dialogo omonimo, Socrate dice [75c-75d]: «E se fosse un saggio, uno degli eristici e degli amanti delle dispute [agonistikôn] ad interrogare, gli direi: ‘Ho dato la mia risposta; se quel che dico non è giusto, è compito tuo prendere la parola e contestarlo’. Ma se, come me e te adesso, essendo amici [phíloi óntes], volessero discutere tra loro, bisogna ri5

Nel paragrafo successivo questa interpretazione sarà problematizzata. O, meglio, si mostrerà che questo passo può essere letto sviluppando – come si fa qui – l’accento sulla dinamica del con-filosofare ovvero enfatizzando la solitudine teoretica del pensatore rispetto a cui il confilosofare è un momento avventizio o successivo, ma non costitutivo dello scoccare della fiamma filosofica. Tale differente direzione interpretativa si accompagna a una ben diversa distribuzione di ruoli fra il momento pedagogico (con-filosofante) e quello teoretico-solitario. Ed è questo il punto di maggior interesse nella presente indagine.

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spondere con un tono più mite e con maggiore argomentazione [praóterón pos kaì dialektikóteron]»6.

La ricerca autentica, quella più argomentata – più dialettica [dialektikótera], per riprendere il termine davvero cruciale del passo citato – non è agonistica ma mite e amichevole. La trama testuale che contrappone eristica e ‘agonistica’ a dialettica e philía è rivelativa dell’impostazione di fondo della ricerca filosofica come la intende Socrate-Platone (su questo punto si può decisamente pensare a una sostanziale coincidenza dei due, anche se con diverse accentazioni, come si chiarirà in seguito)7. Come ha osservato Pierre Hadot, «[è] possibile stabilire un vero dialogo soltanto se si intende dialogare. Grazie a questo accordo tra interlocutori, accordo rinnovato a ogni tappa della discussione, non sarà uno degli interlocutori ad imporre la tesi all’altro; al contrario, il dialogo insegna loro a mettersi uno al posto dell’altro superando i propri punti di vista. Con il loro sforzo sincero, gli interlocutori scoprono grazie a se stessi e in se stessi, una verità indipendente da se stessi: questo, in quanto si sottopongono ad una autorità superiore, il logos»8.

6

Platone, Menone, in Tutte le opere, vol. III, Roma: Newton Compton, 1997, p. 521. 7 Luigina Mortari, partendo non dal Menone ma dal Filebo e dal Teeteto, sottolinea la coappartenenza di etica amicale e costruzione di una comunità di pensiero in una prospettiva platonica: «È necessario prendere le distanze da ogni visione bellica del pensare insieme, come se le buone idee si affermassero quando si domina l’interlocutore; invece, le idee valide prendono forma non quando si tratta l’altro come un avversario da battere, ma quando lo si considera un amico con cui costruire insieme qualcosa […]. Un ambiente cooperativo evita l’arrogante quanto inutile contrasto di opinioni, ma anche l’arrendevole consenso a ogni idea, perché se il contrasto si porta appresso semi distruttivi, il consenso arrendevole finisce invece per lasciare le cose come stanno, ossia ognuno della sua opinione, senza che si possa costruire una reale comunità di pensiero» (A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Milano: Raffaello Cortina, 2008, pp. 51-52). 8 P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Paris: Éditions Gallimard, 1995, tr. it., Che cos’è la filosofia antica, Torino: Einaudi, 1998, pp. 62-63.

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Senza la philía come koinonía di coloro che con-filosofano, che sono uniti dall’amore per la sapienza, si corre inoltre il pericolo che gli strumenti della dialettica siano utilizzati in un esercizio quasi ludico-nichilista di distruzione di tutte le nozioni e non, invece, indirizzati alla ricerca della verità. Era ciò che si imputava ai discepoli di Socrate come Crizia e Alcibiade, disincantati e spregiudicati dissolutori delle credenze condivise; era ciò che il Socrate ‘platonizzato’ paventava nella Repubblica e che lo spingeva a ipotizzare l’educazione all’arte dialettica solo per gli adulti e solo per il ristretto novero di coloro i quali dovevano poi – da filosofi-re – prendere con piena responsabilità e serietà le redini dello Stato. Essi, educati nell’Accademia, ossia nella koinonía del sumphilosopheîn e in sunousía con l’oggetto sommo della indagine, non avrebbero impiegato la loro arte in modo distruttivo. Già da questi primi accenni sono emersi i temi che da una parte consentono di chiarire il senso del con-filosofare come una delle matrici dell’Accademica platonica e, dall’altra, di indagare – cosa ancor più importante nell’orizzonte della presente riflessione – se essa conservi un ruolo di paradigma per la comunità di ricerca di marca lipmaniana e per la sua vocazione ‘politica’. L’idea del sumphilosopheîn come radice dell’impresa dell’Accademia rimanda alla ‘decisione’ epocale di Platone, come lui stesso ce la descrive in un celebre passo della Lettera VII [325b-326b], che conviene riportare per esteso: «Per un singolare destino tuttavia in seguito alcuni uomini di governo trascinarono in tribunale questo nostro compagno [hetaîron] Socrate, lanciandogli un’accusa delle più nefande, fra tutte la meno adatta a lui […]. A me dunque che valutavo questi fatti, e gli uomini che gestivano gli affari della città, e le leggi e i costumi, quanto più osservavo e andavo avanti nell’età, tanto più difficile mi appariva la retta gestione della cosa pubblica; mi sembrava infatti impossibile un’azione politica senza amici e compagni fidati [áneu phílon andrôn kaì hetaíron pistôn] – e non era facile trovarne che fossero già a disposizione, dato che la città non si reggeva più secondo i costumi e le abitudini dei padri, ed era poi

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impossibile procurarsene altri di nuovi con un certo agio – e la lettera delle leggi e i costumi andavano deteriorandosi, procedendo per questa via in modo così straordinario, che io, dapprima pieno di slancio all’idea di dedicarmi alla cosa pubblica [práttein tà koiná], guardando poi a questi fatti e osservando lo scompiglio generale, finii per avere la nausea, e se non rinunciavo a meditare come si potesse migliorare questa situazione e la struttura politica nel complesso, tuttavia attendevo sempre un momento opportuno per agire, e giunsi infine a pensare, in merito, a tutte le città attuali, che tutte quante sono governate male […] e fui costretto a dire, elogiando la retta filosofia, che solo questa consente di vedere tutto ciò che è giusto nelle cose pubbliche e in quelle private. Dunque le generazioni umane non si sarebbero mai liberate dai mali prima che la stirpe di chi pratica rettamente e veramente la filosofia pervenisse alle cariche politiche, o prima che la classe degli uomini che governano nelle città cominciasse, per una sorte divina, a pensare secondo principi realmente filosofici».

La scelta di fondare l’Accademia sarà una conseguenza del fallimento delle due missioni in Sicilia e del conseguente disincanto circa la possibilità che gli uomini di governo comincino a pensare secondo principi realmente filosofici, il che spinge Platone a edificare una ‘comunità’9 in cui si coltivi questo pensare, in modo da preparare un ceto di uomini pronti a rifondare la politica10. 9

Le ragioni dell’impiego degli apici diverrà chiaro nel prosieguo del testo. 10 Che il progetto platonico abbia ‘funzionato’ è stato messo in dubbio da ultimo, proprio nel contesto di una ricognizione sulla Accademia, da Kai Trampendach, nel suo Platon, die Akademie und die zeitgenössische Politik, Stuttgart: Franz Steiner Verlag, 1994. Trampendach articola la sua ricerca in una parte ‘empirica’, come la definisce, in cui indaga il ruolo effettivo che diversi membri dell’Accademia platonica ebbero sulla scena politica del mondo greco, e una parte teorica in cui si concentra sulla natura del progetto platonico e sul suo fallimento sul piano della realtà fattuale. L’azione di Platone (e dei membri della sua Accademia) è stata quella di «un pensatore inattuale del politico» (p. 283) e non un effettivo contributo di riforma delle istituzioni. Trampendach collega strettamente questo ‘fallimento’ di Platone sul piano più squisitamente politico al suo impianto metafisico: il problema che si solleverà nel prosieguo di questa riflessione è se e in che senso, invece, la curvatura che il confilosofare acquista in un’ottica pragmatista possa avere conseguenze politiche reali.

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Ma, prima di investigare questo punto, conviene soffermarsi sull’antefatto, riportato nel passo citato, da cui sono ricavabili alcune indicazioni fondamentali. Anzitutto la centralità del processo a Socrate nel percorso esistenziale e intellettuale di Platone, che lo induce a una decisione di grande momento per l’esistenza di un uomo greco, ossia a rinunciare al práttein tà koiná. Nella orazione funebre che Tucidide fa pronunciare a Pericle ben emerge il significato che la cura degli affari pubblici aveva per i Greci: «Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici [politikôn epiméleia] a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non già ozioso, ma inutile [ouk aprágmona, all’achreîon] chi non se ne interessa»11. Astenersi dalla politica comportava dunque il rischio di essere considerato addirittura achreîon, inetto, inabile, buono a nulla. Ciò fa comprendere la portata della rinuncia platonica, ma anche la peculiare forma che essa assunse. Infatti, il ritrarsi dall’impegno politico si accompagnò all’edificazione di un nuovo spazio comune, basato sul con-filosofare, nel quale preparare il rinnovamento dello spazio comune proprio della polis. Non si trattò quindi del totale abbandono della politikôn epiméleia ma del suo esercizio attraverso un’opera di formazione di chi doveva poi impegnarsi in essa o direttamente (se i filosofi fossero diventati re) o indirettamente (se i re si fossero convertiti alla filosofia attraverso l’opera pedagogica dei filosofi). Come Hadot ha efficacemente sintetizzato, «[i] sofisti avevano preteso di educare i giovani alla vita politica; Platone, da parte sua, persegue lo stesso obiettivo dotando i suoi allievi di un sapere di gran lunga superiore a quello che i sofisti potevano offrire: un sapere che per un verso sarà fondato su un metodo razionale rigoroso e, per l’altro, in accordo con la concezione socratica, sarà inseparabile dall’amore per il bene e dalla trasformazione interiore dell’uomo. Platone

11 Tucidide, La Guerra del Peloponneso, II, 40, 2, Milano: BUR, 1985, p. 329. Corsivi aggiunti.

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non intende formare soltanto abili uomini di stato, ma uomini. Al fine di realizzare il suo intento politico, Platone deve dunque compiere una immensa digressione; fonderà, infatti, una comunità intellettuale e spirituale, che avrà il compito di formare, impiegando tutto il tempo che sarà necessario, degli uomini nuovi»12.

Di questo spostamento nell’interpretazione dello spazio comune il testo della Lettera VII reca un’interessante spia semantica: il rifiuto di entrare nell’agone politico è motivato da Platone con la mancanza di compagni fidati e, poche righe sopra, Socrate stesso è presentato come compagno. È indicativo che Platone adoperi in ambedue i casi un termine – hetaíros – dalle profonde connotazioni politiche13. Se la cosa è comprensibile per coloro i quali avrebbero dovuto accompagnarlo nell’azione politica, meno lo è nel caso di Socrate, la cui ritrosia a lasciarsi coinvolgere dalle questioni politiche è da lui stesso dichiarata [Apologia 32e-33a]. È come se la testualità platonica suggerisse in filigrana il modo in cui leggere la mossa compiuta da Platone: se mancano amici e compagni fidati con cui impegnarsi in una polis squassata da una crisi senza pari, la missione cui dedicarsi sarà quello di costruire un luogo in cui nutrire una vera philía, di fondare un’eteria di nuovo tipo che avesse come suo obiettivo la rigenerazione ab imis fundamentis della vita pubblica greca attraverso l’educazione dei filosofi. Ed è solo alla luce della creazione della Accademia, di una confraternita di filosofi, di una ‘comunità’ impegnata nella ricerca, senza cui «la vita non è degna di essere vissuta» [Apologia 38a], che l’opera di Socrate viene ri-significata ed egli non è presentato anzitutto come il maestro, ma gli viene tributato il titolo di hetaíros, quasi a indicare che in lui si preannunciava quel modo anti-politico di práttein

12

it.).

13

P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., pp. 58-59 (tr.

Cfr. F. Sartori, Le eterie nella vita politica ateniese del VI e V secolo a.C., Roma: L’erma di Bretschneider, 1957 e C. Pecorella Longo, “Eterie” e gruppi politici nell’Atene del IV sec. a.C., Firenze: L. S. Olschki, 1971.

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tà koiná che sarà proprio dell’Accademia14. Già le scelte lessicali della Lettera VII, quindi, rimandano al fatto che l’Accademia sorge attraverso un movimento di riappropriazione trasfigurante della figura e dell’opera di Socrate. Se «la ‘politica’ di Platone è anti- e metapolitica, perché rifiuta in maniera distruttiva la politica reale in tutte le sue forme di manifestazione a lui contemporanee e perché cerca di superare eticamente e metafisicamente (ovvero teologicamente) lo spazio autonomo del politico che si era formato nel corso del V secolo»15, Socrate diviene, nella retrospettiva della Lettera VII, il prototipo della nuova articolazione fra filosofia e politica. Per ciò che si è venuti dicendo studiare l’Accademia in quanto comunità di quelli che ricercano, che con-filosofano, e così si formano al reggimento della città, è studiare anzitutto lo slittamento dal ‘progetto’ di Socrate a quello di Platone e seguire, nella tessitura dei testi platonici, le tracce di questo spostamento. Ciò servirà non solo a definire lo stemma dell’Accademia platonica ma anche a preparare l’esplorazione sulla natura – socratica e/o platonica – della comunità di ricerca di Lipman. La prima differenza da tenere a mente fra l’approccio formativo socratico e l’impostazione platonica è che nel caso di Socrate si può parlare al più di una «cerchia [ma non] di una scuola stabile»16, nonostante il suo fine fosse chiaramente pedagogico, ossia l’educazione di uomini giusti. Già nella tarda antichità Plutarco opponeva le forme del magistero di Socrate alla ‘scolasticizzazione’ della pratica filosofica, alla sua trasformazione in didattica cattedratica e in esercizio teorico, ‘accademico’ nell’accezione 14

È opportuno precisare come il termine hetaíros compaia, in riferimento a Socrate, anche alla fine del Fedone (118a) in un contesto alieno da ogni coloritura ‘politica’. Ciò che si vuole qui evidenziare è però l’effetto testuale – non necessariamente riconducibile ad una intentio auctoris – che l’impiego del lessema produce nel passo della Lettera VII. 15 Kai Trampendach, Platon, die Akademie und die zeitgenössische Politik, cit., p. 279. 16 Paul Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, Bonn: Verlag von Friedrich Cohen, 1923, p. 23.

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denigrativa del termine: «La maggior parte delle persone immagina che la filosofia consista nel dibattere dall’alto di una cattedra e nel fare corsi su alcuni testi. Ciò che tuttavia sfugge, a persone del genere, è la filosofia ininterrotta che ogni giorno si vede esercitata in modo perfettamente uguale a se stessa […] Socrate non faceva disporre sedili per gli uditori, non si sedeva in una cattedra professorale; non aveva un orario fisso per discutere o passeggiare con i suoi discepoli. Ma scherzando con loro, bevendo o andando alla guerra o all’agorá, e alla fine andando in prigione e bevendo il veleno, egli ha filosofato. È stato il primo a dimostrare che, con ogni tempo e in ogni luogo, in tutto ciò che ci accade e in tutto ciò che facciamo, la vita quotidiana dà la possibilità di filosofare»17.

Da questa immersione nel tessuto cittadino, nella vita della polis deriva la principale caratteristica dell’approccio socratico (che permane – aggiornata in senso pragmatistico – in Lipman): Socrate parte dai saperi, dalle credenze e dalle esperienze dei suoi interlocutori, non fa planare dall’alto una sapienza allogena, né trasmette, come i sofisti pretendevano di fare, conoscenze pre-confezionate da spendere nella vita pubblica. Quella che Socrate opera, insieme ai suoi interlocutori, è – come ha sottolineato Hannah Arendt18 – una ricerca del significato di alcune nozioni fondamentali che facevano parte del bagaglio linguistico e concettuale dei suoi concittadini (nozioni come felicità, giustizia, coraggio, pietà, temperanza etc.). I suoi concittadini credevano di conoscere che cosa queste parole significassero, in quali circostanze fossero legittimamente utilizzate, ma Socrate, con il suo indefesso interrogare, disve­lava la confusione che in realtà regnava presso i suoi interlocutori, tanto che, portando alle estreme conseguenze 17 Plutarco, Se un anziano debba far politica 26.796d, citato in P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., p. 40 (tr. it.). Corsivi aggiunti. 18 H. Arendt, The Life of Mind, New York-London: Harcourt Brace Jovanovich, 1978, tr. it., La vita della mente, Bologna: il Mulino, 1987, pp. 258 sgg.

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ciò che credevano di sapere, cadevano in contraddizione con se stessi. L’opera pedagogica di Socrate era quindi quella di scongelare19 i pensieri che si erano solidificati in cliché, di incitare a rompere ciò che Dewey chiamava la crosta delle convenzioni e a riscoprire al di sotto di essa il significato autentico – perché esito di un esame rigoroso – di alcune nozioni fondamentali per la vita umana. Nel far ciò Socrate non si impanca a maestro, non dispensa verità, si limita a incalzare con domande, spingendo l’interlocutore ad esaminare le proprie convinzioni, a testarne la coerenza. In questo senso Socrate non è un docente: «Apparentemente [nel metodo socratico] è il maestro che interroga e l’allievo che risponde, in verità il maestro dà, nella forma della domanda, all’allievo una risposta o lo conduce a darsi una risposta. In concreto “maestro” e “allievo” debbono essere considerate come designazioni di posizioni labili e variabili fra le persone. Infatti non appartiene all’essenza dell’insegnare socratico che l’uno sia ‘maestro’ e l’altro ‘allievo’ ma ciascuno, in diuturna disponibilità a insegnare o imparare, è rivolto alla verità. ‘Maestro’ e ‘allievo’ non sono qui designazioni di funzioni, ma in quanto essere-maestro e essere-allievo sono possibilità, situazioni variabili di ogni partecipante alla discussione. Se le cose stanno altrimenti, il metodo socratico viene ridotto necessariamente a ignobile perfidia e a protezione di una alterigia filistea»20.

Si può sintetizzare questo costante scambiarsi di posizione del domandare e del rispondere affermando che il domandare socratico è lo spazio della cor-rispondenza di due intenzionalità indagative indirizzate al vero. Il domandare, in quanto apertura delle nozioni che altrimenti rimarrebbero ‘congelate’, incapsulate nella inerzia dello scontato, del sentito-dire, del trito, ha come condizione di possibilità l’apertura di due soggetti che nel dialogo si dischiu­dono all’inter-locuzione con l’altro. Qui è l’inter-esse 19

Ivi, p. 265 (tr. it.). P. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., p. 6. 20

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che appartiene al logos del dia-logo, che si muove fra coloro che ricercano e impedisce loro di fissarsi nelle proprie credenze, sequestrandosi nella rigidità cadaverica delle certezze inesaminate. Siffatta dinamica mobile e viva, in cui le posizioni del maestro e dell’allievo non si irrigidiscono in ruoli pre-definiti, è ciò che sostiene la ricerca del significato (per riprendere la dizione della Arendt) nella misura in cui essa non si perverte a giochi di prestigio verbale o a tentativo di prevalere in un certame para-dialettico. Vi è un’intima coappartenza fra ricerca di senso e relazione educativa di tipo socratico. Si sostengono a vicenda, schivando così i rischi che le abitano costitutivamente: se la relazione educativa – labile e non codificata, ‘fascinante’ e personale – non fosse accompagnata dalla ricerca del significato, l’educazione si degraderebbe a seduzione (e non è un caso che il conturbante ritratto di Socrate come di un seduttore nel Simposio sia messo in bocca a quell’Alcibiade che, storicamente, fu un allievo di Socrate attento a utilizzare la forma dell’interrogare come strumento nichilistico di dominio più che impegnato nella ricerca del vero. Quasi a sottolineare a contrario il legame inscindibile di ricerca del significato e relazione educativa, mediante quello fra seduzione e pervertimento dell’indagine socratica); se l’indagine razionale sul senso delle nozioni non accadesse all’interno di una dinamica educativa, diverrebbe sterile astrattismo, vacuo discettare, cattedraticismo. Socrate è sì sterile, come dice a Teeteto [150c], ma lo è in quanto levatrice, in quanto cioè sostegno ad un processo di concepimento (di cui il concetto – di cui secondo Aristotele Socrate sarebbe stato l’inventore – è l’esito); Socrate è sterile non come un conferenziere che pretende di scodellare conoscenze, ma lo è perché nel ritrarsi accogliente del domandare permette all’interlocutore di «generare e procreare nel bello» [Simposio 206e]. Non può essere questa la sede per investigare il ruolo davvero cruciale che le metafore del campo semantico del ‘generare’ giocano all’interno del corpus platonico in riferimento a Socrate, basti rimarcare come esse siano intrinse-

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camente connesse alla relazione educativa che egli instaura con i suoi interlocutori. Perciò Socrate è tremendamente serio quando dice di essere sterile: la generatività è solo nella relazione dialogico-educativa, non in una pretesa di autosufficienza che sarà propria di un’altra figura, quella del sophós dedito al bíos theoretikós. È importante enfatizzare, in questo contesto, un’altra conseguenza dell’approccio socratico immerso nella vita cittadina, alieno da scanni professorali o da autarchie sapienziali: Socrate non può essere considerato il prototipo della vita contemplativa. In questo senso, è una delle più evidenti trasformazioni accaparranti cui Platone sottopone la sua figura quando Socrate nel Teeteto [173c-173d] così descrive il proprium della esistenza filosofica: «Quelli invece che sono veramente filosofi anzitutto fino da giovani non conoscono la strada per la piazza […]». Chi parla qui è un Socrate ‘accademizzato’, fatto rivivere nella prospettiva dischiusa dalla fondazione dell’Accademia. Non perché Socrate non fosse alieno dalle preoccupazioni mondane, anzi tutto il suo impegno – come egli stesso testimonia nell’Apologia – è teso a distogliere i suoi concittadini dalle cure del mondo e a indirizzarli alla cura di sé. Ma – ed è questo il punto fondamentale – tutti i suoi sforzi avvengono nella strada per la piazza: in Socrate il filosofare è sempre costitutivamente con-filosofare e ha una nitida intenzionalità pedagogica, vive nella relazione educativa con l’altro e a partire dai suoi mondi di vita. Anche l’attingimento della nozione della virtù in sé, non dispersa nella molteplicità dei fenomeni, accade a partire dalle esperienze dell’interlocutore, un lascito metodologico che l’approccio lipmaniano avrà ben presente. Anche da questo punto di vista, e per adoperare categorie arendtiane21, Socrate opera prima della frattura fra polis e filosofia che sarà sancita dalla sua condanna a 21

H. Arendt, Was ist Politik?, München: R. Piper GmbH & Co KG, 1993, tr. it., Che cos’è la politica?, Torino: Edizioni di Comunità, 2001, passim.

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morte: egli ha a che fare, infatti, con gli uomini al plurale. Il dialogo per lui non è solo, quindi, un metodo di indagine ma una dimensione esistenziale, nonché la forma di espressione più adeguata della vocazione pedagogica senza cui l’esame della vita [Apologia 38a] risulterebbe infecondo, incapace di generare nel bello [Simposio 206e]. È perciò grave il fraintendimento di Heidegger quando crede di magnificare Socrate come «il più puro pensatore dell’Occidente»22 ma riporta tale ‘purezza’ al fatto che egli si fosse mantenuto nello Zugwind, nel vento del pensiero, e non coglie così la dimensione pedagogica – in senso forte – del socratico con-filosofare, e modella un’immagine di Socrate più simile a un pensatore in ascolto dell’Essere che non a un maestro impegnato in un dialogo trasformativo con i suoi allievi. Siffatta coappartenenza di ricerca del significato e relazione educativa ha un nome, eros, come rilevato da Landesberg: «Ciò che alla fin fine lo [scilicet Socrate] muove è l’amore per il giovane che apprende e l’amore per la verità. Queste due direzioni d’amore non sono però giustapposte ma sono in un intreccio [Ineinander] vitale. […] Egli vuole aiutare il giovane nel suo perfezionamento; perché egli – l’educatore socratico – ama il nucleo in lui [nel giovane] che lo governerà quando il giovane si sarà perfezionato, mentre ora è celato nell’incompiutezza […]. Ma [l’educatore socratico] sa che la via verso tale perfezionamento passa solo attraverso la verità […]. Per questo ama l’allievo per se stesso e la verità in vista dell’allievo. Perciò è da prendere alla lettera il fatto che, come tutti i grandi maestri, Socrate stesso era il suo allievo. […] Socrate ama la verità per amore del perfezionamento dei suoi allievi, gli allievi amano Socrate per amore di quella verità che egli incarna e insegna e che li perfeziona. […] Unita così nell’amore la via del dialogo conduce alla verità e al perfezionamento. Siffatto essere compagni di strada [Weggenossenschaft] si può chiamare la fonte della vera amicizia. Nell’andare insieme dell’amicizia la comunicazione di cono22 M. Heidegger, Was heisst Denken?, Tübingen: Max Niemeyer Verlag, 1954, p. 52.

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scenza diviene co-conoscere. Il viaggio va nell’ignoto e nel nuovo per il giovane non meno che per Socrate»23.

Socrate è, quindi, un pensatore che è sulla via insieme con coloro che spinge a divenire suoi compagni di viaggio, è lì che intreccia i suoi dialoghi, è lì che vive l’esperienza di una philía co-educante. La strada di Socrate è proprio quella per la piazza, all’interno della polis, non è quindi una strada metaforica, il méthodos, parola che – non a caso – Platone introdurrà nella lingua greca, e così nel lessico filosofico dell’Occidente, proprio nel Fedone [79e] che è, come si vedrà, la grande palinodia platonica dell’Apologia di Socrate e il luogo in cui nella maniera più emblematica si consuma la sua trasfigurazione, operata dal discepolo più geniale. Socrate non comunica conoscenze, ma attiva una comunicazione generativa di co-conoscenza insieme con i suoi compagni di via, con coloro i quali percorrevano con lui le strade della polis e non già la strada ‘metodica’ indirizzata a una ricerca di certezze ultime, una strada – questa – percorribile in linea di principio da soli, nella perfetta autarchia del proprio pensare separato dal mondo. Il termine metodo, così decisivo in tutta la storia del pensiero occidentale, è, quindi, un altro dei luoghi fondamentali in cui si consuma la re-interpretazione di Socrate da parte di Platone, lo spostamento dalla via di Socrate come spazio del co-conoscere e del con-filosofare al metodo come percorso verso una conoscenza assolutamente certa. L’eros di Socrate, per quello che si può intravedere attraverso i dialoghi platonici, non è il legame che tiene insieme l’universo24, come esso diverrà nella reinterpretazione di Platone, bensì la forza che sostiene la ricerca di perfezionamento attraverso una relazione non indottrinante fra maestro e discepolo. Ha quindi un significato non tanto cosmico quanto pedagogico. 23

P. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., pp. 9 e 12. 24 G. Reale, Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, cit., p. 208.

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Per comprendere la strategicità di eros da un altro punto di vista, partendo non dalla relazione educativa ma dalla ricerca del significato, ci si può riferire ad alcune pagine di Pierre Hadot, imperniate sull’equazione fra Eros come demone, Socrate e la figura del filosofo: «Eros non è che un daimon, un essere intermedio tra gli dei e gli uomini, tra gli immortali e i mortali. Non si tratta semplicemente di una posizione a metà tra due ordini di realtà contrapposte, ma di un vero e proprio ruolo di mediazione […] Eros è dunque filo-sofo, perché si trova a metà strada tra la sophia e la ignoranza. […] Ancora una volta si può riconoscere nelle sembianze di Eros non soltanto il filosofo, ma Socrate che, in apparenza, proprio come gli stolti non sapeva niente, ma che al tempo stesso era cosciente di non sapere niente, e dunque era diverso dagli stolti per il fatto di essere cosciente del suo non-sapere, tuttavia desiderando sapere […]. Socrate, il filosofo, è dunque Eros: privato della saggezza, della bellezza, del bene, egli desidera, ama la saggezza, la bellezza, il bene. Egli è Eros e dunque è Desiderio, non un desiderio passivo e nostalgico, ma un desiderio impetuoso […]»25.

Questa descrizione di Hadot, che ha il merito di aver rilevato come il Simposio sia un testo cruciale per la messa a punto di un’immagine della filosofia di grande importanza e di perdurante significato, va letta sullo sfondo di quello che si è venuti sopra argomentando e integrata con una riflessione più approfondita sulla dialettica ignoranza-sapere. Socrate, in quanto filo-sofo, in quanto amante appassionato di ciò che non ha e perciò desidera, ama e desidera la bellezza, il bene e la saggezza, che si trovano nascoste nell’allievo e che è suo compito di levatrice far venire fuori consentendo al giovane di partorire nel bello. Se, come dice Hadot, il desiderio non è passivo, è perché si manifesta in una dinamica – quella pedagogica di maestroallievo – che consente da una parte all’allievo di generare ciò che altrimenti rimarrebbe implicito, inespresso, abortito 25 P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., pp. 44, 45, 46 (tr. it.).

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nella conoscenza fasulla e millantata dei ‘docenti’, che pretendono di dispensare conoscenze compiute, sottraendosi alla dinamica generativa; e dall’altra al maestro di non rinchiudersi nel vagheggiamento nostalgico di una produzione – di bene, di bellezza, di saggezza – passata (si ricordi che le levatrici sono sterili non perché infeconde, ma perché in avanti con l’età [Teeteto 149c]), ma di vivere il desiderio ancora come impeto, come tensione generatrice. Il filo-sofo, si può asserire sviluppando la posizione hadotiana, trova la sua forma di vita adeguata nella con-filosofante relazione educativa e la philía della saggezza si realizza nella philía vissuta nel rapporto maestro-allievo: ancora una volta ricerca del significato e relazione educativa sono due aspetti dello stesso fenomeno ‘erotico’. Vi è un ulteriore versante da esplorare della costellazione tematica che raccorda i temi dell’eros, del desiderio, della ricerca congiunta, della via del sapere percorsa in compagnia in quanto distinta dal méthodos della indagine solitaria, al fine di mostrare la coerenza del congegno pedagogico socratico così come lo si sta ricostruendo attraverso i dialoghi platonici: non ci si può fermare all’interpretazione di Hadot che sottolinea la posizione intermedia dei filosofi (nell’ottica del Simposio) «tra i saggi e gli stolti, nella misura in cui essi sono dei non-saggi coscienti della loro non-saggezza: non sono dunque né saggi né stolti»26. Hadot coglie sicuramente un aspetto fondamentale dell’impostazione socratica ma rischia di obliterarne un altro, non meno cruciale: il filosofo non è solo intermedio, bensì è mediatore attivo verso una forma di conoscenza che non si riduce alla consapevolezza di non sapere ma è, passando attraverso e permanendo necessariamente in quella consapevolezza, una forma ‘positiva’ di sapere. La questione è, però, di comprendere di che natura sia questo sapere che, in modo provvisorio e assolutamente insoddisfacente, si è definito ‘positivo’. Detto altrimenti: esporsi alla paradossalità medusante di Socrate, significa non evadere la sfida 26

Ivi, p. 47.

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posta dalla convivenza – nel suo dispositivo argomentativo – di due asserzioni: che la virtù sia conoscenza e che l’unica conoscenza che Socrate possiede è di non sapere. A che cosa conducono allora le reiterate dimostrazioni che la virtù è insegnabile? Forse al fatto che ciò che è insegnabile è l’impossibilità di conoscere? I giovani che seguono Socrate e lo «accompagnano [e] si divertono quando ascoltano gli uomini che sono esaminati» [Apologia 23c] traggono quindi come unico insegnamento la capacità di imitarlo e «[di darsi] a loro volta ad esaminare gli altri: e [di trovare] grande abbondanza di uomini che credono di sapere qualcosa, mentre invece sanno poco o nulla» [ibid.]? È questo il perfezionamento che Socrate persegue? È questo l’approdo della sua ricerca congiunta di significato? Si fraintende Socrate – e tale fraintendimento è possibile solo scotomizzando la sua essenziale tensione pedagogica, che mira a portar fuori il nucleo di valore insito nell’interlocutore – se si assolutizza il momento, pur imprescindibile (e decisivo nella storia della paideia occidentale), del non sapere. Socrate ha sì scoperto la necessaria natura negativa del pensare, ma non ha aperto la strada ad esiti nichilistici, come ben sottolineato dalla Arendt: «Ciò che comunemente si dice “nichilismo” […] costituisce in realtà un pericolo inerente all’attività stessa del pensare. Non ci sono pensieri pericolosi: il pensare stesso è pericoloso, ma, appunto, il nichilismo non è il suo prodotto. Il nichilismo non è che l’altra faccia della convenzionalità: il suo credo consiste nella negazione dei valori cosiddetti positivi, a cui nondimeno rimane legato. […] Ma tale pericolo [del nichilismo] non proviene dalla convinzione socratica che una vita non riflessiva non sia degna di essere vissuta, bensì, al contrario, dal desiderio di trovare risultati che alla fine renderebbero superfluo pensare oltre»27.

Socrate ha enfatizzato il movimento dell’indagine che evita di contentarsi dei risultati, considerandoli definitivi e sancendoli come non suscettibili di ulteriore analisi. Ma ciò 27

H. Arendt, The Life of Mind, cit., pp. 270-271 (tr. it.).

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non equivale a dichiarare la bancarotta di ogni credenza, l’equivalenza uniforme di ogni convinzione e di ogni valore. Per comprendere a pieno Socrate (e la sua pretesa di non sapere) bisogna concentrarsi su un passo dell’Apologia [20d-20e], spesso tralasciato perché nascosto dalle ben più famose pagine sul sapere di non sapere: «Io dunque, cittadini ateniesi, mi sono procurato questo nome per una certa sapienza. E qual è poi questa sapienza? Quella che viene considerata sapienza umana [anthropíne sophía]: e in realtà io rischio di essere saggio in questa sapienza. Quelli invece, di cui parlavo poco fa, potrebbero essere saggi in una sapienza che è più grande rispetto a quella umana, oppure io non ho che cosa dire. Io, in realtà, questo tipo di sapienza non la conosco […]».

Che cosa è questa anthropíne sophía, questa sapienza umana, che Socrate sembra riconoscere di possedere? In che modo permette di considerare ad un livello ulteriore rispetto a quelli già considerati, la figura del filo-sofo come colui che si situa in posizione intermedia fra lo stolto e il sapiente e che è animato dal desiderio della sapienza? E qual è la sua relazione con il pensare in quanto attività pericolosa ma non nichilistica? Nei suoi ultimi studi su Socrate Gregory Vlastos ha avanzato un’ipotesi interpretativa di grande valore nel contesto della presente riflessione, che indaga il procedere socratico non con intenti di storia della filosofia ma come modo per accedere a dimensioni di senso della lipmaniana comunità di ricerca come dispositivo educativo fondato sul con-filosofare. Vlastos inizia col proporre la seguente definizione del metodo socratico dell’élegchos (= confutazione, prova): «[Esso] è una ricerca di una verità morale attraverso un processo di domande-e-risposte sugli argomenti contrari, nel quale una tesi viene dibattuta solo se asserita come credenza propria di chi risponde e la si considera rifiutata solo se la negazione di essa è dedotta dalle sue credenze»28. 28 G. Vlastos, “The Socratic Elenchus: Method is All”, in Id., Socratic Studies, New York: Cambridge University Press, 1994, p. 4.

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Ciò che Vlastos enfatizza anzitutto del metodo dell’élegchos è come esso sia una ricerca, ossia un’indagine che procede attraverso una verifica delle credenze giudicate vere. Nel percorso della indagine il procedimento del questionare non è un fine in sé ma un modo per condurre la ricerca verso il suo obiettivo, che è la verità. Ma non la verità teoretico-gnoseologica, epistemico-matematica, bensì una verità morale, ossia una verità che riguarda il ben-vivere e si interroga su ciò cui ispirare la propria esistenza. Per attingere questa verità il metodo elenchico nella versione socratica si differenzia totalmente dal ricercare partendo da ipotesi (ex hypothéseos skopeîsthai si legge in Menone 86e), tipico del ragionamento matematico che Platone sposerà proprio per ovviare a quelli che gli dovettero apparire i limiti del metodo del suo maestro. Infatti, Socrate prende le mosse da quelle che sono le credenze proprie del suo interlocutore, ciò che questi gli presenta come una propria convinzione sulla vita morale. A Socrate non interessa un ragionamento in astratto ma una ricerca che sia dialogo con i convincimenti del suo interlocutore, un dialogo in cui questi si senta impegnato perché ne va di ciò che egli pensa dei modi in cui strutturare la propria condotta. Da ciò – sia detto incidentalmente – deriva parte dell’effetto perturbante e disturbante di Socrate: il suo esame riguarda la sfera dei significati nella misura in cui hanno una rilevanza esistenziale per chi interloquisce con lui, egli può dire di esaminare gli uomini perché esamina ciò per cui gli uomini vivono. E ne disvela la fallacia. Questo disvelamento, però, non consiste in una predicatoria censura di alcune credenze, in una parenesi al cambiamento di esse che sia operata ab extra. Se l’esame e l’ammonimento rimanessero esteriori Socrate non risulterebbe disturbante. La procedura di Socrate è più aggirante ed è ben scandita nelle sue tappe, come sottolineato da Vlastos: «1) L’interlocutore asserisce una tesi p che Socrate considera falsa e prende di mira per confutarla. 2) Socrate si assicura l’accordo su ulteriori premesse, diciamo q e r […]. L’accordo è ad hoc: Socrate argomenta a partire da {q, r}, non per giun-

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gere ad esse. 3) Socrate argomenta allora, e l’interlocutore concorda, che q e r implicano non-p. 4) Socrate asserisce allora che egli ha mostrato che non-p è vero e p è falso»29.

Senza poter indugiare sulla raffinata ricostruzione del procedimento socratico compiuta da Vlastos, ciò che interessa mettere in risalto è che Socrate opera a partire dalle convinzioni degli interlocutori, che mira a porli in contraddizione con se stessi e, così facendo, a far loro riconoscere l’inconsistenza delle proprie credenze iniziali. Ciò che è però più significativo del metodo socratico, come Vlastos lo descrive, è che da una parte Socrate svolge una vera indagine, perché non ha alcuna garanzia di certezza su cui fondare il suo incedere argomentativo (i passi vengono ‘negoziati’ con gli interlocutori) e tuttavia – d’altra parte – Socrate è convinto in base a una sapienza umana (senza, cioè, poterne essere certo sul fondamento di alcuna più grande) di essere sempre in grado di dimostrare la falsità di p perché fa «una supposizione tremenda […]: chiunque abbia una credenza morale falsa ha allo stesso tempo credenze morali vere che implicano la negazione della credenza falsa»30, sicché quand’anche qualcuno si ostinasse a rimanere attaccato alla credenza p, pur in contraddizione con q e r, che aveva riconosciuto come vere, Socrate è persuaso di poter ricominciare l’indagine e, facendo leva su altre credenze morali (chiamiamole s e z), che l’interlocutore riconosce come vere e che sono in contraddizione con p, forzarlo ad ammettere la falsità di p. Questa persuasione deriva a Socrate – argomenta Vlastos – dal fatto che, avendo trascorso molti anni esponendo le sue convinzioni al test della discussione, non solo ha provato la coerenza del suo sistema di credenze, ma ha verificato che un solo sistema di credenze è coerente, il suo, mentre «[t]utti gli altri, quando sono stati testati quanto alla loro consistenza, hanno fallito»31. 29 30 31

Ivi, p. 11. Ivi, p. 25. Ivi, p. 27.

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Con una torsione esegetica – rispondente agli interessi della presente riflessione – dell’ipotesi interpretativa di Vlastos, si può dire che la fiducia nella coerenza del proprio sistema di credenze, e del fatto che solo esso sia coerente, è sì il presupposto della ricerca socratica ma lo è nella misura in cui è a sua volta esito di una ricerca e non è ancorato ad alcuna garanzia che ecceda il processo di indagine stesso. In questo senso in ogni sua discussione Socrate ‘scommette’ sulla robustezza del proprio sistema di credenze, lo mette alla prova, lo espone al rischio del fallimento e lo corrobora quando riesce a dimostrare la falsità di una credenza morale errata. Per questo la sua posizione nei confronti dell’allievo non è assoluta, fissata nel ruolo del maestro dottrinario, ma c’è uno scambio continuo in cui Socrate è anche nel ruolo dell’allievo dell’indagine congiunta (da cui apprende che effettivamente il suo è il solo sistema di credenze a schivare l’autocontraddizione). Questa è la sapienza umana di cui Socrate parla nell’Apologia, questo è il motivo per cui il filosofare per Socrate è sempre inaggirabilmente con-filosofare, indagine filosofica attraversata da una tensione educativa (è solo nel tentativo di provocare gli altri all’esame della propria vita, ossia del sistema delle credenze cui ispirano la propria esistenza, è solo nell’assistenza fornita all’altrui perfezionamento che Socrate continua a sua volta il movimento della ricerca e prosegue a testare la validità del suo sistema di credenze). Se Socrate interrompesse il circuito ricerca del significatorelazione educativa, opterebbe per un altro tipo di indagine, quell’ex hypothéseos skopeîsthai che è proprio delle scienze matematiche. Conoscere e educare sono facce dello stesso movimento per Socrate e ambedue avvengono sulla strada (in quanto distinta dal méthodos), con i propri concittadini. Ma perchè è umana questa sapienza di Socrate? Proprio perché non presume di essere conoscenza intesa come certezza assoluta, proprio perché – per iniziare ad adoperare un lessico deweyano (e lipmaniano) che si riprenderà in seguito – è indagine e non ricerca della certezza. Ciò risolve

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quella che si è sopra definita la medusante paradossalità socratica, per cui da una parte si asserisce che la virtù è conoscenza e dall’altra che l’unica conoscenza che si ha è di non sapere. Come nota Vlastos, «[q]uando dichiara di non conoscere niente, egli si riferisce a quel senso forte in cui i filosofi hanno usato [il termine conoscenza] prima di lui e continueranno ad usar[lo] a lungo in seguito – là dove si dice di conoscere solo quando si sta pretendendo di avere certezza. Ciò lascerebbe [Socrate] libero di ammettere che egli ha conoscenza morale in un senso radicalmente debole – il senso richiesto dal suo metodo nonconformista di indagine filosofica, l’élegchos»32.

Ciò spiega anche come Socrate non sia mai ipocrita (ciò che implicherebbe una “incoerenza dottrinale” per chi professava «la regola ‘di’ ciò che credi’ propria della discussione elenchica»33), quando afferma di non sapere. La conoscenza di cui egli manca è la conoscenza assolutamente certa, laddove la conoscenza che possiede è sapienza umana, ed essa è virtù. Ma «come poteva essere accaduto che ognuno degli interlocutori di Socrate aveva di fatto quelle credenze vere di cui aveva bisogno per rifiutare tutte quelle false?»34: questa è una domanda che, osserva Vlastos, non appare mai sulle labbra di Socrate o di uno dei suoi interlocutori ma a cui Platone sentì di dover dare una risposta, attraverso «il più sfrenato dei suoi voli metafisici, la teoria ultra-speculativa per cui ogni apprendimento è ‘ricordo’»35. Si ritornerà sull’impatto che l’introduzione della dottrina dell’apprendimento come ricordo ha sul modello dell’indagine filosofica e sullo spostamento di senso che produce. Ciò che interessa ora rilevare è come la necessità di dare alla fiducia socratica nella possibilità di dimostrare la con32

G. Vlastos, “Socrates’ disavowal of knowledge”, in Id., Socratic Stu­ dies, cit., p. 49. 33 Ivi, p. 60. 34 G. Vlastos, “The Socratic Elenchus: Method is All”, cit., p. 29. 35 Ibid.

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traddittorietà delle credenze morali false una fondazione forte, granitica, ancorata a conoscenze assolute derivasse dallo scandalo del processo a Socrate, che segnò per Platone la cesura fra la polis e la filosofia (ancora fortemente connesse in Socrate), e promuovesse l’appartarsi del filosofo rispetto alla città, la curvatura della ricerca da ‘dialogo sulla strada’ a méthodos e il passaggio dal con-filosofare inteso come pratica educativa ad una visione con tonalità escatologiche: «Il fatto che Socrate non fosse stato capace di convincere i suoi giudici della sua innocenza e dei suoi meriti, che per la parte più giovane e migliore dei cittadini di Atene erano stati così evidenti, alimentò i dubbi di Platone sulla validità della persuasiva. Dover assistere allo spettacolo di Socrate costretto a esporre la sua doxa alle irresponsabili opinioni degli ateniesi, e vederlo sconfitto da una maggioranza di voti, indusse Platone a disprezzare le opinioni e a esigere criteri assoluti con i quali giudicare gli atti umani e conferire alle azioni umane un certo grado di affidabilità»36.

L’attività pedagogica di Socrate occupa una posizione distinta tanto da quella dei sofisti quanto da quella di Platone e solo alcuni dei suoi caratteri saranno recepiti da Platone, che però li innesterà in un orizzonte completamente differente. Platone ripropone – in questo simile ai sofisti37 – un’idea di educazione in un ‘setting artificiale’, ossia non organico alla vita della comunità cittadina, come era stato, invece, il caso di Socrate. Tale mossa ha un significato epocale, istituisce l’idea di una comunità ‘intellettuale’ separata da quella politica e lo fa in conseguenza dello scandalo della condanna a morte di Socrate, che assume così un valore paradigmatico come simbolo della inconciliabilità di vita teoretica e vita politica, ossia inserita nella polis (l’ideale – metapolitico – dei filosofi-re non è, a ben guardare, una smentita ma una conferma di tale convinzione). Ma dell’approccio socratico Platone conserverà l’idea che 36 37

H. Arendt, Was ist Politik?, cit., p. 129 (tr. it.). Corsivi aggiunti. P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., p. 60 (tr. it.).

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non vi è educazione senza una relazione interpersonale profonda, un «contatto vivo tra gli uomini»38, una mutua apertura dialogica (in senso esistenziale), senza cioè quella dinamica dell’eros che si è cercato di descrivere. Salvo che questa dinamica non può (più) accadere nella strada per la piazza, ma all’interno di un gruppo di amici che confilosofano, che ricercano insieme, appartati rispetto alla turba cittadina. Paul Landsberg, formatosi alla scuola scheleriana di sociologia della conoscenza, ha disegnato con grande finezza il processo sociologico attraverso cui si passa dalla cerchia socratica alla Accademia platonica per mezzo della cesura costituita dal processo a Socrate: «L’isolamento dei socratici dalla totalità del popolo non era avvenuta per una volontà consapevole. Era stata un processo organico. Gradualmente all’interno della città un certo numero di uomini, che seguivano Socrate, si erano separati e si posero a fianco a lui contro l’inimicizia dei sostenitori di Anito e della massa in generale. Socrate non fu mai consapevole di questo processo, o lo fu solo durante il suo processo; i ‘Socratici’ ne divennero consapevoli d’un tratto con la fine del maestro. Ci si accorse allora che si costituiva già una unità, che si era una cerchia definita in opposizione al resto del popolo. […] Il centro personale e magnetico di questa cerchia era il maestro. Nessuna dottrina fissa, nessun dogma, solo una persona era il nesso positivo in questa graduale e involontaria costituzione di una cerchia. […] I socratici non avevano alcun sapere esoterico se non il sapere sulla figura di Socrate, dalla quale essi erano ‘rapiti’ a differenza della moltitudine. Se questa immagine non fosse divenuta mito, parola trans-personale e figura sottratta al tempo, non ci sarebbe stata alcuna scuola socratica, che tramandasse l’effetto socratico alla posterità. Fu il kairos per le due correlative azioni creatrici dell’inizio platonico, la creazione del mito socratico e la creazione dell’Accademia. Le due si coappartengono»39.

38

Ibid. P. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., pp. 18-19. La spaziatura dell’originale è stata trasformata in corsivo. 39

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L’Accademia non è, dunque, solo una evoluzione della cerchia socratica ma una sua trasformazione agíta attraverso la mitizzazione della figura di Socrate e la sua trasfigurazione, che comporterà anche uno spostamento di accenti in molte delle idee e delle pratiche filosofiche socratiche, solo apparentemente conservate nell’Accademia, ma in realtà profondamente ri-significate (si pensi all’idea di eros che, da nome socratico per il processo pedagogico di indagine congiunta sul senso, diverrà una forza cosmica; oppure alla pratica del dialogo non più con i propri concittadini a partire dal mondo della vita ma con i con-simili – l’idea di suggeneía è infatti cruciale in Platone – nell’isolamento dell’Accademia; o, ancora, al rapporto con l’oralità, non più scelta esclusiva e motivata, come in Socrate, dalla diffidenza nei confronti della scrittura che immobilizza il movimento dell’indagine, bensì modalità comunicativa solo per alcune delle dottrine (quelle più speculative, condivisibili solo coi compagni di vita filosofica, come da ‘confessione’ della Lettera VII) mentre altre potevano e dovevano trovare espressione negli scritti). La cerchia dei Socratici in generale si riconosce come tale solo al momento del processo e della morte del maestro, nel vuoto repentinamente spalancatosi dell’assenza di un centro magnetico, per riprendere l’espressione di Landsberg. Nell’assenza della parola presente, pressante, interrogante di Socrate coloro che lo seguivano si accorgono di aver avuto in comune – rispetto al complesso della polis – l’esperienza tras-formativa di un incessante esame della vita. Platone avrà il genio di eternare questa parola vissuta proprio attraverso il medium che Socrate aveva rifiutato, ossia la scrittura, rendendo la pratica del dialogo orale un genere filosofico (forse la matrice ultima di ogni genere filosofico ovvero della filosofia in quanto genere discorsivo), metamorfosando Socrate in mitologema (o piuttosto in personaggio concettuale, come direbbero Deleuze e Guattari40). E come darà consistenza materia40

«Socrate è il principale personaggio concettuale del platonismo» (G.

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le, attraverso lo scritto, alla parola di Socrate, così darà consistenza istituzionale – nell’Accademia – alla dinamica pedagogica del maestro, che era stata invece “distribuita” nella città. Questa opera duplice e intrecciata di ‘monumentalizzazione’ (se si intende ‘monumento’ nell’accezione etimologica di atto e di edificio commemorativo) viene giocata da Platone contro l’infamia della condanna a morte. Mitopoiesi e fondazione di una koinonía altra dalla polis sono le due forme della risposta platonica al rischio della dispersione del legato socratico, che egli riuscirà a conservare, sottoponendolo però ad una potente trasfigurazione. Il Fedone è il documento straordinario di questa epocale operazione platonica e ne reca le tracce nella sua trama testuale. Il dialogo è una sorta di palinodia della Apologia e così evoca il ‘momento’ in cui la cerchia socratica, passando attraverso il travaglio del processo e della morte del maestro, si costituisce in comunità appartata dalla polis secondo un modello che ha nella scuola pitagorica il suo archetipo. E lo fa, nell’ottica di Platone per come la si sta qui ricostruendo, per ‘sfiducia’ nel tipo di ‘metodo’ esercitato da Socrate (l’élegchos) e sostituendovi un méthodos garantito nella sua certezza. Fin dalle prime battute si consuma questo transito da un modello socratico a uno platonico. Il dialogo si apre e rimarrà costellato di elementi pitagorico-orfici: Simmia e Cebete, due degli interlocutori di Socrate, sono pitagorici come anche lo è Echecrate, colui al quale Fedone racconta l’ultimo giorno di vita del saggio ateniese, e di sapore pitagorico-orfico sono alcune delle dottrine presentate circa l’immortalità dell’anima, la purificazione e la vita dopo la morte. Ma cosa ancor più importante è che Socrate presenta la discussione sulla morte (intesa come condizione ‘esistenziale’ del filosofo, tanto che la filosofia non sarebbe altro che un esercizio di morte) e sull’immortalità dell’aniDeleuze, F. Guattari, Qu’est-ce que la philosophie?, Paris: Les Éditions de Minuit, 1991, p. 95).

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ma in antitesi con quanto avvenuto nel tribunale. Ad introibo del confronto con le osservazioni dei suoi interlocutori, c’è questo scambio di battute: «E Socrate rispose: “Dite cose giuste! Credo, infatti, che voi vogliate dire che io, di fronte a queste obiezioni, mi debba difendere come se fossi in tribunale”. “Proprio così”, disse Simmia. “Ebbene – disse Socrate –, cercherò di difendermi davanti a voi in modo più persuasivo che davanti ai giudici […]”» [Fedone 63b].

L’incontro del Fedone si svolge nel chiuso della prigione che, oltre ad essere un simbolo della spoglia mortale, del sepolcro corporale (séma/sóma, secondo il noto gioco di parole di Platone), è un’anticipazione dell’Accademia proprio in virtù dei logoi che vi verranno scambiati (i logoi trasfigurano la prigione e – d’altra parte – la futura Accademia sarà l’istituzione che sorgerà proprio per accogliere quei logoi che la città non è in grado di ascoltare). Infatti, in un ambiente segregato rispetto alla città – anzi in un ambiente che raccoglie chi la polis respinge, qual è la prigione – Socrate si dovrà difendere ma non più davanti a dei giudici-cittadini, bensì davanti a coloro i quali, essendo andati ad incontrare un reo, si sono collocati essi stessi al di fuori della polis. Al Socrate impegnato sulla strada per la piazza è subentrato quindi un maestro che deve partecipare le sue convinzioni ad allievi (63d). Il verbo usato da Simmia è metadídomi, che è associato al ‘dare’ ma con una sfumatura che implica il comunicare e condividere ciò che si possiede. Il passo ha così anche un sapore testamentario. Più in generale, però, si è in un altro orizzonte di significato rispetto all’idea di una ricerca ‘erotica’, che desidera e cerca ciò che non ha. Gli interlocutori non sono più ‘compagni di via’, ma sono assimilati ai membri delle scuole pitagoriche e come quelli conducono la ricerca in uno spazio altro da quello della città. La scena del Fedone è così l’atto istitutivo della indagine all’interno dell’Accademia, fuori della città, e lo è attraverso una sorta di Aufhebung dello scandalo della condanna di

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Socrate: l’Accademia è una sintesi di Socrate e Pitagora41 sorta come negazione della negazione del processo al saggio ateniese. Socrate dice di doversi difendere meglio che in tribunale e lo farà abbandonando l’approccio ‘elenchico’ (e la connessa ammissione di non possedere una conoscenza assolutamente certa) e argomentando in favore della dottrina delle idee, ossia di paradigmi immutabili che fondano la certezza del conoscere. Dalla ricerca come sképsis (sempre pronta a testare il sistema delle proprie credenze, pur nella convinzione – che è in ultima istanza etica – che esso sia l’unico a essere mondo di contraddizioni) si passa alla ricerca come méthodos, parola che – come già detto – compare nel Fedone per la prima volta e, significativamente, nel momento in cui si sancisce che l’anima è simile a ciò che è immutabile [79e], alla fine della presentazione della teoria delle idee e della reminescenza (che è, per rammentare Vlastos, l’ardito volo metafisico che Platone escogita per dare fondamento inconcusso al procedere socratico). In altre parole, la morte di Socrate, o meglio l’assunzione, da parte del Socrate del Fedone, della morte inflittagli come evento desiderabile per chi è realmente filosofo, funge da commutatore di senso: il tribunale e la prigione si trasformano nello spazio dell’Accademia (in questa ci si deve scambiare logoi e ‘difendere’ meglio che in tribubale ed essa è un luogo altro dalla città, come il carcere); l’indagine come sképsis diviene méthodos42; i convincimenti 41 «Della natura della formazione della sua [di Platone] cerchia Olimpiodoro dice efficacemente che egli aveva evitato in certa misura la formazione arbitrario-esoterica della cerchia dei Pitagorici, le loro porte chiuse e il loro “autòs épha”, come anche il modo di Socrate di incontrare i giovani qui e là per le strade, i ginnasi e i luoghi di lavoro e di condurre così i suoi discorsi. L’Accademia stava infatti a metà fra queste due forme sociologiche di insegnamento dalle quali era condizionata. La consorteria platonica era uno stabile consorzio di “phíloi” o “gnórimoi” o anche “veavískoi” ma non per questo una lega segreta [Geheimbund] come i primi pitagorici» (P. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., p. 77). Landsberg non nota però come la vicenda di questa medietà dell’Accademia platonica sia leggibile nelle pagine del Fedone. 42 Il rapporto fra metodo e morte, anzi esercizio del morire, che il Fedone consegna alla filosofia occidentale – almeno nella sua declinazione

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da esito di precedenti indagini divengono certezze sapute in virtù della reminescenza; l’anima verso la cui cura il Socrate tafanico dell’Apologia spingeva i suoi concittadini diviene un costrutto metafisico, una sostanza immutabile, apparentata a quegli altri enti immutabili che sono i criteri di una conoscenza non suscettibile di contestazione, una conoscenza che può convincere meglio di quanto Socrate aveva fatto in tribunale. Il Socrate dell’Apologia non possedeva, invece, questa elaborata metafisica orfico-pitagorica della morte e dell’immortalità. Il Socrate trasfigurato del Fedone ha ex post la meglio sui suoi giudici (quelli che, con raccapriccio di Platone, non era stato possibile persuadere della virtù socratica) e lo fa convertendo la morte in un evento positivo: la filosofia è un esercizio di morte, una posizione, questa, che arpeggiando sul tema del morire disegna una costellazione semantica diversa da quella messa in campo con la figura di Eros, dominata dalle nozioni di nascita e generazione (si ricordi che la risposta socratica nel Simposio alla questione che cos’è eros parte con il racconto di una nascita [203b-c] e culmina con l’idea di partorire e generare nel bello [206e]; e si pensi anche alla metafora della levatrice nel Teeteto [149a]). La filosofia, nella trasformazione operata e messa in scena nel Fedone, è allontanamento dal corpo e attingimento di una dimensione ideale – perché incorporea – ed è isolamento dalla città. Nell’Accademia platonica – anticipata nell’estrema ricerca di Socrate riportata nel dialogo che si sta analizzando – imparare a vivere in modo filosofico, secondo la dizione di Brisson43, comporterà non essere più frammischiati alla città ma con-vivere in una scuola di ‘metafisica’ – è stato di recente sottolineato da Peter Sloterdijk: «Ciò che si chiama metodo non è solo la via scientifica alle cose, ma è anche l’approssimarsi allo stato di quasi-morte che favorisce la conoscenza» (cfr. Scheintod im Denken. Von Philosophie und Wissenschaft als Übung, Berlin: Surkhamp, 2010, p. 11). 43 L. Brisson, “Présupposés et conséquences d’une interprétation ésotériste de Platon”, in «Les études philosophiques», 1993, p. 480, n. 4, citato in P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., p. 64 (tr. it.).

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con-simili (la suggeneía!) impegnati in un esame indirizzato alle realtà ultime e alieno dai mondi di vita e dalle esperienze dei cittadini (che invece costituivano il punto di partenza dell’indagine del Socrate cittadino di Atene). Ciò implica uno spostamento nel significato del dialogare, da dispositivo di apertura personale e di relazione educativa (nel senso che sopra si è cercato di delineare) a modo di superamento della contingenza personale, di accesso al cosmo iperuranico, come nota Hadot descrivendo gli esercizi spirituali all’interno della Accademia platonica: «In un certo senso, il dialogo è già un esercizio della morte. Infatti come ha detto R. Schaerer: “l’individualità corporea cessa di esistere nel momento in cui si esteriorizza nel logos”. Questa fu una delle tematiche preferite del rimpianto B. Parain: “Il linguaggio non si sviluppa che sulla morte degli individui”. Nella prospettiva del racconto della morte di Socrate, che è il Fedone, si osserva così che l’“io” che deve morire trascende in un “io” ormai estraneo alla morte, essendosi identificato con il logos e con il pensiero»44.

Ma siffatta notazione riguarda il Socrate del Fedone, ossia colui nel quale accade la trasformazione mitopoietica operata da Platone, contestualmente alla fondazione dell’Accademia, non certo il Socrate che si aggirava per la città sollecitando alla cura dell’anima i suoi concittadini. (Non è questa la sede per approfondire tale tema ma si deve rimarcare sia pure solo per accenno che la epiméleia tês psuchês dell’Apologia e dell’Alcibiade è qualcosa di differente dalla catarsi pitagorico-orfica che domina il Fedone). Che una metamorfosi si sia consumata è testimoniato proprio dalle ultime pagine del Fedone, lì dove il protagonista è Critone, che non è un seguace di Pitagora (quali sono coloro coi quali Socrate ha sviluppato la ‘nuova’ e ‘metodica’ – ossia non più ‘elenchica’ – ricerca e così istituito il primo nucleo di una ‘scuola’), bensì un vecchio amico di Socrate, a cui questi affida il compito di portare a casa le donne 44

P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., p. 67.

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[60a] – in modo che rimangano solo coloro i quali sono capaci della ricerca45 –, colui il quale interrompe all’inizio il nuovo e diverso processo a Socrate (che è davanti a un ‘tribunale’ non più di cittadini ma di compagni di ricerca), rappresentando i consigli del somministratore del veleno [63d-63e], e con il quale Socrate intrattiene il seguente scambio, meritevole di essere citato per esteso: «Non appena egli ebbe terminato di dire queste cose, Critone disse: “Ebbene, Socrate, hai disposizioni da dare a costoro e a me per i tuoi figli o per altre tue cose, che ti sarebbe particolarmente gradito che noi facessimo?”. “Quello che dico sempre, Critone – rispose Socrate –, nulla di nuovo: cioè che, se vi prenderete cura di voi medesimi, farete cosa grata a me e ai miei e anche a voi medesimi, qualunque cosa facciate, anche se ora non me lo promettete; se, invece, non vi prenderete cura di voi stessi e non vorrete seguire, quasi come orme, le cose dette ora e in passato, se anche ora me lo promettete con fermi propositi, non concluderete nulla”. “Per quanto riguarda queste cose – disse – certamente procureremo di far così. Ma in quale modo dobbiamo seppellirti?”. “Come volete – disse –, se pure mi prenderete e io non vi scapperò”. E ridendo tranquillamente e guardando verso di noi, disse: “Io, amici miei, non riesco a convincere Critone che Socrate sono proprio io, questo qui che discute e dispone a una a una con ordine le cose che dice; invece crede che io sia quello che, di qui a poco, egli vedrà morto, e perciò mi domanda come mi deve seppellire. Dunque, quello che da molto tempo io ho continuato a dire, ossia che io, dopo che avrò bevuto il veleno, non rimarrò più con voi, ma me ne andrò di qui, in certi luoghi felici dei beati, mi pare che per Critone sia stato inutile: come se io, parlando, avessi voluto consolare un po’ me e un po’ voi”». [115 b-e].

45 Correttezza storiografica esige che si precisi che nell’Accademia platonica non erano escluse le donne. Ciò che però l’allontanamento di Santippe e delle donne nel Fedone epitomizza è che quella ‘comunità di ricerca’ che l’Accademia è si costruisce espellendo gli elementi della comunità familiare. Nella concettualità della sociologia tedesca di matrice tönniesiana si direbbe che è necessario espungere da sé i legami comunitari organici e sostanziali, per sostituirli con legami comunitari promananti da affinità spirituali, la suggéneia di cui parla Platone.

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Sembra trattarsi solo di una scena di grande perizia drammaturgica, testimonianza dell’arte platonica, ma in realtà, per l’interpretazione che si è qui avanzata del significato del Fedone, essa ne costituisce un momento fondamentale, uno snodo cruciale. Infatti, con le sue domande, Critone introduce un punto di vista diverso da quello che domina il resto del dialogo, porta un’eco del mondo di fuori rispetto a quello della comunità di ricerca che si è costruita intorno a Socrate in punto di morte (e che poi evolverà nell’Accademia, che si edifica intorno alla sua figura mitizzata e si organizza in quanto scuola in forme di ispirazione pitagorica). Critone non fa parte dei pitagorici, quindi interloquisce nel dialogo in modi che promanano da un orizzonte ‘pre-accademico’, per dir così, più apparentato con l’attività del Socrate che andava sulla strada per la piazza. Critone – come tutti i suoi interventi manifestano – è, in breve, fuori della ‘comunità di ricerca’ del Fedone, fuori cioè della comunità di ricerca ‘metodica’. In questo senso il dialogo non è solo una palinodia dell’Apologia, ma presenta un’alternativa al Critone (col quale troppo spesso è stato letto in continuità, non avvertendo invece la distanza che li separa, non ad onta ma proprio per l’identità dell’ambientazione all’interno del carcere). Rispetto alla condanna a morte due opzioni si aprono, che si chiameranno qui per comodità l’opzione socratica e l’opzione platonica. La prima, affidata al dialogo con un amico ateniese, ribadisce la fedeltà di Socrate alla città e addirittura al regime politico democratico46, mediante la grande prosopopea delle Leggi. Questa è indirizzata non a un interlocutore casuale ma a un amico senza alcuna specifica preparazione filosofica, il quale addirittura invita a darsi pensiero dell’opinione dei più [44d]. Pur nel chiuso del carcere, arriva – per bocca di Critone – l’eco della polis, dei suoi costumi, delle sue norme e delle sue dóxai 46

Sulla fedeltà di Socrate alla democrazia cfr. G. Vlastos, “The Historical Socrates and Athenian Democracy”, in Id., Socratic Studies, cit., pp. 87-108.

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e Socrate vi conduce un’indagine ‘non-metodica’, ispirato dal demone di cui aveva parlato anche nell’Apologia [54e]. L’opzione platonica è, invece, agíta nel Fedone e consiste nel segregarsi dalla città (e ciò avviene attraverso una risignificazione, rispetto al Critone, dello spazio chiuso della prigione) all’interno di una ‘comunità di ricerca’ sul modello ‘pitagorico’ (ossia come scuola di eletti, di capaci di discorsi sublimi), nella quale si investigano realtà ultime e immutabili (le Idee), e non già vincoli morali discussi a partire dalla contestualità ateniese, e in cui il con-filosofare più che espressione di una tensione pedagogica radicata nel mondo degli uomini è manifestazione di una ricerca escatologica. Critone è eccentrico rispetto a questa ricentratura attuata nel Fedone, che comporta la sostituzione – al centro della cerchia socratica ­– della persona Socrate (del suo potere fascinoso e tras-formativo, del suo eros filosofico-educativo) con il suo mito, del Socrate come io personale con il Socrate interprete di un logos universale. Questo nuovo Socrate, il centro assente della condenda Accademia prefigurata nel circolo ‘pitagorico’ raccolto intorno a lui nel Fedone, quasi irride Critone che si preoccupa degli aspetti pratici della sepoltura, non comprendendo che «l’individualità corporea cessa di esistere nel momento in cui si esteriorizza nel logos», per adoperare la bella dizione di Schaerer47. Su questo slittamento il Socrate ‘fedoneo’ gioca con sapienza quando afferma: «[…] sono proprio io, questo che qui discute [….]». Il testo greco è emblematico: egó eimi oûtos Sokrátes, ho vunì dialegómenos. Socrate risolve la sua individualità nel dialogo – come ci ricorda Hadot nel brano sopra citato – e la dimensione mortale, che è l’unica che sembra interessare a Critone, non gli appartiene come essenziale. Ma c’è un secondo livello del testo, che si perde nella traduzione italiana: Socrate non dice “sono questo che qui 47

R. Schaerer, La question platonicienne, Neuchâtel: Mémoires de l’Université de Neuchâtel, 1938, p. 41, citato in P. Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, cit., p. 67 (tr. it.).

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discute”, ma “questo che ora appunto dialoga”, usa cioè un avverbio di tempo (peraltro nella sua forma rafforzativa) e il verbo ‘dialogare’. Nello spazio di tre parole (ho vunì dialegómenos) Socrate disvela – contestualmente al suo rifiuto di essere identificato con la spoglia mortale – la sua trasformazione in personaggio concettuale: il Socrate che ora appunto dialoga non è già più il Socrate che è lì in una prigione ateniese nel 399 a.C., ma è il Socrate che sempre di nuovo compare come dialogante ora appunto sulla pagina platonica. È quello che rimarrà anche dopo che Critone avrà svolto i servizi funebri, è colui al quale Platone affida – tranne che in un paio di casi – il compito di esporre le sue teorie all’interno di dialoghi, che non sono più condotti nella via per la piazza ma sono divenuti un genere letterario-filosofico, medium per veicolare le dottrine che possono circolare presso un più ampio pubblico (e non quelle che – come attestato dalla VII Lettera – all’improvviso, come una luce che si accende da una scintilla di fuoco, compaiono nell’anima e si nutrono ormai di se stesse). È il Socrate in quanto mito fondante dell’Accademia, per rifarsi all’analisi di Landsberg. Questo è il Socrate che rimane e come egli dice – significativamente prima delle abluzioni precedenti l’assunzione del veleno (116a), figura dei riti di purificazione nell’atmosfera orfico-pitagorica del dialogo – non sarà lui a dover garantire questo suo nuovo statuto di realtà a Critone (che è l’incarnazione dei suoi interlocutori nella sua attività con-filosofante e educativa all’interno della polis) ma coloro ai quali egli passa il testimone, dopo aver con loro dialogato sulle realtà ultime in quell’anticipazione di Accademia che è il circolo formatosi in prigione: «Ora dovete farvi voi garanti presso Critone, e farvi garanti della garanzia contraria a quella che egli fece per me ai giudici: egli garantì che io sarei rimasto qui, e voi gli garantirete, invece che io non rimarrò qui dopo che sarò morto, ma che me ne andrò via […]» [115 d. Corsivi aggiunti].

In queste poche righe, in cui si intrecciano i fili che si è cercato di illustrare (e che sono raccolti intorno ai due poli

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opposti Critone/Socrate cittadino-‘elenchico’, da una parte, e Pitagorici/Socrate accademico-‘metodico’, dall’altra) lo slittamento si è consumato, il superamento del processo è completo: Socrate non è più della città e il suo messaggio – trasfigurato – è passato a quelli che si uniranno in una convivenza e co-esistenza all’interno di una scuola nata dallo scandalo della sua morte, radicalizzando in direzione escatologico-speculativa alcune delle sue dottrine e dando ad esse una curvatura nuova e – soprattutto – una nuova fondazione, non più attentabile dall’ingiustizia mondana perché soggiornante nella dimensione dell’immutabile.

2. L’Accademia come Bund del con-filosofare La digressione sul Fedone e l’interpretazione avanzata di questo dialogo sono servite per studiare non in astratto ma nel vivo dei testi platonici, nella loro trama profonda, il mutamento del tipo di indagine filosofica, del senso del dialogo e dell’idea di formazione che si ha con la fondazione dell’Accademia a partire dalla cerchia socratica. Studiare questo cambiamento permette di fissare con maggiore precisione le caratteristiche della valenza pedagogica del con-filosofare e di esplorare a più ampio raggio le varie forme che una ‘comunità di ricerca filosofica’ può assumere, al fine, poi, di rintracciare la natura socratica e/o platonica della lipmaniana community of inquiry. L’Accademia fu un’istituzione educativa (con un curricolo fondato sulla geometria e l’aritmetica, sorto dalla rivisitazione/innovazione che Platone compì del curricolo educativo della paideia greca tradizionale48) e, come è stato ipotizzato da più studiosi, una sorta di «‘istituto avanzato’, organizzato con l’intenzione di trasformare attivamente e migliorare le esistenti istituzioni sociali e le strutture 48

Cfr. Edward J. Power, “Plato’s Academy: A Halting Step toward Higher Learning”, «History of Education Quarterly», Vol. 4, No. 3, September 1964, pp. 155-166.

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politiche»49, un seminario per formare consiglieri degli uomini di Stato50. Fu, insomma, per riconnettere i diversi fili dell’argomentazione per come si è venuta fin qui sviluppando, lo spazio che Platone creò, in conseguenza della condanna a morte di Socrate, per ristabilire su nuove basi il rapporto fra la polis (e la politica) e la filosofia. Dopo il processo al più sapiente degli Ateniesi era impensabile per Platone proseguire con il modello di Socrate di un’attività pedagogica all’interno della città, di una filosofia “diffusa”, per adoperare una felice espressione di Franco Cambi51, che promuovesse una tras-formazione etica degli individui, che avrebbero dovuto coltivare la cura sui52 per potersi dedicare al meglio alla cura degli affari pubblici, secondo quell’idea di priorità della epiméleia tês psuchês espressa nell’Apologia:

49 A.-H. Chroust, “Plato’s Academy: The First Organized School of Political Science in Antiquity”, «The Review of Politics», Vol. 29, No. 1, January 1967, p. 26. 50 H. Marrou, Histoire de l’Education dans l’Antiquité, Paris: Le Seuil, 1948, pp. 103-104. J. Stenzel, nel suo fondamentale Platon. Der Erzieher [Hamburg: Felix Meiner Verlag, 1961 (ed. orig. 1928)], collega la fondazione dell’Accademia all’avversione di Platone per la situazione politica ateniese e arriva a considerarla una sorta di centro di attività sovversive in senso anti-democratico. 51 F. Cambi, “La filosofia “diffusa” oggi: percorsi e funzioni”, in A. Volpone (a cura di), FilosoFare, cura e orientamento al valore, Napoli: Liguori, 2009, pp. 73-80, ora anche in F. Cambi, La cura di sé come processo formativo, Roma-Bari: Laterza, 2010, pp. 180-189. 52 Sulla cura sui cfr. il fondamentale M. Foucault, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France, 1981-1982, Paris: Gallimard Seuil, 2001 (la discussione su Socrate e la nozione di cura occupano la prima ora della lezione del 6 gennaio 1982 in riferimento alla Apologia e le lezioni fino alla seconda ora del 13 gennaio per un’analisi approfondita dell’Alcibiade). Il tema della cura di sé è al centro del dibattito italiano contemporaneo: cfr. F. Cambi, La cura di sé come processo formativo, cit.; L. Mortari, Avere cura di sé, Milano: Bruno Mondadori, 2009 (la Mortari (p. 9), rispetto alle analisi foucaultiane, preferisce enfatizzare la nozione di cura dell’anima come è presente nell’Apologia); Bruno Rossi, invece, nel suo Avere cura del cuore. L’educazione del sentire (Roma: Carocci, 2006), si focalizza sulla dimensione dell’affettività, con spunti importanti per la riflessione sul lipmaniano caring (cfr. infra cap. III, § 2).

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«Null’altro faccio quando vi capito attorno se non persuadervi, giovani o vecchi che siate, che non del corpo, non delle ricchezze, né di alcuna altra cosa voi dovete curarvi prima dell’anima al fine di renderla la migliore possibile, dicendo: “Non dalle ricchezze nasce la virtù, ma dalla virtù le ricchezze e tutti gli altri beni e per il singolo cittadino e per la comunità”» [30a-b]

A questo approccio Platone sostituì la fondazione di una scuola in cui si preparassero persone che avrebbero potuto impegnarsi nella politica in quanto esperti, che per Platone non significava tanto essere in possesso di nozioni tecniche attinenti la gestione della sfera pubblica quanto di una conoscenza filosofica superiore plasmata – e questa era la seconda grande differenza rispetto al modello socratico – sulle scienze geometriche e matematiche. La tradizione secondo la quale sulla porta dell’Accademia era scritto “Non entri chi non è geometra” rappresenta icasticamente la mutazione cui Platone sottopone il senso del filosofare rispetto al suo maestro. Anzitutto vi è una porta: nell’Accademia si entra, essa è una scuola come cerchia chiusa rispetto ad un esterno, la vita della polis, e configura quindi un modello alieno dalla ‘pedagogia all’aperto’, tipica di Socrate; in secondo luogo, condizione di ammissione a questa scuola è il sapere matematico, quindi la forma più ideale di conoscenza, lontana dalle procedure socratiche che partivano invece dalle credenze, esperienze e mondi di vita degli interlocutori incontrati nella polis. Non ci si può qui addentrare in una ricognizione puntuale di quale si ipotizza fosse l’organizzazione didattica dell’Accademia, perché il focus della presente indagine è un altro: considerare l’Accademia come una comunità di ricerca filosofica, come sede del con-filosofare. La curvatura verso il sapere matematico implica – si è già notato – un allontanamento dal ‘metodo elenchico’ di Socrate, il privilegiamento di un tipo di indagine (quella dialettica) a cui non tutti possono essere ammessi (ma solo le nature filosofiche, e peraltro in età adulta) e che appella una determinata teoria del conoscere (legato alla dottrina

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delle idee e dei Principi, nonché alla nozione dell’apprendere come un ricordare), la quale – pur presentandosi in continuità con il con-filosofare e il co-conoscere socratico – rappresenta una nuova figura dell’attività filosofica. Ma se in Socrate il con-filosofare era l’indagine sul significato delle nozioni correnti nella polis e implicava costitutivamente (salvo tradirsi e divenire eristica o gioco nichilistico) una relazione educativa e il desiderio del perfezionamento dell’interlocutore, che tipo di rapporto sociale è quello che si instaura invece all’interno dell’Accademia, ossia di una scuola mirante – attraverso la promozione della conoscenza matematica e, quindi, della dialettica – a educare una ‘classe’ di filosofi-re? Nel momento in cui la relazione educativa non è più sulla strada per la piazza ma all’interno di un’istituzione, la domanda più pressante è quella sulla natura di tale istituzione. Nel caso di Socrate solo in via metaforica si poteva parlare di una ‘comunità di ricerca filosofica’, vi era sì un appello al con-filosofare (la filosofia è anzitutto ricerca congiunta del senso che educa chi vi è impegnato), ma questo si esercitava all’interno di un’altra comunità, la polis, non in un ambiente distinto. Per quanto critica o, meglio, mirante a diffondere una consapevolezza critica all’interno della polis mediante un’attività pedagogica basata sul metodo dell’élegchos, l’opera di Socrate non costituiva un a-parte rispetto alla città, Socrate non fondava una comunità altra, ma si sentiva legato alla collettività cittadina (come testimoniato dalla grande prosopopea delle Leggi in Critone) e interpretava il suo come un servizio ad essa (come si legge nell’Apologia). Il gruppo di coloro i quali con-filosofavano con Socrate si costituiva, inoltre, di volta in volta, aveva una sua caratteristica labilità, perché non era tenuto assieme da alcuna dottrina né tanto meno da alcun assetto istituzionale. Se, dopo la morte di Socrate, vi poté essere un auto-riconoscimento come ‘cerchia socratica’ fu solo perché il tragico evento della condanna aveva profilato quelli che erano concittadini ateniesi come un gruppo specifico rispetto al resto del corpo cittadino.

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Con Platone si andò oltre il mero momento dell’autoriconoscimento come discepoli di Socrate, vi fu la fondazione di una vera e propria istituzione formativa, in dichiarata differenziazione, per non dire opposizione, con la paideia canonica nella città di Atene. Siffatta istituzione formativa era una vera e propria koinonía di con-filosofanti: ma era una comunità nel senso della tönniesiana Gemeinschaft53? Di fronte alla crisi del sentire comunitario – di cui il processo a Socrate era stato l’emblema – Platone si impegna nell’edificazione di una diversa Gemeinschaft sul fondamento di una diversa nozione di paideia? Platone è il nomoteta di una nuova comunità dopo aver constatato il fallimento del vecchio nomos e della nozione di educazione che vi era legata? Ovvero, di fronte allo sgretolarsi della possibilità stessa di una Gemeinschaft, intesa come totalità organica, e all’emergere di aspirazioni individualiste e societarie (nel senso della tönniesiana Gesellschaft), di cui i sofisti erano stati i portatori, Platone si impegna in un’operazione di retroguardia, re-azionaria in accezione letterale, ossia agisce contro tale dissoluzione e cerca di rinsaldare la vecchia comunità mediante l’educazione di un nuovo ceto dirigente e l’iniezione di una idea diversa di formazione (dalla paideia mitico-omerica a quella dialettica)? Fu, insomma, quella della fondazione dell’Accademia un’operazione di jet grounding – per adoperare un gergo da teoria delle costruzioni – erede solo marginalmente del magistero socratico e piuttosto preoccupata di ricostruire la comunità della polis su basi assolutamente certe e scongiurare l’avvento della società aperta (potremmo chiamare questa seconda la interpretazione popperiana54)? Ambedue queste interpretazioni condividono un presupposto: che l’Accademia platonica, in quanto koinonía di con-filosofanti, comunità di ricerca filosofica, fosse una forma di Gemeinschaft, che, insomma, 53

Per la polis come Gemeinschaft cfr. F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, cit., § 18. 54 Ovviamente si fa riferimento a K. R. Popper, The Open Society and Its Enemies. Volume I: The Spell of Plato, London-New York: Routledge Classics, 2003 [ed. orig. 1945].

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il progetto di Platone – mirante a niente di meno che a una rifondazione della paideia greca e degli assetti politici attraverso un nuovo tipo di educazione rivolto a un ceto eletto – si realizzasse sotto le specie di una comunità nel senso tecnico della espressione. Ma di Gemeinschaft si tratta? La koinonía dei confilosofanti non è piuttosto un Bund, per adoperare una categoria introdotta nel dibattito sociologico tedesco da Herman Schmalenbach55 accanto alla diade tönniesiana di comunità e società? Il Bund è una categoria a forte caratterizzazione pedagogica e si riferisce al legame che tiene insieme un maestro, inteso come guida, e il circolo dei suoi discepoli. Non a caso essa fu una nozione particolarmente cara agli appartenenti alla Jugendbewegung56 e la codificazione schmalenbachiana cade negli anni di massimo rigoglio del movimento. Il Bund è l’associazione «volontaria e elitaria»57 che si costituisce intorno a un leader, di cui si riconosce il carisma, e che rappresenta «l’ultima istanza in ogni questione riguardante il Bund»58. A tale tipo di legame sociale si ascriveva un valore rifondativo rispetto alla frantumazione e alle relazioni meccaniche ed esteriori della democrazia parlamentare59. In questo senso la riflessione sul Bund, la realtà esperita dei vari Bünde della Jugendbewegung e un cambio di paradigma nella 55 H. Schmalenbach, “Die soziologische Kategorie des Bundes”, «Die Dioskuren. Jahrbuch für Geisteswissenschaften», I, 1922, pp. 35-105, tr. it., La categoria sociologica del Bund. Comunità socialità e sodalità, Napoli: Ipermedium libri, 2006. 56 Cfr. P. Schröder, Die Leitbegriffe der deutschen Jugendbewegung in der Weimarer Republik. Eine ideengeschichtliche Studie, Münster: LIT Verlag, 1996, cap. II b). 57 Ivi, p. 50. 58 Ibid. 59 «Si considerava il Bund come una manifestazione e una configurazione organica, non solo per la realizzazione di uno spazio libero a misura di giovani nel quale i giovani potessero sviluppare e vivere le forme a loro proprie e idonee, ma si vedeva nel “principio bündisch” anche un modello di configurazione per lo Stato da ricreare per i tedeschi, per i quali l’‘organizzazione meccanica’ del parlamentarismo era essenzialmente estranea […]» (Ivi, p. 53).

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interpretazione platonica (che divenne più politicizzata e congedantesi dalla lettura dell’umanesimo humdoldtianoschleiermacheriano60) condussero a interpretare l’Accademia platonica come un Bund, raccolto intorno a un fondatore-maestro e destinato a superare le divisioni della polis squassata dalle lotte del regime democratico. Per comprendere a fondo le ragioni per le quali si può parlare – nel caso dell’Accademia platonica – di Bund è opportuno prima riprendere alcuni dei temi finora affrontati, sotto una prospettiva diversa e complementare, a partire dalla ricostruzione che Paul Ludwig Landsberg compie della Essenza e significato dell’Accademia platonica61. Benché egli legga il platonismo come momento della crisi della religiosità greca, e quindi in un’ottica estranea alla presente riflessione, svolge tuttavia alcune considerazioni, commentando le quali (e sottoponendole a una certa pressione e torsione esegetica) sarà possibile acquisire nuovi punti di vista con cui individuare lo specifico della Accademia in quanto istituzione educativa dedita al con-filosofare e così far avanzare l’argomentazione. Il punto di partenza di Landsberg è che la realtà della filosofia è anzitutto nella ‘stirpe’ dei filosofi e nella loro capacità di vedere il mondo (in una accezione apparentata alla visione di essenze della fenomenologia). Ma subito dopo Landsberg aggiunge una doppia notazione, fondamentale per chi riflette sulla natura della comunità di ricerca filosofica: «La seconda realtà della filosofia sono gli allievi dei filosofi, gli appartenenti al loro regno esistente concretamente nello spazio e nel tempo. Questa seconda realtà si propaga nei successori dei filosofi nei secoli seguenti. Gli scritti dei filosofi sono uno dei mezzi per propagare questa seconda realtà, sono 60 Per una più dettagliata ricostruzione di questo cambio di paradigma interpretativo mi permetto di rimandare al mio capitolo in E. Corbi, F. Sirignano, S. Oliverio, L’engagement pedagogico, Napoli: Liguori, 2008, specialmente il paragrafo 2. 61 Questo il titolo del suo volume cui già si sono attinti preziosi spunti di ricerca.

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la perdurante potenza della sua nascita. Essi in sé non sono in alcun modo una realtà della filosofia ma appunto solo carta stampata o scritta. La filosofia è allora reale solo quando è realizzata e insegnata: nel filosofare. […] L’autentico essere vissuto della filosofia viene realizzato nel momento della visione, che è regalata ai filosofi e comunicata agli allievi e ai successori. Platone, l’Accademia e l’ulteriore regno platonico sono siffatte realtà della filosofia. […] Quando abbiamo distinto una prima e una seconda realtà della filosofia, si intendevano con ciò gradi di realtà e livelli nella sequenza effettuale. La realtà del primo livello può sussistere, secondo la sua essenza [Wesen], senza quella di secondo livello, ma questa non senza quella»62.

In tale dispositivo argomentativo la filosofia ha una realtà di primo livello che è in linea di principio autosufficiente e consiste nella visione d’essenza da parte del filosofo, della quale si dice che non ha bisogno di essere comunicata, che può rimanere anche appannaggio del solo pensatore senza nulla perdere del suo valore; e una realtà di secondo livello, quella degli allievi, attraverso i quali la filosofia viene diffusa e – via gli scritti, che sono però solo degli strumenti e non una realtà della filosofia – giunge fino alla posterità. In questa ottica la cerchia dei discepoli funge da ponte fra la filosofia e la sua socializzazione, ossia è una parte della realtà della filosofia (non è quindi un ‘fuori’ del filosofare) che si sporge, però, verso il sociale. La filosofia può non essere un fenomeno sociale, può rimanere una ricerca autonoma del pensatore che intenziona il mondo in visione essenziale (primo livello), può non avere una efficacia sociale ma, se la ha, la possiede mediante la cerchia degli allievi. Ma allora – è questo il rovesciamento che a ben guardare si produce nel gioco della testualità – la cerchia degli allievi è il medio, l’intermediario e, dunque, occupa proprio la posizione socratica di Eros-come-filosofo quale la si è descritta sulla scorta di Hadot! Il momento ‘pedagogico’ della filosofia, 62 P. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., p. 95. Corsivi aggiunti.

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quello in cui essa si realizza attraverso il vivimento del confilosofare all’interno di un contesto educativo e attraverso la dinamica formativa in cui maestro e discepoli partecipano della ricerca filosofica, in cui questa è formazione, paideia, e non mera intuizione di essenze, lungi dall’essere secondario e subordinato, è, secondo quella logica del supplemento che Derrida63 ci ha insegnato a riconoscere, il centro stesso della filosofia non la sua appendice, è il filosofare all’interno della filosofia, ossia ciò in cui essa diviene autenticamente reale. Non esiste autentica filosofia se non all’interno del con-filosofare come relazione educativa. È l’ispessimento metafisico delle paratie divisorie e l’instaurazione di dicotomie, la ricerca della certezza sottratta alle peripezie dell’indagine, è il méthodos come via che conduce a realtà ultime, che solo postula una supplementarità (nell’accezione negativa del termine) del momento ‘pedagogico’, che verrebbe ad aggiungersi a quello della intuizione del pensatore autarchico. Solo allora il con-filosofare, che è sempre e costitutivamente attività di ricerca e relazione educativa, diviene subordinato rispetto alla ‘teoresi’ del filosofo. È una certa “teoria spettatoriale della conoscenza”, come Dewey la chiamava, l’idea cioè che si conosce una realtà preesistente, immutabile e assoluta, che espunge l’idea della consustanzialità di filosofia e con-filosofare e vagheggia la possibilità di un filosofare come mera visione autonoma di un pensatore solitario. Non è questa, ovviamente, la conclusione di Landsberg (se ci si mantiene sul piano della intentio auctoris) ma, esercitando una lettura decostruzionista del suo testo, si ottiene un sovvertimento del suo schema, che è quello classico della filosofia da Platone in poi, modernamente riappropriato mercè il magistero della fenomenologia e che è così strutturato: 1) il filosofo ha una visione d’essenza del mondo; 2) essa viene comunicata ai discepoli; 63 J. Derrida, De la grammatologie, Paris: Les Éditions de Minuit, 1967 (specialmente il cap. 2 della Deuxième Partie).

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3) attraverso gli scritti che si rifanno al momento 2 non solo la filosofia arriva alla posterità ma ha una portata sociale. Riferito all’Accademia, che Landsberg studia, Platone con la sua intuizione del mondo è il momento 1, l’Accademia il momento 2; attraverso gli scritti diffusi nella e attraverso l’Accademia la filosofia platonica acquistò rilevanza sociale (momento 3). Appare uno schema plausibile, in linea tanto con la nozione canonica di filosofia quanto con le esigenze di una solida sociologia della conoscenza. Ma esso è convincente proprio nella misura in cui la visione canonica della filosofia e la sociologia della conoscenza classica condividono uno stesso background metafisico che assegna al momento pedagogico una mera funzione di trasmissione e diffusione del sapere altrimenti attinto (secondo quella logica tipica del paradigma metafisico-retorico descritta da Franco Cambi nel Congegno del discorso pedagogico)64. Ma a scandagliare la trama profonda di questo schema (come ad esempio si è depositata nella tessitura del testo di Landsberg che qui si sta analizzando e che è emblematico di tutta una tradizione) si rinvengono gli indizi della violenza che esso fa alla realtà del filosofare, e della rimozione che opera sulla essenzialità del pedagogico nel suo esercizio, emergono le tracce di ciò che è stato destituito e spostato di livello e, quindi, gli spunti per un modo diverso di stare nel rapporto educazione-filosofia. Nello schema classico, come Landsberg ce lo restituisce, il filosofo non occupa il posto di mezzo, ‘erotico’-mediativo, che dal Simposio in poi è stato il dichiarato ideale del pensatore che indaga e questiona, del filo-sofo, di colui che aspira alla sapienza senza pretendere di possederla; nella sua autarchia egli detiene piuttosto la posizione che nel Simposio era proprio degli dei: egli ha un sapere, è quindi in realtà sapiente, non filo-sofo, perché non ha bisogno di desiderare ciò che già ha. Questo ‘tradi64 F. Cambi, Il congegno del discorso pedagogico, Bologna: CLUEB, 1986.

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mento’, questa appropriazione indebita di un titolo (quello di filo-sofo) è lo scotto che si paga per la ricerca ‘metodica’ della certezza, connessa a una teoria spettatoriale della conoscenza e a una deminutio della essenzialità (per la realtà della filosofia) della relazione educativa coi discepoli. Ma al tempo stesso il testo, nell’assegnare una funzione intermediaria alla cerchia degli allievi, nel collocarli cioè nella posizione di Eros, nel consegnare a loro il compito non solo della sopravvivenza/trasmissione del pensiero del filosofo ma della sua perdurante ri-nascita in essi (della possibilità permanente di partorire nel bello), riconosce – contro la superficie metafisica delle dichiarazioni esplicite – che il filosofare accade nella relazione educativa maestrodiscepoli65 (sempre rinnovabile e costantemente rinnovata nel medio degli scritti)66, che solo nel “regno concretamente 65 «La filosofia è allora reale solo quando è realizzata e insegnata: nel filosofare», scrive – si ricordi – Landsberg. 66 Non è questa la sede per affrontare in maniera dettagliata il ruolo dello scritto nella tradizione del filosofare. Bastino solo pochi accenni rimandando ad altra occasione una ripresa più approfondita della tematica. Anzitutto è da notare come Landsberg leghi lo scritto non tanto alla prima realtà della filosofia (la visione di essenza del filosofo) quanto piuttosto alla seconda (al filosofare con i discepoli). Si tratta di un’ulteriore conferma del ruolo cruciale che il momento del con-filosofare riveste: senza di esso non c’è alcuna tradizione filosofica. In linea di principio non basta che il filosofo pensi e poi scriva i suoi pensieri per i posteri perché vi sia un tramandamento del suo pensiero. Affinché esso accada, vi è sempre bisogno della mediazione ‘erotica’ del con-filosofare coi suoi allievi. È questo ciò che gli scritti custodiscono e di cui permettono la perdurante ri-nascita. Che è come dire che solo in tale relazione pensatore-discepoli la filosofia si realizza. Un punto, questo, che offre un punto di vista particolare a partire dal quale leggere ciò che accade nelle sessioni di P4C. Infatti, in esse si inizia con la lettura di un brano di un racconto del curricolo, che funge da pre-testo dell’attività di ricerca congiunta che si sviluppa nella community of inquiry. In questo caso il con-filosofare si radica in testi scritti che veicolano, sia pure nella forma del racconto, una intera tradizione, dato il modo peculiare in cui Lipman li ha elaborati. Ciò significa forse che abbiamo una dinamica diversa da quella qui proposta decostruendo il testo di Landsberg? Il con-filosofare è forse ‘successivo’, ‘supplementare’ alla tradizione filosofica, che viene elaborata da un pensatore (Lipman) nella sua autonomia? Oppure, ancora una volta secondo la logica del ‘supplemento’, non si devono ribaltare le posizioni? Non è forse vero che Lipman si appropria della tradizione

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esistente nello spazio e nel tempo” della loro educante dinamica con-filosofante si attua la filosofia come eros, solo in essa dimora Eros-filosofo. Il che equivale a dire che la filosofia esiste solo nella comunità di ricerca di coloro che con-filosofano e che con-filosofando si co-educano. Ma è stato questo il modello dell’Accademia platonica? L’idea dell’Accademia platonica, come archetipo di ogni comunità di ricerca (anche poi dell’accademia modernamente intesa), ha conservato questa impostazione ‘socratico-simposiale’, ha riconosciuto cioè la centralità del momento pedagogico? La domanda più che da un punto di vista storiografico interessa da uno ‘ideal-tipico’. Dal punto di vista storico si può asserire che a differenza che nelle comunità pitagoriche non vigeva nell’Accademia l’ethos dell’autòs épha, dell’ipse filosofica proprio nell’orizzonte del con-filosofare? Se è vero che, come è stato sempre notato dalla critica, i racconti di Lipman funzionano come pre-testi per una ricerca filosofica congiunta proprio nella misura in cui essi presentano siffatta ricerca (condotta dai personaggi), non si tratta forse di una conferma che il con-filosofare è il medio, l’intermediario attraverso cui la tradizione filosofica si realizza? Nell’interpretare il ruolo dello scritto, vi è un secondo aspetto da prendere in considerazione: Lands­berg, nel parlare delle pagine scritte o stampate, come di “mezzi per propagare tale seconda realtà”, usa l’espressione la perdurante potenza della sua nascita. Che cosa implica tale dizione? In primo luogo, che la dinamica della nascita, che – come si è visto – è propria della filo-sofia, appartiene alla realtà del con-filosofare coi discepoli e non alla visione solitaria del pensatore. Ma, in secondo luogo, una radicalizzazione, che sovverte i rapporti fra con-filosofare e scrittura, è suggerita dalla formulazione di Landsberg: non è forse lo scritto non solo un mezzo di propagazione ma la stessa condizione perché un con-filosofare nasca? Lungi dall’essere uno strumento subordinato, un tramite accessorio, esteriore, lo scritto in quanto potenza della nascita della seconda realtà (del con-filosofare) è ciò senza cui il con-filosofare sarebbe abortito e – nel contempo – sterile, improduttivo? Al cuore della filosofia vi sarebbe, allora, né la visione del filosofo né la relazione educativa con-filosofante con gli allievi, ma lo spazio della scrittura in cui esse accadano? Il confilosofare sarebbe solo la ripetizione/ripresa (per adoperare un lessico heideggeriano) dell’apertura operata dalla scrittura? Indagare queste tematiche richiederebbe un confronto serrato con l’opera di Derrida e, dato il taglio della discussione qui condotta, anzitutto con La pharmacie de Platon (ora in J. Derrida, La dissémination, Paris: Éditions du Seuil, 1972). Cfr. sulla rilevanza pedagogica di queste tematiche, A. Mariani, La decostruzione e il discorso pedagogico. Saggio su Derrida, Pisa: ETS, 2000.

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dixit, che l’investigazione audace e le discussioni erano incoraggiate, che il dialogo con gli allievi era costante e produceva quella scintilla del conoscere autentico di cui si parla nella Lettera VII. Nel contempo, però, proprio il testo della Lettera VII (341b-341c) ha una sua pericolosa ambiguità, che pare indicare nella direzione di una nozione del filosofare distante da quella che si sta cercando di enucleare. Nelle pagine precedenti si sono enfatizzate le idee di sunousía (coesistenza) e suzên (convivenza), presenti nel testo platonico, leggendole, sulla scorta di una suggestione di Alessandro Volpone, sullo sfondo del passo aristotelico sulla koinonía di coloro che con-filosofano. Una torsione esegetica di cui si è cercato nel prosieguo di esibire le credenziali ermeneutiche e le giustificazioni teoretiche. Il testo, nella sua letteralità, sembra tuttavia indicare ben altra direzione interpretativa, più in linea con lo schema ‘metafisico’ che si è testé presentato: la comunanza di vita è con il solo oggetto della ricerca, è solitaria, la scintilla della conoscenza scocca all’improvviso en tê psuchê, nell’anima del singolo pensatore nella misura in cui si è de-individualizzata e ha attinto una posizione assoluta, e da allora “si nutre da se stessa” (autò heautò éde tréphei). Il filosofo è al fine autofago, dunque: la metafora nutritiva e l’insistenza sulla sfera semantica dell’autós, del medesimo, dichiarano in maniera icastica la sua completa autosufficienza e quindi il suo sottrarsi alla relazione educativa e con-filosofante, perché questa conoscenza «non è enunciabile in nessun modo come gli altri insegnamenti» (rhet[è] gàr oudamôs estin hos álla mathémata). Il filosofo è nel luogo degli dei – l’anima, si rammenti, è di natura divina – e non desidera ma ha, non tende bensì dimora nel possesso. A questo filosofo il problema della relazione educativa si pone solo nella forma della comunicazione (il verbo rhéo ricorre per due volte nel giro di pochi righi) e della possibilità di trasmettere mediante lo scritto67. Rifacendosi allo schema 67 Nell’insistere sul fatto che non c’era né mai ci sarebbe stato un suo scritto sulle tematiche superiori delle sue indagini (Lettera VII 341c)

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di Landsberg, così come lo si è ricostruito, il momento 2) viene schiacciato su 3) e – de facto – espunto dalla sua comunanza con 1). Il che significa, in altre parole, che una volta accolto l’approccio ‘metafisico’ per cui la filosofia è anzitutto evento all’interno dell’anima del pensatore, in commercio con le realtà ultime, il momento pedagogico, lungi dall’essere una realtà della filosofia, come pur Lands­ berg vorrebbe, diviene solo una circostanza sociologica, per quanto di alto valore. Si è già visto, però, come nella stessa trama profonda del testo di Landsberg emergesse la denuncia dell’impossibilità che la filosofia, come tensione al vero, come filo-sofia, esistesse fuori del filosofare agíto con i discepoli, nel quale costantemente si rinnova il con-generare nel bello: la filosofia è, quindi, anzitutto pratica educativa di promozione della umanità dei soggetti. Inoltre, dato che il momento pedagogico è intermediario (nell’accezione forte, ‘simposiale’) fra la conoscenza teoretica e la società, riconoscere la consustanzialità del con-filosofare educante all’impresa Platone usa un’interessante parola: súggramma. Senza approfondire le ragioni di questa scelta lessicale si vuole qui suggerirne, per accenni, una possibile lettura decostruttiva: il termine unisce la nozione di scrittura –gramma e il prefisso sun- (con). Nel momento in cui sta per introdurre l’idea che la conoscenza delle più alte realtà scocca come una fiamma nella psiche del pensatore che ha avuto una lunga dimistichezza (sunousía) con esse, e in cui quindi offre un’immagine della filosofia secondo lo schema che si è qui definito ‘metafisico’, la testualità platonica condanna contestualmente, mediante l’uso di un solo lessema, la scrittura e la dimensione plurale del con-filosofare: alla somma conoscenza si accede intenzionando da soli l’oggetto del conoscere. Ma, a contrario, non è forse questo un indizio che la possibilità del con-filosofare è dischiusa dallo spazio della scrittura, secondo quella pista ermeneutica affacciata nella nota precedente? Il sun- del sunphilosopheîn è forse un ‘effetto’ di scrittura? Il con-filosofare in quanto intermediario ‘erotico’ è già sempre sulle tracce della scrittura? È per questo che le pagine scritte o stampate di cui parla Landsberg sono la perdurante potenza della nascita della seconda realtà del filosofare? Nella dimensione dello scritto ‘si gioca’ quella del con-? E che cosa comporterebbe per le pratiche formative e educative riconoscere questo diverso regime fra oralità e scrittura al centro del con-filosofare in quanto imprescindibile momento pedagogico del filosofare? Questa pista interpretativa non può rimanere qui che allo stato di domanda.

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teoretica implica anche riscattare il riferimento alla società dal suo ruolo marginale e rendere quindi l’intervento nella società un aspetto costitutivo della filosofia. Essa è quindi, anche, sempre e essenzialmente pratica educativa di trasformazione ed emancipazione sociale: una conclusione deweyana-lipmaniana68, che rompe lo schema ‘metafisico’, ‘landsberghiano’, in cui filosofia teoretica e sociologia della conoscenza si integrano attraverso la mediazione educativa intesa come mera cinghia di trasmissione. Convivono nell’Accademia come ideal-tipo di comunità di ricerca (come anche in quella storicamente esistente) due istanze, che si riverberano nelle due possibili interpretazioni che si sono qui offerte del passo della Lettera VII: una più squisitamente socratica, che riconosce la centralità intermediaria del con-filosofare, e una platonico-‘metodica’ che invece inaugura la grande avventura del progetto matematico-metafisico. Anche nella seconda istanza il legato socratico non è completamente abbandonato, ma – come si è cercato di argomentare – è sottoposto a ri-orientamenti, risignificazioni di cui la testualità platonica porta le tracce. L’Accademia era una istituzione essenzialmente pedagogica, non tanto per i ‘corsi’ e gli insegnamenti che venivano colà dispensati quanto perché al suo centro vi era un progetto squisitamente educativo qual è quello di cambiare l’uomo, di tras-formarlo: «In questa cerchia più ristretta si deve pensare che si sia concentrato il nucleo autenticamente serio della sua [di Platone] attività. Rispetto ad esso erano poco presi in considerazione gli effetti che la sua fama e i suoi scritti avevano lontano e ciò che era comunicato in conferenze e simposi a più ampie cerchie. Ogni grande pedagogo non vuole comunicare a questo o quello qualcosa che li possa interessare; egli vuole uomini integrali in corpo e anima. Il baricentro del suo agire risiedeva qui, dove Platone aveva la possibilità di formare 68 Cfr. M. Striano, “Philosophical Inquiry as a Practice for Social Development”, «Childhood and Philosophy», VI, 11, 2010, pp. 55-66. Sullo stesso tema cfr. anche A. Cosentino, Filosofia come pratica sociale. Comunità di ricerca, formazione, cura di sé, Milano: Apogeo, 2008.

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un piccolo numero di giovani nobili, secondo l’immagine del filosofo che era dinanzi al suo spirito»69.

L’Accademia era un Bund e non una comunità né una società perché «[i] ‘membri’ della comunità sono originariamente uniti strettamente l’uno all’altro, le ‘parti’ della società sono originariamente distinte le une dalle altre. Anche i compagni di un Bund non hanno al principio niente a che fare l’uno con l’altro. Il Bund ‘nasce’ solo quando si incontrano (anche nel caso in cui dovesse essere già presente una comunità), le ‘esperienze vissute’ che lo ‘fondano’ sono eventi ‘individuali’. Se qui il Bund appare più vicino alla ‘società’, una volta realiz­zatosi si avvicina di più alla comunità. L’amico è ‘l’altro io’. […] Certo non si può parlare di ‘adesione organica’, ma è legittimo dire ‘fusione’, il che è forse ancora più intenso. Certo vi è a diversissimi livelli, e tuttavia a tutti i livelli – e in linea di principio – la ‘separazione’ vera e propria è pienamente eliminata»70.

Il Bund è quindi una formazione sociale terza rispetto a comunità e società, che né è pre-esistente agli individui come la comunità, la quale è – tönniesianamente – fondata sui legami di sangue o sulle tradizioni e abitudini, né si limita a legare gli individui mediante rapporti ‘formalicontrattuali’. Il Bund sorge intorno a figure carismatiche (o a un ‘oggetto’ amato, quale può essere un dio, un eroe, un ideale) che ne costituiscono il centro e il collante e attraverso le quali si instaura un legame che appare a chi vi è coinvolto inscindibile e originario come quello di una comunità (è qui che ha la sua radice il tema platonico della suggeneía). In realtà il Bund nasce per insoddisfazione per la scontatezza e l’oppressività dei vincoli comunitari che non sono scelti, ma in cui i singoli si ritrovano: ci si unisce a un Bund abbandonando la famiglia (l’archetipo 69 P. L. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., p. 78. 70 H. Schmalenbach, “Die soziologische Kategorie des Bundes”, cit., p. 72, tr. it. cit., pp. 98-99 (con modifiche).

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di ogni Gemeinschaft) o, nel caso dell’Accademia, la polis come totalità organica. E però si conserva un rapporto ambivalente con la comunità originaria: si ritiene, infatti, che il fondatore del Bund non sia un transfuga della comunità ma colui il quale, con il potere della sua visione profetica, sonda gli abissi della comunità, sceverando ciò che è autentico e ciò che è inautentico nel suo patrimonio di tradizioni e rifondandola quindi su nuove basi71. I membri di un Bund si riconoscono in colui il quale diviene la loro guida e lo affiancano nel suo progetto di rigenerazione. Nel caso di un Bund pedagogico quale l’Accademia siffatto progetto si radica in una rivoluzione nella paideia mirante – in ultima istanza – a ricostruire la vita della polis attraverso l’educazione di una nuova stirpe di uomini. Nella transizione che la civiltà greca stava esperendo alla fine del V secolo, nella quale i legami organicisticocomunitari si allentavano e emergevano istanze individualistico-societarie due furono le risposte: quella sofistica, societaria [gesellschaftlich], in cui al dissolversi delle abitudini di pensiero e delle certezze comunitarie, di un orizzonte di valori condiviso, si rispose con un’enfasi sulla conoscenza come negoziazione (convenzione) fra individui, per la quale i singoli dovevano dunque essere preparati e educati mediante l’insegnamento delle tecniche della retorica (che i sofisti si facessero pagare le loro lezioni è un altro versante della natura societaria della loro impresa); quella platonica, bündisch, che intendeva riproporre – ma su nuove basi – i valori antichi, frenando i processi di disgregazione societaria attraverso la formazione di una nuova élite. Il Bund platonico assolveva a questa funzione e lo faceva con un’idiosincratica riappropriazione della controversa eredità di Socrate. Nella crisi della civiltà greca del V secolo, la posizione socratica è quella meno catalogabile: da una parte – 71

Ciò è opera del Tatwille (della volontà attiva) del fondatore, della guida: cfr. W. Brobeil, Die Kategorie des Bundes im System der Soziologie, Frankfurt a.M.: Dissertationsdruckerei F. W. Kalbfleisch, 1936, § 14.

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come attestato dalla prosopopea del Critone – conservava il senso dell’importanza dell’appartenenza comunitaria; dall’altra la sua valorizzazione della cura dell’anima del singolo, la sua enfasi su come la coerenza con se stessi fosse più importante del rispetto di consuetudini e norme, l’insistenza sull’importanza dell’esame della vita al posto della mera conformazione a regole pre-esistenti, ne facevano anche il campione di un approccio attento ai diritti dell’individuo e lo esponevano quindi al rischio di essere confuso coi sofisti, secondo l’immortale rappresentazione aristofanea. Il difficile e instabile equilibrio che Socrate proponeva con la sua paideia coniugante istanze comunitarie e diritti dell’individuo, riconoscimento della necessità di relazioni faccia-a-faccia e di appartenenza da un lato e, dall’altro, promozione della indagine personale e della analisi sulle credenze del corpo sociale e politico, lo hanno reso un modello per tutti i progetti educativi (compreso, lo si vedrà, quello deweyano e lipmaniano). Socrate si colloca in una posizione terza fra l’ethos comunitario e quello societario, ma la sua terzietà non è quella del Bund. Benché ispirato da come la personalità magnetica e perturbante di Socrate avesse raccolto attorno a sé una cerchia di discepoli, tenuti insieme anzitutto dall’esempio del maestro, il Bund platonico è una creazione autonoma72, istitutiva di un nuovo modello, la cui influenza 72

Nello studiare il Bund bisogna distinguere fra la fase del ‘movimento’ e quella della ‘istituzione’. Brobeil avverte: «Evidentemente possiamo concepire il ‘movimento’ bündisch come il modello originario [Urbild] del Bund, mentre l’istituzione bündisch come la sua immagine derivata [Abbild]. Infatti nell’adesione a un movimento si formano in modo pienamente spontaneo i tipici fenomeni sociali del Bund. Nascono da sé, in maniera inintenzionale, senza che si debba ipotizzare l’influsso di un qualsivoglia modello esemplare [Vorbild]. La libera adesione è la figura originaria del Bund. Le istituzioni educative ed elitarie all’interno di un corpo sociale organizzato per ceti sono al contrario figure ‘derivate’. Il loro modello esemplare [Vorbild] è in qualche modo l’adesione spontanea; ciononostante sono formazioni artificiali che sono state ‘istituite’ con uno scopo e un’intenzione. Il loro scopo è: utilizzare per il corpo sociale complessivo la forza del vincolo sociale del Bund. Dal punto di vista tipologico e storico, allora, il Bund come istituzione presuppone il

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attraversa i secoli, passando per l’Accademia ficiniana e giungendo fino alla tradizione della Bildung: «La Accademia platonica derivante dalla cerchia amicale socratica è perciò il modello originario [Urbild] di ogni discepolato del tipo Bund [bündischen Schülerschaften], che nel corso della storia dello spirito sempre si riforma attorno alla personalità carismatica di un maestro. Anche l’università tedesca è, quanto alla sua idea, concepita secondo il modo del Bund, come emerge chiaramente dagli scritti programmatici di Fichte e Wilhelm von Humboldt. Col loro principio della libertà di insegnamento e apprendimento si intende fra le altre cose proprio la possibilità di siffatto discepolato liberamente scelto»73.

Il maestro, nel Bund platonico, non è (e in questo il legato socratico è ancora vivo) «l’impiegato di un regolare istituto scolastico in cui tutte le nuove generazioni debbono passare. Egli insegna in virtù di un compito che è suo proprio. Raccoglie attorno a sé una cerchia di allievi che gli si associano liberamente; solo sulla base della forza di persuasione della sua dottrina e della impressione affascinante che la sua personalità esercita sugli allievi. Essi si appropriano non solo della sua ‘Weltanschau­ ung’, ma egli è per loro anche un esempio nella condotta personale di vita: egli diventa educatore, guida spirituale. Così si aspira in comune alla “verità” – meno nel senso di un Bund come movimento» (ivi, p. 28). Si potrebbe forse vedere nel fatto che vi fossero seguaci di Socrate un Bund allo stato nascente che Platone si è poi limitato a ‘istituzionalizzare’. In realtà, benché è certamente vero che il carisma di Socrate avesse attivato una dinamica del tipo Bund, essa però si profilò propriamente – come si è già detto sopra – solo al momento del processo e della condanna a morte, quando coloro che avevano seguito Socrate si avvidero di essere un gruppo differente rispetto alla polis: solo allora si ‘coagulò’ una vera e propria cerchia socratica. È al momento del processo che si delinea, quindi, un vero e proprio movimento bündisch ‘socratico’, non tanto nell’attività di Socrate sulla strada per la piazza. Di questo movimento bündisch ‘socratico’, coincidente col processo, l’Accademia sarà la istituzionalizzazione. 73 Ivi, p. 20. Per una ricostruzione completa e teoreticamente intensa del modello della Bildung cfr. M. Gennari, Storia della Bildung. Formazione dell’uomo e storia della cultura in Germania e nella Mitteleuropa, Brescia: La Scuola, 1995.

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‘sapere’ intellettualmente trasmissibile che nel senso di una ‘sapienza di vita’ che ognuno si deve appropriare in maniera personale»74.

E però, mentre Socrate come maestro insegna sulla strada per la piazza e incontra individui all’interno della comunità della polis, perseguendo così, mediante la sua attività pedagogica, un rinnovamento che passa attraverso un nuovo bilanciamento fra l’autonomia individuale e l’appartenenza alla comunità, nell’isolamento dell’Accademia, invece, accanto e intrecciato al fine meta-politico cui si è già accennato (rigenerazione dello Stato attraverso l’educazione di un ceto di ‘esperti’, nel senso platonico del termine, e la conseguente instaurazione di una sorta di sofocrazia come l’ha chiamata Popper), pare esservi un secondo obiettivo, di natura escatologica, che conferma la natura bündisch della istituzione platonica. Infatti, come ha scritto Schmalenbach, «sembra che i Bünde, presi molto seriamente, abbiano un’affinità con il Religioso»75. Friedrich Nietzsche, che possedeva una sorta di ‘orecchio assoluto’ per gli strati profondi della civiltà greca – spesso non avvertiti da forme semplicistiche di umanesimo – nel momento in cui riconosceva che «[c]on Platone comincia qualcosa d’affatto nuovo»76 e che un nuovo tipo di pensatori, da lui definiti «ibridi» vede con lui la luce77, ha questa notazione, barbagliante di suggestioni interpretative: «Ma cosa molto più importante è che costoro [i.e. i pensatori ibridi post-socratici, a iniziare da Platone] sono fondatori di sette e che le sette da essi fondate furono tutte organismi contestatori della civiltà ellenica e della sua sino ad allora 74

W. Brobeil, Die Kategorie des Bundes im System der Soziologie, cit., p. 18. 75 H. Schmalenbach, “Die soziologische Kategorie des Bundes”, cit., pp. 43-44, tr. it. cit., p. 73. 76 F. Nietzsche, Die Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, in Id., Werke in drei Bänden, München: Carl Hanser, 1982, vol. 3, tr. it., La filosofia nell’età tragica dei Greci, Roma: Newton Compton Editori, 1988, p. 40. 77 Ibidem (tr. it.).

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esistente unità di stile. Alla loro maniera essi cercano una redenzione, ma solo per i singoli o tutt’al più per gruppi vicini di amici e discepoli. L’attività dei filosofi più antichi si volge, ad onta della loro inconsapevolezza, ad un risanamento e ad una purificazione in blocco; il corso possente della civiltà [Kultur] greca non deve arrestarsi, terribili pericoli devono essere sgombrati dalla sua strada, il filosofo protegge e difende il suo luogo natale. Ora, a cominciare da Platone, egli è in esilio e complotta contro la sua patria»78.

L’Accademia platonica sarebbe, quindi, un Bund in quanto setta che si segrega, va in esilio rispetto alla sua comunità originaria e si rende spazio per la salvezza individuale del singolo. La comunità di ricerca filosofica da forma dell’agire pedagogico trascolorerebbe in associazione quasi-religiosa con fini di purificazione e redenzione. La filosofia, più che pratica formativa che promuove l’umanità dell’individuo e l’emancipazione della società, sarebbe una forma di sapere salvifico. Il mutamento rispetto a Socrate sarebbe considerevole e il mito finale del Fedone (107e115a), dialogo che qui si è interpretato come il diagramma dello spostamento dalla cerchia socratica al Bund platonico, parrebbe esserne una conferma. Su questo versante della realtà accademica fa leva anche Landsberg, alle cui analisi ci si è spesso richiamati. Egli arriva a vedere l’efficacia sociale della filosofia esclusivamente nel suo operare per la redenzione dell’uomo e a distinguere fra forme autonome di filosofia – il cui emblema è quella platonica – che sorgono nelle fasi di dissoluzione della religione popolare e si offrono come via di salvezza, e forme eteronome (il cui massimo rappresentante è Agostino) che invece si appoggiano su una religione rivelata79. La ricerca filosofica diviene percorso di salvezza e per questo se ne enfatizza al massimo grado l’indipendenza dalle scienze empiriche80. Nel congegno argomentativo di 78

Ivi, pp. 40-41 (tr. it.). P. L. Landsberg, Wesen und Bedeutung der Platonischen Akademie, cit., p. 96. 80 Ivi, pp. 99-100. 79

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Landsberg, che pone sì l’accento sul valore formativo del filosofare (sia Socrate sia Platone sono da lui riconosciuti come campioni di pedagogia nella misura in cui ogni autentica pedagogia implica un progetto di tras-formazione dell’uomo, di rinnovamento totale per via educativa) ma lo àncora in ultima istanza a un’idea soteriologica, sembra essere in azione una interpretazione della tripartizione dei fini del sapere secondo Max Scheler. Questi distingueva un sapere della formazione [Bildungswissen], che serve «al divenire e al dispiegamento della persona»; un sapere della redenzione [Erlösungswissen] che è un sapere in vista della divinità e serve «al divenire del mondo e (forse) del suo supremo esser-così ed esserci»; e, infine, un sapere del dominio e della operatività [Herrschafts- und Leistungswissen] che serve al divenire «del dominio [Beherrschung] pratico e trasformazione del mondo»81. Landsberg interpreta lo scopo del filosofare come sganciato dall’ultima forma di sapere, quella delle scienze positive, e connesso ad un inveramento della dimensione formativa in quella redentiva. È il sapere della redenzione che rappresenta, in Landsberg come in Scheler, il vertice della gerarchia della conoscenza, sicché anche la filosofia, in quanto impresa educativo-formativa, è tappa di un percorso di redenzione. Ma che figura del filosofare si avrebbe se si facessero fino in fondo i conti con l’età del disincanto e si assumesse in pieno, nelle parole di Franco Cambi, «la finitezza e la progettualità dell’umano experiri e della costruzione stessa della humanitas, la sua radicale temporalità»82? Se, di conseguenza, l’Erlösungswissen fosse ricondotto al Bildungswissen e questo fosse l’architrave di ogni sapere, anche di quello Herrschafts- und Leistungswissen che in esso troverebbe la sua piena realizzazione, fuori di ogni

81

M. Scheler, Erkenntnis und Arbeit, in Id., Die Wissensformen und die Gesellschaft, Scheler-Ausgabe vol. 8, Bern-München: Francke Verlag, 1980, p. 205. 82 F. Cambi, Abitare il disincanto. Una pedagogia per il postmoderno, Torino: UTET, 2006, p. 10.

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prometeismo tecnocratico? Che ne sarebbe allora della dinamica ‘erotica’ del con-filosofare in cui maestro e allievo sono impegnati in una congiunta ricerca di significato che è, insieme, il modo in cui l’allievo, attraverso il maestro, persegue il suo perfezionamento? Che rapporto vi sarebbe allora tra la sfera del sociale (sacrificata, come s’è visto nello schema ‘metafisico’ landsberghiano) e la filosofia? La risposta è nell’articolo V del credo pedagogico deweyano: «[L’]insegnante è impegnato non solo nell’educazione degli individui, ma nella formazione della giusta vita sociale […] in tal modo l’insegnante è sempre il profeta del Dio vero e l’annunciatore del vero regno di Dio»83. Nell’ottica deweyana si compie la riconduzione dell’Erlösungswissen al Bildungswissen e il con-filosofare viene valorizzato, come si vedrà nel prossimo capitolo, come pratica educativa mirante alla promozione del soggetto e alla emancipazione della società. Passare attraverso Dewey e la sua peculiare

83

J. Dewey, My Pedagogical Creed, in Id., The Early Works, 1882-1898, vol. 5 (1895-1898), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1972, p. 95, tr. it. Il mio credo pedagogico, in J. Dewey, Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, a cura di L. Borghi, Firenze: La Nuova Italia, 1954, p. 29. Un paio di osservazioni sono importanti per meglio chiarire il testo deweyano: 1) nell’originale non si parla di “educazione degli individui” ma di training of individuals, il che nella trama testuale in cui lo si oppone alla formation of the proper social life attiva importanti valenze di senso: una pratica educativa degli individui che sia sganciata da una vocazione sociale, ossia dalla promozione della società in quanto comunità democratica, si riduce a mero addestramento. Dewey non sta semplicemente dicendo che l’autentica educazione degli individui non è una mera pratica di training ma, più radicalmente, sta asserendo che qualsiasi pratica educativa – anche quelle apparentemente non addestrative, ma nobilmente animate da ispirazioni alte, di formazione dello ‘spirito’, della mente – si riducono a training se si recide il legame organico con la formazione della società in quanto comunità democratica; 2) nell’originale non si parla dell’insegnante come ‘annunciatore’ ma si usa il termine “usherer”, ossia “colui che introduce”: l’insegnante non si limita ad ‘annunciare’ il regno di Dio ma lo introduce nel mondo, se attua un progetto educativo che lega la formazione dell’individuo e quello della società. In questo senso l’educazione non è una promessa di salvezza, ma la (unica?) salvezza in atto. Qui è la mossa deweyana par excellence: l’autentico Erlösungswissen è il Bildungswissen.

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curvatura del legato socratico e della impostazione platonica significa, dunque, attingere un ulteriore livello per comprendere quale possa essere il significato della comunità di ricerca filosofica come dispositivo pedagogico nell’epoca del disincanto.

CAPITOLO II La comunità di ricerca come progetto politico-educativo in John Dewey 1. Il misreading deweyano di Platone: la community of inquiry come spazio della educazione democratica In From Absolutism to Experimentalism, che è una sorta di “contributo alla critica di me stesso”, Dewey subito dopo aver riconosciuto il perdurante significato che lo studio di Hegel ha avuto nel suo itinerario formativo, precisa che è però Platone colui «che ancora mi procura la mia lettura filosofica preferita. Infatti, sono incapace di trovare in lui quel sistema onnicomprensivo e assoluto che le interpretazioni posteriori gli hanno, mi sembra, attribuito come dubbio merito. Gli antichi scettici si servirono troppo di un altro aspetto del pensiero di Platone, quando lo trattarono come il loro padre spirituale, ma erano più vicini alla verità, penso, di coloro i quali lo costringono all’interno della cornice di una dottrina rigidamente sistematizzata. Benché io non abbia quella avversione al sistema in quanto tale che a volte mi viene attribuita, sono dubbioso della mia abilità a raggiungere una unità sistematica inclusiva e di conseguenza, forse, sono dubbioso di quel fatto anche circa i miei contemporanei. Niente potrebbe essere più utile per il filosofare presente di un movimento di “ritorno a Platone”; ma dovrebbe essere un ritorno al Platone dei Dialoghi, drammatico, inquieto, cooperativamente indagante, che tenta un modo di approccio dopo un altro per vedere che risultati possa produrre; ritorno al Platone i cui voli più elevati di metafisica terminavano sempre con una svolta sociale e pratica, e non il Platone artificiale costruito da commentatori privi di immaginazione che lo trattano come il professore universitario originario»1.

1 J. Dewey, “From Absolutism to Experimentalism”, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 5 (1929-1930), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, pp. 154-155. Corsivi aggiunti.

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È interessante la scelta lessicale di Dewey nel descrivere l’ottica con la quale accosta Platone: gli interessa non il Platone ‘accademico’ (qui sornionamente etichettato come prototipo del professore universitario) né quello sistematico-metafisico (che, stante la ricostruzione che si è fatta nel paragrafo precedente, coincide col primo) bensì quello cooperativamente indagante, che è interessato a sviluppare e a mettere in scena sulla pagina una ricerca congiunta di significato, un’indagine a più voci, che esplori un campo a partire da una polifonia di punti di vista, e non già una meditazione solitaria in contatto con l’Assoluto. È un Platone radicalmente dialogico, ‘scettico’ (ricordando che sképsis in greco è originariamente riflessione, esame dei logoi), un Platone ‘socratico’, per adoperare la distinzione messa a punto sopra. Siffatto Platone non volatilizza le questioni della sfera pratico-politica in ascese metafisiche, non toglie cioè il loro carattere aperto, sperimentale, calato nella praxis, mediante un’assolutizzazione de-contestualizzante e in-temporalizzante, bensì, al contrario, riconduce anche quelle questioni che potrebbero prestarsi ad un trattamento metafisico alla loro valenza pratico-sociale. Quello deweyano è quindi un Platone ‘anti-fedoneo’, che persegue più un Bildungswissen che un Erlösungswissen, una conoscenza che formando gli individui dia forma alla vera e propria vita sociale piuttosto che un sapere mirante alla redenzione dell’anima del singolo. Ma che cosa intende Dewey per “formazione degli individui”? E perché la connette a quella della “giusta vita sociale”? Che cosa significa l’espressione “giusta vita sociale”? Rispondere a queste domande equivale ad installarsi al cuore della nozione di comunità di ricerca come dispositivo pedagogico in Dewey. Si può dire, con una formulazione stentorea che il prosieguo dell’argomentazione dovrà incaricarsi di sostanziare concettualmente, che la comunità di ricerca come dispositivo educativo è la risposta a queste domande, ossia è la condizione di possibilità perché l’Articolo V del Credo Pedagogico non rimanga una semplice

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professione di fede ma diventi progettualità emancipativa per l’individuo e la società. Per istradarsi su questa pista di indagine mette conto prendere le mosse dal confronto che Dewey ha sviluppato, nel corso della sua opera, con il progetto platonico e in particolare con la Repubblica, ossia con il testo che raccorda e intreccia strettamente riflessione politica ed elaborazione pedagogica, un binomio al centro anche del dispositivo teorico deweyano. Il riferimento alla Repubblica compare lungo tutto l’arco della sua opera e in particolare in tre luoghi chiave, distribuiti negli Early, Middle e Later Works. Nel suo primo grande saggio dedicato alla democrazia, The Ethics of Democracy (1888), in cui, sia pure con il linguaggio idealista degli inizi, Dewey presenta alcune delle proprie più durature convinzioni su tale forma di vita, il riferimento a Platone gioca un duplice ruolo: dapprima serve a puntellare una nozione di democrazia che contrasti la mera interpretazione numerica di essa e, in secondo luogo, funziona come contraltare che permette di profilare meglio i caratteri del sistema di vita democratico. Senza entrare in un’analisi più dettagliata di questo epocale articolo2 ci si concentrerà solo su questi due aspetti. La concezione numerica della democrazia è quella che la vede come governo della maggioranza e presuppone l’idea della società come agglomerato di individui, atomisticamente intesi, che si uniscono ‘contrattualisticamente’. In siffatta cornice teorica, la democrazia è la più fragile e inconcludente delle forme politiche perché incapace di esprimere una volontà unitaria del corpo sociale. A tale impianto atomistico-individualista Dewey oppone una visione organica della società, ma dà una curvatura peculiare al modo di intendere la nozione di ‘organismo’ rispetto alle coeve elaborazioni tedesche. Mentre in esse l’organicismo enfatizzava il dissolvimento dei singoli nella totalità, di 2 Cfr. su di esso R. Westbrook, John Dewey and American Democracy, Ithaca and London: Cornell University Press, 1991, pp. 38-42.

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cui erano solo membri, e non dava loro alcun ruolo attivo e autonomo (esattamente come le membra di un corpo non hanno alcuna vita propria), Dewey, invece, nota che autentico organismo si ha solo quando l’intera vita si manifesta in ciascun singolo appartenente al tutto. In questo senso, vero organismo si ha solo per quel che riguarda la società – non quindi per gli agglomerati naturali – e per la società democratica in modo eminente: «L’organismo si manifesta come ciò che è veramente, un ideale della vita ideale o spirituale, un’unità del volere. Se, allora, la società e l’individuo sono realmente organici l’uno all’altra, allora l’individuo è la società concentrata. Non ne è meramente l’immagine o lo specchio. È la manifestazione localizzata della sua vita […] Nella concezione almeno, la democrazia si avvicina di più all’ideale di ogni organizzazione sociale; quella nella quale l’individuo e la società sono organici l’uno all’altra. Per questa ragione la democrazia, nella misura in cui è realmente democrazia, è il più stabile e non il più instabile dei governi. In ogni altra forma di governo vi sono individui che non sono organi della volontà comune, che sono fuori della società politica nella quale vivono e sono, in effetti, alieni a quello che dovrebbe essere la loro comunità [commonwealth]. Non partecipando alla formazione o espressione della volontà comune, essi non la incarnano in se stessi. Non avendo parte nella società, la società non ne ha in loro»3.

La democrazia è quindi la forma sociale più avanzata perché ambisce a non lasciare nessuno al di fuori del consorzio politico e, quindi, in essa si realizza al massimo grado il rapporto organico fra individuo e collettività. Nel regime democratico non si spalanca quel fossato fra governanti e governati che piaga gli altri tipi di organizzazione sociale e attenta alla loro tenuta, facendoli oscillare fra fasi di stagnazione (quando una parte della collettività regge a lungo le redini del tutto) a periodi di equilibrio instabile (quando 3

J. Dewey, The Ethics of Democracy, in Id., The Early Works, 18821898, vol. 1 (1882-1888), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1969, p. 237.

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si succedono repentini cambi di potere). In considerazione della sua unità non fratturata e non incrinata da divisioni intestine, «ciò che Platone diceva del suo stato ideale, noi possiamo dire con più grande verità della democrazia»4. Il modello platonico, che è la quintessenza dell’ideale aristocratico, e la democrazia in quanto ideale etico e non mero sistema politico, condividono ad avviso di Dewey lo stesso obiettivo, che è quello di realizzare la piena armonia fra l’individuo e l’insieme delle sue relazioni spirituali: ciò implica che il singolo sia collocato all’interno del consorzio civile nella posizione in cui meglio possa estrinsecare il suo potenziale. Ma vi è una differenza di mezzi: «L’idea aristocratica implica che la massa degli uomini debba essere inserita dalla saggezza o, se necessario, conficcata con la forza nelle loro giuste posizioni nell’organismo sociale […] La democrazia differisce quanto ai suoi mezzi. Questo universale, questa legge, questa unità di proposito, questo adempimento della funzione in devozione agli interessi dell’organismo sociale, non deve essere collocata nell’uomo dall’esterno. Deve iniziare nell’uomo stesso, per quanto grande sia il contributo del buono e del saggio della società. La responsabilità personale, l’iniziativa individuale, queste sono le note della democrazia. […] In una parola, la democrazia significa che la personalità è la realtà prima e ultima. Essa ammette che il pieno significato della personalità possa essere appreso dall’individuo solo se esso gli è già presente in forma obiettiva nella società; essa ammette che gli stimoli principali e gli incoraggiamenti alla realizzazione della personalità vengono dalla società; ma si attiene, nondimeno, al fatto che la personalità non possa essere procurata per qualcuno, per quanto abietto e debole, da qualcun altro, per quanto saggio e forte. Essa ritiene che lo spirito di personalità dimori in ogni individuo e che la scelta di svilupparlo deve procedere dall’individuo»5.

La responsabilità personale e l’iniziativa individuale sono l’alfa e l’omega del modo di vita democratico e ciò che

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Ivi, p. 239. Ivi, pp. 243-244.

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lo rendono «l’ideale etico unico e ultimo dell’umanità»6. Con responsabilità personale e iniziativa individuale Dewey, un secolo dopo Kant, si riferisce a ciò che il filosofo di Königs­ berg chiamava Mündigkeit, ossia la facoltà «di servirsi del proprio intelletto senza direzione di un altro»7. Il raffronto con la posizione kantiana permette di delineare meglio il proprium della impostazione deweyana. Anche in Kant vi è un prolungato certame – con nette differenziazioni unite a sottese affinità – con l’idea platonica dei filosofi re. Uno dei luoghi di tale confronto è Per la pace perpetua dove da una parte si afferma chiaramente «che i re filosofino o i filosofi diventino re non è da aspettarsi ma neanche da desiderare; perché il possesso della forza corrompe inevitabilmente il libero giudizio della ragione»8 e, dall’altra, si dichiara «che però i re o i popoli regali (che si governano da se stessi secondo leggi di uguaglianza) non debbano far scomparire o ammutolire i filosofi, ma lasciarli parlare apertamente, è per entrambi indispensabile come rischiaramento del proprio negozio»9. Siffatta impostazione ha fatto parlare di una democratizzazione del potere dei filosofi re10. Infatti regali non sono i filosofi ma i popoli, ma questi lo sono nella misura in cui offrono ai primi la possibilità di parlare pubblicamente. I filosofi non debbono, nel dispositivo kantiano, operare direttamente nell’agone politico (dominato dagli interessi individuali e dalle passioni private) ma non ne sono avulsi: essi sono impegna6

Ivi, p. 248. I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, in Id., Werke, vol. VI (Schriften zur Anthropologie, Geschichtsphilosophie, Politik und Pädagogik), Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1998, p. 53. 8 I. Kant, Zum ewigen Frieden, in Id., Werke, vol. VI (Schriften zur Anthropologie, Geschichtsphilosophie, Politik und Pädagogik), cit., p. 298 (si tratta dello Zweiter Zusatz intitolato Geheimer Artikel zum ewigen Frieden). 9 Ibid. 10 O. Höffe, “Vier Kapitel einer Wirkungsgeschichte der Politeia”, in Id. (hrsg.), Platon. Politeia, Berlin: Akademie Verlag, 2005, pp. 348-354. A questo bel saggio sono state attinte alcune delle idee presentate nel prosieguo, anche se sono state curvate in direzioni rispondenti agli interessi della presente ricerca. 7

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ti nella chiarificazione e giustificazione dei principi della prassi, pur dovendo lasciare ai politici la loro realizzazione. Questa distinzione ‘democratizzante’ rispetto all’impianto platonico ha la sua matrice ultima nel fatto che per Kant i filosofi non sono un’aristocrazia in possesso di speciali facoltà ma dei funzionari – per adoperare una espressione husserliana – che attraverso una formazione specifica esercitano al meglio quella «ragione umana universale, nel quale ognuno ha la sua voce»11. Avere la propria voce (la Mündigkeit!) equivale a poter prendere la parola su una scena pubblica, di cui quindi deve essere garantita la libertà e apertura. Anzi la libertà stessa è nella sua forma meno nociva l’uso pubblico della ragione. Il dispositivo kantiano salda quindi in unità tre nozioni: l’idea di una ragione umana che appartiene a tutti e non solo ad una particolare classe; l’idea della Mündigkeit, che è – a stare all’etimologia del termine tedesco – il nonessere-infante, il non accettare la condizione «comoda»12 di infante, di colui che non parla autonomamente e che è guidato da altri (o da «disposizioni e formule»13) nell’esercizio del giudizio; l’idea di una sfera pubblica in cui deve essere garantito questo esercizio della parola autonoma, in cui possa trovare espressione la capacità di “avere voce”, propria dell’uomo come essere di ragione. Questi sono gli assi della kantiana opera di democratizzazione di Platone, di cui però egli continua a condividere due principi importanti: anzitutto quello già indicato per cui ai filosofi viene riconosciuta la funzione di dare consigli per la prassi politica14, che è il corrispondente della platonica euboulía, anche se – differentemente dal modello dei filosofi-re – viene esplicitamente negata l’opportunità del 11 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Id., Werke, vol. II, Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1998, p. 640 (Methodenlehre, Des ersten Hauptstücks zweiter Abschnitt). 12 I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, cit., p. 53. 13 Ivi, p. 54. 14 I. Kant, Der Streit der Fakultäten, in Id., Werke, vol. VI (Schriften zur Anthropologie, Geschichtsphilosophie, Politik und Pädagogik), cit., I, Vierter Abschnitt.

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loro ingresso diretto nella pratica degli affari pubblici; in secondo luogo, la concezione secondo la quale ciò per cui i filosofi sono competenti a prendere parola nel dibattito pubblico è la ragion pratica non quella teorica. Come ha osservato un interprete di Kant, citando il ruolo dell’idea di bene in Platone, «Kant è concorde con Platone sul fatto che la morale – in quanto determinata come ragione pura – deve dominare gli affari pubblici. Per questo motivo i “popoli regali” si caratterizzano non per un livello straordinariamente alto di cultura e istruzione ma per il riconoscimento del principio giuridico-morale, quello dell’autodominio secondo le leggi dell’eguaglianza»15.

Vi è un ultimo assunto che, sia pure in maniera più sotterranea e obliqua, Kant condivide con Platone e che interessa particolarmente nell’orizzonte della presente discussione orientata ad una disamina delle fonti dell’approccio lipmaniano di Philosophy for Children: benché, come detto, Kant riconosca l’uso della ragione ad ognuno e rigetti così l’ottica aristocratica di Platone, tuttavia anche in lui si perpetua una grande rimozione, quella della dignità epistemica dei bambini. L’uso del termine Unmündigkeit – letteralmente in-fanzia – per definire l’incapacità di esercitare rettamente la ragione non rivela forse un sospetto di Kant nei confronti delle facoltà di pensiero dei bambini? Non risponde a uno schema classico (che nel Novecento troverà la sua codificazione in Piaget), per cui non si possono attribui­ re ai bambini vere abilità di pensiero e, per questo motivo, è legittimo nel loro caso ammettere uno stato di minorità e il bisogno di tutela16? E – più radicalmente – ogni progetto 15 O. Höffe, “Vier Kapitel einer Wirkungsgeschichte der Politeia”, cit., p. 353. 16 La lingua tedesca è particolarmente felice perché la parola per minorità (Unmündigkeit) e quella per tutela (Bevormundung) hanno la medesima radice in Mund, bocca, e si collegano quindi allo stesso campo semantico del latino infantia. Il tutore (Vormünder nella pagina iniziale del saggio di Kant sull’illuminismo) è colui il quale prende la parola al posto di chi non può farlo, è colui – per seguire il Kant della prima

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di democratizzazione non si infrange proprio sullo scoglio di questa estromissione dell’infanzia dalla possibilità di avere voce e dalla dichiarazione che, almeno per i suoi stadi iniziali, l’educazione non può che essere direttiva, in attesa che il bambino sviluppi le sue facoltà cognitive e di pensiero? E, per converso, una compiuta democratizzazione non passa proprio attraverso la rottura di questo schema evolutivo classico e per il connesso ripensamento del legame fra educazione al pensiero e democrazia?17 Questa batteria di domande introducono nel cuore del congegno deweyano nella misura in cui, in esso, la democratizzazione dell’approccio platonico va ben oltre la prospettiva kantiana, rimuovendo quegli elementi che rischiano di prestare il fianco ad una sopravvivenza dell’aristocraticismo e di rendere così incompleto l’appello alla democrazia. Prima di continuare nell’argomentazione conviene raccogliere le fila del percorso finora svolto e delineare il disegno delle successive tappe. Ciò che ci si è posti come obiettivo è di mostrare in che senso la comunità di ricerca è, in Dewey, la risposta alla questione dell’articolazione – postulata dall’Articolo 5 del Mio credo pedagogico – fra formazione dell’individuo e formazione della giusta vita sociale. A tal fine la strada che si è intrapresa è stata quella di investigare la lettura che Dewey compie di Platone e in particolare della Repubblica, un testo la discussione del quale compare in tre punti nodali della sua ricca produzione: nel lungo intervento su The Ethics of Democracy del 1888, nella summa di Democracy and Education del 1916 e nel suo testo più politologico, The Public and Its Problems del 1927. Nel saggio ricompreso Critica – che ha voce nella ragione umana universale anche per chi non ne ha, ossia – ad esempio – il bambino, l’infante per eccellenza. 17 Su queste tematiche cfr. W. O. Kohan, “Questioni filosofico-politiche nella filosofia con i bambini”, in M. Santi (a cura di), Philosophy for Children: un curricolo per imparare a pensare, Napoli: Liguori, 2006, pp. 181-193; W. O. Kohan, Infanzia e filosofia, Perugia: Morlacchi Editore, 2006.

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negli Early Works, la democrazia è presentata come una realizzazione più autentica dell’ideale dello Stato platonico, perché è una forma sociale che possiede l’unità organica di quello ma senza l’impostazione aristocratica che conculca la personalità umana (ossia l’autonomia e la capacità di iniziativa) e divide gli uomini fra governanti e governati (così peraltro attentando alla ricercata unità). Anche Kant compie una lettura ‘democratizzante’ della Repubblica e della dottrina dei filosofi-re e in questo suggerisce l’opportunità di un parallelo con Dewey. Ma Kant è ancora legato ad alcuni presupposti di Platone, che gli impediscono una reale radicalizzazione democratizzante del lascito platonico, e ciò è connesso ad una impostazione pedagogica che non riconosce pienamente la dignità epistemica e le abilità di pensiero dei bambini ovvero, per meglio identificare la crux della questione, questo mancato riconoscimento è la spia più evidente di un più generale limite che inficia la proposta kantiana e che è connesso – tale l’ipotesi che qui si avanza – ad un non compiuto riconoscimento del nesso di democrazia e educazione. L’argomentazione seguirà quindi la seguente traiettoria: dapprima l’esplorazione dei limiti del kantismo, così come sono stati segnalati da Dewey, e di come essi impediscano di uscire davvero dalla cornice platonica (in un senso lato dell’espressione); in secondo luogo, una ‘verifica’ di siffatta ricognizione sulla scorta di una interrogazione sui modi in cui Dewey ha definito la sfera pubblica, proprio in contrasto con l’idea di filosofi-re; e, infine, il recupero del nesso democrazia-educazione al pensiero come perno del superamento di ogni democratizzazione esitante e parziale, al fine di esplicitare invece il pieno significato della democrazia come forma di vita in cui individuo e società giungono alla piena armonia. Tale significato si sostanzierà nella interpretazione della comunità democratica come comunità di ricerca in cui centrale è il ruolo dell’educazione, la quale – questo il passo finale – è in Dewey filosofare in atto.

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La polemica antikantiana di Dewey, ricorrente nel corso della sua riflessione epistemologica18, acquista una rilevanza politico-culturale nel volume German Philosophy and Politics (1917). Kant è letto da Dewey come colui il quale ha codificato nella maniera più chiara la distinzione di due regni, quello esterno degli eventi naturali e quello interiore della coscienza: «Il contributo decisivo di Kant è l’idea di una doppia legislazione della ragione per mezzo della quale sono demarcati due distinti regni – quello della scienza e quello della morale. Ciascuno di questi due regni ha la sua propria costituzione finale e autorevole: da un lato, c’è il mondo del senso, il mondo dei fenomeni nello spazio e nel tempo nel quale la scienza è a casa; dall’altro, è il mondo sovrasensibile, noumenico, il mondo del dovere morale e della libertà morale»19.

Alla sfida della scienza moderna, che appella una ricostruzione dei modi di intendere la conoscenza e il trattamento delle questioni pratico-morali all’insegna di un’ottica sperimentalista, e che mette quindi in crisi l’idea stessa di valori eterni e metafisici, Kant risponde con una mossa epocale, la quale consente di conservare l’efficacia delle conquiste della scienza (che però si esercitano solo sul dominio dei fenomeni) senza attaccare i privilegi delle antiche dottrine morali di venerata memoria. Invece di estendere anche alle questioni etico-sociali l’abito sperimentale della scienza, come Dewey invoca per portare all’esistenza il vero moderno20, Kant disegna due diversi ordini del ‘reale’ retti 18 Per Dewey Kant è il massimo rappresentante dell’epistemologismo della filosofia moderna e, come tale, uno dei principali obiettivi polemici della sua critica alla fabbrica dell’epistemologia. Su questo aspetto – gnoseologico – della questione dell’antikantismo deweyano sia permesso rimandare, per approfondimenti, a S. Oliverio, Esperienza percettiva e formazione, Milano: Franco Angeli, 2008, cap. 3. 19 J. Dewey, German Philosophy and Politics, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 8 (1915), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1979, p. 147. 20 J. Dewey, “Introduction to 1948 reprint of Reconstruction in Philosophy”, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 12 (1920), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1982, p. 273.

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da due differenti legislazioni e così realizza la coabitazione di conoscenza scientifica e morale senza intaccare le tradizionali impostazioni in materia etica (fondate sulla dottrina dell’apriori e sulla nozione di imperativi immutabili). Il grande tema deweyano – quello di raccordare, mediante l’attività critica della filosofia21, vecchie credenze, fondate su forme di vita superate, e nuove credenze emergenti da sempre cangianti transazioni coi contesti – ha avuto in Kant una risposta all’insegna di una differente nozione di critica: questa diviene l’attività di delimitazione di sfere diverse e in sé conchiuse, che preservano – ciascuna nel proprio ambito – il vecchio e il nuovo, senza cercarne alcuna articolazione. In questa maniera, per riprendere il vocabolario scheleriano introdotto nel precedente capitolo, la scienza viene ridotta a Herrschaftswissen, a sapere che permette solo di dominare la natura e non ha alcun valore umanamente emancipativo, e ad essa viene opposto il Bildungswissen (il sapere della formazione della personalità interiore, noumenica, estranea alle vicissitudini del sé naturale, e quindi assolutamente prescindente dalla necessità di fare i conti con la naturalità umana e con la storicità dei contesti), culminante in ultima istanza in un Erlösungs­ wissen, un sapere della redenzione (che in Kant ha una curvatura diversa da quella di Scheler ma conserva una tonalità trans-naturale nella nozione di santità in quanto piena adeguazione della volontà alla legge morale). Questo dualismo, che disinnesca di fatto la rivoluzione scientifica, perché confina i suoi effetti alla sola sfera fenomenica e ne esclude la dimensione di formazione e trasfor­mazione degli individui e della società, comporta una antropologia duale e una peculiare lettura della nozione di personalità, che – come si è visto – è strategica al modo in cui Dewey interpreta la democrazia:

21 Cfr. specialmente J. Dewey, Experience and Nature, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 1 (1925), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1981, cap. 10, tr. it., Esperienza e natura, Milano: Mursia, 1990.

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«Da un lato, l’individuo è homo phenomenon – una parte dello schema della natura, governato dalle sue leggi quanto una pietra o una piñata. Ma in virtù della sua cittadinanza nel regno delle Leggi e dei Fini sovrasensibili, è elevato alla vera universalità. Non è più un mero accadimento: è una persona – uno in cui è incarnato lo scopo della Umanità»22.

L’uomo è libero solo in quanto persona, come ente di natura è soggetto alla causalità. Ne consegue che «la libertà è un assoluto straniero nel mondo naturale e sensibile, il possesso che l’uomo ha della libertà morale è il segno finale e il sigillo della sua appartenenza [membership] ad un mondo sovrasensibile. L’esistenza di un regno ideale e spirituale con le sue proprie leggi è così confermata dal fatto della cittadinanza dell’uomo al suo interno»23.

La parabola speculativa deweyana, dall’assolutismo allo sperimentalismo, può essere letta come uno sforzo costante di mantenere fissi alcuni dei tratti salienti dello stemma democratico così come erano stati stabiliti in The Ethics of Democracy, evitando però che l’attaccamento all’approccio idealista mettesse a repentaglio proprio il riconoscimento della democrazia come «il solo e ultimo ideale etico dell’umanità»24. In questo senso il destino della filosofia kantiana era di ammonimento: un pensiero, che sicuramente aveva in sé delle aspirazioni ‘democratiche’ rischiava di approdare ad esiti conservatori a causa dell’impianto idealista che culminava nella distinzione di due regni. È lo stesso Dewey che lo riconosce e proprio in riferimento allo scritto kantiano sull’illuminismo in cui si discute della Mündigkeit degli uomini: «Il saggio in questione è quello intitolato “Che cos’è l’illuminismo?”. La sua risposta in sostanza è che esso è il raggiungimento della maggiore età da parte dell’umanità: la transizione da uno stato di minorità o infanzia nel quale l’uomo non

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J. Dewey, German Philosophy and Politics, cit., p. 161. Ivi, p. 150. J. Dewey, The Ethics of Democracy, cit., p. 248.

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osa pensare liberamente a quel periodo della maggiore età o maturità nel quale l’umanità osa adoperare il suo potere di comprensione. La crescita di questo potere di libero uso della ragione è la sola speranza di progresso negli affari umani. Le rivoluzioni esterne, che non sono la espressione naturale di una rivoluzione interiore o intellettuale sono di poco significato. L’autentica crescita si trova nella lenta crescita della scienza e della filosofia e nella graduale diffusione alla grande massa delle scoperte e delle conclusioni di quelli che sono superiori in intelligenza. La vera libertà è la libertà interiore, la libertà del pensiero insieme con la libertà conseguente a quella di insegnare e pubblicare. […] In contrasto con questo regno della libertà interiore sta quello della azione politica e civile, il cui principio è l’obbedienza o subordinazione alla autorità costituita»25.

Nel momento in cui la personalità si intende come un principio metafisico e si declina la libertà come possesso di un ‘cittadino’ del regno noumenico, il rischio è che si abbandoni il campo politico alle dinamiche del potere. In siffatta ottica idealistica, le libertà si incontrano in mere comunità spirituali o di pensiero e non in forme sociali reali. Siffatte comunità spirituali hanno a loro volta in comune fini ‘metafisici’ e non l’operatività congiunta in un mondo-da-trasformare. Mentre per il Dewey che si accomiata dai suoi inizi idealisti diverrà sempre più chiaro che la libertà, in quanto capacità di dare origine a nuovi corsi di eventi, è da intendersi come «un volere resoluto che opera in un mondo sotto alcuni aspetti indeterminato, perché

25 J. Dewey, German Philosophy and Politics, cit., pp. 156-157. Nel medesimo passo Dewey riconosce che «[t]uttavia faremmo un’ingiustizia a Kant se inferissimo che si aspettasse che questo dualismo di sfere dell’azione, con la sua duplice legge morale di libertà e obbedienza, sarebbe durato per sempre. Mediante l’esercizio della libertà di pensiero, e mediante la sua pubblicizzazione e l’educazione, che dovrebbero far sì che i suoi risultati permeino tutto lo stato, le abitudini di una nazione saranno alla fine elevate alla razionalità e la diffusione della ragione renderà possibile per il governo trattare gli uomini non come ingranaggi in una macchina ma in accordo con la dignità di creature razionali». Ciò non toglie che il pericolo di lasciar convivere libertà spirituale e autoritarismo politico fosse iscritto nel dispositivo kantiano.

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aperto e in movimento verso un nuovo futuro»26, Kant ne aveva fatto qualcosa di «dato antecedentemente, qualcosa di già posseduto»27, un attributo dell’uomo in quanto appartenente a un reame noumenico. La democrazia, per Dewey, si realizza nell’idea di una comunità di personalità impegnate nella continua ricostruzione del mondo, nel dar vita al futuro lavorando sulle zone indeterminate dell’esistenza, quelle che, costituendo problema, attivano processi di indagine. La democrazia non può essere una forma di vita aperta al futuro se presuppone un ordine di scopi già dato, pre-definito, cui conformarsi. Essa è l’esito etico ultimo dell’umanità nella misura in cui l’iniziativa individuale – si leggeva in The Ethics of Democracy – trova in essa la piena fioritura, in armonia con il divenire della società: ma essa non può realizzarsi se si permane nella logica ‘metafisica’ ed essenzialista del ‘già-dato’, dell’apriori, di ciò che non è suscettibile di refutazione empirica perché affonda le sue radici in regioni al di là dell’esperienza. Che iniziativa individuale può esserci al di fuori di una prospettiva fallibilista e sperimentalista? Che capacità di dar corso a nuovi itinerari d’azione, se l’azione valida è quella che si conforma a norme già stabilite e conoscibili in virtù della sola ragione? Come può esistere democrazia come forma di vita autocorrettiva, se si prescinde dal carattere costantemente (auto)ricostruttivo dell’esperienza umana e si postula, invece, un assetto normativo dato für ewig? Nel suo congedo dai suoi inizi idealistici Dewey, pur conservando il pathos di The Ethics of Democracy, dovette riconoscere che l’idealismo non era la cornice più adeguata per un pensiero della democrazia come orizzonte dell’umanità moderna, ossia dell’umanità che avesse fatto davvero i conti con la scienza moderna. In questo senso la distinzione rispetto all’approccio kantiano diventa emblematica di come le aspirazioni democratiche (che, come si è visto, 26 J. Dewey, “Philosophies of Freedom”, in Id., The Later Works, 19251953, vol. 3 (1927-1928), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, p. 114. 27 Ivi, p. 108.

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Kant faceva valere nella sua lettura di Platone) dovevano rimanere inadeguate nella misura in cui Kant continuava, come sopra si è accennato, a conservare alcuni dei principi platonici. Leggere la comunità democratica come community of inquiry implica, invece, un loro abbandono. Anzitutto, esige che non vi sia un sapere della morale separato dal sapere scientifico. Tale differenziazione, infatti, propaga fin dentro la modernità le pretese assolutiste delle vecchie credenze. Anche in materia di etica e di prassi politica è doveroso ricorrere al metodo dell’indagine, che è esplorativo, sperimentale e ricostruttivo, pena il permanere nell’orizzonte di convinzioni, valori e dogmi che appartengono a un’epoca passata dell’umanità e che continuano ad esercitare il loro influsso solo per una loro indebita santificazione sociale (funzionale alla conservazione dello status quo) attraverso il rimando ad una presunta Ragione pura transtorica. Questo rimando opera in modo paradossale ed eterogenetico rispetto ai fini: se, infatti, da un lato riferirsi alla Ragione, per di più intesa kantianamente come propria di tutti gli uomini, intende emancipare l’umanità dalla minorità, dall’altro, però, rischia di fungere da dispositivo per ribadire la dipendenza da credenze passate a causa della scissione della Ragione, in quanto facoltà degli apriori, dall’esperienza e dalle sue emergenze. Un pagina da The Quest for Certainty (1929) è rivelativa e merita di essere citata per esteso: «Non dobbiamo perciò rifuggire dai godimenti di cui avemmo esperienza in passato, e dalla loro memoria, quanto piuttosto dall’opinione che essi siano gli arbitri di cose di ulteriore godimento. Oggi l’unico arbitro valido è il passato, per quanto vi siano diverse maniere di interpretare ciò che costituisce autorità nel passato. Nominalmente, la concezione che ha avuto più peso è senza dubbio quella di una rivelazione avuta un’unica volta o di una vita perfetta vissuta una volta sola. Riporre fiducia in ciò che è anteriore, in istituzioni create nel passato, specie nel campo giuridico, in norme morali che ci sono giunte soltanto in forza del costume e dell’abitudine, senza il minimo controllo, nella tradizione non toccata dalla

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critica, è una forma di dipendenza. Non si suppone neppure per un istante che ci si possa allontanare dalla tradizione o dalle istituzioni già stabilite. Se si rompe con esse, ne deriverà indubbiamente il caos. Ma non vi è il minimo pericolo di una tale frattura; il genere umano è troppo conservatore sia per costituzione sia per educazione perché ci si possa prospettare l’idea di una simile eventualità. Ciò che invece dobbiamo seriamente temere è che la forza di nuove condizioni produrrà esternamente e automaticamente uno sfacelo; questo è sempre un pericolo. E le possibilità che esso avvenga sono accresciute anziché diminuite proprio da questo conservatorismo che riafferma la piena adeguatezza dei vecchi modelli ad affrontare condizioni nuove. Ciò di cui c’è bisogno è una disamina intelligente delle conseguenze che vengono concretamente provocate dalle condizioni e dai costumi tradizionali, in maniera che ci sia una considerazione intelligente dei modi in cui essi vanno sottoposti ad una modifica intenzionale, perché se ne generino conseguenze differenti. Questo è il significato più importante della traduzione del metodo sperimentale dal campo specifico dell’esperienza fisica a quello più vasto della vita umana»28.

In questo passo emerge una caratteristica fondamentale dell’impostazione deweyana e di come essa si sforzi di realizzare il vero moderno29: mentre, infatti, la modernità cartesiano-razionalista, rinnovando (ossia riprendendo e innovando) il gesto platonico, separava teoria e prassi e da una parte postulava la rifondazione ab imis fundamentis del campo teorico e dall’altra lasciava intatto quello etico (si pensi al Discours de la Méthode30), la procedura deweyana rompe questo schema. Infatti, per un verso non insegue il sogno di una riedificazione totale della conoscenza, che parta da una tabula rasa e si proponga di dedurre da principi ultimi con28

J. Dewey, The Quest for Certainty, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 4 (1929), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, pp. 217-218, tr. it., La ricerca della certezza, Firenze: La Nuova Italia, 1966, pp. 281-282. Corsivi aggiunti. 29 J. Dewey, “Introduction to 1948 reprint of Reconstruction in Philosophy”, cit., p. 273. 30 Per una discussione di questo aspetto del legato cartesiano mi permetto di rinviare al cap. I di S. Oliverio, Pedagogia e visual education. La Vienna di Otto Neurath, Milano: Unicopli, 2006.

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seguenze inattaccabili: l’inquiry si innesca su dubbi specifici che cerca di rimuovere, avanzando ipotesi di ricostruzione della situazione problematica che, una volta verificate nella loro produttività, metteranno capo a nuove situazioni in cui nuovi problemi potranno emergere riavviando il processo dell’indagine. Ma proprio siffatto modo di intendere l’impresa teorica non la distingue da quella pratica: in ambedue i casi l’esigenza che non si piombi nel caos non deve ingessare lo sforzo investigativo ma piuttosto operare in modo che la ricostruzione (delle credenze etiche e di quelle teoriche) avvenga in modo regolato e sperimentale. L’idea ‘platonico-kantiana’ secondo la quale i filosofi si affacciano sulla scena pubblica in virtù di un sapere etico distinto da quello della scienza, quindi, ripropone divisioni e paratie da superare. Per la democrazia in quanto forma di vita in cui, nella memorabile definizione di Democracy and Education, vi è una continua condivisione delle esperienze e della loro incessante ricostruzione, ciò che è importante non è che vi sia un ceto specialistico di filosofi in possesso di determinate nozioni etiche, ovvero impegnati nella elaborazione di principi che altri poi dovranno mettere in pratica (in base al secondo summenzionato ‘principio’ di matrice platonico-kantiana), ma che siano diffuse, presso tutti gli appartenenti alla comunità, le abilità di pensiero critico necessarie a una ricostruzione intenzionale delle esperienze, che tutti agiscano cioè secondo un consapevole metodo dell’indagine. In che modo questa esigenza postuli l’intrinsichezza dell’educazione alla forma di vita democratica e perché in questo modo si realizzi veramente l’armonia organica di formazione degli individui e formazione della società sarà investigato in seguito: ciò che per ora interessa è ribadire che si dà democrazia quando vi è una comunità impegnata nello sforzo di affrontare le questioni emergenti secondo il metodo dell’intelligenza critico e sperimentale (e quindi distinto dal Metodo nell’accezione razionalista del termine), non con appelli a saperi pre-definiti e a valori ultimi, e che tale sforzo deve coinvolgere tutti i membri del consorzio civile e non solo una casta di specialisti.

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In questo senso è rivelativo il luogo in cui il Dewey dei Later Works ritorna a confrontarsi con la Repubblica platonica, ossia nel volume The Public and Its Problems (1927) in cui fa i conti con la tematica del pubblico e con le visioni liberal-elitiste alla Walter Lippman. Come ha notato finemente un attento studioso del Dewey filosofo morale e politico, James Gouinlock, «[c’]è un senso nel quale The Public and Its Problems e non Logic: The Theory of Inquiry è il culmine dello strumentalismo di Dewey. Il secondo libro, certo, sistematizza la logica funzionale; ma The Public and Its Problems è una proposta per la realizzazione effettiva di una condotta intelligente nella vita pratica. È anzi una ricostruzione della teoria politica – particolarmente di quella democratica. Mentre Dewey stesso è forse il più grande critico del concetto illuministico di ragione, non dispera però della vita politica intelligente, nella misura in cui la natura della intelligenza è correttamente intesa»31.

Nell’ottica che si sta qui cercando di elaborare si potrebbe così ritradurre questa notazione: fino a quando si resta imprigionati in una visione della Ragione di stampo in ultima istanza metafisico (che la consideri cioè un facoltà a-storica e un attributo dell’uomo singolo cittadino del regno noumenico) ogni sforzo di democratizzazione, quale quello intrapreso dall’Illuminismo e dal suo maggiore esponente, Kant, rimane imperfetto, perché si offre il campo alla riproposizione di antichi dualismi teorici accompagnati dai loro correlati sociali. Una Ragione come facoltà dei principi separata dalla pratica (si ricordi che Kant delegava ai politici la loro traduzione in prassi), quand’anche si consideri – kantianamente – l’esercizio di essa come universale (proprio cioè di tutti gli uomini), apre il varco all’idea che vi sia un settore del consorzio sociale deputato alla ricognizione e formulazione di detti principi e di altri ‘ceti’ impegnati nella 31

J. Gouinlock, “Introduction” a J. Dewey, The Later Works, 1925-1953, vol. 2 (1925-1927), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, pp. xxiii-xxiv.

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loro attuazione. Ovvero offre il fondamento teorico ultimo alla critica che Walter Lippman fece negli anni ’20 del XX secolo alla nozione di pubblico, contestando che i cittadini potessero davvero avere voce – per riprendere l’espressione kantiana – nelle questioni attinenti la comunità, perché privi delle conoscenze e competenze necessarie alla gestione degli affari pubblici. In questo senso Lippman distingueva fra agents e bystanders32, fra coloro i quali effettivamente sono attivi e coloro i quali sono spettatori e si limitano, con il proprio voto, a prendere parte per l’una o l’altra delle fazioni di ‘persone competenti’ che propongono soluzioni sul mercato politico. La democrazia, in questa ottica, non è una forma di governo che coinvolge tutti nella risoluzione dei problemi, non è una community of inquiry, ma è solo il congegno politico-istituzionale inventato per scongiurare che l’opposizione fra gli agenti (fra coloro i quali, avendo le competenze e conoscenze indispensabili, possono davvero reggere le sorti della cosa pubblica) degeneri in guerra civile. Ballot no bullet, il voto al posto delle pallottole, questa la visione avanzata da Lippman: le elezioni non indicano in che direzione si debbano risolvere le questioni sul tappeto ma decidono la predominanza – mercé l’allocamento della forza del pubblico dei bystanders su una parte degli agents invece che sull’altra – di una linea di gestione, che è avanzata e portata avanti dai professionisti della politica. E l’abilità dei leader consiste nel formare una volontà generale intorno alle proprie proposte, non già, però, appellando all’intelligenza dei concittadini, bensì manipolando con sagacia il registro emotivo-simbolico: «Il costituirsi di una volontà generale a partire da una moltitudine di desideri generali non è un mistero hegeliano ma un’arte ben conosciuta ai leader, ai politici e ai comitati direttivi. Essa consiste essenzialmente nell’uso di simboli che riuniscono le emozioni dopo che esse sono state staccate dalle idee»33. 32

W. Lippman, The Phantom Public, New Brunswick (U.S.A.) and London (U.K.): Transaction Publishers, 2007, cap. 3 [ed. orig. 1927]. 33 Ivi, p. 37.

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La polemica di Lippman era contro la dottrina tradizionale della democrazia, da lui sarcasticamente definita del cittadino onnicompetente, secondo la quale la democrazia si fonda da un lato sul fatto che ciascun cittadino sia in possesso delle capacità di trattare gli affari politici e, dall’altro, che le elezioni siano uno strumento per assicurare il vincolo degli eletti alle decisioni della maggioranza dei cittadini. Tale teoria è definita “romantica” dallo stesso Dewey nella sua recensione al volume di Lippman34 e smontata nei suoi presupposti in The Public and Its Problems, con argomentazioni importanti nella presente riflessione che cerca di investigare che cosa si possa intendere con community of inquiry: «Non fosse stato per l’influenza sviante di una falsa psicologia, l’illusione sarebbe stata scoperta in anticipo. Ma la filosofia corrente riteneva che le idee e la conoscenza fossero funzioni di una mente o coscienza che si originassero negli individui per mezzo di un contatto isolato con gli oggetti. Ma, in effetti, la conoscenza è una funzione della associazione e della comunicazione; essa dipende dalla tradizione, dagli strumenti e dai metodi socialmente trasmessi, sviluppati e sanzionati. Le facoltà della osservazione efficace, della riflessione e del desiderio sono abitudini acquisite sotto l’influenza della cultura e delle istituzioni della società, non poteri inerenti preconfezionati»35.

All’individualismo epistemologico, che pensa alle abilità epistemiche come possesso del singolo, così gettando le basi della errata concezione per cui la società è un insieme sommatorio ed atomistico ad un tempo, Dewey oppone una teoria della conoscenza che la considera come socialmente costruita e frutto di negoziazioni intersoggettive. In questo 34

J. Dewey, “Practical Democracy. Review of Walter Lippman’s The Phantom Public”, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 2 (1925-1927), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, p. 213. 35 J. Dewey, The Public and Its Problems, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 2 (1925-1927), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, p. 234.

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senso si comprende il nesso circolare che lega le nozioni di community e inquiry in Dewey con l’educazione come indispensabile medio. Si ha una community quando vi è una consolidata rete di scambi comunicativi che tengono insieme soggetti impegnati nel confronto con problemi. Ma tale confronto, se non deve essere affidato a risposte meccaniche, automatiche, dogmatiche, deve fondarsi sul metodo dell’indagine. Ma perché l’inquiry si consolidi come stile di risoluzione dei problemi, perché cioè l’abito critico ed esplorativo invalga, è necessario che l’educazione sia congegnata non come agenzia di perpetuazione delle idées reçues ma come promotrice della capacità di indagine e organizzata, quindi, essa stessa come community of inquiry. Una community che non sia ispirata dagli abiti dell’indagine si ossifica nella propagazione delle proprie convinzioni indiscusse e indiscutibili, diviene organica nell’accezione denigratoria del termine, ossia conculcatrice della capacità individuale di iniziativa. D’altra parte l’inquiry è sì coronamento della iniziativa individuale, della facoltà di esplorare il nuovo, di irrompere nell’ignoto, ma ciò non implica che essa sia appannaggio del singolo nella sua appartata egoità epistemica bensì del singolo nella misura in cui co-costruisce conoscenza insieme con gli altri soggetti della sua rete comunicativa. Nessuna comunità è capace di crescere e di rispondere alle sempre nuove sfide dell’ambiente senza la forza propositiva del singolo; ma nessuna indagine è da considerarsi come auto-centrata ricognizione speculativa dell’individuo, perché la conoscenza non è il possesso di una mente singolare, ma – al contrario – la mente individuale è il risultato di transazioni conoscitive socio-contestualmente caratterizzate. L’educazione, sostenendo processi di condivisione delle esperienze e di ricerca, è l’attività sociale deputata ad attrezzare i membri della collettività di quelle capacità senza le quali la comunità rischia di intristire, di quegli abiti di ricerca necessari alla costante crescita della comunità o, meglio, indispensabili alla comunità come spazio della crescita mediante l’indagine.

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È da sottolineare come siffatta impostazione che legge la comunità democratica in quanto comunità di ricerca, rompendo con l’impianto elitistico à la Walter Lippman, regoli i conti con l’approccio platonico. Infatti, una volta che si è riconosciuto che «[n]oi siamo nati esseri organici associati con gli altri, ma non siamo nati membri di una comunità»36 e che «[a]pprendere a essere umani è sviluppare, attraverso il dare-e-prendere della comunicazione, un senso effettivo di essere un membro individualmente distinto di una comunità; uno che ne comprende e apprezza le credenze, i desideri e i metodi e contribuisce alla ulteriore conversione dei poteri organici nelle risorse umane e nei valori»37, la questione di ogni vita sociale è come favorire al massimo grado e con la più ampia estensione lo scambio comunicativo, la condivisione delle esperienze e l’indagine congiunta. Senza tale mossa, che si potrebbe definire una democratizzazione dell’intelletto in un’accezione non kantiana del termine, nella misura in cui non persegue un ruolo da consiglieri da parte dei filosofi ma una ‘abilità filosofico-critica’ da parte di tutti i cittadini, si rischia un doppio esito: «Da un lato, il pensiero, privato del suo corso normale, trova rifiugio nello specialismo accademico, comparabile a suo modo con ciò che si chiama scolasticismo. Dall’altro lato, le agenzie fisiche di pubblicità, che esistono con tale abbondanza, sono utilizzate in modi che costituiscono ampia parte del presente significato di pubblicità [publicity]: la promozione commerciale [advertising], la propaganda, l’invasione della vita privata, la rappresentazione [featuring] di eventi passeggeri in un modo che vìola ogni logica mobile di continuità e ci lascia con tutte quelle isolate intrusioni e choc, che sono l’essenza delle “sensazioni” [sensations]»38.

Omettere di riconoscere la democrazia come community of inquiry scinde il pensiero e la società, degradando 36 37 38

Ivi, p. 331. Ivi, p. 332. Ivi, p. 340.

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l’uno a esoterico gioco di concetti (o di formule, nell’era del predominio del pensiero scientifico) e l’altra a insieme di individui vellicati attraverso eccitazioni rapsodiche e desultorie. La pubblicità delle conoscenze, architrave della democrazia come spazio pubblico della discussione razionale, che si costituisce attraverso la partecipazione a processi di indagine su questioni che coinvolgono tutti, viene soppiantata dalla pubblicità come propaganda. Nell’epoca della diffusione della scienza – per Dewey il modello del pensiero critico-sperimentale – il rischio è che essa, lungi dall’essere il paradigma cui ispirare una ricostruzione degli abiti mentali ai fini della vitalità della comunità democratica – diventi conoscenza misteriosa e incomprensibile per i più, astratta in un senso specifico: «Quando diciamo che un argomento di scienza è tecnicamente specializzato, o che è altamente “astratto”, ciò che intendiamo in pratica è che non è concepito nei termini della sua relazione con la vita umana. Tutta la conoscenza semplicemente fisica è tecnica, espressa in un vocabolario tecnico, comunicabile solo a pochi. Persino la conoscenza fisica che influenza la condotta umana, la quale modifica ciò che facciamo e patiamo, è anche tecnica e remota, nella misura in cui le sue connessioni non sono comprese e utilizzate. […] Si potrebbe pensare, allora, che uno scopo fondamentale e sempre operante sarebbe di tradurre la conoscenza del tema delle condizioni fisiche nei termini che sono generalmente compresi, in segni che denotino le conseguenze umane di servizi e disservizi resi. Infatti, in ultima istanza, tutte le conseguenze che rientrano nella vita umana dipendono da condizioni fisiche; esse possono essere comprese e padroneggiate solo se queste ultime sono prese in considerazione. Si potrebbe pensare, allora, che ogni stato di fatto che tende a rendere le cose dell’ambiente ignote e incomunicabili da esseri umani nei termini delle loro attività e patimenti sarebbe deplorato come un disastro: che sarebbe sentito come intollerabile, e sopportato solo nella misura in cui è, ad un dato tempo, inevitabile»39.

Scongiurare tale esito significa da una parte superare il privilegiamento della dimensione ‘pura’ rispetto a quella 39

Ivi, pp. 342-343.

La comunità di ricerca come progetto politico-educativo in John Dewey 215

‘applicata’ della conoscenza scientifica, dall’altra – ed è ciò che più qui interessa – operare nel senso della diffusione del sapere e delle abilità di pensiero scientifico (ossia critico-sperimentale), il che ridefinisce che cosa si debba intendere per opinione pubblica: «L’applicazione nella vita significherebbe che la scienza è stata assorbita e distribuita; che essa è la strumentazione di quella comprensione comune e di quella approfondita comunicazione che è la precondizione della esistenza di un pubblico autentico ed efficace. […] La vera purezza della conoscenza esiste non quando essa è incontaminata dal contatto con l’uso e l’utilità. È interamente una faccenda morale, una questione di onestà, imparzialità e ampiezza generosa di intenzione nella ricerca e comunicazione […] Un fatto della vita di comunità che non è diffuso all’esterno in modo da essere un possesso comune è una contraddizione in termini. La disseminazione è qualcosa d’altro che lo sparpagliamento indiscriminato. I semi sono gettati non in virtù del loro essere buttati a casaccio, ma del loro essere distribuiti in modo tale da prendere radici e da avere una opportunità di crescita. La comunicazione dei risultati della ricerca sociale è la stessa cosa della formazione della opinione pubblica. Questa segna una delle prime idee formulate nella crescita della democrazia politica ma sarà una delle ultime a essere realizzate. Infatti, l’opinione pubblica è giudizio che è formato e coltivato da coloro i quali costituiscono il pubblico e riguarda gli affari pubblici. Ciascuna di queste due fasi impone per la sua realizzazione condizioni difficili da ottemperare. Le opinioni e le credenze che concernono il pubblico presuppongono un’indagine organizzata e efficace»40.

Radicalizzando appena il senso della pagina deweyana, si può dire che non vi è community of inquiry dei soli scienziati, ossia di specialisti segregati rispetto al più generale consorzio civile. La manovra deweyana nell’appropriazione del costrutto peirceano di community of inquiry consiste proprio nella sua estensione alla società nel suo complesso41, nella misura in cui è democratica e quindi 40

Ivi, pp. 344, 345, 346. Su questa mossa, che rompe con uno dei capisaldi della proposta peirceana (la separatezza della comunità degli scienziati impegnati nella ricerca del vero dalla arena sociale dominata dalle passioni e dagli 41

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organica in un’accezione non totalitaria del termine: è la società che deve essere strutturata come una community of inquiry pena il degradarsi della scienza e del pensiero ad accademismo ed ermetismo e dell’associazione umana a dominio dei dogmi, delle convinzioni meccaniche e acritiche (o delle illusioni pubblicitarie). È all’interno di questa cornice che Dewey ripropone il confronto con il modello della Repubblica platonica e con l’idea dei filosofi-re, di cui constata una reviviscenza nell’epoca contemporanea sotto forma di ideale di governo dei tecnici42. Ma siffatto ideale, che confina le masse in un ruolo puramente passivo, riproponendo nell’articolazione sociale la scissione ‘fedonea’ di anima e corpo, non tiene conto che un governo degli esperti è impossibile nella misura in cui, se isolati dalla comunicazione con le masse, essi non sono più saggi ma meno. La democrazia come community of inquiry, come associazione in cui tutti debbono essere coinvolti nella comunicazione e nell’indagine sociale e quindi dotati – mercé l’educazione – delle risorse per partecipare, è il rovescio dell’ideale platonico più che il suo inveramento (qui si segnala uno scarto marcato rispetto all’impostazione ancora idealista di The Ethics of Democracy): «L’ostacolo ultimo sulla strada di ogni governo aristocratico è che, in assenza di una voce articolata da parte delle masse, i migliori non possono rimanere i migliori, i saggi cessano di essere saggi. È impossibile per i mandarini [high brows] assicurarsi il monopolio di tale conoscenza come deve essere adoperata per la regolazione degli affari comuni. Nella miinteressi), si è soffermato J. P. Diggins, The Promise of Pragmatism. Modernism and the Crisis of Knowledge and Authority, Chicago and London: The University of Chicago Press, 1994, cap. 5. 42 «Questo revival della nozione platonica che i filosofi dovrebbero essere re ha una presa tanto maggiore perché l’idea di esperti è sostituita da quella di filosofi, dal momento che la filosofia è diventata quasi una barzelletta, mentre l’immagine dello specialista, dell’esperto nelle operazioni, è resa familiare e congeniale dalla nascita delle scienze fisiche e dalla condotta dell’industria» (J. Dewey, The Public and Its Problems, cit., p. 363).

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sura in cui divengono una classe specializzata, sono tagliati fuori dalla conoscenza dei bisogni al cui servizio si suppone siano. […] Nessun governo di esperti nel quale le masse non abbiano l’opportunità di informare gli esperti dei loro bisogni può essere altro che un’oligarchia amministrata nell’interesse dei pochi. E la spiegazione [enlightenment] deve procedere in modi tali che costringano gli specialisti dell’amministrazione a prendere in considerazione i bisogni»43.

L’illuminismo (l’enlighentment del testo deweyano) è, quindi, nella capacità da un lato degli esperti di tener conto dei bisogni delle masse e dall’altro dei più di saper render conto delle proprie esigenze. Ma questo incontro rimarrebbe esteriore e impedirebbe l’organicità della comunità democratica se esperti e masse non fossero impegnati in una ricerca comune: tale il presupposto ultimo dell’idea della democrazia come community of inquiry. Il che non implica che «i molti dovrebbero avere la conoscenza e le abilità per condurre le necessarie ricerche», ma «quanto è richiesto è che essi abbiano l’abilità di giudicare della portata, sugli interessi comuni, della conoscenza fornita da altri»44. Ciò conferma che «il governo popolare è educativo come non lo sono altri modi di regolazione politica»45 e che l’educazione non riguarda solo la diffusione di conoscenze ma più ancora la promozione di capacità di giudicare e discriminare: «L’esigenza essenziale, in altre parole, è il miglioramento dei metodi e delle condizioni del dibattito, della discussione e della persuasione. Questo è il problema del pubblico. Abbiamo asserito che questo miglioramento dipende essenzialmente dalla liberalizzazione e dal perfezionamento dei processi di indagine e dalla disseminazione delle conclusioni. […] Uno stato più intelligente degli affari sociali, maggiormente informato di conoscenza, maggiormente diretto dalla intelligenza, non migliorerebbe di un briciolo i talenti originali ma innalzerebbe il livello cui opera l’intelligenza di tutti. L’altezza di questo livello è, per il giudizio degli interessi pubblici, molto

43 44 45

Ivi, pp. 363, 365. Corsivo aggiunto. Ivi, p. 365. Ivi, p. 364.

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più importante di quanto non sia la differenza nei quozienti di intelligenza»46.

La condizione di possibilità della democrazia come community of inquiry (e quindi del superamento dello stato di minorità) è, dunque, l’educazione al pensiero critico e non dogmatico, che nella modernità trova il suo modello nel pensiero scientifico. È nel campo teorico presidiato dai due capolavori pedagogici deweyani, Democracy and Education e How We Think, che si dovranno investigare le matrici ultime dell’ideale della community of inquiry.

2. L’educabilità del pensiero oltre la ‘coibentazione’ epistemologica della modernità Nel suo articolo Democracy in Education (1903), Dewey delinea i tratti di quella che sarebbe stata la sua proposta pedagogica lungo l’intero arco della sua produzione: «La vita moderna significa democrazia, la democrazia significa liberazione della intelligenza per l’efficacia indipendente – l’emancipazione della mente come organo individuale per fare il suo proprio lavoro. Noi naturalmente associamo la democrazia, invero, con la libertà di azione, ma la libertà di azione senza una liberata capacità di pensiero dietro di essa è solo caos. Se l’autorità esterna in azione è abbandonata, lo deve essere perché subentra l’autorità interna della verità, scoperta e conosciuta alla ragione […] Trovo che l’esigenza fondamentale della scuola oggi dipenda dal suo limitato riconoscimento del principio della libertà della intelligenza. […] Lo sforzo degli ultimi due terzi di secolo è riuscito a costrui­ re l’apparato di una democrazia della mente. Ha messo a disposizione i modi e i mezzi per collocare e attrezzare l’intelligenza. […] Ma quando ci volgiamo allo scopo e al metodo al cui servizio è questa magnifica istituzione, troviamo che la nostra democrazia non è ancora consapevole del principio etico su cui riposa – la responsabilità e la libertà della mente nella scoperta e nella prova – e di conseguenza troviamo

46

Ivi, pp. 365, 366-367.

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confusione dove dovrebbe esserci ordine, buio dove dovrebbe esserci luce»47.

La scuola deve essere dunque il fattore di promozione di quella libertà dell’intelligenza senza cui la democrazia rimane un ideale vagheggiato e astratto. Ma nel parlare di libertà dell’intelligenza, e distinguendola dalla libertà dell’azione, Dewey non sta forse riscivolando in dualismi metafisici? L’appello a sostituire l’autorità esterna nell’azione con l’autorità interna della verità scoperta e conosciuta alla ragione non è forse in linea con l’idea kantiana di Mündigkeit? Non si era stati allora frettolosi nell’identificare un percorso deweyano di ‘democratizzazione dell’intelligenza’ marcatamente diverso da quello di Kant? La responsabilità della mente nella prova e nella scoperta che è compito epocale della scuola, nella misura in cui ne va della democrazia come orizzonte della vita moderna, in che cosa si differenzia dall’ottica kantiana? Esula dalla presente ricerca un’investigazione filologica e dettagliata su affinità e dissimilarità fra l’approccio kantiano e quello deweyano. Kant è qui preso come l’esponente massimo del tentativo di conciliare le conquiste della modernità (scienza e democrazia) con cornici di pensiero tradizionali, tentativo cui Dewey oppone la sua prospettiva, impegnata a scovare le resistenze e i residui ‘metafisici’ che impediscono il fiorire pieno della vera modernità. In questo senso, anche espressioni che appaiono imparentate con i filoni più avanzati del pensiero moderno, acquistano in Dewey una sfumatura nuova. Imparare ad ascoltare la tonalità tipicamente deweyana di dizioni che appartengono alla tradizione dell’illuminismo (in accezione lata) moderno consentirà di fissare ancor meglio il significato deweyano della nozione di community of inquiry e del suo legame con la nozione di democrazia e con l’educazione al pensiero critico-sperimentale (o scientifico, come Dewey spesso lo chiama). 47

J. Dewey, “Democracy in Education”, in Id., The Middle Works, 18991924, vol. 3 (1903-1906), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1977, pp. 229-230. Corsivo aggiunto.

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È ancora il saggio del 1903 che indica la direzione da seguire. Vi si legge, infatti, che «in quella attività liberata della mente che noi definiamo “scienza” c’è sempre un certo problema che concentra lo sforzo, che controlla la raccolta di fatti che abbiano relazione con la questione, l’uso della osservazione per ottenere ulteriori dati, l’impiego della memoria per fornire fatti pertinenti, la mobilitazione della immaginazione per dare suggerimenti e costruire possibili soluzioni della difficoltà. Volgendoci alla scuola, non troviamo, in massima parte, alcuna controparte a questa attività mentale. Proprio perché un materiale di seconda mano è stato fornito all’ingrosso o al dettaglio ma comunque preconfezionato, la tendenza è di ridurre l’attività della mente a una assunzione docile o passiva del materiale presentato — in breve, alla memorizzazione, con un uso semplicemente accidentale del giudizio e della ricerca attiva. Come si dichiara di frequente, l’acquisizione [acquiring] prende il posto dell’indagine [inquiring]. Non è certamente una esagerazione dire che il tipo di attività mentale che è incoraggiata nella scuola è una sopravvivenza dei giorni in cui la scienza non aveva fatto molti progressi; quando l’educazione era principalmente interessata all’apprendimento, vale a dire alla preservazione e tramandamento delle acquisizioni del passato»48.

Una scuola che sia promotrice di democrazia è una scuola in cui al modello della acquisizione di materiali già-confezionati, pre-esistenti, si sostituisca l’indagine che caratterizza la scienza, in cui si sostanzia la libertà della mente. Infatti, nella scienza non si procede in base ai dettami di autorità esterne ma invale piuttosto l’esplorazione suscitata da una perplessità, da un elemento inatteso. In presenza di una situazione problematica, tale cioè da non poter essere gestita con il repertorio di nozioni a propria disposizione, la scienza, in quanto metodo dell’indagine, interviene sul reale sulla scorta di ipotesi/idee che sono formulate sulla base della raccolta e osservazione di fatti. Tali ipotesi/idee sono programmi di azione, ossia progetti di modificazione intenzionale e regolata dell’esistente al fine 48

Ivi, pp. 236-237.

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del raggiungimento di un nuovo assetto, in cui scompare il pristino dubbio. Il metodo sperimentale assume su di sé il peso del dubbio, della situazione di incertezza, non cerca di fuggirla immaginando un regno altro governato dall’immutabile, che costituirebbe la vera realtà (laddove l’ambito del contingente sarebbe un coacervo di apparenze, fenomeni, illusioni, che solo nel cosmo dei paradigmi ideali troverebbe la sua stabilità e il suo significato). Alla ricerca metafisica della certezza, mercé la figurazione di un mondo ideale, fatto di entità sottratte al divenire, alla precarietà, alla problematicità e alla transitorietà, realtà coglibili solo grazie a una conoscenza pura, priva di ogni mescolanza con il dominio del problematico, incerto, caduco, il metodo sperimentale sostituisce una ricerca pragmatica, che si realizza intervenendo su ciò che esiste per superare le condizioni di dubbio (condizioni che non appartengono alla sola mente ma al rapporto fra l’organismo e l’ambiente). Il congegno della scienza moderna ridefinisce i rapporti di conoscenza/ azione: se nello schema classico l’una era appannaggio di una casta privilegiata, quasi sacerdotale nella misura in cui era in relazione con l’Assoluto, con l’incondizionato, con ciò che sfuggiva alla provvisorietà umana, mentre l’altra era l’ambito di un’esperienza empirica, ossia casuale, non organizzata, ‘praticona’ si direbbe con un’espressione un po’ gergale, e quindi costituiva il dominio dei ceti baunasici, che operavano senza la cognizione dei principi ultimi, nella scienza, invece, ogni conoscenza è ‘applicata’, consiste in una modificazione intelligente del reale al fine di superare le situazioni problematiche. La canonica (e canonizzata) scissione di teoria e prassi, correlata ad una omologa frattura sociale fra i detentori del sapere e la massa, passiva e docile esecutrice di piani altrove concepiti, deve essere oltrepassata, se davvero si intende fare i conti con la modernità. Il saldo pedagogico di questo oltrepassamento è indicato da Dewey in molteplici testi, ma con particolare chiarezza nel capitolo sulla Underlying Philosophy of Education scritto, insieme con Child, per The Educational Frontier:

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«La scuole, come strumenti educativi particolari, hanno adottato, nel complesso, il principio del divorzio tra sapere e fare e vi ci si sono conformate. In tal modo esse hanno mantenuto la divisione ed accresciuto la spaccatura. La “pratica” è consistita nella ripetizione di azioni, in cui si pone maggiore accento sulla precisione meccanica che sulla comprensione. L’acquisizione di un’abilità automatica è stata ricercata indipendentemente da un’intenzione consapevole, presente nelle menti di coloro che fanno gli esercizi. Si supponeva che l’abilità sarebbe dunque pronta per l’uso, quando una qualche ragione per servirsene si sviluppasse più tardi nella vita. L’“efficienza” nel fare è stata resa una meta, noncurante di ciò a cui l’efficacia si rivolge. Il conoscere, d’altro lato, è stato trattato come una accumulazione di informazioni, con scarso riferimento alla comprensione dell’importanza di ciò che si acquisisce. Per selezionare un insieme particolare di informazioni insegnate, ci si è basati su qualche modello del passato a proposito di cultura e utilità, piuttosto che sulla connessione con i valori del presente attivo. L’accento posto sull’informazione indipendentemente dall’importanza e dalle applicazioni proposte, ha influenzato i concetti che guidano l’apprendimento e i suoi metodi. Si è pensato all’apprendimento come ad una trasmissione attraverso una specie di oleodotto scolastico, nelle menti di alunni, il cui compito consiste nell’assorbire ciò che è trasmesso»49.

Il modello tradizionale di educazione, trasmissivo, meccanico, consistente nell’acritica acquisizione di routine comportamentali e conoscenze rispecchia la separazione metafisica di conoscenza e azione. Dewey – nello stesso testo – è molto nitido nell’identificare le conseguenze sociali di siffatto tipo di scuola (ancora una volta citando il Platone dei filosofi-re50): essa preserva lo status quo, il fossato fra il ceto dei dirigenti e l’insieme dei sottoposti, sancisce la divisione degli individui all’interno del consorzio sociale e, 49

J. Dewey, “Underlying Philosophy of Education”, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 8 (1933), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1986, pp. 88-89, tr. it., Le implicazioni filosofiche della nostra teoria educativa, in J. Dewey, J. L. Childs, La frontiera educativa, a cura di L. Bellatalla, Firenze: La Nuova Italia, 1981, p. 121. 50 Ivi, p. 90, tr. it. cit., p. 123.

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dunque, opera in direzione anti-democratica. Una scuola e, più in generale, un sistema formativo autenticamente democratico è quello che si ispira alla scienza, alla sua connessione di conoscenza e azione. Una scuola laboratorio, dunque, in cui la coltivazione della libertà dell’intelligenza non significhi cura di una Razionalità sovrastorica, di cui debbano essere insegnati i principi e gli assiomi, i dogmi e i valori eterni, ma un pensiero critico e riflessivo che è confrontato con le sfide della pratica (che – a sua volta – non è più il regno dell’inconsistente e del fuggevole, ma lo spazio in cui sorgono le situazioni di dubbio, che i soggetti mettono a fuoco come problemi e per le quali elaborano delle ipotesi di intervento, e l’ambito in cui tali ipotesi vengono ‘testate’). Il nesso fra educazione al pensiero critico-riflessivo (di cui il metodo sperimentale è l’espressione moderna) e promozione della democrazia è al centro del dispositivo teorico di Democracy and Education. Nell’opus magnum del 1916, la polemica antiplatonica è contestuale alla definizione dell’ideale democratico. La democrazia è – in linea con quanto già affermato in The Ethics of Democracy – il compimento della socialità: infatti, ogni associazione umana ha due caratteristiche precipue – l’esistenza di interessi comuni e l’interazione e cooperazione fra vari gruppi – e questi due elementi «si riferiscono entrambi alla democrazia. Il primo significa non solo punti più numerosi e variati di interesse comune e condiviso, ma anche maggior fiducia nel riconoscimento di interessi reciproci come fattore di controllo sociale. Il secondo significa non solo una più libera interazione fra i gruppi sociali (una volta isolati fin dove l’intenzione poteva mantenere la separazione) ma un cambiamento nelle abitudini sociali – il loro continuo riadattamento mediante il confronto con le nuove situazioni prodotte da relazioni variate. E questi due aspetti sono proprio quelli che caratterizzano la società democraticamente costituita»51. 51 J. Dewey, Democracy and Education, in Id., The Middle Works, 18991924, vol. 9 (1916), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Il-

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Qui si trova la radice dell’intrinsichezza di democrazia e educazione: solo quest’ultima può creare quei presupposti, radicati «nelle disposizioni e nell’interesse volontari»52, che tengono insieme una società una volta che si ripudia ogni autorità esterna, una volta cioè che si fonda la solidità del consorzio sociale sulla Mündigkeit umana. Platone ha avuto il merito di cogliere «il significato educativo dell’ordinamento sociale e […] della dipendenza di questo dai mezzi usati per educare i giovani»53 e di enfatizzare l’importanza che le doti di ciascuno trovino utilizzazione all’interno della società e che a questo scopo siano educate, ma mancava della consapevolezza dell’unicità individuale e quindi per un verso ha limitato drasticamente le facoltà dei singoli (riducendole a tre classi fisse) e dall’altro ha prefigurato un ordinamento statico. Ma «il progresso della conoscenza ci ha reso consapevoli della superficialità di raggruppare gli individui e le loro facoltà originarie in poche classi nettamente distinte; ci ha insegnato che le capacità originarie sono indefinitamente numerose e variabili. E ciò non è che l’altro lato del fatto di affermare che, nella misura in cui la società è divenuta democratica, l’organizzazione sociale significa l’utilizzazione delle qualità specifiche e variabili degli individui e non la stratificazione in classi»54.

Il che significa che il modello educativo gerarchico e differenziato di marca platonica va sostituito con uno che abbia al suo centro la capacità di promuovere la molteplicità degli scambi e dei contatti, la pluralità degli stimoli che consentano il fiorire delle disposizioni individuali. Queste dunque non germogliano con una individualistica insistenza sulle doti del singolo, ma, stante quella co-appartenenza di individuo e società, che è da The Ethics of Democracy in

linois University Press, 1980, p. 92, tr. it., Democrazia e educazione, Firenze: La Nuova Italia, 2000, p. 110 (con modifiche). 52 Ivi, p. 93, tr. it. cit., p. 110. 53 Ivi, p. 95, tr. it. cit., pp. 113-114. 54 Ivi, pp. 96-97, tr. it. cit., p. 115 (con modifiche).

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poi lo stemma dell’impianto deweyano, dalla condivisione delle esperienze e dei percorsi di indagine congiunta. Non c’è – in altre parole – sbocciare dell’individualità fuori di una società (e quindi di una scuola, di un sistema formativo) strutturata come community of inquiry. Per elicere le valenze di senso di siffatto impianto concettuale si deve ritornare all’idea dell’educazione, in quanto coltivazione dell’intelligenza, come progetto pedagogico della modernità democratica, opposto alla educazione tradizionale in cui si somministrano pacchetti definiti di nozioni da memorizzare e abilità pre-definite da acquisire. L’educazione in quanto «ricostruzione o riorganizzazione dell’esperienza che accresce il significato dell’esperienza e che aumenta la capacità di dirigere il corso dell’esperienza seguente»55, in quanto cioè da un lato capacità sempre accresciuta di cogliere «le connessioni e le continuità delle attività cui prendiamo parte»56 e dall’altra di incrementare il proprio potere sullo sviluppo dell’esperienza, riducendo i margini di casualità, ispirandosi al modello dell’attività sperimentale dello scienziato, appella un ruolo centrale del pensiero riflessivo. In un lucido intervento su John Dewey e l’educazione al pensiero, Maura Striano ha ben sintetizzato questo nesso: «Il pensiero (riflessivo) è costitutivo dell’educare ad un duplice livello. Ogni intervento educativo richiede, infatti, necessariamente, da parte di chi lo progetta e lo realizza, un uso attento e rigoroso del pensiero, poiché è attraverso l’applicazione di procedure riflessive che si viene a riconfigurare intenzionalmente l’esperienza individuale e collettiva, rendendo chi la vive consapevole del suo significato e delle sue possibilità di sviluppo in quanto processo continuo e dialettico. […] Tale intervento, però, si realizza pienamente allorché, socializzando e rendendo condivisibili le procedure riflessive utilizzate ed accompagnando e facilitando l’uso autonomo, rigoroso e sistematico di tali procedure nei diversi e differenti campi di esperienza, fornisce ai soggetti anche gli

55 56

Ivi, p. 83, tr. it. cit., p. 98 (con modifiche). Ibidem (con modifiche).

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strumenti per poter in seguito ricavare in modo autonomo senso e significato del proprio vivere e agire e crescere in una prospettiva di continuità e di sviluppo»57.

Ciò che è importante sottolineare è il legame fra esperienza e pensiero, che rompe con lo schema della filosofia razionalistica moderna, da Descartes in poi. In Cartesio l’attingimento della dimensione del cogito accade mediante un ritrarsi dal mondo delle apparenze, attraverso un itinerarium mentis in claritatem che revoca in dubbio tutti i saperi esperienziali per approdare alla cittadella inespugnabile dell’evidenza del cogito. In questo senso in Cartesio non vi è, né vi può essere, educazione al pensiero in senso stretto. La dinamica a doppio livello descritta da Striano, per cui l’educatore, mediante l’applicazione di procedure riflessive, collabora alla riconfigurazione delle esperienze e, così facendo, consente agli educandi di acquisire gli strumenti per un’autonoma costruzione di significati, è estranea all’impianto cartesiano, dove l’educazione non ha alcuno ruolo costruttivo ma solo ‘preventivo’: deve evitare, come si legge nelle Regulae ad directionem ingenii58, che i giovani, non ancora in possesso del retto uso della ragione, unmündig direbbe Kant, si sporgano nei precipizi dell’errore. L’educazione in Descartes è un dispositivo contenitivo e la scuola – quindi – partecipa della natura di altre istituzioni dell’epoca che Foucault ha chiamato del grand renfermement59. Non si impara a pensare, né attraverso l’imparare a pensare si apprende a dare significati sempre più ricchi alle proprie esperienze. Il pensiero matura indipendentemente dall’educazione, che serve solo a 57

M. Striano, “John Dewey e l’educazione del pensiero: prospettive educative per la società di oggi e di domani”, in F. Cambi, M. Striano (a cura di), “L’attualità di John Dewey. Percorsi pedagogici”, Dossier monografico in «Studi sulla formazione», VI, 1, 2003, p. 64. 58 Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Oeuvres de Descartes, publiées par Ch. Adam & P. Tannery, Paris: Léopold Cerf, 1908, vol. X, p. 364. 59 M. Foucault, L’histoire de la folie à l’âge classique, Paris: Gallimard, Le Seuil, 1961, cap. 1.

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‘limitare i danni’ nel periodo dell’immaturità. Tale funzione di presidio è svolta, in Descartes, dalle conoscenze erogate dai precettori che, pur se incerte (perché non fondate sul metodo matematico), scongiurano almeno l’errare disordinato dei giovani. Quando però si raggiunge la capacità di ragionare e di elaborare proprie autonome e certe regole metodiche, allora le nozioni pregresse vanno sospese, dato che non forniscono alcuna conoscenza fondata. Si tratta di una logica toto coelo diversa da quella delineata da Dewey in Democracy and Education quando afferma che «[i]n contrasto sia con l’idea di svolgimento delle facoltà latenti dall’interno, sia con la formazione dall’esterno, per mezzo della natura fisica o dei prodotti culturali del passato, l’ideale della ‘crescita’ si mostra meglio inquadrato nel concetto che l’educazione è la continua riorganizzazione e ricostruzione dell’esperienza. È così che si può assegnare all’educazione sempre uno scopo immediato e nella misura in cui l’attività è educativa, essa raggiunge il suo scopo: la trasformazione diretta della qualità dell’esperienza. L’infanzia, la giovinezza, la vita adulta, stanno tutte sullo stesso piano educativo nel senso che ciò che è stato veramente imparato in qualsiasi stadio dell’esperienza costituisce il valore di quell’esperienza, e nel senso che il primo compito della vita è di fare in modo che ad ogni momento il vivere contribuisca all’arricchimento del significato percepibile di essa»60.

Si noti come in Dewey non vi sia svalutazione di un’età rispetto ad un’altra, ciascuna ha un suo potenziale epistemico e, quindi, educativo. L’educazione non assolve un mero compito precettistico, di sorveglianza, ma è anzi un fattore determinante per dare senso alle esperienze. Questi due aspetti (‘equivalenza educativa’ di tutte le età della vita e educazione come funzione ricostruttiva delle esperienze al fine di un loro arricchimento/approfondimento) si co-appartengono: se, infatti, un’età – quella ‘matura’ – è privilegiata, nella misura in cui i suoi saperi costituiscono 60 J. Dewey, Democracy and Education, cit., p. 82, tr. it. cit., p. 97 (con modifiche).

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la norma, mentre saperi ed esperienze di epoche precedenti sono considerati fallaci, ingannevoli per impiegare un lessico cartesiano, allora l’educazione non può essere intesa come riorganizzazione delle esperienze, perché anzi di queste deve essere perseguita la cancellazione ed elisione. Ri-considerazione dell’infanzia e dell’adolescenza nella loro ‘legittimità epistemica’ e riconoscimento del valore costruttivo dell’educazione vanno di pari passo: a loro è legata l’idea di una riformulazione della progettualità pedagogica ai fini della realizzazione della modernità democratica. Si semplifica – e, in un certo senso, si falsifica – la posizione deweyana se ci si limita ad interrogarsi sul suo puerocentrismo ovvero su uno slittamento, nel suo percorso teorico-pedagogico, da una maggiore importanza ascritta alle attività spontanee dell’educando ad un più ampio rilievo dato al curricolo. Ciò che è centrale nel dispositivo deweyano non è una romantica beatificazione del fanciullo ma l’esame del potenziale di educabilità del pensiero. E questa attenzione non è disgiunta dal tipo di interpretazione che Dewey fornisce della scienza moderna, anzitutto in The Quest for Certainty. C’è una solidarietà profonda fra il Dewey impegnato in riflessioni ‘epistemologiche’ (anche se egli avrebbe eccepito sul termine) e il Dewey pedagogista; fra il filosofo che cerca di esplorare il senso della rivoluzione scientifica nella direzione di un mutamento nella immagine della conoscenza (da una concezione modellata sulla theoria, contemplazione indirizzata a qualcosa di «antecedente all’atto mentale della osservazione e dell’indagine e […] per nulla modificato da tali atti»61 a una modellata sull’esperienza e intesa come «modo di operare sulle cose e con le cose dell’esperienza ordinaria, in maniera tale da costruire le nostre idee su di esse in termini di inter-azioni che inter-corrono fra esse, e non in termini di qualità che esse presentano direttamente»62) e il pedagogista che già nella prefazione alla prima edizione 61 62

J. Dewey, The Quest for Certainty, cit., p. 19, tr. it. cit., p. 23. Ivi, p. 86, tr. it. cit., p. 110.

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di How We Think rimarca come «l’atteggiamento nativo e integro della fanciullezza, contrassegnato da ardente curiosità, da fertile immaginazione, e dall’amore della ricerca sperimentale è vicino, molto vicino, all’atteggiamento dello spirito scientifico»63. Siffatta solidarietà infrange lo schema cartesiano. Infatti, la modernità ‘adamitica’ di Cartesio64 codifica, con una sola e unica mossa teorica, una certa idea di scienza e l’espulsione dell’infanzia dal regno della conoscenza. Si possono leggere i due coevi fenomeni, all’alba del moderno, della nascita della scienza nella sua versione cartesiana e dell’invenzione dell’infanzia come due facce della stessa medaglia65: da un parte, la scienza si presenta, grazie anzitutto all’opera di Descartes, come un’impresa ispirata a un meccanicismo scevro di ogni residuo animistico e antropomorfico e, quindi, attivamente impegnata a snidare gli elementi qualitativi del reale e a eliderli sull’altare del procedere scientifico, meramente quantitativo e matematico, con una volontà illimitata di Entzauberung, di cui la finzione del genio maligno è la prosopopea; dall’altra, per quelle forme di sapere che, prima dell’avvento della scienza moderna, erano proprie di tutti gli uomini (saperi che riconoscevano le qualità terziarie, fisiognomiche, antropomorfiche del reale) si inventa un ‘ricettacolo’, l’infanzia in quanto età conchiusa della vita umana, separata da un fossato epistemologico dal fiorire della piena ragione e quindi della capacità di scienza. L’esigenza moderna di un buffered self,

63 J. Dewey, How We Think: A Restatement of the Relation of Reflective Thinking to the Educative Process, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 8 (1933), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1986, p. 109, tr. it., Come pensiamo, Firenze: La Nuova Italia, 1961, p. 57. 64 Cfr. S. Oliverio, “‘Pedagogy of Science’ beyond Descartes’‘Adamitic’ Cogito: A Merleau-Pontian Perspective on Childhood and Science”, in Anais do V Colóquio International de Filosofia da Educação, UERJ, 7-10 settembre de 2010. 65 Cfr. su questo il bel saggio di David Kennedy, “Fools, Young Children, Animism, and the Scientific World-Picture”, «Philosophy Today», Vol. 23, No. 4, 1989.

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per adoperare la bella metafora di Charles Taylor66, di una soggettività coibentata contro il rischio di ricadute nella conoscenza ingenua, qualitativa, ha trovato nella metanarrativa cartesiana del cogito la sua formulazione più potente e una sua declinazione particolare. Infatti, in Descartes expressis verbis la ‘coibentazione epistemologica’ accade nelle forme di una condanna dei préstiges de l’enfance67: la condizione infantile è quella che ha depositato tutti gli errori nella nostra conoscenza, i quali vanno rimossi – mediante il dubbio iperbolico – perché la verità si affermi. La verità è la verità della scienza che, nell’ottica cartesiana, si fonda sulla deduzione da principi primi: il momento sperimentale non manca in Descartes68, ma la mathesis universalis, in quanto sistemazione conclusiva della conoscenza e forma ultima della ragione, non valorizza il carattere sperimentale della scienza. Nel dispositivo cartesiano, dunque, scienza e infanzia sono su due opposte rive epistemologiche: perché l’una invalga l’altra deve recedere. La costruzione della scienza non è quindi una ri-costruzione dell’esperienza primaria ma una sua negazione. Ne deriva che anche scienza e educazione siano scisse e la seconda funzioni solo nelle modalità cautelari sopra indicate, sicché l’idea stessa di una educazione al pensiero apparirebbe un non-senso. Tale schema sopravvive nell’epistemologia genetica nella quale, come ha notato Stephen Toulmin (non a caso uno dei grandi critici della modernità cartesiana ed estimatore di Dewey)69 si enfatizza lo svi66

Cfr. C. Taylor, A Secular Age, Cambridge (Mass.) and London (U.K.): The Belknap Press of Harvard University Press, 2007, passim. 67 F. Alquié, La découverte métaphysique de l’homme chez Descartes, Paris: Presses Universitaires de France, 1950, p. 55. 68 Cfr. W. R. Shea, The Magic of Numbers and Motion. The Scientific Career of René Descartes, Nantucket (MA): Watson Publishing International, 1991. 69 È Toulmin che ha scritto l’introduzione al volume dei Later Works in cui è contenuto The Quest for Certainty e il legato deweyano è palpabile nella fase ultima della sua speculazione, quella culminante nei volumi Cosmopolis: The Hidden Agenda of Modernity, Chicago: Chicago University Press, 1990 e Return to Reason, Boston: Harvard University Press, 2001.

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luppo delle facoltà latenti del bambino in direzione della acquisizione delle categorie della scienza. Si tratta, quindi, non di una ricostruzione dell’esperienza (ossia di un processo educativo) ma di una maturazione di capacità, alla fine della quale il bambino potrà accedere all’universo adulto: «[Nella epistemologia genetica] le ‘capacità native’ del bambino sono specificamente pre-adattate a costruire una e solo una concezione finale della ‘realtà’, e reinventare gli stessi concetti di causalità, conservazione etc. in tutte le situazioni – così ricapitolando l’esperienza culturale della specie»70.

Rispetto a questa impostazione, che è antitetica alla concezione pragmatista di un mondo aperto, da-fare, e che rischia di giustificare una visione dell’educazione come ossequiosa trasmissione di verità passate, tanto più venerabili in quanto sono iscritte nello sviluppo naturale della ragione, Dewey compie uno scarto epocale: anzitutto, pur distinguendo conoscenza empirica e conoscenza sperimentale, non scava un solco fra le due, anzi sottolinea, come notato da un suo commentatore, che «la differenza fra gli oggetti del senso comune e gli oggetti scientifici è una differenza pratica, non logica»71; proprio per questo motivo, può riconoscere la vicinanza fra le ‘pulsioni’ esplorative dell’infanzia e l’abito sperimentale della scienza e quindi impiantare un progetto di educazione al pensiero. Ne deriva che si modifica il significato di sviluppo del pensiero in confronto, per esempio, all’epistemologia genetica. Infatti, ciò che evolve non è una ragione sganciata dall’esperienza, ma un’intelligenza in essa radicata, come si evince in molti luoghi deweyani, ma in maniera particolarmente perspicua in un passo di Reconstruction in Philosophy, in cui i conti con “il razionalismo storico” sono regolati piuttosto con Kant che con Descartes: 70 S. Toulmin, “The Concepts of ‘Stages’ in Psychological Development”, in T. Mischel (ed.), Cognitive Development and Epistemology, New York: Academic Press, 1971, p. 58. 71 G. Kennedy, “Science and Transformation of Common Sense. The Basic Problem of Dewey’s Philosophy”, «The Journal of Philosophy», Vol. LI, No. 11, 1954, p. 316.

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«La scienza – la “ragione” – non è calata dall’alto sull’esperienza. Suggerita e verificata dall’esperienza, attraverso le invenzioni è usata in mille modi per allargare e arricchire l’esperienza. […] La ragione, come facoltà kantiana che introduce la generalità e la regolarità dell’esperienza, ci colpisce come sempre più superflua, la creazione non necessaria di uomini dediti al formalismo tradizionale e a una terminologia astrusa. Bastano le suggestioni concrete provenienti dalle esperienze passate, sviluppate e maturate alla luce dei bisogni e delle carenze del presente, usate come scopi e metodi per una ricostruzione specifica, una volta verificato che sono in grado di svolgere questo compito di riaggiustamento. A tali suggestioni empiriche usate in modo costruttivo per nuovi fini do il nome di intelligenza. […] La ragione è infatti intelligenza sperimentale, concepita secondo il modello della scienza e usata per la creazione di arti sociali; essa ha qualcosa da fare. Libera l’uomo dalle catene del passato, dovute a ignoranza e al caso solidificatosi in consuetudine. Progetta un futuro migliore e aiuta l’uomo a realizzarlo. Il suo operare rimane sempre soggetto alla verifica dell’esperienza. I piani che vengono preparati, i principi che l’uomo proietta come guida per l’azione di ricostruzione non sono dogmi ma ipotesi da elaborare nella pratica, e da scartare, correggere e allargare mentre riescono o meno a fare da guida all’esperienza presente. Potremmo chiamarli piani di azione, ma siccome vanno usati per orientare e rendere meno cieche le nostre azioni future, sono flessibili. L’intelligenza non è qualcosa che si possiede una volta per sempre. È in un processo di formazione costante e, per conservarla, occorre stare sempre all’erta, osservare le conseguenze, avere la volontà spregiudicata [open-minded] di imparare e il coraggio del riadattamento [re-adjustment]»72.

La formazione dell’intelligenza non è quindi lo sviluppo genetico ma il risultato di un costante confronto con i problemi che emergono, delle soluzioni approntate e testate, il cui esito positivo amplia il repertorio dei significati a nostra disposizione. L’educazione è il processo di direzione intenzionale e regolata di questa progressiva estensione 72 J. Dewey, Reconstruction in Philosophy, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 12 (1920), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press 1982, pp. 134-135, tr. it., Rifare la filosofia, Roma: Donzelli Editore, 1998, pp. 74-75 (con modifiche). Corsivi aggiunti.

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della sfera dei significati, che consentono una accresciuta capacità di controllare l’ulteriore corso dell’esperienza. I significati così intesi non sono le categorie kantiane – è lo stesso Dewey a insistere su questo punto nel prosieguo della pagina citata –, concetti a priori deputati a mettere ordine al caos dell’esperienza: i concetti kantiani non tengono conto, infatti, della ricchezza plurale e variegata dell’esperienza e istituiscono connessioni ab extra, laddove la instaurazione delle connessioni è, per Dewey, il prodotto di un’opera di ri-organizzazione che avviene all’interno dell’esperienza nel medio del pensiero riflessivo. È lo stesso Dewey a trarre le conseguenze socio-politicoeducative dell’approccio kantiano: «Altre cause più concrete contribuivano a produrre il rispetto peculiarmente tedesco per l’addestramento militare, per la disciplina, per l’“ordine” e la docilità. Ma la filosofia di Kant ha fornito una giustificazione o una “razionalizzazione” intellettuale per la subordinazione degli individui a universali, a “principi”, a leggi fisse e preconfezionate»73. Il modello razionalistico kantiano, al di là delle aspirazioni democratiche del suo autore, serve dunque da puntello per una visione organica della società in senso ben diverso da quello sostenuto da Dewey: non l’organicità di individuo e società, in cui ciascuno può sprigionare il proprio potenziale cognitivo, cooperando con gli altri soggetti in un’inquiry condivisa e così contribuendo al benessere della collettività, ma l’organicità in quanto subordinazione a regole a priori, a leggi precostituite. Cambia anche, dunque, il senso della Unmündigkeit: Kant – in linea con la modernità cartesiana sopra descritta – non può concepire un’autentica educazione al pensiero, perché le categorie in quanto forme di strutturazione dell’esperienza non evolvono, non si arricchiscono e approfondiscono attraverso la ricostruzione dell’esperienza. Ciò che si può (e deve) promuovere è l’estensione quanto maggiore possibile dell’esercizio della ragione, ma non è possibile educare la ragione intesa come organo della scienza. 73

Ivi, p. 136, tr. it. cit., p. 76.

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Se nella tradizione razionalistica moderna domina una sfiducia nei confronti delle capacità epistemiche dei bambini, un fossato fra mente infantile e mente scientifica, se la Unmündigkeit in quanto nozione ‘politica’ affonda le sue radici in una ben definita interpretazione della scienza (con il connesso ostracismo contro l’infanzia), in Dewey, che rigetta l’impianto epistemologico-pedagogico della modernità razionalistica, essa acquisisce un nuovo senso, quale emerge in un passo di The Public and Its Problems: «L’uomo, un bambino nella comprensione di se stesso, ha collocato nelle sue mani degli strumenti fisici di incalcolabile potere. Vi gioca come un bambino, e che funzionino bene o male è in larga parte questione di casualità»74. La minorità in senso deweyano è nella cesura fra le potenzialità a disposizione dell’uomo e l’uso non-sociale che ne fa, nel deficit di connessione fra la conoscenza riguardante la sfera fisica e quella concernente l’ambito etico-politico. La democrazia come community of inquiry è la risposta illuminista a tale stato di ‘infanzia’ in quanto, promuovendo uno scambio continuo di esperienze e un’indagine condivisa, saldando la frattura fra gli specialisti e la massa e raccordandoli in una comunicazione costante, consente di uscire dallo stato di minorità che l’uomo si è auto-inflitto nella misura in cui ha perpetuato antichi dualismi. Ma la democrazia come community of inquiry è a sua volta legata all’educazione del pensiero riflessivo, che è costituito dalla «attiva, costante e accurata considerazione di ogni credenza o di una forma ipotetica di conoscenza alla luce delle ragioni [grounds] che la supportano e alle ulteriori conclusioni alle quali essa tende»75. In questo senso il pensiero riflessivo incita all’indagine. Infatti, il pensiero riflessivo implica che qualcosa è creduto non per se stesso (si tratterebbe altrimenti di una modalità di percezione) ma sul fondamento di qualcos’altro: vi è un’indicazione, 74

J. Dewey, The Public and Its Problems, cit., p. 344. Corsivi aggiunti. J. Dewey, How We Think, cit., p. 118, tr. it. cit., p. 68 (con modifiche). 75

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qualcosa che rimanda a un altro evento e noi siamo spinti ad indagare se l’indizio è attendibile. Attraverso l’indagine istituiamo una connessione affidabile fra l’indicazione e l’evento suggerito e così giungiamo ad una credenza fondata (ovviamente non una volta per tutte, ma in modo sperimentale e quindi rivedibile e falsificabile): «Il pensiero […] si può quindi definire come quella operazione in cui fatti presenti suggeriscono altri fatti (o verità) così da indurre la credenza in ciò che viene suggerito sulla base di una relazione realmente esistente tra le cose stesse, una relazione tra la cosa suggerita e quella che è fonte della suggestione»76. Il pensiero è innescato da una situazione di perplessità e difficoltà: qualcosa blocca il normale corso della mia attività e mi spinge ad indagare per comprendere la natura della difficoltà e trovare una soluzione: «La natura del problema fissa il fine del pensiero, e il fine controlla il processo del pensiero»77. Si comprende in che senso il pensiero riflessivo non sia sganciato dall’esperienza: le forme più astratte ed elaborate di pensiero sono sofisticazioni di forme di indagine che vengono agite anzitutto nella prassi. Ciò non vuol dire che ogni tipo di ricerca di soluzioni nella prassi sia pensiero: perché vi sia pensiero si deve essere pronti a permanere nella situazione problematica e di dubbio fino a quando non se ne siano comprese le caratteristiche e si siano formulate delle idee (dei piani di azione e di soluzione del problema) che siano giustificate sulla scorta delle analisi condotte nell’indagine. Per rifarsi ad un esempio di Dewey: prima di uscire di casa ho visto che è luminoso e ne ho concluso che è una bella giornata (qui non c’è pensiero riflessivo in senso stretto, perché non vi è stato alcun processo di indagine, la conclusione cui sono giunto deriva dalla accettazione dell’indicazione percettiva). Una volta che sono uscito ho avvertito un certo rigore dell’aria, e mi sono sorpreso: mi aspettavo una 76 77

Ivi, p. 120, tr. it. cit., p. 72. Ivi, p. 123, tr. it. cit., p. 75.

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bella giornata e invece trovo che è ‘freschetto’. Si tratta di un’occorrenza che genera perplessità e suggerisce che la situazione atmosferica non è quella che ritenevo essere. Allora inizio a investigare per cercare conferme o smentite. La ricerca non è teorica, ma è attivamente pratica: alzo gli occhi per vedere se ci sono nuvole, se sono ‘cariche di pioggia’, sto attento a se c’è vento, da che direzione tira. Decido di tornare a casa e prendere un ombrello. Con questa serie di azioni mi impegno a comprendere se ciò che mi era stato suggerito sia effettivamente giusto: il rigore dell’aria segnala che sta per venire a piovere. Tutto questo processo è un’indagine riflessiva in quanto è avviata da una situazione problematica, che porta ad una previsione congetturale, di cui verifico l’attendibilità con una raccolta di ‘indizi’ e un loro esame, e si conclude con la scelta di un comportamento, di un piano di azione che ‘risolva’ la situazione di perplessità. Lo stesso Dewey ammette che può apparire forzato dare il nome di pensiero alla serie di mosse che compio in questa situazione banale, ma avverte che ciò accade solo se ci si attiene a una concezione spettatoriale della conoscenza78 e a una interpretazione pre-sperimentale del pensiero in cui questo sia considerato l’attività di una ragione separata dall’esperienza. Il pensiero da un lato consente di accrescere il controllo del corso dell’esperienza e dall’altra di arricchirla di valore e significato. È una conquista squisitamente umana che non si realizza autonomamente – ‘geneticamente’ – ma esige «che il pensiero [sia] accuratamente e attentamente educato e diretto»79. Porre l’educazione al pensiero riflessivo come scopo primario di ogni progetto pedagogico, come architrave di una rifondazione/ricostruzione del sistema formativo, significa operare in direzione della modificazione delle condizioni scolastiche, come si legge nel cap. IV di How We Think, che non solo non è passato di moda ma i cui ammonimenti 78 79

J. Dewey, The Quest for Certainty, cit. J. Dewey, How We Think, cit., p. 129, tr. it. cit., p. 84.

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sono più che mai attuali nell’odierno clima di contro-riforma pedagogica80. Il punto di partenza di Dewey è che la predominanza di una psicologia delle facoltà, intese come moduli cognitivi separati, ha legittimato e promosso una visione dell’educazione del pensiero come addestramento formale tramite esercizi di logica. Se il pensiero è una facoltà distaccata dalla osservazione, dalla memoria, dalla immaginazione, dalle credenze di senso comune, più radicalmente dal complesso della esperienza del soggetto, allora l’‘educazione’ si riduce alla somministrazione di compiti e problemi di logica. Questa focalizzazione sulla dimensione logico-formale (anzi, formalistica), scissa dalle più ampie pratiche con cui i soggetti attribuiscono significato al mondo, è emblematica di quella enfasi pedagogica sul mero dominio conoscitivo razionale81 che è il portato della razionalità lineare, autoreferenziale e separata propria della modernità cartesiana82, con la declinazione ‘spettatoriale’ della impresa scientifica cui sopra si è accennato. Rispetto a questo impianto l’approccio di Dewey compie un’autentica rivoluzione copernicana83, che parte dalla contestazione che si abbia a che fare con una «singola ed uniforme facoltà di pensare [perché si tratta di] una molteplicità di modi differenti in cui cose specifiche – osservate, ricordate, ascoltate, lette – evocano suggestioni o idee, pertinenti a un 80 La questione della controriforma pedagogica in atto, che è stata al centro di importanti interventi sulle riviste specializzate (cfr. i saggi contenuti nel dossier monografico su “Scuola. Non uno di meno!” in «Pedagogika.it», XIII, 1, 2009), ha trovato tematizzazione compiuta nel volume di M. Baldacci, F. Frabboni, La controriforma della scuola. Il trionfo del mercato e del mediatico, Milano: FrancoAngeli, 2009. 81 Per la teoria dei domini conoscitivi cfr. P. Orefice, I domini conoscitivi. Origine, natura e sviluppo dei saperi dell’Homo sapiens sapiens, Roma: Carocci, 2001. 82 P. Orefice, Pedagogia scientifica. Un approccio diverso al cambiamento formativo, Roma: Editori Riuniti University Press, 2009. 83 Il tema di una reale rivoluzione copernicana opposta a quella kantiana (che si è limitata a conciliare vecchie credenze con alcune delle risultanze della scienza moderna, senza accoglierne la sfida epistemologica) è il culmine dell’argomentazione di The Quest for Certainty, cit., cap. XI.

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problema o a una questione, e fanno progredire la mente verso una conclusione giustificabile»84. Ne consegue che «[l]’educazione [training] consiste nello sviluppo della curiosità, della suggestione, e degli abiti di esplorazione e di prova, sviluppo che accresce la sensibilità per le questioni e l’amore della ricerca per ciò che è enigmatico e sconosciuto; che aumenta l’adeguatezza delle suggestioni che affiorano nella mente e ne controlla la successione in un ordine evolutivo e cumulativo; che rende più acuto il senso della forza, del potere di prova che ogni fatto osservato ed ogni suggestione impiegata possono assumere. Il pensiero non è un processo mentale separato; è una faccenda che riguarda il modo in cui una gran quantità di fatti osservati e suggeriti viene impiegata, il modo in cui essi concorrono assieme e sono fatti concorrere assieme, il modo in cui sono trattati. Di conseguenza tutte le materie, gli argomenti, le questioni sono intellettuali non per se stessi ma in ragione del ruolo che, nella vita di una determinata persona, viene fatto loro giocare nella direzione del pensiero. Per tutti questi motivi, il problema del metodo nella formazione di abiti di pensiero riflessivo è quello di stabilire condizioni capaci di far sorgere e di guidare la curiosità; di stabilire nelle cose sperimentate connessioni che più tardi promuoveranno il flusso delle suggestioni, creeranno problemi e propositi atti a favorire la connessione ordinata nella successione delle idee»85.

In questo passo si compendia la proposta di educazione al pensiero propria di Dewey e merita quindi un’analisi attenta, un close reading. Anzitutto è da rimarcare ancora una volta come il pensiero non si educa in quanto processo mentale separato ma lavorando a partire dalle risorse native del bambino86, su quel livello di ‘pensiero naturalmente in corso’ senza cui ogni intervento educativo sarebbe impossibile. Adottando una analogia spericolatamente icastica, Dewey equipara il rapporto insegnamento-apprendimento a quello vendita-acquisto: non si potrebbe vendere educa84

J. Dewey, How We Think: A Restatement of the Relation of Reflective Thinking to the Educative Process, cit., p. 156, tr. it. cit., p. 122 (con modifiche). 85 Ivi, pp. 156-157, tr. it. cit., p. 122. Corsivi aggiunti (con modifiche). 86 Ivi, p. 140, tr. it. cit., p. 98.

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zione al pensiero se non c’è qualcuno che la compra. Ma chi la compra non è «una creatura che non pensa prima spontaneamente», nella quale «si introduce a forza la capacità di pensare»; è piuttosto in possesso della capacità di pensare e quindi l’intervento educativo non consiste nel dispensare tale capacità quanto piuttosto nell’insegnare «come pensare bene [e] in particolar modo come acquistare l’abito generale della riflessione»87. In questo senso, se l’insegnamento è una «vendita di mercanzie», il prodotto è l’abito riflessivo che serve ad arricchire e dare un ordine alla naturale abilità di pensiero del bambino. In tale prospettiva «[i]l maestro è una guida e un direttore; egli dirige il battello, ma l’energia che lo mette in movimento deve venire da quelli che stanno imparando»88. A leggere negli strati profondi della teorizzazione deweyana, così come la si sta presentando, si coglie come essa rappresenti una mislettura, per adoperare una categoria di Harold Bloom89, della dottrina platonica della reminiscenza. Il paradosso platonico della apprendibilità della virtù (se non conosco che cosa devo apprendere, non posso apprenderlo, ma se lo conosco non ho bisogno di apprenderlo) si trasforma nella dinamica transazionale (in un’accezione anche commerciale del termine, per cui l’acquirente-bambino ‘compra’ delle abitudini di pensiero riflessivo che migliorano lo «stock di capitale primario che costituisce il germe dal quale soltanto l’abito può essere sviluppato»90); l’immagine della levatrice (in Teeteto 148e151c) è rimpiazzata dalla metafora ‘missisipiana’ del battello, della energia che la muove e di chi la conduce. Il ‘punto di caduta’ di tale mislettura, che non si può qui seguire nel dettaglio dato il taglio della presente in87

Ibid. (con modifiche). Ivi, p. 140, tr. it. cit., p. 99. 89 H. Bloom, A Map of Misreading, New York: Oxford University Press, 2003. 90 J. Dewey, How We Think: A Restatement of the Relation of Reflective Thinking to the Educative Process, cit., p. 140, tr. it. cit., p. 98 (con modifiche). 88

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dagine, è nell’idea di suggestione, che è cruciale sia per il modo in cui Dewey intende il processo di pensiero sia, di conseguenza, per le indicazioni pedagogiche che elabora. Le suggestioni sono le «[i]dee [nel] senso primitivo e spontaneo. […] Niente nell’esperienza è assolutamente semplice, singolo e isolato. Qualsiasi cosa sperimentata ci giunge assieme a qualche altro oggetto, qualità o evento. Qualche oggetto è focale e più o meno distinto, ma esso sfuma via in altre cose. Un bambino può essere tutto intento a guardare un uccello; nel centro luminoso della sua coscienza non vi è altro che quell’uccello là. Ma l’uccello è, ovviamente, in qualche luogo – sulla terra, su un albero. E l’esperienza effettiva include molte altre cose. Anche l’uccello sta facendo qualcosa – vola, becca, mangia, canta ecc. E l’esperienza dell’uccello è in se stessa complessa, non una singola sensazione; sono incluse in essa un numero di qualità in relazione. Questo esempio molto elementare ci rivela il perché accada che non appena il bambino vede un uccello, egli ‘pensi’ subito a qualcos’altro che non è presente. Quella porzione della sua esperienza presente, cioè, che è simile a una esperienza precedente richiamerà o suggerirà qualche cosa o qualità connessa alla totalità dell’esperienza precedente: quella cosa o qualità a sua volta può suggerire qualche altra cosa in connessione con essa; e non soltanto può ma farà effettivamente così […]»91.

A questo primo livello le idee/suggestioni sono qualcosa che accade al soggetto. Ma quando questi intende «conseguire il controllo delle condizioni che determinano l’occorrenza della suggestione» e «accetta[re] la responsabilità di usare la suggestione per vedere che cosa ne consegue»92, allora si passa dal pensiero come attività naturale al pensiero riflessivo: «Il mero accadere delle idee o suggestioni costituisce il pensiero, ma non il pensiero riflessivo, non l’osservazione ed il pensiero diretto ad una conclusione accettabile – cioè ad una conclusione che è ragionevole accettare in virtù dei fondamenti su cui poggia e dell’evidenza che la sostiene 91 92

Ivi, p. 145, tr. it. cit., p. 105. Corsivi aggiunti. Ivi, p. 145, tr. it. cit., p. 106.

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[…] Occorre di conseguenza un’altra qualità che trasformi le suggestioni in pensiero riflessivo la proprietà dell’ordine, della consequenzialità. […] Solo quando c’è un controllo della successione capace di trasformare quest’ultima in una ordinata sequenza che conduca ad una conclusione contenente in sé la forza intellettuale delle idee precedenti, siamo in presenza di pensiero riflessivo. E per ‘forza intellettuale’ intendiamo la forza nel rendere un’idea degna di credenza, degna di fiducia»93.

Si comprende, quindi, che il compito dell’insegnante, per riprendere le parole del passo da cui si sono prese le mosse, sia quello di «stabilire nelle cose sperimentate connessioni che più tardi promuoveranno il flusso delle suggestioni, creeranno problemi e propositi atti a favorire la connessione ordinata nella successione delle idee»94. Ma, prima di indagare come l’insegnante debba farlo, interessa contrapporre siffatto impianto argomentativo a quello platonico. In Dewey l’emergere di una situazione problematica/ inaspettata (nell’esempio precedente: si è usciti pensando che la giornata fosse calda e si incappa in un certo rigore dell’aria, che – si badi – è sentito, no pensato) spinge il soggetto a pensare (=gli suggerisce) che potrebbe piovere e a cercare conferme nel cielo (ci sono nuvole? Tira vento? Da che direzione?). Ora, «[q]uesta possibilità suggerita è l’idea, il pensiero [thought]. Se accettata come possibilità genuina dell’accadere di un evento, allora essa viene a costituire la specie di pensiero che cade nell’ambito della conoscenza e che richiede una considerazione riflessiva»95. La considerazione riflessiva comprende la visione delle nuvole nella misura in cui possano significare pioggia, ossia si considera «la possibilità e la natura della connessione fra l’oggetto visto [le nuvole] e l’oggetto suggerito [la pioggia]. La cosa vista è considerata in qualche modo come il fondamento o la base della credenza nella cosa suggerita; essa possiede

93 94 95

Ivi, p. 150, tr. it. cit., p. 112 (con modifiche). Corsivi nell’originale. Ivi, p. 157, tr. it. cit., p. 122. Ivi, pp. 118-119, tr. it. cit., p. 69.

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la qualità della evidenza»96. Si ha riflessione quando la credenza è sostenuta da una prova, una garanzia: «Ai fini di questa indagine, il pensiero si può di conseguenza definire come quella operazione in cui fatti presenti suggeriscono altri fatti (o verità) così da indurre la credenza in ciò che viene suggerito sulla base di una relazione realmente esistente tra le cose stesse, una relazione tra la cosa suggerita e quella che è fonte della suggestione. Una nuvola suggerisce una donnola o una balena; ma non significa nessuna di queste due cose, giacché non vi è nessun legame o connessione nelle cose stesse, tra ciò che è visto e ciò che è suggerito»97.

Le idee/suggestioni sono quindi il cardine del processo di pensiero, ciò su cui si articolano e ‘girano’ – per tornare alla citazione sottoposta a close reading – sia la naturale curiosità, in quanto tendenza naturale all’esplorazione98 che deve essere utilizzata a fini intellettuali99, sia gli abiti di esplorazione e verifica; e lo sono non perché rappresentino il termine, l’approdo del processo, né perché ne costituiscano il presupposto ultimo, ma perché attivano l’indagine, ne dischiudono il campo, andando oltre l’osservato. Ma questo oltrepassamento dell’osservato, che è la dinamica inferenziale100 del rimando significante101, se è 96

Ivi, p. 119, tr. it. cit., p. 70. Corsivi nell’originale. Ivi, p. 120, tr. it. cit., p. 72. 98 Ivi, p. 141, tr. it. cit., p. 100. 99 Ivi, p. 143, tr. it. cit., p. 103. 100 «In ogni caso di attività riflessiva, una persona si trova di fronte a una data situazione presente, da cui perviene, o conclude, a qualche altra cosa non presente. Questo processo di arrivare all’idea di ciò che è assente sulla base di ciò che è presente costituisce l’inferenza. Ciò che è presente porta o conduce la mente all’idea prima, all’accettazione in ultimo, di qualche altra cosa. […] In quanto va oltre i fatti accertati o conosciuti, dati sia dall’osservazione che dal ricordo di conoscenze precedenti, qualsiasi inferenza comporta un salto dal noto all’ignoto, un salto al di là di ciò che è dato e già stabilito» (Ivi, pp. 190-191, tr. it. cit., pp. 165-166). 101 «Il fattore centrale, allora, di ogni pensiero riflessivo e specificamente intellettuale è questa funzione per cui una cosa ne significa o indica un’altra, inducendo così ad esaminare fin dove può essere considerata come garanzia della credenza nell’altra. […] La riflessione non coincide col semplice fatto che una cosa indichi, significhi un’altra cosa. Essa ha 97

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irruzione nell’enigmatico e nello sconosciuto, non si invola però nell’ultranaturale, ma deve essere costantemente sorvegliata – se pensiero riflessivo vi deve essere – da sperimentazione e verifica e si compie in una ristrutturazione della situazione di partenza, quella che ‘ha dato da pensare’. Con una formulazione che anticipa la nota definizione di indagine all’interno della sua Logic, Dewey scrive che «la funzione del pensiero riflessivo è, quindi, di trasformare una situazione in cui si è fatta esperienza di un’oscurità, un dubbio, un conflitto, o un disturbo di qualche sorta, in una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa»102. Quella che potremmo definire la suggestività dell’esperienza in quanto transazione organismo-ambiente, il fatto cioè che ciascun evento rimandi ad altri, apre al futuro dell’indagine, che mira al controllo delle condizioni di manifestazione delle suggestioni medesime e al loro ordinamento in regolarità funzionali. Questo è l’insegnamento della rivoluzione scientifica che Dewey vuole importare all’interno dell’analisi del pensiero e giocare contro le concezioni metafisiche, le quali – invece di aprire al futuro – si voltano verso il passato. Di siffatte concezioni, emblematica e prototipica è, ovviamente, la dottrina platonica della reminescenza che, nel Fedone (l’opera in cui – lo si è visto nel capitolo precedente – si consuma in unico movimento l’accademizzazione di Socrate, la ‘metodicizzazione’ della ricerca socratica e l’invenzione dell’anima come realtà trascendente omologa alle idee in quanto paradigmi ultimi del reale) viene ‘dimostrata’ propria a partire da una curvatura diversa di quella che si è definita la suggestività dell’esperienza. Mette conto citare per esteso il passo del Fedone [73d-75a]:

inizio quando noi cominciamo ad indagare sul valore, sull’affidamento che può darci una particolare indicazione; quando ci sforziamo di provarne il valore e di vedere quali garanzie essa offre che i dati esistenti conducano realmente all’idea suggerita, in modo da giustificare l’accettazione di quest’ultima» (Ivi, pp. 119-120, tr. it. cit., pp. 70-71). 102 Ivi, p. 195, tr. it. cit., p. 172. Corsivi nell’originale.

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«“Questo, ad esempio: altra è all’incirca la conoscenza dell’uomo altra della lira”. “Come no?” “Tu sai dunque che gli innamorati quando vedono una lira, o un mantello o qualunque altro oggetto dei quali i loro amati sono soliti servirsi, provano questo: riconoscono la lira e recuperano con la mente l’immagine del giovane cui appartiene la lira. Questo è ricordare. Allo stesso modo, uno, vedendo spesso Simmia, potrebbe ricordarsi di Cebete; e vi sarebbero poi infiniti altri esempi di questo genere”. “Infiniti davvero, per Zeus”, disse Simmia. “Dunque”, disse Socrate, “questo e un simile evento non è reminescenza? E soprattutto quando uno prova una tal condizione riguardo a cose che per il tempo e per non averle sotto osservazione aveva ormai dimenticato?” “Ma certamente”, rispose. “Ebbene?”, continuò Socrate. “E se uno vede un cavallo dipinto e una lira dipinta è possibile che si ricordi di un uomo, e, vedendo Simmia dipinto che si ricordi di Cebete?” “Certamente”. “E dunque se uno vede Simmia dipinto è possibile che si ricordi del vero Simmia?” “È possibile, certo”, rispose. “Dunque, secondo tutti questi casi, non accade che la reminescenza deriva dalle cose simili, ma anche da quelle dissimili?” “Accade” “Ma quando uno si ricorda di qualcosa mediante elementi simili, non gli accade necessariamente anche questo, di pensare se cede in qualcosa questo, quanto alla somiglianza, o no, a quello che si è ricordato?” “Per forza”. “Considera allora”, disse Socrate, “se la cosa sta così. Noi diciamo che esiste l’uguale, io non dico di legno a legno, di pietra a pietra, o di nessuna cosa simile, ma di un qualcos’altro diverso da tutte queste, dell’eguale in sé. Possiamo sostenere che è qualcosa, o nulla? ” “Possiamo sostenerlo, per Zeus”, rispose Simmia, “e anche sicuramente”. “E conosciamo anche cosa esso sia?” “Ma certamente”, rispose. “E da dove abbiamo preso questa conoscenza? Non l’abbiamo presa dunque dalle cose che dicevamo poco fa, o legni, o pietre, o simili altre, vedendo che sono uguali, da queste poi abbiamo pensato a quello che è diverso da queste? O non ti pare che sia diverso? […]”

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[…] “Ammettiamo dunque che quando uno vede una cosa e pensa che quella vuole essere simile a qualcun’altra di quelle che realmente esistono, quella che io vedo proprio ora, ma tuttavia cede rispetto a quella e non può essere simile proprio a quella, ma ne è inferiore, è necessario che a colui che pensa a questo sia capitato di aver visto in precedenza quello che dice essere rassomigliante a questa cosa, pur essendole in qualche modo inferiore?” “È necessario” “Ebbene? Abbiamo provato anche noi qualcosa di simile rispetto agli uguali e a quello che è l’uguale in sé?” “Certamente ” “È necessario dunque che noi abbiamo visto l’eguale prima di quel tempo, quando vedendo per la prima volta gli uguali, pensammo che tutti questi uguali tendono a essere simili all’eguale, ma gli restano inferiori?” “È così”».

La messa a confronto del testo platonico e di quello deweyano fa emergere la diametrale opposizione delle due Einstellungen, dei due atteggiamenti e disposizioni intellettuali: nel caso di Dewey, l’argomentazione legge quella che abbiamo chiamato la suggestività dell’esperienza e la struttura di rimando significante alla luce della dinamica dell’inferenza e quest’ultima è riconosciuta come salto nell’ignoto, avventura sperimentale; nel caso di Platone, si interpreta la possibilità di associare fra loro i diversi nella prospettiva della reminescenza, che culmina – è rivelativo su che cosa verta l’intera discussione del Socrate fedoneo – nell’idea dell’uguale in sé. Alla metafisica del Medesimo di Platone – fondata su una epistemologia della reminescenza – si contrappone il naturalismo umanistico di Dewey che esalta l’emergere del nuovo, l’incessante da-farsi-del-reale, che arricchisce costantemente il mondo di nuovi significati, istituendo nuove correlazioni, attraverso l’indagine: questa è la funzione che Dewey, prendendo a modello la scienza moderna, attribuisce al pensiero, non già quella di contemplare una realtà antecedente in sé perfetta. Il ruolo trasformativo del pensiero lo raccorda all’esperienza sensibile, laddove questa è assolutamente secondaria e subordinata

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nel dispositivo platonico. Ancora una volta emblematica la prosecuzione del passo del Fedone [75a-75b]: «“Allora noi concordiamo anche in questo: che non da altra cosa è stato possibile concepire questo pensiero e neppure è possibile concepirlo ora, se non dal vedere o dal toccare, o da qualche altra di queste sensazioni. E dico pure che tutte queste cose sono la stessa cosa”. “Sono la stessa cosa, o Socrate, rispetto a ciò che il ragionamento vuole dimostrare”. “Ma anche dalle sensazioni occorre pensare che tutte queste cose, implicite nelle sensazioni, tendono a quello che è l’uguale in sé e sono a lui inferiori. Come possiamo dire? ” “Così”. “Dunque prima che cominciassimo a vedere, a sentire e insomma a provare tutti gli altri sensi, occorreva che noi avessimo pure preso conoscenza di quello che è l’uguale in sé, se poi ci mettevamo a riportare là gli eguali derivanti dalle sensazioni, e constatare che tutti tendono ad essere uguali a quello, ma invece ne sono inferiori”. “È necessario, da quanto è stato detto prima, o Socrate”».

In molti luoghi Dewey ritorna sul suo rifiuto del cosmo platonico, organizzato per livelli onto-assiologicamente gerarchici, e della connessa svalutazione del nesso esperienza sensibile-pensiero. Significativo, nel contesto della presente riflessione, un passo di Art as Experience in cui il fronte di attacco implicito è l’altro dialogo che ci ha occupato nel primo capitolo di questa parte, il Simposio: «Secondo questo punto di vista, l’obiettivo dell’arte è sottrarci, attraverso l’educazione, all’arte e indirizzarci alla percezione di essenze puramente razionali. Vi è una scala a pioli successivi che guida dalla sensazione verso l’alto. Il gradino più basso consiste nella bellezza degli oggetti sensibili; gradino che è, moralmente, pericoloso perché siamo tentati di restarvi. Di qui siamo invitati a salire alla bellezza dell’intelletto, poi alla bellezza delle leggi e delle istituzioni, donde dovremmo ascendere alla bellezza delle scienze e poi potremmo muovere verso la conoscenza unicamente intuitiva della bellezza assoluta. La scala di Platone è, inoltre, una salita a senso unico; dalla bellezza più alta all’esperienza percettiva non c’è ritorno. […] I sensi sembra che siano, come per Platone,

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una seduzione che conduca l’uomo lontano dallo spirituale. Essi vengono tollerati solamente come veicolo attraverso il quale l’uomo può essere portato a una intuizione dell’essenza immateriale e non sensibile. […] non conosco altro modo di criticare questa teoria salvo di dire che si tratta di una metafisica fantasmatica irrilevante per l’effettiva esperienza estetica»103.

In Experience and Nature104 Dewey denuncia come l’idea di scienza dei greci – dominata dalla nozione di forma – fosse ipotecata dalla loro mentalità artistica, ma questo non deve far incorrere nella frettolosa ed errata conclusione che, nel suo esaltare la modalità epistemica della scienza moderna, Dewey intenda sostituire ad una visione qualitativa e estetica una concezione scientista (una misinterpretazione ampiamente diffusa nella letteratura deweyana sia a lui coeva sia successiva). Ciò che Dewey propone è piuttosto una ritessitura dei rapporti fra arte e scienza che, però, tesaurizzando le conquiste ‘epistemologiche’ della scienza moderna e portando all’esistenza l’autentica modernità105, superi la visione fissista, pre-darwiniana e metafisica della classicità. È importante sottolineare il carattere non tecnolatra o scientistico della indagine deweyana: si rammentino i termini con cui in How We Think si tratteggiava l’approdo dell’inquiry che mette capo a una situazione chiara, coerente, risolta, armoniosa, tutti termini di pretta caratura estetica. L’indagine di Dewey è attivata da una dinamica di bisogno-desiderio: la rottura dell’equilibrio con l’ambiente fa sorgere un «desiderio di ripristinare l’unione [che] converte la mera emozione in interesse per gli oggetti come

103 J. Dewey, Art as Experience, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 10 (1934), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1987, pp. 295-296 e 297-298, tr. it., Arte come esperienza, Firenze: La Nuova Italia, 1960, pp. 340-341 e 343 (con modifiche). 104 J. Dewey, Experience and Nature, cit., pp. 75 sgg., tr. it. cit., pp. 79 sgg. 105 J. Dewey, “Introduction to 1948 reprint of Reconstruction in Philosophy”, cit., p. 273.

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condizioni per realizzare l’armonia»106. In questo spazio aperto dal bisogno-desiderio (da Eros come figlio di Penía) il metodo dell’indagine è il medio attraverso cui si cerca di ristabilire l’armonia perduta attraverso l’esercizio di un’intelligenza che non è contemplazione disinteressata della realtà ma lavoro-su-di-essa, intervento-in-essa (un’intelligenza che quindi non è la scintilla olimpica di divinità ma è piuttosto imparentata con Ponos). Vi è una costellazione ‘simposiale’ (legata cioè al Simposio di Platone) che opera all’interno del dispositivo teorico deweyano, come è stato sottolineato da Jim Garrison: «Dewey sembra cogliere l’eredità della ascendenza di Eros meglio di Platone. Egli ci connette ai ritmi della vita in modi che ci aiutano a meglio comprendere le connessioni fra desiderio, metodo e saggezza pratica […] Dewey intendeva il ragionamento pratico come un’arte che implica la trasformazione creativa di situazioni dolorose e dominate dal bisogno in situazioni più desiderabili. Il ritmo di perdita e recupero è il ciclo della crescita espansiva, della genesi e del divenire. Per Dewey e Platone il bello, l’armonioso e il ben-formato sono una sola cosa. Ma al posto di un soprannaturalismo statico Dewey difendeva la crescita ritmica […] Tutta l’esperienza, pensava Dewey, mostra il ritmo di integrazione, disintegrazione e reintegrazione estetica. Per lui tutte le forme sono trovate o artisticamente create nel corso della esperienza pratica, vissuta, e tutte le forme, comprese le formule della scienza, recano un grado di soddisfazione estetica»107.

L’inquiry di Dewey è la ricerca di Socrate, senza cui la vita non è degna di essere vissuta, nell’era dell’influenza di Darwin sulla filosofia108, quando la filosofia è riportata al suo radicamento nel ritmo della vita. Se Eros è al contempo l’immagine di Socrate e del filo-sofo, secondo l’interpretazione di Hadot richiamata nel precedente capitolo, che sta 106

J. Dewey, Art as Experience, cit., pp. 20-21, tr. it. cit., p. 21. J. W. Garrison, Dewey and Eros: Wisdom and Desire in the Art of Teaching, New York: Teachers College Press, 1997, pp. 16-17. 108 J. Dewey, “The Influence of Darwinism on Philosophy”, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 4 (1907-1909), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1977, pp. 1-14. 107

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fra la sophia e l’ignoranza, il posto di Eros è occupato – in Dewey – dall’inquiry. Questa, proprio come nel caso del Socrate ‘vlastosiano’, ‘elenchico’ e ‘non-metodico’, non pretende di avere le chiavi di una conoscenza divina (perché assolutamente certa) bensì di una anthropíne sophía, di una sapienza umana, che non mette capo a verità ultime dedotte con metodo matematico, ma a quella che Dewey chiamava l’asseribilità garantita e quindi permane costantemente – come Eros – fra l’ignoranza e la sophia, se questa viene intesa come il sapere degli dei. L’inquiry deweyana, nella sua tensionalità ‘erotica’, è, inoltre, ancora una volta in analogia con quanto avveniva in Socrate, costitutivamente educativa. La tensione soteriologica di Eros viene da Dewey sottratta alla direzionalità a senso unico di Platone (la one-way ascent di cui si parla in Art as Experience) e a una sorta di escatologismo metafisico (si rammenti l’interpretazione di Landsberg) e restituita alla dinamica maestro-allievo nella ricerca del significato, che caratterizza l’opera di Socrate sulla strada per la piazza: in altre parole, l’Erlösungswissen (il sapere della salvezza) si compie nel Bildungswissen (il sapere della formazione umana). Ma, come già accennato, in Dewey il Bildungswissen non scaccia da sé lo Herrschaftswissen (il sapere della tecnica) ma lo ricomprende in sé. Infatti, la posizione media, intermediaria (come Eros) propria dell’inquiry è anche – in Dewey, come Larry Hickman ci ha insegnato a riconoscere – la posizione mediativa della tecnologia, intesa come ‘mobilitazione’ dei media, dei mezzi, degli strumenti: «L’intelligenza è per Dewey non qualcosa di sopra o contro la tecnologia, ma una caratteristica della tecnologia nel suo senso onorifico. In altre parole, quando ciò che è comunemente chiamato tecnologia fallisce nell’essere intelligente, essa, strettamente parlando, non merita il nome di “tecnologia” […] Le attività che Dewey chiamò tecnologia erano per lui un intermediario impegnativo, un legame tra i luoghi di riposo che noi chiamiamo dubbio da un lato, e risoluzione dall’altro. La techne era per i Greci attiva soltanto come applicazione di un corpo di abilità, ritenuto più o meno stabile. Ma la tecnologia

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era per Dewey un metodo attivo per generare e provare nuove abilità, nonché per ricostruire quelle vecchie»109.

Lo strumentalismo deweyano e il suo naturalismo umanistico, così spesso fraintesi, con al centro la sua nozione di intelligenza in quanto opposta alla ragione di marca cartesiano-kantiana, riannodano ciò che la modernità cartesiana teneva diviso, arte e scienza, eros e tecnica (questa è un’eredità che Matthew Lipman conserverà quando parlerà di educazione al pensiero complesso, con le dimensioni – intrecciate – del pensiero critico, creativo e caring). La generazione nel bello propria di Eros e la produzione della tecnologia sono ambedue forme di creazione di nuovi valori per l’esistenza, innescate da una disintegrazione di pristine unità e miranti a nuove armonie, e vivono nel medio del processo di inquiry che è processo formativo-educativo110, e non già applicazione di regole metodiche codificate. Si comprende, dunque, la particolare declinazione che l’educazione del pensiero ha in Dewey e anche il ruolo che viene ascritto al docente. Questi non è la levatrice che deve assistere il discepolo nel parto di una verità già completamente formata dentro di lui, ossia aiutarlo nel processo di reminescenza. È piuttosto una guida e orienta l’esploratività del discente, che deve apprendere a stabilire nessi significativi fra i fenomeni, attraverso un processo di indagine che si radica nell’esperienza pratico-sensibile del soggetto e culmina nella ristrutturazione del reale. In questo compito direzionale il maestro opera non solo con 109 L. A. Hickman, John Dewey’s Pragmatic Technology, Bloomington: Indiana University Press, 1992, pp. 11 e 19, tr. it., La tecnologia pragmatica di John Dewey, Roma: Armando Editore, 2000, pp. 29 e 39. 110 Cfr. M. Striano, “La pedagogia nell’Inquiry di J. Dewey”, «Paradigmi. Rivista di critica filosofica», XXVIII, settembre-dicembre 2010, pp. 117-129; Ead., “For an Educational Theory of Inquiry”, in J. R. Shook, P. Kurtz, Dewey’s Enduring Impact: Essays on America’s Philosopher, Amherst-New York: Prometheus Books, 2011. Sulla nozione di processo formativo cfr. F. Cambi, “Formazione e processo nella pedagogia occidentale: momenti, modelli, funzioni”, in F. Cambi, P. Orefice (a cura di), Fondamenti teorici del processo formativo. Contributi per un’interpretazione, Napoli: Liguori, 1996, pp. 81-100.

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procedimenti diretti ma – molto di più – con il suo esempio. Se lo stesso docente non procede in forma indagativa, se non opera secondo una logica dell’inquiry, se è invece direttivo (in quanto opposto a direzionale), prescrittivo e considera l’insegnamento un processo di trasmissione di pacchetti pre-confezionati di nozioni da memorizzare, allora ogni educazione del pensiero – per quanto oggetto di attenzione e preoccupazione pedagogica – sarà futile. Ciò accade quando «[s]i impone di tacere ai bambini che fanno delle domande; le loro attività volte ad esplorare o ad investigare vengono considerate sconvenienti, e quindi trattate come cose fastidiose; si insegna agli alunni a mandare a memoria le cose in modo da far nascere solo unilaterali associazioni verbali, anziché varie e flessibili connessioni con le cose stesse; non si forniscono piani e progetti che spingano lo studente a guardare innanzi a sé e a fare delle previsioni nell’attuazione delle quali una realizzazione dia origine a nuove domande e suggerisca nuove iniziative. L’insegnante può progettare esercizi speciali intesi ad addestrare direttamente il pensiero, ma finché esistono queste condizioni negative, ogni esercizio speciale è condannato ad essere futile»111.

Il docente deve aiutare a generare nel bello, ossia a crea­re nuovi significati, istituendo (e testando) nuove idee, che suggeriscono nuove relazioni nel reale, che ristabiliscono nuovi equilibri, nuove integrazioni armoniose e coerenti e quindi arricchiscono di senso la realtà. L’universo del senso non è, infatti, già compiuto alle spalle del discente, oggetto di rammemorazione, ma risiede nel futuro dischiuso dall’inquiry ed è, quindi, come quello della scienza moderna, non un mondo chiuso ma un universo infinito112, in costante divenire. Assistere nella generazione del bello, mantenere viva tale tensionalità ‘erotica’ di produzione di idee-significati111 J. Dewey, How We Think: A Restatement of the Relation of Reflective Thinking to the Educative Process, cit., p. 157, tr. it. cit., p. 123. 112 A. Koyré, Du mond clos à l’univers infini, Paris: Tel Gallimard, 1988 [ed. orig. 1957].

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valori implica conservare il processo di crescita. La nozione di crescita, in quanto articolata con quelle di inquiry e di educazione, è uno snodo cruciale del dispositivo teorico deweyano. Si fraintende Dewey se, ponendo l’accento sulla sua ricusazione dell’apprendimento trasmissivo e della memorizzazione di pacchetti pre-confezionati di contenuti disciplinari (il cascame pedagogico della logica metafisica della reminescenza), si legge la crescita come sviluppo del soggetto in formazione lasciato a se stesso, se la si interpreta, dunque, al di fuori del suo nesso costitutivo con inquiry e educazione. Tanto una impostazione adultocentrica quanto una puerocentrica sono egualmente estranee a Dewey, che ne palesa la collusione profonda – al di sotto della superficiale diversità – e le ‘supera’ nella direzione di una compiuta nozione di crescita, animata da quel principio della continuità di cui il crescere è una «esemplificazione»113. La prospettiva complessa di Dewey emerge in un passo di Experience and Nature che merita essere citato: «La realtà è il processo di crescita stesso; l’infanzia e l’età adulta sono fasi di una continuità all’interno della quale, proprio perchè si tratta di una storia, la fase posteriore non può esistere finché sussiste l’anteriore (“materialismo meccanicistico” in germe); e nella quale la fase posteriore fa uso degli esiti registrati e cumulativi dell’anteriore – o, più esattamente, è la sua utilizzazione (“teleologia spiritualistica” in germe). L’esistenza reale è la storia nella sua interezza, la storia proprio come essa è. Le operazioni che la dividono in due e poi riuniscono le parti col ricorso ad una forza causale sono egualmente arbitrarie e gratuite. L’infanzia è l’infanzia di e dentro un certo processo seriale di mutamenti che è proprio quello che è, e lo stesso dicasi della maturità»114.

113

«La crescita o il crescere e lo svilupparsi, non solo fisicamente ma intellettualmente e moralmente, è una esemplificazione del principio di continuità» (J. Dewey, Experience and Education, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 13 (1938-1939), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1988, p. 19). 114 J. Dewey, Experience and Nature, cit., p. 210, tr. it. cit., pp. 202-203 (con modifiche).

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Nel congegno deweyano il termine crescita ha un triplice significato115: il primo è biologico-organismico, è la maturazione fisica; il secondo è legato allo sviluppo di abiti di indagine, di abilità intellettuali; il terzo consiste nella “abilità di avere un’esperienza”, ossia di ampliare, arricchire, approfondire costantemente il capitale di significati con cui diamo senso al mondo. Tale ampliamento/arricchimento/ approfondimento, come si è visto, attinge certamente anche al patrimonio di significati depositati nella cultura e veicolati dagli adulti, senza che però questi significati siano sacralizzati in paradigmi trans-temporali. In questa prospettiva, l’accrescimento della capacità di avere un’esperienza è alimentato dalla coltivazione di abiti indagativi e dalla variegatezza di legami sociali: senza queste due condizioni si corre il pericolo di permanere all’interno di cornici di significato date, e non più adeguate alle transazioni con ambienti e contesti in continua evoluzione, ossia si rischia il dogmatismo e il passatismo, che sono i veri avversari del principio della ricostruzione della esperienza. Vi è, dunque, un circuito crescita-inquiry-educazione che James Johnson compendia con grande efficacia: «La crescita in quanto accomodamento dell’organismo al suo ambiente attraverso la transazione di organismo e ambiente richiede per questo accomodamento un mezzo mediante il quale possano esserci affidabilità e predicibilità degli accomodamenti presenti e futuri. Questo mezzo è l’indagine. L’indagine, attraverso la discriminazione analitica e la costruzione sintetica, attraverso l’ordinamento e il controllo, attraverso la sperimentazione, il test di ipotesi e la valutazione, aiuta l’organismo in questo accomodamento e offre crescita. […] Il compito di facilitare l’indagine, e in questo modo la crescita, compete all’educazione. L’educazione è il mezzo formale per lo sviluppo degli abiti e degli atteggiamenti di indagine, in modo tale che la crescita possa occorrere. […] È l’indagine che è educata e educare l’indagine è costruire nuovi significati. Costruire fatti sul mondo dotati di significato equivale ad espandere la riserva di significati che si possiede. Espandere 115 Seguo in questa ricostruzione J. S. Johnson, Inquiry and Education. John Dewey and the Quest for Democracy, cit., pp. 106 sgg.

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la riserva di significati che si possiede equivale ad arricchire le esperienze presenti e future. L’indagine è il mezzo primario con cui si provoca crescita e l’indagine è un abito che è sviluppato (e deve esserlo) e condotto a influire sulle situazioni ambientali e sociali. Sviluppare questo abito è precisamente ciò che si intende per educazione»116.

Il riferimento all’indagine come ad un abito da sviluppare è strategico in un’ottica deweyana ed esplorare questa dimensione è fondamentale per comprendere un aspetto cruciale della comunità di ricerca filosofica di Lipman come pratica, e più precisamente pratica educativa. Ma, prima di investigare questa dimensione, conviene ripercorrere in maniera schematica le tappe dell’argomentazione: l’attenzione alla nozione deweyana di democrazia come community of inquiry (che si costruisce in un confronto incessante con Platone) ha condotto a enfatizzare il nesso fra progetto democratico e educazione al pensiero e a esaminare la peculiarità della proposta pedagogica deweyana sullo sfondo sia della sua riflessione sulla scienza sia di quella sull’arte, che – nella modernità deweyana da portare all’esistenza – non sono manifestazioni antitetiche dell’umano essere nel mondo. Ciò ha permesso di riprendere il raffronto con l’impianto platonico, spostandolo dal piano politico-educativo a quello epistemico-educativo, con una focalizzazione sulla reinterpretazione deweyana della idea di eros, che ha profonde valenze filosofico-educative. Ma in questo percorso, se si sono individuate rilevanti dimensioni di senso della indagine, non se ne è persa la dimensione ‘comunitaria’? Non vi è stato uno slittamento sul versante individuale, con una sospensione di quello ‘sociale’? L’inquiry è forse propria del singolo soggetto in formazione (al più coadiuvato dal docente)? Il circuito crescita-indagine-educazione è autosufficiente e il momento comunitario, benché non 116

Ivi, pp. 109, 110, 111. Corsivi aggiunti. Ho reso con ‘accomodamento’ il termine inglese adjustment che è risaputamente un lessema strategico in Dewey ma anche uno foriero di ambiguità e travisamenti come opportunamente notato da Westbrook (John Dewey and American Democracy, cit., p. 127, n. 15).

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estraneo ad esso, è però un ammennicolo e non già un elemento costitutivo? Fin quando ci si muoveva sul piano della riflessione politico-educativa valeva il discorso della intrinsichezza di individuo e comunità (senza ovviamente alcuna tonalità fusivo-organicistica di stampo tedesco, aliena all’impostazione deweyana), laddove, quando ci si trasferisce sul livello della educazione del pensiero, la comunità stinge sullo sfondo? In opposizione a siffatto taglio interpretativo, si tratta di ribadire, per non sfigurare la proposta deweyana, l’indispensabilità del momento ‘comunitario’. È solo grazie alla comunicazione, allo scambio e condivisione di esperienze che l’individuo amplia il repertorio dei significati grazie ai quali dà senso al mondo: «[L]a condivisione di esperienze condurrà a più e ulteriore crescita – degli altri, certamente, ma anche dell’individuo. La condivisione di esperienze è, anche, la materia di cui è fatta la comunità. E questa comunità, utilizzando l’indagine nella ricerca di soluzioni per i problemi condivisi, aumenta ulteriormente le esperienze dell’individuo come risultato della soluzione di questi problemi e in questo modo provoca crescita»117.

In questo senso «[l]a comunità può essere vista sia come lo sfondo sul quale l’esperienza è resa più ricca e realizzante sia come il risultato della realizzazione di esperienze (condivise)»118. Al contempo e nello stesso movimento, solo l’innesto di una dimensione inquiring consente alla comunità di essere tale sfondo e tale risultato e non rastremarsi a enclave di credenze ossificate, inerzie intellettuali e comportamentali, di routine meccaniche e di dogmatismi. Ma la comunità che accoglie al suo interno, come motore e mezzo di crescita, l’indagine è la comunità in quanto democrazia, intesa come forma di vita votata alla ampiezza e varietà della comunicazione e agli abiti sperimentali di pensiero per risolvere le situazioni problematiche. Al 117

J. S. Johnson, Inquiry and Education. John Dewey and the Quest for Democracy, cit., p. 153. 118 Ivi, p. 138.

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cuore di essa vi deve essere – lo si è visto all’inizio del paragrafo e lo si deve ribadire ora, come approdo dell’itinerario argomentativo – una scuola rinnovata, che sola può permettere la promozione della capacità degli individui di avere esperienze, della sensibilità comunitaria e della forma mentis democratica, del pensiero critico e degli abiti di indagine, tutti aspetti – strettamente intrecciati – di uno scopo unico, quello della emancipazione umana in un’ottica deweyana119. Una scuola rinnovata è una scuola ricostruita in modo tale che in essa non latiti lo spirito sociale120, che promuova «comuni simpatie e una comune intesa»121 e funga così da volano di una nuova forma di cittadinanza: «Il contenuto del termine ‘cittadinanza’ si sta ampliando; sta giungendo a significare tutte le relazioni di ogni sorta che sono coinvolte nell’appartenenza a una comunità. Ciò di per se stesso tenderebbe a sviluppare un senso di qualcosa di assente nel tipo esistente di educazione. Cambiate l’immagine di ciò che costituisce la cittadinanza e cambierete l’immagine di quale è lo scopo della scuola. Cambiate quest’ultimo e cambierete l’immagine di ciò che la scuola dovrebbe fare e di come dovrebbe farlo»122.

Ciò che la scuola dovrebbe fare per essere all’altezza di una nozione più ampia di cittadinanza (che non si limiti cioè al – pur fondamentale – esercizio dei diritti politici, ma divenga impegno continuativo e condiviso di soluzione intelligente dei problemi della collettività) è favorire l’in119 Sul tema della emancipazione cfr. i saggi contenuti in G. Spadafora (a cura di), Verso l’emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia, Roma: Carocci, 2010. Per quello che si è venuti dicendo si può intendere la nozione di emancipazione come una possibile traduzione ‘deweyana’ dell’Erlösungswissen scheleriano e – più generalmente – metafisico. 120 J. Dewey, School and Society, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 1 (1899-1901), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1976, p. 10, tr. it. Scuola e società, Firenze: La Nuova Italia, 1967, p. 8. 121 J. Dewey, The School as Social Center, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 2 (1902-1903), a cura di J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1976, p. 82. 122 Ivi, p. 83. Corsivo aggiunto.

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staurarsi di abiti di indagine; il modo in cui deve farlo è attraverso l’attivazione di percorsi di indagine. L’inquiry è il che cosa e il come di una scuola intesa come centro sociale – un’idea nata, precisa Dewey, «dal nostro movimento democratico nella sua interezza»123 – ossia come agenzia per «la promozione attiva e organizzata di questo socialismo delle cose intangibili dell’arte, della scienza e di altri modi del rapporto sociale»124 (e in Dewey socialismo significa «[e]stendere l’ambito e la pienezza di condivisione delle risorse intellettuali e spirituali della comunità»125). Incisiva la sintesi che Johnson propone del nesso circolare e auto-alimentantesi crescita-indagine-comunità-democrazia-educazione: «C’è un forte collegamento fra crescita, comunità e democrazia, per mezzo del quale la democrazia genera la comunità, che genera ulteriore crescita, e la crescita conduce al desiderio per ulteriore crescita, che conduce alla comunità, che conduce alla democrazia. Ciò che dà impulso al movimento attraverso le connessioni è l’indagine: l’indagine, mediante gli strumenti di sperimentazione, ordinamento, direzione, controllo, osservazione attenta e la costruzione di fatti e oggetti, ci fornisce la capacità di realizzare come intraprendere l’incremento della crescita attraverso la comunità e la democrazia. È l’indagine nelle condizioni per l’ulteriore crescita che conduce alle nozioni di comunità e democrazia. Ed è l’educazione che provvede allo sviluppo dell’indagine»126.

L’educazione è la coltivazione di abitudini di indagine. È importante sottolineare la crucialità della nozione di abitudine nella riflessione di Dewey, pena il ripiombare in vecchie concezioni e non cogliere il proprium della sua proposta. Benché «le abitudini implich[ino] meccanizzazione, […] la meccanizzazione non è necessariamente tutto ciò che

123

Ivi, p. 92. Ivi, p. 93. 125 Ibid. 126 J. S. Johnson, Inquiry and Education. John Dewey and the Quest for Democracy, cit., p. 191. 124

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c’è nelle abitudini»127; abitudini e pensiero non sono opposti le une all’altro. È lo stesso Dewey ad avvertire che il rifiuto di riconoscere il ruolo degli abiti e la loro ‘alleanza’ col pensiero è complice di una teoria spettatoriale della conoscenza, quale è quella invalsa dagli albori della metafisica attraverso la sua rimodulazione nel razionalismo moderno di marca cartesiano-kantiana (e che si insinua ancora anche in costruzioni teoriche che si vogliono scientifiche): «La dottrina di un’anima singola, semplice e indivisibile è stata la causa e l’effetto del mancato riconoscimento del fatto che le abitudini concrete sono il mezzo della conoscenza e del pensiero. Molti di coloro che si credono scientificamente emancipati e che liberamente proclamano che l’anima è una superstizione perpetuano una nozione falsa di ciò che conosce, cioè lo ritengono un essere conoscente separato. Ai giorni nostri di solito essi si concentrano sulla coscienza in generale, intesa come una corrente o un processo o un’entità; o anche, in modo più specifico, sulle sensazioni e sulle immagini quali strumenti dell’intelletto. Ovvero talvolta essi credono di aver scalato le ultime vette del realismo richiamando enfaticamente l’attenzione su di un formale soggetto conoscente in generale che costituisca uno dei termini nella relazione conoscitiva; […] Le abitudini concrete compiono tutti questi atti di percezione, riconoscimento, immaginazione, ricordo, giudizio, formazione di concetti e ragionamento che vengono effettuati. La “coscienza”, sia essa concepita come una corrente o come specifiche sensazioni e immagini, sta ad indicare funzioni delle abitudini, fenomeni della loro formazione, operazione, del loro interrompersi e riorganizzarsi»128.

L’abitudine è «un’abilità, un’arte, formata attraverso l’esperienza passata»129. Come ha evidenziato Murphey le abitudini sono «non solo apprese dal bambino, ma sono insegnate dal gruppo. Sono quindi necessariamente sociali, non solo nella loro origine, ma anche nel fatto di essere 127 J. Dewey, Human Nature and Conduct, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 14 (1922), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1983, p. 50, tr. it., Natura e condotta dell’uomo, Firenze: La Nuova Italia, 1958, p. 76. 128 Ivi, pp. 123-124, tr. it. cit., pp. 189-190 (con modifiche). 129 Ivi, p. 48, tr. it. cit., p. 73.

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condivise»130. Ne deriva un’ulteriore conferma che abiti di indagine non possono essere efficacemente insegnati se non all’interno di una comunicazione sociale e in contesti educativi ‘abitati’ dalla indagine. Il che conferma il circuito comunità-democrazia-inquiry cui si è più volte fatto riferimento: se l’inquiry è il volano di una comunità democratica, il metodo con cui affronta i problemi, essa, a sua volta, è il presupposto del fiorire di abiti di indagine e dell’approfondimento dei significati cui mette capo, che a loro volta arricchiscono la comunicazione democratica, secondo la logica autogenerativa della crescita. Sarebbe futile131 ritenere di poter promuovere gli abiti di indagine attraverso l’educazione di un pensiero disincarnato, sottoposto ad una serie di esercizi di logica e all’apprendimento di principi e regole generali. Gli abiti di indagine emergono attraverso l’esperienza dell’indagine, all’interno di ambienti/setting/ contesti che sono costruiti per favorire l’inquiry. Uno dei lasciti pedagogici più importanti di Dewey consiste, in ultima analisi, nell’invito a intendere l’educazione al pensiero critico come coltivazione di abiti di indagine all’interno di una comunità che al metodo dell’indagine si ispira, per il confronto con le situazioni problematiche in cui incorre, e che ridisegna le sue agenzie formative in modo che divengano palestre in cui promuovere siffatti abiti. La grande intuizione di Matthew Lipman è stata quella di mobilitare – all’interno di tale cornice deweyana – la filosofia come agente di tale educazione alla e attraverso l’indagine: «Ho preso da Dewey l’idea che una sessione di lavoro in classe dovesse incominciare con qualcosa che sollecita l’interesse dei bambini per poi indurli a riflettere sul significato della loro esperienza, continuando a mantenere lo stesso interesse senza soluzione di continuità, fino alla fine della sessione. Le lezioni possono cominciare con una poesia, l’osservazione di un dipinto, una dimostrazione scientifica […] qualsiasi cosa 130

M. G. Murphey, “Introduction”, in J. Dewey, Human Nature and Conduct, cit., p. x. 131 J. Dewey, Human Nature and Conduct, cit., p. 49, tr. it. cit., p. 74.

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induca i bambini a pensare. Quello di cui Dewey non si era reso conto era che una disciplina come la filosofia, che aveva proprio sotto il naso – per così dire – potesse essere usata a tale scopo. In questo senso la Philosophy for Children rappresenta un modo deweyano di andare oltre Dewey»132.

La comunità di ricerca filosofica, come Lipman, con la indispensabile collaborazione di Ann Sharp133, l’ha ideata, è una pratica (e qui si sente l’eredità della riflessione deweyana sugli abiti) di coltivazione del pensiero critico attraverso l’indagine filosofica che accade in uno scambio dialogico (l’eredità socratico-platonica) a partire dalle esperienze/credenze dei soggetti (l’eredità socratico-deweyana), con il sostegno di un facilitatore non direttivo ma direzionale (l’eredità deweyano-vygotskiana). Cercare di comprendere il dispositivo lipmaniano significa, quindi, operare uno ‘sfoglio’ delle diverse dimensioni – reciprocamente e organicamente innestate – che la compongono e leggerla come innovazione pedagogica all’interno della tradizione pragmatista e come ripresa – declinata secondo una modernità deweyana – della dinamica indagativa che anima la socratica ricerca del significato, prima e al di fuori di ogni accademizzazione/metodicizzazione. Tale ricognizione permetterà anche di rispondere alla questione sulle potenzialità politico-emancipative che Lipman ascrive alla comunità di ricerca e alla pratica del con-filosofare. L’ultima tappa della presente trattazione consisterà, dunque, nel discutere la matrice complessa del congegno lipmaniano e nello svelarne i giacimenti di senso cui attinge la sua vitalità pedagogica e la sua attualità come risposta alle esigenze di ricostruzione della democrazia in quanto civitas educationis nel presente.

132

M. Striano, “La filosofia come educazione del pensiero. Una conversazione pedagogica con Matthew Lipman”, cit., p. 63. 133 Cfr. D. Kennedy, “Ann Sharp’s Contribution. A Conversation with Matthew Lipman”, «Childhood & Philosophy», Vol. 6, No. 11, gennaio/ giugno 2010, pp. 11-19.

CAPITOLO III Un modo socratico di andare oltre Dewey: la comunità di ricerca filosofica di Matthew Lipman 1. Tra Socrate e Peirce: la comunità di ricerca filosofica come dispositivo educativo-politico Nei precedenti capitoli si sono analizzati due congegni teo­ rici che hanno al loro centro una riflessione su modalità cooperative di indagine sull’esperienza e i suoi significati, indirizzate a una ristrutturazione della civitas politica e mosse – nel loro funzionamento profondo – da un ‘motore’ pedagogico: l’Accademia platonica, con gli slittamenti, trasformazioni, rovesciamenti di impostazione che ciò ha comportato rispetto alla cerchia socratica e la comunità democratica come cooperative inquiry1 di John Dewey. A questi due modelli corrispondono una certa idea dell’organo del pensiero (psuché immortale ovvero mind che sorge nella transazione organismo-ambiente2); della funzione del pensiero (attingimento di paradigmi eterni che strutturano la conoscenza perché costituiscono gli archetipi del reale ovvero arricchimento del repertorio di significati dell’esperienza); della relazione fra l’ambito della attività speculativa e sfera politica (segregazione di una comunità filosofica rispetto alla polis, come conseguenza dello scandalo del

1 Cfr. J. Campbell, “Democracy as Cooperative Inquiry”, in J. J. Stuhr (ed.), Philosophy and the Reconstruction of Culture, Albany: State University of New York Press, 1993, pp. 27-35. 2 Cfr. F. Cambi, “L’ultimo Dewey e la filosofia della mente”, in N. Filograsso, R. Travaglini (a cura di), Dewey e l’educazione della mente, Milano: FrancoAngeli, 2004: «[L]a mente e il pensiero umano perdono ogni aseità, sfuggono a ogni metodologismo e tornano dentro l’habitat esperienziale e lì assumono un volto più integrato e più funzionale, come pure un’identità più complessa e non formale. Il pensiero è funzione vitale e si struttura dentro il continuum dell’esperienza» (pp. 23-4).

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processo a Socrate, e instaurazione di un dominio pubblico altro rispetto a quello politico con lo scopo ultimo di rivitalizzare il politico e riorientarlo – mercé l’opera educativa dei filosofi formatisi nell’appartatezza dell’Accademia – sulla base di una conoscenza assolutamente certa; ovvero la democrazia come comunità di ricerca che coinvolge tutti i membri del consorzio civile e che postula, quindi, come suo volano, un’opera di educazione al pensiero critico-riflessivo diretta a tutti, inclusi i bambini); del ruolo dell’educativo nel filosofare (momento secondario rispetto alla visione del filosofo ovvero centrale nell’indagine filosofica in quanto non distinta da altre forme di indagine cooperativa) e nella destinazione ultima dell’uomo (subordinazione del Bildungswissen all’Erlösungswissen ovvero riconduzione del secondo al primo, con l’educazione come strumento di formazione della giusta vita sociale e di annunciazione del vero regno di Dio, secondo le espressioni del deweyano Credo pedagogico). Il compendio qui abbozzato delle argomentazioni sviluppate ha un carattere volutamente ‘manicheo’ – e quindi inevitabilmente, in certi limiti, caricaturale. Si insiste sulle contrapposizioni, sulle dicotomie, più che soffermarsi – come pur si è cercato di fare nelle pagine precedenti – sulle zone di sovrapposizione, sulle convergenze, sulle contaminazioni (e si pensi solo al rapporto complesso, di cui si è dato conto, dell’idea di democrazia come comunità di ricerca in Dewey con la riflessione platonica sullo stato ideale). Un’epitome così schematica ha l’intenzione di rendere viepiù icastica la paradossalità del costrutto lipmaniano di comunità di ricerca filosofica (CdRF), che si alimenta a fonti tanto platoniche quanto deweyane. Quasi un quarantennio di pratica della Philosophy for Children e di esercizio del confilosofare nelle classi trasformate in comunità di ricerca filosofica rischia di smussare e smorzare il senso di questa paradossalità, di farla apparire scontata, ovvia, non problematica. Si corre, cioè, il pericolo di operare proprio nei confronti dell’organo del progetto educativo lipmaniano una sospensione dell’atteggiamento interrogante-

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indagativo che esso dovrebbe promuovere. La via longa scelta, che è sembrata congedarsi dall’orizzonte lipmaniano e approfondire invece le proposte platoniche e deweyane, aveva come scopo proprio di scongiurare questo pericolo, ricostruendo le molteplici dimensioni che sono coinvolte nella nozione stessa di CdRF. Si trattava cioè di focalizzarsi su tipologie paradigmatiche di comunità di ricerca in modo da approntare una toolbox di strumenti concettuali che permettesse di leggere il dispositivo lipmaniano restituendogli tutta la sua complessità, in un movimento che – con Marshall McLuhan – si potrebbe definire dal cliché all’archetipo3, ossia tale da risalire dall’accettazione della CdRF come dato di fatto e pratica efficace di educazione del pensiero complesso alle sue matrici costitutive. La questione che si impone è come la CdRF ‘sintetizzi’ il lascito platonico e quello deweyano. Indugiando su quanto Dewey abbia riconosciuto il magistero platonico e lo abbia sviluppato in direzione democratica, si è già iniziato a tratteggiare un vettore di sviluppo del disegno educativo di Lipman, ma si deve insistere su come la confluenza dei due orizzonti avvenga anzitutto all’insegna di una ri-appropriazione pragmatista di Socrate e della sua pedagogia. Si potrebbe dire che la paradossalità della CdRF è la paradossalità di Socrate – il cui carattere perturbante-demonico è riconosciuto dal più ribelle dei suoi allievi, Alcibiade nel Simposio – filtrata attraverso la lezione pragmatista4. Lip­man individua quattro tratti fondamentali dell’insegnamento socratico: 1. «Tutti i concetti fondamentali dovrebbero essere operazionalizzati e queste operazioni dovrebbero essere

3

M. McLuhan, From Cliché to Archtype, New York: The Viking Press, 1970. 4 Per il pragmatismo cfr. J. P. Murphy, Pragmatism. From Peirce to Davidson, Boulder (Colorado): Westview Press, 1990, tr. it., Il pragmatismo, Bologna: il Mulino, 1997; R. Calcaterra, Introduzione al pragmatismo americano, Roma-Bari: Laterza, 1997; Ead., Pragmatismo: i valori dell’esperienza. Letture di Peirce, James e Mead, Roma: Carocci, 2003.

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correttamente sequenziali»5. Per operazionalizzazione del pensiero si intende che «[p]ensare è un lavoro ed è un tipo di lavoro che nessuno può fare per qualcun altro. Socrate modella l’indagine intellettuale per noi e tuttavia si trattiene dall’imporci i prodotti della sua indagine intellettuale. Riconoscendo la partnership di teoria e pratica, non ci raccomanda niente di desiderabile per noi senza indicare i passi ai quali possa essere associato. […] egli operazionalizza tutto ciò che raccomanda: se c’è un concetto da scoprire – di amicizia, di coraggio, di amore, di bellezza – allora ci sono specifici passi sequenziali che si possono fare per togliere quel concetto dal suo nascondimento»6. In siffatta presentazione del ‘metodo’ socratico è evidente l’influenza del Dewey che ripensa l’operazionismo di Bridgman7. 2. «L’indagine intellettuale dovrebbe iniziare con gli interessi dello studente»8 perché «si deve riconoscere come prioritario [l’]interesse dell’individuo nel miglioramento della gestione della sua vita, perché noi non abbiamo miglior incentivo che vedere le nostre vite migliorare grazie al fatto che riflettiamo a fondo su di esse»9: un principio pedagogico, questo, squisitamente deweyano riconosciuto ovvero ermeneuticamente importato nell’operare educativo di Socrate. 3. «Uno dei modi migliori di stimolare le persone a pensare è di coinvolgerle nel dialogo»10. Anche questo che è un architrave dell’impianto socratico-platonico, si può dire una delle ‘invenzioni’ di Socrate/Platone, trasmesse alla cultu5

M. Lipman, A. M. Sharp, F. S. Oscanyan, Philosophy in the Classroom, Philadelphia: Temple University Press, 1980, p. xv. Cfr. su questo tema il fondamentale M. Santi, Ragionare con il discorso. Il pensiero argomentativo nelle discussioni in classe, Napoli: Liguori, 2006. 6 M. Lipman, A. M. Sharp, F. S. Oscanyan, Philosophy in the Classroom, p. xiii. 7 Cfr. J. Dewey, The Quest for Certainty, cit. 8 M. Lipman, A. M. Sharp, F. S. Oscanyan, Philosophy in the Classroom, cit., p. xv. 9 Ivi, p. xiv. 10 Ivi, p. xv.

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ra occidentale, riceve un trattamento pragmatista. Infatti, nell’articolare siffatto principio Lipman scrive: «Quando partecipiamo al dialogo, dobbiamo essere intellettualmente in punta di piedi – non vi è posto per il ragionamento sciatto o osservazioni involontarie o stupidi canzonamenti. Dobbiamo ascoltare attentamente gli altri (perché ascoltare è pensare), dobbiamo pesare le nostre parole (perché parlare è pensare). E poi dobbiamo ripetere [rehearse] nelle nostre menti ciò che noi e gli altri abbiamo detto e riconsiderare ciò che avremmo potuto dire o che gli altri avrebbero potuto dire. Così, partecipare al dialogo è esplorare possibilità, scoprire alternative, riconoscere altre prospettive e stabilire una comunità di ricerca. Quando i membri della comunità riflettono sulla processione delle idee e sulla logica del loro emergere, ciascuno di essi replica la conversazione originaria, ma con nuove accentuazioni, perché l’angolo di visione di ciascun individuo è differente»11. Rappresentare in questo modo le potenzialità educative della pratica dialogica e il suo procedere significa ritradurla in termini peirceani (per l’accento sulla comunità di ricerca) e attingere alla riflessione di George Herbert Mead, che enfatizza come la mente e il Sé emergano dall’interazione simbolica all’interno di un processo sociale, attraverso l’interiorizzazione del ruolo e delle risposte dell’altro, e sottolinea la dialettica fra il ‘Me’ – ossia la parte del Sé nata dalla interiorizzazione dell’altro generalizzato – e dell’‘Io’, la parte di innovatività individuale12. 4. «Il pensare eccellente è logico e fondato sulla esperien­ za»13. Infatti, «Socrate dimostra che ciascuna credenza 11

Ibid. G. H. Mead, Mind, Self, and Society from the Standpoint of a Social Behaviorist, in Id., Works of George Herbert Mead, edited by Charles W. Morris, vol. I, Chicago and London: The University of Chicago Press, 1967, specialmente i §§ 24-28. Lipman era ben consapevole del debito con l’impostazione meadeana e lo riconosce esplicitamente in Thinking in Education (Cambridge: Cambridge University Press, 1991, specialmente pp. 230-231). 13 M. Lipman, A. M. Sharp, F. S. Oscanyan, Philosophy in the Classroom, cit., p. xv. 12

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deve essere soggetta ai test della logica e della esperienza. Non importa di chi siano le opinioni o le idee – esse debbono sottomettersi alla esigenza di essere internamente consistenti e i loro proponenti debbono divulgare le prove [evidence] che le supportano»14. Siffatta formulazione del magistero socratico lo traduce in termini che evocano non solo la riflessione logica di Dewey ma il Peirce che oppone il metodo della tenacità e quello dell’autorità all’indagine propriamente detta, che è intersoggettiva, autocorrettiva e basata sulla continua verifica delle ipotesi/idee. L’interpretazione pragmatisticamente accaparrante di Socrate da parte di Lipman suggerisce un possibile percorso da seguire nel momento in cui ci si accinga a studiare la CdRF come progetto educativo-democratico, ossia quello di analizzarne il dispositivo tanto nella sua origine pragmatista quanto nei suoi innesti socratici. La questione allora diventa: in che cosa la CdRF conserva tracce della peirceana community of inquiry? In che cosa questa eredità peirceana è letta però attraverso una lente deweyana, tanto da indicare nella CdRF un fattore di possibile ricostruzione del pubblico e non solo una strategia di educazione del pensiero? E ancora: nel momento in cui – all’originario costrutto peirceano che si riferisce alla comunità dei ricercatori scientifici – Lipman aggiunge, con una mossa che costituisce il suo contributo più originale, il riferimento alla filosofia, quale è la comprensione che ha delle valenze educative della filosofia? E questa comprensione non deriva forse da una lettura ‘socratica’ di Dewey, ovvero dalla valorizzazione delle risorse pedagogiche del con-filosofare, che è – come si cercherà di argomentare – un elemento presente negli scritti di Dewey ma di cui è stato Lipman a sprigionare tutto il potenziale, in quel movimento di oltrepassamento deweyano di Dewey di cui egli ha parlato nella citata intervista a Maura Striano? D’altro canto, quando si passa dalla CdRF come struttura

14

Ivi, p. xiv.

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alla CdRF come processo15, non vi è forse una ‘deweynizzazione’ di Socrate, quale si può riscontrare sia nella diversità della posizione del facilitatore all’interno della comunità di ricerca (rispetto a quella di Socrate nella sua cerchia) sia nella particolare declinazione che l’eros socratico trova nel divenire della CdRF? L’esame della lipmaniana CdRF avverrà dunque in un duplice movimento: dapprima se ne investigherà la radice negli scritti di Peirce, la sua trasformazione attraverso Dewey (già anticipata con le indagini del capitolo precedente) e la sua riplasmatura da parte di Lipman con l’inserzione dell’elemento filosofico, che è sia un innesto ‘socratico’ sia la riscoperta e la mobilitazione pedagogica di un fattore non estraneo al congegno teorico di Dewey ma che questi non aveva mai tematizzato a fondo. In questo senso, coglie nel segno David Kennedy quando nota che «il pensiero di Dewey è fondazionale, se non per il curriculum, certamente per la pedagogia e la politica educativa della PFC [Philosophy For Children]. La metodologia della PFC può essere intesa sia come un compimento della visione educativa di Dewey sia, nel processo, come una correzione e reinterpretazione di come quella visione possa essere realizzata. La formulazione di Matthew Lipman del concetto di comunità di ricerca articola in un modo nuovo e avvincente la struttura profonda del pensiero educativo di Dewey e lo rende immediatamente rilevante per le condizioni attuali»16.

Il secondo movimento, invece, consisterà nel sottolinea­ re gli ‘scarti’ rispetto al magistero socratico – pur costantemente richiamato da Lipman – che derivano dalla sua creativa mislettura attraverso la prospettiva di Dewey e più in generale delle pedagogie progressive del ’90017. Si 15

Cfr. per questa distinzione D. Kennedy, “Philosophy for Children and School Reform. Dewey, Lipman and the Community of Inquiry”, in J. P. Portelli & R. F. Reed (eds.), Children, Philosophy, and Democracy, Calgary, Alberta (Canada): Detselig Enterprise Ltd., 1995. 16 Ivi, pp. 160-161. 17 Cfr. R. Morehouse, “Philosophy for Children: Curriculum and Practice”, «Thinking. The Journal in Philosophy for Children», Vol. 10, No.

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investigherà, inoltre, perché, nonostante la sua costitutiva labilità – un carattere che parrebbe differenziarla dai suoi antenati peirceano-deweyani – la CdRF non sia però assimilabile al Bund e rappresenti una tipologia di relazioni sociali completamente altra, che arpeggia su un registro comunitario senza però scivolare nei rischi di fusione18 che abitano la nozione di comunità. Si vedrà allora la singolarità di una comunità che si costruisce nel medio dell’inquiry, per cui il consolidarsi dei legami fra i membri della CdRF corre parallelo allo sviluppo della indagine sul tema durante le sessioni. I due momenti del presente esame della lipmaniana CdRF si compiono all’interno di un orizzonte che prende sul serio l’accenno lipmaniano alle valenze politiche della CdRF19 e perciò con un’attenzione a come essa sia la cellula germinale di una ricostruzione della democrazia come forma di vita associata. Nella sua ultima intervista (a David Kennedy) Lipman ha ricordato che «per quanto riguarda la mia storia personale con il termine comunità di ricerca, attribuisco il suo inizio completamente a Justus Buchler […] Egli citava il termine, e ovviamente lo attribuiva a Peirce, in un suo libro che lessi nel 1959 o giù di lì. Gli dissi che mi piaceva ed egli disse che per Peirce era solo una espressione provvisoria, non sviluppata. Dissi a Justus, questo è un termine che rappresenta qualcosa di cui abbiamo un gran bisogno»20. 3, 1993, pp. 7-12; Id., “Philosophy for Children and Other Progressive Pedagogies”, «Analytic Teaching and Philosophical Praxis», Vol. 13, No. 1, 1993, pp. 45-52. 18 Cfr. J. Campbell, “Community Without Fusion: Dewey, Mead, Tufts”, in R. Hollinger, D. Depew (eds.), Pragmatism. From Progressivism to Postmodernism, Westport (Connecticut)-London: Praeger, 1995, pp. 56-71. 19 M. Lipman, Thinking in Education, cit.; cfr. il volume di A. Volpone (a cura di), FilosoFare, politica e società, Napoli: Liguori, 2008 (in particolare i saggi di M. Santi, “«Comunità di ricerca» e democrazia del pensiero: la Philosophy for Children come opportunità di internalizzazione del discorso euristico” e F. Pulvirenti, “La pratica filosofica come assunzione di responsabilità individuale”). 20 D. Kennedy, “Ann Sharp’s Contribution. A Conversation with Matthew Lipman”, cit., p. 15.

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Come Kennedy conclude, l’operazione di Lipman è stata quella di prendere il termine, che neanche Buchler aveva sviluppato, e di dargli un nuovo impulso collocandolo in una nuova cornice, quella di un progetto di educazione al pensiero complesso21. Ma che cosa c’è di promettente nella nozione peirceana di comunità di ricerca? Per comprenderlo occorre ripercorrere l’epocale articolo su The Fixation of Belief. In esso Peirce individua quattro metodi di ricerca e, come è stato acutamente sottolineato22, li lega ad altrettanti contesti politici, fatto di particolare rilievo in una riflessione come quella qui condotta, in cui la lipmaniana CdRF è investigata sia come dispositivo di educazione al pensiero complesso sia come progetto educativo-politico. La ricerca per Peirce è «la lotta per conseguire uno stato di credenza» [5.37423]. La credenza è ciò che acquieta l’irritazione del dubbio e stabilisce un abito, qualcosa che guida i nostri desideri e modella le nostre azioni. Il dubbio di cui parla Peirce non è una domanda futile, prodotta per puro gusto di «mettere in questione ogni cosa» [5.376] e non cagionante, quindi, quello stato effettivo di «irrequietezza e insoddisfazione per uscire dal quale lottiamo per passare allo stato di credenza» [5.372]. Infatti, nota Peirce, «il puro e semplice porre una questione in forma interrogativa non stimola la mente 21

Nella stessa intervista Lipman riconosce il contributo della Sharp, soprattutto nella declinazione pedagogica del termine: «Ero molto contento del riconoscimento che dava al termine, benché io non fossi così entusiasta come lo era lei. Diceva che era proprio ciò di cui avevamo bisogno – un modello cooperativo di educazione funzionante che combina il pragmatismo con tutte le persone che stavano lavorando ad aprire un nuovo approccio alla filosofia. […] Ella non ebbe nessuna esitazione a far proprio il termine. Probabilmente non lo avrei fatto da solo» (Ivi, pp. 15-16). 22 R. B. Talisse, “Towards a Peircean Politics of Inquiry”, «Transactions of the Charles S. Peirce Society», Winter 2004, Vol. 40, No. 1, pp. 21-38. 23 Si utilizzeranno per indicare i passi di Peirce citati il numero del volume dei Collected Papers (il primo numero, prima del punto) e del paragrafo (dopo il punto). La traduzione italiana è quella contenuta in Ch. S. Peirce, Opere, a cura di M. A. Bonfantini, Milano: Bompiani, 2003 (Il fissarsi della credenza è alle pagine 357-371).

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ad alcuna lotta per la credenza. Senza alcun dubbio reale e vivente ogni discussione è oziosa» [5.376]. D’altro canto, visto che il fine della ricerca è la cessazione del rovello del dubbio, «il solo obiettivo della ricerca è lo stabilirsi di un’opinione. Si potrebbe supporre che questo non basti, e che noi andiamo in cerca non meramente di un’opinione ma di un’opinione vera. Ma se mettete alla prova questa supposizione, la troverete senza fondamento: infatti, appena raggiungete una salda credenza, siete perfettamente soddisfatti sia che la credenza sia vera oppure falsa» [5.375]. Alla luce di questa impostazione si comprende la pluralità di metodi di indagine che Peirce identifica. Il primo è quello della tenacia che consiste nel dare «a una domanda una qualsiasi risposta immaginabile […] [e] poi ripetercela costantemente soffermandoci su quanto può condurci a quella credenza, e imparando a distoglierci con odio e disprezzo da quanto potrebbe disturbarla» [5.377]. Ma questo metodo non può funzionare perché «[l’]impulso sociale gli è contrario. L’uomo che l’adotti troverà altri uomini che la pensano diversamente da lui, e potrà venirgli in mente in qualche momento di lucidità che le loro opinioni sono buone quanto la sua, e questo scuoterà la sua fiducia nella propria credenza. Questa concezione secondo la quale il pensiero o il sentimento di un altro può equivalere al proprio, è un nuovo passo, e un passo molto importante. Nasce da un impulso troppo forte nell’uomo per essere cancellato senza pericolo di distruggere la specie umana» [5.378]. Come nota Talisse24, il metodo della tenacia presuppone un contesto apolitico, anarchico-individualista, e si rivela in ultima istanza insostenibile perché noi non siamo degli “eremiti”. Il metodo della tenacia, nella misura in cui tiene conto di questa natura sociale degli uomini, cioè della vocazione a creare comunità, consorzi interumani, cede il posto al metodo dell’autorità, che arruola lo Stato come quella istituzione che è incaricata di svolgere il ruolo che nel primo metodo era svolto dalla volontà individuale. At24

R. B. Talisse, “Towards a Peircean Politics of Inquiry”, cit., p. 23.

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traverso la ripetizione costante di dottrine spacciate come corrette e l’eradicazione di quelle contrarie, attraverso il controllo dell’insegnamento, il mantenimento degli uomini nella «ignoranza per evitare che imparino a pensare diversamente da come pensano» [5.379], l’inquadramento delle loro passioni «in modo che gli uomini considerino con odio e orrore le opinioni private e insolite» [ibidem], la riduzione «al silenzio con il terrore» [ibidem] o, come extrema ratio, la soppressione «di tutti quelli che non hanno pensato in un certo modo» [ibidem], lo Stato è deputato a sorvegliare che invalgano le credenze che evitano l’irritazione del dubbio. Ma questo metodo dell’autorità, oltre che indesiderabile, non è meno disfunzionale di quello della tenacia: anzitutto, nessuna istituzione è in grado di fissare le opinioni su ogni argomento; in secondo luogo, la natura sociale degli uomini li porterà sempre a interagire con altri uomini e a conoscere così opinioni differenti; infine, anche negli Stati più oppressivi vi saranno uomini che comprenderanno che in altri contesti e in altre epoche si sono coltivate altre dottrine e che «solo per puro caso hanno avuto l’insegnamento che hanno avuto e sono stati circondati dai costumi e dalle associazioni che hanno» [5.381], sicché il dubbio si insinuerà nelle loro menti circa il valore assoluto delle credenze da loro professate. Il riferimento insistito al tema dell’insegnamento nei paragrafi dedicati al metodo dell’autorità è una spia testuale del fatto che Peirce gioca anche una partita pedagogica. In un altro passo dei Collected Papers si legge: «La prima cosa che la Volontà di Apprendere suppone è la insoddisfazione per il proprio presente stato di opinione. Là risiede il segreto del motivo per cui le nostre università americane sono tanto miserevolmente insignificanti. Che cosa hanno fatto per l’avanzamento della civiltà? Qual è la grande idea o dov’è il singolo grande uomo che possano essere dichiarati prodotto di una università americana? Le università inglesi, per quanto da sempre marciscano nell’ignavia, hanno nondimeno dato, nel passato, i natali a Locke e Newton e, nel nostro tempo, a Carlyle, Sylvester e Clifford. Le università tedesche sono state la luce del mondo intero. L’Università me-

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dievale di Bologna diede all’Europa il suo sistema giuridico. L’Università di Parigi e quella disprezzata scolastica presero Abelardo e ne fecero un Descartes. La ragione era che esse erano istituzioni dell’apprendimento mentre le nostre sono istituzioni dell’insegnamento. Affinché il cuore di un uomo possa nella sua interezza essere posto nell’insegnamento egli deve essere completamente impregnato della importanza vitale e della assoluta verità di ciò che deve insegnare; mentre, per avere un certo successo nell’apprendimento, deve essere permeato del senso della insoddisfazione della sua attuale condizione di conoscenza. I due atteggiamenti sono quasi inconciliabili». [4.583. Corsivi aggiunti. Traduzione a cura dell’autore]

Peirce scava dunque un solco fra l’insegnamento e l’apprendimento: l’uno è la trasmissione di contenuti socialmente sanzionati, l’altro si avventura nel nuovo. L’uno è di fatto ricompreso nell’alveo del metodo dell’autorità (di qui la ricorrenza nel contesto della discussione di quel metodo di fissazione della credenza), l’altro è il motore della scoperta e della ricerca. Ma è questo dissidio insuperabile? Si possono immaginare forme di insegnamento che invece di spegnere e soffocare la Volontà di Apprendere nel senso peirceano, l’alimentino e la rafforzino? Non è forse questa una delle sfide portate dal progetto pedagogico lipmaniano all’istituzione scolastica? In questo senso, al di là delle profonde trasformazioni cui sottopone il lascito peirceano, non permane in Lipman un’eco incisiva delle questioni sollevate da Peirce e il suo non può essere anche visto come un tentativo di rispondere ad esse? La mossa più geniale di Lipman non consiste forse nel mobilitare, ri-significandolo, un costrutto peirceano, la comunità di ricerca, proprio per colmare un divario – quello fra insegnamento e apprendimento – che a Peirce sembrava irrecuperabile? Si tornerà su tali domande, ma metteva conto sollevarle qui per far emergere ancora di più la complessità delle questioni che si stratificano all’interno della nozione lipmaniana di CdRF. Le manchevolezze pratiche del secondo metodo (il che non toglie che sia ampiamente seguito – «Il metodo dell’autorità governerà sempre la massa del genere uma-

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no» [5.386], scrive Peirce – e consegua importanti risultati nella fissazione delle credenze) spingono a adottare «un metodo che non solo produrrà un impulso a credere, ma che deciderà anche quale sia la proposizione che deve essere creduta. Se non sarà impedita l’azione delle preferenze naturali, e se gli uomini, sotto la loro influenza, converseranno insieme e considereranno ogni argomento sotto luci diverse, allora, gradualmente, le credenze si svilupperanno in armonia con le cause naturali» [5.382]. È sostanzialmente il metodo, nota Peirce, che si usa nelle questioni d’arte, anche se «l’esempio più perfetto si può trovare nella storia della filosofia metafisica. I sistemi di questo genere non si sono basati usualmente sui fatti osservati, almeno non in grande misura. Sono stati piuttosto adottati soprattutto perché le loro proposizioni fondamentali apparivano “in accordo con la ragione”. Questa è una espressione adatta, poiché non significa ciò che è in accordo con l’esperienza, ma ciò che siamo portati a credere» [ibidem]. Di questo metodo Peirce dice che è «assai più intellettuale e rispettabile, dal punto di vista della ragione […]. In realtà, fino a quando non può essere applicato un metodo migliore, lo si deve seguire […]. Questo metodo considera la ricerca qualcosa di simile allo sviluppo del gusto; ma il gusto, sfortunatamente, è sempre più o meno una questione di moda, e conseguentemente i metafisici non hanno mai raggiunto un accordo definitivo, ma il pendolo ha oscillato avanti e indietro tra una filosofia più materialista e una più spiritualista dall’inizio a oggi» [5.383]. Si debbono fare due notazioni, importanti nella cornice della presente trattazione indirizzata a una analisi della lipmaniana CdRF come progetto educativo-politico. Anzitutto è significativo come Peirce indichi nella filosofia speculativa-metafisica l’esempio più nitido di metodo della ragione a priori e come quindi la ricerca filosofica – in questa accezione – cada nella critica che coinvolge il terzo metodo nella sua interezza: ma che cosa dire di una filosofia che – per riprendere le parole di Dewey sul Platone drammatico, inquieto, cooperativamente indagante – fa ter-

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minare i voli più elevati di metafisica sempre con una svolta sociale e pratica? Di una filosofia che cerca di incorporare in se stessa un abito sperimentale, fallibilista e un richiamo costante all’esperienza? Non è forse questo – sia detto come anticipazione di un tema su cui si tornerà – uno dei tratti principali della nozione lipmaniana di filosofia e ciò che consente a Lipman di integrare la filosofia all’interno del dispositivo della comunità di ricerca, e della sua dinamica autocorrettiva e critica, che non si accontenta – come invece fa il metodo a priori – di «conclusioni confortevoli […] lusinghe alla nostra vanità alle quali per natura crediamo, fintanto che rudi fatti non ci svegliano dai nostri piacevoli sogni» [5.386]? Durante le sessioni della lipmaniana CdRF non è forse all’opera il movimento del superamento delle posizioni individuali acritiche, delle credenze ‘per sentito dire’ o derivanti dalla ‘moda’ e dal discorso sociale supinamente accettato, di cui si è imbevuti senza sottoporlo a dubbi, attraverso un lavoro di decostruzione che testi la loro validità e le loro credenziali epistemiche? E se è vero che, a differenza che in Peirce, il quale fa riferimento alla comunità di ricerca degli scienziati, la correzione non giunge per l’impatto con qualcosa di esterno, coi “rudi fatti”, è pur vero che mai deve mancare nella CdRF il riferimento all’esperienza, la discussione sui concetti non deve perdere l’ancoraggio all’universo della esperienza e che è compito del facilitatore scongiurare che il lavoro della CdRF si riduca a un trastullamento con fumisterie e astrattezze e favorire che i più ‘arditi voli metafisici’ siano ri-tradotti nei termini di credenze del mondo-della-vita (il che non equivale, ovviamente, a un grezzo praticismo, alla esigenza di emettere ricette per la pratica, ma solo a legare la filosofia all’esperienza dei soggetti25). Per questo motivo, pur essendo fondata sull’esercizio del filosofare, la lipma25

Su questo principio generale della P4C ha insistito particolarmente Ann Sharp, parlando della necessità di una ‘traduzione’ della filosofia nella esperienza dei soggetti: cfr. M. Striano, S. Oliverio, “«Philosophy for Children», un percorso educativo attraverso la filosofia. Intervista ad Ann Margaret Sharp”, «Iride», XX, 51, maggio-agosto 2007, pp. 253-73.

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niana CdRF affonda le sue radici, con tutte le differenze e trasformazioni, piuttosto nel quarto metodo peirceano che non nel terzo. Ma si può dire qualcosa di più: essa si propone come framework pedagogico26 per promuovere il quarto metodo (nella misura in cui è sperimentale, autocorrettivo, fallibilista e tendente però a un consenso ampio basato sulla verità o almeno sull’espunzione delle credenze insostenibili, che non reggono cioè al vaglio della logica e dell’argomentazione razionale e sulla fissazione di credenze asseribili in maniera garantita, per riprendere la dizione deweyana27), e lo fa attraverso lo smantellamento delle resistenze derivanti dall’invalere degli altri metodi. Così, far parte di una CdRF, accettare il cimento di un lavoro cooperativo di discussione delle proprie credenze e di elaborazione di nozioni condivise significa rinunciare alla «forza […] semplicità e […] immediatezza» del metodo della tenacia, una «regola mentale» che consente di «non perd[er] tempo per cercare di decidere che cosa [si vuole]» ma di concentrarsi «sulla prima alternativa, qualunque sia, e [attenervisi] fino alla fine, ad ogni costo, senza un attimo di indecisione» [5.386]; significa sfidare le sicurezze del metodo dell’autorità, non tanto quelle assicurate con strumenti oppressivi, persecutori, cruenti, quanto quelle più sottili e subdole, ma non meno pericolose derivanti da un lato “da un terrorismo morale al quale la rispettabilità sociale darà la sua piena approvazione”, ossia quelle concernenti il riposante adagiarsi nell’inautenticità dello heideggeriano Man, il Si, ‘soggetto’ anonimo e impersonale, e perciò ir-responsabile, del ‘si dice, si pensa così’, e, dall’altro lato, provenienti da una remissione all’ipsedixitismo (e 26

R. Morehouse, “Developing Communities of Inquiry in the USA: Re­ trospect and Prospective”, «Analytic Teaching and Philosophical Praxis», Vol. 30, No. 2, 2010, p. 21. 27 La precisazione deriva dal fatto che Lipman non avrebbe accettato la visione peirceana della verità come meta ultima ideale della comunità di ricerca e avrebbe inclinato piuttosto alla versione deweyana formulata nei termini della asseribilità garantita. Quello che però qui interessava rilevare è che Lipman riprende, della comunità di ricerca stricto sensu peirceana, l’idea di un abito sperimentale e autocorrettivo.

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compito del facilitatore – in quanto distinto da un maestro trasmissivo e autoritario – è di evitare di collocarsi nella posizione di colui che è il titolare dell’ipse dixit); significa, infine, non accontentarsi delle credenze “gradevoli alla ragione” del terzo metodo, che rischiano di essere né più né meno di una questione di «moda» [5.383], ma di impegnarsi nell’opera della verifica, del test delle credenze. La seconda notazione, che si intende qui svolgere sul metodo della ragione apriori, riguarda il modello politico a cui essa fa – implicitamente – riferimento. Nella sua mappatura dei metodi peirceani rispetto ai contesti politici Talisse osserva: «Il metodo istruisce a credere ciò che è “piacevole alla ragione”; tuttavia, dal momento che è chiaro che Peirce intende distinguere il metodo a priori dalla tenacità, l’espressione “piacevole alla ragione” deve essere interpretato come denotante l’opinione che è generalmente creduta, quella che ha guadagnato il consenso generale, quella che è convenzionale. In questo senso, allora, ciò che è “piacevole alla ragione” sarà semplicemente quello che una certa classe all’interno della società, in maniera tipica una classe privilegiata, trova intuitivo e affascinante. Il metodo a priori, dunque, potenzia le classi privilegiate ed eleva i loro pregiudizi allo status di verità. Il metodo a priori, allora, è una aristocrazia epistemica ed è ben adatto ad un ordine politico aristocratico»28.

L’impostazione complessiva di Talisse pare fortemente ipotecata da uno schema quasi-spenceriano, per cui al ‘progresso’ dei metodi della ricerca corrisponde un procedere dei contesti politici da quello pre- e anti-politico dell’anarchismo individualista, attraverso l’autoritarismo chiesastico o statolatrico prima e poi l’aristocraticismo epistemico fino alla democrazia dell’indagine. In realtà, fermo restando il riconoscimento dell’opportunità del richiamo di Talisse a legare i metodi di fissazione della credenza a forme di organizzazione politica, un’altra interpretazione può essere avanzata del metodo della ragione a priori. Infatti, è vero 28

R. B. Talisse, “Towards a Peircean Politics of Inquiry”, cit., p. 24.

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che Peirce fa riferimento a questioni di gusto e di arte (e quindi parrebbe rimandare a una aristocrazia sofisticata e raffinata), ma non si deve dimenticare che parla anche di «moda» [5.383] e di «conclusioni confortevoli» [5.386]. Inoltre, Peirce osserva che «[q]uesto metodo […] non differisce essenzialmente da quello dell’autorità. Il governo può non aver alzato un dito per influenzare le mie convinzioni […] ma non posso fare a meno di vedere che, sebbene i governi non interferiscano, i sentimenti, nel loro sviluppo, saranno in gran parte determinati da cause accidentali» [5.383]. Alla luce di questi passi si può proporre un’altra lettura: questo metodo, nella sua contiguità con quello dell’autorità e il suo “terrorismo morale” ammantato di “rispettabilità sociale”, può invalere anche nelle comunità democratiche nella misura in cui in esse non si conserva una tensione sperimentale, che testa le credenze, ma queste ultime vengono affidate al caso e consegnate quindi al tocquevilliano dispotismo della maggioranza, ovvero può regnare nella misura in cui l’elemento ‘comunitario’, identitario, autorecluso nelle proprie credenze, ha la meglio su quello democratico, e quindi aperto alla critica e alla innovazione. In questo senso la lipmaniana CdRF, modellata non già sul terzo metodo peirceano ma sul quarto, e quindi sulla comunità degli scienziati, emerge come progetto di educazione a una democrazia compiuta, dal momento che ha di mira una comunità impegnata in una continua autocorrezione delle proprie credenze e fornisce non solo un modello della sua organizzazione ma, attraverso il suo esercizio all’interno dei contesti formali (e, ora, anche informali e non formali della formazione), diviene uno strumento di affermazione e consolidamento di siffatta – alternativa – forma di comunità, che contrasta i rischi di una democrazia affidata al solo scambio di opinioni (e non alla discussione critica delle opinioni). Infatti, nota lo storico Daggins, «[u]na comunità governata dalla “opinione pubblica” vuole vedere perpetuate e non già interrogate le sue convenzioni. Può darsi che i filosofi considerino l’opinione come sempre aperta al dubbio, ma è nella natura della comunità che le

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sue opinioni e atteggiamenti siano considerati quasi come verità incontestate. […] Peirce rompe con […] i Trascendentalisti offrendo un nuovo luogo della verità e della sua verifica. Mentre l’individuo che pensa da solo può sbagliare, la comunità degli scienziati impegnata in un dialogo reciproco raggiungerebbe un accordo che si approssima più da vicino alla verità lasciando l’errore alle sue spalle»29.

Il quarto metodo di fissazione della credenza è, dunque, quello della scienza, «in base al quale le nostre credenze s[ono] determinate da niente di umano, bensì da qualche permanenza esterna – da qualcosa sopra cui il nostro pensiero non abbia nessun effetto. […] La permanenza esterna non sarebbe propriamente esterna, nell’accezione in cui sto usando il termine, se limitasse la sua influenza a un solo individuo. Tale permanenza esterna deve essere qualcosa che esercita la sua effettualità, o che potrebbe esercitare la sua effettualità su tutti gli uomini. E, sebbene questi effetti siano necessariamente diversi quanto sono diverse le condizioni dei vari individui, tuttavia il metodo deve essere tale che la conclusione ultima di ognuno deve essere la medesima» [5.384].

Al centro del quarto metodo vi è non più l’individuo tenacemente arroccato sulle sue credenze, né l’uniformità imposta da un’autorità esteriore e nemmeno la rete fragile e volatile delle opinioni e dei gusti, bensì la comunità dei ricercatori, che è in quanto tale la depositaria dell’istanza veritativa. Infatti, il metodo della scienza postula che, attraverso la libera discussione e la correzione delle credenze che ne deriva, la comunità di ricerca giungerà infine (ma si tratta di una meta ideale) alla perfetta coincidenza coi 29

J. P. Diggins, The Promise of Pragmatism. Modernism and the Crisis of Knowledge and Authority, cit., p. 198. È opportuno menzionare il fatto che il passo di Diggins, storico peraltro non simpatetico con il pragmatismo – soprattutto nella sua versione deweyana –, si riferisce al solo quarto metodo di fissazione della credenza laddove, nella lettura qui proposta, la critica ai rischi tocquevilliani di dispotismo della maggioranza all’interno di una comunità è legittima per il terzo metodo, mentre il quarto rappresenta piuttosto un possibile contravveleno e, quindi, un mezzo di promozione e perfezionamento della democrazia.

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fatti. Vi è un intreccio fecondo, in Peirce, fra riconoscimento della pubblicità [5.384] della verità e indicazione di quel particolare tipo di public – per adoperare un lessico deweyano – che è la community of inquiry. Non è il singolo in quanto tale che può aspirare all’attingimento della verità e alla scoperta delle leggi della natura (magari basandosi sull’idea di regolarità). Secondo Peirce la verità dei giudizi del singolo dipende dalla esistenza di una comunità di ricerca infinita nel tempo e senza confini nello spazio. Infatti, nessun individuo può essere certo della verità dei suoi giudizi, ma la comunità di ricerca – in quanto impresa collettiva di più uomini impegnati non nella propagazione di un particolare insieme di credenze ma nella continuazione della indagine, e quindi nell’incessante riconsiderazione, correzione, revisione e verifica delle credenze stesse – potrà in the long run, come scrive Peirce, decidere della verità, passando attraverso un processo ininterrotto di congetture messe alla prova, loro confutazione, bilanciamento degli errori, proposta di nuove congetture etc. Senza indugiare sugli aspetti quasi religiosi di tale impostazione30 né su come essa rappresenti una rottura rispetto al paradigma moderno-cartesiano, in cui è l’individuo il polo veritativo, in quanto si ritrae dal commercio

30

«L’impegno che Peirce esortava gli uomini ad assumere nei confronti della comunità era essenzialmente religioso. Dal punto di vista istituzionale egli era un episcopaliano senza entusiasmo, con poco o punto interesse in questioni ecclesiastiche, ma era un incurabile ministro nato. I suoi saggi più raffinati erano dei sermoni in logica e metodo scientifico, implacabili nel rigore della loro esegesi tecnica, ma affilati con una passione che trasformava la logica in un messaggio evangelico di amore. Peirce credeva col fervore di un profeta che solo la “rivelazione” del “potere salvifico” della comunità poteva “redimere la logicità di tutti gli uomini”. Il prezzo di questa grazia redentiva era alto – il sacrificio definitivo del Getsemani. Ma “colui il quale non sacrifica la sua anima per guadagnare tutto il mondo, è illogico in tutte le sue inferenze, collettivamente”. E per Peirce essere illogico significava essere dannato» (R. Jackson Wilson, In Quest of Community. Social Philosophy in the United States, 1860-1920, London-Oxford-New York: Oxford University Press, 1968, p. 46). Si pensi anche alla metafora biblica della sposa che chiude il saggio su Il fissarsi della credenza [5.387].

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con gli altri e si ritira nel ridotto della sua razionalità31, si tratta di sottolineare come la mossa teorica di Peirce fosse davvero epocale nel contesto americano. Diggins rileva come «Peirce cercò di offrire all’America più del pluralismo liberale di Jefferson e dell’empirismo radicale di James. Le concezioni di Jefferson e James rischiavano di rendere la verità relativa e di fare di tutte le convinzioni filosofiche semplicemente una faccenda di preferenza individuale. Benché Peirce si opponesse vigorosamente all’idea di autorità come si manifestava brutalmente nel corso della storia, egli voleva restituire alla filosofia la forza morale dell’autorità oggettiva. Assumendo questo compito audace, egli iniziò con l’analizzare le premesse stesse dell’epistemologia: che cosa facciamo quando pensiamo e come sappiamo che ciò che pensiamo è vero? […] Nel più ampio contesto della storia intellettuale americana La fissazione della credenza di Peirce si rivoltava contro due tradizioni profonde: la convinzione jeffersoniana che l’individuo è sovrano e la convinzione emersoniana che il Sé è sacro. Peirce offrì il pragmatismo e la ricerca scientifica come un mezzo per immergere l’individuo nella comunità e consentire al pensatore di avere accesso a una realtà oltre il Sé. La scienza poteva essere obiettiva nella misura in cui la conoscenza poteva essere testata in riferimento agli oggetti fuori del Sé e il Sé si sarebbe volentieri sottomesso ai giudizi degli altri concernenti il mondo esterno. Alla massima delfica di Emerson “Conosci te stesso!” Peirce avrebbe potuto aggiungere: conosci il mondo, pensa con gli altri»32.

Il costrutto peirceano di community of inquiry sorge in una costellazione socio-culturale in cui pensatori e intellettuali di diversa tendenza erano in cerca della comunità, come ha scritto Jackson Wilson, per contrapporsi alle sfide lanciate dall’industrialismo e dall’evoluzionismo darwinia-

31 Per una più ampia trattazione di questo punto mi permetto di rinviare a S. Oliverio, Pedagogia e visual education. La Vienna di Otto Neurath, cit., cap. I e S. Oliverio, Esperienza percettiva e formazione, Milano: FrancoAngeli, 2008. 32 J. P. Diggins, The Promise of Pragmatism. Modernism and the Crisis of Knowledge and Authority, cit., pp. 189 e 192.

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no33. La riappropriazione che ne fa Dewey, e che si è discussa nel dettaglio nel capitolo precedente, è fortemente personale nella misura in cui Dewey utilizza la nozione di community of inquiry non già in senso ‘anti-industrialista’ e anti-darwiniano ma come modalità di organizzazione sociale la più idonea a superare l’interna divisione di un’epoca in cui confliggevano una cultura materiale dominata dalla scienza e abiti intellettuali e morali che derivavano da un’era prescientifica. C’è certamente in Dewey uno spostamento di asse rispetto a Peirce: Dewey non intende separare la scienza dalla società ma saldarne i rapporti, importando anche all’interno dell’arena sociale i metodi (fallibilisti, cooperativi, indagativi) propri della scienza. È la società democratica nel suo insieme che – nell’ottica di Dewey – deve costituirsi come community of inquiry. E in questa revisione del legato peirceano vi è anche una rilettura dell’eredità jeffersoniana. Jefferson, l’ispiratore del deweyano Freedom and Culture34, è nella interpretazione che ne offre Dewey non tanto il campione di un pluralismo individualista, come nel passo di Diggins testé citato, ma colui il quale ha enfatizzato il carattere sperimentale della democrazia americana e quindi invitato a una sua continua ricostruzione, senza indugiare in una santificazione di specifiche forme che essa possa aver assunto per determinate ragioni storiche; è colui il quale ha riconosciuto il fondamento dell’autogoverno nelle comunità e nelle relazioni faccia-a-faccia e quindi, lungi dall’offrire una deriva individualistica, consente invece di tracciare il profilo di un nuovo individualismo35, in cui il singolo non sia l’homo 33 Cfr. R. Jackson Wilson, In Quest of Community. Social Philosophy in the United States, 1860-1920, cit. 34 J. Dewey, Freedom and Culture, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 13 (1938-1939), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1988, pp. 63-188. 35 J. Dewey, Individualism, Old and New in Id., The Later Works, 19251953, vol. 5 (1929-1930), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, pp. 41-124. Per un approfondimento della questione del nuovo individualismo in quanto connesso alla nozione di community of inquiry mi permetto di rimandare a S. Oliverio, “La rispo-

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oeconomicus della economia politica classica, polo assolutamente autonomo di azione e intraprendenza, ma invece individuo-nella-comunità, una comunità che deve essere a sua volta ristrutturata promuovendo in essa gli abiti di ricerca, osservazione, test propri del metodo scientifico. Ma in realtà – salvo che non si voglia offrire una lettura tecnocratica della proposta di Peirce – già nel suo dispositivo teorico albergano delle significative implicazioni per la vita democratica, come efficacemente sottolineato da Talisse: «Il peirceano ritiene, pressappoco, che essere uno che ha una credenza significa essere un cercatore di verità, essere un cercatore di verità significa essere un ricercatore [inquirer], essere un ricercatore significa essere uno che fornisce ragioni, ed essere uno che fornisce ragioni significa essere uno che scambia ragioni, un membro di una comunità di ricerca. Essere un membro di una comunità di ricerca significa essere impegnato non solo a seguire le migliori ragioni e le migliori prove possibili ma anche a tener aperti i canali per mezzo dei quali l’indagine futura può procedere. Di qui la principale ingiunzione di Peirce, “Non bloccate la via dell’indagine” (1.135). […] In breve, una forma di deliberativismo peirceano nega che la corretta deliberazione politica potrebbe essere esercitata da un piccolo gruppo di esperti. Proprio come l’indagine scientifica esige un certo tipo di comunità, la corretta indagine politica non può accadere nell’isolamento o solo fra un piccolo gruppo di élite preselezionate. Una comunità adeguatamente deliberativa deve essere una comunità democratica»36. sta di Dewey alla americanizzazione dell’anima. Educazione, comunitàdi-ricerca e nuovo individualismo”, in O. De Sanctis, E. Frauenfelder (a cura di), Cartografie pedagogiche 4, Napoli: Liguori, 2011. 36 R. B. Talisse, “Towards a Peircean Politics of Inquiry”, cit., p. 28. Nella sua produzione successiva Talisse ha sempre più enfatizzato come tale modello peirceano di democrazia sia da distinguere da quello deweyano e sia ad esso preferibile in quanto più armonizzabile con le istanze del pluralismo, dal momento che sarebbe un modello solo epistemico, laddove quello deweyano possiede una coloritura etica. Esula dalla presente indagine investigare la plausibilità della interpretazione di Talisse (che polemizza apertamente con tutta la tradizione che individua una continuità di sviluppo fra Peirce e Dewey). Per quello che si è venuti dicendo nel capitolo 2, si privilegia in questa sede piuttosto

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La community of inquiry di Peirce può essere dunque rivisitata come modello possibile di comunità democratica, nella misura in cui si riconosca che in quest’ultima le decisioni debbono essere prese sulla scorta di una disponibilità al confronto delle idee, alla sperimentazione dialogica e verifica delle proprie credenze (che vanno costantemente misurate con quelle diverse di altri partecipanti allo scambio sociale e testate su prove intersoggettivamente riconosciute). La scienza è un paradigma non nel senso che debba fornire delle ricette al consorzio politico (che si dovrebbe limitare ad applicarle, secondo una riproposizione aggiornata della sofocrazia platonica), ma nel senso che il suo modo di procedere è esemplare di un pensiero critico e autocorrettivo, in cui le credenze vanno argomentate, giustificate razionalmente e testate in base a criteri intersoggettivamente validi. Come osserva ancora Talisse, il focus di una politica ispirata a Peirce non è su un insieme preconfezionato di regole metodiche ma «sull’atteggiamento […] del ricercatore scientifico», sulle «appropriate disposizioni epistemiche»37 che consistono nel fornire ragioni, nell’andare in cerca non di conferme ma di possibili falsificazioni alle proprie posizioni, nel rispondere alle questioni che altri sollevano, nell’esaminare le obiezioni, nel ristrutturare le proprie concezioni (fino ad abbandonarle, se necessario). La lettura ‘politica’ che Talisse offre del dispositivo peirceano lo fa convergere, con una certa torsione esegetica, verso un modello non metafisico di razionalità, apparentato alla ragionevolezza su cui Stephen Toulmin ha insistito nell’ultimo scorcio della sua riflessione epistemologica opponendola alla ragione di marca cartesiana38. Per ricorrere a una fortunata definizione tratta dalla maggiore teorica della democrazia inclusiva, Iris Young, che pare riassumere tutti i metodi di fissazione della credenza censiti da Peirce l’idea che in Lipman l’eredità peirceana sia letta attraverso il filtro del legato deweyano. 37 Ivi, p. 29. 38 S. Tolmin, Cosmopolis: The Hidden Agenda of Modernity, cit.; Id., Return to Reason, cit.

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e descrivere al contempo ciò che accade nella CdRF, per ragionevolezza si deve intendere «un insieme di disposizioni che i partecipanti alla discussione posseggono. […] Di conseguenza i partecipanti ragionevoli ad una discussione democratica debbono avere una mente aperta. Non possono arrivare alla discussione di un problema pubblico con vincoli che li legano all’autorità di precedenti norme o di credenze incontestabili. Né possono asserire i loro interessi sopra quelli degli altri o insistere che la loro opinione iniziale è giusta e non può essere soggetta a revisione. Essere ragionevole è essere disposti a cambiare le nostre opinioni e preferenze perché altri ci persuadono che le nostre opinioni o preferenze iniziali, in quel che esse pertengono ai problemi collettivi in discussione, sono scorrette e inappropriate. Essere aperti, di conseguenza, si riferisce anche alla disposizione ad ascoltare gli altri, trattarli con rispetto, fare uno sforzo di comprenderli facendo loro domande e non giudicandoli troppo velocemente. Un processo ragionevole e rispettoso di discussione esibisce una comprensione deliberativa; quando qualcuno parla, altri riconoscono l’espressione in modi che continuano il coinvolgimento»39.

La ragione in quanto ragionevolezza – e non facoltà trascendentale di principi primi – è ciò che Matthew Lipman ha sempre enfatizzato nel suo progetto pedagogico. Si può azzardare l’ipotesi che ciò che gli faceva apparire così promettente la dizione peirceana di community of inquiry fosse proprio che avesse riconosciuto in essa un congegno per la promozione degli atteggiamenti epistemici di apertura al confronto dialogico e disponibilità alla revisione delle proprie convinzioni, qualora prove e/o argomentazioni ne dimostrino la fallacia o, almeno, l’inadeguata solidità. La lipmaniana CdRF è la risposta pedagogica alla problematica sollevata da Talisse: «In una concezione peirceana la 39 I. M. Young, Inclusion and Democracy, Oxford: Oxford University Press, 2000, pp. 24-25. Per un primo raffronto fra la posizione della Young e la teorizzazione deweyana sulla democrazia mi permetto di rinviare a S. Oliverio, “L’inclusione interculturale come frontiera educativa”, in M. Striano (a cura di), Pratiche educative per l’inclusione sociale, Milano: FrancoAngeli, 2010, § 1.

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questione di come riparare la democrazia è la questione di come coltivare la ragionevolezza. Coltivare la ragionevolezza è a sua volta il progetto di riabilitare il discorso pubblico»40. Talisse stesso affida ai filosofi il compito di essere «esemplari di eccellenza nel discorso pubblico» nella misura in cui il loro ruolo è «critico; è la funzione di rendere esplicite le presupposizioni tacite, rivelare i pregiudizi non dischiusi, esporre la retorica, esaminare le convenzioni, fare domande e facilitare il dialogo critico»41. Si è voluto riportare tale elenco perché rappresenta un’efficace sintesi degli obiettivi della pratica del pensiero all’interno della lipmaniana CdRF. In questo senso essa è il dispositivo attraverso il quale la peirceana politica dell’indagine (il titolo del saggio di Talisse da cui si sono tratti molti spunti) diviene qualcosa di più di una discettazione accademica e dottrinaria e si trasforma in un progetto plausibile di ricostruzione della civitas. Ciò che Talisse affida però a una categoria specifica – i filosofi in quanto specialisti del pensiero critico – è invece per Lipman, in questo davvero erede di Dewey, traguardo accessibile a ogni individuo in una società compiutamente democratica, purché siano ricostruiti dalle fondamenta gli scopi dell’educazione e si metta al centro dei curricula formativi l’indagine filosofica. È in questa centralità del filosofare la maggiore innovazione di Lipman rispetto tanto a Peirce quanto a Dewey. Sia pure in forme diverse i due maestri del pensiero pragmatista avevano riconosciuto nel metodo scientifico il modello di pensiero critico e sperimentale (cui corrisponde – sul piano dell’organizzazione sociale – la democrazia come forma di vita. Nelle stentoree parole di Hilary Putnam: «Ritengo che la democrazia sia un valore, non solo un valore etico, ma un valore cognitivo in qualsiasi area. La democrazia è l’esigenza di indagine sperimentale in qualsiasi area. Respingere la democrazia è respingere l’idea di essere 40 41

R. B. Talisse, “Towards a Peircean Politics of Inquiry”, cit., p. 31. Ibid.

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sperimentali»42). Lipman, invece, nel momento stesso in cui accoglie la nozione di community of inquiry da Peirce e da Dewey, la riplasma sulla scorta di una sua ricentratura sulle competenze cognitive e cogitative favorite dal filosofare, ossia leggendola attraverso un filtro ‘socratico’. Il che può essere espresso anche in maniera diversa, per far emergere un punto problematico – almeno nella prospettiva deweyana che sorregge la presente riflessione – che non potrà, però, essere qui ulteriormente indagato: per Lipman scienza e filosofia sono due ambiti distinti e la scommessa di una ricostruzione della civitas democratica si gioca sul terreno di una promozione di competenze filosofiche più che su quella di un pensiero sperimentale nell’accezione scientifica del termine. Il ricorso a un momento ‘socratico’, diversamente da quanto accade in Dewey, non è legato a una valorizzazione dell’impatto che la scienza ha avuto sul nostro modo di pensare complessivo, ma a una posizione che conserva caratteri di ‘tradizionalismo’ filosofico. Per adoperare delle formule che, nella loro nettezza un po’ manichea, tradiscono le nuance dei fenomeni ma permettono di identificare i tratti principali, Lipman è da una parte un ‘innovatore’ nella misura in cui pone al centro del suo dispositivo l’indagine filosofica come una pratica formativa (così respingendo ogni chiusura nell’Accademia, sia nel senso platonico-‘metodico’ sia in quello hadotiano per cui la filosofia ha smesso di essere forma di vita con la sua accademizzazione in epoca medievale)43; dall’altra, 42

L’affermazione è nella conversazione Between the New Left and Judaims contenuta in G. Borradori, The American Philosopher. Conversations with Quine, Davidson, Putnam, Nozick, Danto, Rorty, Cavell, McIntyre, Kuhn, Chicago: The University of Chicago Press, 1993, p. 64. 43 La matrice socratica della filosofia come pratica e modo di vita era ben presente a Lipman: «Nondimeno applicare la filosofia e farla non sono la stessa cosa. Il paradigma del fare filosofia è la torreggiante, solitaria figura di Socrate, per il quale la filosofia non era né un’acquisizione né una professione ma un modo di vita. Ciò che Socrate modella per noi non è la filosofia conosciuta né la filosofia applicata ma la filosofia praticata. Egli ci sfida a riconoscere che la filosofia come azione, come forma di vita, è qualcosa che ognuno di noi può emulare» (M. Lipman, Philosophy Goes to School, Philadelphia: Temple University Press, 1988, p. 12).

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tuttavia, conserva un’immagine abbastanza classica della filosofia, al riparo dalla sfida del pensiero scientifico. Ma proprio questa ambivalenza, ‘reagendo’ con la presenza dell’eredità pragmatista, ha dato luogo alla novità della sua proposta. Il passaggio dalla peirceana-deweyana community of inquiry alla lipmaniana community of philosophical inquiry è, quindi, un movimento che da una parte conserva molte delle caratteristiche del modello originario (lo si è già accennato, chiosando con riferimenti a Lipman la descrizione fattane sulla scorta dei testi di Peirce), dall’altra ne opera una declinazione particolare, che però produce un cambiamento significativo e pedagogicamente rilevante e permette alla community of inquiry di matrice pragmatista di divenire un effettivo dispositivo educativo, importabile nelle scuole e capace di trasformare radicalmente le classi e le pratiche educative. Non si tratta del semplice inserimento di un aggettivo (“filosofico”), ma di una rivisitazione profonda eppur fedele al lascito dei padri del pragmatismo. D’altra parte, l’aggettivo non fa riferimento ad un contenuto disciplinare: la CdRF non è la community of inquiry di Peirce (e Dewey) più la filosofia, come insieme di teorie, che costituirebbero l’oggetto dell’indagine. L’aggettivo ha piuttosto un significato avverbiale, per riprendere, con un’opportuna curvatura, una felice espressione di Gilbert Ryle44. Questi, nella sua polemica contro il cartesianismo, contro l’idea cioè che esistesse una mente come entità separata, sede del pensiero in quanto attività che duplica l’attività corporeocomportamentale, non volendo però capitolare di fronte all’opzione comportamentista (per cui il pensiero è in tutto e per tutto riducibile ai comportamenti manifesti), sottolineò che tutti gli equivoci cartesiani, come anche le contromisure comportamentistiche, nascono da un avventato uso del linguaggio. Per evitarne le trappole Ryle suggeriva di 44 G. Ryle, On Thinking, Landham (MD): Rowman & Littlefield Pub Inc, 1980, cap. I.

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distinguere i verbi che esprimono azione (mangiare, scrivere, camminare etc.) e quelli che esprimono una modalità di realizzare l’azione (affrettarsi, obbedire etc.). Pensare è un verbo avverbiale in quanto non esprime un’azione ma la modalità – critica, esplorativa, innovativa e non routinaria – di compiere un’azione. Per analogia potremmo dire che il filosofico nella lipmaniana community of philosophical inquiry sta ad indicare prima ancora che il che cosa il come dell’indagine. Sarebbe precipitoso desumere da questo paragone che nel progetto di Lipman il bagaglio di concetti propri della tradizione filosofica non giochi alcun ruolo (cosa che sarebbe facilmente smentita da un rapido scrutinio dei materiali del curriculo della Philosophy for Children). Ma questi concetti non sono l’oggetto di un apprendimento: nella CdRF non si impara la filosofia, ma si impara a pensare in maniera complessa (critica, creativa e caring) attraverso la pratica dell’indagine filosofica. Il passo che si deve allora compiere per comprendere il proprium della proposta di Lipman è di analizzare in che modo e con quali ragioni egli inserisca tale elemento ‘socratico’ all’interno di un costrutto di pretta marca pragmatista, quali siano le caratteristiche strutturali della CdRF e in che senso essa rappresenti un’innovazione pedagogica che risponde alle esigenze dei nostri tempi.

2. Indagine (filosofica) come vita sociale Se la declinazione “filosofica” del costrutto community of inquiry è il contributo proprio di Lipman alla tradizione pragmatista (e filosofica e pedagogica), e costituisce per certi versi un clinamen in direzione di approdi in parte divergenti rispetto alla matrice ‘scientifica’ dei progenitori, essa però non rappresenta un completo cambio di paradi­ gma, un rovesciamento gestaltico che del costrutto conserverebbe solo il nome, un gioco di omonimia dietro cui si nasconderebbe una sostanza concettuale essenzialmente

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diversa. Ciò è già stato evidente nelle riflessioni che si sono intrecciate allo scandaglio della nozione di comunità di ricerca, lì dove si sono anticipate le valenze ‘lipmaniane’ di alcune intuizioni deweyane e peirceane. Ma lo stesso può esser fatto valere per il ruolo della “filosofia”. Si può dire che nella CdRF si sviluppa una relazione molto complessa per cui da una parte sono rintracciabili elementi ‘lipmaniani’ nella idea di ‘comunità-di-ricerca’ di Peirce e Dewey e, dall’altra, sono identificabili tracce ‘peirceane’ e ‘deweyane’ nella centralità che Lipman ascrive al filosofare nella educazione. Se così non fosse, se la ‘logica’ della community-of-inquiry e quella del filosofare fossero incommensurabili, la sintesi che il creatore della Philosophy for Children ha approntato nella CdRF sarebbe un ircocervo privo di efficacia educativa e di valore teorico, laddove – per comprendere fino in fondo sia l’audace novità sia il rigore della proposta della CdRF – si deve enfatizzare come in essa vengano a maturazione germi già presenti negli avi pragmatisti. La cosa appare immediatamente plausibile per Dewey e lo stesso Lipman lo riconosce nella già citata intervista a Maura Striano, parlando di un modo deweyano di andare oltre Dewey, e quindi di una mossa non estranea al complesso della ispirazione di fondo del Maestro americano. Questi ha più volte insistito sul nesso fra filosofia e educazione (la formulazione del capitolo XXIV di Democracy and Education – la filosofia come teoria generale dell’educazione – è solo quella più celebre). In un saggio del 1912-13 sottolinea, con accenti proto-lipmaniani, «la relazione intima e vitale fra il bisogno di filosofia e la necessità dell’educazione»45 aggiungendo però una spiegazione che giustifica in linea di principio e non solo nella prassi operativa la pretesa lipmaniana di essere andato oltre Dewey:

45 J. Dewey, “Philosophy of Education”, in Contributions to a Cyclopedia of Education, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 7 (19121914), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1979, p. 298.

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«Se la filosofia dev’essere altro che una speculazione oziosa e inverificabile, deve essere animata dalla convinzione che la sua teoria dell’esperienza è un’ipotesi che è realizzata solo in quanto l’esperienza è effettivamente modellata in accordo con essa. E questa realizzazione esige che le disposizioni dell’uomo siano fatte in modo tale da desiderare e aspirare a quel tipo di esperienza»46.

L’oltre di Lipman rispetto a questa impostazione è di aver reso la filosofia non solo una teoria della esperienza cui l’educazione deve ispirarsi come ad un’ipotesi da realizzare ma essa stessa una esperienza. Ed esperienza educativa nella misura in cui consente la continua decostruzione e ricostruzione dei significati delle esperienze dei soggetti. Essere all’interno di una CdRF non è un ritrarsi dal mondo delle apparenze (come ancora la Arendt considera quale proprium del pensiero)47 ma, come ha sottolineato Alessandro Volpone, condividere uno spazio e un tempo del con-filosofare48. Il riferimento allo spazio-tempo sostanzia il filosofare come esperienza di un essere-nel-mondo e non di una mente disincarnata. I soggetti impegnati nella indagine filosofica durante una sessione di P4C non riflettono sulle esperienze in un a-parte speculativo, ovvero nel ridotto delle loro menti insularizzate, ma interrogano i propri modi di dar senso all’esperienza all’interno di quella che è essa stessa un’esperienza, una transazione io-mondo, costitutivamente vocata al Mitsein. Più radicalmente: se un raffinato interprete del pensiero di Lipman come David Kennedy ha potuto parlare di cinque dimensioni del46

Ivi, p. 303. H. Arendt, The Life of Mind, New York-London: Harcourt Brace Jovanovich, 1978, tr. it., La vita della mente, Bologna: il Mulino, 1987. 48 «[Le pratiche filosofiche] rappresentano un tempo e uno spazio dedicato al con-filosofare» (A. Volpone, “Le pratiche filosofiche da un punto di vista epistemologico: filosofia del sumphilosopheîn”, cit., p. 225). Di Volpone cfr. anche “Pratiche filosofiche, forme di razionalità, modi del filosofare contemporaneo”, in «Kykéion», 8, 2002, pp. 17-36; “Dall’epistemologia della pratica alla filosofia in quanto pratica”, in R. Brigati, R. Frega (a cura di), La svolta pratica in filosofia, vol. II, «Discipline Filosofiche», 15, 2005, pp. 23-54. 47

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la comunità di ricerca, compresa una comunità di gesti49, vale a dire una dimensione corporea cinestesica, è proprio in virtù della ulteriorità deweyana di Lipman che rende il filosofare una pratica ‘mondana’, un modo peculiare di essere al mondo. La straordinaria domanda arendtiana Dove siamo quando pensiamo?50 ha una risposta peculiare nel dispositivo lipmaniano, anzi solo in questo essa ha pieno significato. Infatti, solo nella CdRF il pensare è un accadimento del ‘noi’, distribuito tra i soggetti, un evento della pluralità (quella pluralità che per la Arendt è la caratteristica del politico: la CdRF ri-salda, risana la frattura fra la polis e il pensiero, che Platone aveva sancito come conseguenza del processo a Socrate. La CdRF può avere un ruolo ‘politico’ – come negli esperimenti di Philosophy for Community – per questa sua originaria politicità, radicata nel suo svilupparsi nella dimensione della pluralità). Solo nella CdRF l’organizzazione degli spazi e dei tempi è un fattore nel processo 49 «Questa è forse la forma più ovvia di comunità e tuttavia la più ignorata. Mi sto riferendo al fondamentale livello somatico e cinestesico dell’intersoggettività “prima” del linguaggio, che fonda, incornicia e commenta i livelli verbali e noetici di interazione. Persino prima che apriamo la bocca, stiamo creando significato insieme. Prima dei segni che rappresentano idee o persino oggetti nel mondo, ci sono i più fondamentali segni degli stati sensitivo-mentali del corpo – James Edie vi si riferisce come alla “manifestazione fisica del significato” – e questo segno mondo, come il segno mondo del linguaggio, è condiviso, interattivo» (D. Kennedy, “The Five Communities”, «Inquiry: Critical Thinking across Disciplines», Vol. 16, No. 4, 1997, p. 67). Al di là di alcune formulazioni che possono risultare svianti, è evidente la portata di questa notazione di Kennedy e il fatto che essa dischiuda il campo di una intersoggettività patica che innerva la CdRF e la profila come una ‘realtà’ del pensiero pensante toto genere differente dalla tradizione di cui ancora Arendt è erede (e che, in un certo senso, è costretta a ripetere sempre l’atto della scissione fra l’esistenza e il pensiero, fra la pluralità (come condizione del politico) e il pensiero, laddove la CdRF si iscrive nel solco deweyano di un progetto politico-democratico fondato sul pensiero riflessivo). 50 H. Arendt, The Life of Mind, cit., cap. 4. La si definisce come straordinaria non per un gusto dell’enfasi ma perché – nella sua stringatezza apofetgmatica e però in una forma interrogativa, che rompe l’incanto della sentenziosità aforistica – racchiude tutti i temi della filosofia occidentale (lo spazio, il tempo, l’essere, il pensiero e l’identità).

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della indagine. Solo nella CdRF, infine, noi siamo quando pensiamo. La Arendt conserva una certa sintonia con il motto – molto descartiano – di Valéry “Tantôt je pense et tantôt je suis”. È vero che ella si affretta a puntualizzare il senso della sua consonanza, asserendo che «l’osservazione di Valéry – quando si pensa non si è – sarebbe giusta se il nostro senso di ciò che è reale fosse interamente determinato dalla nostra esperienza spaziale. L’ovunque del pensiero è effettivamente una regione del non-luogo. Ma noi non siamo solo nello spazio, siamo anche nel tempo»51; e tuttavia nel fare questa specificazione, approda, via Kant, alla nozione di una «esperienza originaria [che] non solo è desensibilizzata, [ma] è insieme de-spazializzata»52. L’essere di chi pensa è per Arendt squisitamente temporale e gli «enti del pensiero» consistono in «esperienze o nozioni che sono passate attraverso l’operazione smaterializzante con cui la mente prepara i propri oggetti e, “generalizzandoli”, li spoglia al tempo stesso delle loro proprietà spaziali»53. Il pensare di Arendt è così proprio di un essere-non-mondano che pensa oggetti-non-spaziali perché generali. È un’esperienza originaria, ossia che starebbe al di qua (o al di là) del radicamento mondano del soggetto. È un’esperienza non-plurale: come, infatti, sfuggire alla singolarizzazione del pensiero se lo si rende l’accadimento in una scena ‘interna’, estraniata dallo spazio condiviso da un ‘noi’ e dalle dinamiche agoretiche di una pluralità che con-filosofa? Nella impostazione di Arendt la domanda che ella pone è solo retoricamente plurale, essa dovrebbe piuttosto essere formulata come Dove è ciascuno di noi quando pensa? Ossia, dov’è ciascuno di noi, quando, essendosi ritirato dal dialogo con gli altri e dalle transazioni mondane, al fine pensa? L’oltrepassamento arendtiano di Valéry è solo nel senso che tantôt nous sommes, tantôt je pense: la pluralità è dismessa sulla soglia del pensiero, il mondo disertato. È il 51 52 53

Ivi, p. 295 (tr. it.). Ivi, p. 296 (tr. it.). Corsivo aggiunto. Ibid.

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prezzo che si paga – si direbbe in un’ottica deweyana54 – a muoversi, sia pur in modo creativo, nell’orizzonte kantiano: fiat cogitatio et pereat mundus55. È ovviamente provocatorio operare siffatta mislettura di un testo di una pensatrice al cui centro si è riconosciuto l’amore per il mondo56. E sicuramente tale interpretazione è parziale e tendenziosa, perché lascia sullo sfondo il complesso della riflessione arendtiana, soprattutto la sua potente meditazione sul giudizio. Lì, quando Arendt valorizza le intuizioni del Kant della terza Critica, troviamo spunti che sono in linea con ciò che accade nella CdRF: «Il “modo di pensare ampio”, l’apertura mentale, gioca un ruolo cruciale nella Critica del giudizio. Esso si realizza “paragonando il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli effettivi, e ponendoci al posto di ciascuno di loro”. La facoltà da cui ciò è reso possibile si chiama immaginazione … Il pensiero critico è possibile là dove i punti di vista di tutti gli altri siano accessibili all’indagine. Quindi il pensiero critico, pur tuttavia un’occupazione solitaria, non ha reciso ogni legame con “tutti gli altri” … (Con) la forza dell’immaginazione esso rende gli 54

Kant può ben essere considerato la bête noire di Dewey, ma la polemica contro il dualismo kantiano, che contrappone il regno fenomenico (dei fenomeni naturali e mondani) e quello noumenico dello spirito è particolarmente vibrante in J. Dewey, German Philosophy and Politics, cit., specialmente il cap. I. 55 È vero che Arendt avverte che «ciò, beninteso, non prova l’esistenza di un mondo altro da quello da cui si parte nella vita ordinaria» (quindi niente iperurani platonici né duplicazionismi – come Ryle li chiamerebbe – cartesiani). Aggiunge, tuttavia, facendo sentire la sua formazione fenomenologica, nella declinazione husserlianotrascendentale:«[M]a significa che la realtà e l’esistenza, che ci è possibile concepire solo in termini spazio-temporali, possono essere temporaneamente sospese, perdere il loro peso e, insieme con esso, ogni significato per l’io che pensa» (H. Arendt, The Life of Mind, cit. p. 293 (tr. it.). Corsivi aggiunti). Pochi capoversi dopo (pp. 295-6) Arendt parlerà della nostra esistenza in quanto temporale e con essa cercherà di limitare la portata del principio di Valéry. E tuttavia in questo passo è abbastanza esplicita nell’individuare una caratterizzazione spaziale e temporale non solo della realtà ma anche dell’esistenza. 56 E. Young-Bruehl, For the Love of the World, New Haven (CT): Yale University Press, 1982.

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altri presenti e si muove così potenzialmente in uno spazio pubblico, aperto a tutti i partiti e a tutti i confronti; […] Pensare con una mentalità larga – ciò vuol dire educare la propria immaginazione a recarsi in visita. […] Più sarà vasta la sfera in cui l’individuo illuminato è capace di muoversi da punto di vista a punto di vista, più il suo pensiero sarà “generale” … Tale generalità, però, non si identifica con quella del concetto […]. Essa è al contrario strettamente legata a ciò che è particolare, le condizioni particolari dei punti di vista attraverso cui si deve passare per prevenire al proprio “punto di vista generale”»57.

Siffatta impostazione di Arendt, animata dalle nozioni della mente ampia e del recarsi in visita hanno grandi implicazioni pedagogiche come è stato riconosciuto, nel dibattito italiano, da Luigina Mortari58, e all’interno del movimento della Philosophy for Children da Ann Sharp59 e Jen Glaser60, fra le altre. Presentano anche importanti punti di contatto con l’ispirazione di fondo della CdRF, riconoscendo l’importanza – perché ci sia un “modo di pensare ampio” – che i punti di vista di tutti gli altri siano accessibili all’indagine. Lo stesso intreccio di immaginazione e pensiero critico parrebbe guardare nella direzione del costrutto lipmaniano di pensiero complesso (articolato nelle tre dimensioni del pensiero critico, pensiero creativo e pensiero caring). E però, pur in questo momento di massima convergenza, non possono sfuggire le distanze rispetto all’impianto e 57 H. Arendt, The Life of Mind, cit. pp. 551-552 (tr. it.). Corsivi aggiunti. Cfr. anche per una più diffusa trattazione del tema Ead., Lectures on Kant’s Political Philosophy, Chicago: University of Chicago Press, 1982, tr. it., Teoria del giudizio politico, Genova: il Melangolo, 1990. 58 Cfr. anzitutto L. Mortari, A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, cit. 59 Cfr. da ultimo A. M. Sharp, Growing Up Global, paper presentato il 30 giugno 2009 nell’ambito del ciclo di seminari “Il pensiero di John Dewey fra psicologia, filosofia, pedagogia. Prospettive interdisciplinari” organizzato dalla Università di Napoli Federico II. 60 J. Glaser, “Thinking Together: Arendt’s Visiting Imagination and Nussbaum’s Judicial  Spectatorship as Models for a Community of Inquiry”, «Thinking, The Journal of Philosophy for Children», Vol. 14, No. 1, 1998, pp. 17-24.

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alla pratica della CdRF: persino il pensiero ampio, quello che ha a che fare non con la generalità dei concetti, ma con quella derivante dal raccordo/sintonizzazione o almeno vaglio dei diversi punti di vista, rimane un’occupazione solitaria; lo spazio pubblico è solo potenziale, gli altri sono convocati, ma in immaginazione. L’attore di questo pensiero ampio continua ad essere un individuo nella sua solitudine. Non è più – certo – il soggetto cartesiano, autocratico nella sua brama di indipendenza, il soggetto per il quale gli altri potrebbero essere delle macchine coperte di mantelli e cappelli, ma non è nemmeno quell’intersoggetto che David Kennedy riconosce – intrecciando paradigma della complessità e pensiero post-moderno – come l’autentico protagonista della CdRF61; né è un soggetto meadiano che ‘opera’ cogitativamente spoleggiando fra il polo del “Me” e quello dell’“Io”; né è il ‘nuovo’ individuo di Dewey, che nella democrazia come comunità di ricerca, ovvero nella comunità di ricerca come pratica democratica, ha la sua realtà62, e non già nella cittadella del suo pensiero, in cui ‘immaginare’ gli altri. Non si vuole certo svalutare il ruolo dell’immaginazione per la coltivazione del pensiero critico, che la Arendt ha avuto il merito di collocare al centro dell’attenzione (e la Nussbaum ha valorizzato nella sua valenza educativa, proprio in connessione con una pedagogia socratica). Ma il confronto con Arendt, che non si può in questa sede spingere oltre, permette da un lato di far emergere l’eccezionalità della ideazione della CdRF come un setting spaziale e perciò plurale del pensiero (dove cioè la pluralità è reale, in carne e ossa, proprio perché trova radicamento mondano-spaziale, e dove la pluralità dei punti di vista è la molteplicità degli sguardi su uno spazio comune e 61 D. Kennedy, “Communal Philosophical Dialogue and the Intersubject”, «International Journal of Applied Philosophy», Vol. 18, No. 2, 2004, pp. 201-216. 62 Cfr. S. Oliverio, “La risposta di Dewey alla americanizzazione dell’anima. Educazione, comunità-di-ricerca e nuovo individualismo”, cit.

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condiviso, quello delimitato dalla disposizione a cerchio dei partecipanti a una sessione di P4C); e, dall’altro lato, di rilevare come il divorzio di pensiero ed esperienza (ovvero l’interpretazione del pensiero non come esperienza ma come esperienza originaria), di io che pensa e io che è, di io che pensa e altri reali, rischia di sfociare in una riproposizione di un modello classico, che rende problematica – al di là di ogni intenzione esplicita – la connessione della pratica di pensiero con un progetto di emancipazione democratico-educativa. Lo snodo è proprio nel riconoscimento del pensiero, e del pensiero filosofico in particolare, come una pratica. In questo Lipman è davvero erede di Dewey che avvertiva: «[L]a filosofia [non] è in alcun senso una forma di conoscenza. Ciò significa che dovremmo tornare al senso originale ed etimologico della parola e riconoscere che la filosofia è una forma di desiderio, di sforzo all’azione – un amore, cioè, della saggezza; ma con una clausola scrupolosa, non legata all’uso platonico della parola, che la saggezza, qualunque cosa sia, non è un modo della scienza o della conoscenza. Una filosofia che fosse consapevole dei suoi compiti e della sua sfera d’azione percepirebbe allora di essere un desiderio intellettualizzato, un’aspirazione soggetta a discriminazioni e test razionali, una speranza sociale ridotta a un programma operativo di azione, una profezia del futuro ma disciplinata da un pensiero serio e dalla conoscenza»63.

Il merito di Lipman è stato di tradurre il principio di Dewey della filosofia come forma di desiderio e sforzo all’azione in pratica educativa, in una metodologia riconoscibile ed efficace, e di poterlo fare – ma è punto qui non indagabile – proprio in virtù di quel ‘tradizionalismo filosofico’ che sopra gli si ‘imputava’. È come se Lipman, svincolato dall’ipoteca del prestigio del pensiero scientifico, sia stato più libero di individuare le potenzialità del filosofare in quanto pratica e di mobilitare alla sua attuazione 63

J. Dewey, “Philosophy and Democracy”, in Id., The Middle Works, 1899-1924, vol. 11 (1918-1919), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1982, p. 41. Corsivi aggiunti.

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uno strumento – la comunità di ricerca – originariamente pensato nella prospettiva scientifica. Quella di Lipman è, quindi, davvero una ulteriorità ma deweyana, che invera elementi già presenti nelle pieghe del Maestro americano. È in siffatto orizzonte deweyano, e sullo sfondo delle considerazioni di Arendt, che si mette meglio a fuoco il proprium della CdRF. Quando Arendt distingue la generalità del concetto da quella cui approda una ‘mente ampia’ ha di mira una certa caratteristica degli enti di pensiero (correlati, nella loro de-spazializzazione, alla de-spazializzazione cui è sottoposto il soggetto del pensiero): «[D]urante l’attività di pensiero, ciò che si colma di significato sono i distillati, i prodotti della de-sensibilizzazione, e tali distillati non sono meri concetti astratti; un tempo si dava loro il nome di “essenze”. Le essenze non possono essere localizzate. Il pensiero umano che riesce ad impadronirsene abbandona il mondo del particolare e muove alla ricerca di qualcosa che sia generalmente munito di significato, benché non necessariamente universalmente valido. Il pensiero “generalizza” sempre, spreme dalla molteplicità dei particolari […] ogni significato che sia loro inerente. La generalizzazione è connaturata a ogni pensiero, anche quando tale pensiero insista sul primato universale del particolare. Detto altrimenti, l’“essenziale” è ciò che è applicabile ovunque e questo “ovunque”, che conferisce al pensiero il suo peso specifico è, in termini spaziali, un “non-luogo”. Muovendosi tra gli universali, tra essenze invisibili, l’io che pensa è, a rigore, in nessun luogo […]»64.

Per contro, nella CdRF gli oggetti di quella attività di pensiero che avviene nello spazio pubblico della community of inquiry, da parte di quell’intersoggetto che si costituisce nel passaggio dall’agenda al piano di discussione65, non 64

H. Arendt, The Life of Mind, cit., pp. 293-294 (tr. it.). Mentre nella fase della costruzione dell’agenda, dopo la lettura condivisa di un testo-stimolo (uno dei racconti scritti da Lipman), il facilitatore raccoglie e trascrive sulla lavagna a fogli mobili delle domande che contrassegna con il nome di chi le formula e degli altri membri che ‘si associano’ a esse (ossia vi si riconoscono), con l’identificazione del 65

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sono siffatti enti de-localizzati, de-contestualizzati. Una sessione di CdRF è un esercizio del pensiero66 che ha fatto i conti con la profonda meditazione deweyana su contesto e pensiero67. Per quanto si miri a costruire concetti elaborati, a operare distinzioni accurate, a evitare banalizzazioni delle difficoltà teoriche, mai la CdRF deve perdere di vista il legame del suo lavoro teorico con l’esperienza, come contesto di tutti i contesti (ed è compito del facilitatore intervenire se ciò non avviene). Non nel senso che nella CdRF non si riconosca che il pensiero filosofico si muove costitutivamente a un livello di massima remotezza dall’evidenza degli ancoraggi contestuali (come Dewey stesso ricorda), ma si cerca di scongiurare il pericolo – segnalato da Dewey – che questa remotezza divenga trascuratezza, che si favorisca uno stile di pensiero lusingato nella sua aseità rispetto all’esperienza e trasformato in esercizio scolastico, in frivolezza dialettica. Cambia dunque il significato di generalità dei ‘prodotti’ dell’attività di piano di discussione e la successiva discussione ogni annotazione che il facilitatore compie sulla lavagna prescinde dai nomi propri. L’idea è che essa sia il prodotto dell’intera comunità, di quell’intersoggetto che la comunità è (o dovrebbe essere) per essere comunità di ricerca filosofica. 66 Riprendo l’espressione dal titolo del volume di F. Cambi, Insegnare e apprendere la filosofia. L’esercizio del pensiero, Roma: Armando editore, 2000. Il testo di Cambi affronta questioni, quelle della didattica della filosofia, che incrociano e si intrecciano con le problematiche sollevate dall’approccio lipmaniano della Philosophy for Children, ma non può essere questa la sede per indagare questo versante, data la focalizzazione sulla CdRF della presente riflessione. Di recente è stato Sloterdijk, nel suo Scheintod im Denken. Von Philosophie und Wissenschaft als Übung (cit.), ad aver sottolineato il carattere ‘ascetico’, di esercizio, proprio del pensiero filosofico. 67 J. Dewey, “Context and Thought”, in Id., The Later Works, 19251953, vol. 6 (1931-1932), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1985, pp. 3-21, tr. it., “Contesto e pensiero”, in O. De Sanctis, E. Frauenfelder (a cura di), Cartografie pedagogiche 3, Napoli: Liguori, 2010, pp. 53-71. La caratteristica situatività della pratica della CdRF invita al paragone (svolto nella prima parte del presente volume) con la teorizzazione pedagogica contemporanea innescata dal pensiero di Wenger. Per una esaustiva elaborazione di tale tematica cfr. L. Fabbri, Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Per una formazione situata, Roma: Carocci, 2007.

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pensiero in una CdRF: come Dewey ha scritto, «[i]l solo pensiero veramente generale è il pensiero generoso. È la simpatia che porta il pensiero al di là del Sé e ne estende la portata fino a che si approssima all’universale come suo limite»68. Non si deve intendere qui simpatia come quella «empatia smisuratamente dilatata grazie alla quale sarei in grado di sapere che cosa passa realmente nella testa di tutti gli altri», che Arendt giustamente stigmatizza69. Rimanda piuttosto a quella che Lipman ha chiamato la dimensione caring del pensiero70, che nella pratica della CdRF si traduce nella esigenza – da parte del facilitatore – di avere non solo un ruolo epistemico di accompagnamento/ sostegno del processo di indagine ma anche di vigilanza sul ‘coagularsi’ dell’aggregato di individui in una reale comunità che ha nella ricerca il suo collante. La dimensione caring, che ha a cuore e coltiva l’elemento ‘comunitario’, l’impegno ad una indagine condivisa aliena da ogni gusto agonistico, sorregge e pre-dispone a una indagine che si indirizza a un universale ‘generoso’. Siffatta dimensione caring non ha invece reale senso in una ricerca al singolare, in cui gli altri sono solo evocati in immagine, come voci all’interno del mio pensare. E, tuttavia, il fatto che nella CdRF il soggetto sia la comunità ‘generosa’, l’intersoggetto (con implicazioni anche caring) e non l’individuo nella sua solitudine, non deve spingere a interpretare la CdRF come un Bund. Invero, la paradossalità della CdRF è nel suo tagliare le distinzioni modali della sociologia classica. La community of philosophical inquiry non è – lo si è già ribadito in vari punti del volume – una ‘comunità’ nel senso rigorosamente tönniesiano del termine: non è, infatti, edificata su legami naturali, 68 J. Dewey, Ethics, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 7 (1932), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1985, p. 270. 69 H. Arendt, The Life of Mind, cit., p. 511 (tr. it.). 70 M. Lipman, “Caring as Thinking”, «Inquiry: Critical Thinking Across the Disciplines», Vol. 15, No. 1, 1995, pp. 1-13, tr. it., “Orientamento al valore (caring) come pensiero” in A. Cosentino (a cura di), Filosofia e formazione. 10 anni di Philosophy for Children in Italia, cit., pp. 29-42.

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cementata da un Wesenswille, da un volere essenziale che trova nei vincoli organicistici (per cui i membri si risolvono nella totalità) la sua estrinsecazione; non ha la caratteristica scontatezza (la Selbstverständlichkeit) delle comunità stricto sensu, il loro essere-già-sempre-lì, il loro pre-esistere all’incontro dei soggetti che ne fanno parte, di cui il ruolo giocato da abitudini e tradizioni, alle quali i membri devono sottomettersi, è la manifestazione; non si fonda sulla dimensione ‘inconscia’ (in una accezione assolutamente non-psicoanalitica del termine) degli individui (in un senso rigoroso la ‘comunità’ tönniesiana non prevede investimenti sentimentali e emotivi che, in quanto tali, pur avendo un accesso privilegiato agli strati psichici inconsci, sono però fenomeni di coscienza). Nessuna di queste caratteristiche, che epitomizzano i tratti salienti della ‘comunità’ come Gemeinschaft, è ascrivibile alla CdRF. Ma essa non può, però, essere nemmeno catalogata come società nel senso della Gesellschaft: è vero infatti che si costituisce per un ‘patto’ fra individui, ma gli individui impegnati nella ricerca vanno a costituire un ‘intersoggetto’ e non semplicemente un’associazione tenuta insieme da vincoli ‘contrattualistici’ (il contratto è infatti l’archetipo del legame ‘societario’, gesell­ schaftlich); e benché, tanto nella società quanto nella CdRF, la razionalità abbia un’importanza strategica, in un caso si tratta di una razionalità solamente ‘strumentale’, ‘positivistica’ la definirebbe Donald Schön, laddove la razionalità che è esercitata nella CdRF è riflessiva e meta-riflessiva. La categoria sociologica modale che più sembra avvicinarsi alla CdRF parrebbe, quindi, quella del Bund, e proprio in virtù della ‘crucialità’ del momento caring non solo per la costituzione ma anche per la ‘produttività epistemica’ della CdRF. Ciò che sostiene il Bund, infatti, «sono ondate emozionali di sentimento»71, esso «viene fondato solo attraverso le esperienze attuali del “sentire del Bund”»72 e per 71

H. Schmalenbach, “Die soziologische Kategorie des Bundes”, cit., p. 45, tr. it. cit., p. 74. 72 Ivi, p. 63, tr. it. cit., p. 90.

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questo è caratterizzato da una costitutiva «labilità»73 tanto nei confronti della comunità (il cui cemento sono i legami organici, di sangue) quanto nei confronti della società (che è più effimera della Gemeinschaft ma cerca di limitare la sua ‘evaporabilità’ insistendo su un ethos della fedeltà). Nel Bund come nella CdRF gli individui si incontrano in una associazione che non pre-esiste loro (come la Gemeinschaft) né però è avvertita come estranea, utilitaristica (come la Gesellschaft), che anzi li coinvolge, li fa sentire appartenenti a un’impresa comune. Antonio Vitiello, nella sua raffinata ricognizione della categoria del Bund74, vede in esso il contrassegno della sodalità (in quanto distinto dalla comunità e dalla società), che ha nell’amicizia la sua forma sociale par excellence. Se si pensa al ruolo che gioca l’amicizia nel Socrate del Menone (e anche altrove), il quale invoca una ricerca svolta phíloi óntes (essendo amici); se si pensa al fatto che l’idea del con-filosofare (del sumphilosopheîn) appare per la prima volta, come già ricordato, in Aristotele, nel capitolo dell’Etica a Nicomaco consacrato all’amicizia; se si considera la crucialità di un ethos della amicizia filosofica per la CdRF75 si potrebbe essere portati a concludere, anche sulla base delle altre riflessioni condotte, che la CdRF sia una forma di Bund. Sed contra va sottolineato come le ondate emozionali del Bund sono preponderanti rispetto a ogni elemento critico-razionale, sono forme di adesione entusiastica ovvero di venerazione rispetto a un leader, a un maestro, a una guida che convoglia su di sé i vissuti affettivi dei componenti del Bund, laddove la dimensione caring non ha solo un valenza affettivo-emozionale ma anche attiva76 73

Ivi, p. 73, tr. it. cit., p. 100. A. Vitiello, Comunità, società e sodalità: commento a Schmalenbach, saggio introduttivo alla tr. it. del testo di Schmalenbach. 75 Cfr. J. Glaser, “Socrates, Friendship and the Community of Inquiry”, «Inquiry: Critical Thinking Across the Disciplines», Vol. 16, No. 4, 1997, pp. 22-46. 76 «Poche discussioni riguardanti l’orientamento al valore (caring) mancano di notare l’ambiguità tra l’uso del termine nel senso di “nutrire un sentimento di affetto per” (caring for/about) e nel senso di prendersi cura di, badare a” (caring for). Qui vogliamo distinguere questi 74

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e non è disgiunta dalle altre dimensioni del pensiero (la criticità e la creatività), ed è essa stessa pensiero (caring as thinking recita il titolo del saggio di Lipman). Inoltre, se è vero che l’unità della CdRF, promossa e custodita dal caring, è condizione della riuscita della indagine filosofica, è anche vero che vi è una ricorsività e anzi si può asserire che il collante ultimo della CdRF sia l’impegno all’indagine comune, non lo star-bene-insieme, il ritrovarsi uniti in sentimenti condivisi. Per questo è costitutivamente alieno alla CdRF ogni fusionalità e adesione organica, che invece rappresentano una conditio sine qua non del Bund. Ciò che Dewey definisce “generosità”, la “simpatia che va al di là del Sé” non deve essere, quindi, misinterpretata in una prospettiva che riconosca solo significati emotivo-affettivorelazionali ma va – ed è qui un merito della lipmaniana elaborazione della nozione di pensiero complesso – considerata nel suo legame con la logica dell’indagine cooperativa. Nella sua ri-appropriazione novatrice di Dewey, nella sua ulteriorità deweyana, Lipman attiva, per quello che si è venuti dicendo, delle virtualità ‘socratiche’, aliene all’ethos bündisch dell’Accademia: non sono la CdRF e l’Accademia platonica due modi alternativi di valorizzare l’eredità socratica? Se l’una enfatizza un’indagine esperienziale-situata e aggiorna la pratica del filosofare sulla strada per la piazza, l’altra invece si edifica a partire da un’altra caratteristica della figura di Socrate tramandata dalla tradizione, come efficacemente notato da Peter Sloterdijk: «Questa fu, dunque, la grande intuizione di Platone: le assenze del suo maestro Socrate non dovevano più aver luogo nei vestiboli o sulle pubbliche piazze, dove ogni passante poteva farsi beffe del rapito in estasi. Gli interessava accogliere in un involucro idoneo la condizione precaria della piena dedizione ai pensieri. Nient’altro è l’Accademia originaria che una innovazione spazio-creativa: rappresenta una nuova istituzione senza modelli per ospitare le assenze […] L’Accademia due significati attribuendo il primo all’ambito del pensiero affettivo e il secondo a quello del pensiero attivo» (M. Lipman, “Caring as Thinking”, cit., p. 10, tr. it. cit., p. 40).

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è l’equivalente architettonico di ciò che Husserl ha appellato epoché – una casa per la Weltanschauung e la messa fra parentesi della cura, un asilo per quegli ospiti enigmatici che chiamiamo idee e teoremi»77.

E ancora: non è forse l’attenzione al momento caring la ri-proposizione dell’ammonimento di Socrate nel Menone [75c-75d] a discutere essendo amici, con tono più mite, cui si accompagna – nella logica dell’unità del pensiero complesso – una maggiore argomentazione? E infine: non è il monito per cui «il pensiero è sempre situato in un contesto [e] chi pensa storicamente pensa in modo diverso da chi pensa matematicamente»78 la traduzione in termini moderni dell’approccio socratico per cui l’indagine concerne le credenze proprie dell’interlocutore, sul livello di una anthropíne sophía, di una saggezza umana, e non consiste in una ricerca di tipo matematico, in un ex hypothéseos skopeîsthai [Menone 86e]? Si può ben affermare che nel suo ritorno a Socrate, un Socrate letto selettivamente e tradotto nei termini della pragmatista community-of-inquiry, Lipman operi un oltrepassamento deweyano di Dewey, ossia – ancora una volta – attiva e traduce in pratica educativa elementi che nel Maestro americano rimanevano posizione ‘teorica’. O, nella fattispecie, addirittura opinione ‘dossografica’: quando, nel già citato passo di From Absolutism to Experimentalism, Dewey parla di un movimento “Back to Plato” e si schiera per il Platone drammatico, inquieto, cooperativamente indagante non sta solo esprimendo una sua preferenza o narrando una propria storia di lettura, ma sta facendo riferimento a una specifica stagione della discussione filologica rispetto alla quale egli assunse un determinato atteggiamento ermeneutico79. Non è questa incursione di 77 P. Sloterdijk, Scheintod im Denken. Von Philosophie und Wissenschaft als Übung, cit., p. 56. 78 M. Lipman, “Caring as Thinking”, cit., p. 7, tr. it. cit., p. 37. 79 Cfr. J. Dewey, “The ‘Socratic Dialogues’ of Plato”, in Id., The Later Works, 1925-1953, vol. 2 (1925-1927), edited by J. A. Boydston, Carbondale: Southern Illinois University Press, 1984, pp. 124-140.

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Dewey sul terreno della storia della filosofia antica che interessa qui investigare, ma il fatto che Lipman con il suo congegno educativo ha reso operativo quella che era solo una suggestione esegetica: il movimento back to Plato di Lipman recupera e ‘operazionalizza’ l’elemento drammatico, sia inteso come pluralità di punti di vista, e nei racconti e nella sessione, sia come emergenza del pensiero dalla problematizzazione delle credenze dei soggetti (legate ad un determinato contesto storico-locale) e dal loro incontro/ scontro, che deve essere condotto all’unità dall’indagine cooperativa. Quanto all’inquietudine, lo scandaglio del misreading lipmaniano del ‘ritorno a Platone’ consente di recuperare una questione che è rimasta in sospeso. Si erano, infatti, prese le mosse in questo paragrafo dalla esigenza di mostrare come la CdRF sia un’innovazione rispetto alla tradizione pragmatista (per il suo accento sul ‘filosofico’) e come al contempo, però, Lipman in realtà, con una mossa di alta originalità, non si limitava ad aggiungere un elemento estraneo a un costrutto (quello della community of inquiry) ma portava alla luce e sprigionava delle virtualità, ascose e non tematizzate, in Pierce e Dewey. Come tutti i grandi pensatori, anche Lipman nel suo agone80 coi maestri, pensa il loro im-pensato, il da-pensare che essi ci consegnano e, così facendo, ne ri-scrive l’eredità. Si è partiti da Dewey e si è mostrato come da una parte Lipman prenda parzialmente congedo dalla cornice teorica di How We Think nella misura in cui, pur accogliendo il modello di pensiero riflessivo proprio di Dewey (che parte dalla esperienza dei soggetti, è attivato da una situazione di dubbio e indeterminatezza e, via un’elaborazione di idee, cerca di raggiungere uno stato in cui il dubbio iniziale sia rimosso), introduce un elemento nuovo – la centralità del pensiero filosofico; nello stesso tempo, però, si è visto come con questo gesto teorico Lipman valorizzi in realtà un pensiero ben presente 80 H. Bloom, Agon. Toward a Theory of Revisionism, Oxford: Oxford University Press, 1982.

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nel congegno deweyano e rimasto però, forse, a livello di ‘proclama’ teorico (la ‘formatività’ del filosofare); e si è enfatizzato che solo nella cornice deweyana (disegnata nei suoi assi mercé una distinzione dalla impostazione arendtiana) la CdRF si profila nella sua unicità. Si è definita questa l’ulteriorità deweyana di Lipman. Ma si può attuare una siffatta operazione esegetica anche nel caso di Peirce? Se il ruolo formativo della filosofia è nell’approccio deweyano come la lettera rubata di Poe, ben visibile (“proprio sotto il naso”, dice Lipman a Striano) eppure non vista, che dire di Peirce? Nel suo caso non vi è forse una così nitida insistenza sulla community of inquiry come modellata sull’esempio della comunità degli scienziati da scoraggiare ogni tentativo di rintracciare in lui un antesignano dell’invenzione lipmaniana? Anzi Peirce non assegna la costruzione dei sistemi filosofici al terzo modello dell’indagine, così sottraendola apertis verbis a quello della community of inquiry? Rispetto a Peirce come parlare di una mislettura lipmaniana che pensa il suo da-pensare? Non si tratta molto più semplicemente da parte di Lipman dell’intercettazione di una formula felice (community of inquiry), senza nessuna implicazione di ‘contagio’ teorico? Peraltro Lipman pare aver conosciuto Peirce essenzialmente attraverso Justus Buchler e, quindi, sembrerebbe escludersi la possibilità di immaginare un peircismo che vada oltre il prestito lessicale. E, naturalmente, sul piano della ‘filologia’ è così: Lipman ha esercitato la sua innovatività sostanzialmente in riferimento a Dewey, non a Peirce. Ma qui non è in gioco una questione ‘filologica’ (per quanto importante essa sia da altri punti di vista) ma la pregnanza, per usare un termine gestaltista, del costrutto di comunità di ricerca filosofica, che invita a interrogarsi se non vi sia già in Peirce – al di là della ignoranza che Lipman possa aver avuto di siffatta anticipazione – qualcosa che guarda nella direzione della CdRF lipmaniana. Mette conto essere cauti e precisare il senso della argomentazione che si vuole sviluppare: non si intende lasciare sullo sfondo il

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modello marcatamente scientifico della peirceana community of inquiry (per altri versi, si è accennato, questo può essere considerato come un atout di Peirce – e di Dewey – rispetto al ‘tradizionalismo filosofico’ di Lipman). Né si può dimenticare che quella di Lipman è essenzialmente un’interrogazione pedagogica, laddove in Peirce l’elemento pedagogico è periferico, per lo più vago. E, però, nel leggere la formula peirceana e riconoscervi qualcosa che si armonizzava con il suo progetto pedagogico, anzi «un termine che rappresenta qualcosa di cui abbiamo un gran bisogno»81, Lipman ha colto un elemento, che di recente la critica peirceana ha portato alla luce, e lo ha tradotto in una pratica formativa (con un gesto analogo, quindi, a quello compiuto con Dewey). E questo ha anche a che fare con l’elemento della ‘inquietudine’ proprio del ‘ritorno a Platone’ che egli compie, nella scia di e oltre Dewey. Si suggerisce qui infatti di leggere questa inquietudine come lo stato iniziale dell’indagine (si ricordi che lo stesso Peirce parla di una irrequietezza che il fissarsi della credenza acquieta), ciò senza cui essa non sarebbe innescata e che ne sorregge l’intero corso. Dewey in How We Think giunge ad affermare che «[p]er essere genuinamente pensanti, dobbiamo essere disposti a sostenere e protrarre quello stato di dubbio che è lo stimolo a un’indagine accurata, in modo da non accettare un’idea o asserire positivamente una credenza prima che si siano trovate le ragioni per giustificarla»82.

Siffatta proposizione ha una chiara matrice peirceana, al di là delle differenze di impianto che pur si possono rilevare fra Dewey e Peirce83. E, nella sua riflessione, Peir81 D. Kennedy, Ann Sharp’s Contribution. A Conversation with Matthew Lipman, cit., p. 15. 82 J. Dewey, How We Think: A Restatement of the Relation of Reflective Thinking to the Educative Process, cit., p. 124, tr. it. cit., p. 77 (con modifiche). 83 È stato Robert Talisse ad avvertire, in contrasto con quella che definisce l’immagine evolutiva del pragmatismo, che fra il modello di indagine di Peirce (retto dal principio psicologico, da quello della per-

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ce è alquanto netto nel sottolineare come il dubbio debba essere autentico, non il frutto di un esercizio, in ultima istanza sterile, di problematizzazione arbitraria delle credenze, come non debba cioè essere un dubbio ‘fittizio’ che dia luogo a discussioni oziose e compiaciute nel revocare in questione le opinioni. Attenersi a questa impostazione – connessa all’orizzonte scientifico della meditazione peirceana – parrebbe escludere la speculazione filosofica: se il paradigma dello stato genuino di irritazione/dubbio è quello che deriva dalla smentita che un’ipotesi scientifica riceve dalla recalcitranza del reale nella sua ostinazione fattuale (per parafrase una nota espressione di Bulgakov), allora il questionare radicale della filosofia sembrerebbe ritrovarsi più sul lato delle discussioni futili che non su quello della vera indagine. In realtà, nel 1905 – quindi in una fase tarda della sua produzione – Peirce arrivò, come riconosciuto da Browning, a riconoscere «una forma di indagine filosoficamente significativa che non aveva il suo punto di partenza nel dubbio autentico […] La forma preferita di ricerca filosofica non è quella che è lasciata ai capricci delle circostanze, all’occorrenza fortuita del dubbio autentico, ma è quella che serve sia a condurre verso sia a incoraggiare il dubbio autentico e a procedere, una volta che tale dubbio sia stato così prodotto, alla sua distruzione mercé la credenza. Ma in questa visione il punto di partenza della ricerca filosofica non è più il dubbio autentico, che ora occupa un punto mediano nella investigazione, ma qualcosa di alquanto differente. Questo nuovo punto di partenza, sebbene non adombrato nel dettaglio da Peirce, sembra consimanenza, della corrispondenza e del positivismo) e quello di Dewey (contrassegnato dal principio esistenziale e da quelli del darwinismo, della transazione e del pluralismo) intercorre una discontinuità e ad ammonire, quindi, a non confondere due differenti concetti di indagine. Non può essere questa la sede per approfondire come si disponga l’idea lipmaniana di indagine rispetto a queste differenze. L’analisi accurata della posizione lipmaniana rivelerebbe, infatti, un interessante innesto di elementi peirceani all’interno della prevalente matrice deweyana (cfr. R. Talisse, “Two Concepts of Inquiry”, «Philosophical Writings», Nos. 19-20, Spring-Summer, 2002, pp. 69-81).

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stere in o essere istituito da un tipo di atto volontario in cui “ci si dispone” a riflettere su e ad esaminare certe credenze proprie»84.

Vi è, quindi, già nel dispositivo teorico peirceano una legittimità accordata alla interrogazione squisitamente filosofica, che la integra all’interno del più generale framework dominato dal costrutto di community of inquiry. È possibile quindi pensare alla CdRF, in quanto setting di una pratica di coltivazione del dubbio e del questionamento di secondo livello, come a un modo peirceano di andare oltre Peirce. Allo stesso tempo non si deve dimenticare la ridistribuzione di accenti che il riconoscimento del ruolo del filosofare comporta nel complesso della riflessione peirceana: infatti, la nozione di comunità di ricerca in Peirce è intimamente connessa a quella di una convergenza ideale dei ricercatori sulla verità, intesa come coincidenza col reale, e all’idea che questa ‘finale’ coincidenza è ‘garantita’ dal fatto che la comunità è mossa nella sua ricerca da dubbi autentici (ossia derivanti dalle smentite della realtà alle ipotesi prodotte) e non da fumisterie autoprodotte, da giochi di prestigio speculativi. Ora – come ha avvertito sagacemente Hildebrand – aprire il varco al dubbio di tipo filosofico (ossia non scaturente dalla irritazione di una confutazione da parte dei fatti delle proprie ipotesi, bensì da una messa in questione autonoma, da parte dei ricercatori, delle proprie credenze) potrebbe rischiare di minare il pilastro dell’impianto peirceano (la convinzione che l’indagine scientifica cooperativa converge idealmente verso il vero): «Infatti, se gli individui possono creare e manipolare il dubbio autentico (al servizio, per esempio, di una teoria prediletta), la tentazione di far così potrebbe divenire cronica; il dubbio manipolato potrebbe alla fine rivaleggiare con la presenza di un dubbio che si verifichi naturalmente. Lo scetticismo 84 D. Browning, “The Limits of the Practical in Peirce’s View of Philosophical Inquiry”, in E. C. Moore, R. S. Robin (eds.), From Time and Chance to Consciousness: Studies in the Metaphysics of Charles Peirce, Oxford: Berg Publishers, 1994, pp. 20-21.

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iperbolico non è necessariamente il risultato inevitabile, ma sospetto che le congetture diventerebbero sempre più soggettive, speculative e resistenti a controlli regolativi – un anatema per la convergenza futura. Tale abuso di dubbio ‘creato’ non è affatto necessario o inevitabile. Ma dal momento che gli esseri umani esibiscono spesso una tendenza a ritirarsi dalle vite sociali attive in sfere che sono al contempo altamente personali ed estetiche, sembra proficuo evidenziare alcune delle conseguenze per gli aspetti comuni dell’indagine»85.

Esula dalla presente trattazione discutere la soluzione di Hildebrand o inoltrarsi in questioni di interpretazione del pensiero peirceano. Ciò che interessa, della notazione di Hildebrand, è la ripercussione che ha sulla riflessione che si sta qui conducendo sulla CdRF. Si è visto che assumere nella cornice della comunità di ricerca il ‘filosofico’ può essere considerato come un modo peirceano di andare oltre Peirce. Ma come scongiurare che la coltivazione del dubbio diventi gesto nichilistico di messa in questione per il gusto gratuito e frivolo del dubitare di tutto? Come sventare il pericolo di ‘esteticizzazione’, il compiacimento del domandare senza l’esigenza della convergenza sul vero? Come scansare quella che potremmo definire la tentazione alcibiadea, spostata sul piano della CdRF? Come evitare che la CdRF, lungi dall’essere lo spazio pubblico in cui problematizzare le credenze al fine di un perfezionamento della democrazia, diventi invece un modo di ritirarsi dalle vite sociali attive in sfere che sono al contempo altamente personali ed estetiche? In Peirce (nella lettura di Browning e Hildebrand) permane il rimando alla realtà e alla sua recalcitranza alle ipotesi ‘errate’, e il dubbio sollevato dal filosofare, se è punto di partenza, elicita però un dubbio autentico (che diviene una sorta di termine medio della indagine). La resistenza del reale, il suo porre vincoli all’oziosità del pensiero, continua a fungere anche lì dove il ruolo del filosofico viene riconosciuto. Ma nella CdRF, 85 D. Hildebrand, “Genuine Doubt and the Community in Peirce’s Theory of Inquiry”, «Southwest Philosophy Review», 12, 1, 1996, p. 41. Corsivi aggiunti. Ringrazio Maura Striano per aver attirato la mia attenzione su questo saggio.

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dove pare non esserci alcun ‘fuori’, non si rischia l’autocombustione del pensiero, lo scialo di virtuosismo dialettico, la china distaccata e blasé? Accanto a un versante più genuinamente epistemologico86 che non si può qui sviluppare, data la focalizzazione sulla CdRF come istanza politico-educativa, la risposta può essere rinvenuta in un secondo tipo di ulteriorità peirceana di Lipman. John Lachs ha efficacemente tratteggiato la proposta peirceana come una visione sociale della indagine: [T]utti quelli che desiderano integrare la somma della conoscenza umana – ossia tutti quelli che indagano – sono tacitamente vincolati al perseguimento, sostenuto indefinitamente, della ricerca. […] I pensatori individuali divengono in questo modo membri di una comunità di ricerca che trascende nazioni ed età. […] Il proposito ultimo di questa espansione immaginativa dei confini della comunità è l’abbattimento delle mura del Sé: “Per essere logici gli uomini dovrebbero essere non egoisti”, scrive Peirce, perché la logica “è radicata nel principio sociale” (W, 3: 284). Nella sua metafisica è esplicito nel mostrare che il Sé è sociale nella sua costituzione e che è contiguo con il mondo circostante delle menti. Nel discutere le implicazioni della logica, egli enfatizza il significato morale della devozione alla comunità illimitata dei ricercatori, del fatto di rendere tale vincolo supremo nelle nostre vite e di sperare nella “continuazione illimitata dell’attività intellettuale”»87. 86

Si tratta della questione se l’orizzonte costruttivista possa davvero essere la cornice di riferimento per pensare la P4C o se non ci sia bisogno di un costruttivismo temperato da realismo, secondo un’impostazione molto più vicina ad alcuni tenets peirceani. La questione del rapporto fra prospettiva costruttivista e prospettiva realista è cruciale per la P4C come per il resto del discorso pedagogico ed è merito di Enricomaria Corbi aver richiamato il dibattito pedagogico alla necessità di interrogarsi su questo tema (cfr. E. Corbi, La verità negata. Riflessioni pedagogiche sul relativismo etico, Milano: FrancoAngeli, 2005; Id., Prospettive pedagogiche tra costruttivismo e realismo, Napoli: Liguori, 2010. Mi permetto di rinviare anche alla mia discussione dell’ultimo volume di Corbi, apparsa in O. De Sanctis, E. Frauenfelder (a cura di), Cartografie pedagogiche 4, cit.). 87 J. Lachs, “Peirce: Inquiry as Social Life”, in S. B. Rosenthal, C. R. Hausman, D. R. Anderson (eds.), Classical American Pragmatism: Its Contemporary Vitality, Champaign (IL): University of Illinois Press, 1999, p. 80.

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Lipman attua una operazionalizzazione pedagogica del costrutto peirceano, di cui conserva la centralità del principio sociale. La trappola del ritrarsi dalle sfere sociali è evitata in virtù della devozione a tale principio, al vincolo morale rispetto alla comunità. Devo aver cura della comunità (il caring di cui sopra si è detto) e ne ho cura nella misura in cui essa è impegnata nell’indagine. L’impegno all’indagine è l’impegno alla autenticità dei dubbi sollevati, alla loro non pretestuosità: come membro della CdRF sono chiamato a mettere in questione delle credenze in cui mi riconosco o alle quali sono in qualche modo interessato, che fanno parte della mia rete di convinzioni, sulla base delle quali oriento la mia esperienza: è uno dei motivi per cui un bravo facilitatore, qualora la sessione divenga troppo compiaciutamente speculativa, un esercizio di funambolismo filosofico, appella all’esperienza dei membri della comunità, cerca in essa l’ancoraggio della messa-in-questione che si sta attuando, per far in modo che i dubbi sollevati siano genuini, intercettino l’essere-nel-mondo dei soggetti. Ancora una volta si staglia l’ombra di Socrate, che poteva dire di esaminare la vita degli Ateniesi perché ne esaminava le credenze e non accettava – nella dinamica significativoerotica che si è sopra descritta – che l’analisi divenisse occasione di evasione. Da qui promana anche uno dei criteri che ci derivano da Lipman per valutare le sessioni: l’autocorrettività88. Fallisce quella comunità che, attardandosi nelle dispute scolastiche, soffermandosi su argomenti speciosi, ovvero disperdendosi nella chiacchiera vana, non progredisce, non innova i propri quadri interpretativi, non trasforma i significati con cui dar senso all’esperienza. Porre l’autocorrettività come parametro conserva un’eco della tensione peirceana verso il progredire della ricerca attraverso smentite della realtà e correzioni delle ipotesi. Ma è importante ribadire, ancora una volta, la circolarità – nella 88

«La filosofia è pensiero auto-correttivo. È pensiero che indaga se stesso con lo scopo di trasformarsi in pensiero migliore» (M. Lipman, Philosophy Goes to School, cit., p. 41).

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CdRF – fra momento caring e momento più squisitamente epistemico: se non ho cura e non ho a cuore il sorgere e il consolidarsi della comunità, se – in maniera quasipeirceana – non abbatto le mura del Sé e non mi sento impegnato in un’indagine cooperativa (e auto-correttiva), potrei preferire attenermi ‘tenacemente’ alle mie convinzioni predilette, non desiderare di innovare i significati, di ampliare la mia mente, di collocarmi in altri punti di vista (che, per quanto si è sopra detto, sono punti di vista reali e non (solo) immaginati); ma, senza la tensione epistemica, senza la cura della comunità nella misura in cui è comunità di ricerca filosofica, moralmente impegnata alla indagine, potrei preferire un accordo di facciata ad un’analisi approfondita delle questioni, una negoziazione dei significati al ribasso, per non increspare il consenso della comunità, un embrassons-nous para-filosofico e privo di risultati, perché incapace di auto-correttività. L’altro versante della ulteriorità peirceana di Lipman, consistente nella valorizzazione della indagine come vita sociale (per riprendere il titolo del saggio di John Lachs), è nel criterio della distributività del pensiero: perché vi sia comunità di ricerca, il termine ‘comunità’ non sta solo per una ‘struttura’ ma anche per un ‘processo’. La comunità di ricerca non è solo l’insieme delle persone che la costituiscono, ma il processo della indagine condivisa che viene condotta e che cementa la comunità. Ora, se l’indagine non è davvero comune, non è fondata sulla comunicazione estesa e aperta (deweyanamente: in una pratica della democrazia come comunicazione) e sull’articolarsi dei punti di vista, ma si sostanzia nel protagonismo di uno o due membri, con gli altri relegati nel ruolo di affascinati ascoltatori, non vi è CdRF nell’accezione che si potrebbe definire ‘normativa’ del termine. Saremmo molto vicini – in quella comunità in miniatura89 che è una classe – alla situazione descritta da Walter Lippman con la contrapposizione fra agents e 89 L’espressione, riferita alla scuola, si trova, è appena il caso di ricordarlo, in J. Dewey, School and Society, cit., p. 12, tr. it. cit., p. 10.

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bystanders90. Questa ulteriorità peirceana può essere anche letta come un prender parte per Peirce contro (un aspetto della modalità educativa di) Socrate: «La sintesi di Lipman e Sharp ha ricostruito la filosofia come un’attività comune, dialogica. Così concepita, la comunità di ricerca filosofica è una ricapitolazione della pratica socratica con una differenza importante e determinante: nella CdRF il fattore di controllo nella direzione dell’argomento, e la fonte del suo movimento di autocorrezione, non è più un membro potente e dominante del gruppo, ma il processo sistemico, dialettico del gruppo stesso. Nella CdRF, il processo decostruttivo/ricostruttivo che Socrate assume unicamente su di sé è distribuito fra tutti i membri, e ha la sua fonte fra loro – cioè nelle loro interazioni. […] Il locus pedagogico di controllo della CdRF è, in altre parole, spostato da un individuo al gruppo nel suo complesso, che è ora inteso come potenzialmente autoregolantesi attraverso un processo di continua trasformazione dialettica. […] Intesa non solo come un ideale filosofico ma come un più generale ideale educativo, la teoria della comunità di ricerca offre una cornice epistemologica e metodologica sovraordinata per svariate riformulazioni tardo-novecentesche della classe, dall’apprendimento cooperativo a quello individualizzato, e dai raggruppamenti cross-age alle strategie basate sulla teoria delle intelligenze multiple – tutte fondate in ultima istanza sull’immaginare l’apprendimento come un processo dialogico piuttosto che monologico»91.

Nella nozione lipmaniana (e sharpiana) di CdRF si gioca quindi una partita pedagogica molto complessa con l’eredità socratica (nelle sue interazioni con la tradizione pragmatista e con le pedagogie attive e critiche del ’900). Da una parte il modello lipmaniano aderisce a quella pedagogia socratica riproposta nella contemporaneità da Martha Nussbaum92. Per Nussbaum pedagogia socratica è il nome di una tradizione pedagogica di lunga durata 90

Cfr. il cap. II, § 1, di questa seconda parte. D. Kennedy, “The Role of a Facilitator in a Community of Philosophical Inquiry”, «Metaphilosophy», Vol. 35, No. 4, ottobre 2004, pp. 744-765. 92 Cfr. M. C. Nussbaum, Not for Profit. Why Democracies Need the Humanities, Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2010, cap. IV. 91

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(principiante proprio dal maestro ateniese) che pone «un accento sull’autoesame, sulla responsabilità personale e sulla attività mentale individuale come antidoti a una educazione che plasmava gli studenti come strumenti docili dell’autorità tradizionale»93 e che mira «a produrre un certo tipo di cittadini: attivi, critici, curiosi, capaci di resistere all’autorità e alla pressione dei pari»94. Nussbaum è esplicita nel riconoscere una linea che da Socrate, attraverso Rousseau, Pestalozzi, Froebel, Horace Mann, giunge fino al poeta indiano Tagore e a John Dewey, «un pensatore, che portò Socrate virtualmente in ogni classe americana»95. Dato che, come si è ricordato con Lipman, in realtà Dewey non mobilitò mai la filosofia come strumento educativo stricto sensu (nonostante considerasse la filosofia una teo­ria generale dell’educazione) e foggiò piuttosto la sua nozione di pensiero riflessivo sul modello delle scienze, è evidente che Nussbaum intende col nome “Socrate” il fenomeno del riconoscimento della relazione educativa come rapporto dialogico e lo spostamento dell’enfasi sulla attività dei soggetti in formazione. È una posizione su cui lo stesso Lipman (che, fra l’altro, Nussbaum ascrive esplicitamente a questa tradizione socratico-attivistica96) potrebbe convergere e che appellerebbe, inoltre, a una rilettura del legato del filosofo ateniese in continuità con alcuni dei momenti topici della riflessione pedagogica novecentesca, come uno degli interpreti più attenti di Lipman ha evidenziato: «Il modello socratico è pedagogico: riguarda l’insegnamento e l’apprendimento in un piccolo gruppo senza una chiara gerarchia, condotti attraverso la conversazione nel linguaggio quotidiano e con un elemento ludico. Epistemologicamente, riguarda la ricostruzione concettuale quale perno dell’apprendimento e dell’insegnamento e il modo in cui studenti e docenti insieme lavorano sodo a quella ricostruzione. Poiché lavorano insieme, esso riguarda anche la complessità epi93 94 95 96

Ivi, Ivi, Ivi, Ivi,

p. 62. p. 72. p. 64. pp. 73-76.

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stemologica della relazione docente-studente. È – inoltre, e ad onta del prepotente talento di Socrate – un modello democratico per il fatto che assume una comunità ideale di discorso, nella quale nessun enunciato ha più autorità di un altro, eccezion fatta sul fondamento della sua inerente ragionevolezza. Sviluppata nel suo pieno potenziale, la comunità degli interlocutori presentata per la prima volta da Socrate è direttamente connessa al modello freiriano di dialogo, dove il docente diviene tanto un ricettore quanto un donatore di nuovi significati, e lo studente viceversa, aprendo così la classe alle relazioni multilogiche di interlocuzione e risolvendo quella che Freire chiamava “la contraddizione studentedocente”. Essa ottempera altrettanto i criteri vygotskijani per l’apprendimento ottimale: in una comunità intenzionalmente dialogica, la zona di sviluppo prossimale per ciascun individuo è presente nella intelligenza distribuita dell’intero gruppo. In questo modello, educazione e filosofia sono una sola e medesima cosa»97.

Al contempo, però, l’impostazione lipmaniana – come già accennato – si distanzia da quella socratica perché nella CdRF non vi è una figura dominante che guida e dirige la discussione. Questa ambivalenza si sconta nella difficile posizione del facilitatore. Questi ha un compito direzionale, non direttivo. In altre parole non deve indirizzare il lavoro filosofico della CdRF verso esiti teorici a lui graditi, non deve pilotare “la fatica del concetto”, l’opera del ragionare distribuito, a conclusioni pre-definite. Ma neanche deve limitarsi a una presenza evanescente, diafana, mero supporto di registrazione sulla lavagna del dialogo della CdRF o semplice ‘presidente di assemblea’ che assegna i turni di parola. Il facilitatore sorveglia che quello che la comunità svolge sia un lavoro filosofico, che le discussioni non scadano in conversazioni, che il necessario aggancio esperienziale non degradi a prevalenza dell’aneddotico sul contenuto teorico. Perciò egli/ella interviene quando la ri97 D. Kennedy, “After Socrates: Community of Philosophical Inquiry and the New World Order”, in R. Hewitt (ed.), Whatever Happened to Soul? The Eradication of Philosophy from Colleges of Education, in preparazione.

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cerca ristagna, tafanicamente stimolando l’indagine mediante la proposizione di domande aperte, di esperimenti mentali, di contro-esempi etc., di tutto ciò che alimenta l’interrogazione filosofica. Il facilitatore è così 1) al servizio della CdRF, è 2) lo scaffolding dell’attività di ricerca e 3) il custode del logos di questa, tre dimensioni dello stesso fenomeno. È al servizio non della sola comunità (ossia non gli/le interessa la mera fusione comunitaria, fondata su basi emozionali), né della sola ricerca (una ricerca brillante, dischiuditrice di orizzonti teorici promettenti, non è uno scopo se deriva dall’effervescenza di singoli ‘mattatori’ e non dall’indagine ‘cooperativa’), ma della comunità nella misura in cui è cementata da una ricerca condivisa e della ricerca nella misura in cui è portata avanti dalla comunità e non da monadi senza porte né finestre. In questo senso il facilitatore ha anche una funzione di scaffolding e – vygotskijanamente – opera nella ‘zona di sviluppo prossimale’ consentendo, in virtù dei suoi interventi, alla comunità impegnata nell’indagine di conseguire risultati cui non approderebbe se abbandonata a se stessa e alle sue dinamiche. Per far questo il facilitatore, infine, custodisce il logos del dialogo che, come ha insegnato Gadamer, «non è né mio né tuo, e che perciò sta al di là di ogni opinare soggettivo degli interlocutori, al punto che anche colui che guida il dialogo rimane sempre uno che non sa»98. Il facilitatore ha il compito di promuovere il progresso verso la verità99, una formula peirceana-socratica per indicare un movimento di autocorrezione, che distingue il processo della CdRF da un semplice Circle Time e che impone di costruire, rivedere, affinare concetti, di non sottrarsi alla ricerca del pensiero ‘migliore’ nel timore che ciò rappresenti un calpestamento delle individualità dei membri e del diritto di ciascuno di esprimere le proprie cre98

H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen: J.C.B. Mohr, 19755, tr. it., Verità e metodo, Milano: Bompiani, 1994, p. 425. 99 S. T. Gardner, “Inquiry is No Mere Conversation (or Discussion or Dialogue): Facilitation of Inquiry is Hard Work”, «Critical and Creative Thinking», Vol. 3, No 2.

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denze100. Come è stato efficacemente sintetizzato, «il fatto che ognuno abbia qualcosa da dire che è degno di essere ascoltato non significa che ogni cosa che ognuno dice sia degna di essere sentita»101. Il facilitatore è così una figura paradossale e, in un certo senso, per chi si deve cimentare nel ruolo di facilitatore, ‘perturbante’, benché in maniera diversa da come lo era Socrate con la sua personalità magnetica e carismatica (e quindi sovrastante nel dialogo): la paradossalità del facilitatore non è personale, è funzionale, ed è connessa a quella della nozione di comunità di ricerca filosofica, quale la si è cercata di ricostruire lungo tutto l’arco della presente riflessione; è la paradossalità del coniugare critica e caring, momento comunitario e tensione euristica, tolleranza per tutte le voci e intransigenza nel perseguimento della indagine: «Avendo detto che il facilitatore deve essere implacabile nell’assicurare la qualità del pensiero, la rilevanza, in coe­renza con (o nella coscienza della mancanza di questa) i pensieri degli altri come anche con l’argomento in discussione, il facilitatore deve anche creare un ambiente che sia ‘relativamente’ privo di rischi. Se gli studenti credono che saranno ‘crocifissi’ o ridicolizzati o imbarazzati se non sono in grado di fare ciò che in effetti non sono ancora in grado di fare, ossia pensar bene, possono essere del tutto riluttanti a prendere la parola in classe, e allora l’intero processo si fermerà in modo stridente. Così il facilitatore deve essere pietoso riguardo alla qualità di ciò che è effettivamente detto, ma spietato riguardo al tentativo della profondità»102.

Questa posizione paradossale del facilitatore è una via possibile per riconciliare la contraddizione che Peirce individua103 fra la logica dell’insegnamento (la quale esige il 100 La complessità del ruolo del facilitatore richiede la mobilitazione di quattro delle intelligenze (ermeneutica, progettuale, affettiva e riflessiva) censite e analizzate con puntualità da B. Rossi (Intelligenze per insegnare, Milano: Guerini Scientifica, 2005). 101 S. T. Gardner, “Inquiry is No Mere Conversation (or Discussion or Dialogue): Facilitation of Inquiry is Hard Work”, cit. 102 Ibid. 103 Cfr. supra § 1 di questo capitolo.

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possesso di una verità che si intende trasmettere) e logica dell’apprendimento (la quale postula un’insoddisfazione per lo stato attuale della conoscenza): il facilitatore non è un erogatore di verità, ma allo stesso tempo, nella sua funzione di presidio del processo di ricerca e del progresso verso la verità (o, meglio, verso una elaborazione sempre più approfondita, raffinata e scandagliata dei significati con cui diamo senso all’esperienza), non si limita ad ‘assistere’ al lavoro della comunità, ma la incalza, la sollecita, talora con implacabilità, spingendola a perseguire risultati migliori. In questo senso il facilitatore opera nella direzione della crescita e dell’educazione, della ricostruzione e decostruzione delle esperienze, non si sottrae ai doveri che gli competono in quanto educatore e non si rifugia in un placido e confortante laisser faire, laisser aller. Ma d’altro canto, ispirandosi alla pedagogia socratica, non scodella verità, ma supporta un processo che è la comunità a dover condurre104. Come è stato osservato, «il facilitatore di CdRF è un primo modello pedagogico per [un] passo evolutivo» che conduca – attraverso una rilettura dell’eredità socratica – a una trasformazione della vita sociale «che cerchi di superare – a iniziare dalla relazione adulto-bambino – le relazioni di dominio come forma necessaria di potere per il mantenimento dell’ordine e della stabilità individuale e di gruppo»105. Il progetto squisitamente educativo di Lipman si compie così, come si è cercato di argomentare, in una prospettiva di rinnovamento politico e di (continua, sempre da farsi) ricostruzione della democrazia: «Il pensiero critico migliora la ragionevolezza e la democrazia esige cittadini ragionevoli, quindi il pensiero critico è un mez104 La peculiare posizione ‘didattica’ del facilitatore andrebbe indagata sullo sfondo della più avanzata riflessione italiana sul ruolo dell’insegnante: cfr. su questo E. Damiano, L’insegnante. Identificazione di una professione, Brescia: La Scuola, 2004; L. Fabbri, M. Striano, C. Melacarne, L’insegnante riflessivo. Coltivazione e trasformazione delle pratiche professionali, Milano: FrancoAngeli, 2008. 105 D. Kennedy, “The Role of a Facilitator in a Community of Philosophical Inquiry”, cit.

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zo necessario se il nostro scopo è una società democratica. […] Noi vediamo la comunità di ricerca come l’intersezione embrionica di democrazia e educazione. La comunità di ricerca rappresenta la dimensione sociale della pratica democratica perché sia prepara la strada per un’estesa implementazione di tale pratica sia è emblematica di ciò che tale pratica ha il potenziale di diventare»106.

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