Storia del pensiero economico 9788815054739

Gli autori si soffermano inizialmente sulla nascita dell'Economia come professione e sulle questioni metodologiche.

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Storia del pensiero economico
 9788815054739

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HARRY LANDRETH

DAVID C.COLANDER

STORIA DEL PENSIERO ECONOMICO

il Mulino

Il volume offre un quadro completo del pensiero economico risalendo all’an­ tichità per poi giungere, attraverso la riflessione medievale, fino ai nostri giorni. Pur coprendo uno spettro così ampio, il testo è compatto e di facile lettura: i capitoli presentano dapprima uno scorcio sull’ambiente intellettuale in cui sono nate le diverse intuizioni economiche, e quindi trattano la visione metodologica dei principali autori considerati. Dopo gli scolastici - i primi a sollevare questioni circa l’equità e la giustizia del sistema economico -, i mercantilisti e i fisiocratici, l’analisi passa a toccare momenti fondamentali del pensiero economico classico, dedicando largo spazio a figure come Adam Smith, Ricardo, Malthus, Mill, Marx. Sono poi illustrati il pensiero eco­ nomico neoclassico, l’approccio eterodosso e la moderna teoria microecono­ mica e macroeconomica. Un’opera di grande utilità per chi voglia avvicinarsi al pensiero economico e coglierne l’evoluzione e le implicazioni anche politi­ che fino agli sviluppi più recenti. Indice del volume: Prefazione. - Introduzione. - Parte prima: L’economia pre­ classica. - I. Il pensiero economico preclassico antico. - II. Il mercantilismo, la fisiocrazia e gli altri precursori del pensiero economico classico. - Parte seconda: Il pensiero economico classico, Malthus e Marx. - III. Adam Smith. IV. Ricardo e Malthus. - V. John Stuart Mill e il declino dell’economia politica classica. - VI. Karl Marx. - Parte terza: Il pensiero economico neoclassico. VII. Jevons, Menger e i fondatori austriaci dell’analisi marginalista. - Vili. La diffusione dell’analisi marginalista e la transizione verso l’economia neoclas­ sica. - IX. Walras e la teoria dell’equilibrio economico generale. - X. Alfred Marshall e l’economia neoclassica. - Parte quarta: Il pensiero economico ete­ rodosso. - XI. I primi critici dell’economia neoclassica. - XII. Austriaci,' neo­ classici e socialisti su capitalismo e socialismo. - XIII. Gli sviluppi del pensie­ ro economico eterodosso moderno. - Parte quinta: Gli sviluppi recenti del pensiero economico. - XIV. Lo sviluppo della moderna teoria microeconomi­ ca. - XV. Lo sviluppo del pensiero macroeconomico moderno. - XVI Lo svi­ luppo dell’econometria e dei metodi empirici in economia. - Bibliografia. Harry Landreth insegna al Centre College di Danville, Kentucky. David C. Colander insegna al Middlebury College di Middlebury, Vermont. Tra le pub­ blicazioni di D. Colander ricordiamo «Macroeconomics» (Scott, 1986), «Why Aren’t Economists as Important as Garbagemen» (Sharpe, 1991) e, con A.W. Coats, «The Spread of Economie Ideas» (Cup, 1989).

ISBN 8 8 - 1 5 - 0 5 4 7 3 - 1

L. 60.000 (i.i.)

9788815054739

Harry Landreth

David C. Colander

S to ria del p e n sie ro e c o n o m ic o

Società editrice il Mulino

ISBN 88-15-05473-1

Edizione originale: History of Economie Thought, Boston, Houghton Mifflin, 1994. Copyright © 1994 by Houghton Mifflin Company. Copyright © 1996 by Società editrice il Mulino. Traduzione di Massimo Longhi. Edizione italiana a cura di Andrea Salanti.

Indice

Prefazione Introduzione 1. L ’oggetto prin cip ale del pen siero econom ico m oderno 2. Partizione della m oderna teoria economica 3. Il n ostro ap p ro ccio alla storia del pen siero econom ico 4. L a p rofession e degli econom isti 5. L a diffusione delle idee econom iche 6. A lcune questioni m etodologich e 7. Perché studiare la storia del pensiero eco n o ­ m ico

P-

9

11 12 14 15 21 24 26 38

PARTE PRIMA: L ’ECONOMIA PRECLASSICA

I.

IL

Il pensiero economico preclassico antico

47

1. A lcune considerazioni generali 2. Il pensiero greco 3. L a scolastica R iepilogo

48 49 54 62

II mercantilismo, la fisiocrazia e gli altri pre­ cursori del pensiero economico classico

65

1. Il m ercantilism o 2. P recu rsori del pensiero classico 3. L a fisiocrazia R iepilogo

65 75 88 98

4

INDICE

PARTE SECONDA: IL PENSIERO ECONOMICO CLASSICO, MALTHUS E MARX

III.

Adam S m ith 1. A dam Smith e l ’econom ia classica

2. L’analisi dei mercati e le conclusioni di politi­ ca economica

IV.

V.

VI.

p.

Ili 111 115

3. L a natura e le cause della ricchezza delle n a­ zioni 4. L a teoria del valore 5. L a teoria della distribuzione 6. Il benessere e il livello generale dei prezzi R iepilogo

127 149 150 155 158

Ricardo e Malthus

163

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

D avid R icardo L a dottrina m althusiana della popolazione R icardo: il m etodo, le m otivazioni, lo scop o Il m odello ricardiano L a teoria ricardiana della rendita L a teoria del valore in R icardo L a teoria ricardiana della distribuzione Il vantaggio com parato Stabilità e crescita in un ’econom ia capitalistica R iepilogo

163 164 170 175 180 191 203 208 218 231

John Stuart Mill e il declino dell’economia politica classica

235

1. G li sviluppi teorici post-ricardiani 2. Jo h n Stuart Mill: il retroterra culturale del suo sistem a di pensiero 3. L a teoria econom ica m illiana R iepilogo

239 253 269 285

Karl Marx

291

1. U no sgu ard o d ’insiem e 2. L e teorie econom iche di M arx 3. L ’analisi m arxiana del capitalism o R iepilogo

291 306 324 349

INDICE

5

PARTE TERZA: IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

VII. Jevons, Menger e i fondatori austriaci dell’analisi marginalista

p. 357

1. A scendenze storiche 2. Je v o n s, M enger e W alras 3. G li austriaci della secon da generazione R iepilogo

358 363 384 390

Vili. La diffusione dell’analisi marginalista e la transizione verso l’economia neoclassica

393

1. L a d iffusion e d e ll’analisi m arginalista: la se ­ conda generazione 2. L a teoria della produttività m arginale 3. I p rofitti e l’interesse R iepilogo

394 397 423 445

Walras e la teoria dell'equilibrio economico generale

449

1. Il sistem a di equilibrio econom ico generale 2. V ilfredo Pareto R iepilogo

449 477 479

Alfred Marshall e l’economia neoclassica

481

IX.

X.

1.

M arshall com e fo n d atore d ell’econom ia n eo ­ classica R iepilogo

481 533

PARTE QUARTA: IL PENSIERO ECONOMICO ETERODOSSO

XI.

I primi critici dell’economia neoclassica

549

1. 2. 3. 4. 5.

550 557 582 589 599 607

L a controversia m etodologica Thorstein Veblen W esley Clair M itchell Jo h n R. Com m ons Jo h n A. H o b son R iepilogo

6

INDICE

XII. Austriaci, neoclassici e socialisti su capitali­ smo e socialismo p. 611 1. 2. 3. 4.

Sulla definizione di capitalism o e di socialism o L a nascita del pensiero capitalista L o sviluppo del pensiero econom ico socialista L ’ex U nione Sovietica e il problem a d ell’allo­ cazione delle risorse 5. Sch um peter: un uom o del R inascim ento nel ventesim o secolo R iepilogo

XIII. Gli sviluppi del pensiero economico etero­ dosso moderno 1. I radicali 2. G li istituzionalisti m oderni, i quasi-istituzionalisti e i neoistituzionalisti 3. I quasi-istituzionalisti 4. I neoistituzionalisti 5. I post-keynesiani 6. I sostenitori della scuola delle scelte pubbliche 7. L a scuola austriaca 8. G li econom isti sperim entali R iepilogo

612 615 617 635 642 648

653 656 666 669 689 692 697 699 703 7 06

PARTE QUINTA: GLI SVILUPPI RECENTI DEL PENSIERO ECONOMICO

XIV. Lo sviluppo della moderna teoria microeco­ nomica 1. L ’allon tan am en to d a ll’ap p ro ccio econ om ico m arshalliano 2. L a rivoluzione formalista nella teoria m icroeco­ nom ica 3. L a rivoluzione rappresen tata dalla con corren ­ za m on opolistica 4. M ilton Friedm an e l’approccio m icroeconom i­ co della scuola di C hicago 5. L ’oggetto della teoria m icroeconom ica m oder­ na R iepilogo

719 720 721 735 747 750 780

INDICE

7

XV. L o s v ilu p p o d e l p e n s ie r o m a c r o e c o n o m ic o m od ern o 1. I precursori della m acroecon om ia m odern a 2. L a m acroeconom ia keynesiana 3. L ’oggetto della m odern a teoria m acro eco n o ­ m ica R iepilogo

p- 785 785 798 829 843

XVI. L o s v ilu p p o d e ll’e c o n o m e tr ia e d e i m e t o d i e m p ir ic i in e c o n o m ia

849

1. 2. 3. 4. 5.

851 858 874 882

L ’econom ia applicata L ’econom ia neoclassica e l’analisi em pirica L an alisi em pirica nella teoria m acroeconom ica L’ascesa dell’econom etria L a perd ita della fiducia nella m acroecon om e­ tria 6. L’econom etria bayesiana R iepilogo

889 894 895

B ib lio g r a fia

903

I n d ic e d e i n o m i

921

Prefazione

All’interno della moderna teoria economica troppo spesso viene posto l’accento sulle tecniche analitiche piut­ tosto che sulle «idee» economiche. Questo libro non è sta­ to scritto per lo studioso ma per il lettore comune e inten­ de affrontare con chiarezza, anche se evitando semplifica­ zioni eccessive, la storia del pensiero economico: lo abbia­ mo organizzato in modo tale che risulti evidente quanto essa sia significativa e fondamentale per tutte le discipline economiche. In questo senso, siamo convinti che il lettore trarrà non pochi vantaggi da una presentazione delle intui­ zioni economiche fondamentali e dei contesti storici in cui queste si sono sviluppate. Il volume affronta scopo, metodo e contenuto dell’eco­ nomia politica dal 1200 sino ai nostri giorni, e prende in esame ciascun autore o gruppo di autori secondo differen­ ti prospettive. Alcuni orientamenti teorici sono discussi in modo particolarmente dettagliato, così da permettere una comprensione articolata del funzionamento di determina­ te strutture teoriche. Al tempo stesso sono analizzate le implicazioni politiche in senso lato delle teorie di volta in volta presentate e si indaga il loro impatto sugli sviluppi successivi, sia nel campo della teoria, sia in quello della politica economica. Volutamente non si è fatto riferimento a notazioni matematiche elaborate ed è stato ridotto al minimo il numero di grafici e diagrammi. Il libro è suddiviso in cinque parti, dedicate rispettiva­ mente al pensiero economico preclassico, classico, neoclas­ sico, eterodosso e infine agli sviluppi più recenti. Ognuna di essa è preceduta da una breve introduzione per facilita­ re il lettore a seguire l’evoluzione del pensiero economico nelle sue linee generali. Una certa attenzione è stata riser­

10

PREFAZIONE

vata alle finalità dell’economia politica, così come queste sono intese dai maggiori economisti e dalle varie scuole (compresi alcuni approcci eterodossi contemporanei). Il capitolo introduttivo discute gli aspetti metodologici più rilevanti, che sono poi ripresi via via nei capitoli suc­ cessivi. I capitoli 1 e 2 sono dedicati alla teoria economica preclassica e a un’ampia trattazione del pensiero mercan­ tilista. I capitoli 3, 4, 5 e 6 affrontano il pensiero economi­ co classico da Adam Smith a Ricardo, a Malthus, Stuart Mill, Marx; la nascita del marginalismo è invece contenuta nei capitoli 7 e 8, così da permettere un’adeguata tratta­ zione dell’opera di Jevons e Menger; il capitolo 9 esamina il contributo di Walras alla teoria dell’equilibrio economi­ co generale. Il capitolo 11 si occupa dei primi critici del­ l’economia neoclassica, e include estesi richiami alla scuo­ la storica e agli istituzionalisti americani; il capitolo 12 trat­ ta delle varie posizioni aH’interno del pensiero economico circa le principali caratteristiche del socialismo e del capi­ talismo; riteniamo questo capitolo particolarmente impor­ tante poiché gli sviluppi nell’ex Unione Sovietica ne fanno un caso utile per l’analisi comparata dei sistemi economi­ ci. I capitoli 11, 12, 13 presentano inoltre una rassegna del pensiero economico eterodosso. I capitoli 14 e 15 descri­ vono gli sviluppi delle moderne teorie microeconomica e macroeconomica, rispettivamente. Infine, il capitolo 16 analizza gli sviluppi dell’econometria e dei metodi quanti­ tativi, riflettendo il contenuto del lavoro di ricerca svolto sull’argomento negli ultimi anni.

Introduzione

L’inizio e la fine di ogn i iniziativa d e ll’uom o sono sem pre disordinati. Jo h n G alsw orthy

Lo scopo di questo libro è di tracciare una mappa del­ lo sviluppo del pensiero economico nelle varie epoche, dimostrando innanzi tutto come il pensiero che ha rappre­ sentato l’ortodossia dominante nel passato abbia contribui­ to a definire lo scopo e il contenuto della moderna econo­ mia, ma discutendo anche quelle deviazioni dall’ortodos­ sia che hanno aiutato a definire l’attuale forma del pensie­ ro economico contemporaneo. Nel corso dell’esposizione considereremo, oltre a importanti questioni metodologi­ che, il problema delle connessioni esistenti fra lo sviluppo di una teoria e le condizioni economiche prevalenti nel medesimo periodo, nonché la struttura analitica di alcune teorie in grado di fornire elementi di comprensione parti­ colarmente utili. Si cercherà inoltre di esplicitare l’impor­ tanza di determinate idee per lo sviluppo della teoria eco­ nomica così come le implicazioni di quest’ultima per quan­ to concerne la formulazione di interventi di politica eco­ nomica o sociale. A tale proposito occorre tenere presente che il pensie­ ro economico consiste di una visione preanalitica e al tem­ po stesso di una parte teorica formalizzata: la prima è data dalla prospettiva adottata nel porsi di fronte al mondo che ci circonda, mentre la seconda comprende alcuni modelli specifici attraverso i quali analizzare con maggior precisio­ ne alcuni aspetti di tale visione del mondo. Al fine di po­ tersi appropriare del pensiero dei singoli economisti occor­ re comprendere sia la loro visione del mondo, sia i loro mo­ delli teorici.

12

INTRODUZIONE

1. L’oggetto principale del pensiero economico moderno L’economia è una scienza sociale. Essa tratta i proble­ mi cui si trovano di fronte le nostre società per il fatto che gli individui desiderano consumare maggiori quantità di beni e servizi rispetto a quanto è disponibile, il che fa sor­ gere un problema di scarsità relativa. I desideri sono gene­ ralmente illimitati e apparentemente insaziabili, mentre le risorse (che sono spesso suddivise secondo la seguente clas­ sificazione: terra, lavoro, capitale, capacità imprenditoria­ le) sono limitate. Al fine di risolvere il problema della scar­ sità è necessario un meccanismo sociale in grado di alloca­ re risorse limitate fra usi alternativi illimitati. Tale proces­ so di allocazione comporta, fra l’altro, una limitazione dei desideri individuali e una incentivazione alla propensione ad offrire risorse produttive. Per risolvere il problema della scarsità si è fatto ricor­ so, nel corso della storia, a quattro diversi «meccanismi». Il più antico è dato dal ricorso alla forza bruta, di cui si hanno esempi in alcune società antiche, ma che non è del tutto scomparso anche ai nostri giorni (Somalia e Bosnia costituiscono esempi attuali di una tale situazione). Poi venne la tradizione, la quale ha come principale riferimen­ to la soluzione allocativa adottata nel passato. Con il pro­ cesso di civilizzazione si è avuto un altro meccanismo so­ ciale di allocazione delle risorse, ovvero l’autorità delle isti­ tuzioni di governo e/o della chiesa. Il mercato è una istitu­ zione sociale, deputata all’allocazione delle risorse, relati­ vamente più recente, sviluppatasi nel corso del tempo e divenuta il meccanismo primario di allocazione nel mon­ do occidentale allorché il feudalesimo cedette il passo allo sviluppo di società industriali orientate al mercato. Questi quattro meccanismi non si escludono reciprocamente e il loro succedersi nel tempo non è stato affatto lineare: le mo­ derne economie di mercato, ad esempio, fanno tuttora ri­ corso alla forza, alla tradizione e all’autorità oltre che ai meccanismi di mercato. Si ricordi anche che all’inizio del secolo un certo numero di sistemi economici si trasforma­ rono in economie pianificate, che comportavano un con­ trollo governativo sull’allocazione delle risorse disponibili all’interno di quelle economie, le stesse che recentemente

INTRODUZIONE

13

sono ritornate a far affidamento sul mercato (e, in alcuni casi, sulla forza bruta). La moderna teoria economica considera i vari modi in cui le società contemporanee affrontano i problemi che nascono dalla scarsità relativa. Tale disciplina tratta per buona parte i processi di mercato, i quali hanno sostituito la chiesa, la tradizione e lo stato in qualità di meccanismo primario di allocazione delle risorse, il passaggio da eco­ nomie basate sulla tradizione, sullo stato, o sulla chiesa a economie di mercato non è stato né lineare nel tempo, né uniforme nello spazio. Alcune aree del pianeta, per la ve­ rità quasi interi continenti, sono ancora intrappolati in for­ me di attività economica dominate dal passato. Alcune società sono direttamente passate da economie feudali a moderne economie centralizzate in cui il compito di allo­ care le risorse è svolto dallo stato. Nell’Europa orientale si possono attualmente osservare alcuni tentativi, i cui esiti finali sono ancora difficili da prevedere, di passare da si­ stemi pianificati a economie orientati al mercato. Affermare che il mercato costituisce il meccanismo al­ locativo primario non significa sostenere che esso sia l’uni­ co meccanismo operante: nelle moderne economie di mer­ cato europee e nordamericane l’allocazione di mercato è continuamente soggetta all’influenza di pressioni politiche e sociali. La moderna teoria economica sta ancora cercando di comprendere appieno le interrelazioni fra forze economi­ che, politiche e sociali. Essa ha posto la propria attenzione sul modo di operare delle forze di mercato, concentrando­ si sulle modalità con cui i mercati allocano risorse scarse e sulle forze che determinano il livello e la crescita della pro­ duzione aggregata. Ma il pensiero economico va oltre tali pur importanti questioni. Il nostro studio del pensiero eco­ nomico antecedente la moderna teoria economica inizierà da periodi in cui il sistema mercantile non era ancora am­ piamente sviluppato: ciò ci permetterà di esaminare alcuni interessanti approcci a questioni di più ampio respiro. Come si vedrà, infatti, molte discussioni dei primi scrittori di cose economiche in epoche precedenti all’avvento delle moderne economie di mercato riguardavano problemi di carattere filosofico ed etico di carattere più generale; temi,

14

INTRODUZIONE

questi, che possono aiutare a considerare il pensiero eco­ nomico moderno in una più compiuta prospettiva. Indipendentemente dal particolare meccanismo utiliz­ zato da una determinata società al fine di procedere all’al­ locazione delle risorse, la dura realtà rappresentata dalla scarsità delle risorse impone che alcuni desideri restino insoddisfatti, così che problemi di equità, giustizia e lealtà sono inevitabilmente connessi al problema della scarsità. Il meccanismo di allocazione delle risorse determina chi ot­ tiene, e chi no, il controllo delle risorse. 2. Partizione della moderna teoria economica Nella moderna teoria economica i problemi associati alla relativa scarsità delle risorse sono comunemente sud­ divisi fra microeconomia e macroeconomia. La microeco­ nomia considera problemi di allocazione e di distribuzio­ ne mentre la macroeconomia discute solitamente proble­ mi di stabilità e di crescita. Il problema allocativo (che cosa produrre e come produrlo) e il problema distributivo (come il reddito reale è ripartito fra i membri della socie­ tà) sono solitamente considerati oggetto della teoria micro­ economica. La microeconomia parte da un’analisi a livello individuale e da questa procede a costruire un’analisi della società. La moderna analisi microeconomica si basa sul­ l’analisi della domanda e dell’offerta, applicate a livello della famiglia, dell’impresa e dell’industria e uno dei suoi principali obiettivi consiste nella spiegazione delle forze che determinano i prezzi relativi, forze che gli economisti considerano essenziali nel determinare l’allocazione delle risorse e la distribuzione del reddito. L’altro approccio seguito nell’ambito della scienza eco­ nomica contemporanea è dato dalla teoria macroeconomica. La macroeconomia parte da un’analisi a livello aggregato del sistema economico come un tutto e da questa «ridiscende» al livello del singolo agente. La teoria macroeconomica è principalmente dedicata allo studio della stabilità e della crescita di un sistema economico, studio condotto utilizzan­ do variabili aggregate quali il livello del reddito e dell’occu­ pazione, il livello generale dei prezzi, il tasso di crescita, ecc.

INTRODUZIONE

15

La moderna teoria economica ortodossa consiste di un corpo di conoscenze formato sia dalla micro che dalla macroeconomia e una storia del pensiero economico deve prendere in esame l’evoluzione di concetti e strumenti analitici culminata in tale corpo di conoscenze. Sebbene la teoria economica attualmente dominante si concentri sul funzionamento del mercato quale meccani­ smo in grado di risolvere il problema della scarsità relati­ va, vi sono sempre stati alcuni economisti interessati ad altri aspetti dell’economia e della società. Un certo nume­ ro di questi autori è interessato a questioni filosofiche di più ampia portata e spesso i loro scritti non sono facilmen­ te classificabili all’interno di un unico settore disciplinare. Alcuni si pongono al confine con altre discipline all’inter­ no delle scienze sociali (ad esempio fra l’economia e le scienze politiche) mentre altri si situano più propriamente al confine fra scienze sociali e studi umanistici. 3. Il nostro approccio alla storia del pensiero economico Molti dei problemi che si pongono a uno storico del pensiero economico sono comuni a tutti gli storici. Una storia del pensiero economico deve essere selettiva, in caso contrario il lettore verrebbe sommerso da una impressio­ nante massa di materiale e la cosa sarebbe di ben poca utilità. Ma un’opera di selezione richiede una buona dose di interpretazione: nascosti in tale processo di selezione stanno quindi pregiudizi, preconcetti, e giudizi di valore propri di ogni studioso. Uno dei nostri preconcetti è dato dalla nostra predilezione per le controversie: troviamo infatti che la discussione e il disaccordo siano più interes­ santi del conformismo. Un altro è dato da un atteggia­ mento nei confronti della vita del tipo «lasciate che mille fiori sboccino»: non si saprà mai, altrimenti, quale bellez­ za possa nascere da un piccolo seme. Tali giudizi si riflet­ tono ovviamente sul contenuto di questo libro rendendo­ lo a nostro parere leggermente diverso da quello di altri testi similari.

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INTRODUZIONE

La sociologia della conoscenza: una metateoria È possibile formulare una teoria al fine di spiegare lo sviluppo della teoria economica, ovvero una sociologia della conoscenza per la scienza economica? Come nasce la teoria economica? Vi sono due modi di rispondere a que­ sta domanda: l’approccio relativista e l’approccio assoluti­ sta. Gli storici «relativisti» si preoccupano: 1) del conte­ sto storico, economico, sociale e politico che ha portato al­ cune persone a interrogarsi su certe questioni economiche; 2 ) del modo in cui alcuni suoi elementi possano aver con­ tribuito a definire la forma della teoria sviluppatasi in tale contesto. Essi sono convinti che la storia abbia un certo ruolo nello sviluppo di ogni teoria economica. Un relativi­ sta sarebbe pronto a sottolineare, ad esempio, le connes­ sioni fra la nascita dell’economia classica con il proprio specifico contenuto e il processo di industrializzazione dell’Inghilterra, fra l'economia ricardiana e il conflitto fra proprietari terrieri e uomini d’affari, oppure fra l’economia keynesiana e la grande depressione degli anni trenta. Gli autori «assolutisti» nel dar conto dello sviluppo della teoria economica pongono l’accento su aspetti legati all’evoluzione interna alla disciplina, quale, ad esempio, la crescente professionalizzazione della figura dell’economi­ sta. Essi sostengono che il progresso teorico non riflette semplicemente alcune circostanze storiche, ma che dipen­ de essenzialmente dalle scoperte e dai tentativi di spiega­ zione, da parte di studiosi specializzatisi nelle singole (sub)discipline, di paradossi o di problemi irrisolti quali emergono dagli sviluppi intellettuali all’interno della pro­ fessione. Secondo tale punto di vista è possibile ordinare le varie teorie secondo un criterio assoluto (il loro valore e la loro importanza): le teorie più recenti contengono pro­ babilmente meno errori e si avvicinano maggiormente alla verità rispetto a quelle precedenti. Prima degli anni cinquanta gli storici del pensiero eco­ nomico più influenti adottavano una prospettiva relativi­ sta. A partire da quegli anni la posizione assolutista iniziò ad essere sostenuta con forza e questo provocò animate discussioni fra gli storici del pensiero.

INTRODUZIONE

1/

A nostro parere nessuna delle due posizioni è di per se stessa pienamente convincente. Un approccio più proficuo consiste nel guardare alla storia del pensiero economico come a un processo dinamico in cui interagiscono forze sia interne che esterne alla disciplina, forze che portano con sé nuovi sviluppi della disciplina. In alcuni casi tali svilup­ pi sono meglio spiegati come conseguenze di risposte in­ tellettuali provenenti dall’interno della professione, men­ tre in altri casi uno studio della situazione economica e politica del tempo può rivelarsi capace di condurre a una migliore comprensione di quanto accaduto. In un certo numero di casi, infine, l’intreccio delle forze che hanno portato a nuovi sviluppi è così complesso che riesce diffi­ cile delineare in modo soddisfacente la nascita di un dato schema teorico facendo unicamente riferimento a spiega­ zioni di carattere assolutista o relativista. E conomisti ortodossi ed economisti eterodossi Il desiderio di utilizzare la conoscenza del passato al fine di meglio comprendere il presente non significa affat­ to che si debba seguire un approccio «continuista» alla storia del pensiero economico, ovvero che la si intenda come descrizione di una sequenza progressiva di idee cul­ minante nel «gran finale» della teoria economica contem­ poranea. Al contrario, sebbene sia indubbiamente ricono­ scibile un certo progresso, vi sono anche elementi di re­ gressione; e nel leggere gli autori più distanti da noi si è spesso impressionati dalla profondità del loro pensiero, che talvolta sembra persino superare il pensiero moderno. Questo giudizio, ovviamente, riflette la nostra propensio­ ne a «lasciare che mille fiori sboccino». In questo libro cerchiamo di guardare anche al di là della teoria dominante in un certo periodo, dando conto delle diversità di opinioni all’interno della disciplina. I più importanti e interessanti esponenti della teoria economica eterodossa (del passato e del presente) sono quindi trattati nel corso dell’esposizione assieme ai più noti pensatori ortodossi. Fra i moderni autori non ortodossi ritroviamo gli austriaci, gli istituzionalisti, i post-keynesiani e i marxisti:

18

INTRODUZIONE

ognuno di questi gruppi possiede un pezzo di storia in comune con il pensiero ortodosso ma ne differisce nel giu­ dizio circa quali autori del passato sarebbero da ricordare con particolare attenzione e quali no. Noi crediamo che lo studio della storia del pensiero possa offrirci gli elementi per una comprensione decisa­ mente più accurata di questi moderni eterodossi, rivelan­ doci la loro storia e mostrandoci come essi non siano por­ tatori di un semplice malcontento, ma piuttosto continuatori di alcune tradizioni di pensiero che sono andate per­ dute nella moderna ortodossia. Ad esempio, alcuni di que­ sti economisti si sono spesso avventurati al di là dei confi­ ni della teoria economica dominante, in una specie di ter­ ra di nessuno compresa fra l’economia, la sociologia, l’an­ tropologia, la psicologia, la scienza della politica, la storia e l’etica. Solo molto recentemente la teoria economica stan­ dard ha iniziato a riconoscere la necessità di effettuare tali incursioni. Un possibile modo per comprendere le differenze fra autori ortodossi ed eterodossi consiste nell’evidenziare quelle domande a cui essi stavano (o stanno) tentando di rispondere. Mentre i moderni teorici ortodossi si sono per la gran parte concentrati sui quattro problemi della alloca­ zione, della distribuzione, della stabilità e della crescita, gli economisti non ortodossi hanno rivolto i propri interessi a quelle forze che producono cambiamenti economici e/o sociali. Mentre i primi hanno considerato come date (ov­ vero come qualcosa che essi non sono interessati a spiega­ re) le specifiche istituzioni sociali, politiche ed economiche, i secondi hanno diretto la loro attenzione sulle forze che conducono allo sviluppo di tali istituzioni. Spesso, ciò che gli economisti ortodossi considerano «dato» è proprio ciò che gli altri cercano di spiegare, e viceversa. Conseguente­ mente, le differenze fra economisti ortodossi ed economi­ sti eterodossi sono spesso costituite da giudizi differenti circa il più importante, o appropriato, oggetto di analisi e non da teorie diametralmente opposte sullo stesso insieme di fenomeni.

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II problema di evidenziare le diversità Porre in luce le diversità dei vari approcci trattati in questo testo comporta una serie di problemi. La storia del pensiero economico che ha contribuito a forgiare la teoria economica quale oggi la conosciamo è una storia multifor­ me, costituita da molte linee di ricerca fra loro intercon­ nesse quasi quanto i fili dell’impianto elettrico di un’auto­ mobile. Suddividere tali filoni di pensiero individuandone le rispettive fonti ed i conseguenti effetti è quasi altrettan­ to difficile che trovare un guasto in un impianto elettrico così complesso. Al fine di mettere un po’ d’ordine in que­ sta moltitudine di autori, abbiamo raggruppato questi ul­ timi secondo alcune «scuole», ma tale operazione compor­ ta alcuni problemi. Abbiamo qualche dubbio, ad esempio, sul fatto che sia corretto racchiudere qualcosa come i 250 anni di teoria economica che vanno dal 1500 al 1750 sotto la medesima definizione di mercantilismo, ma limiti di tem­ po e di spazio ci costringono a seguire tale convenzione. Dobbiamo comunque rilevare che per conoscere veramen­ te la storia del pensiero economico si dovrebbero leggere le fonti originali. A questo proposito speriamo semplicemente di suscitare l’interesse dei lettori nei confronti di quell’insieme di conoscenze che tante menti creative han­ no saputo elaborare nel corso del tempo, ed a cui questo libro intende essere una introduzione. Laddove le differenze all’interno di una scuola sono così marcate da impedire un esame di tutti i singoli autori che vi appartengono, sono stati scelti uno o più autori rappresen­ tativi, pur sapendo che in nessun singolo autore è dato ri­ trovare tutte le opinioni che comunemente vengono attribui­ te a quella scuola. Nella scelta abbiamo privilegiato coloro che hanno maggiormente influenzato gli sviluppi seguenti, piuttosto che coloro che hanno originariamente proposto nuove idee; e questo per due ragioni: innanzi tutto perché è molto difficile separare il contributo originale di un autore da quelli dei suoi predecessori, ed inoltre poiché è spesso accaduto che colui il quale ha veramente esposto idee origi­ nali non ha avuto una diretta influenza sugli autori succes­ sivi, solitamente a causa della scarsa diffusione di tali con­ cezioni o dell’ostilità manifestata dai suoi contemporanei.

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Due esempi possono ben illustrare tale ricorrente situa­ zione. Il Saggio sul commercio di Richard Cantillon (c. 1680-1734) fu scritto fra il 1730 e il 1734, ma venne pub­ blicato per la prima volta solo nel 1753. Quella poca in­ fluenza che ebbe a quel tempo fu limitata all’Europa con­ tinentale e principalmente alla Francia, dove ebbe una cer­ ta diffusione anche prima della pubblicazione. Questo li­ bro anticipa sia alcune delle idee che ritroviamo nella Ric­ chezza delle nazioni (1776) di Adam Smith, sia l’idea di interdipendenza fra i vari settori di un sistema economico quale fu sviluppata nel Tableau économique (1758) da Francois Quesnay. Sebbene non si possa escludere che Adam Smith e Francois Quesnay possano essere stati in­ fluenzati dal lavoro di Cantillon, quest’ultimo fu ignorato dalla maggior parte dei suoi contemporanei. Fu solo a par­ tire dal 1881, allorché W.S. Jevons ne riscoperse l’impor­ tanza, che Cantillon ricevette un giusto riconoscimento per i suoi contributi pionieristici. A ciascuno di questi autori si sarebbe potuto dedicare un intero capitolo, ma per ra­ gioni di spazio abbiamo dedicato un capitolo separato solo ad Adam Smith, e questo perché la sua opera ha avuto la massima influenza sul pensiero economico posteriore. Il caso di H.H. Gossen presenta molte analogie. Nei primi anni settanta del secolo scorso apparvero tre ope­ re, pubblicate indipendentemente l’una dall’altra, nelle quali si sosteneva che gli economisti classici, nello spie­ gare le forze che determinano i prezzi relativi facendo esclusivo riferimento all’offerta, erano incorsi in errore. Questi tre lavori, concordi nel sostenere che i prezzi rela­ tivi potevano essere meglio spiegati sulla base della teoria dell’utilità marginale e quindi della domanda, sono: la Theory o f Politicai Economy (1871) di W.S. Jevons (18351882), i Grundsàtze der Volkswirtschaftslehre (1871) di Cari Menger (1840-1921) e gli Éléments d’économie politique pure (1874) di Léon Walras (1834-1910). Nella se­ conda edizione (1879) della sua Theory of Politicai Eco­ nomy Jevons menzionò di essere venuto nel frattempo a conoscenza di un libro di H.FL Gossen, pubblicato nel 1854, che anticipava completamente il contenuto della propria teoria. Sebbene il lavoro di Gossen fosse effetti­ vamente antecedente a quelli di Jevons, Menger e Walras

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e ne avesse chiaramente anticipato importanti contributi, non ebbe sul successivo sviluppo teorico l’influenza che questi ultimi ebbero invece vent’anni più tardi. Per que­ sto motivo Gossen non trova spazio nella nostra discus­ sione dell’utilità marginale. Una volta prescelto un autore sufficientemente rappre­ sentativo, dobbiamo anche decidere quale dei suoi scritti porre al centro della nostra discussione. Thomas R. Mal­ thus (1766-1834), ad esempio, è principalmente noto per la sua teoria della popolazione: sebbene non ne fosse stato il primo propugnatore, la sua presentazione si rivelò così influente che tale dottrina è oggi comunemente conosciu­ ta come teoria maltusiana della popolazione. Il suo Saggio sulla popolazione riscosse un tale successo presso i lettori che ebbe sette edizioni. Quale di queste dovremmo oggi seguire? Poiché vi sono rilevanti differenze fra la prima e la seconda, mentre le altre corrispondono abbastanza fe­ delmente a quest’ultima, abbiamo scelto di dar conto di en­ trambe le edizioni, così da porre adeguatamente in luce sia la teoria della popolazione, sia il contributo di Malthus sul terreno più specificamente metodologico. Analogamente, mentre la Teoria generale (1936) di J.M . Keynes certamen­ te assicura al suo autore un posto di primo piano nella sto­ ria delle teorie economiche, il pensiero di questi andò for­ mandosi, e a volte anche cambiando, sia prima che dopo _ tale pubblicazione, così che risulta talora diffìcile afferrare il «vero» Keynes. Alcune inconsistenze nella presente trattazione di autori così difficili e complessi non sono tanto dovute a una no­ stra trascuratezza quanto alla profondità e al vigore del loro pensiero, profondità e vigore che vanno in parte perduti in un’operazione di sintetica schematizzazione. Tali incon­ sistenze dovrebbero essere colte come un invito allo stu­ dio delle opere originali. 4. La professione degli economisti Joseph Schumpeter, nell’ormai classica Storia dell’ana­ lisi economica, ebbe a osservare che «la prima scoperta di una scienza è la scoperta della propria esistenza». Se si

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accetta tale punto di vista la scienza economica appare piuttosto giovane, in quanto una vera e propria «professionalizzazione» dell’economia si è avuta solo nell’ultimo secolo. Anche se adottassimo un criterio più ampio con­ siderando l’economia politica come disciplina intellettua­ le, essa apparirebbe ancora come una disciplina relativa­ mente recente. Prima del 1500 non si ritrova alcun grup­ po di studiosi che fossero interessati in via esclusiva a questioni economiche. Fra il 1500 e il 1750 nei paesi del­ l’Europa occidentale, l’ammontare di letteratura economi­ ca iniziò a crescere considerevolmente. I primi autori era­ no principalmente uomini d ’affari interessati a questioni di politica economica e scrissero trattati o pamphlet su argomenti particolari, piuttosto che opere tendenti a si­ stematizzare la conoscenza economica di quel tempo. Un certo corpo di conoscenze iniziò a formarsi nel corso di circa cento anni a partire dal 1650, allorché l’economia iniziò a emergere quale disciplina intellettuale. Come tut­ to ciò che è appena nato, essa fu all’inizio piuttosto mal pro­ porzionata. Adam Smith, un pensatore prodigioso formatosi nel campo della filosofia morale, raccolse tutta quella lettera­ tura economica accumulatasi piuttosto disordinatamente fra il 1650 e il 1750 e le diede la forma di una disciplina intellettuale che egli chiamò economia politica («politicai economy») nel suo trattato sulla Ricchezza delle nazioni (1776). Per almeno tutto il secolo successivo non vi fu una professione degli economisti chiaramente identificata, non vi fu cioè alcun gruppo esclusivamente dedito all’analisi dell’attività economica. Opere quale quella di Adam Smith, scritte con l’intenzione di codificare lo stato delle cono­ scenze, apparvero con frequenza via via crescente, ma i loro autori erano solitamente uomini d ’affari o accademici che avevano sviluppato un certo interesse per questioni economiche. Durante questo periodo, comunque, si ebbe una crescente professionalizzazione dell’economia politica intesa come disciplina di studio autonoma, nel senso che il suo studio si trasferì progressivamente dal mondo degli af­ fari alle università. Dal 1900 l’economia politica («politicai economy») ini­ ziò ad essere indicata con un nuovo nome, economia («eco-

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nomics»)1, e a essere insegnata nelle università europee e americane. Nel momento in cui l’economia andava profes­ sionalizzandosi, coloro che avessero voluto diventare eco­ nomisti avrebbero inevitabilmente dovuto frequentare cor­ si di specializzazione post laurea: fu così che sorsero diver­ si centri per lo studio specialistico dell’economia, dappri­ ma in Inghilterra e in Germania, dove molti americani si recarono a studiare. In seguito anche molti college negli Stati Uniti, sia pubblici che privati, iniziarono ad offrire corsi di economia sia a livello introduttivo che a livello avanzato. La Grande Depressione degli anni trenta e il crescente coinvolgimento dei governi nei confronti dell’attività eco­ nomica fece crescere l’interesse verso le discipline econo­ miche. Nello stesso periodo, le persecuzioni razziali da parte del regime nazista e l’incombente pericolo della guer­ ra che stava per scoppiare in Europa spinsero un gran numero di docenti e ricercatori di tutte le discipline ad emigrare negli Stati Uniti. Fu così che gli Stati Uniti ac­ crebbero la loro importanza, in confronto all’Europa, come sede di attività di ricerca avanzata e di università prestigio­ se dove ancora oggi molti degli economisti di tutto il mon­ do ricevono la loro formazione. A partire dagli anni trenta molti economisti sono stati chiamati a far parte del perso­ nale docente delle università, con il compito di assicurare l’insegnamento e di proseguire gli studi economici con par­ ticolare riferimento alla teoria economica, piuttosto che ad aspetti di più immediata rilevanza pratica. Tali eventi storici, che hanno spostato l’attenzione de­ gli economisti dagli aspetti più politici e commerciali a quelli legati al funzionamento di un sistema economico, hanno influito in modo significativo sugli sviluppi della teoria economica. Gli economisti politici pre-smithiani, che erano solitamente uomini d’affari con un’ampia conoscen­ 1 Questo, ovviamente, vale per la lingua inglese dove la dizione termi­ nante in «cs» contribuisce a denotare il carattere «scientifico» (ad esempio «physics»), o comunque rigoroso (ad esempio «mathematics») di una disci­ plina. Non così in italiano, dove la disciplina ha conservato, almeno nei curncula universitari se non nella lingua parlata, la tradizionale denominazione di «economia politica» (N.d.C.).

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za delle istituzioni economiche e del loro modo di opera­ re, sono stati sostituiti da accademici, che per inclinazione ed educazione ricevuta sono maggiormente interessati a temi più astratti e teorici. 5. La diffusione delle idee economiche Nel 1650 non vi erano economisti nel senso moderno del termine, mentre oggi essi sembrano essere dappertut­ to2: nei giornali, alla televisione, nel governo e nell’indu­ stria. D ’altro canto l’università costituisce l’ambito privile­ giato della ricerca tendente ad estendere i confini della conoscenza economica. La conoscenza attuale, così come i programmi di ricerca per il prossimo futuro, sono il risul­ tato dell’attività condotta presso università e centri esterni di ricerca. I risultati provvisori di tale lavoro di ricerca sono presentati alla professione attraverso la diffusione di rap­ porti preliminari e nell’ambito di seminari fino al 'momen­ to in cui essi sono pronti per una pubblicazione, solitamen­ te nella forma di un articolo in una rivista specializzata collegata ad un’associazione professionale (solitamente di carattere internazionale) o a un importante dipartimento di economia. Molte idee originali scaturiscono dal lavoro di ricerca svolto per la preparazione delle tesi richieste per il conseguimento del dottorato di ricerca, così come molti affinamenti ed estensioni di lavori già noti ad opera di dottorandi che lavorano a contatto con i giganti della pro­ fessione. Una volta terminati i propri studi di specializzazione, gli economisti universitari sperimentano l’ingresso sul merca­ to del lavoro accademico. Il mondo crudelmente competi­ tivo che ogni aspirante a un posto di professore ordinario 2 II contenuto di questo paragrafo è riferito alla realtà americana. Nei paesi europei, caratterizzati da un sistema di istruzione superiore in massi­ ma parte pubblico, la situazione è un po’ diversa. Per una interessante ana­ lisi delle differenze fra i due contesti, così come di alcuni elementi di possi­ bile e prevedibile convergenza, cfr. Bruno S. Frey e Reiner Eichenberger, American and European Economia and Economisti, in «Journal of Economie Perspectives», 7 (1993), n. 4, pp. 185-193.

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nelle maggiori università deve affrontare si fonda sulla re­ gola «pubblicare o perire». Poiché le maggiori università sfornano molti più dottorati di quanti siano richiesti per coprire i posti vacanti nei propri dipartimenti, per ogni dottorato vi è una forte probabilità di dover cercare lavo­ ro in università meno prestigiose, nella pubblica ammini­ strazione o neH’industria. Proprio perché le istituzioni che rilasciano i dottorati sono così importanti nel determinare l’orizzonte decisiona­ le di un economista, e le pubblicazioni sono così importan­ ti per il suo successo professionale, il contenuto dei corsi di dottorato e le decisioni dei direttori delle riviste specia­ lizzate influenzano in modo decisivo la direzione degli stu­ di economici. Tali programmi, stabiliti dai più importanti dipartimenti, e tali scelte editoriali, compiute dalle riviste più prestigiose, riflettono e al tempo stesso contribuiscono a formare il giudizio collettivo su ciò che costituisce la prevalente ortodossia all’interno della professione. Vi sono ovviamente alcuni dipartimenti e alcune riviste che riflet­ tono opinioni non ortodosse: il continuo apparire di nuo­ ve riviste e di differenti curricula rispecchia la mancanza di accordo fra gli economisti circa la correttezza del punto di vista predominante. Una leale competizione fra pensatori e ricercatori nel perseguire l’avanzamento della conoscenza dovrebbe por. tare all’affermazione di programmi di ricerca progressivi e all’abbandono delle idee erronee. Ma l’economia è una scienza sociale strettamente connessa a questioni etiche che non sono suscettibili di facili risposte. Ogni economista è inserito in un più ampio ambiente sociale permeato da giu dizi normativi difficilmente eliminabili dall’attività di ricer­ ca e talvolta persino difficili da identificare chiaramente. A causa di tali difficoltà, la scelta di una appropriata meto­ dologia da parte degli economisti riveste un’importanza cruciale per l’avanzamento della conoscenza economica. Risulta quindi appropriato, prima di procedere all’esame dell’evoluzione delle idee economiche nel corso del tem­ po, tracciare una breve sintesi delle posizioni metodologi­ che contemporanee.

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6. Alcune questioni metodologiche Nel pensare a ciò che fanno gli economisti si è natural­ mente portati a chiedersi: «Che cosa conoscono gli econo­ misti e come fanno a sapere di possedere tali conoscenze?». Tali domande appartengono, in generale, al campo della epistemologia, lo studio della conoscenza umana; nell’am­ bito della filosofia della scienza esse sono incluse nel tema della metodologia. Poiché alcuni termini metodologici ap­ pariranno in modo ricorrente nel corso dell’esposizione, e d’altro canto taluni giudizi metodologici influenzano in modo significativo il lavoro degli economisti, considerere­ mo brevemente l’evoluzione delle analisi metodologiche e i relativi influssi sul pensiero economico. Talvolta si sente dire che le discussioni metodologiche dovrebbero essere lasciate ad economisti famosi in prossi­ mità della pensione, ma è vero proprio il contrario. Prima di iniziare lo studio dell’economia si deve decidere che cosa si studierà e secondo quale approccio, si devonp prende­ re, cioè, decisioni tipicamente metodologiche. Spesso, dopo che si è intrapresa una certa direzione, si è troppo impegnati in essa per poter cambiare il proprio modus operandi (nel linguaggio dell’economia, l’investimento in uno specifico capitale umano obbliga a rimanervi vincola­ ti). Le questioni metodologiche sono quindi più rilevanti per i giovani economisti, che non per i loro colleghi più anziani. D ’altro canto incoraggiare i giovani economisti ad in­ traprendere studi di carattere metodologico è cosa da farsi con molta cautela: le incursioni negli inferi della metodo­ logia devono essere compiute a proprio rischio e pericolo. Lo studio della metodologia induce al vizio di cullarsi nel­ la contemplazione di ciò che si dovrebbe fare invece di farlo effettivamente. I problemi metodologici sono pieni di trabocchetti e complicazioni, così che il neofita può trascu­ rare quelle sottili distinzioni che potrebbero anche invali­ dare totalmente le sue conclusioni. Ciò nondimeno, anche ammettendo che è impossibile dire l’ultima parola su tali argomenti, è importante riflettere su alcuni principi astrat­ ti. Pur con tutte queste cautele e sapendo di non poter certo esaurire l’argomento in poche pagine, riteniamo op­

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portuno presentare nelle prossime pagine una breve rasse­ gna delle discussioni metodologiche svoltesi nell’ambito della filosofia della scienza dagli antiche greci fino ad oggi. Ueconomia come arte e come scienza La più importante distinzione all’interno del pensiero economico è forse quella fra arte dell’economia, economia positiva ed economia nonnativa. L’economia positiva ri­ guarda le forze che governano l’attività economica. Essa intende rispondere a domande quali: «Come funziona un sistema economico? Quali sono le forze che determinano la distribuzione del reddito?». Il solo scopo di tali ricerche è di ottenere spiegazioni interessanti di per sé; i giudizi normativi dovrebbero essere tenuti il più possibile fuori da questo tipo di analisi. L’economia normativa, invece, è esplicitamente interessata a questioni riguardanti ciò che dovrebbe essere: in un certo senso essa costituisce la bran­ ca filosofica della disciplina cui è demandato il compito di integrare economia ed etica. L’arte dell’economia concerne questioni di politica eco­ nomica. Essa pone in relazione la scienza dell’economia positiva con i contenuti dell’economia normativa, cercan­ do di rispondere a domande del tipo: dati certi obiettivi normativi, e date le «leggi» di funzionamento di un’econo­ mia, qual è il miglior modo possibile di raggiungere tali obiettivi? La distinzione è importante poiché l’economia positiva e l’arte della politica economica seguono metodologie al­ quanto differenti. La metodologia dell’economia positiva è formale ed astratta; essa cerca di separare ed isolare le «for­ ze» economiche da quelle politiche o sociali. La metodo­ logia dell’arte del governo dell’economia è più complessa proprio perché riguarda questioni di politica economica, e non può quindi prescindere dalle interrelazioni fra feno­ meni economici, politici e sociali. In un certo senso occor­ re reimmettere nell’analisi tutto ciò che l’economia positi­ va ha escluso per perseguire le proprie astrazioni. La di­ scussione su quale dei due approcci debba essere conside­ rato come l’oggetto principale della disciplina ha provoca­

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to un interminabile dibattito nel corso della storia del pen­ siero economico. La scuola storica tedesca e quella inglese di ispirazione marshalliana hanno sostenuto il primato dell’arte dell’eco­ nomia, basando tale conclusione su elementi già presenti in Adam Smith. La moderna economia ortodossa privile­ gia l’economia positiva, e tale posizione può essere suppor­ tata facendo riferimento all’opera di David Ricardo. In accordo con questa prospettiva, molti moderni lavori me­ todologici hanno prevalentemente affrontato i problemi dell’economia positiva: la nostra presentazione nelle pagi­ ne che seguono seguirà tale impostazione. Ritorneremo comunque sulle molte ed interessanti questioni legate al metodo proprio dell’arte dell’economia allorché esamine­ remo le principali politiche economiche proposte dai vari economisti presi in considerazione nelle diverse epoche della storia del pensiero economico. L’importanza della verifica empirica Il modo in cui affrontiamo domande del tipo «Che cosa sappiamo?» e «Come facciamo a sapere che le nostre co­ noscenze sono esatte?» dipende dal modo in cui rispondia­ mo al seguente quesito: «Esiste una verità ultima e defini­ tiva per rivelare la quale gli scienziati stanno lavorando (il punto di vista assolutista), oppure non vi è una tale verità sottostante il loro lavoro (la posizione relativista)?». Se una tale verità esiste, come possiamo identificarla? In caso con­ trario, possiamo ancora sostenere che alcune proposizioni sono più vere (o verosimili) di altre? Gli studiosi di meto­ dologia non sono mai riusciti a rispondere a tali domande in modo concorde, ma hanno prodotto un’enorme mole di riflessioni sull’argomento. Credere nell’esistenza di una ve­ rità definitiva pone il problema di decidere quando si può affermare di averla scoperta. I vari modi con cui la comunità scientifica ha cercato di scoprire la verità comprendono il ricorso ad osservazio­ ni empiriche competenti, una componente fondamentale del metodo scientifico per eccellenza. Ciò ha richiesto un’opera di integrazione del pensiero razionale con l’osser­

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vazione empirica. Quello del verificazionismo (ovvero del­ la possibilità di «verificare» le teorie scientifiche) è un tema troppo complesso per essere affrontato in questa sede, che è stato discusso da filosofi della statura di Kant, Hume e Cartesio oltre che da molti altri filosofi del Seicento e del Settecento. Qui ci limitiamo a definire due termini che sono essenziali per la discussione: metodo induttivo e me­ todo deduttivo. Il ragionamento induttivo, procedendo da eventi percepiti tramite i sensi a concetti generali, è empi­ rico mentre il ragionamento deduttivo (o logico) applica alcune precise regole generali a casi particolari. Poiché molti filosofi ritengono che la conoscenza umana derivi dall’applicazione di una combinazione di tali metodi, il di­ battito si concentra solitamente sulla natura della combi­ nazione ottimale. U affermarsi del positivismo logico Nell’ambito della filosofia della scienza si assistette al­ l’inizio del Novecento allo sviluppo del positivismo logico, una concezione metodologica che cercò di dare fondamen­ ta filosofiche rigorose al metodo scientifico. Esso cercò di proporre una metodologia capace di conciliare gli aspetti empirici e gli aspetti non empirici, o razionali (logici) pre­ senti nelle teorie scientifiche. Il positivismo (o empirismo) logico associò al metodo deduttivo il desiderio tipicamen­ te positivista di lasciare che i «fatti» parlassero da se stessi. Esso fu originariamente proposto da un gruppo conosciu­ to come «il circolo di Vienna», che tentò di formalizzare il metodo scientifico partendo da una descrizione dei meto­ di realmente seguiti dagli scienziati. Il positivismo logico sostenne che gli scienziati svilup­ pano una struttura deduttiva (una teoria logicamente coe­ rente) che conduce a proposizioni controllabili empirica­ mente. In ogni caso una teoria deduttiva risulta vera (veri­ ficata) solo dopo che essa sia stata assoggettata a controllo e verificata. Il ruolo degli scienziati, così come visto dai positivisti logici, sarebbe dunque quello di sviluppare tali strutture logiche e quindi controllarne empiricamente le implicazioni. Sebbene fra i sostenitori di tale concezione vi

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fosse un certo dibattito su che cosa costituisse la «verità», tutti loro concordavano sul fatto che essa sarebbe stata sco­ perta, in ultima analisi, attraverso osservazioni empiriche. Il positivismo logico costituì la posizione assolutamen­ te predominante in filosofia della scienza solo negli anni venti e trenta (dopo di che iniziò un lento declino), ma la sua influenza in economia continuò molto più a lungo. Fu il positivismo logico che suggerì quella distinzione fra eco­ nomia positiva ed economia normativa quale è ancor oggi presentata in molti manuali, secondo i quali l’economia è una scienza positiva il cui scopo è di delineare teorie su­ scettibili di essere validate empiricamente. Discussioni normative vennero messe al bando, o comunque guardate con molto sospetto, come non confacenti a un atteggia­ mento rigorosamente scientifico. Dal positivismo logico al falsificazionismo Il positivismo logico ha rappresentato l’espressione più decisa, oltre che l’ultima in ordine di tempo, della convin­ zione secondo cui lo scopo della scienza è quello di stabi­ lire la «verità». Da allora la riflessione metodologica si è andata via via allontanando da una tale concezione. Il pri­ mo distacco fu dovuto a una certa insoddisfazione nei con­ fronti dell’aspetto «verificazionista» delle teorizzazioni del positivismo logico. Tale insoddisfazione è espressa nel modo più evidente dagli scritti di Karl Popper, il quale già nel corso degli anni trenta argomentò che i controlli empi­ rici non possono stabilire la validità (o la «verità») di una teoria, ma solo falsificarla: questo è il motivo per cui il punto di vista di Popper è talvolta indicato come falsifica­ zionismo. Secondo Popper, infatti, non è mai possibile «verificare» una teoria poiché non è possibile effettuare tutti i possibili controlli (praticamente infiniti). Si pensi ad esempio ad una teoria che predica, allorché aumenta l’of­ ferta di moneta, un aumento dei prezzi nella stessa propor­ zione e si consideri un possibile caso (od «esperimento») nel quale quanto previsto sia effettivamente accaduto. Se­ condo Popper ciò indicherebbe semplicemente che non si è provata la falsità di tale teoria, che può essere o non es­

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sere vera dato che un successivo «esperimento» potrebbe dar luogo ad un risultato non consistente con le previsioni della teoria stessa. Popper conseguentemente afferma che lo scopo del­ l’impresa scientifica dovrebbe essere quello di sviluppare teorie contenenti ipotesi empiricamente controllabili e di procedere quindi a tentativi di falsificazione, scartando quelle che dovessero risultare false. Il progresso scientifi­ co, secondo Popper, dipenderebbe da questi continui ten­ tativi di falsificare le varie teorie. La teoria più accreditata in un dato momento sarà allora quella che spiega il piu ampio insieme di osservazioni empiriche e che non è stata ancora falsificata. Dal falsificazionismo ai «paradigmi» Sarebbe forse troppo comodo se i problemi metodolo­ gici potessero essere risolti cosi chiaramente (e semplicemente) come suggerito dall’approccio popperiano, ma i contorni delle discussioni metodologiche sono tutt’altro che nitidi e chiari. I più recenti sviluppi del dibattito me­ todologico hanno progressivamente allontanato l’attuale riflessione metodologica da queste distinzioni così nette. L’attuale abbandono delle indicazioni popperiane non è senza giustificazioni: l’approccio falsificazionista presenta diversi problemi, alcuni dei quali piuttosto seri. Innanzi­ tutto le predizioni empiriche di alcune teorie non possono essere controllate semplicemente perché non esiste (anco­ ra) hi tecnologia necessaria. Che cosa dovremmo farcene di queste teorie? In secondo luogo è alquanto difficile sta­ bilire quando una teoria è stata o meno realmente falsifi­ cata. Ad esempio, se un test empirico non produce i risul­ tati attesi il ricercatore può, e spesso lo fa, attribuire il fal­ limento ad errori nella procedura seguita oppure a qual­ che fattore esogeno. Spesso, quindi, un risultato sperimen­ tale negativo non è sufficiente ad invalidare una teoria. Un terzo problema è dato dall’orizzonte intellettuale del ricercatore che può evitare di sottoporre a controllo empi­ rico alcune delle implicazioni della teoria, ritenendole al di sopra di ogni sospetto. Tale atteggiamento intellettuale può

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impedire che nuove (ed eventualmente migliori) teorie vengano proposte ed accettate in sostituzione di quelle più familiari. Fu in parte proprio in risposta a tali problemi che Tho­ mas Kuhn, in un famoso libro3 del 1962, contribuì al su­ peramento del positivismo logico introducendo il concet­ to di paradigma. Un «paradigma», nella terminologia di Kuhn, è costituito da un particolare approccio e dal corri­ spondente insieme di conoscenze così come evidenziati nelle ricerche sviluppate in accordo con l’impostazione dominante, tramandata attraverso i manuali più accredita­ ti, in un dato periodo all’interno di una disciplina. Kuhn sostiene che la maggior parte della ricerca scientifica costi­ tuisce scienza normale, nel cui ambito i ricercatori lavora­ no attorno ad aspetti apparentemente enigmatici all’inter­ no di un paradigma esistente. Questo lavoro di ricerca «normale» spesso conduce alla scoperta di anomalie che il paradigma esistente non riesce a spiegare, ma l’esistenza di tali anomalie non è sufficiente, di per sé, a far sì che tale paradigma venga accantonato: perché questo avvenga è necessario che si presenti sulla scena un paradigma alter­ nativo in grado di fornire migliori spiegazioni di tali ano­ malie. Una rivoluzione scientifica diventa possibile allorché un paradigma di questo tipo inizia a svilupparsi. In una fase di scienza rivoluzionaria il paradigma esistente viene dapprima rifiutato da una parte della comunità scientifica così che inizia la competizione fra il vecchio ed il nuovo paradigma e la comunicazione fra i ricercatori aderenti alle due opposte concezioni diventa difficile. Alla fine, se la «rivoluzione» è portata a compimento con successo, sor­ geranno nuove domande in attesa di risposta all’interno del nuovo paradigma e si avrà quindi un nuovo periodo di scienza normale. Mentre secondo Popper la «verità» (o il punto più vici­ no a essa che siamo in grado di raggiungere) alla fine do­ vrebbe emergere, secondo Kuhn una teoria migliore può

3 Thomas Kuhn, The Strutture of Scientific Revolution, Chicago, Univer­ sity of Chicago Press, 1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1969.

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rendersi disponibile ma non venire adottata dalla maggio­ ranza per una sorta di inerzia intellettuale a favore del paradigma dominante, così che non è detto che in ogni momento la teoria predominante sia necessariamente la migliore. Fra gli economisti, coloro che erano in disaccordo con la teoria dominante si impadronirono ben presto dell’ana­ lisi di Kuhn, poiché questa poteva suggerire che il paradig­ ma da loro preferito avrebbe potuto in futuro dimostrarsi superiore, e quindi capace di soppiantare il paradigma dominante. Il lavoro di Kuhn suggeriva inoltre che i cam­ biamenti importanti avvengono attraverso «rivoluzioni», facendo quindi sperare che tali cambiamenti, se fossero avvenuti, sarebbero stati piuttosto rapidi. Sebbene Kuhn facesse riferimento alle scienze naturali, la sua analisi ha avuto una significativa influenza anche nell’ambito delle scienze sociali, come ad esempio in economia, dove il di­ battito metodologico sviluppatosi nel corso degli anni set­ tanta e ottanta ha fatto continuo riferimento al termine paradigma. Dai «paradigmi» ai «programmi di ricerca» La tesi che la teoria esistente potrebbe anche non rap­ presentare la «verità» fu ulteriormente elaborata da Imre Lakatos verso la fine degli anni sessanta. Tentando di af­ ferrare e descrivere le procedure effettivamente seguite dagli scienziati, Lakatos osservò come essi fossero impe­ gnati nello sviluppo di programmi di ricerca in competi­ zione fra loro, ciascuno dei quali implica un lavoro di ana­ lisi dei dati e tentativi di falsificazione, ma anche l’accetta­ zione incondizionata di una serie di postulati che costitui­ scono il «nocciolo duro» {hard core) del programma di ri­ cerca. Partendo da tali postulati (posti al riparo da ogni tentativo di falsificazione per una più o meno esplicita decisione metodologica), ogni lavoro di ricerca consiste nel derivare un insieme di implicazioni da sottoporre poi a tentativi di falsificazione. La falsificazione di una singola implicazione non comporta solitamente l’abbandono di tutta la teoria, bensì una riconsiderazione della sua strut­

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tura logica e talvolta qualche modifica ad hoc. Le ipotesi che appartengono al «nocciolo duro» della teoria sono ri­ messe in discussione solo dopo che si è andato accumulan­ do un numero «sufficiente» di tali episodi. Lakatos defini­ sce i programmi di ricerca progressivi se tale lavoro di fal­ sificazione procede in modo fruttuoso oppure degeneranti in caso contrario. La posizione di Lakatos presenta due interessanti peculiarità: da un lato riconosce la complessi­ tà del processo di falsificazione, e dall’altro permette di spiegare, al contrario delle analisi viste in precedenza, la contemporanea presenza di teorie diverse in grado di sti­ molare il lavoro dei ricercatori e i cui meriti relativi non sono facilmente identificabili. Dai «programmi di ricerca» agli approcci sociologici ed er­ meneutici alla metodologia Gli sviluppi appena visti hanno contribuito a un pro­ gressivo allontanamento dalle posizioni deH’empirismo lo­ gico, ma al tempo stesso ne rappresentano un affinamen­ to, nel senso che contribuiscono a mettere in luce le limi­ tazioni dei controlli empirici senza metterne peraltro in discussione l’importanza. Un allontanamento molto più radicale dalle precedenti sistemazioni metodologiche può ritrovarsi in un lavoro4 di Paul Feyerabend del 1975, dove l’autore sostiene che qualunque metodologia limita la crea­ tività necessaria per la soluzione dei problemi e che quindi la scienza migliore deve ritenersi libera da costrizioni me­ todologiche, ovvero, in altri termini, tutto va bene. Sebbe­ ne tale argomentazione possa apparire a prima vista piut­ tosto stravagante, essa ha contribuito ad aprire nuove pro­ spettive per gli studi metodologici, favorendo lo sviluppo di quegli approcci «retorici» e sociologici che hanno influen­ zato il più recente dibattito metodologico in economia. Tutte le analisi precedenti, mentre avevano riconosciu­

4 Paul K. Feyerabend, Against Method Outline of an Anarchistich Theory of Knowledge, London, NLB, 1975; trad. it. Contro il metodo, Milano, Fel­ trinelli, 1979.

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to le varie difficoltà che si frappongono alla scoperta della verità, non avevano posto in discussione l’ideale platonico di verità come entità assoluta. Gli approcci più recenti fan­ no proprio questo: rifiutandosi di assumere l’esistenza di una verità ultima ed inviolabile, si pongono alla ricerca di altre spiegazioni del perché le persone ripongano fiducia nelle loro credenze. L’approccio retorico alla metodologia sottolinea la capa­ cità di persuasione del linguaggio, sostenendo che una teo­ ria può essere accettata non perché intrinsecamente vera, ma perché i suoi proponenti riescono a convincere i pro­ pri interlocutori della sua validità per mezzo di una retori­ ca più convincente. L’approccio sociologico esamina i vin­ coli sociali ed istituzionali che influiscono sull’accettabili­ tà di una teoria. Il modo in cui vengono attribuiti i fondi di ricerca o assegnati i posti di ricercatore, oppure il con­ trollo esercitato dalle riviste scientifiche, possono determi­ nare la fortuna di una teoria almeno altrettanto quanto la sua capacità di spiegare accuratamente certi fenomeni. Coloro che aderiscono a tale impostazione sostengono che molti ricercatori sono più interessati alla pubblicabilità dei loro lavori che non alla correttezza delle teorie in essi so­ stenute. Entrambi questi approcci hanno in comune un certo scetticismo nei confronti della possibilità di scoprire la verità, quand’anche questa esistesse per davvero: secon­ do tali impostazioni le conoscenze teoriche si evolvono non necessariamente perché si avvicinano progressivamente alla verità, ma per una serie di altre ragioni, di cui la verità della teoria, ammesso che esista e/o che possa venire identifica­ ta, è solo una componente. Lo stato attuale della riflessione metodologica Dove ci conduce tutto questo? Indubbiamente a una situazione piuttosto confusa, il che non è un fatto insolito per la riflessione metodologica. Riassumendo le vicende del pensiero epistemologico durante gli ultimi decenni, abbia­ mo visto infatti che le risposte a domande sull’oggetto e le modalità della nostra conoscenza sono diventate sempre più vaghe, giungendo persino a negare l’esigenza di parti­

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colari canoni metodologici: gli studiosi più persuasivi im­ porrebbero le proprie idee indipendentemente dalla vali­ dità del loro lavoro. Fortunatamente, non è detto che si debba comunque sottoscrivere acriticamente tale punto di vista. Sebbene le posizioni più estreme possano fornire utili spunti di riflessione, esse devono chiaramente essere avvi­ cinate con buon senso. Anche ammettendo l’influenza eser­ citata dalla retorica e dai condizionamenti sociali sull’atti­ vità scientifica, non si deve necessariamente concludere, come Feyerabend, che «tutto va bene». La riflessione me­ todologica non può fermarsi a questo: una metodologia post-retorica dovrà probabilmente combinare spunti à la Feyerabend con posizioni più orientate in positivo. Sebbene i ricercatori possano non essere mai in grado di sapere con certezza se una certa teoria è vera o falsa, essi devono accettare l’idea più promettente come un’ipotesi di lavoro verosimile. Essi possono, per questo, rifarsi ad al­ cuni elementi del positivismo logico, come appunto fa la metodologia falsificazionista; possono persino accettare tutte le argomentazioni proprie degli approcci sociologici ed ermeneutici e pur tuttavia comportarsi come se la veri­ tà o la falsità di una teoria fossero sempre al centro delle loro preoccupazioni. La differenza consisterà in un diver­ so atteggiamento nei confronti delle proprie conoscenze: gli economisti «post-retorici» saranno in generale più scet­ tici, meno disposti a rigettare un’argomentazione come falsa prima di averla attentamente riconsiderata, e più in­ clini a «lasciare che mille fiori sboccino». Tali economisti presteranno particolare attenzione agli incentivi che indu­ cono i ricercatori a proporre talune teorie e saranno molto sospettosi nei confronti di studi che conducano a risultati che coincidono con gli interessi e/o le idee preconcette dei loro autori. Un economista di questo tipo sarà anche più incline ad adottare un approccio bayesiano, piuttosto che un approccio classico, alla statistica rispetto a un positivi­ sta logico o a un falsificazionista. I bayesiani ritengono che si possano assegnare gradi diversi di affidabilità (o, se si vuole, di verità) alle nostre asserzioni, ma che non si possa individuare una verità de­ finitiva. L’influenza bayesiana porterà a una reinterpreta­ zione dei tradizionali test statistici, ovvero a considerarli

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meno esatti e meno persuasivi di quanto si sia portati a ritenere allorché li si considera come misure «imparziali» di un dato livello di confidenza. La metodologia del futu­ ro richiederà probabilmente che nel presentare i risultati di applicazioni statistiche si riportino informazioni sul ri­ cercatore oltre che sulla ricerca compiuta. Sia per i bayesiani che per i sostenitori dell’importanza della retorica la nostra conoscenza si basa, in ultima anali­ si, su un atto di fede. Detto questo, si deve comunque procedere nella ricerca e un atteggiamento troppo scettico finirebbe per essere di ostacolo, penalizzando la creatività. Una metodologia fondata sulla retorica può fornire solo una meta-metodologia che, una volta accettata, avrebbe ben poca influenza sulla quotidiana attività di ricerca de­ gli economisti: essi fanno semplicemente ciò che sembra loro giusto fare. Alcune osservazioni conclusive Il dibattito metodologico in economia ha generalmente seguito con notevole ritardo quanto accadeva nell'ambito dell’epistemologia e della filosofia della scienza. Ancora oggi, secondo molti libri di testo la metodologia prevalen­ te in economia sarebbe il positivismo logico, che è stato dichiarato defunto molto tempo fa in altre discipline così come anche, del resto, nelle riviste economiche più attente a questioni di metodologia. Occasionalmente, comunque, la professione degli economisti viene colta da scrupoli metodologici e guardando dentro se stessa si chiede: «Quanto andiamo facendo è proprio ciò che dovremmo fare?». Mai gli economisti hanno risposto in modo esau­ riente a una tale domanda; solitamente essi continuano a fare ciò che già stavano facendo, solo un po’ meglio equi­ paggiati rispetto a problemi metodologici. Pur essendo raramente discussa, è proprio la metodologia che può spie­ gare molte delle divisioni fra economisti. E molto proba­ bile, ad esempio, che i formalisti facciano affidamento sul­ la metodologia del positivismo logico o sul falsificazioni­ smo e condividano una visione assolutista dell’evoluzione del pensiero economico e che i non formalisti, al contra­

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rio, seguano un approccio ermeneutico o sociologico ed abbiano una visione relativista della storia della disciplina. 7. Perché studiare la storia del pensiero economico Una prima ragione per procedere allo studio della sto­ ria del pensiero economico è che questo serve a diventare bravi economisti. Con poche eccezioni, i più importanti economisti hanno sempre avuto, ieri come oggi, una certa familiarità con la storia della teoria economica. Lo studio della storia del pensiero economico rafforza la capacità d’astrazione ed in genere tutte le abilità logiche, offrendo l’opportunità di porre in relazione alcune ipotesi con le relative conclusioni e di imparare quindi a seguire la logi­ ca di sistemi teorici che sono differenti dai propri. Gli stu­ diosi di scienze sociali, inoltre, debbono essere consapevo­ li delle metodologie utilizzate e un modo efficace di acqui­ sire tale consapevolezza è quello di studiare le controver­ sie del passato (quali quelle fra i fautori di approcci indut­ tivi o di approcci deduttivi, o fra i sostenitori dell’oppor­ tunità di costruire modelli teorici rigorosi e coloro che pre­ feriscono approcci di carattere più storico e descrittivo) prestando attenzione ai vantaggi e agli svantaggi di ciascun approccio. La storia del pensiero economico può anche suggerirci una buona dose di umiltà. Quando vediamo grandi pensa­ tori commettere errori teoricamente rilevanti oppure tra­ scurare sviluppi che in prospettiva apparirebbero ovvi, possiamo ben comprendere come i nostri attuali paradig­ mi teorici potrebbero anche rivelarsi erronei per ragioni che ci riesce difficile comprendere a causa dei nostri pre­ concetti. Ernest Hemingway ebbe una volta a dire che a uno scrittore non conviene vivere a New York, un posto dove gli scrittori sono come vermi che vivono in un barat­ tolo. La nostra cultura, con i suoi valori ed i suoi precon­ cetti, talvolta troppo angusti, può essere vista come il ba­ rattolo in cui viviamo. Malgrado sia difficile uscire dal barattolo e osservare la società e l’economia in cui viviamo in modo del tutto obiettivo, uno studio del modo in cui si è sviluppata la teoria economica può renderci maggiormen­

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te consapevoli dell’importanza di provare a farlo e meno disposti ad accettare in modo acritico le attuali teorie. Studiare le «vecchie» idee è inoltre utile al fine di ela­ borarne di nuove: lo studio della teoria economica del passato è spesso fonte di ispirazione per nuove teorie. Al­ cune teorie possono essere andate perdute e quindi dimen­ ticate, oppure essere state associate ad applicazioni molto particolari. A questo proposito un esempio particolarmen­ te illuminante è dato dalla nozione di rendita in presenza di rendimenti decrescenti elaborata attorno al 1815, che per più di settant’anni fu applicata esclusivamente alla ter­ ra fino a quando, attorno al 1890, si riconobbe che la medesima nozione poteva essere applicata anche agli altri fattori della produzione. Può anche accadere che idee utili siano accantonate solo perché connesse ad ideologie supe­ rate o suscettibili di forti obiezioni: la teoria ortodossa, ad esempio, ignorò pressoché totalmente il lavoro di Marx fino a quando la Grande Depressione degli anni trenta rese opportuna una ricognizione delle teorie economiche pre­ cedentemente elaborate al fine di spiegare le cause delle crisi economiche in un sistema capitalistico. Sulla base di queste premesse possiamo ora affrontare lo studio della storia del pensiero economico, consideran­ do l’emergere della moderna teoria economica ortodossa assieme ad alcune «deviazioni» che hanno comunque con­ tribuito al formarsi della teoria economica così come noi oggi la conosciamo. Una certa attenzione, oltre che al con­ tenuto e allo scopo della teoria, sarà dedicata all’esame dei principali problemi metodologici e delle interrelazioni esi­ stenti fra lo sviluppo di una data struttura teorica e le con­ dizioni economiche del periodo corrispondente. Tutte le volte che ci è parso opportuno, ci siamo soffermati sulla logica interna di particolari teorie così come, nei casi par­ ticolarmente rilevanti, sul significato complessivo di alcu­ ne intuizioni teoriche e sulle loro implicazioni di politica economica (e sociale).

Parte prima

L’economia preclassica

Il C o n iglio B ian co in fo rcò gli occh iali e ch ie ­ se: « D a dove in c o m in c io , d i g ra z ia , M a e ­ s tà ? » .« C o m in c ia d al p r in c ip io !» risp o se s o ­ len n em en te il Re. Lew is C arroll

Sebbene l’attività economica abbia caratterizzato la cultura dell’uomo fin dagli albori della civiltà, una sua analisi formale non si ebbe che con il capitalismo mercan­ tile, sviluppatosi nell’Europa occidentale nel corso del quindicesimo secolo. Fu allora che le società europee, pre­ valentemente agrarie, iniziarono a commerciare tra di loro, ponendo così le premesse per la nascita dell’economia come disciplina sociale. Gli studi economici di quell’epo­ ca non presentavano tuttavia caratteristiche di sistematici­ tà, dal momento che la teoria economica si sviluppò poco per volta attraverso tentativi individuali di fornire risposte intellettualmente appaganti a singoli problemi contingen­ ti, così che per molto tempo non si ebbero sistemi analitici completi. Fu solo durante il diciottesimo secolo, con l’emergere —a partire da Adam Smith —dell’«economia classica», che l’economia fece significativi progressi verso la compiutezza di una vera e propria scienza sociale. Date queste premesse il nostro studio della storia delle idee economiche avrebbe potuto ragionevolmente iniziare con l’economia classica. Tuttavia sono possibili anche altri approcci: per esempio potremmo iniziare dal 1200, cioè da quando per la prima volta venne riconosciuta la praticabi­ lità di un’analisi economica, oppure dagli autori medioe­ vali. Un’ulteriore possibilità deriverebbe dal tenere conto di quella che probabilmente è stata l’acquisizione più si­ gnificativa nelle scienze sociali, vale a dire la consapevolez­ za di poter trattare analiticamente i diversi aspetti della società. La nozione che le strutture sociali potessero esse­ re analizzate proprio allo stesso modo dell’universo fisico impiegò dei secoli per affermarsi, ma la si può far risalire persino al pensiero dell’antica Grecia. A dire il vero i filo­

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sofi greci non riconobbero la possibilità di trattare l’eco­ nomia in modo autonomo (così come invece fecero per gli aspetti politici della vita sociale), tuttavia la loro analisi di quelle che erano essenzialmente società premercantili rap­ presentò per i pensatori successivi un precedente di indub­ bia utilità. Quest’ultima considerazione suggerisce ancora un’altra possibile risposta al problema di stabilire l’inizio di una storia del pensiero economico: dato che le società antiche abitualmente trasmettevano i propri testi scritti sotto forma di volumi religiosi, si potrebbe pensare di far iniziare un’analisi delle idee economiche dai più antichi documenti storici. Di fronte a tutte queste alternative la nostra scelta è stata quella di iniziare con lo sviluppo del pensiero greco, e di considerare poi gli scritti degli scolastici, dei mercan­ tilisti e dei fisiocratici, cercando però di mantenere la trat­ tazione di tali scritti entro limiti ragionevoli. Questa prima parte risulta quindi più breve rispetto alle altre sezioni del volume, pur se sufficientemente lunga perché si colga l’im­ portanza di queste antiche riflessioni sull’economia. C ’è del resto una ragione sicuramente importante per cui vale la pena di esaminare le idee preclassiche e premer­ cantili dei pensatori greci e degli scolastici medioevali, ed è quella di comprendere a fondo alcuni degli aspetti più propriamente filosofici ed etici del concetto di scarsità re­ lativa. Il principio che quantità maggiori di beni sono pre­ feribili rispetto a quantità minori è infatti un principio fon­ damentale della moderna teoria economica ortodossa, ed è ampiamente confermato dai modelli prevalenti di attivi­ tà economica nelle società moderne. Al contrario gli anti­ chi pensatori religiosi, greci e scolastici, non partivano da questa premessa ma anzi ponevano continuamente in di­ scussione gli obiettivi —economici piuttosto che non eco­ nomici —dell’individuo e della società; e più volte nel cor­ so della storia dell’economia i vari autori eterodossi hanno discusso il fatto che nella vita ci sia qualcosa di più impor­ tante dei semplici beni materiali. Nel secondo capitolo prenderemo in considerazione il pensiero economico dal 1500 alla metà del 1700: è duran­ te questo lasso di tempo che si sviluppò il mercantilismo, la prima di quelle che potremmo chiamare «scuole di pen­

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siero economico». Tale scuola riteneva che la ricchezza di una nazione fosse strettamente collegata alla quantità di oro presente nel paese, e attribuiva così allo stato un ruolo decisivo nel governo dell’economia. Il modo di pensare all’economia, benché la tradizione mercantilista fosse quella prevalente fino alla metà del 1700, già un secolo prima però aveva Cominciato a modifi­ carsi: stava nascendo il liberismo, e con esso iniziavano a germogliare i semi di una rivoluzione sia politica che eco­ nomica. Prese così consistenza un importante gruppo di pensatori francesi, che sarebbero poi diventati famosi col nome di «fisiocratici», il più eminente dei quali fu Francois Quesnay (1694-1774), medico alla corte di Luigi XV, che sviluppò un sistema analitico al cui interno l’economia era rappresentata come un flusso circolare regolato dalla leg­ ge naturale piuttosto che dall’intervento del governo. Furo­ no i fisiocratici a sviluppare il programma del laissez faire, laissez passer («lasciar fare, lasciar passare»), e si può dire che le loro opinioni furono le dirette anticipazioni di quel­ le poi sviluppate dall’economia classica. Oltre ai fisiocratici vi furono altre interessanti figure di pensatori preclassici. Ad esempio William Petty (16231687), che fu il primo a suggerire l’importanza di quantifi­ care i fenomeni economici; oppure Bernard Mandeville (c. 1670-1733) che, in una serie di poemi ed altri scritti deli­ ziosamente satirici, mise alla berlina le argomentazioni dei filosofi del senso morale sostenendo la tesi secondo cui l’in­ teresse personale, quando fosse stato guidato dall’interven­ to pubblico, avrebbe condotto a un vantaggio per tutta la società. Ci occuperemo inoltre di Richard Cantillon (c. 1680-1734), il quale, malgrado non abbia avuto una pro­ fonda influenza sugli sviluppi successivi del pensiero eco­ nomico, viene talora considerato come uno dei fondatori della scuola classica in virtù della logica sottostante le sue argomentazioni; e infine di David Hume (1711-1776), che in una serie di saggi diede significativi contributi alla teo­ ria economica. Nell’awicinarsi a questi scrittori preclassici è bene te­ nere presenti due cose: innanzitutto essi si occuparono di aspetti circoscritti dell’economia, e non completarono le loro analisi con l’elaborazione di una teoria economica

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compiutamente articolata. Con ciò non si dice che questi scrittori non fossero dotati di un eccezionale acume intel­ lettuale (anzi, al contrario), ma semplicemente che non era loro intenzione costruire teorie complessive. In seguito, allorché i fisiocratici ed i mercantilisti di impronta liberi­ sta iniziarono a concepire sistemi più generali, essi si tro­ varono a dover risolvere problemi analitici complessi pri­ ma ancora di poter pensare di presentare i precedenti fram­ menti di analisi economica sotto forma di un corpo orga­ nizzato di teoria economica. In secondo luogo i cambia­ menti nel modo di pensare all’economia che avvennero nel corso dei secoli furono, almeno parzialmente, altrettante risposte alla mutevole organizzazione economica della so­ cietà. In Inghilterra, per esempio, il pensiero economico scolastico derivava dal feudalesimo, mentre la teoria mer­ cantilista prendeva le mosse dal capitalismo mercantile, e le idee classiche sul laissez faire che appaiono già negli scritti dei mercantilisti liberisti potrebbero ricondursi ai primordi del capitalismo produttivo. Perciò, per quanto questo sia un libro sulla storia del pensiero economico, la nostra comprensione del pensiero economico non può che trarre vantaggio da un’adeguata conoscenza della storia economica.

Capitolo primo

Il pensiero economico preclassico antico

La nascita dell’analisi economica in occidente fu il risultato della combinazione di due elementi tipici del pensiero ellenico. Uno era l’abilità nel ragionare in forma astratta, o per generalizza­ zioni, circa le relazioni sociali. L’altro era la ri­ flessione sul vivere in un ambiente economico sofisticato, creatosi durante un’ondata di cresci­ ta basata sulle esportazioni. Barry Gordon L’inizio dell’economia classica viene solitamente fatto coincidere con il 1776, anno della pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Ovviamente si trat­ ta di una datazione indicativa, poiché in effetti, come ve­ dremo nel prossimo capitolo, era già da almeno duecento anni che si andavano sviluppando le idee poi contenute nella Ricchezza delle nazioni. Per quanto riguarda invece il periodo precedente all’economia classica noi lo dividere­ mo in due parti: un periodo preclassico antico, che va all’incirca dall’800 a.C. fino al 1500, e un’epoca preclassica che va dal 1500 al 1776. In questo capitolo ci occuperemo del periodo preclassico antico, e dal momento che esso copre 2300 anni, cioè grosso modo dodici volte il tempo trascorso dopo il 1776, ci siamo trovati nella necessità di affrontarlo in modo fortemente selettivo, affidandoci per questo compito al lavoro di studiosi come Barry Gordon, Odd Langholm, S. Todd Lowry e Stephan Worland, che negli ultimi trent’anni hanno fornito contributi assai signi­ ficativi per la comprensione di questo periodo. Questo periodo preclassico antico è diviso poi in due ulteriori sottoperiodi: il pensiero greco, per il quale ci con­ centriamo sulle opere di Esiodo (c. 800 a.C.), Senofonte (c. 430-355 a.C.) e Aristotele (384-322 a.C.); e il pensiero eco­ nomico della filosofia scolastica, che sarà rappresentato dal­ l’opera di S. Tommaso d’Aquino (1225-1274).

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1. Alcune considerazioni generali Secondo la teoria economica moderna l’origine di tutti i problemi economici deve farsi risalire alla scarsità relati­ va, ossia al fatto che desideriamo consumare più beni e servizi di quanti ne possano essere prodotti. Nel caso delle moderne economie, che sono economie di mercato, la teo­ ria si concentra quindi sulla funzione dei mercati nel risol­ vere i problemi relativi alla scarsità, e presta invece molta meno attenzione ad altri elementi quali l’impiego della for­ za o il ricorso all’autorità e alla tradizione. Nelle loro ri­ flessioni sulla vita economica gli antichi pensatori preclas­ sici dedicarono invece molto più spazio a questi meccani­ smi di allocazione delle risorse diversi dal mercato, e piut­ tosto che preoccuparsi dell’efficienza implicita in tale for­ me di allocazione, considerarono le conseguenze dei diver­ si modi di attività economica sulla qualità della vita e sulla giustizia nella società. Nei 2300 anni trascorsi dal periodo greco alla fine del­ la scolastica si ebbero indubbiamente uno sviluppo delle attività mercantili e una crescita della dimensione delle città, nonché progressivi miglioramenti nel sistema dei tra­ sporti e sempre più efficienti modi di produrre i beni. Si può però affermare che i tratti fondamentali della struttu­ ra economica della società non cambiarono in modo so­ stanziale, posto che le condizioni di vita erano per lo più condizioni di autosufficienza e che ancora non esisteva una dipendenza dal mercato, cioè dal fatto che altri pro­ ducessero i beni che si desiderava consumare. Questo spiega perché gli antichi scrittori preclassici non si interes­ sarono al funzionamento dei mercati: questi erano infatti relativamente poco importanti rispetto alle attività quoti­ diane della gente. Una delle principali differenze tra l’an­ tico pensiero economico preclassico e quello moderno or­ todosso può allora rintracciarsi nel modo di concepire il meccanismo con cui vengono allocate le risorse, meccani­ smo che per i pensatori calati in un contesto premerc^ntile veniva spiegato dal ricorso all’autorità. Benché gli scrittori antichi avessero poca consapevo­ lezza della portata e del significato della scarsità, e di come i mercati coordinino le attività individuali, ciò non va

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evidentemente ascritto a loro demerito. La strada che ha condotto ad apprezzare l’importanza di tali nozioni e a com­ prendere l’esistenza di un sistema economico suscettibile di analisi è stata lunga e tortuosa, e gli storici delle idee econo­ miche devono riconoscere che gli antichi scrittori di cose economiche hanno comunque identificato un certo numero di concetti e di strumenti di analisi, rivelatisi poi utili per comprendere lo svilupparsi di un’economia di mercato. Vi sono due temi importanti che emergono dall’antica dottrina preclassica. Il primo riguarda il livello di indagine appropriato per analizzare la società: era convinzione co­ mune che fosse inappropriato isolare una qualsiasi singola attività, come ad esempio quella economica, da tutte le altre. A dire il vero, proprio la capacità di operare a livello astratto tale separazione tra discipline aveva rappresentato una parte dell’apparato intellettuale necessario alla «nasci­ ta» dell’economia così come delle altre scienze sociali. E poi in un certo senso paradossale che, malgrado sia i G re­ ci che San Tommaso respingessero la separazione artificio­ sa delle attività umane, di fatto nello sviluppare le loro analisi astratte essi finirono per assegnare alle scienze so­ ciali un ruolo centrale ed inizialmente decisivo. Il secondo tema ricorrente negli autori del periodo in questione è la centralità assegnata ad alcune ampie catego­ rie filosofiche, ed in particolare alla correttezza, alla giu­ stizia, e all’equità. Anzi (ed è cosa facilmente comprensi­ bile se si pensa a una società premercantile) si può dire che gli scrittori preclassici esaminassero lo scambio e il prezzo proprio con l’intenzione di valutarne la correttezza, la giu­ stizia e l’equità. Questi due stessi temi, ovvero la non legittimità della suddivisione disciplinare all’interno delle scienze sociali, e le considerazioni riguardanti l’equità, possono essere ri­ scontrati anche in buona parte della letteratura economica eterodossa che si è sviluppata a partire dal diciottesimo se­ colo fino ad oggi. 2. Il pensiero greco Benché a prima vista si possa essere indotti a credere che il pensiero economico greco sia stato esplorato per

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intero, e che quindi sia stato raggiunto tra gli studiosi un pieno accordo circa l’importanza relativa dei vari scrittori, in realtà le cose non stanno in questo modo. Ad esempio, alcuni studi di S. Todd Lowry1 hanno messo in luce che negli scritti di Protagora vi sono dei contributi fecondi per la moderna analisi economica: avremmo dovuto allora in­ cludere Protagora nella nostra trattazione? Prima di farlo abbiamo deciso di aspettare una conferma di queste con­ clusioni da parte di altri colleghi, e di iniziare piuttosto la nostra analisi con Esiodo e Senofonte. Esiodo e Senofonte Fu durante l’ottavo secolo avanti Cristo che si diffuse oralmente il pensiero di Esiodo, ed in particolare l’opera più importante di quelle a lui attribuite, la Teogonia, cioè una narrazione della nascita degli dei. In tale racconto la scarsità non nasce da una condizione umana caratterizzata da desideri illimitati a fronte di risorse limitate, ma è piut­ tosto uno dei mali che fuoriuscirono quando Pandora aprì il vaso. Le idee economiche di Esiodo sono però principal­ mente contenute in un altro suo poema, Le opere e i giorni, in cui egli avvia una ricerca (che proseguì poi per due se­ coli) intorno alle questioni economiche e specialmente al concetto di efficienza, un aspetto al quale Esiodo era par­ ticolarmente sensibile essendo lui stesso un proprietario terriero. Nei diversi contesti in cui gli economisti fanno uso del concetto di efficienza, essa viene solitamente intesa come il rapporto tra output e input, e l’efficienza massima è vista come il raggiungimento del massimo output possi­ bile con un dato input, laddove l’unità di misura può esse­ re espressa tanto in termini fisici (ad esempio i quintali di grano per acro) quanto in termini monetari (ad esempio dollari di output o di input). Naturalmente l’efficienza può anche essere misurata secondo un’altra prospettiva, non in termini di produttività ma di costi (ad esempio il costo di

: Cfr. S. Todd Lowry, The Archaeology of Economie Ideas, Durham, N.C., Duke University Press, 1987.

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un quintale di grano in termini di acri di terra impiegata, o il costo in dollari di una unità di output), ed in questo caso la massimizzazione dell’efficienza viene espressa come minimizzazione dei costi. Ci si può ragionevolmente attendere che agricoltori e produttori siano interessati alla questione dell’efficienza, e in effetti parecchie delle cose scritte su quest’argomento durante il periodo preclassico antico prendevano come ri­ ferimento il singolo produttore o la singola unità familia­ re. Quando però si passa a considerare l’efficienza a livello dell’intera economia il discorso si fa più articolato e com­ plesso, poiché a questo livello non è più possibile misura­ re la produttività o i costi in termini fisici, e quindi gli eco­ nomisti hanno dovuto utilizzare unità di misura moneta­ rie, pur se non del tutto soddisfacenti. Gli autori antichi non erano d ’altra parte interessati all’efficienza vista a livello dell’intera società, dal momen­ to che essi non avevano una reale dimestichezza né con il concetto di scarsità e con le sue implicazioni, né con la nozione stessa di sistema economico. Anche se la parola «economia» proviene in effetti dal greco, e fu addirittura impiegata da Senofonte come titolo del suo libro TJeconomica, nella sua accezione originaria essa si riferisce alla gestione efficiente da parte del singolo produttore e/o del­ la singola famiglia. Esiodo, Senofonte, e altri scrittori del­ l’epoca erano dunque interessati a inquadrare i problemi dell’efficienza a questo livello, che comunque doveva esse­ re affrontato prima di quello relativo all’intero sistema eco­ nomico, dove la nozione di efficienza presenta aspetti de­ cisamente più complicati e meno evidenti. È interessante rilevare come l’economia, in quanto disciplina autonoma, si fosse già abbastanza ben sviluppata prima che —alla fine del diciannovesimo secolo, con l’utilizzo dell’analisi marginalistica e del calcolo differenziale —si riuscisse a rag­ giungere una completa ed approfondita comprensione del­ la nozione di efficienza a livello della singola impresa o del singolo consumatore. Senofonte, circa quattrocento anni dopo Esiodo, si spinse decisamente più avanti nell’analisi: attraverso l’ap­ plicazione del concetto di gestione efficiente alla famiglia, al produttore, all’esercito, e all’amministrazione pubblica,

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egli riuscì ad individuare come un incremento di efficien­ za possa derivare dalla divisione del lavoro. L’attenzione posta sugli effetti della divisione del lavoro fu infatti una costante in tutti gli altri scrittori greci, compreso Aristote­ le, e più tardi anche negli scolastici. Vedremo poi che a livello dell’intera economia e della società, fu Adam Smith a riconoscere a questo fenomeno un ruolo particolare nel determinare la ricchezza di una nazione. Aristotele L’importanza di Aristotele può essere valutata non solo dal punto di vista del suo contributo allo sviluppo del pensiero filosofico, ma anche con riferimento al modo di concepire l’economia, lo stesso che può essere rintracciato nella scolastica: le posizioni di S. Tommaso e degli altri uomini di chiesa nel periodo dal 1300 al 1500 possono infatti essere sostanzialmente viste come una replica alle posizioni di Aristotele. Prima di lui già Democrito (c. 460-c. 370 a.C.) aveva non soltanto suggerito i vantaggi della divisione del lavoro, ma addirittura sostenuto il ruolo della proprietà privata quale incentivo per incrementare il livello dell’attività economica. Il maestro di Aristotele, Platone, aveva invece sostenuto che soldati e filosofi, ovvero coloro che avrebbero dovuto eser­ citare le funzioni di governo nella sua società ideale, non avrebbero dovuto possedere alcuna proprietà privata, ben­ sì amministrare la proprietà pubblica, onde evitare conflitti sulla proprietà che avrebbero distolto le loro migliori ener­ gie dalle importanti funzioni a loro attribuite. L’opinione di Aristotele su questo punto era che la proprietà privata svolgeva una funzione utile per la società, e che pertanto non si sarebbero dovute adottare norme tese a limitarne l’estensione. Fu proprio la sua apparente incoerenza, tra il condannare da un lato la ricerca del guadagno economico e al tempo stesso sostenere dall’altro il diritto alla proprie­ tà privata, che mise alla prova i filosofi morali fino al sedi­ cesimo secolo. Gli apporti principali di Aristotele al pensiero econo­ mico riguardano lo scambio di beni e l’impiego del denaro

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all’interno di questo scambio. Il suo punto di partenza era che i bisogni degli uomini sono limitati, mentre i loro de­ sideri sono pressoché senza moderazione, così che doveva considerarsi giusta e naturale la produzione di beni desti­ nata alla soddisfazione dei bisogni, e come innaturale quel­ la produzione di beni che avesse cercato invece di soddi­ sfare i desideri. Egli era ovviamente consapevole del fatto che, una volta che i beni siano stati prodotti per essere venduti sul mercato, può risultare difficile determinare se l’attività economica risponda a dei bisogni effettivi o non piuttosto a dei desideri sregolati, ma l’ipotesi cui egli si atteneva era che uno scambio nella forma di baratto è in­ teso a soddisfare dei bisogni naturali e non viene effettua­ to in vista di un lucro, mentre uno scambio che avviene con l’intermediazione del denaro lascia supporre che il suo vero obiettivo sia un guadagno monetario e come tale va con­ dannato. Aristotele condivideva con Platone, e con quasi tutti gli altri pensatori greci, l’idea che l’attività economica debba necessariamente essere considerata all’interno di un con­ testo più ampio, e non possa essere studiata in modo a sé stante. Una delle sue conclusioni più interessanti, ad esem­ pio, è che il problema della scarsità può essere affrontato riducendo il consumo, ossia modificando il comportamen­ to umano. Tale idea si è rivelata ricca di implicazioni per i vari pensatori utopisti e socialisti che nelle epoche succes­ sive hanno sperato di porre fine a tutti i conflitti sociali eli­ minando quelli che sono particolarmente connessi al pro­ blema della scarsità. Q uadro 1.1.

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Bisogni e desideri L’economista ortodosso di oggi non fa distinzione tra i biso­ gni e i desideri dell’uomo, soprattutto in una società dove la sin­ gola unità familiare o di consumo non è più autosufficiente. Oggigiorno le famiglie non solo producono pochi dei beni che consumano, ma addirittura comprano sul mercato parecchi ser­ vizi. Man mano che la specializzazione e la divisione del lavoro si affermavano, e conseguentemente andava diffondendosi lo

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scambio economico, divenne sempre più essenziale disporre di un intermediario degli scambi, ovvero della moneta. Nell’opinio­ ne dei moderni teorici ortodossi distinguere tra bisogni e desi­ deri in un’economia di mercato è oggettivamente impossibile. I precetti di Aristotele sono visti come linee di condotta che se anche potevano avere una qualche rilevanza a quei tempi, certa­ mente non ne hanno alcuna nella nostra epoca, perché incom­ patibili con l’attuale realtà economica. I moderni economisti or­ todossi ritengono dunque che alla fin fine debba essere lasciato al singolo individuo determinare se, nel partecipare alla produ­ zione e allo scambio di beni, la sua condotta è virtuosa o meno. Vi sono tuttavia gruppi di pensatori eterodossi, come per esem­ pio i marxisti o gli istituzionalisti, che contestano questo modo di vedere le cose sostenendo che è impossibile, per gli economi­ sti ortodossi, evitare di formulare giudizi di valore: anzi, già il non distinguere tra bisogni e desideri implica un giudizio di va­ lore. La loro conclusione, in linea col pensiero di Aristotele, è che i bisogni possono, o meglio devono, essere tenuti distinti dai desideri.

3. La scolastica Il fondamento feudale del pensiero scolastico La dottrina economica scolastica può essere compresa più chiaramente se collocata nel contesto della sua epoca, che copre un arco di tempo che va da ancor prima della caduta dell’impero romano fino agli inizi del mercantilismo nell’Europa occidentale, ed è a questo proposito che discu­ teremo di alcune delle principali caratteristiche della socie­ tà medioevale legate in particolare alla natura e al signifi­ cato della scolastica2. Il tipo di attività economica oggi prevalente nelle aree industrializzate del mondo non esiste­ va minimamente nel Medio Evo. In particolare la produ­ 2 La migliore tra le brevi analisi storiche di questo periodo si trova in Henri Pirenne, Histoire économique et sociale du Moyen Age, Paris, Puf, 1963; trad. it. Storia economica e sociale del Medioevo, Milano, Garzanti, 1972.

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zione di beni per la vendita sul mercato, nonostante fosse in aumento nel corso di questo periodo, non arrivò mai a ricoprire un ruolo decisivo nella vita di tutti i giorni. L’eco­ nomia feudale consisteva infatti in un’agricoltura di sussi­ stenza, nell’ambito di una società (dove quattro erano i gruppi sociali: i servi, i signori, la nobiltà e il clero) nella quale i principali legami erano determinati non dal merca­ to ma dalla tradizione, dagli usi e dall’autorità. La terra era sostanzialmente tutta di proprietà della chiesa cattolica e del re, e il re ne concedeva l’uso ai signori o ai nobili, che in cambio assumevano degli obblighi verso l’autorità cen­ trale. Non si trattava di obblighi fondati su un contratto (come nella moderna economia di mercato), ma sulla tra­ dizione e sulla consuetudine, e prevedevano trasferimenti di beni e prestazioni di servizi. Il diritto al godimento del­ la terra, con i suoi corrispondenti obblighi, veniva trasmes­ so di padre in figlio in base alla primogenitura, e dal mo­ mento che il potere temporale centrale non dimostrò mai molta autorevolezza lungo tutto il medioevo, il signore aveva praticamente pieno potere sul suo dominio. Anche il rapporto tra servo e padrone era a propria volta discipli­ nato secondo le usanze, la tradizione e l’autorità. Il servo era legato alla terra in base alla tradizione, e ne pagava l’uso con il lavoro, con parte dei raccolti, e talvolta con denaro; il signore, dal canto suo, concedeva la sua prote­ zio n e contro le invasioni in tempo di guerra. In questo modo ogni singola tenuta o proprietà terriera costituiva un’entità economica e politica praticamente completa. Di solito aveva anche la propria chiesa, che il signore costrui­ va e almeno parzialmente controllava attraverso la nomina del cappellano. La chiesa d’altro canto aveva un rilevante potere temporale, in quanto costituiva il maggiore proprie­ tario terriero dell’Europa occidentale, e i suoi possedimenti erano in generale amministrati meglio di quelli dei signori feudali, anche per via della esclusiva competenza dei chie­ rici nella lettura e nella scrittura. La maggior parte delle persone accettava senza molti problemi il proprio ruolo nella società feudale e gli esempi di servi ribellatisi ai loro signori rappresentavano episodi sporadici ed insoliti. Tutta la terra infatti apparteneva a Dio, che l’aveva affidata in custodia, o a un uomo che era

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re per diritto divino, oppure direttamente alla chiesa: non accettare l’autorità dei propri superiori significava quindi opporsi alla volontà di Dio, da cui tale autorità discende­ va, e quindi mettere in pericolo la propria salvezza ultraterrena. In un sistema siffatto la terra, il lavoro e il capitale non erano beni acquistati e venduti su un apposito merca­ to così come avviene oggi, e la produzione di beni finaliz­ zata alla vendita era davvero poco rilevante. Malgrado la potenza delle forze che nella società feu­ dale rinforzavano la tradizione e si opponevano al cambia­ mento, vi erano tuttavia degli altri fattori che iniziarono ad erodere le fondamenta del feudalesimo, come il progresso tecnologico, che la maggior parte degli storici dell’econo­ mia considera essere la causa principale di tale declino. Le innovazioni nella tecnologia agricola provocarono infatti la frammentazione nelle proprietà terriere ed ebbe inoltre ini­ zio la manifattura, basata sulla sostituzione della forza uma­ na e animale con quella meccanica fornita dall’acqua e dal vento. In questo modo nel corso del medioevo, e specialmente durante i cinquecento anni prima del 1450, la so­ cietà occidentale andò trasformandosi. Gli autori scolastici, il più importante dei quali fu senz’altro S. Tommaso d’Aquino, erano per lo più monaci eruditi che si sforzavano di fornire linee di condotta reli­ giosa applicabili alle attività mondane. Nel fare questo il loro obiettivo non era tanto quello di analizzare quel poco di attività economica che andava diffondendosi, quanto di prescrivere regole di comportamento economico che fos­ sero compatibili con i dogmi della fede. S. Tommaso Sebbene gli scolastici, nel tentativo di adattarsi alle na­ scenti trasformazioni economiche del loro tempo, avessero via via prodotto un corpo di idee economiche piuttosto ar­ ticolato e caratterizzato da differenziazioni di secondaria importanza, essi si interrogavano sostanzialmente su un medesimo nucleo di problematiche economiche, vale a dire l’istituzione della proprietà privata e i concetti di giusto prezzo e di usura. E ragionevole quindi caratterizzare e

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riassumere questa letteratura, al di là di ulteriori qualifica­ zioni meno rilevanti, come la lotta per riconciliare l’insegnamento religioso della chiesa con il lento progredire dell’attività economica del tempo. Gli scritti della scolasti­ ca rappresentano infatti una graduale accettazione di alcu­ ni aspetti dell’attività economica man mano che venivano resi compatibili con la dottrina religiosa: una accettazione raggiunta tramite sottili modifiche alla stessa dottrina per tener conto delle mutate condizioni economiche. La rile­ vanza delle idee di S. Tommaso, per esempio, si può dire che consista nella sua capacità di fondere l’insegnamento re­ ligioso con gli scritti di Aristotele, dai quali la dottrina eco­ nomica scolastica ereditò parecchi dei suoi contenuti. Nello sforzo di conciliare la dottrina religiosa con l’isti­ tuzione della proprietà privata e la normale attività econo­ mica, egli dovette tener conto dei numerosi passaggi bibli­ ci che condannano la proprietà privata, la ricchezza e la ricerca del guadagno economico. Vi era poi l’esperienza dei primi cristiani che, basandosi sul Nuovo Testamento, rite­ nevano che mentre la proprietà comune si accordasse con la legge naturale, la proprietà privata non rispondesse a un tale ideale, e di conseguenza modellarono in senso comu­ nitario l’antica società cristiana, ispirandosi alle vite di Gesù Cristo e dei suoi apostoli. Tuttavia i primi scrittori scolastici avevano lottato a lungo per stabilire il principio che alcune forme di proprietà privata in mano ai laici non erano incompatibili con l’insegnamento religioso. Fu così che nel tredicesimo secolo, dopo che gli scritti di Aristote­ le erano stati reintrodotti in Europa occidentale, Tomma­ so d’Aquino rielaborò il pensiero aristotelico e fu in grado di affermare in modo convincente che la proprietà privata non è contraria alla legge naturale. Pur concedendo che sotto la legge naturale tutta la proprietà è in comune, egli sostenne però che la diffusione della proprietà privata rap­ presenta un’aggiunta, e non una contraddizione, a tale leg­ ge. Così come l’essere nudi è in armonia con la legge natu­ rale e il vestirsi è un’aggiunta predisposta per il beneficio dell’uomo, la medesima argomentazione poteva essere ap­ plicata alla proprietà privata: così potremmo dire che è di diritto naturale che l’uomo sia nudo,

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poiché non è stata la natura ma l’arte a introdurre l’uso delle ve­ sti. E in tal senso sono di diritto naturale «il possedere in comu­ ne, e la libertà indiscriminata»: poiché la spartizione dei beni e la subordinazione non furono introdotte dalla natura, ma dalla ragione dell’uomo, perché utili alla vita umana5. Nel trattare la proprietà privata S. Tommaso ne appro­ vava la regolamentazione statale e ne accettava una dise­ guale distribuzione, seguendo l’impostazione aristotelica; tuttavia si rifaceva allo spirito di Platone nell’indicare la scelta della povertà e del vivere in comune come ideali da raggiungere per chi vivesse una profonda pratica religiosa, dal momento che la vita comunitaria metteva in grado di dedicare le migliori energie alle attività religiose. Egli, insieme agli altri scolastici, era inoltre preoccupa­ to da un altro aspetto dell’accresciuta attività economica, ossia dal prezzo dei beni. A differenza dei moderni econo­ misti il loro sforzo era diretto non all’analisi della formazio­ ne dei prezzi o alla comprensione del ruolo dei prezzi nel­ l’allocazione delle risorse scarse, ma all’aspetto etico dei prezzi, concernente giudizi di equità e di giustizia. La dot­ trina religiosa proibiva ai mercanti di vendere i beni a più di quanto li avevano pagati? Era peccato trarre profitti e riscuotere interessi? Nel discutere questi temi, S. Tomma­ so combinava il pensiero religioso con le posizioni di Ari­ stotele. Così, quando gli scambi hanno luogo sul mercato per soddisfare i bisogni dei contraenti (adottando la nozio­ ne aristotelica di bisogno), allora egli concludeva nel senso di una loro irrilevanza dal punto di vista etico. Diverso è invece il caso in cui gli individui producono per il merca­ to in vista del guadagno: in questo caso la sua conclusio­ ne era che il loro comportamento è virtuoso solo se i loro motivi sono caritatevoli, e se i loro prezzi sono giusti. Il mercante, dunque, avrà agito correttamente se la sua inten­ zione sarà stata quella di utilizzare i profitti o per il pro­ prio sostentamento, o per carità, o per contribuire al be­ nessere collettivo, e se i suoi prezzi saranno stati giusti,3 3 S. Tommaso d’Aquino, Summa theologica; trad. it La somma teologica, a cura dei Domenicani italiani, 34 voli., Firenze, Salani, 1949-1975, voi. XII, I-II, questione 94, articolo 5, p. 106.

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cosicché tanto il compratore che il venditore ne abbiano tratto beneficio. Gli storici del pensiero economico non sono unanimi nelTinterpretare la nozione scolastica di giusto prezzo. Per qualcuno gli scolastici, incluso S. Tommaso, consideravano il giusto prezzo alla stregua del costo del lavoro, mentre per altri esso andrebbe ricondotto alla nozione di utilità, e per altri ancora al costo totale di produzione. In questo modo l’accezione scolastica di giusto prezzo viene interpretata come un’anticipazione, alternativamente, della teoria ricardiano-marxiana del valore lavoro, dell’approccio in termi­ ni di utilità marginale, o della nozione - implicita nelle costruzioni classica e neoclassica - per cui i mercati con­ correnziali garantiscono idealmente prezzi «giusti». Un’al­ tra opinione largamente condivisa considera la nozione scolastica di giusto prezzo come parte integrante di quel­ l’insieme di forze economiche e sociali che presiedevano al mantenimento delle gerarchie feudali: se tutti i prezzi fos­ sero prezzi «giusti», nessuno sarebbe più in grado di mo­ dificare il proprio status sociale attraverso l’attività econo­ mica. In effetti le molte carenze presenti nell’analisi eco­ nomica degli scolastici rendono difficile una corretta valu­ tazione di ciò che essi intendevano per «giusto prezzo». La nostra posizione è che per lo scolasticismo in generale, e per S. Tommaso in particolare, giusto prezzo significasse semplicemente il prezzo prevalente di mercato. Se d ’altro canto questa interpretazione fosse vera, allora non ci per­ metterebbe di concludere alcunché di utile circa il conte­ nuto economico o addirittura etico della nozione di giusto prezzo, dal momento che gli scolastici non disponevano di alcuna teoria con cui spiegare le forze che determinano il prezzo di mercato. Un corollario del concetto di giusto prezzo era dato dalla nozione scolastica di usura. Se le posizioni della chie­ sa sul giusto prezzo e sulla moralità del comportamento economico erano sufficientemente generali da non urtare con la crescita deH’economia, quelle sull’usura erano inve­ ce sufficientemente specifiche e consequenziali da creare un conflitto tra la chiesa e l’emergente comunità d ’affari. Si noti che il significato del termine usura si è modificato nel tempo rispetto all’accezione datagli dallo scolasticismo:

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per come è usato oggi esso indica l’applicazione di un ec­ cessivo tasso di interesse, mentre a quell’epoca rifletteva il senso aristotelico e biblico della riscossione di un qualsiasi tasso di interesse, e la stessa dottrina scolastica dell’usura era derivata interamente dalla Bibbia e dalle opere di Ari­ stotele. La condanna biblica dell’usura nasceva dal perico­ lo che il forte si approfittasse del debole; oltre a ciò, Ari­ stotele aveva affermato che riscuotere interessi sui prestiti era innaturale, visto che il denaro è sterile. La posizione scolastica divenne via via più moderata, da una proibizio­ ne piuttosto stretta dell’interesse nei primi tempi fino alla sua accettazione, quantomeno per scopi commerciali, più tardi. S. Tommaso d ’Aquino fu un pensatore molto comples­ so ed interessante. Da un lato egli circoscrisse l’indagine economica per poter dare enfasi alle questioni di etica e concentrarsi così sulla filosofia morale; dall’altro egli fece progredire l’economia e tutte le altre scienze sociali per mezzo del pensiero astratto. Come sottolinea Stephan Worland circa l’uso dell’astrazione in S. Tommaso: egli per lo più trascura il contesto istituzionale attraverso il qua­ le ha luogo l’attività economica, e tratta tale attività semplicemente come la condotta di singoli individui... Concentrandosi sulle questioni di principio, egli situa la propria indagine econo­ mica a un livello di astrazione relativamente alto... La sua con­ cezione di sistema economico è quella di un insieme di membri indifferenziati della specie umana legati tra loro per mezzo di quelle istituzioni fondamentali - la proprietà privata, la divisio­ ne del lavoro, lo scambio - che sono «naturali» per l’uomo4. Bai Q uadro 1.2. m

La rilevanza della scolastica Le questioni etiche sollevate dalla scuola medioevale riman­ gono di una certa rilevanza anche oggi. Da un punto di vista molto generale, noi continuiamo a domandarci cosa costituisce 4 Stephen T. Worland, Scholasticism and Welfare Economics, Notre Dame, Ind., University of Notre Dame Press, 1967, pp. 8-9.

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una «vita buona», e in base a quali criteri dobbiamo valutare la qualità delle nostre esperienze e attività in quanto esseri umani: così le relazioni in famiglia e con gli amici, le buone azioni, e gli ideali di vita sono aspetti non economici delle nostre vite che possono o meno essere considerati nel contesto di una partico­ lare dottrina religiosa. La Chiesa medioevale di fatto era preoc­ cupata che la crescente attività economica potesse distogliere la mente e l’animo degli uomini dall’attenzione per i valori religio­ si ed etici a favore del materialismo. Negli Stati Uniti il periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha registrato parecchi cambiamenti di atteggiamento circa le motivazioni economiche e quelle non-economiche, in modo speciale nelle credenze dei giovani adulti, che nel corso dell’immediato dopoguerra, sulla scorta dell’esperienza del con­ flitto e della Grande Depressione, assegnarono un’alta priorità ai valori economici. Intorno agli anni sessanta tuttavia molti giovani iniziarono a censurare la preoccupazione per i valori economici propria delle vecchie generazioni, e a questo movimento seguì un «vuoto generazionale» che attraversava l’intera società, con i lea­ der dei giovani che invitavano a non fidarsi di nessuno che fos­ se sopra i trent’anni. Negli anni ottanta il pendolo compì un al­ tro movimento e i giovani adulti riadottarono i valori economici del dopoguerra. Le business-schools divennero, in molte univer­ sità, i settori a crescita più veloce. L’attenzione degli scolastici per la giustizia o per la mancan­ za di giustizia nel sistema dei prezzi è applicabile anche all’attua­ le sistema economico e sociale. Ad esempio la regolamentazio­ ne per utilità pubblica rappresenta il tentativo con cui la socie­ tà, attraverso il governo, garantisce l’equità delle tariffe dei ser­ vizi telefonici, dell’elettricità, e del consumo di acqua. Le com­ missioni per la regolamentazione, generalmente, provano a fissa­ re i prezzi in modo che siano «giusti», che cioè siano limitati ai costi di produzione (compreso il costo di conferimento del ca­ pitale alle imprese produttrici). Quando verso la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta i tassi di interesse si ridussero, si sviluppò un certo movimento a tutela dei consumatori, a causa dei tassi di interesse fissi appli­ cati dalle aziende che emettevano carte di credito: mentre i tassi di interesse sui mutui, sui prestiti d’affari, e sui debiti privati e pubblici calavano in modo significativo, quelli applicati sulle car­ te di credito rimanevano fissi attorno circa al 18 per cento. In questo caso la maggior parte delle argomentazioni erano model­ late in termini etici. Altri due esempi che illustrano come le con­ siderazioni etiche possano controbilanciare quelle economiche sono: 1) i programmi agricoli che consentono agli agricoltori di prendere a prestito a tassi di interesse più bassi rispetto agli al­

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tri settori commerciali; 2) i programmi di prestito a disposizio­ ne degli studenti e delle attività commerciali gestite dai giovani. i

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Precursori

David Hume (1711-1776)

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Adam Smith •< --- Francois Qucsnay (1723-1790)

Karl Marx Cv—\Ct. Il prezzo del castoro sale e contemporaneamente quello del cervo scende: per Smith questo è un prezzo di mercato, o, in termini moderni, un prezzo di equilibrio di breve periodo. In seguito a questa modifica i cacciatori non si dedica­ no più alla caccia del cervo, ma solo a quella del castoro. Infatti essi possono procurarsi il cervo che desiderano non solo attraverso la caccia, ma anche in modo indiretto, per mezzo della caccia di castori da scambiare poi contro cer­ vi sul mercato. Con un prezzo 3>Cv=lCt quest’ultima è la scelta razionale perché conduce a un guadagno netto fa­ cilmente calcolabile: il modo diretto di procurarsi due cer­ vi, con due ore di lavoro-caccia, è infatti meno convenien­ te di quello indiretto, per il quale le stesse due ore di cac­ cia consentono di procurarsi un castoro, che sul mercato vale ben tre cervi, e dunque assicura un guadagno netto di un cervo. Se facessimo poi l’ipotesi che il castoro e il cervo sono beni divisibili, allora il vantaggio derivante dallo scambio sul mercato potrebbe essere calcolato in termini di tempo: in questo caso piuttosto che cacciare cervi per un’ora, il cacciatore furbo caccia castori per due terzi di ora. Il terzo di castoro che il cacciatore si procura in que­ sto modo può essere scambiato esattamente con un cervo, e il suo guadagno netto è rappresentato dal risparmiare un terzo di ora ogni volta che compra un cervo sul mercato.

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La conseguenza di questo meccanismo è una maggiore offerta di castori e una minore offerta di cervi, cosicché il prezzo dei primi scende e quello dei secondi aumenta. Abbiamo in tal modo stabilito che tutti i prezzi superiori a \C t-2C v sono prezzi di disequilibrio, e che le forze di mercato provvederanno ad abbassarli fino al loro livello di equilibrio di lungo periodo. Analogamente, ogni volta che il prezzo è inferiore a \Ct=2Cv l’offerta di castori calerà e il prezzo dei castori salirà fino a quel livello che Smith chiama naturale. Vi sono alcuni aspetti interessanti nel modello smithiano di determinazione del prezzo attraverso una teoria del costo del lavoro in una società primitiva: per prima cosa l’ipotesi di Smith che i cacciatori in questo stato arcaico della società siano comunque agenti razionali, calcolatori, e guidati dalla ricerca del tornaconto personale, proprio come se fossero in una sala di contrattazioni di borsa anzi­ ché in una tribù di primitivi. L’antropologia culturale sug­ gerirebbe un approccio completamente diverso da questo e porterebbe a considerare fattori, quali le abitudini e le usanze, a causa delle quali, probabilmente, un cacciatore proseguirebbe l’attività degli anziani piuttosto che adattarsi alle indicazioni del mercato (se mio padre sparava ai castori anch’io sparerò ai castori). In secondo luogo c’è nel mo­ dello di Smith l’ipotesi di concorrenza perfetta: i cacciato­ ri (le imprese) prendono i prezzi come dati, e possono solo adattare le quantità, cosicché non solo come singoli indi­ vidui non hanno alcun potere di mercato, ma nemmeno si organizzano per controllare l’offerta e quindi il prezzo di mercato. La terza ipotesi di Smith è che sia il castoro, sia il cervo, possono essere procurati in grandi quantità a un costo medio costante per unità di prodotto, o, in altre pa­ role, che le curve di offerta nel lungo periodo sono oriz­ zontali o perfettamente elastiche, mentre ci si dovrebbe attendere che le ore necessarie per uccidere un castoro crescano con l’offerta complessiva di castori, così che la curva di offerta risulti inclinata positivamente. Assumendo costi costanti la domanda non gioca alcun ruolo nel determinare i prezzi relativi di lungo periodo: le sue eventuali variazioni avrebbero come unico effetto una riallocazione dei fattori della produzione tra le varie indù-

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strie, ma nessuna influenza sui prezzi di lungo periodo. Tali prezzi, quindi, dipendono interamente dal costo di produ­ zione, o dall’offerta; nel caso in cui, come nel modello di Smith, il lavoro sia l’unico costo di produzione, ne risulta una teoria del valore-lavoro. Ma se le curve di offerta fos­ sero inclinate positivamente, allora le industrie, per usare il gergo della moderna microeconomia, sarebbero a costi crescenti e il prezzo diverrebbe funzione sia della doman­ da che dell’offerta. Il modello di Smith, infine, è fonda­ mentalmente statico e unicamente attento alle posizioni finali di lungo periodo piuttosto che alla dinamica tra un equilibrio e il successivo. Si tratta di un’analisi «atempora­ le» in quanto, partendo da una posizione di equilibrio di lungo periodo, ipotizza alcuni disturbi e quindi ricava l’equilibrio finale, senza considerare il sentiero temporale delle variabili del sistema: il processo di aggiustamento è dunque trattato come istantaneo. Il lavoro comandato in una società primitiva. Ora che conosciamo la teoria della determinazione dei prezzi rela­ tivi basata sul costo di lavoro in un’economia primitiva, è molto più agevole affrontare la teoria basata sulla nozione di lavoro comandato. Seguendo Smith, nella teoria del la­ voro comandato «il valore di ogni merce per la persona che la possiede e che non intende usarla o consumarla perso­ nalmente ma scambiarla con altre merci, è dunque uguale alla quantità di lavoro che le consente di acquistare o ave­ re a disposizione»17. Per rimanere nell’esempio fatto in precedenza, sappiamo che un castoro comanderà due ore di lavoro e che un cervo comanderà un’ora di lavoro, così che il loro prezzo relativo sarà di nuovo \Ct=2Cv: in una società primitiva avremo dunque lo stesso prezzo sia che adottiamo la teoria del costo di lavoro che la teoria del lavoro comandato. La teoria del lavoro in una società avanzata. Il modello immaginato da Smith per descrivere il funzionamento del sistema economico in una società avanzata si differenzia da 17 Ibidem , p . 1 1 1 .

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quello adottato per una società primitiva per due circostan­ ze molto importanti: il capitale è stato accumulato e la ter­ ra è stata fatta oggetto di appropriazione individuale. Dun­ que nell’economia avanzata non ci sono più beni liberi, e il prezzo finale di ogni bene deve includere una quota per la retribuzione dei capitalisti, che prende la forma dei pro­ fitti, e una quota per la retribuzione dei proprietari terrie­ ri, che prende la forma della rendita. Richiamiamo l’esem­ pio precedente sul cervo e sul castoro, e assumiamo che per entrambi questi beni i salari siano i 3/4 del prezzo fi­ nale mentre i profitti e la rendita siano 1/4 del prezzo fi­ nale. Quali saranno ora i rapporti di scambio secondo le teorie del lavoro contenuto e del lavoro comandato? Nel primo caso castoro e cervo si scambiano secondo il rapporto lCt=2Cv, poiché per la teoria del lavoro come costo un castoro richiede due ore di lavoro e il cervo un’ora di lavoro. Leggermente più complicata è l’altra teoria, quel­ la del lavoro comandato. Se chiamiamo X la nostra inco­ gnita, cioè la quantità di lavoro che un castoro può coman­ dare, sappiamo che (3/4)X=2 unità di lavoro, e quindi che X=8/3, o X=2+2/3. Un castoro perciò comanderà 2+2/3 unità di lavoro: di queste, le due unità saranno pagate a titolo di salari, e i 2/3 a titolo di profitti e di rendite. In questo modo in una società avanzata l’acquirente di un castoro dovrà offrire più unità di lavoro di quelle necessa­ rie a procurarselo, perché ora occorre includere anche un pagamento al capitalista e al proprietario della terra oltre a quello che spetta al lavoratore: la quantità di lavoro che il bene castoro può comandare sul mercato è superiore alla quantità di lavoro contenuta nella sua produzione. Ripe­ tendo lo stesso ragionamento anche per il cervo (3/4X =l, 0 X = l + l/3) si giunge al risultato che un cervo comanderà 1+ 1/3 unità di lavoro. Una volta che il capitale è stato accumulato e la terra fatta oggetto di appropriazione, e quindi si devono pagare profitti e rendite, la teoria del lavoro come costo e la teoria del lavoro comandato non coincidono più. Tuttavia, se si considera il prezzo relativo di cervo e di castoro —che è d’altronde l’oggetto di studio di ogni teoria dei prezzi rela­ tivi - si vede che il loro rapporto di scambio è identico nelle due teorie, 1:2 = ( 1+ 1/3 ) :(2+2/3 ). È esattamente a questo

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punto che Smith si rese conto di alcune delle reali difficol­ tà connesse con la teoria dei prezzi relativi basata sulla quantità di lavoro, e non riuscendo a risolverle dal punto di visto teorico, per il modello di un’economia progredita abbandonò la teoria basata sulla quantità di lavoro a favo­ re di una teoria basata sul costo di produzione. Su queste difficoltà sarebbe successivamente ritornato Ricardo, che, con grande abilità analitica, tentò di portarle a soluzione: è opportuno quindi che ne vediamo ora le implicazioni prima di rivolgerci alla teoria smithiana basata sul costo di produzione. La conclusione che nel modello smithiano i prezzi rela­ tivi sono gli stessi secondo ambedue le teorie dipende da un’ipotesi cruciale: abbiamo sinora ipotizzato che le retri­ buzioni del lavoro costituiscano la stessa quota proporzio­ nale del prezzo finale in entrambe le industrie (del cervo e del castoro). Ma può un’ipotesi siffatta ritenersi coerente con le condizioni prevalenti in un’economia progredita? Se la fertilità dei terreni non è uniforme, la rendita sarà pro­ babilmente una quota del prezzo finale diversa per beni prodotti su terre di diversa qualità. Così pure i rapporti capitale-lavoro varieranno probabilmente da industria a in­ dustria e il profitto tenderà a rappresentare una quota su­ periore del prezzo finale nelle industrie a maggiore intensi­ tà di capitale. Supponiamo allora di introdurre nel nostro esempio l’ipotesi più ragionevole, ovvero che la quota del lavoro sul prezzo finale sia diversa nelle industrie del cervo e del castoro a causa della diversa fertilità della terra e dei diversi rapporti tra capitale e lavoro. In particolare suppo­ niamo che il lavoro riceva i 2/3 del prezzo finale nell’indu­ stria del castoro, mentre riceva i 3/4 del prezzo finale nel­ l’industria del cervo. In queste condizioni un castoro co­ manda 3 unità di lavoro (2/3X=2, o X=3), e un cervo co­ manda 1+ 1/3 unità di lavoro (3/4X =l, o X = l + l/3). La conseguenza è che i prezzi relativi, secondo i due criteri del lavoro contenuto e del lavoro comandato, non sono più gli stessi. Nel primo caso, infatti, il rapporto di prezzo è lCt=2Cv, nel secondo è \C t=(2+l/4)C v, o, in simboli, 1:2 * (l + l/3):3.

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Su questa e su altre difficoltà implicite nella teoria del valore-lavoro ritorneremo quando esamineremo le soluzio­ ni proposte da parte di Ricardo e di Marx. La teoria dei prezzi relativi basata sul costo di produzio­ ne. Nonostante non riuscisse a riconoscere tutte le difficol­ tà derivanti dall’applicazione della teoria del valore-lavoro a un’economia progredita, Smith percepì quanto bastava per respingere i criteri del lavoro contenuto e del lavoro comandato e per suggerire come teoria dei prezzi relativi più appropriata alle condizioni economiche del suo tempo una teoria basata sul costo di produzione. In quest’ultimo caso il valore di un bene dipende dalle remunerazioni ac­ cordate a tutti i fattori della produzione, e quindi anche al capitale e alla terra, oltre che al lavoro. Si noti che nel si­ stema di Smith il termine profitti include i profitti come li intendiamo oggi più gli interessi. Il costo totale per pro­ durre un castoro è allora uguale a salari, profitti e rendite, TC(Ct)=W (Ct)+P(Ct)+R(Ct), e ugualmente per il cervo sarà TC(Cv)=W(Cv)+P(Cv)+R(Cv). Il prezzo relativo di castoro e cervo può essere così ricavato dal rapporto TC(Ct)/TC{Cv). Là dove Smith assume costi medi costanti all’aumentare della produzione, questo calcolo fornisce gli stessi prezzi relativi sia che si usino i costi totali, sia quelli medi. Invece, là dove Smith assume costi medi variabili al variare della scala di produzione è pur vero che i prezzi dovrebbero dipendere sia dalla domanda che dall’offerta, tuttavia Smith pose l’accento, nella sua analisi della deter­ minazione dei prezzi naturali di lungo periodo, sul ruolo dell’offerta e del costo di produzione anche nel caso di cur­ ve di offerta non perfettamente elastiche. A suo parere il prevalere della concorrenza farebbe sì che l’interesse per­ sonale degli imprenditori, dei lavoratori e dei proprietari terrieri porti a prezzi naturali uguali ai costi di produzio­ ne. La figura 3.2 aiuta a riassumere le teorie del valore di Smith e alcune delle difficoltà che egli incontrò nella loro formulazione. Sul lato sinistro sono rappresentati i due diversi tipi di sistema economico (le economie primitive e quelle progredite) per i quali Smith cercò di spiegare come vengano determinati i prezzi relativi. Vi sono tre teorie del

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valore: quella del lavoro come costo (o del lavoro conte­ nuto) e quella del lavoro comandato, che sono applicabi­ li alle economie primitive, e quella basata sul costo di pro­ duzione, che invece è adatta per un’economia progredi­ ta. Il lato destro della figura riporta alcune considerazio­ ni teoriche connesse alla teoria del valore-lavoro, e spie­ ga perché Smith, Ricardo e Marx facessero così fatica a formularne una versione che si adattasse a un’economia progredita. Nel caso di un’economia primitiva il lavoro contenuto e il lavoro comandato danno gli stessi prezzi relativi. Nel caso di un sistema economico progredito invece il lavoro contenuto è minore del lavoro comanda­ to; ciò non crea particolari problemi nello sviluppo della teoria dei prezzi relativi fintantoché il costo del lavoro incide per la stessa percentuale sul prezzo finale per tutte le industrie (cervo e castoro nel nostro esempio), poiché in tal caso i prezzi relativi sono gli stessi per entrambe le teorie. Tuttavia quando il costo del lavoro nelle diverse in­ dustrie rappresenta quote diverse del costo di produzio­ ne complessivo le due teorie implicano differenti prezzi relativi. Si tratta di un problema che ha messo alla prova Ricardo, Marx e schiere di altri economisti, ma senza suc­ cesso: nel caso di un’economia moderna una teoria del valore-lavoro non rappresenta una misura soddisfacente dei prezzi relativi.

5. La teoria della distribuzione La distribuzione personale del reddito dipende dai prezzi e dalle quantità di fattori della produzione che sono vendute dai singoli agenti economici. La maggior parte delle persone possiede soltanto lavoro, così che il reddito di un individuo è generalmente legato al livello del saggio di salario orario e al numero di ore lavorate. Per chi inve­ ce possiede delle proprietà, il reddito corrispondente è in funzione della quantità di terra o capitale posseduta e del loro prezzo. Poiché salari, profitti e rendite, in un sistema economico, non sono altro che prezzi, i loro valori relativi

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Tipo di economia

Primitiva

Teorie del valore di Smith Costo del lavoro (lavoro contenuto): il prezzo dipende dal tempo di lavoro necessario per produrre il bene

Implicazioni

Costo del lavoro e lavoro comandato danno gli stessi prezzi relativi

Lavoro comandato: il prezzo dipende dalla quantità di lavoro che il bene può comandare Avanzata

Costo di produzione: il prezzo è la somma dei costi del lavoro, della terra e del capitale

Quando il costo del lavoro co­ stituisce la stessa quota propor­ zionale del prezzo finale, sia il costo del lavoro che il lavoro comandato danno gli stessi re­ lativi. Quando il costo del lavoro non costituisce la stessa quota del prezzo finale, il lavoro contenu­ to e il lavoro comandato danno luogo a prezzi differenti. Il costo del lavoro è minore del lavoro comandato.

F ig. 3.2. Le teorie del valore di Smith. Legenda: per economia primitiva si intende un’economia dove la terra è un bene libero e non esiste capitale; per economia avanzata si intende un’economia dove la terra e il capitale sono risorse scarse.

determineranno la distribuzione dei redditi al suo interno, unitamente alle quantità di terra, lavoro e capitale che ven­ gono portate sul mercato. In effetti, la distribuzione del reddito non era per Smith un problema di primaria impor­ tanza: possiamo tuttavia identificare nella sua opera parec­ chi spunti teorici, differenti e a volte contraddittori, su salari, profitti e rendite. La nostra trattazione si limiterà a menzionare quegli aspetti della sua analisi che anticipano le elaborazioni degli autori successivi, e che nel contempo possono darci un’idea delle sue intuizioni come dei suoi fraintendimenti.

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1 salari Le diverse teorie proposte da Smith per spiegare i salari possono essere rintracciate nell’ottavo capitolo del Libro I, dove egli abbozzò una teoria della sussistenza, una teoria della produttività, una teoria della contrattazione, una teo­ ria della rivendicazione residuale, e una teoria del fondosalari. Le contraddizioni tra tutte queste posizioni evidente­ mente non lo dovevano disturbare più di tanto, se in altre parti del suo libro troviamo persino una critica di alcune delle sue stesse posizioni. Ai nostri fini gli aspetti che meri­ tano un commento sono due. Innanzitutto Smith mise in chiaro che nel processo di contrattazione sul salario i lavoratori partono da una posi­ zione di svantaggio. Non solo i datori di lavoro sono mol­ to meno numerosi dei lavoratori, e questo permette loro di accordarsi più facilmente per rafforzare la propria posizio­ ne, ma la legge permette questa loro coalizione mentre proibisce ai lavoratori di costituirsi in sindacato: Smith osserva come vi siano molti atti legislativi che impedisco­ no un innalzamento dei salari, ma nemmeno uno che im­ pedisca una loro diminuzione. Inoltre i datori di lavoro possono contare su un’ampia disponibilità di risorse che consentono loro di sopravvivere anche quando non impie­ gano lavoro, come durante uno sciopero o una serrata, mentre «senza impiego molti lavoratori non potrebbero sussistere neppure per una settimana, pochi un mese, e quasi nessuno un anno»18. Questi passaggi sono importan­ ti perché in essi Smith indebolisce le sue stesse argomen­ tazioni circa il funzionamento «benevolente» dei mercati e sembra riconoscere la necessità di qualificare ulteriormen­ te la sua ipotesi di fondo sui mercati perfettamente con­ correnziali.

,s Ibidem, p. 155.

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La dottrina del fondo-salari Un secondo aspetto rilevante della trattazione smithiana dei salari è la versione da lui formulata della dottrina del fondo-salari, che divenne uno strumento di analisi im­ portante per gli economisti classici. Tale dottrina parte dal­ l’assunto che vi sia un fondo fisso di capitale destinato al pagamento dei salari, reso necessario dall’intervallo di tem­ po richiesto dal processo produttivo: tra il suo inizio e la vendita finale dei prodotti, infatti, è necessario che vi sia­ no delle merci, prodotte in precedenza, che i lavoratori possono usare per mangiare, per vestirsi e per tutte le altre necessità della vita. La fonte di questa massa di merci, o fondo-salari, è il risparmio dei capitalisti, ovvero ciò che essi non hanno consumato nei periodi precedenti. Dati allora il fondo-salari e la dimensione della forza lavoro, il loro rapporto determina il saggio di salario. Smith non sviluppò tutte le implicazioni di teoria e politica economi­ ca di questa dottrina, ma si limitò a suggerire, precorren­ do la teoria malthusiana della popolazione, che un aumen­ to del saggio di salario avrebbe comportato un aumento della popolazione e della forza lavoro, cosicché il salario sarebbe pian piano ricaduto al suo livello di partenza. Sul­ la dottrina del fondo-salari e sulla sua importanza per l’eco­ nomia classica ci soffermeremo più dettagliatamente nel corso del prossimo capitolo.I I profitti In un certo senso, il fatto che Smith abbia dedicato pochissimo spazio alla natura e all’origine dei profitti è cosa che desta meraviglia. Va ricordato tuttavia che un tale atteggiamento è comune tra gli economisti classici, che non si dedicarono a tentativi analitici consistenti in questa di­ rezione prima del 1820, quando divenne necessario dare una risposta alle critiche che venivano rivolte al profitto da parte dei primi esponenti del socialismo. Smith sembra accettare senza obiezioni di sorta la legittimità del profitto quale remunerazione per l’attività socialmente utile svolta

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dal capitalista, vale a dire per aver fornito ai lavoratori, durante il processo produttivo, i mezzi di sostentamento e i macchinari con cui lavorare. A loro volta i lavoratori tol­ lerano questa deduzione dall’output perché non hanno i materiali per lavorare e perché non sono in condizioni di mantenersi in modo indipendente. Il profitto è quindi vi­ sto come la risultante di due componenti: una remunera­ zione per il rischio sopportato, e una remunerazione a ti­ tolo di puro interesse. Non c’è dubbio che la brevità e l’incompletezza del­ l’analisi smithiana dei profitti hanno in qualche modo pre­ parato il terreno per l’emergere della teoria marxiana del­ lo sfruttamento. Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale o salario. Nello stato originario, che precede l’appropriazione della ter­ ra e l’accumulazione del capitale, l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Egli non ha né proprietario né padro­ ne con cui dividerlo19. Se dunque nell’economia primitiva il lavoratore veniva ricompensato con tutto il prodotto, nella società avanzata doveva ripartirlo con il capitalista e con il proprietario della terra. Il problema è che Smith non offrì una spiegazione del perché le quote spettanti ai profitti e alle rendite do­ vessero essere dedotte dal prodotto dei lavoratori, e dun­ que lasciò che il suo sistema si esponesse alle critiche di chi avversava il sistema economico capitalistico basato sulla proprietà privata. E un’omissione che d’altro canto passa inosservata a chi, come Smith, crede nell’esistenza di un’ar­ monia di fondo aH’interno del sistema economico. Le rendite Vi sono almeno quattro teorie smithiane sull’origine del­ la rendita, tutte in contraddizione tra di loro: 1) la doman­ da dei proprietari terrieri, 2) il monopolio, 3) i vantaggi dif­ 19 Ibidem , p. 152.

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ferenziali, 4) la generosità della natura. All’inizio della Ric­ chezza delle nazioni la rendita è vista come una delle deter­ minanti dei prezzi20, mentre nei capitoli successivi Smith inverte la direzione di causalità e anticipa Ricardo nel con­ siderare la rendita come determinata dai prezzi21. Un punto sul quale Smith si espresse con continua coerenza, invece, fu la critica, talvolta aspra, rivolta ai proprietari terrieri che «amano raccogliere dove non hanno mai seminato»22, e ciò induce a ritenere che Smith avvertisse quel conflitto di fon­ do, tra gli interessi dei proprietari e quelli dei capitalisti, che Ricardo avrebbe in seguito colto pienamente. Abbiamo così individuato un altro degli esempi nei quali Smith dimostra di aver riconosciuto che l’armonia di fondo che regna all’in­ terno del sistema economico è disturbata dall’esistenza di aree di conflitto tra i soggetti che lo popolano. L!andamento nel tempo del saggio di profitto L’idea di Smith che la crescita economica dipendesse dall’accumulazione del capitale spiega perché egli fosse interessato alla questione del comportamento nel tempo del saggio di profitto, pur avendo dedicato scarsa attenzio­ ne alla natura e all’origine del profitto stesso. Egli addusse tre ragioni per giustificare la previsione che il saggio di profitto sarebbe caduto nel corso del tempo. 1) La concorrenza sul mercato del lavoro. Spinti dall’ac­ cumulazione del capitale, i capitalisti si sarebbero fatti concorrenza sul mercato del lavoro provocando la crescita dei salari, cosa che a parere di Smith avrebbe spinto in basso i profitti. 2) La concorrenza sul mercato dei beni. Via via che l’out­ put fosse aumentato, i capitalisti avrebbero dovuto farsi concorrenza sul mercato dei beni, abbassando i prezzi di vendita e riducendo quindi i profitti. Si tratta di un aspet­ to che, d ’altro canto, implica la possibilità di un fenomeno

20 Ibidem, p. 135. 21 Ibidem, p. 251. 22 Ibidem, p. 135.

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di sovrapproduzione a livello dell’intera economia, una possibilità che era già stata esclusa dallo stesso Smith. 3) La concorrenza sul mercato degli investimenti. Stante l’opinione di Smith che esistesse solo un numero limitato di opportunità di investimento, un’accresciuta accumula­ zione di capitale avrebbe provocato profitti sempre mino­ ri. Si tratta di una convinzione supportata dall’esame del­ l’informazione storica a quel tempo disponibile sul trend secolare dei tassi di interesse. Va pure ricordato che Smith notò la possibilità di avere allo stesso tempo alti salari e alti profitti: questa era per esempio la situazione di alcune delle colonie del Nord America. 6 . Il benessere e il livello generale dei prezzi

Abbiamo già notato il fatto che nel discutere la teoria del valore Smith non riuscì a formulare delle teorie distinte per il benessere, per i prezzi relativi e per il livello generale dei prezzi. Ci occupiamo ora delle teorie che spiegano come misurare i cambiamenti di benessere nel tempo e quali sono i fattori che determinano il livello generale dei prezzi.Il Il quinto capitolo del Libro I Gli storici del pensiero economico hanno dovuto ingag­ giare una vera e propria lotta intellettuale con il contenuto del quinto capitolo del primo libro della Ricchezza delle nazioni, intitolato Prezzo reale e nominale delle merci, os­ sia loro prezzo in termini di lavoro e di moneta. Noi credia­ mo che in questo capitolo Smith abbia tentato di risolvere in un sol colpo parecchi problemi che, benché collegati tra di loro, creano solo confusione quando vengono conside­ rati contemporaneamente. Innanzitutto egli cercò di indi­ viduare i fattori che determinano il livello generale dei prezzi e il modo migliore di misurare i cambiamenti di benessere nel corso del tempo. Quest’ultima è la questio­ ne più difficile. Come si può infatti definire senza ambi­ guità il benessere in modo da poterne misurare i cambia­ menti? Supponiamo che in un’economia si produca un solo

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prodotto finale, il cervo. In questa economia il benessere potrebbe essere definito e misurato attraverso la quantità di cervo consumata: il consumo di una maggiore quantità rappresenterebbe un miglioramento di benessere sociale, quello di una minore quantità rappresenterebbe una dimi­ nuzione di benessere, o «malessere». Le cose si complica­ no quando introduciamo un secondo bene finale, il casto­ ro. In tal caso possiamo affermare senza possibilità di er­ rore che il benessere aumenta quando si consuma più cer­ vo e castoro e diminuisce quando si consuma meno di entrambi; ma non sappiamo dire cosa accade al livello di benessere quando, ad esempio, aumenta il consumo di castoro e diminuisce quello di cervo. Infatti il benessere di chi valuta molto il castoro aumenterà, mentre il benessere di chi valuta molto il cervo diminuirà. L’obiettivo di Smith consisteva dunque nel pervenire a una definizione e a una successiva misurazione del benessere per un sistema eco­ nomico dove si producessero due o più prodotti finali. Se si adotta la definizione per la quale il benessere coin­ cide con il consumo totale o con il prodotto della società, nel caso di un’economia multi-prodotto vi è un problema da risolvere a monte, cioè quello di come sommare tra loro l’output o il consumo di prodotti diversi (ad esempio ca­ storo e cervo). Una possibile soluzione a questo problema è la conversione di tutti i prodotti in un’unica unità di misura. Quando \Ct-2Cv, allora due castori in più e due cervi in meno nell’output totale rappresentano un miglio­ ramento di benessere, in quanto il nuovo output è aumen­ tato complessivamente di un castoro (oppure di due cer­ vi); ma la misurazione del benessere si complica se ammet­ tiamo che il prezzo relativo di castoro e cervo si modifica in seguito ai cambiamenti nell’output. In un’economia dove si producono molti prodotti i prezzi relativi sono espressi in una misura comune (nel gergo degli economi­ sti, il numerane)', solitamente tale unità di misura è data dall’unità di conto monetaria, ma in teoria, e a volte anche nella pratica, potrebbe essere rappresentata da un bene qualsiasi, ad esempio mucche, o grano, o oro. Nelle nostre economie l’output totale è misurato sommando il valore monetario di ciascun bene per ottenere quello che chiamia­ mo prodotto interno lordo. Se dunque il prodotto interno

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lordo aumenta da un anno all’altro, siamo autorizzati a pensare che sia aumentato anche il benessere? Misurare in questo modo i cambiamenti di benessere in un’economia multi-prodotto presenta delle difficoltà, poi­ ché l’unità di misura scelta, cioè la moneta come unità di conto, è a sua volta variabile con il livello generale dei prezzi: così facendo, il valore monetario dell’output può non rispecchiare fedelmente ciò che realmente è stato pro­ dotto. Smith pensò dapprima alla possibilità di utilizzare l’oro o l’argento come numerario, ma dovette concludere che si trattava di una misura altrettanto insoddisfacente, essendo il loro prezzo variabile. Quindi provò con il lavo­ ro, ma anche in questo caso trovò che il suo prezzo non era stabile nel tempo. Alla fine l’unica misura invariante di valore che riuscì ad identificare al fine di valutare i cam­ biamenti di benessere fu la disutilità del lavoro, posto che «uguali quantità di lavoro, in ogni tempo e luogo, possono essere considerate di ugual valore per il lavoratore»2’. Data questa conclusione sulla disutilità del lavoro come indice del benessere, è a sua volta agevolmente risolto an­ che il problema della misurazione dei cambiamenti di be­ nessere nel tempo. Prima si misurano i cambiamenti nel­ l’output totale in termini del loro valore monetario, poi si correggono tenendo conto delle variazioni nel livello gene­ rale dei prezzi in base all’andamento del prezzo dell’oro, o dell’argento, o del grano: in questo modo il reddito mone­ tario e i prezzi nominali vengono convertiti in reddito rea­ le e prezzi reali. Infine la variazione di benessere viene misurata confrontando l’ammontare di disutilità del lavo­ ro implicata dalla produzione dei diversi output. Ad esem­ pio, se il valore monetario della produzione aumenta del dieci per cento, e il livello generale dei prezzi misurato in base al prezzo dell’oro aumenta del dieci per cento, allo­ ra il valore reale dell’output non cambia. Il benessere in­ vece aumenta se la disutilità richiesta per produrre que­ sto stesso output diminuisce, o, detto più semplicemen­ te, se riusciamo a produrre la stessa quantità di prodotto impiegando meno lavoro: in questo caso infatti il benesse25 Ibidem, p. 114.

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re è dato dal maggior tempo libero a nostra disposizione. La misurazione del benessere è tuttavia molto più com­ plessa di quanto non pensasse Smith e per forza di cose la nostra trattazione non può soffermarsi su tutti gli aspetti che andrebbero considerati. Ad esempio Smith non discus­ se il problema di come definire o misurare la disutilità del lavoro, un concetto che comunque sembra essere del tutto soggettivo. E ancora, egli diede per scontato che disporre di quantità maggiori di beni è meglio che disporre di quan­ tità minori: si tratta di un’ipotesi che non è stata messa in discussione dagli economisti per almeno centocinquanta anni, e per la quale incrementi di output ottenuti senza aumenti di disutilità del lavoro sono da considerarsi in ogni caso come incrementi di benessere. Nella sua trattazione, in altri termini, non viene esaminato il problema di quali beni costituiscano il prodotto totale, per cui la crescita del prodotto aumenta automaticamente il benessere anche quando include beni che sono di dubbio beneficio per la società. Smith e gli economisti ortodossi che lo seguirono non considerarono infatti la «qualità della vita» risultan­ te da una maggiore produzione totale, e non diedero peso ai costi sociali dell’inquinamento e delle altre esternalità negative associate alla progressiva espansione della pro­ duzione. Riepilogo Il contributo dato da Smith al pensiero economico e l’influenza che vi esercitò sono impressionanti, soprattutto in quanto egli vide più di qualunque altro autore del suo tempo quali erano le idee guida e le forze principali che governano un’economia di mercato. Nella sua opera non mancano però problemi di interpretazione: ad esempio, Smith confuse se stesso e generazioni di economisti dopo di lui per non aver elaborato teorie separate e per non aver distinto con chiarezza tra prezzi relativi, livello generale dei prezzi e variazioni del benessere. Sul primo aspetto gli sto­ rici del pensiero economico non sono ancora sicuri se Smith avesse o meno proposto una teoria del valore-lavo­ ro: se questo significa una teoria dei prezzi relativi basata

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sul lavoro allora la risposta è sia positiva che negativa, in quanto ciò vale solo per un’economia primitiva, mentre per un’economia progredita la teoria suggerita è quella basata sul costo di produzione. Sul secondo aspetto l’opi­ nione di Smith è che il livello generale dei prezzi andasse misurato mediante il prezzo dell’oro, dell’argento, o del grano. Sull’ultimo punto egli formulò una teoria sogget­ tiva della disutilità del lavoro. Dobbiamo quindi conclu­ dere che Smith non accettò per una economia moderna e avanzata la teoria del valore-lavoro come spiegazione dei prezzi relativi: una volta che terra e capitale diventano beni economici, i prezzi naturali dipendono principal­ mente dai costi di produzione, vale a dire da salari, pro­ fitti e rendite. L’interesse primario di Smith era rivolto alla politica economica più appropriata a sostenere la crescita e lo svi­ luppo, o, più specificamente, a sostenere la ricchezza della nazione: su questo punto egli raccomandò l’adozione del laissez faire, che avrebbe a suo parere massimizzato il sag­ gio di crescita del reddito prò capite nell’economia. All’in­ terno di questa più ampia attenzione al problema dello sviluppo si situa anche la sua analisi del funzionamento dei mercati (quello che oggi verrebbe riferito agli aspetti mi­ croeconomici dell’economia): le argomentazioni a favore dell’efficacia del laissez faire vanno dunque lette non come fondate in primo luogo sull’efficienza nell’allocazione del­ le risorse, ma piuttosto per gli effetti positivi sulla crescita economica. In ogni caso le posizioni di politica economica erano di tipo contestualizzato, sia quando suggerivano il laissez faire, sia quando suggerivano l’intervento pubblico, ed erano fondate su un insieme di proposizioni teoriche e di osservazioni storiche concernenti gli individui, le impre­ se, i politici e le istituzioni. Questo rispecchia l’atteggia­ mento metodologico proprio di Adam Smith, ovvero non quello c|i un teorico puro ma quello di uno studioso che prestava attenzione anche ai fattori politici, storici ed isti­ tuzionali, e che non si limitava all’analisi dell’economia ma puntava anche alla formulazione di corrette misure di po­ litica economica. In tal modo Smith riconobbe che le pro­ posizioni mercantiliste di regolamentazione del commercio interno ed estero erano state pensate per arricchire la na-

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zione, ma concluse che erano male indirizzate e che era meglio affidare la crescita al libero esplicarsi delle forze di mercato. Si tratta di un atteggiamento per cui le conclu­ sioni di politica economica scaturiscono non solo da una struttura teorica, ma anche dall’applicazione dell’arte del­ l’economia. Nonostante la sua preoccupazione primaria per il pro­ blema dello sviluppo economico, di fatto il contributo più significativo dato da Smith alla teoria economica è la sua indagine sul funzionamento dei mercati concorrenziali. Nel corso di tale indagine Smith recuperò alcune delle intui­ zioni dei mercantilisti e dei fisiocratici e le rielaborò in un’unica opera, raggiungendo una maggiore precisione ri­ spetto a quegli autori. Il dettaglio della sua struttura anali­ tica servì poi come punto di partenza a Ricardo e agli eco­ nomisti successivi, come testimonia l’esempio della teoria del valore. Il ruolo di Smith, dunque, fu sì quello di un teorico dell’economia, ma comunque non dedito alla pura teoria, bensì applicato allo studio dell’economia politica: in que­ sto ruolo egli, da un lato, fu capace di elaborare una visio­ ne articolata dell’interdipendenza tra i settori di un’econo­ mia di mercato (sostenuta con materiale storico e descrit­ tivo), e, dall’altro, riuscì a condizionare gli indirizzi di po­ litica economica per almeno duecento anni. Dopo Ricar­ do, che ha invece rappresentato la prima grande figura di teorico puro, furono J.S. Mill e Alfred Marshall gli econo­ misti che maggiormente tentarono di riportare l’economia verso l’analisi e la politica contestualizzate proprie di Adam Smith. Tuttavia dopo Marshall, a parte qualche rara ecce­ zione, la posizione metodologica degli economisti ortodossi si è concentrata quasi per intero sull’astrazione, con po­ chissima attenzione alla dimensione storica e istituzionale. La posizione metodologica di Smith è stata dunque abban­ donata dalla moderna ortodossia, anche se paradossalmen­ te essa è stata mantenuta viva da parte degli scrittori ete­ rodossi che respingevano le sue posizioni di politica eco­ nomica improntate al laissez faire. A grandi linee, tre grandi sviluppi nell’analisi e nella politica economica possono essere identificati a partire dall’opera di Smith.

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1) I microeconomisti hanno cercato eli completare nel dettaglio la visione generale smithiana del funzionamento dei mercati. Questo è avvenuto in due modi: da un lato si è cercato un maggior rigore formale, dall’altro sono state sviluppate quelle parti dell’analisi che Smith non aveva trattato o aveva lasciato irrisolte, come lo sviluppo dal lato della domanda dell’analisi dei prezzi, la formulazione di una teoria per spiegare le forze che determinano la distri­ buzione del reddito e l’analisi dell’allocazione delle risorse nei mercati non concorrenziali. 2) La macroeconomia ha ricevuto scarsa attenzione dagli economisti ortodossi fino agli anni trenta di questo secolo, quando Keynes ripropose una delle preoccupazio­ ni tipicamente mercantiliste e cercò di spiegare le forze che determinano il livello del reddito e dell’occupazione. 3) La politica economica smithiana è rimasta praticamente intatta fino al ventesimo secolo, nonostante le criti­ che di Marx, di Veblen e di altri autori eterodossi. Fu solo con gli sviluppi teorici dell’economia del benessere e di alcune parti della teoria keynesiana e dopo eventi storici di grande portata (come le rivoluzioni socialiste che rove­ sciarono alcuni sistemi economici basati sulla proprietà privata e le severe depressioni che misero a dura prova le restanti economie di mercato) che si arrivò a respingere o a riesaminare le posizioni di Smith. La nostra attenzione ora si rivolge al secondo tra i gran­ di economisti classici, David Ricardo. Anch’egli, come Smith, era interessato soprattutto ai temi della macroeco­ nomia, tuttavia nello sviluppare la propria teoria della di­ stribuzione contribuì ad allontanare l’ortodossia economi­ ca dalla macroeconomia per più di un secolo.

Capitolo quarto

Ricardo e Malthus

Il fascino intellettuale di Ricardo, allora come oggi, sta nella sua eccezionale capacità di com­ piere astrazioni eroiche. Mark Blaug 1 . David Ricardo

Un vero teorico Il contributo teorico di David Ricardo (1772-1823), un agente di cambio convertitosi alla scienza economica, spa­ zia in parecchi campi dell’analisi, come la metodologia, le teorie del valore, il commercio internazionale, la finanza pubblica, i rendimenti decrescenti e la rendita. Egli si ap­ plicò allo studio dell’economia politica intorno al 1799, al­ l’età di circa ventotto anni, e nel 1810 pubblicò il suo pri­ mo pamphlet, L’alto prezzo dell’oro. Intorno al 1815 egli si schierò apertamente nella controversia sulle leggi del grano e i suoi saggi di quegli anni gli valsero la fama di uno dei più acuti economisti di Inghilterra, tanto che la sua opera principale, i Principi di economia politica e dell’imposta, pub­ blicata nel 1817, sostituì presto la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith come testo di riferimento sulle questioni eco­ nomiche. È alla terza e ultima edizione di quest’opera, pub­ blicata nel primo volume della edizione delle Opere curata da Piero Sraffa e Maurice Dobb, che ci riferiremo nel testo. Su Ricardo e sulle sue teorie è stato scritto moltissimo, e la mole di letteratura trova uguali solo in quella riguar­ dante Smith, Marx e Keynes. Nel 1951 l’edizione critica delle Opere di David Ricardo fu pubblicata in dieci volumi sotto l’esperta guida di Piero Sraffa e di Maurice Dobb: ci vollero venti anni perché quel progetto editoriale fosse completato, un progetto che rappresenta indubbiamente un monumento a uno degli economisti di maggior talento nella storia del pensiero economico. Inoltre, il recente

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riesame della sua opera da parte di Sraffa, di Samuel Hollander e di altri autori è il chiaro segno che Ricardo non smette di attirare ancora oggi l’attenzione degli studiosi. Il periodo tra la «Ricchezza delle nazioni» di Smith e i «Principi di economia politica» di Ricardo Fino alla pubblicazione dei Principi di economia politi­ ca e dell’imposta nel 1817, il pensiero economico inglese fu, di fatto, dominato dalla Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, che apparve nel 1776. Nei quattro decenni intercor­ si tra le due opere non si ebbe nessuna nuova teoria eco­ nomica, anche se dal punto di vista dell’analisi furono com­ piuti parecchi progressi. Thomas Robert Malthus (17661834) pubblicò un saggio nel 1798 e un libro nel 1803 sulla popolazione, e nel 1815 Edward West, Robert Torrens, Malthus e Ricardo pubblicarono dei saggi in cui discute­ vano il concetto della rendita e il suo significato economi­ co: le idee prodotte su entrambi questi argomenti entraro­ no così a far parte del corpo dell’economia politica classi­ ca. La nostra attenzione si concentrerà per prima cosa sul­ la tesi malthusiana della popolazione, poiché essa presenta aspetti che sono essenziali alla comprensione della teoria ricardiana. Volgeremo poi la nostra attenzione alla discus­ sione e alla valutazione dei principali contributi analitici di Ricardo, ivi inclusa la sua teoria della rendita, e infine ri­ torneremo a Malthus e alle sue idee, sviluppate nei Princi­ pi di economia politica (1820), circa la possibilità che il si­ stema economico raggiunga automaticamente il pieno im­ piego: un tema sul quale Malthus e Ricardo discussero vi­ vacemente in quella che è rimasta una delle controversie più accese nella storia delle idee economiche. 2. ha dottrina malthusiana della popolazione La teoria della popolazione come risposta intellettuale ai problemi del tempo La tesi principale di Malthus, quella per cui la popola­ zione tende a crescere più velocemente dell’offerta di ali­

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menti, non è a tutti gli effetti una sua creazione originale e può essere rintracciata già negli scritti di autori preceden­ ti, come Adam Smith e Benjamin Franklin. Tuttavia è il modo con cui egli trattò il problema della popolazione che ebbe un’influenza decisiva sul pensiero economico contem­ poraneo e successivo. Possiamo indicare tre fattori che spiegano come Mal­ thus fosse arrivato alla formazione della sua teoria. Il pri­ mo è la pressione della popolazione sull’offerta di cibo in Inghilterra: fino al 1790 l’Inghilterra era stata infatti del tutto autosufficiente, ma da quel momento in poi era stato necessario ricorrere all’importazione di prodotti alimenta­ ri, e questo ne aveva fatto notevolmente aumentare i prez­ zi. Il secondo è la consapevolezza deH’impoverimento pro­ gressivo delle classi a basso reddito. A mano a mano che la produzione nelle fabbriche soppiantava quella nelle case e la popolazione inglese si urbanizzava, diveniva sempre più evidente che con la dimensione delle città cresceva anche la miseria degli strati più poveri della popolazione. Il terzo fattore, che è all’origine della pubblicazione del primo sag­ gio sulla popolazione del 1798, riguarda una discussione tra Malthus e suo padre Daniel. Quest’ultimo subiva il fa­ scino delle posizioni utopiste dell’inglese William Godwin e del francese Marquis de Condorcet, i quali sostenevano sostanzialmente che il carattere di un individuo non è ere­ ditario ma modellato dall’ambiente in cui questi si trova a vivere. In particolare, Godwin avvertiva che la miseria, l’in­ felicità e il vizio nel mondo a lui circostante andavano imputati in primo luogo al governo, una posizione questa che gli valse l’appellativo di padre dell’anarchismo filoso­ fico. L’intento di Robert Malthus era dunque quello di dimostrare che le idee condivise da suo padre erano scor­ rette: per questo nella prima edizione del suo saggio sulla popolazione tentò di avvalorare la tesi che la povertà non era causata dalle istituzioni (cioè da fattori socio-politici), e che cambiare tali istituzioni non sarebbe servito a rimuo­ vere i mali della società. Di fatto il giovane Malthus si mise a scrivere solo perché incontrava una certa difficoltà a di­ scutere verbalmente con suo padre: furono poi alcuni amici, ai quali egli mostrò il saggio, a incoraggiarlo affin­

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ché lo pubblicasse (cosa che egli fece, in modo anonimo, nel 1798). La tesi sulla popolazione Il principio fondamentale espresso da Malthus nella prima edizione del suo saggio - ovvero che la popolazione tende a crescere con maggiore velocità dell’offerta di cibo - si fonda su due ipotesi: 1) che il cibo è necessario all’esi­ stenza dell’umanità; 2) che la passione tra i due sessi è al­ trettanto necessaria e quindi non potrà mai venire meno. Egli era convinto che gli esseri umani, a meno di efficaci misure di controllo demografico, si sarebbero moltiplicati in progressione geometrica (1, 2, 4, 8, 16, ...) laddove la velocità di crescita dell’offerta di cibo avrebbe seguito una progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 3, ...), e questa è, secon­ do Malthus, la vera causa della povertà e della miseria. Nella prima edizione del saggio queste posizioni non ven­ gono provate dal punto di vista statistico, né viene adotta­ to il principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura per giustificare l’impossibilità di incrementi significativi della produzione alimentare, benché l’autore riconoscesse che la -terra era disponibile in quantità limitata. In effetti tale prin­ cipio dei rendimenti decrescenti era già stato sviluppato da un economista francese, Turgot, nel 1765, ma dovette es­ sere riscoperto da West, Malthus, Torrens e Ricardo nel 1815, cioè diciassette anni dopo la prima edizione del sag­ gio di Malthus. Un ulteriore elemento che inficiava la tesi malthusiana era il mancato riconoscimento della possibili­ tà che lo sviluppo tecnologico potesse risolvere il problema del sostentamento della popolazione. La sua conclusione andava dunque nella direzione di controlli dello sviluppo demografico atti a mantenerlo in linea col saggio di crescita dell’offerta di alimenti. Di tali forme di controllo egli ne prese in esame alcune, con qual­ che differenza tra la prima edizione e le successive. Nella prima edizione erano postulati due tipi di controllo, uno positivo e uno negativo. I controlli di tipo positivo sono sostanzialmente incrementi del tasso di mortalità dovuti a guerre, carestie, malattie e ad altri tipi di eventi catastrofi­

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ci. Quelli di tipo negativo sono costituiti invece da dimi­ nuzioni del tasso di natalità, ottenute prevalentemente rin­ viando i matrimoni nel tempo: Malthus tuttavia commen­ tò che quest’ultima soluzione avrebbe comportato vizio, miseria e degrado, poiché avrebbe favorito le relazioni ses­ suali prematrimoniali. La conclusione era perciò che il cambiamento della struttura istituzionale non avrebbe ri­ mosso la miseria e il vizio presenti nella società, almeno finché gli uomini avessero avuto bisogno di cibo e finché l’appetito sessuale fosse stato intenso. Lo spettro della so­ vrappopolazione è dunque implicito nella tesi malthusiana e ciò indusse Thomas Carlyle a ribattezzare la scienza eco­ nomica come la scienza triste (dismal Science). La tesi malthusiana suscitò non poche controversie ed ebbe l’effetto di polarizzare l’attenzione intorno al proble­ ma della popolazione. Insoddisfatto della sua prima espo­ sizione, Malthus pubblicò nel 1803 una seconda edizione del suo saggio, apportando modifiche sostanziali tanto negli obiettivi di fondo e nel metodo di indagine, che nelle argomentazioni e nelle conclusioni. Invece di tentare una critica delle opinioni di suo padre, di Godwin e di Condorcet, si dedicò piuttosto ad articolare il problema della popolazione nel modo più scientifico possibile con i dati allora a disposizione, e alla metodologia interamente de­ duttiva propria della prima edizione sostituì un approccio più induttivo basato sull’evidenza statistica. Questo confe­ rì un carattere «scientifico» sia al tema in sé sia al metodo seguito nel trattarlo, ma le modifiche più interessanti ri­ guardano senz’altro il tipo di argomentazione e le conclu­ sioni. Mentre nella prima edizione i controlli demografici conducevano invariabilmente al vizio e alla miseria, ora ne viene considerato un nuovo tipo, basato su un freno di natura morale, per il quale il posticipare i matrimoni im­ plica l'esclusione di rapporti sessuali prematrimoniali. Ben­ ché questo distruggesse le sue posizioni antiutopiste, di fatto ormai esse —come abbiamo appena visto - non era­ no più al centro delle sue preoccupazioni teoriche. Dopo la seconda edizione il saggio sulla popolazione venne rivi­ sto altre cinque volte, ma con modifiche di poco conto; oggigiorno l’edizione disponibile è, appunto, la settima. La tesi malthusiana della popolazione soffre di nume­

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rose, e palesi, limitazioni. Come molti dei suoi contempo­ ranei, Malthus non ha mai discusso seriamente la fattibili­ tà dei controlli demografici tramite la contraccezione, ben­ ché questa sia la posizione sostenuta in tempi più recenti da molti cosiddetti neo-malthusiani. Egli inoltre confonde­ va il desiderio istintivo di relazioni sessuali con il desiderio di avere figli: se infatti la spinta sessuale è forte presso tut­ te le società, è pur vero che livelli crescenti di benessere e di istruzione tendono a introdurre una distinzione tra il desiderio sessuale in sé e la decisione di avere dei figli. Un’ulteriore difficoltà in Malthus è la sua ipotesi secondo cui la produzione di cibo non può crescere più velocemen­ te della popolazione, cioè la negazione già in linea di prin­ cipio della possibilità che uno sviluppo delle tecniche agri­ cole riuscisse a garantire aumenti della produzione alimen­ tare sufficienti a nutrire una popolazione sempre crescen­ te. Sarebbe tuttavia scorretto criticare in modo troppo se­ vero Malthus per questa omissione: in fin dei conti gli eco­ nomisti non hanno mai approntato una teoria che spiegas­ se il saggio di sviluppo tecnologico e perciò hanno sempre sottostimato, nei vari periodi storici, l’impatto della tecno­ logia sul sistema economico. Nonostante i suoi limiti, la tesi malthusiana della popo­ lazione ebbe comunque un’importante applicazione all’in­ terno della teoria e della politica economica classica: la dottrina del fondo-salari. Elaborata inizialmente da Smith e in seguito sviluppata da Ricardo e dai suoi allievi, in base alle prescrizioni di tale «dottrina» un incremento del sala­ rio reale avrebbe comportato un aumento della popolazio­ ne, che a sua volta avrebbe poi portato a una diminuzione del salario sino a che questo fosse ritornato al proprio li­ vello di partenza. Fu perciò argomentato che qualsiasi ten­ tativo di migliorare il benessere economico dei gruppi a basso reddito sarebbe stato vanificato da un aumento del­ la popolazione: per quanto sentimenti di umanità potesse­ ro indurre a invocare l’adozione di misure volte a innalza­ re il reddito dei lavoratori poveri, il corretto ragionamento economico ne dimostrava l’inutilità. In Inghilterra i tenta­ tivi di alleviare le condizioni delle fasce meno abbienti tra­ mite una apposita legislazione iniziarono verso il 1600 e gli storici dell’economia vi fanno riferimento come alle leggi

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sui poveri (Poor Laws). È proprio per attaccare le Poor Patos che la dottrina malthusiana della popolazione venne impiegata dagli economisti classici: essi la combinarono con la dottrina del fondo-salari e in questo modo svilup­ parono un’analisi dei saggi di salario che a volte è ricorda­ ta come la «legge ferrea dei salari». Il modello malthusiano ha avuto una risonanza e una diffusione tali che il suo creatore non avrebbe potuto lon­ tanamente immaginare. Basti dire che entrambi i naturali­ sti inglesi Charles Darwin e A.R. Wallace, che formularo­ no in modo indipendente la teoria oggi nota come teoria darwiniana dell’evoluzione, hanno riconosciuto l’influenza decisiva della teoria malthusiana sui loro modelli concet­ tuali. L’economista che più di ogni altro incorporò la teoria malthusiana della popolazione nell’economia politica clas­ sica fu David Ricardo. Prima di addentrarci nelle sue pro­ posizioni teoriche, è opportuno tratteggiare, almeno a grandi linee, la sua concezione circa lo scopo e il metodo della scienza economica. :

Q uadro 4.1.

«

La «gaia scienza» dell’economia politica L’occasione per un rinnovato interesse nei confronti della tesi malthusiana sulla popolazione è attualmente data dalla preoccu­ pazione per le aree sottosviluppate del pianeta e per i problemi di controllo dell’ambiente nelle economie sviluppate. Nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale era opi­ nione comune che i controlli sul saggio di crescita della popola­ zione avessero un senso solo nelle economie sottosviluppate. A partire dagli anni sessanta la preoccupazione si è estesa invece anche alle economie sviluppate, non a causa di un’insufficiente produzione alimentare ma per i danni ambientali provocati dal­ l’aumento della densità della popolazione. La terra era vista come una navicella spaziale che potrebbe già avere un numero di pas­ seggeri a bordo superiore a quello ottimale. A partire dagli anni ottanta nei paesi sviluppati è emersa una nuova forma di apprensione circa la popolazione: alcuni autori hanno dato l’allarme per ciò che potrebbe accadere alla crescita economica e alla situazione politica mondiale in seguito al ridursi

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del tasso di natalità in paesi come gli Stati Uniti. A differenza degli ambientalisti, che non smettono di invocare tassi di cresci­ ta minori, alcuni economisti suggeriscono la desiderabilità di un aumento della crescita della popolazione. Un economista americano, Julian Simon, nel suo libro People, thè Ultimate Resource1, ha sostenuto che la storia fornisce chiari esempi di popolazioni crescenti con un crescente consu­ mo prò capite. Questo sviluppo simultaneo non va interpretato come un fatto accidentale, ma come un evento reso possibile secondo Simon - dalla crescita tecnologica che è stata sensibil­ mente superiore a quella della popolazione: a suo parere, infat­ ti, lo sviluppo della tecnologia dipende dalle persone e se la po­ polazione cresce vi sarà un maggiore numero di persone e quin­ di un maggiore sviluppo tecnologico. Se è vera questa relazione, allora la crescita della popolazione non potrà mai essere considerata eccessiva. I rendimenti decre­ scenti saranno continuamente compensati dal progresso tecnolo­ gico e quindi l’economia politica sarà l’esatto opposto della «scien­ za triste» di Carlyle: una scienza felice, in tutto e per tutto. 1Julian Simon, The Ultimate Resource, Princeton, N.J., Princeton Uni­ versity Press, 1981.

3. Ricardo: il metodo, le motivazioni, lo scopo Il metodo di Ricardo L’approccio all’economia politica seguito da Adam Smith consisteva: 1) nell’utilizzare una teoria deduttiva per analizzare il sistema economico del suo tempo e 2) nel presentare una descrizione informale delle istituzioni sia passate che contemporanee. Si trattava quindi di un meto­ do che univa la teoria con il materiale storico-descrittivo. Dal canto suo Ricardo, per mezzo di un’analisi compietamente astratta dal sistema economico del suo tempo e fon­ data sul metodo deduttivo, rappresenta il tipico esempio di un teorico puro. Nonostante la sua strumentazione matematica non fosse molto raffinata, egli è ammirato an­ cora oggi per via della sua abilità analitica. Non ci si deve però limitare all’osservazione superficiale del suo metodo e concludere che egli fosse esclusivamente mosso da preoc­

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cupazioni di natura teorica, poiché l’economia ricardiana è anzi fortemente orientata alla politica economica. Ricar­ do era ben consapevole del problema che a quel tempo era scottante, vale a dire della questione delle tariffe sull’im­ portazione di grano e del loro effetto sulla distribuzione del reddito. Eppure egli era fermamente convinto che una trat­ tazione teorica costituisse un requisito necessario per po­ ter poi passare concretamente all’analisi delle questioni di politica economica proprie del mondo reale. Ricardo e la politica economica Ma quali erano i problemi più urgenti connessi al fun­ zionamento dell’economia al tempo di Ricardo? Si tratta­ va del prezzo del grano che continuava a salire; delle ren­ dite che parimenti mostravano una tendenz.a alla crescita; e infine del problema più generico ma comunque estremamente importante collegato ai mutamenti strutturali del­ l’economia inglese, vale a dire la crescita relativa dell’indu­ stria a spese dell’agricoltura. La trasformazione della strut­ tura dell’economia, oltre a esserne influenzata, aveva infatti ovvie implicazioni riguardo al peso politico degli interessi del settore manifatturiero piuttosto che di quello agricolo. Un punto cruciale comune a tutti questi problemi era la questione, tipicamente di politica economica, se il commer­ cio internazionale dovesse essere regolamentato oppure la­ sciato libero. Su questo punto i proprietari terrieri chiede­ vano la protezione del governo contro i prodotti esteri, mentre molti degli imprenditori, via via che espandevano la loro attività, invocavano una sempre maggiore libertà commerciale, specialmente in quelle industrie che godeva­ no di costi minori rispetto alle produzioni continentali e/o che avevano la possibilità di importare materie prime a costi inferiori rispetto alla produzione interna. L’approccio di Ricardo alla politica economica ebbe un’influenza notevole su quello degli economisti successi­ vi, e divenne in un certo senso il modello da imitare: in base a esso, per formulare una buona politica occorreva astrarre da tutti gli elementi che non fossero essenziali al­ l’analisi e costruire un modello rigorosamente teorico che

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ponesse in risalto i nessi causali tra le diverse variabili in esame. Per giungere a solide conclusioni teoriche potreb­ be anche essere necessario astrarre da alcune variabili, che verrebbero così «congelate», ma che potrebbero influire significativamente sui risultati qualora si utilizzasse tale modello teorico come base per la formulazione di misure di politica economica. Questo in effetti è il limite di un siffatto approccio, teorico e non contestualizzato, alla po­ litica economica: nel mondo reale accade spesso che que­ ste variabili si «scongelino» e producano risultati non pre­ visti. Nell’Introduzione abbiamo distinto tra economia posi­ tiva (o scienza dell’economia), economia normativa e arte dell’economia; e nel terzo capitolo abbiamo visto come Adam Smith fosse piuttosto confuso dal punto di vista ri­ gorosamente teorico, ma fosse un maestro nell’arte del­ l’economia. Le sue raccomandazioni di politica economi­ ca, infatti, non dipendevano solamente da conclusioni di natura teorica, ma erano pensate per il contesto in cui sa­ rebbero probabilmente state applicate, data la configura­ zione istituzionale allora osservabile. Ricardo, al contrario, era un pensatore molto acuto che avanzava raccomanda­ zioni di politica economica non contestualizzate, ovvero basate esclusivamente sul ragionamento teorico. Furono proprio questo metodo (altamente astratto) e questo ap­ proccio (non contestualizzato) a essere adottati e seguiti dal pensiero economico ortodosso. Una piena adesione non si ebbe però che nel corso del ventesimo secolo, dal momen­ to che su questi temi sia John Stuart Mill che Alfred Mar­ shall assunsero un atteggiamento decisamente più simile a quello smithiano (nonostante ciò che sostengono molti pensatori eterodossi, dalla scuola storica tedesca all’istitu­ zionalismo americano, per i quali perfino le analisi di Mill e di Marshall erano troppo astratte e troppo poco conte­ stualizzate). Attualmente vi sono due elementi tipici del metodo ricardiano che ancora sopravvivono: la teorizzazione astrat­ ta, che elimina per ipotesi talmente tante variabili che la conclusione finale risulta essere incontrovertibile; e l’ap­ proccio non contestualizzato alla politica economica, ba­ sato su modelli teorici. Per qualcuno si tratterebbe di

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un’eredità spuria, considerato che proviene da parte di un maestro della teoria, così come per altri una parte impor­ tante dell’arte dell’economia riuscirebbe ad astrarre dalla realtà e a formulare strategie di politica economica all’in­ terno di schemi concettuali non contestualizzati. Ma una rassegna della storia del pensiero e della politica economi­ ca, quale è la nostra, non può dare una risposta precisa alla complessità delle questioni che concernono il grado di astrazione e di analisi contestualizzata appropriati per ca­ pire l’economia e per formulare politiche economiche. Lo scopo della scienza economica secondo Ricardo L’opera di Ricardo rappresenta un punto di svolta a proposito della concezione del compito fondamentale del­ la scienza economica. Laddove Adam Smith condivideva la preoccupazione mercantilista per le forze che determi­ nano la ricchezza delle nazioni, l’obiettivo principale di Ricardo è quello della determinazione delle leggi che go­ vernano la distribuzione del reddito tra proprietari terrie­ ri, capitalisti e lavoratori. La determinazione delle leggi che regolano questa distribu­ zione è il problema principale dell’Economia politica: benché questa scienza sia molto progredita grazie agli scritti di Turgot, Stuart, Smith, Say, Sismondi e altri, questi ci informano in modo assai poco soddisfacente relativamente all’andamento naturale della rendita, del profitto e dei salari'. L’attenzione di Ricardo era dunque rivolta a ciò che ora è indicato come distribuzione funzionale del reddito, cioè alle quote relative del prodotto annuale che vanno al lavo­ ro, al capitale e alla terra. Giova ricordare che nella mo­ derna contabilità nazionale il reddito nazionale viene deii-1 1 David Ricardo, On thè Principles of Politicai Economy and Taxation, in The Works and Correspondence of David Ricardo, a cura di P. Sraffa con la collaborazione di M.H. Dobb, Cambridge, Cambridge University Press, 1951; trad. it. Principi di economia politica e dedi'imposta, in David Ricar­ do, Òpere, a cura di P.L. Porta, 2 voli., Torino, Utet, 1986-1987, voi. I, p. 165.

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nito come la somma dei pagamenti ai fattori della produ­ zione al prezzo dei fattori, e che la teoria economica mo­ derna analizza la distribuzione funzionale del reddito fa­ cendo spesso uso del concetto di funzione aggregata di produzione per l’economia. Benché lo studio della distri­ buzione funzionale del reddito non si adatti agevolmente alla divisione convenzionale tra teoria microeconomica e teoria macroeconomica, di solito esso viene ricompreso all’interno di quest’ultima. Quel che interessava a Ricardo era in particolare di mettere a fuoco i cambiamenti che avvenivano nel corso del tempo nella distribuzione funzionale del reddito sotto il profilo macroeconomico. Per affrontare questo problema egli prese come contesto di riferimento una società com­ posta da tre classi: i capitalisti, che ricevono profitti e inte­ ressi; i proprietari terrieri, che ricevono rendite; e i lavora­ tori, che ricevono salari. Per poter spiegare i cambiamenti nelle quote di queste tre classi era quindi necessario ela­ borare una teoria che spiegasse i profitti, le rendite e i sa­ lari, e, al pari di Smith, sviluppare una descrizione dell’eco­ nomia che avesse un taglio microeconomico (sebbene poi Ricardo affrontasse molte altre questioni tipicamente ma­ croeconomiche, come la teoria della popolazione, la dot­ trina del fondo-salari, la dimensione della forza lavoro, il livello generale dei prezzi e la stabilità del sistema econo­ mico nel breve e nel lungo periodo). L’interesse per le de­ terminanti del cambiamento nel tempo delle quote distri­ butive lo spinse a esaminare in modo particolare le forze che provocavano la modifica nel tempo dei prezzi relativi, nonostante che la sua preoccupazione principale fosse in­ vece quella degli effetti dei cambiamenti delle quote sul tasso di accumulazione del capitale e sulla crescita econo­ mica. L’aver indirizzato l’indagine economica successiva verso temi microeconomici piuttosto che macroeconomici era dunque esattamente all’opposto delle sue intenzioni. Per un verso, la sua minuziosa discussione della teoria del valore-lavoro divenne il punto di partenza per gli sforzi fatti in seguito al fine di spiegare la formazione dei prezzi relativi; per altro verso, invece, la vittoria di Ricardo nei confronti di Malthus circa la questione macroeconomica della stabilità dell’economia precluse per quasi un secolo

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alla teoria economica ortodossa la possibilità di sviluppare ulteriormente l’importante dibattito che si era svolto tra questi due autori in merito a tale questione. 4. Il modello ricardiano Una panoramica Nel modello ricardiano vi sono tre grandi gruppi di soggetti economici: i capitalisti, i lavoratori e i proprietari terrieri. I primi assolvono alle funzioni fondamentali del­ l’attività economica, dal momento che sono i produttori, i dirigenti e i soggetti più importanti in quanto: 1) contri­ buiscono ad allocare le risorse in modo efficiente spostan­ do i loro capitali laddove questi possono rendere maggior­ mente e quindi nei settori dove la domanda dei consuma­ tori (in condizioni di concorrenza perfetta) viene soddisfat­ ta al minor costo sociale possibile; 2) mediante il loro ri­ sparmio e i loro investimenti si collocano all’origine della crescita economica. I lavoratori hanno invece un ruolo essenzialmente pas­ sivo, e questo malgrado Ricardo sposasse una teoria del costo del lavoro per illustrare le variazioni nel tempo dei prezzi relativi. Per spiegare il salario reale egli si affida alla dottrina del foitdo-salari e alla teoria malthusiana della popolazione: in questo caso dunque salario reale = fondo-salari / forza lavoro. La dimensione del fondo-salari è data dall’accumulazio­ ne del capitale, mentre la dimensione della forza lavoro è regolata dal principio malthusiano. Se il fondo-salari au­ menta in seguito all’accumulazione, allora nel breve perio­ do cresceranno anche i salari reali; ma questo farà poi au­ mentare la popolazione e la forza lavoro, fino a che si rag­ giunga l’equilibrio di lungo periodo dove i salari reali sono ritornati al loro livello di sussistenza (definito in termini socioculturali). Vi è infine la classe dei proprietari terrieri che nel siste­ ma ricardiano sono rappresentati come veri e propri paras­

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siti, come risulterà chiaro quando tratteremo della teoria della rendita. Per Ricardo la curva di offerta della terra è perfettamente inelastica e il costo opportunità sociale del­ la terra è pari a zero. I proprietari terrieri ricevono il loro reddito, cioè la rendita, semplicemente per il possesso che hanno di uno dei fattori della produzione, ma senza svol­ gere alcuna funzione socialmente utile. Come in tutti gli economisti classici vi è dunque in Ricardo la critica delle abitudini di spesa dei proprietari terrieri, che invece di ri­ sparmiare e accumulare capitale - così da aumentare l’of­ ferta di beni capitali nell’economia - sperperano tutto in consumi mettendo così a repentaglio la crescita e lo svilup­ po dell’emergente società industriale. La relazione che intercorre tra questi tre gruppi e la crescita della ricchezza della nazione è la seguente: il pro­ dotto totale, o reddito lordo, viene distribuito ai lavorato­ ri, ai capitalisti e ai proprietari terrieri; in particolare, la parte che non è impiegata per pagare il salario di sussisten­ za e per rimpiazzare i beni capitali esauriti nel processo produttivo viene definita come reddito netto, o sovrappiù: reddito lordo —(salari di sussistenza + deprezzamento) = reddito netto. Esso consiste dunque nella somma dei profitti, delle rendite e della quota dei salari al di sopra del livello di sussistenza: nell’equilibrio di lungo periodo, dove i salari sono al loro livello di sussistenza, il reddito netto è quindi uguale semplicemente alla somma dei profitti e delle ren­ dite. Dal momento che i lavoratori e i proprietari terrieri spendono il loro reddito interamente in consumi, i profitti sono l’unica possibile fonte di risparmio e, quindi, di ac­ cumulazione di capitale. Attraverso la sua teoria della ren­ dita Ricardo giunse alla conclusione che se i profitti fosse­ ro calati e le rendite aumentate, nel corso del tempo sareb­ be avvenuta una redistribuzione del reddito a favore dei proprietari terrieri che avrebbe conseguentemente condot­ to alla riduzione del saggio di crescita del sistema econo­ mico.

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II problema scottante di quel tempo: le leggi sul grano Alcune delle questioni economiche più interessanti al­ l’inizio del diciannovesimo secolo riguardavano le conse­ guenze delle leggi sul grano, una serie di provvedimenti che imponevano tariffe sull’importazione del grano verso l’In­ ghilterra (con l’esclusione del grano proveniente dall’Ame­ rica e dall’India). L’interesse del pubblico su tali leggi era motivato dalla preoccupazione crescente per la pressione esercitata dalla popolazione sull’offerta di cibo. I prezzi dei prodotti alimentari, le rendite e il valore dei terreni cresce­ vano con regolarità, e l’indice più evidente di questa situa­ zione, a cui si guardava con apprensione, era il prezzo del grano. Nella sua Storia delle teorie della produzione e della distribuzione nell’economia politica inglese dal 1776 al 1848 Edwin Cannan riporta i seguenti prezzi medi (espressi in scellini per quarto di tonnellata): 1770-1779 1780-1789 1790-1799 1800-1809 1810-1813

45 scellini 45 scellini 55 scellini 82 scellini 106 scellini

Il prezzo più alto fu raggiunto nel 1801, quando il gra­ no fu venduto per 177 scellini ogni quarto di tonnellata*2*. Per comprendere appieno la controversia sulle leggi sul grano è importante collocarla nel contesto storico delle guerre napoleoniche. In tale periodo l’agricoltura inglese era infatti stata protetta in modo artificioso dal grano che proveniva dal continente, e questo fatto, insieme alla inca­ pacità di raggiungere l’autosufficienza alimentare dopo il 1790, aveva determinato l’innalzamento del prezzo del gra­ no e delle rendite. Quando (nel 1802) venne concluso il Trattato di Amiens i proprietari terrieri e gli agricoltori inglesi si rivolsero al Parlamento chiedendo protezione, 2 Edwin Cannan, A History of thè Theories of Production and Distribution in English Politicai Economy from 1776 to 1848, London, D.S. King and Son, 19175; trad. it. Storia delle teorie della produzione e della distribuzione nell’eco­ nomia politica inglése dal 1776 al 1848, a cura di M. Pivetti, Milano, Isedi, 1975, p. 162.

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poiché temevano le conseguenze della pace sui prezzi. Le leggi allora vigenti erano state approvate nel 1791 e stabi­ livano il limite minimo del prezzo del grano a 50 scellini; nel 1803 esso venne quindi spostato a 63 scellini, con un provvedimento che non suscitò molte controversie o di­ scussioni. Dopo un anno di pace, però, le guerre ripresero fino al 1813, l’anno in cui Napoleone venne sconfitto e gli interessi del settore agricolo si fecero nuovamente sentire in Parlamento, riproponendo la questione dell’appropria­ to livello dei dazi all’importazione. Questa volta la richiesta dei proprietari terrieri, che puntavano a un limite di 80 scellini per quarto di tonnella­ ta, suscitò un notevole dibattito, durante il quale Ricardo, Malthus, Torrens e West esposero le loro conclusioni. La questione assunse parecchia rilevanza pubblica anche per via della forte opposizione agli interessi del settore agrico­ lo che si andava sviluppando sia dentro che fuori dal Par­ lamento. Vennero allora nominate commissioni di studio da parte di entrambi i rami del Parlamento, le quali nel corso delle loro audizioni finirono per coinvolgere molti gruppi nella controversia e terminarono i loro lavori nel 1814 con la pubblicazione di un rapporto, divenuto famo­ so, dal titolo Rapporto parlamentare intorno al grano e alle leggi sul grano. A quell’epoca un modo diffuso di raggiun­ gere il pubblico era quello di pubblicare dei pamphlet, e proprio tra i più notevoli nello spiegare l’incremento dei prezzi del grano e delle rendite troviamo quelli di Ricardo, West, Torrens e Malthus. Vi erano diverse argomentazioni sulle quali Ricardo non si trovava d’accordo: una era quella per cui tariffe più alte avrebbero provocato prezzi più bassi, perché avrebbero incoraggiato gli investimenti nell’agricoltura e, quindi, l’au­ mento della quantità prodotta e offerta sul mercato; un’al­ tra era quella per cui alti prezzi del grano erano la conse­ guenza delle rendite elevate e quindi queste ultime anda­ vano viste come determinanti dei prezzi, mentre per Ricar­ do la relazione era esattamente l’inversa e le rendite dove­ vano quindi considerarsi come determinate dai prezzi. In effetti egli comprese lucidamente che la questione fondamentale legata alle leggi sul grano era quella della distri­ buzione del reddito: tariffe più elevate avrebbero infatti

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spostato la distribuzione a favore dei proprietari terrieri. Poiché la trattazione data da Smith delle forze che deter­ minano la distribuzione non era soddisfacente, Ricardo si assunse l’onere di reindirizzare la scienza economica verso questo problema. Strumenti analitici e ipotesi Per poter trattare le numerose questioni di politica eco­ nomica legate alla controversia sulle leggi sul grano, Ricar­ do sviluppò un modello teorico assai raffinato ed esausti­ vo, e nel far ciò adottò una serie di strumenti analitici e di ipotesi sulle quali vale la pena soffermarsi e acquisire una certa dimestichezza. Per comodità le abbiamo sintetizzate nella tabella 4.1. 1) Una teoria del costo del lavoro, in base alla quale le variazioni dei prezzi relativi nel corso del tempo sono spie­ gate da quelle nel costo del lavoro misurato in ore. 2) La neutralità della moneta, per cui variazioni nell’of­ ferta di moneta avrebbero potuto comportare variazioni sia del livello assoluto dei prezzi che dei prezzi relativi. A Ri­ cardo, tuttavia, interessavano le variazioni dei prezzi rela­ tivi diverse da quelle causate dalle variazioni dell’offerta di moneta, e quindi fece nel suo modello l’assunzione che quest’ultima non avrebbe influenzato i prezzi relativi. 3) Coefficienti di produzione fissi per il lavoro e per il capitale. In questo modo può essere impiegata una sola combinazione di lavoro e capitale per produrre un dato output. Se una persona con un badile può spalare tre me­ tri cubi di terra al giorno, allora per aumentare il prodotto giornaliero, man mano che si aggiunge lavoro, occorre ag­ giungere capitale (cioè badili) secondo una proporzione fissa. In altre parole, il rapporto capitale-lavoro è fisso in base a considerazioni tecnologiche per qualsiasi tipo di produzione e non varia al variare dell’output. 4) Rendimenti costanti nel settore manifatturiero e ren­ dimenti decrescenti in quello agricolo. Le curve di offerta nel primo caso sono orizzontali, o perfettamente elastiche (i costi marginali non cambiano all’aumentare dell’output), e sono inclinate positivamente nel secondo caso (i costi

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marginali aumentano con l’output). 5) Piena occupazione, ossia l’ipotesi che l’economia ten­ da automaticamente, nel lungo periodo, verso la piena occupazione delle risorse. 6) Concorrenza perfetta, per la quale il mercato è for­ mato da tanti produttori indipendenti che vendono pro­ dotti omogenei e che non sono in grado di influenzare il prezzo di equilibrio. 7) I soggetti economici sono visti come individui razio­ nali e calcolatori: i capitalisti cercano di raggiungere il maggior tasso possibile di profitto, i lavoratori i salari più alti e i proprietari terrieri le rendite più elevate possibili. L’interazione di tali gruppi all’interno di mercati perfetta­ mente concorrenziali garantisce il raggiungimento di un saggio di profitto uniforme per investimenti di rischio ana­ logo, di livelli di salario uniformi per lavoratori con le stes­ se abilità ed esperienza, e di un livello comune di rendita per terre dotate della stessa fertilità. 8) ha tesi malthusiana sulla popolazione, per la quale la popolazione tende a crescere più velocemente rispetto alla produzione alimentare. 9) La dottrina del fondo-salari, che prevede che il sag­ gio di salario sia uguale al fondo-salari diviso per la dimen­ sione della forza lavoro.5 T ab . 4.1. Strumenti analitici e ipotesi adottate da Ricardo

1. Teoria del costo del lavoro 2. Neutralità della moneta 3. Coefficienti di produzione fissi 4. Rendimenti costanti nel settore manifatturiero e rendimenti decrescenti nel settore agricolo

5. Piena occupazione 6. Concorrenza perfetta 7. Soggetti economici 8. Tesi malthusiana sulla popolazione 9. Dottrina del fondo-salari

5. La teoria ricardiana della rendita I rendimenti decrescenti Nel trattare dal punto di vista analitico le questioni le­ gate alla controversia delle leggi sul grano Ricardo, Torrens, West e Malthus formularono il principio dei rendi-

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menti decrescenti, una nozione divenuta in seguito di pri­ maria importanza. Di fatto il primo ad avere scoperto tale principio sembra sia stato l’economista francese Turgot nel 1765; esso inoltre venne toccato dallo scozzese Anderson intorno al 1777 nel trattare del margine estensivo, tuttavia si può dire che nel 1815 avvenne una «riscoperta» ad ope­ ra di questi quattro autori. Il principio dei rendimenti decrescenti afferma che se un fattore della produzione viene progressivamente au­ mentato mentre gli altri fattori restano costanti, il tasso di incremento del prodotto totale è via via minore. Come abbiamo visto, una delle ipotesi di Ricardo era che dal punto di vista tecnologico i coefficienti di produzione del­ la terra e del capitale fossero fissi. Nei suoi esempi si assu­ me dunque una quantità fissa di terra a cui vengono ag­ giunte man mano diverse unità di lavoro e di capitale, e si suppone che i rendimenti decrescenti si applichino imme­ diatamente, cosicché il prodotto marginale della seconda unità di lavoro e capitale è già minore di quello della pri­ ma unità. ha rendila vista dal lato del prodotto Avendo come obiettivo principale quello di spiegare l’andamento di lungo periodo delle quote di prodotto to­ tale ricevute da proprietari terrieri e capitalisti, un punto cruciale della teoria ricardiana è la distinzione tra rendita e profitto. Ovviamente si tratta di una distinzione più faci­ le a farsi nella teoria che nella pratica: Ricardo stesso rico­ nosceva l’imprecisione nell’uso corrente di questi termini. Quando un imprenditore agricolo paga al proprietario della terra una somma per poterla utilizzare, questo paga­ mento nella pratica degli affari viene chiamata rendita; tuttavia il pagamento contiene con ogni probabilità sia ele­ menti di rendita che di profitto, come accade nel caso in cui siano state apportate delle migliorie. Se ad esempio il terreno viene recintato, o bonificato, oppure se su di esso vengono costruiti degli edifici, allora la cosiddetta rendita rappresenterà, almeno parzialmente, un rendimento che va al proprietario in seguito a tali investimenti.

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Per Ricardo vi sono due ragioni che spiegano resisten­ za della rendita: 1) la scarsità di terra fertile; 2) la legge dei rendimenti decrescenti: se quindi la terra di buona qualità esistesse in quantità molto più abbondante di quanto basta alla produzione di alimenti per una popolazione crescente, o se il capitale potesse essere impiegato indefinitamente sulla terra vecchia senza che ne diminuisca il rendimento, la rendita non potrebbe aumentare; infatti la rendita proviene invariabilmente dall’impiego di una ulteriore quantità di lavoro con un rendimento proporzionalmente minore3. Ricardo considerava dunque la rendita un pagamento al proprietario della terra tale da eguagliare il saggio di profitto su terre di fertilità differente. Nella figura 4.1 si assume che vi siano due appezzamenti di terreno a cui vengano applicati lavoro e capitale: sulla terra migliore si ottiene un prodotto fisico totale di 100 quintali di grano, mentre su quella meno fertile il prodotto è di 90 quintali.

Margine estensivo della terra Fig . 4.1. La rendita ricardiana.

J Ricardo, Principi di economia politica e dell’imposta, cit., p. 227.

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In un mercato concorrenziale il saggio di profitto deve essere uguagliato per i due appezzamenti. Un agricoltore che lavora sulla terra di qualità B sarebbe disposto a paga­ re una rendita al proprietario della terra di qualità A per poterla utilizzare: qualsiasi livello di rendita inferiore ai 10 quintali di grano genererebbe un profitto dalla coltivazio­ ne di A superiore a quello che viene dal coltivare B. Quin­ di la rendita sulla terra di qualità A finirà per essere pari a 10 quintali e la rendita sulla terra di qualità B sarà nulla. Per poter afferrare più saldamente questo concetto, proviamo a estendere la nostra analisi a terre di tre qualità diverse, e a introdurre, nello stesso tempo, la nozione di margine intensivo e margine estensivo. A questo scopo as­ sumiamo che alla terra di qualità A vengano applicate tre unità di lavoro e capitale, due unità alla terra di qualità B, e una unità alla terra di qualità C: i prodotti marginali dei tre appezzamenti sono riportati nella tabella 4.2.Il

T ab.4.2. M arg in e ta li)

in te n siv o e m arg in e e sten siv o (prodotti m a rg in a li e sp re ssi in q u in ­

Margine estensivo

Margine intensivo

Terra A

Terra B

Terra C

100 90 80

90 80

80

Il margine intensivo illustra l’effetto dell’applicazione di unità successive di lavoro e di capitale su un dato appez­ zamento di terra. Se si applica una sola unità alla terra di qualità A, si ottengono 100 quintali di grano; se ne viene applicata una seconda il prodotto totale è di 190 quintali e il prodotto marginale di questa seconda unità è di 90 quin­ tali, e così via. Esso illustra quindi il principio dei rendi­ menti marginali decrescenti, che nel nostro esempio si as­ sume operativo fin dalla prima unità applicata. Man mano

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che il prodotto marginale sulla terra di qualità A diminui­ sce, aumenta la convenienza a usare terre di qualità infe­ riore nella produzione. Lo spostamento dalla terra di qua­ lità A a quella di qualità B, ad esempio dalla pianura, più fertile, alla collina, rappresenta il margine estensivo. Se nel nostro esempio non avessimo introdotto i rendimenti de­ crescenti, l’appezzamento B non sarebbe mai stato messo a coltura, dato che il prodotto marginale iniziale su A è il massimo ottenibile con una unità di lavoro e capitale, e allo stesso modo C non sarebbe mai stato utilizzato in assenza di rendimenti decrescenti su A e B. Alla fine i prodotti marginali dell’ultima unità di lavoro e capitale applicata ai terreni di ogni qualità dovranno essere uguali, altrimenti vi sarebbe convenienza a spostare la produzione sulla terra con il prodotto marginale più alto. Per comprendere la nozione ricardiana possiamo ora misurare la rendita di queste terre: se essa è il pagamento al proprietario che uguaglia i saggi di profitto per i diversi appezzamenti, la rendita sulla terra di qualità A è 30 quintali, quella sulla terra di qualità B è 10 quintali e quella sulla terra di qualità C è zero. 11 processo concor­ renziale che conduce a tale risultato è il seguente. Se si applicasse una singola unità di lavoro e capitale a tre ap­ pezzamenti di qualità C si otterrebbe un prodotto com­ plessivo di 240 quintali; mentre tre unità di lavoro e ca­ pitale su un appezzamento di qualità A renderebbero 270 quintali (100+90+80). Il prezzo (cioè la rendita) della ter­ ra A pertanto crescerà per via della concorrenza che si fa­ ranno gli agricoltori per assicurarsela, fino a che esso arri­ verà a 30 quintali di grano, che è il prezzo che uguaglia il profitto sulle terre di diversa qualità. Lo stesso ragiona­ mento mostra che la rendita per la qualità B sarà 10 quin­ tali (170-160). Un modo alternativo di misurare la rendita su un dato appezzamento di terreno è quello di calcolare le differenze tra il prodotto marginale di un’unità di lavo­ ro e capitale al margine intensivo, e i prodotti marginali delle unità precedenti, o intramarginali. Si conferma così che nel nostro esempio la rendita per la terra di qualità A è 30 quintali [( 100-80)+(90-80)] e quella sulla terra di qua­ lità B è 10 quintali (90-80).

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La rendita vista dal lato dei costi Giunti a questo punto è interessante esaminare il con­ cetto di rendita dal punto di vista dei costi di produzione, piuttosto che da quello delle quantità prodotte. Nel nostro esempio precedente si è visto che i rendimenti marginali sulla terra di qualità A diminuiscono con l’aumentare del­ le unità di lavoro e capitale che vi vengono applicate. Questo può anche essere detto in un altro modo, ovvero che i costi marginali della produzione di grano aumentano man mano che la terra è messa a coltura in modo più in­ tensivo. Il costo marginale si definisce come l’incremento nel costo totale che deve essere sostenuto per poter pro­ durre un’unità addizionale di prodotto finale. Supponiamo che il prezzo di mercato di un’unità di lavoro e capitale sia di 100 dollari: in questo caso il costo marginale per pro­ durre il centesimo quintale di grano sulla terra di qualità A è 1 dollaro (ossia la variazione nel costo totale di 100 dollari divisa per la variazione nel prodotto totale di 100 quintali). Con l’abbassarsi del margine intensivo i costi marginali aumentano: quello del centonovantesimo quin­ tale è 1,11 dollari (100/90) e quello dell’ultimo quintale è 1,25 dollari (100/80). Quest’ultimo è lo stesso costo mar­ ginale dell’ultimo quintale prodotto sulle terre B e C, come è evidente se si suppone che esista un mercato perfetta­ mente concorrenziale. Perciò quanto più grano viene pro­ dotto su A, tanto più il costo marginale cresce e la produ­ zione si sposta su B (dove il costo marginale è più basso). Se alla fine i costi marginali dell’ultima unità di output sui terreni di diversa qualità fossero diversi, vi sarebbe conve­ nienza a ridurre il costo totale della produzione spostando appropriatamente il lavoro e il capitale da una terra all’al­ tra. Nell’equilibrio di lungo periodo dunque, allorché i prodotti marginali in termini fisici sono uniformi sulle di­ verse terre, al margine i costi marginali devono essere ugua­ li per definizione. Il vantaggio di esaminare la rendita dal punto di vista dei costi è quello di poterla misurare non in quintali di grano ma in denaro. Per poter calcolare il valore della ren­ dita in dollari, però, dobbiamo prima determinare il rica­ vo totale dalla vendita di grano e i costi di lavoro e capita­

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le che vanno sostenuti per produrre sui diversi appezza­ menti. Nel caso della terra di qualità A il ricavo totale è 337,5 dollari, ottenuto moltiplicando il prodotto (270 quin­ tali) per il prezzo del grano (1,25 dollari al quintale). Come si fa a conoscere il prezzo del grano? Sappiamo che nei mercati concorrenziali può esistere un solo prezzo: se un agricoltore vende a prezzi inferiori degli altri, questi ultimi non venderanno nulla finché non abbassano a loro volta il prezzo, e la concorrenza tra i venditori garantisce che alla fine si converga verso un unico prezzo, quello che egua­ glia il costo marginale del grano prodotto nel modo meno efficiente. Nei mercati concorrenziali le curve di offerta delle singole imprese sono le loro curve di costo margina­ le, mentre la curva di offerta dell’industria è la somma delle curve di offerta delle singole imprese. Avendo già visto poc’anzi che il costo marginale per produrre l’ultima unità di grano su ciascuna terra è 1,25 dollari al quintale, la con­ clusione è che questo è il prezzo di mercato. Tale princi­ pio, per cui il prezzo dipende dal costo marginale dell’ul­ tima unità prodotta dal produttore meno efficiente, è espresso da Ricardo nel modo seguente: il valore di scambio di tutte le merci, siano esse manufatte, pro­ dotto delle miniere o della terra, non è mai regolato dalla minor quantità di lavoro sufficiente a produrle in circostanze partico­ larmente favorevoli, godute soltanto da coloro che hanno parti­ colari facilitazioni; ma nella maggior quantità di lavoro che co­ loro che non godono di particolari facilitazioni devono necessa­ riamente impiegare per produrle, cioè dal lavoro impiegato nel­ le circostanze più sfavorevoli; e per circostanze più sfavorevoli intendo le più sfavorevoli che si devono affrontare per produr­ re la quantità di prodotto richiesta4. Il ricavo totale della terra A, cioè prezzo per quantità, è dunque 337,5 dollari (1,25 dollari X 270 quintali). Il co­ sto totale per il lavoro e il capitale, dato che vengono im­ piegate tre unità al prezzo di 100 dollari l’una, è 300 dol­ lari. A questo punto si può calcolare la rendita, che è la dif­ ferenza tra ricavi e costi: nel nostro caso 37,5 dollari. Sul 4Ibidem, p. 227.

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terreno B essa sarà invece 12,5 dollari, poiché il ricavo totale è 212,5 dollari (1,25 dollari X 170 quintali), mentre il costo di lavoro e capitale è 200 dollari. Sulla terra C la rendita è zero, poiché il ricavo totale di 100 dollari (1,25 dollari X 80 quintali) è esattamente uguale al costo di un’unità di lavoro e capitale. Il calcolo della rendita in dollari contribuisce a illustra­ re e a chiarire quel che si era detto in precedenza, dove si è definita la rendita come quel pagamento al proprietario terriero che rende uguale il saggio di profitto sulle terre di diversa qualità. Supponiamo che il costo di 100 dollari per un’unità di lavoro e capitale consista per 75 dollari di costi di lavoro. Si può dimostrare che se le terre A e B non rice­ vessero rendita i saggi di profitto sarebbero diversi per le tre qualità. Calcoliamo ad esempio il rendimento in dolla­ ri per unità di capitale sulla terra A, nell’ipotesi che essa non riceva rendita. Con un ricavo totale di 337,5 dollari e costi di lavoro per 225 dollari (75 dollari X 3 unità di la­ voro), quel che resta a titolo di profitti è 112,5 dollari, pari a 37,5 dollari per unità di capitale. Lo stesso procedimen­ to conduce a un rendimento per le terre B e C pari, rispet­ tivamente, a 31,25 dollari e 25 dollari per unità di capitale. In un mercato concorrenziale questa situazione farebbe sì che i produttori sulle terre C offrano un affitto maggiore (rendita) per le terre A e B. Quando finalmente si arriva alla situazione per cui la terra A frutta una rendita di 37,5 dollari e la terra B una rendita di 12,5 dollari, allora il van­ taggio di coltivare A e B piuttosto che C viene a mancare, e il saggio di profitto per unità di capitale è di 25 dollari su tutti e tre i tipi di terra. Questo semplice modello del funzionamento del setto­ re agricolo evidenzia parecchi aspetti importanti circa il concetto di rendita e il funzionamento dei mercati concor­ renziali: 1) la concorrenza tra gli agricoltori sul mercato farà convergere il prezzo del grano verso il costo margina­ le dell’unità di output più costosa; 2) la concorrenza per la terra più fertile avrà l’effetto di fruttare delle rendite ai proprietari delle terre migliori; 3) la concorrenza assicure­ rà che su tutti i tipi di terra vi sia un saggio di profitto uniforme. Le forze concorrenziali all’opera in questo con­ testo sono le stesse che rivestono un ruolo importante nel­

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la determinazione dei prezzi, delle rendite e dei profitti anche nelle complesse economie del nostro tempo. Nello schema di Ricardo la rendita è dunque determinata dal prezzo, non viceversa: gli alti prezzi del grano che si regi­ stravano in quegli anni non erano causati dagli alti livelli delle rendite, ma, al contrario, erano le rendite che erano alte perché era alto il prezzo del grano. In base all’analisi precedente si può concludere che le restrizioni alle importazioni introdotte con le leggi sul gra­ no avrebbero provocato la caduta dei margini intensivo ed estensivo, a causa della scarsità di terra fertile e del princi­ pio dei rendimenti decrescenti, mentre i prodotti marginali in termini fisici di unità addizionali di lavoro e capitale sarebbero calati: i costi marginali sarebbero conseguente­ mente cresciuti provocando la crescita, a propria volta, dei prezzi del grano e delle rendite. Q uadro 4.2.

La tassazione della terra L’analisi ricardiana, affermando che il reddito dei proprieta­ ri terrieri ha la natura di un reddito non guadagnato, ebbe l’ef­ fetto di trasformare le rendite in un bersaglio idoneo per la tas­ sazione. Abbiamo già notato la conclusione dei fisiocratici che tutte le tasse sarebbero state in ultima istanza trasferite sui pro­ prietari della terra, poiché quest’ultima è considerata l’unico fat­ tore nell’economia in grado di produrre un sovrappiù o «prodot­ to netto». In seguito, sia James che John Stuart Mill proposero tasse sulla terra, ma la spinta più decisiva in questa direzione fu data dalla pubblicazione, nel 1879, di Progresso e povertà del­ l’americano Henry George1, un libro singolare che vendette più di un milione di copie e che venne tradotto in molte lingue. George, originario della costa orientale degli Stati Uniti, si trasferì in California, dove rimase impressionato dal crescente valore della terra al crescere della densità della popolazione. La sua conclusione fu che l’incremento nei prezzi e nelle rendite era la conseguenza di spinte economiche e sociali per lo più scolle­ gate dall’attività dei proprietari terrieri. Dal momento che la ren­ dita rappresentava un reddito non guadagnato, egli propose l’in­ troduzione di una tassa che rimuovesse completamente tutte le rendite: a suo parere il gettito sarebbe stato sufficiente, da solo, a coprire tutte le spese pubbliche, ed è per questa ragione che il

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F ig . 4.2. La rendita sulla terra.

movimento da lui fondato prese il nome di movimento della tas­ sa unica [single tax movement). Il concetto ricardiano di rendita può essere utile a compren­ dere il ragionamento economico sottostante la proposta di Geor­ ge. Se infatti la curva di offerta della terra è perfettamente ine­ lastica, allora tutto il rendimento della terra è rappresentato da rendite: una tassa sulla terra sarebbe pagata interamente dal pro­ prietario terriero, dato che non sarebbe possibile trasferirne il carico su altri soggetti economici. Applicando la tassa sulla ter­ ra, il rendimento del proprietario al netto della tassa diminuisce, ma questo non influenza - a parere di George - la quantità di terra che viene offerta sul mercato. Il proprietario infatti ha di fronte a sé l’alternativa o di ricevere un reddito annuale più bas­ so, oppure di non offrire la terra sul mercato e quindi non rice­ vere alcun reddito. Naturalmente egli preferisce la prima opzio­ ne, e questo lo persuade ad assorbire la tassa sulla terra. In base a questo ragionamento l’ammontare della tassa può essere alzato fino al penultimo penny del reddito da rendite del proprietario terriero, senza che questo influenzi la quantità di terra che viene offerta. La figura 4.2 illustra l’offerta e la domanda complessive di terra nello schema di George: in essa l’area tratteggiata rappresen­ ta la rendita, o, alternativamente, il gettito fiscale per il governo.1 1 Henry George, Progress and Poverty (1879); trad. it. Progresso e pover­ tà, in «Biblioteca dell’economista», serie III, voi. IX, Torino, Utet, 1891, pp. 305-657.

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II. P E N S IE R O E C O N O M IC O C L A S S IC O

Uno sguardo più generale al concetto di rendita Con la trattazione datane da Ricardo la nozione della rendita è divenuta un potentissimo strumento per l’analisi economica. In effetti egli ne limitò l’applicazione all’agri­ coltura poiché pensava che l’ammontare di terra fosse fis­ so, con una curva di offerta perfettamente inelastica (o verticale), e che l’agricoltura fosse l’unico settore all’inter­ no del sistema economico dove si avessero rendimenti de­ crescenti. In realtà i concetti di rendita e di rendimenti decrescenti hanno applicazioni molto più ampie, e posso­ no essere considerati come le fondamenta analitiche della teoria della produttività marginale, che spiega dal lato del­ l’offerta le forze che determinano i prezzi di tutti i fattori di produzione. La consapevolezza, tra gli economisti, che il concetto ricardiano di rendita sulla terra fosse un caso speciale di un principio analitico e teorico più generale non si diffuse comunque che verso la fine del diciannovesimo secolo; e così anche la nostra trattazione di questi temi dovrà essere rimandata fino alla presentazione del sistema teorico marshalliano. Ci limiteremo, per ora, a esaminare un concetto di rendita più generale. Al giorno d’oggi molti economisti sarebbero d ’accordo con Ricardo nel sostenere che per la società nel suo com­ plesso la rendita non è un costo di produzione, e pertanto non ha influenza nella determinazione del prezzo. La quan­ tità di terra è approssimativamente fissa, e aumenti della domanda ne faranno salire i prezzi (le rendite) senza au­ mentare la quantità offerta. Vista quindi dal punto di vista della collettività, come faceva Ricardo, la rendita ha un costo opportunità pari a zero. Ma dal punto di vista di un qualsiasi soggetto economico la rendita è un costo di pro­ duzione e quindi è una delle cause che determinano il li­ vello dei prezzi: chi voglia impiegare la terra nel proprio processo produttivo o sfruttarne il valore di posizione, dato il processo di concorrenza con altri potenziali agenti, deve effettuare dei pagamenti al proprietario terriero per pro­ curarsi e mantenere tali prestazioni. In questo senso per l’imprenditore agricolo la rendita è una determinante del prezzo, e il suo ammontare sarà uguale al costo opportuni­ tà della terra, vale a dire la rendita che la terra potrebbe

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fruttare se fosse utilizzata per impieghi alternativi, ad esem­ pio una coltivazione diversa. In altre parole, nel decidere se sono i pagamenti a titolo di rendita a determinare i prez­ zi o viceversa, gli economisti oggi distinguono tra il punto di vista della collettività e quello dei singoli membri. 6. La teoria del valore in Ricardo La controversia sorta intorno alle leggi sul grano offrì a Ricardo lo spunto per elaborare la sua teoria del valore. All’interno di questa controversia diversi autori, e tra que­ sti Malthus, sostenevano che l’aumento delle tariffe sulle importazioni avrebbe portato vantaggi all’Inghilterra, men­ tre Ricardo era a favore della libertà dei commerci e con­ tro l’applicazione delle tariffe, le quali a suo parere avreb­ bero ridotto il saggio di profitto e rallentato il processo di accumulazione, e quindi ostacolato il processo di sviluppo economico, sostanzialmente basato sull’accumulazione. Il ricorso alla teoria smithiana, d’altra parte, non dava risposte soddisfacenti a questo problema. La teoria del va­ lore basata sul costo di produzione veniva a quel tempo utilizzata dai fautori del protezionismo per sostenere che ta­ riffe più alte non avrebbero determinato una riduzione dei profitti. Ricardo condivideva con loro l’idea che i salari monetari sarebbero stati più elevati, ma discusse a lungo, e anche aspramente, le loro conclusioni circa le conseguenze sui profitti e sulle rendite. Non era oggetto di discussione il fatto che alzando le tariffe si sarebbero spinti in basso i margini intensivo ed estensivo, poiché si sarebbero messe a coltura terre meno fertili e si sarebbero coltivate più inten­ samente quelle su cui già si lavorava. Su questo punto, in­ fatti, tutti erano d ’accordo, così come sul fatto che il conse­ guente aumento dei costi di produzione avrebbe richiesto salari più elevati per garantire la sussistenza ai lavoratori, considerato che il prezzo del grano pesava consistentemen­ te sul loro bilancio alimentare. Il vero punto in discussione era piuttosto un’altra delle posizioni dei protezionisti, i qua­ li, appoggiandosi alla teoria smithiana del valore basata sul costo di produzione, sostenevano che l’aumento dei salari non avrebbe necessariamente abbassato i profitti.

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Alcuni protezionisti sostenevano inoltre che, se si fosse­ ro tolte o abbassate le tariffe, il prezzo del grano e i salari sarebbero caduti, provocando una caduta generale dei prez­ zi e una depressione economica. Di fronte a tale posizione l’obiettivo di dimostrare i vantaggi dell’abolizione delle ta­ riffe implicava il rifiuto della teoria del valore basata sul costo di produzione, allora predominante. In questa opera­ zione Ricardo era confortato dal fatto che, a suo parere, gli effetti economici più importanti delle leggi sul grano erano quelli distributivi, un punto sul quale quella teoria non for­ niva argomentazioni soddisfacenti. Era dunque necessario sviluppare una teoria del valore alternativa che tenesse con­ to di questi aspetti. A questo punto gli si presentava una difficoltà: la mag­ gior parte delle teorie del valore cercava di spiegare la determinazione dei prezzi relativi a un dato istante del tem­ po, mentre dal suo punto di vista il problema principale che occorreva risolvere era quello delle forze che provoca­ vano variazioni nei prezzi relativi nel corso del tempo, come accadeva nel caso delle leggi sul grano. Non gli inte­ ressava dunque spiegare perché a un certo punto nel tem­ po due cervi si scambino contro un castoro, ma che cosa provoca variazioni in questo rapporto di scambio nel cor­ so del tempo. Se ad esempio il prezzo di un castoro aumen­ ta così che 3Cv=lCt, qual è l’interpretazione da dare: che è aumentato il prezzo del castoro, o che è diminuito quel­ lo del cervo? Tutte e due le affermazioni sono corrette, ma nessuna delle due ci dice quello che ci direbbe una misura invariante del valore, cioè se l’aumento del prezzo del ca­ storo va attribuito a un aumento dei costi di produzione del castoro o a una diminuzione dei costi di produzione del cervo. Se si potesse disporre di un qualche bene avente un valore costante ed immutabile, allora si potrebbero scopri­ re le vere cause delle variazioni dei prezzi relativi nel cor­ so del tempo. Ricardo era consapevole del fatto che non esistesse nes­ sun bene con questa caratteristica, ma la sfida teorica che questo problema gli poneva lo indusse a tentare di defini­ re una misura del valore assoluto che fosse invariante nel tempo. Di questo si occupò nella prima edizione dei Prin­ cipi di economia politica e poi, in modo approfondito, nel

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suo ultimo scritto: Valore assoluto e valore di scambio (la cui storia è piuttosto singolare, in quanto andò perso e fu poi riscoperto soltanto nel 1943, dopo essere passato da James Mill a John Stuart Mill, e quindi ai suoi eredi; esso è ora pubblicato nel volume IV delle Opere di Ricardo); ma egli non fu mai in grado di formulare una misura soddisfa­ cente del valore assoluto. Non ci resta quindi che dedicar­ ci alla questione principale riguardo al valore: che cosa pro­ voca le variazioni nel tempo dei prezzi relativi? La teoria ricardiana del valore basata sul costo del lavoro Alla questione del valore Ricardo dedica il capitolo di apertura del suo libro, e fin dal principio è evidente la sua premura nel prendere le distanze dalle posizioni di Adam Smith: «Il valore di una merce, cioè la quantità di qualsia­ si altra merce con cui si può scambiare, dipende dalla quantità relativa di lavoro necessaria a produrla e non dal maggiore o minore compenso corrisposto per questo lavo­ ro»5. La frase è in corsivo nell’originale proprio per sottolineare come egli non fosse rimasto intrappolato nella con­ fusione e nel ragionamento circolare di cui era rimasto vit­ tima Smith nel formulare la sua teoria dei prezzi relativi basata sul costo del lavoro. Come si ricorderà, il problema di Smith era quello del modo in cui misurare la quantità di lavoro necessario a produrre un bene (cioè la questione della bravura, dell’impegno e dell’ingegnosità richiesti); e la soluzione proposta da Smith consisteva nell’indicare tale misura nei salari. Ricardo dunque si accorge della circola­ rità del ragionamento e fin dalla prima frase dei Principi di econo??2 Ìa politica afferma esplicitamente che il valore di­ pende dalla quantità di lavoro necessario alla produzione, non dai salari pagati ai lavoratori. Chiarito questo, egli si rivolge alla confusione tra valo­ re d’uso e valore di scambio. Mentre Smith, che aveva illu­ strato tale questione per mezzo del paradosso dell’acqua e dei diamanti, non vedeva uno stretto collegamento tra i due 5 Ibidem, p. 169.

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concetti, Ricardo sostenne che il valore d’uso era essenzia­ le per l’esistenza del valore di scambio, ancorché non per la sua misura. In termini moderni, ciò equivale ad afferma­ re che la condizione affinché un bene abbia un prezzo (positivo) sul mercato è data dall’esistenza di una doman­ da, ma, al tempo stesso, che la domanda non costituisce la misura del prezzo. Il prezzo dei beni che danno qualche utilità deriva piuttosto da due fonti: la loro scarsità e la quantità di lavoro necessario a produrli. Per alcuni beni conta soltanto la scarsità, e si tratta di quei beni che non sono riproducibili a piacere, come ad esempio quadri, libri, monete e vini: per essi la quantità offerta non può essere aumentata liberamente e la curva di offerta è perfettamente inelastica (o verticale). Ricardo af­ ferma che «il loro valore è completamente indipendente dalla quantità di lavoro necessaria originariamente per pro­ durle e varia al variare della ricchezza e dei gusti di coloro che desiderano possederle»6. In effetti, data una curva di offerta inelastica, il prezzo è unicamente determinato dal­ la curva di domanda, la cui posizione è funzione delle pre­ ferenze e dei redditi individuali. Beni prodotti in un contesto concorrenziale Ricardo esclude dalla sua teoria del valore questo par­ ticolare tipo di beni che non sono riproducibili liberamen­ te: in effetti la perdita dal punto di vista analitico è trascu­ rabile perché essi « costituiscono una parte piccolissima di tutte le merci che si scambiano quotidianamente sul mer­ cato»7. Egli si concentra piuttosto sui beni riproducibili senza problemi e prodotti in mercati caratterizzati da con­ correnza perfetta, ed è a questa tipologia di beni che la sua teoria del valore si riferisce. Per il settore manifatturiero si assume una curva di offerta perfettamente elastica, ovvero l’ipotesi di costi costanti; mentre per il settore agricolo i costi sono crescenti e le curve di offerta inclinate positivamente con un’elasticità maggiore di zero ma non infinita. 6 lbide?n, p. 170. 7 Ibidem.

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Dopo aver esaminato le argomentazioni di Smith sulle cause determinanti i prezzi relativi, Ricardo scarta le teo­ rie del valore basate sul lavoro comandato e sul costo di produzione a favore di una teoria basata sul costo del la­ voro. Smith in effetti non pensava che quest’ultima fosse idonea a descrivere il funzionamento di un sistema econo­ mico in cui il capitale e la terra ricevono una remunerazio­ ne, ma per Ricardo tale conclusione può essere rovesciata, e il suo tentativo di dimostrazione può senz’altro essere annoverato tra le pagine più complesse di tutta la lettera­ tura economica. Le difficoltà in una teoria del valore basata sul costo del lavoro Oltre a dover affrontare alcuni dei problemi che aveva­ no spinto Smith ad abbandonare la teoria del valore basa­ ta sul costo del lavoro, Ricardo percepisce lucidamente anche altre difficoltà che Smith aveva appena intuito ed è quindi messo a dura prova da un coacervo di questioni teoriche. Egli vi si adopera con tenacia, e parecchi storici del pensiero economico (tra cui ci ritroviamo anche noi) ritengono che la sua sia la formulazione più matura della teoria del valore-lavoro, poiché egli la spinge veramente alle sue estreme conseguenze, lasciando a Marx ben poco da aggiungere circa la comprensione delle difficoltà teori­ che che la sottendono. Alcuni storici considerano addirit­ tura Marx alla stregua di un ricardiano minore, ma va det­ to che si tratta di una valutazione scorretta, poiché l’appor­ to di Marx alla teoria economica e alle scienze sociali non va certo misurato attraverso il contributo dato all’analisi del problema dei prezzi relativi per mezzo di una teoria del valore-lavoro. Il nostro compito è ora quello di illustrare la soluzione data da Ricardo a cinque dei problemi fondamentali che attendono chiunque si accinga a elaborare una teoria del valore-lavoro: 1) misurare le quantità di lavoro; 2) tenere in considerazione il fatto che le abilità dei lavoratori sono diverse; 3) spiegare come la presenza di beni capitali in­ fluenza i prezzi; 4) come includere la terra tra i fattori che

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determinano i prezzi; 5) come includere i profitti tra i fat­ tori che determinano i prezzi. Una misura della quantità di lavoro. La ritrosia di Smith a impiegare le ore lavorate, cioè il tempo, quale misura della quantità di lavoro necessario a produrre un bene si spiegava con la considerazione della pari rilevanza dell’abi­ lità del lavoratore e dell’impegno richiesto dalle varie man­ sioni. Abilità e impegno che erano per lui stabilite «attra­ verso il mercanteggiare e la contrattazione del mercato», cosicché i diversi salari pagati ai lavoratori avrebbero ris­ pecchiato le loro diverse capacità e la diversa complessità del loro lavoro. Ricardo ravvisa qui un errore logico e già dalla frase d ’apertura dei Principi di economia politica, come abbiamo visto, afferma a chiare lettere che è la quan­ tità di lavoro a determinare i prezzi, non la sua remunera­ zione. La soluzione da lui individuata consiste nel misura­ re la quantità di lavoro attraverso il tempo richiesto dalla produzione di un bene, ossia semplicemente attraverso le ore lavorate. Le diverse abilità dei lavoratori. Tale soluzione però ri­ propone lo stesso problema che Smith aveva cercato di evitare, quello del lavoro qualificato: riconoscere che il la­ voro non è un prodotto omogeneo implica che una stessa ora di lavoro può produrre un ammontare differente di output da lavoratore a lavoratore. Supponiamo di avere due lavoratori che operano in condizioni identiche e con la stessa dotazione di terra e di capitale: se in un’ora di lavoro uno si procura due cervi e l’altro se ne procura uno solo, come si fa a stabilire qual è la quantità di lavoro ne­ cessaria a procurarsi un cervo? Ricardo identifica la solu­ zione nell’utilizzo dei salari quale misura della loro produt­ tività relativa. Il salario pagato al lavoratore che si procura due cervi sarà il doppio di quello pagato al lavoratore meno produttivo. In apparenza sembrerebbe che egli incappi qui nello stesso ragionamento circolare smithiano, dato che i salari relativi —che non sono altro che prezzi —vengono impiegati per spiegare i prezzi relativi; in realtà egli non intende spiegare i prezzi relativi in un dato istante nel tem­ po, ma elaborare una teoria in grado di spiegarne le varia­

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zioni nel tempo, e in questo caso il ragionamento non è più circolare. Infatti, se le differenze nei salari dei lavoratori imputa­ bili alle loro diverse abilità sono costanti nel tempo, ciò significa che le variazioni nei prezzi dei prodotti finali non saranno provocate dalla remunerazione del lavoro. Se quindi un lavoratore più esperto viene pagato, oggi, il dop­ pio di uno meno esperto, e questo rapporto, a una data futura, sarà rimasto invariato, gli eventuali cambiamenti intervenuti nei prezzi relativi dei beni da loro prodotti dovranno necessariamente essere attribuiti ad altri fattori. L’ipotesi di Ricardo che i salari corrisposti a lavoratori di abilità diversa rimangano costanti nel tempo può essere messa in discussione; ma grazie a essa la soluzione consi­ stente nel misurare il lavoro in termini di ore lavorate non costituisce di per sé un ragionamento circolare. I beni capitali. È ovvio che la maggior parte dei beni è prodotta utilizzando sia lavoro che capitale, e che quindi occorre chiarire l’influenza del capitale sui prezzi dei beni finali anche all’interno di una teoria basata sul costo del lavoro. Per Ricardo il problema si risolve semplicemente considerando il capitale come lavoro accumulato, cioè la­ voro che è stato utilizzato in un periodo precedente. In questo modo la quantità di lavoro contenuta in un bene che viene prodotto utilizzando lavoro c capitale è misura­ ta sia dalla quantità di lavoro applicata direttamente duran­ te la produzione che dalla quantità di lavoro accumulata nel bene capitale che si sta adoperando. Per esempio, se per produrre un bene capitale occorrono 100 ore di lavo­ ro, ed esso si logora (o si deprezza) al tasso di un centesi­ mo del suo costo per ogni unità di bene finale prodotta con esso, allora il lavoro totale necessario alla produzione del bene finito è il numero di ore di lavoro impiegate direttamente più un’ora di consumo del bene capitale. Secondo una terminologia più moderna possiamo dire che quando un bene è prodotto utilizzando lavoro e capi­ tale, il capitale si deprezza nel corso del processo produt­ tivo. Perché il deprezzamento contabilizzato sia una misu­ ra accurata del capitale che si esaurisce durante la produ­ zione, deve essere equivalente alla porzione del lavoro ori­

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ginariamente servita alla produzione del bene capitale e successivamente incorporata nel prodotto finito. L’idea di Ricardo è dunque di trattare il problema del capitale som­ mando, al lavoro che viene impiegato in modo diretto e immediato, il tempo equivalente al deprezzamento dei beni capitali aH’interno del processo produttivo. Tuttavia non si tratta di una soluzione completamente soddisfacente. Infatti, se in passato ci si è serviti del lavoro per produrre un bene capitale, il prezzo del prodotto fini­ to ottenuto grazie a esso deve includere sia la remunera­ zione del lavoro applicato direttamente, sia la remunera­ zione del lavoro indiretto utilizzato nella produzione del bene capitale, sia, infine, l’interesse sulla somma pagata al lavoro indiretto, calcolato a partire dal momento del paga­ mento fino al momento della vendita del prodotto finale. Detto più semplicemente, un’ora di lavoro che due anni fa è servita a produrre beni capitali dovrebbe influire, sul prezzo di un bene prodotto oggi, diversamente da un’ora di lavoro utilizzata un anno fa. Una soluzione più accurata dovrebbe quindi sommare sia i costi del lavoro che quelli dell’interesse: ma questo risulterebbe essere incoerente con una teoria del valore basata esclusivamente sul lavoro. ha rendita sulla terra. Che la questione della rendita entrasse a pieno titolo in una teoria del valore era ben chiaro ad Adam Smith, il quale non fu però in grado di sviluppare una teoria del valore-lavoro una volta ammessa la natura di bene economico della terra, e si vide quindi costretto a elaborare una teoria basata sul costo di produ­ zione. Supponiamo che vi siano due lavoratori con capaci­ tà identiche che lavorano su due appezzamenti di terra di fertilità differente. Dato che in un anno il lavoratore im­ piegato sulla terra più fertile produrrà rispetto a quello impiegato sulla terra meno fertile quantità maggiori, come si fa a stabilire qual è la quantità di lavoro necessaria a pror durre un quintale di grano? A questo problema Ricardo ri­ sponde attraverso la sua teoria della rendita. In base a essa il prezzo dipende dal costo marginale del quintale di gra­ no prodotto nel modo meno efficiente: il prezzo, cioè, è determinato al margine, dove la rendita è nulla. Come ab­ biamo già visto, è la rendita a essere determinata dal prez­

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zo, e non viceversa: le diverse rendite riscosse dai proprie­ tari di terre di fertilità differente non avranno quindi alcu­ na influenza sui cambiamenti dei prezzi relativi nel corso del tempo. I profitti. In cosa consiste esattamente la difficoltà lega­ ta al ruolo dei profitti all’interno di una teoria del valorelavoro? Come abbiamo visto a proposito delle teorie smithiane del valore, se i profitti costituissero la stessa quota proporzionale del prezzo finale di tutti i beni, questi ulti­ mi si scambierebbero in base al medesimo rapporto sia che si segua una teoria del costo del lavoro sia che si adotti una teoria del lavoro comandato. Se invece essi rappresentas­ sero quote diverse a seconda dei beni, allora i prezzi rela­ tivi, o le variazioni nei prezzi relativi, non potrebbero es­ sere misurate in modo corretto ricorrendo soltanto al la­ voro. In base a quel che si può osservare nella realtà la seconda situazione è la più rilevante: il profitto (definito, nella tradizione smithiana e ricardiana, sommando quelli che per gli economisti di oggi sono i profitti e gli interessi) non è una percentuale costante del prezzo finale dei beni, e vi sono diverse ragioni che spiegano la sua variabilità. In­ nanzitutto è ragionevole aspettarsi che l’ammontare di ca­ pitale per unità di prodotto finito sia diverso da un’indu­ stria all’altra, in particolare che i profitti siano una quota maggiore nei prezzi finali delle industrie ad alta intensità di capitale rispetto alle industrie ad alta intensità di lavo­ ro. Inoltre il tasso di sostituzione del capitale sarà diverso nelle varie industrie, a seconda della proporzione ivi esi­ stente tra capitale fisso e capitale circolante: le industrie che sostituiscono il capitale più velocemente produrranno beni per i quali il rapporto tra profitto e prezzo finale è inferiore a quello che deve valere per le industrie con un turnover più lento. Dopo aver esaminato a fondo i problemi legati al ruolo dei profitti all’interno della teoria del valore, Ricardo giun­ ge alla conclusione che la loro influenza è quantitativamen­ te trascurabile, e che essi non modificano la sua proposi­ zione fondamentale, vale a dire che le variazioni dei prezzi relativi nel tempo dipendono dai cambiamenti nelle quan­ tità relative di lavoro incorporato nei beni.

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Ricardo aveva una teoria del valore? Questa domanda ha interessato gli storici del pensiero economico da due diversi punti di vista: 1) Ricardo aveva una teoria del valore? 2) Ricardo è sempre stato convinto della validità di una teoria del valore-lavoro? In effetti dal punto di vista strettamente teorico qualche problema c’era, come lo stesso Ricardo riconosce quando ammette che le variazioni della quantità di lavoro necessaria a produrre i beni non sono l’unica causa di variazione dei prezzi relati­ vi. «Malthus dimostra che di fatto il valore di scambio delle merci non è esattamente proporzionale al lavoro che è sta­ to impiegato per produrle, cosa che non soltanto ammetto adesso, ma che non ho mai negato»8. Tuttavia la sua con­ clusione è pur sempre che le variazioni della quantità di lavoro sono, dal punto di vista quantitativo, l’elemento cru­ ciale per spiegare come variano i prezzi relativi. A questo proposito George Stigler ha ribattezzato la teoria ricardiana come «una teoria del valore al 93 per cento», sulla base degli stessi dati illustrativi di Ricardo secondo i quali il 93 per cento delle variazioni dei prezzi relativi è attribuibile alla quantità di lavoro richiesta dalla produzione delle merci9. La posizione di Ricardo era dun­ que quella di non escludere l’influenza teorica delle varia­ zioni sia del saggio di profitto che del saggio di salario, ma di trascurarle dal punto di vista quantitativo, giungendo alla seguente conclusione: «considererò che tutte le grandi variazioni nel valore relativo delle merci avvengono nel tempo a causa della maggiore o minor quantità di lavoro necessario a produrle»10. Prima che venisse pubblicata l’edizione delle Opere curata da Sraffa, l’opinione diffusa tra gli storici del pen­ 8 Ricardo, Notes on Malthus’s Principles of Politicai Economy, in Works, cit.; trad. it. Note ai principi di economia politica di Malthus, in Ricardo, Opere, cit., voi. II, parte I, p. 91. 9 Cfr. George J. Stigler, Ricardo and thè 93 Per Cent Theory of Value, in Essays in thè History ofEconomics, Chicago, Chicago University Press, 1965, pp. 326-342; trad. it. Ricardo e la teoria del valore-lavoro al 93%, in L'econo­ mia classica. Origini e sviluppo (1750-1848), a cura di R. Faucci ed E. Pesciarelli, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 182-194 (N.d.T.). 10 Ricardo, Principi di economia politica e dell’imposta, cit., p. 192.

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siero economico era che anche Ricardo stesse per allonta­ narsi da una teoria del valore basata sul costo del lavoro per muoversi verso una teoria basata sul costo di produ­ zione, dove i costi includessero non solo quelli da lavoro ma anche i profitti. Tale opinione si fondava per lo più su un passaggio contenuto in una lettera che Ricardo scrisse all’amico John Ramsey McCulloch nel 1820, quindi tra la se­ conda e la terza edizione dei Principi di economia politica-. Talvolta penso che se dovessi riscrivere il capitolo sul valore del mio libro, riconoscerei che il valore relativo delle merci è regolato da due cause invece che da una, e cioè dalla quantità relativa di lavoro necessaria per produrre le merci in questione e dal saggio del profitto per il tempo in cui il capitale è rimasto quiescente e finché le merci siano portate al mercato11. Sulla base di tutta la corrispondenza di Ricardo, ora pubblicata nelle Opere, e sulla base del contenuto della terza edizione dei Principi di economia politica, i curatori dell’opera ricardiana sono tuttavia giunti alla conclusione che questa lettera rappresentasse «soltanto uno stato d ’ani­ mo passeggero» e che la posizione di Ricardo, fino alla fine, fu che il lavoro fosse l’elemento più importante dal punto di vista quantitativo nella spiegazione delle variazioni dei prezzi relativi112. Si potrà quindi discutere della validità di una teoria del valore-lavoro, ma sembra fuori discussione che la posizione di Ricardo fosse di completa accettazione. Un riassunto della teoria ricardiana del valore Vale la pena, in conclusione, richiamare gli aspetti più rilevanti emersi nella trattazione ricardiana della teoria del valore. 1) Al contrario di Smith, l’opinione di Ricardo era che il valore d ’uso costituisse un requisito necessario all’esi­ stenza del valore di scambio. 2) L’elaborazione della teoria 11 Ricardo, Letters, 1819-1921, in Works, cit., voi. Vili, p. 194. La tra­ duzione italiana di questo singolo passaggio è tratta dall’introduzione (cu­ rata da P. Sraffa) ai Princìpi di economia politica e dell’imposta, cit., p. 135 {NAT.). 12 Ricardo, Principi di economia politica e dell’imposta, cit., p. 136.

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del valore presuppone beni riproducibili senza problemi e l’esistenza di condizioni di concorrenza perfetta sui mer­ cati. 3) La preoccupazione principale sottostante l’elabo­ razione teorica era costituita dalla spiegazione delle forze che fanno variare nel tempo i prezzi relativi. 4) I prezzi di mercato, o di breve periodo, possono cambiare per effetto di una serie di fattori sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, mentre le variazioni dei prezzi naturali, o dell’equilibrio di lungo periodo, sono provocate dalle va­ riazioni delle quantità di lavoro impiegate nella produzio­ ne delle merci. 5) Anche se vi sono alcuni elementi, in particolare i profitti, che impongono di correggere queste affermazioni, essi non modificano la conclusione fondamentale che la variazione dei prezzi relativi deve per lo più essere attribuita alla quantità di lavoro occorsa nella pro­ duzione dei beni. Q uadro 4.3.

I divulgatori dell’economia classica Un anno prima della pubblicazione dei Principi di economia politica di Ricardo, Jane Marcet1 (1769-1858), che già nel 1806 aveva ottenuto successo e popolarità pubblicando un libro di chimica, scrisse Conversations on Politicai Economy (1816). Seb­ bene tradotto in francese, tedesco, olandese e spagnolo, il libro non fu un successo finanziario, ma venne tuttavia apprezzato da John Ramsey McCulloch (1789-1864), un autorevole discepolo di Ricardo che pubblicò parecchi scritti contribuendo in modo significativo alla diffusione dell’economia ricardiana presso i cir­ coli finanziari e professionali. Gli stessi Ricardo, Malthus e J.B. Say apprezzarono l’esposizione della teoria classica data dalla Marcet e la incoraggiarono alla divulgazione. Nei ventitré anni che seguirono la prima edizione del 1816 vi furono sei nuove edi­ zioni delle Conversations on Politicai Economy, a cui l’autrice fece seguire altri testi rivolti a un pubblico diversificato: le John Hopkins’ Notions on Politicai Economy (1833) erano pensate per la classe lavoratrice, mentre Rich and Poor (1851) si rivolgeva ai bambini. Fu invece per necessità che Harriet Martineau (1802-1876) si dedicò in modo professionale alla scrittura, poiché come non udente non aveva molte possibilità di impiego. Dopo aver letto

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e tratto incoraggiamento dal successo della Marcet, la Martineau si accinse a esporre l’economia classica per mezzo di esempi tratti dall’attività di tutti i giorni. Non le fu certo facile trovare un editore, ma finalmente nel 1832 venne pubblicato il primo dei suoi lavori sotto il titolo di Illustrations of Politicai Economy. Nei due anni successivi le circa 3.000 pagine di tale opera furono pubblicate in ventiquattro storie, e con esse arrivarono per la Martineau la fama e il successo, testimoniato dalla traduzione della sua opera in parecchie lingue. 1Questo quadro si basa su un saggio non pubblicato, ]ane Marcet and Harriet Martineau: Motive, Sales and Reception ofTheir Contributions to Classical Economie Politicai Economy, di Bette Polkinghom.

7. ha teoria ricardiana della distribuzione Ora che siamo in possesso della teoria del valore di Ricardo, della sua teoria della rendita e della dottrina malthusiana della popolazione, abbiamo tutti gli elementi per poter passare a esaminare quelli che erano i suoi tre prin­ cipali interessi teorici: cosa determina la distribuzione fun­ zionale del reddito tra salari, profitti e rendite a un dato istante temporale? Come si modifica nel tempo la distri­ buzione del reddito in presenza di sviluppo economico? E quali sono le conseguenze delle leggi sul grano sulla distri­ buzione del reddito e sul saggio di crescita? Si tratta di domande, a questo punto è chiaro, che non potevano es­ sere affrontate senza aver prima sviluppato una teoria del valore e della rendita.

ha teoria della distribuzione Con l’aiuto di un semplice grafico è possibile ripercor­ rere il ragionamento ricardiano sulla distribuzione del red­ dito, a partire dal modello in cui dosi di capitale e lavoro (in proporzioni fisse) vengono via via aggiunte alla quanti­ tà data di terra disponibile nel sistema economico. Nella

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figura 4.3 le dosi successive di capitale e lavoro sono ripor­ tate sull’asse orizzontale, e i loro prodotti marginali in ter­ mini fisici sono misurati in quintali di grano sull’asse verti­ cale. La retta ABHQM rappresenta tali prodotti marginali in termini fisici. Ipotizziamo di partire da una situazione di equilibrio assumendo che una certa quantità di capitale e lavoro, rappresentata dal segmento OC, venga applicata alla terra disponibile. Il prodotto marginale dell’ultima unità applicata di capitale e lavoro è dunque dato dal seg­ mento BC, e il prodotto totale dell’agricoltura è uguale all’area OABC, dal momento che il prodotto totale è la somma di tutti i prodotti marginali. Il problema è ora de­ terminare la divisione del prodotto totale tra salari, profit­ ti e rendite, e qui si rivela la genialità dell’analisi di Ricar­ do, perché con tre variabili da determinare, la sua soluzio­ ne ne identifica le varie quote per differenza, con un pro­ cedimento che è valso alla sua teoria della distribuzione l’appellativo di teoria residuale. Determiniamo prima di tutto la rendita: al margine essa cade a zero, e tutto il prodotto sopra la linea BD costitui­ sce la remunerazione del proprietario terriero. La rendita è dunque uguale all’area DAB. Il livello di sussistenza dei salari lo si ricava dalla teoria malthusiana della popolazio­ ne, e nel nostro esempio è pari alla linea EFJQ N : questo implica che il saggio di salario è misurato da FC e i salari totali dall’area OEFC. Infine, se si sottrae il saggio di sala­ rio dal prodotto marginale calcolato al margine, il profitto per l’ultima dose di capitale e lavoro è dato da BF, mentre il profitto totale è dato dall’area EDBF. In questo modo siamo riusciti a dividere il prodotto totale nelle sue tre quote di rendita (DAB), profitto (EDBF) e salario (OEFC)] si noti che il passaggio cruciale è quello per cui il livello dei profitti dipende dal prodotto marginale dell’ultima dose di capitale e lavoro e dal livello di sussistenza del sala­ rio reale.

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A

------N (Salario di sussistenza) M*Il O

C

I

P

Dosi di lavoro e di capitale F tg. 4.3. Lo stato stazionario.

La distribuzione del reddito nel corso del tempo Collegata a questa problematica ve n’era un’altra che affascinava moltissimo Ricardo, ovvero la questione di come variano nel tempo le quote di reddito nazionale rice­ vute da capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori. Non trovando risposte esaurienti nell’analisi di Smith o di altri autori egli dovette in un certo senso elaborare una propria teoria, secondo la quale la conclusione era la medesima raggiunta da Smith, cioè che il saggio di profitto sarebbe caduto con il trascorrere del tempo, ma le ragioni addotte da questi —la concorrenza sul mercato del lavoro, degli investimenti, e dei beni —andavano respinte. Il motivo per respingere la prima delle spiegazioni di Smith, cioè la concorrenza sul mercato del lavoro, è l’incoerenza con la sua stessa teoria del valore basata sul co­ sto di produzione: infatti tale teoria non prevede che all’aumentare della concorrenza e quindi alla crescita dei salari faccia necessariamente seguito una caduta dei profitti. Ri­ cardo trova la prova per tale confutazione nella dottrina

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malthusiana della popolazione, sostenendo che quando la concorrenza spinge in alto il livello dei salari reali, nel lun­ go periodo questo effetto viene controbilanciato da un aumento della popolazione e quindi della forza lavoro che riportano i salari al loro livello originario. Per quanto riguarda invece la seconda e la terza delle • spiegazioni date da Smith per giustificare la caduta dei profitti, Ricardo ricorre a quella che è divenuta famosa come la legge di Say. A suo parere entrambe le argomenta­ zioni implicavano infatti l’esistenza di una sovrapproduzio­ ne nel sistema economico: nel caso della concorrenza sul mercato degli investimenti, ipotizzando che non fosse pos­ sibile vendere ai prezzi precedenti il maggior output gene­ rato dai nuovi investimenti; e analogamente sul mercato dei beni, suggerendo una caduta del livello generale dei prez­ zi. La controargomentazione di Ricardo consiste appunto nel sostenere che i prezzi non scendono in nessuna delle due situazioni e che quindi non ci si può attendere una caduta del saggio di profitto. La legge di Say sarà discussa in dettaglio alla fine del capitolo; per ora basti constatare che Ricardo attribuisce a Smith la risposta giusta al suo problema di fondo —e cioè che i profitti sarebbero caduti nel corso del tempo —ma per delle motivazioni sbagliate. L’analisi di Ricardo consi­ ste nel prendere in considerazione un sistema economico «giovane» e seguirlo passo passo nel suo processo di svi­ luppo, secondo la seguente sequenza. All’inizio la caratte­ ristica principale è un elevato saggio di profitto e, poiché questo ne è la fonte, un elevato saggio di accumulazione del capitale. L’accumulazione a sua volta mantiene alti i saggi di salario reale così che, in base all’ipotesi malthusia­ na, la popolazione aumenta: via via che questo processo si svolge vengono richieste quantità sempre maggiori di pro­ dotti alimentari dal settore agricolo, dove i margini inten­ sivo ed estensivo si abbassano con lo sfruttamento supe­ riore delle terre già coltivate e la messa a coltura di terre sempre meno fertili. In seguito all’abbassarsi dei margini ed è questo il punto cruciale dell’analisi - le rendite au­ mentano mentre i profitti diminuiscono. Ne consegue che l’accumulazione decelera progressivamente fino a cessare del tutto quando il profitto diventa nullo e l’intera dina­

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mica del capitalismo viene a essere bloccata: non ci sono profitti, non c’è accumulazione del capitale e quindi cre­ scita economica, la popolazione ha cessato di crescere, i salari sono al livello di sussistenza e le rendite hanno rag­ giunto il livello massimo. Si potrebbe obiettare che con questo schema Ricardo dimostra la caduta del saggio di profitto in agricoltura, ma che nulla si dice a proposito del settore manifatturiero. Tuttavia l’ipotesi di concorrenza perfetta su tutti i mercati garantisce che, quando nel settore agricolo il saggio di pro­ fitto si riduce, i capitali si spostino verso il settore mani­ fatturiero, così che nel lungo periodo l’equilibrio è carat­ terizzato dallo stesso saggio di profitto in tutti i settori dell’economia. Se dunque i profitti calano in un settore, caleranno anche nell’altro. Una volta che la spinta pro­ pulsiva dell’accumulazione di capitale giunge a esaurimen­ to, la dinamica di tutto il sistema ne soffre, fino al raggiun­ gimento di quello clic è stato chiamato lo stato stazionario classico: una prospettiva poco felice che è valsa a rinforzare l’opinione che l’economia politica fosse una «scienza triste». L’intero processo può essere rappresentato sempre per mezzo della figura 4.3. Quando l’accumulazione del capi­ tale e la popolazione aumentano nel corso della fase di crescita, sempre più unità di capitale e lavoro vengono applicate alla quantità fissa di terra. Se il margine si esten­ de in modo che OJ rappresenta l’ultima dose di capitale e lavoro, il nuovo e più elevato livello della rendita è dato dall’area GAH, i profitti si sono ridotti all’area EG H J e l’ammontare dei salari corrisponde all’area OEJI. Utilizzan­ do la terra in modo sempre più intensivo il livello della rendita aumenta progressivamente fino a che il prodotto totale si ripartisce esclusivamente tra salari e rendite, e i profitti divengono nulli. Questo è appunto lo stato stazio­ nario: OP sono le dosi di capitale e lavoro impiegate, EAO è la rendita, OEQP i salari. Ritornando alle leggi sul grano... L’analisi precedente sulle forze che determinano la di­ stribuzione del reddito e le sue variazioni nel tempo è uti­

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le per illustrare alcune delle conseguenze delle leggi sul grano. Il protezionismo britannico contro la concorrenza straniera, provocando una contrazione delle importazioni di grano e un’espansione della produzione nazionale, avreb­ be quindi avuto l’effetto di premere sui margini intensivo ed estensivo, così che i profitti si sarebbero ridotti con l’aumen­ tare delle rendite. E pur vero che la conclusione di Ricardo era che, indipendentemente dalle leggi sul grano, lo scena­ rio di lungo periodo per il sistema economico sarebbe sta­ to contrassegnato proprio da tale redistribuzione di reddi­ to dai capitalisti verso i proprietari terrieri: il motivo per avversare le leggi sul grano era però che esse avrebbero ac­ celerato questo processo. Dato che la spinta alla crescita economica veniva dall’accumulazione di capitale da parte dei capitalisti, le leggi sul grano avevano l’effetto poco desiderabile di rallentare la crescita e di affrettare ravvici­ narsi dello stato stazionario. E interessante notare che Ricardo in persona era un proprietario terriero: egli acquistò dei terreni (e presumi­ bilmente applicò la sua teoria economica alla gestione dei suoi investimenti) e quando morì la sua proprietà venne valutata intorno ai cento milioni di dollari al prezzo odier­ no. Eppure, sia come parlamentare che come singolo cit­ tadino, egli si batté tenacemente contro l’interesse dei pro­ prietari terrieri, favorendo la riduzione delle tariffe sui prodotti agricoli e promuovendone il libero commercio a livello internazionale. In un certo senso si può dire che egli mettesse il benessere della nazione ben al di sopra del suo interesse personale di proprietario terriero. Vi è poi un secondo argomento che Ricardo impiegò per combattere le leggi sul grano, vale a dire quello per cui le barriere al commercio internazionale avrebbero diminui­ to il benessere di tutti i sistemi economici a livello mon­ diale. Ma per comprendere il ragionamento implicito in tale argomentazione dobbiamo prima esaminare la sua dottrina del vantaggio comparato. 8. II vantaggio comparato Un segnale inconfondibile dell’eccezionale acume anali­ tico di Ricardo è rappresentato dalla dottrina del vantag­

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gio comparato applicata all’analisi del commercio interna­ zionale, di cui egli si servì per sostenere la causa della li­ bertà dei commerci, ed irrobustire così l’analisi smithiana dei guadagni conseguibili dal libero movimento delle mer­ ci attraverso le frontiere internazionali. In base a quest’ultima, se la nazione A riesce a produrre un bene a un costo inferiore della nazione B, e viceversa la nazione B riesce a produrre un altro bene a costi inferiori rispetto ad A, allo­ ra entrambe le nazioni potrebbero guadagnare dalla spe­ cializzazione nella produzione e dal successivo commercio. Usando la terminologia tipica della teoria del commercio internazionale, se una nazione ha un vantaggio assoluto nella produzione di una merce, e un’altra nazione ha un vantaggio assoluto nella produzione di un’altra merce, cia­ scuna di esse guadagna se si specializza nella produzione della merce che costa meno produrre. Gli storici del pen­ siero economico non sono d ’accordo su chi per primo abbia elaborato la dottrina del vantaggio comparato, e si propende volta a volta per David Ricardo, Robert Torrens (1780-1864) e James Mill (1773-1836). In ogni caso è nel­ l’esposizione datane da parte di Ricardo che essa ha in­ fluenzato il pensiero economico successivo. Il vantaggio assoluto Prima di esaminare la teoria del vantaggio comparato conviene considerare un modello con due beni e due pae­ si, e analizzare il commercio internazionale quando ciascu­ no dei due paesi ha un vantaggio assoluto nella produzio­ ne di uno dei due beni.

Tab.4.3. P ro d o tto

Inghilterra Portogallo

p e r u n ità d i lav o ro

Vino (litri)

Stoffa (metri)

4 8

2 1

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Nella tabella 4.3 si vede che l’Inghilterra ha un vantag­ gio assoluto sul Portogallo nella produzione di stoffa. A dire il vero la tabella illustra questo vantaggio dal punto di vista del prodotto ottenibile, ma esso potrebbe parimenti essere illustrato dal punto di vista dei costi, dicendo che il costo di produrre stoffa, misurato in ore di lavoro, è mi­ nore in Inghilterra che in Portogallo. Il Portogallo dal can­ to suo ha un vantaggio assoluto nella produzione di vino. Per dimostrare la convenienza del commercio internazio­ nale occorre verificare se la produzione totale di vino e stoffa può essere aumentata attraverso la specializzazione, e se si riescono a raggiungere dei prezzi internazionali —o ragioni di scambio - per il vino e la stoffa tali che entram­ be le nazioni possano trarne un guadagno. Se l’Inghilterra trasferisce un’unità di lavoro dall’indu­ stria del vino a quella della stoffa, e il Portogallo ne trasfe­ risce una dall’industria della stoffa a quella del vino, la quantità di lavoro impiegata nelle due economie non cam­ bia, ma la produzione complessiva aumenta sia per il vino che per la stoffa. Infatti in Inghilterra la produzione di vino si riduce di 4 litri, ma in Portogallo aumenta di 8 litri, cosi che a livello mondiale lo spostamento di lavoro da un’in­ dustria all’altra garantisce una produzione superiore di 4 litri. Allo stesso modo in Portogallo la produzione di stof­ fa si riduce di 1 metro, mentre in Inghilterra aumenta di 2 metri, e a livello globale la produzione aumenta di 1 me­ tro. In questo modo con due sole nazioni il prodotto tota­ le è dunque maggiore se si trasferisce lavoro verso le indu­ strie che hanno un vantaggio assoluto. Per quel che riguarda il secondo aspetto, quello dei prezzi, occorre vedere se il commercio internazionale può garantire delle ragioni di scambio profittevoli per entram­ bi i paesi. Per comodità tratteremo i prezzi in termini di baratto, così che se in Inghilterra 1 metro di stoffa si scam­ bia contro 2 litri di vino, il prezzo della stoffa sarà il dop­ pio di quello del vino. In tal caso gli inglesi sarebbero di­ sposti a scambiare stoffa contro vino soltanto se ricevesse­ ro più di 2 litri di vino per ogni metro di stoffa. Analoga­ mente in Portogallo il prezzo interno sarà 8 litri di vino per 1 metro di stoffa, perciò i portoghesi scambierebbero solo a condizione di pagare meno di 8 litri di vino per avere 1

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metro di stoffa. In questo modo abbiamo stabilito che esi­ ste una serie di prezzi internazionali per il vino e per la stoffa tali che entrambe le nazioni guadagnerebbero dallo scambio: in particolare il commercio internazionale avrà luogo a prezzi compresi, diciamo, tra 7,9 litri di vino per 1 metro di stoffa e 2,1 litri di vino per 1 metro di stoffa. Il vantaggio comparato Sia Smith che Ricardo riconobbero dunque i vantaggi che derivano dalla specializzazione internazionale e dal commercio in presenza di vantaggi assoluti; ma cosa acca­ de quando un paese è più efficiente dell’altro nella produ­ zione di tutte le merci? Ipotizziamo per esempio che in Inghilterra si verifichi un incremento nella produttività del lavoro tale per cui il valore del prodotto per unità di lavo­ ro risulta ora pari al triplo del suo valore precedente, come illustrato nella tabella 4.4. T ab.4.4. P ro d o tto

Inghilterra Portogallo

p e r u n ita d i lav o ro

Vino (litri)

Stoffa (metri)

12 8

6 1

In questa situazione l’Inghilterra ha una produttività superiore a quella portoghese in entrambe le industrie, e, corrispondentemente, i suoi costi di produzione misurati in tempo di lavoro sono minori per entrambi i beni. Ebbe­ ne, il principio del vantaggio comparato mostra che anche con i dati della tabella 4.4 il commercio sarà la soluzione più vantaggiosa per entrambe le nazioni. Infatti, nonostan­ te l’Inghilterra abbia un vantaggio assoluto nella produzio­ ne dei due beni, non è il vantaggio assoluto il criterio cru­ ciale che determina la convenienza del commercio interna­ zionale, ma il vantaggio comparato. In questo esempio si

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IL PENSIERO ECONOMICO CLASSICO

vede che l’Inghilterra ha un vantaggio comparato nella produzione di stoffa così come il Portogallo lo ha nella produzione di vino. Come si fa a determinarlo? Occorre esaminare le produttività relative all’interno di ciascun si­ stema economico: il vantaggio comparato degli inglesi nel­ la produzione di stoffa risulta dal fatto che mentre in In­ ghilterra una unità addizionale di stoffa implica la perdita di due unità di vino, in Portogallo i litri di vino cui biso­ gna rinunciare sono 8; d’altro canto il vantaggio compara­ to dei portoghesi nel produrre vino è indicato dal fatto che per avere un litro di vino in più in Portogallo si rinuncia a solo 1/8 di metro di stoffa, mentre in Inghilterra ne occor­ re 1/2 metro. Vediamo ora come la specializzazione e il commercio permettono di aumentare la produzione totale mondiale quando l’Inghilterra produca più stoffa e meno vino, e il Portogallo meno stoffa e più vino. Nel primo caso una unità di lavoro spostata da un’industria all’altra aumenta la produzione di stoffa di 6 metri, e riduce quella del vino di 12 litri; nel secondo caso lo spostamento di due unità di lavoro assicura che la produzione di vino aumenta di 16 litri, mentre quella di stoffa si riduce di 2 metri. Il guada­ gno netto complessivo che ne risulta è di 4 litri di vino ( 16— 12) e di 4 metri stoffa (6-2). E altrettanto facile stabilire una serie di prezzi recipro­ camente vantaggiosi per i due paesi: quando (in principio di paragrafo) abbiamo ipotizzato che in Inghilterra si verifi­ casse un aumento di produttività, di fatto non abbiamo modificato i prezzi interni, avendo triplicato la produttività per ambedue le industrie. In questo modo sia i dati della tabella 4.3 che quelli della tabella 4.4 consentono di deter­ minare che 2 litri di vino in Inghilterra valgono 1 metro di stoffa. La conclusione allora è di nuovo quella per la quale tanto l’Inghilterra che il Portogallo guadagnerebbero dal commercio a condizione che i prezzi siano compresi tra 7,9 litri di vino per 1 metro di stoffa e 2,1 litri di vino per 1 metro di stoffa. In base a questo ragionamento Ricardo riuscì a dimo­ strare che l’elemento cruciale nel determinare i vantaggi del commercio internazionale non è il vantaggio assoluto ma il vantaggio comparato goduto dalle nazioni nelle diverse

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attività produttive. Il nostro esempio basato sulla tabella 4.4 ha dimostrato che, malgrado l’Inghilterra abbia un van­ taggio assoluto in ogni industria, a essa converrà scambia­ re con il Portogallo fintantoché quest’ultimo mantenga un vantaggio comparato in una delle industrie. Ciò che conta non è il confronto tra la produttività nell’industria inglese del vino e quella portoghese, ma il confronto tra i costi op­ portunità della stoffa nei due paesi. A questo proposito possiamo utilizzare i dati della ta­ bella 4.4 per costruire la tabella 4.5, e misurare i costi opportunità dei due beni nei due paesi. Mantenendo l’ipo­ tesi ricardiana della piena occupazione, se vogliamo pro­ durre quantità maggiori di un bene in un’industria il costo da sostenere può essere misurato nei termini della quanti­ tà dei beni cui dobbiamo rinunciare in altre industrie per potere spostare risorse verso l’industria in espansione. Nel nostro semplice modello a due beni il costo opportunità di un bene è esprimibile nei termini dell’altro bene: Tab. 4.5. Costi opportunità

Inghilterra Portogallo

Vino

Stoffa

/2 metro di stoffa

2 litri di vino 8 litri di vino

1s metro di stoffa

In Inghilterra il costo opportunità della stoffa (2 litri di vino) è minore di quello portoghese (8 litri di vino), mentre il costo opportunità del vino è minore in Portogallo (1/8 metro di stoffa) che in Inghilterra (1/2 metro di stoffa). Perciò se l’Inghilterra produce stoffa e la scambia con il vino prodotto dal Portogallo la produzione totale di en­ trambi i beni a livello mondiale è superiore a prima, ed entrambi i paesi possono trarne un guadagno. Per illustrare l’importanza che hanno nel commercio internazionale le differenze nei costi opportunità, provia­ mo a modificare i dati del nostro esempio e ipotizziamo che la situazione sia quella descritta dalla tabella 4.6.

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IL PENSIERO ECONOMICO CLASSICO

Tab.4.6. P ro d o tto

Inghilterra Portogallo

p e r u n ità d i la v o ro

Vino (litri)

Stoffa (metri)

12 8

6 4

L’Inghilterra ha ora un vantaggio assoluto nella produ­ zione sia di vino che di stoffa, ma non ha nessuna indu­ stria con un vantaggio comparato. I costi opportunità al­ l’interno di ciascun paese coincidono —quello di un metro di stoffa è ovunque 2 litri di vino, e quello di un litro di vino è ovunque 1/2 metro di stoffa - e quindi i prezzi re­ lativi dei due beni sono gli stessi nei due paesi: 2 litri di vino valgono 1 metro di stoffa (il prezzo della stoffa diviso per il prezzo del vino è uguale a 2). È chiaro che in una situazione in cui i costi opportunità sono gli stessi ovun­ que nessun paese ha un vantaggio comparato, e dunque non c’è nessuna convenienza a commerciare. Nonostante Ricardo fosse arrivato a stabilire i vantaggi del commercio internazionale nel caso di diversi costi op­ portunità nelle varie nazioni, egli non considerò un altro aspetto assai importante del problema: quali sarebbero sta­ ti i prezzi internazionali della stoffa e del vino, e come si sarebbero ripartiti i guadagni tra le diverse nazioni? Nel­ l’esempio da lui utilizzato si supponeva che il prezzo - o la ragione di scambio - tra vino e stoffa sarebbe stato stabi­ lito a metà strada tra i prezzi più favorevoli per ciascuna nazione, in modo che i guadagni sarebbero stati divisi in parti uguali. Anche Torrens considerò il problema, ma fu John Stuart Mill che diede la soluzione corretta, vale a dire quella per cui le ragioni di scambio a livello internazionale sarebbero dipese dalla importanza relativa della domanda di merci nelle nazioni che avrebbero preso parte al com­ mercio. Il concetto ricardiano di vantaggio comparato non solo è elegante dal punto di vista analitico, ma è anche impor­ tante dal punto di vista delle implicazioni di politica eco­ nomica. Se al posto del semplice modello a due beni e due nazioni del nostro esempio immaginiamo un mondo con

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molti beni e molte nazioni, esso indica che il commercio internazionale può comportare dei guadagni nella-misura in cui i costi opportunità sono diversi da nazione a nazio­ ne. Si tratta di un notevole ampliamento della posizione classica, presentata per la prima volta in modo argomenta­ to da Smith, e contraria in generale all’intervento pubbli­ co nel commercio internazionale. Elevando barriere alla libera circolazione dei beni attraverso le frontiere, le leggi sul grano non solo avrebbero rallentato il tasso di crescita dell’Inghilterra, redistribuendo il reddito dai capitalisti ai proprietari terrieri, ma avrebbero anche ridotto, in media, il benessere dei cittadini in tutte le nazioni. La dottrina del vantaggio comparato illustrava appieno la fallacia dell’opi­ nione, allora predominante, secondo la quale l’onere delle tariffe sarebbe stato sopportato dagli stranieri. Tale dottrina ha poi implicazioni ancora più estese e importanti di quelle che abbiamo visto valere nel caso del commercio internazionale. Come sappiamo, sia gli scolasti­ ci che i mercantilisti consideravano gli scambi e i commer­ ci come situazioni nelle quali una parte guadagna a spese dell’altra. Infatti, assumendo implicitamente che l’ammon­ tare totale dei beni sia fisso - un’ipotesi implicita anche nelle teorie che pongono il conflitto al centro dello scam­ bio - se qualcuno ci guadagna, ci deve essere qualcuno che ci perde, e l’esito delle contrattazioni prevede sempre al­ cuni vincitori e alcuni perdenti. Il principio del vantaggio comparato dimostra invece che lo scambio volontario può recare vantaggi a entrambi i contraenti, dal momento che gli aumenti di efficienza conseguenti alla specializzazione (nella produzione in cui si ha un vantaggio comparato) conducono a un prodotto totale maggiore. Le applicazioni di questo principio ne dimostrano l’importanza a qualsiasi livello, dalla singola città alla nazione, e non solo per ciò che attiene al com­ mercio internazionale. Supponiamo che il migliore avvoca­ to sia anche il miglior dattilografo della città: questo non vuol dire che egli dovrà battere personalmente a macchina le sue pratiche legali, ma che in ogni caso gli converrà as­ sumere una dattilografa, perché nonostante egli abbia un vantaggio assoluto in entrambe le attività, il reddito che percepirà sarà più alto se egli si dedicherà, specializzando­

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IL PENSIERO ECONOMICO CLASSICO

si, a quella in cui ha un vantaggio comparato. La sua se­ gretaria, d’altro canto, che volontariamente accetta di ri­ cevere un salario inferiore a quello dell’avvocato, ha con­ venienza a specializzarsi nell’area del suo vantaggio com­ parato. In questo modo il prodotto totale viene aumentato e la torta da spartire è più grande per tutti i partecipanti: il criterio vale evidentemente non solo tra l’avvocato e la dattilografa, ma anche tra lo stato di New York e quello della California, e tra l’Inghilterra e il Portogallo. Se dunque il principio smithiano del vantaggio assolu­ to aveva incrinato la posizione mercantilista di protezione delle industrie, la dottrina del vantaggio comparato la di­ strusse del tutto. Fatto ancor più importante, tale dottrina dimostrò che anche in presenza di conflitti sociali generati dalla scarsità relativa, gli scambi volontari tra gli agenti economici possono aumentare il prodotto totale e assicu­ rare benefici per tutti. Per fortuna né l’avvocato né la dat­ tilografa hanno bisogno, per fare le loro scelte, di conosce­ re la teoria del vantaggio comparato: essa infatti intende spiegare il loro comportamento, non il loro modo di pen­ sare! Ricardo e l’arte dell’economia Nel capitolo introduttivo di questo manuale abbiamo delineato la distinzione tra economia positiva, economia normativa e arte dell’economia, e abbiamo già visto nel terzo capitolo come Adam Smith fosse un maestro nell’utilizzare l’analisi contestualizzata per elaborare le sue propo­ ste di politica economica. Cosa possiamo dire a proposito dell’atteggiamento scientifico di Ricardo? Certamente egli adottava una metodologia molto più astratta e un approc­ cio meno contestualizzato di quelli di Smith, eppure eccel­ leva comunque nell’arte dell’economia. La sua preoccupa­ zione era diretta alle conseguenze delle politiche protezio­ nistiche applicate all’agricoltura britannica: per mezzo del­ la teoria del valore-lavoro e di altre ipotesi parimenti astrat­ te egli giunse alla conclusione che le leggi sul grano avreb­ bero ridotto i profitti e provocato una riduzione nei tassi di accumulazione del capitale e di crescita del prodotto, e

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che quindi una buona politica economica sarebbe consisti­ ta nella liberalizzazione dei commerci. Allo stesso modo il suo modello di vantaggio comparato era astratto e privo di qualsiasi contestualizzazione, ma gli servì per sostenere che gli scambi volontari avrebbero aumentato i vantaggi eco­ nomici che i vari soggetti avrebbero potuto spartirsi tra di loro. Possiamo perciò concludere che l’evidenza fornita dagli esempi di Smith e Ricardo suggerisce che l’arte della politica economica può essere padroneggiata con maestria da economisti che pure hanno approcci metodologici com­ pletamente diversi tra di loro. ■il Q uadro 4.4.

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La rilevanza di Ricardo Che l’importanza dell’analisi di Ricardo sia viva ancor oggi è dimostrato dall’attualità di domande come questa: è giusto ave­ re tariffe, quote e altri strumenti che proteggano l’industria e l’agricoltura nazionali (americana) dalla concorrenza straniera? La sua intuizione era che le misure pensate a scopo di protezio­ ne in realtà finivano per danneggiare gli stessi cittadini (ameri­ cani). Esse infatti aumentano la quota relativa del reddito distri­ buito ad alcuni settori a spese di altri. Ad esempio, le quote, le tariffe e gli accordi per contenere l’importazione di automobili giapponesi hanno l’effetto di redistribuire il reddito reale dagli acquirenti di automobili - e fra questi anche gli acquirenti di vetture di produzione nazionale (americana) - verso i lavorato­ ri, i dirigenti e gli azionisti dell’industria automobilistica. La dottrina ricardiana del vantaggio comparato dimostra però che l’effetto ultimo delle barriere alla libertà del commer­ cio è quello di ridurre la dimensione complessiva della torta eco­ nomica mondiale da spartire. Per esempio, i sussidi all’agricol­ tura nazionale applicati oggigiorno un po’ dovunque riducono in modo significativo il benessere della maggior parte dei cittadini di tutto il pianeta. Una delle intenzioni perseguite dagli economisti classici con­ sisteva nel riflettere sulle tendenze del capitalismo nel lungo pe­ riodo. Sappiamo così che il futuro economico dell’umanità di­ pende dall’operare di due forze contrapposte: i rendimenti de­ crescenti (enfatizzati da Ricardo), ehe. fatino diminuire il prodot­ to incrementale del capitale e del lavoro applicati all’agricoltura e all’industria; e lo sviluppo tecnologico, che invece lo fa aumen­

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tare. Quale forza è destinata a prevalere? Gli economisti hanno da sempre sottostimato il tasso di sviluppo tecnologico, probabilmen­ te perché non hanno mai capito con precisione il processo che lo determina. E possibile influenzarlo tramite politiche pubbliche a sostegno degli investimenti in ricerca e sviluppo? E anche se si potesse farlo, queste spese sono a loro volta soggette alla legge dei rendimenti decrescenti? È proprio inevitabile che si giunga nel lungo periodo allo stato stazionario prefigurato da Ricardo? Sono questi gli interrogativi che sorgono quando si esamina la teoria ricardiana e che ancora oggi devono trovare una risposta definiti­ va.

9. Stabilità e crescita in un’economia capitalistica Il dibattito sviluppatosi tra Malthus e Ricardo sulla ca­ pacità di un sistema capitalistico di mantenere il pieno impiego delle proprie risorse influenzò in modo decisivo l’evoluzione della teoria economica. Nella letteratura spe­ cializzata ci si riferisce a tale dibattito come alla controver­ sia sulla legge di Say, dal nome dell’economista francese Jean Baptiste Say (1776-1832). Nel corso di tale dibattito la posizione di Ricardo risultò vincente, e dopo di lui il pensiero economico ortodosso ha dedicato assai poca at­ tenzione alle questioni legate alla legge di Say fino agli anni trenta, quando John Maynard Keynes sviluppò la propria teoria macroeconomica e allo stesso tempo criticò le posi­ zioni di Ricardo. Qual è dunque la sostanza della legge di Say? Essa afferma che un sistema capitalistico garantisce automaticamente la piena occupazione delle sue risorse e alti tassi di crescita economica. Nella disputa su questa posizione, tra coloro che si schierarono a favore v’erano Ricardo, James Mill e Jean Baptiste Say, mentre l’attacco principale veniva da Malthus: tuttavia, dato che l’argo­ mento della stabilità e della crescita di un sistema capita­ listico era già stato sviluppato nell’ambito della letteratu­ ra mercantilista, è da tale letteratura che noi iniziamo per mettere a fuoco con maggiore dettaglio i termini del di­ battito.

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La concezione mercantilista della domanda aggregala Se per la maggior parte dei mercantilisti la parsimonia e il risparmio dei soggetti economici rappresentavano un bene per la nazione, v’erano però alcuni di essi che ritene­ vano che il risparmio avrebbe condotto alla disoccupazio­ ne, e che soltanto una maggiore spesa per i consumi avreb­ be provocato un incremento dell’attività economica e dunque un vantaggio collettivo. Tra i più spinti sostenitori di questa posizione ricordiamo Bernard Mandeville, che espresse le sue opinioni per mezzo di un poema allegorico arricchito di parecchi commenti a margine, tutti raccolti sotto il titolo di La favola delle api. In esso si legge che la prosperità e l’occupazione sono conseguenza delle spese, in particolare delle spese per i consumi di lusso, mentre il risparmio avrebbe danneggiato l’economia abbassandone il livello di produzione e di occupazione. In virtù di tale posizione Mandeville criticava i suoi contemporanei accu­ sandoli di incoerenza riguardo alle loro opinioni sul rispar­ mio e sulla prosperità: «Desiderare che il commercio e la navigazione si sviluppino mentre il lusso si riduca è una contraddizione»15. La concezione di Smith della domanda aggregata Smith respinse apertamente le posizioni di Mandeville e dei mercantilisti sostenitori dell’orientamento appena descritto: a suo parere erano invece frugalità e parsimonia a dover essere apprezzate, dato il ruolo svolto nel suo si­ stema teorico dall’accumulazione del capitale come deter­ minante principale della crescita e della prosperità. Dal suo punto di vista i «sottoconsumisti», cioè coloro che crede­ vano che un consumo insufficiente avrebbe portato alla depressione e a bassi tassi di crescita, non identificavano correttamente il ruolo del processo di risparmio e investi­ mento all’interno dell’economia: un processo in base al quale il risparmio non riduce la domanda aggregata ma13 13 Bernard Mandeville, A Letter to Dion, a cura di B. Dobrée, Liverpool, University Press of Liverpool, 1954, p. 49.

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semplicemente la reindirizza dai beni di consumo verso i beni di investimento. I capitali aumentano con la parsimonia e diminuiscono con la prodigalità e la cattiva condotta... Come il capitale di un indi­ viduo può aumentare soltanto mediante ciò che egli risparmia dal suo reddito annuale o dai suoi guadagni annuali, così il ca­ pitale di una società, che è uguale a quello di tutti gli individui che la compongono, può aumentare soltanto allo stesso modo... Ciò che annualmente viene risparmiato, viene consumato altret­ tanto regolarmente e quasi nello stesso tempo dalla spesa annua­ le; ma è consumato da una differente classe di persone14. Il sottoconsumismo malthusiano Chi non è un economista di mestiere generalmente ab­ bina il nome di Thomas Robert Malthus soltanto alla sua teoria della popolazione, e così pure è stato fatto da molti degli stessi economisti fino a che gli scritti di John May­ nard Keynes hanno ravvivato l’interesse per le sue teorie economiche. Queste ultime sono sparse all’interno dei nu­ merosi saggi scritti da Malthus, ma soprattutto nei suoi Principi di economia politica (pubblicati per la prima volta nel 1820) e ci permettono di cogliere i numerosi punti di distanza dalle teorie di Ricardo. Il tema di cui stiamo trat­ tando in modo particolare, cioè le conseguenze economi­ che del risparmio e dell’accumulazione di capitale, è espo­ sto nel primo capitolo del Libro II dei Principi di econo­ mia politica, intitolato Sull’aumento della ricchezza (questo primo capitolo del Libro II in effetti fa riferimento alla seconda edizione dei Principi di economia politica, quella pubblicata nel 1836 e solitamente reperibile, e corrispon­ de sostanzialmente al settimo capitolo della prima edizio­ ne del 1820). Per Smith il progresso economico dipendeva: dalla di­ mensione e dall’efficienza della forza lavoro; dalla quanti­ 14 Adam Smith, An Inquiry into thè Nature and Causes of thè Wealth of Nations, a cura di E. Cannan, e con un’introduzione di Max Lerner, New York, Modern Library, 1937; trad. it. La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. Bagiotti, Torino, Utet, 1975, pp. 459-460.

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tà e qualità delle risorse naturali; dalla struttura istituzio­ nale; dall'ammontare di accumulazione del capitale, ritenu­ ta la variabile strategica per la crescita. Anche per Ricardo l’accumulazione di capitale è la principale determinante della crescita della ricchezza per una nazione. Tuttavia l’analisi di questi due autori è basata esclusivamente su considerazioni dal lato della offerta aggregata: la crescita è limitata soltanto dal grado con cui una nazione può aumen­ tare la sua offerta di lavoro, di capitale e di risorse natura­ li. Cosa succede invece quando la domanda aggregata per il prodotto finito scende al di sotto dell’offerta, provocan­ do una situazione di sottooccupazione o di depressione? I pochi mercantilisti che si erano interrogati sulla pos­ sibilità del sottoconsumo o della sovrapproduzione furono di fatto zittiti dalla forza delle controargomentazioni smithiane. In ogni caso, all’inizio del 1800 ci si pose di nuovo il problema, e Lord Lauderdale (1759-1839) in Indagine sulla natura e l’origine della ricchezza pubblica (1804) e Jean Charles Sismondi (1773-1842) in Nuovi principi di econo­ mia politica (1819) misero in discussione la possibilità che un sistema economico garantisca in modo automatico la piena utilizzazione delle risorse. Nel 1820 Malthus riprese le loro argomentazioni e diede vita con Ricardo a un di­ battito divenuto famoso. Nel Libro II dell’edizione del 1836 dei Principi di economia politica Malthus esamina le presunte cause addotte per spiegare la crescita economica, e le critica come inadeguate, proprio perché a suo parere occorre considerare il lato della domanda o, come la chia­ mava lui, della «domanda effettiva». Purtroppo egli non chiarì mai cosa intendesse per domanda effettiva, e certa­ mente la sua comprensione delle questioni legate alla leg­ ge di Say è piuttosto confusa; però egli capì, senza affer­ rarne bene la natura, che potevano esserci delle difficoltà nel mantenere il pieno impiego delle risorse. In tal modo la sua discussione del processo di accumu­ lazione di capitale presenta sia alcune ingenuità che alcu­ ne analisi più raffinate del problema della piena occupa­ zione. L’aspetto più ingenuo è dato dall’osservazione se­ condo cui il lavoratore non è retribuito con tutto il suo prodotto, e la domanda dei lavoratori non è sufficiente, da sola, ad acquistare tutti i beni finali a prezzi soddisfacenti:

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i lavoratori infatti hanno il desiderio di acquistare i beni ma non hanno il necessario potere di acquisto, mentre i capitalisti, che avrebbero il potere di acquisto, non hanno lo stesso desiderio. Questo è certamente corretto, ma non tiene conto del fatto che se i capitalisti restituiscono al mercato i loro risparmi sotto forma di domanda per beni intermedi, allora la domanda aggregata non sarà insuffi­ ciente. In effetti Malthus accettava la nozione per cui i ri­ sparmi non sono tenuti inoperosi, ma defluiscono verso il mercato a titolo di spesa per investimenti: è vero che a volte suggerì altre funzioni della moneta, e che discusse la posizione ricardiana per la quale la moneta è solo un mez­ zo di scambio e nessuno trattiene presso di sé potere di ac­ quisto inutilizzato, ma è anche vero che non sviluppò mai queste intuizioni in una vera e propria spiegazione mone­ taria delle depressioni. Per quanto attiene agli aspetti più raffinati dell’analisi malthusiana, l’intuizione più felice è quella secondo la quale il processo di risparmio e investimento non può pro­ seguire indefinitamente senza condurre nel lungo periodo alla stagnazione. Il punto di partenza è che esiste un tasso appropriato di accumulazione di capitale che l’economia riesce ad assorbire, e che un livello troppo elevato di rispar­ mi e investimenti creano dei problemi: infatti, da un lato, con il risparmio si riduce la domanda per i beni di consu­ mo, e dall’altro con l’investimento si determina la produ­ zione di più beni di consumo nel futuro. Malthus riconob­ be inoltre che per poter mantenere nel tempo la piena occupazione in un sistema capitalistico, occorre che il li­ vello totale dell’output e del consumo continuino a espan­ dersi. Come dice la Regina Rossa in Attraverso lo specchio di Lewis Carroll: «ora qui vedi (...). Qui, invece, devi cor­ rere più che puoi, per restare nello stesso posto». La conclusione di Malthus era la seguente: poiché la domanda effettiva dei lavoratori e dei capitalisti si dimo­ stra essere insufficiente, occorre che il divario sia colmato da quei soggetti che nella società consumano senza produr­ re, ossia da coloro che forniscono servizi (insegnanti, ser­ vitori, pubblici ufficiali, ...) e dai proprietari terrieri. Una delle funzioni sociali dei proprietari terrieri è dunque quel­ la di consumare senza produrre, e per questa via contribui­

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re a impedire la depressione e l’eventuale stagnazione del­ l’economia. La legge di Say Il filone ortodosso dell’economia classica, che respinge­ va le critiche di Lauderdale, Sismondi e Malthus, andava elaborando le sue posizioni in modo energico ed esplicito nelle opere di Jean Baptiste Sa}7, James Mill e David Ricar­ do. Per questi autori il processo di produzione dei beni è sufficiente a generare un potere di acquisto tale da poterli poi ricomprare sul mercato a prezzi soddisfacenti, essendo il fenomeno della sovrapproduzione —o saturazione, come la chiamavano loro - possibile per mercati particolari ma non a livello dell’intero sistema economico. Qualsiasi fles­ sione nel livello generale dell’attività economica sarebbe stata infatti di breve durata, poiché il mercato da solo avrebbe ripristinato il pieno impiego delle risorse, e que­ sto spiega perché i classici insistessero nel sostenere che nel lungo periodo non vi sarebbe stata un’accumulazione di ca­ pitale in eccesso. In effetti se si produce un’automobile e la si vende al prezzo di 9.000 dollari e si prova a dedurre dal prezzo le retribuzioni dei vari fattori di produzione, non vi sarà per definizione alcun residuo, perché ciò che non costituisce salario, rendita o interesse, va ai capitalisti a titolo di pro­ fitto. Questo significa che dopo l’acquisto dell’automobile vi sono 9.000 dollari di potere d’acquisto nelle mani dei lavoratori, dei proprietari terrieri e dei capitalisti. La stes­ sa situazione si verifica a livello dell’intero sistema econo­ mico, nel senso che il valore del prodotto annuale è distri­ buito a titolo di potere d’acquisto tra i vari soggetti econo­ mici e non si pone quindi il problema di accertare se il potere d ’acquisto generato dal processo produttivo sia sempre sufficiente al riacquisto dei beni prodotti. E vero, come gli stessi classici riconoscevano, che domanda e of­ ferta possono anche non incontrarsi in un determinato mercato, e che quindi vi può essere sovrapproduzione - o eccesso di offerta - di alcuni beni particolari per ragioni che possono venire sia dal lato della domanda che da quel-

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lo dell’offerta; ma è anche vero che l’eccesso di offerta in un’industria implica che vi debba essere un eccesso di do­ manda in un’altra. Sotto l’ipotesi di prezzi flessibili e di mobilità delle risorse, i fattori di produzione si sposteran­ no dall’industria con eccesso di offerta verso quella con eccesso di domanda, e nel lungo periodo è così assicurata la piena occupazione delle risorse. Si può porre a questo punto una domanda: se anche il potere d ’acquisto è sufficiente a riacquistare i beni presen­ ti sul mercato, che garanzia c’è che esso verrà effettivamen­ te utilizzato? La risposta contenuta nella legge di Say, in­ fatti, viene spesso descritta dicendo che l’offerta crea la propria domanda. Tuttavia non è qui in discussione il fat­ to che l’offerta generi una domanda potenziale: il punto cruciale è invece se la domanda potenziale viene espressa sul mercato come domanda effettiva. Ricardo, James Mill e J.B. Say trattarono la questione semplicemente afferman­ do che tutto il potere d’acquisto potenziale sarebbe ritor­ nato al mercato a titolo di domanda o per beni di consu­ mo o per beni di investimento: praticamente un ritorno alla tesi smithiana per cui decidere di risparmiare è al tempo stesso decidere di investire. In questo modo veniva esclusa la possibilità del tesoreggiamento, cioè del fenomeno per cui si chiude l’oro in cassaforte, e il ruolo della moneta veniva limitato a quello di puro mezzo di scambio, così che non si dessero ragioni monetarie a monte delle depressio­ ni o delle stagnazioni. Ci sono in effetti delle debolezze nella difesa classica della legge di Say, ma purtroppo Mal­ thus non le percepì con chiarezza, e tentò di provarne l’in­ fondatezza facendo ricorso a ipotesi che servono invece a dimostrarne la validità. Egli rimase perciò con il sospetto che la teoria non fosse corretta, senza essere tuttavia in grado di trasformare tale intuizione in una critica rigorosa o in una teoria alternativa delle determinanti del livello del reddito e del tasso di crescita. La «controversia bullionista», Henry Thornton e la teoria monetaria di Ricardo Le posizioni di Ricardo sulla legge di Say si svilupparo­ no nel corso delle dispute - a cui ci si riferisce con il nome

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di controversia bullionista (dall’inglese bullions, metalli preziosi detenuti come riserva monetaria) - che ebbero luogo agli inizi del 1800 in merito alle cause dell’inflazio­ ne verificatasi al tempo delle guerre napoleoniche. I bullionisti la identificavano nell’espansione monetaria verifi­ catasi nel corso delle guerre, mentre per gli anti-bullionisti le cause erano diverse e complesse, e comunque include­ vano anche fattori reali, come ad esempio le cattive annate per i raccolti. Gli anti-bullionisti sostenevano la dottrina delle cambiali reali (Reai Bills Doctrine), vale a dire la dot­ trina in base alla quale se l’emissione di moneta fosse stata legata a operazioni finanziarie e commerciali di breve pe­ riodo (per esempio il finanziamento delle scorte), allora essa non avrebbe mai potuto essere in eccesso: con una crescita dell’offerta moneta proporzionata ai bisogni del commercio reale, le cause deH’inflazione avrebbero dovu­ to essere ricercate al di fuori del settore monetario. Uno dei principali esponenti della corrente anti-bullionista fu Robert Torrens (1780-1864), che diede una buona esposi­ zione di quelle posizioni teoriche nel suo Saggio sulla mo­ neta e la valuta cartacea (1812). All’interno di questo dibattito Ricardo divenne presto uno degli alfieri della posizione bullionista la quale, anti­ cipando l’attuale monetarismo, vedeva nell’inflazione un fenomeno esclusivamente monetario. Partendo dalla con­ cezione che il funzionamento dell’economia risieda tutto nel settore reale, la sua teoria monetaria descrive la mo­ neta come nient’altro che un velo che ricopre l’economia reale, e gli interventi che egli fece nel corso della disputa sono pensati esattamente con l ’obiettivo di rimuovere quel velo. La sua celebrità fece sì che le sue posizioni mettessero in ombra quelle di Henry Thornton (1760-1815), un eco­ nomista che invece, almeno sulle questioni monetarie, era assai più acuto e profondo. Nel suo libro più famoso, In­ dagine sulla natura e sugli effetti del credito cartolare in Gran Bretagna (1802), Thornton elaborò un’analisi note­ volmente raffinata non solo della relazione tra i livelli del­ la moneta e dei prezzi, ma anche dei canali attraverso i quali la moneta influenza i prezzi, che egli ravvisò prin­

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cipalmente nei tassi di interesse e nelle procedure di concessione dei prestiti da parte delle banche, individuan­ do in questo modo la possibilità che un disequilibrio di natura monetaria potesse condizionare l’economia reale. A parere di Thornton la moneta era dunque qualcosa di più di un semplice velo, e nella sua trattazione ritroviamo per­ fino la distinzione tra tassi di interesse reali e tassi di inte­ resse nominali. Tuttavia, come spesso accade nella scienza economica e in altre discipline, queste sue teorizzazioni così sofisticate caddero nel dimenticatoio, mentre la teoria monetaria classica di riferimento restò un modello sempli­ cistico della teoria quantitativa della moneta elaborata da Ricardo, dove le variabili monetarie sono semplicemente il velo dietro al quale si nascondono quelle reali. ha disoccupazione tecnologica In occasione della terza e ultima edizione dei Principi di economia politica del 1821 Ricardo aggiunse un nuovo capitolo intitolato Macchine (On Machinery), in cui analiz­ zò le conseguenze dell’introduzione delle macchine nel­ l’economia. La sua opinione fino ad allora era stata che l’introduzione di macchinario in sostituzione del lavoro non avrebbe provocato disoccupazione e avrebbe rappre­ sentato un vantaggio per la società. Benché vi fosse da parte dei lavoratori la preoccupazione crescente che l’in­ troduzione di nuove macchine avrebbe potuto creare di­ soccupazione, Ricardo non trattò mai direttamente la que­ stione nelle prime due edizioni dei Principi di economia politica, ma nel suo Saggio sul profitto arrivò alla conclu­ sione che l’effetto ultimo sarebbe stato quello di alzare il livello del salario reale. Analogamente in un discorso in parlamento del 1819, così come in una lettera scritta al­ l’amico McCulloch, egli sostenne che la domanda di lavo­ ro non sarebbe diminuita15. Evidentemente Ricardo dovet­ te cambiare idea dopo aver letto e valutato criticamente i Principi di economia politica di Malthus, e nel nuovo capi­ 15 Ricardo, Principi di economia politica e dell'imposta, cit., p. 156.

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tolo aggiunto ai propri Principi di economia politica - quel­ lo intitolato, appunto, Macchine - affermò «che l’opinione della classe lavoratrice secondo la quale l’impiego della macchine è spesso dannoso ai propri interessi non si basa sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti prin­ cìpi dell’economia politica»16. La discussione sulla possibilità di disoccupazione tecno­ logica, tuttavia, non è così in contrasto con l’impossibilità di sovrapproduzione a livello generale come la citazione precedente lascerebbe pensare. Ricardo è dell’idea che se il macchinario di nuova introduzione viene finanziato de­ stinando a capitale fisso quello che prima era capitale cir­ colante, allora il fondo-salari si riduce generando disoccu­ pazione (e tra l’altro non discute quanto questa situazione si protragga o come le forze di mercato potrebbero ripri­ stinare un nuovo equilibrio di piena occupazione). Se però il nuovo macchinario viene finanziato con il risparmio piut­ tosto che con il capitale circolante, allora la disoccupazio­ ne non si verifica. Sembra chiaro, quindi, non solo che Ri­ cardo stesse modificando la propria posizione sulla possi­ bilità che la disoccupazione seguisse all’introduzione di macchinario in sostituzione del lavoro, ma anche che non riuscisse a riconciliare tale posizione con l’accettazione della legge di Say. L’opinione di Keynes su Malthus e Ricardo Se vi è oggi dell’interesse per la controversia tra Mal­ thus e Ricardo riguardo alla legge di Say, e in generale per le idee economiche di Malthus al di là della sua tesi sulla popolazione, questo è in larga misura dovuto alla teoria macroeconomica di Keynes e al fatto che egli apprezzasse Malthus mentre criticava Ricardo. Le opinioni di Keynes su questi due autori, che sono contenute in un saggio su Malthus (riprodotto nell’opera Politici ed economisti) e nella Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, si riferiscono in modo particolare a tre questioni: 16 Ibidem, p. 519.

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1) la controversia sulla legge di Say; 2) la metodologia ap­ propriata per la scienza economica; 3) le conseguenze, per lo sviluppo successivo dell’economia politica come disci­ plina, del fatto che la posizione di Ricardo fosse risultata decisamente vincente rispetto a quella di Malthus in meri­ to a entrambe le questioni precedenti. Nella Teoria gene­ rale si legge: l’idea che si possa tranquillamente trascurare la funzione di do­ manda complessiva è fondamentale nell’economia ricardiana, che rimane la base di ciò che ci è stato insegnato da più di un secolo. E vero che Malthus si è opposto energicamente alla dottrina ricardiana che un’insufficienza della domanda effetti­ va fosse impossibile; ma invano. Poiché Malthus, non essendo stato capace di spiegare chiaramente (salvo un richiamo ai fat­ ti di osservazione comune) come e perché la domanda effetti­ va potesse essere insufficiente o eccessiva, non riuscì ad elabo­ rare una costruzione da sostituire a quella ricardiana; e Ricar­ do conquistò completamente l’Inghilterra come l’Inquisizione conquistò la Spagna. Non soltanto la sua teoria venne accetta­ ta dai finanzieri, dagli uomini di stato e dal mondo accademi­ co; ma cessò ogni controversia, l’altro punto di vista scompar­ ve completamente e non fu più discusso. Il grande problema della domanda effettiva, col quale Malthus aveva lottato, scom­ parve dalla letteratura economica; non lo si troverà menziona­ to nemmeno una volta in tutte le opere del Marshall, dell’Edgeworth e del prof. Pigou, dai quali la teoria classica ha rice­ vuto la sua formazione più matura. Esso potè soltanto soprav­ vivere furtivamente nel mondo sotterraneo di Carlo Marx, di Silvio Gesell e del maggiore Douglas. La compiutezza della vittoria ricardiana partecipa della cu­ riosità e del mistero; dev’esser stata dovuta a un insieme di ca­ ratteristiche insite nella dottrina, che la rendevano rispondente all’ambiente nel quale fu enunciata. Il fatto che essa pervenisse a conclusioni del tutto diverse da quanto si aspetterebbe una comune persona non istruita, accrebbe - io penso - il suo pre­ stigio intellettuale; che i suoi insegnamenti, tradotti in pratica, fossero austeri e spesso sgradevoli, le conferì virtù; che fosse atta a sostenere una vasta e coerente sovrastruttura logica, le dette bellezza; che potesse spiegare molte ingiustizie sociali e crudel­ tà evidenti come un incidente inevitabile nel cammino del pro­ gresso, e che dimostrasse in complesso più atto a far male che bene ogni tentativo di cambiare quello stato di cose, la racco­ mandò all’autorità; che essa offrisse una certa giustificazione alla

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libera attività del singolo capitalista, le valse l’appoggio della for­ za sociale dominante dietro l’autorità17. Nel suo saggio su Malthus, Keynes ne apprezza la com­ prensione della difficoltà per il sistema economico di man­ tenere la piena occupazione, e ne cita le lettere scritte a Ricardo «per mostrare la completa comprensione in Mal­ thus degli effetti di un risparmio eccessivo sulla produzio­ ne attraverso i suoi effetti sul profitto»18. Tuttavia gli stori­ ci del pensiero sono d’accordo nell’affermare che Keynes abbia sopravvalutato la nozione malthusiana, peraltro piut­ tosto vaga, dell’incapacità dell’economia di raggiungere il pieno impiego. L’intuizione era senz’altro corretta, ma la critica di Malthus a Ricardo era debole e lacunosa, e soprat­ tutto, come nota lo stesso Keynes, non veniva proposta nes­ suna costruzione teorica in alternativa alla legge di Say. Un altro tema individuato da Keynes, e strettamente legato a questo, riguarda le differenti prospettive metodologiche che caratterizzavano Malthus e Ricardo. Abbiamo notato in precedenza come Ricardo, avendo rimpiazzato la combinazione smithiana di teoria e descrizione storica con l’utilizzo di modelli teorici rigorosamente astratti, avesse rappresentato un punto di svolta dal punto di vista della metodologia dell’economia. Malthus invece, malgrado il carattere deduttivo della prima edizione del Saggio sul prin­ cipio della popolazione, approdò a un’impostazione marca­ tamente induttiva nella seconda e nelle successive edizio­ ni. E proprio questo approccio che Keynes approva senza riserve, criticando invece gli astratti modelli di Ricardo, come è illustrato nei due paragrafi della Teoria generale sopra citati. In essi troviamo infatti tre accenni alla questio­ ne del metodo: uno è per approvare il «richiamo ai fatti di osservazione comune» da parte di Malthus; gli altri due per 17John M. Keynes, The General Theory of Employment, Interest ami Mo­ ney, London, Macmillan, 1936;,trad. it. Teoria generale dell'occupazione, del­ l’interesse e della moneta, in Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta e altri scritti, a cura di A. Campolongo, Torino, Utet, 197 82, pp. 190-191. 18John M. Keynes, Essays in Biography, London, Macmillan, 1933; trad. it., con qualche aggiunta. Politici ed economisti, a cura di B. Maffi, Torino, Einaudi, 1974, p. 94.

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denigrare il modello ricardiano, che perveniva «a conclu­ sioni del tutto diverse da quanto si aspetterebbe una co­ mune persona non istruita» ed era atto «a sostenere una vasta e coerente sovrastruttura logica». L’elogio di Keynes prosegue poi per Malthus e per tutti coloro che, «seguen­ do le loro intuizioni, hanno preferito vedere oscuramente e imperfettamente la verità, piuttosto che persistere in un errore, ch’era stato raggiunto bensì con chiarezza e coeren­ za e facile logica, ma su ipotesi inadatte ai fatti»19. Il moti­ vo per cui Keynes apprezza il metodo di indagine di Mal­ thus viene spiegato in modo esplicito nelle pagine del suo saggio dedicato a quest’ultimo: è un «metodo per il quale ho vivissima simpatia ed è, penso, più suscettibile di por­ tare a giuste conclusioni che quello di Ricardo»20; si tratta dunque di un apprezzamento in qualche modo interessa­ to, essendo per sua stessa ammissione la metodologia malthusiana simile a quella da lui adottata. Nell’opinione di Keynes «l’abbandono quasi completo della linea seguita da Malthus nell’affrontare i problemi, e il dominio esclusivo di quella di Ricardo per un secolo» sono stati, «ai fini degli sviluppi dell’economia, un vero disastro»21. Da qui la sua conclusione, chiarissima, di pre­ ferenza per il primo rispetto al secondo: «oh, se Malthus fosse stato invece di Ricardo il ceppo dal quale il pensiero economico del secolo X IX si è sviluppato, come sarebbe più saggio e ricco il mondo, oggi!»22. Vi sono in questo giudizio delle verità e degli errori. Di sicuro l’economia sarebbe oggi in grado di comprendere molto meglio le for­ ze che determinano il livello del reddito e dell’occupazio­ ne se le domande poste da Malthus fossero state discusse in modo più approfondito. Così pure, se la macroecono­ mia si fosse sviluppata prima, si sarebbero potuti evitare i grandi sconvolgimenti economici e sociali che si manifesta­ rono tra le due guerre mondiali, e, presumibilmente, le forze economiche e sociali che condussero alla seconda 19 Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, cit., p. 542. 20 Keynes, Politici ed economisti, cit., p. 82. 21 Ibidem, p. 93. 22 Ibidem, p. 96.

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guerra mondiale forse non avrebbero avuto modo di espli­ carsi. Il problema della posizione di Keynes, tuttavia, è che essa è formulata col senno di poi. Come dovremmo valu­ tare una proposizione o una teoria economica se ci pones­ simo, in qualità di osservatori, al tempo in cui essa è for­ mulata? Dovremmo accettare i pensieri vaghi e intuitivi di un Malthus, la cui posizione, almeno in parte, cerca di oggettivare gli interessi dei consumatori improduttivi e specialmente dei proprietari terrieri, oppure dovremmo accettare le opinioni chiare, logiche e coerenti di un Ricar­ do, che invece dà voce agli interessi dei capitalisti? Può darsi che vi sia qualcun altro che risponde al nostro posto e che, come suggerisce Keynes, la posizione vincente deb­ ba avere «l’appoggio della forza sociale dominante dietro l’autorità»23. Tuttavia la nostra speranza è che nelle scien­ ze sociali in generale, e nella scienza economica in partico­ lare, sia possibile elaborare dei criteri in base ai quali ac­ cettare una teoria, che siano il meno possibile orientati dal punto di vista dell’ideologia politica. Riepilogo Il primo quarto del diciannovesimo secolo portò indub­ biamente parecchi nuovi contributi allo sviluppo della te­ oria economica. Vi è un solo altro periodo così breve e così significativo nella storia del pensiero economico, ed è quel­ lo intorno al 1930, quando le grandi depressioni attiraro­ no l’attenzione degli economisti verso problemi nuovi, esattamente come i prezzi crescenti nell’agricoltura, le ren­ dite fondiarie e le leggi sul grano avevano attratto quella di Ricardo e degli altri al loro tempo. Ricardo fu in certo senso l’uomo giusto al momento giusto: la sua lucidità analitica fu capace infatti di individuare e selezionare le cose decisive da quelle meno importanti, e di costruire un modello teorico che dominasse il pensiero economico per circa cento anni. Anche l’obiettivo della scienza economi­ ca si allontanò da un’attenzione pressoché esclusiva al tema 23 Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell’interesse e della moneta, cit., p. 191.

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della crescita, e arrivò a incorporare il problema dei cam­ biamenti della distribuzione funzionale del reddito nel corso del tempo. La preoccupazione di Ricardo per il tema distributivo lo costrinse a dare, rispetto agli economisti che l’avevano preceduto, uno spazio maggiore al problema microeconomico della formulazione di una teoria del valo­ re o dei prezzi relativi e quindi, nonostante che il suo inte­ resse principale di politica economica riguardasse temi ti­ picamente macroeconomici, di fatto egli spostò il centro dell’elaborazione teorica verso gli aspetti microeconomici. In questa direzione giocò pure il fatto di aver adottato la legge di Say e la teoria quantitativa della moneta, un atteg­ giamento teorico che significò di fatto precludere alla let­ teratura economica successiva l’esame di alcune importan­ ti questioni macroeconomiche. Il metodo seguito da Ricardo rappresenta una rottura palese con quello di Smith, comportando il passaggio da una combinazione imprecisa di teoria e descrizione storica a una metodologia basata su modelli di notevole astrazio­ ne teorica. Grazie alla sua brillante capacità analitica, Ri­ cardo potè dimostrare i punti di forza e di debolezza di una teoria del valore basata sul costo del lavoro, e in tal modo fare chiarezza sulle questioni urgenti di politica economi­ ca di quel tempo. Innanzitutto la posizione smithiana del laissez faire uscì rinvigorita dalla dimostrazione dei guada­ gni di benessere che sarebbero derivati dall’apertura e dal­ la libertà dei commerci internazionali. Combinando la dottrina malthusiana sulla popolazione con quella del fon­ do-salari Ricardo dimostrò l’impossibilità di migliorare il destino dei gruppi a basso reddito. E la difesa della legge di Say mise a tacere quella schiera di critici che vedevano le falle nel funzionamento del sistema capitalistico laddo­ ve le decisioni di risparmio e investimento sono lasciate ai singoli agenti economici. In generale si può dire che il suo impianto teorico indeboliva la posizione dei proprietari terrieri, i quali peraltro iniziavano a perdere parte del loro peso politico a favore della emergente classe capitalista, e che tuttavia la sua analisi dello stato stazionario incomben­ te gettava lunghe ombre sul futuro dello stesso capitalismo. Si tratta di quell’insieme di strumenti analitici che più tar­ di, intorno alla metà del diciannovesimo secolo, Marx rie­

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laborò, assieme ad altre intuizioni, per forgiare la sua teo­ ria del capitalismo quale una tra le tante fasi della storia e quale fenomeno storico contenente in se stesso i germi della propria distruzione.

Capitolo quinto

John Stuart Mill e il declino dell’economia politica classica

Tramite Mill possiamo cogliere le contrapposi­ zioni di natura filosofica sottostanti l’economia classica. Todd G. Bucholz

John Stuart Mill (1806-1873) fu un pensatore di un’ori­ ginalità e qualità eccezionali. Forte delle sue notevolissime doti intellettuali e di una cultura unica quanto ad ampiez­ za e profondità, seppe dare un contributo decisivo non soltanto allo sviluppo della scienza economica, ma anche a quello della filosofia e della scienza della politica. Fu suo padre, James Mill, che si incaricò della sua educazione, e lo fece costringendolo a una vita completamente diversa da quella che è riservata normalmente a un bambino: all’età di tre anni stava già studiando il greco, e a otto anni si applicava al latino. Dopo aver conseguito una certa padro­ nanza della matematica, della chimica, della fisica e della logica, a tredici anni si dedicò allo studio dell’economia politica, così che, quando verso i quindici anni giunse a completare la sua preparazione, per i quattro anni succes­ sivi potè dedicarsi alla cura dell’edizione di un’opera di Bentham in cinque volumi. Il costo, in termini psicologici, derivante dall’aver ricevuto un’istruzione così straordina­ riamente intensa si sarebbe manifestato in un esaurimento nervoso che lo colpì all’età di vent’anni. Superata la fase depressiva, Mill riprese tuttavia pieno vigore e divenne uno degli intellettuali più profondi del suo e di tutti i tempi. Una descrizione particolarmente lucida e schietta della sua educazione precoce e delle difficoltà di ordine psicologico incontrate successivamente è contenuta nella sua Autobio­ grafia. Nonostante Mill fosse dal punto di vista teorico un eco­ nomista estremamente valido, la sua formazione intellettua-

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le lo spinse verso tematiche sociali assai più vaste di quelle affrontate normalmente dagli economisti. Fondamental­ mente egli era un filosofo sociale al quale stava a cuore il miglioramento del ruolo degli individui nella società, e in questa direzione tentò di rimpiazzare l’atteggiamento pes­ simista proprio del padre e di David Ricardo suggerendo un cauto ottimismo circa la possibilità che potesse instau­ rarsi e svilupparsi una società «buona». Per quanto vaste fossero le sue letture, le opere che maggiormente influen­ zarono le sue idee economiche furono quelle degli econo­ misti classici, sulle quali costruì la sua così precoce forma­ zione, ovvero le opere di Smith, di Ricardo, di suo padre e di Bentham; gli scritti dei socialisti Fourier e Saint-Simon; le opere di Comte, talora indicato come il padre della so­ ciologia, che portarono Mill a concepire l’economia come uno tra i tanti aspetti dell’attività umana. Va ricordata in­ fine l’influenza esercitata su di lui dalla sua amica Harriet Taylor, quella che più tardi sarebbe diventata sua moglie, la quale ebbe il ruolo di rendere Mill più ricettivo rispetto agli ideali del socialismo umanitario del suo tempo. Con tutti questi riferimenti culturali alle spalle, Mill finì per riunire in sé, a un tempo, le caratteristiche di un liberista classico e di un riformatore sociale. Non è facile definire con precisione la posizione che egli occupò nello sviluppo del pensiero economico. Mill si trovò infatti a operare alla fine del periodo dominato dal­ l’economia classica, ma la sua apertura mentale, una delle sue doti più spiccate, lo mise in condizione di apportare parecchie modifiche alla dottrina classica. Il modello teo­ rico da lui delineato costituisce così l’affermazione più matura delle posizioni classiche e contemporaneamente l’inizio di una nuova epoca nell’evoluzione del pensiero economico. I suoi Principi di economia politica, per la ste­ sura dei quali egli impiegò meno di due anni, furono pub­ blicati per la prima volta nel 1848 e, grazie alle loro sette successive edizioni, rimasero il testo di riferimento per la disciplina fino alla fine del secolo. La velocità con cui Mill portò a termine il libro riflette adeguatamente la sua stessa opinione che la teoria economica fosse così avanzata che ben pochi problemi restassero ancora da essere risolti. Egli riteneva perciò che il proprio compito consistesse sempli-

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cernente nel riesporre con precisione la dottrina ricardiana, incorporandovi quelle nuove idee che erano apparse durante il secondo quarto del diciannovesimo secolo. Mal­ grado questa convinzione, la sua originalità gli permise di contribuire in modo decisivo (seppur egli stesso tendesse a minimizzarne la portata) all’elaborazione di alcuni appro­ fondimenti della teoria del commercio internazionale e dell’analisi della domanda e dell’offerta. I Principi di economia politica (1848) di J.S. Mill nasco­ no dunque con il preciso obiettivo di salvare l’impostazio­ ne fondamentale dei Principi di economia politica e dell’im­ posta di Ricardo, difendendola dalle numerosissime criti­ che che l’avevano colpita fin dalla pubblicazione della pri­ ma edizione del 1817 e che erano proseguite senza sosta per tre decenni. La sua opera, che avrebbe tenuto il cam­ po del pensiero economico ortodosso fino agli anni novan­ ta, rappresentò quindi il culmine e al tempo stesso una revisione decisiva della teoria economica classica, dato che per mettere in salvo il modello ricardiano occorreva emen­ darlo dalle sue maggiori lacune. Prima di esaminare i con­ tributi originali di Mill è perciò necessario richiamare al­ cune delle numerose critiche della dottrina ricardiana alle quali egli decise di dare risposta, critiche riconducibili a tre principali motivi di insoddisfazione. Il primo era dato dal­ la consapevolezza sempre più diffusa che le previsioni del­ la dottrina ricardiana non trovavano adeguato riscontro nell’evidenza empirica sul funzionamento dell’economia inglese che si era resa nel frattempo disponibile. Ad esem­ pio, al contrario di quanto suggerito dalla dottrina malthusiana sulla popolazione che rappresentava uno dei pilastri su cui poggiava il sistema ricardiano, l’evidenza dimostra­ va che parallelamente alla crescita della popolazione il red­ dito reale prò capite stava crescendo anziché diminuire, e che con una tecnologia in rapidissimo sviluppo l’agricol­ tura stava sperimentando rendimenti crescenti anziché decrescenti. Il secondo tipo di critiche può essere ricondot­ to al fatto che la disciplina dell’economia politica andava sempre più professionalizzandosi, e dunque guardava al­ l’insegnamento tradizionale in modo via via sempre più critico: i docenti accademici iniziarono a esaminare minu­ ziosamente la struttura teorica ricardiana, e in particola­

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re la teoria del valore, trovando lacunosa la trattazione della domanda e del ruolo dei profitti nella determinazio­ ne dei prezzi. Il terzo filone di critiche proveniva da diver­ si socialisti umanitari i quali, pur ignorando l’apparato tec­ nico e analitico del sapere economico, sferrarono attacchi violentissimi contro le fondamenta dell’emergente sistema economico capitalistico (che la teoria ricardiana in qualche modo rappresentava). Questa serie di critiche rivolte contro il modello ricardiano ebbe l’effetto di dare origine a successivi sviluppi del pensiero economico divergenti tra loro. La legge di Say, ad esempio, che nell’affermare che il sistema economico avrebbe automaticamente prodotto il pieno impiego delle risorse era stata sostenuta da Ricardo, Say e James Mill, finì per essere respinta da parte di alcuni economisti eterodos­ si, e in modo particolare da Marx. V’era inoltre una cor­ rente nella letteratura socialista che sempre più prendeva corpo a opera di autori francesi, svizzeri, tedeschi ed in­ glesi, e che metteva in discussione la nozione tipicamente classica per la quale il modo più efficace di perseguire il funzionamento armonico del sistema economico sarebbe stato quello del libero esplicarsi delle forze di un sistema capitalistico. Questa linea di pensiero eterodosso trovò il suo culmine nell’opera di Marx, Il capitale, ma ancora J.M. Keynes nella sua Teoria generale sarebbe dovuto interveni­ re per rifiutare la posizione classica secondo cui il libero mercato rappresenta la via migliore per il conseguimento dell’armonia economica. Un gruppo di critiche dal contenuto più tecnico venne avanzato da coloro che si applicavano allo studio dell’eco­ nomia più per professione che per vocazione. Essi erano intenti a formulare definizioni più precise circa l’obiettivo e il metodo propri della scienza economica, e a identifica­ re i blocchi portanti dell’edificio teorico dell’economia politica classica. I colpi meglio assestati contro l’insegna­ mento tradizionale consistettero nel rifiutare, almeno par­ zialmente, la dottrina malthusiana della popolazione, i ren­ dimenti (storicamente) decrescenti in agricoltura e la dot­ trina del fondo-salari, e nel rimpiazzare la teoria del valo­ re-lavoro con una diversa teoria del valore, secondo la quale i profitti sarebbero una delle determinanti dei prez­

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zi e il ruolo della domanda e dell’utilità nella determina­ zione dei prezzi relativi avrebbe dovuto essere rivalutato. Questa serie di critiche avrebbe dato alla lunga i suoi frut­ ti con l’avvento della scuola dell’utilità marginale, iniziata intorno al 1870, e con l’opera di Alfred Marshall. Prima di passare a un esame più dettagliato della figura di John Stuart Mill prenderemo in considerazione quella serie di ritocchi e di avanzamenti teorici che furono intro­ dotti tra il 1800 e il 1850 come parziale risposta alle criti­ che sopra esposte. Fra di essi ritroviamo la revisione del­ l’atteggiamento verso lo scopo e il metodo della scienza economica e la revisione di quelle nozioni fondamentali del pensiero economico classico quali la dottrina malthusiana della popolazione, il concetto dei rendimenti crescenti in agricoltura, la dottrina del fondo-salari, e l’approccio ricardiano al problema della rendita fondiaria. Soltanto dopo aver ricostruito questo sfondo teorico saremo in grado di ritornare ad occuparci di J.S. Mill, l’autore che avrebbe poi dominato il pensiero economico ortodosso per quasi tutto il resto del diciannovesimo secolo.1 1. Gli sviluppi teorici post-ricardiani I primi critici dell’economia politica classica Una delle difficoltà insite nella trattazione dell’opera dei primi critici dell’economia politica classica è data dalla loro disomogeneità: molti di questi autori, infatti, condivideva­ no ben poco al di là delle loro obiezioni teoriche ai model­ li smithiano e ricardiano, e l’etichetta di pensatore sociali­ sta che spesso è stata attribuita a qualcuno di essi non è sempre da accettarsi pacificamente. Il solo tema che unifi­ ca questo variegato gruppo di presunti socialisti è la visio­ ne del funzionamento fondamentalmente disarmonioso del capitalismo così come si era manifestato nell’Europa occi­ dentale del diciannovesimo secolo. Se per molti di questi socialisti pre-marxiani la via d’uscita a tale disarmonia con­ sisteva nell’individuare mezzi non violenti di risoluzione dei conflitti presenti all’interno della società, le conseguenti proposte risultavano diverse caso per caso a seconda di chi

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le avanzava. Al di là delle differenze esistenti le loro posi­ zioni ebbero comunque l’effetto di influenzare, sia pur indirettamente, lo sviluppo della teoria economica ortodos­ sa e in modo più diretto il pensiero di John Stuart Mill, ed esercitarono anche una considerevole influenza sulla legi­ slazione e sulla formazione del movimento operaio, specialmente in Inghilterra. Uno degli studiosi più preparati sul­ lo sviluppo del pensiero economico durante questo perio­ do ritiene che «di fatto, la gran parte dei progressi teorici degli anni trenta, e in special modo quelli legati alla natura dei profitti quale fonte di reddito, furono il risultato di uno sforzo più o meno consapevole di contrastare la diffusione dell’ideologia socialista»1. La disomogeneità di questi primi critici di sinistra si manifesta anche nel modo stesso di respingere l’ipotesi ti­ picamente classica dell’armonia economica. Alcuni di essi impiegarono una teoria del valore-lavoro per suggerire che, essendo il lavoro la fonte del valore, questo avrebbe dovu­ to essere remunerato con tutto ciò che veniva prodotto (o perfino con qualcosa di più). Per altri era il funzionamen­ to dei mercati concorrenziali a essere indesiderabile, così che, se alcuni raccomandavano l’istituzione di imprese cooperative, altri invocavano l’intervento nell’economia da parte di scienziati e di tecnici attraverso la pianificazione statale. Per altri ancora, infine, la fonte dell’iniquità stava nella distribuzione del reddito, e su questo punto avanza­ rono alcune proposte, arrivando al punto di suggerire il ritorno a un sistema economico e a una società che fossero meno dominate dalle nuove e grandi imprese capitalistiche e in cui invece avessero un ruolo più importante gli arti­ giani e le piccole imprese. Davanti a questa pluralità di atteggiamenti non deve sorprendere il fatto che uno dei più importanti sviluppi teorici post-ricardiani dovesse consiste­ re in una risposta ad attacchi così poderosi contro la visio­ ne classica dell’economia di mercato (nella quale, lo ricor­ diamo, il ruolo del capitalista veniva solitamente rappresen­ tato come quello di un personaggio decisivo e spesso an-1 1Mark Blaug, Ricardian Economics: A Historical Study, New Haven, Yale University Press, 1958, p. 140.

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che come di un benefattore per la società). La reazione degli economisti classici post-ricardiani consistette pertan­ to nel riesaminare tale visione, nell’apportarvi delle corre­ zioni, e nel fornire una dimostrazione di alcune delle parti più tecniche della struttura teorica, in particolare per quan­ to riguarda la teoria dell’interesse e dei profitti. Lo scopo e il metodo propri della scienza economica Come abbiamo avuto modo di esaminare in dettaglio nel capitolo precedente, l’opera di Ricardo provocò un profondo cambiamento dal punto di vista della metodolo­ gia della scienza economica: dalla imprecisa commistione di teoria e descrizione storica propria dell’approccio di Smith, si passò alla modellistica astratta e deduttiva. E p ­ pure solo di rado egli si pose direttamente il problema della metodologia più appropriata alla scienza economica, un problema al quale trovarono invece una (pressoché unani­ me) soluzione i suoi seguaci. La loro metodologia, che chiameremo «neo-ricardiana», considerava la scienza eco­ nomica alla stregua di una disciplina fondata sopra alcune semplici ipotesi teoriche, e il ruolo dell’economista, di con­ seguenza, alla stregua di colui che era incaricato di correg­ gere la logica interna del sistema teorico al fine di garanti­ re che le conclusioni raggiunte derivassero effettivamente dalle ipotesi iniziali. Fu grazie a una siffatta posizione me­ todologica che la teoria economica potè svilupparsi nel corso del periodo post-ricardiano, ossia quando vennero alla luce i contrasti tra predizioni teoriche e osservazioni empiriche, dal momento che essa autorizzava gli economi­ sti a ignorare il dato empirico a favore della coerenza in­ terna del sistema teorico. Il nostro primo compito consiste perciò nell’esaminare questa posizione metodologica e nel dimostrare come la maggior parte degli economisti rima­ nesse fedele alle principali costruzioni ricardiane, nono­ stante che il materiale storico e statistico appena raccolto e reso disponibile ne contraddicesse le implicazioni fondamentali. Le due più consapevoli esposizioni che videro la luce in questo periodo a proposito della questione dello scopo

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e del metodo più appropriati per la scienza economica furono quelle di Nassau Senior (1790-1864) e di John Stuart Mill. Noi seguiamo qui quella di Senior in quanto è la più rappresentativa per la sua epoca, iniziando con la definizione che egli dà dell’economia politica nell’opera Lineamenti di scienza dell’economia politica (1836), dove essa è vista come quella scienza «in cui si tratta la natura della produzione e della distribuzione delle ricchezze»2. Secondo Senior le fondamenta scientifiche dell’economia politica potrebbero essere ricondotte a quattro principi evidenti di per sé, e il compito dell’economista sarebbe quello di approntare una terminologia accurata e di segui­ re le regole della logica al fine di assicurarsi che le conclu­ sioni raggiunte discendano effettivamente dalle premesse iniziali. Forte di questa posizione, si capisce come egli giunga a sostenere che molti economisti avevano sino ad allora sprecato il loro tempo nel tentativo di raccogliere sempre più informazioni di tipo empirico, mentre avreb­ bero dovuto piuttosto dirigere le loro energie verso il raf­ forzamento della coerenza logica della teoria economica. Infatti, le premesse di un economista consistono in pochissime proposizioni di natura generale, che sono il risultato dell’osservazione o della semplice presa di co­ scienza, e che si può dire non abbiano bisogno di essere dimo­ strate o di ricevere una definizione formale: sono infatti tali che praticamente chiunque, appena le intenda, riconosce come fami­ liari ai propri pensieri, o per lo meno come implicite nel proprio bagaglio culturale. Le conseguenze a cui l’economista può giun­ gere a partire da tali proposizioni sono anch’esse, analogamen­ te, di natura pressoché generale e, se egli ha sviluppato corret­ tamente il proprio ragionamento, altrettanto certe come le pre­ messe3. 2 Nassau W. Senior, An Outline of thè Science of Politicai Economy, (18502), New York, Augustus M. Kelley, 1951, p. 1. Contravvenendo al prin­ cipio generale seguito nella traduzione, non abbiamo riportato la versione italiana già esistente di quest’opera a motivo della sua forma letteraria ora­ mai datata: essa può comunque essere trovata in Principii di economia poli­ tica, a cura di F. Ferrara, in Trattati complessivi, «Biblioteca dell’economista», serie I, voi. V, Torino, Cugini Pomba e comp. Editori-Librai, 1854, pp. 499 ss. (N.d.T.). 3 Senior, An Outline of thè Science of Politicai Economy, cit., pp. 2-3.

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Secondo Senior le quattro proposizioni di base sulle quali poggiano le fondamenta dell’economia in quanto scienza sono: 1) il principio di razionalità, ossia il princi­ pio secondo cui gli individui sono esseri razionali e calco­ latori, e cercano sempre di procurarsi la maggiore ricchez­ za con il minore sacrificio possibile; 2) la dottrina malthusiana della popolazione; 3) il principio dei rendimenti de­ crescenti in agricoltura; 4) storicamente, il principio dei rendimenti crescenti neH’industria. Questa concezione del­ la scienza economica come disciplina puramente dedutti­ va ebbe conseguenze importanti per lo sviluppo della teo­ ria economica, ma prima di passare all’esame di tali conse­ guenze crediamo sia utile considerare un altro aspetto in­ teressante, sia pure implicito, della posizione metodologi­ ca di Senior. Senior fu uno dei primi economisti ad affermare in modo inequivocabile che la scienza economica doveva es­ sere una scienza positiva; egli era convinto infatti che un economista, in quanto scienziato, dovesse prestare molta attenzione a distinguere tra giudizi normativi e analisi economica di tipo descrittivo. Uno degli esempi di que­ sta posizione che appaiono nel suo sistema teorico è la di­ stinzione tra 1) leggi universali che governano la natura e la produzione della ricchezza, e 2) principi che governa­ no la distribuzione del reddito, i quali sono invece con­ tingenti rispetto alle usanze e alla struttura istituzionale che caratterizzano un particolare sistema economico. Quella tra le leggi della produzione e della distribuzione è una distinzione che anche J.S. Mill avrebbe più tardi teorizzato, facendone addirittura uno dei capisaldi del suo pensiero. Senior ammette che a un economista, in quan­ to scienziato, sia lecito indicare le conseguenze delle va­ rie iniziative economiche o i mezzi possibili per raggiun­ gere un qualche fine prefissato, ma aggiunge anche che questi non dovrebbe mai abbandonare il campo dell’ana­ lisi positiva per formulare giudizi di valore riguardanti la desiderabilità di una data linea di comportamento. Detto più semplicemente, l’economista dovrebbe preoccuparsi di ciò che «è » piuttosto che di ciò che «dovrebbe esse­ re»: «le conclusioni a cui giunge, qualunque sia la loro ge­ neralità e il loro grado di verità, non lo autorizzano mini­

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mamente ad aggiungere una singola parola di commen­ to»4. La linea metodologica sperimentata per primo da Ricar­ do, e reinterpretata come abbiamo appena visto da Senior, incontrò un’accoglienza generalmente favorevole, e questo ebbe certamente conseguenze non del tutto desiderabili sull’evoluzione della scienza economica nel periodo postricardiano. Il conflitto tra teoria e realtà che esplose verso gli anni trenta e quaranta venne infatti pressoché ignorato, e nonostante l’evidenza empirica contraddicesse molte delle premesse fondamentali della costruzione teorica ricardiana, la maggioranza degli economisti rimase caparbia­ mente fedele a quel modello teorico. In termini generali vale il principio in base al quale un modo per giudicare l’adeguatezza di una teoria è quello di testare la sua capacità predittiva, e la scienza economica ricardiana, per quanto astratta nella sua formulazione, ven­ ne elaborata proprio al fine di fornire soluzioni alle que­ stioni cruciali di politica ed economia del suo tempo (e quindi predizioni che potessero essere verificate dal punto di vista empirico). In questo senso, allora, il confronto tra le predizioni della teoria e l’evidenza storica può essere sufficiente, da solo, a spiegare le ragioni che condussero al declino dell’economia ricardiana. E a questo confronto che rivolgeremo ora la nostra attenzione, esaminando la tratta­ zione data nel corso del periodo post-ricardiano ad alcuni degli aspetti fondamentali della teoria ortodossa: in parti­ colare la dottrina malthusiana della popolazione; la dottri­ na del fondo-salari; i rendimenti decrescenti e la rendita; e, infine, la tendenza del saggio di profitto a decrescere nel corso del tempo. La dottrina malthusiana della popolazione Nel periodo successivo alla pubblicazione dei Principi di economia politica di Ricardo gli economisti, seriamente preoccupati dal problema della popolazione, avevano ini­ 4 Ibidem, p. 3.

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ziato a suggerire che l’unico modo per evitare le dramma­ tiche conseguenze della sovrappopolazione prefigurate dalla teoria malthusiana consisteva in una qualche forma di contraccezione che le famiglie avrebbero dovuto adot­ tare. Si tratta di una conclusione che non veniva mai pro­ posta esplicitamente (ma sempre tra le righe) poiché si te­ meva che avrebbe incontrato la forte reazione della Chiesa e di quella parte dell’opinione pubblica contraria alla contrac­ cezione: l’evidenza dimostra infatti che, mentre le opinioni personali degli economisti di spicco di quel periodo, con l’eccezione di McCulloch, vedevano con favore l’adozione dei metodi contraccettivi, le loro dichiarazioni pubbliche in questo senso erano invece caratterizzate da estrema cautela. L’atteggiamento di Nassau Senior può essere conside­ rato un esempio di quello tipico degli economisti del suo tempo, a motivo del suo accettare e simultaneamente rifiu­ tare la teoria malthusiana della popolazione. Infatti, mal­ grado egli fosse giunto nel 1836 a descrivere tale teoria come uno dei pilastri portanti sui quali si fondava la scien­ za economica, già nel 1829 egli aveva pubblicato la corri­ spondenza da lui intrattenuta con Malthus, insieme con alcune lezioni tenute l’anno precedente, dove si metteva seriamente in discussione la proposizione malthusiana se­ condo cui la popolazione tenderebbe ad aumentare più velocemente dell’offerta di cibo: la conclusione di Senior in quel caso era stata a favore dell’evidenza storica, dalla quale si desumeva come fosse invece l’offerta di cibo a crescere più velocemente rispetto alla popolazione. La riluttanza ad abbandonare la teoria malthusiana della popolazione può essere compresa quando si pensi al ruolo decisivo che essa occupa all’interno dello schema analitico ricardiano. L’opinione di Ricardo era che l’obiet­ tivo principale della scienza economica avrebbe dovuto consistere nella spiegazione delle forze che determinano la distribuzione del reddito, ed egli era interessato in modo particolare alle forze sottostanti i cambiamenti nel corso del tempo. A quest’ultimo problema egli trovò una solu­ zione attraverso una teoria residuale della distribuzione del reddito: il margine che non paga rendita determina la ren­ dita, e il resto del prodotto si ripartisce tra salari e profitti. E esattamente a questo punto che entra in scena, e con un

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ruolo cruciale, la teoria malthusiana della popolazione: il saggio di salario di lungo periodo è infatti fissato al suo livello di sussistenza proprio in virtù di tale teoria, e solo in questo modo è possibile procedere alla scomposizione del residuo del prodotto tra salari e profitti (per un’espo­ sizione completa della teoria ricardiana della distribuzione del reddito si veda la figura 4.3 e la relativa descrizione nel testo). Ricardo aveva ipotizzato 1) che il livello di lungo periodo dei salari reali fosse fisso e conosciuto, e 2) che a questo livello dei salari reali l’offerta di lavoro di lungo periodo fosse perfettamente elastica. Supponiamo invece che il livello di lungo periodo della popolazione e la dimen­ sione della forza lavoro non dipendano esclusivamente dal saggio di salario reale: in questo caso il sistema teorico ricardiano non è in grado di determinare la distribuzione del reddito a un dato istante temporale, né i cambiamenti che avvengono nella distribuzione del reddito nel corso del tempo. Nell’esempio della teoria ricardiana della distribu­ zione riportato nella figura 4.3 il livello di sussistenza dei salari (EN) è ricavato dalla teoria malthusiana della popo­ lazione: ma se il livello di sussistenza dei salari non può più essere determinato con precisione, allora la curva EN ha un’infinità di possibili forme e posizioni, e il calcolo di profitti e salari a un dato istante temporale, così come quello delle variazioni nella distribuzione del reddito nel corso del tempo, resta indeterminato. Come si vede, la teo­ ria ricardiana della distribuzione del reddito dipende in modo decisivo da quella malthusiana della popolazione. Già intorno alla metà degli anni trenta era stata tuttavia accumulata una collezione di dati empirici sufficiente a gettare completo discredito su tale teoria, e, insieme con essa, sull’intera costruzione teorica di Ricardo, divenuta incapace, a quel punto, di soddisfare l’obiettivo che si era prefissa, cioè quello di spiegare le variazioni nella distribu­ zione del reddito nel corso del tempo. La dottrina del fondo-salari Se da un lato la teoria malthusiana della popolazione veniva impiegata allo scopo di spiegare il livello dei salari

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reali nel lungo periodo (ricordando che in questo contesto «lungo periodo» significa un periodo di tempo di almeno quindici anni), dall’altro la spiegazione data da Ricardo del livello di breve periodo si basava su quella particolare ana­ lisi della domanda e dell’offerta nota come dottrina del fondo-salari. Secondo il meccanismo descritto dalla teoria malthusiana, allorché il salario si trova al suo livello di sussistenza, un aumento dei salari reali nell’anno corrente non avrebbe ripercussioni sul livello futuro per almeno qualche anno, secondo l’età media di ingresso nella forza lavoro. Ammettendo ad esempio che si verifichino aumen­ ti immediati nella popolazione conseguentemente ad au­ menti del salario reale, l’offerta di lavoro non ne sarebbe influenzata per almeno quattordici anni. La dottrina del fondo-salari implica invece una spiega­ zione di breve periodo del livello dei salari e suggerisce una dipendenza del salario unitario dalla domanda e dall’offer­ ta di lavoro (laddove queste ultime, si badi, non corrispon­ dono alle moderne funzioni di domanda e di offerta di lavoro impiegate dalla scienza economica). La domanda di lavoro nell’accezione qui considerata è fissata dalla dimen­ sione del fondo-salari, ossia dalla dimensione di quella parte di capitale che è stata precedentemente accantonata per poter pagare i lavoratori. Conosciuta tale dimensione, il saggio di salario di breve periodo è quindi determinato semplicemente dividendo il fondo-salari per il numero di soggetti presenti sul mercato del lavoro. Nel breve perio­ do, essendo il fondo-salari fisso nel suo ammontare, la quantità di lavoro è a sua volta fissa e il saggio di salario determinato in modo univoco. Quando, per i problemi teorici che abbiamo illustrato nei paragrafi precedenti, si arrivò ad accantonare la teoria malthusiana della popolazione, la dottrina del fondo-salari dovette sobbarcarsi l’onere di fornire una spiegazione del livello dei salari tanto nel breve quanto nel lungo periodo: un compito semplicemente impossibile ad assolversi, dal momento che non vi era nulla in tale dottrina che dicesse alcunché riguardo all’offerta di lavoro di lungo periodo. Eppure furono in molti, sia fra gli autori di successo che fra i divulgatori, ad invocarla allo scopo di contrastare gli sforzi dei lavoratori diretti ad ottenere salari più elevati, in

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modo particolare quegli sforzi che andavano compiendosi attraverso la formazione dei sindacati. Negli scritti degli economisti di questo periodo, a dire il vero, non appare alcun collegamento esplicito tra le opinioni sulla dottrina del fondo-salari e l’atteggiamento tenuto verso i sindacati dei lavoratori: anzi, molti economisti che credevano a tale dottrina approvavano esplicitamente il formarsi di coalizio­ ni da parte dei lavoratori; ciò nonostante nella letteratura popolare la dottrina del fondo-salari diventò famosa come una delle argomentazioni antisindacali per eccellenza, un fatto che almeno in parte può spiegare il clamoroso rifiuto che ne fece John Stuart Mill nel 1869, e l’importanza attri­ buita dagli autori successivi a tale «ritrattazione». I rendimenti (storicamente) decrescenti All’interno del modello ricardiano vi è un elemento cruciale per l’analisi economica e per le implicazioni di politica economica che ne derivano, ovvero il confronto fra il saggio di diminuzione dei rendimenti (decrescenti) nel settore agricolo e il tasso di incremento della produttività che risulta dal progresso tecnologico nel medesimo setto­ re. La posizione di fondo di Ricardo consisteva nel ritene­ re che, applicando quantità successive di lavoro e capitale a una quantità fissa di terra, il loro prodotto marginale si sarebbe progressivamente ridotto. Lo sviluppo tecnologi­ co applicato al settore agricolo avrebbe poi potuto, teori­ camente, controbilanciare in modo esatto tali rendimenti decrescenti di breve periodo, oppure controbilanciarli solo parzialmente, oppure ancora più che controbilanciarli, così che nel lungo periodo in tale settore sarebbe stato storica­ mente possibile il verificarsi di rendimenti di scala costan­ ti, decrescenti o crescenti. A questo proposito Ricardo, come del resto poi avrebbero fatto quasi tutti gli autori del periodo post-ricardiano, riteneva che lo sviluppo tecnolo­ gico non sarebbe stato in grado di controbilanciare i ren­ dimenti decrescenti di breve periodo, e quindi formulò la previsione che storicamente si sarebbe assistito a rendimen­ ti decrescenti in agricoltura: ma si trattava di una conclu­ sione di natura empirica, non di natura teorica.

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Tutti i dati allora disponibili sull’economia britannica indicavano però che le previsioni del modello ricardiano, fondate sul fatto che il settore agricolo avrebbe storicamen­ te sperimentato rendimenti decrescenti di scala, erano sba­ gliate. Nel corso della prima metà del diciannovesimo se­ colo l’evidenza empirica suggeriva infatti che la crescita della popolazione in Inghilterra era stata di gran lunga superiore alla crescita dei lavoratori occupati nel settore agricolo, un fatto che la maggior parte degli economisti, e specialmente McCulloch e J.S. Mill, interpretò come la dimostrazione che i rendimenti, in realtà, non erano dimi­ nuiti. Avvenne così che gli economisti ricardiani, curiosa­ mente, da un lato ammettevano l’evidenza storica e dall’al­ tro continuavano ad attenersi fedelmente al modello tradi­ zionale e alla sua predizione che i rendimenti sarebbero successivamente diminuiti. Mark Blaug, che è probabilmente il più acuto conosci­ tore di questa epoca della storia del pensiero economico, ha avuto modo di affermare che «il divorzio tra fatti e teo­ ria non fu probabilmente mai più completo di quanto lo fosse nella piena maturità dell’economia politica ricardiana»5. Come abbiamo già osservato, si trattava di un divor­ zio implicito nella metodologia di quegli economisti, ovve­ ro in quella metodologia che era stata messa in atto da Ricardo e poi reinterpretata da Senior: in essa si enfatizza­ va esclusivamente il processo deduttivo grazie al quale il ragionamento doveva svolgersi a partire da un dato insie­ me di ipotesi iniziali, con la conseguenza che i ricardiani si sentivano autorizzati a ignorare le contraddizioni tra il modello e i «fatti», per concentrarsi nel raffinamento logi­ co della loro struttura teorica. Lo studio del pensiero eco­ nomico dell’epoca ricardiana evidenzia una lezione da im­ parare, e sarebbe interessante interrogarsi sulla sua even­ tuale recezione da parte degli economisti contemporanei. Come vedremo più avanti, infatti, uno degli elementi che accomunano molte delle correnti di pensiero eterodosso non marxiano è l’affermazione secondo la quale la teoria economica ortodossa è afflitta esattamente da quei medesi­ 5 Blaug, Ricardian Economia: A Historical Study, cit., p, 187.

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mi difetti che affliggevano la teoria ricardiana, vale a dire a) il conflitto tra modelli e i fatti del mondo reale, insieme con b) l’insistenza posta nel raffinare lo schema deduttivo e la coerenza interna della struttura teorica. La caduta tendenziale del saggio di profitto Un’altra delle previsioni del modello ricardiano consi­ steva nella caduta tendenziale del saggio di profitto lungo un arco di tempo piuttosto esteso. La base teorica che so­ steneva questa previsione era, di nuovo, il verificarsi (sto­ rico) dei rendimenti decrescenti, ossia il fatto che quando i costi dei prodotti agricoli aumentano, i profitti sulla terra marginale diminuiscono all’aumentare della rendita sulla terra inframarginale. Nell’opinione di Ricardo la caduta tendenziale del saggio di profitto si sarebbe protratta fino a che questo si fosse annullato, ossia finché si fosse raggiun­ to lo stato stazionario con una redistribuzione del reddito dai capitalisti a favore dei proprietari terrieri. Tuttavia an­ che la validità di questa posizione poteva essere determi­ nata solo ricorrendo all’evidenza empirica e non sul piano della teoria astratta. A questo si aggiunga che i problemi statistici che sorgono nel misurare le variazioni nel corso del tempo del saggio di profitto all’interno di un sistema economico sono di per se stessi straordinariamente com­ plessi, e che i necessari strumenti statistici non esistevano certamente ancora nel diciannovesimo secolo (anzi, a dire il vero qualcuno mette in dubbio ancora oggi l’esistenza di strumenti completamente appropriati). Eppure, nonostan­ te non avessero il riscontro dell’evidenza empirica sul fe­ nomeno dei rendimenti storicamente decrescenti nel set­ tore agricolo, e della caduta tendenziale del saggio di pro­ fitto con il successivo graduale approssimarsi dello stato stazionario, gli economisti ricardiani, e in particolare J.S. Mill, insistevano nell’attenersi a tale previsioni. La teoria del profitto (e dell’interesse) Vi sono ancora due aspetti della teoria ricardiana dei profitti che vanno esaminati prima di ritornare alla ripresa

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della posizione classica a opera di John Stuart Mill, vale a dire: 1) un fallimento di tipo teorico dimostrato dalla teo­ ria del valore di Ricardo, e 2) l’impiego che di esso venne fatto da parte di qualche autore, critico del modello di distribuzione del reddito allora predominante. Ricardo dovette impegnarsi a fondo e lungamente per determinare il ruolo dei profitti all’interno della sua teoria del valore, e alla fine giunse alla conclusione che le variazioni nel sag­ gio di profitto non avessero un ruolo significativo nello spiegare le variazioni nel tempo dei prezzi relativi. In so­ stanza egli decise che, sebbene in teoria i prezzi relativi dipendessero sia dal costo del lavoro che dal costo del ca­ pitale (il secondo essendo rappresentato dai profitti), di fatto l’importanza dei profitti nella loro determinazione era così poco rilevante da poter essere trascurata, e questo fece sì che la sua teoria del valore fosse a tutti gli effetti una teoria basata sul costo di produzione, dove il costo del la­ voro rappresentava l’unico vero costo. La particolare modellizzazione approntata da Ricardo non mancò per que­ sto motivo di attirare l’attenzione di molti economisti, che si sforzarono successivamente di perfezionarne la coeren­ za logica includendovi, oltre ai costi di produzione impu­ tabili al fattore lavoro, anche i costi imputabili al fattore capitale. La preoccupazione dei suoi seguaci per la teoria del valore venne poi acuita dagli attacchi che a questa veniva­ no portati dai socialisti ricardiani, i quali vi facevano ricor­ so per dimostrare che il lavoro veniva sfruttato, perché pur producendo l’intero prodotto esso non veniva remunerato nella stessa misura sotto forma di salari. In quest’ottica i profitti venivano visti come una deduzione dalla quota le­ gittimamente spettante ai lavoratori, e perciò i capitalisti, alla stessa stregua dei proprietari terrieri, erano considera­ ti dal punto di vista sociale come dei parassiti che all’inter­ no del sistema economico ricevevano un reddito senza svolgere alcuna funzione economicamente significativa. Le argomentazioni portate da questi autori erano caratterizza­ te da una certa semplicità, e questo può spiegare la loro dif­ fusione e la loro efficacia nel rendere popolari le critiche contro l’ordine economico esistente. Le motivazioni che

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spinsero gli economisti a dedicare una maggiore attenzio­ ne al ruolo dei profitti furono dunque di due tipi: da un lato la necessità di correggere le pecche logiche della teo­ ria del valore di Ricardo, e dall’altro l’urgenza di puntella­ re l’ideologia dominante mettendola al riparo dagli attac­ chi dei socialisti ricardiani. Il contributo più significativo che venne dato nella pri­ ma fase del periodo post-ricardiano alla teoria del valore e del profitto fu probabilmente quello di Nassau Senior, che per primo tentò di sviluppare una teoria dell’interesse ba­ sata sull’astinenza (abstinence theory of interest). Nel for­ mulare la propria teoria del valore Senior attribuì, dal lato della domanda, molta più importanza all’utilità di quanta gliene avesse attribuita Ricardo, e analogamente, dal lato dell’offerta, enfatizzò il ruolo della disutilità quale costo reale della produzione. Ricorrendo alle ipotesi fondamen­ tali fatte dall’economia politica classica in merito alla psi­ cologia dei soggetti economici, egli sostenne che gli indivi­ dui erano razionali e calcolatori. I salari diventano così il premio pagato ai lavoratori per compensarli della fatica spesa attraverso il lavoro; e dato che se si vogliono produr­ re beni capitali occorre che qualcuno si astenga dal consu­ mo, i capitalisti sicuramente non rinuncerebbero a possi­ bili consumi a meno che non siano compensati per il loro sacrificio. Essendo il lavoro e il capitale due fattori neces­ sari alla produzione dei beni finali, il prezzo di questi ulti­ mi dovrebbe essere sufficientemente alto da poter remu­ nerare entrambi i costi reali sostenuti per la produzione. In questo modo Senior elaborò una teoria del valore basa­ ta sul costo di produzione, dove il salario era interpretato come il rimborso ai lavoratori e il profitto come il rimbor­ so ai prestatori di capitale. Mentre la distinzione tra profitto e interesse non era mai stata proposta nell’economia politica classica, Senior si sforzò di sviluppare una teoria dell’interesse che fu in un certo senso l’antesignana di quella successivamente elabo­ rata da Bohm-Bawerk verso la fine del diciannovesimo se­ colo. In effetti Senior sviluppò solo una parte della teoria dell’interesse, dal momento che la sua discussione, in linea con la tradizione classica, riguarda solo il lato dell’offerta ed esamina esclusivamente le forze che determinano la

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curva di offerta dei risparmi, laddove una teoria dell’inte­ resse compiuta dovrebbe spiegare anche i fattori che de­ terminano la domanda per investimenti. Ma anche al di là della parziale incompletezza, la teoria dell’interesse basata sull’astinenza presenta anche parecchie lacune in quanto strumento analitico atto a controbattere le tesi dei sociali­ sti. Senior suggerì che la curva di offerta dei risparmi fosse perfettamente elastica (cioè orizzontale), e che il costo della fatica o della disutilità sostenuta per poter risparmiare fos­ se il medesimo per i ricchi come per i poveri. Poiché poi egli considerò l’interesse esclusivamente come un rimbor­ so dovuto, pagato per compensare il costo della fatica o della disutilità legata al mancato consumo, egli non diede alcuna giustificazione sociale o economica al fatto della riscossione degli interessi sui capitali acquisiti per dono o per eredità. In tal modo la teoria dell’interesse di Senior finì alla lunga per suscitare molti più interrogativi (circa la giustificazione sociale dell’interesse) di quanti ne avesse in effetti risolti. 2. John Stuart Mi/l: il retroterra culturale del suo sistema di pensiero L’approccio di Mill all’economia politica La posizione adottata da Mill per quanto riguarda la finalità e la metodologia appropriate alla scienza economi­ ca è illustrata non solo nei suoi Principi di economia politi­ ca, pubblicati nel 1848, ma anche in un articolo pubblica­ to precedentemente (nel 1836, ossia nello stesso anno in cui vide la luce l’opera Lineamenti di scienza dell’economia politica di Senior, che, come abbiamo visto, dava grande rilievo alla questione del metodo), e che è oggi reperibile nei suoi Saggi su alcuni problemi insoluti dell’economia politicale Per Mill la scienza economica è una scienza ipo-6 6 John Stuart Mill, Essays on Some Unsettled Questioni of Politicai Eco­ nome, New York, Augustus M. Kellev, 1968; trad. it. Saggi su alcuni proble­ mi insoluti dell’economia politica, a cura di S. Parrinello, Milano, Isedi, 1976, pp. 101-134.

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tetica fondata sul metodo a priori-, l’economista è cioè co­ lui che pone determinate assunzioni iniziali e da quelle deduce le conclusioni. Data l’impraticabilità del metodo sperimentale nella scienza economica, gli economisti sono dunque costretti ad affidarsi al ragionamento deduttivo, non potendo ricorrere a quelle analisi induttive rivelatesi così feconde nell’ambito delle scienze naturali. Nonostan­ te questa impostazione, Mill ha cura di affermare che le conclusioni raggiunte dagli economisti in virtù dei loro modelli deduttivi dovrebbero essere verificate alla luce dei fatti registrati nella realtà. Il manifestarsi di una contrad­ dizione tra i risultati previsti utilizzando il metodo dedut­ tivo e l’evidenza empirica potrebbe infatti rivelare, a pare­ re di Mill, la presenza di importanti «fattori di disturbo» in precedenza sottovalutati. Tali fattori potrebbero, o co­ stringere l’economista a ripartire da nuove e più feconde ipotesi, e quindi giungere attraverso il ragionamento dedut­ tivo a nuove conclusioni, oppure segnalare l’effetto dell’operare di forze di natura non economica non tenute in debita considerazione da parte dell’economista. Nonostan­ te la fondamentale solidità del ragionamento milliano sul­ l’appropriato approccio metodologico alla scienza econo­ mica, egli, come del resto i suoi contemporanei, non mise poi in pratica quanto andava predicando: i «fattori di di­ sturbo», infatti, divennero ben presto il tappeto sotto il quale gli economisti presero a nascondere tutte le divergen­ ze che si verificavano tra le previsioni teoriche derivabili dal modello economico ricardiano e l’evidenza empirica. Influenzato dal pensiero di Auguste Comte, Mill arriva a considerare la scienza economica come una parte soltan­ to di un ben più ampio approccio alla conoscenza del­ l’umanità. L’ipotesi tipica di tale scienza era quella di un astratto homo oeconomicus motivato unicamente dal desi­ derio di possedere ricchezza: a essa Mill riconosce una sua validità e la capacità di conseguire conclusioni teoriche di una certa utilità, ma parimenti ritiene che tale astrazione necessiti di essere integrata in un modello più complesso che descriva più compiutamente gli esseri umani e le loro attività di relazione. L’ampiezza delle sue vedute, il respiro della sua cultura, e il suo impegno sociale portano in tal modo Mill a sviluppare la sua analisi economica a un livel­

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lo ben più ampio rispetto a quella di Ricardo, come testi­ monia il titolo stesso della sua opera principale, Principi di economia politica —con alcune delle loro applicazioni alla filosofia sociale (di tale opera, che è un classico della lette­ ratura economica, sono state curate due eccellenti edizio­ ni, ed è a quella di W.J. Ashley che noi faremo riferimento nel corso della trattazione7). Come si ricorderà, la distinzione tra economia positiva ed economia normativa occupava un posto di rilievo all’in­ terno del pensiero di Senior, ma laddove egli operava tale distinzione allo scopo di espellere i giudizi normativi dal­ l’indagine economica, Mill, che pure la riprende, intende in realtà reintrodurre alcune questioni di filosofia sociale all’interno del modello ricardiano. Per sua stessa convin­ zione, la differenziazione introdotta tra le leggi della pro­ duzione e le leggi della distribuzione rappresenta l’unico e veramente importante suo contributo al pensiero economi­ co: in base a essa le leggi della produzione vengono inter­ pretate come leggi di natura (come quella di gravità, per esempio) che non possono essere modificate dalla volontà dei singoli o per adattamento istituzionale, mentre le leggi della distribuzione non sono affatto così determinate, es­ sendo anzi il prodotto di una particolare conformazione sociale e istituzionale. Grazie a tale differenziazione Mill può reagire con vigore al motivo prevalente per cui ci si richiama alla teoria classica ortodossa. In particolare, nel­ l’epoca in cui egli vive i numerosi tentativi di migliorare la qualità della vita delle masse attraverso la legislazione so7 John Stuart Mill, Principles of Politicai Economy with Some of Their Applications to Social Philosophy, a cura e con un’introduzione di WJ. Ash­ ley, London, Longmans, Green and Co., 1909; trad. it. Principi di economia politica, a cura di A. Campolongo, Torino, Utet, 1953. Un’edizione altrettan­ to valida è quella critica pubblicata dalla University of Toronto Press: John Stuart Mill, Principles of Politicai Economy. With Some of Their Applications to Social Philosophy, a cura di J.M. Robson e con un’introduzione di V.W. Bladen, in The Collected Works ofjohn Stuart Mill, 19 voli., Toronto, Univer­ sity of Toronto Press, 1965, voli. II e III; trad. it. Principi di economia politi­ ca, a cura di B. Fontana e con introduzione di G. Becattini, 2 voli., Torino, Utet, 1983. Contrariamente a quanto sostenuto dagli autori circa l’edizione seguita per l’originale, nel corso della traduzione ci siamo valsi dell’edizio­ ne più recente tra quelle disponibili in italiano, che è quella curata da J.M. Robson e tradotta da B. Fontana per i tipi della Utet (N.d.T).

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ciale, il movimento sindacale e le politiche dirette alla redistribuzione dei redditi, vengono tutti contrastati dalle posizioni conservatrici secondo le quali quegli sforzi sono comunque destinati a essere vanificati dalle stesse leggi dell’economia. In questo modo l’economia politica classi­ ca viene utilizzata per dimostrare come la distribuzione del reddito sia determinata da leggi fisse e immutabili che non potrebbero essere modificate più di quanto potrebbe es­ serlo la legge di gravità: l’idea prevalente è dunque che per quanto si possa provare compassione per le masse sfortu­ nate e oppresse, non bisogna permettere che la buona vo­ lontà prenda il sopravvento sulla ragione. L’intenzione di Mill è quella di mostrare che la gran parte degli economisti suoi contemporanei sono in errore nel ritenere che né le leggi della produzione né quelle del­ la distribuzione potrebbero essere modificate per mezzo della struttura istituzionale della società. Dal suo punto di vista, infatti, se le leggi della produzione (come, ad esem­ pio, il principio dei rendimenti decrescenti in agricoltura) sono ineludibili, in realtà la distribuzione personale del reddito è suscettibile di essere modificata attraverso inter­ venti di riforma sociale. Nella sua Autobiografia Mill discute l’origine della sua concezione in merito alla distinzione tra leggi della produ­ zione e leggi della distribuzione, citando gli scritti dei so­ cialisti seguaci di Saint-Simon quale propria fonte princi­ pale di ispirazione e riconoscendo a Harriet Taylor il me­ rito di averlo persuaso dell’importanza della distinzione tra i due tipi di leggi. Grazie a tale qualificazione la predizio­ ne dello stato stazionario, nel quale i salari sarebbero stati al loro livello di sussistenza, ossia la predizione che scatu­ riva dalla teoria ricardiana, viene controbilanciata dalla convinzione più ottimistica di Mill per la quale nel corso del tempo si sarebbero instaurati standard di vita sociale più ragionevoli e umanitari, così da garantire una distribu­ zione dei redditi più equa e ugualitaria. Egli vede perciò con favore l’applicazione di alte aliquote di imposizione fiscale sulle eredità, ma si oppone alla tassazione progres­ siva poiché ne teme gli effetti in termini di disincentivo; in­ voca poi la formazione di cooperative di produttori poiché ritiene che i lavoratori avrebbero notevoli incentivi ad au-

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meritare la propria produttività se potessero percepire non soltanto il loro salario, ma anche i profitti e gli interessi attivi delle cooperative. Inoltre giunge alla conclusione che le conseguenze dei rendimenti decrescenti nel settore agri­ colo potrebbero essere mitigate dalla crescita nel livello culturale dei cittadini e dalla riduzione del saggio di cre­ scita della popolazione ottenibile grazie al rinvio dei ma­ trimoni e al controllo delle nascite. Alcune implicazioni di natura puramente economica, che discendono dalla distinzione operata da Mill tra leggi della produzione e leggi della distribuzione, richiedono un ulteriore commento. La moderna teoria economica orto­ dossa svela l’esistenza di una stretta relazione tra le leggi della produzione e quelle della distribuzione funzionale del reddito. Le forze che determinano i prezzi dei beni e dei servizi finali sul mercato al dettaglio, infatti, sono strettamente collegate alle forze che determinano i prezzi dei vari fattori della produzione: la relazione fisica tra input e out­ put, ovvero quella che gli economisti chiamano funzione di produzione, determina la produttività marginale fisica dei vari fattori della produzione, e il prezzo di mercato di uno qualsiasi di tali fattori è, almeno parzialmente, deter­ minato dalla sua produttività. La stessa teoria economica ortodossa moderna, tuttavia, ha ben poco da dire circa le forze che determinano invece la distribuzione personale del reddito. Quest’ultima dipende infatti da un insieme assai più vasto di variabili di natura non economica, quali le leggi, le usanze e la struttura istituzionale di una società, che comunque, dal punto di vista dell’economista ortodos­ so, si trovano al di fuori dei confini disciplinari dell’eco­ nomia politica; in aggiunta a ciò, l’esitazione dell’economi­ sta ortodosso a cimentarsi con la problematica della distri­ buzione personale del reddito proviene anche dalla consi­ derazione che questo implicherebbe aspetti normativi e giudizi di valore. Se si potesse trasportare in avanti nel tempo la distinzione operata da Mill tra leggi della produ­ zione e leggi della distribuzione, così da renderla nei ter­ mini della teoria economica moderna (una «traduzione» peraltro arbitraria, poiché Mill enuncia tale distinzione prima dello sviluppo dell’analisi della produttività margi­ nale), si ammetterebbe che vi è solo una vaga connessione

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tra la produttività marginale dei vari fattori della produzio­ ne e la distribuzione personale del reddito. La società non può modificare le funzioni di produzione, ma di fatto ha la capacità di modellare una distribuzione personale del reddito che risponda ai propri giudizi di valore. L’eclettismo di Mill La vera forza di Mill, la stessa che caratterizzerà anche due altri grandi economisti a lui successivi, Marshall e Keynes, fu il suo eclettismo, che si manifestò in diversi modi, vuoi rifiutandosi di aderire in modo acritico alla teo­ ria economica di Ricardo e dei suoi seguaci, vuoi seguen­ do un approccio metodologico prevalentemente smithiano, vuoi accogliendo la posizione di Comte sull’attività econo­ mica quale attività da collocarsi in un più ampio contesto riguardante la totalità delle attività sociali, vuoi riconoscen­ do il suo debito intellettuale verso i socialisti francesi e verso Harriet Taylor, vuoi nella sua predisposizione verso la filosofia sociale, e vuoi, infine, nel riconoscimento della distinzione tra le leggi che governano la produzione e quel­ le che governano la distribuzione. A volte egli tentò, inspiegabilmente, di disconoscere tale sua caratteristica di pensatore eclettico, affermando per esempio che nella teoria economica egli stava sempli­ cemente rimodellando l’impianto ricardiano incorporando­ vi gli sviluppi teorici intervenuti nel secondo quarto del secolo. Viceversa nell’area della politica economica, come ebbe a sostenere egli stesso nella prefazione alla prima edizione dei Principi di economia politica, egli ammise di aver aperto nuove direzioni di ricerca, e nella sua Autobio­ grafia (oltre che nei Principi), si dissociò apertamente da­ gli economisti della vecchia scuola, dichiarando che «il disegno di questo libro è diverso da quello di ogni altro trattato di economia politica che sia stato pubblicato in Inghilterra dopo l’opera di Adam Smith»8. Si potrebbe dire, persino, che di fatto il suo vero e principale obiettivo 8 John Stuart Mill, Principi di economia politica, a cura di B. Fontana e con introduzione di G. Becattini, 2 voli., Torino, Utet, 1983, p. 79.

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consistesse nell’illustrare in modo chiaro le applicazioni della teoria alle questioni di politica economica, nonostan­ te il suo sforzo fosse apparentemente quello di arricchire la teoria ricardiana integrandola con i successivi sviluppi teorici9. Si trattava dunque del medesimo obiettivo perse­ guito e raggiunto da Adam Smith prima di lui, anche se ormai gran parte dell’impianto teorico smithiano era dive­ nuta obsoleta. L’influenza esercitata da ]eremy Bentham L’opera che più di tutte condizionò gli sforzi compiuti da parte di John Stuart Mill e dei suoi contemporanei per unificare teoria e politica economica fu quella dell’inglese Jeremy Bentham (1748-1832). Dopo la pubblicazione nel 1780 del primo importante scritto di Bentham, infatti, egli era divenuto il caposcuola riconosciuto di un gruppo di riformatori noti con il nome di filosofi radicali, o utilitari­ sti. Gli storici del pensiero economico manifestano un cer­ to disaccordo nell’indicare il grado di influenza che Ben­ tham ebbe sui vari autori, e in particolar modo su Ricardo e su J.S. Mill, mentre non vi sono dubbi sul fatto che egli condizionò in misura rilevante James Mill, il padre di John Stuart, e che in ogni caso sia lui che i suoi seguaci ebbero un peso determinante nell’elaborazione della legislazione in materia economica, politica e sociale e dei progetti di ri­ forma di quell’epoca. Ancora prima che Malthus scrivesse il suo saggio sulla popolazione Bentham aveva infatti già proposto alcune misure per il controllo delle nascite, e suc­ cessivamente i benthamiani si fecero inoltre fautori di una lunga lista di progetti di riforma che spaziavano dal suffra­ gio per gli adulti (incluse le donne) alla riforma carceraria, dalla libertà di stampa e di espressione al servizio civile, fino alla legalizzazione dei sindacati. La semplice premes­ sa da cui Bentham partiva era che gli uomini sono motiva­ ti all’azione da due forti desideri: raggiungere il piacere ed

9 Si veda su questo aspetto Pedro Schwartz, The New Politicai Economy of ]S . Mill, Durham, N.C., Duke University Press, 1972.

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evitare il dolore. Se la società fosse riuscita a misurare pene e piaceri si sarebbero perciò potute promuovere leggi appropriate così da assicurare la maggior quantità possibi­ le di piacere al maggior numero possibile di persone. Per quanto riguarda il modo migliore per procedere alla misu­ razione del piacere e del dolore, Bentham era del parere che esso consistesse nell’adozione del metro monetario. In questo modo Bentham e i suoi seguaci speravano di ren­ dere la riforma sociale una scienza esatta attraverso appo­ site leggi capaci di garantire il massimo bene al massimo numero di individui. Proprio come questi filosofi radicali, Mill era molto interessato alle questioni di riforma economica, politica e sociale, ma arrivò tuttavia a respingere, almeno parzialmen­ te, alcuni aspetti del benthamismo che James Mill (suo padre) aveva invece accettato. Prima che compisse ventan­ ni egli aveva già curato la pubblicazione di un’edizione in cinque volumi delle opere di Bentham, ed era stato pesan­ temente indottrinato dal padre sul pensiero di quell’auto­ re. Quanta della profonda depressione che lo colpì quan­ do giunse all’età adulta fosse imputabile alla sua crescente insoddisfazione nei confronti delle posizioni di suo padre e dello stesso Bentham non è dato di sapere, ma è vero che per il resto della sua vita si applicò alle riforme sociali con un impegno analogo a quello di Bentham, pur evitando ac­ curatamente alcuni aspetti della costruzione teorica benthamiana. V ’erano due questioni in particolare che lo di­ sturbavano: la prima era il dogmatismo delle posizioni dei filosofi radicali, particolarmente evidente nell’insistenza con la quale essi invocavano il calcolo edonista dei piaceri e delle pene quale strumento per analizzare la totalità del comportamento umano. Formatosi sotto l’influenza di Comte e di altri sociologi, Mill non riusciva a tollerare una concezione così angusta dell’uomo, che finiva per trascu­ rare troppi di quegli elementi che lo differenziano dagli animali. Un secondo motivo di disagio verso i filosofi radi­ cali era dato dal fatto che questi non erano abbastanza radicali: per quanto le sue posizioni, viste in prospettiva storica, non sembrino particolarmente estremiste, egli non­ dimeno si collocava politicamente a sinistra rispetto sia a suo padre che ad altri fedeli aderenti alla tradizione ben-

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thamiana. La caratteristica che più di ogni altra distingue J.S. Mill dagli utilitaristi è infatti la sua apertura mentale verso le nuove idee, un tratto che assolutamente non era comune a nessuno degli stretti seguaci di Bentham. «Laissez faire», interventismo o socialismo? L’eclettismo di Mill come teorico dell’economia rinvia immediatamente alle sue posizioni in tema di politica eco­ nomica e sociale. Da questo punto di vista la sua opera si rivela una commistione talmente originale di varie opinio­ ni da impedire una qualsiasi classificazione precisa: appa­ re a volte un sostenitore del laissez faire, a volte un inter­ ventista, e in altre occasioni persino un socialista. Proba­ bilmente il modo migliore per caratterizzare la sua figura di pensatore profondo e complesso è quello di collocarlo, dal punto di vista delle politiche pubbliche, a metà strada tra il liberismo classico e il socialismo (un socialismo del resto non marxiano). Mill ebbe ben pochi contatti con Marx: dopo che fu introdotta la distinzione tra socialisti rivoluzionari e socialisti filosofi, infatti, egli avrebbe più facilmente fatto parte del secondo gruppo che non del primo. A dire il vero la distinzione secondo la quale di solito si parla di socialisti di sinistra (rivoluzionari) e socia­ listi di destra (evoluzionisti) si fonda sulla strategia che essi consideravano appropriata per raggiungere gli obicttivi del socialismo. Mill, invece, accordava la propria preferenza alla posizione evoluzionista dei socialisti filosofi sottoli­ neandone la loro concezione di una società buona. Quale era il ruolo che Mill immaginava per il governo all’interno della società e per la struttura economica, poli­ tica e sociale all’interno della «società buona»? Nel suo saggio Sulla''libertà (1859) Mill si impegnò a delineare la propria concezione di quale fosse la relazione più appro­ priata tra governo e individui. V’è un richiamo intenso al liberalismo classico nell’affermazione per cui l’unico eser­ cizio legittimo del potere da parte del governo al di sopra e contro la volontà del singolo individuo sarebbe consisti­ to nel]’«impedirgli di nuocere agli altri. Il bene, fisico o morale, di questo individuo non è una giustificazione suf-

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fidente»101. Nel trattare le azioni sociali di tipo pratico, tut­ tavia, Mill fu costretto ad abbandonare questa posizione rigorosamente liberale e a ricorrere a un sempre maggior numero di eccezioni alla regola generale. Così, se in un passo si legge una potente affermazione liberista quale: «in breve, il laissez faire dovrebbe essere la pratica generale: ogni distacco da tale norma, a meno che sia richiesto da una importante necessità, è certamente un male»11, in un altro passo egli retrocede da questa rigida regola di non in­ tervento e afferma che «non è ammissibile che la protezio­ ne delle persone e la protezione della proprietà siano i soli scopi del governo. Gli scopi del governo sono vasti, quan­ to quelli dell’unione sociale. Essi consistono in tutto il bene, e in tutta l’immunità dal male, che possono essere direttamente o indirettameqte originati dall’esistenza del governo»12. Detto altrimenti, Mill riconosce che l’assenza di intervento da parte del governo non comporterebbe necessariamente il raggiungimento della massima libertà, poiché quest’ultima è impedita da molti altri ostacoli che di fatto soltanto la legislazione o il governo potrebbero rimuovere. Così come Adam Smith aveva concepito il funziona­ mento dei mercati in modo sostanzialmente armonioso, ma aveva al tempo stesso riconosciuto l’esistenza di un conflit­ to nel fatto che «i proprietari terrieri amano raccogliere dove non hanno seminato», allo stesso modo Mill, che svi­ luppa il suo pensiero sulle fondamenta della teoria ricardiana della rendita, percepisce l’esistenza di un conflitto di classe tra i proprietari terrieri e gli altri gruppi sociali. Per via di tale conflitto egli esprime la propria mordace con­ danna verso i proprietari terrieri, pervenendo poi a racco­ mandazioni di politica economica che vanno nella direzio­ ne di espropriarli di tutti gli ulteriori incrementi delle ren­ dite e del valore della terra. I proprietari terrieri, infatti, «diventano più ricchi quasi dormendo, senza lavorare, sen­ za rischiare e senza risparmiare. Che diritto possono ave­ 10 John Stuart Mill, On Liberty, London, Longmans, Green and Co., 1913; trad. it. Sulla libertà, Milano, SugarCo, 1990, p. 32. 11 Mill, Principi di economia politica, cit., p. 1236. 12 Ibidem, p. 1062.

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re, secondo i principi generali della giustizia sociale, a que­ sto incremento di ricchezza?»13. In merito al conflitto tra la classe dei proprietari terrieri e gli altri gruppi sociali la proposta milliana è quindi quella di tassare tutti gli aumen­ ti che si sarebbero verificati nel livello delle rendite. Mill non pone in risalto, invece, l’esistenza di un conflitto di classe tra i lavoratori e il resto della società, in special modo i capitalisti; il fatto, però, che egli riconosca conflitti e di­ sarmonie all’interno del sistema economico al di là di quel­ le associate alla proprietà della terra è implicito nell’impo­ stazione complessiva della sua filosofia sociale, e soprattut­ to nei principali programmi di riforma di cui egli è fauto­ re, quale l'istruzione universale, la redistribuzione del red­ dito attraverso tasse sulle successioni, la formazione dei sindacati, la riduzione della giornata lavorativa e la limita­ zione del tasso di crescita della popolazione. La trattazione data da Mill alla proprietà privata all’in­ terno del suo sistema teorico ben riflette la sua miscela di liberismo classico e di riforma sociale. In base a essa i di­ ritti di proprietà non sono visti come assoluti, e la società potrebbe abrogarli o alterarli nel caso li giudicasse in con­ flitto con il bene comune. Anzi, nel capitolo dedicato alla proprietà, nel quale discute la possibilità del comuniSmo come sistema economico alternativo a quello esistente, egli afferma che se dun que la scelta si dovesse fare tra il com uniSm o con tutte le sue possibilità ancora da esplicare, e lo stato presente della s o ­ cietà con tutte le sue sofferenze e le sue ingiustizie; se l’istituto della proprietà privata dovesse portare con sé, come conseguenza necessaria, che il p ro d o tto del lavoro fosse distribuito com e noi vediam o che avviene attualm ente, cioè praticam ente in p ro p o r­ zione inversa al lavoro - le quote m aggiori a favore di quelli che non hanno m ai lavorato del tutto, quelle appen a un p o ’ più p ic ­ cole a coloro il cui lavoro è puram ente nom inale, e così avanti in progression e discendente, con la rem unerazione che dim in u­ isce sem pre di più via via che il lavoro diventa più gravoso e sgra­ devole, finché il lavoro più m assacrante e distruttivo non dà la sicurezza di poter guadagn are neppure il necessario per so p rav ­ vivere; se l ’alternativa fo sse tra questo e il com uniSm o, allora 15 15 Ibidem, p. 1077.

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tutte le difficoltà, grandi o piccole, del comuniSmo, peserebbe­ ro sulla bilancia come polvere1415.

Successivamente Mill qualificò la sua approvazione per il comuniSmo esplicitando il fatto che non era corretto paragonare il comuniSmo nella sua veste migliore e ideale all’ordine economico esistente a quel tempo, e che se si fosse corretta la legislazione sulla proprietà privata con lo scopo di raggiungere una distribuzione del reddito più equa e una più stretta conformità tra il contributo dato dagli individui al sistema economico e i loro redditi, allora egli avrebbe preferito al comuniSmo un siffatto sistema basato sulla proprietà privata e funzionante, appunto, al meglio delle sue possibilità. Una volta che tali correzioni fossero state apportate, «allora il principio della proprietà individuale non avrebbe avuto nessuna necessaria connes­ sione con quei mali fisici e sociali che quasi tutti gli scrit­ tori socialisti ritengono invece inseparabili da esso»15. Proprio allo stesso modo in cui respinse le argomenta­ zioni dei socialisti che vedevano la proprietà privata come la causa principale di tutti i mali della società, Mill evitò di accogliere anche quelle che dipingevano la concorrenza come una delle cause delle difficoltà esistenti a livello so­ ciale. A questo proposito Mill seguì infatti quella tradizio­ ne, che iniziava da Adam Smith e sarebbe confluita nella teoria ortodossa moderna, per la quale la concorrenza è fondamentalmente benigna e la conseguenza del potere di monopolio all’interno dei mercati sarebbe un’allocazione inefficiente delle risorse. Il carattere benevolo della concor­ renza e dei suoi effetti sulla società è affermato a chiare lettere: «ogni restrizione della concorrenza sia un male, e ogni sua estensione, anche se per un certo tempo può dan­ neggiare alcune categorie di lavoratori, sia sempre in defi­ nitiva un bene»16. In effetti esiste un qualche livello di con­ traddittorietà tra queste posizioni, dirette a favorire la con­ correnza, e il sostegno dato da Mill ai sindacati e ad altre iniziative tese a migliorare la posizione dei lavoratori attra­ 14 Ibidem, p. 344. 15 Ibidem, p. 345. 16 Ibidem, pp. 1047-1048.

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verso l’esercizio di un potere di monopolio. L’incoerenza di queste posizioni creò a Mill diverse difficoltà, costrin­ gendolo a una linea di ragionamento piuttosto tortuosa, al termine della quale egli giunse alla conclusione che «le associazioni libere dei lavoratori, di natura analoga alle organizzazioni sindacali, lungi dall’essere un ostacolo a un libero mercato del lavoro, sono lo strumento necessario di quel mercato libero, il mezzo necessario per consentire a chi offre il lavoro di avere la debita cura dei propri inte­ ressi, in un sistema di concorrenza»17. Un differente stato stazionario L’eclettismo di Mill e l’approccio umanitario con il quale egli si avvicinò alla scienza economica trovarono la loro massima espressione nella discussione delle tendenze di lungo periodo del sistema economico. Nonostante l’evi­ denza empirica suggerisse il contrario, su questo punto Mill si attenne fedelmente al modello ricardiano di base, che prevedeva saggi di profitto decrescenti nel tempo e il raggiungimento dello stato stazionario. Tuttavia lo stato stazionario che egli prefigurò era assai diverso da quello triste e deprimente immaginato da Ricardo, anzi tutt’altro. Egli giunse a mettersi in una posizione di paradossale con­ trasto con gli economisti ortodossi di tutti i tempi quando affermò di non essere sicuro se una nazione con una eco­ nomia in crescita, quale era l’Inghilterra del suo tempo, fosse un luogo desiderabile per viverci. Trovava infatti ri­ provevoli molti degli aspetti di un sistema economico pro­ spero e in crescita, come la «lotta per andare avanti; (...) l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri»18. AH’interno del capitolo dei Principi di economia politica, rimasto celebre, dedicato allo stato stazionario Mill getta uno sguardo cri­ tico sulla società del suo tempo e delinea le sue speranze per il futuro: la felicità individuale, il benessere e il miglio­ ramento generale rappresentano i criteri da lui seguiti per 17 Ibidem, p. 1221. 18 Ibidem, p. 999.

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tracciare il profilo della buona società, consapevole che questi fossero tratti non necessariamente misurabili attra­ verso beni materiali, mentre i criteri usualmente adottati, quelli della crescita del prodotto e della crescita della po­ polazione, cessano di essere un bene in se stessi. In base a tale concezione uno stato stazionario avrebbe potuto be­ nissimo configurare una società altamente desiderabile, poiché in un tale regime il ritmo dell’attività economica si sarebbe ridotto e quindi si sarebbe potuto dedicare mag­ giore attenzione ai singoli individui e al loro benessere, di natura economica e non economica. «E soltanto nei paesi arretrati che una maggiore produzione rappresenta ancora uno scopo importante; in quelli più progrediti, ciò di cui vi è bisogno è una migliore distribuzione»19. Un saggio di crescita della popolazione in rallentamen­ to avrebbe senz’altro soddisfatto le aspettative di Mill, che lo abbinava a incrementi nel reddito prò capite e a riduzio­ ni nella densità della popolazione: una popolazione in espansione demografica avrebbe infatti reso difficile alla gente provare tranquillità o godere della bellezza della natura. Nello stato stazionario prefigurato da Mill sarebbe esistita, al contrario, una cultura più raffinata e meno ma­ terialista, e assieme a una redistribuzione del reddito si sarebbe avuto un ripensamento dei valori tale da garantire che, «mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventa­ re più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare»20. Mill nutri­ va anche la speranza che lo stato stazionario avrebbe com­ portato un generale progresso nell’arte del vivere, «con una probabilità molto maggiore di perfezionarla, una volta che le menti degli uomini non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza»21. Avendo davanti agli occhi la società e il sistema economico del suo tempo, si domandò se lo svilup­ po tecnologico avesse veramente ridotto la fatica e la du­ rezza del lavoro umano; e la sua risposta fu che, nonostan­ te l’incremento complessivo della produzione avesse innal­ zato il destino delle classi medie e avesse addirittura fatto 19 Ibidem, p. 1001. 20 Ibidem, p. 1000. 21 Ìbidem, p. 1002.

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la fortuna di qualcuno, vi erano però interi strati di popo­ lazione all’interno della società che non avevano goduto i frutti della rivoluzione industriale: una considerazione che lo spinse a ritenere che il suo stato stazionario avrebbe portato con sé la realizzazione di una società «buona». La filosofia sociale di Mill È indubbio che l’ampiezza di vedute che caratterizza la filosofia sociale di Mill riflette le forze intellettuali con le quali egli venne in contatto nel corso della sua vita, così che, grazie alla sua straordinaria ricettività, fu in grado di rompere con la ristretta impostazione del liberismo classi­ co inculcatagli durante gli anni della sua formazione e di cercare di fondere teoria e politica in un insieme eclettico di liberismo e di riforma sociale. Tutto sommato non c’è in Mill una presentazione dogmatica del ruolo del gover­ no all’interno della società, e nonostante il suo saggio Sul­ la libertà assuma, come si è visto, una posizione marcatamente liberale, esaminando le questioni di politica econo­ mica si scopre che egli di fatto riconosce parecchie ecce­ zioni a quella posizione. Inoltre egli si spinge assai oltre, rispetto a Smith e Ricardo, nell’ammettere che il funziona­ mento delle forze di mercato non darebbe necessariamen­ te luogo a un ordine economico e sociale armonioso, e anzi, è particolarmente attento sia al conflitto tra i proprietari terrieri e gli altri gruppi sociali sia alle iniquità che caratte­ rizzano la distribuzione personale del reddito. Parimenti, malgrado egli subisca fortemente l’influen­ za dei socialisti utopisti e di sua moglie, Mill si rifiuta di accettare acriticamente due delle loro principali argomen­ tazioni: quelle per cui si possono spiegare molti dei mali che affliggono la società semplicemente puntando il dito contro le istituzioni della proprietà privata e della concor­ renza. La sua preoccupazione di fondo, che è in generale la preoccupazione per la qualità della vita degli uomini, lo porta alla convinzione che in un sistema economico mate­ rialistico e orientato alla crescita le persone sarebbero di­ stolte dalla propria autorealizzazione e dal proprio miglio­ ramento, e sarebbero invece spinte a soddisfare istinti più

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bassi e meschini. Per questo motivo Mill accetta l’analisi ricardiana che prefigura lo stato stazionario quale tenden­ za di lungo periodo del sistema economico, ma la corregge con il suo umanitarismo ottimista, e al posto dello scena­ rio deprimente paventato da Ricardo, immagina che a esso possa corrispondere una società nuova e migliore, non più orientata verso obiettivi strettamente materialistici. Giunti al termine di questa veloce panoramica della fi­ losofia sociale di Mill siamo ora in grado di dedicarci al­ l’esame delle modifiche e dei contributi che egli apportò alla tradizione della teoria economica ortodossa. «f Q uadro 5 .1 .

La preoccupazione di Mill per i diritti delle donne Nessuno degli scritti di Mill sulle questioni sociali e politiche venne ricevuto con un’ostilità superiore a quella che accolse La schiavitù delle donne, pubblicato nel 1869. Mill non ne sarebbe rimasto interamente stupito, come si evince da una lettera inviata nel 1850 all’editore del Westminsler, nella quale egli esternò i suoi timori nel parlare di questo tema: «le mie opinioni sul com­ plesso della questione sono così radicalmente opposte al sentire comune che probabilmente sarebbe poco opportuno esprimerle per intero»1. 11 primo paragrafo della Schiavitù delle donne è dedicato a richiamare rapidamente le radicate convinzioni di Mill circa l’uguaglianza dei sessi: Lo scopo di questo saggio è di spiegare, il più chiaramente possibile, su che cosa si fonda un’opinione che io ho sostenuto fin da quando si forma­ rono le mie prime convinzioni sulle questioni sociali o politiche, e che, in­ vece di modificarsi o attenuarsi, si è sempre più radicata con lo sviluppo della riflessione e l’esperienza di vita. Io credo che il principio regolatore dei rapporti sociali esistenti fra i due sessi - la subordinazione legale di un ses­ so all’altro - sia in sé errato e costituisca oggi uno dei principali ostacoli al progresso umano; e che dovrebbe essere sostituito con un principio di per­ fetta uguaglianza, senza potere o privilegio da parte di un sesso, né incapa­ cità da parte dell’altro2.

La biografia di Mill registra la risposta di un incredulo letto­ re: «Egli ci porta ad immaginare che la relazione tra uomini e donne possa funzionare semplicemente sulla base della volonta­ rietà»*.

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Mill portò a conclusione La schiavitù delle donne due anni dopo la morte di sua moglie, Harriet Taylor, ma aspettò ben nove anni prima di decidersi a pubblicarlo, senz’altro a motivo della sua natura controversa. Tuttavia già in un saggio scritto a quat­ tro mani con la moglie tra il 1847 e il 1850 aveva espresso la sua preoccupazione per l’anomala situazione delle donne nella socie­ tà inglese: In primo luogo bisogna osservare che gli impedimenti per le donne appartengono esattamente a quella classe di impedimenti di cui l’epoca moderna è sommamente orgogliosa di essersi liberata, ossia gli impedimen­ ti per nascita. È il vanto dell’Inghilterra quello per il quale se anche alcune persone sono privilegiate dalla nascita, per lo meno nessuno ne è squalifica­ to, o per il quale chiunque può aspirare a diventare un pari, un membro del parlamento, o un ministro, o per il quale la strada verso la distinzione non è preclusa agli umili. Tuttavia essa è irrimediabilmente preclusa alle donne. Una donna nasce squalificata, e non v’è alcuno sforzo che possa fare per superare questa condizione, un caso assolutamente particolare nell’Europa moderna. Assomiglia a quello dei negri in America, ed è peggio ancora di quello dei plebei dell’antichità, che almeno avrebbero potuto ricevere o forse anche acquistare una patente di nobiltà. Le preclusioni per le donne sono invece le uniche ad essere indelebili34. 1Citato in John Stuart Mill, Collected Works, a cura di John M. Robson, To­ ronto, University of Toronto Press, 1984, voi. XXI, p. xxxi. 2 John Stuart Mill, The Suhjection ofWomen, in Collected Works, cit., voi. XXI, p. 261; trad. it. La schiavitù delle donne, a cura di M. Baccianini e M. Sau­ le, Milano, SugarCo, 1992, p. 1. 3Michael St. John Packle, The Life of]ohn Stuart Mill, London, Secker and Warburg, 1954, p. 495. 4Mill, Collected Works, cit., voi. XXI, p. 380.

a, wmm 3. La teoria economica milliana Il ruolo assegnato alla teoria L’approccio di Mill agli aspetti più propriamente anali­ tici della teoria economica è un approccio critico, proprio come ci si potrebbe aspettare da un pensatore che subì l’in­ fluenza della letteratura sia ortodossa che eterodossa. Come abbiamo già osservato, Mill si considerava un sem­ plice espositore e ammodernatore dell’impianto di base dell’analisi ricardiana; malgrado questa posizione, le mo­ difiche apportate da Mill alla teoria del valore di Ricardo

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sono tuttavia numerose e sostanziali. Una delle più riusci­ te critiche della teoria della rendita di Ricardo in partico­ lare, e della concezione classica in generale, è il Saggio sul­ la distribuzione della ricchezza e sulle fonti della tassazione (1831) di Richard Jones, nel quale si sostiene che l’econo­ mia classica avrebbe ignorato le circostanze storiche e isti­ tuzionali che caratterizzano qualsiasi sistema economico. Nel mettere in discussione l’applicazione universale del­ l’analisi ricardiana, valida per tutti i tempi e per tutti i luo­ ghi, e nell’invocare un approccio più empirico che desse conto dei cambiamenti nella struttura istituzionale, Jones si pone insomma come un anticipatore della scuola stori­ ca. Il quarto capitolo del Libro II dei Principi di economia politica di Mill, Ideila concorrenza e della consuetudine, accoglie implicitamente la critica di Jones e mostra come Mill riconosca che la teoria economica astratta deve essere accompagnata da una consapevolezza delle istituzioni che storicamente hanno avuto un ruolo predominante. Mill si convince perciò dell’esistenza di due forze che governava­ no la distribuzione del reddito, ossia la concorrenza e la consuetudine, e si schiera contro la corrente ortodossa degli economisti inglesi, colpevoli, a suo modo di vedere, di aver enfatizzato il ruolo della prima trascurando del tutto il ruolo della seconda. «Essi tendono ad esprimersi come se pensassero che, in ogni caso, la concorrenza sia in grado di esplicare effettivamente e pienamente quell’azio­ ne che si può dimostrare che essa tende a svolgere»22. . Assumendo la prospettiva del relativismo storico, Mill mise in evidenza come l’operare della concorrenza all’in­ terno di un’economia di mercato fosse un fenomeno rela­ tivamente recente per il suo tempo, e che se si fosse guar­ dato alla storia passata si sarebbe scoperto che usi e con­ suetudini avevano da sempre occupato un ruolo centrale nella soluzione dei problemi legati alla distribuzione del reddito. A sostegno di tale opinione egli si avvalse di ma­ teriale storico riguardante la pluralità di assetti istituziona­ li esistiti nel passato o ancora vigenti al suo tempo nei si­ stemi economici sottosviluppati e meno orientati al merca­ to. Egli riconobbe ad esempio che il sistema ricardiano 22 Ibidem, p. 383.

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assume l’esistenza nel sistema economico di un insieme di soggetti, ovvero gli uomini di affari, motivati da un forte desiderio di guadagnare profitti, tramite l’attività dei quali si perviene all’allocazione delle risorse e al raggiungimen­ to dell’equilibrio di mercato; ma al tempo stesso riconob­ be l’esistenza di altri sistemi economici in cui tali soggetti non erano presenti, e perfino di economie di mercato nel­ le quali «concorrenti intraprendenti di questo genere man­ cano; coloro che possiedono dei capitali preferiscono la­ sciarli dove sono, ricavarne un profitto minore, ma in modo più tranquillo»23. In questi passaggi, così come altro­ ve nel suo libro, Mill stava valutando la questione di quan­ ta importanza dovesse essere attribuita alla teoria astratta e quanta al materiale di tipo storico-istituzionale, una pro­ blematica che è stata più volte ripresa dai vari pensatori eterodossi ed è tuttora aperta. Una volta che si sia riconosciuta l’esistenza di forze di tipo sociale, quali la consuetudine, che modificano o addi­ rittura contraddicono le previsioni formulate sulla base di un processo di tipo esclusivamente concorrenziale, perché mai gli economisti dovrebbero insistere nel riferirsi a un modello che prevede la concorrenza? «Questo atteggia­ mento è in parte comprensibile» rispose Mill «se si pensa che è soltanto attraverso il principio della concorrenza che l’economia politica ha qualche pretesa al carattere di scien­ za»24. Una conclusione così curiosa ha senso solo se accet­ tiamo una determinata definizione di scienza, ossia quella per cui la teoria economica o i modelli economici, per es­ sere, appunto, «scientifici», avrebbero dovuto raggiungere conclusioni esatte e incontrovertibili. In altre parole, il ca­ rattere di scienza implicito in quella affermazione richiede che vengano effettuate previsioni non soltanto precise, ma dotate di una probabilità pari a uno di verificarsi. Tale posizione si richiamava in modo esplicito alle nozioni allo­ ra prevalenti di scienza (che erano peraltro riferite alle scienze naturali) applicandole integralmente alla teoria economica. Oggigiorno, però, siamo disponibili ad acco­ gliere come scientifiche anche aree di ricerca nelle quali la 23 Ibidem; p. 389. 24 Ibidem, p. 383.

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probabilità attesa del verificarsi di un evento è inferiore all’unità; nella fisica moderna, ad esempio, si riconosce la possibilità dell’accadere di fenomeni casuali che impedi­ scono la ripetizione degli esperimenti con assoluta identi­ cità di condizioni. Nel passaggio appena citato sulla con­ correnza e la scienza economica Mill sembrò dunque ac­ cogliere una nozione particolarmente ristretta di scienza, sebbene vada ricordato che in molti altri luoghi nei suoi scritti egli si avvicinò molto di più alla nozione attualmen­ te prevalente. Mill e l’analisi contestualizzata La specificità della concezione milliana del ruolo della teoria economica prevede di non accettare acriticamente i risultati teorici, dal momento che nella pratica, nel conte­ sto di una data società, sono presenti anche altri fattori, quali la consuetudine, che possono alterare le previsioni teoriche. In questo senso è corretto sostenere che Mill pre­ se le distanze da Ricardo per ritornare a un’impostazione più simile a quella smithiana. Merita ricordare a questo proposito quel che era emerso dall’esame della figura di Adam Smith, ovvero che i suoi pronunciamenti in tema di politica economica non erano il risultato di una meccanica applicazione di strumenti teorici a una società di tipo ano­ nimo, ma il frutto di un’analisi contestualizzata che dava corpo alle sue personali riflessioni su come proposizioni dal tenore puramente teorico potessero trovare applicazione in un dato contesto sociale. Anche l’eclettismo mostrato da Mill nel trattare i meri­ ti del capitalismo e della proprietà privata rispetto a quelli del comuniSmo è a sua volta il riflesso di un’analisi conte­ stualizzata condotta nello stile di Smith. Mill suggerì che avrebbe preferito un comuniSmo ideale rispetto al capita­ lismo quale quello esistente al suo tempo, ma immediata­ mente aggiunse anche che questo non era il modo giusto per impostare la scelta: il capitalismo esistente (e, a mag­ gior ragione, il capitalismo riformato in senso sociale), paragonato al comuniSmo quale probabilmente sarebbe stato se si fosse realizzato, avrebbe infatti riportato il piat­

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to della bilancia a favore del sistema capitalistico basato sulla proprietà privata. L’analisi contestualizzata, sia nel caso di Smith che in quello di Mill, era fondamentalmente radicata nell’approc­ cio alla scienza economica proprio di questi due autori, un approccio di ampio respiro che vede l’attività economica come una tra le tante altre attività umane, e che contrasta decisamente con la visuale ristretta propria dell’approccio di Ricardo e delle successive schiere di economisti, appar­ tenenti alla corrente di pensiero dominante, che ne hanno seguito l’impostazione. La teoria del valore Nonostante Mill insista nel sottolineare gli elementi di continuità piuttosto che di contrasto tra la sua teoria e il dogma ricardiano, di fatto la teoria del valore o dei prezzi relativi che egli enuncia rappresenta un sostanziale rifiuto di quella proposta da Ricardo. Mill suggerisce infatti una teoria del valore basata sul costo di produzione, secondo la quale i costi monetari rappresentano fondamentalmente i costi reali (o la disutilità) sia del lavoro che dell’astinen­ za, un punto che qualifica la sua teoria e la rende facilmen­ te accostabile a quella proposta da Senior. Un elemento di distacco profondo rispetto al modello ricardiano sta nella rinuncia alla ricerca del valore assoluto basata su una qual­ che misura invariante del valore, ritenendo che lo scopo ultimo di una teoria del valore sia la spiegazione dei prezzi relativi. Ugualmente, Mill si allontana dalla teoria ricardiana nella discussione sulla rendita, quando riconosce che il costo opportunità della terra non è sempre pari a zero, e che la rendita rappresenta un costo sociale di produzione in quei casi in cui vi possono essere usi alternativi della terra. Certamente Mill non padroneggia la distinzione tra breve e lungo periodo con la stessa sicurezza esibita da Marshall dopo di lui, però sembra averne una vaga idea, e considera suo compito principale quello di spiegare come siano determinati i prezzi relativi nel lungo periodo. Inol­ tre, benché egli non arrivi a formulare esplicitamente fun­ zioni (o curve) per rappresentare la domanda e l’offerta,

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giunge però a elaborare una teoria del valore capace di rispecchiare chiaramente il principio per il quale le quan­ tità domandate e offerte sono una funzione del prezzo; per questo motivo è possibile dare una familiare forma marshalliana alla sua teoria dei prezzi di lungo periodo senza per questo fare torto né a Marshall né a Mill. L’idea di fondo di Mill è che affinché un bene possa avere un valore di scambio, o un prezzo, occorre che esso sia utile e difficile da ottenere, anche se poi il valore d’uso determina il valore di scambio, o prezzo, soltanto in circo­ stanze del tutto inusuali. Mill chiarisce il concetto cercan­ do di descrivere il modo con cui viene determinato il prez­ zo di una tabacchiera musicale, ricorrendo a due casi ipo­ tetici presi a prestito da uno scrittore a lui contemporaneo: nel primo caso la produzione è localizzata a Londra, dove per ipotesi si possono produrre tabacchiere a costi costan­ ti; nel secondo ci si trova su un battello in navigazione sul lago Superiore, dove esiste una sola di tali tabacchiere. Lo scopo di Mill, nel presentare questo esempio, è quello di dimostrare che i prezzi dipendono quasi sempre dal costo di produzione piuttosto che dalla loro utilità. Se l’offerta fosse limitata in modo assoluto, allora la curva di offerta

Fig. 5.1. La posizione di Mill sul valore dei beni.

sarebbe perfettamente inelastica (verticale) e il prezzo di­ penderebbe da domanda e offerta (come in fig. 5.1.a). Di fatto secondo Mill questa è una classe di merci relativamen­ te poco importanti, posto che poche merci presentano un’offerta perfettamente inelastica: si tratta per lo più di vini, di opere d ’arte, di libri rari, di monete, del valore di locazione di un terreno e potenzialmente di tutta la terra

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man mano che aumenta la densità della popolazione. Egli però fa uso di questo primo caso per analizzare quelle si­ tuazioni di monopolio in cui il monopolista ha la possibilità di limitare l’offerta in modo artificioso. Un secondo gruppo di merci, i beni manufatti, presentano invece una curva di offerta perfettamente elastica (orizzontale), e a proposito di questi Mill conclude che il loro prezzo è determinato dal costo di produzione; in questo caso infatti egli adotta l’ipo­ tesi che tutte le industrie manifatturiere producano a costi costanti (si veda fig. 5.1 .b), cioè che i loro costi marginali non si modificano all’aumentare del livello di produzione. Per quanto riguarda infine il terzo gruppo di beni, ovvero quelli prodotti nel settore agricolo, l’ipotesi di Mill è di una produzione soggetta a costi crescenti, dove cioè i costi mar­ ginali aumentano con l’aumentare dell’output prodotto: il prezzo di tali merci è allora determinato dal costo di pro­ duzione registrato nelle circostanze meno favorevoli (si veda fig. 5.1.c). In tal modo egli applica il principio dei ren­ dimenti marginali decrescenti soltanto alla produzione agricola e non anche a quella industriale. A commento di questa trattazione va detto che nono­ stante Mill avesse prestato una certa attenzione nel sottolineare che tanto l’utilità (cioè la domanda) quanto la dif­ ficoltà nell’ottenimento del prodotto (cioè l’offerta) doves­ sero essere preesistenti alla determinazione del prezzo, la terminologia da lui adottata finì per oscurare l’applicabili­ tà delle «leggi della domanda e dell’offerta» a tutte e tre le categorie di beni. Mill individua con chiarezza come si raggiungono i prezzi di equilibrio nei vari mercati attraverso il gioco del la domanda e dell’offerta: l’analogia matematica più appropriata è... quella dell 'equazione. La domanda e l’offerta, la quantità domandata e la quantità of­ ferta, diventeranno uguali fra loro. Se in qualsiasi momento si trovassero ad essere disuguali, la concorrenza le eguaglia, e rag­ giunge questo risultato mediante un adeguamento del valore. Se la domanda aumenta, il valore sale; se la domanda diminuisce, il valore scende; e, inversamente, se l’offerta diminuisce, il valo­ re sale; e scende se l’offerta aumenta25. 25 ibidem, pp. 641-642.

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L’equilibrio finale è dunque raggiunto allorché la quan­ tità domandata uguaglia quella offerta. Benché Mill non utilizzi equazioni matematiche, grafi­ ci, o curve di domanda e di offerta, di fatto la sua analisi della determinazione dei prezzi costituisce un avanzamen­ to non indifferente rispetto a quella elaborata da Ricardo, specialmente perché l’apparato concettuale che la sostiene è costruito in accordo con la logica delle funzioni di do­ manda e di offerta. L’unico gruppo di merci che egli non tratta è quello caratterizzato da costi decrescenti e curve di offerta di lungo periodo inclinate verso il basso. Sono infine da segnalare altri contributi decisamente originali apportati da Mill alla teoria del valore: vale a dire la possibilità dell’esistenza di gruppi non concorrenziali (ad esempio egli riconobbe che nel mercato del lavoro la mo­ bilità era lungi dall’essere perfetta); il modo di determina­ re il prezzo quando due o più beni sono prodotti in pro­ porzioni fisse (come lana e montoni, per esempio); la ren­ dita come fattore da includere tra quelli che determinano il prezzo nel caso in cui la terra possa essere impiegata in usi alternativi; e infine le economie di scala. Quando infi­ ne affermò che «fortunatamente, non vi è nulla nelle leggi del valore che rimanga da essere chiarito per il presente o futuro scrittore; la teoria dell’argomento è completa»26, egli in fin dei conti non stava facendo altro che esprimere la propria soddisfazione personale per essere riuscito a svi­ luppare una compiuta teoria del valore. E vero che molti economisti successivi a Mill avrebbe­ ro sorriso di questa affermazione, e che questa fu proba­ bilmente la ragione che spinse più tardi Marshall a sugge­ rire che il proprio contributo alla teoria microeconomica sarebbe diventato obsoleto in poco tempo. Si deve tutta­ via riconoscere che la nostra comprensione dell’interazio­ ne tra domanda e offerta nel processo di allocazione delle risorse all’interno di mercati concorrenziali non è cambia­ to in modo fondamentale dopo l’analisi di Mill: ovviamen­ te si sono avuti parecchi sviluppi che consentono maggior rigore analitico e intuizioni di maggiore profondità, ma ciò

26

Ibidem, p . 6 2 6 .

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non toglie che Mill, con tutta la rozzezza del suo apparato tecnico e l’assoluta mancanza di formalizzazione, fosse sta­ to in grado di elaborare un’analisi dei mercati realmente si­ gnificativa, incorrendo in un numero assai limitato di er­ rori. Il vero, grande, vuoto teorico nella costruzione milliana va piuttosto rintracciato nella sua teoria microecono­ mica, e consiste nell’incapacità di analizzare i mercati con concorrenza imperfetta: si tratta del resto di un vuoto che non sarebbe stato colmato se non intorno al 1930, e che qualcuno, anzi, sostiene non essere stato a tutt’oggi anco­ ra completamente colmato. La teoria del commercio internazionale La teoria del commercio internazionale rappresenta uno dei successi teorici più importanti di Mill e uno dei motivi per i quali egli viene solitamente ricordato e apprezzato da parte degli storici del pensiero economico; in particolare la sua analisi della divisione dei guadagni derivanti dal commercio internazionale alle diverse nazioni che vi par­ tecipano è forse il contributo analitico più importante e duraturo che egli riuscì a dare alla teoria economica. Me­ diante la nozione di vantaggio comparato già Ricardo ave­ va in precedenza rafforzato e ampliato l’analisi smithiana dei benefici raggiungibili con la liberalizzazione del com­ mercio internazionale, giungendo alla conclusione che dove fossero esistiti dei vantaggi comparati il commercio internazionale avrebbe potuto aumentare il prodotto mon­ diale e avvantaggiare così tutte le nazioni interessate, sulla base di un insieme di prezzi (o di ragioni di scambio) in­ ternazionali di generale soddisfazione. Nel modello sempli­ ficato illustrato nella tabella 4.3 l’Inghilterra sarebbe stata disponibile a scambiare 1 metro di stoffa fino a che avesse ricevuto in cambio più di 2 litri di vino, e analogamente il Portogallo avrebbe beneficiato del commercio tra vino e stoffa fintantoché avesse dovuto sacrificare meno di 8 litri di vino per avere in cambio 1 metro di stoffa: la gamma dei prezzi internazionali, o delle ragioni di scambio, capa­ ci di portare beneficio a entrambe le nazioni, era dunque quella compresa tra, diciamo, 7,9 litri di vino per 1 metro

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di stoffa e 2,1 litri di vino per 1 metro di stoffa. Seguendo questo ragionamento centrato sul vantaggio comparato, Ricardo riuscì a dimostrare quali sarebbero stati i vantaggi del commercio internazionale, ma non potè indicare quale sarebbe stato il prezzo effettivo della stoffa e del vino e, di conseguenza, come le due nazioni si sarebbero ripartite il vantaggio complessivo. Ovviamente l’Inghilterra avrebbe preferito guadagnare quanto più vino possibile per un metro di stoffa e il Portogallo avrebbe preferito cedere quanto meno vino possibile per un metro di stoffa: davan­ ti a questa situazione di indeterminatezza, Ricardo si limi­ tò semplicemente a suggerire che le ragioni di scambio, o il prezzo internazionale, sarebbero state grosso modo una via di mezzo tra i due prezzi nazionali, ossia, nei termini della tabella 4.3, circa 5 litri di vino per 1 metro di stoffa. Mill si sofferma proprio su questo problema del modo in cui i vantaggi del commercio internazionale si ripartisco­ no tra le diverse nazioni che vi partecipano, e la soluzione che propone è sorprendentemente corretta, considerato che non comporta il ricorso né a particolari tecniche ma­ tematiche né alla nozione di elasticità, che ancora doveva essere sviluppata. Il suo contributo è stato riconosciuto e apprezzato sia da Marshall che da Edgeworth, i quali han­ no successivamente ripreso la sua trattazione e si sono sfor­ zati di rielaborarla in modo più preciso con l’ausilio di diagrammi e di un linguaggio matematico. L’idea di fondo di Mill consiste nel far dipendere le ragioni di scambio dalla domanda per i prodotti importati da parte dei due paesi. Per stare all’esempio prima citato, se la forza della domanda inglese per il vino importato dal Portogallo fos­ se di molto superiore alla domanda portoghese per la stof­ fa importata dall’Inghilterra, le ragioni di scambio e quin­ di i vantaggi del commercio andrebbero a favore del Por­ togallo: il prezzo internazionale sarebbe cioè piuttosto vi­ cino ai 2 litri di vino per 1 metro di stoffa, e il Portogallo non dovrebbe cedere molto del suo vino per avere la quan­ tità desiderata di stoffa inglese. La forza relativa delle do­ mande di importazioni è legata, a giudizio di Mill, «alle tendenze e alle condizioni dei consumatori dei due paesi», e il prezzo internazionale (o il valore di scambio) deve coincidere con quel particolare valore per cui «le quantità

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richieste da ciascun paese delle merci che esso importa dal suo vicino saranno esattamente sufficienti ad acquistarsi l’una con l’altra»27. Mill ebbe poi cura di approfondire la nozione di «tendenze e condizioni dei consumatori», indi­ cando in modo chiaro che con tale fraseologia si riferiva alle posizioni e alle elasticità delle curve di domanda, e senza aver mai esplicitamente introdotto il concetto di ela­ sticità della domanda, di fatto egli stava descrivendo pro­ prio i casi di domande caratterizzate da elasticità, inelasti­ cità, ed elasticità unitaria. Vi sono poi altri contributi dati da Mill alla teoria del commercio internazionale e meritevoli di essere menziona­ ti, poiché se anche furono certamente meno importanti di quelli trattati finora, in ogni caso essi testimoniano della sua abilità analitica. Egli introdusse ad esempio i costi di trasporto nell’analisi del commercio estero e dimostrò come essi avrebbero potuto generare situazioni nelle quali il commercio non avrebbe avuto luogo nonostante la pre­ senza di un vantaggio comparato; analizzò inoltre gli effet­ ti delle tariffe sulle ragioni di scambio, indicò come varia­ zioni sia di prezzo che di reddito avrebbero influenzato l’equilibrio commerciale tra le nazioni, e trattò degli aggiu­ stamenti conseguenti a trasferimenti unilaterali da una nazione all’altra. Data la completezza che la teoria del com­ mercio internazionale raggiunse con la trattazione di Mill, dovette passare quasi un secolo dopo di lui prima che si potessero avere degli avanzamenti decisivi a opera di Ohlin e Keynes. La teoria monetaria di Mill e l’eccesso di offerta: una ripre­ sa della legge di Say Preoccupato dagli attacchi sferrati alla legge di Say da parte di Malthus, Chalmers e Sismondi, Mill tentò di rin­ tuzzare le loro critiche in un articolo dal titolo Dell’influen­ za del consumo sulla produzione, scritto già nel 1830 ma pubblicato solo nel 1844, quando apparve sia nei Saggi su 2‘ Ibidem, p. 805.

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alcuni problemi insoluti dell’economia politica che nel quat­ tordicesimo capitolo {Dell’eccedenza dell’offerta), del Libro III dei Principi di economia politica. In tale scritto Mill si schierò a favore della legge di Say controbattendo l’argo­ mento, avanzato da molti «sottoconsumisti», in base al quale il sistema economico avrebbe tratto giovamento se i ricchi avessero risparmiato di meno e speso di più in con­ sumi improduttivi, e di fatto la sua difesa della legge di Say non trovò uguali fino al ventesimo secolo. In sostanza il suo ragionamento, pur riconoscendo che si sarebbe potuta benissimo verificare un’offerta eccessiva di alcune merci particolari in seguito alla reazione dei mercati al mutare delle condizioni della domanda e dell’offerta, era centrato sul fatto che non sarebbe stato logicamente corretto trasfe­ rire questa conclusione a livello macroeconomico, e con­ cludere che l’eccesso di offerta avrebbe potuto continuare in modo permanente e per tutte le merci. Così, spinto dal­ la necessità di difendere l’impianto logico della legge di Say, Mill giunse a distinguere tre possibili tipi di sistemi economici: un’economia di baratto, un’economia dove la moneta è una merce e non esiste credito, e un’economia dove invece esiste credito monetario. L’introduzione espli­ cita della moneta all’interno della discussione sulla possi­ bilità di una sovrapproduzione a livello generale rappresen­ ta un avanzamento considerevole rispetto alle argomenta­ zioni precedentemente addotte in difesa della legge di Say da parte di Ricardo, di James Mill e dello stesso Say. Mill dimostra in modo molto chiaro che in un’econo­ mia di baratto non potrebbe mai esserci un caso di insuf­ ficienza della domanda aggregata, dal momento che una qualsiasi decisione di offerta di merci presuppone a pro­ pria volta una domanda per quelle stesse merci; in un si­ stema economico di questo tipo ogni singolo produttore od ogni singola impresa produrrebbero e porrebbero in ven­ dita il proprio prodotto solo in seguito al desiderio di ot­ tenere altri beni. Così, un calzolaio produrrà e commercerà i suoi prodotti solo perché ha bisogno di vestirsi, di nutrirsi, di scaldarsi, e così via. Se in questo sistema si in­ troduce la moneta intesa solo come mezzo di scambio la conclusione non cambia; se però la moneta assolve anche alla funzione di riserva di valore, allora un venditore po-

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trebbe anche non tornare immediatamente sul mercato per effettuare i propri acquisti, e per quanto il potere d’acqui­ sto generato a livello aggregato sia sufficiente a garantire il pieno impiego, esso potrebbe anche non essere esercitato nel periodo in corso e quindi determinare una situazione di sovrapproduzione generale. Nell’elaborare queste posizioni Mill reintrodusse la so­ fisticata analisi monetaria di Henry Thornton aH’interno di quella classica, giungendo a sviluppare una teoria psicolo­ gica del ciclo economico. Egli dimostrò insomma che con l’introduzione del credito avrebbe potuto verificarsi il caso di una sovrapproduzione di merci a livello di sistema eco­ nomico nel suo complesso: una sovraemissione di credito in un periodo di espansione e di prosperità avrebbe potu­ to essere seguita da una contrazione del credito in seguito a un’ondata di pessimismo nella comunità degli affari. In tali periodi vi è realm ente u n ’eccedenza di tutte le merci rispetto alla dom anda m onetaria; in altre parole, vi è u n ’in suffi­ cienza nell’offerta di m oneta. A causa di un im provviso annien­ tam ento di una grande m assa di credito, tutti sono avversi a c e ­ dere denaro contante, e m olti sono ansiosi di procurarselo a c o ­ sto di qualsiasi sacrificio. Perciò quasi tutti diventano venditori, e non vi sono quasi più com pratori28.

A parere di Mill, quindi, l’introduzione del credito in un sistema economico avrebbe consentito la possibilità di un eccesso di offerta a livello aggregato, non a causa del fenomeno malthusiano della sovrapproduzione dovuta a saturazione del mercato, ma per il modificarsi delle aspet­ tative da parte del mondo degli affari. Un qualsiasi ecces­ so di offerta di questo tipo, nella sua analisi, sarebbe stato sempre un fenomeno di breve durata e sarebbe stato co­ munque seguito dalla piena occupazione, come conseguen­ za del modificarsi dei prezzi all’interno del sistema econo­ mico. L’effetto netto della discussione milliana delle que­ stioni legate alla legge di Say e al ruolo della moneta nel sistema economico fu dunque quello di proteggere il nu­ cleo fondamentale della costruzione teorica dell’economia 28

Ibidem, p p . 7 7 5 - 7 7 6 .

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politica classica dagli attacchi malthusiani, e, al tempo stes­ so, di sviluppare una semplice teoria psicologica delle flut­ tuazioni economiche basata sulle interazioni tra credito monetario e aspettative degli operatori. La scuola metallica e la scuola bancaria La posizione di Mill in tema di teoria monetaria va in­ quadrata all’interno del dibattito del tempo e in modo tale da rispecchiare il suo approccio metodologico, secondo cui l’indagine teorica avrebbe dovuto essere guidata dal tenta­ tivo di trovare soluzione ai problemi della vita pratica piut­ tosto che svilupparsi in modo autonomo dalle questioni di politica economica. Il contesto storico all’interno del qua­ le collocare tale teoria è quello che riproponeva tanto il dibattito bullionista29 quanto la questione di come affron­ tare le recessioni economiche e i disordini finanziari che si verificavano periodicamente. La prosecuzione del dibattito bullionista è nota come la controversia tra la scuola metallica (Currency School) e la scuola bancaria (Banking School). La scuola metallica si rifaceva alla posizione bullionista e sosteneva che un regi­ me di circolazione misto (ossia consistente di banconote e di oro) avrebbe dovuto essere soggetto a una rigida rego­ lamentazione, e che quindi la quantità di moneta in circo­ lazione avrebbe dovuto essere fatta variare esattamente allo stesso modo in cui sarebbe variata se il sistema fosse stato 25 Per quanto riguarda i contenuti del dibattito bullionista rinviamo al paragrafo 9 del quarto capitolo. Qui si ricorda soltanto che l’idea bullioni­ sta di considerare i fenomeni reali come regolati dal valore dei beni e non dai prezzi, e dunque la moneta come un «velo» di copertura delle tendenze di fondo, venne recepita da Ricardo e poi contrastata, tra gli altri, da Hen­ ry Thornton e da Malthus. Il tema principale affrontato durante le guerre napoleoniche era stato l’individuazione delle cause dell’inflazione; al loro termine, a radicalizzare le posizioni in gioco sorse il problema se ristabilire o meno la convertibilità in oro dei biglietti di banca, abrogata nel 1797. Il dibattito tra i bullionisti (o metallisti) come Ricardo, fautori della convertibi­ lità, e i loro oppositori, convinti che all’origine del deprezzamento non vi fos­ sero le eccessive emissioni di moneta ma le variazioni nei livelli di cambi con l’estero, sfociò nella decisione, presa nel 1819, di tornare al regime moneta­ rio prebellico, ossia di ripristinare la convertibilità della sterlina (N.d.C.).

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completamente metallico. I suoi fautori sostenevano che questa politica era infatti l’unica che impedisse delle emis­ sioni inflazionistiche. La scuola bancaria, dal canto suo, invocava la necessità di una politica monetaria più flessibi­ le e sosteneva che non vi sarebbe stato bisogno di effettua­ re alcun controllo sull’emissione di banconote fintantoché le banche avessero agito in accordo con la dottrina delle cambiali reali. Una posizione interessante in questa contro­ versia fu quella espressa da Robert Torrens, inizialmente uno dei principali sostenitori della posizione antibullionista ovvero della posizione anticipatrice della scuola banca­ ria, che in seguito cambiò opinione e si schierò con la scuo­ la metallica. La teoria monetaria di Mill, che di fatto si appoggiava alla teoria quantitativa di Ricardo e la modificava mitigan­ done il rigore, si collocò a mezza strada tra la scuola ban­ caria e quella metallica: a suo modo di vedere infatti le indicazioni della scuola bancaria sarebbero state quelle più corrette da applicare in tempi «normali», cioè quando i mercati fossero stati «tranquilli». Però la dottrina delle cambiali reali non avrebbe rappresentato un solido riferi­ mento teorico valido in qualsiasi situazione: nel caso di periodi caratterizzati da una crescita finanziaria speculati­ va, infatti, Mill riteneva che la politica economica suggeri­ ta dalla scuola metallica, consistente nel legare l’emissione di banconote alla quantità d’oro disponibile come riserva, diventava quella più appropriata da seguire.Il Il fondo-salari e la ritrattazione di Mill. Come già ricordato, la dottrina del fondo-salari fu uti­ lizzata al tempo di Mill da alcuni economisti e da una serie di divulgatori come uno degli argomenti da opporre alla formazione dei sindacati. In base a tale dottrina il saggio di salario era determinato dalla dimensione della forza la­ voro e dal fondo-salari, così che qualsiasi tentativo messo in atto dai lavoratori per alzare il livello delle retribuzioni si sarebbe rivelato comunque vano. Si tratta di un esempio tipico di come la teoria economica ortodossa venisse richia­ mata per dimostrare l’insuccesso cui sarebbero andati in-

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contro gli sforzi compiuti per migliorare il benessere della classe lavoratrice attraverso una distribuzione del reddito più ugualitaria. Come abbiamo già visto, Mill riteneva che l’unico contributo originale da lui dato alla teoria econo­ mica fosse la distinzione tra le leggi che governavano la produzione, immodificabili, e le leggi che governavano la distribuzione del reddito, determinate dal contesto socia­ le, culturale e istituzionale, e la ragione che lo spinse a trac­ ciare questa distinzione era di fatto la possibilità di tempe­ rare con il suo approccio umanitario le conclusioni rigida­ mente conservatrici dei ricardiani. Benché accettasse la dottrina del fondo-salari, Mill giunse dunque a sostenere la formazione di sindacati dei lavoratori, seguendo il ragionamento di Adam Smith che aveva osservato come il singolo lavoratore non sindacaliz­ zato si sarebbe trovato in una situazione di svantaggio con­ correnziale rispetto al proprio datore di lavoro quando avessero stabilito contrattualmente la remunerazione. In base a questo ragionamento i sindacati e gli scioperi appar­ vero a Mill strumenti idonei affinché i lavoratori riuscisse­ ro a controbilanciare il potere delle imprese. Restano da capire allora le ragioni della sua adesione alla dottrina del fondo-salari, e una possibile spiegazione sta nella sua seria preoccupazione per le conseguenze di una crescita incon­ trollata della popolazione. Resta il fatto che nel periodo compreso tra la pubblicazione della sesta e della settima edizione dei Principi di economia politica, Mill recensì un libro di William Thornton in cui non solo si criticava l’ap­ plicazione dell’analisi della domanda e dell’offerta al mer­ cato del lavoro ma si respingeva anche la dottrina del fon­ do-salari: la cosa importante è che nella sua recensione Mill accolse praticamente tutte le posizioni di Thornton, e con­ cluse che l’idea che i sindacati non potessero innalzare i salari si fondava su basi non valide. In cosa consiste di preciso la ritrattazione effettuata da Mill? Secondo la dottrina del fondo-salari la domanda di lavoro era fissata in modo assoluto dalla dimensione del fondo-salari; Mill ora arriva a sostenere che laddove sia fisso l’ammontare massimo dei fondi disponibili al paga­ mento dei salari, una data forza lavoro e un dato livello di salario potrebbero anche non esaurire quest’ammontare

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fisso. Seguendo questo ragionamento il saggio di salario non risulta determinato in modo univoco, anzi, sarebbero possibili diversi livelli salariali, essendoci così lo spazio perché i sindacati possano alzare il saggio corrente attra­ verso il processo della contrattazione. Nonostante che nel 1869 Mill, recensendo il libro di Thornton, avesse respinto la dottrina del fondo-salari, quando poi nel 1871 pubblicò la settima edizione dei Prin­ cipi di economia politica non vi apportò alcuna modifica su questo punto, convinto che i nuovi sviluppi non fossero «ancora maturi per essere incorporati in un trattato gene­ rale di economia politica»’"; il che lascia alquanto perples­ si, poiché già nel 1862 Mill era giunto alla conclusione, nella quinta edizione dei Principi di economia politica, per cui il saggio di salario dipendeva dal potere contrattuale del datore di lavoro e del lavoratore, e che un mezzo im­ portante a disposizione dei lavoratori per aumentare il loro potere era proprio quello della sindacalizzazione’1. Si trat­ ta di un’incoerenza che tutto sommato è solo una delle tante manifestazioni di come Mill tentasse di rimanere al­ l’interno del modello generale dell’economia classica, ap­ presa fin da giovane dall’insegnamento di suo padre, cer­ cando nel frattempo di seguire e applicare le proprie incli­ nazioni umanitarie, che lo portavano invece a invocare un progetto di riforma sociale centrato attorno a una distri­ buzione del reddito più ugualitaria. Riepilogo L’esame di come si sviluppò la teoria economica orto­ dossa nei circa cinquant’anni che seguirono la pubblicazio­ ne (avvenuta nel 1817) dei Principi di economia politica di Ricardo rivela l’esistenza di parecchie contraddizioni e l’in­ crociarsi di parecchie correnti di pensiero; vanno registra­ ti, in particolare, i vigorosi attacchi portati all’analisi ricardiana, avutisi in seguito al professionalizzarsi della scienza 30 Mill, Principi di economia politica, cit., p. 84. 31 Ibidem, pp. 1217 ss.

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I L P E N S IE R O E C O N O M IC O C L A S S IC O

economica, alla crescita e alla diffusione della letteratura socialista e umanitaria, e al conflitto sempre più manifesto tra previsioni della teoria e fatti della realtà. Gli economi­ sti acquisirono una crescente consapevolezza dell’autono­ mia della loro disciplina, iniziando a porsi con insistenza la questione dello scopo e del metodo della scienza econo­ mica, così come quella della distinzione tra economia nor­ mativa ed economia descrittiva. Via via che il sistema eco­ nomico si sviluppava e una quantità sempre maggiore di dati statistici si rendeva disponibile, si fece manifesta la di­ vergenza tra teoria e fatti empirici, e si sollevarono come conseguenza degli interrogativi di fondo sulla validità di alcuni dei principali capisaldi della costruzione ricardiana, quali la dottrina malthusiana della popolazione, il princi­ pio dei rendimenti storicamente decrescenti, e la predizio­ ne della caduta tendenziale del saggio di profitto nel corso del tempo. La dottrina malthusiana della popolazione occupava un posto cruciale all’interno del sistema ricardiano, in quanto consentiva lo sviluppo di una teoria residuale della distri­ buzione del reddito: con il suo graduale abbandono ci si dovette perciò rivolgere alla dottrina del fondo-salari per trovare una spiegazione teorica dei salari che funzionasse tanto nel breve quanto nel lungo periodo. Il modello eco­ nomico ricardiano era giunto alla deduzione del principio per cui i rendimenti sarebbero diminuiti con l’andare del tempo poiché aveva ipotizzato che il progresso tecnologi­ co nel settore agricolo non sarebbe stato in grado di con­ trobilanciare i rendimenti decrescenti di breve periodo. Circa i rendimenti di lungo periodo, tuttavia, tale modello assumeva un atteggiamento di natura empirica piuttosto che deduttiva, ed è su questo punto che si dovette registra­ re la contraddizione con i dati forniti dalla realtà storica. Anche per quanto riguarda la terza delle questioni sopra ricordate, vale a dire la deduzione teorica della caduta ten­ denziale del saggio di profitto, benché non fossero dispo­ nibili né dati né tecniche statistiche idonee a misurare il saggio di profitto, fu il fatto stesso di avere sperimentato il fenomeno dei rendimenti crescenti in agricoltura a solle­ vare seri dubbi sulla validità della conclusione raggiunta dal punto di vista del funzionamento del modello. A di­

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spetto di tutti questi problemi incontrati a livello teorico, uno dei caratteri più interessanti e sorprendenti del pe­ riodo post-ricardiano è rappresentato dalla tenacia dimo­ strata dagli economisti nell’attenersi alle predizioni forni­ te dal modello ricardiano. Il crescere della consapevolez­ za circa le difficoltà di tipo logico implicite in una rigo­ rosa teoria del valore-lavoro, insieme alla reazione alle cri­ tiche avanzate dai socialisti ricardiani, condusse all’elabo­ razione di una teoria dell’interesse basata sull’astinenza e a una teoria del valore basata sul costo di produzione, dove erano considerati sia i costi del lavoro che quelli del capitale. Fu in questo ambiente intellettuale che acquisì impor­ tanza la figura di John Stuart Mill, un pensatore formatosi precocemente alla tradizione ricardiana, ma contraddistin­ to da una preoccupazione intellettuale profondamente ra­ dicata per le ingiustizie che attraversavano il sistema eco­ nomico capitalistico. Il suo sforzo principale fu quello di combinare l’insensibilità del liberismo classico con l’uma­ nitarismo delle riforme sociali, in vista della promozione di una società e di un’economia meno preoccupate della pra­ tica degli affari e più attente invece al miglioramento cul­ turale e all’autorealizzazione degli individui. L’ampiezza delle sue vedute fu tale che Mill, pur applicandosi specifi­ camente all’economia politica, produsse contributi rilevanti anche dal punto di vista della scienza politica, della filoso­ fia e della letteratura. Tuttavia l’originalità dei suoi apporti alla scienza economica fu in qualche modo messa in om­ bra dall’aver tentato un’operazione di arricchimento intel­ ligente ed eclettico del modello ricardiano, rispetto al qua­ le, pur sottolineando il carattere deduttivo della scienza economica, suggerì la necessità che la rilevanza dell’im­ pianto teorico fosse costantemente verificata attraverso il confronto con i fatti della realtà: una posizione metodolo­ gica ragionevole che però, come molti dei suoi contempo­ ranei, egli stesso non rispettò pienamente nella pratica. L’attenzione dedicata ai progetti di riforma sociale lo portò a sottolineare con insistenza la differenza tra le leggi immutabili che governavano la produzione e le leggi, de­ terminate istituzionalmente e quindi modificabili, che go­ vernavano la distribuzione personale del reddito. In que-

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sta ricerca di coerenza tra risultati della teoria e applica­ zioni di politica economica egli si colloca più nella tradi­ zione di Smith che in quella di Ricardo. D ’altro canto il suo eclettismo impedisce di classificare con sicurezza la sua figura di pensatore dal punto di vista ideologico, e i suoi stessi scritti evidenziano forti coloriture di liberismo clas­ sico e di laissez faire frammiste a giustificazioni dell’inter­ vento dello stato in economia. Anche rispetto al tema del­ l’armonia nel sistema economico si è costretti a registrare da un lato il suo riconoscimento del conflitto di interessi tra i proprietari terrieri e gli altri gruppi sociali, e dall’al­ tro il rifiuto della condanna socialista contro la proprietà privata e la concorrenza, per le quali egli suggerì piuttosto un aggiustamento di tipo istituzionale che ne conservasse i vantaggi rimuovendone però le vistose conseguenze nega­ tive. E anche questo uno dei tanti sintomi del suo ottimi­ smo di fondo, in base al quale giunse a prefigurare una nuova concezione dello stato stazionario, ripulito dalle tinte fosche con le quali l’aveva dipinto Ricardo. La sua importanza come pensatore è testimoniata dai contributi con i quali ha arricchito la scienza economica, contributi rilevanti e anche durevoli nel tempo. Benché egli non fosse disposto ad ammetterlo, di fatto respinse la teo­ ria ricardiana del valore-lavoro elaborando in sua vece una teoria del valore basata sul costo di produzione di lungo periodo, al cui interno erano considerati sia i costi del la­ voro che quelli del capitale. Egli inoltre ampliò la portata della teoria ricardiana del commercio internazionale al fine di spiegare l’origine delle ragioni di scambio all’interno di un modello operante sul principio del vantaggio compara­ to, giungendo assai vicino allo sviluppo esplicito del con­ cetto di elasticità della domanda rispetto al prezzo. L’arti­ colazione degli argomenti da lui portati a difesa della leg­ ge di Say posero quest’ultima definitivamente in salvo ri­ spetto alla pesantezza delle critiche dell’eterodossia; la sua teoria monetaria consentì l’introduzione di una teoria psi­ cologica del ciclo economico; e, infine, verso il termine della sua carriera, negando il suo sostegno alla dottrina del fondo-salari contribuì a togliere uno strumento decisivo dalle mani di coloro che ritenevano che le masse dei lavo­ ratori non sarebbero riuscite a promuovere l’innalzamento

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del loro salario per via di un processo politico o di con­ trattazione collettiva. L’economia milliana manterrà la sua rilevanza fino al termine del diciannovesimo secolo, e costituirà il fulcro di quel pensiero economico ortodosso che si sarebbe oppo­ sto, e avrebbe per lo più ignorato, i mugugni di quel bril­ lante e insoddisfatto pensatore dalla barba folta che rispon­ de al nome di Karl Marx.

Capitolo sesto

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La volpe conosce molte cose, ma il riccio ne conosce una importante. Isaiah Berlin Karl Marx (1818-1883) non è stato solo un economista: fu infatti anche filosofo, sociologo, profeta e rivoluziona­ rio. In un certo senso costituì anche la prova vivente del­ l’importanza che hanno il pensiero e le idee economiche, lui che con i suoi scritti ha ispirato generazioni di pensato­ ri, e nel cui nome sono state trasformate intere società. Negli anni novanta molte di quelle società che avevano adottato l’ideologia marxista l’hanno poi abbandonata per sperimentare una transizione verso una configurazione di tipo «capitalistico», innescando processi di cambiamento che probabilmente si riveleranno complessi e oltremodo confusi. Studiare gli scritti e le idee di Marx negli anni no­ vanta è quindi ancora più che mai importante ed attuale.1 1. Uno sguardo d’insieme L’obiettivo perseguito da Marx Marx fu soprattutto un filosofo, che avvertì come il suo compito fosse non solo di interpretare e analizzare la so­ cietà, ma anche di promuoverne i cambiamenti che egli riteneva desiderabili. In questo suo atteggiamento di acce­ so sostenitore del cambiamento non fu dunque molto di­ verso da Smith, Ricardo e John Stuart Mill: ciò che lo pone in contrasto con gli economisti classici è il fatto di invoca­ re il cambiamento sotto forma di una rivoluzione che avrebbe dovuto toccare tutti gli aspetti fondamentali della vita collettiva, piuttosto che di cambiamenti marginali nel­ la struttura sociale ed economica. Dato che il suo nome viene comunemente associato ai sistemi economici sociali-

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sti e comunisti, di solito si assume che il tema principale delle sue opere sia costituito dall’analisi del funzionamen­ to di questi sistemi, ma in realtà non vi è nulla che sia più lontano dal vero di questa convinzione. Marx si dedicò infatti allo studio di ciò che egli chiamò capitalismo, ed intitolò la sua opera principale, appunto, II Capitale; e in tutta la sua vasta produzione letteraria (come anche in quella del suo collaboratore Friedrich Engels, 1820-1895) vi sono pochissimi riferimenti a come si debba organizzare un’economia socialista o comunista, al di là di un breve elenco delle caratteristiche del comuniSmo che apparve nel Manifesto del partito comunista (1848). La teoria economica di Marx è semplicemente il risul­ tato dell’applicazione della sua concezione della storia al­ l’economia capitalista, e rispecchia il suo sforzo di svelare le leggi della dinamica del capitalismo. Laddove gli altri economisti classici prima di lui si erano concentrati sul­ l’equilibrio statico del sistema economico, Marx si concen­ trò piuttosto sul processo dinamico del cambiamento. Un importante economista marxista americano, Paul M. Sweezy, ha suggerito, sotto forma di paradosso, che l’economia marxista sarebbe la scienza economica del capitalismo, mentre la teoria economica capitalistica costituirebbe la scienza economica del socialismo: detto altrimenti, l’eco­ nomia marxista permetterebbe di comprendere le forze sottostanti il funzionamento del sistema di mercato, men­ tre l’analisi classica tradizionale sarebbe utile per organiz­ zare e far funzionare un sistema economico socialista. Questa opinione è stata riproposta, verso il finire della sua carriera, anche da Oskar Lange, un marxista che insegnò negli Stati Uniti e che in seguito ritornò nella sua patria d’origine, la Polonia, per lavorare alla pianificazione eco­ nomica. Egli affermò che l’analisi economica di imposta­ zione marxista e quella di impostazione ortodossa dovreb­ bero essere considerate come complementari piuttosto che esclusive; in tal modo, e questa era la sua conclusione, lad­ dove attraverso la teoria ortodossa neoclassica si riesce a comprendere il funzionamento quotidiano del sistema di mercato, la comprensione dello sviluppo evolutivo del ca­ pitalismo è possibile soltanto ricomprendendolo all’inter­ no del modello marxista.

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-a Q uadro 6.1.

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i. ± n. ntzxr

Cos’è il comuniSmo secondo il «Manifesto del partito comu­ nista» ? D al m om ento che la nozione di com uniSm o è andata cam ­ b ian d o nel corso del tem po, è difficile determ inare cosa esso sia di preciso: un m od o per decidere della sua natura è quello di guardare alle sue radici. K arl M arx e Friedrich Engels stabiliro­ no nel M anifesto del partito comunista ( 1848) i principi fondam en­ tali del comuniSmo m oderno, e dissero che con esso si intende: 1. L’abolizione della proprietà fondiaria e l'utilizzo delle ren­ dite sulla terra per finalità pubbliche. 2. U na tassazione sui redditi fortem ente progressiva.

3. L’abolizione del diritto di successione. 4. L a confisca delle proprietà di tutti gli em igranti e i ribelli.

5. L’accentramento del credito nelle mani dello stato che lo dovrebbe gestire attraverso una banca nazionale con capitale sta­ tale in regime di monopolio esclusivo. 6. L’accentram ento di tutti i mezzi di com unicazione e di tra­ sporto nelle m ani dello stato. 7. L’aum ento delle aziende e degli strum enti di produzione p o ssed u ti dallo stato, la m essa a coltura delle terre inutilizzate e il m iglioram en to dei terreni, secon d o un pian o collettivo. 8. L ’obbligo al lavoro uguale per tutti e la costituzione, sp e ­ cialm ente nell’agricoltura, di eserciti industriali.

9. L’integrazione tra agricoltura e manifattura, e la progres­ siva abolizione della differenziazione tra città e campagna me­ diante una distribuzione più omogenea della popolazione all’in­ terno della nazione. 10. L’istruzione gratuita per tutti i bambini nelle scuole pub­ bliche, l’abolizione del lavoro minorile nelle fabbriche e l’integra­ zione tra istruzione e produzione industriale.

Le fonti intellettuali delle idee marxiane

Per scoprire le origini del pensiero di Marx e le fonti intellettuali sulle quali si formò, è opportuno fare riferi­ mento alla sua biografia. Nato in una famiglia ebrea suc­ cessivamente passata al cristianesimo, il giovane Marx in­ traprese gli studi di giurisprudenza, ma ben presto iniziò

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ad interessarsi di filosofia: in particolare egli subì il fascino delle concezioni filosofiche di Hegel, anch’egli tedesco, la cui costruzione intellettuale, come vedremo, sarebbe diven­ tata un importante punto di riferimento all’interno del si­ stema marxiano. Dopo aver conseguito il dottorato in filo­ sofia, Marx non riuscì a trovare alcun impiego accademico a causa delle sue posizioni radicali e dovette dedicarsi al giornalismo. A causa delle sue opinioni politiche, certa­ mente radicali per la Germania di quel tempo ma non ancora socialiste, egli venne espulso dal paese. Fu così che si trasferì a Parigi e poi a Bruxelles, dove iniziò a studiare il pensiero socialista francese e l’economia politica classi­ ca, dimostrando di possedere non solo una spiccata attitu­ dine per la lettura e lo studio, ma anche eccezionali doti intellettuali. Dopo l’espulsione da Parigi e da Bruxelles si spostò finalmente a Londra, dove rimase gli ultimi trentatré anni della sua vita, e dove visse leggendo e scrivendo in una delle più grandi biblioteche del mondo, quella del British Museum. La concezione marxiana della storia Il pensiero marxiano presenta aspetti che sono propri della filosofia hegeliana, del pensiero utopista francese e dell’economia politica classica, in modo particolare del­ l’economia politica ricardiana. L’analisi del capitalismo compiuta da Marx non è altro che l’applicazione, con rife­ rimento al sistema economico della propria epoca, della concezione della storia che egli derivò da G.W.F. Hegel. Quest’ultimo aveva sostenuto che la storia non procede, come molti credevano, in modo ciclico attraverso una se­ rie di situazioni che si ripetono, ma si evolve in modo linea­ re e progressivo, determinato da una triade di forze che egli denominò tesi, antitesi e sintesi. Dal momento che queste tre forze sono di natura ideologica, è nello studio delle idee (e non in quello degli avvenimenti del passato) che si possono scoprire le leggi della storia. In base a tale concezione in ogni istante temporale esiste un’idea domi­ nante, la tesi, che viene però presto contraddetta dal suo opposto, l’antitesi: da questo conflitto di idee scaturisce

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una sintesi, che rappresenta il raggiungimento di una for­ ma di verità superiore ed è allo stesso tempo la tesi del periodo storico successivo. Presto essa si ritroverà di fron­ te al suo opposto, similmente a quel che accadde prima, e verrà trasformata in una nuova sintesi, e così via secondo un processo senza fine: in questo modo la storia troverà la sua evoluzione in una catena ininterrotta di idee, ciascuna delle quali rappresenta un’approssimazione sempre più vicina alla verità, e tutte le cose diverranno gradualmente sempre più perfette per mezzo del cambiamento indotto dal conflitto. Il nome dato da Hegel a questo processo infinito di evoluzione storica, così come al metodo utiliz­ zato per investigarlo, era quello di «dialettica». Anche Marx intuì l’esistenza di un simile processo nel­ l’ambito della storia e più in generale della realtà, e fece quindi ricorso a un metodo di indagine dialettico simile a quello adottato dal suo maestro; tuttavia il suo apparato filosofico si differenziava da quello di Hegel, idealistico, per le sue connotazioni materialistiche. Per Hegel il mon­ do dove si sarebbe verificato il cambiamento era quello delle idee, mentre per Marx era quello della materia, con­ tenente in sé i semi di un conflitto perenne, ed è per que­ sta ragione che la filosofia marxiana viene spesso indicata con il nome di materialismo dialettico. Le grandi questioni che catturarono l’attenzione di Marx furono le seguenti: è possibile sviluppare una teoria che spieghi i modi diversi con i quali le società si sono organizzate nel corso del tempo, ed è possibile che la stes­ sa teoria venga quindi impiegata per prevedere la possibi­ le organizzazione futura della società? E inoltre, le struttu­ re sociali che noi chiamiamo feudalesimo e capitalismo sono parte di uno sviluppo evolutivo suscettibile di essere analizzato, o sono semplicemente il risultato di accidenti storici di natura casuale? Marx accusò gli «economisti borghesi» di scrivere come se vi fosse stato un passato ma non esistesse un futuro, cioè come se il capitalismo, un sistema economico scaturito dall’evoluzione dei sistemi economici che l’avevano prece­ duto, fosse in qualche modo una struttura sociale ideale che sarebbe esistita per sempre. Questo atteggiamento cri­ tico spiega come mai il tema del cambiamento occupi un

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posto così centrale nel sistema di pensiero marxiano: ben­ ché non possiamo sapere esattamente cosa ci porterà il futuro, sostiene Marx, sappiamo però che sarà differente dal passato e dal presente. Nel concentrarsi sulle forze materiali o economiche, viste quali principali (sia pur non esclusive) determinanti del cambiamento storico, Marx apportò una vera e propria rivoluzione nelle categorie delle scienze sociali, e la sua concezione si è successivamente dimostrata un’ipotesi di lavoro, o una prima approssimazione, assai feconda per parecchie importanti e utili ricerche nell’ambito delle scienze sociali medesime. Isaiah Berlin, un critico e filoso­ fo inglese, ha fatto uso della parabola del riccio e della volpe per illustrare l’atteggiamento tenuto da Marx nel concentrarsi sui fattori materiali al fine di spiegare il cam­ biamento storico: la volpe infatti conosce molte cose, ma il riccio ne conosce una importante. Dal punto di vista intel­ lettuale il Marx studioso era chiaramente una volpe, ma nell’elaborare la sua concezione della storia egli assunse piuttosto il ruolo di un riccio, trascurando in questo modo molti fattori peraltro rilevanti per concentrarsi su quelli di natura economica visti come gli elementi più importanti da indagare per cogliere il mutamento nella struttura della società. La concezione marxiana della storia è illustrata in modo esplicito soprattutto nel Manifesto del partito comu­ nista e nella prefazione a Per la critica dell’economia politi­ ca, dove si legge: il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito, mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corri­ spondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il proces­ so sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza de­ gli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto

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del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società en­ trano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espres­ sione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produt­ tive, si convertono in loro catene. E allora si apre un’epoca di ri­ voluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastrut­ tura1.

Nell’opinione di Marx qualsiasi società (all’infuori di quelle che non sono strutturate per classi) può essere con­ siderata dal punto di vista analitico come composta da due aspetti: le forze della produzione e i rapporti di produzio­ ne. Le forze della produzione costituiscono la tecnologia impiegata dalla società per produrre i beni materiali: esse quindi si manifestano nell'abilità dei lavoratori, nella cono­ scenza scientifica, negli strumenti e nei beni capitali, e hanno natura intrinsecamente dinamica. I rapporti di pro­ duzione sono invece rappresentabili come le «regole del gioco», e includono le relazioni tra una persona e un’altra, ossia i rapporti sociali, e le relazioni tra le persone e le cose, ossia i rapporti di proprietà. Affinché in una società si possa produrre occorre prima aver risolto il problema del­ l’ordine economico: i rapporti di produzione che si sono determinati attraverso l’evoluzione storica descrivono esat­ tamente il modello istituzionale all’interno del quale diven­ ta possibile prendere decisioni di tipo economico. A diffe­ renza delle forze della produzione, che sono mutevoli e dinamiche, i rapporti di produzione sono di natura statica e sono vincolati al proprio passato. Questa caratteristica della staticità dei rapporti di produzione è rafforzata da quella che Marx indica come la «sovrastruttura sociale», che ha appunto lo scopo di conservare i rapporti di pro­ duzione che si sono venuti determinando storicamente: si tratta dell’arte, della letteratura, della musica, della filoso­ fia, della giurisprudenza, della religione e di tutte le altre

1 Karl Marx, Zur Kritìk der Politischen Òkonomie-, trad. it. Per la critica dell'economia politica, a cura di E.C. Mezzomonti, Roma, Editori Riuniti, 1971\ pp. 4-5.

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forme di vita culturale accettate dalla società, le quali sono organizzate in modo tale da mantenere intatti i rapporti di produzione esistenti, ossia lo status quo. All’interno della dialettica marxiana i rapporti di pro­ duzione, con la loro staticità, hanno il ruolo della tesi, mentre le forze della produzione, con la loro mutevolezza e dinamicità, hanno il ruolo dell’antitesi. Agli inizi di ogni periodo storico vi è armonia tra le forze e i rapporti di produzione, ma nel corso del tempo i cambiamenti che interessano le prime introducono una serie di contraddi­ zioni nel sistema, poiché i rapporti di produzione esistenti (le istituzioni) non sono più appropriati alle forze della produzione (la tecnologia). Tali contraddizioni si manife­ steranno, andava dicendo Marx, nella forma di una lotta di classe, e alla fine diverranno così intense da determinare un periodo di rivoluzione sociale, al termine del quale sca­ turirà un nuovo genere di rapporti di produzione, più ade­ guati alle mutate forze produttive. Il nuovo insieme di rap­ porti di produzione rappresenterà la sintesi generata dal conflitto tra la vecchia tesi (i rapporti di produzione) e l’an­ titesi (le forze della produzione), e avrà il ruolo della nuova tesi all’interno del periodo storico successivo: a questo pun­ to si sarà di nuovo raggiunta l’armonia, anche se non si dovrà attendere molto perché la dinamica delle forze di produzione faccia nascere altre contraddizioni. Qualche precisazione sulla dialettica marxiana Un esame più attento della nozione marxiana di sovra­ struttura sociale consentirà di chiarire la concezione della storia, e il conseguente atteggiamento verso la società, pro­ pri di questo autore. Marx era interessato all’autorealizza­ zione dei singoli individui nella società, come emerge in modo evidente nei suoi Manoscritti economico-filosofici del 1844, che andarono persi per circa ottanta anni e non ven­ nero pubblicati che nel 1932. In questi primi manoscritti Marx esplicita le proprie obiezioni di taglio filosofico al capitalismo, e la convinzione che vivendo in un’economia capitalista gli esseri umani sarebbero rimasti intimamente alienati da se stessi. A suo parere, infatti, la proprietà pri­

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vata e il sistema di mercato conducono a svalutare e priva­ re di senso tutto ciò con cui entrano in contatto, e quindi anche gli individui, la cui sorte è l’alienazione della pro­ pria identità. Secondo Marx è quindi la stessa esistenza dei mercati, e in special modo del mercato del lavoro, ad osta­ colare il raggiungimento della felicità individuale. Dal momento che le nozioni impiegate da Marx sono esse stesse estranee alla maggior parte del pensiero occi­ dentale, è opportuno fornire qualche esempio che aiuti a gettare un ponte tra le idee marxiane e l’attuale costume sociale. In base a quest’ultimo, l’opinione generale oggi accettata è che vendere il proprio corpo per sesso è un atto immorale, perché implica prostituirsi e alienarsi dal pro­ prio corpo. Lo stesso criterio si applica ad alcuni compor­ tamenti possibili tra amici: in caso di un prestito ad amici o parenti non si richiedono interessi, e similmente non ci si aspetta o non si richiedono pagamenti per azioni com­ piute a titolo di amicizia. Come mai la società moderna ha convenzioni sociali di questo tipo? Perché in casi come questi si capisce che il meccanismo del mercato sarebbe disumanizzante e richie­ derebbe all’individuo di estraniarsi dal proprio io: il mer­ cato ostacolerebbe amore ed amicizia. L’analisi di Marx allarga semplicemente questa accezione di moralità fino ad estendere il concetto di alienazione a tutte le transazioni di mercato: vendere il proprio tempo a qualcun altro signifi­ ca alienarsi dalla realizzazione della propria identità. In questo modo Marx sostiene che l’economia politica classica si è limitata ad accettare i mercati come un dato di fatto, senza considerare la natura della proprietà privata e gli effetti indotti dall’esistenza dei mercati sulle persone. A suo parere è necessario studiare la connessione tra «la pro­ prietà privata, l’avidità di denaro, la separazione tra lavo­ ro, capitale e proprietà fondiaria, tra scambio e concorren­ za, tra valorizzazione e svalorizzazione dell’uomo, tra mo­ nopolio e concorrenza, ecc.; la connessione di tutto que­ sto processo di estraniazione col sistema monetario»2. La 2 Karl Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844', trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Torino, Einaudi. 1973, p. 70.

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critica di fondo che Marx muove all’economia politica clas­ sica è dunque quella di non aver considerato il modo con cui le forze della produzione avrebbero eroso i rapporti di produzione. Infatti, ammonisce Marx, quel che sarebbe accaduto alla fin fine, una volta che il mercato avesse generato le forze della produzione richieste per soddisfare i bisogni materiali delle persone, è che la stessa alienazione intrinse­ ca ai diritti di proprietà e al sistema dei mercati avrebbe spinto gli individui a liberarsi dal mercato per creare una società dove non fosse esistita la proprietà privata e quin­ di nemmeno l’alienazione che l’accompagna. Con tutto questo fondamento moralistico alla base del suo sistema di pensiero, sarebbe ragionevole aspettarsi che Marx avesse un’opinione positiva della religione, e invece è vero esattamente l’opposto: a suo parere la religione raf­ forzava l’alienazione - in quanto faceva parte della sovra­ struttura sociale - ed era anzi l’«oppio dei popoli». Invece di agevolare il cambiamento lo ostacolava, proprio come gli altri aspetti culturali della società quali l’arte, la letteratu­ ra, la musica e la filosofia. Tutte queste manifestazioni del pensiero, infatti, avevano, secondo Marx, la funzione di razionalizzare e sostenere la struttura istituzionale esisten­ te, distogliendo l’attenzione dai conflitti, sempre più inten­ si, che indicavano invece la progressiva inadeguatezza del­ la struttura istituzionale stessa rispetto alla tecnologia di­ sponibile. Questa impostazione spiega l’atteggiamento an­ tireligioso di alcuni marxisti, così come la loro convinzio­ ne secondo cui le uniche forme accettabili di letteratura, arte o musica sono quelle che riconoscono e svelano gli aspetti alienanti della proprietà privata e del sistema di mercato. Per mezzo della sua teoria della storia, Marx si sforza di spiegare lo sviluppo della società verificatosi nel passag­ gio dal feudalesimo al capitalismo, e gli sviluppi che si sa­ rebbero avuti successivamente, secondo le sue previsioni, dal capitalismo al socialismo e infine da quest’ultimo al comuniSmo. In base a tale ricostruzione, durante il perio­ do feudale più antico i rapporti di produzione furono quel­ li appropriati alle forze della produzione allora esistenti, ben sostenuti e rinsaldati dalla sovrastruttura sociale.

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Quando però i cambiamenti nelle forze della produzione provocarono la distruzione di questa armonia, e la struttu­ ra istituzionale del feudalesimo si rivelò incompatibile con la tecnologia agricola che si andava sviluppando, con l’au­ mento progressivo nei commerci e con l’inizio della mani­ fattura, allora i conflitti con i rapporti di produzione esplo­ sero attraverso la lotta di classe e diedero vita a un nuovo insieme di relazioni di produzione, quello che noi conoscia­ mo come capitalismo. Nel Manifesto del partito comunista Marx descrive l’ar­ monia che regnava tra le forze e i rapporti di produzione agli inizi del capitalismo, e l’eccezionale incremento nel livello della produzione e dell’attività economica che tale armonia permise di ottenere. Ma anche il capitalismo, pro­ prio come era accaduto nel caso del feudalesimo, è visto come recante in sé i germi della propria distruzione, che sarebbe avvenuta via via che si fossero sviluppati gli inevi­ tabili conflitti indotti dal cambiamento nelle forze della produzione. Con la caduta del capitalismo sarebbe emerso un nuovo tipo di relazioni di produzione che Marx indivi­ duò sotto il nome di socialismo, e questo avrebbe in segui­ to dato vita, come ultimo stadio, al comuniSmo. Prima di dedicarci all’esame articolato del capitalismo come lo ve­ deva Marx, però, crediamo che sia opportuno dedicare qualche ulteriore attenzione ad altre questioni legate alla concezione marxiana della storia. Socialismo e comuniSmo Il valore semantico dei termini socialismo e comuniSmo non è, nel sistema di pensiero marxiano, così preciso come lo è ai giorni nostri, ma fa riferimento piuttosto a degli stadi attraverso i quali sarebbe passato il processo di evo­ luzione della storia. Il socialismo, nell’accezione di Marx, è dunque quel particolare insieme di rapporti di produzio­ ne che avrebbe seguito il capitalismo e che ancora ne avrebbe contenuto delle tracce. Se una delle principali caratteristiche del capitalismo è quella per cui i mezzi di produzione, ossia il capitale, non sono posseduti o control­ lati dal proletariato, il cambiamento fondamentale che sa­

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rebbe intervenuto nella transizione dal capitalismo al so­ cialismo sarebbe stata l’espropriazione degli espropriatori, ossia il possesso dei mezzi di produzione da parte del pro­ letariato. Accanto a questa sostanziale trasformazione, il socialismo avrebbe tuttavia conservato dei residui del ca­ pitalismo, nel senso che l’attività economica sarebbe co­ munque stata organizzata, sostanzialmente, in base a un sistema di incentivi: per indurre le persone a lavorare si sarebbe comunque dovuto in qualche modo compensarle. 11 comuniSmo, secondo l’accezione di Marx, sarebbe scaturito dal superamento dei sistemi economici di tipo socialista, e avrebbe comportato, rispetto a questi, alcune differenziazioni notevoli. Le persone sarebbero state infat­ ti motivate al lavoro in modo autonomo, senza cioè biso­ gno di incentivi di tipo materiale o monetario, e inoltre sarebbero scomparse le classi sociali esistenti sia nel capi­ talismo sia, in misura minore, nel socialismo: il comuniSmo avrebbe portato con sé una società senza classi dove perfi­ no lo stato si sarebbe ridotto sino a scomparire. Mentre nel socialismo ciascuno avrebbe contribuito al processo eco­ nomico secondo la propria abilità ed avrebbe ricevuto un reddito commisurato al proprio contributo, nel comuniSmo ciascuno avrebbe ancora contribuito al processo produtti­ vo secondo la propria abilità, ma avrebbe consumato se­ condo i propri bisogni. Come si vede la costruzione teorica marxiana conside­ ra gli esseri umani come perfettibili e la bontà umana come soppressa e deformata dalla struttura sociale esistente: un approccio che segue la tradizione intellettuale dei filosofi anarchici risalente a William Godwin. Si può analizzare la teoria economica marxiana sotto diversi aspetti, iniziando da quello filosofico. A questo ri­ guardo si può veramente dire che sia una lettura della na­ tura umana pienamente corretta quella che la vede intima­ mente alienata a causa del mercato? Ed è proprio vero che la società comunista avrebbe rivelato la fondamentale bon­ tà degli uomini? E con riferimento alla fattibilità della pro­ posta, se anche si ammettesse che il mercato è in sé alie­ nante, si potrebbe poi dire che esiste un’alternativa concre­ tamente percorribile? Per qualcuno, infatti, l’idea di una società basata su un comuniSmo puro ed ideale sarebbe in

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sé anche allettante, ma di dubbia praticabilità. La questio­ ne che veramente discrimina tra tutte queste posizioni con­ cerne il giudizio su quali siano le forze più importanti nel determinare il comportamento umano: e qualunque sia il giudizio che se ne può dare, resta vero che una delle carat­ teristiche attraenti del marxismo è la concezione per cui gli uomini sono fondamentalmente buoni, mentre il loro com­ portamento indesiderabile è imputabile all’ambiente istitu­ zionale in cui vivono. Una critica della dialettica marxiana suscettibile di es­ sere collegata a questi temi è quella che sostiene che in verità essa non è propriamente un processo dialettico, ma piuttosto un processo di tipo teleologico , dal momento che con l’avvento del comuniSmo qualsiasi conflitto tra forze della produzione e rapporti di produzione cesserà: la teo­ ria marxiana della storia postula che esista un fine verso il quale ci si dirige, e che tale fine coincida con il comuni­ Smo. Ma nulla si dice sul perché le contraddizioni dovreb­ bero cessare con l’instaurarsi del comuniSmo: non sarebbe stato più ragionevole arrivare alla conclusione opposta, ossia all’idea che fintantoché le forze della produzione re­ steranno di natura dinamica, allora esisteranno sempre delle contraddizioni all’interno di qualsiasi tipo di società? Alcuni marxisti moderni, come Richard Wolff e Stephen Resnick, hanno pensato di reinterpretare la dialettica marxiana nei termini di una dialettica sovradeterminata, proprio per evitare questo tipo di critica: in questo modo, aH’interno di una teoria sovradeterminata si dà la possibi­ lità di una pluralità di direzioni e di sviluppi. L’importanza di questi temi può essere colta pensando alla loro attualità nell’interpretare le recenti trasformazio­ ni che molti paesi ex socialisti stanno attraversando. L’Unione Sovietica non esiste più, e le nuove repubbliche sorte da questo disfacimento si stanno sforzando di istitui­ re al loro interno dei sistemi economici di libero mercato; analogamente, anche nei paesi dell’Europa orientale stan­ no avvenendo trasformazioni radicali, così che in tutto il mondo socialista, mentre il socialismo ed il comuniSmo sono messi seriamente in discussione, si stanno sperimen­ tando nuove forme di organizzazione sociale. Perfino in Cina, che rimane l’unico grande paese controllato da un

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regime comunista, esiste un mercato azionario e si sta dif­ fondendo il ricorso alla proprietà privata e al sistema di mercato. Tali sviluppi sconfessano, di fatto, la tesi secondo la quale la società è su una strada che conduce direttamente verso il comuniSmo, anzi, per molti autori essi sono la pro­ va definitiva che condanna la teoria economica marxista. Vi sono tuttavia altre opinioni che non accettano questa lettu­ ra dei fatti, sostenendo non essere stato vero socialismo quello sperimentato in questi paesi, anzi, essendo i comuni­ sti divenuti semplicemente degli oppressori e quindi, tutto sommato giustamente, spodestati. Secondo questa posizio­ ne il mercato è pur sempre fonte di alienazione e di contrad­ dizioni all’interno della società capitalista, il che non potrà che condurre al rigetto dello stesso capitalismo in favore dell’instaurarsi di un sistema economico non alienante. E interessante ricordare che una prima illustrazione della nozione che l’Unione Sovietica di Stalin rappresen­ tasse semplicemente una fase di transizione, da collocarsi quindi aH’interno di un più ampio movimento verso un socialismo e un comuniSmo ancora da realizzarsi, venne presentata già nel 1957 dall’autore jugoslavo Milovan Djilas nel libro La nuova classe. Un’analisi del sistema comu­ nista'' . Djilas sostenne in quell’opera che era nata una nuo­ va classe sociale la quale, sotto le mentite spoglie del so­ cialismo, stava di fatto sfruttando le popolazioni dell’Unio­ ne Sovietica e della Jugoslavia, e che sarebbe occorso un nuovo cambiamento rivoluzionario perché questa classe di oppressori venisse scalzata dal potere e si potesse così ri­ prendere il cammino verso il comuniSmo. È inutile dire che Stalin e Tito non gradirono questa analisi (che pure era marxista) al punto che Djilas dovette scontare una lunga prigionia nel suo paese; ma anche l’occidente si trovò in imbarazzo di fronte a questa analisi, perché essa era sì for­ temente critica del cosiddetto comuniSmo, ma era anche modellata sulla concezione marxiana della storia.3

3 Milovan Djilas, The New Class: An Analysis of thè Communist System, New York, Praeger, 1957; trad. it. La nuova classe. Un’analisi del sistema co­ munista, a cura di L. Serra, Bologna, Il Mulino, 1957.

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I recenti sviluppi nell’Europa orientale, nella ex Unio­ ne Sovietica e nella ex Jugoslavia propongono altri interes­ santi spunti di riflessione circa il rapporto presumibilmen­ te esistente tra il tipo ideale di socialismo e di comuniSmo e la natura umana. La teoria marxiana, come tutte le teo­ rie socialiste che la precedettero, crede fortemente nell’idea­ le della perfettibilità dell’umanità, e un aspetto particolare di questo atteggiamento riguarda i sentimenti etnici e na­ zionalistici, che attraversano il mondo intero in modi di­ versi a seconda della struttura politica ed economica dei vari paesi. La teoria marxiana sostiene che in una società socialista le persone avrebbero accantonato le loro appar­ tenenze etniche e nazionalistiche, e avrebbero considerato tutti i loro simili come compagni; in base a tali previsioni, dunque, sarebbe prima o poi esistito un legame comune capace di superare i confini etnici e nazionali per abbrac­ ciare tutta l’umanità. Ma la domanda da porsi, allora, è se è vero che i sentimenti etnici e nazionalistici siano un pro­ dotto della società capitalista, ovvero un prodotto destina­ to a sparire con l’avvento del socialismo. Secondo i marxisti la prima guerra mondiale fu una guerra voluta dai capitalisti, che combattevano tra loro una guerra di concorrenza di tipo imperialistico per aggiudicar­ si le materie prime e i mercati dei beni finali. In questa situazione i proletari di Germania, di Francia, di Gran Bretagna e di tutti gli altri paesi avrebbero dovuto ricono­ scere la loro situazione comune e rifiutarsi di combattere nei loro eserciti o di lavorare nelle loro fabbriche, provo­ cando con il loro atteggiamento uno sciopero generale che avrebbe costretto il conflitto ad interrompersi. Evidente­ mente i sentimenti nazionalistici furono molto più forti di questi richiami all’unità, come dimostra il fatto che il prez­ zo pagato con la prima guerra mondiale fu di circa dieci milioni di vite umane. A questo fatto i marxisti rispondo­ no sostenendo che l’appello che venne lanciato ai proleta­ ri durante la guerra venne ignorato perché essi erano rima­ sti intrappolati nell’ideologia capitalista. Ma è questa una lettura fedele della situazione storica di quel tempo? Nella storia intellettuale americana il marxismo non ha mai avuto l’importanza che ha invece avuto in quella eu­ ropea. Riguardo ad essa i marxisti hanno sempre sostenu­

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to che la vergogna dell’America, ossia la discriminazione contro gli afro-americani (il fenomeno che l’economista Gunnar Myrdal ribattezzò come il «dilemma americano»), fosse una parte costitutiva del capitalismo, e secondo le loro profezie sarebbe cessato dopo che fosse avvenuta la rivoluzione e il conseguente passaggio verso il socialismo. E interessante giustapporre questi richiami alla solidarietà che sarebbe esistita sotto il socialismo, con la storia recen­ te della ex Unione Sovietica e della ex Jugoslavia, la quale dimostra che più di settanta anni di socialismo dal 1917 fino all'erosione dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche non sono bastati a raffreddare l’intensità dei sentimenti etnici e nazionalistici che sono esistiti per dei secoli. In conclusione, potrà anche essere vero che le per­ sone sono fondamentalmente buone, e che il loro eventua­ le comportamento non buono sia da imputarsi non alla loro natura ma alla struttura istituzionale in cui vivono; tuttavia l’esperienza recente insegna che il vero colpevole potrebbe non essere il capitalismo, bensì qualche altro fat­ tore comune anche ad altri sistemi economici. 2. Le teorie economiche di Marx Come premessa alla nostra trattazione va detto fin dal principio che il sistema di pensiero di Marx è una commi­ stione talmente stretta di analisi filosofica, sociologica ed economica, che qualsiasi tentativo di isolare le teorie pura­ mente «economiche» dalle altre è in qualche modo desti­ nato a compiere un’ingiustizia nei suoi confronti. Marx è convinto dell’inevitabilità del crollo del capitalismo: l’ap­ plicazione della propria concezione della storia alla socie­ tà del suo tempo lo spinge a indagare le contraddizioni tra le forze della produzione e i rapporti di produzione. A suo modo di vedere queste contraddizioni sarebbero esplose in una lotta di classe, poiché, come viene detto nel Manifesto del partito comunista, la storia di tutte le società è una sto­ ria di lotte di classe. Alle forze della produzione è assegna­ to un. ruolo chiave, ovvero quello di elemento che alla lun­ ga determina i rapporti di produzione esistenti nella socie­ tà, e quindi la sua struttura istituzionale: così la struttura

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istituzionale appropriata per il frantoio azionato a mano è il feudalesimo, e la struttura istituzionale appropriata per il frantoio azionato a vapore è il capitalismo. E la logica stessa del processo tecnologico a creare le condizioni e le spinte che provocano il passaggio dalla forza delle braccia a quella del vapore, e via via che le forze della produzione si trasformano i vecchi rapporti di produzione devono la­ sciare spazio a forme istituzionali più adeguate. Ogni epo­ ca storica, inclusa quella del suo tempo, è vista dunque da Marx come una parte del dispiegarsi storico del processo dialettico. a * Q uadro 6.2. H a

Le forze della produzione e il declino dei sistemi economici comu­ nisti Che la storia sia piena di ironia è confermato dalla recente caduta delle economie a regime comunista. Al tempo in cui scri­ veva Marx la percezione comune era che la tecnologia stesse conducendo i sistemi economici verso unità di produzione sem­ pre più grandi: egli raccolse questa percezione e la rielaborò al­ l’interno della propria analisi, affermando che le unità produtti­ ve più piccole non sarebbero state in grado di competere con quelle di maggiori dimensioni ed efficienza. Quando i comuni­ sti assunsero il controllo di alcuni paesi si sforzarono di tradur­ re in atto questa intuizione, e costruirono unità produttive dalle dimensioni enormi, allo scopo di sfruttare al meglio le economie di scala e al tempo stesso di dare vita a un contesto sociale pro­ duttivo che fosse propedeutico al comuniSmo. Accadde tuttavia qualcosa di divertente allorché la rivoluzio­ ne informatica divenne una delle principali forze propulsive delle economie occidentali: essa ebbe infatti la conseguenza di dimi­ nuire le economie di scala e perciò di comportare la riduzione delle dimensioni delle unità produttive tipiche di quei sistemi economici. Non solo la nuova tecnologia informatica permise una maggiore dispersione geografica delle varie fasi dei processi produttivi, ma fece anche crescere sempre più l’importanza re­ lativa, all’interno delle economie industrializzate, del settore ter­ ziario, il quale, essendo rivolto alla produzione di servizi, non necessita generalmente di grandi unità produttive. L’ironia in tutto questo sviluppo storico sta nel fatto che Marx aveva colto nel segno nel mettere a fuoco il collegamento tra tecnologia e sistemi economici: col modificarsi dei paradig­

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mi tecnologici anche le forze dinamiche del cambiamento all’in­ terno della società evolvono. Le economie comuniste si basava­ no su un sistema di controllo pianificato che in effetti compor­ tava l’elaborazione e la gestione delle informazioni, ma solo ai li­ velli dirigenziali dell’intero sistema: un utilizzo così ridotto non poteva evidentemente integrarsi adeguatamente con le nuove tecnologie, che al contrario richiedevano la libera circolazione dell’informazione a qualsiasi livello. Alcuni sostengono che la rivoluzione informatica abbia svolto un ruolo decisivo nel pro­ vocare la caduta delle economie comuniste: se tale interpretazio­ ne fosse corretta, allora, paradossalmente, il tramonto di queste economie non sarebbe che un altro degli esempi a conferma della validità dell’analisi marxiana della dinamica del cambiamento che caratterizza i sistemi economici.

L’approccio metodologico di Marx

L’approccio con il quale Marx si avvicinò allo studio del funzionamento dell’economia non fu certamente un ap­ proccio convenzionale. La teoria economica ortodossa si sforza infatti di comprendere il sistema economico nel suo insieme attraverso l’esame specifico delle sue singole parti (quali, ad esempio, le imprese, le famiglie, i prezzi di mer­ cato). Marx partì invece dalla totalità della società e del­ l’economia per analizzarle guardando all’influenza eserci­ tata sulle parti componenti. Se dunque nell’approccio metodologico della teoria ortodossa il principale legame di causalità va dalle parti al tutto, nello schema analitico marxiano il tutto determina le parti: si tratta di una distin­ zione che certamente semplifica in modo eccessivo rispet­ to a questi due sistemi di pensiero, i quali in realtà ammet­ tono entrambi un'interazione a doppio senso tra le parti e il tutto, ma che aiuta a chiarire la differenza di fondo che caratterizza i loro rispettivi orientamenti. Merci e classi

Il primo passo compiuto da Marx fu quello di esamina­ re la relazione di scambio che esiste tra i capitalisti, ovvero

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coloro che posseggono i mezzi di produzione, e i proleta­ ri, ovvero coloro che vendono il proprio lavoro sul merca­ to. Egli riteneva infatti che tale relazione illustrasse bene quella che è una delle principali caratteristiche del capita­ lismo, la separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione: con l’avvento del sistema economico capi­ talistico i lavoratori cessano di possedere il proprio labo­ ratorio, i propri strumenti o i materiali da utilizzare nel corso del processo della produzione. Visto sotto questa angolatura il capitalismo viene a configurarsi come una società composta essenzialmente da due classi, e una delle caratteristiche più significative di una società siffatta diven­ ta appunto lo scambio che si instaura tra capitalisti e pro­ letari, vale a dire la contrattazione per la remunerazione del lavoro. E per questa ragione che Marx si dedicò all’elabo­ razione di una teoria che spiegasse i prezzi delle merci, o i valori di scambio. Dal momento che il suo interesse era diretto in modo particolare a spiegare quali fossero le fon­ ti dei redditi da proprietà, egli decise di esaminare le forze che determinavano sia i prezzi delle merci prodotte con l’impiego del lavoro, sia il prezzo con cui veniva remune­ rato il lavoro in seguito alla fatica spesa nella produzione delle merci. Anche la teoria economica ricardiana, come pure la microeconomia di stampo ortodosso che in seguito ne de­ rivò, faceva iniziare lo studio dei sistemi economici dal modo con cui era determinato il prezzo delle merci: ciò spiega perché sovente si assume che Marx fosse interessa­ to alle medesime questioni di fondo che stavano a cuore a Ricardo, e in particolar modo alla questione delle forze che determinano i prezzi delle merci. A dire il vero, però, l’obiettivo primario di Marx non era tanto quello di costrui­ re una teoria dei prezzi relativi, quanto quello di compren­ dere la natura dei salari, che egli considerava l’elemento cruciale in un’economia capitalista: i salari infatti poneva­ no in luce una delle contraddizioni capaci di dare conto delle leggi che governavano l’evoluzione della stessa eco­ nomia capitalista. Nei sistemi economici che precedettero il capitalismo i beni venivano prodotti per il loro valore d ’uso, cioè per essere consumati direttamente da chi li aveva prodotti. Uno

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dei tratti distintivi del capitalismo è invece il criterio per cui le merci sono prodotte dai capitalisti non per il loro valore d ’uso, ma per il loro valore di scambio. La compren­ sione del capitalismo richiede perciò necessariamente la comprensione delle relazioni di scambio che si sviluppano tra i diversi possessori delle merci, la più importante delle quali è senz’altro quella tra i capitalisti e i proletari. Un altro modo per esprimere il medesimo concetto consiste nel notare come, secondo Marx, i prezzi delle merci esistenti in un sistema capitalistico rappresentano due diversi tipi di relazioni: 1) le relazioni quantitative che esistono tra le merci (due castori si scambiano contro un cervo); 2) le relazioni sociali, o qualitative, tra gli individui presenti all’interno del sistema economico. I salari allora, visti come categoria di prezzi, rappresentano sia una rela­ zione di tipo quantitativo che una di tipo sociale o qualita­ tivo (tra i capitalisti e i proletari). L’interesse di Marx per il modo in cui venivano determinati i prezzi era motivato, in modo prevalente, dalla misura in cui ciò metteva in luce le sottostanti relazioni sociali, e solo secondariamente dalla misura in cui ciò rispecchiava le relazioni di tipo quantitati­ vo tra le merci. La teoria del valore-lavoro di Marx

Non c’è dubbio che nell’approntare una sua teoria dei prezzi relativi (ovvero una teoria delle relazioni di tipo quantitativo tra cose o tra merci) Marx ricorre alla teoria del valore di Ricardo. A suo modo di vedere, dal momen­ to che i prezzi delle merci rendono manifeste alcune rela­ zioni di tipo quantitativo, tutte le merci devono per forza avere un elemento in comune, quantitativamente misura­ bile in modo certo. Ad esempio Marx prova a considerare inizialmente il valore d ’uso, o l’utilità, come l’elemento comune a tutte le merci ma, arrivando a contestarne la misurabilità, si rivolge in un secondo momento al lavoro, che non solo ha la caratteristica di essere elemento comu­ ne a tutte le merci ma, ai suoi occhi, assolve anche alla seconda funzione, poiché è la quantità di lavoro necessa­ ria alla produzione delle merci il fattore che governa la

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determinazione dei prezzi relativi. In quanto sostenitore di una teoria del valore-lavoro Marx, così come era accaduto a Ricardo prima di lui, si ritrovò a fronteggiare tutti i vari problemi connessi a una teoria di quel tipo, e sostanzial­ mente seguì l’impostazione del suo predecessore: infatti, sebbene fosse riuscito a fornire una presentazione comples­ sivamente più lucida delle difficoltà insite in una teoria del valore-lavoro, non fu però più capace, rispetto a quanto riuscì a Ricardo, di risolverne i problemi. Per Marx l’unico costo sociale richiesto dalla produzio­ ne delle merci è il lavoro. Ponendosi al più alto livello possibile di astrazione egli ignora la questione delle diver­ se abilità dei lavoratori e si concentra piuttosto sulla no­ zione per cui la quantità totale di lavoro disponibile all’in­ terno della società per produrre merci è una quantità omo­ genea, chiamata, appunto, lavoro astratto. Vista così, la produzione di una qualsiasi merce richiederebbe l’impie­ go di una parte dell’intera offerta di lavoro astratto, e i prezzi relativi delle varie merci rispecchierebbero le diver­ se quantità di questa astratta offerta di lavoro, misurata in ore di lavoro, necessaria alla loro produzione. La nozione secondo cui è il lavoro contenuto nelle merci a determina­ re il loro valore solleva però quel problema che abbiamo già incontrato e che potremmo chiamare del lavoro quali­ ficato, vale a dire il problema di lavoratori dotati di diver­ se abilità che sarebbero stati capaci di produrre quantità differenti di prodotto nello stesso tempo. Per far fronte a questo problema Marx riduce il livello di astrazione della sua analisi, e propone di misurare la quantità di lavoro ri­ chiesta dalla produzione di un bene attraverso il «tempo di lavoro socialmente necessario», definito come il tempo di lavoro impiegato nella produzione da parte di un lavo­ ratore in possesso del livello medio di abilità normalmente posseduta dai lavoratori in quel periodo. Cosa sarebbe accaduto, in base a questo concetto, se un lavoratore fosse stato dotato di un’abilità superiore a quella media? La sua abilità sarebbe stata riportata pari a quella media misuran­ do la sua maggiore produttività e compiendo i necessari aggiustamenti: ad esempio, se un lavoratore, per via della sua abilità connaturata, avesse prodotto il 100 per cento in più del lavoratore dotato della bravura media, ciascuna ora

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del suo lavoro di qualità superiore avrebbe avuto un valo­ re esattamente doppio rispetto al lavoro medio. In questo modo tutto il tempo di lavoro effettivo viene ridotto a tem­ po di lavoro socialmente necessario. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, Adam Smith cadde in un ragionamento circolare quando arrivò a misurare le differenze nelle abi­ lità dei lavoratori attraverso i salari che venivano loro cor­ risposti. Marx invece aggirò del tutto la questione, assu­ mendo che tali differenze fossero rilevate non per mezzo dei salari, ma delle differenti produttività di cui erano ca­ paci. Un altro problema delicato che occorre affrontare al­ l’interno di una teoria del valore-lavoro è dato dall’influen­ za esercitata dai beni capitali sulla formazione dei prezzi relativi. Su questo punto Marx adotta la soluzione che era già stata individuata da Ricardo, ovvero quella di conside­ rare il capitale come lavoro accumulato. In base a tale so­ luzione il tempo di lavoro necessario a produrre un bene finisce per coincidere con il numero di ore di lavoro im­ mediatamente applicato alla produzione, più il numero di ore di lavoro richiesto dalla produzione del capitale anda­ to poi distrutto nel processo di produzione. Come quella di Ricardo, anche la soluzione di Marx non risulta del tut­ to soddisfacente, poiché non riesce a tenere conto del fat­ to che laddove si usino beni capitali occorrerebbe pagare degli interessi sui fondi usati per remunerare il lavoro in­ diretto (accumulato negli stessi beni capitali), dal momen­ to del pagamento del lavoro indiretto fino alla vendita del prodotto finale. Una teoria del valore-lavoro deve poi risolvere tutte le questioni legate all’esistenza di terre di diversa fertilità, per cui la stessa quantità di tempo di lavoro conduce a una diversa produzione a seconda della fertilità della terra sul­ la quale questa è applicata. Nella teoria del valore-lavoro elaborata da Marx nei primi due libri del Capitale questo problema è del tutto ignorato, ma nel terzo volume egli l’affronta facendo ricorso alla teoria della rendita differen­ ziale già sviluppata da Ricardo. In base a questa teoria la superiore produttività del lavoro svolto su una terra di maggiore fertilità è assorbita dal proprietario terriero a ti­ tolo di rendita differenziale, e la concorrenza farebbe sì che

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la rendita pagata sulle terre migliori cresca fino a che il saggio di profitto risulti lo stesso su tutti gli appezzamenti. In questa accezione è dunque la rendita ad essere determi­ nata dal prezzo, piuttosto che il contrario. Un’ultima difficoltà implicita in una teoria del valorelavoro è quella della valutazione dell’influenza dei profitti sulla determinazione dei prezzi relativi. Nell’esaminare le versioni della teoria del valore-lavoro date da Smith e da Ricardo abbiamo visto che se ai profitti è destinata una quota proporzionalmente diversa del prezzo finale a secon­ da dei diversi beni, allora i prezzi relativi non possono es­ sere misurati in modo corretto ricorrendo soltanto alle quantità di lavoro. Uno degli aspetti cruciali di questo pro­ blema è rappresentato dai rapporti capitale/lavoro esisten­ ti all’interno delle varie industrie: industrie che sono ad alta intensità di capitale, infatti, produrranno beni i cui profit­ ti costituiranno una parte proporzionalmente maggiore del prezzo finale rispetto ai beni prodotti in industrie a mino­ re intensità di capitale. Marx, avendo studiato in modo ap­ profondito la teoria ricardiana, era certamente consapevo­ le di questo problema, ma nei primi due volumi del Capi­ tale evitò accuratamente di affrontarlo, ricorrendo all’ipo­ tesi semplificatrice che tutte le industrie e le imprese aves­ sero la stessa intensità di capitale. Nel terzo volume egli abbandonò quest’ipotesi nel tentativo di elaborare una teo­ ria del valore-lavoro dotata di maggiore coerenza logica, ma, proprio come era già accaduto a Ricardo prima di lui, egli fallì il suo obiettivo. Tuttavia non ci sarà possibile esa­ minare questo problema più in dettaglio se prima non avre­ mo acquisito maggiore familiarità con altri importanti con­ cetti utilizzati da Marx nella sua analisi economica. L’algebra marxiana Nella costruzione analitica di Marx il valore di una merce è sempre scomponibile in tre parti: valore = C + V + S. Il capitale costante (C) è definito come la spesa dei capi­ talisti per le materie prime e il costo del deprezzamento sul

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capitale fisso. Conviene considerarlo come la somma di tutti i costi non da lavoro che i capitalisti sostengono per produrre le merci. Il capitale variabile (V) è definito come la somma delle spese per salari e stipendi. Il plusvalore (S) è un valore residuo, ottenuto sottraendo le spese per il capitale costante e per il capitale variabile dal ricavo lordo dei capitalisti. Secondo Marx le spese per il capitale costan­ te fruttano ai capitalisti un ritorno di ammontare esatta­ mente uguale, da cui il nome di capitale costante. Le spese per il capitale variabile invece, laddove gli affari siano pro­ fittevoli, generano un ritorno di entità superiore. Attraver­ so questa duplice ipotesi Marx riesce ad incorporare nel suo sistema teorico l’ipotesi fondamentale che solo il lavo­ ro crea il valore. E importante capire esattamente qual è la natura e la fonte del plusvalore nell’analisi marxiana del capitalismo, poiché esso è a sua volta la fonte dei redditi da proprietà. Dato che Marx assume la concorrenza perfetta su tutti i mercati, la sua analisi si concentra in modo pressoché esclusivo sui prezzi di equilibrio di lungo periodo determi­ nati in modo concorrenziale. Uno dei principali obiettivi per i quali egli impiega la propria teoria del valore-lavoro è quello di spiegare la natura e la fonte dei redditi di pro­ prietà. Come nascono dunque tali redditi, o il plusvalore, nel contesto di mercati concorrenziali? Seguendo il ragio­ namento di Marx il capitalista acquista i diversi fattori della produzione, pagandoli al loro prezzo concorrenziale di lungo periodo, e vende il prodotto finale al suo prezzo di equilibrio: il plusvalore o il reddito da proprietà allora non è generato dal fatto che il lavoro sia pagato meno del suo prezzo di concorrenza, o dal fatto che i prodotti finali sia­ no venduti a prezzi superiori a quelli concorrenziali. Sem­ bra che nessuno venga ingannato, eppure il plusvalore esi­ ste: la soluzione data da Marx è che il capitalista acquista una merce particolare, il lavoro, che quando è impiegata nel processo produttivo crea un valore maggiore di quel­ lo al quale viene remunerata. Secondo Marx il lavoro è quindi la sola merce che ha la capacità di creare plusva­ lore. Il prezzo concorrenziale di lungo periodo del lavoro è equivalente al tempo di lavoro socialmente necessario che

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occorre per produrre l’equivalente in termini di beni del salario reale. Se in quattro ore di lavoro un lavoratore rie­ sce a produrre merci sufficienti per acquistare tutto quan­ to è necessario al suo mantenimento (cioè quello che gli serve per nutrirsi, vestirsi e ripararsi), allora il prezzo del lavoro sarà equivalente a quattro ore di tempo lavorativo, e le spese di un capitalista per il capitale variabile (o il compenso giornaliero per ciascun lavoratore) sarà equiva­ lente a quattro ore di tempo lavorativo. Se la giornata la­ vorativa fosse lunga soltanto quattro ore allora non verreb­ be generato alcun plusvalore o reddito da proprietà, poi­ ché tutto il prodotto finale dovrebbe essere impiegato per il pagamento del salario socialmente necessario. Una gior­ nata lavorativa più lunga, come ad esempio quella di otto ore, genera invece un plusvalore poiché, dopo che il lavo­ ro è stato remunerato con un salario determinato in modo concorrenziale e pari a quattro ore di tempo di lavoro, ri­ mane un surplus di merci pari a quanto prodotto nelle al­ tre quattro ore di lavoro. Marx definisce «saggio di plusva­ lore», o «saggio di sfruttamento», il rapporto tra plusvalo­ re e spese per il capitale variabile: S

saggio di plusvalore = S' = — • Nell’esempio precedente, il saggio di plusvalore sareb­ be stato: 4 ore= 100 t ----per cento. 4 ore In questo caso se un lavoratore producesse un’unità di prodotto al giorno, la merce prodotta, di fatto, verrebbe venduta sul mercato a un prezzo equivalente a otto ore di tempo lavorativo, che è il prezzo di equilibrio di lungo periodo in un mercato concorrenziale. Il lavoro, tuttavia, avrebbe anche in questo caso un prezzo giornaliero pari a soltanto quattro ore di lavoro, e quindi, malgrado nessuno sia palesemente imbrogliato nelle varie transazioni di mer­ cato (che avvengono tutte in base al prezzo concorrenzia­ le), esisterebbe in realtà un saggio di plusvalore del cento per cento. In un regime capitalistico, con la sua tipica se­ parazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzio­

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ne, ai lavoratori si presenta l’opzione di lavorare otto ore al giorno oppure di non lavorare affatto; e poiché è il capi­ talista a possedere e controllare i mezzi di produzione, questi è nella condizione di chiedere ai lavoratori di lavo­ rare più a lungo di quello che sarebbe strettamente neces­ sario al loro mantenimento e di trarne quindi un reddito da proprietà uguale al plusvalore. Il plusvalore: una digressione

L’analisi marxiana, così come quella di molti altri pen­ satori, non contiene solo una parte oggettiva, che si pro­ pone di articolare e organizzare alcuni aspetti del funzio­ namento del sistema economico, ma contiene anche, in modo esplicito, elementi di forte coloritura ideologica. Liberato dagli eccessi ideologici, il messaggio di Marx è semplicemente quello per cui qualsiasi sistema economico produrrà beni e servizi in quantità maggiore di quanto necessario per pagare tutti i costi reali di produzione. E di una certa utilità considerare il fenomeno all’interno di un contesto macroeconomico: sottraendo dal prodotto totale annuale degli Stati Uniti tutti i costi reali (comprendenti sia i costi da lavoro che i costi da capitale) sostenuti per la sua produzione rimarrebbe un residuo, che potrebbe esse­ re considerato il plusvalore. La nozione marxiana di plus­ valore è quindi assai simile al concetto fisiocratico di pro­ dotto netto. Di fatto Marx, a monte di questo concetto, non fece che porsi una domanda del tutto legittima: dopo che la rivoluzione industriale aveva comportato forti incre­ menti nel plusvalore annualmente creato in tutto il mon­ do, quale sarebbe stato un modo equo di distribuire tra i componenti della società tale plusvalore prodotto social­ mente? Marx non si accontentò però di sollevare solo questo problema, né si accontentò di suggerire che a quell’epoca il modo con cui veniva «ripartita la torta» a livello sociale fosse un modo iniquo, ingiusto e scorretto. Egli andò oltre a questa denuncia e giunse ad affermare con «oggettività scientifica» che il plusvalore creato dal lavoratore gli era sottratto a causa della mancanza di controllo sui mezzi di

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produzione. L’unica soluzione che avrebbe potuto mettere fine a questa situazione cruciale sarebbe quindi stata una rivoluzione, che avesse lo scopo di espropriare i capitalisti dei loro mezzi di produzione e di restituire il plusvalore a chi lo aveva creato, ossia ai lavoratori proletari. Di nuovo sull’algebra marxiana Stando all’algebra marxiana sono possibili diversi modi di aumentare il saggio di plusvalore: un allungamento del­ la giornata lavorativa, un aumento della produttività del lavoro, o una riduzione della quantità di merci equivalen­ te al salario reale con cui si remunera il lavoro. Il capitali­ sta, sostiene Marx, cerca costantemente di aumentare il saggio di plusvalore attraverso un allungamento della gior­ nata lavorativa o un incremento della produttività del la­ voro. Poco invece può fare per abbassare il salario reale dei lavoratori, poiché il saggio di salario è determinato dalle forze dei mercati concorrenziali. I miglioramenti tecnolo­ gici nella produzione dei beni consumati da parte dei per­ cettori di salario possono comunque determinare un incre­ mento nel saggio di plusvalore. Il saggio di profitto è uguale al rapporto tra il saggio di plusvalore e le anticipazioni per il capitale totale: S saggio di profitto = P =

c+v

La composizione organica del capitale (il termine con il quale Marx indicava l’intensità di capitale di un’industria o di una singola impresa) è invece uguale al rapporto tra le spese per il capitale costante e le spese per il capitale tota­ le: C composizione organica del capitale = O C+V Essendo il saggio di plusvalore pari al rapporto tra il plusvalore e le spese per il capitale variabile, saggio di plusvalore = 5' =

_S_ ; V ’

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quanto maggiore è questo rapporto, tanto più l’impresa o l’industria sarà ad elevata intensità di capitale. Semplici passaggi algebrici rispetto alle definizioni precedenti di plusvalore, di saggio di profitto e di composizione organi­ ca del capitale dimostrano che il saggio di profitto varia direttamente con il saggio di plusvalore e inversamente con la composizione organica del capitale4: saggio di profitto = P = 5'(1-Q). Alcuni problemi con la teoria del valore di Marx NeU’esammare le teorie del valore proposte da Smith e da Ricardo si era visto come esse presentassero alcune dif­ ficoltà, prima fra tutte quella della definizione del ruolo occupato dai profitti nella determinazione dei prezzi. Men­ tre Smith aveva raggiunto in merito soltanto una vaga con­ sapevolezza, e dovette faticare non poco nell’elaborare le proprie teorie del costo del lavoro e del lavoro comandato per la società avanzata, Marx, come Ricardo, era pienamen­ te consapevole della portata teorica della questione, ma fu comunque incapace di trovare una soluzione soddisfacente. Marx partì dall’ipotesi che il funzionamento di mercati perfettamente concorrenziali avrebbe portato automaticamente all’uguaglianza del saggio di plusvalore in tutte le industrie e in tutte le imprese; e che le stesse forze concor­ renziali avrebbero determinato un saggio uniforme di pro­ fitto per tutte le imprese e per tutte le industrie. Per esem­ pio, un saggio di profitto superiore che si fosse verificato in un settore di un’industria o del sistema economico avrebbe provocato uno spostamento di risorse tale da ri­ stabilire, nel lungo periodo, l’uniformità del saggio di pro­ fitto in tutti i settori. Se dunque sia il saggio di plusvalore, sia il saggio di profitto, devono essere uniformi all’interno 4 Per una prova di questo risultato si veda Paul M. Sweezy, The Theory of Capitatisi Development: Principles ofMarxian Politicai Economy, New York, Monthly Review Press, 1956; trad. it. in Paul M. Sweezy et al., La teoria del­ lo sviluppo capitalistico e discussione del pensiero economico marxiano, a cura di C. Napoleoni, Torino, Boringhieri, 1970, p. 81.

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del sistema economico, allora lo sarà necessariamente an­ che la composizione organica del capitale, come si può facilmente dimostrare. Il saggio di profitto è dato dalla formula P —5'(1-Q); se il saggio di plusvalore (.S1) e quello di profitto (P) sono ovunque gli stessi nel sistema econo­ mico per via del funzionamento concorrenziale del merca­ to, allora anche la composizione organica del capitale (Q) dovrà essere allo stesso livello in ogni impresa e in ogni in­ dustria. Tuttavia è un fatto osservabile che sia il rapporto tra capitale e lavoro, sia la composizione organica del capita­ le, differiscono da un’industria all’altra, e per comprende­ re le conseguenze di questo problema per una teoria del valore-lavoro, ricorriamo a un esempio. Si consideri un si­ stema economico il cui saggio di plusvalore è uguale al 100 per cento, e che sia composto di due industrie, l’industria dell’alluminio, ad alta intensità di capitale e con una com­ posizione organica del capitale pari a 0,75 (Qyl = 0,75), e l’industria dei frutti di bosco, ad alta intensità di lavoro e con una composizione organica del capitale pari a 0,25 (QB = 0,25). Inserendo questi valori nella formula marxiana per la determinazione del saggio di profitto, P = 5'(1-Q ), si ottiene: Industria dell’alluminio

PA= S 'i l - Q J = 1,00 (1-0,75) = 0,25 o 25% Industria dei frutti di bosco

PB= S'(1-Q b) = 1,00 (1-0,25) = 0,75 o 75% . In virtù di questi risultati l’esempio contraddice l’ipo­ tesi che il saggio di profitto sia il medesimo in tutti i setto­ ri dell’attività economica; esso mostra anche un altro risul­ tato piuttosto interessante, ovvero che se il saggio di plus­ valore (S') coincide nelle diverse industrie, allora il saggio di profitto è superiore nell’industria dei frutti di bosco, che è ad alta intensità di lavoro, rispetto all’industria dell’allu­ minio, che è ad alta intensità di capitale.

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Di nuovo sul costo del lavoro e sul lavoro comandato Sulla base di quanto visto in precedenza circa gli aspet­ ti analitici, possiamo ora riesaminare le difficoltà incontra­ te da Smith, Ricardo e Marx nel costruire una teoria del valore-lavoro. Per quanto riguarda la soluzione individua­ ta da Smith, abbiamo visto che se i rapporti tra quantità di capitale e quantità di lavoro fossero diversi all’interno del­ le diverse industrie, o, in altre parole, se i pagamenti per salari non rappresentassero proporzionalmente la medesi­ ma quota del prezzo finale di tutte le merci, allora l’insie­ me dei prezzi relativi che si ricaverebbe da una teoria del valore basata sul costo del lavoro sarebbe diverso dall’in­ sieme dei prezzi relativi ricavabile da una teoria del valore basata sul lavoro comandato. Queste difficoltà indussero Smith ad abbandonare una teoria del valore-lavoro per il caso di sistemi economici sviluppati dove venivano pagati dei profitti e ad orientarsi verso una teoria del valore basa­ ta sul costo di produzione. Quando Ricardo affrontò questo stesso problema sco­ prì che una teoria del valore basata solo sul tempo di lavo­ ro non avrebbe spiegato in modo soddisfacente i prezzi relativi nel caso di industrie con diversi rapporti capitale/ lavoro; egli concluse però che, sebbene dal punto di vista teorico la diversità dei rapporti tra capitale e lavoro impe­ disse che una teoria del valore-lavoro potesse spiegare qualsiasi variazione dei prezzi relativi, si trattava comun­ que di un fattore di disturbo che aveva un’importanza quantitativa trascurabile. Se queste erano state le conclu­ sioni raggiunte da Smith e da Ricardo, non deve sorpren­ dere il fatto che Marx fosse riuscito a sviluppare una teo­ ria del valore-lavoro logicamente coerente soltanto sulla base dell’ipotesi restrittiva di uguale composizione organi­ ca del capitale in tutte le industrie. La soluzione trovata da Marx e alcune delle sue implicazioni Come si è detto, nell’elaborare la propria teoria del valore Marx seguì la stessa procedura che era stata seguita da Ricardo, esaminando a fondo tutti i risvolti di questo

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problema prima di giungere finalmente a rimuoverlo per ipotesi. La teoria del valore-lavoro impiegata nel corso dei primi due volumi del Capitale è costruita sulla base del­ l’ipotesi restrittiva che la composizione organica del capi­ tale sia la stessa per tutte le industrie, mentre nel terzo volume Marx provò ad eliminare questa ipotesi iniziale e si impegnò a sviluppare una teoria del valore-lavoro che avesse una propria coerenza interna. La cosa non gli riu­ scì, e l’incoerenza della costruzione logica della sua teoria, a volte indicata come la vera, grande contraddizione della teoria del valore marxiana, fu riconosciuta immediatamen­ te da Eugen Bòhm-Bawerk, che la riprese ed evidenziò nel libro La conclusione del sistema marxiano*. Da allora le questioni teoriche connesse a questo problema hanno ri­ cevuto considere\-Tole attenzione da parte di molti econo­ misti, e la difficoltà incontrata dalla teoria del valore-lavo­ ro di Marx è anche divenuta famosa con il nome di proble­ ma della trasformazione-, con esso si vuole alludere al ten­ tativo fatto da Marx nel terzo volume del Capitale di «tra­ sformare» il valore delle merci nei prezzi di mercato, per poter trattare anche il caso generale di un sistema econo­ mico caratterizzato da industrie con differente intensità di capitale. Furono numerosi gli autori che successivamente si sforzarono di trovare una soluzione al problema della trasformazione, primo fra tutti L. Bortkiewicz nel 1896, e la discussione sulle riviste specializzate era ancora vivace negli anni settanta, quando anche alcune delle migliori menti di orientamento neoclassico (quali Paul Samuelson e W.J. Baumol) presero parte al dibattito arricchendo la letteratura che si era andata formando sull’argomento. Si tratta in effetti di un problema affascinante, per quanto per molti versi esoterico, ed è probabile che continui anche in futuro ad attirare l’attenzione degli studiosi. Che conseguenze comporta sull’analisi del capitalismo il fallimento della teoria del valore-lavoro? La teoria del valore occupa un posto centrale nella scienza economica 5 Eugen von Bòhm-Bawerk, Zum Abschluss des Marxschen Systems, in O. Bònigk (a cura di), Staatswissenschaftliche Arbeiten, Berlin, Haring, 1896; trad. it. La conclusione del sistema marxiano, in E. Bòhm-Bawerk et al., Eco­ nomia borghese ed economia marxista, Firenze, La Nuova Italia, 1971.

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ortodossa, e poiché uno degli obiettivi principali di quest’ultima consiste nello spiegare l’allocazione delle risorse scarse tra usi alternativi, un fallimento della teoria del va­ lore ortodossa implicherebbe il crollo di quasi tutta la con­ nessa costruzione teorica. E per questa ragione che molti economisti ortodossi considerano le lacune della teoria del valore di Marx alla stregua di lacune fatali per tutto il suo sistema teorico. È certamente corretto affermare che la teoria marxiana del valore-lavoro è di gran poca utilità per spiegare l’allocazione delle risorse e la formazione dei prez­ zi in un sistema economico moderno; per di più la pianifi­ cazione di un’economia socialista che si basasse unicamen­ te su una teoria del valore-lavoro per determinare i prezzi relativi condurrebbe a risultati molto poco soddisfacenti. Ma tutto questo significa forse che il fallimento della teo­ ria del valore-lavoro di Marx debba necessariamente im­ plicare il fallimento di tutto il suo sistema teorico? A que­ sta domanda sono state date varie risposte. Alcuni economisti ortodossi accettano la conclusione che tutto l’edificio teorico costruito da Marx debba cade­ re con la sua teoria del valore lavoro. Altri affermano che il suo obiettivo principale fosse quello di spiegare le leggi della dinamica del capitalismo, e che in realtà gli importas­ se poco di spiegare la formazione dei prezzi relativi, con­ cludendo perciò che la sua analisi del capitalismo è invali­ data solo parzialmente dal problema della trasformazione. Altri ancora sono del parere che la teoria del valore-lavoro ha semplicemente lo scopo di fornire un sostegno ideolo­ gico alle implicazioni rivoluzionarie presenti all’interno del sistema marxiano: le critiche di tipo tecnico che svelano le incoerenze di tale teoria non pregiudicherebbero quindi in modo dichiarato l’uso ideologico che se ne può fare. N a­ turalmente poi vi sono anche altri economisti che respin­ gono l’analisi marxiana del capitalismo sulla base di consi­ derazioni diverse da quelle dell’incoerenza logica della sua teoria del valore. La nostra posizione è quella di riconoscere che la teo­ ria del valore-lavoro non è capace di spiegare i prezzi rela­ tivi, ma che questo fallimento teorico non vizia la bontà dell’intero sistema marxiano per due ragioni fondamenta­ li. Prima di tutto a Marx non interessavano in modo pri­

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mario le questioni attinenti all’allocazione delle risorse e alla formazione dei prezzi: egli intendeva piuttosto svilup­ pare una teoria in grado di dare conto delle trasformazioni e della dinamica che caratterizzavano il sistema economi­ co a lui contemporaneo. Da questo punto di vista è più corretto considerare Marx come un macroeconomista piut­ tosto che come un microeconomista. In secondo luogo la teoria del valore-lavoro potrebbe benissimo essere rimpiaz­ zata, all’interno del sistema marxiano, da altre teorie del valore senza che ne risultino modificati in modo sostanzia­ le né il tipo di analisi né tanto meno le sue conclusioni. Un caso simile è rappresentato dalla dottrina ricardiana del vantaggio comparato, che non dipende in modo decisivo da nessuna particolare teoria del valore. Allo stesso modo, anche se indubbiamente lo spessore ideologico del sistema marxiano risulta complessivamente indebolito dalla confu­ tazione della sua teoria del valore-lavoro, egli avrebbe po­ tuto sollevare quelle questioni di ordine etico che gli sta­ vano a cuore, e in modo particolare sottolineare le gravi iniquità nella distribuzione del reddito in un regime capi­ talistico, senza dover necessariamente far riferimento a questa particolare teoria del valore. Di tutti gli utilizzi ai quali Marx destinò la propria teo­ ria del valore-lavoro, noi crediamo che il più importante fosse proprio quello etico, o ideologico. Egli intendeva dimostrare che la fonte dei redditi da proprietà fosse lo sfruttamento, ovvero che essi fossero redditi non guada­ gnati, e giunse a questa conclusione assumendo che il la­ voro fosse l’unica merce in grado di creare plusvalore. Egli tenne fede a questa posizione nel corso di tutta la sua ana­ lisi, misurando il saggio di plusvalore come rapporto tra il plusvalore e le spese per il capitale variabile. In linea di principio si potrebbe anche sostenere che l’unico fattore in grado di generare plusvalore sia, al contrario, il capitale, e sviluppare così una «teoria del valore-capitale»: ma non sarebbe poi una sorpresa lo scoprire che una siffatta teoria del valore conterrebbe alcune delle medesime incoerenze logiche che affliggono una teoria del valore-lavoro (poiché una teoria del valore-capitale non riuscirebbe a misurare correttamente i prezzi relativi fintantoché i rapporti tra capitale e lavoro fossero diversi all’interno delle diverse

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industrie). Tuttavia, malgrado l’importanza delle questioni etiche sollevate da Marx a proposito della distribuzione del reddito più appropriata, egli si sbagliò nel ritenere di aver dimostrato in modo oggettivo e scientifico, attraverso una teoria del valore-lavoro, che il proletariato era sfruttato dai capitalisti: se anche fosse vero che era sfruttato, la conclu­ sione cui Marx giunse implicava in realtà un giudizio etico più che un risultato scientifico. 3. L!analisi marxiana del capitalismo Marx applicò la propria concezione della storia alla società e al sistema economico del suo tempo al fine di scoprire le leggi di movimento proprie dell’economia ca­ pitalista, e poter così identificare le contraddizioni esisten­ ti nel sistema tra le forze della produzione e i rapporti di produzione. Il suo vero interesse è perciò rivolto alle ten­ denze di lungo periodo del sistema economico, e quando esamina situazioni a lui contemporanee ha sempre cura di collocarle in un contesto storicamente più ampio. Nella sua analisi del capitalismo egli giunge così a enunciare alcuni principi che sono conosciuti come «leggi marxiane» e che sono considerati da alcuni marxisti con la stessa venerazio­ ne con la quale alcuni economisti ortodossi considerano le leggi della domanda e dell’offerta. Queste leggi marxiane del capitalismo includono: la formazione di un «esercito in­ dustriale di riserva» composto dai disoccupati, la «caduta tendenziale del saggio di profitto», le crisi economiche ri­ correnti, la progressiva concentrazione industriale in un numero sempre più piccolo di imprese e l’impoverimento progressivo del proletariato. Nell’analizzare l’apparato economico del capitalismo egli utilizza, tranne poche e isolate eccezioni, gli strumenti analitici fondamentali dell’economia politica classica, e in particolar modo la teoria economica ricardiana. Questo lo porta ad accogliere le seguenti ipotesi di lavoro: 1) una teoria del costo del lavoro per spiegare i prezzi relativi; 2) la neutralità della moneta; 3) rendimenti costanti nella manifattura; 4) rendimenti decrescenti nell’agricoltura; 5) un sistema di mercati operanti in regime di concorrenza

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perfetta; 6) un concetto di uomo economico razionale e calcolatore; 7) una versione leggermente modificata della dottrina del fondo-salari. D ’altro canto in molta della sua analisi egli respinge le assunzioni ricardiane dei coefficien­ ti fissi di produzione e della piena occupazione, e la dot­ trina malthusiana della popolazione. E importante rilevare che parte della distanza che se­ para Marx da Ricardo sul terreno dell’analisi dell’econo­ mia capitalista non scaturisce affatto da differenze nei loro modelli analitici di base, ma deriva piuttosto da una diver­ sità esistente a livello ideologico. Poiché Marx era un cri­ tico del capitalismo, lo esaminò con l’intento di trovare gli errori e le contraddizioni presenti nel sistema; mentre Ri­ cardo, che fondamentalmente accettava il sistema capitali­ stico, lo esaminò dal punto di vista dell’esplicarsi armoni­ co del processo economico. In entrambi i modelli, marxia­ no e ricardiano, il ruolo dell'attore protagonista spetta al capitalista: sono la sua ricerca del profitto e il suo modo di reagire alla variazione del saggio di profitto a spiegare in gran parte la dinamica del sistema. Ma laddove i capitalisti nel sistema marxiano agiscono in modo razionale e calco­ latore in vista del proprio interesse, e così facendo non fanno altro che preparare la propria distruzione, nel siste­ ma ricardiano i medesimi soggetti, razionali e calcolatori, nel seguire il proprio interesse in realtà non fanno altro che promuovere il bene comune. Infatti, sebbene la previsione di lungo periodo implicita nell’analisi degli economisti clas­ sici sia quella pessimista dello stato stazionario, essa non è imputabile al funzionamento del sistema capitalistico di per sé (e quindi al ruolo dei capitalisti), ma piuttosto all’operare della dottrina malthusiana della popolazione e al fenomeno dei rendimenti (storicamente) decrescenti nel settore agricolo. Per Marx, tuttavia, il sistema capitalistico produce conseguenze indesiderabili a livello sociale, e via via che le contraddizioni in esso implicite si fossero andate manifestando con l’andare del tempo, avrebbe rappresen­ tato una fase storica sorpassata.

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L’esercito industriale di riserva composto dai disoccupati Marx non condivide la teoria malthusiana della popo­ lazione, che all’interno dell’analisi economica classica svol­ ge invece un ruolo essenziale nella spiegazione dell’esisten­ za dei profitti. Gli economisti classici sono infatti convinti che l’accumulazione del capitale conduce a una maggiore domanda di lavoro e a una conseguente crescita del sala­ rio reale dei lavoratori, di modo che se i salari fossero la­ sciati liberi di proseguire la loro crescita parallelamente all’accumulazione del capitale, il livello dei profitti sareb­ be destinato a diminuire. Questa conclusione è però impe­ dita dall’operare della legge malthusiana della popolazio­ ne, la quale spiega esattamente che i salari non potrebbero comunque mai raggiungere un livello tale da far scompari­ re i profitti: qualsiasi aumento dei salari provocherebbe infatti un aumento della popolazione e della forza lavoro tale da riportarli al livello di sussistenza. La dottrina mal­ thusiana della popolazione, quindi, non dà conto soltanto dell’esistenza dei profitti all’interno del sistema classico, ma spiega anche (almeno parzialmente) le forze che determi­ nano il saggio di salario. Il rifiuto di questa teoria comporta per Marx il dover trovare qualche altra spiegazione per l’esistenza del plusva­ lore e dei profitti. Anche nel suo modello una maggiore accumulazione di capitale genera una maggiore domanda di lavoro, e cosa impedirebbe quindi al plusvalore e ai profitti di ridursi progressivamente fino a zero in corrispondenza del continuo aumento dei salari? La risposta di Marx a questo interrogativo è contenuta nella sua analisi dell’esercito di riserva dei disoccupati, categoria concettuale incaricata di svolgere nel suo sistema lo stesso ruolo teorico svolto nel sistema classico dalla dottrina malthusiana della popolazio­ ne: secondo Marx, infatti, sul mercato del lavoro vi è sem­ pre un eccesso di offerta che ha l’effetto di comprimere i salari e mantenere così livelli positivi e significativi del plus­ valore e dei profitti. Le motivazioni a monte di questo pe­ renne eccesso di offerta di lavoro sono più d’una. Lina pri­ ma forma di «reclutamento» nell’esercito di riserva è quella del reclutamento diretto, che avviene allorché si sostituisce mano d ’opera con macchinari all’interno dei processi di

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produzione: oggi diremmo che, spinti dalla ricerca del pro­ fitto, i capitalisti si trovano costretti ad introdurre macchine sempre più nuove, aumentando in questo modo la compo­ sizione organica del capitale, e i lavoratori espulsi per via del progresso tecnologico non sono in grado di essere riassor­ biti da altri settori dell’economia. Vi è poi una seconda for­ ma di reclutamento, quello indiretto, che risulta dall’ingres­ so di nuovi elementi nella forza lavoro: ragazzi giunti al ter­ mine della scuola e casalinghe che desiderano entrare sul mercato del lavoro nel momento in cui diminuiscono le loro responsabilità familiari, non trovando posti di lavoro dispo­ nibili, ingrossano le fila dei disoccupati. L’esercito industria­ le di riserva ha dunque la funzione di comprimere i salari in un mercato del lavoro concorrenziale. Nello schema marxiano la dimensione di questo eserci­ to, così come il livello dei profitti e dei salari, variano nelle varie fasi dei cicli economici. Durante periodi di espansio­ ne dell’attività economica e di accumulazione del capitale i salari aumentano e l’esercito di riserva si riduce; tuttavia la crescita dei salari porta alla lunga a una riduzione del profitto, cosa a cui i capitalisti reagiscono sostituendo la­ voratori impiegati con macchine. La disoccupazione gene­ rata da questa sostituzione tra capitale e lavoro abbassa nuovamente i salari e ripristina i profitti. La nozione di esercito di riserva dei disoccupati con­ traddice per molti aspetti l’impostazione dell’analisi econo­ mica ortodossa. Ricardo aveva già suggerito l’ipotesi di disoccupazione tecnologica di breve periodo nel nuovo capitolo Macchine aggiunto in occasione della terza edizio­ ne dei Principi di economia politica-, ma la conclusione cui era arrivato era che la disoccupazione tecnologica, così come qualsiasi altro tipo di disoccupazione diversa da quel­ la frizionale, non aveva alcuna possibilità di perpetuarsi nel lungo periodo date le ipotesi sottostanti il modello classi­ co. Il presupposto di Marx, e cioè che nel lungo periodo vi sia una disoccupazione tecnologica persistente, equivale invece a respingere la legge di Say e quindi la sua previsio­ ne di pieno impiego delle risorse presenti nel sistema. Le motivazioni per le quali la maggior parte degli economisti di stampo ortodosso non hanno mai accettato volentieri il concetto marxiano di esercito industriale di riserva, com­

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posto dai disoccupati, sono perciò numerose. Esso implica infatti l’esistenza di un eccesso di offerta di lavoro, e dun­ que di ostacoli al raggiungimento di un equilibrio di mer­ cato, anche nel lungo periodo: ma se esiste un mercato concorrenziale e se la quantità offerta supera quella do­ mandata, il criterio economico che informa il meccanismo di mercato farà si che i salari diminuiscano fino a che le due quantità coincidano e il mercato si trovi in equilibrio. Dato che lo stesso Marx assume che il mercato sia perfet­ tamente concorrenziale, un teorico ortodosso potrebbe concludere che è la logica stessa del suo sistema a invali­ dare il caso di disoccupazione tecnologica persistente. A questa obiezione un marxista risponderebbe argo­ mentando che il modello ortodosso è un modello tipica­ mente basato su considerazioni di statica comparata, cioè basato sull’ipotesi che quando le forze della domanda e dell’offerta operano nel senso di abbassare i salari e ridur­ re la disoccupazione, tutte le altre condizioni restano uguali e che, in particolare, il riequilibrio del mercato del lavoro non richiede alcuna sostituzione di lavoratori impiegati con macchinari. I marxisti sono quindi pronti ad ammettere la correttezza teorica dell’analisi ortodossa se si accetta rim ­ pianto statico che le è caratteristico, ma affermano che un’analisi dinamica del mercato del lavoro non escludereb­ be la possibilità di un disequilibrio permanente. A loro volta i moderni macroeconomisti ortodossi che si occupa­ no di modelli dinamici sarebbero pronti ad ammettere che qualcosa che potrebbe assomigliare a un disequilibrio di lungo periodo in un modello di statica comparata potreb­ be anche verificarsi, ma aggiungerebbero che l’eccesso di offerta di lavoro segnalerebbe l’esistenza nel sistema eco­ nomico di un salario medio superiore a quello di equilibrio concorrenziale. Una possibilità di indagare la validità del concetto marxiano di esercito di riserva dei disoccupati sarebbe senz’altro offerta dallo studio empirico dell’andamento del livello di disoccupazione nel corso del tempo, ma tale pro­ cedura non fornirebbe una risposta univoca al problema, dal momento che la definizione della disoccupazione che viene impiegata a fini statistici contiene alcune anomalie. In molti paesi, ad esempio, sono considerate disoccupate

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quelle persone che fanno parte della forza lavoro e che cercano un lavoro senza riuscire a trovarlo. Alcuni indivi­ dui non sono però alla ricerca di un lavoro, proprio per­ ché non sono riusciti a trovarlo in passato e il conseguente scoraggiamento li ha spinti a uscire formalmente dalla for­ za lavoro. Così un lavoratore che comunque preferirebbe essere impiegato potrebbe, dopo parecchi mesi di ricerca attiva di un lavoro, decidere di uscire dalla forza lavoro, ma essere pronto a rientrarvi non appena migliorassero le op­ portunità di impiego. Questo spiega perché il rapporto tra coloro che sono parte attiva della forza lavoro e il totale della popolazione, quello che spesso è anche chiamato il «tasso di partecipazione», varia direttamente con il livello dell’attività economica. Analogamente, una persona che lavora a tempo parziale viene di solito considerata occupa­ ta, anche se preferirebbe lavorare a tempo pieno. Un marxista potrebbe dire che situazioni come quelle del pri­ mo lavoratore (disoccupazione nascosta), tanto quanto quelle del secondo (sottooccupazione), aiutano a mantene­ re basso il saggio di salario, e dovrebbero essere perciò ricomprese all’interno dell’esercito di riserva dei disoccu­ pati. Per questi motivi un certo dato statistico della disoc­ cupazione per l’economia statunitense, ad esempio il 6 per cento, non può essere considerato un indicatore adeguato della dimensione dell’esercito di riserva, dal momento che esso non prende in considerazione la proporzione della forza lavoro che sarebbe disponibile a garantirsi un pieno impiego ma che non vi riesce. Al di là di questi problemi, tuttavia, se anche esistesse una misura statistica soddisfacente della dimensione del­ l’esercito di riserva di disoccupati, avremmo ancora da ri­ solvere il problema di fondo: non sarebbe comunque chia­ ro se essa sarebbe in grado di validare o invalidare la no­ zione marxiana per cui l’esercito di riserva impedisce ai salari di crescere fino al punto di annullare il plusvalore e i profitti. Quanta disoccupazione è necessaria, infatti, per­ ché si abbiano un plusvalore e un saggio di profitto positi­ vi? La questione è resa ancor più complicata, e forse in modo irrimediabile, dal fatto che il modello marxiano as­ sume mercati perfettamente concorrenziali, mentre nei si­ stemi economici moderni prevalgono invece imprese oligo­

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polistiche e sindacati dei lavoratori dotati di un certo po­ tere contrattuale. L’osservazione e l’analisi empirica, quin­ di, non potrebbero mai risolvere la questione di fondo del­ l’esistenza o meno e del ruolo svolto dall’esercito industria­ le di riserva. La caduta tendenziale del saggio di profitto Quella relativa alla caduta tendenziale del saggio di profitto è una delle rilevanti contraddizioni tra le forze della produzione e i rapporti di produzione che secondo Marx avrebbero alla lunga condotto alla distruzione del capitalismo. Su questo aspetto dell’analisi economica Marx seguì la tradizione classica già propria di Smith, Ricardo e J.S. Mill, ognuno dei quali aveva infatti pronosticato che nel lungo periodo il saggio di profitto si sarebbe progres­ sivamente ridotto fino ad annullarsi. Nel modello marxia­ no il saggio di profitto varia direttamente con il saggio di plusvalore, e inversamente con la composizione organica del capitale, secondo la formula che già conosciamo: P = S'(l-Q ). Assumendo che il saggio di plusvalore non si modifichi con l’andare del tempo, ciò significa che qualsiasi incre­ mento nella composizione organica del capitale avrà come conseguenza la riduzione del saggio di profitto. Essendo Marx persuaso che la concorrenza, sia sul mercato dei beni che sul mercato del lavoro, avrebbe comportato il progres­ sivo aumento della composizione organica del capitale, egli giunse alla conclusione che i saggi di profitto si sarebbero conseguentemente ridotti. Esaminiamo ora come si verifi­ cherebbe tale fenomeno, distintamente sui due mercati. Il processo per cui la concorrenza sul mercato del lavoro costringerebbe i profitti a ridursi può essere illustrato come segue. Secondo Marx il capitalista è portato per sua natu­ ra a cercare tenacemente di accumulare capitale; tale ac­ cumulazione di capitale comporta anche che un aumenta­ to capitale variabile comanderebbe maggiori quantità di lavoro, spingendo i salari verso l’alto e riducendo la dimen­

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sione dell’esercito industriale di riserva composto dai di­ soccupati. Dato che all’aumentare dei salari il saggio di plusvalore dovrebbe diminuire, anche il saggio di profitto varierebbe nella stessa direzione. La reazione dei capitali­ sti di fronte all’aumento dei salari e alla riduzione dei pro­ fitti sarebbe quindi di sostituire lavoratori impiegati con macchinari, cioè di incrementare la composizione organi­ ca del capitale, per cui (se il saggio di plusvalore rimanesse invariato) i profitti sarebbero spinti ulteriormente verso il basso. Insomma, Marx intendeva dire che ogni singolo capitalista, con la propria naturale reazione davanti all’aumentare dei salari e al ridursi dei suoi profitti, avrebbe intrapreso azioni che avrebbero in effetti ancor più ridotto il saggio di profitto nel sistema economico. Anche il processo concorrenziale sul mercato dei beni avrebbe come conseguenza una progressiva riduzione del saggio di profitto, poiché i capitalisti cercherebbero costan­ temente di ridurre i costi di produzione per poter vendere i beni finali a un prezzo inferiore. Tale spinta competitiva tra i capitalisti li porterebbe a cercare nuovi e meno costo­ si metodi di produzione per ridurre il tempo di lavoro so­ cialmente necessario richiesto dalla produzione di una de­ terminata merce. Tuttavia queste nuove tecniche, più effi­ cienti, si risolverebbero quasi sempre in un aumento della composizione organica del capitale, la quale a propria vol­ ta (sempre nell’ipotesi di costanza del saggio di plusvalo­ re) avrebbe l’effetto di provocare una progressiva riduzio­ ne profitti. Nella nostra trattazione abbiamo finora mantenuto l’ipotesi che il saggio di plusvalore non vari in risposta agli incrementi della composizione organica del capitale, e che quindi esso sia determinato da forze di altro tipo rispetto a quelle che determinano la composizione organica del capitale. L’analisi di Marx dei fattori che influenzano il saggio di plusvalore, tuttavia, indica che egli è ben consa­ pevole della connessione che di fatto esiste tra questi due elementi: se la composizione organica del capitale aumen­ ta, ciò si traduce in una sostituzione di lavoratori impiega­ ti con macchinari e, come conseguenza della caduta dei salari, in un aumento del saggio di plusvalore e quindi del saggio di profitto. In aggiunta a questi effetti si verificherà

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un incremento nella produttività del lavoro e, a seconda di come tale aumento verrà diviso tra capitale e lavoro, esso condurrà in modo piuttosto probabile a un aumento del saggio di plusvalore. Dunque, il fatto che il profitto manifesti una caduta tendenziale nel lungo periodo dipende dal confronto tra il tasso di variazione della composizione organica del capita­ le e il tasso di variazione del saggio di plusvalore: dal mo­ mento che P = S '(l-Q ), se Q aumenta a un ritmo superio­ re a quello di S' allora P diminuirà; se Q e S' aumentano in modo proporzionale P rimarrà sostanzialmente invariato; se Q aumenta più lentamente di S', P aumenterà nel lungo periodo. La questione può però essere affrontata all’inter­ no di una prospettiva più ampia. Al procedere dell’accu­ mulazione ci si può aspettare che i rendimenti decrescenti sul capitale abbassino i saggi di profitto; ma l’accumulazio­ ne di capitale è abbinata allo sviluppo tecnologico, che ri­ duce i costi e per questa via aumenta il tasso di profitto. La dinamica tendenziale di lungo periodo del tasso di pro­ fitto dipende quindi dal confronto tra il tasso di accumu­ lazione e il tasso di sviluppo tecnologico, e l’effetto netto dell’operare di queste forze contrapposte non può essere determinato a livello teorico, ma rappresenta piuttosto una questione di natura empirica. L’analisi del fenomeno della caduta tendenziale del sag­ gio di profitto è condotta da Marx in base all’ipotesi che il saggio di plusvalore sia costante, ma ciò non significa che egli non sia consapevole dell’esistenza di numerose forze che premono nella direzione di un suo aumento nel corso del tempo. Ad esempio, una reazione tipica dei capitalisti di fronte al diminuire del saggio di profitto è quella di in­ crementare la lunghezza della giornata lavorativa o di far aumentare il prodotto per ora di lavoro attraverso una migliore organizzazione del lavoro. In aggiunta a ciò gli aumenti della composizione organica del capitale allarghe­ rebbero la dimensione dell’esercito industriale di riserva, con una conseguente caduta dei salari e aumento del sag­ gio di plusvalore. Vi è poi il fenomeno, frequente al tempo di Marx, per cui donne e bambini possono essere impiega­ ti a salari inferiori a quelli degli altri lavoratori, e attraver­ so possibili ed opportune sostituzioni si può pervenire a un

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aumento del saggio di plusvalore. Ancora, se i beni che co­ stituiscono una quota significativa del reddito reale da la­ voro, quali il cibo, potessero essere acquistati da paesi stra­ nieri a un prezzo inferiore a quello interno, l’effetto sareb­ be nuovamente quello di ridurre il valore del capitale va­ riabile sotto forma di salari monetari e di aumentare il sag­ gio di plusvalore. Infine, come riconosciuto dallo stesso Marx, tra tutte queste cause di variazione nel tempo del saggio di plusvalore deve essere senz’altro annoverato an­ che il progresso tecnico. Infatti, in termini generali, que­ st’ultimo consente di sostituire l’attrezzatura industriale esistente con una dal costo monetario inferiore: un impian­ to che oggi produce 10.000 paia di scarpe e costa un mi­ lione di dollari potrà essere rimpiazzato in futuro da un impianto che produrrà la stessa quantità di prodotto con un investimento di soli 750.000 dollari. In pratica, aumen­ tare l’output ottenibile dalla dotazione di capitale non im­ plica necessariamente aumentare il valore monetario della dotazione stessa. Si tratta di una caratteristica importante poiché il saggio di profitto e la composizione organica del capitale sono entrambe entità di natura monetaria. Per Marx la conclusione obbligata di questo ragiona­ mento è che esistono alcune forze che nel corso del tempo sono in grado di spingere verso l’alto il saggio di sovrap­ più e la composizione organica del capitale, e questo an­ che mantenendosi all’interno della struttura del modello esposto in precedenza. La direzione tendenziale seguita dal saggio di profitto, quindi, è legata ai saggi relativi di incre­ mento per quelle due variabili: Marx ipotizza che in ogni caso esso sarebbe costantemente diminuito, sebbene il pro­ prio modello non sappia offrire un solido fondamento teo­ rico che giustifichi questa posizione. Si può anzi dire che Marx, Smith, Ricardo e J.S. Mill fossero tutti giunti a que­ sta conclusione sostanzialmente per le medesime ragioni. L’elemento veramente cruciale nell’analisi di questo genere di problemi è il tasso di sviluppo tecnologico, che rappresenta peraltro una variabile estremamente difficile da prevedere. A parità di altre condizioni, infatti, un au­ mento della spesa per investimenti o dell’accumulazione di capitale provocherà, per l’operare dei rendimenti decre­ scenti, una caduta del saggio di profitto; d’altro canto, sem­

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pre a parità di altre condizioni, ci si può aspettare che lo sviluppo tecnologico abbia come conseguenza un aumen­ to del saggio di profitto. Riuscirà il futuro sviluppo tecno­ logico a progredire a un tasso sufficiente a controbilancia­ re i rendimenti decrescenti indotti dall’accumulazione di capitale? Si tratta di una domanda a cui è estremamente difficile dare una risposta, soprattutto perché gli economi­ sti non hanno a disposizione nessuna teoria capace di spie­ gare in modo veramente soddisfacente il tasso di sviluppo tecnologico, e in assenza di tale teoria essi sono sempre stati propensi a sottostimare il tasso atteso del progresso tecnico futuro. Questo è anche il motivo per il quale Smith, Ricardo e J.S. Mill erano giunti alla conclusione che il sag­ gio di profitto sarebbe diminuito con l’andare del tempo, e per il quale Malthus aveva creduto di poter concludere che la popolazione sarebbe cresciuta a una velocità supe­ riore a quella dell’offerta di cibo. Si può rappresentare più precisamente questa problematica con l’ausilio del dia­ gramma della figura 6.1.I

F ig. 6.1. La caduta tendenziale del saggio di profitto.

I rendimenti decrescenti che fanno seguito all’accumu­ lazione di capitale (o alla spesa per investimenti, come si direbbe oggi) sono rappresentati dalla curva inclinata ver­ so il basso M: a parità di altre condizioni, infatti, un au-

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mento dell’accumulazione di capitale pari a AC = (C2—Q) provoca una diminuzione del saggio di profitto da P1 a P2 proprio a causa dei rendimenti decrescenti. Ma a parità di altre condizioni occorre anche considerare che il progres­ so tecnico aumenta il saggio di profitto per ogni dato livel­ lo di capitale, in un modo che può essere illustrato per mezzo di uno spostamento verso l’alto della curva M fino a M'. Aumenti dell'accumulazione di capitale comportano dunque spostamenti lungo l’asse orizzontale, mentre gli effetti del progresso tecnico comportano spostamenti ver­ so l’alto della curva M. Nell’esempio della figura 6.1 il progresso tecnico ha più che controbilanciato i rendimen­ ti decrescenti associati alla maggiore accumulazione di ca­ pitale, così che il saggio di profitto è aumentato da P, a P5; ma si può facilmente constatare che esistono altre due possibilità, cioè che la M' si collochi in alto quel tanto che basta a non far variare il saggio di profitto, oppure che il saggio di profitto si riduca con il passare del tempo. Di nuovo, quel che avverrà effettivamente può essere determi­ nato solo facendo riferimento ad informazioni di natura empirica, e non sulla base della pura teoria; e si tenga an­ che conto che, sfortunatamente, i problemi statistici legati alla misurazione dei cambiamenti del saggio di profitto all’interno del sistema economico nel corso del tempo sono problemi estremamente complessi. Marx era convinto che, in ogni caso, il saggio di profit­ to sarebbe tendenzialmente diminuito, anche perché tale caduta tendenziale rappresentava ai suoi occhi null’altro che la manifestazione di una delle contraddizioni tra forze della produzione e rapporti di produzione presenti nel si­ stema. Tale fenomeno sarebbe infatti stato la diretta con­ seguenza dell’attività dei capitalisti, anch’essi partecipi del meccanismo che avrebbe determinato la caduta finale del sistema. Nel modello marxiano la caduta tendenziale del saggio di profitto è dunque uno degli ingredienti che pro­ vocano il crollo del capitalismo, mentre nel modello classi­ co è il sentiero che conduce allo stato stazionario: per Marx esso è inoltre una parte costitutiva dell’analisi delle crisi economiche, della progressiva concentrazione nelle indu­ strie, e del concetto (successivamente sviluppato da Lenin) di imperialismo.

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Gli economisti marxisti della prima generazione del ventesimo secolo (tra i quali, ad esempio, Paul Sweezy e Joan Robinson) hanno sostenuto che la conclusione marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto in un’economia capitalista fosse una conclusione non corret­ ta; questa posizione non è invece accolta da alcuni marxi­ sti contemporanei, per i quali la caduta del saggio di pro­ fitto nel sistema capitalistico è una delle ragioni dell’insta­ bilità del sistema stesso. L!origine delle crisi economiche Un’anomalia presente nell’analisi marxiana del capita­ lismo è rappresentata dal fatto che Marx accennò ripetu­ tamente all’esistenza delle crisi economiche (quelle che oggi chiameremmo depressioni), senza peraltro approdare alla formulazione di una teoria compiuta del ciclo econo­ mico. Tutta la sua analisi delle cause delle fluttuazioni nel livello generale dell’attività economica è infatti inestricabil­ mente legata alla più ampia descrizione delle contraddizio­ ni implicite nel sistema capitalistico, ed è quindi scorretto attribuire a Marx una sua propria teoria del ciclo econo­ mico, cosa che invece può essere detta con riferimento ad autori marxisti successivi. Egli si limitò piuttosto a sugge­ rire una serie di motivi per cui si hanno le fluttuazioni economiche, senza mai organizzarli chiaramente nei suoi scritti. Ciò non significa comunque che Marx non fosse pienamente convinto che le depressioni periodiche che ca­ ratterizzano l’economia di tipo capitalistico rappresentas­ sero una della principali contraddizioni tra le forze della produzione e i rapporti di produzione. Procedendo nel­ l’esame più dettagliato del fenomeno delle fluttuazioni eco­ nomiche, il nostro compito consisterà nell’esporre con la maggiore chiarezza possibile, a dispetto dell’incompletez­ za della trattazione originale, le varie intuizioni marxiane sulla loro natura e sulle loro cause. Di fatto la posizione marxiana su questo tema, che vede nelle fluttuazioni periodiche dell’economia una parte inte­ grale del processo capitalistico, rappresenta un’importan­ te eccezione rispetto all’adesione solitamente accordata al

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modello classico e alle sue ipotesi di fondo. Fra le princi­ pali premesse dell’economia politica classica vi era infatti l’accettazione della legge di Say, ovvero di quel principio secondo cui, al di là di fluttuazioni di minore importanza nel livello del prodotto, un’economia capitalista avrebbe manifestato la tendenza ad operare sempre a un livello corrispondente al pieno impiego delle risorse. Marx attac­ cò questa concezione del funzionamento dell’economia sostenendo che essa rifletteva un’immagine distorta e sto­ ricamente falsa del capitalismo. Egli ammetteva che in una semplice economia di baratto i soggetti economici produ­ cono beni, o per il valore d’uso che ne possono trarre con­ sumandoli direttamente, o per il valore d’uso che ne trag­ gono barattandoli, e che in tali circostanze la produzione e il consumo sono perfettamente sincronizzati: se qualcu­ no produce delle scarpe, lo fa per metterle ai piedi o per scambiarle, ad esempio, con del cibo. La sola ragione che presiede all’attività economica, o alla produzione, è quindi quella di ottenere valori d’uso: l’introduzione della mone­ ta in un sistema economico di questo tipo non distoglie necessariamente la produzione da questa sua finalità: in un’economia monetaria, infatti, i produttori scambiano beni contro moneta, e la moneta è a sua volta scambiata contro altri beni che apportano un valore d ’uso a chi li consuma. In un sistema economico di questo tipo la mo­ neta è dunque l’intermediario degli scambi che facilita la divisione del lavoro e il commercio. Possiamo rappresen­ tare in modo schematico, come segue, i due tipi di sistema economico appena descritti: economia di baratto economia monetaria

M->M

M = merci D = denaro

Il vero problema che si ha con il capitalismo, secondo Marx, è che esso non coincide semplicemente con un’eco­ nomia di baratto a cui sia stata aggiunta la moneta quale intermediario degli scambi. Il capitalismo comporta inve­ ce un’importante modifica della finalità dell’attività econo­ mica, che dalla produzione di valori d ’uso si rivolge ora alla produzione di valori di scambio. Il capitalista, ossia colui

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che dirige il processo produttivo, lo fa per trarne dei pro­ fitti, per cui entra nel mercato come portatore di denaro, acquista i vari fattori della produzione e li coordina in vi­ sta della produzione delle merci; allorché le merci siano state prodotte, egli le cede sul mercato in cambio di nuovo denaro, e il suo successo è misurato esattamente dal plus­ valore che egli riesce a realizzare, ovvero dalla differenza tra le quantità iniziale e finale di denaro a sua disposizio­ ne. Un’economia di tipo capitalistico può perciò essere schematicamente rappresentata in questo modo: D -> M ^ D ' dove la differenza AD tra D ' e D rappresenta il plusvalore realizzato dal capitalista. Marx sottolineò ripetutamente che la produzione nell’economia capitalista è orientata alla realizzazione di valori di scambio e di profitti, e questo lo condusse a criticare Ricardo per aver accettato la legge di Say, sulla base della considerazione che tale legge implica l’assenza di qualsiasi differenza fondamentale tra un’eco­ nomia di baratto e un’economia capitalista, e una conce­ zione della moneta come semplice mezzo di scambio atto a facilitare la divisione del lavoro e il commercio. Il punto centrale di tutto il ragionamento è che in un’economia di baratto, o in un’economia dove la moneta abbia la sola funzione di intermediario degli scambi e nel­ la quale tutta l’attività economica è orientata alla produ­ zione di valori d ’uso, il problema della sovrapproduzione non si pone nemmeno: i beni verranno prodotti solo quan­ do qualcuno è intenzionato a consumarli o a cederli con­ tro altre merci che intende consumare. In un’economia capitalista, orientata alla realizzazione di valori di scambio e di profitti, la sovrapproduzione diventa invece una pos­ sibilità concreta. L’approccio di fondo con cui Marx si accostò allo studio delle fluttuazioni economiche fu quello di esaminare come avrebbero reagito i capitalisti una volta posti di fronte a variazioni nel saggio di profitto, ovvero a variazioni del rapporto AD/D, o P, e la sua conclusione fu che le variazioni nel saggio di profitto avrebbero indotto i capitalisti a modificare le loro spese per investimenti, indi­ viduando precisamente nella volatilità di queste spese la

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causa principale delle fluttuazioni nel livello dell’attività eco­ nomica. In questo modo egli diede origine a un approccio tuttora condiviso da molti macroeconomisti contemporanei. Le fluttuazioni cicliche Uno dei modelli di fluttuazione economica suggeriti da Marx è quello delle fluttuazioni cicliche o ricorrenti: col­ pito dalla crescita straordinaria dell’industria tessile che si era verificata in Inghilterra nella prima metà dell’Ottocen­ to, egli ipotizzò che un’improvvisa accelerazione del pro­ gresso tecnologico potesse generare un ciclo economico. Tale accelerazione avrebbe infatti riguardato anche l’accu­ mulazione del capitale e, con essa, la domanda di lavoro da parte delle imprese: la dimensione dell’esercito indu­ striale di riserva si sarebbe ridotta, i salari sarebbero cre­ sciuti, il plusvalore diminuito e così pure il saggio di plus­ valore e il saggio di profitto. La riduzione del saggio di profitto avrebbe a sua volta decelerato l’accumulazione di capitale, innescando una spirale depressiva per l’intero si­ stema economico. La fase di depressione economica, se­ condo Marx, avrebbe tuttavia contenuto in sé quegli ele­ menti che presto o tardi avrebbero generato una nuova espansione: con il contrarsi della produzione e l’infoltirsi dell’esercito industriale di riserva dei disoccupati, infatti, sarebbe senz’altro cresciuta la pressione competitiva sul livello di salario, la cui diminuzione avrebbe migliorato le opportunità di profitto. A questo punto livelli di profitti superiori avrebbero stimolato il processo di accumulazio­ ne del capitale, e l’attività economica avrebbe ripreso quo­ ta con l’inizio della fase espansiva del ciclo. Marx suggerì in questo modo un modello di fluttuazione economica che potremmo indicare come ciclo economico ricorrente. A suo modo di vedere, però, non esisteva soltanto il meccanismo auto-correttivo delle depressioni appena descritto, ma ve n’era un secondo legato alla distruzione dei valori capitali6. 6 Tale «distruzione» può derivare sia dal deprezzamento del valore dei beni capitali utilizzati nel processo produttivo dovuto a mutamenti delle aspettative, sia da fenomeni di obsolescenza tecnologica (N.cl.C.).

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Stante la natura monetaria del calcolo del profitto, attività che per via del valore inflazionato del loro patrimonio in seguito alla fase espansiva del ciclo non risultavano profit­ tevoli, sarebbero ritornate ad esserlo quando tale valore si fosse ridotto nel corso di una fase depressiva. Un ciclo che avesse preso vita in virtù di un’accelerazione del progresso tecnologico avrebbe potuto dunque generare in futuro ul­ teriori cicli via via che le attrezzature impiegate nella pro­ duzione si fossero logorate: se tutti gli impianti e gli immo­ bilizzi fossero stati ammortizzati regolarmente nel corso del tempo, vi sarebbe stato un livello costante di investimenti destinati a rimpiazzare il capitale obsoleto; si sarebbe po­ tuto generare invece un ciclo economico quando i beni capitali, immessi nella produzione durante un’accelerazio­ ne del progresso tecnologico, d’improvviso avessero richie­ sto di essere rimpiazzati immediatamente. Le crisi derivanti da sproporzione Una volta che da un regime di baratto si sia passati a un sistema economico caratterizzato da un elevato livello di specializzazione, dall’uso della moneta, e dal sistema del mercato, coordinare i livelli di produzione dei vari settori potrebbe creare alcune difficoltà. In un sistema capitalistico è il meccanismo del mercato a svolgere questa funzio­ ne, e Marx mise in discussione proprio la capacità che il mercato potesse assolvere senza problemi il compito di rial­ locare le risorse tra i vari settori. Si supponga che vi sia un aumento della domanda dei prodotti dell’industria A e una diminuzione della domanda dei prodotti dell’industria B. In un’economia di tipo capitalistico dove tutto funzioni regolarmente, i prezzi e i profitti dell’industria A aumen­ terebbero mentre diminuirebbero quelli dell’industria B, e la reazione dei capitalisti a questo mutamento nei profitti sarebbe ovviamente quella di spostare risorse dall’industria in declino verso quella in espansione. In questo modo l’ec­ cesso di offerta, o la sovrapproduzione, che si è verificato nell’industria B sarebbe un fenomeno di breve durata e non avrebbe alcuna influenza percettibile sul livello gene­ rale dell’attività economica. La sovrapproduzione in una

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singola industria, quella che Ricardo chiamava saturazione parziale, non si diffonderebbe a tutto il resto del sistema economico così da causare un calo generale dell’attività economica, o una depressione. Quale fu l’argomentazione di Marx a proposito di que­ sto processo di riallocazione? Egli suggerì che l’offerta e la domanda non sempre garantirebbero il funzionamento di tale meccanismo all’interno dei vari sottomercati di un si­ stema economico, e che pertanto l’intero processo di rial­ locazione sarebbe molto meno agevole di quanto il model­ lo classico tenderebbe a far supporre. Anzi, in aperto con­ trasto con le posizioni degli economisti classici, Marx so­ stenne che la disoccupazione creata nell’industria B in se­ guito al contrarsi della domanda avrebbe potuto estender­ si al resto del sistema e provocare un declino generale del­ l’attività economica. La teoria economica classica identifi­ cava nel mercato il luogo dove si sarebbe risolto il proble­ ma dell’allocazione delle risorse, e sottolineava l’importan­ za dell’equilibrio dei mercati, ammettendo l’esistenza di eventuali squilibri di breve durata che avrebbero richiesto una transizione indolore nel passaggio a una nuova posi­ zione di equilibrio. Marx partì invece dall’idea di un fun­ zionamento non armonico del sistema e cercò di rintrac­ ciarvi le contraddizioni fondamentali che avrebbero osta­ colato il libero dispiegarsi delle forze del mercato. La teo­ ria ortodossa non ha mai prestato molta attenzione alle teorie di Marx sulle crisi derivanti da sproporzione, in base alla considerazione che una singola industria è talmente piccola rispetto alla globalità del sistema economico da rendere trascurabile la probabilità che la sovrapproduzio­ ne si allarghi fino a provocare un declino nel livello genera­ le dell’attività economica. Gli esponenti della teoria orto­ dossa, inoltre, sostengono che la mobilità delle risorse è molto superiore a quanto Marx fosse disposto a concede­ re. Tuttavia, la sovrapproduzione che si verificasse in una delle industrie trainanti dell’intero sistema, quale ad esempio l’industria automobilistica, potrebbe essere ragio­ nevolmente ritenuta capace di estendersi al resto dell’eco­ nomia.

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La caduta tendenziale del saggio di profitto e le crisi econo­ miche Le due teorie marxiane delle crisi economiche che ab­ biamo esaminato, vale a dire quella delle fluttuazioni cicli­ che e quella delle crisi derivanti da sproporzione, rappresen­ tano un rifiuto esplicito della legge di Say. La direzione in­ trapresa da Marx fu quella di integrare la legge della caduta tendenziale del profitto alFinterno di queste due spiegazio­ ni delle crisi. Le sue teorie secondo le quali, rispettivamen­ te, le depressioni economiche sono il risultato di uno svilup­ po irregolare del progresso tecnologico, le crisi derivanti da sproporzione si verificano allorché la sovrapproduzione in una singola industria influenza in modo negativo il resto del sistema economico, e il saggio di profitto si sarebbe progres­ sivamente abbassato fino ad annullarsi, sono dunque tutte implicazioni diverse di una concezione unitaria che consi­ dera il capitalismo incapace di garantire la stabilità del livel­ lo dell’attività economica e il raggiungimento della piena occupazione delle risorse presenti all’interno del sistema. A dire il vero Marx aveva anche un’altra spiegazione delle depressioni, o crisi economiche, come le chiamava lui stesso: si tratta di una spiegazione davvero sorprendente, in quanto basata sull’accettazione della legge di Say. Egli affermò che anche ammettendo la validità di tutte le ipo­ tesi a monte della legge di Say, il capitalismo avrebbe co­ munque sperimentato delle difficoltà a causa delle proprie implicite contraddizioni, che avrebbero comunque genera­ to periodi di crisi economica. Nel modello marxiano un’economia capitalista dipende essenzialmente dal com­ portamento dei capitalisti, le cui reazioni di fronte alle variazioni dei saggi di profitto e delle aspettative di profit­ to hanno un ruolo centrale nella spiegazione delle crisi economiche. Marx si appoggiò alla propria legge della ca­ duta progressiva del saggio di profitto, valida nel lungo periodo, per spiegare le fluttuazioni di breve periodo nel­ l’attività economica, sostenendo che i capitalisti, alla ricer­ ca di profitti sempre maggiori, avrebbero incrementato la composizione organica del capitale e per questa via provo­ cato una caduta del saggio di profitto. La reazione siste­ matica dei capitalisti a questa progressiva diminuzione sa­

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rebbe consistita in una riduzione delle spese per investi­ menti, riduzione che avrebbe così generato fluttuazioni nell’attività economica e quindi anche fenomeni di crisi. In questo modo Marx provò a spiegare l’esistenza di crisi persino in un modello che accettasse la legge di Say. Le crisi economiche: un riepilogo La spiegazione data da Marx circa le cause e la natura del ciclo economico non solo è strettamente connessa alla sua più vasta analisi del capitalismo, ma non è nemmeno sviluppata in modo completo, così che alla fine l’impres­ sione che se ne trae è che egli non avesse in realtà piena­ mente elaborato e sviluppato in tutte le sue implicazioni alcuna vera teoria. Questo fatto ha in seguito generato una gran quantità di controversie tra gli stessi marxisti e tra gli storici del pensiero economico a proposito della natura e del significato dei contributi marxiani alla teoria del ciclo economico. V’è anche una disputa in merito all’importan­ za relativa delle varie teorie delle crisi abbozzate da Marx, ma almeno in linea generale gli storici del pensiero econo­ mico concordano nell’individuarvi tre distinte spiegazioni delle fluttuazioni economiche: la caduta tendenziale del saggio di profitto; l’introduzione di nuova tecnologia a ondate irregolari nel tempo; le sproporzioni che si verifi­ cano in un singolo settore e si diffondono fino a generare una depressione dell’attività economica a livello dell’inte­ ro sistema. Negli scritti di Marx possono anche essere rin­ tracciati accenni ancora più vaghi a un’altra spiegazione delle fluttuazioni economiche, che le farebbe derivare da sottoconsumo, ma si tratta di accenni che non sono mai stati compiutamente elaborati e sviluppati. Nonostante lo stadio di scarso approfondimento in cui Marx lasciò le proprie teorie delle crisi economiche, egli affermò chiaramente che le fluttuazioni del livello dell’at­ tività economica occupavano un ruolo fondamentale nelle economie capitalistiche e costituivano un’ulteriore manife­ stazione di quelle contraddizioni fondamentali del capita­ lismo che avrebbero condotto al suo crollo finale. E inol­ tre importante notare che egli le considerò come intrinse­

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che al funzionamento del sistema, in quanto basate sul comportamento stesso dei capitalisti ispirato alla ricerca dei profitti e conseguentemente reattivo di fronte alle va­ riazioni del saggio di profitto. Come conclusione si può senz’altro dire che, per quanto le sue teorie delle crisi eco­ nomiche presentassero alcune lacune dal punto di vista della loro coerenza interna, non vi può essere alcun dub­ bio che la concezione di Marx del capitalismo, visto come sostanzialmente instabile e soggetto a fluttuazioni periodi­ che nell’attività economica a causa delle sue stesse contrad­ dizioni interne, rappresenta una intuizione molto impor­ tante sul funzionamento del capitalismo come sistema eco­ nomico. Ciò nonostante, la teoria economica ortodossa ri­ fiutò di prendere in seria considerazione la visione marxia­ na dell’instabilità del capitalismo fino agli anni trenta di questo secolo. La concentrazione e centralizzazione del capitale Sebbene nello schema marxiano l’ipotesi di base sul funzionamento dei mercati sia quella della concorrenza perfetta con un grande numero di piccole imprese in cia­ scuna industria, lo stesso Marx era consapevole del feno­ meno della crescita delle dimensioni delle imprese e del conseguente indebolimento della logica concorrenziale al crescere del potere monopolistico. Egli giunse alla conclu­ sione che tale fenomeno derivava sia dalla concentrazione che dalla centralizzazione progressive del capitale. Una crescente concentrazione del capitale si verifica allorché singoli capitalisti accumulano quantità di capitale sempre maggiori, e quindi aumentano l’ammontare complessivo di capitale soggetto al loro controllo: le dimensioni dell’im­ presa o dell’unità produttiva aumentano corrispondente­ mente, e il grado di concorrenza sui mercati tende a dimi­ nuire. L’altra ragione, ancor più importante, addotta per spie­ gare il ridursi della concorrenza sui mercati è quella legata alla centralizzazione del capitale, che si realizza in seguito a una redistribuzione del capitale già esistente tale da la­ sciarne il possesso e il controllo nelle mani di un numero

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sempre minore di persone. Marx sostenne che imprese di dimensioni superiori sarebbero state in grado di consegui­ re delle economie di scala e di produrre a costi medi infe­ riori a quelli delle imprese più piccole, così che la concor­ renza tra le prime e le seconde avrebbe portato alla scom­ parsa delle imprese di dimensioni più ridotte e alla crea­ zione di monopoli. La lotta della concorrenza viene condotta rendendo più a buon mercato le merci. Il buon mercato delle merci dipende, ceteris paribus, dalla produttività del lavoro, ma questa a sua volta dipende dalla scala della produzione. I capitali più grossi sconfiggono perciò quelli minori'. La centralizzazione crescente del capitale è ulteriormen­ te agevolata, per Marx, dallo sviluppo di un sistema del credito e di forme societarie di organizzazione degli affari, e sebbene quest’ultimo fenomeno fosse allora appena agli inizi, Marx dimostrò notevole lungimiranza nel riconosce­ re alcune delle conseguenze di lungo periodo legate alla crescita di un sistema economico dominato dai grandi gruppi industriali. Il capitalismo delle società per azioni è caratterizzato dal fatto che le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle imprese private. E la soppressione del capitale come proprie­ tà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stes­ so. Trasformazione del capitalista realmente operante in sempli­ ce dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capita­ listi monetari*. La posizione di Marx fu dunque di ritenere che l’accu­ mulazione del capitale, le economie di scala, la crescita dei mercati del credito e la prevalenza delle società di capitali nell’organizzazione degli affari avrebbero condotto alla concentrazione e alla centralizzazione del capitale nelle78 7 Karl Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Oekonomie-, trad. it. Il capitale. Critica dell1economia politica, 3 voli., Roma, Editori Riuniti, 1964, voi. I, sezione VII, capitolo XXIII, paragrafo II, p. 686. 8 Ibidem, voi. Ili, parte I, sezione V, capitolo XXVII, p. 518.

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mani di un numero sempre minore di persone. Il processo concorrenziale avrebbe finito per autodistruggersi e la grande impresa avrebbe assunto poteri monopolistici e introdotto una netta separazione tra proprietà e controllo del capitale, fonte di numerose conseguenze indesiderabili a livello sociale: una nuova aristocrazia finanziaria, una nuova categoria di paras­ siti nella forma di escogitatori di progetti, di fondatori e di di­ rettori che sono tali semplicemente di nome; tutto un sistema di frodi e di imbrogli che ha per oggetto la fondazione di società, l’emissione e il commercio di azioni. E proprietà privata senza il controllo della proprietà privata9. Fra le molte avanzate da Marx, nessun’altra previsione circa il futuro del capitalismo si è probabilmente rivelata più profetica di questa legge della concentrazione e cen­ tralizzazione del capitale. Si trattava tuttavia di una predi­ zione non sostenuta da alcun ragionamento dotato di una qualche solidità, poiché Marx non sviluppò un’analisi ap­ profondita delle forze che avrebbero indotto la crescita delle società di capitali e del potere di monopolio. Secon­ do Marx la crescita della grande impresa dotata di potere monopolistico altro non era che l’ennesimo esempio di quelle contraddizioni interne al capitalismo tra forze della produzione e rapporti di produzione che avrebbero alla fin fine decretato il crollo del sistema. Uimmiserimento progressivo del proletariato L’immiserimento progressivo del proletariato è la dizio­ ne utilizzata da Marx per riferirsi a un’altra delle contrad­ dizioni che avrebbero portato alla crisi finale del capitali­ smo. Di questa particolare tesi, oggetto di accesi dibattiti, sono state date tre diverse interpretazioni, non necessaria­ mente incompatibili tra di loro. 1) Secondo una prima interpretazione, il crescente im­ miserimento del proletariato in termini assoluti implica che 9 Ibidem, voi. Ili, parte I, sezione V, capitolo XXVII, pp. 520-521.

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il reddito reale della maggior parte dei lavoratori sarebbe diminuito con lo sviluppo del capitalismo, e se fosse stata la tesi originale di Marx, la storia dimostrerebbe chiara­ mente quanto si fosse sbagliato. 2) Una seconda interpretazione possibile fa riferimento a un crescente immiserimento del proletariato in senso relativo, volendo con ciò indicare che la quota del reddito nazionale spettante al proletariato diminuisce nel corso del tempo: se anche il reddito reale di ciascun membro del proletariato aumentasse, sarebbe il reddito relativo a dimi­ nuire. L’evidenza storica dei paesi sviluppati indica tutta­ via che i salari hanno rappresentato una quota proporzio­ nale del reddito nazionale significativamente costante nel corso del tempo, così che, di nuovo, se questa fosse stata l’idea originale di Marx, egli avrebbe avuto torto. 3) La terza ed ultima interpretazione della dottrina dell’immiserimento progressivo del proletariato è che essa ri­ guarda aspetti non economici della vita, ovvero il fatto che l’avanzare del capitalismo avrebbe assoggettato la maggio­ ranza delle persone al processo della produzione industria­ le, deteriorando progressivamente la qualità della vita. Se­ condo Marx, in effetti, non fa alcuna differenza che il red­ dito dei proletari aumenti o si riduca, perché «nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qua­ lunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiora­ re»101. Alla crescita dell’accumulazione del capitale infatti si accompagna «accumulazione di miseria, tormento di lavo­ ro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione mo­ rale»11. Tuttavia, dato che al momento non abbiamo a dispo­ sizione alcun indicatore attendibile della qualità della vita, non siamo nemmeno in grado di verificare la validità di quella previsione, anche se va ricordato che molti economi­ sti, a partire da Adam Smith fino a John Kenneth Galbraith, hanno posto ripetutamente in discussione l’idea che un red­ dito prò capite più elevato debba essere necessariamente associato con lo sviluppo di una società più desiderabile.

10 Ibidem, voi. I, sezione VII, capitolo XXIII, paragrafo IV, p. 706 (il corsivo è nel testo). 11 Ibidem. Il corsivo è nel testo originale.

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Di fatto Marx aderì, in tempi e luoghi diversi, a ciascu­ na delle tre interpretazioni deH’immiserimento progressi­ vo del proletariato sopra richiamate; vi fu però un momen­ to, compreso tra la pubblicazione del Manifesto del partito comunista del 1848 e il primo volume del Capitale nel 1867, in cui abbandonò questa posizione. E stato suggeri­ to che durante il lungo periodo di studio trascorso presso il British Museum Marx potrebbe aver acquisito la consa­ pevolezza del miglioramento degli standard di vita dei la­ voratori dell’industria ed essere giunto a una sorta di ritrat­ tazione; è vero, però, che egli continuò a tener fede alla convinzione che il reddito del proletariato in termini rela­ tivi sarebbe andato peggiorando nel tempo, pur in presen­ za di un incremento del reddito reale. Egli adoperò il ter­ mine salano di sussistenza per identificare la soglia mini­ ma fino alla quale il salario poteva essere spinto, riferen­ dosi a un concetto di sussistenza in termini culturali piut­ tosto che biologici, e riconobbe che tale livello di sussisten­ za dei salari sarebbe cresciuto nel corso del tempo. Infine, ma è forse l’aspetto più importante, egli fu sempre coeren­ te nel sostenere che una delle conseguenze meno deside­ rabili del capitalismo fosse il deterioramento di quel fatto­ re inafferrabile, ma importante, che va sotto il nome di qualità della vita: lavorare in una società capitalistica non darebbe alle persone la gratificazione che queste si potreb­ bero attendere dal lavoro. La specializzazione e la divisio­ ne del lavoro, insieme con tutte le altre condizioni che aumentano la produttività del lavoro, infatti, «mutilano l’operaio facendone un uomo parziale»12 poiché si realiz­ zano a spese di un lavoratore che, costretto ad eseguire «per tutta la vita sempre la stessa e unica operazione sem­ plice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento di quella operazione»13. Quali che fossero i benefici di ordine materiale ottenuti a livello aggregato con l’avvento del ca­ pitalismo, concluse Marx, esso avrebbe portato comunque con sé anche costi enormi, di natura intangibile, per gli individui destinati a far parte delle masse lavoratrici. 12 Ibidetn, voi. I, sezione VII, capitolo XXIII, paragrafo IV, p. 706. 13 Ìbidem, voi. I, sezione IV, capitolo XII, paragrafo II, p. 382.

KARL MARX

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Riepilogo Il lavoro analitico di Marx andò molto al di là della pura teoria economica, nel tentativo di incorporarvi elementi di riflessione filosofica e sociologica con una originalità e compattezza teoriche tali da rendere difficile l’estrapolazio­ ne dei contributi più specificamente economici. Nel suo sistema di pensiero tentò di rielaborare, com­ binandoli, aspetti della filosofia hegeliana, del pensiero socialista francese e dell’economia politica classica: l’obiet­ tivo dichiarato che egli si propose di raggiungere fu una spiegazione delle leggi che governano l’evoluzione del ca­ pitalismo, e a tal fine trovò utile applicare una particolare concezione della storia fondata sul materialismo dialettico. Mosso da intenti critici nei confronti del capitalismo, andò alla ricerca di quelle contraddizioni tra forze della produ­ zione e rapporti di produzione presenti nel sistema econo­ mico che avrebbero condotto alla crisi finale del capitali­ smo e all’emergere di un nuovo ordine economico, il so­ cialismo. In questo Marx, se da un lato prese le distanze tanto dallo scopo che dal metodo propri della teoria eco­ nomica ortodossa, dall’altro prese a prestito parecchi aspet­ ti della teoria ricardiana, giungendo a conclusioni marca­ tamente differenti da quelle dell’analisi classica per via della differente prospettiva ideologica adottata. In particolare egli ricorse alla teoria del valore-lavoro per un duplice motivo: dimostrare che nell’economia ca­ pitalista il proletariato viene sfruttato e spiegare le variabi­ li che determinano i prezzi relativi. In effetti, per quanto riguarda il secondo obiettivo egli fallì esattamente come aveva fallito Ricardo prima di lui, anche se questo non pregiudicò in alcun modo l’analisi delle leggi che governa­ no la dinamica del capitalismo; un’analisi, va detto, che non poggia direttamente su una teoria del valore-lavoro. La sua critica del sistema capitalistico —che è chiaramente il carattere più rilevante di tutta la sua opera —deve essere infatti valutata separatamente dalla sua teoria del valore, poiché, se anche la descrizione che egli diede delle leggi del movimento di un sistema capitalistico (l’esercito industria­ le di riserva dei disoccupati, la caduta tendenziale del sag­ gio di profitto, l'inevitabilità delle crisi economiche, la con­

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IL PENSIERO ECONOMICO CLASSICO

centrazione e la centralizzazione del capitale) manca di ri­ gore e di tecnica analitica e si presta ad essere generalizza­ ta in modo così vago da legittimare molte interpretazioni tra loro contraddittorie, non si deve dimenticare però che, dietro a tutte le possibili generalizzazioni, la sua visione del capitalismo, quale ordine economico dinamico e mutevo­ le, fu di una lucidità sconosciuta ai suoi predecessori. Va inoltre riconosciuto che il capitalismo basato sul laissez faire palesa delle difficoltà a mantenere la prosperità e a impedire disoccupazione e depressioni economiche, e che dalla fase della lotta concorrenziale sono emerse vincitrici le grandi società per azioni caratterizzate dalla separazio­ ne tra proprietà e controllo del capitale. Un aspetto tipicamente macroeconomico presente nel lavoro di Marx che ha mantenuto la sua rilevanza anche per gli economisti contemporanei è l’analisi delle crisi economi­ che, mentre dal punto di vista della microeconomia gli aspetti ancora attuali riguardano la concentrazione e centra­ lizzazione del capitale: ma di fatto nessuno di questi temi ha ancora ricevuto una trattazione adeguata nell’ambito della teoria economica ortodossa. In seguito alla trasformazione di molti dei paesi ad eco­ nomia socialista, l’orientamento di alcuni economisti va nella direzione di non ritenere più rilevante il lavoro di Marx. La nostra posizione è che un atteggiamento di que­ sto tipo sia sbagliato, poiché è vero che le sue predizioni non si sono rivelate corrette, ma è altrettanto vero che anche le predizioni degli economisti ortodossi si sono spes­ so rivelate sbagliate, senza che questo inficiasse automati­ camente la validità delle loro intuizioni. Lo stesso può dirsi a proposito dell’idea che Marx ave­ va di una «società buona»: il fatto che l’ideale platonico di una società buona urti con l’attuale idea occidentale non significa che l’idea di Platone non conti nulla, e quindi lo stesso si potrebbe dire nel caso di Marx. Con lo smantella­ mento della ex Unione Sovietica e, speriamo, con il raffred­ darsi del conflitto ideologico su scala planetaria, è possibi­ le anche che gli economisti occidentali siano in grado di affrontare in modo più obiettivo il concetto di alienazione e il substrato ideologico e filosofico del capitalismo e del­ l’economia di mercato.

Parte terza

Il pensiero economico neoclassico

Nel periodo immediatamente successivo al 1870 tre autori di diversa nazionalità e formazione intellettuale giunsero, in modo indipendente l’uno dall’altro, a suggeri­ re che il valore (o il prezzo) di un bene dipendesse dall’uti­ lità marginale che ne avrebbe potuto trarre il consumato­ re: si tratta, più precisamente, di William Stanley Jevons, che nel 1871 pubblicò in inglese la Teoria dell’economia politica; di Cari Menger, che nello stesso anno pubblicò i Principi di economia politica in tedesco; e infine di Léon Walras, un economista francese che insegnava in Svizzera, che tre anni dopo pubblicò in francese gli Pilementi di eco­ nomia politica pura. Il contributo decisivo dato alla teoria economica da questi scrittori (oltre che da Alfred Marshall, che già sul finire degli anni sessanta stava lavorando attor­ no alle stesse idee, ma che non le pubblicò fino al 1890) consiste nell’impiego dell’analisi marginalista. Con la loro opera essi diedero inizio a quello che sarebbe divenuto noto come pensiero economico neoclassico. Intorno agli anni novanta numerosi economisti diven­ nero consapevoli dell’applicabilità degli strumenti dell’ana­ lisi marginalista al problema della determinazione delle forze che governano la distribuzione del reddito, e si dedi­ carono all’elaborazione del concetto della produttività marginale dei fattori. Lo sviluppo dell’analisi marginalista durante questo periodo indirizzò l’attenzione dei teorici in modo pressoché esclusivo sulla problematica microecono­ mica, e fece sì che la teoria economica ortodossa (o neo­ classica) ignorasse, con un silenzio che si protrasse dal 1870 fino al 1930, questioni tipicamente macroeconomiche, in particolare il problema della determinazione del livello del reddito e del suo saggio di crescita. Nell’ambito della mi­

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IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

croeconomia il nuovo tipo di analisi venne applicato so­ prattutto al problema dell’allocazione di risorse scarse tra usi alternativi nei mercati concorrenziali. L’analisi marginalista è basata su un approccio metodologico fondamen­ talmente deduttivo, in quanto prevede l’impiego di modelli astratti del comportamento dei consumatori e delle impre­ se, che si assume agiscano in vista della massimizzazione della propria utilità o del proprio profitto. Lo sviluppo di questi modelli astratti, come avremo modo di vedere, non mancò di dare origine a controversie circa la metodologia ritenuta più appropriata per la scienza economica. Nonostante che Jevons, Menger e Walras possano tutti essere considerati tra i fondatori dell’analisi marginalista, pure essi vi si avvicinarono con diverse preoccupazioni. Dal punto di vista dei contenuti, infatti, Jevons e Menger si concentrarono sull’uso dell’analisi marginalista, il primo a livello del consumatore, il secondo a livello sia del consu­ matore che dell’impresa; per Walras, invece, l’impiego del­ l’analisi marginalista non rappresentava altro che un pun­ to di partenza verso la formulazione di un modello di equi­ librio economico generale. Inoltre, dal punto di vista del­ l’approccio analitico, Jevons e Menger si accontentarono di rintracciare dei semplici legami di causalità, mentre Walras colse il fenomeno più complesso dell’interdipen­ denza tra tutte le variabili economiche. In seguito al lavo­ ro di questi tre pensatori, Marshall si richiamò all’analisi marginalista e la utilizzò per la costruzione della sua anali­ si di equilibrio parziale, nella quale egli pure giunse peral­ tro a intravvedere il fenomeno dell’interdipendenza dei prezzi e delle attività economiche. Ed è proprio la maggio­ re ampiezza delle costruzioni teoriche di Walras e di Mar­ shall che può contribuire a spiegare l’influenza profonda da essi esercitata sul pensiero economico successivo. L’opera di Walras si differenzia da quella di Marshall in quanto la sua analisi è strutturata in modo tale che tutti i mercati siano considerati simultaneamente, così che ne ri­ sulta un approccio di equilibrio generale piuttosto che di equilibrio parziale. D ’altro canto questa diversità d’approc­ cio rispecchia una diversità nella posizione metodologica di questi due autori in merito allo scopo della scienza eco­ nomica. Marshall considera infatti la teoria economica

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come uno strumento di analisi utile a trattare le questioni del mondo reale; dunque, pur riconoscendo la validità di un approccio basato sull’equilibrio generale, ritiene che esso debba essere mantenuto sullo sfondo della trattazio­ ne e fatto emergere solo quando necessario. Walras, al contrario, era assai più preoccupato della struttura logicoformale del proprio schema teorico che non della possibi­ le applicazione che se ne sarebbe potuta dare alle questio­ ni di politica economica di immediata rilevanza pratica. Alfred Marshall e Léon Walras potrebbero entrambi rivendicare a pieno titolo la paternità del pensiero econo­ mico neoclassico moderno, per il quale il prezzo è deter­ minato dall’operare congiunto della domanda e dell’offer­ ta, all’interno di un insieme complesso di legami di inter­ dipendenza tra i vari aspetti dell’attività economica. Sono proprio questi due elementi centrali del pensiero neoclàs­ sico (ovvero la determinazione duale dei prezzi e la consa­ pevolezza dell’interdipendenza fra tutte le variabili) i fat­ tori che decretarono la scomparsa della teoria del valore lavoro, della teoria del valore basata sul costo di produzio­ ne e della teoria residuale della distribuzione del reddito, tutte proprie dell’economia politica classica. Dal momento che la genesi e l’elaborazione dell’analisi neoclassica devono farsi risalire, di fatto, a una serie di sviluppi teorici non solo numerosi, ma anche in qualche modo slegati tra di loro, saremo costretti a suddividere sull’arco di vari capitoli la nostra trattazione del periodo che va dal 1870 al 1900. Nel prossimo capitolo, dopo la presentazione di alcuni anticipatori dell’analisi marginalista, tratteremo con maggiore dettaglio le figure degli eco­ nomisti più importanti, ossia Jevons, Menger e Walras i quali, agli inizi degli anni settanta, applicarono tale analisi prevalentemente alla teoria della domanda. L’applicazione alla teoria della produzione, con il conseguente risultato della nozione di produttività marginale, è studiata nel cor­ so dell’ottavo capitolo, assieme ai contributi successiva­ mente proposti in ordine alla formulazione di una teoria del capitale e dell’interesse. I due capitoli finali di questa terza parte dedicata all’economia neoclassica espongono il sistema di pensiero dei due autori che per primi seppero compiutamente modellare una teoria del funzionamento

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IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

dei mercati: il nono capitolo esamina il modello di equili­ brio generale, presentato per la prima volta da Léon Walras nel 1874, mentre il decimo capitolo esplora la costruzione teorica di Alfred Marshall, con la quale egli sviluppò la struttura di base dell’attuale analisi di equilibrio parziale (o analisi della domanda e dell’offerta) e cercò di dare so­ luzione a molte delle questioni, di natura sia teorica che metodologica, che si trovavano al centro del dibattito di quel periodo.

Capitolo settimo

Jevons, Menger e i fondatori austriaci dell’analisi marginalista

In commercio quel ch’è passato è passato per sempre; ad ogni momento ricominciamo di bel nuovo: giudichiamo del valore delle cose te­ nendo presente quella che potrà essere la loro utilità futura. William Stanley Jevons Gli ultimi trent’anni del diciannovesimo secolo videro la nascita della teoria microeconomica moderna. Nel cor­ so di questo periodo, infatti, si andò formando quel nuovo complesso di strumenti analitici - il più importante dei quali fu senz’altro l’analisi marginalista - che agevolò il passaggio dalla scienza economica classica a quella neoclas­ sica. Al di là della sua intrinseca utilità, lo sviluppo del­ l’analisi marginalista si segnala anche perché diede inizio a un uso sempre più significativo degli strumenti matemati­ ci all’interno della teoria economica. Eppure, nonostante questi aspetti, l’accettazione e la piena consapevolezza del­ l’importanza dell’analisi marginalista, così come delle sue implicazioni teoriche, non si ebbero istantaneamente, ma furono il risultato di un lento e graduale processo continua­ to lungo tutto il periodo che va dal 1870 al 1900 e oltre. La prima notevole applicazione dell’analisi marginalista si riferisce alla teoria della domanda: subito dopo il 1870 tre economisti accademici, in modo indipendente l’uno dall’altro, applicano l’analisi marginalista alla teoria della domanda e giungono a sviluppare il concetto dell’utilità marginale. Due di loro, .Leon Walras e Cari Menger, la applicano anche alla teoria dell’impresa, e sempre Walras si spinge ancora più oltre nel coglierne la portata teorica, arrivando a formulare il proprio modello di equilibrio eco­ nomico generale, di cui ci occuperemo nel nono capitolo. Sebbene tutti e tre i primi teorici del marginalismo con­ cordassero sul fatto che la scienza economica coincidesse

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IL p e n s if .r o e c o n o m i c o n e o c l a s s i c o

in larga misura con lo studio dell’allocazione delle risorse, o —come diciamo oggi —con la microeconomia, le loro opinioni sul metodo più appropriato da seguire erano di­ verse: Jevons sosteneva un approccio maggiormente basato sul lavoro empirico, Menger uno di tipo logico-deduttivo, Walras uno basato sull’impiego del calcolo matematico. Dopo aver illustrato tali questioni, al termine del capi­ tolo cercheremo di valutare l’influenza che questi tre gran­ di pensatori e capiscuola del marginalismo esercitarono sullo sviluppo successivo del pensiero economico. 1. Ascendenze storiche L’analisi marginalista è ormai completamente radicata nella scienza economica, ma la portata storica della nuova epoca del pensiero economico che si andò affermando sul finire del diciannovesimo secolo, può essere compresa con chiarezza solo collocandola sullo sfondo delle idee più ri­ levanti dell’economia politica classica che avevano domi­ nato la scena fin dal secolo precedente. Da questo punto di vista le posizioni assunte dai pri­ mi autori classici —si pensi per tutti alla figura di Adam Smith - rivelano un contrasto evidentissimo rispetto al nuovo tipo di analisi: essi, infatti, erano soprattutto inte­ ressati ad analizzare i processi dello sviluppo economico e a individuare e attuare quelle politiche economiche che avessero promosso ritmi sostenuti di crescita economica. Smith fu un pensatore orientato alla politica economica «contestualizzata» (secondo la definizione che ne abbiamo dato nel terzo capitolo), un macroeconomista studioso di problemi dello sviluppo che si interessò ben poco alla teo­ ria economica intesa in senso astratto. Di conseguenza anche il suo metodo (che d ’altra parte rifletteva la sua va­ sta preparazione nel campo degli studi umanistici e delle scienze sociali) inframmezzava costrutti teorici con mate­ riale storico e descrittivo, in modo ben differente dalla metodologia di impronta matematica che si sarebbe affer­ mata con il marginalismo. Un cambiamento dello scopo e del metodo della scien­ za economica si era già avuto, agli inizi del diciannovesi­

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mo secolo, grazie all’opera di Ricardo. Egli, per prima cosa, favorì il passaggio da un’analisi di tipo contestualizzato a una di tipo più astratto e deduttivo, sottolineando l’impor­ tanza che i modelli teorici così ottenuti possedessero una loro intrinseca coerenza logica; questo passaggio può for­ se essere considerato come quello che ha fornito i presup­ posti metodologici all’economia neoclassica. In secondo luogo, spinto dalla convinzione che la scienza economica non dovesse concentrarsi sulle questioni attinenti allo svi­ luppo dei sistemi economici ma piuttosto sulle forze che determinano la distribuzione funzionale del reddito nel corso del tempo, si dedicò all’esame di quella che allora era conosciuta come la teoria del valore (o del prezzo), e che oggi ha preso il nome di microeconomia. E proprio nello studio delle forze che determinano la dinamica temporale della distribuzione funzionale del reddito Ricardo iniziò a lare uso dell’analisi marginalista (come è chiaro quando si pensi alla teoria ricardiana della rendita fondiaria), vale a dire deH’analisi che sarebbe divenuta uno degli elementi chiave della teoria microeconomica moderna. Nel periodo immediatamente successivo a Ricardo, pensatori umanisti e socialisti sollevarono numerose criti­ che contro la teoria economica e lo stesso sistema econo­ mico capitalistico. Si trattava in realtà di critiche che eb­ bero scarsa efficacia rispetto al contenuto tecnico della teoria economica, ma che sortirono un duplice effetto: da un lato rimisero in discussione uno dei presupposti fondamentali dell’economia politica classica, ovvero il postulato del laissez faire quale paradigma ideale per la condotta politica del governo, e dall’altro favorirono quei cambia­ menti teorici che avrebbero preparato il terreno per gli sviluppi successivi a cui andò incontro la disciplina nel periodo compreso tra il 1870 e il 1900. Via via che la scien­ za economica andava professionalizzandosi, gli economisti presero a esaminare in modo dettagliato il contenuto tec­ nico della teoria classica e in particolare le varie questioni legate alla teoria del valore lavoro. Fu così che, nelle mani di John Stuart Mill e di Nassau Senior, l’economia politica classica giunse a sposare una teoria del valore basata sul costo di produzione, in cui erano ricompresi tanto il costo del capitale quanto il costo del lavoro.

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IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

Un altro fattore decisivo per l’evoluzione del pensiero economico in questo periodo è il contrasto sempre più manifesto tra lo schema teorico ricardiano e l’effettivo fun­ zionamento del sistema economico britannico. Benché si registrassero, in particolare, aumenti della popolazione e simultaneamente incrementi progressivi nel reddito reale delle masse, e quindi l’evidenza empirica suggerisse un ri­ fiuto della dottrina malthusiana della popolazione, la mag­ gior parte degli economisti di quel tempo si mantenne fe­ dele ai postulati fondamentali che reggevano il sistema teo­ rico classico. Si dovette attendere il 1869 perché il decli­ no dell’economia politica classica fosse pressoché comple­ to: fu allora, infatti, che John Stuart Mill ritirò la propria adesione alla dottrina del fondo-salari, così che a quell’epo­ ca ormai tre degli strumenti basilari e delle ipotesi del si­ stema ricardiano (la teoria del valore lavoro, la dottrina malthusiana della popolazione e la dottrina del fondo-sa­ lari) erano, a tutti gli effetti, stati abbandonati. Un estre­ mo tentativo di salvataggio del sistema classico venne com­ piuto nel 1874 da parte di John Eliot Cairnes (1823-1875), nell’opera Alcuni principi fondamentali dell’economia poli­ tica, ma ovviamente si trattava di un’impresa destinata a fallire. Ciò non significa, naturalmente, che il secolo di scienza economica ortodossa che va dal 1770 al 1870, cioè il periodo dell’economia politica classica, non debba esse­ re legittimamente considerato come un periodo di trasfor­ mazioni significative quanto agli obiettivi, al metodo e agli strumenti propri della scienza economica: esso infatti pose le basi per la rifondazione che si sarebbe avuta negli ultimi tre decenni del diciannovesimo secolo. Gli anticipatori dell’analisi marginalista Il passaggio dall’economia classica a quella neoclassica non si compì certamente in modo repentino, anzi, tutt’altro. La ridefinizione della struttura e delle prospettive teo­ riche richiese una certa gradualità: si pensi ad esempio al­ l’evoluzione subita dall’idea di utilità, che era stata propo­ sta nella letteratura economica già da moltissimo tempo, iniziando da Aristotele il quale aveva impiegato il concettp

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di valore d’uso quasi duemila anni prima, per arrivare fino a Jeremy Bentham, che impiegò la nozione di utilità all’in­ terno della propria filosofia utilitarista sul finire del diciot­ tesimo secolo. Nel corso dell’Ottocento moltissimi scrittori, anche di secondaria importanza, avevano elaborato con una certa lucidità il principio che quanto più cresce la quantità con­ sumata di un bene, tanto minore è l’utilità marginale che ne deriva a chi lo consuma; nessuno di tali autori, tuttavia, fu capace di portare a compimento tale elaborazione della nozione di utilità marginale decrescente né di applicarla alla soluzione dei problemi economici. Vista retrospettiva­ mente, e in un certo senso col senno di poi, si può anche fare risalire l’analisi marginalista al 1834, quando Samuel Mountifort Longfield pubblicò le sue Lezioni di economia politica in cui si criticava la teoria del valore-lavoro e svi­ luppava una teoria della produttività marginale. Analoga­ mente W.F. Lloyd nella sua Lezione sulla nozione di valore (1837), Jules Dupuit nell’articolo La misura dell’utilità dei lavori pubblici (1844), Hermann Heinrich Gossen nell’ope­ ra Lo sviluppo della legge delle relazioni tra gli uomini e delle regole che ne derivano per gli scambi (1854) e Richard Jennings negli Llementi naturali dell’economia politica (1855), mostrarono tutti una certa consapevolezza della possibilità di un approccio alla teoria della domanda basa­ to sull’utilità marginale. Anche Antoine Augustin Cournot, per quanto nelle sue Ricerche sui principi matematici della teoria della ricchezza (1838) non avesse esposto una teoria dell’utilità, si dimostrò pensatore originale e fecondo allor­ ché impiegò gli strumenti del marginalismo per sviluppare un’analisi piuttosto dettagliata dell’economia dell’impresa: in questo modo, infatti, riuscì a definire la nozione di do­ manda e a stabilire il principio in virtù del quale, se i prez­ zi fossero diminuiti, la domanda sarebbe aumentata. Seguendo questa ricostruzione della genesi dell’analisi marginalista, un altro economista di rilievo nel quale ci si imbatte è Johann Heinrich von Thunen, che Schumpeter descrive come un pensatore in anticipo sui suoi tempi. In una serie di volumi pubblicati sotto il medesimo titolo di Lo stato isolato, con riguardo all’economia agricola e all’eco­ nomia nazionale (1826-1863) egli applicò l’analisi margina-

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lista mediante l’uso del calcolo matematico, raggiungendo intuizioni importanti circa la teoria dei salari basati sulla produttività marginale e l'analisi dei rendimenti decrescen­ ti e delle rendite. Insieme a Cournot, von Thiinen è consi­ derato tra i primi economisti matematici nella storia del pensiero economico. Ma la loro celebrità non si esaurisce ovviamente in questo: mentre per alcuni dei nomi sopra citati tra gli anticipatori dell’analisi marginalista il destino fu quello tipico degli «economisti trascurati», i quali ven­ nero riscoperti soltanto successivamente ai loro lavori, Cournot e von Thùnen (la cui influenza sarebbe stata ri­ conosciuta dallo stesso Alfred Marshall) furono due pen­ satori di spicco fra coloro che contribuirono in modo de­ cisivo allo sviluppo della teoria economica successiva. Lo storico del pensiero George Stigler, scrivendo sulle vicende che hanno portato allo sviluppo della teoria del­ l’utilità, ha osservato che il principio per il quale uguali incrementi nei mezzi che procu­ rano utilità (quali, per esempio, il reddito, o il pane) provochi­ no incrementi decrescenti dell’utilità è ormai un luogo comune. L’enunciazione originaria di un luogo comune avviene senz’altro in modo casuale: non ha alcuna importanza nello sviluppo della scienza economica, e non conferisce alcun prestigio intellettuale a chi l'ha proposta. Essa suscita invece interesse nel momento in cui venga sviluppata logicamente o sia applicata, in modo espli­ cito, ai problemi di natura economica, ed acquista importanza soltanto quando un numero consistente di economisti si siano convinti di includerla nella propria analisi: infatti, l’interesse e l’importanza sono, ovviamente, caratteristiche che si acquisisco­ no con gradualità1. Anche noi condividiamo l’opinione di Stigler, e credia­ mo che il criterio da seguire per determinare quali scritto­ ri meritino di essere trattati approfonditamente sia quello dell’influenza che essi seppero esercitare con la propria opera sull’evoluzione successiva non solo del pensiero eco­ nomico ma anche della pratica effettiva della politica eco­ nomica. 1 George Stigler, Essays in thè History of Economics, Chicago, Universi­ ty of Chicago Press, 1965, p. 78.

J E V O N S , M E N G E R E 1 F O N D A T O R I A U S T R IA C I

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2. Jevons, Menger e Wa/ras Tra il 1871 e il 1874 Jevons, Menger e Walras pubbli­ carono opere che hanno condizionato profondamente lo sviluppo della teoria economica ortodossa: il loro impatto non fu però immediato, ma si manifestò gradualmente nel corso dell’ultimo quarto di secolo ad opera degli allievi di questi tre capiscuola (la cosiddetta seconda generazione dei teorici dell’utilità marginale), i quali, dopo aver lottato perché venisse riconosciuta l’importanza delle «nuove» idee dei loro maestri, videro lentamente crescere le adesio­ ni ad alcune di esse. Le impostazioni che caratterizzano l’analisi di Jevons, Menger e Walras circa le forze che determinano il valore (o il prezzo) dei prodotti finali sono sufficientemente omogenee da poter essere trattate per argomento piutto­ sto che, individualmente, per autore. Ovviamente vi sono anche delle differenze assai importanti che contraddistin­ guono i tre fondatori dell’analisi marginalista, che incon­ treremo successivamente nel corso del capitolo: ci riferia­ mo in particolare al diverso atteggiamento metodologico che ciascuno di essi considerava appropriato alla scienza economica. Da questo punto di vista, come si vedrà me­ glio in seguito, Menger merita un’attenzione particolare in quanto gli economisti della moderna scuola austriaca si rifanno ancora oggi alla sua opera quale origine intel­ lettuale della loro posizione metodologica. Anche l’anali­ si dell’equilibrio economico generale di Walras, assieme all’elaborazione dei concetti marginalisti in essa contenu­ ti, ha sicuramente rivestito un’importanza fondamentale per i successivi sviluppi della moderna microeconomia, sviluppi che riteniamo tanto notevoli da meritare un apposito capitolo. Fu una vera rivoluzione teorica? Tutti e tre questi economisti, lavorando in modo indipendente l’uno dall’altro, si erano persuasi di aver svilup­ pato un’analisi davvero unica e rivoluzionaria delle forze che presiedono alla determinazione dei prezzi relativi.

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Jevons fu colui che espresse tale convinzione nel modo più incisivo: ripetute riflessioni e ricerche mi hanno addotto ad abbracciare l’opinione in certo qual modo nuova che il valore dipende inte­ ramente dall'utilità. Le opinioni prevalenti attribuiscono al lavo­ ro più che all’utilità l’origine del valore: vi è perfino chi afferma recisamente che il lavoro è la causa del valore23. La posizione di Menger è invece più modesta dal punto di vista personale, ma di impronta nazionalistica: ci rallegra in particolare il vedere che il campo che abbiamo stu­ diato e che comprende i principi generali della nostra scienza è lo stesso di cui si occupa oggi il nuovo indirizzo dell’economia politica tedesca e che la riforma dei massimi principi da noi ten­ tata si svolge sulla base di studi compiuti in massima parte da scienziati tedeschi*. Infine anche Walras, segnatamente per la sua analisi dell’equilibrio generale, credeva nell’originalità, e forse anche nell’unicità, del proprio contributo teorico: posso cominciare la pubblicazione di un trattato elementare di economia politica e sociale distribuito secondo un piano nuovo, elaborato secondo un metodo originale e le cui conclusioni, devo dirlo, differiranno anche, su certi punti, da quelle della scienza attuale4. Possiamo quindi concludere che questi tre autori fos­ sero legittimati a reclamare il carattere originario e in un certo senso «rivoluzionario» della loro opera? Si tratta di una questione sulla quale occorre necessariamente distin­ guere fra i contributi di ognuno: quello di Jevons si spinge 2 William S. Jevons, The Theory of Politicai Economy, London e New York, Macmillan, 1871; trad. it. Teoria dell’economia politica, a cura di R. Fubili e C. Argnani, Torino, Utet, 1966, p. 35. Il corsivo è nel testo originale. 3 Cari Menger, Grundsàtze der Volksivirtschaftslehre; trad. it. Principi di economia politica, a cura di E. e F. Nani, Torino, Utet, 1976, p. 72. 4 Léon Walras, Eléments d’économie politique pure, ou théorie de la richesse sociale; trad. it. Elementi di economia politica pura, a cura di A. Bagiotti, Torino, Utet, 1974, p. 105.

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per lo più nella direzione dell’applicazione dell’analisi marginalista al lato della domanda; quello di Menger la applica sia al lato della domanda che al lato dell’offerta; quello di Walras non solo la applica sia al lato della doman­ da che al lato dell’offerta, ma perviene anche alla formula­ zione di un modello di equilibrio generale per il sistema economico. Certamente, se guardiamo a come le loro idee influenzarono lo sviluppo successivo della teoria economi­ ca (in un modo che non fu eguagliato dagli scrittori prece­ denti che pure avevano impiegato l’analisi marginalista, ad esempio Gossen e Cournot), allora possiamo concludere che i loro contributi furono veramente originali. Tuttavia, per decidere sulla seconda questione, vale a dire sul carat­ tere rivoluzionario della loro opera, occorrerà confrontare i risultati teorici raggiunti da questi autori sia con la teoria classica che li precedette, sia con lo sviluppo successivo della microeconomia neoclassica. Le inadeguatezze della teoria classica del valore Tutti e tre gli autori in questione ritenevano che la teo­ ria classica del valore fornisse una spiegazione inadeguata della formazione dei prezzi, adducendo quale motivo prin­ cipale della loro critica la mancanza di generalità di cui soffriva una teoria del valore basata sul costo di produ­ zione: erano infatti parecchi i beni i cui prezzi non pote­ vano essere analizzati restando aU’interno dello schema classico. In particolare, essi criticavano la teoria del valo­ re-lavoro di Ricardo e le teorie basate sul costo di produ­ zione di Senior e di.Mill, poiché queste richiedevano che i prezzi di quei beni esistenti in offerta fissa fossero trat­ tati separatamente dagli altri tipi di prezzi: il valore (o il prezzo) dei beni con una curva di offerta perfettamente inelastica (quindi verticale) - per esempio la terra, le monete rare, i dipinti, i vini - non dipendevano infatti dal loro costo di produzione. Un secondo aspetto problema­ tico insito nella teoria del valore basata sul costo di pro­ duzione, a loro modo di vedere, consisteva nel suggerire che il prezzo (o il valore) di un bene fosse determinato con riferimento ai costi sostenuti in passato, mentre

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Jevons, Menger e Walras erano convinti che, se anche si fossero sostenuti costi eccezionalmente elevati nella pro­ duzione dei beni, questi non si sarebbero necessariamen­ te tradotti in prezzi elevati di vendita. In base alla teoria dell’utilità marginale il valore dipende piuttosto dall’uti­ lità legata al consumo, e quindi non fa riferimento al pas­ sato ma al futuro. Qualunque sia il costo che è stato ne­ cessario sostenere per produrre un determinato bene, quando questo arriva sul mercato avrà un prezzo che di­ penderà dall’utilità che i compratori si aspettano di trar­ ne: ne sanno qualcosa quei produttori che compiono errori nel prevedere la domanda dei beni da loro prodotti, e cado­ no quindi in quella situazione cui ci si riferiva con il termi­ ne di «scorta improduttiva» {dead stock), proprio ad indica­ re quei beni per i quali la domanda si era ridotta al punto che il loro prezzo di vendita era inferiore al loro costo di produzione. Come disse, un po’ aspramente, lo stesso Jevons: «sta di fatto che il lavoro, erogato che sia, non eser­ cita più alcuna influenza sul valore futuro di quale si sia og­ getto: se n’è andato ed è perduto per sempre. In commercio quel ch’è passato è passato per sempre»5. Il problema su cui questi autori si stavano interrogan­ do era quindi quello di decidere se fosse il valore dei beni finali a derivare dai prezzi dei fattori della produzione (come credeva la teoria del valore classica) o se, al contra­ rio, fossero i prezzi dei beni finali a determinare i valori dei fattori della produzione. Come risposta a questo problema la scuola dell’utilità marginale giunse ad affermare esplici­ tamente che ai fattori della produzione poteva essere attri­ buito un valore, ma soltanto nella misura in cui esso fosse determinato dall’utilità marginale ricevuta attraverso il consumo dei beni finali prodotti per mezzo di quei fattori, e che inoltre i fattori della produzione (o i beni intermedi) non potevano conferire alcun valore ai beni finali. Il con­ cetto venne espresso in modo assai lucido da Richard Whately, uno dei primi critici della teoria ricardiana del valore-lavoro, quando osservò, con un’analogia efficace,

5 Jevons, Teoria dell’economia politica, cit., p. 138. Il corsivo è nel testo originale.

JEVONS, MENGER E I FONDATORI AUSTRIACI

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che le perle non sono preziose perché qualcuno si è immer­ so in mare per cercarle, ma che gli uomini si immergono in mare alla ricerca di perle proprio perché esse sono pre­ ziose. Vi è un’altra lacuna fondamentale che gli autori della scuola dell’utilità marginale ravvisarono nelle teorie econo­ miche sia preclassiche che classiche: il non aver riconosciu­ to che l’elemento veramente significativo nella determina­ zione del prezzo non è l’utilità totale o l’utilità media, ma l’utilità marginale. Adam Smith aveva ripescato dalla lette­ ratura precedente il vecchio paradosso dell’acqua e dei diamanti, quello secondo cui i diamanti hanno un prezzo ele­ vato pur essendo di scarsa utilità mentre l’acqua ha un prezzo ridotto pur essendo di grande utilità. Di fronte a questo paradosso, a detta dei marginalisti, i teorici dell’eco­ nomia classica non seppero trovare una spiegazione defi­ nitiva poiché ragionavano nei termini dell'utilità totale che l’acqua o i diamanti avrebbero conferito ai consumatori e non coglievano, invece, l’importanza dell’utilità marginale arrecata da questi beni. Il paradosso può essere illustrato per mezzo della tabella 7.1, che è costruita sulla falsariga di quella utilizzata da Menger nei suoi Principi di econo­ mia politica.

Tab. 7.1. La tabella di Menger (l’utilità marginale è espressa per mezzo dei numeri arabi) Categorie di merci I 10 9 8 .S 7 u 6 b 5 4 3 D 2 1 0

II

III

IV

V

VI

VII

Vili

IX

X

9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

8 7 6 5 4 3 2 1 0

7 6 5 4 3 2 1 0

6 5 4 3 2 1 0

5 4 3 2 1 0

4 3 2 1 0

3 2 1 0

2 1 0

1 0

368

IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

I numeri romani denotano le varie categorie di merci, classificate secondo la loro diversa importanza: quanto maggiore è il numero, tanto meno essenziale è la merce in questione (ad esempio, l’acqua andrebbe senz’altro nella categoria I, mentre i mezzi di trasporto in una inferiore, quale la V). I numeri arabi, che sono invece decrescenti, rappresentano l’utilità marginale delle merci, che decresce all’aumentare della quantità consumata: in tal modo l’uti­ lità marginale di un bene della classe I è di 10 per la prima unità consumata e diminuisce progressivamente al cresce­ re delle unità consumate. Torniamo allora al nostro para­ dosso e supponiamo che l’acqua sia uno dei beni della clas­ se I, e che i diamanti siano uno dei beni della classe V ili. Se un consumatore ha già consumato 8 unità di acqua e nessuna unità di diamanti, l’utilità marginale di un’unità aggiuntiva di acqua sarebbe soltanto 2 contro un’utilità marginale pari a 3 per un’unità addizionale di diamanti. Se guardassimo solo all’utilità totale (cioè alla somma delle utilità marginali) allora quella dell’acqua sarebbe decisa­ mente superiore a quella dei diamanti; ma se guardassimo all’utilità marginale il valore di un’unità in più di diamanti sarebbe maggiore del valore di un’unità in più di acqua. La mancata comprensione da parte degli economisti classici di questo principio (capace, come vedremo, di spiegare i prezzi delle merci) fu una delle ragioni principali, a detta dei teorici dell’utilità marginale, per cui essi non riusciro­ no a sviluppare una corretta teoria dei prezzi. Il valore dei diamanti è dunque maggiore del valore dell’acqua perché è la loro utilità marginale che determina la scelta del con­ sumatore (e, quindi, il valore dei beni). Che cos’è l’utilità? Da quanto abbiamo appena detto risulta evidente come gli scrittori marginalisti seguissero l’impostazione della teo­ ria economica ortodossa di impianto classico nell’assumere che gli individui siano agenti razionali e calcolatori. Le decisioni di acquisto dei consumatori erano infatti viste come atti di valutazione dell’utilità marginale che questi potevano aspettarsi di ricavare dal consumo dei diversi

JEVONS, MENGER li I FONDATORI AUSTRIACI

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beni. Questa ipotesi solleva però un doppio ordine di in­ terrogativi: che cos’è l’utilità? E come si misura? Jevons, Menger e Walras mantennero al riguardo una posizione praticamente identica, che consistette in realtà nel non considerare affatto tali interrogativi, per lo meno in modo diretto. Nessuno di loro, addirittura, impiegò mai il termi­ ne utilità marginale; Menger, poi, non adoperò nemmeno il termine utilità, parlando piuttosto di «importanza delle soddisfazioni». Tutti e tre questi autori diedero semplicemente per scontato che l’utilità esistesse e che solo l’intro­ spezione individuale avrebbe svelato le differenti utilità de­ rivabili dal consumo dei diversi beni finali. L’utilità era evi­ dentemente un fenomeno di natura psicologica la cui uni­ tà di misura era destinata a rimanere senza specificazione: ma d ’altro canto, come si sarebbe mai potuto stabilire se si dovesse misurarla in unità di misura lineari (come i metri), o in termini di capacità (come i litri), o in termini di peso (come i chilogrammi)? Questi autori, poi, considerarono l’utilità come una caratteristica dei beni finali (o beni di consumo): cosa si sarebbe potuto dire allora dei fattori di produzione e dei beni suscettibili di essere consumati solo indirettamente? Menger si dedicò a questo problema con maggiore attenzione di Jevons e Walras, e davanti al que­ sito di come misurare l’utilità dei beni acquistati non per un consumo immediato ma per essere scambiati contro altri beni, rispose che i consumatori avrebbero tratto la loro utilità proprio dal consumo dei beni con cui questi sarebbero stati alla fine scambiati. A tale proposito Jevons usò il termine di «utilità acquisita». Jevons, Menger e Walras, dunque, non spiegarono chia­ ramente la natura del concetto di utilità; tuttavia questo non impedì loro di accogliere quel principio che oggi è conosciuto come principio òc\Yutilità marginale decrescen­ te, secondo il quale all’aumentare del consumo di un bene la sua utilità marginale diminuisce. Il principio in questio­ ne si basa evidentemente sull’ipotesi che, qualunque cosa costituisca l’utilità marginale, essa possa essere misurata. Menger e Walras non discussero nemmeno il problema della misurabilità; Jevons, invece, si limitò ad affermare che nonostante non si riuscisse al momento a misurare l’utili­ tà, gli sviluppi teorici successivi avrebbero consentito, nel

370

IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

futuro, di arrivare a tale risultato. Dagli esempi che essi forniscono nelle loro opere si evince chiaramente, tuttavia, che tutti e tre tali autori accoglievano la nozione di misu­ rabilità dell’utilità in termini cardinali. Jevons e Walras, nel dare una presentazione matemati­ ca delle funzioni di utilità individuali, ipotizzano in prima approssimazione che sia la quantità consumata dei diversi beni, sia la quantità di utilità, siano continuamente divisi­ bili, pur riconoscendo, da un lato, che si tratta di un’ipo­ tesi non realistica e ammettendo, dall’altro, la possibilità (opposta) della non divisibilità, che avrebbe generato fun­ zioni caratterizzate da discontinuità. Per quel che riguarda Menger, dal momento che il suo approccio non faceva uso di alcuno strumento matematico al di là di qualche tabella numerica, tutte le sue funzioni erano di tipo discontinuo. A proposito della questione della continuità, vale la pena osservare che il profilo grafico delle funzioni conti­ nue corrisponde a quello di curve regolari, mentre nel caso delle funzioni discontinue le curve sono spezzate, il che ha qualche conseguenza teorica, seppure di secondaria impor­ tanza. Ad esempio, la seconda legge di Gossen afferma che i consumatori massimizzeranno la loro utilità totale acqui­ stando i diversi beni in modo tale che l’ultima unità di moneta spesa da essi per un qualsiasi bene apporti loro la stessa utilità marginale conferita dall’ultima unità di mo­ neta spesa per un qualsiasi altro bene. La formulazione al­ gebrica di questa proposizione sulla massimizzazione del­ l’utilità è la seguente: MU,

MU b

MU c

Se dunque le funzioni di utilità sono continue e regolari si potranno anche verificare piccole variazioni nella quan­ tità e nell’utilità senza che tali uguaglianze ne siano invali­ date; se però le funzioni sono discontinue, allora il consu­ matore potrebbe conseguire la massimizzazione dell’utili­ tà senza che le stesse uguaglianze siano soddisfatte.

JEVONS, M E N G E R E I F O N D A T O R I A U S T R IA C I

3 / 1

I confronti di utilità Se anche assumessimo la possibilità di misurare l’utili­ tà, sorgerebbe un nuovo ordine di problemi, sui quali i tre autori marginalisti in effetti sorvolarono, senza dedicarvi un esame apposito ma semplicemente dando per scontato che ciascun agente economico sia in grado di effettuare dei confronti tra le utilità dei diversi beni: come se, insomma, fosse possibile confrontare Futilità marginale di un altro bicchiere di birra con l’utilità marginale di un nuovo paio di scarpe. Ancora più importante di questo è l’altro aspet­ to relativo ai confronti interpersonali di utilità', si possono confrontare l’utilità che una persona riceve dal consumare un altro bicchiere di birra e l’utilità che una persona diver­ sa riceve dal consumare un altro paio di scarpe o un altro bicchiere di birra? Menger e Walras non si posero mai il problema, anche se in effetti la loro analisi non dipendeva in modo cruciale dalla possibilità di effettuare confronti interpersonali di utilità; diverso è il caso di Jevons, il qua­ le, se da un lato affermò che questo tipo di confronti era impossibile, dall’altro (secondo un modo di procedere ti­ pico dei suoi scritti) li effettuò comunque nel corso della sua analisi. Torneremo più avanti sul tema dei confronti interper­ sonali di utilità per via della loro rilevanza circa alcune questioni di politica pubblica e di economia del benesse­ re. Nel frattempo crediamo sia utile soffermarci su uno degli esempi proposti a tale riguardo da Jevons. Egli rite­ neva che un ammontare addizionale di reddito, concesso a un soggetto già percettore di un reddito elevato, avrebbe arrecato un’utilità marginale inferiore rispetto allo stesso ammontare di reddito concesso a una persona con un red­ dito basso. Si tratta di una posizione che assume, implici­ tamente, la possibilità di effettuare i confronti interperso­ nali di utilità. In effetti egli non fece nulla di più che sem­ plicemente suggerire questa possibilità; ma, così facen­ do, egli ci ha messi nella condizione di cogliere alcune importanti implicazioni teoriche. Supponiamo dunque 1) che i confronti interpersonali di utilità siano possibili e 2) che tutti gli individui abbiano la stessa funzione che colle­ ga l’utilità al reddito percepito (così che, ad esempio, Futi­

372

IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

lità marginale del novecentonovantanovesimo dollaro di reddito sia la stessa per chiunque), e vediamo quali conse­ guenze ne derivano. Una prima conclusione è che, date queste due ipotesi, una distribuzione del reddito ideale (cioè una distribuzione che massimizzi l’utilità totale della società) sarebbe una distribuzione ugualitaria del reddito, come è illustrato nella figura 7.1.

Fio. 7.1. L’effetto «Robin Hood».

Grazie alle nostre due ipotesi, infatti, siamo in grado di rappresentare le funzioni di utilità marginale rispetto al reddito, sia dei ricchi che dei poveri, mediante un’unica curva, la IP (ricordando che una terza ipotesi, implicita nel ragionamento, è quella secondo cui al reddito si applica il principio dell’utilità marginale decrescente). Chiamiamo OR il reddito dei «ricchi» e OP il reddito dei «poveri». Un dollaro che fosse prelevato sotto forma di tasse ai ricchi e poi redistribuito ai poveri ridurrebbe l’utilità totale dei primi in misura pari a RA e aumenterebbe l’utilità dei se­ condi in misura pari a PB. Il trasferimento di reddito dai ricchi ai poveri, quindi, aumenta l’utilità totale della socie­ tà, visto che PB è maggiore di RA ed inoltre, se questo processo redistributivo venisse ripetuto, l’utilità totale del­ la società verrebbe ogni volta aumentata fino a che i red­ diti dei ricchi e dei poveri fossero uguali.

JEVONS, MENGER E I FONDATORI AUSTRIACI

3 73

Supponiamo ora di modificare una delle nostre due ipotesi di partenza (la seconda) e di ammettere che gli in­ dividui hanno funzioni che collegano utilità e reddito di­ verse tra loro, così che le funzioni dei percettori di redditi alti siano al di sopra delle funzioni dei percettori di redditi bassi, come illustrato nella figura 7.2. Nel grafico la curva rr' rappresenta l’utilità marginale decrescente del reddito per i ricchi, mentre la pp' rappresenta l’utilità marginale decrescente del reddito per i poveri. La posizione relativa delle due curve mostra che, da uno stesso ammontare di reddito, i ricchi riescono a ricavare un’utilità marginale superiore rispetto a quella che riescono a trarne i poveri. Se inizialmente la distribuzione del reddito prevedesse che i ricchi posseggano un reddito pari a OR e i poveri un red­ dito pari a OP, allora una distribuzione del reddito ideale (cioè che massimizzi l’utilità totale della società) potrebbe essere raggiunta allorquando si prelevasse reddito dai po­ veri e lo si redistribuisse ai ricchi, dal momento che RA risulta maggiore di PB. Potremmo chiamare questa situa­ zione un effetto «Robin Hood rovesciato». Dovrebbe es­ sere chiaro a questo punto che una distribuzione del red­ dito iniziale differente, o anche differenti posizioni delle curve pp' e rr', porterebbero a conclusioni diverse da quelle che abbiamo delineato.

Reddito

Fio. 7.2. L’effetto «Robin Hood rovesciato».

374

IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

Tuttavia, come abbiamo già accennato, nessuno, tra Jevons, Menger e Walras, tentò di investigare le implica­ zioni delle proprie teorie circa la distribuzione del reddi­ to, poiché ognuno di essi era convinto (Jevons in modo esplicito, Menger e Walras soltanto implicitamente) che i confronti interpersonali di utilità non fossero possibili. Nel quattordicesimo capitolo, quando esamineremo l’evoluzio­ ne che ha caratterizzato la teoria microeconomica nel cor­ so del ventesimo secolo, ritorneremo su alcune delle que­ stioni legate ai confronti interpersonali di utilità, così come su alcune questioni normative sollevate dal problema della distribuzione del reddito. Le funzioni di utilità Sebbene nessuno dei tre capiscuola del marginalismo avesse esplicitamente esaminato in modo specifico la for­ ma e l’esatta natura delle funzioni di utilità, Jevons e Walras, da una parte, formularono delle equazioni per collegare l’utilità totale alle quantità dei beni consumati, e Menger, dall’altra, con i suoi esempi sia verbali che aritme­ tici, dimostrò di possedere una concezione della funzione di utilità totale molto simile a quella degli altri due. Secon­ do questi scrittori, dunque, l’utilità che un individuo rice­ ve dal consumo di un determinato bene dipende esclusi­ vamente dalla quantità già consumata di quello stesso bene e non dipende invece dalla quantità consumata di altri beni. Ad esempio, l’utilità marginale del consumo di un altro bicchiere di birra dipende solamente dalla quantità consumata di birra e non dipende né dalla quantità consu­ mata di vino (o di un qualsiasi altro bene sostituto), né dalla quantità consumata di biscotti (o di un qualsiasi al­ tro bene complementare). Così espressa, la funzione di utilità totale, cioè l’utilità ricevuta dal consumo di tutti i beni, è una funzione additine, alla quale Jevons e Walras diedero la seguente rappresentazione: utilità totale = f (QA) + f 2(QB) + f { Q c). La forma della sommatoria esprime esattamente il concetto per cui l’utilità totale dipende (ed è quindi una

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3 75

funzione) dalla quantità consumata del bene A più la quan­ tità consumata del bene B, e così via per tutti i beni, ne­ gando l’esistenza di una qualsiasi relazione di complemen­ tarità o di sostituibilità tra i diversi tipi di consumo. Nella moderna teoria microeconomica queste relazioni di com­ plementarità o di sostituibilità sono invece tenute in consi­ derazione e la funzione di utilità totale riceve una rappre­ sentazione più generale della precedente, del tipo: utilità totale = / ( Q 4, QB, Qc, ...).

Utilità, do?nanda e scambio L’aspetto che più di ogni altro collocò Jevons, Menger e Walras a un livello diverso da quello dei loro predeces­ sori (con l’eccezione, forse, di Gossen) è che essi non si limitarono a postulare il principio dell’utilità marginale decrescente, ma tentarono anche di determinare sotto quali condizioni il consumatore avrebbe massimizzato l’utilità e, in aggiunta a ciò, di sviluppare una teoria dello scambio. Jevons e Walras, poi, si spinsero fino al punto di investiga­ re la relazione tra utilità e domanda. In effetti Walras, es­ sendo dotato di eccezionale abilità matematica, fu anche quello dei tre che riuscì meglio in tutti questi sforzi analiti­ ci e che, benché poco preoccupato di elaborare la nozione di utilità marginale decrescente, dimostrò la comprensio­ ne più profonda dell'interrelazione tra i vari settori del si­ stema economico, come risulta chiaro dagli esempi che se­ guono. La seconda legge di Gossen afferma che un consuma­ tore, che ha a disposizione un reddito limitato, massimizza la propria utilità allorché l’ultima unità di moneta spesa per acquistare un qualsiasi bene gli procura la medesima utili­ tà di quella procuratagli dall’ultima unità di moneta spesa per un qualsiasi altro bene. In simboli: MU.

~Jp 1 A

MU b

_

~p

1 B

MU

- ~~p 1 C

376

IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

Ebbene, nonostante che sia Menger sia Jevons avessero colto dal punto di vista concettuale l’essenza di questa proposizione teorica (il primo con una spiegazione a paro­ le e con semplici esempi numerici, il secondo con una notazione matematica più raffinata), fu però Walras, nella sua giustamente famosa ottava lezione degli clementi di economia politica pura, che derivò matematicamente le equazioni che caratterizzano la massimizzazione dell’utili­ tà del consumatore. Se si condivide l’idea che l’utilità individuale del con­ sumatore sia la variabile in grado di spiegare non solo la domanda dei singoli ma anche quella di mercato, allora diventa necessario dimostrare la relazione esistente tra fun­ zioni di utilità e curve di domanda. Anche su questo pun­ to abbiamo una diversa trattazione da parte dei tre auto­ ri: mentre, da un lato, Menger non si cimentò con questo compito e non trattò direttamente delle curve di doman­ da né verbalmente né graficamente né numericamente, e Jevons, che pure fece uso delle curve di domanda nella propria analisi, non riuscì a stabilire il nesso tra utilità e domanda, dall’altro lato Walras fu invece in grado di stabilire questa relazione e di dimostrare che la grandezza fondamentale che determina la domanda è l’utilità margi­ nale. Un’altra questione cruciale, sulla quale tutti e tre i pio­ nieri del marginalismo si applicarono, fu la dimostrazione delle relazioni che collegano l’utilità marginale alla massimiz­ zazione della soddisfazione del consumatore e allo scambio dei beni sul mercato. Menger fu, dei tre, quello che conse­ guì i risultati minori. Jevons, da parte sua, riuscì a dare una dimostrazione di queste relazioni in un semplicissimo mer­ cato composto da due beni e due individui; se l’individuo A possiede grano e l’individuo B possiede carne, e se essi possono effettuare delle transazioni, allora la posizione fi­ nale di equilibrio può essere descritta in modo conciso: « il rapporto di scambio tra due merci qualsiasi è il reciproco del rapporto tra i gradi finali di utilità delle quantità di merci disponibili per il consumo dopo effettuato lo scambio» ' \ 6 Ibidem, p. 93. Il corsivo è nel testo originale.

JEVONS, MENGER E I FONDATORI AUSTRIACI

Òli

Trasponendo in forma di equazione questo concetto si ot­ tiene: MU del grano per A

MU del grano per B

MU della carne per A MU della carne per B

quantità di carne scambiata

prezzo del grano

quantità di grano scambiata prezzo della carne

La dimostrazione che Walras riuscì a dare delle relazio­ ni tra utilità marginale, massimizzazione della soddisfazio­ ne del consumatore e scambio di mercato, dal punto di vista analitico, è comunque assai più completa e generale di quella degli altri due autori. Il valore dei fattori della produzione Secondo i primi autori che sottolinearono il ruolo del­ l’utilità, la teoria classica del valore va criticata in quanto fa dipendere i prezzi relativi dal costo della produzione: questo fatto, dicevano, implica che il valore sia determina­ to con riferimento al passato, mentre a loro parere il valo­ re dovrebbe essere determinato con riferimento al futuro, ossia all’utilità che ci si attende di procurarsi attraverso il consumo dei beni finali. Questo modo di procedere, tipi­ camente marginalista, lascia tuttavia aperto un problema: quello di spiegare la formazione dei prezzi dei fattori della produzione, sul quale si registrano differenze rilevanti tra le posizioni di Jevons e Menger da un lato, e quella di Walras dall’altro. Sia Jevons che Menger affrontano la questione del va­ lore dei fattori produttivi giungendo sostanzialmente alla medesima conclusione, malgrado la maggior completezza della trattazione fornita da Menger. Essi affermano in so­ stanza che il nesso di causalità nella determinazione del valore non va dal costo di produzione al prezzo finale, ma nella direzione opposta, ovvero che non sono i prezzi dei fattori della produzione a determinare il prezzo dei beni finali, bensì quest’ultimo che determina il valore dei pri­ mi. Dato che il prezzo di un bene finale deve essere deter­ minato con riferimento alla sua utilità marginale, si può concludere che il prezzo dei fattori della produzione (chia­ mati anche beni intermedi, o beni di ordine superiore)

378

IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

dipende dall’utilità del bene finale prodotto mediante il loro impiego. In questo modo Jevons e Menger ricondu­ cono la trattazione della relazione causale tra beni finali e fattori produttivi all’interno di un modello di equilibrio parziale. Walras, invece, formulando la propria teoria del­ la determinazione del valore all’interno di un’analisi di equilibrio generale, giunge per questa via a una compren­ sione decisamente più approfondita del fenomeno, la qua­ le gli consente di determinare le relazioni causali in modo sicuramente più complesso di quello individuato da Jevons e da Menger. Una valutazione di Jevons e di Menger Confrontando le teorie del valore di Jevons e di Men­ ger con quella di J.S. Mill si può notare che le loro critiche alla teoria classica del valore sono per molti versi scorrette ed inadeguate. Come abbiamo visto nel corso del quinto capitolo, e in particolare attraverso l’illustrazione della fi­ gura 5.1, Mill aveva intuito la possibilità di tre diversi casi di determinazione del valore: una curva di offerta perfet­ tamente inelastica (verticale); una curva di offerta perfet­ tamente elastica (orizzontale), riferita al settore manifattu­ riero, che Mill assumeva essere formato da industrie ope­ ranti a costi costanti; e infine una curva di offerta inclinata positivamente, riferita al settore agricolo, che Mill assume­ va essere composto di industrie operanti a costi crescenti. La conclusione di Mill fu che nelle industrie operanti a costi costanti il costo di produzione è il solo elemento che determina il prezzo, e a tale conclusione né Jevons né Menger seppero trovare una confutazione adeguata. Per quelle merci la cui offerta è data in quantità fissa, e che perciò sono caratterizzate da una curva di offerta per­ fettamente inelastica (verticale), Mill sostenne che sia la domanda sia l’offerta concorrono a determinarne il prez­ zo. Di nuovo, Jevons e Menger non riuscirono a respinge­ re tale conclusione: essi infatti conclusero che, prendendo come data l’offerta, è la domanda che determina il prezzo, ma è chiaro che avrebbero potuto affermare altrettanto legittimamente il contrario, ovvero che, prendendo come

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379

data la domanda, è l’offerta a determinare il prezzo. Il ter­ zo dei casi proposti da Mill, infine, ovvero quello che pre­ vede curve di offerta inclinate verso l’alto per le industrie operanti a costi crescenti, non venne nemmeno analizzato da questi due autori, semplicemente sulla scorta della loro ipotesi a priori che l’offerta è sempre da considerarsi data. Con questo ragionamento non vogliamo arrivare alla con­ clusione che nella teoria milliana del valore non vi fossero lacune, ma vogliamo soltanto mostrare come Jevons e Menger non fossero stati capaci di sostenere adeguatamen­ te tutte le argomentazioni critiche che rivolsero contro la teoria classica del valore. Menger espresse la propria posizione critica in modo veramente succinto: «tra gli errori fondamentali che eser­ citarono una notevole influenza sullo sviluppo della nostra scienza sta anzitutto il principio che il valore dei beni è determinato dai beni di ordine superiore che hanno servi­ to alla loro produzione»7. A suo modo di vedere è l’utilità, non il costo di produzione, ciò che determina il valore: infatti «il valore non è... inerente ai beni e neppure una loro qualità, ma è l’importanza che attribuiamo alla soddi­ sfazione dei nostri bisogni... e, di riflesso, ai beni economi­ ci da cui essa dipende»8. La posizione di Jevons è se possi­ bile ancora più netta, e forse proprio per questo anche più vulnerabile di quella di Menger: «ripetute riflessioni e ri­ cerche mi hanno addotto ad, abbracciare l’opinione in cer­ to qual modo nuova che il valore dipende interamente dal­ l’utilità» 9. Gli stessi esempi addotti dai due autori, fra l’altro, in­ dicano che il valore (o il prezzo) non dipende unicamente dall’utilità o dalla domanda ma, insieme, dalla domanda e dall’offerta: malgrado le dichiarazioni loro e dei loro segua­ ci, per le quali il valore era legato esclusivamente all’utili­ tà, di fatto la loro stessa analisi contraddiceva questo prin­ cipio. La più chiara testimonianza di questa contraddizio­ ne è offerta dallo stesso Jevons quando, già nel secondo 7 Menger, Principi di economia politica, cit., pp. 236-237. 8 Ibidem, p. 193. 9 Jevons, Teoria dell’economia politica, cit., p. 35. Il corsivo è nel testo originale.

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IL PENSIERO ECONOMICO NEOCLASSICO

paragrafo della sua Teoria dell’economia politica, dopo la frase di apertura che abbiamo appena citato e che con­ tiene quell’enunciazione così decisa, egli procede nelle quattro proposizioni successive a una confutazione di se stesso: Le opinioni prevalenti attribuiscono al lavoro più che all’uti­ lità l’origine del valore: v’ha perfino chi afferma recisamente che il lavoro è la causa del valore. Io dimostro invece che per poter pervenire a una teoria soddisfacente dello scambio, di cui le co­ muni leggi dell’offerta e della domanda sono una conseguenza necessaria, non abbiamo che da precisare con cura le leggi na­ turali della variazione dell’utilità col variare delle quantità di merce in nostro possesso. Teoria questa, in armonia con i fatti: ogni qual volta v’ha una ragione apparente di credere che il la­ voro sia la causa del valore, noi siamo in grado di spiegare tale ragione. Ci si avvede spesso che il lavoro determina il valore, ma solo in modo indiretto, facendo variare il grado di utilità della merce di cui aumenta o diminuisce la provvista10. Più oltre, nel quarto capitolo della Teoria dell’economia politica, dove Jevons sviluppò la propria teoria dello scam­ bio, è contraddetta non soltanto l’argomentazione prece­ dente secondo la quale il valore dipende interamente dal­ l’utilità, ma anche la sua stessa rivendicazione di aver sa­ puto demolire la teoria classica del valore. In quel passag­ gio egli infatti dimostrò correttamente che, assumendo un’offerta fissa dei due beni posseduti dai due individui, i prezzi di quei beni e le quantità scambiate sarebbero dipe­ si dalle utilità marginali che i due beni arrecavano ai due individui. Malgrado la correttezza formale di questa pro­ posizione, essa tuttavia non vale per la situazione usuale nella quale l’offerta non è data in quantità fissa ma è va­ riabile; così, quando Jevons lasciò cadere l’ipotesi di un’offerta fissa e passò ad analizzare la relazione tra co­ sto, offerta, utilità marginale e prezzo, si trovò a dover concludere ammettendo l’esistenza della seguente relazio­ ne causale:

10

Ibidem , p . 3 5 .

JEVONS, MENGER E I FONDATORI AUSTRIACI

381

Il costo di produzione determina l’offerta; l’offerta determina il grado finale di utilità; il grado finale di utilità determina il valore11. Questa proposizione può essere criticata da molti pun­ ti di vista. Innanzitutto Jevons non formulò, parallelamen­ te ad essa, nessuna teoria del costo o dell’offerta; inoltre essa suggerisce l’esistenza di una concatenazione causale che va dal costo di produzione al valore, o al prezzo. Ma se tale nesso causale esistesse realmente, allora sarebbe possibile concludere, saltando la parte intermedia, che il costo di produzione determina il valore. Come si vede, sia Jevons che Menger sbagliarono nell’identificare una rela­ zione di causa ed effetto, semplice e unidirezionale, tra l’utilità marginale e il prezzo: essi non si accorsero che il costo, l’offerta, la domanda e il prezzo sono invece varia­ bili interdipendenti che si determinano reciprocamente. ha teoria classica del valore e quella neoclassica emergente Ritorniamo ora sui tre casi del valore proposti da Mill, e proviamo a valutare i punti di forza e di debolezza della posizione classica rispetto alla teoria alternativa proposta da Jevons e Menger. Là dove l’offerta è perfettamente ine­ lastica (verticale), come nel primo dei tre casi, la teoria classica del valore basata sul costo di produzione non è in grado di spiegare adeguatamente come siano determinati i prezzi, poiché in quella circostanza il prezzo dipende con­ giuntamente dall’offerta e dalla domanda, e il costo di pro­ duzione potrebbe anche non influenzare l’offerta. Tuttavia anche la posizione di Jevons e di Menger, cioè quella per la quale il prezzo dipende esclusivamente dalla domanda, è altrettanto insoddisfacente, dal momento che essa assu­ me che l’offerta sia fissa. Per chiarire questo punto è utile considerare qualche esempio di situazioni corrispondenti al primo dei tre casi di Mill. Supponiamo di sapere che esista un solo esemplare di un particolare francobollo cu­ 11

Ibidem , p . 1 3 8 . I l c o r s i v o è n e l t e s t o o r ig in a le .

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riosamente stampato in modo difettoso: l’offerta è fissa e limitata a un solo esemplare; data l’offerta fissa, il prezzo sarà determinato dal livello della domanda. Ora, il fatto che il prezzo in realtà dipenda sia dalla domanda che dall’of­ ferta può essere agevolmente dimostrato immaginando che vengano scoperti altri dieci esemplari di questo francobol­ lo, nel qual caso la curva di offerta sarebbe spostata verso destra e il prezzo diminuirebbe. Un secondo esempio po­ trebbe essere quello di un fruttivendolo che venda frutta rapidamente deperibile, e che quindi debba commercializ­ zarla entro la giornata: al trascorrere delle ore il fruttiven­ dolo sarà spinto ad abbassare il prezzo per soddisfare tut­ ta la domanda esistente per quella frutta, dal momento che ricavare un qualsiasi reddito è comunque meglio che non riuscire a vendere una merce deperibile prima che questa sia da buttare. Come terzo esempio, sempre riferito al pri­ mo dei tre casi milliani, potremmo pensare a un prodotto manifatturiero la cui offerta sia fissa, ma il cui prezzo mi­ nimo sia mantenuto costante dal suo produttore-vendito­ re: un prezzo del genere viene spesso chiamato «prezzo di riserva» e potrebbe tranquillamente essere determinato dal produttore in base al costo della produzione. In questo esempio la curva di offerta prenderebbe la forma di una L rovesciata, dove il tratto orizzontale rappresenterebbe il livello dei costi e il tratto verticale rappresenterebbe lo stock totale esistente di quel bene. Per quanto riguarda il secondo caso illustrato da Mill, quello in cui l’offerta è perfettamente elastica (orizzonta­ le) e in cui esistono produzioni a costi costanti, abbiamo visto che il prezzo dipende interamente dal costo della produzione. Si tratta di un caso in cui la teoria classica del valore, nella versione che ne diede Mill, è del tutto corret­ ta, mentre la posizione di Jevons e di Menger è compietamente erronea. Analogamente a quanto visto per il primo caso, anche nel terzo (quello in cui la curva di offerta è inclinata posi­ tivamente avendosi produzioni a costi crescenti) entrambe le teorie, quella di Jevons e di Menger da una parte e quel­ le classiche dall’altra, non riescono ad individuare la spie­ gazione corretta delle determinanti del prezzo. La conclu­ sione di Mill fu che in tali situazioni il prezzo dipende dal

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costo della produzione che avviene nelle circostanze meno favorevoli o, detto con una terminologia moderna, che il prezzo dipende dal costo marginale dell’ultimo bene pro­ dotto, così che, data la domanda, è il costo di produzione, o l’offerta, a determinare il prezzo. Dal canto loro Jevons e Menger giunsero alla conclusione che il prezzo dipende dall’utilità marginale, ovvero che, data l’offerta del bene, è la domanda a determinarne il prezzo. In verità in questo terzo caso il prezzo dipende sia dall’offerta che dalla do­ manda e quindi entrambe le conclusioni risultano indifen­ dibili. Si potrebbe anzi aggiungere che Jevons, Menger e i classici commisero tutti lo stesso tipo di errore, cercando di individuare una singola catena causale di relazioni che spiegasse la determinazione dei prezzi: il nesso di causa ed effetto per i classici andava dal costo di produzione al prez­ zo, mentre per Jevons e Menger andava dall’utilità al prez­ zo. In realtà tutti mancarono di riconoscere che queste variabili sono interdipendenti e che perciò la determinazio­ ne dei loro valori avviene attraverso una reciproca influen­ za. Come vedremo nel corso del nono e del decimo capi­ tolo, si sarebbe dovuto attendere l’acutezza intellettuale di Walras e di Marshall perché venisse colta la dimensione dell’interdipendenza aH’interno del sistema economico. Nella loro esposizione dell’analisi marginalista Jevons e Menger lasciarono insoluti alcuni problemi, che furono riconosciuti e poi risolti dagli autori successivi. Jevons, ad esempio, risolse solo per metà il rompicapo della massimiz­ zazione, limitandosi ad esaminare gli aspetti legati esclusi­ vamente alla sfera del consumo. Menger, invece, affrontò e risolse la questione da tutti e due i lati, quello del consu­ matore e quello dell’impresa. Nessuno dei tre fondatori della scuola marginalista si spinse comunque oltre, dal­ l’analisi del mercato dei beni finali fino al mercato dei fat­ tori, sviluppando a fondo la nozione e le implicazioni del­ l’analisi basata sulla produttività marginale. Ritenendo che gli sviluppi in questa direzione siano stati oltremodo signi­ ficativi, vi dedicheremo un’attenzione particolare nel cor­ so dell’ottavo capitolo. Del resto, mentre Jevons e Walras non ebbero imme­ diatamente seguaci che cercassero di rielaborare le loro ipotesi di prima approssimazione, Menger fu invece abba-

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stanza fortunato da essere seguito da due allievi che fecero subito propria la causa dell’utilità e del marginalismo: è al modo in cui questi due studiosi contribuirono allo svilup­ po del pensiero economico che rivolgiamo ora la nostra trattazione. 3. Gli austriaci della seconda generazione Friedrich von Wieser Nel 1871, quando Menger pubblicò i suoi Princìpi di economia politica, Friedrich von Wieser (1851-1926) ave­ va vent’anni ed era uno dei suoi studenti, insieme a Eugen Bohm-Bawerk (1851-1914), e più tardi (nel 1903) gli suc­ cedette sulla cattedra all’Università di Vienna, dove anche Bòhm-Bawerk tenne il proprio insegnamento. Essi quindi non si limitarono a proseguire, raffinandole, sulla via trac­ ciata da alcune delle intuizioni originali di Menger, ma fe­ cero anche scuola, e tra i loro studenti si annoverano Lud­ wig von Mises (1881-1973) e Joseph Schumpeter (18831950); lo stesso Mises, poi, avrebbe a sua volta allevato un'ulteriore generazione di economisti. Si spiega così per­ ché gli storici del pensiero economico si riferiscono all’in­ fluenza esercitata nel suo complesso da Menger e dall’uni­ versità di Vienna con il termine di scuola austriaca, alla quale noi dedicheremo la nostra attenzione in questo e in alcuni dei prossimi capitoli. Wieser, come il suo maestro Menger, non usò alcuno strumento matematico nella sua analisi, e per sviluppare le proprie argomentazioni ricorse all’impiego di modelli astratti (esposti verbalmente) alla Robinson Crusoe. Egli fu il primo teorico dell’economia ad impiegare il termine «utilità marginale», che divenne poi l’espressione univer­ salmente accettata nella professione. In particolare, la fe­ condità della sua opera risiede nell’analisi dei costi e dei fattori della produzione, nella quale egli dimostrò come gli input, o fattori produttivi, ricevessero il loro valore dai beni finali attraverso un processo di imputazione. In quest’otti­ ca la relazione causale che genera il valore va in un’unica direzione, partendo dall’utilità marginale del bene di con­

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sumo marginale (o finale) e andando a ritroso attraverso i vari fattori che hanno concorso alla sua produzione. Per gli economisti classici, lo ricordiamo, il nesso di causalità era in senso contrario ed era il costo dei fattori che determina­ va il prezzo. Wieser giunse invece alla conclusione che sono i prezzi dei beni finali a determinare il valore dei fattori, sebbene la sua riluttanza ad adottare il benché minimo e semplice strumento matematico (perfino nelle esemplifica­ zioni) gli impedisse poi di raggiungere un pieno sviluppo delle sue intuizioni sull’analisi dei costi e della produttivi­ tà marginale. Beni finali

F ig. 7.3. La determinazione causale del valore. Legenda: F. di P.: Fattore di Produzione.

La questione di fondo da lui affrontata, cioè la relazio­ ne tra fattori della produzione e prezzi, può essere illustra­ ta con l’aiuto della figura 7.3. Supponiamo di avere tre beni finali —arance, banane e ciliegie —e un solo fattore pro­ duttivo, il lavoro, che può essere impiegato nella produzio­ ne di tutti e tre i beni. Supponiamo inoltre che le quantità consumate dei beni finali e le loro utilità marginali siano tali da comportare un’utilità marginale di un’unità addizio­ nale di A maggiore di quella di B e, analogamente, un’uti­ lità marginale di un’unità addizionale di B maggiore di quella di C. Le ciliegie (C) sono il bene marginale prodot­

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to, mentre le arance (A) e le banane (B) sono anche indi­ cati come beni finali inframarginali. Guardando la figura 7.3 gli austriaci affermerebbero che l’utilità marginale del bene marginale (C nel nostro esempio) determina il valore del fattore della produzione marginale e che, quindi, il valore di un fattore della produzione è determinato dal prezzo del bene finale. Per quanto riguarda i beni finali inframarginali A e B, il loro valore dipende dal valore del fattore della produzione utilizzato per produrli: perciò, nel caso di beni finali inframarginali, sono i fattori della pro­ duzione a determinare il prezzo finale e la relazione di cau­ salità del valore è invertita. I teorici dell’utilità marginale ritenevano sbagliata la posizione degli economisti classici secondo la quale i prez­ zi dipendono dal costo di produzione, e la figura 7.3 svela l’esatta natura del loro presunto fraintendimento. Se si guarda soltanto ai beni inframarginali, e quindi si conside­ ra in modo superficiale il processo di formazione del prez­ zo, allora può sembrare che il nesso causale vada dai fatto­ ri della produzione al prezzo, e che quindi siano i primi a determinare il secondo; un esame più approfondito del processo, condotto con l’ottica dei marginalisti, rivela al contrario che il prezzo di un fattore della produzione è misurato attraverso l’utilità marginale che arreca l’ultimo bene finale, cioè il bene finale marginale (le ciliegie del nostro esempio)12. Eugen von Bòhm-Bawerk Bòhm-Bawerk e Wieser avevano la stessa età, erano stati entrambi studenti di Menger, ed erano cognati oltre che amici. L’influenza di Wieser si esplicò soprattutto in Au­ stria e in Germania, mentre Bòhm-Bawerk divenne molto più conosciuto in Inghilterra e negli Stati Uniti. In seguito 12 Ovviamente tutto questo ragionamento implica la nozione di misura­ bilità in senso cardinale dell’utilità. Se si abbandona tale concezione, non ha infatti più senso parlare di «beni marginali». La nozione chiave diventa al­ lora, come nei moderni testi di microeconomia, quella di «produttività mar­ ginale in valore» (N.d.C.).

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alla pubblicazione del suo primo libro egli trovò infatti nell’inglese William Smart un discepolo, che tradusse in inglese i suoi Capitale e interesse del 1890 e Teoria positiva del capitale del 1891, e questo può spiegare anche perché il suo maestro Menger esercitò un’influenza decisamente minore nei paesi di lingua anglosassone, posto che i suoi Princìpi di economia politica non furono tradotti fino al 1950. La profondità di Bòhm-Bawerk quale studioso della teoria del capitale e dell’interesse è rispecchiata nella mole voluminosa dei suoi scritti, suddivisi in tre volumi. Il pri­ mo di questi, ossia Capitale e interesse. Storia critica della teoria economica, passa in rassegna più di centocinquanta autori a partire fin dall’antica Grecia. Per completare la sua trilogia gli occorsero però circa venti anni, durante la mag­ gior parte dei quali ebbe anche un ruolo di protagonista di spicco del governo austriaco. I suoi contributi alla scien­ za economica includono poi: il suo libro su Marx, che abbiamo già ricordato nel sesto capitolo; una lucida espo­ sizione con approfondimenti originali delle idee di Men­ ger sull’utilità marginale; e l’elaborazione di una teoria del capitale e dell’interesse, di cui si dirà nel corso del prossi­ mo capitolo. Al pari del suo maestro Menger e del suo collega ed amico Wieser, Bohm-Bawerk non fece uso della matematica: egli preferì piuttosto esporre le sue opinioni sul valore e sulla formazione del prezzo attraverso una li­ nea argomentativa basata su una precisa direzione causale, trascurando tutti gli aspetti di quella determinazione reci­ proca individuata da Walras e da Marshall, che sarebbe poi diventata un pilastro portante del pensiero economico moderno. Quale strada intraprendere? Il cambiamento dell’obiettivo e del metodo della scienza economica Jevons, Menger e Walras diedero non solo contributi notevoli per quanto riguarda l’apparato concettuale della moderna scienza economica, ma esercitarono al tempo stesso anche un’influenza profonda sul modo di concepi­ re lo scopo e la metodologia alla base della ricerca econo­ mica.

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Tutti e tre gli autori in questione, infatti, si cimentaro­ no in modo particolare con il problema dell’allocazione delle risorse, ovvero con quella che sarebbe stata successi­ vamente indicata come teoria microeconomica. Nel caso di Menger è però necessario qualificare questa affermazione assai generale precisando che egli, nella parte V dei Princi­ pi di economia politica, esaminò il ruolo e l’influenza della conoscenza sul progresso economico, intendendo con ciò riaffermare l’importanza delle osservazioni di Adam Smith sulla divisione del lavoro quale causa primaria del benes­ sere nazionale. Purtroppo le intuizioni di Menger sul ruo­ lo della conoscenza quale fattore di crescita economica e di sviluppo non trovarono seguito presso la generazione di economisti successiva, interessata in modo pressoché esclu­ sivo al problema dell’allocazione delle risorse: nel periodo compreso tra il 1870 e il 1900, infatti, la scienza economi­ ca si allontanò dai temi che avevano appassionato Smith, Ricardo e Mill per indirizzare la propria attenzione verso l’indagine del meccanismo grazie al quale il sistema dei prezzi determina l’allocazione delle risorse. Nonostante la loro posizione riguardo all’obiettivo ap­ propriato della scienza economica fosse praticamente una­ nime, Jevons, Menger e Walras erano però portatori di opinioni differenti riguardo alla metodologia più indicata da seguire. Jevons si collocava all’interno della tradizione che si rifaceva a William Petty, sostenendo un uso più ampio delle procedure statistiche al fine di stabilire rela­ zioni causali tra le diverse variabili economiche. Menger propugnava l’uso del ragionamento astratto e della costru­ zione di modelli attraverso il ricorso alla logica deduttiva, ponendosi in tal modo nella tradizione dell’approccio ricardiano ed evitando, da un lato, di utilizzare procedimenti matematici o statistici e, dall’altro, di prestare attenzione ai processi storici o alle diverse configurazioni istituziona­ li. Anche la metodologia seguita da Walras si collocava nella medesima atmosfera rarefatta dell’astrazione spaziale e temporale, ma egli era altresì convinto che l’interdipen­ denza e i legami di causalità reciproca esistenti nelle eco­ nomie di mercato potessero essere compresi solo attraver­ so l’uso di strumenti matematici. Dopo di loro la corrente ortodossa della scienza econo­

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mica può dirsi aver proseguito per lo più lungo due sen­ tieri distinti: da una parte la strada suggerita da Walras, ovvero l’uso del ragionamento astratto nella sua veste ma­ tematica; dall’altra parte la strada suggerita da Jevons, ovvero l’enfasi sulla necessità di verificare le proposizioni teoriche mediante procedure di tipo statistico. Su alcuni di questi temi ritorneremo nella quinta parte del nostro libro. L’influenza esercitata da Jevons, Menger e Walras sugli scrit­ tori successivi La problematica concernente lo scopo e il metodo più appropriati alla scienza economica è una di quelle dove si esercitò in misura maggiore l’influenza di questi autori. Ma quale fu, a questo proposito, il loro lascito intellettuale agli economisti che li seguirono? Jevons, di fatto, non allevò alcun discepolo (anche a motivo della sua morte prematu­ ra, avvenuta all’età di quarantasei anni in un incidente di nuoto) e quindi si può dire che non sia mai esistita una scuola jevonsiana di pensiero economico in senso proprio; l’importanza delle idee che riassumevano il suo contributo fu inoltre offuscata dall’avvento e dalla diffusione nell’am­ biente britannico di quelle marshalliane. Anche il contri­ buto dato da Walras all’analisi marginalista venne alla lun­ ga oscurato dalla sua stessa formulazione dell’equilibrio economico generale, mentre per quanto riguarda l’influen­ za esercitata da Menger sugli sviluppi successivi della sto­ ria delle idee economiche abbiamo già detto nei paragrafi precedenti. Un numero consistente di economisti si ispirò al lavoro di Menger, insegnando e dedicandosi alla ricerca in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti: di essi il gruppo dei più anziani includeva Mises e Schumpeter, mentre una seconda generazione include i nomi di Friedrich von Hayek (1899-1992), Gottfried Haberler (1900)e Oskar Morgenstern (1902-1977). Alcuni di questi econo­ misti hanno poi proseguito per la propria strada, allonta­ nandosi per un verso o per l’altro dalla tradizione austria­ ca, mentre altri possono essere considerati come aderenti a un nucleo teorico comune, costituito dalla «vecchia scuo­

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la austriaca». Come si è già accennato, l’approccio meto­ dologico invocato da Menger non è stato seguito dagli eco­ nomisti ortodossi, i quali hanno invece adottato l’uso degli strumenti matematici e statistici; la tradizione austriaca ci sembra tuttavia rivestire un interesse particolare, così da in­ durci a passare in rassegna i suoi moderni esponenti nel corso del tredicesimo capitolo, dedicato ad alcune delle correnti non ortodosse del pensiero economico. Anche se non tutti, molti degli economisti che subiro­ no l’influenza di Menger si sono in seguito rivelati difen­ sori delle economie a sistema di mercato e critici delle vi­ sioni alternative offerte dai pensatori socialisti. Mises e Hayek, ad esempio, ebbero un ruolo assai importante in quel dibattito che ebbe luogo negli anni venti e che riguar­ dava 1) la capacità dei sistemi economici socialisti di allo­ care le risorse in modo efficiente e 2) le relazioni tra capi­ talismo, socialismo e libertà politica ed economica. Noi ci dedicheremo all’analisi di questi temi nel corso del dodi­ cesimo capitolo, dove considereremo quegli autori, austria­ ci e anche non austriaci, che presero parte al dibattito su capitalismo e socialismo. Riepilogo Grazie ai loro contributi all’analisi marginalista Jevons, Menger e Walras diedero inizio alla scienza economica neoclassica. Jevons e Menger erano persino convinti di aver avviato un processo di rivoluzione della teoria economica allorché rimpiazzarono la teoria del valore basata sul costo di produzione (e quindi orientata al lato dell’offerta) con una teoria del valore basata sull’utilità marginale (e quindi orientata al lato della domanda). Questa loro speranza ri­ voluzionaria era tuttavia destinata a non realizzarsi, in quanto l’aver dato enfasi esclusiva alle componenti della domanda rappresentava un approccio altrettanto lacunoso di quello classico, che sottolineava gli aspetti propri del lato dell’offerta. La loro concezione del problema del valore, di fatto, suscita alcune perplessità sostanziali, dal momento che si basa su una semplice relazione di causa ed effetto tra utilità marginale e prezzo. In tal modo, proprio come i

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classici avevano ipotizzato che la domanda fosse data e avevano concluso che è l’offerta a determinare il prezzo, allo stesso modo Jevons e Menger assumono l’offerta come data e concludono che è la domanda a determinare il prez­ zo. Walras, dal canto suo, dimostrò una comprensione as­ sai più lucida del problema del valore nel riconoscere l’in­ terdipendenza e i condizionamenti reciproci fra tutte le componenti del sistema economico. I contributi teorici destinati a durare nel tempo che questi tre autori consegnarono al pensiero economico si possono sintetizzare in cinque punti. 1) L’enfasi posta sull’utilità marginale e sul ruolo della domanda ha costretto gli economisti successivi a dedicare maggiore attenzione a questa parte della teoria del valore. 2) L’impiego dell’analisi marginalista ha successivamen­ te portato a riconoscere che si tratta di una tecnica suscet­ tibile di applicazioni più generali, attraverso un processo che ha avuto conseguenze decisive per lo sviluppo della teoria economica. Intorno al 1890 l’analisi marginalista era infatti stata estesa fino a comprendere non solo la doman­ da da parte dei consumatori e l’offerta da parte delle im­ prese, ma anche la domanda di fattori della produzione da parte dell’impresa. 3) L’impiego, da parte di Jevons e di Walras, della ma­ tematica aH’interno della teoria economica rese gli econo­ misti via via più consapevoli delle potenzialità insite in questo approccio analitico, cosa che ha portato, in effetti, alla situazione attuale caratterizzata da un esteso utilizzo di modelli matematici. 4) Il modello walrasiano di equilibrio economico gene­ rale rivelò la sua fecondità nel fornire intuizioni sull’inter­ dipendenza tra i diversi settori di un’economia di mercato e nel gettare le basi per successive costruzioni teoriche. 5) L’uso e il sostegno da parte di Jevons a favore del­ l’impiego di procedure statistiche costituì un importante passaggio verso l’emergere di tecniche econometriche pen­ sate al fine di una possibile verifica delle proposizioni teo­ riche. Nonostante questa ricchezza di contributi, tuttavia, la diffusione dell’analisi marginalista non fu affatto rapida, dando anzi origine a molte controversie. Agli sviluppi del

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marginalismo e della microeconomia di stampo neoclas­ sico sono dedicati i tre restanti capitoli di questa terza parte.

Autori importanti Antoine A. Cournot

Ricerche sui principi matematici della teoria della ricchezza (1838) Hermann H. Gossen Lo sviluppo della legge delle relazioni tra gli uomini e delle regole che ne derivano per gli scambi (1854) Johann H. von Thiinen Lo stato isolato, con riguardo all'eco­ nomia agricola e all’economia nazio­ nale (1826-1863) William S. Jevons La teoria dell' economia politica (1871) Cari Menger Principi di economia politica (1871) Léon Walras Clementi di economia politica pura (1889) Friedrich von Wieser II valore naturale (1889) Eugen von Bòhm-Bawerk Teoria positiva del capitale (1889)

Capitolo ottavo

La diffusione dell’analisi marginalista e la transizione verso l’economia neoclassica

Il valore del frutteto dipende dal valore del suo raccolto e in questo rapporto di dipendenza è latente, implicitamente, il concetto stesso di tasso di interesse. Irving Fisher La prima generazione dei teorici del marginalismo (Jevons, Menger e Walras), con l’introduzione del nuovo tipo di analisi, provocò anche una trasformazione nell’ap­ proccio metodologico alla scienza economica. Come soli­ tamente avviene per la gran parte dei progressi della storia intellettuale, la nuova scienza economica dell’inizio degli anni settanta del secolo scorso conteneva sia elementi di continuità che di innovazione rispetto al passato, per un verso recuperando idee e metodi fondamentali del perio­ do precedente, per l’altro, più significativamente, rompen­ do con la tradizione classica di John Stuart Mill. Fu come se quegli scrittori avessero scoperto un nuovo strumento di analisi, quello marginalista appunto, di cui riuscirono ad immaginare solo parzialmente le potenzialità, e che anzi sfuggì loro nella pienezza della sua portata: essi infatti sot­ tolinearono la differenza tra il contenuto delle loro teorie e quello della scuola classica piuttosto che avvedersi della crescente distanza che li andava separando dal metodo degli economisti classici. Ricardo era stato un maestro nella costruzione di mo­ delli caratterizzati da un notevole grado di astrazione e basati su poche e rigide ipotesi; dopo di lui, J.S. Mill aveva rappresentato un ritorno a un approccio metodologico molto più prossimo a quello di Adam Smith, tendendo ad incorporare materiale descrittivo e storico all’interno del­ l’analisi teorica del funzionamento del sistema economico inglese del suo tempo. I primi marginalisti dunque, più preoccupati di dichiarare senza mezzi termini le differen­

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ze rispetto alle conclusioni della teoria del valore di Ricar­ do, non si accorsero dell’affinità che li legava al modo di costruire modelli astratti di quell’autore. Lo stesso Ricar­ do, inoltre, aveva già impiegato l’analisi marginalista nella spiegazione delle forze che determinavano la rendita agra­ ria, così che negli anni settanta tanto l’approccio metodologico basato sulla costruzione di modelli astratti quanto l’analisi marginalista non costituivano una vera e propria novità. Nuovo era invece il riconoscimento, che andava lentamente affermandosi, dell’importanza dell’analisi mar­ ginalista, insieme alla sua progressiva e minuziosa applica­ zione a tutte le varie parti della teoria microeconomica man mano che il tempo trascorreva. Tali sviluppi furono agevo­ lati in modo straordinario dall’impiego degli strumenti matematici, e in particolare del calcolo differenziale: in quest’ottica sia Jevons che Walras, a differenza di Menger, si erano esercitati parecchio su tali strumenti e dopo di loro tutti i marginalisti della seconda generazione, con l’ecce­ zione degli allievi austriaci di Menger, fecero ricorso al calcolo differenziale per spostare in avanti la frontiera del­ la ricerca economica. Queste tendenze poste in essere dalla prima generazio­ ne dei teorici marginalisti sono proseguite fino ai giorni nostri, quando modelli altamente formalizzati, sviluppati con l’ausilio di un’impressionante serie di tecniche mate­ matiche, sono ormai divenuti di uso quotidiano. Si tratta tuttavia di sviluppi ai quali alcuni economisti hanno oppo­ sto, nel corso del tempo, una certa resistenza, in particola­ re Alfred Marshall, la scuola storica tedesca e inglese, gli istituzionalisti americani, gli economisti neo-austriaci, i radicali e tutto un gruppo eterogeneo di pensatori classifi­ cabili genericamente come al di fuori dei confini dell’orto­ dossia. 1. La diffusione dell'analisi marginalista: la seconda genera­ zione Prima di procedere allo studio dei contributi specifici apportati dai teorici marginalisti della seconda generazio­ ne alle teorie, rispettivamente, della produzione, dei costi,

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dei prezzi dei fattori della produzione e della distribuzio­ ne del reddito, conviene soffermarci con una certa atten­ zione sui principali punti di debolezza dell’impianto micro­ economico così come era stato presentato da Jevons, Mun­ ger e Walras. Dopo che avremo studiato i marginalisti del­ la seconda generazione, passeremo all’esame del modello di equilibrio economico generale di Walras e infine, come ultimo passo, ci dedicheremo allo studio dei tentativi com­ piuti da Alfred Marshall per risolvere le molte questioni teoriche e metodologiche che erano state sollevate e lascia­ te aperte nel corso di quel periodo. Benché Jevons, Menger e Walras, estendendo l’area di applicazione dell’analisi marginalista, avessero dato un impulso senz’altro decisivo all’avanzamento della micro­ economia, molto rimaneva ancora da fare in questa dire­ zione, essendo le loro teorie, quanto al contenuto, defici­ tarie da parecchi punti di vista: essi infatti avevano appli­ cato l’analisi marginalista quasi esclusivamente alla teoria della domanda, ignorando così quasi del tutto la teoria dell’offerta. Diversi erano stati i motivi che avevano spinto i vari autori a dedicare così scarsa attenzione al lato del­ l’offerta: Jevons e Menger erano fortemente preoccupati di stabilire il principio per il quale il valore dipende in modo pressoché esclusivo dall’utilità marginale; mentre Walras, attraverso il suo modello di equilibrio economico genera­ le, si era concentrato più che altro sul legame di interdi­ pendenza fra tutte le variabili del sistema economico. Si può dire che la caratteristica fondamentale dei mo­ delli presentati da questi autori fosse quella di considerare l’offerta come data, di modo che il problema dell’alloca­ zione delle risorse venisse a coincidere con il problema di allocare un’offerta fissa tra diversi usi alternativi. Detto in modo più preciso, i primi marginalisti non avevano alcuna spiegazione delle forze che determinavano i prezzi dei fat­ tori della produzione quando l’offerta di tali fattori non fosse data in quantità fissa; né avevano una spiegazione delle forze che determinano la distribuzione del reddito; né un’analisi significativa della teoria dell’impresa; né, infine, alcuna intuizione sui problemi di consistenza che devono essere risolti nell’elaborare una teoria soddisfacente per salari, rendite, profitti e interesse.

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L’analisi marginalista, di fatto, era già stata applicata da parte di due autori precedenti, sia al problema della deter­ minazione dei prezzi dei fattori della produzione, sia a quello della distribuzione del reddito. Malgrado che i loro sforzi teorici, proprio come accadde a Gossen, fossero sta­ ti ignorati quasi del tutto da parte dei loro contemporanei, va ricordato infatti come già nel 1834, con le Lezioni di econo?nia politica, Mountifort Longfield (1802-1884) aves­ se criticato la teoria del valore-lavoro e presentato in sua vece una teoria della distribuzione basata sulla produttivi­ tà marginale (ma la sua opera rimase sconosciuta a Jevons, Menger, Walras e Marshall, e venne portata a conoscenza degli economisti soltanto nel 1903, da parte di E.R.A. Seligman). Accanto alle sue disavventure vanno ricordate anche quelle di Johann H. von Thiinen (1783-1850) il quale, benché avesse avuto intuizioni ancora più profonde in merito a questioni teoriche tipicamente microeconomi­ che, sembra che, fra tutti i pionieri della produttività mar­ ginale, abbia esercitato una qualche influenza soltanto su Alfred Marshall. Von Thiinen può essere forse considerato il primo, tra gli economisti, ad applicare il calcolo matematico alla teo­ ria economica, e la sua padronanza di tale strumento gli permise di giungere all’intuizione del concetto di interdi­ pendenza dei mercati, che egli rappresentò attraverso un serie di equazioni simultanee. Dunque egli non soltanto riuscì a sviluppare l’idea di prodotto marginale dei vari fattori della produzione, ma in più fu capace di esporre una teoria della distribuzione, ragionevolmente corretta, basa­ ta su questi stessi principi. Dopo aver ingaggiato una vera e propria tenzone intellettuale, durata quasi vent’anni, con il problema di incorporare in un’unica espressione tutte le forze di natura economica che influiscono sulla determina­ zione dei prezzi dei fattori, von Thunen fu talmente sod­ disfatto del risultato del suo lavoro che richiese esplicita­ mente che sulla sua tomba venisse iscritta la formula ma­ tematica che esprimeva la determinazione del salario. I suoi risultati teorici non ebbero tuttavia alcun impatto sul pen­ siero economico successivo, nonostante Marshall abbia poi generosamente riconosciuto il proprio debito intellettuale nei suoi confronti.

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La seconda generazione dei teorici del marginalismo si accostò alla teoria economica disponendo già di uno stru­ mento di analisi potente e suscettibile di applicazione sia alla teoria della domanda che alla teoria dell’offerta. Fino a quel momento era però stato impiegato quasi esclusivamente per esaminare il lato della domanda, in particolare la teoria del consumatore, e soltanto raramente per analiz­ zare la teoria dell’offerta o dell’impresa. Nell’esposizione che segue cercheremo pertanto di ricordare i contributi analitici di questa seconda generazione di marginalisti, sen­ za sottolineare né la paternità o l’originalità dei concetti in esame né le differenze (peraltro di poco conto) tra i vari autori. Furono in effetti diversi gli autori che, dall’Austria, dall’Inghilterra, dalla Svezia e dagli Stati Uniti, contribui­ rono in modo significativo alla costruzione del corpo teo­ rico del marginalismo maturo. Ciò pone in evidenza non soltanto come gli sviluppi teorici rappresentassero gli sfor­ zi congiunti di molti studiosi, ma anche come la scienza economica, quale branca accademica, andasse via via ac­ quisendo un suo proprio statuto professionale. Come si vedrà, la trattazione che daremo di alcuni spunti teorici si estenderà agevolmente, per la loro portata, fino al ventesi­ mo secolo; nonostante ciò noi riserveremo la gran parte delle nostre valutazioni critiche sul marginalismo per quan­ do avremo completato l’esposizione del sistema teorico di Alfred Marshall, il quale andò raffinando le proprie idee per più di vent’anni prima di giungere alla pubblicazione della prima edizione dei Principi di economia nel 1890. 2. ha teoria della produttività marginale Introduzione H principio dei rendimenti decrescenti svolge un ruolo fondamentale nella teoria economica moderna e in parti­ colare in quella microeconomica, dove esso «spiega» la forma delle curve di offerta di breve periodo delle imprese e la forma delle curve di domanda dei fattori della produ­ zione da parte delle imprese stesse.

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Si tratta di un concetto che venne individuato molto presto dagli economisti e che già Ricardo aveva applicato alla sua analisi della rendita fondiaria. Ricardo, in partico­ lare, studiò quelle che oggi sarebbero chiamate le funzioni di produzione per il settore agricolo, vale a dire le relazioni tra la quantità fisica dei fattori e la quantità fisica del pro­ dotto ottenibile dalla terra. Nel fare ciò egli aveva ipotiz­ zato che il rapporto tra capitale e lavoro in ogni determi­ nato processo produttivo fosse fisso, ovvero dato dalla tec­ nologia a disposizione, e che unità addizionali di capitale e lavoro, secondo la proporzione fissata dalla tecnologia, venissero aggiunte a una quantità fissa di terra: sulla base di queste ipotesi era giunto alla conclusione che il prodot­ to ottenibile dal processo produttivo avrebbe manifestato la caratteristica di rendimenti marginali sempre minori via via che fossero aumentate le dosi di lavoro e di capitale ap­ plicate alla sua produzione. Lo stesso Ricardo prima, e gli altri autori ricardiani poi, non afferrarono per intero la portata di questa analisi, e non si avvidero di implicazioni teoriche importanti quali la differenza tra prodotto medio decrescente e prodotto mar­ ginale decrescente, o la più ampia applicabilità della no­ zione di rendimenti decrescenti. Il fatto che dovettero tra­ scorrere quasi settantacinque anni tra il lavoro di Ricardo (che aveva applicato l’analisi della produttività marginale alla determinazione della rendita fondiaria) e il lavoro dei marginalisti (che giunsero alla sua applicazione, in termini più generali, rispetto a tutti i fattori della produzione) rap­ presenta però una delle anomalie della storia dell’analisi economica. Una seconda anomalia, parallela a quella ap­ pena enunciata, consiste nello sviluppo subito dall’analisi marginalista ricardiana, che era stata originariamente ela­ borata per essere impiegata dal lato dell’offerta, ma che ebbe la prima significativa estensione negli anni settanta, quando vi si ricorse per l’analisi dell’utilità marginale, più che per quella della produttività marginale. Toccò dunque alla seconda generazione dei teorici del marginalismo il compito di portare a compimento, finalmente in tutti i suoi elementi costitutivi, quella che in seguito è divenuta nota come la teoria della distribuzione basata sulla produttività marginale. Gli economisti che più si distinsero all’interno

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di questo gruppo furono gli austriaci Friedrich von Wieser (1851-1926) e Eugen von Bòhm-Bawerk (1851-1914), l’americano John Bates Clark (1847-1938), lo svedese Knut Wicksell (1851-1926) e gli inglesi Philip Henry Wicksteed (1844-1927) e Francis Ysidro Edgeworth (1845-1926). Questi autori, insieme con Jevons, Menger, Walras e Mar­ shall, furono le personalità di maggior rilievo intellettuale in questo periodo della storia della teoria economica orto­ dossa, che possiamo datare, con riferimento alle loro ope­ re principali, dal 1871 al 1893. Il principio dei rendimenti decrescenti Mantenendo costante un fattore della produzione ed aggiungendovi un altro fattore variabile, il prodotto totale che si ottiene avrà spesso il seguente andamento: aumen­ terà inizialmente a un tasso crescente, quindi aumenterà a un tasso decrescente ed infine diminuirà. Come esempio di una relazione siffatta tra input e output entrambi misu­ rati in termini fisici, si può vedere quello riprodotto nella tabella 8.1. T a b . 8.1. Una funzione di produzione

Lavoro 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11

Prodotto medio Prodotto totale Prodotto marginale del lavoro del lavoro del lavoro (tonnellate di grano) (tonnellate di grano) (tonnellate di grano) 0 10 21 33 46 58 68 75 80 83 83 80

o 10,0 10,5 11,0 11,5 11.6 11,3 10,7 10,0 9’2 8,3 7,3

> > > > > > > -, > >

10 11 12 13 12 10

0 -3

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I dati utilizzati per la funzione di produzione illustrata nella tabella potrebbero ragionevolmente essere stati em­ piricamente ottenuti nel modo seguente: mantenendo la quantità di terra costante, per esempio, a 100 acri, e appli­ candovi il lavoro di un uomo per un anno, troveremmo che il prodotto totale sarebbe 10 tonnellate di grano, mentre applicandovi il lavoro di due anni-uomo, registreremmo un output di 21 tonnellate, e così via in base alle prime due colonne. Si noti a questo proposito che i dati riportati nel­ la colonna intestata «prodotto totale del lavoro» sono rife­ riti, per ipotesi, alla quantità massima producibile con le quantità degli input fissi e di quelli variabili; in altre paro­ le, si assume che sia sempre raggiunta la massima efficien­ za tecnologica possibile, e che il livello della tecnologia resti invariato allorché vengono sperimentate le diverse combinazioni di fattori e i diversi rapporti tra fattori e pro­ dotto. I valori del prodotto medio e del prodotto marginale del fattore variabile, cioè del lavoro nel nostro esempio, sono riportati nelle ultime due colonne della tabella 8.1, e graficamente nella figura 8.1. Nella figura la curva del pro­ dotto medio del lavoro, calcolato dividendo il prodotto totale per la quantità di lavoro impiegato, è stata tracciata in relazione a quella del prodotto totale. Per quanto riguar­ da il prodotto marginale, che spesso viene definito, più precisamente, il prodotto marginale del lavoro in termini fisici {marginai physical product o f labor, in inglese), si de­ finisce come A TP m ppl AL ' Dal punto di vista geometrico esso è rappresentato dal­ l’inclinazione della curva del prodotto totale, ovvero dalla derivata prima del prodotto totale rispetto al lavoro. Nella figura 8.1 si vede come, quando la quantità del lavoro è q17 il prodotto marginale è al suo punto di massimo; in corri­ spondenza della quantità ^ è il prodotto medio ad essere al suo punto di massimo, e in quel punto prodotto medio e prodotto marginale coincidono; infine, quando la quantità di lavoro è q,, il prodotto totale ha raggiunto il suo massi­ mo, e a quel livello il prodotto marginale è uguale a zero.

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Ne segue che per quantità di lavoro superiori a qò il prodot­ to totale sarà decrescente e il prodotto marginale assumerà valori negativi. Ci volle del tempo perché, verso la fine del diciannove­ simo secolo, venissero elaborate con precisione le proprie­ tà delle funzioni di produzione (come quella riportata come esempio nella tabella 8.1), e le implicazioni teoriche connesse a tali proprietà. Grazie a questi risultati teorici diventò possibile rappresentare e calcolare, ad esempio, il prodotto marginale di uno qualsiasi dei fattori della pro­ duzione (come se, nel caso sopra ipotizzato, avessimo man­ tenuto fissa la quantità di lavoro e avessimo perciò deriva­ to la curva del prodotto marginale della terra).

Fio. 8.1. Prodotto totale, prodotto medio e prodotto marginale.

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Gli elementi di novità e quelli di continuità Sulla scorta di una comprensione decisamente più ap­ profondita delle relazioni di produzione, consentita dal­ l’analisi della funzione di produzione, si giunse in seguito anche alla consapevolezza che la curva di domanda dei fattori della produzione poteva essere derivata dalle curve del prodotto marginale. Si assuma che un’impresa operan­ te in un’industria perfettamente concorrenziale impieghi solo un fattore di produzione variabile, il lavoro, e che essa venda il proprio prodotto finito all’interno di mercati a loro volta perfettamente concorrenziali, così che il prezzo non vari al variare del volume di vendite: l’impresa, in altre parole, ha di fronte a sé una curva di domanda perfetta­ mente elastica per quanto riguarda il suo prodotto finale. Si assuma inoltre che essa acquisti il proprio fattore varia­ bile in mercati perfettamente concorrenziali, di modo che il prezzo di quell’input non vari al variare della quantità acquistata: in altre parole, l’impresa ha di fronte a sé una curva di offerta dell’input variabile che è, di nuovo, per­ fettamente elastica. Se l’impresa si comportasse in modo da ottimizzare la propria situazione, sarebbe spinta ad acqui­ stare il fattore variabile fino al punto in cui l’ultima unità acquisita le consentisse di incrementare il ricavo comples­ sivo in misura pari all’incremento del costo totale. Questa condizione di ottimalità può essere riformulata come se­ gue: prezzo del lavoro —(prodotto marginale fisico del lavoro) X (prezzo del prodotto).Il Il lato sinistro dell’equazione misura l’incremento del costo totale che consegue all’impiego di un’unità addizio­ nale di lavoro, mentre il lato destro misura l’incremento del ricavo totale che deriva dalla vendita del prodotto aggiun­ tivo del lavoro, e di solito ci si riferisce ad esso come al valore del prodotto marginale. In base ai dati riportati nella tabella 8.1, assumiamo che il prezzo del lavoro sia di 10.000 dollari per anno-uomo, e che quello del prodotto finale sia di 1.000 dollari per ton­ nellata; in questo caso, se l’impresa caratterizzata da quel-

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la funzione di produzione impiegasse 5 unità di lavoro, otterremmo, per l’equazione che esprime la condizione di ottimalità nell’impiego del fattore lavoro, i seguenti valori: PL = MPPl ■ Po 0000 $ 0000 $

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