Ravenna e l’Adriatico dalle origini all’età romana 9788878490819, 8878490814

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CENTRO STUDI PER L'ARCHEOLOGIA DELL'ADRIATICO

ARC�LOGIA DEL�IATICO

Ravenna e l'Adriatico dalle origini ali'età romana

a cura di Federica Boschi

Ravenna e l'Adriatico dalle origini all'età romana

a cura di Federica Boschi

Questo volume è stato realizzato con il contributo di: Centro Scudi per l'Archeologia dell'Adriatico Fondazione della Cassa di Risparmio di Ravenna

In copertina: Rimini, Museo della Città, antefissa fittile, V sec. a.C. (su concessione del Ministero' per i Beni e le Attività Culturali - Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Emilia Romagna)

Ance Quem soc. coop. Via Senzanome 10, 40123 Bologna ce!. e fax + 39 051 4211109 www.ancequem.ie © 2013 Ance Quem soc. coop. ISBN 978-88-7849-081-9

INDICE

Presentazione Giuseppe Sassate/li

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Premessa Lorenzo Braccesi

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Ravenna, Spina e la tradizione pelasgica Giulia Morpurgo

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I commerci greci e gli empori del delta padano Chiara Pizzirani

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Venezia prima di Venezia. Vie d'acqua tra Altino e Ravenna Chiara Pizzirani

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I miti greci tra Ravenna e il Caput Adriae Silvia Romagnoli

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I porti del delta padano nel IV secolo a.C. Andrea Gaucci

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Episodi dell'espansionismo romano verso il delta padano Andrea Gaucci

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Roma sul mare e il porto augusteo di Classe Enrico Cirelli

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L'Adriatico romano e il problema di Ravenna Enrico Cirelli

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PRESENTAZIONE

Il volume rappresenta il completamento di un'importante iniziativa del Centro Studi per l'Archeologia dell'Adriatico che ha perfettamente sintetizzato le due anime dell'Associazione, quella della ricerca e della riflessione accademica e quella della di­ vulgazione dei risultati, rivolta a un pubblico vasto e non necessariamente di specia­ listi della materia. Questa iniziativa, che si è svolta con successo tra il 2010 e il 2011, è consistita in due cicli di lezioni magistrali che il prof. Lorenzo Braccesi ha tenuto ,a Ravenna (nelle cornici di Casa Traversari e di Palazzo Verdi), rispettivamente intitolati Ravenna e l'alto Adriatico in età pre-romana e Ravenna romana e l'Adriatico. Questi cicli di lezioni furono ideati e voluti dal Centro Studi proprio con l'intento di avvicinare il pubblico a tematiche normalmente riservate al mondo accademico, rendendole "più accessibili" pur mantenendo alto il profilo dei contenuti e dei temi. Un obiettivo certamente non facile, ma che Lorenzo Braccesi ha saputo conseguire con sapiente misura e straordinaria generosità, oltre che con molto successo se solo teniamo conto della grande affluenza di uditori a entrambe le edizioni. Al termine dei due cicli di lezioni si è pensato di lasciare traccia concreta dell'iniziativa affidando ad alcuni giovani studiosi che fanno capo al Dipartimen­ to di Storia, Culture e Civiltà (Sezione di Archeologia) dell'Università di Bologna e con Sede a Ravenna, il compito di riprendere e di sviluppare gli argomenti trat­ tati da Braccesi arricchendo questo loro lavoro con un prezioso aggiornamento e una efficace opera di sintesi. Essi hanno infatti saputo rivisitare con spirito critico e modernità comunicativa i temi e le problematiche affrontate durante le lezioni magistrali. Questo non sarebbe stato possibile senza il supporto e il contributo di Enti e Istituzioni. In particolare del Comune di Ravenna e della Fondazione Flaminia, che hanno proseguito l'impegno da anni preso con il Centro Scudi con rinnovati sostegni, permettendo anche la realizzazione di questa iniziativa. Il ringraziamento più sentito e doveroso va alla Fondazione Cassa di Rispar­ mio di Ravenna e al suo Presidente, Lanfranco Gualtieri, che, con il loro generoso 5

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contributo, hanno concretamente permesso questa uscita editoriale, dimostrando ancora una volta una sensibilità non comune verso le attività di studio e valoriz­ zazione del nostro patrimonio culturale che da anni il Centro Studi da me presie­ duto promuove con impegno, passione e dedizione. E che, come in questo caso, ha trovato sempre grande attenzione nella Città di Ravenna e nelle sue Istituzioni. Il Presidente del Centro Studi per l'Archeologia dell'Adriatico Giuseppe Sassatelli

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PREMESSA

Un senso di colpa e una nota di rimpianto mi accompagnano nel presentare questo libro, che ripropone per i singoli contributi i titoli di una serie di lezioni che - per iniziativa del Centro Scudi per l'Archeologia dell'Adriatico - ho tenuto a Ravenna, a Casa Traversari, nel biennio 2010-2011. Senso di cofpa perché avrei io dovuto redigere i vari capitoli di cui si compone questo libro, ma non ho avuto la pazienza di riascoltare dalle registrazioni la mia voce, e quindi di costringermi a riflettere ancora una volta sul già detto o sul già sericeo. Nora di rimpianto per essere stato costretto, in anni lontani, a emigrare dall'Università di Bologna, l'ateneo al quale appartengono cucci i giovani autori che firmano queste pagine e nel quale, da poco laureato, anche io avevo sperato di continuare la mia attività di ricercatore. Quando, nel 1971, pubblicai la prima edizione di Grecità adriatica - forte­ mente osteggiata nell'ambito accademico dell'Alma Mater - ero già in esilio. Ricordo la cosa per misurare, anche nel campo della ricerca, il tempo trascorso da allora. Si tratta solo di un quarantennio, ma sembra uno spazio siderale. Quando allora parlai di Micenei nell'alto e medio Adriatico non c'era traccia alcuna di documentazione archeologica, mentre ora non c'è carta di distribuzione di loro materiali che non contrassegni di più simboli l'area di questo mare. Quando al­ lora mi cimentai per la prima volta nel proporre stratigrafie di miei, l'operazione parve assai discutibile, mentre oggi si tratta di una metodologia perfino abusata. Quando sostenni che per studiare la "grecità adriatica" - espressione poi dive­ nuta di moda - non bisognava rapportarsi alla realtà della Magna Grecia, ma istituire nuovi parametri per studiare i Greci delle frontiere, parve un sacrilegio, mentre oggi è cosa sconcata anche a livello manualistico. E via dicendo! Ora questo libro, in prospettiva ravennate, facto tesoro di un quarantennio di scudi, ripropone molti dei temi allora appena scandagliaci: il valore documentario delle leggende greche, il significato della tradizione pelasgica, il problema dell'emporfa ateniese nell'area del delta padano, il tema della navigazione endolagunare, il 7

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quadro dell'espansionismo romano. Di nuovo aggiunge, sempre rifacendosi alle mie lezioni, l'affondo su Ravenna: da porto dell'Italia augustea a ultima capitale dell'occidente latino. Orbene, proprio i contributi raccolti in questo agile volume danno ragione del tempo trascorso e dello stato di avanzamento della ricerca. E lo fanno in maniera esemplare, senza mai perdere di vista che il tema delle mie lezioni era sì l'Adria­ tico in età greca e romana, ma sempre considerato in prospettiva del divenire della storia ravennate. Se avessi scritto io le pagine che seguono, avrebbero perso di freschezza e forse neppure avrebbero centrato l'obiettivo: che è quello di offrire una corona di articoli ampiamente fruibili anche a un pubblico di non addetti ai lavori. Il che non è impresa facile: divulgare non significa volgarizzare, ma sapere scrivere in forma accattivante rivolgendosi a una pluralità di lettori senza però mai abbassare la guardia (misurata sul metro della più aggiornata evidenza documentaria e sulla sua incidenza nell'attuale dibattito scientifico). Obiettivo senz'altro pienamente raggiunto dagli autori del libro. I quali non solo hanno saputo tradurre il mio pensiero con taglio saggistico, e in forma nitida e incisiva, ma sono anche riusciti a operare un'intelligente sintesi delle mie lezioni, sfron­ dandole del superfluo, arricchendole di nuove osservazioni, e talora integrandole in forma critica con nuovi spunti di ricerca. A loro il mio ringraziamento e l'au­ gurio di buona fortuna. Lorenzo Braccesi

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RAVENNA, SPINA E LA TRADIZIONE PELASGICA

Giulia Morpurgo

Viva è nelle pagine degli scrittori antichi la memoria dei più remoti contatti tra le genti provenienti dal mondo greco e le popolazioni delle coste adriatiche, di frequente espressa attraverso la forma affatto ingenua della leggenda che vede­ va come protagonisti eroi o popolazioni che, dall'area dell'Egeo, approdarono in questi lidi sia in tempi di una mitica protostoria precedente di molte generazioni alla guerra di Troia, che all'epoca dei nostoi (ritorni) degli eroi che quella guerra avevano combattuto. Si tratta di miti e leggende che, almeno nella loro formu­ lazione originaria applicata all'Adriatico, risalgono a una fase molto antica della frequentazione greca in occidente. All'interno di tale quadro, un'indagine volta a ricostruire le più antiche origi­ ni della città di Ravenna non può essere affrontata disgiuntamente da un'analisi di quelle antiche tradizioni mitografiche che trovarono ambientazione proprio sullo sfondo del paesaggio deltizio ed endolagunare altoadriatico. Attraverso un delicato e paziente tentativo operato da parte della storiografia più recente finalizzato a enucleare il contenuto storico di questi stessi miti, appare oggi forse possibile delineare in maniera un po' più evidente l'importanza rive­ stita da Ravenna e il suo peculiare ruolo nel quadro del popolamento delle coste nordadriatiche in epoca preromana. Tale operazione infatti, nel caso specifico del centro adriatico, si rivela quanto mai proficua consentendo di integrare, almeno in parte, le pesanti lacune determinate da una documentazione archeologica che, per le epoche più antiche, si rivela particolarmente scarna e di non facile lettura. Inoltre, come si avrà modo di osservare, le antiche tradizioni relative all'origi­ ne di Ravenna non possono essere disgiunte da quelle che coinvolgono il sito di Spina, con il quale tale centro presenta numerose affinità. Addentrandosi dunque nello specifico della documentazione letteraria superstite relativa al centro ravennate, appare piuttosto significativo evidenziare come l'interes­ se degli autori antichi nei confronti della città maturò soltanto in un'epoca relativa­ mente recente. Sorvolando sul fatto che il nome di Ravenna risulta attestato per la 9

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Fig. 1. La Grecia e l'Egeo: carta con indicazione delle regioni antiche e delle poleis ( da Lippolis, Rocco 2011,p.12.fig. 1.3.1)

prima volta nell'orazione pro Balbo, pronunciata da Cicerone nel 56 a.C. e che i primi avvenimenti storici ai quali la città è associata esplicitamente sono riferibili agli anni della guerra civile che vide contrapporsi la fazione guidata dal nobile Lucio Cornelio Silla a quella di Mario, è solo con la prima età imperiale che appare possibile ricono­ scere una maggiore attenzione nei confronti di cale centro e, in particolare, delle sue origini; origini che, come vedremo, si perdevano in un passato sentito così remoto e distante dagli antichi da essere letto già da loro in chiave mitica. L'interesse manifestato soltanto a partire dall'età augustea trova piena giu­ stificazione nel ruolo che la città venne ad assumere divenendo sede della Classis Ravennatis, la flotta pretoria istituita da Augusto incorno al 27 a.C. con il compito di vigilare sulla parte orientale del Mediterraneo. Il primo autore a occuparsi in maniera più dettagliata di Ravenna fu Scrabone, storico e geografo greco vissuto in epoca augustea, allorché la nuova funzione ri­ vestita dal centro induceva in qualche modo a nobilitare la scelta dell'imperatore Augusto indagandone le più antiche origini, momento sentito come essenziale ai fini della collocazione della città entro il "sistema" dei riferimenti mitici o storici propri del mondo greco: «si dice anche che Ravenna fu fondazione dei Tessali i quali, non potendo sopportare le aggressioni violente dei Tirreni, accolsero vo10

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Pelasgi secondo Ellani 11 " Enea Odisseo Teopompo Tarchon nell' Eneide secondo A. Caecina (e Catone?)

citta· tondate dai Pelasgi

Fig. 2, Carta delt'Italia antica con ricostruzione dell'itinerario dei Pelasgi (da Colonna 1980, p. 15, fig, I)

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lentieri alcuni Umbri che occupano tuttora la città, mentre i Tessali ritornarono nelle loro sedi» (V 7), L'autore, nella sua Geografia, riporta dunque l'opinione secondo cui Ravenna sarebbe stata in antico fondata dai Tessali; costoro tuttavia, non potendo affron­ tare le violente aggressioni da parte dei Tirreni/Etruschi, sarebbero tornaci alla propria sede d'origine dopo aver favorito l'ingresso in città di genti umbre, le quali l'abitavano ancora al tempo in cui scriveva la fonte utilizzata da Scrabone, da identificarsi molto probabilmente con il geografo Artemidoro d'Efeso, vissuto sul finire del II secolo a,C. Chi sono dunque questi Tessali, mitici fondatori della città? È opinione comu­ ne che essi non corrispondano agli abitanti in epoca storica dell'omonima regione della Grecia centrale ma vadano identificaci con i Pelasgi, una micistorica popola­ zione in relazione alla quale l'assenza di testimonianze archeologiche e materiali sicure contribuisce ancora oggi a renderne sfuggenti le tracce impedendone una adeguata trattazione storiografica. Con il termine Pelasgòi i Greci erano soliti designare in modo più o meno chiaro ed esplicito quelle popolazioni, presumibilmente autoctone, che popolava­ no l'Egeo prima della calata delle stirpi elleniche: si cracca dunque di una strato preellenico ma non anellenico, di progenitori le cui discendenze si perdevano nelle nebbie mitiche dell'origine del genere umano. Le fonti tuttavia offrivano un quadro molto spesso contraddittorio che poteva prestarsi a molteplici interpreta­ zioni sia per quel che concerne la loro localizzazione, sia per quel che riguarda la loro cronologia e diffusione nel Mediterraneo. Citaci già nel celebre catalogo delle navi dell'Iliade omerica, come antichissi­ mi abitanti della Tessaglia, un tempo denominata ITEÀaoy(a, secondo Esiodo ed Ecaceo, essi risultano presenti anche in molte altre località della Grecia interna o dell'area microasiacica. Tutta la tradizione è infatti concorde nel presentarli come un popolo sempre in movimento alla ricerca di nuove regioni che, socco la minaccia di qualche in­ vasore, abbandona le vecchie sedi per raggiungerne di nuove accraversando più volte il mar Egeo e ampliando di volta in volta il proprio raggio di diffusione. Il topos della migrazione diverrà a tal punto caracceriscico da generare, già presso gli antichi, diversi tentativi d'interpretazione etimologica del nome, era cui, una del­ le più ricorrenti e significative, è quella che mette in relazione il termine Pelasgi con oi ITEÀagyo(, le cicogne, ovvero gli uccelli migratori per eccellenza. La trattazione più completa e dettagliata sulle origini dei Pelasgi, sulla loro diffusione nel bacino del Mediterraneo e la loro presenza in Italia è quella resti­ tuita dallo storico e retore greco Dionigi di Alicarnasso, vissuto a Roma durante il principato di Augusto. A cali mitiche genti egli dedicò infatti una porzione significativa del I libro delle Antichità Romane. Narra Dionigi che i primi Greci che attraversando il golfo Ionio giunsero in Italia furono gli Arcadi guidaci da Enocro figlio di Licaone, diciassette generazio­ ni prima della guerra di Troia. Dopo che gli Arcadi si furono insediaci in Italia e fusi con gli Aborigeni (ter­ mine con cui l'Autore identifica gli autoctoni del suolo italiano), una seconda on12

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data migratoria greca interessò l'Italia, ovvero quella dei Pelasgi. La prima parte della notizia dionigiana sui Pelasgi ricorda le loro vicende in Grecia: la derivazio­ ne del loro nome da quello del re eponimo Pelasgo, la loro origine peloponnesiaca da Argo Pelasgica, il loro trasferimento, dopo sei generazioni, nell'Emonia, antico nome della Tessaglia, e dopo altre sei generazioni la loro fuga, sotto la pressione dei Cureti e dei Lelegi guidati da Deucalione, che li portò a occupare Creta, le Cicladi, l'Estiaotide, la Beozia, la Focide e l'Eubea, Lesbo e soprattutto la regione di Dodona da dove, in seguito a un responso dell'oracolo, mossero finalmente verso l'Italia: «spinti ancora più in alto mare dal vento del sud e dalla mancanza di familiarità con i luoghi, toccarono terra sulla bocca della foce del Po, detta spi­ netica; qui essi lasciarono le navi e quelli di loro che erano meno atti a sopportare le difficoltà, mettendo sentinelle sulle navi onde conservarsi una via di scampo, qualora le cose si fossero messe male. I Pelasgi rimasti alla foce del Po circondaro­ no l'accampamento con un muro e vi trasferirono le vettovaglie; quindi, una volta vista la loro situazione evolversi secondo le aspettative, costruirono una città e la chiamarono con lo stesso nome della foce del fiume» (I 18). La migrazione pelasgica segue dunque un itinerario che combina un percorso terrestre dal Peloponneso alla Tessaglia, all'Epiro, a uno marittimo dall'Epiro alla Puglia e quindi al delta del Po. Secondo quanto ipotizzato da diversi studiosi, confortati in questo dai sempre più consistenti rinvenimenti archeologici, appare oggi del tutto probabile che tale percorso ricalchi la stessa rotta percorsa dalle navi e dalle merci greche a partire già dall'Età del Bronzo. Ma il racconto di Dionigi non si arresta e anzi entra più nel dettaglio resti­ tuendoci il resoconto più complesso e articolato circa le origini e la storia di Spina, uno dei centri più importanti all'interno del sistema territoriale realizzato dagli Etruschi in area padana a partire dalla seconda metà del VI secolo a.C. e che qua viene definita, alla pari di Ravenna per Strabone, fondazione pelasgica: «questa gente finì con il raggiungere un grado di benessere più elevato di tutti quelli che abitano nel Golfo dello Ionio e, grazie al loro dominio del mare a lungo esercitato, inviarono decime dei loro guadagni dal mare al dio di Delfi, decime fra le più splendide mai offerte da altre genti. Più tardi però, poiché i barbari delle zone circostanti mossero loro guerra con grandi eserciti, essi abbandonarono la città; e questi barbari a loro volta dopo un certo lasso di tempo ne furono scacciati dai Romani. Così finì il gruppo dei Pelasgi che era stato lasciato a Spina». Chiara nel quadro proposto dallo storico di Alicarnasso risulta l'identificazione degli Spineti con i Pelasgi: essi non solo avrebbero costituito il primo insediamento da cui si sviluppò la città di Spina, ma sarebbero anche coloro i quali l'abitavano nel periodo successivo, ovvero quello di massima potenza del centro. La storia di Spina si evolve dunque, nell'ottica di quest'autore, come storia di un centro greco, la cui ricchezza, testimoniata dalla decima versata presso il santuario di Apollo a Delfi, era legata a una vera e propria talassocrazia esercitata dai suoi abitanti nel mare Adriatico, che implicava un controllo assoluto dei traffici commerciali. In tale luogo, Dionigi di Alicarnasso, il quale nella sua opera era solito riferire oltre la versione cui dava maggiore credito anche quelle di altri autori, non fa altro che riprendere e sviluppare la preziosissima testimonianza diretta di una delle sue 13

fonti, Ellanico, storico di Lesbo all'in­ circa contemporaneo di Erodoto, vissu­ to era il 480 e il 400 a.C. Egli infatti, riprendendo proba­ bilmente a sua volta una teoria già formulata da Ecaceo di Mileto intor­ no al 500 a.C., così si esprime nella Foronide, un' opera dedicata all'eroe Foroneo, considerato il capostipite degli abitanti del Peloponneso: «Fra­ score fu figlio di Pelasgo, loro re [dei Pelasgi], e di Menippe, figlia di Pe­ neo; figlio di Frastore fu Amintore, di Amintore fu Teucamide, di Teuca­ mide fu Nanas. Durante il regno di questo i Pelasgi furono scacciaci dal loro paese dai Greci e, lasciate le loro navi presso il fiume Spines, nel golfo Ionio, presero Crotone [Cortona], una città dell'interno e, pareici di lì, occu­ Fii!, . 3. li tesoro de!!,li Atwini ti De/ji: /'1111i((J parono quella che ora noi chiamiamo tesoro interamente ··remperato .. ( da Torelli 1993. p. 55.Jig. 45) Tirrenia» (I 28, 3). Si tratta dunque di poche, ma den­ se e preziosissime righe in cui non solo ci viene restituita la testimonianza pii:, antica dell'origine pelasgica della città di Spina, ma si ricava anche la teoria, di cui Ellanico, a differenza di Dionigi di Alicarnasso, fu uno dei più fervidi sosteni­ tori, secondo cui i Pelasgi al ero non erano se non gli antenati dei Tirreni/Etruschi. Il sito di Spina, ossia l'approdo alla foce del fiume Spinete, nella variante della leggenda pelasgica elaborata dal logografo di Lesbo, si configura anzi come una sorca di anticamera dell'Ecruria dove i Pelasgi sbarcano e si dividono era i pochi che restano, dando origine col tempo alla città, e i molti che si addentrano nel paese, andando a occupare l'umbra Cortona, dove finalmente, posto fine al loro vagabondare, si trasformano in Etruschi. Come mai tra le tante città d'Ecruria viene menzionata proprio Cortona? Secondo le riflessioni di Lorenzo Braccesi la città si ritaglia cale importante ruolo in virtù della sua strategica posizione: nell'ottica di Ellanico infatti essa si collocava significa­ tivamente al centro dell'Italia, in corrispondenza di una via carovaniera che poneva in comunicazione mare Adriatico e mare Tirreno, e quindi le città di Spina e Caere, entrambi centri etruschi. Una via carovaniera che, sempre secondo la ricostruzione di Braccesi, partendo dalle lagune adriatiche del Po, risaliva il corso del fiume Savio fino alla sua sorgente sul monte Fumaiolo, per poi discendere sull'opposto crinale della penisola lungo la valle del Tevere e quindi raggiungere, presso Roma, la cosca tirrenica. Dunque, secondo l'opinione di Ellanico, Cortona, posta al centro di questo percorso che in direzione longitudinale attraversava il cuore stesso della penisola, risultava simultaneamente nell'entroterra di Spina e di Caere. 14

R11 pc1111a, Spi1111 e la tradi:io11e pcla,gi,·a

Spetta a G. Colonna, successivamente ripreso da D. Briquel nell'ampia trat­ tazione da questi dedicata ai Pelasgi in Italia, l'aver compreso come la "teoria" pelasgica esposta da Ellanico negli anni dell'apogeo di Spina «rispecchi la svolta positiva nei rapporti greci-etruschi innestata dalla colonizzazione di epoca storica della Padania e dalla connessa fondazione di Spina, che avevano creato condizioni quanto mai favorevoli allo sviluppo del commercio eginetico e ateniese in quella regione». L'affermazione di un'origine pelasgica degli Etruschi, in alternativa alla più tradizionale formulazione di matrice erodotea di una provenienza di questi dalla Lidia, sarebbe dunque frutto della propaganda politica Ateniese negli anni del grande sviluppo commerciale in Adriatico. Durante la seconda metà del V I secolo, infatti, la presenza greca in questo mare di fatto si consolida, assumendo una decisa matrice attica che monopoliz­ zerà queste rotte, raggiungendo la sua massima espansione nel corso del V secolo a.C. come documenta, tra le altre cose, la grande diffusione raggiunta in tale periodo dalla ceramica attica. È appunto in questa prospettiva tutta attica, tesa a stringere rapporti sempre più proficui con gli Etruschi di area padana, che matura l'elaborazione dello sbar­ co a Spina dei Pelasgi proposta da Ellanico, autore che scrive nell'ultimo quarto del V secolo a.C. Sempre a livello di tradizione letteraria, numerosi altri indizi consentono di ricostruire, già nella prima metà del V secolo a.C., l'esistenza di uno spiccato interesse dell'ambiente attico nei confronti delle vicende nordadriatiche, Tra le diverse testimonianze, di grande valore risulta la notevole risonanza data ai temi adriatici nel teatro ateniese di V secolo a.C.: in particolare come ha sottolineato L. Braccesi, i miei argivi di Pelasgo re di Argo e dei Pelasgi, con esplicite allusioni all'Adriatico, vengono rievocaci nelle tragedie di Eschilo il quale si fa dunque portavoce degli interessi per questo mare, legittimando e propagando i temi di una politica in fieri. Sempre Giovanni Colonna ha infine messo in luce un altro importante aspetto in merito alla genesi, nella tradizione storiografica greca, del leggendario viaggio dei Pelasgi e della loro trasformazione in Etruschi. Secondo lo studioso infatti, un ruolo del tutto speciale nell'elaborazione di cale mito andrebbe riconosciuto a Ve­ rucchio, centro etrusco sorto in epoca villanoviana a controllo dell'asse commer­ ciale costituito dalle valli del Marecchia e del Tevere. Proprio questi legami con un'importante via di penetrazione verso l'Etruria tirrenica che evocava la lunga marcia effettuata dai Pelasgi, nonché la sua collocazione geografica su una rupe di tipo tirrenico che anticipava di fatto la stessa configurazione fisica di Cortona città che, come si è osservato, rivestì un ruolo fondamentale all'interno di queste leggende -, dovettero impressionare notevolmente i Greci dell'emporfa ionica che, arrivando via mare a Spina, proprio alle foci del Marecchia incontravano per la prima volta gli Etruschi. Nell'ipotesi di Colonna dunque, proprio questo «primo e malcerto incontro, cui faceva da sfondo la sagoma dell'erto colle di Verucchio» costituì senza dubbio un importante sci ip olo all'elaborazione di complesse leg­ gende sulle più remote vicende dei popoli di quella regione. 15

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più antichi commerci greci. L' esatta ubicazione di queste isole fu spesso messa in dubbio dagli autori antichi e costituisce un interessante esempio della concezione geografica greca. Le Elettridi infatti sono uno dei numerosi fines terrae che la lettera­ tura greca conosce: si tratta di aree percorse soltanto di recente dai naviganti, ancora mal conosciute e per questo misteriose, poste ai limiti estremi della conoscenza geografica in quel momento cronologico. In queste aree venivano spesso ambientate le leggende relative al corso del sole e al suo eterno ciclo quotidiano di nascita e di morte; inoltre queste aree erano percepite come vicine all'Aldilà, al limite tra il mondo conosciuto e riservato ai vivi e il mondo "altro", sconosciuto e differente, sede dei defunti. Questi caratteri appartenevano all'alto Adriatico sullo scorcio del II millennio a.C. Non a caso le leggende sulla caduta del sole all'estremità occi­ dentale della terra, sull'ambra che ne costituisce il simbolo e lo stesso toponimo derivante da questa resina si collocano in quest'area del Mediterraneo, ai confini del mondo allora conosciuto. Ma la geografia greca, almeno nella sua fase di evoluzione, è dinamica e si dilata verso Occidente in conseguenza delle esplorazioni dei mercan­ ti. E questa è la ragione per cui per i poeti, liberi dai condizionamenti della realtà storica e più fedeli alla tradizione mitica, l'Eridano, le Eleccridi e Fetonte rimasero per sempre legati al delta del Po, anche una volta che il mare Adriatico divenne ben noto e battuto dalle rotte commerciali. Al contrario, negli scritti di storici, geografi ed eruditi quegli stessi luoghi furono riconosciuti altrove nei secoli successivi, quan­ do l'Adriatico fu esplorato e divenne un luogo noto e conosciuto. Allora l'esistenza delle isole Elettridi fu messa in dubbio o venne forzato il significato del riferimento mitico e adattato a un luogo geografico incoerente con le vicende narrate. Storici, geografi ed eruditi ricordano infatti che nessuna isola di dimensioni considerevoli è ubicata alla foce del Po dove il mito le ricorda e perciò le isole Elettridi, in cui per gli antichi si raccoglieva l'ambra portata dall'Eridano, costituirono nell'antichità una vexata quaestio in merito alla loro esatta ubicazione. Plinio sostiene che non vi sia «nessuna isola situata in modo cale da poter ricevere le merci preziose trasportate al mare dalla corrente del fiume». Le sole isole presenti in Adriatico appartengono alla cosca orientale e al Golfo del Quarnaro, al di fuori delle rotte commerciali dell'ambra. È evidente che se riconosciute in queste isole, che nulla hanno a che fare con il delta del Po, le Elettridi risultano private della loro funzione mitica che ne adombra la reale importanza storica. Al contrario le Elettridi erano, in pieno accor­ do con la testimonianza dei poeti, isolotti alluvionali del delta padano, mutevoli nel loro aspetto per la loro stessa natura geomorfologica e forse addirittura sommerse durante i periodi di piena del fiume, per i cambiamenti stagionali o soltanto per le maree. Queste stesse caratteristiche, unicamente alla posizione in un angolo riposto del Mediterraneo ancora non ben conosciuto e al nome affascinante derivato da una pietra preziosa assimilata al sole, alimentarono ancor più l'alone di mistero che av­ volgeva le Elettridi nell'epoca dei commerci dell'ambra. A un secondo filone mitico appartiene la vicenda di Dedalo in Adriatico. Si trat­ ta forse di una tradizione mitica più recente ma di notevole antichità, assicurata dal riferimento stesso alla figura di Dedalo e alla creazione di statue: Dedalo infatti è protos euretés, mitico inventore della scultura greca. Dedalo giunse in Adrfas da Cre­ ta, ricalcando rotte commerciali battute dai primi frequentatori ellenici dell'Adria23

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tico, minoici e micenei. Sulle Isole Elettridi creò due statue, una di stagno e una di bronzo. In questa notizia è forse racchiusa la memoria del commercio di un altro bene prezioso che era possibile acquistare nell'alto Adriatico, lo stagno proveniente dalle Isole Britanniche. Ma il passo probabilmente fa riferimento anche a una peri­ zia tecnologica, di cui Dedalo stesso è portatore, che consentiva la produzione locale del bronzo e la lavorazione dei metalli in questa area del Mediterraneo antico. Altri riferimenti storici adombrati nella presenza di Dedalo in Adriatico e fortemente connessi con il tema dell'acqua sembrano riferirsi invece a un periodo cronologico successivo. Come si vedrà, proprio le numerose e importanti testimonianze archeo­ logiche del delta del Po riferibili al periodo di massimo splendore del sistema por­ tuale etrusco consentono di restituire maggiore concretezza storica anche a questo secondo filone micologico. Spetta a G. Sassatelli il merito di aver riconosciuto a Dedalo, progenitore degli artigiani, l'importantissimo ruolo tutelare che rivestiva tra gli Etruschi della Valle del Po in relazione alla capacità di gestire l'impeto delle acque, di dominarne la forza e di regolamentarne il corso. È evidente come queste conoscenze tecniche fossero di importanza fondamentale in un ambiente caratte­ rizzato da aree paludose e soggette a frequenti esondazioni dei corsi d'acqua quali quelle su cui sorsero i principali empori commerciali del delta padano. La ricchezza e la natura delle informazioni offerte dalle fonti letterarie trova­ no riscontro nella documentazione archeologica. L'archeologia dell'alto Adriatico consente di attribuire a un orizzonte cronologico preciso questo patrimonio di miti che i Greci riferivano a un'età antichissima: si tratta di un lungo periodo di tempo compreso tra le fasi finali dell'età del Bronzo fino all'età Orientaliz­ zante (circa era il XII e il VII secolo a.C.). Già in questo periodo l'alto Adriatico costituiva uno snodo commerciale di primaria importanza che vedeva nei ceneri dell'Italia preromana una capacità notevolissima di gestire i commerci era l'Euro­ pa e il Mediterraneo e nei Greci i partner privilegiati destinatari delle merci. La testimonianza archeologica più rilevante a questo proposito per l'età del Bronzo è costituita dal rinvenimento del sito di Frattesina di Fratta Polesine (Rovigo), ai margini settentrionali del delta del Po (Fig. 1). Alla fine del II millennio a.C. il sito di Frattesina si configurava come un polo commerciale avanzatissimo, orga­ nizzato internamente secondo una studiata distinzione funzionale degli spazi in­ terni all'abitato e una precisa localizzazione delle necropoli. Il centro di Frattesina intratteneva relazioni ad ampio raggio lungo itinerari terrestri, fluviali e marit­ timi tali da rendere il sito fulcro dei commerci tra Mediterraneo ed Europa, una vocazione che questa area dell'Adriatico manterrà, a fasi alterne e in concorrenza con il Tirreno e la valle del Rodano, anche nei secoli successivi. Fin da questo mo­ mento il sistema del delta padano iniziò a rivelare la sua grande potenzialità com­ merciale divenendo punto di approdo nel Mediterraneo di una serie di materie prime di grande pregio provenienti dall'Europa settentrionale. Dalle Isole Bri­ tanniche proveniva lo stagno, l'avorio e le uova di struzzo dal continente africano; nell'alto Adriatico vi era inoltre una produzione di pasta vitrea, che presuppone il contatto con maestranze orientali, e soprattutto giungeva dal paese degli Iperbo­ rei l'ambra baltica, decantata dalle fonti e presence in misura tale nel delta del Po da caratterizzarne il patrimonio di miti e leggende e da determinarne, almeno in 24

I co111111erci greci e gli empori del delta pada11v

Fig. 1. Frattesina di Fratta Polesine nel contesto dell'Italia antica (da Zega, Colonna, Val/ice/li 20 1 0, p. 1 6)

parte, la toponomastica. L'ambra giungeva dunque in questo lungo dall'Europa settentrionale e dal Mar Baltico e veniva lavorata sul posto. La recente scoperta di un sito interamente dedicato alla lavorazione dell'ambra a Campestrin (Grignano Polesine, Rovigo) e il rinvenimento di vaghi di tipo Tirinto, tradizionalmente riferiti a una produzione greca, confermano infatti la capacità e l'efficienza di questa area territoriale non solo come snodo commerciale, ma anche come centro artigianale all'avanguardia, proiettato verso l'Adriatico e il mondo greco. Anche dopo il tramonto del centro di Frattesina alle soglie dell'età del Ferro non venne meno il ruolo preponderante dell'Adriatico settentrionale nel commercio e nella lavorazione dell'ambra. L'eredità di Frattesina fu raccolta dal centro etrusco di Veruc­ chio (Fig. 2), ubicato al di fuori del sistema del delta padano, ma proiettato verso quel­ lo lonios kolpos che da sempre aveva costituito il punto nodale del commercio greco in Adriatico. Altri centri veneti risultavano coinvolti in questa rete di traffici imperniata sull'alto Adriatico e sui principali fiumi che in Adriatico hanno la propria foce, in particolare l'Adige e il Brenta, lungo il corso dei quali fiorirono rispettivamente i cen­ tri di Este e Montagnana e di Padova. Tuttavia nessun centro fu pari a Verucchio per lo splendore della cultura materiale e per la straordinaria presenza di ambra, tra cui 25

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Fig. 2. Verucchio e /'Etruria padana di età villanoviana e orientalizzante (IX-VII secolo a. C. ) (elaborazione G. M orpurgo)

si segnalano sia frammenti grezzi, sia oggetti che presentano lavorazioni particolari esclusive di questo sito. Verucchio dunque ereditò la funzione e la fortuna di Fratte­ sina in alto Adriatico, ma impresse a questa eredità caratteri tipicamente etruschi: la scelta come sede dell'abitato di un ampio altopiano naturalmente difeso, ad una certa distanza dal mare ma in prossimità e lungo un'importante vallata fluviale, quella del Marecchia, che consentiva un contatto diretto e continuo con l'Etruria tirrenica; un'or­ ganizzazione delle necropoli dipendente dalle principali vie di accesso al centro urba­ no e tra esse un ruolo privilegiato riservato alla necropoli Lippi, la più estesa, situata all'uscita della città lungo la direttrice che porta all'Adriatico; uno scalo sul mare, pro­ babilmente a Rimini. A differenza di Felsina/Bolog na, la cui nascita e fioritura furono contemporanee a quelle di Verucchio e dipesero principalmente dal controllo e dallo sfruttamento agricolo del territorio, la vocazione del centro etrusco di Verucchio fu assolutamente marittima. I materiali rinvenuti nei corredi funerari sono eccezionali per ricchezza e per raffinatezza ideologica e comprendono innumerevoli ambre (Fig. 3 ), di cui molte riconducibili a una lavorazione esclusiva, e materiali lignei molto ben conservati tra cui spiccano i troni decorati ad intaglio con scene di carattere aristocratico celebrative del defunto. I corredi mostrano inoltre la notevole ampiezza della rete commerciale e l'importanza della dimensione adriatica della città etrusca. Lo stesso impatto di Verucchio sul territorio circostante, limitato ad un controllo 26

diretto a breve raggio, costituisce un'im­ portante testimonianza della proiezione sul mare di questo centro. A controllo della valle del Marecchia e proiettata sul mare, Verucchio era dunque veru, "porca" secondo l'etimologia umbra del termine. Il potere raggiunto dalla élite verucchiese e l'interesse per le rotte adriatiche fu cale da determinare la fondazione, ad ope­ ra dei signori di Verucchio, dello scalo portuale di Rimini, di cui si hanno te­ stimonianze archeologiche fin dall'VIII secolo a.C. In alcuni momenti della sua scoria inoltre Verucchio espanse la sua influenza su altri gruppi etnici, come le genti di Novilara su cui sembra regnare il defunto della tomba 89 della necropo­ li Lippi (Fig. 4). Infatti, attraverso la de­ posizione nella tomba di cui era titolare di due elmi tipologicamente distinti, questi incese esprimere una doppia so­ vranità su genti etrusche e genti picene.

Fig. 3 . A mbre di Vm,cchio (da Nam. Salerno 200 7 p. I 4 I . fig. Ill. 48-4 9 J

Alla progressiva organizzazione dei ceneri urbani e degli empori nell'area del delta del Po, che dopo l'esperienza di Frattesina fu essenzialmente nelle mani degli Etruschi, corrispose una gradua­ F ig. 4. Verucchio. trono ligneo decorato ad intar­ le evoluzione delle rotte commerciali sio dalla tomba 89 della necropoli Lippi (da von percorse dalle navi greche in Adriatico. E/es 20 I O ! . taz : Il) Dalle più antiche navigazioni fino all'età ellenistica l'Adriatico fu sempre un mare pericoloso da solcare. Lo ricorda Livio nar­ rando l'impresa di Cleonimo, un generale spartano desideroso di emulare le imprese adriatiche dei tiranni di Siracusa, che conquistò l'isola di Corcira e si spinse fino alla laguna veneta dove subì una pesante sconficca. «Doppiato dunque il promontorio di Brindisi e portato dai venti lungo una rotta d'altura nel mezzo dell'Adriatico, dal momento che erano causa di terrore a sinistra le cosce prive di approdi d'Italia, a destra gli Illiri, i Liburni e gli lstri, genti pericolose e in gran parte colpevoli di scorrerie piratesche, [Cleonimo] giunse alle cosce dei Veneti e vi si addentrò» (X 2, 4). Livio evidenzia da un lato l'assenza di approdi sicuri sul litorale italico, dall'altro l'estrema difficoltà dei traffici dovuta alla presenza di popolazioni tradizionalmente dedite alla pirateria. Le fonti letterarie antiche ricordano inoltre tempeste e venti violenti in Adriatico, per esempio nella stessa vicenda di Cleonimo, ma la notizia non deve essere considerata probabilmente in termini letterali, dal momento che l'A driatico, e in particolare il tratto prospiciente il delta padano e l' intimum sinus 27

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to che più di tutti dal punto di vista archeologico restituisce alla conoscenza la grande importanza rivestita dalla città di Spina nell'antichità. Nella necropoli in­ fatti sono state individuate circa 4.000 tombe databili tra il V e il III secolo a.C., un numero che fa capire quanto ancora sia lacunosa la nostra conoscenza dell'abitato al momento limitata a un solo settore della città antica. I corredi tombali sono ricchi di ceram ica attica, la più importante delle merci che solcavano il mare Adriatico sulle navi greche dirette in Etruria padana. Spina ne è ricchissima perché grande era la disponibilità di questo prodotto che giungeva fin qui da Atene. Ma Spina non era che la prima cappa di un commercio di ceramica attica che riguardava l'intera Etruria padana e tutta l'Europa e che inoltre doveva far fronte ad una richiesta con­ sistente da parte di Bologna. A Spina si fermavano moltissime ceramiche attiche, ma forse non le più preziose, le più ricercate, sia dal punto di vista della realizzazio­ ne che delle iconografie presenti sui vasi. Insieme alla ceramica attica giungevano a Spina dalla Grecia idee, usi e costumi, spunti culturali che gli Etruschi facevano propri e rielaboravano, assumendoli come simboli di un linguaggio che desse loro la capacità di esprimere il loro status all ' interno della comunità cittadina, le loro credenze personali, l 'adesione all'una o all 'altra delle figure di divinità o a un deter­ minato valore di riferimento. Per l'estrema variabilità di tutti questi fattori, seppur all 'interno di un sistema condiviso di valori, è quasi impossibile trovare a Spina e in generale in Etruria padana una tomba identica a un'altra, a meno che entrambe non appartengano a uno stesso gruppo. Nella necropoli spinecica è possibile infatti riconoscere alcuni raggruppamenti di sepolture a carattere familiare, religioso o culturale, che costituiscono una vera dichiarazione di appartenenza a un gruppo all'interno della compagine cittadina. Spina nacque, si ritiene, come risposta etrusca agli interessi greci in alto Adria­ tico, interessi che coinvolsero direttamente Adria nel corso del VI secolo a.C. In particolare Adria ha restituito una testimonianza concreta di questa frequentazione greca in una serie di iscrizioni eginetiche datate agli inizi del V secolo a.C., la più completa delle quali reca una dedica votiva al dio Apollo. In un primo momento Adria fu probabilmente un emporio commerciale, luogo di incontro di molte et­ nie, ma fu vera e propria città solo a partire dalla fine del VI secolo a.C., quando fu completamente riorganizzata dagli Etruschi. Non si conosce molto di questo centro, che fu oggetto di scavi nell 'abitato a più riprese nel corso dell 'Ottocento, scavi che hanno restituito una grandissima quantità di ceramica attica. fer quanto riguarda le necropoli, sono note soprattutto le fasi più recenti di utilizzo durante il III e il II secolo a.C. La necropoli di Ca' Cima comprende le tombe più antiche finora noce datate al V secolo a.C. (Fig. 9), ma attende ancora di essere resa nota con una pubblicazione accurata delle sepolture e dei corredi. Sintetizzando i pochi dati a disposizione su questa importante città etrusca è possibile evidenziare i tratti di analogia rispetto a Spina, di cui costituisce quasi la gemella. Come Spina, Adria è città lagunare, ubicata nelle paludi dei Septem Maria (in questo caso anche nell 'ac­ cezione più ristretta tramandata da Plinio), organizzata su diversi isolotti ciascuno dei quali pianificato ortogonalmente. La necropoli di Ca' Cima occupava le dune ri­ levate poste tra la città e il mare, esattamente come la grande necropoli di Spina. A giudicare dalle poche tombe noce di questa necropoli, il rituale funerario e l'accen34

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sto di riconoscere un nome maschile etrusco attestato anche in Etruria set­ tentrionale e a Chiusi, Sono tuttavia le fonti letterarie antiche a sopperire a una frammentarietà di dati archeolo­ gici che al momento perdura sostan­ zialmente immutata. In età augustea, alcuni secoli dopo il dominio etrusco sulla città, Scrabone accosta Ravenna e Alcino in riferimento alla fisionomia lagunare di entrambi questi centri: «Tra le paludi la città più grande è Ravenna, interamente costruita su pa­ lafitte e solcata da acque, praticabile per mezzo di ponti e traghetti. Du­ rante le maree riceve un notevole flus­ Fig. IO. Iscrizione etrusca dall'abitato di Ravmna so marino cosicché la superficie mel­ (da Braccesi. Graàotti 1999. p. 105. fig. 10) mosa tutta inondata dalle maree e dai fiumi corregge l'insalubrità dell'aria. [ ... ] Anche Altino si trova in palude, in sito analogo a quello di Ravenna» (Strab. V 1, 7). Entrambe le città comprendevano zone lagunari e, più all'interno, am­ pie aree di terraferma sottoposte al loro controllo che consentivano una pratica dell'agricoltura e di altre attività produttive testimoniate dalle fonti e successiva­ mente incentivate dai Romani. Fin dalle più remote origini del commercio greco in Adriatico, con poche ec­ cezioni nel corso dei secoli, la navigazione adriatica fu funzionale esclusivamente o quasi esclusivamente al raggiungimento dei grandi empori padani. Atene fu la città che seppe incentivare al massimo le opportunità commerciali che il sistema portua­ le del delta del Po offriva. L'attività commerciale svolta dagli ateniesi in Adriatico ebbe inizio durante il periodo di grande espansionismo economico di Pisistrato, nella seconda metà del VI secolo a.C., e ricevette un nuovo ulteriore impulso in età Periclea attorno alla metà del V secolo a.C. Le merci che gli Ateniesi recavano sulle loro navi agli empori padani erano costituite per lo più da ceramiche attiche e da in­ genti quantità di olio e vino, il cui commercio è ricostruibile grazie al rinvenimento di numerose anfore da trasporto in tutte le principali città dell'Ecruria padana. In cambio di questi oggetti gli Ateniesi importavano dagli empori del delta padano stagno, ambra, minerali grezzi, i celebri cavalli veneti, prodotti dell'allevamento (tra cui le fonti antiche ricordano le famose galline di Adria), forse schiavi. Ma il principale obiettivo del commercio ateniese era certamente l'importazione di grano dalla fertile pianura padana, un prodotto di cui la Grecia e Atene in particolare ave­ vano assoluto bisogno e per il quale cercarono fonti di approvvigionamento in varie parti del Mediterraneo. Pericle elesse l'Etruria padana come principale mercato di questo bene di cui gli Ateniesi non poterono mai fare a meno. Insieme al grano essi importavano inoltre un altro bene di prima necessità, il sale. 36

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Il carattere vitale di questo tipo di importazione e il regime considerevole dei traffici non trovano testimonianze archeologiche dirette e chiare, dal momento che si tratta di prodotti deperibili, ma si riflettono nella mole di ceramiche attiche che costituivano la merce di scambio principale con cui gli Ateniesi pagavano e che invase letteralmente il mercato dell'Ecruria padana. In un primo momento anfore, poi soprattutto crateri, insieme a oinochoai, kylikes, skyphoi, figuraci e a vernice nera, divennero oggetti di uso comune in Etruria e, attraverso il mondo delle immagini, mezzo di comunicazione talmente familiare agli Etruschi da divenire il linguaggio principale di autorappresencazione dei defunti di fronte alla loro comunità civica di appartenenza. Non solo gli Etruschi compravano vasi attici, ne comprendevano le raffigurazioni, le utilizzavano per comunicare se stessi alla comunità, ma anzi è ormai possibile sostenere, almeno per alcuni casi comprovaci ed eccezionali, che essi talvolta commissionarono specifici vasi agli Ateniesi, richiedendo che fossero prodotte determinate immagini particolarmente consone alle loro esigenze di culto, funerarie e personali. Il commercio di ceramica attica negli empori padani doveva essere, come ogni commercio, un dialogo tra domanda e offerta, per cui gli Ateniesi a un cerco punto si resero conto di quali fossero le forme e le raffigurazioni che gli Etruschi preferivano e provvidero a soddisfare queste richieste. Ma alcune forme, come per esempio gli stamnoi, o alcune raffigurazioni uniche, come il Dioniso-Ade del cratere della tomba 128 di Valle Trebba o lo stamnos icifallico della stessa tomba, un unicum in assoluto nell'intera produzione ateniese di ceramica, furono espressa­ mente richieste dai committenti etruschi (Figg. 11-13). La relazione tra Etruschi

Figg. 1 1-12. Cratere a volute del Pittore di Po/ignoto pertinente al corredo della tomba 128 di Valle Trebba a Spina (da Berti. G11zzo 1 993. p. 149. fig. 1 18)

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dell 'Adriatico e Ateniesi fu dunque molto stretta e comportò una serie di interazio­ ni e di condizionamenti. Da sola questa relazione rende ragione del l 'eccezionale importanza dell 'Etruria padana e degli empori etruschi del delta del Po durante l 'età classica. Proprio le numerose e importanti testimonianze archeologiche del delta del Po riferibili al periodo di massimo splendore del sistema portuale etrusco consentono di restituire maggiore con­ cretezza storica anche al secondo filone mitologico a cui si è fatto inizialmente cenno, quello legato alla figura di De­ dalo. È infatti in questo momento che l'antichissimo mito di Dedalo in Adria­ tico venne recuperato dagli Etruschi , ri­ Fig. 13. Stamnos itifallico dal corredo della elaborato e finalizzato a esprimere valori tomba 128 di Spina Valle Trebba (da A11ri­ celebrativi della perizia tecnica etrusca gemma 1960, Tav. 3 7) sul dominio dell 'acqua, sulla capacità di gestirne l ' i mpeto, di dominarne la for­ za e di regolamentarne il corso. È evi­ dente come queste conoscenze tecniche fossero di importanza fondamentale in un ambiente caratterizzato da aree pa­ ludose e soggette a frequenti esondazio­ ni dei corsi d'acqua quali quelle su cui sorsero i principali empori commerciali del delta padano. L' iconografia di Deda­ lo elaborata in Etruria padana dipende in parte dal ruolo di abile architetto­ carpentiere riconosciuto a questa figura (Fig. 1 4), mentre i l rinvenimento nel santuario delle acque di Marzabotto di un frammento di lastra fittile su cui è rappresentato Dedalo conferma il forte legame istituito tra questi e l 'acqua in F ig. 14. Dedalo s11lla stele felsinea D11cati Etruria padana. Infine il fatto che l ' ico­ nr. 12 proveniente dalla necropoli dei G iar­ nografia di Dedalo conosca una buona dini Margherita. Bologna (da Berti. G11zzo diffusione in ambito etrusco-padano tra 1993 . p. 1 2 1 , fig. 1 02) i materiali di produzione etrusca dimo­ stra il forte legame di questa figura con la cultura locale e con il terri torio, del delta padano e più in generale dell'i ntera Etruria padana. Dedalo è infatti pre­ sente sulla costa adriatica a Spina, ma anche a Bologna su una stele funeraria 38

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proveniente dal sepolcreto dei Giardini Margherita e a Marzabotto, appunto nel santuario per il culto delle acque. Certo le fonti letterarie ricordano la prove­ nienza di questo mitico artigiano da Creta e dal labirinto di Minosse. Tuttavia il legame con il mondo etrusco e l'Etruria padana in particolare fu talmente stretto da far sì che venisse attribuita a Dedalo una funzione tutelare prettamente loca­ le, inscindibile dalle difficoltà quotidiane che le città dell'Etruria padana si tro­ vavano ad affrontare nella gestione delle acque. La convergenza delle principali vie commerciali europee e mediterranee nel delta del Po fu infatti soltanto un aspetto dell'importanza di questo comparto territoriale. Soprattutto nei secoli di massima fioritura dell'Etruria padana la fortuna del sistema portuale del delta de Po dipese dall'estrema facilità delle comunicazioni interne e dalla possibilità di relazionare gli empori etruschi attraverso la navigazione fluviale. Fu l'efficienza di questo sistema portuale, ideato e gestito completamente dagli Etruschi "maestri di idraulica", a permettere la vitalità dei commerci greci in Adriatico. BIBLIOGRAFIA

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Sordi, secondo la quale le incursioni documentate da Livio partivano dalla Iapigia e sarebbero da porre cronologicamente in relazione con l'avvento di Dionigi II di Si­ racusa (367 a.C.), che stipulò un nuovo patto con i Lucani per permettere il transito di milizie. Così i Celti al soldo di Siracusa avrebbero stabilito una base operativa nei Colli Albani avvalendosi dell'appoggio strategico dei Latini nemici di Roma, In de­ finitiva, il passo di Livio sullo scontro del 367 a.C. e la vittoria di Camillo sarebbero da inserire nel conflitto che coinvolse i Latini ed ebbe come teatro di scontri il Lazio. Solo a paritre dal 329 a.C., ormai finito da qualche decennio il potere di Dionigi Il, gli attacchi celtici narrati da Livio provennero dall'agro Gallico o dall'Etruria, quin­ di in uno scenario politico completamente diverso. Ammesso che abbia peso quanto finora osservato sulla battaglia del 367 a.C. e sulla sua localizzazione, non resterebbe pertanto che ritornare alle preliminari valutazioni di M. Sordi sulla disfatta dei Celti dopo il sacco di Roma, La tradizio­ ne più antica è quella ricordata da Strabone. Il geografo di Apamea ricorda che i Ceriti «combatterono contro quei Galli che avevano preso Roma, attaccandoli nel territorio dei Sabini mentre si stavano allontanando e li privarono a viva forza del bottino che i Romani avevano consegnato spontaneamente» (V 2, 3), M. Sordi ri­ tiene che Strabone attinga direttamente da una fonte etrusca (o romana di stampo filoetrusco) molto antica, formatasi nella complessità dei fatti narrati (in questa sede non riportati per intero) nel III sec. a,C. Inoltre, secondo la studiosa l'even­ to riportato da Strabone presenta molti punti di affinità con la narrazione della battaglia nell'ignota piana di Trausion nota da Diodoro Siculo (XIV 117, 6, che riprenderebbe Timeo di Tauromenio, storico greco del tardo IV-inizi III sec. a.C., che a sua volta attingerebbe da Filisto, importante personaggio siracusano della corte di Dionigi il Vecchio) dove i Ceriti avrebbero respinto i Celti provenienti dalla Iapigia. Tale scontro è inoltre da porre forse in contemporanea al saccheggio del santuario di Pyrgi da parte delle navi di Dionisio il Vecchio di Siracusa, datato al 384 a.C. Sembrano episodi diversi, ma potrebbero essere integrati in una ver­ sione unitaria, a cui M. Sordi collega anche il racconto, sempre di Diodoro Siculo (XIV 117, 5), del recupero dell'oro da parte di Camillo, di ritorno da Sutri, che fa strage dei Celti presso l'ignota Veascio. Lungi dall'arrivare ad un quadro certo dei fatti storici, è evidente una stratifi­ cazione degli eventi narrati che partono da un conflitto nei primi decenni del IV sec. a.C. che coinvolse molti protagonisti, Infatti il sacco di Roma del 386 a.C. vide il consolidarsi dell'alleanza fra Cerveteri e Roma, che divenne così bersaglio delle azioni belliche antietrusche orchestrate dai due Dionigi di Siracusa, che a loro volta sfruttarono come mercenari i Senoni allora acquartieratisi nell'Italia meridionale. Il teatro degli scontri terrestri di questo conflitto fu l'area laziale e etrusco-meridionale, mentre non ci sono al momento dati sicuri che possano coinvolgere anche l'area adriatica, Prima di passare ai successivi conflitti tra Roma e i Senoni dichiaratamente consumati nel versante adriatico della penisola, è forse opportuno richiamare per qualche breve considerazione il fregio fittile di Civitalba (Fig. 2), parte della de­ corazione architettonica di un edificio templare. Infatti L Braccesi ha avanzato l'ipotesi che il tema del fregio, cioè il saccheggio di un santuario da parte dei 94

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Celti incalzaci d a varie divinità, sia legato alla vittoria di Camil la solo sui Galli Senoni che saccheggiarono Roma, e non alla celebrazione del la vittoria romana sulla coalizione di popoli a Semino nel 29 5 a.C. L'episodio del tentato saccheggio n1,11ia

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Fig. 4. Carta di Giovanni A ntonio Magini (1597 ca.), Romagna olim Flaminia (part.). Sul lato destro della pianta è visibile l 'imboccatura del Porto di Ravenna nel XVI secolo. Si notano anche i numerosi percorsifluviali che garantivano commerci transjluviali anche in questo periodo con l'area deltizia padana (da Cirelli 2008, p. 2 6)

monumentali che l'archeologia fatica ancora a rinvenire. Tra le infrastrutture portuali del por­ to di Ravenna, spicca senz'altro la realizzazione dell'imponente faro. Plinio lo paragona al più grande faro del mondo antico, quello di Alessandria d'Egitto. Non sono stati ancora identificaci infine i castra, gli accampamenti dove erano stanziaci i dassiarii, edifici più volte indicati dalle testimonianze scritte, mai però segnalaci da evidenze materiali, sepolti probabilmente dagli im­ ponenti depositi alluvionali che coprirono l'area portuale antica.

Un porto di minori dimensioni si trovava certamente nei pressi dell'attuale Stazione Ferroviaria, nella zona oggi raggiunta dalla Darsena (Fig. 4). Qui sbar­ carono probabilmente i soldati di Metello, l'alleato di Silla, nell'82 a.C., ben prima della realizzazione del porto augusteo, come si evince dalla descrizione di Appiano e dall'ordine di Cesare nell'S0 a.C., di fabbricare nuove triremi a Roma e Ravenna, per rafforzare le coste adriatiche minacciate da Pompeo. La città di Ravenna svolse in seguito un ruolo cruciale anche nella lotta era Antonio e Otta­ viano per aggiudicarsi il predominio dell'Italia settentrionale e rappresentò l'uni­ co porto adriatico in grado, già prima dell'installazione della dassis imperiale, di ospitare un gran numero di navi militari. Si trattava quindi di un porto già capa-

� --------(� fflFig. 5. Ricostruzione schematica di un muraglione di protezione degli argini rinvenuto nei pressi della Rocca Brancaleone ( da Manze/li 2000, p. 1 3 9)

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Fig 6. Mosaico della navata destra della basilica di Sant'Apollinare Nuovo con indicazione della

Civicas Classis (foto E. Cirelli)

ce e attrezzato, dove probabilmente potevano essere anche costruite nuove navi. Risulta chiaro comunque che la scelta di Augusto trovò un terreno estremamente fertile all'installazione di una struttura portuale già attiva da diversi decenni. Il porto localizzato nei pressi della stazione ferroviaria è attestato almeno fino al V secolo d.C. Sulle sue banchine, dopo essere sfuggita ad un naufragio, Galla Placidia costruì come ex-voto la basilica di S. Giovanni Evangelista. Delle sue infra­ strutture abbiamo però scarse evidenze archeologiche. La più convincente era queste è quella rinvenuta in via Gastone del Foix, vicino alla Rocca Brancaleone (Fig. 5). Negli ultimi decenni l'archeologia ha migliorato notevolmente le conoscenze sull'insediamento di Classe, soprattutto per quel che riguarda la città che fu costi­ tuita in questa vasca zona suburbana, sopra i ruderi e probabilmente a sud dell'area portuale della classis ravennatis. Gli scavi e una campagna di indagini magneto­ metriche hanno infatti riportato alla luce gran parte del circuito murario, finora ricordato solo dal celebre mosaico della basilica di Sant'Apollinare Nuovo (Fig. 6). Si tratta di un lungo tratto di mura poderose, dotate di uno spessore di oltre 3 metri e scandito da una serie di corri circolari di un diametro di 10-11 metri. Le mura sono costruite in laterizi recuperaci da edifici di età antonina e severiana (11-111 sec. d.C.) e risalgono probabilmente agli inizi del V secolo, come quelle di Ravenna. La città disponeva di un impianto monumentale notevole e solo alcuni degli edifici più prestigiosi sono stati indagaci, come la basilica e il complesso monastico di San Severo e la basilica Pecriana. Al V secolo d.C. si data inoltre l'installazione di un vasto quartiere portuale costellato di magazzini di varie dimensioni, disposti lungo un canale navigabile. Questo settore della città è stato rinvenuto in seguito a una lunga serie di campagne archeologiche. In questa occasione sono affiorate le tracce del flusso commerciale che raggiungeva l'approdo portuale e la nuova sede imperiale. I margini del canale erano protetti da palificazioni lignee e gradoni in marmo consentivano un accesso diretto ai navigli per agevolare il carico e lo scarico delle merci. All'estremità nord dell'area scavata è stato anche rinvenuto un pontile in legno che consentiva l'attraversamento del canale con una piccola imbarcazione o 115

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F ig. 7.Pontile in legno rinven11to nell 'area port11ale di Classe. Sul margine del canale è posizionato 1111 capitello capovolto ri11tilizzato wme hitta (foto D. Ferreri)

una zattera, ed era raggiunto anche da una strada pavimentata in basoli di trachite che costeggiava i portici dei magazzini portuali. All'estremità del pontile, impo­ stato su un pilastro in laterizi, è stato rinvenuto un capitello marmoreo, capovolto, riutilizzato come bitta per l'ancoraggio delle imbarcazioni (Fig. 7). Questa sistema­ zione del pontile va riferita a una fase altomedievale dell'area portuale di Classe, posteriore all'VIII secolo, quando l'intero settore della città era occupata da una grande quantità di piccoli granai seminterrati e da abitazioni che recuperavano gli spazi e le strutture dei magazzini tardoantichi. Si delinea dunque un paesaggio di città a piccole isole, affiancate da sepolture isolate e da ampie aree funerarie, carat­ teristico delle città altomedievali italiane ed europee. Al vasto bacino portuale augusteo di Classe si erano già sostituiti, già a partire dal VI secolo d.C, altri approdi fluviali di dimensioni inferiori. Nell'VIII secolo, e durante l'età carolingia, erano presenti almeno sei porti. Partendo da quello più a sud troviamo per primo il Candiano. Si trovava probabilmente alla foce del Pa­ denna, a est della basilica di Sant'Apollinare in Classe ed era fiancheggiato dalle banchine di ciò che rimaneva della città tardoantica. Il lido curvo (litore curvo), si trovava poco più a nord lungo il corso del fiume Ronco, il flumen aquaeductus, che lambiva la città a sud. Le bocche dell'Eridano e il 116

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Lacherno erano probabilmente due bacini portuali che si trovavano a est di Raven­ na, lungo il tragitto e sull'estuario del Bidente, un corso fluviale di origine Appen­ ninica. Il Campo Coriandro era posto invece nel settore nord-orientale della città, nelle vicinanze del Mausoleo di Teoderico ed era dotato di un faro, recentemente individuato da scavi archeologici. Il faro era anche associato come toponimo al mo­ nastero che s'insediò all'interno del mausoleo nel coso del Medioevo, Santa Maria ad Farum. Il portus Leonis, il più settentrionale di questi approdi, era già esistente nel V secolo. Viene infatti descritto in associazione all'assedio di Teoderico a Ravenna nel 493. Si trovava 6 miglia a nord della città, nell'area dove verrà edificato il Palazzo del re ostrogoto e dove fu successivamente istituito il monastero di Palazzolo. Oltre alla presenza del porco augusteo, la città poteva contare di una fitta rete di percorsi fluviali entro i quali Ravenna era stata fondata. L'insediamento antico si sviluppò nel corso del tempo sul gruppo di isole, impostate su dossi sabbiosi, in corrispondenza dell'estuario di alcuni dei principali corsi fluviali, tra cui un braccio meridionale del delta del Po, nel mare Adriatico. La capacità di sfruttare le potenzialità di questo assetto geomorfologico e di costruire strutture che ne preservassero l'efficacia determinò la fortuna dell'inse­ diamento nel corso del tempo. La gestione dei corsi fluviali non fu infatti sem­ plice e dovette contrastare la tendenza naturale del Po ad allontanarsi verso nord, nonché della costa a spingersi gradualmente verso est. Tale fenomeno è causato dall'accumulo di sedimenti alluvionali portati dalle deiezioni di diversi torrenti come il Ronco, il Moncone, il Sanremo, il Senio e il Lamone. Le descrizioni dei geografi antichi pongono in risalto il legame di Ravenna con i fiumi che la attraversavano. La città è infatti 6t6.gguwç, secondo Strabone, attra­ versata da corsi fluviali, mentre la difficoltà a trarre vantaggio da questa posizione è descritta in maniera emblematica da Sidonio Apollinare, secondo cui era più facile per Ravenna avere un territorio, o meglio una giurisdizione territoriale, che un ter­ reno solido per esercitarla: «facilius territorium potuit habere quam terram». Tra le varie infrastrutture legate alla realizzazione del porto augusteo, una delle più conosciute è la "Fossa Augusta". Si tratta di una imponente opera di canalizzazio­ ne, realizzata per rendere più agile la viabilità fluviale e per convogliare le acque del Po nel bacino portuale ravennate e verso il porto della flotta. Le sue strutture sono state rinvenute in varie occasioni, in particolar modo banchine in legno o muratura, soprattutto a nord dell'abitato lungo l'attuale via S. Alberto. Secondo alcuni studiosi la Fossa Augusta raggiungeva in questo tratto un'estensione di oltre 200 metri e si restringeva in seguito attraversando l'area orientale della città, parallelamente alla li­ nea di costa adriatica. Si congiungeva in questo modo direttamente all'area portuale di Classe. Questa ipotesi però non è stata mai dimostrata con prove convincenti. Si tratta più probabilmente di un'opera di ristrutturazione e di consolidamento effet­ tuata da Augusto del canale principale che attraversava la città: il Padenna, ovvero il braccio meridionale della deltazione padana, chiamato dalle testimonianze scritte Padòa o Padusa. Già in età augustea la sua portata iniziò a diminuire, così che si resero necessarie alcune opere di canalizzazione per mantenere attiva la rete di vie fluviali che garantirono il successo dell'approdo urbano. Questa importante arteria 1 17

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la subsidenza, iniziarono a non essere più rialzaci e restauraci. È in questo periodo che Ravenna diventa la città languida et exausta ricordata da Benvenuto da Imo­ la, priva della sua energia vitale, «una città con i muri di vetro», una splendida definizione dei mosaici parietali in pa­ sca vitrea che rivestivano gran parte dei monumenti della città, e con le strade di fango. Una contrapposizione ripresa an­ che dall'umanista Ambrogio Traversari in una sua lettera a Niccolò Piccoli nel 1433: «Questa città ha molte bellissime basiliche, ma tanto è il fango che non permette di uscire, se non a caval lo». Il problema fu in seguito risolto dai Ve­ neziani, alla fine del '400, divergendo i fiumi all'esterno della città. Fu risolto solo in apparenza. Quell'operazione creò infatti un cale dissesto idrogeologico che quasi due volte l'anno la Raven­ na e il suo territorio furono sommerse Fig. 10. Imbarcazione rinvenllfa nel canale che da inondazioni. Furono proprio queste sfociava nei pressi del /llausofeo di Teoderico (foto alluvioni a seppel lire gran parte delle M.G. Maioli) strutture di Classe, come hanno dimo­ strato gli scavi recenti, dove oltre due metri di deposito copre le zone più depresse del l'insediamento canto da cancellare ogni traccia dell'antico porto augusteo. BI BLIOGRAFIA GENERALE

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L' ADRIATICO ROMANO E IL PROBLEMA DI RAVENNA

Enrico Cirelli

Ravenna fu fondata in un'area raggiunta da diversi corsi fluviali poco prima di sfociare nell'Adriatico. Questa posizione strategica determinò la costituzione dell'impianto antico che sfruttò i pochi lembi di terra emersa, compresi tra il ramo meridionale del Po e tre piccoli corsi fluviali che vi si immettevano. L'in­ sediamento fu sin dalle origini un luogo favorevole alle transazioni commerciali tra il Mediterraneo e l'area padana, grazie a navigazioni interne che permettevano alle imbarcazioni di risalire il Po e le lagune venete. Non sappiamo quasi nulla delle sue origini (cfr. supra) ma anche per l'età romana sono molti i punti da chiarire, a partire dal primo impianto topogra­ fico e dai limiti del circuito murario. Gli studiosi che si sono interessati dello sviluppo urbanistico della città hanno spesso ipotizzato l'esistenza di una cinta muraria più antica, anche solo sulla base della forma del settore sud occidentale dell'abitato, che presenta un perimetro di forma rettangolare, con orientamento divergente rispetto al resto dell'insediamento. Sulla base di questa osservazione è stata formulata una ipotesi dello sviluppo topografico della città, costituita da progressivi ampliamenti, a partire dal suo originario impianto ortogonale, per diversi decenni insuperata e con la quale ancora oggi tutti si confrontano (Fig. 1). Sul lato sud-occidentale il circuito murario, che si definirà nella sua attuale estensione solo nel V secolo d.C., sembrava impostarsi su un precedente muro difensivo. L'impianto urbano faceva capo a un ingresso monumentale, la Porca Aurea, attraverso la quale passava il cardine principale della viabilità antica, orientato da sud-est a nord-ovest. Il nome le fu dato solo nella tarda Antichità per emulazione della "Porca Dorata" che si trovava a Costantinopoli. Sul timpa­ no di Porca Aurea si trovava un'iscrizione con la dedica del monumento all'im­ peratore Claudio. L'epigrafe sormontava un arco onorario a due fornici costruito sui ruderi di una precedente porca del circuito murario repubblicano, di cui tuttavia non conosciamo l'aspetto. Nel V secolo d.C. la porta fu affiancata da due corri circolari che la trasformarono in un poderoso baluardo difensivo ritratto da 123

Ravenna e l'Adriatico dalle orig ini all 'età romana

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costruito vicino al corso della Fossa Augusta, Si tratta probabilmente di una villa, anche se la sua estensione non è stata chiarita dalle indagini. L'edificio era dotato di un impianto termale privato e di ricchi ambienti residenziali, utilizzati fino all'età carolingia. Altre strutture edilizie di più difficile interpretazione sono state identificate sul lato est dell'antico recinto urbano, tra via Oriani e via Tombesi Dall'Ova, dove piani pavimentali e strutture murarie, databili alla prima età imperiale, sono stati identifi­ caci in più occasioni, in via Salara e in via Pier Traversari oltre che in via P. Alighieri. Si tratta di strutture appartenenti a uno o più edifici della prima età imperiale la cui funzione non è tuttavia determinabile. Rafforzano però l'ipotesi di uno sviluppo urbanistico nelle direzioni est e nord dell'abitato a partire dall'età augustea. Contemporaneamente a questo sviluppo insediacivo, lungo le banchine del Flumen Padennae vengono realizzaci nuovi assi viari; se ne ha notizia soprattutto nel settore meridionale, e nell'area dove si trova la villa suburbana su cui si impo­ sterà il Palazzo di Teoderico. Dal quadro che emerge si può dunque ritenere Ravenna una città che non si discosta dagli standard edilizi del mondo romano della prima e media età impe­ riale sia dal punto di vista architettonico, per quanto concerne l'edilizia pubblica, con un impianto urbano regolare, una basilica civile e un Capitolium nell'area forense al centro dell'insediamento, edifici ludici ai margini della cinta muraria; sia per quel che riguarda l'edilizia privata che rispecchia pienamente i modelli co­ struttivi di quasi tutte le città coeve, nella regione Flaminia e in quella Emiliana e lungo le cosce dell'Adriatico. BIBLIOGRAFIA GENERALE

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