Philosophia. Dalle origini al Medioevo [Vol. 1]

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Philosophia. Dalle origini al Medioevo [Vol. 1]

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Il principale interesse della filosofia è mettere in questione e comprendere idee assolutamente comuni che tutti noi impieghiamo ognl glorno senza pensarcl sopra. THOMAS NAGEL

EDITORE BuLGARINI FIRENZE

Copyright © 2012

Prima edizione gennaio 2012

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Ristampe 2017 2016

2015

2014

2013

2012

Finito di stampare per i tipi della Lito Terrazzi in Firenze

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Quest'opera è frutto della condivisione intensa e continua non solo dei due autori, Sergio Givone e Francesco Paolo Firrao, ma anche dei curatori dei singoli volumi, Bruno Meucci (1), Massimo Menichetti (II) e Fausto Moriani (III), dell'autore del volume Seminari, Luca Mori, e di Alessandro Bussotti, per l'apporto nell'ideazione dell'opera. A Barbara Sandrucci si deve il Libro per il Docente. In particolare, per il presente volume, Francesco Paolo Firrao e Fausto Moriani sono estensori dell'unità l, Massimo Menichetti è estensore delle unità 2 e 3, Bruno Meucci è estensore delle unità 4 e 5, Bernardo Artusi è estensore delle unità 6 e 7. Le schede Ripensiamo insieme sono di Fausto Moriani.

ll'apparire di una nuova storia della filosofia la domanda è: ce n'era davvero bisogno? E se sì, che cosa caratterizza quest'opera rispetto alle altre in circolazione? La risposta è che la filosofia proprio di questo vive. E cioè dell'interpretazione sempre rinnovata della sua storia. Del dialogo che così si stabilisce fra le generàzioni. Della conversazione che lega tutti gli uomini consapevoli e riflessivi. La vita della filosofia sta interamente nella sua capacità di rimettere in discussione i propri presupposti e i propri contenuti: cosa che non si può fare se non tessendo e ritessendo infaticabilmente la trama di una vicenda che attraversa i secoli. La storia della filosofia è la vita della filosofia; ma se le cose stanno così, bisogna dire che l-'opera presente non fa che corrispondere "amorosamente" (com'è proprio della filosofia, che non è un sapere specifico, ma amore per il sapere) alla vita del pensiero che si rinnova. E con ciò vengono immediatamente in luce i caratteri peculiari di un progetto che ha il suo punto di forza nell'idea della filosofia come dialogo incessante con i pensatori del passato e delpresente. Niente è tanto lontano dalle pagine che seguono quanto la presunzione - spesso sottaciuta, ma assai diffusa, e ben riconoscibile in testi che vanno per la maggiore - di chi guarda alla storia come a un processo da lasciarsi alle spalle, semmai ricostruendolo in forma puramente archeologica. Al contrario, qui non c'è filosofo che non sia preso in considerazione come se avesse ancora qualcosa da dirci; non c'è problema filosofico che non sia tale ancora per noi, e non c'è questione che non ci interpelli e non manifesti una sua attualità, evidente o nascosta. La coscienza critica è chiamata a farsi particolarmente vigile proprio là dove i temi e le prospettive sembrano sprofondati in un tempo remoto che non ci appartiene più c in cui fatichiamo a ritrovarci. Invece: se proprio in quelle profondità e lontananze avessero trovato rifugio tutte quelle voci che non abbiamo ancora (o non abbiamo più) saputo ascoltare? La storia della filosofia appare spesso come un campo di rovine, anzi, come un campo di battaglia su cui grava un destino sempre uguale: chi viene dopo, affronta sconfigge oltrepassa chi viene prima, e così via, in una ininterrotta catena di anelli che rappresentano, ciascuno, un potenziale speculativo ormai esaurito, superato. Di fronte a un'immagine del genere Hegel confessò (nell'introduzione alle sue Lezioni di storia della filosofia) che c'era di che farsi prendere dallo scoraggiamento e dubitare che la filosofia avesse un senso o quanto meno portasse da qualche parte. E in effetti non c'è studente, anche il meglio disposto nei confronti della filosofia, che inoltrandosi nelle pagine del suo manuale non abbia espresso quel dubbio almeno una volta in cuor suo. Come dargli torto? Se ogni filosofia, sempre e in ogni caso, è confutazione di una filosofia precedente, ma confutazione a sua volta confutata, non si vede come metter fine a questa vera e propria distruzione della ragione da parte della ragione.

III

Eppure, volendo sottrarre la filosofia a questo esito paralizzante, non è necessario adottare la soluzione hegeliana del problema (per cui si tratterebbe di riconoscere in quel corrosivo lavoro della storia il lavoro stesso dello spirito, che afferma se stesso a furia di negazioni e superamenti). Basta imparare a volgersi alla tradizione con uno sguardo confidente e il più possibile libero da pregiudizi. Allora potrebbe accadere che visioni del mondo ormai lontane e tramontate mostrino una problematicità tutta da dscoprire e da interrogare, quasi che la verità, per parafrasare Eraclito, amasse il nascondimento. Non è detto che accada; il fatto che una teoria filosofica o una concezione morale siano giunte fino a noi non è una garanzia, dal momento che l'errore è non meno tenace della verità. Una cosa però è certa: nelle pieghe della storia si possono trovare energie di pensiero ancora latenti e da sprigionare in tutta la loro potenzialità. Altro che catena di tesi e di opinioni inanellate secondo una scepsi che ridurrebbe una mirabile costruzione millenaria a vaniloquio o poco più! Lo studio della filosofia non vuol saperne di incatenamenti e costrizioni. Il suo scopo è liberare la men~e e prima ancora liberare la filosofia da se stessa. i La storia della filosofia è una vera e propria avventura. E come tale viene qui presentata a coloro che si accingono a viverla, questa avventura, non importa se per libera scelta o come da programma scolastico. Tutti devono rendersi conto che la filosofia è una ricerca dove ad ogni passo si può perdere l'orientamento e ad ogni passo si può ritrovarlo, guadagnando al tempo stesso una bussola preziosa. Ciascuno, lo voglia o no, è costretto a mettersi in gioco. Perché la filosofia non è solo elaborazione concettuale intorno a questioni che riguardano tutti indistintamente, ma nessuno in particolare. C'è di più. Universale e particolare, filosoficamente parlando, sono tutt'uno: nel senso che dietro l'universale c'è sempre un individuo, una persona, una voce, né l'universale può essere afferrato altrimenti che muovendo dal singolo. Non è un caso che la filosofia, nella sua storia, si sia configurata in modi e forme tanto diverse, così come non c'è persona, non c'è singolarità esistenziale che non faccia problema. Non esiste un unico stile di pensiero. Si deve dire al contrario che ogni autore si è creato il suo, unico, inconfondibile. Parmenide scriveva versi, era un poeta. Socrate nori scriveva affatto, ma preferiva colloquiare a viva voce, ritenendo che solo così il ragionamento potesse funzionare. Platone prenderà a modello il teatro e la dialettica teatrale. Spinoza, invece, la matematica, e proporrà un'etica ordine geometrico demonstrata, come poi in anni recenti faranno coloro che, sulla scorta di Wittgenstein, identificheranno la filosofia con la logica. Se poi confrontiamo lo stile di Kant e quello di Nietzsche, potremmo addirittura chiederci se entrambi possano essere considerati filosofi allo stesso titolo. La realtà è che i modi di far filosofia sono tanti. E far filosofia significa trovare la propria strada, ma anche la propria voce. Perciò la filosofia esige coinvolgimento personale. Il filosofo non piange e non ride, diceva Spinoza, ma esamina la realtà con occhio fermo e limpido. E in effetti l'intelligenza delle cose vuole che desideri e timori non facciano velo alla comprensione, né impediscano di cogliere i nessi che tengono insieme il tutto. Ma la filosofia è non solo questione di intelligenza, bensì anche di coraggio. Sapere aude! diceva Kant. Abbi l'ardire di conoscere. Non temere di rischiare. Osa. Innegabilmente ogni ricerca comporta un rischio. Bisogna spogliarsi delle proprie certezze. Esporsi agli interrogativi che la vita, la storia e il mondo continuamente propongono, fidliciosi nel fatto che a buone domande corrispondono quasi sempre buone risposte e che anche domande destinate a restar tali possono essere domande sensate. Ha scritto Schelling: «Chi vuol veramente filosofare, deve rinunciare ad ogni speranza, a ogni desiderio, a ogni nostalgia, non deve voler nulla né saper nulla, sentirsi povero e solo, abbandonare tutto per guadagnare tutto". Essendo la via da percorrere ardua e impegnativa, viene qui offerta una guida: che si spera possa servire a chiunque voglia entrare nel labirinto del pensiero senza la-

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sciarsi intimorire, ma semmai scoprendo passo passo che i problemi della filosofia sono i problemi che gli uomini - tutti gli uomini, filosofi e non filosofi - prima o poi si pongono nel corso della loro esistenza. ?emplicemente la filosofia aiuta a definirli meglio, se non a risolverli, e soprattutto a mostrare come in essi si riflettano le inquietudini, i bisogni e le speranze di ognuno. E naturalmente, poiché si tratta d'un viaggio attraverso regioni tante volte esplorate ma senza che sia mai stata detta l'ultima parola, occorre «sapersi orientare nel pensiero, (altra espressione kantiana). Che questo manuale sia il racconto di una meravigliosa vicenda intellettuale e insieme lo strumento per verificarne l'attendibilità e l'intrinseca problematicità presuppone un assunto del genere. Di conseguenza ogni sezione dell'opera è suddivisa in una parte espositiva, che permette al lettore di seguire l'evoluzione storica con particolare attenzione ai singoli autori, e una parte in cui temi e problemi vengono discussi attraverso il riferimento ai testi. Il proposito è di restituire alla filosofia quello che è della filosofia. Oggi c'è chi ritiene che la filosofia abbia fatto il suo tempo. Sarà pure affascinante la storia della filosofia, si dice, ma appunto in quanto storia e soltanto storia, ossia in quanto retaggio di epoche che non sono più le nostre. Alla filosofia- sempre secondo questa teoria- sarebbero subentrate le scienze umane (psicologia, sociologia ecc.), per non parlare delle scienze della natura, che ne dimostrerebbero il carattere ormai obsoleto. Donde la riduzione della filosofia a storia della filosofia. Ma siamo sicuri che le cose stiano così? E se invece l'enorme sviluppo dell'impresa conoscitiva, grazie all'apporto delle scienze della natura e delle scienze in genere, non implicasse che proprio alla filosofia tocca di riflettere sulla complessità del mondo in cui ci troviamo a vivere? Questo manuale non intende abdicare all'idea che la filosofia sia ancora per noi una cosa viva, animato com'è dalla convinzione che essa esista non al di là delle scienze o nonostante le scienze, ma proprio in forza di esse. E dunque: il progresso scientifico non è nemico della filosofia, ma suo grande alleato. Valga tutto ciò come una consegna da rispettare lungo il cammino che si sta per intraprendere.

GLI AUTORI

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Indice

Unità

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Natut·a e l6gos: il pensiero dei pt·esoct·atici Quando ha inizio la filo§ofia La testimonianza di Aristotele

27 27

Nuovi inizi

28

Il problema delle fonti

28

Alle odgini di una tradizione

29 29 29 30

La ricerca dei principi !.:indagine della natura l temi della filosofia presocratica

l...lnità ·"l

!,a f1losofia prima della :fùosofia 1.

e.

Un poeta tra i filosofi Filosofia perenne o filosofia che nasce? La filosofia non ha sempre saputo di esistere

3

La vita di Talete, Anassimandro e Anassimene

4 4 5

l Milesi e l'indagine sulla natura

I filosofi e il mito: un t·appo:rto difficile La voce delle piante e delle rocce La forza del mito e della tradizione !.:origine della filosofia dalla meraviglia: Platone e Aristotele

3.

Le o:dgini del pensiero nella lingua e nella lettet·aiu:m La lingua accoglie la filosofia Omero e la verità nel mito l poemi omerici e la sto~ia Esiodo, il maestro di verità

4.

La sapienza che salva e che guida Il segreto, il mistero, la scoperta Le sfide della sapienza: oracoli, labirinti, enigmi La tradizione dei Sette Sapienti

5.

s.

La filosofia na§ce grande La continuità: dal myt;hos al 16gos

1.

La filosofia tt·a §cienza e §apienza La scuola di Mileto

2.

a 11-11. L'incapacità umana di udire questa musica celestiale sarebbe dovuta all'eternità del movimento, che non conosce mai tregua né intervalli di silenzio. Suono e silenzio sono infatti correlati e la consuetudine fa sl che gli uomini non siano in grado di avvertire la musica celeste ~111-16.

lllliEJI 11 mamel'll come IJI'incillill

Orbene è evidente anche che costoro concepiscono il numero come principio, considerandolo sia come materia delle cose esistenti sia come costitutivo delle affezionP e degli stati di queste, ed elementi del numero sono, secondo loro, il pari e il dispari, e di questi il primo è infinito, il secondo è finito, e l'Uno risulta da tutti e due questi elementi (giacché esso è pari e, 1. Modiflcazioni di stato che le cose possono subire per l'azione di altri elementi o agenti.

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insieme, dispari), e il numero deriva dall'uno e l'intero cielo2 , come già dicevamo, si identifica coi numeri. Altri, che fanno parte della stessa scuola, dicono che i principi sono dieci e li elencano per coppie di elementi, ossia: limite e illimitato, dispari e pari, unità e pluralità, destro e sinistro, maschio e femmina, quieto e mosso, retto e curvo, luce e oscurità, buono e cattivo, quadro e oblungo[ ... ]. Il modo, però, mediante cui questi loro principi possono essere ricondotti alle cause indicate da noi, non è stato articolato da loro con chiarezza, ma pare che essi dispongano tali elementi come se questi fossero di specie materiale, giacché, secorido le loro affermazioni, la sostanza risulta composta e plasmata proprio in base a questi elementi, nel senso che essi le sono immanenti.

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15

Aristotele, Metafisica, A, 986a15-986b8, pp. 21-22

~

L'armonia dei contrm•i

Per quanto concerne natura e armonia le cose stanno così: la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono una conoscenza divina, non umana; oltre che poi sarebbe impossibile che alcuna delle cose esistenti diventasse da noi conosciuta, se non avesse a fondamento la sostanza delle cose che formano il cosmo, cioè delle limitanti e delle illimitate. Ma perché i principi erano essenzialmente non simili tra loro né omogenei, sarebbe stato impossibile creare con essi un cosmo, se non fosse intervenùta armonia, comunque ella abbia avuto origine. E certo, le cose simili e le omogenee non avrebbero avuto alcun bisogno di armonia; le dissimili e le eterogenee o di serie diversa hanno bisogno di essere collegate da un tal genere di armonia, per la quale possano restare unite in cosmo~.

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Stobeo, Ecloghe Fisiche, I, 21, 7d, in Ipresocratici, DK 44 B 6, pp. 843-844

~ L'nrmonia degli nstri

La musica degli astri non è udita dagli uomini

Da ciò appare evidente che l'affermazione che dal moto degli astri si generi armonia, in quanto i rumori da essi prodotti sarebbero tra loro consonanti, è una trovata graziosa e originale, ma non corrisponde al vero. Infatti taluni credono che lo spostamento di corpi così grandi debba necessariamente produrre rumore, ·poiché lo producono anche i corpi qui da noi, sebbene non abbiano quella mole, né si muovano con quella velocità. Ora, rotando il sole e la luna, e in più tanti astri, e così grandi, con moto tanto veloce, è impossibile che non si produca un fragore straordinariamente grande. Ammesso ciò, e ammesso inoltre che le velocità determinate dalle distanze stiano tra loro secondo i rapporti delle consonanze, quei filosofi4 affermano che la rotazione degli astri genera un suono armonioso. Ma poiché sembrerebbe strano che noi non sentissimo questo suono, dicono che la causa di ciò è che esso esiste già al momento in cui nasciamo, sicché non è reso percepibile dal contrasto col silenzio; infatti, le percezioni del suono e del silenzio sono correlative. E come ai fabbri per la consuetudine sembra di non avvertire più il rumore che fanno, così accadrebbe, secondo loro, a tutti gli uomini.

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Aristotele, Del cielo, B, 9, 290b12, in Ipresocratici, DK 58 B 35, p. 951

2. Il cielo per il movimento ordinato e immutabile dei suoi astri costituiva una conferma delle tesi pitagoriche. ,3. Nel significato appunto di ordine, in opposizione a caos. 4. Con riferimento ai pitagorici.

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L'essere e il divenire .

C'è un Rrincipio unico ehe governa la natura al di là delle molteplici aJ:?J:?arenze?

. ·

Esiste una legge eterna che regola il corso delle cose, dando .unità e intelligiBilità al cosmo

M. C. Escher, Spimli sferiche, 1958.

filosofi pi'esocratici hanno provato a guardare la natura cercando di andare oltre le apparenze per cogliere l'unità e la logica costante degli eventi che accadono dinanzi ai nostri occhi. La realtà sottesa ai fenomeni della natura è stata vista da alcuni come qualcosa che riflette il perenne divenire di tutte le cose, da altri come qualcosa di eternamente immobile. Allo stesso modo, l'eternità è stata concepita come un ripetersi ciclico di tutte le cose oppure come un presente immobile senza durata. Su questi temi, la riflessione di Eraclito è stata spesso messa a confronto con la speculazione dei Milesi, dei pitagorici e soprattutto della scuola eleatica. Per Eraclito, infatti, «tutto scorre, e ogni realtà è in perenne trasformazione. Gli opposti, il caldo e il freddo, l'umido e il secco, si rincorrono e si avvicendano senza posa: non l'armonia dei pitagorici, bensì la guerra sottende al rapporto tra i contrari. Il divenire incessante di tutte le cose è anche l'unica legge, la realtà ultima che governa la natura. Per Parmenide e la sua scuola, il divenire costituisce invece soltanto un'apparenza sensibile, che il pensiero umano trascende cogliendo l'immutabilità, l'immobilità e l'unicità dell'essere. A differenZa dei pitagorici, per Parmenide l'essere non è infatti nemmeno molteplice, bensì è unico, senza parti e indivisibile. Per la scuola eleatica e in particolare per Zenone, la natura, che i Milesi, i pitagorici ed Eraclito hanno colto nella sua molteplicità e nel suo divenire, costituisce un regno di insolubili paradossi.

I

Eraclito: il divenire incessante di tutte le cose L'opera di Eraclito si compone di brevi aforismi dallo stile oracolare e di difficile interpretazione. l seguenti frammenti e testimonianze mettono in luce alcuni aspetti della filosofia di Eraclito: i primi due aforismi liiil-iE riguardano il fluire incessante di tutte le cose, reso attraverso la celebre immagine del fiume in cui scorrono acque sempre diverse. Il filosofo afferma che non è possibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, non solo perché cambiano impetuosamente le acque, ma anche perché noi stessi siamo in perenne trasformazione. Nell'aforisma successivo~ si richiama la legge incessante del divenire per la quale gli opposti (caldo-freddo, secco-umido, sveglio-dormiente, morto-vivo, giovane-vecchio) tramuta-

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no costantemente l'uno nell'altro;~ tale è la legge della contesa (o guerra, in greco p6/emos) che domina, con necessità, la natura, facendo sì che nessun contrario annulli l'altro, lo distrugga. l frammenti l!iE'Hii@i ampliano questa visione assumendo un respiro cosmologico e trattano della continua trasformazione di tutti gli elementi nel fuoco, il principio dinamico di tutte le cose, immagine del/6gos. Dal fuoco hanno così origine il mare, la terra e l'aria e ogni elemento è in grado di tramutarsi nel fuoco: questo è presentato come una sorta di merce di scambio con gli altri elementi. Nel divenire di tutte le cose è riconoscibile, come sembra suggerire infine l'ultimo frammento~, che tutto è uno, ossia la tesi secondo la quale esiste un'unica legge (16gos) che lega eternamente la natura, l'essere: una verità accessibile alla ragione umana, rivelata dalla comune saggezza.

DIII

Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo.

~

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume, secondo Eraclito, e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato; ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento, si disperde e eli nuovo si raccoglie, viene e va 1 .

~

Le cose fredde si riscaldano, le cose calde si raffreddano, le cose umide si disseccano, le cose secche si inumidiscono.

~

Bisogna sapere che il conflitto è comune, che la giustizia è contesa, e che tutto accade per contesa e necessità.

~

Mutazioni del fuoco: in primo luogo mare, la metà di esso terra, la metà vento ardente. [... ] La terra sciogliendosi diventa mare, e questo raggiunge una misura in quelle stesse proporzioni che aveva prima che diventasse terra.

~

Tutte le cose sono uno scambio col fuoco, e il fuoco uno scambio con tutte le cose, come le merci sono uno scambio con l'oro e l'oro uno scambio con le merci.

~

Non dando ascolto a me, ma alla ragione, è saggio ammettere che tutto è uno. Eraclito, in Ipresocratici, DK 22 B 49a, B 91, B 126, B 80, B 31, B 90, B 50, pp. 349, 353, 361, 363, 371

1. Testimonianze analoghe in Aristotele. Riferimenti sono contenuti anche nel Cratilo eli Platone.

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...

--~--~-_

Parmenide: l'immutabilità, l'immobilità e l'unicità dell'essere Per Parmenide, pensare l'essere, ciò che è, significa escludere ogni possibile riferimento al divenire e alla molteplicità. Ammettere questi ultimi significherebbe infatti riconoscere realtà, pensabilità e dicibilità al non essere. Nel brano~. tratto da un ampio frammento del suo poema Sulla natura, Parmenide elenca gli attributi_ dell'essere, seguendo una ferrea logica deduttiva. A parlare è la divinità che introduce Parmenide alla via della verità, ossia alla via che l'essere è. L'essere è ingenerato e imperituro, senza inizio, né fine; l'essere è immobile, perché senza parti, e immutabile giacché in esso non scorre il tempo ~11-6. La divinità dimostra a Parmenide queste tesi, provando anzitutto che l'essere non può derivare dal non essere, né da un altro essere. Il non essere, infatti, non è possibile .né dirlo né pensar/o; mentre se l'essere fosse nato dall'essere, il generato e il generante sarebbero l'uno accanto all'altro essere e non essere ~16-13. L'essere non può nascere, perché altrimenti si ammetterebbe che prima era non essere; né può perire perché altrimenti concederemmo ancora una volta che il «non essere sarà» e il non essere, ribadisce Parmenide, è impensabile e inesprimibile ~114-19. L'essere non è nemmeno passato e futuro; non ha dunque durata, la sua eternità è un eterno presente ~120-24. L'essere è intero e senza parti perché altrimenti avrebbe in sé qualcosa che è «non essere»; e perciò l'essere è anche immobile ed è un tutto compiuto, uguale in ogni sua parte ~125-36. Analoghe caratteristiche ha il pensiero, quando è pensiero dell'essere ~137-41 e non cade negli inganni de/linguaggio che fa apparire l'essere molteplice e in divenire, nominando diversamente le cose e utilizzando parole erronee, ingannevoli, come nascere e perire ~141-44. L'immagine dell'essere che la divinità offre a Parmenide è quella di una «ben rotonda sfera» uguale in ogni sua parte ~146-54.

Il

l

L'essea•e è ingenerato

e hnperituto

Resta solo un discorso della via: che «è». Su questa via ci sono segni indicatori assai numerosi: che l'essere è ingenerato e imperituro, infatti è un interd nel suo insieme, immobile e senza fine. Né una volta era, né sarà, perché è ora insieme tutto quanto, uno, continuo. Quale origine, infatti, cercherai di esso? Come e da dove sarebbe cresciuto? Dal non essere non ti concedo né di dirlo né di pensarlo, perché non è possibile né dire né pensare che non è. Quale necessità lo avrebbe mai costretto a nascere, dopo o prima, se derivasse dal nulla? Perciò è necessario che sia per intero, o che non sia per nulla. E neppure dall'essere concederà la forza di una certezza che nasca qualcosa che sia accanto ad esso. Per questa ragione né il nascere né il perire concesse a lui Giustizia sciogliendolo dalle catene, ma saldamente lo tiene. La decisione intorno a tali cose sta in questo: ,è, o «non è». Si è quindi deciso, come è necessario, che una via si deve lasciare, in quanto è impensabile e inesprimibile, perché non del vero è la via, e invece che l'altra è, ed è vera. E come l'essere potrebbe esistere nel futuro?

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20

1. L'essere è un «intero", ossia non ha parti ed è dunque indivisibile. ·/·.":,'·.-------------------------~--------------------~

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L'essei'!! è indiuisibile

e immobile

Il pensim•o è come l'essere

L'essere è sfe••ico

E come potrebbe essere nato?· Infatti, se nacque, non è; e neppure esso è se mai dovrà essere in futuro. Così la nascita si spegne e la morte rimane ignorata. E neppure è divisibile, perché tutto intero è uguale; né c'è da qualche parte un di pitl che possa impedirgli di essere unito, né c'è un di meno, ma tutto intero è pieno di essere. Perciò è tutto intero continuo: l'essere infatti si stringe con l'essere. Ma immobile, nei limiti di grandi legami è senza un principio e senza una fine, poiché nascita e morte sono state cacciate lontane e le respinse una vera certezza. E rimanendo identico e nell'identico, in sé medesimo giace, e in questo modo rimane là saldo. Infatti Necessità inflessibile lo tiene nei legami del limite, che lo rinserra tutt'intorno, poiché è stabilito che l'essere non sia senza compimento: infatti non manca di nulla, se, invece lo fosse, mancherebbe di tutto. Lo stesso è il pensiero e ciò a causa- del quale è pensiero, perché senza l'essere nel quale è espresso, non troverai il pensare 2 • Infatti, nient'altro o è o sarà all'infuori dell'essere, poiché la Sorte lo ha vincolato a essere un intero e immobile. Per esso saranno nomi tutte quelle cose che hanno stabilito i mortali, convinti che fossero vere: nascere e perire, essere e non-essere, cambiare luogo e mutare luminoso colore~. Inoltre, poiché c'è un limite estremo, esso è compiuto. Da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte, infatti né in qualche modo più grande né in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un'altra. Né, infatti, c'è un non-essere che gli possa impedire di giungere all'uguale, né è possibile che l'essere sia dell'essere più da una parte e meno dall'altra, perché è un tutto inviolabile. Infatti, uguale da ogni parte, in modo uguale sta nei suoi confini.

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Parmenide, Sulla natura, in Ipresocratici, DK 28 B 8, pp. 489-492

2. Parmenide sottolinea la coincidenza tra pensiero ed essere, giacché non ci può essere l'uno senza

l'altro. 3>. Nascita, morte, movimento, cambiamento sono nient'altro che nomi che gli uomini danno alle apparenze.

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Zenone: la natura e i suoi. paradossi Nell'opera e nell'argomentazione di Zenone, la natura, il mondo del molteplice e del divenire, studiato dai Milesi, dai pitagorici e da Eraclito, costituisce il regno dell'apparenza, dell'essere e del non essere, oggetto d'opinione e origine di inestricàbili paradossi. l brani seguenti sono tratti dalla Fisica di Aristotele ed espongono i primi tre celebri paradossi di Zenone sul movimento: l'argomento della dicotomia, di Achille e la tartaruga, e della freccia. Il testo~ mostra che ciò che si muove, prima di raggiungere il traguardo, dovrà raggiungere la metà del tragitto, dopo aver percorso la metà della metà, la metà della metà della metà, e così via. Il paradosso consiste dunque nell'ammettere che in un tempo finito sia possibile percorrere uno spazio infinito. Identico, come osserva Aristotele, è anche il paradosso di Achille e la tartaruga~. secondo il quale la lenta tartaruga non sarà mai raggiunta dal più veloce Achille. Si distingue dall'argomento precedente perché, anziché la metà, il termine del movimento è stavolta un riferimento anch'esso in movimento. Evidente, in entrambi questi paradossi, è la polemica contro gli assunti della filosofia pitagorica, quali la molteplicità e la divisibilità degli enti. L'argomento della freccia coinvolge anche la nozione di tempo~: se si ammette la divisibilità del tempo e si riconosce che in esso avvenga il movimento, si cade nel paradosso di ritenere che il movimento sia la composizione di istanti in cui ciò che appare muoversi è in realtà immobile.

la illl!JIIZÌI1111:! del mouimento

rutiD@l L'argomento di Achilie

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della fl'l'lCCÌa

Quattro sono gli argomenti di Zenone intorno al movimento, che presentano difficoltà per chi li voglia risolvere. Il primo argomento è quello che nega che vi sia movimento, per la ragione che ciò che si muove deve giungere alla metà prima di giungere al termine 1 .

Secondo è l'argomento che è detto «Achille". Questo argomento dice che il più lento 2 non sarà mai raggiunto dal più veloce. Infatti è necessario che l'inseguitore giunga prima al punto da cui è partito colui che fugge, di modo che è necessario che il più lento si trovi sempre un tratto più innanzi. Questo argomento è identico a quello della dicotomia, e differi~ce da questo solamente per il fa tto che la lunghezza che viene via via considerata non viene divisa a metà.

Il terzo argomento ora menzionato è quello che sostiene che la freccia in movimento sta ferma. Questa tesi deriva dalla supposizione che il tempo sia costituito di istanti: se non si ammette questo, il ragionamento non regge. [... ]Se infatti - egli argomenta - ogni cosa o è in quiete o è in movimento, e nulla si muove quando sia in uno spazio uguale a sé, e poiché ciò che si muove occupa sempre in ogni istante uno spazio uguale a sé, allora la freccia che si muove è immobile.

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Aristotele, Fisica, 9, 239b9, in lpresocratici, DK 29 A 25, A 26, A 27, pp. 521, 523

1. Aristotele aveva già spiegato che prima di raggiungere la metà, ciò che si muove deve raggiungere la metà della metà e così via all'infinito, una volta ammessa la divisibilità dello spazio. 2. Il "Più lento, nel paradosso di Zenone è una tartaruga che, in gara con Achille, viene fatta partire in vantaggio sull'avversario .

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L'immagine del mondo

fisici pluralisti elaborano le proprie sintesi filosofiche provando soprattutto a rispondere alle domande sollevate dalla scuola eleatica e alle provocazioni dei paradossi di Zenone, che aveva negato l'esistenza della molteplicità e del movimento. Essi prendono per vero, al contempo, lo scenario del divenire presentato da Eraclito cercando eli giustificare filosoficamente la presenza eli enti molteplici che nascono, vivono, si trasformano. Così, la ricerca sui principi della natura e la riflessione sulle cause dell'essere e del divenire pervengono nei cosiddetti fisici pluralisti (Empedocle, Anassagora e gli atomisti) alla costruzione eli compiute e articolate immagini del cosmo. In esse è possibile rintracciare anche molte delle analisi e delle problematiche sollevate dai filosofi precedenti. Empedocle individua così nelle quattro radici, fuoco, aria, acqua e terra, i principi dell'essere e nell'amore e nell'odio le cause del divenire che plasmano dall'interno gli elementi della natura. Ricorrendo invece alle omeomerie e a un'intelligenza ordinatrice, Anassagora spiega come sia stato possibile il passaggio dal caos al cosmo. Se per Empedocle la realtà è un ciclo cosmico, che eternamente riproduce il

I

Pieter Pau! Rubens, Democrito ed Eraclito, 1603, Valladolicl, The National Museum of Religious Sculpture.

mondo clissolvetidolo e ricomponendolo, per Anassagora il mondo è il prodotto di un'intelligenza, che ha dato inizio al movimento. All'opposto per Democrito e gli atomisti, il mondo è il risultato eli atomi, vuoto e cieca necessità: particelle indivisibili, impercettibili alla vista, si muovono dall'eternità, si incontrano nel vuoto, dando forma a corpi, uomini, animali, ossia a tutte le cose macroscopiche che appaiono ai sensi.

Empedocle: i principi dell'essere e le cause del divenire Empedocle pensa a uria pluralità di principi, in grado di spiegare non soltanto la matrice comune di tutte le cose, ma anche il fenomeno del divenire, del mutamento. L'esposizione e l'argomentazione del filosofo sono affidate al linguaggio della poesia, attraverso immagini potenti e persuasive. Nel primo dei brani seguenti~. tratti dai frammenti rimastici del poema Sulla natura, Empedocle, dopo aver presentato i principi immutabili della natura, ossia le radici dell'essere, fuoco- terra- aria -acqua, personificate in quattro divinità: Zeus, Adoneo, Era e Nesti, avanza la sua concezione generale del mutamento, della nascita e della morte, quale mescolanza e separazione di elementi, escludendo, per non incorrere nel «divieto» eleatico,

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il passaggio dal non essere all'essere e viceversa, ovvero ciò che Parmenide aveva vietato: percorrere la via del non essere. Vita e morte, sostiene Empedocle, sono soltanto nomi che gli umani attribuiscono alla mescolanza e separazione degli elementi. Nel secondo e più ampio brano JiEl, Emped9cle introduce le cause del divenire, amore e odio («Contesa») che operando da dentro le radici plasmano le cose, accrescendo o dividendo l'essere, l'uno ~~>11-6. Empedocle invita a cogliere questa verità con l' «occhio della mente» e a scorgere come il mutamento sia prodotto dalla predominanza talvolta dell'amore (chiamato anche Gioia o Afrodite), tal'altra della contesa. Amore e odio non sono soltanto passioni dei mortali, ma anche forze cosmiche ~~>17-13. Questi elementi (amore e odio) sono ingenerati e imperituri, sempre uguali a se stessi; ciascuno però con la proprie prerogative: Amore unisc~, Contesa divide, dando vita alla trasformazione ciclica del mondo e all'eterno ritorno di tutte le cose nel «giro del tempo» ~~>114-27.

l..'m•igine delle Cll!lll

mortali

E altro ti dirò: non c'è nascita per nessuna delle cose mortali, né termine di morte le distrugge, ma soltanto mescolanza e separazione di elementi mescolati, che origine viene detta dagli umani. Aezio, Dossograjla, l, 30, 1, in Ipresocratici, DK 31 B 8, p. 653

~ Amoi'D e Contesa

il ciclo cosmico

Duplice cosa dirò: sia l'Uno si accresce dai molti così da essere una cosa sola, sia si divide, così che dall'Uno vengano a essere i molti, [.. .] Fuoco e Acqua e Terra e l'altezza immensa dell'Aria, e Contesa, disgiunta da essi ma di pari peso, ovunque, e Amore, in essi, uguale in lunghezza e larghezza. Guardala con l'occhio della mente, non restare con sguardo stupito, essa che ritengono innata nelle membra mortali e per Lei nutrono pensieri amorevoli e portano a compimento opere di concordia, Gioia dicendola, e Afrodite! Nessuno che fosse uomo mortale la scorse aggirarsi tra gli elementi. Ma tu ascolta il seguito non ingannevole del mio discorso! Gli elementi hanno tutti forma uguale e sono coevi per nascita, ma ognuno ha proprie prerogative e indole propria e predominano a vicenda nel giro del tempo. A essi niente si aggiunge, niente viene a mancare: perché se perissero del tutto non sarebbe già più. E che cosa potrebbe accrescere questo tutto, e provenendo da dove? E come potrebbero scomparire, se nulla è vuoto di essi? Ma sono questi le cose che sono, e trascorrendo gli uni attraverso gli altri divengono ora queste ora quelle cose, ma sempre a se stessi eternamente uguali. Simplicio, Fisica, 157, 25, in I presocratici, DK 31 B 17, pp. 659-661

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Anassagora: l'intelligenza ordinatrice Secondo Anassagora, i principi immutabili della natura sono i semi, infiniti per quantità e piccolezza, di cui si comporrebbero tutte le cose in innumerevoli mondi. Accanto ai semi, il filosofo pone un principio intelligente, che presiede alla loro composizione dando ordine e finalità alle cose. Il primo dei seguenti brani~ è tratto da Simplicio (VI sec. d.C.), dal commento alla Fisica di Aristotele, e riproduce l'inizio del primo libro della Fisica di Anassagora: è il momento in cui tutti i semi, infiniti per numero e qualità e infinitamente divisibili, si trovano tra loro tutti mescolati assieme. Il secondo brano~. sempre da Simplicio, riporta le parole di Anassagora sull'intelletto, quale causa dell'inizio del movimento e del passaggio dal caos al cosmo. L'intelligenza è descritta come un principio del tutto separato, più sottile e puro dei semi, tale da conoscere tutto e possedere grandissima forza ~>-11-1 O. Dal moto rotatorio da essa impresso ai semi si sarebbero generate, su disposizione dell'intelligenza, tutte le cose, mescolandosi e separandosi ~>11 0-19. Nessun seme si separa mai del tutto e in ogni cosa sono sempre contenuti i semi di tutte le cose, seppur in maniera diversa. Solo l'intelligenza rimane separata, interamente uguale a se stessa ~>-119-22. L'ultimo brano lilEJl si apre costatando, dato il numero infinito dei semi, la possibilità di altri mondi, dotati di un proprio sistema solare, abitati da «uomini» e da «esseri viventi» ~>117. La seconda parte del testo tratta del momento in cui tutto era mescolato insieme, quando nessuna delle qualità negli infiniti semi era percepibile. Anassagora conclude allora che, anche dopo la separazione, tutto deve essere in tutto, ossia ogni seme deve contenere i semi di tutte le cose ~>-18-13. Perciò Aristotele definirà i semi di Anassagora, omeomerie (dal greco h6moios, «simile» e méros, «parte») ossia «particelle similari».

In principio tutto era mescolato e indistinto

Tutte le cose erano insieme, infinite tanto in quantità che in piccolezza; anche il piccolo era infatti infinito e, essendo le cose tutte insieme, non si poteva distinguere niente a causa della piccolezza. Aria ed Etere, infatti, avvolgevano tutto, essendo entrambi infiniti: sono infatti le cose più grandi di tutte, sia per quantità che per grandezza.

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Simplicio, Fisica, 155, 23 in !presocratici, DK 59 B l, p. 1069

L'Intelligenza è separata dai semi

L'Intelligenza ordina nmouendo i semi

Tutte le altre cose hanno parte di tutto. L'intelligenza invece è infinita, indipendente, e non mescolata ad alcuna cosa, ma è sola, lei in se stessa. Infatti, se non fosse in sé, ma fosse mescolata ad altro, parteciperebbe di tutte le cose, anche se mescolata a una qualunque. In tutto infatti si trova parte di tutto\ come ho detto prima, e le cose mescolate la ostacolerebbero, sicché non avrebbe potere su nessuna cosa, come invece ha essendo sola in sé. È infatti la più sottile di tutte le cose e la più pura, ha perfetta conoscenza di tutto e grandissima forza; e quante cose hanno vita, più grandi o più piccole, tutte domina l'Intelligenza. E l'Intelligenza dette impulso alla rotazione di tutto quanto, così che avesse inizio il moto rotatorio. E la rotazione iniziò dapprima dal piccolo, svolgendosi poi verso il grande, e si svolgerà ancora di più. E l'Intelligenza ri-

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1. Riferimento ai semi o omeomerie. In ciascun seme sarebbero contenuti, seppur in rapporti diversi,

anche i semi di tutte le altre cose.

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Il

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i semi, a diffe1•enza dell'intnlliyenza, non si Sl!llllrano mai del tutto

conobbe tutte le cose che si formavano per mescolanza,. e quelle che si formavano per separazione e quelle che si dividevano, e quelle che stavano per essere, e quelle che erano e ora non sono, e quante sono ora e quali saranno, l'Intelligenza le dispose tutte, e la rotazione che compiono le stelle e il sole, la luna e quella parte di aria e di etere che si va separando. Ed è proprio la rotazione che provocò il separarsi. E dal rado si separa il denso e dal freddo il caldo e dall'oscuro il luminoso e dall'umido l'asciutto. E vi sono molte parti di molti. Nessuna cosa però si separa del tutto, né alcuna cosa si divide dall'altra tranne l'Intelligenza. L'Intelligenza, dunque, è tutta uguale, sia la maggiore che la minore. Nessuna altra cosa, invece, è simile ad alcuna, ma ciascuna è ed era costituita dalle cose in essa più visibili e di cui partecipa in misura maggiore.

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Simplicio, Fisica, 164, 24, in Ipresocratici, DK 59 B 12, pp. 1077-1079

~ L'esistenza di altl•i mondi

Tutto è in tutto

Stando così queste cose, bisogna convincersi che molte cose e di ogni tipo si trovino in tutto ciò che ha origine per aggregazione, e semi d'ogni cosa con forme e colori e sapori d'ogni genere. E che si costituirono uomini e tutti gli esseri viventi provvisti di sensibilità. E questi uomini hanno città abitate e opere erette come da noi, e hanno il sole e la luna e ogni altra cosa come noi, e la terra fornisce loro molte cose e di ogni genere, tra cui essi usano le più utili dopo averle raccolte in casa propria. Ho dunque detto questo sulla separazione, perché la separazione non è possibile solo tra noi, ma anche altrove. Prima però che queste cose si separassero, trovandosi insieme tutte le cose, non era distinguibile neanche alcun colore; lo impediva infatti la mescolanza di tutte le cose, dell'umido e del secco, del caldo e del freddo, del luminoso e dell'oscuro e della molta terra che c'era e eli semi di quantità infinita, in nulla simili l'uno all'altro. Neppure delle altre cose, infatti, in nulla rassomiglia l'una all'altra. Così stando le cose, bisogna ritenere in tutto si trovi tutto.

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Simplicio, Fisica, 34, 28, in Ipresocratici, DK 59 B 4, pp. 1071-1073

Democrito: atomi, vuoto e cieca necessità Il brano~ è un compendio della filosofia naturale e morale di Democrito, tratto dalla Raccolta delle vite e delle dottrine dei filosofi di Diogene Laerzio (111 sec. d.C.). l principi della natura sono atomi e vuoto; soltanto essi sono eterni, infiniti, ingenerati e

incorruttibili. l mondi anch'essi infiniti sono invece corruttibili, perché generati da scontri e incontri tra atomi ~>11-8. Democrito e gli atomisti presentano perciò la loro immagine del mondo senza ricorrere a cause intelligenti, a principi trascendenti o immanenti alla natura, che non sia·no riconducibili al movimento e alla materia. Al contrario, tutto nel mondo con· cepito dagli atomisti avviene per necessità, in virtù di cause efficienti, seguendo la meccanica vicenda di corpi in movimento nel vuoto che si urtano aggregandosi e disgregandosi ~>-18-1 O. Anche l'anima, il principio dell'intelligenza umana, è composta di atomi. La conoscenza sensibile dipende da flussi di atomi che emanano da ogni corpo colpendo gli organi di senso ~>-19-1 O. L'immagine del mondo di Democrito sta alla base anche della sua concezione morale e del suo ideale di saggezza, quale tranquillità e stabilità d'animo, propria di chi vive una vita non turbata da superstizioni, paure, passioni ~>-111-17. Nel brano~' Simplicio illustra un altro aspetto della dottrina di Democrito, ovvero la di· versa conformazione degli atomi: dopo aver richiamato i due princlpi fondamentali della ·l·:;:··r·J----------------------------------------------

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fisica democritea (il pieno corrispondente all'essere e il vuoto coincidente con il non essere) e la dottrina secondo cui gli atomi sono la materia dei corpi, Simplicio afferma che per Democrito tutte le differenze che esistono tra i corpi si spiegano con le differenze degli atomi stessi ~>-11-4. Tali differenze (misura, direzione, forma, posizione, ordine) producono infatti fenomeni ben precisi: atomi simili sono mossi da altrettanti atomi simili, atomi della stessa configurazione sono portati ad avvicinarsi tra loro, atomi di una certa forma formano complessi diversi a seconda delle configurazioni in cui vanno a disporsi ~>14-9. In questo modo gli atomisti potevano spiegare razionalmente come tutte le cose dell'universo, diverse per molti loro aspetti, si fossero generate dagli atomi, partendo comunque dal presupposto che gli atomi siano infiniti H 9-13. Gli atomi devono essere infiniti sia per numero che per forma, perché nulla può determinare la presenza di una forma rispetto a un'altra, non essendovi per Democrito alcuna mente ordinatrice superiore l>l13-15.

Atomi e vuoto sono i 11rim:ipi etl!l'ni all'origine di tntte le cose

La ti'IIII!JIIillità dell'anima Ì:! l'ideale di SII!J!JeZZI! basato sull'immagine atomistica del mondo

La sua idea era che i principi di tutte le cose siano gli atomi e il vuoto, e che tutte le altre cose siano oggetto di opinione. I mondi sono infiniti, generati e corruttibili. Nulla nasce dal non essere, e nulla si corrompe nel non essere. Gli atomi sono infinitamente vari per grandezza e infiniti per numero, e si muovono nell'universo in modo vorticoso, generando in tal maniera tutti i composti, il fuoco, l'acqua, l'aria, la terra. Anche questi elementi, infatti sono aggregati atomici d'un certo tipo. Al contrario, gli atomi sono in sé impassibili e inalterabili, per via della loro solidità. Il sole e la luna sono masse composte da atomi lisci e sferici, e analogamente l'anima, che coincide con l'intelligenza. Il vedere ci deriva dalle immagini riflesse che penetrano in noi. Tutto si genera secondo necessità, poiehé la causa è il vortice che regge la generazione di tutte le cose, e che egli chiama «necessità". Il fine della vita è la tranquillità dell'animo, che coincide col piacere, come hanno inteso alcuni, sbagliando. Al contrario, è quella disposizione interiore, nella quale l'anima trascorre la vita in uno stato di tranquillità e di stabilità, senza essere turbata da alcuna paura o superstizione, né da alcuna passione. Democrito chiama la tranquillità d'animo benessere e in parecchie altre maniere.

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Diogene Laerzio, Vite deifilosofi, IX, 44-45

~

Il IIIIIIIÌIIII!IIÌO

degli atomi spiega come si formano i Clll'lli e gli infiniti mondi

Analogamente, anche il suo [di Leucippo] discepolo Democrito di Abdera pose come princìpi il pieno e il vuoto, chiamando essere il primo e l'altro non essere: essi, infatti, considerando gli atomi come materia dei corpi, fanno derivare tutte le altre cose dalle differenze degli atomi stessi. Le differenze sono: misura, direzione, contatto reciproco, che è quanto dire forma, posizione e ordine. Essi ritengono infatti che per natura il simile è posto in movimento dal simile e che le cose congeneri sono portate le une verso le altre e che ciascuna delle forme, andando a disporsi in un altro complesso, produce un altro ordinamento; di modo che essi, partendo dall'ipotesi che i princìpi sono infiniti di numero, promettevano di spiegare in modo razionale le modifi.cazioni · e le sostanze e da che cosa e come si generano i corpi; perciò essi anche dicono che soltanto per coloro che considerano infiniti gli elementi tutto si ·svolge in modo conforme a ragione. Ed affermano che è infinito il numero delle forme negli atomi perché nulla possiede questa forma qui a maggior ragione di quest'altra: tale infatti è la causa che essi adducono della loro infinità.

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I presocratici: testimonianze e frammenti, vol II, p. 684

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La verità, l'opinione e la conoscenza umana È possibile per l'uomo cogliere la verità? '

' ' Quali ostacoli si frappongono?

n problema su cui i filosofi concentrano la discussione è anzitutto la distinzione tra verità e opinione, sviluppando in parallelo anche il tema del rapporto tra pensare e sentire. Il rapporto tra queste due forme di conoscenza è infatti uno degli argomenti principali su cui i filosofi si misurano, formulando soluzioni alternative. Il problema diventa un tema decisivo a partire almeno dalla riflessione di Eraclito, nella sua chiara separazione tra opinione e verità, per poi trovare una prima soluzione netta e radicale col pensiero eleatico. Per Eraclito la verità è nascosta in noi; occorre ascoltarla, per quanto difficile sia raggiungerla interamente e aprirsi a essa e sia più facile affidarsi alle opinioni correnti del-

U

Zenone di Elea mostra ai giovani le p011e della vet·ità e della falsità, affresco della Biblioteca del El Escorial, Madrid, 1588-1595, attribuito a B. Carducci e P. Tibaldi.

la massa. All'opinione Parmenide contrappone la ricerca della verità, percorrendo la via di ciò che necessariamente è. Con i fisici pluralisti, Empedocle, Anassagora e Democrito, il problema della conoscenza finisce con l'occupare un ambito specifico di riflessione, nel tentativo di recuperare il valore della conoscenza sensibile (Empedocle), di specificare ambiti e limiti di quest'ultima (Anassagora) o di consegnare definitivamente la sensibilità all'ambito dell'opinione (Democrito), Anassagora ed Empedocle propongono due modelli per molti aspetti alternativi del conoscere; Democrito elabora invece una teoria della conoscenza che stabilisce gradi diversi di verità e certezza.

Eraclito: la verità ama nascondersi Nel primo frammento !Uill si richiama l'idea che la verità si attinga conoscendo prima di tutto se stessi, il /6gos, la ragione che governa tanto l'uomo, quanto tutta la realtà. Nel secondo liE1 si condanna l'atteggiamento della maggior parte degli uomini che vivono di opinioni altrui o di mere presunzioni private: rispetto alla voce interiore del /6gos essi sono come coloro che non capiscono pur credendo di capire, o l.i:i:5ll come coloro che ascoltano ma sono «sordi». Come mostra il frammento~~ occorre affidarsi allo studio di quelle cose di cui c'è «Vista, udito, conoscenza». Ma, aggiunge l'aforisma successivo riEJ, anche i sensi possono essere cattivi e ingannevoli testimoni se non vengono guidati dall'anima con rettitudine, dall'intelligenza, dalla saggezza. La verità liiilll-liflfJI che risiede nell'ani-

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ma, specchio del /6gos cosmico, è tuttavia impossibile da raggiungere fino in fondo e la natura delle cose «ama nascondersi», non mostrarsi in piena luce. Negli ultimi frammenti i'ii:EI-IIi:m si afferma infine la coincidenza del/6gos, della legge universale con la ragione in qualità di unica sapienza umana raggiungibile.

Ho investigato me stesso.

Non comprendono queste cose molti di coloro che si imbattono in esse, e neppure le capiscono dopo che le hanno apprese, anche se credono di capirle.

Essi pur ascoltando, non capiscono e sono come i sordi; di loro è testimone il detto: pur essendo presenti, sono assenti.

Io preferisco quellè cose di cui c'è vista, udito, conoscenza.

Cattivi testimoni sono occhi e orecchi per gli uomini che hanno anime barbare.

I confini dell'anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in fondo nel percorrere le sue strade: così profonda è la sua ragione (l6gos).

La natura ama nascondersi.

Non dando ascolto a me, ma alla ragione (l6gos) è saggio ammettere che tutto è uno.

~

Esiste una sola sapienza: riconoscere l'intelligenza che governa tutte le cose attraverso tutte le cose. Eraclito, in !presocratici, DK 22 B 101, B 17, B 34, B 55, B 107, B 45, B 123, B 50, B 41, pp. 347, 349, 351, 353, 365, 367, 369

Parmenide: la ricerca della verità l seguenti passi sono tratti dal poema Sulla natura di Parmenide e il primo riporta il proemio nel quale si descrive con immagini poetiche il viaggio nella verità compiuto dal filosofo. La verità, tanto ricercata e desiderata dall'uomo, compete esclusivamente alla divinità ed è al cospetto di essa che Parmenide viene portato, aiutato dalle Muse («fanciulle Figlie del Sole») ad attraversare col carro tutta la città e a valicare la soglia di una porta, il confine tra l'umano e il divino, che soltanto la giustizia può aprire ~11-24. La divinità promette di mostrare a Parmenide tutte le vie possibili della ricerca, perché è necessario che l'uomo conosca ogni strada al fine di distinguere l'una dall'altra. Essa gli mostrerà sia la via della verità, del-

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l'essere, contrapponendola alla falsità che pertiene al non essere, sia la via dell'opinione nella quale non c'è alcuna certezza ~125-36. Nel frammento~ la divinità espone i termini qualificanti ciascuna via di ricerca: l'una è la via dell'essere e della necessità, ossia di ciò che è ed è impossibile che non sia, la via della Verità da seguire. Da evitare è la via del non essere e di ciò che è impossibile che sia; perché è la via che conduce al nulla, a ciò che è inconoscibile e inesprimibile ~11-3. Da allontanare da sé è anche la via seguita da coloro, uomini «sordi e ciechi», che si affidano soltanto all'opinione, ammettendo il non essere accanto all'essere, ritenendo molteplice o in divenire l'essere ~14-11.

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i'im] il viaggio verso la mirità

La ve1•ità iì divina ptu·ché eterna

LllVIn'itiì è distinta daii'DIIinill111!

Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio vuol giungere, mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose, che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi l'uomo che sa. Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via. L'asse dei mozzi mandava un sibilo acuto, infiammandosi - in quanto era premuto da due rotanti cerchi da una parte e dall'altra -, quando affrettavano il corso nell'accompagnarmi, le fanciulle Figlie del Sole, dopo aver lasciato le case della Notte, verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo. Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno, con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra; e la porta, eretta nell'etere, è rinchiusa da grandi battenti. Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi che aprono e chiudono. Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole, con accortezza la persuasero, affinché, per loro, la sbarra del chiavistello senza indugiare togliesse dalla porta. E questa subito aprendosi, produsse una vasta apertura dei battenti, facendo ruotare nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito, attraverso la porta, diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono carro e cavalle. E la dea 1 di buon animo mi accolse, e con la sua mano la mia mano destra prese, e incominciò a parlare e mi disse così: «O giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici, con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora, rallegrati, poiché non un'infausta sorte ti ha condotto a percorrere questo cammino - infatti esso è fuori dalla via battuta dagli uomini -, ma legge divina e giustizia. Bisogna che tutto apprenda: e il solido cuore della Verità ben rotonda e le opinioni dei mortali, nelle quali non c'è vera certezza. Eppure anche questo imparerai: come le cose appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso».

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1. Probabile riferimento alla Giustizia richiamata in precedenza. '/~c.'·,:'.----------------------------------------------c~

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~ Essere e non-essere

È necessario il dire e il pensare che l'essere sia:

infatti l'essere è, il nulla non è: queste cose ti esorto a considerare. E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano, ma, poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno vanno errando, uomini a due teste 2 : infatti, è l'incertezza che nei loro petti guida una dissennata mente. Costoro sono trascinati sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini senza giudizio, dai quali essere e non-essere sono considerati la medesima cosa e non la medesima cosa, e perciò di tutte le cose c'è un cammino che è reversibile~.

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Parmenide, Sulla natura, in Ipresocratici, DK 28 B l, B 6, pp. 479-481, 485

Empedocle e Anassagora: due modelli alternativi di conoscenza Empedocle e Anassagora propongono due teorie della conoscenza umana tra loro alternative: opposta è infatti la loro analisi sulle modalità del conoscere; diverse le loro tesi sugli organi preposti a raccordare la conoscenza sensibile. Secondo la testimonianza di Teofrasto (373/370-287 a.C.) sono infine alternative anche le concezioni che i due filosofi propongono del rapporto tra pensare e sentire. l passi di Empedocle sono tratti dal suo poema Sulla natura. Nel primo brano~ emerge la tesi secondo la quale il pensiero risiederebbe nel cuore, ovvero nel «sangue che circonda» quest'organo. Il sangue è infatti il risultato della mescolanza perfetta di tutte le radici e, come mostra il secondo frammento~' per Empedocle si conosce il simile col simile, ossia ad esempio la terra con la terra, l'acqua con l'acqua. L'uomo è omologo infatti alla natura, è composto dagli stessi elementi (radici). L'ultimo brano~ è una testimonianza più ampia di Teofrasto che sintetizza l'intera posizione di Empedocle in merito al problema della conoscenza. In apertura si spiega come avvenga la sensazione e, pur non menzionata, è sottintesa la teoria degli effluvi, secondo la quale particelle minuscole si staccherebbero incessantemente dai corpi venendo a contatto coi nostri organi di senso, penetrando nei loro pori. Ciascun organo di senso sarebbe adatto a intercettare solo certi effluvi e non altri, in base alla diversità delle radici che lo compongono, come esemplifica l'analisi della natura della vista ~>11-11. È ribadita quindi la tesi secondo la quale si conosce il simile col simile, come l'occhio percepisce il fuoco, la luce, perché fatto di fuoco al suo interno ~111-14. Le diverse sensazioni, provenienti dai vari organi di senso, sono connesse e armonizzate dal sangue, l'organo in cui maggiormente si mescolano le quattro radici ~>115-19.

~ Il pensil!l'll è mll cuore

È nutrito nei fiotti di sangue che guizzano incontro,

e in esso più che altrove c'è quello che dagli umani è eletto pensiero: sangue che circonda il cuore, questo è per gli umani il pensiero. Porfirio, Sullo Stige, presso Stobeo, Antologia, I, 49, 53, p. 424, 14W, in I presocratici, DK 31 B 105, p. 715

2. Riferimento alla via dell'opinione, che accanto all'essere ammette anche il non essere. 3. Alcuni interpreti hanno individuato in questo passo un possibile riferimento polemico acl Eraclito.

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li'iJ.m.I!J:!:.JI

Il simile conosce il simile IJI

Con la terra vediamo la terra, e l'acqua con l'acqua, con l'etere l'etere divino, e con il fuoco il fuoco distruttore, con l'amore l'amore e contesa con la contesa funesta. Aristotele, Dell'anima, A, 2, 404b8, in Ipresocratici, DK 31 B 109, pp. 717-719

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Empedocle: In sensazione

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e il ruolo del sangue

Parmenide, Empedocle e Platone sostengono che la sensazione avvenga per opera del simile, mentre i seguaci di Anassagora e Eraclito per opera del contrario[ ... ). Empedocle fa affermazioni simili riguardo a tutte le sensazioni, e dice che la sensazione è dovuta all'adattamento della cosa ai pori di ciascun organo di senso. Perciò questi ultimi non sono in grado di distinguere gli oggetti l'uno dall'altro, poiché tali pori si trovano a essere troppo larghi in alcuni e troppo stretti in altri, ai fini della sensazione, cosicché alcuni riescono a passare direttamente, senza toccadi, altri invece non riescono addirittura a entrare. Cerca anche di definire la natura della vista: e dice che all'interno dell'occhio c'è fuoco, e tutto intorno ad esso acqua e terra e aria, attraverso cui il fuoco passa, essendo sottile, come la luce nelle lanterne. [... ) Allo stesso modo, del resto, si esprime anche a proposito della conoscenza e dell'ignoranza. Infatti, la conoscenza si ha grazie ai simili; l'ignoranza, invece, a causa dei dissimili, cosicché il conoscere è o la stessa cosa o una cosa molto simile alla sensazione. Dopo aver enunciato i modi in cui comprendiamo ciascun elemento con ciascun elemento, alla fine aggiunge che «da questi. .. vengono connessi in armonia... Per questo, a suo avviso, la conoscenza si realizza soprattutto grazie al sangue, dato che in esso si mescolano in misura maggiore gli elementi delle partP.

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Teofrasto, De sensu 1; 7; 9; 10 ss., in Ipresocratici, DK 31 A 86, pp. 629, 631

Le testimonianze su Anassagora sono di Aristotele e ancora una volta di Teofrasto. Nella prima~ viene discussa la concezione per la quale si conosce per dissomiglianza, in netta contrapposizione alla tesi di Empedocle. Si conosce il dolce con l'amaro, il freddo col caldo e viceversa ~11-9. La possibilità di conoscere per l'uomo è data dal fatto che anche in lui tutto è in tutto, essendo composto di semi, omeomerie ~19. Nella seconda testimonianza~ si accenna al problema della conoscenza intellettuale, distinta da quella sensibile. L'intelligenza, per Anassagora, in quanto separata e dissimile da tutte le altre cose, è capace di conoscere tutto. Aristotele rileva però le ambiguità di Anassagora chiedendosi se per questi l'intelligenza coincidesse con l'anima e se dovesse perciò attribuirsi non solo al divino e all'uomo, ma anche agli altri animali.

La conoscenza attraverso i conti•ari

Per Anassagora le sensazioni si generano per mezzo dei contrari: il simile, infatti, non subisce affezione dal simile, e le esamina, poi, a una a una. Vedere dunque è possibile grazie alla capacità della pupilla di riflettere immagini, però non si hanno immagini di ciò che ha colore uguale, ma di ciò che ha co-

1. Con «elementi" si fa riferimento alle quattro radici.

.,...,_...-.r-·'·,~~~~-~--------~---------------------------------

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lore diverso. [.,.]Lo stesso egli fornisce anche del tatto e del gusto. Infatti, ciò che è allo stesso modo caldo o freddo, al contatto né riscalda né raffredda, né si distinguono di. per sé il dolce e l'amaro, ma il freddo in relazione al caldo e il dolce in relazione all'amaro, in base alla mancanza di ciascuno dei contrari. Dice infatti che in noi ci sono tutti. Allo stesso modo si comportano l'olfatto e l'udito: il primo insieme con l'inspirazione, l'altro col giungere del suono al cervello, in quanto l'osso intorno al cervello è cavo e il suono vi penetra2.

5

10

Teofrasto, De sensu 27; 28 ss., in I presocrattct, DK 59 A 92, p. 1059

La conoscenza intellettuale

Su questa questione Anassagora è meno chiaro: dice infatti in molti luoghi che l'intelligenza è causa del buono e del giusto, altre invece parla dell'anima, poiché è presente in tutti gli esseri viventi, sia grandi che piccoli, sia importanti che meno. [... ] Sostiene, infatti, che solo essa, tra le cose, è semplice, non mescolata e pura. E a questo stesso principio assegna ambedue le attività: il conoscere e il muovere.

5

Aristotele, Dell'anima, A, 2, 404b1, in I presocratici, DK 59 A 100, p. 1063

Democrito: la conoscenza e i suoi gradi l seguenti brani provano a ricostruire la posizione di Democrito sul problema della conoscenza umana. Il primo~ è tratto da una testimonianza di Sesto Empirico (180-220 d.C.) e traccia una distinzione tra il valore della conoscenza dei sensi e quella del pensiero. La prima è definita «inautentica», l'altra invece «autentica», giacché quella dei sensi coglierebbe la realtà per come appare, l'altra servendosi di «Un organo più fine», materialmente meno grossolano, percepirebbe la verità, ossia la costituzione atomica della materia nelle sue proprietà oggettive. Il secondo brano~ si apre con un'analisi della sensazione. Riprendendo una dottrina corrente, già di Empedocle e Anassagora, si dipartono dai corpi degli effluvi che, secondo Democrito, imprimono nell'aria un'immagine che poi raggiunge gli organi di senso ~11-5. Segue un'interpretazione di Teofrasto, sul rapporto tra sentire e pensare in Democrito, nella quale si indica la comune sostanza corporea di queste due forme del conoscere, pur ribadendo il loro genere diverso. L'intelligenza, a differenza della pazzia, è il risultato di una combinazione equilibrata tra anima e corpo ~>-15-13.

~ La COnOSCIIIIZIIIII!tl!ntiCII compete alla ragione, la conoscenza

inautentica ai sensi

Nei Canoni, Democrito sòstiene che due sono le forme di conoscenza: una si ha grazie alle sensazioni, l'altra grazie alla ragione. Egli chiama «autentica, quest'ultima, ammettendo che si può prestar fede a essa per giudicare sulla verità delle cose; considera «inautentica» la prima, negandole attendibilità per la conoscenza del vero. Queste sono alla lettera le sue parole: «due sono le forme di conoscenza: quella autentica e quella inautentica; rientrano nella seconda la

5

2. Il suono, attraverso l'orecchio, penetra dentro la cavità posta nel cranio e giunge al cervello.

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vista, l'udito, l'olfatto, il gusto, il tatto e tutte le cose di questo tipo; invece la prima differisce nettamente da questa". Successivamente, nell'anteporre la forma autentica di conoscenza a quella inautentica, aggiunge: «quando la forma inautentica di conoscenza non è affatto in grado di vedere, sentire, odorare, gustare, percepire col tatto ciò che è più minuto, allora interviene la forma autentica di conoscenza, la quale ha a disposizione un organo più fine, che serve per pensare,.

Ili

:l l,

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lO

Sesto Empirico, VII, 138, inlpresocratici, DK68 B 11, pp. 1341-1343

~ Gli effluvi di atomi

l'intelli!lenza r.lll'porea

Il vedere si ha grazie all'immagine, della quale «Democrito, prospetta una concezione tutta sua: l'immagine non si crea direttamente nella pupilla, ma si imprime nell'aria frapposta tra l'occhio e l'oggetto visto e che viene da questa compressa. Questo si verifica perché da tutte le realtà si produce sempre un effluvio che poi, in quanto è solido assume tutti i colori [.. .l. A proposito dell'intelligenza, egli è arrivato ad affermare che essa _si origina dalla combinazione dell'anima col corpo, quando quest'ultima sia ben equilibrata rispetto al corpo; invece se nella combinazione predominano il caldo o il freddo, egli asserisce che l'anima impazzisce. Per questo motivo, Democrito dice che gli antichi hanno parlato correttamente nella misura in cui è assunto che quello 1 sia un «pensare d'altro genere". Ed è dunque chiaro che, secondo Democrito, il pensare si origina dalla combinazione del corpo: e forse per lui, che rende corpo l'anima, ciò è ragionevole.-

5

lO

Teofrasto, De sensu 50; 58 ss., in I presocratici, DK 68 A 135, pp. 1277, 1283

1. Si riferisce alla pazzia, eli cui ha parlato appena prima. Per gli antichi, infatti, il delirio dell'uomo in

preda alla follia non era una espressione priva di senso, ma poteva contenere, ad esempio, un messaggio divino. _v'·:::'·i:.:·. .- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

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La voce del contemporaneo ~ Seguendo il suggerimento di Jean-Pierre Vernant,

prova a fissare lo «stato civile» della filosofia: chi sono i filosofi? Quando e dove nasce la filosofia? ~8 Come nasce la filosofia? Prova a ricostruire i fatto-

ri economici, culturali, politici e sociali che contribuirono a segnare, come scrive ancora Vernant, «il declino del pensiero mitico e il principio di un sapere razionale».

bìf'O'::~ Riassumi i paradossi sul movimento e sul molteplice di Zenone.

~ Metti a confronto le filosofie della natura di Anassagora e di Empedocle, spiegando su quali differenti principi dell'essere e del divenire si fondano. !Zff~ Perché le filosofie dei fisici pluralisti possono essere considerate delle risposte alla filosofia eleatica?

~ Illustra, proponendo alcuni esempi, la differenza tra proprietà oggettive e proprietà soggettive dei corpi secondo Democrito.

w14:a

Lo sguardo della tradizione

Raccogli nel capitolo tutte le informazioni che ritieni fondamentali per capire quali concezioni dell'anima siano state avanzate e discusse dalla tradizio-

~

ne presocratica.

Secondo la tradizione che risale ad Aristotele, all'inizio del filosofare sarebbe la «meraviglia»; chiarisci questa tesi illustrando il testo della Metafisica (p. 29).

~"" Spiega, con un componimento di 15 righe, cosa distingue, secondo Aristotele, l'indagine filosofica dal sapere pratico-empirico e quali rapporti la filosofia intreccia col mito.

lliiJEl

Servendoti del brano tratto dalla Metafisica di Aristotele (p. 34), iUustra il significato del termine arché applicandolo all'indagine dei Milesi.

~ L'acqua, l'aria o l'indeterminato: raccogli le argomentazioni che possono essere avanzate a favore e a sfavore di ciascuno dei principi individuati da Talete, da Anassimene e da Anassimandro.

~ Perché, secondo i pitagorici, i numeri sono il «principio»?_ Rispondi prima in 1O, poi in 5 righe.

~ Contrapponi schematicamente la concezione della natura proposta dai Milesi all'idea di cosmo difesa dai pitagorici (7 righe).

~ Quali significati assume la parola /6gos nella testimonianza di Sesto Empirico su Eraclito (p. 46)?

La parola ai filosofi ~ Dopo aver letto i testi del tema «La naturà e i suoi principi» (p. 74 sgg.), costruisci una tabella che associ a ogni filosofo (Talete, Anassimandro, Anassimene, i pitagorici) le tesi che lo caratterizzano. Specifica se il principio sia unico o se i principi siano molti; se il principio sia da considerarsi infinito, determinato, indeterminato, statico o dinamico. ~ Perché il principio deve essere infinito per Anassimandro? Rispondi a questa domanda illustrando le ragioni esposte da Aristotele nella Fisica in~ p. 76. ~ La concezione di una realtà dominata dai contrari

ricorre nelle filosofie dei presocratici: rintraccia tutti i testi che trattano di questo tema e fissa i termini per un possibile confronto tra gli autori. """41ill Le-ggi il brano l[iilll p. 82 dal poema Sulla natura nel · tema «L'essere e il divenire» e indica le varie proprietà dell'essere, difendendole mediante la logica dimostrativa di Parmenide.

~ Quale ruolo svolge l'elemento del fuoco nel pen-

~ Metti a confronto i testi di Anassagora e Democri-

siero di Eraclito? Stabilisci un confronto con l'acqua di Talete e l'aria di Anassimene.

to, contenuti nel tema ~~L'immagine del mondo» (p. 87 sgg.), e individua quali tesi accomunano e quali dividono i due filosofi.

~ Componi un testo di 1O righe circa, che contrapponga la concezione di Parmenide al pensiero di Eraclito.

~ Quale giudizio formulano i presocràtici riguardo la conoscenza sensibile? t essa affidabile o inaffida-

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bile? Dopo aver letto il tema «La verità, l'opinione e la conoscenza umana» (p. 90 sgg.), elabora uno schema di sintesi. ~

Opinione contro verità. Raccogli tutte le caratteristiche che, secondo Parmenide, qualificano l'una e l'altra, leggendo i brani ~-!iiiDD dal poema Sulla natura nel tema «La verità, l'opinione e la conoscenza umana» (p. 92 sgg.).

~

Perché secondo Empedocle l'uomo conosce il simile attraverso il simile? Perché secondo Anassagora l'uomo conosce il simile col dissimile? Rispondi dopo aver letto i brani !iiiìfililHiiiJill del tema «La verità, l'opinione e la conoscenza umana» (p. 93 sgg.).

Prova a pensare da solo ~ Esponi le tue personali valutazioni in riferimento al-

le posizioni concettuali espresse dai filosofi trattati nel capitolo: .. Cos'è per te la meraviglia? Hai mai provato meraviglia? Quale evento, fenomeno continua a suscitare in te meraviglia? "' Compara la tua idea di natura con quella che émerge dalla riflessione dei presocratici. Cos'è per te la natura? Com'è cambiata l'idea di natura dai presocratici a oggi? " Vi sono delle affinità tra il pensiero dei presocratici e le conoscenze che abbiamo oggi del cosmo e della natura? A quale dei filosofi presocratici ti senti più vicino? " l presocratici ci invitano ancora oggi a ricercare la verità andando oltre le apparenze e le opinioni. Ma è mai possibile raggiungere la verità, liberarci dalle apparenze e dalla opinioni?

l'acqua, l'aria ... Un insigne filosofo contemporaneo, K.R. Popper, è invece dell'opinione opposta e sostiene che la filosofia, per non ridursi a un esercizio un po' sterile sulle parole, deve tornare ai presocratici: «Back to presocratics» aveva proposto in un suo libro Congetture e confutazioni. Tornare ai presocratici significa pensare in grande, proporsi grandi problemi, soprattutto cosmologici e, intorno alla conoscenza, fare scelte radicali, esposte alla critica proprio perché nette, non avere tanto riguardo per i maestri. Le tesi di Popper sono molto discutibili ed effettiva~ mente molto discusse, ma in questo momento non è necessario che tu sia del tutto consapevole di questi limiti. Prova a farti contagiare da Popper e descrivi come è cambiato il tuo modo di guardare ai filosofi presocratici dopo la lettura del libro. Chi di loro ci ha guadagnato, chi ha perso qualcosa del suo fascino? ~ Michael Clarke, 8 paradossi dalla A alla Z,

Milano, Raffaello Cortina Editore, 2007. La filosofia è appena nata nella Grecia del VI-V secolo a.C. che già il pensiero razionale si confronta con argomenti paradossali, apparentemente insolubili, dei veri e propri rompicapo. Ti sei appena imbattuto nei paradossi di Zenone sulla molteplicità, lo spazio e il tempo, che per molto tempo continueranno a tormentare filosofi, fisici e matematici e, nel corso dei tuoi studi fino all'età contemporanea, altri ne incontrerai. Scritto in modo chiaro, ma filosoficamente agguerrito, il testo di Clark è un completo repertorio di paradossi. Essi vengono elencati dalla A alla Z e questa disposizione alfabetica costituisce una sorta di ironico abbecedario di ciò che è assurdo o sembra tale. Clark spiega al lettore l'apologo di Achille e la tartaruga, quello della nave di Teseo, i corvi di Hempel, il dilemma del detenuto e altri intriganti rompicapo, che potranno stimolare anche chi si avvicini per la prima volta alla filosofia. ~ M. Michela Sassi, Gli inizi della filosofia in

~, Altri orizzonti ~ Karl R. Popper, Il mondo di Parmenide. Alla

scoperta della filosofia presoc:ratic:a, Milano, Piemme, 1988.

Ad una prima lettura i filosofi presocratici possono sembrare molto arcaici, comunque irrimediabilmente lontani e spesso un po' ingenui. A volte deludono un po':

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Grecia, Torino, Bollati Boringhieri, 2009.

Non l'origine, ma gli inizi: tanti, diversi, da ricostruire con discipline di vario genere (l'antropologia, la filosofia e la sua storia, la psicologia sociale, la filologia). Tali «inizi, sono collocati in Grecia, forse perché lì confluirono anche altre esperienze intellettuali e sapienziali, per esempio orientali. Il modello «dal mythos al l6gos, ne esce confermato o ridimensionato? La risposta non è scontata e tu puoi provare a darla. Il mito, di sicuro, non è la voce dell'irrazionale, ma è forse il motore della filosofia nascente.

Verso un pensiero creativo Fm'f:m l presocratici si interrogavano su come uno o alcuni elementi semplici potessero essere all'origine di tutte le

cose. Le idee e i dibattiti si sono susseguiti fino ad oggi. È il problema della «morfogenesi», della comparsa di forme complesse e organismi organizzati a partire dalla composizione di elementi apparentemente molto più «semplici». Ti sei mai chiesto come sia possibile che da un seme possano scaturire le forme complesse ed estremamente diversificate dei fiori e delle piante? Quali processi fanno sl che da un seme o dall'incontro di due semi, nel contesto appropriato, si sviluppino le «forme» più complesse?

~ Che nesso c'è tra caos e ordine? È possibilè osservare un ordine che «emerge» dal disordine o dal caos sen-

za l'intervento di alcuna «intelligenza» ordinatrice? Esistono fenomeni di auto-organizzazione della materia in forme ordinate? Per idee, spunti e curiosità sulle domande precedenti, vedi il

~1 Seminario «Natura».

BffiUOGRAFIA Opet·e da cui sono tratti i testi

Testimonianze e frammenti sui presocratici sono raccolti in: I presocratici: prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di G. Reale, Milano, Bompiani, 2006. I Presocratici: testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari, Laterza, 1981. Aristotele, Del cielo, trad. di A. Russo e O. Longo, Roma-Bari, Laterza, 2005. - Dell'anima, trad. di A. Russo e R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 2004. -Fisica, trad. di A. Russo e O. Longo, Roma-Bari, Laterza, 2004. -Della generazione e corruzione, trad.

di A. Russo e R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 2004. - Metafisica, in Opere, trad. di A. Russo, vol. VI, Roma-Bari, Laterza, 1984. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, in I Presocratici: testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari, Laterza, 2004. Heidegger, M. Il detto di Anassimandro (1950),. in Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1997. Nietzsche, F. La filosofia nell'età tragica dei greci, Roma, Newton Compton, 1991. Platone, Crati/o, a cura di F. Aronadio, Torino, Utet, 1981. -Pedone, a cura di G. Cambiano, Torino, Utet, 1970. - Timeo, a cura di F. Adorno, Torino, Utet, 1988.

Testi citati o consigliati

Berti, E. In principio era la meraviglia, Roma-Bari, Laterza, 2007. Colli, G. La sapienza greca, Milano, Adelphi, 1978. Jaeger, W. Paideia, Milano, Bompiani, 2003. Koiré, A. Dal mondo del pressappoco all'universo della precisione, Torino, Einaudi, 1967. Laurenti, R. Introduzione a Talete, Anassimandro, Anassimene, RomaBari, Laterza, 2003. Russell, B. I principi della matematica, Roma, Newton Compton, 1971. Vernant, ].-P. Le origini del pensiero greco (1962), Milano, SE, 2007.

La filosofia nella p6lis:

i sofisti e Socrate

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene (part.), 1509-1511 ca., Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura. Nel particolare è rappresentato: 1. Socrate. 2. Antistene (forse).

MAR TIRRENO

MAR IONIO

.lVfAR MEDITERRANEO

Atene: la p6lis della f"tlosofia ~ìT

l linguaggio delle precedenti discussioni dialettiche era rimasto sino allora qualcosa Ji di privato, di limitato ad un ambiente scelto. { . .}Con l'accentrarsi della cultura in Atene, che interviene a pm1ire dalla metà del V secolo, ·si manifesta in Grecia la tendenza fatale a r01npere l'isolamento del linguaggio dialettico. Nella co11fluenza ateniese l'atmosfera raffinata e riservata dei dialoghi eleatici viene sostituita dal quadro di scontri dialettici più chiassosi e più frequenti. Nel confronto con le forme espressive dell'm1e e con i prodotti della ragione connessi alla ifera politica, il linguaggio dialettico entra nell'ambito pubblico. //

G. Colli, La nascita della filosofia, p. 100

Il p&•imato di Atene nel V ~ecoltJ • Il brano del filosofo italiano Giorgio Colli (1917-1979), che fu interprete originale e profondo della nascita della filosofia antica, invita a spostare l'attenzione dalle prime esperienze filosofiche fiorite nelle colonie greche, circoscritte in un ambiente sociale ancora riservato, al grande exploit della filosofia che si verificò ad Atene nel corso del V sec9lo a.C. Qui infatti l'arte della discussione, la dialettica, cominciò ad essere praticata anche al di fuori delle scuole, nelle pubbliche assemblee e nei tribunali, ovunque ci fosse la necessità di discutere e di far prevalere il proprio punto di vista. Con le tre grandi vittorie di Maratona (490 a.C.), Salamina (480 a.C.) e Platea (479 a.C.), Atene erariuscita a sconfiggere i Persiani e ad estendere la propria egemonia nel bacino orientale del Mediterraneo, dando così inizio a un periodo di grande prosperità economica e culturale. Sin dalla fine del VI secolo a.C., le s;olonie della Ionia e della Magna Grecia avevano invece conosciuto l'inizio del loro declino, anche per il peso di vicende politiche a loro sfavorevoli che, anziché rafforzarle, le avevano indebolite. Mileto, la città di Talete, Anassimandro e Anassimene, la culla della filosofia greca, fu rasa al suolo dai Persiani nel 494 a.C.

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Nel corso del V secolo a.C. è quindi Atene a imporsi come polo di riferimento per molti filosofi, letterati, artisti, provenienti anche dalle colonie e dalle periferie più lontane del mondo greco, per i quali essa rappresenterà «l'Ellade dell'Ellade", il luogo privilegiato del mondo greco, della sua cultura, della sua politica. Qui le arti e il pensiero troveranno le condizioni ideali per il loro sviluppo, favoriti da mutamenti politici e sociali di grande portata, sorretti dà una considerevole prosperità: economica. L'antico sistema dei «demi", sorto alla fine del VI secolo a.C. con Clistene (565-492 a.C.) e riformato da Efialte (morto nel 461 a.C.) e da Feride (495-429 a.C.), era riuscito infatti col tempo a dare vita a una nuova forma di convivenza democratica, facendosi interprete delle richieste di radicale trasformazione del sistema socio-politico, provenienti dai ceti sociali emergenti. Accòmpagnato dal processo di democratizzazione delle istituzioni politiche, il V secolo a.C. è stato per la p6lis di Atene un periodo straordinario di intensa fioritura delle arti e del pensiero: le Grandi Dionisie, istituite già da Pisistrato (VI sec. a.C.), vedono in questo secolo succedersi le rappresentazioni delle tragedie di Eschilo (525-456 a.C.), di Sofocle (496-406 a.C.), di Euripide (484-406 a.C. ca.). Enorme consenso di pubblico ottiene anche la commedia, con Aristofane C444-385 a.C.), il suo più noto rappresentante. La vocazione culturale di Atene è raccolta e promossa soprattutto da Feride, tra il 461 e il 429 a.C., anni in cui egli è alla guida della democrazia ateniese. Fidia (490-431 a.C.), letino (seconda metà del V sec. a.C.) e Anassagora (496-428 a.C. ca.), nei campi rispettivamente della scultura, dell'architettura, della filosofia, trovano proprio in Pericle il loro protettore e mecenate ed è in questa cerchia che il drammaturgo Euripide e probabilmente anche Socrate ricevono la loro formazione culturale. Pure lo storico delle guerre persiane, Erodoto (484-426 a.C. ca.), nativo dell'Asia Minore, giunge in questo periodo ad Atene e vi si trasferisce. Sono questi, quindi, gli anni di massimo splendore della città, il cui simbolo più noto è il Partenone, la cui costruzione inizia nel 468 a.C., impegnando gli architetti Callicrate e letino e lo scultore Fidia, in qualità di sovrintendente.

La filosofia vanto di Atene • Durante questo fecondo periodo, i gruppi sociali vicini alla politica di Feride e più aperti all'innovazione e al confronto intellettuale fanno soprattutto della filosofia il vanto e

il simbolo della preminenza culturale di Atene. Come ha osservato il filosofo e scrittore francese Pierre Hadot (1922-2010):

Gli Ateniesi del V secolo erano fieri dell'attività intellettuale, dell'inte1'esse per la scienza e la cultura che fiorivano nella loro città. Nell'orazione funebre che Tucidide gli fa pronunciare in mentoria dei soldati caduti nella guerra del Peloponneso, Pericle [. . .} usa le seguenti parole per elogiare il modo di vivere che si pratica ad Atene: "Noi coltiviamo il gusto della bellezza con smnplicità e filosofiamo senza mancare di fermezza".[. . .} Questa attività comprende tutto ciò che è inerente alla cultura intellettuale e generale: speculazione dei presocratici, scienze emergenti, teoria della · lingua, tecniche retoriche, aJ1e del persuadere. A volte[. . .} si riferisce più precisamente all'a11e dell'argomentare. R Hadot, Cbe cos'è la filosofia antica?, p. 19-20

A chiudere questa splendida stagione culturale vi furono due eventi, tra loro contigui cronologicamente ed emblematici della fine di un'epoca: la perdita del primato politico e militare di Atene sul mondo greco, a seguito della guerra del Peloponneso e della vittoria di Sparta (404 a.C.) con l'instaurazione del governo filo-spartano dei Trenta Tiranni C404403 a.C.) e la morte di Socrate all'inizio del secolo successivo, a sancire, in un clima politico ancora convulso e difficile per Atene, la fine di un progetto umano e filosofico maturato in un contesto il cui orizzonte culturale era ormai concluso.

Testa di Pericle, copia romana del I sec. d.C. di un originale greco del V sec. a.C., attribuito a Cresilas, Berlino, Altes Museum.

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Una rivoluzione itlosofica 1filosofi ad Atene • Nel462 a.C., Anassagora giunge ad Atene da Clazomene nella Ionia. importando nella p6lis l'interesse per l'indagine sui principi e sui fenomeni della natura, proseguita poi da Archelao e Diogene di Apollonia. Secondo la testimonianza di Platone, intorno al 450 a.C., anche Pannenide e Zenone, provenienti da Elea nella Magna Grecia, avrebbero fatto soggiorno ad Atene, così come si narra che qui avrebbe vissuto, tenendo per breve tempo anche delle lezioni, Democrito di Abdera, uno dei fondatori con Leucippo dell'atomismo. Ma soprattutto nel corso della seconda metà del V secolo a.C., Atene diviene il crocevia di un vasto movimento di rinnovamento culturale, del quale sono promotori i sofisti (da sopbistés, ossia «Colui che sa", «sapiente", o anche «esperto•) col loro insegnamento a saper ben parlare e argomentare su tutto, rivolto a qualsiasi cittadino, dietro compenso. È Feride a costituirè in prima persona il polo di riferimento politico e intellettuale di questa convergenza, favorendo anche il mecenatismo privato delle ricche famiglie ateniesi. A contatto con le istituzioni democratiche e il clima culturale dell'Atene della seconda metà del V secolo a.C., anche la filosofia, per come fino ad allora era stata praticata, va incontro a cambiamenti e trasformazioni profonde: da riflessione privata, o riservata a un ambiente scelto, diventa pensiero pub- · blico, rivolto a tutti gli uomini liberi; da riflessione sull'essere e sulla natura diventa sempre più pensiero sull'uomo e sulla società; da esercizio del sapere diventa progetto formativo ed educativo complessivo dell'uomo, del cittadino. . Trasformazioni della pratica filosofica • Il sapere non rimane più confinato in una riflessione individuale sull'essere, come per gli Eleati, o sulla natura, come per i fisici della Ionia. Nella p6lis, la filosofia diviene una forma di vita e di socialità che permea l'agire politico e culturale quotidiano, intrecciandosi con le forme espressive dell'arte e della cultura: opinioni si confrontano così con altre opinioni, idee con altre idee, campi del sapere con altri campi del sapere. In questo contesto politico, democratico e socialmente dinamico, l'attività del conoscere si fa tutt'uno con l'arte dialettica, ossia con la capacità eli argomentare e di difendere le proprie tesi. Saper confutare, ridurre all'assurdo, a contraddizione le tesi altrui, di cui era stato maestro l'eleate Zenone, di-

venta uno strumento indispensabile da saper utilizzare nei contesti più disparati e negli ambiti più vari del discorso. Accanto alla dialettica, anche l'arte retorica si impone sempre più come tecnica al fine di esporre le proprie opinioni pubblicamente anche in maniera convincente e persuasiva. Dal complesso di tutti questi stimoli, il pensiero filosofico conòsce non solo uno sviluppo ma anche una nuova articolazione: accanto al naturalismo di Anassagora, di Archelao e di Diogene di Apollonia, si affermano campi di indagine che investono più da vicino l'etica, i costumi, la religione; tematiche, queste ultime, che erano di vitale interesse nella vita politica della p6lis. La riflessione filosofica arriva così a segnare anche una vera e propria svolta, rivoluzionaria sia nel metodo che nei contenuti. Se le ipotesi dei filosofi precedenti sembravano nascere dall'interesse per la natura Cpbysis), adesso, nella p6lis, all'interesse per come le cose sono in sé, subentra soprattutto l'interesse per come le cose sono per l'uomo.

I protagonisti della svolta antropologica La filosofia come sapere critico • Autori di questa rivoluzione, comunemente definita «antropologica, (da àntbropos, «Uomo») per aver introdotto la riflessione nell'ambito dei rapporti umani, nella sfera morale e quella politica, interrogandosi su che cosa sia bene e male, giusto e ingiusto, furono i primi sofisti e Socrate. Dell'importanza e del significato che il pensiero filosofico conobbe in questo periodo sono testimonianza tanti Dialoghi di Platone, discepolo di Soct·ate, alcuni dei quali tra l'altro intitolati ai principali esponenti della sofistica e tutti incentrati sul suo maestro, e sul suo insegnamento. Per quanto divergenti e in opposizione nel metodo e nei contenuti, le riflessioni dei primi sofisti e di Socrate maturarono entro un comune sistema di riferimento culturale, facendo del confronto tt·a idee la modalità stessa del filosofare. È grazie alla loro opera che la filosofia acquista la dimensione di sapere critico, ossia di stt·umento di riflessione sui fondamenti e sui limiti del sapere, teso, come dirà poi Platone, a «purificare l'animo umano, dai pregiudizi. Oggetto di analisi critica sono le ipotesi dei filosofi precedenti e dei naturalisti contemporanei, o 103

meglio le loro pretese di risalire ai principi dell'essere e di parlare di essi con verità. Al riguardo, il sofista Protagora dichiarerà impossibile pet l'uomo cogliere la verità e andare al di là dell'opinione; l'altro grande sofista, Gorgia, troverà persino argomenti per sostenere l'impossibilità umana di conoscere ciò che è e di paterne parlare. Socrate distruggerà tutte le umane presunzioni, sostenendo che nessuna verità può essere mai trovata al di fuori del dialogo e del confronto continuo con l'altro. Nella p6lis, la riflessione f'tlosofica investe i saperi, le credenze e i costumi consolidati, richiedendone un fondamento razionale, che abbia cioè nella stessa e sola ragione dell'uomo la sua validità e che non trovi giustificazione solamente in base alla consuetudine e all'autorità di una tradizione. È questa ricerca il segno culturale forte di una volontà che liberi l'uomo da quelle credenze o convenzioni che lo rendono schiavo e non autonomo nella scelta tra opinioni concorrenti e azioni differenti. Il compito della filosofia è di individuare le possibili fonti di pregiudizio o anche di ricostruire la genesi di interi sistemi di credenza, al fine di rivelare ia loro vera natura. Protagora dichiarerà inconoscibili gli dei, intaccando così il fondamento del culto e della venerazione popolare; sofisti successivi apparte. nenti a una seconda generazione come Crizia, il potente uomo politico membro del regime oligarchico dei Trenta Tiranni (404-403 a.C.), riterranno la religione un'invenzione politica e sociale tesa a ottenere l'obbedienza del popolo, con il timore o la speranza di punizioni e di ricompense divine. Anche le leggi, le norme che regolano il comportamento dei cittadini nella p6lis, sono messe in discussione: Socrate ne riconoscerà la validità nei limiti della condivisione di valori e di credenze su cui si crea una comunità di uomini; Protagora le riterrà fondate esclusivamente sulla base della loro effettiva utilità per la maggioranza dei cittadini e non su un criterio assoluto, divino o eterno di giustizia; altri sofisti della seconda generazione le vedranno come un

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limite, una costrizione artificiale alla natura propria dell'uomo, persino come un espediente usato dal più forte o dai più forti per soggiogare al proprio volere gli altri uomini. Un sapere st~spetto •. In qualità di sapere critico, la filosofia assume di volta in volta finalità diverse, anche a seconda dei vari contesti entro cui è elaborata: all'innovazione culturale apportata dalle tesi dei primi ~ofisti, Protagora e Gorgia, segue, come ancora nel caso di Crizia, l'uso spregiudicato della medesima ragione critica al fine di giustificare il regime antidemocratico e oligarchico dei Trenta Tiranni, da lui fondato. Nel caso di SoCl·ate, invece, la sua opera sarà interpretata dai suoi discepoli come un tentativo di apportare una profonda riforma morale in Atene, rivolta contro la presunzione e i pregiudizi dei suoi concittadini, attraverso il costante richiamo ailla ricerca interiore del bene e del vero. Benché cette tesi e determinati atteggiamenti abbiano trovato nel clima politico e culturale di Atene la possibilità di essere elaborati ed espressi, tanto da essere esibiti da Feride e da certi gruppi sociali e politici come un vanto della città, l'opera di innovazione e la radicalità di certe posizioni furono guardate con sospetto e avversate dai circoli più consetvatori della società ateniese, perché ritenute profondamente sovversive, immorali nelle conseguenze e in grado eli corrompere la gioventù. Nelle alterne vicende politiche di governo della vita democratica e poi nei convulsi am1i che seguirono la fine della guerra del Peloponneso, la riflessione filosofica nella p6lis di Atene andrà incontro anche a pubbliche condam1e: il naturalista Anassagora sarà accusato di empietà e soltanto l'intercessione di Pericle riuscirà a salvargli la vita; analoghe accuse saranno poi rivolte contro Protagora, che sarà costretto a lasciare la città; infine il tribunale di Atene metterà sotto accusa anche Socrate, che non si sottrarrà alla condanna a morte del tribunale della sua città.

I sofisti

1 .

Immagini del sofista In primo luogo, il sofista è risultato un cacciatore pagato di uomini giovani e ricchi [. . .}, jn secondo luogo, una sorta di commerciante delle nozioni riguardanti l'anima[. . .}, in terzo luogo, poi, non è apparso un bottegaio che smercia questi beni?[. . .} E in quarto luogo, uno che ci vende le nozioni prodotte in proprio [. .. }, in quinto luogo, poi, era una sorta di atleta impegnato nella tecnica agonistica relativa ai discorsi[. . .J; la sesta caratterizzazione, per la verità, era controversa; tuttavia, abbiamo convenuto che è una sorta di purificatore dell'anima dalle opinioni che ostacolano il sapere. Platone, Sofista, 231d-e

Il ritratto del sofista qui proposto da Platone, allievo eli Socrate, ha contribuito a connotare nel tempo negativamente il termine, tanto che ancora oggi possiede nell'uso comune il significato eli «mistificatore", «ingannatore,, accanto a quello più neutro di "ra~ gionatore sottile e cavilloso». In origine, il termine «sofista, indicava in maniera generica "chi sa ed è capace di comunicare il proprio sapere", tanto che si trova riferito anche a molti degli antichi saggi, a poeti come Esiodo e Omero, a musici, rapsodi, profeti e ai Sette Sapienti. Platone, tuttavia, parlando dei sofisti, si riferisce a una particolare figura di sapiente che era ormai divenuta familiare nella società greca dopo la seconda metà del V secolo a.C. e che era stata protagonista di un vasto movimento eli rinnovamento intellettuale. l.a vendita delsapel'll Le parole di condanna di Platone si rivolgono anzitutto contro la riduzione del sapere a met·ce operata dai sofisti, giacché essi, per i loro insegnamenti, richiedevano un compenso. La conoscenza smetteva così di essere il segno distintivo eli un merito intellettuale, per divenire un bene a uso e consumo di quanti se lo potevano permettere per disponibilità finanziarie. Ma Platone, presentando i sofisti come «Commercianti,, o >

Il demone sc:u::ratico • Non agisce bene dunque chi è ignorante di sé; chi ignora sé come fonte primaria eli ogni verità, eli ogni criterio di bontà o malvagità. «Conosci te stesso, era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi; conosci te stesso (gnothi seaut6n) è il principio che Socmte pone a fondamento dell'autentica vita morale. L'insegnamento di Socrate tramandatosi in tutta la filosofia occidentale, fino ai nostri giorni, è proprio quest'invito all'uomo ad ascoltarsi, a saper dialogare con sé e con gli altri per cogliere ciò che è vero o falso, bene o male. Nelle testimonianze di Platone e Senofonte, Socrate soleva parlare del proprio sé come di un qualcosa di divino e demoniaco (iftf:lfu§ifi), come di una voce interiore. in grado di parlare, di ammonire:

In me c 'è qualcosa di divino e di demoniaco [ . .} questo, che è in me fin da bambino, è come una voce che quando si fa sentire, mi distoglie sempre da ciò che sto per fare. Platone, Apologia di Socrate, 31cl

È un sé interiore, quello a cui fa riferimento continuo Socrate, invitando anche gli

altri all'ascolto di se stessi. Di fronte alla saldezza delle norme sociali trasmesse dalla tradizione, questa voce interiore può apparire instabile, sfuggente, e tuttavia è più autentica, in quanto rispondente a quella naturale propensione umana al proprio bene. Il richiamo ad aver cura del proprio sé si identifica, in SoCl·ate, con il richiamo acl aver cura della propria anima, di quella parte di noi che è sede della personalità morale, che è principio delle nostre conoscenze e delle nostre scelte e dunque di ogni valore. Nient'altro che l'ignoranza poteva portare i suoi concittadini a dedicare tempo ed energie soltanto all'accumulo dei beni esteriori, come le ricchezze o la considerazione da parte degli altri, ottenuta attraverso il successo nella vita pubblica o nella carriera artistica o f)1ilitare. Il rimprovero costante eli Socrate ai suoi contemporanei è di

prendersi cura delle ricchezze per accumularne il massimo, della reputazione e degli onori e di non curarsi e preoccuparsi della intelligenza, della verità e dell'anima perché diventi la migliore possibile. Platone, Apologia di Socrate, 29e

La religiosità inte1·iore di Som·ate

L'ignoranza, per Socrate, consiste proprio nel non comprendere quali sono i veri beni eli cui bisogna prendersi cura, nel dare cioè più valore alle cose esteriori che alla propria interiorità, nel sottovalutare l'importanza, anche per la propria realizzazione personale, della riflessione critica (l'esame delle proprie idee) e dell'auto-perfezionamento morale. Nient'altro che prevenuta malafede poteva portare i suoi accusatori a scambiare il richiamo del demone, di questa voce interiore, che è in ogni uomo, con l'introduzione di nuovi dei o con una dottrina empia nei riguardi delle divinità tradizionali riconosciute dalla città. Come asservito alla verità, così Socrate si mostra fedele all'oracolo del dio Apollo che lo aveva indicato come l'uomo più sapiente, invitando i suoi interlocutori, i suoi discepoli a superare una concezione puramente convenzionale della divinità, in nome di un dio più intimo all'uomo, eli cui l'uomo avrebbe esperienza nella parte più autentica di sé.

Ddimon: termine greco che significa "demone«. Nella religione antica, prima del cristianesimo, i demo-

ni non erano creature infernali, ma esseri semi-divini, il cui compito era eli mettere in relazione gli dei con gli uomini. :,..------------------------------------------------

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Rispettando sé, ascoltando la voce che parla in sé, muovendosi nell'orizzonte della propria interiorità, l'uomo gestisce il proprio destino fuori da costrizioni esterne; l'uomo realizza sé. Prendet·si cura della propda anima significa dunque aver anzitutto dspetto del proprio io interiore, della pade più autentica di sé: questo è, come ribadisce Soct·ate dinanzi ai suoi accusatori, il messaggio insistente della sua missione, che tanta inimicizia aveva finito per attirarsi contro, in tutte le classi sociali della città:

Mi sono recato dove in privato avrei procurato il massimo beneficio a ciascuno [. . .] cercando di persuadere ognuno di voi a non curarsi delle proprie cose prima che di se stesso, in modo da diventare migliore e più saggio possibile. Platone, Apologia di Socrate, 36c

La filosofia di Socrate: l'insegnamento

!

per

.

CUI

Consapevolezza dei limiti

~ del conoscere umano:

.so d; non sape•e>

il fine unico del vivere umano è la ricerca interiore della verità: «conosci te stesso» l

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la filosofia (confilosofare) diventa una missione di vita

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il vero sapere è unito al bene operare J d'1 qu1n

. , , sapere~ V parciò 'd . , d'1conoscenza e sce lta mora le_ 1 ent1ta

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5.

La rice•·ca

di un o•·immte comune di lll!l'ità

Il metodo socratico Il dial~go • Il richiamo al «conosci te stesso,, all'io interiore, all'aver cura della propria anima non si risolve in un'indagine solitaria, in una filosofia intimistica, ma coinvolge l'altro in un dialogo incessante, nella convinzione che la ricerca della verità debba es~ sere condotta insieme. La t·ealizzazione di sé, di ciò che è bene per sé, si ha infatti propdamente nella vita sociale, svolgendo al meglio, con umiltà, secondo capacità e competenze, il proprio lavoro. Per questo il campo di realizzazione del bene, secondo Socrate, uomo della p6lis, interlocutore di fabbri, calzolai, conciatori, oltre che di uomini politici, non può che essere la comunità sociale, la città, lo Stato. Solo il dialogo, il confronto con l'altro può anzitutto abbattere pregiudizi soggettivi, vanità e presunzioni personali. Se non è alla portata dell'uomo una verità immutabile e assoluta, ciò non significa che essa non debba essere di volta in volta cercata dentro se stessi. E questa ricerca è possibile solo attraverso un dialogo che trovi, nel confronto con l'altro, premèsse comuni, punti di vista condivisi, criteri oggettivi in grado di superare la prova dell'esame razionale. Socrate non rinuncia pertanto a scommettere sulla ragione umana per quanto sia immancabilmente limitata e finita, anzi ne

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La

ricl!i'Ci.l

dell'universale

allarga il dominio alla sfera della moralità, dei compiti quotidiani che ciascuno deve svolgere nella p6lis, facendone il principio che regola qualsiasi azione. Alle opinioni particolari, provvisorie e eli comodo dei suoi interlocutori, Soct·ate propone la ricerca di ciò che dovrebbe avere valore universale, subissando l'interlocutore con la continua richiesta di definire le parole utilizzate. e di mettere continuamente alla prova le proprie personali intuizioni morali. Per questo, alla retorica e ai lunghi discorsi (mact·ologia) eli molti sofisti, Socrate preferiva il discorso breve (bt·achilogia), l'interrogat:e incalzante. Il termine di ogni ricerca è sempre la detet·minazione di un pensiet·o condiviso, da valutare eli volta in volta insieme, come un'ipotesi provvisoria da verificare con strumenti razionali in tutte le sue conseguenze. Per questo Aristotele considera Socrate il primo ad aver posto l'esigenza di indagare il concetto, ciò che è universale, a partire dalle opinioni su ciò che è bene e ciò che è male:

Socrate [. . .}si diede a studiare con impegno il mondo dell'etica e a cercare, comunque, in questo l'universale e a fermare per primo la sua attenzione sulle definizioni. [.. .} Socrate poi si impegnò a studiare le virtù etiche e cercò per primo di darne la definizione in senso universale[. . .} con criteri logici cercava l'essenza. Aristotele, Metafisica, I, 987bl-4; XIII, 1078b22-25

L'insegnamento socratico è tutto in quest'arte del dialogo. Ed è una ricerca, quella socratica, che nella sua forma morale investe anche quella teoretica conoscitiva, in quanto l'uomo che conosce se stesso sa eli non poter sapere nulla eli quanto è fuori della sua esperienza. E sa eli non poter superare i limiti della natura umana.

l'ironia e la maieutica • Affinché sia possibile un dialogo autentico occorre che gli

l'ironia e 111 tecnica della confutazione

interlocutori abbandonino inizialmente i loro pregiudizi, le loro presunzioni disapere: solo a queste condizioni la verità può imporsi nel ragionamento come un orizzonte comune di ricerca. Nel primo momento, è l'ironia ad assurgere a strumento eli ricerca privilegiato da Soct·ate, idoneo a mettere a nudo la presunzione di sapere del suo interlocutore; nel secondo è la .illaieutica], allorché senza sostituire pregiudizi con pregiudizi, Socrate lascia "Pattorire, direttamente al suo interlocutore la verità interiore che cela nel suo intimo al di là delle iniziali convinzioni e opinioni stereotipate. Ironico è lo stile con cui Socrate, filosofo girovago, plebeo nel portamento e malmesso negli abiti, si accosta con linguaggio umile e pieno di ammirazione a coloro che si ritengono maestri eli verità, politici, sofisti, poeti, semplici cittadini per ridurli, domanda dopo domanda, al silenzio e all'imbarazzo. Così si esprime Menone, nell'omonimo dialogo platonico, dopo un incalzante domandare di Socrate su che cosa sia la virtù e dopo la puntuale confutazione di tutte le sue dsposte:

Prima di incontrarti, Socrate, avevo sentito dire che nonfai.altro che cacciare te stesso e gli altri nelle difficoltà. Anche adesso, mi pare, tu mi streghi, mi affascini, mi incanti in modo tale che sono pieno di perplessità. E mi pare, se è consentito scherzare un po', che tu sia completamente simile nel! 'aspetto e nel resto alla piatta torpedine marina. Essa fa intorpidire chi le si accosta e la tocca; e mi sembra che

IW 132

Maieutica: dal greco maieutiké téchne, "arte della levatrice", da mafa, che indica oltre a "madre, nutrice, anche «levatrice, ostetrica". Nel suo uso esclusivamente filosofico indica un aspetto particolare del metodo dialogico socratico che aiuta gli altri a "partorire, la verità.

2. Socrate e le scuole socratichè

anche tu ora abbia prodotto su di me lo stesso effetto. Sono veramente intorpidito nell'anima e nella bocca e non so più cosa risponderti. Platone, Menone, 80a

La mail!utica: "lllll'torire il !lilpere••

L'ironia socratica non è tracotanza ammantata di umiltà, ma un modo di guardare gli uomini e la vita con distacco in modo da coglierne, quasi per un effetto di controluce, le malformazioni, le menzogne e le meschinità. È un modo di ricercare un punto di contatto tra due modi diversi di vedere, di intendere la realtà, tramite nna rottura, che diventa così, anche se non sempre, un punto di partenza per una ricerca condivisa della verità. Quello dell'ironia è il momento in cui l'interlocutore si trova come sedotto dalla «musica, dell'incantatore Socrate, che intorpidisce l'animo, riducenclolo al silenzio. Il silenzio che colpisce l'interlocutore è il momento culminante in cui quest'ultimo, liberato dalla sua falsa verità, può «partorire, la verità di cui era gravido. A questo punto, come sua madre, Soct·ate aiuta il suo intedocutot·e a partodt·e da se stesso il sapere. Non pt·opone cioè una vedtà data, da sostituire a quella del suo interlocutore, giacché egli non pretende di conoscere alcunché:

Hai le doglie, caro Teeteto, dato che non sei vuoto, ma gravido { . .}Non hai ancora sentito dire che io sono figlio di una levatrice assai eccellente e rigorosa? { . .}Anch'io ho questo in comune con le levatrici: sono sterile di sapienza e il rimprovero che già molti mi hanno mosso, di interrogare gli altri, ma di non man{festare personalmente nulla su nessun argomento, per il fatto di non essere in possesso di nessun sapere, è un rimprovero vero. E la causa è questa: il dio mi costringe a far da levatrice ma mi è vietato di generare. Platone, Teeteto, 148e-150cl

È questo appunto il momento maieutico della ricerca del vero a cui è dedicata tutta l'attività intellettuale eli Socrate. Prima del «parto, uno credeva di sapere che cos'è «il bello,, che cos'è «il giusto,, in quanto era magari in grado eli fare un elenco di cose belle, di cose giuste; dopo il «parto,, l'interlocutore sa perché le cose belle sono belle e le cose giuste sono giuste. Lo sa in quanto è stato capace di scavare dentro di sé, di mettere in discussione quelle credenze e opinioni accettate passivamente, facendo germogliare il seme della verità, in modo da avere l'impressione di aver sempre possedu" to dentro eli sé le nozioni di bellezza e di giustizia, sebbene non riuscisse a definirle e a renderle perfettamente trasparenti a sé e all'altro. l~ ric~rca d~el «122-41. In questa testimonianza, la religiosità di Socrate assume così un fondamento naturale, andando a sviluppare alcune posizioni di Anassagora, in particolare la dottrina di una Mente ordinatrice.

~ ~

l'intelligenza diuina è dappe1•tntto

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«Credi tu di avere in te alcunché d'intelligente, e pensi che in nessun'altra parte ci sia intelligenza? Eppure sai che tu nel tuo corpo hai una piccola parte della gran quantità della terra che esiste, e una piccola parte dell'umido, che esiste pure in grande quantità, e degli altri elementi, che, certamente copiosi, solo in piccola parte entrano nella composizione del tuo corpo. Or-

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La III'Ouuidenza

ha !li&(IOsto tutte le cose in vista di 1111 fine

bene, l'intelligenza come puoi credere di essertela fortunatamente presa per te solo, sicché non se ne trovi in nessun'altra parte, e che queste moli immense e questa moltitudine infinita di cose siano così bene ordinate da una potenza irragionevole?, «Sì, per Zeus, poiché io non ne vedo le potenze dominatrici, come vedo gli artefici delle cose che si fanno qui., «Ma tu non vedi neppure la tua anima, la quale tuttavia è signora del tuo corpo, sicché secondo questo tuo discorso potresti dire che non fai nulla con senno, ma tutto a caso, [. . .] «O buon Aristodemo", disse, «considera che la tua mente, stando nel tuo corpo, lo dirige come vuole. Bisogna dunque credere che anche l'intelligenza che ~ nel tutto disponga ogni cosa a suo piacimento, e non già che il tuo occhio possa giungere alla distanza di molti stadi, e l'occhio di Dio non sia capace di vedere ogni cosa insieme, né che la tua anima possa pensare a queste cose nostre e a quelle d'Egitto e di Sicilia, e che la sapienza di Dio non sia capace di prendersi cura di tutte le cose insieme [... ] Dio è tanto grande e potente da poter vedere tutto insieme e udire tutto, ed essere presente dappertutto e prendersi cura di tutte le cose insieme,, «Orbene, non ti sembra che colui il quale da principio ha fatto gli uomini, abbia dato ad essi gli organi dei sensi per la loro utilità, gli occhi per vedere le cose visibili, gli orecchi per udire le udibili? Quanto agli odori, se noi non fossimo stati dotati delle narici, che utilità ne avremmo? E quale sensazione si avrebbe delle cose dolci e delle acri e di tutte quelle piacevoli alla bocca, se in questa non fosse stata formata la lingua, che percepisce tali cose? Inoltre non ti pare opera della provvidenza questo: che la vista, essendo delicata, sia stata munita di palpebre come di porte, le quali, quando c'è bisogno di servirsi della vista stessa, si aprono, e invece nel sonno si chiudono? E affinché i venti non potessero recarle danno, siano state inserite nelle palpebre le ciglia a modo di colatoio, e le parti al di sopra degli occhi siano state munite di sopracciglia come di grondai, acciocché neppure il sudore che viene dalla testa le recasse danno? E il fatto poi che l'orecchio riceve tutti i suoni senza mai trovarsene ingombro, e che i denti davanti in tutti gli animali sono atti ad incidere, e i molari sono atti come a macinare ciò che hanno ricevuto da quelli, e che la bocca, per la quale gli esseri viventi inghiottono ciò che desiderano, è stata posta vicino agli occhi e alle narici [. . .] queste cose fatte così provvidamente dubiti tu se siano opera del caso o di un'intelligenza?, «No, per Zeus, ma esse, a considerarle per questo rispetto, mi sembrano senza alcun dubbio opera di un artefice sapiente e amorevole degli esseri viventi.,

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Senofonte, Detti memorabili di Socrate, p. 73

Il brano~ contiene una selezione di passi dall'Apologia di Socrate di Platone. Sono le parole con cui Socrate si difende dall'accusa di empietà, rivolgendosi direttamente a Meleto, uno dei suoi accusatori, e ai giudici, riferendo interamente il senso della sua attività filosofica a una missione dettatagli dall'oracolo di Delfi, consacrata al culto del dio Apollo P>l1-41. Socrate racconta che provò a scoprire il significato dell'oracolo che lo indicava come l'uomo più sapiente: si recò da tutti coloro che erano stimati sapienti, verificando di persona come la loro sapienza fosse frutto soltanto di presunzione. Andò dai politici e dai poeti, accorgendosi che sovente i più sapienti e i più intelligenti erano i cittadini più umili, meno considerati ~142-64. Analogalmente Socrate si recò dagli artigiani e anche in questo caso si accorse che possedevano delle conoscenze utili alloro mestiere, ma non si acconten-

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tavano e pretendevano di parlare di tutto e di essere anche loro sapientissimi. Socrate ricorda così di come prese sempre più atto della sua sapienza: la consapevolezza dei limiti del suo sapere. Al tempo stesso Socrate mostra di possedere una profonda religiosità indicando se stesso come non sapiente, poiché sapienti sono soltanto gli dei, e per questo superiore a coloro che, pur non sapendo, pretendono di sapere L>-165-88. Nel seguito del discorso, Socrate replica anche all'accusa di aver insegnato ai giovani che lo seguono L>-189-1 00 a non credere negli dei ~>11 O1-131. Egli infatti ha sempre dichiarato di seguire il demone che è in lui, una voce divina che da sempre lo ammonisce e lo distoglie dal compiere certe azioni; ora, se crede nel demone, deve per forza credere anche agli dei ~>1132-163. Come emerge nell'ultima parte del brano, il demone socratico prefigura una voce morale della coscienza, che si indentifica col filosofare stesso al servizio della giustizia, del bene della p6/is, lontano dai pericoli, dalle insidie della politica ~>1164-178.

l.'m•igine !Ielle calunnie contl'll Soc••ate: il responso !lell'lll'acolo

Socrate sa Iii non sapere

Forse qualcuno di voi potrebbe replicare: «Ma, Socrate, qual è dunque la tua attività e da dove sono nate le calunnie contro di te? Non facendo nulla più degli altri, ·non sarebbe nata questa diceria e questa fama, se non ti fossi comportato diversamente dai più. Dicci dunque che cosa fai, affinché non ti giudichiamo con leggerezza,, Chi parla così mi pare che dica bene e proverò a mostrarvi che cosa ha prodotto una tale nomea e calunnia contro di me. Ascoltate. Forse a qualcuno di voi sembrerà che io scherzi, ma sapete bene che vi dirò tutta la verità. Per nessun altro motivo, Ateniesi, mi sono fatta questa nomea se non per una certa sapienza. Quale sapienza? Forse è una sapienza umana: in questa, è probabile, sono realmente sapiente. Quelli che citavo poco fa, invece, o sono sapienti di una sapienza più che umana o non so che dire: certo io non la conosco e chi dice il contrario mente e vuole calunniarmi. Non rumoreggiate, Ateniesi, anche se vi sembrerà che io dica qualcosa di grosso: non è mio il discorso che farò, ma lo attribuirò a chi lo ha pronunciato ed è degno della vostra fiducia. Della mia sapienza, se è sapienza e quale sia, vi presentò a testimone il dio di Delfil. Voi conoscete Cherefonte. Fu mio amico sin da giovane, parteggiò per il vostro partito democratico, con voi condivise il recente esilio e con voi ritornò. Voi sapete che uomo era Cherefonte, impetuoso in ogni sua impresa. Un giorno andò a Delfi e osò consultare l'oracolo su questo -ripeto, cittadini, non rumoreggiate-, chiese dunque se c'era qualcuno più sapiente di me. La Pizia rispose che non c'era nessuno. Su ciò vi potrà dare testimonianza suo fratello qui presente, perché Cherefonte è morto. Guardate perché vi dico questo: sto per spiegarvi donde ebbe origine la calunnia. Udito il responso, riflettei: «Che cosa vuol dire il dio? A che cosa allude? Sono consapevole di non essere sapiente, né poco né molto. Che cosa vuol dire allora quando afferma che sOno il più sapiente di tutti? Certo non mente, perché non gli è lecito». :Per molto tempo restai incerto su che cosa volesse dire; poi contro voglia mi volsi a cercarlo. Mi recai da uno di quelli considerati sapienti, convinto che soltanto così avrei confutato il responso e indicato all'oracolo: «Costui è più sapiente di me, mentre tu dicevi che ero io,, Esaminandolo a fondo - non è necessario che ne dica il nome; basti dire che era un politico, col quale, esaminando e discutendo, mi successe ciò che sto per dirvi-,

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1. Delfi era la sede del santuario del clio Apollo, al quale si era soliti chiedere consigli e rivolgere domande sul presente, il passato, il futuro. I responsi, gli oracoli della divinità erano comunicati dalla Pizia, la sacerdotessa eli Apollo.

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mi parve che sembrasse sapiente a molti altri e soprattutto a se stesso, ma non lo fosse. Allora provai a mostrargli che credeva di essere sapiente, ma non lo era. Così diventai odioso a lui e a molti dei presenti. Allontanandomi, ragionai tra me stesso: di costui sono più sapiente; forse nessuno di noi due sa nulla di bello e di buono, ma costui crede di sapere qualcosa e non sa, mentre io non so e non credo neppure di sapere. Pare dunque che almeno in questa piccola cosa io sia più sapiente di lui: ciò che non so, non credo neppur di saperlo. Di qui mi recai da un altro eli quelli considerati ancor più sapienti e ne ricavai la stessa opinione; e anche in questo caso divenni odioso a lui e a molti altri. Socrate cerca uomini più sapienti di lui

In seguito proseguii ordinatamente la ricerca, pur accorgendomi con dolore e paura eli diventare odioso. E tuttavia mi sembrava necessario tenere nel massimo conto il responso del dio. Per scoprire dunque che cosa voleva dire l'oracolo, bisognava andare da tutti quelli che erano considerati sapienti. E, per il cane, cittadini Ateniesi- vi devo dire la verità-, mi successe questo: quelli che godevano massima fama, quando, secondo l'indicazione del dio, li esaminai, mi parvero quasi del tutto privi di sapienza, mentre altri, considerati da meno, si adeguavano di più acl un comportamento intelligente. È necessario che vi mostri il mio vagare e le fatiche che sopportai affinché l'oracolo mi risultasse inconfutabile. Dopo i politici, mi recai dai poeti di tragedie, da quelli di ditirambi2 e dagli altri, convinto che qui avrei colto sul fatto di essere più ignorante di loro. Prendendo in mano le loro poesie, quelle che mi parevano particolarmente ben fatte, domandavo ad essi che cosa volessero dire, per imparare anch'io qualcosa da loro. Cittadini, mi vergogno a dirvi la verità, ma devo dirla. Tutti i presenti, a dirla schietta, parlavano meglio di loro sugli argomenti che essi avevano trattato. Anche a proposito dei poeti, dunque, riconobbi in poco tempo che facevano le loro poesie non perché fossero sapienti, ma per natura e per ispirazione divina, come i profeti e gli indovini: anche questi dicono molte e belle cose, ma non sanno nulla eli ciò che dicono. Mi sembrò che un caso simile fosse anche quello dei poeti e contemporaneamente mi accorsi che essi, per la poesia, credevano eli essere i più sapienti anche nelle cose in cui non lo erano. Allora mi allontanai anche da essi convinto di esser superiore acl essi per lo stesso motivo per cui ero superiore ai politici. Alla fine mi recai dagli artigiani. Da parte mia ero consapevole di non sapere nulla, per dirla schietta, ma quelli ero certo che li avrei trovati a conoscenza di molte e belle cose. E in questo non m'ingannai: sapevano cose che io non sapevo e in questo erano più sapienti di me. Se non che, o Ateniesi, mi sembrò che anche i buoni artigiani facessero lo stesso errore dei poeti. Poiché sapevano esercitare bene la propria arte, ognuno si considerava sapientissimo anche nelle altre cose più importanti e questa stonatura oscurava anche il loro sapere. Sicché, per conformarmi all'oracolo, domandai a me stesso se avrei accettato di restare così come ero, né sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza o di avere l'una e l'altra come loro. E risposi a me stesso e all'oracolo che, per me, era meglio restare com'ero.

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2. I ditirambi erano inni in onore del clio Dioniso. Erano composizioni poetiche corali che fondevano · musica e danza.

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Sat!iente è solo il dio

Perché i gimnmi seguono Socrate

Socrate si difende dall'accusa di non credel'll in nessun dio

Questa indagine, cittadini Ateniesi, mi procurò molte inimicizie e così gravi e pericolose, che ne nacquero molte calunnie e ne ricevetti la nomea di sapiente. Ogni volta gli astanti credono che io sappia le cose su cui confuto un altro. Ma forse, cittadini, realmente sapiente è solo il dio e col suo oracolo intende dire che la sapienza umana val poco o nulla. Sembra che parli di Socrate, ma si serve del mio nome solo come di un esempio, come se dicesse: «O uomini, tra voi il più sapiente è chi, come Socrate, ha riconosciuto di non valere veramente nulla in fatto di sapienza,, Per questo ancor oggi vado in giro a cercare. e a esaminare, secondo l'indicazione del dio, chi posso credere sapiente tra i cittadini e i forestieri. E se mi pare che non lo sia, coadiuvo il dio dimostrando che non è sapiente. Questa occupazione mi ha tolto il tempo di fare ogni altra cosa degna di menzione per la città e per la mia casa, anzi, per questo servizio al dio, vivo in estrema povertà. Per di più i giovani che mi seguono spontaneamente - quelli che hanno più tempo, i figli dei più ricchi - si divertono a sentir esaminare gli uomini e spesso anch'essi mi imitano e cercano di esaminarne altri. E allora, credo, trovano una grande quantità di uomini che credono di saper qualcosa e sanno poco o nulla. Così quelli che sono esaminati da loro si seccano non con se stessi ma con me, e dicono che Socrate è uno scellerato che corrompe i giovani. Ma se qualcuno domanda loro che cosa faccia o insegni Socrate, non sanno dir nulla e lo ignorano, ma per non sembrare in difficoltà ripetono le solite accuse che si fanno a tutti i filosofi: indaga su «le cose celesti e quelle sotterranee", «non crede negli dei,, «rende pitl forte la ragione più debole". La verità, credo, non vogliono dirla: è che si sono rivelati uomini che fingono di sapere, ma non sanno nulla. Tuttavia rispondi: in che senso, Meleto, tu dici che corrompo i giovani? O è chiaro, stando all'accusa che hai presentato, che insegno a non riconoscere gli dei riconosciuti dalla città, ma altre divinità nuove? Non dici che li corrompo con questo insegnamento? -Lo affermo energicamente. - Meleto, in nome di questi stessi dei, di cui stiamo parlando, spiegati più chiaramente a me e a questi uomini. Non riesco a capire se affermi che insegno a credere che esistano dei - e quindi che anch'io credo che ne esistano e non sono assolutamente ateo né colpevole di questo -, ma che non siano quelli in cui crede la città, bensì altri e questo sia il motivo dell'accusa, cioè che sono altri; o se affermi che non credo assolutamente che esistano dei e lo insegno agli altri. -Affermo questo, che non credi assolutamente negli dei. - Meraviglioso Meleto, perché dici questo? Io non credo, come gli altri, che il sole e la luna siano dei? -Per Zeus, o giudici, dal momento che dice che il sole è pietra e la luna terra. - Caro Meleto, credi di accusare Anassagora3 ? A tal punto disprezzi costoro, e li credi così inesperti di lettere da ignorare che i libri di Anassagora di Clazomene sono pieni di questi discorsi? E i giovani imparano da me queste dottrine, che talvolta possono comprare nell'orchestra 4 per una dracma, quand'è

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3>. Il riferimento è all'accusa eli empietà che era stata rivolta acl Anassagora eli Clazomene per aver affermato che il sole e la luna non sono divinità, ma pietra e terra. 4. L'orchestra era lo spazio del teatro riservato al coro. -

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Se Socrate crede nel demone, allm•a cr•ede anche neoli Ilei

Il demone ha tenuto

Soc•·ate lontano dalla politica

molto, e così deridere Socrate, se spaccia per sue dottrine, oltre tutto, così strane? Per Zeus, ti sembra proprio che io non creda all'esistenza di nessun dio? -No, per Zeus, di nessuno. -Non sei credibile, Meleto; in questo poi, mi pare, nemmeno a te stesso. A me, cittadini Ateniesi, costui sembra molto violento e sfrenato e che muova questa accusa solo per violenza, sfrenatezza e arroganza giovanile. Assomiglia ad uno che componga un enigma per mettermi alla prova: «Quel sapiente di Socrate si accorgerà che sto scherzando e mi contraddico o riuscirò a ingannare lui e gli altri ascoltatori?» Mi sembra infatti che egli si contraddica nell'accusa, come se dicesse: «Socrate è colpevole di non credere negli dei, ma di credere negli dei», Questo significa scherzare. Esaminate con me, cittadini, in che modo mi pare che si contraddica. Tu, Meleto, rispondimi. E voi, come vi ho pregati all'inizio, ricordatevi di non protestare, se discorro nel solito modo. Tra gli uomini, Meleto, ci può essere qualcuno che creda che ci siano cose umane, ma non uomini? Risponda, cittadini, e non borbotti parole sempre diverse. Ci può essere qualcuno che creda che non ci siano cavalli, ma ci siano cose concernenti i cavalli? O non flautisti, ma cose concernenti i flautisti? Non è possibile, ottimo amico. Se non vuoi rispondere, lo dico io a te e agli altri qui presenti. Ma rispondi almeno su questo punto: ci può essere qualcuno che creda che ci siano cose demoniche e non demoni? - È impossibile. - Che favore mi fai a rispondere, anche se con fatica e costretto da costoro! Tu dunque affermi che io credo in cose demoniche e le insegno, nuove o vecchie che siano; comunque, stando alle tue parole, io credo in cose demoniche: 1'hai giurato anche nell'atto di accusa. Ma se credo in cose demoniche, è assolutamente necessario che io creda anche nei demoni. Non è così? È così. Dal momento che non rispondi, stabilisco che tu sia d'accordo. E i demoni non li consideriamo dei o figli di dei? Sì o no? -Certo. - Se dunque credo nei demoni, come tu dici, e se i demoni sono dei, questo è il punto che, secondo me, affermi per enigmi e per scherzo, quando dici che io, pur non credendo negli dei, credo viceversa negli dei, dal momento che credo nei demoni. Se d'altra parte i demoni sono figli bastardi di dei, avuti da ninfe o da altri esseri, come raccontano, quale uomo potrà credere che ci siano figli eli dei e non dei? Sarebbe assurdo proprio come se uno credesse che ci siano i muli, figli di cavalli e di asini, ma non che ci siano cavalli e asini. Meleto, non è possibile che tu mi abbia mossa un'accusa simile, se non per mettermi alla prova o perché avevi difficoltà ad accusarmi di una vera colpa. Ma per riuscire a persuadere qualcuno, anche di scarsa intelligenza, che la stessa persona può credere in cose demoniche e in cose divine e non credere, al tempo stesso, in demoni, dei ed eroi, non c'è alcun espediente possibile. Forse potrà sembrare strano che in privato io vada in giro a dare questi consigli e ad occuparmi delle cose altrui, mentre in pubblico non osi presentarmi al popolo per consigliare alla città il vostro interesse. La causa di questo è ciò che mi avete sentito dire sovente in molti luoghi: che in me c'è qualcosa di divino e di demonico, che anche Meleto ha indicato scherzando nell'atto di accusa. Questo, che è in me fin da bambino, è come una voce, che, quando si

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fa sentire, mi distoglie sempre da ciò che sto per fare e non mi spinge mai a nulla. È questo che mi impedisce eli occuparmi eli politica e fa bene ad ·impedirmelo, mi pare. Sapete bene, Ateniesi, che se da un pezzo avessi intrapreso ad occuparmi di politica, da un pezzo sarei morto e non sarei stato utile né a voi né a me. Non irritatevi con me, se dico la verità: non c'è nessuno che possa salvarsi, se si oppone sinceramente a voi o ad ogni altra moltitudine impedisce che molti atti ingiusti e illegali avvengano in città; è necessario che chi combatte realmente in difesa della giustizia, se vuole salvarsi anche per poco tempo, faccia vita privata e non pubblica.

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Platone, Apologia di Socrate, V-X, XV, XIX

Predico di Ceo e Crizia: l'origine umana della religione l due brani seguenti sono tratti da una testimonianza di Sesto Empirico sul sofista Prodico di Ceo e da un'opera, Sisifo, spesso attribuita a Crizia, altre volte a Euripide. In entrambi i casi la religione è giudicata un prodotto degli uomini, così come appare ateistico l'esito delle riflessioni. Nel brano~ Prodico sviluppa un'analisi antropologica e sociologica dell'origine del culto: la religione nasce da una venerazione dell'uomo per tutto ciò che in natura può recare a lui giovamento; l'origine della religione risiederebbe così nel pregiudizio dell'uomo di

sentirsi al centro del mondo e oggetto di benevolenza o malevolenza di forze a lui superiori. Nel testo di Crizia o forse di Euripide fllill! il culto religioso ha avuto invece origine da una sapiente invenzione dei governanti, tesa a far sì che gli uomini si comportino sempre rettamente. Il timore dell'ira e delle punizioni degli dei, di entità che tutto sanno e che tutto possono osservare, rappresenta perciò uno dei più potenti strumenti di controllo delle azioni degli uomini ~>11-25. Anche i racconti sugli dei sono stati astutamente costruiti per scavare nelle fantasie umane più potenti e suscitare le paure più nascoste ~>126-35. La religione appare perciò essere un efficace strumento di governo nei confronti degli uomini, che sarebbero altrimenti sempre pronti all'occasione a violare le leggi ~>136-42.

l'ur•igine iliiiÌI'iliJilCIIIItrica

della religione

Prodico di Ceo, poi, afferma: "Il sole, la luna, i fiumi, le sorgenti, e, in genere, tutte le cose utili alla nostra vita, gli antichi le considerarono dei per il vantaggio che se ne trae, come fecero gli Egizi con il Nib·; e per questo il pane fu considerato Demetra; il vino Dioniso; l'acqua Posidone; il fuoco Efesto, e così ciascuno dei beni utili ... Pro dico sostiene che ciò che torna utile alla vita fu considerato un dio, come il sole, la luna, i fiumi, i laghi, i prati, i frutti e tutte le cose di questo genere. -Ci avviciniamo, ormai, ai sacri misteri, e frammischiamo ai discorsi la sapienza di Prodico, il quale collega ogni atto sact·ale compiuto dall'uomo e i misteri e le iniziazioni, ai prodotti dell'agricoltura, ritenendo che anche l'idea degli dei e ogni forma di religiosità sia derivata di n agli uomini. [***] . Sesto Empirico, Contro i matematici, in I presocratici, DK 84 B 5, pp. 1671-1673

L'età fe1•ina e I'ÌIIIIIIIIZÌIIIIII

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delle leggi

Ci fu un tempo in cui la vita degli uomini era caotica e ferina, e asservita alla forza, quando non esisteva né premio alcuno per i buoni, né punizione per i malvagi.

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L'imnmzione

del timore degli dei

Gli dei uedono dappeB'tuUo, anche le azioni nascoste

Il diuino è 111111 m•eazione umana per sopprimere l'illegalità

Dopo, credo che gli uomini abbiano emanato leggi di punizione, perché giustizia fosse tiranna di tutti parimenti, e avesse violenza al suo servizio, e, se alcuno peccava, si punisse. Poiché dopo le leggi impedivano loro di sopraffare gli altri apertamente, ma di nascosto ancora lo facevano, allora credo che un uomo assennato e sapiente per primo inventò per i mortali il timore degli dei, perché i malvagi avessero timore, pur agendo o parlando o pensando di nascosto. Allora fu la divinità introdotta, come demone, fiorente di vita incorrotta, che ode e vede con la mente, che pensa e provvede a tutto, e reca divina natura; questi udrà ogni cosa detta tra gli uomini, e potrà vedere ogni cosa fatta. Se in silenzio tu trami qualche malvagità, ciò agli dei non resterà ignoto: in essi, infatti, c'è molta perspicacia. Facendo queste affermazioni, svolgeva il più dolce degli insegnamenti, coprendo la verità con un finto racconto. Asseriva che gli dei abitano là dove, dicendolo, più avrebbe spaventato gli uomini, poiché da là - sapeva - provengono paure ai mortali, e vantaggi per la loro misera vita, dall'alta sfera, dove vedeva lampi formarsi e tremendi fragori di tuono, e il corpo stellato del cielo, opera bella e variegata del Tempo, sapiente costruttore, da dove procede la massa ardente, lucente, dell'astro, e la pioggia precipita giù, umida, sulla terra. Tali paure egli presentò agli uomini, per mezzo loro costruì bene con la parola, il divino, e lo pose in luogo acconcio, e con le leggi spense la illegalità.

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Così io credo che per la prima volta uno abbia convinto i mortali a pensare che esiste una stirpe divina

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Crizia, Sisij'o: dramma satiresco, in I presocratici, DK 88 B 25, p. 1809

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l presocratici: naturalità o artificialità della credenza religiosa? Il grande significato culturale della rifle~sione sul fondamento e l'origine della religione compiuta nella seconda metà del V secolo a.C. ad Atene è documentato da alcuni passi del X libro delle Leggi di Platone. Protagonisti del dialogo, nelle sezioni riportate~, sono-un Ateniese, che si fa portatore

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delle tesi di Platone, e Clinia, un Cretese; l'argomento della discussione sono le pene che una città dovrebbe stabilire contro coloro che si macchiano di reati contro la religione. La necessità di giustificare razionalmente tali provvedimenti costringe l'Ateniese a mostrare l'insostenibilità di una concezione politica che estrometta la religione dai fondamenti di uno Stato ben amministrato e organizzato. t a tal fine che l'Ateniese riconsidera le trame e gli esiti delle discussioni intervenute nell'Atene della seconda metà del V secolo a.C. Egli pur riconoscendo l'indispensabile funzione critica svolta dalla filosofia nel processo di razionalizzazione della credenza religiosa, condanna gli esiti di certe analisi spregiudicate, sovversive della verità e moralmente pericolose per lo Stato H 1-22. Dopo aver superato una reazione istitutiva di sdegno contro coloro che, nonostante l'educazione ricevuta dai padri, negano l'esistenza degli dei, il Cretese domanda come sia possibile convincerli del contrario ~>122-43. L'Ateniese espone, allora, le teorie materialistiche dei fisici e dei sofisti, secondo cui tutte le cose che esistono o sono prodotte dalla natura e dal caso, o dall'arte ll>l44-56. L'universo, ad esempio, è prodotto da elementi naturali combinati insieme da leggi meccaniche che agiscono senza il concorso di alcun progetto intelligente di origine divina ~>157-67. l prodotti dell'uomo (l'arte) appaiono, invece, in un secondo momento e sono di due tipi: alcuni completano l'opera della natura, come la ginnastica e la medicina, altri non servono a niente se non a divertire gli uomini, come la pittura e la musica ~>167-74. l sofisti, poi, sostengono che anche le leggi sono un prodotto dell'uomo, non della natura, e tra le leggi vi sono quelle che impongono di credere negli dei e di praticare i culti religiosi, tanto è vero che ogni popolo ha i suoi, diversi da luogo a luogo ~>174-82. Ma più grave ancora- a detta dell'Ateniese- è la tesi con cui i sofisti negano che vi sia un concetto universale di giustizia fondato sulla legge di natura. Cosl essi spianano la strada ad ogni tipo di empietà, soprattutto tra i giovani, giustificando chi vuole vivere secondo il diritto del più forte ~>182-95.

Gli antichi racconti sugli dei

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negano l'esistenza degli dei e S!IIUJ fonte di mali

ATENIESE - Esistono da noi certi scritti che, per virtì:l del vostro governo, so che non esistono presso di voi, i quali, alcuni in versi altri in prosa, parlano degli dei; i più antichi narrano che la primordiale natura era costituita dal cielo e dagli altri corpi e, procedendo nel loro racconto, pongono, non molto dopo il principio (archè), l'origine degli dei (theogonia), e, una volta originati, quali siano i loro reciproci rapportP. Non è facile giudicare, trattandosi di antichi scrittori, se, da altri punti di vista, questi racconti facciano bene o male a chi li ascolta; certo, per quel che riguarda la premura ed il rispetto verso i genitori, non direi mai, pur volendoli lodare, che il loro contenuto sia utile e vero in modo assoluto. Ad ogni modo lasciamo stare gli scritti degli antichi e giudichiamoli come meglio piace agli dei. Passiamo piuttosto ad accusare i nostri moderni sapienti, ché davvero sono causa e fonte di mali. I loro discorsi portano dunque alle seguenti conclusioni: quando tu ed io adduciamo prove sull'esistenza degli dei, e presentiamo questi stessi corpi - il sole, la luna, gli astri, la terra - come dei ed entità divine, coloro che si sono lasciati convincere da quei tali sapienti rispondono che questi corpi non son che terra e pietre, assolutamente incapaci eli darsi pensiero delle umane cose, e convalidano questi loro principii con argomentazioni che in un certo senso sono convincenti2 •

Jl.. Riferimento agli antichi autori eli teogonie e acl Esiodo. 2. Chiaro riferimento acl Anassagora.

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L'ateismo souuea•te l'educazione l'iceuuta dai padri

Gli ai'!JOID!lllti

dei moderni: tutto ha origine dalla natura, dall'arte, dal caso

CLINIA- Grave argomentazione questa che ci metti innanzi, o forestiero, anche se fosse una sola: tanto più grave oggi che moltissime sono le dottrine del genere. Ma come non parlare senza calore di sdegno per dimostrare che gli dei esistono? Sì! è fatale sopportare a fatica, fatale è perfino odiare coloro che sono stati, che, ora, sono causa di questi nostri discorsi, essi che non prestando più fede alle favole che dalla prima infanzia hanno bevuto con il latte, ascoltandole dalle nutrici e dalle mamme, che, a mo' di incantesimo, le narravano loro, ora per scherzo ora sul serio; essi che tali favole hanno sentito ripetere durante i sacrifici nelle preghiere, che hanno assistito alle cerimonie religiose - che, derivate da questi miti ed eseguite durante i sacrifici, ogni fanciullo guarda ed ascolta con grandissimo piacere -, che hanno visto i propri genitori agire con estrema serietà insieme ai sacrificanti, per sé e per loro pregando supplici gli dei come assolutamente esistenti, e hanno visto al sorgere e al tramontare del sole e della luna tutti, Greci e barbari, concordemente prosternarsi e venerare in ginocchio, sia nei momenti avversi sia nei momenti buoni, in tal modo mostrando di credere non che gli dei non esistono, ma che davvero sono, e che neppure passa loro per la mente il sospetto che possano non essere; essi, che, insomma, disprezzando tutto questo senza la prova di nessun adeguato argomento, come direbbero quanti posseggono un po' di cervello, ci costringono adesso a dire quello che diciamo; come, dunque, è possibile che uno con affabili parole richiami costoro al dovere dando ad un tempo insegnamenti sugli dei, innanzi tutto dimostrando che gli dei esistono? ATENIESE *-Sostengono alcunP che tutte le cose che esistono, sono esistite, esisteranno, in parte sono effetto della natura, in parte dell'arte, in parte del caso. CLINIA - E non va bene? ATENIESE -Può certo darsi che questi sapienti uomini parlino rettamente; comunque seguiamoli e stiamo a vedere dove il loro ragionamento vada a parare. CLINIA - Senz'altro. ATENIESE- Sembra, essi dicono, che le più grandi e le più belle cose siano dovute alla natura e al caso, le meno importanti all'arte, la quale riprendendo dalla natura la genesi delle prime e grandi opere, plasma e fabbrica tutti gli oggetti di minore importanza, che, appunto per questo, chiamiamo artificiali. CLINIA - Che vuoi dire? ATENIESE - Mi spiegherò con maggior chiarezza. Fuoco, acqua, terra, aria - essi affermano - esistono per natura e per caso, senza essere dovuti all'arte, e i corpi che da questi derivano, il corpo della terra, del sole, della luna, degli astri, sono tutti assolutamente inanimati. Questi elementi, poi, mossi a caso dalle loro rispettive tendenze, via via che, per una qual certa affinità, si vennero incontrando ed associando - caldo con freddo, secco con umido, molle con duro e tutte le qualità naturali per necessità del caso si mescolarono con le opposte qualità - dettero così origine all'universo intero e a tutto ciò che è in esso, agli animali, alle piante, al volger delle stagioni,

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3. Possibile richiamo alle tesi dei sot1sti sull'origine umana della religione. Alcuni Interpreti indicano in particolare la posizione di Protagora, altri di Crizia, Antifonte o Prodico.

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Secondo i moderni, gli dei esistono per Clllllii'IIIZÌOIIII Clllilll pure il giusto e le leggi

origine del tutto che, secondo loro, non è opera né di una mente né di qualche dio né dell'arte, ma, dicevamo, della natura e del caso. L'arte, apparsa dopo, e che si fonda, su questi stessi processi combinatori, opera di mortali, essa medesima mortale, ha più tardi realizzato certi gtuochi, che, ben lontani dal possedere in sé la verità, sono piuttosto immagini, che hanno solo affinità con le arti stesse, quali appunto le immagini dovute alla pittura, alla musica, alle altre arti che ruotano intorno a queste; se vi sono arti i cui frutti hanno qualche valore, tali sono quelle che aggiungono la propria forza a quella della natura, come la medicina, l'agricoltura, la ginnastica. Anche la politica, essi dicono, ha poca parte in comune con la natura e molta con l'arte, e così la stessa legislazione in tutto il suo complesso non deriva dalla natura, ma dall'arte, onde le sue basi non sono affatto vere. CLINIA - Che vuoi dire? ATENIESE- Innanzi tutto, ingenuo amico mio, essi sostengono che gli dei esistono per arte, non per natura, - anzi per effetto di certe leggi, e che quindi altri sono gli dei in un luogo altri in altro luogo, a seconda di come si son messi d'accordo i legislatori di ciascun paese; non solo, ma sostengono che altro è il bene per natura, altro per legge, che in natura il giusto non esiste affatto, che, anzi su tale concetto gli uomini discuton fra di loro all'infinito, continuamente cambiando il proprio punto di vista, e che quindi tali diversi punti di vista hanno per essi assoluto valore di volta in volta, in quel dato momento, poiché appunto son frutto dell'arte e di umane leggi e non della natura. Queste, amici miei, le parole che i giovani ascoltano da questi sapienti- tanto in privato quanto nei loro scritti- i quali sostengono che la vittoria riportata con la violenza è la più alta forma di giustizia: ecco d'onde l'empietà dilaga fra gli uomini di oggi, che più non si crede che gli dei siano quali la legge ordina si debbano concepire; di qui le rivolte, dovute a questo voler vivere la vera vita secondo natura, che in verità consiste nel vivere dominando gli altri, senza obbedire ad alcuno come vorrebbe la legge.

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Platone, Le leggi, 886c-890a

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I filosofi e le leggi a riflessione critica maturata nella seconda metà del V secolo a.C. investe complessivamente il rappotto tra l'individuo e la comunità, comprese le istituzioni su cui si fonda il vincolo sociale. Le istituzioni politiche e civili, le stesse leggi della comunità, cominciano ad essere viste come il prodotto consapevole dell'uomo, non più come l'eredità, sacra e intoccabile, consegnata dagli dei o dalla tradizione. Non è un caso che la discussione su tali questioni prenda avvio nella democrazia ateniese, dove alla concezione sacrale dello Stato e delle sue leggi si era progressivamente sostituita la riflessione sulla consapevole azione delle magistrature e della maggioranza dei cittadini liberi. Ad Atene, infatti, le sentenze dei tribunali e le decisioni delle assemblee erano precedute da discussioni in cui si confrontavano i punti eli vista e si valutava, di volta in volta, l'adeguatezza delle norme vigenti a giudicare nuovi fatti. A tale processo di "umanizzazione" delle leggi, si aggiunge poi la questione sollevata dai sofisti riguardo la possibilità o meno eli parlare in senso assoluto. eli una giustizia, quale fondamento e criterio delle norme stabilite dal governo della città. Progressivamente la discussione investe il problema cruciale del fondamento del potere e dell'obbedienza che i cittadini sono tenuti a dare verso chi li governa e alle leggi che sono loro imposte. Si giunge anche a una riflessione sui limiti della democrazia stessa e sulla possibilità che l'esercizio del potere possa essere mai eli per se stesso giusto.

Protagora: il fondamento naturale del potere politico e la giustificazione della democrazia Nel Dialogo platonico intitolato a Protagora, il celebre sofista racconta un mito al fine di spiegare la sua concezione di giustizia~. L'uomo, a differenza delle altre specie animali, sarebbe stato all'origine privo di strumenti di difesa e di sopravvivenza ~>11-33. Prometeo pensò così di dotarlo del fuoco e della tecnica per proteggersi dagli animali più pericolosi, ma soltanto la decisione degli uomini di unire le proprie forze, costituendosi in villaggi e città, sarà in grado di fornire loro la necessaria sicurezza ~>133-56. Tuttavia per convivere nella città è necessario rispettare le leggi e osservare la giustizia: sarà Zeus a fornire a tutti gli uomini il senso della giustizia e del rispetto reciproco, al fine di mantenere in vita le neocostituite istituzioni sociali ~>156-67. Il senso della giustizia sarebbe così qualcosa di connaturato all'essere umano stesso e fondante la democrazia, vale a dire il diritto di ciascun cittadino a partecipare alla vita politica ~>168-75. Atene con la sua costituzione sarebbe una rappresentazione concreta del mito, la realizzazione della virtù politica sulla quale tutti sono ammessi a parlare, a pronunciarsi.

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~~ Epimeteo Cl'ea le specie animali

Prometeo si accm•ge che l'uomo è indifeso

Prometeo dona agli uomini l'abilità tecnica e il fuoco

Vi era un tempo in cui esistevano gli dei, ma non ancora razze mortali. Quando anche per queste giunse il tempo destinato alla generazione, gli dei le plasmarono all'interno della terra, mescolando terra fuoco e gli elementi che si combinano col fuoco e con la terra. Immediatamente prima di portarle alla luce, incaricarono Prometeo ed Epimeteo 1 di ordinarie e di distribuire ad ognuna le possibilità confacenti. Epimeteo pregò Prometeo di !asciargli il compito della distribuzione. «Dopo che avrò distribuito, disse, tu verrai a controllare». Ottenuto il suo consenso, si mise all'opera. Nella distribuzione assegnò ad alcuni la forza senza la velocità; ad altri più deboli assegnò la velocità; dotò alcuni di mezzi di difesa e di offesa; per altri, che aveva provvisti di natura inerme, escogitò qualche altra possibilità di conservazione. Agli animali che foggiava piccoli concedeva ali per la fuga o un'abitazione sotterranea; a quelli che faceva grandi di corpo, dava modo di conservarsi con la loro grandezza. Così distribuì le altre doti in modo che si compensassero. Escogitandole, aveva la precauzione che nessuna razza si estinguesse. Dopo che le ebbe dotate in modo che sfuggissero alla distruzione reciproca, elaborò espedienti di difesa contro le intemperie del cielo: rivestì le razze di fitto pelame e di dure pelli, sufficienti a proteggere dall'inverno, ma capaci anche di difendere dai calori estivi, e fece in modo che questi rivestimenti costituissero, quando andavano a dormire, coperte proprie e naturali. E calzò alcune di zoccoli, altre di pelli spesse e senza sangue. In seguito fornì ad ogni specie cibi diversi: ad alcune l'erba della. terra, fld altre i frutti degli alberi, ad altre ancora le radici. E ve ne sono altre alle quali diede come cibo la carne di altri animali; a queste egli assegnò scarsa prolificità, alle loro prede, invece, grande prolificità, procurando così la conservazione della specie. Ma Epimeteo, che non era un gran sapiente, non si accorse di aver consumato le possibilità in favore degli animali senza ragione: il genere umano rimaneva ancora privo di ordine ed egli non sapeva che fare. Mentre era in difficoltà sopraggiunse Prometeo per esaminare la distribuzione e vide che gli altri animali erano forniti di ogni cosa in giusta proporzione, mentre l'uomo era nudo, scalzo, senza coperte e inerme. Ormai era imminente il giorno destinato in cui anche l'uomo doveva uscire dalla terra alla luce. Preso dalla difficoltà di trovare una via di salvezza per l'uomo, Prometeo rubò l'abilità tecnica di Efesto e Atena insieme col fuoco (perché acquisire o impiegare questa tecnica senza il fuoco era impossibile) e ne fece dono all'uomo. Con essa l'uomo ottenne la sapienza per la vita; ma non la sapienza politica. Questa si trovava presso Zeus e a Prometeo non era concesso di penetrare nell'acropoli, abitazione di Zeus; inoltre le guardie di Zeus lo intimorivano. Si introdusse invece di nascosto nell'officina comune di Atena ed Efesto, ove essi lavoravano insieme, rubò la tecnica di usare il fuoco, propria di Efesto, e l'altra, propria di Atena, e ne fece dono all'uomo. Da Prometeo quindi provenne all'uomo la risorsa necessaria per vivere; ma in seguito, a quel che si dice, a causa di Epimeteo, egli dovette scontare la pena del suo furto.

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1. Il mito eli Prometeo aveva già ispirato Esiodo in Le opere e i giorni ed Eschilo in Prometeo legato. Nella mitologia greca, Prometeo ed Epimeteo sono fratelli, entrambi figli del titano Giapeto. Sono l'uno l'opposto dell'altro: se Epimeteo è maldestro e poco accorto, Prometeo è invece ritenutò un eroe e un benefattore dell'umanità.

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Gli uomini fondano uillal!l!li e città

Zeus dona agli uomini il••ispettu e la giustizia

Tutti gli uomini possiedono le virtù politiche

Divenuto partecipe di una condizione divina, l'uomo fu, in primo luogo, a causa della sua parentela con la divinità, il solo tra gli animali a credere negli dei e ad innalzare ad essi altari e statue; in secondo luogo, egli articolò ben presto con tecnica voce e parole, e inventò abitazioni, vesti, calzature, coperte e gli alimenti che nascono dalla terra. Pur essendo così forniti, in principio gli uomini vivevano dispersi e non esistevano città; perivano quindi uccisi dalle fiere, dato che erano in tutto più deboli di esse: la tecnica artigianale bastava per aiutarli a procacciarsi il cibo, ma era insufficiente nella lotta contro le fiere, perché essi non possedevano ancora la tecnica politica, di cui è parte la tecnica di guerra. Cercavano allora di riunirsi e di salvarsi fondando città; ma quando si erano riuniti, commettevano ingiustizie reciproche in quanto non possedevano la tecnica politica, sicché nuovamente si disperdevano e perivano. Zeus, temendo l'estinzione totale della nostra specie, inviò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, affinché costituissero l'ordine della città e fossero vincoli di solidarietà e di amicizia. Ermes chiese a Zeus in che modo dovesse dare la giustizia e il rispetto agli uomini: «Devo distribuirli come le altre tecniche? Queste sono distribuite in modo che un solo medico, per esempio, basta per molti profani; allo stesso modo gli altri artigiani. La giustizia e il rispetto devo stabilirli in questo modo tra gli uomini o devo distribuirli a tutti?, - "A tutti, rispose Zeus, e tutti ne partecipino: non esisterebbero città, se, come avviene per le altre tecniche; soltanto pochi ne partecipassero. E stabilisci in mio nome una legge per la quale chi non può partecipare di rispetto e giustizia sia ucciso come peste della città". Per questo, Socrate, gli Ateniesi, come gli altri uomini, quando si discute sulla virtù costruttrice o su qualche altra tecnica artigianale, credono che sia compito di pochi dare consigli, e se qualcuno, estraneo a questi, si mette a darne, non lo tollerano, come tu dici, e a ragione, dico io .. Quando invece si riuniscono a consiglio sulla virtù politica, che deve procedere interamente secondo giustizia e saggezza, è naturale che ammettano a parlare chiunque, poiché è proprio di ognuno partecipare di questa virtù; altrimenti non esisterebbero città.

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Platone, Protagora, XI-XII ,l

Callicle e Trasimaco: la forza, fondamento del potere e delle leggi A differenza di Protagora, la riflessione di sofisti come Crizia, Trasimaco e Callicle demolisce criticamente l'istituzione democratica e la sua pretesa di tradurre in termini umani l'ideale di giustizia, facendo leva sull'uguaglianza dei diritti politici dei cittadini liberi e sul presunto merito delle virtù personali. Ai loro occhi, invece, la giustizia appare essere sempre e inequivocabilmente l'utile del più forte: la democrazia, secondo Callicle ~. non fa eccezione, perché rappresenta l'unione dei più deboli al fine di contrapporsi a quella minoranza di individui che sarebbero più forti e che la legge di natura legittimerebbe alla funzione di governanti ,.11-18. Tutti uniti, i più deboli divengono numericamente i più forti e fanno leggi per dominare le minoranze. In questo senso le istituzioni democratiche, con la pretesa di fondare la p6/is sull'uguaglianza di tutti i cittadini, si pongono in antitesi alle leggi della natura in cui l'individuo più forte ha diritto di prevalere sul più debole ~>119-35. Il seguente brano è tratto dal dialogo Gorgia di Platone, dove Callicle si fa portavoce di queste dottrine.

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~ l\latiu•a e legge !Umo

conti•arie tra loro

Èla moltitudine dei deboli 11 stabili1•e le leggi

Il miglilll'e pet• natura ha il diritto di impm•si

Per lo più la natura e la legge sono contrarie tra loro: se per falso pudore non si ha il coraggio di dire ciò che si pensa, necessariamente ci si contraddice. Tu hai compreso questo sapiente accorgimento e te ne servi per ingannare nei discorsi: se qualcuno ti parla sul piano della legge, tu lo interroghi su quello della natura; se ti parla delle cose della natura, tu lo interroghi su quelle della legge. Per esempio poco fa, a proposito del commettere ingiustizia e del subirla, mentre Polo 1 parlava del più brutto secondo la legge, tu hai proseguito il discorso riferendoti alla natura. Per natura è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, cioè il subire ingiustizia, ma per legge lo è il commettere ingiustizia. Questa situazione, il subire ingiustizia, non è neppure da uomo: è da schiavo, per il quale è meglio morire che vivere e che quando soffre ingiustizie e oltraggi non può difendere se stesso né quelli che gli stanno ;:,t cuore. Quelli che stabiliscono le leggi sono, io credo, i deboli e i molti. In riferimento a se stessi e in vista del proprio utile, essi stabiliscono le leggi e distribuiscono le lodi e i biasimi. Per spaventare i più forti, che sono capaci di prevalere, e impedire loro di prevalere su di essi, dichiarano che è brutto e ingiusto il prevalere e che il commettere ingiustizia consiste appunto nel cercare di avere più degli altri; dal canto loro, essendo più deboli, si accontentano dell'uguaglianza. Per questi motivi si dichiara ingiusto e brutto per legge ogni tentativo di prevalere sulla maggioranza: questo lo chiamano commettere ingiustizia. Ma la natura stessa, credo, dimostra che è giusto che il migliore abbia più del peggiore e il più potente del meno potente. Essa ci mostra che è così ovunque, presso gli animali e gli uomint", in tutte le città e nelle famiglie: si giudica giusto che il migliore comandi sull'inferiore ed abbia di più. A quale diritto Serse si appellò quando fece una spedizione contro l'Ellade o suo padre contro gli Sciti? Migliaia di casi simili si potrebbero citare. Costoro, credo, compiono queste azioni in conformità alla natura del giusto e, per Zeus, in conformità alla legge di natura, anche se forse non in conformità alla legge che noi stabiliamo. Noi plasmiamo i migliori e i più forti tra noi, prendendoli da giovani, come leoncini, e con incantesimi e stregonerie ce li asserviamo, dicendo loro che bisogna attenersi all'uguaglianza e che questo è il bello e il giusto. Ma, credo, se nasce un uomo con una natura dotata, egli si scuoterà di dosso, spezzerà erifiuterà tutto ciò e, dopo aver calpestato i nostri scritti, i nostri sortilegi, i nostri incantesimi e tutte le nostre leggi contrarie alla natura, insorgendo, da nostro schiavo si mostrerà nostro padrone, e qui risplenderà il diritto della natura.

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Platone, Gorgia, 483a-484b

In questo secondo brano liif5Jl sono riportate le opinioni di Trasimaco in alcuni celebri passi del primo libro della Repubblica di Platone. Secondo Trasimaco, la realtà, che anche i rapporti politici traducono in leggi e istituzioni, mostra ovunque lo spettacolo della sopraffazione e della vittoria del più forte ~11-18. Ciò significa, in ultima analisi, che la cosiddetta giustizia non è altro che un mezzo inventato dai forti per dominare i deboli, mentre l'ingiustizia rende chi la pratica molto più felice del· l'uomo giusto H 18-54.

1. Polo è un altro personaggio del Dialogo, fu un discepolo di Gorgia e a sua volta sofista, insegnante

eli retorica.

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La giustizia è il vantaggio di chi comanda

L'uomo giusto è sempre più infelice di quello ingiusto

Il til·amm è l'nanno più fe~ice e beato

!ìi biasima l'ingiustizia solo quando

la si subisce

- Dimmi, Socrate, ce l'hai una bàlia? -Che c'entra!- esclamai- Non sarebbe meglio rispondere che fare simili domande? - Eh sì - disse -, perché non bada a te che sei tutto moccioso e non ti soffia il naso: e ne avresti bisogno, che non sai ancora distinguere le pecore dal pastore. - Come sarebbe a dire? - domandai. - Perché tu credi che i pastori e i bovari abbiano di mira il vantaggio delle pecore e dei buoi e li ingrassino e li curino avendo altro scopo che il bene dei padroni o il bene proprio. E così t'immagini che coloro i quali hanno in mano il potere negli Stati, coloro che governano davvero, rispetto ai propri sudditi siano in una disposizione d'animo diversa da quella che si può avere per delle pecore e che notte e giorno pensino ad 'altro e non a come paterne trarre un vantaggio. E sei così fuori strada rispetto l'idea del giusto e della giustizia, dell'ingiusto e della ingiustizia, da ignorare che il giusto e la giustizia è in realtà un bene estraneo, vantaggio eli chi è più forte e comanda, personale danno per chi obbedisce e serve: che l'opposta cosa è l'ingiustizia, padrona di chi è ingenuone e giusto, e che i sudditi operano a vantaggio del più forte, e servendolo fanno la sua felicità, ma non certo la propria. O molto ingenuo Socrate, questo bisogna tener presente, che l'uomo giusto in ogni occasione rimane al di sotto dell'ingiusto. Innanzi tutto nei privati contratti quando l'uno abbia rapporti d'affari con l'altro, mai troverai, allo sciogliersi eli tali rapporti, che il giusto abbia guadagnato più dell'ingiusto, anzi troverai che ci ha perso. In secondo luogo nei rapporti con lo Stato, se vi sono dei contributi da pagare, il giusto, a parità di condizioni, è quello che paga di più, mentre l'altro paga eli meno, e se invece c'è da prendere qualcosa, il primo non piglia nulla, il secondo ci fa un bel guadagno. E difatti, quando l'uno e l'altro ricoprono una qualche carica, il giusto può esser certo, se non subisce anche altri danni, che i suoi affari personali, non potenclosene egli occupare, vanno a rotoli, mentre, appunto perché giusto, non trae alcun vantaggio cl0-l pubblico denaro: non solo, ma s'inimica familiari e conoscenti, quando si rifiuta, perché andrebbe contro il diritto, eli far loro dei favori. Tutto il contrario, -invece, capita all'uomo ingiusto. E per ingiusto intendo colui di cui sopra parlavo, quel tale che tutto sa trarre a proprio vantaggio. È un uomo simile che elevi prendere in considerazione se vuoi comprendere quanto più vantaggiosa sia, per il suo interesse privato, l'ingiustizia rispetto alla giustizia. Ma più facilmente ancora lo comprenderai se ti spingi fino alla più perfetta ingiustizia, quell'ingiustizia cioè che fa dell'uomo ingiusto l'essere il più felice, mentre rende quanto mai disgraziato chi la subisce e si rifiuterebbe di commetterla. La tirannide cioè, la quale non in piccola parte s'impadronisce del bene altrui, ma tutto in un blocco l'afferra, con la frode e" la violenza, cose sacre e profane, pubbliche e private. Se uno si lascia sorprendere a commettere anche uno di questi delitti lo si punisce, non solo, ma si qualifica dei peggiori titoli: sacrilego lo si chiama e rapinatore d'uomini, sfonclatore di muri, rapinatore, ladro, a seconda di quale di questi delitti ha particolarmente commesso. Chi si impadronisce, invece, non solo dei beni dei propri cittadini, ma dei cittadini stessi riclucendoli in servitù, invece che con questi ignobili titoli, viene chiamato felice e beato, non solO dai suoi concittadini, ma da tutti coloro che sappiano come egli abbia attuato la più piena ingiustizia. Eh sì, perché quando l'ingiustizia viene biasimata non è per timore eli commettere ingiustizia, ma per timore eli doverla subire. Ecco, dunque, o Socrate, che l'ingiustizia, quando sia tale da potersi

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mantenere, è più forte, più libera, più potente della giustizia, e, come fin dal principio ho detto, ecco che la giustizia consiste appunto in ciò che giova al più forte, mentre l'ingiustizia consiste in tutto dò che viene a giovamento e profitto personali. Platone, Repubblica, pp. 295-296

Antifonte: la tirannia della legge Per il sofista Antifonte ~la legge, che regola i rapporti civili, non traduce l'ordine necessario, immutabile e razionale delle cose; essa è un artificio, un prodotto culturale, come dimostrano anche le diversità di usi e costumi tra i popoli. Di conseguenza il rispetto delle leggi è consigliabile soltanto per non subire punizioni, ma quando si è soli, senza testimoni, è più ragionevole seguire gli impulsi della natura ~11-7. La legge positiva (n6mos), infatti, cioè quella istituita dalla città, costituisce una limita· zione ingiustificata alle prerogative della legge naturale (physis) che governa le azioni del singolo. La maggior parte delle cose che sono giuste secondo la legge, non lo sono per la natura ~>18-26.

Leggi ciuili e leggi di natura

La legge civile ostacolo la natura

Giustizia è non trasgredire le leggi della città nella quale uno vive come cittadino. Dunque, una persona praticherà la giustizia nella maniera più vantaggiosa per sé, se, di fronte a testimoni, giudicherà grandi le leggi; da solo, senza testimoni, «si atterrà" alle disposizioni naturali. Infatti, le norme delle leggi sono convenzionali; quelle della natura sono necessarie; e le norme delle leggi frutto di un accordo non sono naturali, mentre quelle di natura sono innate, non frutto di un accordo. Dunque, se uno trasgredisce le leggi, nel caso in cui sfugga a coloro che le hanno concordate, evita la vergogna e la punizione; se non sfugge, invece, non le evita. Se, invece, fa violenza, oltre il possibile, alle leggi date a noi dalla natura, anche se sfugge all'attenzione di tutti gli uomini, il male non è per niente minore; se tutti vengono a saperlo, il male non è per niente maggiore: infatti, non si produce un danno secondo l'opinione, ma secondo la verità. L'indagine è totalmente volta a questo fine: la maggior parte delle cose giuste secondo la legge sono in opposizione con la natura. Sono state emanate leggi per gli occhi, su ciò che essi devono vedere e ciò che non devono; per le orecchie, su ciò che devono udire e su ciò che non devono; per la lingua, su ciò che deve dire e su ciò che non deve; per le mani, su ciò che devono fare e su ciò che non devono; per i piedi, su dove devono recarsi e su dove non devono; per l'intelletto, ciò che deve desiderare e ciò che non deve. Alla natura non sono dunque per nulla più gradite né più affini le azioni che le leggi proibiscono agli uomini rispetto a quelle che ci consigliano. Infatti, il vivere e il morire sono naturali, e il vivere viene loro dalle co~e che giovano, il morire, dalle cose che non giovano. Per le cose che giovano, le prescrizioni delle leggi sono lacci posti alla natura, mentre quelle della natura sono libere. Antifonte, fr. A e B, in Ipresocratici, DK 87 B 44, pp. 1749-1753

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Socrate: il fondamento etico della legge Il brano proposto lii0l riporta alcuni passi del Critone, dialogo platonico che racconta la discussione tra Socrate, rinchiuso nel carcere di Atene in attesa che la sentenza di morte sia eseguita, e Critone, suo discepolo e amico, sulla condotta da seguire: accogliere la condanna a morte del tribunale ateniese o fuggire dal carcere come proposto da Critone? Critane infatti ha affrontato un piano perfetto per evitare a Socrate di morire, con la complicità di una guardia che, in cambio di denaro, farebbe finta di non accorgersi della fuga. l discepoli poi provvedérebbero a nascondere Socrate e a portarlo in un'altra città, dove le leggi ateniesi non potrebbero più condannarlo. Critone mostra tutte le ragioni per cui Socrate dovrebbe acconsentire ad accogliere il piano, non ultima quella di essere stato condannato ingiustamente da un tribunale pervenuto nei suoi confronti. Socrate, tuttavia, non accetta la proposta di Critone, decidendo di rimanere prigioniero e di affrontare così la sua condanna a morte. Perché una decisione così inspiegabile? Nel corso della sua riflessione, Socrate fa intervenire le leggi della città, personificandole e facendole parlare direttamente in difesa del loro diritto ad essere rispettate ~>11-13. Per Socrate la giustizia consiste nel seguire le leggi del proprio paese, quindi ritiene un comportamento ingiusto disobbedire alla sentenza e fuggire dal carcere. Le leggi sono parte della formazione di ciascun individuo e rappresentano l'unico fondamento possibile della convivenza tra uomini. Del resto, la scelta di obbedire alle leggi della città non è obbligatoria per chi decide liberamente di cambiare città e andare a vivere in uno Stato con leggi diverse, ma diventa obbligata per chi ha deciso di continuare a vivere nel paese che lo ha cresciuto ed educato ~>114-50. La giustizia, in questo modo, consiste nel continuo etacito riconoscimento che ciascun uomo conferisce alle leggi del proprio paese, a cui si sente vincolato da un sentimento di,riconoscenza ~>151-70. Non vi è dunque giustizia aprescindere dalle leggi, dal vincolo etico che lega l'individuo alla comunità, dal riconoscimento del valore superiore che questa ha nei confronti del singolo. Se il cittadino subisce un'ingiustizia, non deve accusare le leggi, ma gli uomini che le hanno male interpretate e applicate ~>-171-84.

liEii Le leggi della città si riuolgono a Soct•ate che uuole fuggil•e

Le leggi hanno dato a Socrate la vita e l'hanno cresciuto

SocRATE- Allora considera la cosa così. Se, mentre siamo sul punto di scappare di qui o come altrimenti si debba dire, arrivassero le leggi e l'insieme della città, si fermassero davanti e dicessero: «Dimmi, Socrate, che cosa hai in mente di fare? Con quest'azione a cui ti accingi non pensi forse di distruggere noi, le leggi e l'intera città, per quanto sta in te? Credi che possa ancora esistere e non essere sovvertita quella città in cui le sentenze pronunciate non hanno forza, anzi sono rese inefficaci e distrutte da privati cittadini?", che cosa risponderemmo, Critone, a queste e altre simili parole? Molte cose si potrebbero dire, soprattutto da parte di un retore, in difesa di questa legge infranta, la quale prescrive che le sentenze pronunciate abbiano vigore. Risponderemo ad essi: «La città ci ha fatto ingiustizia e non ha sentenziato rettamente,? Risponderemo questo o che cosa? CRITONE - Questo, per Zeus, Socrate. SocRATE - E che cosa risponderemmo, se le leggi dicessero: «Socrate, ci siamo accordati anche in questo, tu e noi, o piuttosto di attenerci alle sentenze pronunciate dalla città?, Se ci meravigliassimo delle loro parole, forse risponderebbero: «Socrate, non meravigliarti delle nostre parole, ma rispondi: anche tu sei solito servirti del domandare e rispondere. Che cosa hai da

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Non è lecito fare uiohmza alle leggi e alla patrio anche se shagliano

Socrate era lihe••o di lasciare Atene se non approuaua le sue leggi

rimproverare a noi e alla città, per cercare di distruggerci? Prima di tutto, non siamo noi che ti abbiamo fatto nascere? Non è per mezzo nostro che tuo padre sposò tua madre e ti generò? Rispondi dunque: a quelle leggi tra noi che regolano i matrimoni, rimproveri di non essere buone?, «Non rimprovero nulla,, risponderei. «E a quelle che regolano l'allevamento e l'educazione dei figli, in cui anche tu sei stato educato? Le leggi dirette a questo scopo non hanno disposto bene, prescrivendo a tuo padre di educarti nella tecnica delle Muse 1 e nella ginnastica?, «Bene,, risponderei. «Sia. Ma poiché sei nato e sei stato allevato ed educato,,potresti dire in primo luogo di non essere nostro figlio e nostro servo, tu e i tuoi progenitori? Se è così, credi che tra te e noi i diritti siano uguali e che tu abbia il diritto di ricambiare qualsiasi cosa noi tentiamo di farti? O mentre di fronte a tuo padre o al tuo padrone, se ne avevi uno, il tuo diritto non era uguale al loro, non avevi cioè il diritto di ricambiare i mali che ne subivi e di ribattere se oltraggiato e percuotere se percosso e altre cose simili; di fronte alla patria e alle leggi invece questo ti sarà permesso, per cui, se tentiamo di mandarti a morte, ritenendolo giusto, cercherai in cambio, per quanto ti è possibile, di mandare a morte noi, le leggi e la patria; e dirai che facendo questo agisci giustamente, tu che pratichi veramente la virtù? O sei così sapiente da non esserti accorto che la patria è più pregevole, venerabile e sacra della madre, del padre e di tutti gli altri progenitori ed è tenuta in maggior conto dagli dei e dagli uomini intelligenti? e che la patria anche nella sua ira deve essere rispettata, obbedita e venerata più di un padre, e si deve o persuaderla o fare ciò che comanda e soffrire se ci impone di soffrire, con tranquillità, e lasciarsi percuotere o incatenare e, se ci conduce in guerra per essere feriti o morire, lo si deve fare, perché questo è giusto, e non si deve cedere né ritirarsi né abbandonare il proprio posto, ma in guerra, nel tribunale e ovunque bisogna fare ciò che la città e la patria comandano o persuaclerla da che parte è il giusto, mentre non è cosa santa fare violenza alla madre e al padre ed ancor meno alla patria?» Che cosa risponderemo, Critone, a queste 'parole? Che le leggi dicono la verità o no? CRITONE - A me pare eli sì. SocRATE - «Osserva, dunque, Socrate,, potrebbero continuare le leggi, «Se è vero ciò che diciamo, cioè che non è giusto ciò che ora cerchi eli farci. Noi che ti abbiamo generato, allevato, educato, che abbiamo partecipato a te e a tutti gli altri cittadini tutti i beni eli cui disponevamo, dichiariamo tuttavia eli aver dato a chiunque degli Ateniesi lo desideri, quando sia stato iscritto come cittadino e conosca le faccende della città e noi leggi, la possibilità, se non siamo eli suo gradimento, eli prendere le proprie cose e anelarsene dove vuole. Nessuna eli noi leggi ostacola o vieta a chi eli voi vuole andare in colonia, se noi e la città non siamo eli suo gradimento, o a risiedere in qualche paese straniero, eli apdare dove vuole, con le proprie cose. Ma chi eli voi rimane qui e vede il modo con cui pronunciamo le sentenze e amministriamo la città nel resto, diciamo che costui eli fatto ormai ci ha dato il con-

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1. Per i Greci la «tecnica delle Muse» concerneva l'educazione intellettuale e culturale complessiva di un giovane.

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senso che farà ciò che ordiniamo; e se egli non obbedisce, diciamo che commette ingiustizia in tre modi: l) perché disobbedisce a noi che lo abbiamo generato; 2) perché disobbedisce a noi che l'abbiamo allevato; 3) perché, dopo aver consentito ad obbedirci, né obbedisce né cerca di persuaderei, se non facciamo bene qualcosa, quantunque noi proponiamo e non imponiamo rudemente di fare ciò che comandiamo, ma lasciamo la scelta di una delle due cose: o di persuaderei o di eseguire, mentre egli non fa né una cosa né l'altra. Non son11le leggi 11

commettere ingiustizia, ma gli uomini

Socrate, obbedisci a noi che ti abbiamo allevato e non apprezzare i figli, la vita e ogni altra cosa più della giustizia, affinché, giunto nell'Ade, tu possa dire tutto questo in tua difesa a quelli che comandano laggiù. Come qui lo scappare non sembra meglio né più giusto né più santo, né per te né per nessun altro dei tuoi, così non sarà meglio neppure là, una volta che tu vi sia giunto. Ora te ne vai, se consenti, dopo aver subito ingiustizia, non da noi leggi, ma dagli uomini. Se invece fuggirai così vergognosamente, ricambiando ingiustizia con ingiustizia e male con male, violando i patti e gli accordi assunti con noi e facendo male a coloro cui meno dovresti, cioè a te stesso, agli amici, alla patria e a noi, finché vivrai noi ti perseguiteremo e laggiù le nostre sorelle, le leggi dell'Ade, non ti accoglieranno benevolmente, sapendo che per quanto sta in te hai cercato di distruggere anche noi. Non !asciarti èonvincere ad assecondare le proposte di Critone più che le nostre".

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Platone, Critone, XII, XIII, XVI

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La verità e la parola ali domande acquistano nella riflessione filoso- · fica della p6lis una centralità indiscutibile; le ri~ sposte formulate dai sofisti e Socrate presenta~ no i frutti di una discussione radicale e profonda coinvolge non soltanto intellettuali e uomini di cultura, ma rischia di strappare il tessuto stesso della p6lis, contrapponendo la generazione dei padri a quella dei figl( I primi, agganciati alla tradizione e quindi a una univoca della realtà delle cose; i secondi, aperti alle novità, pronti a cambiare il punto di vista per modificare usi e costumi della città. Netto anzitutto appare, in campo filosofico, il contrasto con la fiducia dei filosofi precedenti e dei naturalisti contemporanei circa la possibilità di risalire ai principi o alla struttura dell'essere. Si affaccia inoltre con forza la tesi ben più radicale che sia impossibile per l'uomo cogliere o parlare della realtà e che il mondo umano sia confinato nel regno delle apparenze e delle parole. A queste tendenze, proprie dei sofisti, cercò di reagire SoCl·ate con la sua attività filosofica improntata alla ricerca del vero attraverso il dialogo e il continuo esame delle idee.

P.P. dalle Masegne, Arca di Giovanni da Legnano, Studenti universitm·i (part.), 1383, Bologna, Museo civico medievale.

Protagora: tutto è vero Non esiste un mondo se non per come esso appare soggettivamente a ciascun uomo;

tutto è opinione e tutto è vero, sosteneva Protagora ~, dal momento che si deve ritenere per vero cLò che si manifesta direttamente alle nostre sensazioni ~11-11. Non è il vero, bensì l'utile, o il buono o il migliore, l'unico criterio adeguato a distin· guere tra posizioni e opinioni diverse ed è compito del sapiente, abile nell'arte retorica, persuadere e convincere gli altri uomini di ciò che è più utile per loro stessi e per la loro città in un dato momento. Dal punto di vista della verità, infatti, per ogni tesi è possibile sempre avanzare una tesi contraria, altrettanto opinabile e altrettanto sostenibile. Retori e sofisti non hanno il potere di conoscere la realtà delle cose, ma quello di combinare la disposizione d'animo verso di esse, mediante discorsi persuasivi che agiscono come farmaci nell'animo di chi ascolta, facendo apparire buone o cattive le medesime cose a seconda dell'utilità del mo· mento e della circostanza ~>111-38.

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!làr:@J.ill L'uomo è misura di tutte le cose

Il sofista aiuta l'uomo a scegliei'O

le cose migliori Nulla è più vero di qualcos'altro: esistono solo cose migliori o peggiori

Io dico, infatti, che la verità è come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e di quelle che non sono, ma siamo immensamente differenti l'uno dall'altro proprio per questo, che per uno appaiono e sono certe cose e per un altro invece altre. E sono ben lontano dal negare che esistano sapienza e sapienti, anzi chiamo sapiente proprio colui che, operando un mutamento, ad uno di noi per il quale certe cose appaiono e sono cattive, le fa apparire ed essere buone. Tu, d'altra parte, non incalzare il mio discorso attaccandoti alle parole; apprendi invece ancora più chiaramente in questo modo che cosa voglio dire. Ricordati ad esempio quanto si diceva prima, che per il malato appaiono e sono amare le cose che mangia, mentre per il sano sono e appaiono il contrario. Non bisogna dunque stimare più sapiente l'uno o l'altro di questi - infatti non sarebbe neppure possibile - né bisogna dichiarare ignorante il malato per il fatto che ha tale opinioné e sapiente, invece, il sario perché ha opinione diversa. Occorre invece operare un mutamento nell'altra direzione, perché una delle due disposizioni è migliore. Così anche nell'educazione bisogna operare un mutamento da una disposizione a quella migliore. Solo che il medico opera mutamenti con farmaci, mentre il sofista lo fa coi discorsi. Del resto nessuno mai ha fatto sì che qualcuno da un'opinione falsa passasse in seguito ad avere un'opinione vera, perché non è possibile opinare né ciò che non è né cose diverse da quelle che si subisce, anzi queste sono sempre vere. Credo invece che a colui che per una cattiva disposizione di anima abbia opinioni congeneri ad essa, un'anima in buone condizioni possa far opinare cose conformi ad essa, che sono appunto le apparenze che alcuni per inesperienza chiamano vere ed io invece migliori le une delle altre, ma per nulla più vere. E i sapienti, caro Socrate, sono ben lontano dal chiamarli ranocchi, anzi riguardo ai corpi li chiamo medici e riguardo alle piante agricoltori. Io affermo, infatti, che anche costoro, quando qualche pianta si ammali, fanno nascere in essa al posto di sensazioni cattive, sensazioni e disposizioni buone e sane, mentre i sapienti e buoni retori fanno sì che alle città appaiano giuste le cose buone anziché quelle cattive. Poiché le cose che a ciascuna città paiono giuste e belle, tali anche sono per essa, finché le decreti tali; ma il sapient~ al posto di quelle che di volta in volta sono cattive per essi ne fa apparire ed essere altre buone. In base allo stesso ragionamento anche il sofista, essendo in grado di educare in questo modo quelli che educa, è sapiente e merita grandi compensi da coloro che siano stati educati. E in questo modo alcuni sono più sapienti di altri e nessuno apina il falso e tu, lo vogl'ia o no, devi rassegnarti ad essere misura, giacché con queste considerazioni la mia tesi è salvata.

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Platone, Teeteto, pp. 261-262

Gorgia: niente è vero Non esiste un mondo, se non come un universo apparente di parole, con le quali i retori e i poeti incantano e illudono; per Gorgia lliillJ niente è vero, come niente è falso e niente è opinabile. Nella sua opera perduta Sulla natura o sul non essere, dopo aver dimostrato che nulla è, Gorgia dimostrava che l'essere non è conoscibile, né esprimibile. La tecnica argomentativa era quella già utilizzata da Zenone: ridurre all'assurdo la tesi contraria. Il brano proposto è tratto dalla testimonianza di Sesto Empirico.

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Il primo argomento riguarda la non pensabilità delle cose che sono. Esso parte dal presupporre una relazione biunivoca tra il pensiero e l'essere: se le cose che sono, sono pensate, allora anche le cose pensate, sono. Ma ciò è falso, in quanto possiamo pensare molte cose che non esistono, come carri alati o altro. Di conseguenza anche la prima affermazione (le cose che sono, sono pensate) è falsa ~>11-14. La dimostrazione prosegue con un secondo argomento che presuppone un'altra equivalenza: se le cose pensate sono, allora le cose che non sono pensate non sono. Tuttavia dobbiamo riconoscere che esistono molte realtà, che non sono pensate ~>114-28. Il terzo argomento riguarda la non comunicabilità delle conoscenze. Infatti, se conosciamo qualcosa con la vista, come potremmo dirlo con parole, ovvero con suoni che interpellano non la vista, ma l'udito? L'essere, posto al di fuori del soggetto, non può essere tradotto con strumenti comunicativi propri del soggetto ~>129-38. Inoltre, la parola per Gorgia non è in grado di rappresentare la realtà perché nasce dall'incontro con una sensazione soggettiva, stimolata da una realtà esterna. È questa sensazione che conferisce senso alla parola, non viceversa. Per tutte queste bragioni le parole non sono in grado di significare i molteplici aspetti del reale ~>138-54.

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L'essere 11011 può essere pensato

L'essm•e non può esseJ•e cnm1micatn

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Bisogna, poi, dimostrare che, anche se qualcosa è, questo non è conoscibile né pensabile da un essere umano. Se infatti- dice Gorgia -le cose pensate non sono, l'essere non è pensato. Anche questo è secondo ragione: infatti, se alle cose pensate si è attribuito il fatto di essere bianche, si attribuisce anche alle cose bianche l'essere pensate; analogamente, se si è attribuito alle cose pensate di non essere, si attribuirà necessariamente alle cose che sono eli non essere pensate. Perciò la conclusione «Se le cose pensate non sono, l'essere non è pensato" risulta giusta e corretta. Le cose pensate (bisogna partire da qui) non sono esistenti, come dimostreremo, pertanto l'esistente non è pensato. Dunque, che le cose pensate non siano, è manifesto. Se, infatti, le cose pensate sono, tutti i pensati sono, quale che sia il modo con cui li si pensa. Ciò è contrario all'evidenza. Non perché qualcuno pensa un uomo che vola o carri che corrono sul mare, subito un uomo vola o carri corrono sul mare. Quindi, le cbse pensate non sono. Ancora, se le cose pensate sono, le cose che non sono non saranno pensate. A realtà contrarie si attribuiscono predicati contrari, e all'essere è contrario il non-essere. Per questo, se all'essere si attribuisce la pensabilità, al non-essere si attribuirà in modo assoluto la non pensabilità. Ma ciò è assurdo; infatti, si pensano Scilla, la Chimera e molte altre cose che non sono. Pertanto, l'essere non è pensato. Come gli oggetti della vista sono detti visibili proprio per questo, perché sono visti, e gli oggetti dell'udito sono eletti udibili proprio perché sono uditi, e non eliminiamo le realtà visibili perché non sono udite né respingiamo le realtà udibili perché non sono viste (infatti, ciascuna cosa deve essere giudicata dal proprio organo di senso, ma non da un altro), così pure le cose pensate, anche se non sono vedute dalla vista né udite dall'udito saranno, poiché sono concepite dal loro proprio organo di giudizio. Se, dunque, qualcuno pensa carri che corrono sul mare, anche se non li vede, deve credere che esistano carri che corrono sul mare. Ciò è .assurdo. Pertanto, l'essere non è pensato né compreso. E anche ammesso che sia compreso, non può essere comunicato ad un altro. Se infatti gli enti, quelli che esistono fuori «del soggetto sensibile", sono visibili, udibili e in genere percepibili, e di questi quelli visibili sono percepibili con la vista, quelli udibili con l'udito e non l'inverso, come è possibile, allora, ma-

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la llilrola mm può rappl'l!lllmtaa•e la realtà

nifestarli a un altro? Infatti, ciò con cui manifestiamo è la parola, ma la parola non coincide con le cose che sono. Pertanto, agli altri non manifestiamo le cose che sono, ma la parola che è diversa dalle cose che sono. Dunque, come la realtà visibile non può diventare udibile e viceversa, così l'essere, in quanto è al eli fuori del soggetto, non può diventare una nostra parola. Non essendo una parola, l'essere non può venir manifestato ad un altro. La parola- Gorgia dice - si forma a causa dell'azione esercitata su di ~oi dagli oggetti esterni, cioè dai corpi sensibili; infatti, dall'incontro con il sapore nasce in noi la parola che concerne questa qualità e dall'impressione del colore quella relativa al coiore. Se è così, non è la parola che rappresenta la realtà esterna, ma è la realtà esterna che dà senso alla parola. E neppure è possibile dire che, come le realtà visibili e udibili hanno una esistenza reale, allo stesso modo esiste anche la parola, eli modo che le sia possibile, sulla base della sua reale esistenza, indicare anche gli enti realmente esistenti. Se anche- Gorgia dice- la parola ha un'esistenza reale, tuttavia differisce da tutte le altre realtà, soprattutto i corpi visibili sono diversi dalle parole; infatti, la realtà visibile è percepibile per mezzo di un organo, la parola per mezzo di un altro. Pertanto, la parola non è in grado di significare la maggior parte delle realtà, come neppure queste chiariscono reciprocamente la loro natura. Dunque, date tali difficoltà sollevate da Gorgia, è perduto, per quanto le concerne, il criterio eli verità: infatti, non può esistere alcun criterio di ciò che non è, né può venire conosciuto né può essere comunicato ad un altro.

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Sesto Empirico, Contro i matematici, 78-82, I presocratici, DK 82 B 3, pp. 1619-1623

Socrate: il dialogo come ricerca del vero Il testo riportato~ è tratto da alcuni passaggi del dialogo Eutidemo di Platone e mostra gli aspetti che dovevano essere propri del filosofare di Socrate. Eutidemo e Dionisodoro, i due protagonisti principali- realmente esistiti- del dialogo, sono due sofisti appena giunti in città, esperti nell'arte eristica, ossia nell'arte della disputa verbale ~>11-24. Socrate racconta a Critone l'incontro avvenuto con loro nel Liceo e della dimostrazione che essi hanno tenuto del loro sapere interrogando il giovane Clinia. Evidente nei loro esempi di argomentazione è l'abilità di confondere l'interlocutore con domande brevi e incalzanti, di giocare con i doppi sensi linguistici, al fine di confutare l'avversario facendogli ammettere il contrario di quanto aveva prima sostenuto ~>125-50. Prima riescono a condurre Clinia alla conclusione che solo gli ignoranti apprendono e poi, subito dopo, che sono i sapienti ad apprendere ~~>151-60. Negli interventi di Socrate sembra emergere invece un'altra ben diversa funzione del domandare, tesa a ricercare un punto di vista comune con l'interlocutore, intrattenere con lui un vero e proprio dialogo. Socrate interroga Clinia su cosa sia il bene per gli uomini. Dopo aver menzionato elementi esteriori come la ricchezza o fortuiti e naturali come la salute e la bellezza, Socrate conduce il suo interlocutore a riconoscere come beni le virtù e come componente imprescindibile del successo e della realizzazione personale la virtù suprema della sapienza ~>161-136. La sezione finale presenta un confronto tra Socrate, Eutidemo e Dionisodoro: dopo una serie di scambi di battute, la disputa dialettica si conclude con la raggiunta consapevolezza socratica di non potere proseguire sulla base dell'eristica un dialogo costruttivo, fecondo ~>1137-208.

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Som•ute, con euidente ironia, elogiu i due sofisti Eutidemo e llionisodm•o

Con l'eristica, Eutidemo mette in difficoltà il giouane Clinia

SocRATE - Di famiglia, credo, sono originari di Chio 1 o lì vicino, poi sono emigrati a Turii2 ; ma esiliati di là, sono già molti anni che vivono da queste parti. Quanto alla loro sapienza, della quale mi chiedi, è meravigliosa, Critone: sono proprio sapienti in tutto e prima d'ora non sapevo che cosa fossero i lottatori al pancrazio, perché essi sono veramente preparati ad ogni sorta di combattiment~, non come i due fratelli Acarnani, lottatori al pancrazio3 , che erano capaci di combattere soltanto con il corpo; essi, invece, sono in primo luogo abilissimi con il corpo [e nel combattimento, dove possono vincere tutti], perché sono molto capaci nel combattimento in armi e possono render tale anche un altro, che paghi un onorario; in secondo luogo sono fortissimi nel combattere nell'agone giudiziario e nell'insegnare ad altri a pronunciare e a scrivere discorsi adatti per i tribunali. Prima d'ora erano abili solo in questo, ma adesso hanno raggiunto la perfezione nella tecnica della lotta al pancrazio: ora esercitano anche il solo combattimento rimasto intentato da essi, tanto che non c'è più nessuno in grado di contrastarli: così abili sono diventati nel combattere nelle discussioni e nel confutare qualsiasi cosa si dica, vera o falsa che sia. Io, Critone, ho in mente di affidarmi a questi due uomini, perché affermano anche di saper rendere abile in questo campo chiunque altro in poco tempo. CRITONE - Ma, Socrate, non temi alla tua età di essere ormai troppo vecchio? SocRATE- Per nulla, Critone: ho una prova e un incoraggiamento sufficienti per non temere, perché anch'essi, per così dire, hanno cominciato da vecchi a dedicarsi a questa sapienza che io desidero, cioè all'eristica; un anno o due fa non ne erano affatto competenti. [... l Eutidemo cominciò pressappoco così, credo: "Clinia, quali sono tra gli uomini quelli che apprendono, i sapienti o gli ignoranti?» Il ragazzo, come se la domanda fosse difficile, arrossì e, essendo in difficoltà, guardò verso di me. Ed io, accortomi che era turbato, dissi: «Forza, Clinia, rispondi coraggiosamente quale delle due risposte ti sembra. Forse ne stai ricavando il massimo guadagno». In quel momento Dionisodoro, piegatosi un poco verso il mio orecchio, tutto sorridente in volto, disse: «Ti predico, Soct·ate, che qualunque delle due risposte il ragazzo dia, sarà confutata». Mentre mi diceva questo, Clinia rispose, sicché non potei neppure avvertirlo di stare attento: aveva risposto che quelli che apprendono sono i sapienti. Ed Eutidemo: "Chiami alcuni maestri, disse, o no?» Ammise di sì. «E i maestri sono maestri di quelli che apprendono, come il maestro di cetra e quello di grammatica erano appunto maestri tuoi e degli altri bambini e voi, invece, ne eravate allievi?» Assentì.

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ll. Chio è un'isola delle Sporadi, nel mar Egeo. 2. Turii era la colonia fondata da Feride verso i\444 a.C., sul posto dove prima sorgeva Sibari, nel golfo

di Taranto. 3. Il pancrazio era un esercizio sportivo in cui si fondevano lotta e pugilato. Niente si sa dei due ,> «Sia, dissi. Ma come faccio? Farò come comandi. Quando non so quel che chiedi, mi comandi tuttavia di rispondere, ma senza reinterrogare?» «Infatti, comprendi qualcosa di ciò che dico?", chiese. «Sì,, risposi. «Allora rispondi a ciò che comprendi», «Ma, dissi, se tu interroghi intendendo in un modo ed io comprendo in un altro e poi rispondo a ciò che ho capito, ti basta, anche se non rispondo affatto a proposito?» «A me sì, rispose; ma non a te, credo». «No, per Zeus, dissi, e non risponderò prima di aver capito», . Euribate e Frinonda erano due malfattori proverbiali nella letteratura t; nell'immaginario del tempo, presenti in Aristofane e Isocrate.

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storo; è facilissimo invece trovarne uno degli inesperti: così è della virtù e di tutte le altre cose. Ma se vi è qualcuno che anche di poco ci supera nel far progredire verso la virti:l, bisogna accontentarsi. Io credo di essere uno di questi e di potere, più degli altri, aiutare chiunque a diventare un perfetto galantuomo e di meritarmi il compenso che chiedo, anzi uno ancora maggiore, come stimano i miei stessi allievi. Ho quindi escogitato questa procedura per il pagamento del mio compenso: terminato l'insegnamento, l'allievo, se vuole, mi paga la somma che chiedo; altrimenti, entra in un tempio, dichiara sotto giuramento quanto valgono i miei insegnamenti e ne sborsa l'importo. Ecco, Socrate, disse, ti ho mostrato con mito 4 e ragionamento che la virti:l è insegnabile di questo parere sono anche gli Ateniesi e che non vi è nulla di strano se da buoni padri provengano figli inetti e da padri inetti figli buoni. [.. .],

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[Socrate] «C'è qualcosa che chiami stoltezza?,

La stoltezza è il cont•·ariu

della saggezza

«A questa cosa non è del tutto contraria la sapienza?» «Sì, mi pare,, rispose. «Quando gli uomini agiscono rettamente e utilmente, ti pare che siano saggi nell'agire così o al contrario?•• «Saggi», rispose. «E sono saggi per saggezza?» «Necessariamente». «Quelli che non agiscono rettamente, agiscono stoltamente e non sono saggi?» «A me pare,, rispose. «Agire stoltamente è il contrario dell'agire saggiamente?» Disse di sì. «Le azioni stolte sono compiute con stoltezza e quelle sagge con saggezza?» Lo ammise. «Se si compie qualcosa con forza, si agisce fortemente; se si compie con debolezza, debolmente?» Era dell'opinione. «E se si compie qualcosa con velocità, si agisce velocemente; se con lentezza, lentamente?» Annuì. "E se si agisce in un certo modo, si agisce per una cosa, se si agisce nel modo opposto, per la cosa opposta?» Assentì. «Il bello, aggiunsi, è qualcosa?» Lo ammise. «Ed ha per contrario qualcosa che non sia il brutto?» «NO», «Inoltre, il buono è qualcosa?,

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4. Il riferimento è al mito di Prometeo ed Eplmeteo in cui Protagora racconta come gli uomini abbiano ricevuto in dono l'arte e la giustizia per sopravvivere e regolare i rapporti nella comunità.

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«Ed ha per contrario qualcosa che non sia il cattivo?,, «NO>>, «Ancora: l'acuto nella voce è qualcosa?"

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Ogni CDIIi! ha 1111 solo Cllllil'lll'iD

«Ed ha per contrario qualcos'altro che non sia il basso?, «No", rispose. «Dunque, dissi, ciascuno dei contrari ha un solo contrario e non molti?, Ne convenne. «Riepiloghiamo i punti che abbiamo riconosciuto, dissi. Abbiamo ammesso che una cosa ha un solo contrario e non più?" «Lo abbiamo ammesso». «E che agire in modo contrario equivale ad agire per cause contrarie?, «Abbiamo ammesso inoltre che agire stoltamente equivale ad agire in modo contrario all'agire saggiamente?" Annul. «E che l'agire saggiamente è agire per saggezza e agire stoltamente lo è per stoltezza?" Lo riconobbe. «Dunque se si agisce in modo contrario, si agisce per una causa contraria?"

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«Si agisce in un modo per saggezza, in un altro per stoltezza?" «In modo contrario?» «Certo". «Dunque per cause contrarie?»

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«La stoltezza, allora, è contraria alla saggezza?, «Mi sembra". ,m ricordi che in precedenza abbiamo ammesso che la stoltezza è contraria alla sapienza?,

Saggezza e sapienza

sono la ste!l!lllllirtìi

«E che una cosa ha un solo contrario?" «Certo". «Allora, Protagora, quale delle due affermazioni dobbiamo ritirare? Quella per cui una cosa ha un solo contrario o quella in cui si diceva che la sapienza è diversa dalla saggezza e ciascuna di esse è parte della virti:1, e, oltre ad essere diversa, è dissimile in se stessa e nelle sue funzioni come le parti del volto? Quale delle due dobbiamo ritirare? Queste due affermazioni non si conciliano molto: non concordano né si armonizzano tra loro. E come potrebbero concordare, se necessariamente una cosa ha un solo contrario e non più, mentre alla sola stoltezza appaiono contrarie la sapienza e la saggezza? È cosl, Protagora, chiesi, o diversamente?, A malincuore lo ammise.

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Platone, Pratagora, IX, XV, XVI, XX

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la funzione del sapere: Socrate e Gorgia a confronto Nel brano proposto~. tratto dal Gorgia di Platone, il tema dell'educazione e della finalità del sapere è affrontato da molteplici prospettive. Gorgia, dopo aver esaltato la potenza della retorica, difende e teorizza apertamente il valore neutrale dell'insegnamento e con esso l'irresponsabilità del maestro. Per Gorgia la virtù non è,insgnabile, il maestro trasmette soltanto un sapere tecnico e specialistico che di per sé non può essere ritenuto causa delle azioni del discepolo. Conoscere ed agire bene, sapere e virtù sono orizzonti dell'agire umano che possono non coincidere; colui che sa, può utilizzare la propria conoscenza per il male così come per il bene ~>11-50. Socrate, nel dialogo, prova invece a mostrare al suo interlocutore, confutandolo, l'impossibilità di scindere il sapere da un contenuto, sia pur presunto, di verità morale.

l discorsi dei retori vertono, infatti, su ciò che è giusto, bello, buono e su ciò che non lo è. Di conseguenza il retore deve conoscere queste realtà morali e saperle insegnare a chi non le possiede, insieme alle tecniche di persuasione. Cgn un'argomentazione stringente Socrate costringe Gorgia ad ammettere che anche il retore deve essere un uomo giusto e responsabile dei propri insegnamenti ~>151-118. ·

t{ey_ì§}j llpotere della &•etm·ica

GoRGIA- Cercherò, Soct·ate, eli svelarti chiaramente tutto il potere della retorica: sei tu stesso ad indicarmene la via. Tu sai certamente che questi arsenali, le mura di Atene e la costruzione dei porti sono dovuti in parte al consiglio eli Temistoclet, in parte a quello eli Pericle 2 , ma non a quello degli uomini del mestiere. SocRATE - Così si dice di Temistocle; quanto a Pericle, io stesso l'ho sentito quando ci consigliava la costruzione del muro mediano. GoRGIA- Quando si tratta di scegliere ciò che dicevi poco fa, Soct·ate, vedi che sono i retori a consigliare e a far prevalere il loro parere su questi problemi. SocRATE - Proprio perché mi meraviglio di questo, Gorgia, da tempo chiedo qual è il potere della retorica. A considerarla così, mi pare veramente di una grandezza divina. GoRGIA- Se tu sapessi tutto, Socrate, riconosceresti che, per così dire, essa raccoglie e tiene sotto eli sé tutti i poteri. Te ne darò una grande prova: spesso ho accompagnato mio fratello e altri medici da qualche malato, che rifiutava di bere una medicina o di mettersi a disposizione del medico per incisioni o cauterizzazioni e, quando il medico non riusciva a persuaderlo, lo persuadevo io con la sola tecnica della retorica. Io affermo che se un retore e un medico, giunti insieme nella città che vuoi, dovessero dibattere a parole nell'assemblea o in qualche altra riunione per decidere chi dei due deve essere scelto come medico, il medico scomparirebbe assolutamente e sarebbe scelto, se lo volesse, colui che è capace di parlare. E se disputasse con qualsiasi altro artigiano, il retore saprebbe persuadere più di ogni altro a sce-

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1. Temistocle fu uno dei piì:1 importanti uomini politici eli Atene durante le guerre persiane. Nel493-492

a.C., fu eletto arconte e promosse la costruzione del porto fortificato del Pireo. Convinse poi gli Ateniesi a dotarsi eli una forte flotta e nel 480 a.C. fu l'artefice della vittoria i1avale eU Salamina contro i Persiani eli Serse. 2. Pericle continuò la politica eli Temistocle, fortificando il Pireo e costruendo le mura che collegavano la città al porto.

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Occorre fan·e buon 111111 della a·etlll'ica

Chi insegna l'ar•te l'lltllrir.a 111111 è responsabile del suo Ci!Uilllli!Sil

Per impaa•aa·e l'a••te della l'etorica bisogna sapere ciò che è giusto e ciò che non lo è

gliere lui: non vi è cosa su cui il retore non possa parlare davanti alla folla in modo più persuasivo di qualunque uomo del mestiere. Tale e così grande è il potere della tecnica retorica. Tuttavia, Socrate, bisogna far uso della retorica come di ogni altra tecnica competitiva. Di ognuna di queste non bisogna far uso contro tutti gli uomini: il fatto che si sia imparato a fare a pugni, a lottare al pancrazio3 e a combattere con le armi in modo da battere amici e nemici, non è un motivo per colpire gli amici, ferirli o ucciderli. Così per Zeus, se uno, a forza eli frequentare la palestra, è diventato robusto nel corpo e buon pugile e si mette quindi a picchiare il padre, la madre o qualcun altro dei suoi familiari o degli amici, ciò non è un motivo per odiare e cacciare dalla città i maestri di ginnastica e quelli che insegnano a combattere con le armi. Costoro hanno trasmesso la loro tecnica perché ne fosse fatto un giusto uso contro i nemici e quanti commettono ingiustizia, per difendersi, non per sopraffare. Quelli che la pervertono ad altri scopi fanno un uso scorretto della forza e della tecnica. La tecnica non è colpevole né cattiva per tale motivo, e malvagi, dunque, non sono i maestri ma coloro che ne fanno un uso scorretto, credo. Lo stesso discorso si applica alla retorica. Il retore è capace di parlare contro tutti e su ogni argomento, sicché in breve riesce alla folla più persuasivo di ogni altro rispetto a tutto ciò che vuole: nondimeno, non deve togliere la reputazione al medico, per il fatto che potrebbe farlo, né agli altri artigiani. Deve, invece, usare la retorica, come ogni tecnica competitiva, con giustizia. Se un uomo, credo, divenuto abile retore, si serve in seguito di questo potere e eli questa tecnica per commettere ingiustizia, non si deve odiare il suo maestro e cacciarlo dalle città: quest'ultimo ha trasmesso la ·sua tecnica per il giusto uso, l'altro invece ne fa un uso contrario. È giusto, dunque, odiare, esiliare e uccidere chi ne fa un uso scorretto, ma non chi l'insegna. SocRATE - Ora, invece, esaminiamo prima se, a proposito del giusto e dell'ingiusto, del brutto e del bello, del buono e clél cattivo, il retore sia nella stessa situazione in cui si trova a proposito della sanità e delle altre cose di cui si occupano le altre tecniche, cioè se, pur non sapendo che cosa è buono e che cosa è cattivo o che cosa è bello e che cosa è brutto, giusto o ingiusto, ha tuttavia congegnato a proposito di ciò un meccanismo di persuasione che lo fa apparire, davanti a coloro che non sanno, più sapiente di colui che sa. Oppure è necessario che chi intende apprendere la retorica sappia queste cose e le sappia prima eli venire da te? Se non le sa, tu, maestro della retorica, non insegnerai nulla a chi si reca da te, perché non è tuo compito, ma farai sì che egli dia l'impressione ai più eli sapere queste cose, pur non sapenclole, e di essere buono pur non essendolo? Oppure non sarai in grado di insegnargli la retorica, se non conosce prima la verità su queste cose? Come sta la questione, Gorgia? Per Zeus, svelami, carne hai detto poco fa, qual è il potere della retorica. GoRGIA- Io credo, Socrate, che, se non sa queste cose, le apprenderà da me. SocRATE - Basta: hai detto bene. Se tu rendi qualcuno esperto nella retorica, è necessario che egli conosca il giusto e l'ingiusto, sia che lo sappia prima sia che lo abbia appreso, dopo, da te.

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3. Il pancrazio era un esercizio sportivo in cui si fondevano lotta e pugilato.

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L'esperto di retorica deue essere necessa••iamente giusto

GoRGIA- Certo. SocRATE - Chi ha appreso gli elementi dell'architettura è architetto o no? GORGIA- Sì. SOCRATE - E chi ha appreso gli elementi musicali è musico? GORGIA- Sì. SocRATE - E chi quelli della medicina è medico? Anche al resto si applica lo stesso discorso: chi ha appreso gli elementi di tale quale è reso da questa scienza? GoRGIA - Certo. SocRATE - In base allo stesso discorso, anche chi ha appreso ciò che è giusto è giusto? GoRGIA- Indubbiamente. SocRATE- Ma il giusto compie azioni giuste. GORGIA- Sì. SocRATE- È necessario, dunque, che l'esperto nella retorica sia giusto e che il giusto voglia compiere azioni giuste? GoRGIA - Sembra. SOCRATE- Il giusto, dunque, non vorrà mai commettere ingiustizia. GORGIA- Necessariamente. SocRATE- Dal ragionamento risulta che l'esperto nella retorica è necessariamen~~~.

insegnare retm·ica è insegnare ad essere giusti

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Chi insegna retrl!'ica può esl!el'e neutrale

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GORGIA- Sì. SocRATE- L'esperto in retorica non vorrà mai commettere ingiustizia. GORGIA- Pare di no. SocRATE - Ti ricordi di aver detto poco fa che non bisogna incolpare i maestri di ginnastica né cacciarli dalle città, se un pugilatore usa ingiustamente la tecnica del pugilato e commette ingiustizia e che, allo stesso modo, se un retore usa ingiustamente la retorica, non bisogna incolpare e cacciare dalla città chi l'insegna, ma chi commette ingiustizia e non usa correttamente la retorica? Si è eletto o no? GORGIA- Si è eletto. SocRATE - Ora, invece, pare che quest'uomo espetto in retorica non potrebbe mai commettere ingiustizia. Non è così? GORGIA - Sembra. SocRATE- All'inizio della discussione, Gorgia, si diceva che la retorica concerne discorsi, non quelli sul pari e sul dispari, ma quelli sul giusto e sull'ingiusto; è così? GORGIA- Sì. SocRATE -Allora, al sentirti dir queste cose, supposi che la retorica non poteva affatto essere una cosa ingiusta, perché produce sempre discorsi sulla giustizia. Ma poco dopo hai detto che il retore potrebbe anche usare la retorica ingiustamente: allora io mi stupii e, considerando queste affermazioni in disaccordo, pronunciai quei discorsi. Io dissi che, se reputavi un guadagno l'essere confutato, come lo reputo io, valeva la pena discutere; in caso contrario, era meglio lasciar stare. Proseguendo il nostro eQ:;tme, vedi tu stesso che giungiamo acl ammettere l'impossibilità che l'esperto di retorica usi ingiustamente la retorica e voglia commettere ingiustizia. Per il cane, Gorgia, non basta certo una breve conversazione per esaminare adeguatamente come stia tutto ciò.

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Platone, Gorgia, X, XI, XIV, XV

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La voce del contemporaneo

E'lf'2'!il Esponi le principali differenze tra il dialogo dei sofisti e quello di Socrate

1>['1--::J Cosa intende Giorgio Colli con l'espressione «isolamento del linguaggio dialettico»?

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1!21'4'!1 Illustra in quale modo l'eredità socratica si trasmetta alle scuole cinica, megarica e cirenaica.

Quali sono, a partire dalle tue conoscenze, le «forme espressive dell'arte» e «i prodotti della ragione connessi alla sfera politica» che accompagnano l'ingresso della discussione filosofica nell'Atene del V secolo a.C.? Elabora un elenco di contenuti che ritieni fondamentali per descrivere il contesto storico-culturale dell'Atene del V secolo.

1"3tJ Cosa è il demone socratico e come agisce?

La parola ai filosofi ~ Prendi in considerazione un brano del tema «l filo-

sofi, gli dei e la religione» p. 142 sgg., dividilo in parti e assegna a ciascuna un titolo significativo.

Lo sguardo della tradizione

~

3

1&\'f'] Chiarisci la distinzione tra dialettica, retorica ed eristica, illustrando il testo del Teeteto platonico pre-

"'3i.m Presenta in 20-25 righe la concezione della giusti-

sentato a p. 167.

zia secondo Protagora, Callide, Trasimaco, Antifonte, Socrate.

1f12Z1 Illustra, con un componimento di 1O righe, in cosa consiste la cosiddetta «svolta antropologica» nel pensiero dei sofisti e Socrate. ~ In che senso Protagora afferma che «l'uomo

"'4121 Attribuisci ad ogni pensatore presente nel tema «l filosofi e le leggi» p. 157 sgg. un'espressione che definisca sinteticamente la sua concezione circa il fondamento delle leggi.

è mi-

sura di tutte le cose»? ~ Esprimi il rapporto tra natura e legge nella tradizio-

ne sofistica, eventualmente facendo un confronto con la riflessione sul medesimo tema da parte dei cosiddetti presocratici.

r;;;:~ Elabora uno schema in cui definisci la funzione del

linguaggio secondo questi pensatori: Protagora, Gorgia, Socrate. """~ Protagora titola una propria opera

La verità. Ma cos'è la verità per i sofisti? Rispondi dopo aver letto il brano !'i@ìli p. 167 del tema «La verità e la parola».

~ Nella conoscenza, in cosa differiscono «verità» e

«opinione» 7

"lF Esponi sinteticamente in che senso i sofisti insegnano la virtù. (massimo 6-8 righe)

~ Perché la virtù per Socrate non si insegna? Rispondi prima in 5 righe e poi in 2 circa.

~ Individua nel testo di Antifonte citato a p. 119 quattro-cinque espressioni a tuo giudizio fondamentali e chiarisci le mediante un breve apparato di note.

~ Perché Socrate ritiene di non poter disubbidire alle leggi?

~ In cosa consiste il metodo socratico?

'fi"

Qual è la valenza morale, politica esociale del culto religioso? Costruisci una tabella nella quale inserire le diverse posizioni concettuali.

~-m

Dopo aver letto il testo ruiDl p. 170 del tema «La verità e la parola», illustra in quale modo Socrate intende opporsi alla concezione sofistica della verità.

E\'i8tiill Dopo aver analizzato il testo a p. 148 rispondi alla domanda: in cosa consiste la sapienza che l'oracolo di Delfi attribuisce a Socrate? BE§&.!

In che senso per Socrate alla base dell'etica vi è la conoscenza? Discuti l'argomentazione di Socrate nel testo~ p. 176 del tema «La formazione dell'uomo e del cittadino».

Presenta la figura di Socrate in riferimento alle diverse fonti sul suo insegnamento.

183

Prova a pensare da solo

9

Elabora una breve trattazione delle seguenti questioni esprimendo le tue personali valutazioni: o

o o

o o

o o

o

o

Perché obbedire alle leggi? In quale modo ritieni possibile giustificare la democrazia?. Siamo davvero tutti eguali? Ritieni che la giustizia sia fattore di felicità? Che relazione c'è tra forza e giustizia? Pensi che gli dei siano un'invenzione umana? Esiste la verità? " Che senso ha affermare che pensiero e linguaggio sono la stessa cosa? Si pensa meglio da soli o con gli altri? Secondo la tua esperienza personale, esiste dentro di noi una specie di «voce» che dice cosa dobbiamo fare o non fare? Si può paragonare, a tuo avviso, il demone socratico con la coscienza? Sono la stessa cosa? Prendersi cura di sé è un'operazione che può assumere diversi significati. Ti prendi cura di te? E chi si prende cura di te? Confronta se questi modi di prenderti cura di te coincidono con la «cura di sé» a cui Socrate esorta i cittadini di Atene.

vuole attlibuirgli una dottlina o un pensiero precisi? In cosa consiste, al eli là degli elogi che ne fanno Platone e Senofonte, il suo vero insegnamento? Se cerchi una lisposta a queste domande e sei curioso di conoscere alcune interpretazioni moderne della controversa figura di Socrate, prova a leggere questo brevissimo saggio di Pierre Haclot e confrontalo con l'idea che ti sei fatto eli questo filosofo.

c;z::J Giovanni Reale, S@l:rate. Alla s«:@perii:a ©Jella

sapien2ta Mmafila, Milano Rizzoli, 2000. Perché Socrate affermava eli «sapere di non sapere"? Perché e in che modo tc1tto il pensiero socratico è riconducibile a questo atteggiamento di vita? A cosa era finalizzato? Queste tre questioni stanno alla base del saggio eli Giovanni Reale dedicato a Socrate, che contiene tra l'altro tre capitoli dedicati ai sofisti pii:1 importanti che erano · attivi acl Atene nel periodo in cui SoCl·ate si dedicò alla filosofia. Dopo aver letto questo libro, prova ad immaginare quali sono le cose che pensi eli sapere e quali invece le cose che sai di non sapere e interrogati sulle plime, se veramente le conosci oppure pensi di conoscerle.

c::3:=:~ Michael P. Lynch, ILa verit.iìJ e i

S[mi llilemici, Mi-

lano, Raffaello Cortina Editore- 2007.

q~ Pierre Hadot, EH(jgi@ di 5@«:/i"ate, Genova, Il Me-

langolo 1999. «Nel famoso elogio di SoCl·ate, a conclusione del Simposio, Alcibiade paragona Socrate a quei Sileni che nelle botteghe degli scultori servono da contenitori per le raffigurazioni degli dei. Così, l'aspetto esteriore eli Socrate, l'apparenza quasi mostruosa, brutta, buffonesca, impudente, non è che una facciata, una maschera" (Pierre Hadot). Cosa si cela dietro la maschera socratica? Perché Socrate fa uso della dissimulazione e dell'ironia? Come mai la figura di Socrate sfugge costantemente dalle mani eli chi

La verità può essere buona, ma perché non scegliere a volte la non-verità, se ci fa arrivare dove desideriamo andare? A conti fatti, è sempre meglio credere a cose vere e dire la verità? La verità stessa è importante? Oggi siamo piuttosto cinici circa il valore della verità: non è certo se esistano o meno verità oggettive e se sia conveniente o meno seguirle. Hanno ragione i relativisti, a cominciare dagli antichi sofisti, nel sostenere che la verità è un'illusione? La «verità" non viene sbandierata, in definitiva sempre da chi detiene il "potere»? La convinzione dell'autore eli questo saggio è un'altra: dobbiamo avere a cuore la verità se vogliamo difendere la libertà e la democrazia. La verità, infatti, è l'unico argomento «forte" contro le pretese di qualsiasi oppressore. Come cambia la tua nozione di verità dopo aver letto questo libro?

Verso un pensiero creativo

"'1-::::J Socrate fu condannato a morte nella democratica Atene, rifiutando \'aiuto degli amici che stavano studiando un piano per farlo fuggire dalla prigione e dalla città. Perché Socrate fu messo a morte? Perché, a sua volta, rifiutò la prospettiva della fuga, onorando le leggi della città? Durante la sua vita, secondo la testimonianza di Platone, uno dei confronti che lo impegnarono maggiormente fu quello con i sofisti, che insegnavano l'arte della retorica e le tecniche della persuasione: che rapporto c'è, in democrazia, tra potere e persuasione? Come «funziona» il potere? Quali ragionamenti e quali emozioni fanno sì che gli uomini si sentano «vincolati» entro rapporti di potere? E in quali casi si può o si deve esercitare un diritto di «resistenza contro il potere»?

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184

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Quali analogie e quali differenze potremmo trovare tra le società umane ed altre «società organizzate» osservabili nel mondo animale, a partire da quelle degli insetti? Gli «ordini sociali» che osserviamo sono l'esito di un «piano» oppure, per cosl dire, emergono da processi di auto-organizzazione?

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Le democrazie contemporanee, pur condividendo il nome con la forma di governo resa celebre da Atene, sono molto diverse dai modelli democratici concepiti e istituiti nell'antica Grecia. Se guardiamo a ciò che il termine «democrazia» significa, cioè «potere del popolo», può tuttavia nascere un dubbio: è davvero esistita o esiste davvero, in qualche luogo, un'autentica «democrazia» 7 Oppure il termine indica una forma di governo «ideale», qualcosa a cui si può soltanto tendere? Pensando alle democrazie contemporanee, chi governa è davvero «il popolo» 7 ·

Per idee, spunti e curiosità sulle domande precedenti, vedi il

1>1 Seminario «Potere».

BIBLIOGRAFIA Opere da cui sono tratti i testi Opere e testimonianze sui sofisti in: I

presocratici: prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Herma nn Diels e Walther Kranz, a cura eli G. Reale, Milano, Bompiani, 2006, Aristotele, Metafisica, tracL di A. Russo, Roma-Bari, Laterza, 1984, Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di M, Gigante, Roma-Bari, Laterza, 2005. Gorgia, Encomio di Elena, a cura di G. Paduano, Napoli, Liguori, 2004,

Nietzsche, F La nascita della tragedia (1872), Roma-Bari, Laterza, 2006. Platone, Dialoghifilosofici, a cura eli G, Cambiano, Torino, Utet, 1970-1981, volL 2, I: Apologia di Socrate, Crito-

ne, Eutidemo, Eutifrone, Pedone, Gorgia, !ppia maggiore, Lachete, Menone, Protagora; II: Teeteto, Sofista. -Repubblica, a cura eli M, Ve getti, Torino, Utet, 1988, Plutarco, Se un anziano debba fare politica, in Moralia, Pordenone, Biblfoteca dell'immagine, 1992. Senofonte, Detti memorabili di Socrate, in Socrate. Tutte le testimonianze da

Aristofane e Senofonte. ai padri cri-

stiani, a cura di G, Giannantoni, Bari, Laterza, 1971.

Testi citati o consigliati Adorno, F. Introduzione a Socrate, Roma-Bari, Laterza, 2001. Colli, G. La nascita della filosojìa (1975), Milano, Adelphi, 2006. Frankena, W.F. Etica, Milano, Edizioni eli Comunità, 1981. Haclot, P. Che cos'è la .filosofia antica?, Torino, Einaudi, 1988. Kerferd, G.B. I sqfisti, Bologna, Il Mulino, 1988.

185

L'età classica

della filosofia: Platone e Aristotele Raffaello Sanzio, Scuola di Atene (part.), 1509-1511 ca., Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segnatura. Nel particolare sono rappresentati: 1. Platone, 2. Aristotele.

jJ!fAR TIRRENO

MAR IoNIO

MAR il1EDITERRANEO

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el Simposio non è soltanto l'immagine di Eros ad essere demistificata e devalorizzata, passando dal rango di divinità a quello di dèmone, ma anche l'immagine delfilosofo: non è più l'uomo che riceve dai so.fisti un sapere preconfezionato, ma un essere conscio della propria carenza così come del proprio desiderio, quel desiderio per cui egli si sente attratto dal bello e dal bene. P. Haclot, Cbe cos'è la filosofia antica?, p. 49

Il nuovo significato dell'attività filosofica Retori e fillilsofi ad Atene • Nella cultura greca, ancora al tempo di Socrate e di Platone, con il nome di filosofi venivano chiamati coloro che avevano un rapporto familiare Cphilo) con il sapere (sophia) e che dunque erano "saggi.. , cioè si intendevano di un certo tipo di conoscenze. All'epoca all'incirca del processo a Socrate, i cittadini della democrazia ateniese, usciti sconfitti dalla guerra del Peloponneso e impegnati in continue battaglie contro le p6leis nemiche per conservare un ruolo di primo piano sulla Grecia, erano anche divisi in opposte fazioni per la conquista del potere nella città. Cercavano, quindi, ansiosamente nuovi valori con cui legittimare la coesione civile e rilanciare il ruolo della madrepatria, non solo come grande potenza militare, ma anche come faro eli civiltà e di cultura in tutto il mondo ellenico. Si rivolgevano, in questa ricerca, non più alla poesia e alla musica, espressione dell'antico universo dei valori aristocratici, bensì alla filosofia e alla retorica, che con i loro argomenti persuasivi e razionali rappresentavano idealmente le nuove discipline capaci di incarnare i nuovi valori democratici.

In questo contesto, Isocrate (436-338 a.C.) ap~·ì ad Atene una scuola di retorica (390 a.C.) proprio con lo scopo di formare i cittadini delle classi elevate all'uso responsabile della pat·ola volto all'utilità pubblica. E come molti suoi contemporanei, Isocrate rifiutò l'appellativo di retore e pretese di essere considerato un filosofo. Anche i sofisti, come ben sappiamo, chiamavano il loro insegnamento «filosofia", finendo quasi per confondere la sfera di questa con la dialettica e con la retorica, arti in cui erano maestri. I sofisti delle ultime generazioni, poi, incoraggiati dalle possibilità offe1te dal sistema democratico, proposero ai cittadini un sapere del tutto strumentale, finalizzato cioè alla conquista del consenso e del potere, lasciando da parte ogni riferimento a valori etici o religiosi. Molti di essi sostennero apertamente tesi relativiste e difesero il diritto dei più forti e dei più abili a conquistare il potere. Non sorprende, allora, il fatto che la figura del filosofo, come era tragicamente apparso nel caso del processo a Socrate, potesse essere confusa con quella dei retori o dei sofisti che insegnavano a scambiare il falso per il vero o l'ingiusto per il giusto e distruggevano con il loro spregiudicato relativismo i valori della tradizione e della convivenza civile. Era proprio questo il problema che si poneva nell'Atene del IV secolo: distinguere tra le numerose figure che a vario titolo si definivano filosofi quelli che lo erano veramente, cioè coloro che cercavano in modo disinteressato la verità. ~(Ql[;;lr~t~: ~~ mm,g~iene e ciò che è male ed è quindi realmente capace di insegnare all'uomo come agire secondo virtù ..

La dottrina delle idee l! superamell1tO del socratismo • Proprio nel frotagora Platone riconosce la validità del metodo aporetico che stimola gli altri a pensare e a trarre fuori da se stessi la verità (maieutica), ma ritiene che il sapere non possa limitarsi a coincidere con un metodo. Esso deve consistere nel possesso di valori, criteri di giudizio, a cui si possa attribuire una forza di convinzione universale e necessaria. Il modello a cui Platone guarda è quello delle conoscenze matematiche e geometriche. Sono queste infatti le nozioni che tutti gli uomini riconoscono meglio come oggettive e che non metterebbero mai in dubbio. Da dove ricaviamo le nozioni di uguale, di triangolo, di numero? Secondo Platone la nostra mente non ricava queste nozioni dall'esperienza, ma le possiede già dentro di sé. Esse pertanto sono innate. Prendiamo come esempio la nozione di uguale, in base alla quale siamo in grado di giudicare se due figure sono uguali oppure no. Se la nostra mente non possedesse dentro di sé la nozione di uguale, non potrebbe mai apprenderla dall'esperienza, dove gli oggetti sensibili sono uguali solo in modo imperfetto: due triangoli tracciati sulla sabbia, uguali nei due lati e un angolo, possono essere giudicati uguali solo se il nostro intelletto li riferisce a un «uguale in sé", perfetto, diverso da tutti gli uguali serisibi· li, che sono uguali in modo imperfetto. Anche le nozioni fondamentali della matematica e della geometria non possono esset·e apprese dall'espetienza, in quanto, per esempio, non potrò mai ricavare dall'esperienza la nozione di triangolo o di quadrato perfetto, poiché tali non esistono in natura. Sull'esempio delle matematiche, Platone estende l'innatismo anche al campo dei valori etici ed estetici: esistono un «bello in sé, e un «giusto in sé», cioè idee innate di bel· lezza e di giustizia, parametri regolativi che permettono di giudicare ciò che è bello e ciò che è giusto nell'esperienza di ogni giorno, ma soprattutto «negli affari pubblici e privati».

la teoria delle idee ccmtro il reiativismo sOJfistico • Il superamento del sacra· tismo si giustifica soprattutto con il bisogno di contrapporre al relativismo e al sogget· tivismo dei sofisti una concezione del sapere basata sull'oggettività e universalità dei valori. Platone è convinto che il relativismo - posizione secondo cui i valori e le co· 202

lluiaggio dell'anima nell'ipel'llranio

noscenze sono relativi alle opinioni che i singoli individui hanno su di essi - porti all'indifferenza e all'anarchia nella vita pubblica e privata. Perché la conoscenza sia valida è necessario che i parametri eli giudizio, che Platone chiama [i~~éJ - il coraggio, la giustizia, la saggezza, la temperanza -, siano concepiti come t·ealtà univet·sali e permanenti e non come criteri regolativi che dipendono esclusivamente dalle opinioni personali o dai contesti storico-culturali. È quindi necessario che un sapere universalmente valido si fondi su parametri oggettivi. Ma per fondare l'oggettività delle idee, Platone sostiene che, oltre a trovarsi nella mente fin dalla nascita, esse devono corrispondere a t•ealtà esistenti anche al di fuori della mente. Con 1,m mito filosofico, Platone immagina nel Fedro che le idee siano effettivamente presenti in un luogo al di sopra dei cieli, chiamato per questo ipet"Ut"anio, e che l'anima, raffigurata nel mito come un cocchio guidato da un auriga (la ragione) e trainato da due cavalli alati - uno nero, che simboleggia la passione dei sensi che trascina verso il basso, e uno bianco, che simboleggia l'aspirazione alla virtù e alla sapienza, che porta verso l'alto-, le possa vedere prima di cadere nel corpo mortale: Questo luogo sopraceleste nessuno dei poeti di quaggiù lo ha cantato, né mai lo canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il coraggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo luogo dimora quella essenza incolore, injòrme ed intangibile, contemplabile solo dall'intelletto, pilota dell'anima, quella essenza da cui scaturisce la vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d'intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso vede l'essere, ne gode, e contemplando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l'anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell'essere che veramente è. E quando essa ha contemplato ugualmente gli altri veri esseri e se ne è cibata, s'immerge di nuovo nel mezzo del cielo e scende a casa; ed essendo così giunta, il suo auriga riconduce i cavalli alla greppia e li governa con ambrosia e in più li abbevera di nettare. Platone, Fedro, 247c-e

La dottrina dell'anamnesi

Alle idee, agli «esseri reali", eterni e immutabili presenti nell'iperuranio, cordspondono i principi etici e logici della mente umana. Principi che ogni uomo porta con sé fin dalla nascita senza esserne consapevole. Secondo il mito del Fedro esiste, quindi, in ogni uomo un sapet·e acquisito pt"ima della nascita e poi dimenticato. Un sapere che si può ridestare purché ciascuno ne sia consapevole. Le conoscenze a cui ogni uomo perviene non sono pure sue invenzioni, ma sono scoperte di valori e eli principi già esistenti nella sua mente, in quanto facenti

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Idea: dal greco t6 efdos, ,)'essenza,, ,)a forma", ,)'idea,, ·- (VISione . . deIl e .d l (l uogo al d1 1 ee 1

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la quale

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quando si incarna in un corpo le dimentica, conservandone una memoria inconsapevole

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l'intervento di un fatto ,______, l'anima ne ha nostalgia ~per c u i - - - ne risveglia il ricordo (anamnesi)

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204

Anamnesi: dal greco anamnesis, «reminiscenza,, La parola è usata da Platone per caratterizzare la propria teoria della conoscenza. Per Platone ogni sapere non è altro che una reminiscenza, un ricordo di nozioni che l'anima possiede e che non le provengono dall'esperienza sensibile. Tali nozioni sono le idee, che l'anima ha visto prima eli cadere all'interno eli un corpo. Oggi: nel linguaggio medico, !'«anamnesi•• è il ricordo delle malattie e delle operazioni chirurgiche a cui il paziente è stato sottoposto nel passato. Nella terapia psicanalitica, si elice «anamnesi" il procedimento attraverso cui il paziente è aiutato a ricordare gli eventi della propria infanzia e la storia della propria famiglia.

l. La battaglia perla verità: Platone

©.

Cnrtm e anima: ii dualismo platonico

Il corpo come tomba dell'anima lG@D1©~©®D1~©J d®l~® id!®® ® immm·~~111itoil dl®li'.:llillim€11 • Con l'esistenza delle idee Platone pone le basi per ~lichiarare la natura immortale dell'anima. Solo con l'anima, infatti, l'uomo può contemplare le fot·me invisibili; immot·tali e inconuttibili, superando l'esperienza dei sensi. Mentre i sensi percepiscono le realtà visibili con gli «OCchi del corpo", l'anima ha la possibilità di contemplare le realtà invisibili, servendosi degli «Occhi della mente", cioè dell'intelletto. Se le idee sono invisibili, immortali, incorruttibili, sempre uguali a se stesse, allora anche l'anima dovrà possedere tutte queste caratteristiche. Alla base di questo concetto sta il principio secondo cui il simile è conosciuto soltanto attraverso il simile: vale a dire che i sensi, per loro natura mutevoli, possono conoscere .soltanto le realtà mutevoli, mentre l'anima, potendo conoscere le idee, le realtà invisibili, immutabili ed eterne, deve essere necessariamente invisibile, immutabile ed eterna. '· Nel Pedone, dialogo in cui si racconta la morte di Soct·ate nel carcere di Atene, Platone affronta il tema dell'immortalità dell'anima affermando che il' corpo è una specie di tomba dell'anima. Attraverso la dottrina delle idee viene dimostrata la natura non corpot·ea dell'anima (psyché) e sottolineata la sua posizione eli prigioniet·a del cot·po per tutto il tempo della vita terrena. Situazione questa da cui l'anima si libera solo con la morte del corpo. L'anima, considerata nella sua propria natura, non è soltanto «soffio vitale" come era stata intesa da Anassimene, dai pitagorici e da Anassagora, ma è la facoltà propria dell'uomo di conoscere se stesso e la realtà eli cui è parte, per mezzo delle idee, che Platone identifica con i modelli (parddeigma) delle singole t·ealtà pat·ticolari. L'idea di uomo, per esempio, è il paradigma, il modello universale, sul quale sono fatti tutti i singoli uomini che esistono sulla terra. Così, i singoli uomini particolari comprendono la loro essenza (ciò per cui essi sono uomini e non cavalli) nella forma universale di uomo, nell'idea di uomo in sé. La conoscenza delle idee potrà essere raggiunta solo da colui che si avvicinerà, quanto più possibile, a ciascuna cosa col solo pensiero, evitando d'interporre all'attività del pensiero l'attività dei sensi e delle passioni che lo legano al corpo:

Dunque, diss'egli [Socrate}, da tutto ciò, deve formarsi necessariamente nei filosofi veri una credenza di questo genere; ond'essi ragioneranno tra loro press'a poco così:

realizzazione della forma umana

Quando un uomo è un uomo, è uomo in atto, cioè compiutamente; mentre quando la materia femminile, ricevendo dal padre la. forma umana, consegue la condizione di essere uomo, è in corso un'attuazione, cioè un atto non ancora compiuto. Il ricorso all'esempio dell'uomo non è casuale perché Aristotele non dà una definizione precisa dell'atto e della potenza, affermando che a volte bisogna accontentarsi di una comprensione intuitiva tramite l'analogia con casi particolari: L'atto sta alla potenza come ad esempio chi costruisce sta a chi può costruire, chi è desto a chi dorme, chi vede a chi ha gli occhi chiusi ma ha la vista, e ciò che è ricavato dalla materia alla materia e ciò che è elaborato a ciò che non è elaborato. Aristotele, Metafisica, IX, 1048a-b

Alla domanda se prima venga l'atto o la potenza, Aristotele risponde che la potenza pt·ecede nel tempo l'atto compiuto, ma logicamente l'atto compiuto precede la potenza, come il progetto della casa precede logicamente la casa. L'h::ll~ntità

Causa fm•male

e materiale definiscone cos'è 1111 ente

dii un

~nte

• Analizzando i quattro generi di cause, possiamo vedere che, negli enti naturali, la causa formale comprende anche le cause sia finale che efficiente perché, ad esempio, il fine di un coniglio è realizzare la propria natura di coniglio e perché comunque è sempre un coniglio che genera un coniglio. Quindi, a definire ciò che un ente è in sé, ossia la sua identità nel tempo che passa e nello spazio che muta, è il concorso della causa materiale e della causa formale. Aristotele porta diversi esempi per illustrare il criterio con cui si può definire l'identità di un ente. Due case sono identiche dal punto di vista formale, cioè sono una casa, perché assolvono la stessa funzione di ricovero dalle intemperie, ma sono diverse, perché sono fatte di materiali diversi. Un cavallo e un cane sono diversi sia numericamente, perché fatti di materie diverse, che foi·malmente, perché appartengono a specie diverse; ma sono identici rispetto al genere, perché entrambi animali. Abbiamo visto però che il genere non è sufficiente a definire l'identità di un ente perché occorre anche la specie prossima. È nella specie infatti che risiedono la causa formale e finale.

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L'ETÀ CLASSICA DELLA FILOSOFIA:

Sostanza, acciihmti, p!'Oill'ietìi

La filosofia prima, o metafisica, si occupa anche di definire cosa sia la ;sòsta~~' ovvero l'essenza di ciascun ente. Un uomo può essere grasso o magro, vestito in doppiopetto o in tunica, maschio o femmina, ignorante o colto, ma sarà sempre un uomo. Ciò che cambia nel tempo e nello spazio sono gli accidenti (caratteristiche che potrebbero appartenere anche ad altri enti, come l'essere grasso o magro) e le propdetà (caratteristiche che non potrebbero appartenere ad altri enti, come la cultura, ma che non sono sufficienti a definire un ente), cioè caratteristiche contingenti che ora sono in un certo modo, ma che potrebbero essere diverse (colto o non colto) senza mutare ciò che l'uomo necessariamente è in sé, cioè la sua sostanza. Il problema della sostanza è centrale nell'indagine aristotelica:

L'essere si dice in tutti questi modi, ma è evidente che di tutti questi quello che costituisce l 'essere primo è l'essenza, che indica la sostanza [ . .J. Delle altre cose si dice che · sono perché o sono quantità, o sono qualità, o sono affezioni, o sono qualche altra cosa di questo genere rispetto a ciò che è essere in senso primario. Perciò si potrebbe anche dubitare se il camminare, l'essere sano, lo star seduto, ciascuna di queste cose, sia o non sia [.. .1: infatti nessuna di queste cose non è né qualcosa che per natura sussista di per sé, o possa star separata dalla sostanza, ma, semmai, se qualcosa esiste si tratta di cose come uquello che cammina", uchi sta seduto", uchi è sano". È chiaro che queste cose più che le altre esistono, perché c 'è in esse un soggetto definito, e questo soggetto è la sostanza o l'individuo, un soggetto che viene messo in evidenza quando queste espressioni compaiono come predicati: e infatti ciò che è buono e ciò che sta seduto non si possono dire senza un soggetto. È chiaro pertanto che in virtù di questa (la sostanza) ciascuna delle altre cose è, sicché l'essere in senso primario, ciò che non è un essere qualche cosa, ma è un essere in senso assoluto, è la sostanza. Aristotele, Metafisica VII, 1028a

Sostanze prime e sostanze seconde

rn

Sostanza è il termine latino che significa «ciò che sta sotto, che sostiene, e che traduce il sostantivo greco ousia. La sostanza è quindi una sorta di sostt·ato che dmane identico a se stesso e che consente il mutamento degli accidenti e delle propdetà dell'ente, che cambiano nel tempo. Per i filosofi presocratici la sostanza era il principio primo (arche) o la natura (physis) di tutte le cose (acqua, aria, fuoco ecc.), causa e origine eli tutte le trasformazioni del mondo fisico; per Platone invece essa coincideva con un principio sovrasensibile, l'idea, di cui le cose sensibili sono copie imperfette. Aristotele è il primo a introdurre il concetto di sostanza individuale, perché solo all'individuo si possono attribuire le diverse modalità di essere, gli accidenti e le proprietà. Quando dico, acl esempio, «Socrate è un uomo intelligente, riferisco la modalità di essere «Uomo intelligente, a una sostanza «Socrate, senza eli cui l'essere uomo e l'essere Sostanza: dal latino substantia, «ciÒ che sta SOttO» e «Che è a fondamento di qualcosa,, traduce il tennine greco ousla, ,l'essente,, "ciò che è,, •dò che esiste, davvero al di fuori del nostro pensiero. In Platone troviamo il termine ousia a indicare: l) l'essenza eterna delle idee, realtà metafisica trascendente; 2) la natura o essenza delle cose. Aristotele ha trattato in modo sistematico la nozione di ousia come sostanza secondo tre piani: lqgico, fisico, metafisica. Sul piano logico, la sostanza è ciò che non è predicato né proprietà di un altro essere, cioè non può avere esistenza come modalità di un altro essere. Infatti l'ousia è il soggetto logico, ciò di cui tutto il resto viene affermato. Sul piano fisico, l' ousia è la 'sostanza individuale concreta sensibile che per prima si presenta all'esperienza. Sul piano metafisica, l'ousia è la sostanza considerata come "la cosa di per sé•, indipendentemente dalle sue qualità; essa resta sempre ciò che è, non cambia, poiché è la sede delle qualità e del cambiamento. In questo senso, la vera ousia è la sostanza individuale, che Aristotele definisce «sostanza prima,, mentre l'universale e il genere, che si possono attribuire alla sostanza prima, sono «sostanze seconde...

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252

2. Là costruzione delle scienze: Aristotele

le dieci categoa•ie

intelligente non avrebbero riferimento alcuno. Quindi l'individuo è la sostanza prima e, dal punto di vista logico, il soggetto deUe predicazioni (Socrate). Esistono poi le sostanze seconde; come «Uomo» o «intelligenza,, che come si è visto sono a loro volta predicabili di sostanze prime, ma possono anche comparire come soggetti di una frase, come ad esempio «l'uomo è un animale razionale» o «l'intelligenza è una caratteristica dell'uomo», assumendo così il ruolo di sostanze. Gli accidenti, le pt·opdetà e le sostanze seconde possono essere pt·edicati delle cose, cioè è possibile dire, per esempio, che una certa cosa è gialla e piccola (accidenti), pigolante (proprietà) ed è un pulcino (sostanza seconda). Tutti i predicati si possono classificare in dieci tipologie più generali chiamate ,çat(!goriej. Quindi l'essere (come Aristotele spiega nella logica analizzando i diversi modi in cui usiamo il verbo «essere») è multivoco, cioè si dice in molti sensi a seconda del genere di predicato che colleghiamo alla particella verbale «è»: il cavallo (sostanza) «è» da corsa (il quale, qualità), "è" grande (il quanto, quantità), «è» nella stalla (il dove, luogo), «nitrisce» (l'agire, il fare), «è» affaticato (il patire), ·è· all'alba (il quando, tempo), «è» ferrato (l'avere), «è» più vecchio di tutti i cavalli del branco (la relazione), ·è> in piedi (lo stare). La cosa di cui dico che è un animale, è un cavallo, è di grandi dimensioni, è in piedi, che, nella stalla, all'alba, nitrisce, è affaticato da una lunga corsa, nonostante i ferri che gli proteggono gli zoccoli, è essa stessa una sostanza, cioè un individuo che esiste di per sé, senza dipendere da altro. Quindi l'esset·e, pur essendo multivoco, non è equivoco, perché tutti i sensi in cui è detto sono in riferimento alla sostanza.

·-="'ff>·"'l~1 1 1 1 1 1 - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - , Le dieci categorie o modalità di essere

L'essere

è multivoco

cioè ~è

1. sostanza

cavallo

2. qualità

da corsa

3. quantità

grande

4. luogo

nella stalla

5. agire

nitrisce

6. patire

affaticato

7. tempo

all'alba

8. avere

ferrato

9. relazione

più vecchio del branco in piedi ·

m

ma ~

non è equivoco

l

poiché

t

tutte le categorie [sensi) si riferiscono alla sostanza

CatfiJSt;:m~i:il? • Con il termine «sostanza, Aristotele indica propriamente il sostrato di un ente, inteso come ciò che non si dfedsce ad altro, ma a cui, al contrario, viene rifedto tutto il resto. Al problema della sostanza è dedicata una lunga trattazione nella Metafisica, in cui Aristotele discute tutte le soluzioni che sono state date da Talete fino a Platone. La risposta di Aristotele è complessa: la mateda è senza dubbio sostanza, perché una volta che siano tolte a una cosa tutte le sue determinazioni, cioè tutti i suoi modi di essere espressi nelle categorie, null'altro rimane se non la materia. Ma la sostanza delle cose non può essere soltanto materia, giacché sarebbe informe e quindi non sufficiente a rendere ragione del perché le cose sono quelle che sono. Occorre quindi che la sostanza sia qualcosa di separabile dalla materia e di determinato: a questi due requisiti rispondono, da un lato, la forma (efdos o morphé) e, dall'altro, il composto di materia e forma o sinolo (synolon). L'indagine sulla forma occupa a lungo la riflessione di Aristotele nel libro VII della Metafisica, mentre più importante per lo svi· luppo della Fisica è il sinolo, una realtà a noi certamente più nota perché la riscontriamo in tutti gli esseri viventi. Gli essed viventi quindi non sono sostanze depotenziate o di secondo livello, come invece per Platone che li considerava ombre o imitazioni delle idee, ma sostanze a pieno titolo, anzi sostanze pdme (in quanto individui, non ge· neri e specie), camtterizzate dall'unione inscindibile di mateda e di fot·ma.

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La fisica: la terra, il cielo e Dio

~ p~'eJ!iiU!pp~~ti dl!illll~ fi~ic~ ~ri~t~telic~

• Nel Timeo Platone aveva respinto la possibilità di una scienza della natura, in quanto quest'ultima è soggetta ad incessante divenire e quindi non si può avere del mondo naturale epistème (cioè scienza), ma soltanto dòxa (opinione). Per descrivere origine e costituzione del mondo naturale Platone si era affidato a un racconto (mito) immaginifico, dichiarandolo verosimile, ma non assolutamente certo dal punto di vista scientifico. Nel libro VI della Metafisica, al contrario, Aristotele stabilisce che la fisica è una scienza vera e propria, includendola tra le scienze teoretiche, insieme alla matematica e alla metafisica:

Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o poietica o teoretica, la fisica dovrà essere conoscenza teoretica, ma conoscenza teoretica di quel genere di essere che ha potenza di muoversi e della sostanza intesa secondo la forma, ma prevalentemente considerata come non separabile dalla materia. Aristotele, Metafisica Vl, 1025 b25

llna scienza diuerse dalla fisica mode!'llll

Premesse fondamentali della fisica

La fisica di Aristotele ha avuto una grande fortuna nel mondo antico e medievale, fino agli albori dell'età moderna, quando è stata discussa e rivoluzionata dalle teorie di CoperniCo e di Galileo. Una prima caratteristica che la distingue dalla fisica moderna è il suo approccio qualitativo ai fenomeni: non fa ricorso cioè alla matematica per calcolare le caratteristiche quantificabili e misurabili dei corpi, delle forze e del movimento, ma si basa sull'osset-vazione delle qualità degli enti naturali così come sono pet·cepibili direttamente dai sensi. In secondo luogo, mentre la fisica moderna si fonda sul principio che in tutto l'universo sono valide le stesse leggi di natura, Aristotele distingue il mondo celeste dal mondo terrestre. Ciò significa, per fare un esempio, che, se per la fisica moderna sul pianeta Giove i corpi si muovono allo stesso modo, seguendo le stesse leggi che regolano il moto dei corpi sulla terra, per Aristotele, al contrario, i corpi celesti si muovono in maniera diversa da quelli terrestri, per cui si dovranno elaborare due fisiche, una celeste e una terrestre. Altri presupposti della fisica aristotelica sono: • materia e forma non sono separabili, per cui va respinta la teoria platonica delle idee (forme) separate dai corpi; • gli enti naturali si muovono, essendo il movimento la loro caratteristica essenziale; • l'aspetto fisico di ogni cosa è tale perché deve rispondere a un dato fine, per cui la forma di un ente naturale si costituisce e si organizza in funzione del fine da raggiungere; • la conoscenza completa di un ente comprende le quattro cause di cui l'ente è fatto: vero fisico è colui che sa descrivere di che cosa (causa materiale) le cose sono fatte, a quale fine tendono (causa finale), quale forma hanno (causa formale), che cosa le ha messe in moto (causa efficiente).

Il finalismi! naturale

Domanda centrale della fisica aristotelica è se la natura tenda alla realizzazione di uno scopo oppure se tutto quello che avviene è dettato unicamente dal caso. A que. sto problema Platone aveva risposto con la teoria del provvidenzialismo finalistico: sotto l'azione del Demiurgo, artefice divino che modella la materia contemplando le idee eterne, la natura si configura come opera d'arte perfetta e il mondo diviene il migliore possibile. Aristotele, invece, adotta una soluzione diversa. Non ritiene che la natura sia

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1.!

E ARISTOTELE

Gli el'l'l.lri della natura e il caso

La t1•aslazione: il mouimentn locale

La tem·ia dei luoghi naturali

la fisica te1•restre

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opera di un artista divino, perché se fosse tale sarebbe perfetta, mentre l'osservazione dice che non lo è. Paragona invece la natut·a alla tecnica umana, che è diretta a un fine, ma è soggetta spesso a fallire: allo stesso modo in natura non tutto avviene in maniera perfetta. Come un grammatico può commettere errori e come un medico può assegnare la medicina sbagliata, così la natura può fare errori, benché il suo agire sia sempre orientato a realizzare il meglio. Con tale principio Aristotele spiega anche il verificarsi di casi anomali come la nascita eli animali con parti mancanti o in sovrappiù. Gli erroti della natut·a sono dovuti alla t·esistenza della materia che non si lascia plasmare docilmente dalla forma, così che spesso avviene una violazione della norma che regola il corso delle cose. Nel libro II della Fisica Aristotele prende in esame anche la componente del caso annoverandola tra le cause dei fenomeni naturali con questa spiegazione: anche quel che accade per caso ha una causa, benché questa sia diversa dalla causa per cui di solito quella cosa accade.

DI mmJimentOJ come car0:11tteristic~ - relazioni tra tra sostanza le varie sostanze e predicati e predicati

e

~ giudizi ----J:t>- ragionamenti "

(unioni di concetti]

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(combinazioni di proposizioni) o sillogismi

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'""- propos1z1on1 ~ argomentazioni (unioni (combinazioni di tEjrmini) di proposizioni o universali o sillogismi) o particolari El affermative 0 negative

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le arti della parola Nella divisione aristotelica del sapere, la retorica e la poetica rientrano nell'ambito del sapere poietico, in quanto arti (téchnai) rivolte alla produzione di qualcosa: nel caso della retorica, i discorsi persuasivi; nel caso della poetica, i componimenti poetici.

lgene••i della retoR'ica

la a•et[!)rica • Il fine della retorica è l'individuazione dei mezzi in grado di t·endere un discot·so pet·suasivo, piuttosto che la persuasione stessa. Tali mezzi possono essere extratecnici, come documenti o testimonianze, utili soprattutto nell'oratoria giudiziaria, oppure tecnici. Questi ultimi possono essere a loro volta di tre tipi: legati alla moralità dell'oratore; alle passioni degli ascoltatori; alle at"gomentazioni. Mentre rispetto a moralità e a passioni la retorica deve attingere alle conoscenze proprie dell'etica, rispetto alle argomentazioni la retorica è speculare alla dialettica: infatti, alle deduzioni e alle induzioni della dialettica corrispondono, come loro forma semplificata e abbreviata, adatta al pubblico impreparato e passivo che sta di fronte agli oratori, le due tipiche fonn~ di argomentazione retorica: gli entimemi, cioè i sillogismi in cui una delle premesse è taciuta, e gli esempi. Gli entimemi sono diversi a seconda del tipo di premessa da cui muovono, mentre gli esempi possono essere storici o inventati. Le premesse degli entimemi sono attingibili da una topica, cioè da un insieme di schemi argomentativi generali o luoghi (t6poi), che possono essere comuni, cioè validi sempre, o particolari, r~lativi a singole discipline. I generi della retorica sono tre: 1) deliberativo, tipico dei dibattiti politici, quando si parla per decidere fra diverse possibilità; 2) epidittico, quando si parla pubblicamente in lode o biasimo di qualcuno; 3) giudiziario, il genere tipico dei processi, quando si deve decidere la giustizia o l'ingiustizia di qualcosa.

L'efficacia retm•ica

La teoria delle mimesi

In ogni caso, le argomentazioni retoriche non portano mai a conclusioni certe, come fanno invece i sillogismi scientifici, perché, come le argomentazioni dialettiche, non muovono da premesse vere, ma solo probabili. Aristotele discute il modo in cui gli argomenti retorici devono essere presentati all'uditorio, occupandosi sia dell'elocuzione, cioè dello stile del discorso retorico, sia della sua stt-uttura, cioè della sua articolazione in parti. Qualità supreme .del discorso retorico sono la chiarezza, la convenienza e la vivacità, ottenibili attraverso un uso sorvegliato dei vocaboli. Destinata a diventare canonica, la definizione aristotelica eli molte figut·e retoriche, fra cui la metafom: «La metafora è il trasferimento ad una cosa di un nome proprio di un'altra o dal genere alla specie o dalla specie al genere o dalla specie alla specie o per analogia, (Poetica, 1457b). ILa poetica • All'arte della produzione di opere poetiche è dedicata la Poetica, di cui rimane il primo libro, de179-90. Ciò spiega il motivo per cui il prigioniero non vuole tornare dentro la caverna e, se vi tornasse, la ragione per cui non sarebbe più abituato a distinguere le ombre nell'oscurità ~>190-111. Altra importante funzione del mito della caverna è spiegare il significato del concetto di educazione. Educare non significa immettere conoscenze nella mente altrui, ma aiutare la men· te a volgersi dalle realtà apparenti che la circondano alla verità delle idee operando così una · vera e propria conversione dello sguardo o dell'attenzione, che però deve essere praticata fin dall'infa(lzia per avere qualche successo duraturo. D'altra parte, l'intelligenza è una facoltà che tutti gli uomini possiedono, anche i malvagi. L'educazione consiste nel volgerla in dire· zione della verità e del bene ~>1112-144. Nella «città bella» i filosofi saranno educati dallo Stato a conoscere la natura del Bene e della giustizia per applicarla al governo delle cose pubbliche. Essi avranno un debito di riconoscenza nei confronti dello Stato e dovranno per· ciò mettere le proprie conoscenze al servizio di tutti. Per questo motivo, quando saranno pronti, accetteranno di buon animo l'impegno del governo della p6/is, anche se il loro desiderio sarebbe quello di restare lontani dalla vita pubblica e di godere indisturbati, per tut· ta la vita, della visione delle realtà ideale ~>1144-184. Del resto i governanti migliori sono co· loro che non desiderano il potere perché sono uomini onesti, intelligenti e pacifici, capaci di amministrare lo Stato se.nza interesse personale ~>1184-208.

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1prigionie••i scambiano le ombre pea• l'l!i!ltiì

Untll'igionierouiene liberato dall'ignoranza

Il prigioi1Ìili'O SCOpi'!! il mondo reale, la luce, il soie

[SocRATE] - In seguito, continuai, paragona la nostra natura, per ciò che riguarda educazione e mancanza eli educazione, a un'immagine come questa. Dentro una dimora sotterranea a forma eli cavernà, con l'entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, eli volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d'un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa eli vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra eli essi i burattini. - Vedo, rispose. - Immagina eli vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti eli ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure eli pietra e di legno, in qualunque modo lavorate; e, come è naturale, alcuni portatori parlano, altri tacciono. - Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. - Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto eli sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro eli fronte? - E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita? - E per gli oggetti trasportati non è lo stesso? - Sicuramente. - Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? - Per forza. E se la prigione avesse pure un'eco dalla parete eli fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell'ombra che passa?- Io no, per Zeus!, rispose. -Per tali persone insomma, feci io, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. - Per forza, ammise. - Esamina ora, ripresi, come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall'incoscienza. Ammetti che capitasse loro naturalmente un caso come questo: che uno fosse sciolto, costretto improvvisamente acl alzarsi, a girare attorno il capo, a camminare e levare lo sguardo alla luce; e che così facendo provasse dolore e il barbaglio lo rendesse incapace eli scorgere quegli oggetti eli cui prima vedeva le ombre. Che cosa credi che risponderebbe, se gli si dicesse che prima vedeva vacuità prive eli senso, ma che ora, essendo più vicino a ciò che è ed essendo rivolto verso oggetti aventi più essere, può vedere meglio? E se, mostranclogli anche ciascuno degli oggetti che passano, gli si domandasse e lo si costringesse a rispondere che cosa è? Non credi che rimarrebbe dubbioso e giudicherebbe più vere le cose che vedeva prima di quelle che gli fossero mostrate adesso? - Certo, rispose. - E se lo si costringesse a guardare la luce stessa, non sentirebbe ·male agli occhi e non fuggirebbe volgendosi verso gli oggetti di cui può sostenere la vista? E non li giudicherebbe realmente più chiari di quelli che gli fossero mostrati? È così, rispose. -Se poi, continuai, lo si trascinasse via eli lì a forza, su per l'ascesa scabra ed erta, e non lo si lasciasse prima di averlo tratto alla luce del sole, non ne soffrirebbe e non s'irriterebbe di essere trascinato? E, giunto alla luce, essendo i suoi occhi abbagliati, non potrebbe vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere. - Non potrebbe, certo, rispose, almeno. all'improvviso. - dovrebbe, credo, abituarvisi, se vuole vedere il mondo superiore. E prima osserverà, molto facilmente, le ombre e poi le immagini degli esseri umani e degli altri oggetti nei loro riflessi nell'acqua, e infine gli oggetti stessi; da questi poi, volgendo lo sguardo alla luce delle stelle e della luna, potrà contemplare eli notte i corpi celesti e il cielo stesso più facilmente che durante il

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giorno il sole e la luce del sole.- Come no?- Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.- Per forza, disse. - Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.- È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così.E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro? - Certo. - Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chi fosse più acuto nell'osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? o che si troverebbe nella condizione detta da Omero 1 e preferirebbe «altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza,, e patire di tutto . piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?- Cosìpenso anch'io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel mol vecchi compagni do. - Rifletti ora anche su quest'altro punto, feci io. Se il nostro uomo ridideridono ilpl•igionil!l'll scendesse e si rimettesse a sedere sul medesimo sedile, non avrebbe gli occhi e cet•cano di uccide••lo pieni di tenebra, venendo all'improvviso dal sole?- Sì, certo, rispose. -E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? e se questo periodo in cui rifà l'abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora oggetto di riso? e non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e a condurre su quei prigionieri forse che non l'ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?- Certamente, rispose. Mondo visibile e intelligibile

-Tutta quest'immagine, caro Glaucone 2 , continuai, si deve applicarla al nostro discorso di prima: dobbiamo paragonare il mondo conoscibile con la vista alla dimora della prigione, e la luce del fuoco che vi è dentro al potere del sole. Se poi tu consideri che l'ascesa e la contemplazione del mondo superiore equivalgono all'elevazione dell'anima al mondo intelligibile, non concluderai molto diversamente da me, dal momento che vuoi conoscere il mio parere. Il dio sa se corrisponde al vero. Ora, ecco il mio parere: nel mondo conoscibile, punto estremo e difficile a vedersi è l'idea del bene; ma quando la si è veduta, la ragione ci porta a ritenerla per chiunque la causa di tutto ciò che è retto e bello; e nel mondo visibile essa genera la luce e il sovrano della luce 3 , nell'intelligibile largisce essa stessa, da sovrana, verità e intelletto. E chi vuole condursi saggiamente in privato o in pubblico deve vederla4 . - Sono d'accordo con me

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1. Sono le parole che l'ombra di Achille rivolge ad Ulisse quando lo incontra nell'Ade (Odissea, Xl,

489). Achille sostiene di preferire la vita di un servo piuttosto che vagare come un'ombra nell'oscurità dell'Ade. 2. Glaucone è l'interlocutore eli Socrate. ;>;. Il sole. 4. La contemplazione del Bene è condizione necessaria per comprendere cosa è giusto fare nella propria vita privata e nella vita pubblica della comunità.

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Il filosofo è abituato alla luce deluero

L'educazione consiste neluolgere lo sguardo dal mondo uisibile a quello intelligibile

Anche i malvagi possiedono l'intelligenza

anche su quell'altro punto e non stupirti che chi è giunto fino a quest'altezza non voglia occuparsi delle cose umane, ma che la sua anima sia continuamente stimolata a vivere in alto.~ naturale che sia così, se anche per questo vale l'immagine di prima. - È naturale, rispose. - E credi che ci si possa stupire, ripresi, se uno, passando da visioni divine alle cose umane, fa cattiva figura e appare ben ridicolo, perché la sua vista è ancora offuscata? e se, prima ancora di avere rifatto l'abitudine a quella tenebra recente, viene costretto a contendere nei tribunali o in qualunque altra sede discutendo sulle ombre della giustizia o sulle copie che danno luogo a queste ombre, e a battersi sull'interpretazione che di questi problemi dà chi non ha mai veduto la giustizia in sé? - Non ci si può stupir~ affatto, rispose. - Ma una persona assennata, feci io, si ricorderebbe che gli occhi sono soggetti a due specie dì perturbazioni, e per due motivi, quando passano dalla luce alla tenebra e dalla tenebra alla luce. E se pensasse che questi medesimi fatti si producono pure per l'anima, quando ne vedesse una turbata e incapace di visione alcuna, non si metterebbe a ridere scioccamente, ma cercherebbe di sapere se, venendo da una vita più splendida, sia ottenebrata perché disabituata; o se, procedendo dall'ignoranza a una condizione di maggiore splendore, si trovi ad essere troppo abbagliata. E così direbbe l'una felice della sua condizione e della sua vita, e avrebbe pietà dell'altra. E se volesse riderei sopra, il suo riso sarebbe meno ridicolo di quello che colpirebbe l'anima che viene dall'alto, dalla luce. -Sì, rispose, parli a modo. - Ora, ripresi, se questa è la verità, dobbiamo trame la seguente conclusione: l'educazione non è proprio come la definiscono taluni che ne fanno professione. Essi dicono che, essendo l'anima priva di scienza, sono loro che la istruiscono, come se in occhi ciechi ponessero la vista. -Lo dicono, sì, rispose. -Invece, continuai, il presente discorso vuole significare che questa facoltà insita nell'anima di ciascuno e l'organo con cui ciascuno apprende, si devono staccare dal mondo della generazione e far girare attorno 5 insieme con l'anima intera, allo stesso modo che non è possibile volgere l'occhio dalla tenebra allo splendore se non insieme con il corpo tutto; e questo si deve fare finché l'anima divenga capace di resistere alla contemplazione di ciò che è e della pa1te sua più splendida. In questo consiste, secondo noi, il bene. No?- Sì.- C'è dunque, feci io, un'arte apposita eli volgere attorno quell'organo, e nel modo più facile ed efficace. Non è l'arte di infondervi la vista: quell'organo già la possiede, ma non è rivolto dalla parte giusta e non guarda dove dovrebbe; e a quell'arte spetta appunto eli occuparsi eli questa sua conversione. - Sembra eli sì, rispose. -Ebbene, le altre che si dicono virtù dell'anima forse si avvicinano in certo modo a quelle del corpo. Ché realmente, anche se non vi sono dentro prima, forse vi vengono infuse più tardi dalle abitudini e dagli esercizi. Ma la virtù dell'intelligenza è propria più eli ogni altra, come pare, di un elemento più divino, che non perde mai il suo potere e che, secondo come lo si rivolge, è utile e vantaggioso o inutile e dannoso. Non hai mai pensato quanto sia penetrante lo sguardo dell'animuccia propria dei cosiddetti malvagi sapienti? E quanto acutamente discerna gli oggetti cui è rivolta, appunto perché è dotata di vista non mediocre, ma è costretta a servire alla loro cattiveria sì che i mali da essa prodotti sono tanto più numerosi quanto più acuto è il suo sguardo? - Senza club-

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5. Si tratta in questo luogo della conversione dell'anima dal mondo sensipile a quello intelligibile.

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L'eilucazionelieue cominciare fin dall'infanzia

l filosofi deunno aiutai'!! i propri concittadini !JIIIIIll'nando lo Stato

Accettaa·e inca•·ichi di gouernn è cosa giusta enecess11ria

!.leve gnuernare chi rum ne ha desiderio

bio, rispose.- Supponiamo dunque, continuai, che, con un'operazione eseguita fin dall'infanzia, questa natura così formata fosse amputata tutto intorno di quella sorta di masse plumbee che appartengono al mondo della generazione e che le stanno attaccate addosso con gli alimenti, i piaceri e simili golosità, tutte cose che fanno volgere in giù lo sguardo dell'anima. Se ne fosse stata liberata e fosse stata volta alle cose vere, questa medesima natura, di questi medesimi uomini, avrebbe potuto vedere anche quelle, così come vede gli oggetti ai quali è rivolta ora, assai acutamente. -È ben naturale, rispose. -E non è naturale, ripresi, anzi non è conseguenza necessaria delle nostre parole che né le persone non educate e inesperte del vero né quelle cui si è permesso di consacrare tutta la vita all'educazione potranno mai amministrare bene uno stato? Quelle perché nella loro vita mancano di una mèta cui mirare compiendo tutte le loro azioni private e pubbliche, queste perché non le compiranno spontaneamente, convinte di abitare ancora da vive nelle isole dei beati? - È vero, rispose. - È dunque compito nostro, dissi, compito proprio dei fondatori, quello · di costringere le migliori nature ad accostarsi a quella disciplina che prima abbiamo definita la massima, vedere il bene e fare quell'ascesa. E quando sono salite e l'hanno visto pienamente, non dobbiamo permettere loro ciò che si permette ora. - Che cosa? - Rimanere colà, feci io, senza voler ridiscendere presso quei prigionieri e partecipare delle fatiche e degli onori del loro mondo, a prescindere dalla minore o maggiore loro importanza. -Ma, rispose, dovremo veramente fare ingiustizia a queste nature e farle vivere peggio, quando possono vivere meglio? - Ti sei dimenticato di nuovo, mio caro, replicai, che alla legge non interessa che una sola classe dello stato si trovi in una condizione particolarmente favorevole. Essa cerca di realizzare questo risultato nello stato tutto: armonizza tra loro i cittadini persuadendoli e costringendoli, fa che si scambino i vantaggi che i singoli sappiano procurare alla comunità; e creando nello stato simili individui, la legge stessa non lo fa per !asciarli volgere dove ciascuno voglia, ma per valersene essa stessa a cementare la compattezza dello stato.- È vero, rispose; me pe sono dimenticato. -Considera poi, Glaucone, continuai, che non faremo torto nemmeno a quelli che nel nostro stato nascono filosofi; ma che saranno giuste le cose che loro diremo costringendoli a curare e custodire gli altri. Parleremo così: coloro che nascono filosofi negli altri stati, è naturale che non partecipino alle fatiche politiche, perché sorgono spontanei, indipendentemente dalla costituzione dei singoli stati; e ciò che è spontaneo, non dovendo il nutrimento ad alcuno, è giusto che non si senta spinto a pagare ad alcuno le spese. Voi, però, vi abbiamo generato per voi stessi e per il resto dello stato, come negli sciami i capi e i re; avete avuto educazione migliore e più perfetta che non quegli altri filosofi, e maggiore attitudine a svolgere ambedue le attività. Ciascuno deve dunque, a turno, discendere nella dimora comune agli altri e abituarsi a contemplare quegli oggetti tenebrosi. Abituandovi, vedrete infinitamente meglio di quelli laggiù e conoscerete quali siano le singole visioni, e quali i loro oggetti, perché avrete veduto la verità sul bello, sul giusto e sul bene. E così per noi e per voi l'amministrazione dello stato sarà una realtà, non un sogno, come invece oggi avviene nella maggioranza degli stati, amministrati da persone che si battono fra loro per ombre e si disputano il potere, come se fosse un grande bene. La verità è questa: lo stato in cui chi deve governare non ne ha il minimo desiderio, è per forza amministrato benissimo, senza la più piccola discordia, ma quello in cui i governanti sono di tipo opposto, è amministrato

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in modo opposto. - Senza dubbio, rispose. - Ebbene, credi che, udendo questi discorsi, i nostri pupilli ci disobbediranno e vorranno non collaborare alle fatiche politiche, ciascuno a turno, e abitare la maggior parte del tempo in reciproca compagnia nel mondo puro?- È impossibile, disse; perché a persone giuste come sono essi, prescriveremo cose giuste. La cosa più importante di tutte è che ciascuno di essi va al governo per obbligo, mentre chi governa oggidì nei singoli stati si comporta in modo opposto. - È così, amico, dissi; se per chi dovrà governare troverai un modo di vita migliore del governare, ottima potrà essere l'amministrazione del tuo stato perché sarà il solo in cui governeranno le persone realmente ricche, non di oro, ma di quella ricchezza che rende l'uomo felice, la vita onesta e fondata sull'intelligenza. Se invece vanno al potere dei pezzenti, avidi di beni personali e convinti di dover ricavare il loro bene di lì, dal governo, non è possibile una buona amministrazione: perché il governo è oggetto di contesa e una simile guena civile e intestina rovina con loro tutto il resto dello stato. -Verissimo, rispose. - Conosci dunque, ripresi, qual che altro modo di vita che spregi le cariche pubbliche e non sia quello del vero filosofo? -No, per Zeus!, rispose. -D'altra parte, al governo devono andare persone che non amino governare. Altrimenti la loro rivalità sfocerà in contesa. - Come no? - Chi dunque costringerai ad assumersi la guardia dello stato se non coloro che meglio conoscono quali sono i modi per la migliore amministrazione di uno stato, e che possono avere altri onori e una vita migliore di quella politica?- Nessun altro, rispose.

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Platone, Repubblica, VII, 515a-521b, pp. 229-236

Aristotele: il sapere nasce dalla meraviglia Aristotele non ci ha lasciato una descrizione del filosofo come Platone, ma, più in generale, ha distinto tre o quattro forme di vita, rispettivamente dedite all'ambizione, al piacere, al guadagno, alla ricerca e alla contemplazione della verità. A quest'ultima si deve riconoscere la superiorità sulle altre per essere la sola «ragionevole». Nel celebre passo della Metafisica che qui proponiamo l'iiiDJ Aristotele si sforza di definire la natura e lo scopo del genere più alto di ricerca della verità, l'indagine metafisica, che viene chiamata in questo contesto «sapienza». Premesso che conoscere un qualcosa significa trovarne le cause, considerandone non le caratteristiche particolari, ma le universali, e che più sapiente è colui che conosce con rigore le cause di più cose e le sa insegnare, Aristotele definisce la metafisica come la più elevata tra tùtte le scienze in quanto essa va in cerca delle «cause prime» dell'essere considerato nella sua natura universale ~>11-41. Fin dall'origine dei tempi gli uomini si sono dedicati alla conoscenza della natura spinti dalla meraviglia. Aristotele intende la meraviglia (thaumazein) come il sentimento, di stupore e di sgomento, che proviamo di fronte alle cose che non si capiscono. Egli immagina che gli uomini cercarono, in un primo momento, di spiegare i fenomeni più vicini alla loro esperienza e facili da comprendere, ma in seguito si occuparono anche di quelli più difficili e lontani ~>142-48. In questo senso, egli afferma che gli amanti dei miti sono in qualche misura filosofi: entrambi, infatti, sono attratti dalle cose che destano meraviglia e cercano di spiegare la natura dei fenomeni, di comprenderne le cause ~>148-50. Aristotele dice anche che gli uomini apprezzarono la conoscenza non per ricavarne utilità pratica, ma per uscire dallo stato di ignoranza. Ne è prova il fatto che si dedicarono alla spiegazione dei fenomeni soltanto dopo aver risolto i problemi fondamentali legati alla sopravvivenza ~>150-55. Conoscere le cau-

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se prime dei fenomeni è quindi, per Aristotele, l'impresa conoscitiva più alta che l'uomo possa tentare. La metafisica è infatti una. scienza supremamente «libera», perché non serve a nessun fine pratico: è un sapere che si cerca solo per se stesso ~155-59. Inoltre è una scienza «divina», perché solo una divinità può possederla e perché l'oggetto cui si rivolge, cioè la causa prima di tutte le cose, non può essere che Dio ~159-75. Tutte le altre scienze, conclude Aristotele, sono certamente più necessarie alla vita dell'uomo, ma nessuna è migliore della metafisica ~175-76. Interessante è la parte finale del brano in cui Aristotele afferma che lo scopo della metafisica, come ogni altra scienza, è eliminare la meraviglia da cui ha preso inizio la ricerca 1>17689. Sembrerebbe possibile allora che la phi/o-sophìa si trasformi in sophìa, cioè in una vera e propria scienza. Questo cambierebbe la natura del filosofo e la renderebbe diversa da come l'aveva definita Platone: non sarebbe più soltanto un amante della sapienza, ma un sapiente o uno scienziato vero e proprio. In effetti, Aristotele non ha lasciato soltanto la testimonianza di una ricerca filosofica aperta e problematica, come la incontriamo di frequente nei dialoghi platonici. La sua ricerca si è invece dispiegata in un sistema compiuto in cui le varie discipline concorrono, per quanto possibile, a produrre un sapere certo e definitivo.

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Sapiente è chi conosce tutte le cose, le più difficili, con I'ÌIJore, e SII il!lieiJIIIII'IUl le CIIIISe

Poiché cerchiamo questa scienza\ bisognerebbe considerare questo punto: quali sono le cause e quali sono i principi dei quali la sapienza è scienza. Qualche maggior chiarimento si potrebbe avere, se si prendessero in considerazione le opinioni correnti sulla natura del sapiente. In primo luogo riteniamo che il sapiente conosca tutte le cose, nella misura del possibile, senza avere scienza di ciascuna di esse in particolare2 . In secondo luogo, riteniamo che sia sapiente colui che è in grado di conoscere le cose difficili, cioè non facilmente conoscibili per l'uomo: tutti gli uomini hanno sensazioni, e perciò è facile disporne, ma nessuno è sapiente perché ha sensazioni. Infine riteniamo che in ogni scienza è più sapiente chi conosce con maggior rigore e sa insegnare meglio le cause. E, del resto, anche nei rapporti tra le scienze, si ritiene che la scienza che viene scelta di per se stessa e in vista del puro conoscere sia sapienza più di quella che viene scelta in vista delle conseguenze che ne derivano3 , e che la scienza che dirige sia sapienza più di quella che è sottomessa: infatti il sapiente non deve essere oggetto di ordini, ma deve darne egli stesso, e non deve ubbidire, ché, anzi, deve essere ubbidito da chi è meno sapiente. Tali e tanti sono i modi in cui concepiamo la sapienza e il sapiente. Di queste proprietà quella di conoscere tutte le cose appartiene necessariamente a chi ha la scienza universale nel grado più alto, perché costui conoscerà in qualche modo tutti i casi che ricadono sotto l'universale. Forse queste cose, intendo dire gli universali massimi, sono anche le più difficili da conoscere da parte degli uomini, perché sono le più lontane dalle sensazioni. Tra le scienze le più rigorose sono quelle che si occupano soprattutto di ciò che è primo, e infatti le scienze che derivano da un numero minore di premesse sono più rigorose delle scienze che ne discendono per mezzo dell'aggiunta di nuove premesse: per

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1. Si tratta di quella che Aristotele chiama «sapienza,,. cioè la conoscenza delle cause prime e dei principi. Dopo Aristotele sarà chiamata .. metafisica». 2. La scienza si interessa delle cose in termini universali: per esempio, la scienza dei cavalli si occupa di tutti i cavalli, non di uno in particolare. 3. L'attività teorica è considerata da Aristotele superiore a quella pratica.

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Per mezzo delle cause prime si conoscono tutte le cose

La mei•aviglia accende il desidea•io di

conoscere

La metafisica è una scienza libera

La metafisica è una scienza divina

esempio, l'aritmetica è più rigorosa della geometria. La scienza che più si occupa delle cause è anche pil:l capace di insegnare, perché insegnano quelli che enunciano le cause di ciascuna cosa. Inoltre conoscere e sapere sono fini a sé stessi soprattutto per la scienza il cui oggetto è conoscibile nel grado più alto, perché chi sceglie il sapere per il sapere sceglierà soprattutto la scienza che è tale nel grado più alto, e questa è quella che ha per oggetto ciò che può essere conosciuto nel grado più alto. Ma sono oggetti di scienza nel grado pil:l alto le cose che sono prime e che sono cause perché attraverso esse e a partire da esse si conoscono le altre cose, mentre esse non sono conosciute attraverso le cose subordinate. Ha maggiore autorità fra tutte le scienze, e ha più autorità di quella che a essa è sottoposta, la scienza che conosce il fine per il quale ogni cosa deve essere fatta e questo è il bene di ciascuna cosa, e in generale l'ottima in tutta la natura. Da tutto quello che abbiamo detto risulta dunque che la scienza menzionata nella nostra ricerca è sempre la medesima: questa deve prendere in considerazione i principi primi e le cause, e il bene e il fine sono una delle cause. Basta guardare a quelli che per primi hanno esercitato la filosofia, perché risulti chiaramente che la sapienza non è un sapere produttivo. Infatti gli uomini, sia da principio sia ora, hanno cominciato a esercitare attraverso la meraviglia. Da principio esercitarono la meraviglia sulle difficoltà che avevano a portata di mano; poi progredendo cos'ipoco alla volta, arrivarono a porsi questioni intorno a cose pil:l grandi, per esempio su ciò che accade alla luna, al sole e agli astri e sulla nascita del tutto. Chi si pone problemi e si meraviglia crede di non sapere, perciò anche colui che ama i miti è in certa misura filosofo, perché il mito è costituito da cose che destano meraviglia. Sicché, se gli uomini filosofarono per fuggire l'ignoranza è evidente che cercarono il sapere per il conoscere, e non per trame un utile. Ne è prova ciò che è accaduto: infatti quando ormai possedevano quasi tutte le cose necessarie e quelle occorrenti per un'esistenza confortevole e piacevole, gli uomini cominciarono a esercitare questo tipo di intelligenza. È chiaro dunque che noi non cerchiamo questo sapere per nessun altro uso, ma come dell'uomo diciamo che è libero quando esiste per se stesso e non per un altro uomo, così cerchiamo questa scienza come quella che è l'unica tra le scienze a essere libera, perché è l'unica che ha come fine se stessa4 . Perciò giustamente si potrebbe pensare che il possesso di essa non è umano, perché in molti sensi la natura degli uomini è serva, sicché, secondo Simonide «Dio soltanto avrebbe questo privilegio,5 , mentre non conviene che l'uomo non si accontenti di cercare una scienza adatta alle sue proporzioni. Se c'è qualcosa di vero in ciò che dicono i poeti, e se è proprio della natura divina provare invidia, allora è probabile che essa si indirizzi soprattutto in questa direzione e che sfortunati siano proprio quelli che eccellono nel sapere. Ma la divinità non può essere invidiosa, e, secondo il proverbio, i poeti raccontano molte menzogne; e non bisogna credere, che ci sia un'altra scienza che valga più di questa. La scienza più divina è anche quella che vale di più.

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4. Aristotele distingue le scienze e le attività servili, cioè indirizzate a una finalità pratica, da quelle libere che non servono a nessuna necessità, ma sono praticate per se stesse, per il puro gusto eli praticarle. 5. Questo verso di Simonide (poeta greco vissuto tra il VI e il V sec. a.C.) è citato nel Protagora eli ~~.

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E questa, della quale parliamo, è la sola scienza che possa essere divina, e in due modi: perché è divina fra le scienze o quella che soprattutto Dio potrebbe avere, o quella che fosse scienza di cose divine. La sapienza di cui parliamo è la sola alla quale siano toccate queste due proprietà: si ritiene infatti che la divinità sia una delle cause di tutte le cose e un principio, e la divinità è l'unica che potrebbe possedere questa scienza o almeno quella che potrebbe possederla nel grado più alto. Tutte le altre scienze sono più necessarie di questa, ma nessuna è migliore di essa. Il possesso di questa scienza deve in qualche modo portarci a uno stato contrario a quello nel quale si dà inizio alle ricerche. Come abbiamo detto, tutti gli uomini incominciano con il meravigliarsi che le cose sono come sono, per esempio a proposito delle marionette che si muovono da sé, o dei solstizi o della incommensurabilità della diagonale del quadrato con il lato (del fatto che non esita un'unità così piccola con la quale si possa misurare la diagonale e il lato si meravigliano soltanto quelli che non ne hanno mai considerata la causa). Ma bisogna arrivare al contrario della meraviglia iniziale, e, come elice il proverbio6 , a ciò che è migliore. Del resto così avviene nei casi citati, quando si -è imparato: infatti la cosa che più meraviglierebbe un uomo che conoscesse la geometria sarebbe proprio la commensurabilità del lato e della diagonale. Si è dunque eletto quale è la natura della scien- · za che viene cercata, quale è il fine al quale deve mirare la nostra ricerca e tutta la nostra trattazione.

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Aristotele, Metafisica, I, 982a5-983a23, pp. 184-188

6. Il proverbio dice: «il secondo è migliore". Aristotele intende dire che la meraviglia lascia il posto al sapere, che è contrario alla meraviglia iniziale, ma è migliore di essa.

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Corpo e anima: un problema aperto r ]l

l problema del rapporto tra mente (anilna) e corpo è fondamentale nel dibattito filosofico conten.lporal L neo. La nozione di anima, così ovvia per la religione, rappresenta un grande problema per la scienza e per la filosofia. Oggi, con il progresso delle scienze neurologiche, filosofi e scienziati si domandano se tutte le fun. zioni superiori che attribuiamo alla mente (pensiero, volontà, immaginazione) possano essere spiegate in termini fisiologici, facendo riferimento esclusivo alla materia cerebrale e al suo funzionamento. In tal caso, ciò che noi continuiamo a chiamare "ani111a" non sarebbe altro che un modo di funzionare molto sofisticato della materia organica presente nel cervello. Secondo una diversa prospettiva il problema era sentito anche nella filosofia antica. Per anima (psycbé) si intendeva il soffio vitale responsabile della vita. Successivamente, da Soera te l'anima dell'uomo fu identificata con la capacità di pensiero e di scelta, cioè con il centro dell'attività intellettuale e morale. Platone riprese l'antica dottrina dei pitagorici, secondo cui l'anima è un demone, cioè una via di mezzo tra gli esseri mortali e gli esseri divini. In quanto tale, essa non poteva morire, ma doveva sopravvivere alla fine del corpo per reincarnarsi in un corpo successivo. Platone elaborò questo mito collegandolo alla dottrina delle idee e della reminiscenza (anamnesi): l'anima possiede caratteristiche diverse dal corpo in quanto può conoscere le idee, immutabili ed eterne, e anelare oltre la semplice conoscenza della natura mutevole del-

le cose. La posizione eli Platone nei confronti del rapporto mente-corpo è definita pertanto come dualismo: mente e corpo sono realtà diverse per origine, natura e destino finale. Al contrario, Aristotele sostiene che l'anima non può vivere separata dal corpo. Le funzioni \ dell'anima possono essere diverse a seconc da del tipo di ~ivente a cui ci riferiamo. In ' un uomo, per esempio, le funzioni sono più complesse rispetto a una pianta o a un animale. Ciò non significa tuttavia che l'anima , possa esistere separata dal corpo: essa in\ fatti è definita da Aristotele come la "forma" del corpo, cioè come il suo principio formale e finale, come ciò che rende un vivente quello che è. Impossibile quindi separare il corpo materiale ·, dal suo principio formale, l'anima, che lo ha fatto diventare quello che è. Questa teoria cerca eli superare il dualismo platonico giungendo alla conclusione che l'anima individuale eli un uomo non è immortale. B. Thorvaldsen, Psycbé, Berlino, Alte National Galerie.

Platone: il filosofo non teme la morte Nel corso dei suoi dialoghi Platone offre diverse descrizioni dell'anima, facendo ricorso a immagini e a racconti mitologici. Nel Fedro, per esempio, la paragona ad un cocchio trascinato da due cavalli (uno bianco, che rappresenta la tendenza al bene, e uno nero, che rappresenta la tendenza al male) e guidato da un auriga che è la ragione.

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Nella Repubblica, l'anima è descritta come suddivisa in tre parti: una razionale, una irascibile e una concupiscibile, analogamente alle tre classi dei cittadini. Nel Timeo, la nozione di anima viene estesa al mondo intero in quanto tutto l'universo è concepito come un essere animato, vivente e intelligente. Nel Fedone, dialogo in cui si raccontano gli ultimi discorsi di Socrate prima di morire, si fa strada invece una concezione dualistica dell'uomo, in cui l'anima e il corpo sono concepiti come separati, diversi per natura, per origine e per destino finale. Riprendendo la tradizione orfica e pitagorica, Platone attribuisce all'anima un'origine divina e una natura immortale. Con la morte del corpo, l'anima ritornerà al. luogo da dove era venuta. Il corpo invece è paragonato a una tomba in cui l'anima cade prigioniera al momento dell'incarnazione. Nel brano che proponiamo~. Socrate è ben cosciente delle limitazioni che il corpo pone alla libera attività dell'anima ~11-23. Scopo della vita, per il filosofo, sarà allora liberare l'a· nima dalla «sepoltura» del corpo, cioè dalle passioni che la tengono prigioniera, per dedicarsi alla conoscenza e anticipare, fin da questa vita, il ritorno alla «patria» divina ~>123-41. Se consideriamo la vita del corpo come una prigione, allora, dice Socrate, il filosofo non può aver paura della morte. Al contrario, è quasi felice di morire, per ottenere quello che ha desiderato da sempre: la liberazione dell'anima dalle catene della corporeità ~>-14258. La filosofia, in questo senso, è definita da Socrate, in modo paradossale, una vera e propria «preparazione alla morte» ~>158-82. Addestrando l'anima a «ricordare», la filosofia risveglia il ricordo della bellezza e immortalità delle idee, e suscita il desiderio di poterle presto rivedere senza gli impedimenti del corpo.

Hif#i il corpo è

ostacolo Ilei' l'anima che uuol giunge••e alla um•itiì llll

-Dunque, diss'egli, da tutto ciò, deve formarsi necessariamente nei filosofi veri una credenza di questo genere; ond'essi ragioneranno tra loro press'a poco così: «Pare ci sia come un sentiero a guidarci, col raziocinio, nella ricerca; perché, fino a quando abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata e confusa con un male di tal natura, noi non saremo mai capaci eli conquistare compiutamente quello che desideriamo e che diciamo essere la verità. Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura per le necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci càpitano addosso, ci impediscono la ricerca della verità; e poi esso ci riempie eli amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere, e insomma di tante vacuità e frivolezze che veramente, finché siamo sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si elice, fermare la mente su cosa veruna. Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è cagione se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per acquisto eli ricchezze; e le ricchezze sianio costretti a procurarcele per il corpo e per servire ai bisogni del corpo. E così non abbiamo modo di occuparci di filosofia, appunto per tutto questo. E il peggio eli tutto è che, se pur qualche momento di quiete ci venga dal corpo e noi cerchiamo eli rivolgerei a qualche meditazione, ecco che, d'un tratto, in mezzo alle nostre ricerche e dovunque, quello viene ancora a tagliarci la strada, e ci rintrona e conturba e clisanimisce\ sicché insomma non è possibile per la influenza sua vedere la verità: e ci apparisce chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza, ci bisognerà spogliarci del corpo e guardare con sola la nostra anima pura--la pura realtà

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Jl. Toglie la fiducia nelle proprie forze .

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La morte, libe•·amloci

dal corpo, ap1•e la strada 11erso la sapienza

La morte è purificazione dell'anima dal cm•po

l filosofi si rallegrano di moril•e

delle cose. E solamente allora, come pare, riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui ci professiamo amanti, la sapienza; e cioè, come il ragionamento significa, quando saremo morti, ché vivi non è possibile. Se difatti non è possibile, in unione col corpo, venire a conoscenza di alcuna cosa nella sua purità, delle due l'una, o non è possibile in nessun caso conquistare il sapere, o solo è possibile quando si è morti; perché allora soltanto l'anima sarà tutta sola in se stessa, quando sia sciolta dal corpo, prima no. E in questo tempo che siamo in vita, tanto più, come è naturale, saremo prossimi al conoscere, quanto meno avremo rapporti col corpo, né altra comunanza con esso se non per ciò che ne costringa assoluta necessità; e in ogni modo non ci lasceremo contaminare dalla natura propria del corpo, e ci terremo puri e lontani da esso finché non venga il dio di sua volontà a liberarcene del tutto. E così, fatti puri e liberi da quella infermità di mente che ci viene dal corpo, ci troveremo, com'è verosimile, in compagnia di esseri altrettanto liberi e puri2 , e impareremo a conoscere da noi medesimi tutto ciò che è mondo da impurità. E questo appunto, io credo, è il vero. Perché non è lecito a cosa impura toccare cosa pura». Questo, o Simmia'\ io immagino, dovranno dire e pensare tra loro tutti quelli che sono veramente amici della conoscenza. Non ti pare che sia così?- Perfettamente, o Socrate. -Ebbene, o amico, disse Socrate, se questo è vero, grande speranza ha, chi giunga dove io sono per andare, di ottenere appunto colà, nella sua pienezza, come certo in nessun altro luogo, quello per cui grande affanno ci prendemmo nella vita trascorsa; cosicché questa emigrazioné che ora è ordinata a me, non è senza dolce speranza anche per chiunque altro il quale pensi di essersi a ciò preparato lo spirito come con una purificazione. -Precisamente, disse Simmia. - E purificazione non è dunque, come già fu detto nella parola antica 5 , adoperarsi in ogni modò di tenere separata l'anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa .a questa sua liberazione dal corpo come da catene?6 - Benissimo, disse. - E dunque non è questo che si chiama morte, scioglimento e separazione dell'anima dal corpo? - Esattamente, rispose. - E di sciogliere, come diciamo, l'anima dal corpo si dànno pensiero sempre, sopra tutti gli altri e anzi essi soli, coloro che filosofano dirittamente; e questo appunto è lo studio e l'esercizio proprio dei filosofi, sciogliere e separare l'anima dal corpo. O non è così? - È chiaro. - E allora, come dicevo a principio, non sarebbe ridicolo che un uomo, il quale per tutta la vita si apparecchF a vivere in tal modo, tenendosi più vicino che può al morire, quando poi questo morire arriva, se ne rammaricasse? - Sarebbe certo ri-

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2. Il mondo delle idee che sono, come sarà eletto più avanti, della stessa natura dell'anima. 3>. È uno degli interlocutori di Socrate, seguace della filosofia pitagorica. 4. Socrate chiama «emigrazione" nell'Aldilà la sua prossima morte. 5. È un accenno alla «parola sacra, cioè alla dottrina degli orfici, ripresa e parzialmente modificata dai pitagorici, secondo cui l'anima deve ottenere la purificazione (catarsi) prima di fare ritorno alla sua origine celeste. 6. Si pensi alle famose estasi di Socrate, che rimaneva talvolta in contemplazione per diverse ore, dimentico di tutto. 7. Prepari. ~----------------------------------------------·;' Ì:

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dicolo; come no? - È dunque vero, egli disse, o Simmia, che coloro i quali filosofano dirittamente si esercitano a morire, e che la morte è per loro cosa assai meno paurosa che per chiunque altro degli uomini. Rifletti bene su questo. Se veramente i filosofi sono per ogni rispetto in discordia col corpo e hanno desiderio di essere soli con la propria anima; se costoro, quando questo lor desiderio si avvera, fossero presi da paura e da dolore, non sarebbe una grande contraddizione? Se cioè, dico, non fosse1;o lieti di andare colà dove giunti hanno fede di ottenere quello che in vita amarono- e amarono la sapienza - e quindi di sentirsi disciolti dalla compagnia di ciò appunto con cui furono in discordia? O che forse, mentre c'è molti i quali, se pèrdono o moglie o figli, amori di creature umane, vogliono da se medesimi andarne in cerca nell'Ade, sospinti da questa lor fede di rivedere colà quelli che amarono e di trovarsi con essi; chi fu schiettamente amico della sapienza e nutrì in cuore eguale e sicura fede che in niun altro luogo potrà trovare codesta sapienza nella sua interezza se non nell'Ade, costui dunque si rammaricherà di morire e non sarà lieto di andare colà? Io devo pur credere; o amico, che sia così, se realmente costui è filosofo. Perché egli si sarà pur formata la convinzione certa che in nessun altro luogo potrà incontrare la pura e perfetta sapienza se non colà. E se questo è così, non sarebbe, come dicevo or ora, una grande contraddizione che un uomo di tale animo avesse paura della morte? - Grande certamente, egli disse.

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Platone, Pedone, 66b-68b, pp. 116-119

Aristotele: le definizioni e le funzioni dell'anima Poiché l'anima è mutevole e non esiste possibilità di scienza che abbia come oggetto ciò che muta, per Platone non è possibile una «scienza» dell'anima. Ne consegue che il punto di vista di Platone sulla natura dell'anima si esprima con un linguaggio mitologico. Con Aristotele, invece, assistiamo al primo tentativo di fondare una psicologia scientifica. Nel brano che proponiamo~' tratto dal secondo libro del trattato su L'anima, dopo aver definito l'anima come il principio attivo che dirige lo sviluppo del corpo vivente fino alla sua attuazione finale, ovvero la forma specifica che esso viene ad assumere r>l1-19, Aristotele paragona la natura dell'anima a quella della conoscenza: come l'uomo possiede la conoscenza anche nel momento in cui non la usa, ad esempio nel sonno, così ogni vivente possiede un'anima anche se in certi momenti essa non esercita tutte le sue funzioni. Di qui la definizione dell'anima come atto primo di un corpo naturale che ha la vita in potenza, là dove «atto primo» sta ad indicare proprio che il suo possesso è primo rispetto al suo uso completo ed effettivo r>l19-36. Aristotele passa poi a elencare una serie di esempi per aiutare a comprendere come l'anima sia la forma, ovvero l'essenza di un determinato corpo: come la vista è la forma dell'occhio, ovvero la sua realizzazione finale, così l'anima lo è del corpo, con il quale forma un'unità inseparabile, vivente t>137-64. Il filosofo descrive in seguito la natura dell'anima, separandola, ma solo logicamente, in tre parti, ognuna delle quali esercita una funzione diversa. La fun· zione vegetativa provvede al nutrimento e alla crescita del vivente ~>165-78, quella sensiti· va alle sensazioni e al movimento nello spazio ~>178-87, quella razionale al pensiero. L'anima di ogni vivente possiede almeno una delle tre funzioni sopra elencate. Nei viventi in cui due o tre di tali funzioni sono presenti contemporaneamente, esse non sono mai separate tra loro. Nell'uomo, in cui sono presenti tutte, non sono tra loro separabili, se non come si è.

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detto logicamente. Con tale discorso Aristotele si pone in antitesi al dualismo platonico non ritenendo possibile per l'uomo una vita spirituale indipendente dal corpo ~187114. La discussione del problema dell'anima prosegue con l'indicazione di altre facoltà dell'anima, come ad esempio quella appetitiva e quella locomotoria. Con la prima si indica la capacità di desiderare, mentre con la seconda la facoltà di spostarsi da un luogo a un altro. Entrambe queste facoltà appartengono all'anima che possiede la facoltà sensitiva, quindi agli animali e all'uomo ~1115-136. Come il triangolo è la figura geometrica più elementare ed è contenuto in tutte le altre figure, coslla facoltà vegetativa dell'anima, preposta al nutrimento e alla crescita, è presente in tutti i viventi, anche in quelli che possiedono facoltà sensitiva e razionale. Inoltre, tra gli animali il senso comune a tutti è il tatto, mentre non tutti possiedono la vista, l'udito o l'olfatto ~1137-163.

Al termine del brano, Aristotele indica quali sono le cause degli esseri viventi. Se il corpo di un vivente è la sua causa materiale, l'anima ne è la causa formale, finale e motrice. È la causa formale di un vivente perché fa sl che il vivente viva e, allo stesso tempo, è il principio formale che dirige il suo sviluppo. È causa finale in quanto il corpo dei viventi esiste in funzione di essa, perché essa eserciti le sue facoltà e le sue funzioni. In questo senso Aristotele può affermare che il corpo è strumento dell'anima. Infine, è anche causa motrice, perché senza l'anima nessun vivente potrebbe muoversi da solo ~>1164-182.

0\ffi:hl17-15. Per rafforzare la sua tesi, Socrate propone anche un'altra dimostrazione: il meccanismo del ricordare si basa sulla capacità di collegare una sensazione avuta nel presente a un'altra sensazione avuta nel passato ~>115-47. Partendo da un esempio a lui vicino, Socrate dimostra che alcune conoscenze, come quella di «uguale», non possono essere apprese soltanto dalle sensazioni. Bisogna invece supporre che la nostra mente le abbia già dentro di sé per spiegare come è possibile confrontare due oggetti e valutare se sono uguali o disuguali ~>148-1 09. Ciò che l'esperienza ci presenta, infatti, sono solo oggetti o fatti particolari. È la mente che paragona, giudica, classifica, raccoglie la molteplicità in unità. Lo stesso concetto di unità, intesa come sintesi di elementi simili tra loro, non proviene dall'esperienza sensibile. Seguendo lo stesso ragionamento, possiamo estendere la teoria anche agli enti matematici e geometrici. Non esiste infatti né un quadrato né un triangolo perfetto di cui possiamo fare esperienza. Esisteranno invece «quel tavolo quadrato» e «quel campo triangolare», somiglianti o meno al quadrato e al triangolo perfetto, che esiste soltanto, come parametro ideale, nella nostra mente. l valori estetici e morali hanno la medesima natura: non potremmo valutare nessuna cosa come bella e nessuna azione come giusta se non possedessimo un modello ideale di bello e di giusto per giudicare cosa è bello e cosa è giusto. Tali modelli sono il «bello in sé» e il «giusto in sé», cioè le idee innate del bello e del giusto ~>111 0-118. È una prima formulazione dell'innatismo, posizione filosofica per cui alcune nozioni presenti nella mente non possono essere apprese tramite l'esperienza e quindi vi devono esistere fin dalla nascita ~>1118-138.

~iiif.1J~i Conoscere è l'icordare

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Certamente, soggiunse Cebète 1 : e anche, o Socrate, per quella dottrina, se è Cebète cui sei solito parlare così spesso, che ogni nostro apprendimento non è altro in realtà che reminiscenza; anche per codesta dottrina si dovrà pur ammettere che noi si sia appreso in un tempo anteriore quello di cui oggi ci ricordiamo. La quale cosa non è possibile se l'anima nostra non esistette già in qualche luogo prima di generarsi in questa nostra forma umana. Cosicché anche per questa via apparisce che l'anima è qualche cosa di immortale. - Sta bene, o Cebète, disse allora Simmia; ma quali prove tu dai eli codesto? Fammene ricordare, perché, sul momento, non me ne ricordo affatto.- Una sola, rispose Cebète, e bellissima: e cioè che gli uomini, -quando sono interrogati, purché uno sappia interrogarli con discernimento, rispondono da se stessi su ogni cosa come è; e certo, se di questa o quella cosa già non fosse in loro cognizione e diritto giudizio, essi non sarebbero capaci di fare ciò. E poi, conducine alcuno dinanzi a figure geometriche o ad altro di simile, ed ecco che avrai qui la riprova più sicura di quello che dico.- Se però o Simmia, disse SoCl·ate, per questa via non ti persuadi, vedi un poco se ti riesca condividere il mio pensiero esaminando la questione da quest'altro punto. Tu dunque sei in dubbio di que-

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1. Cebète, con Simmia, è il piì:J importante interlocutore di Socrate hel Pedone.

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Ricordare significa possedere conoscenze precedenti

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Da dnue prnuiene

la nozione di uguale?

sto, in che modo ciò che diciamo apprendimento sia reminiscenza? - Che proprio io sia in dubbio, rispose Simmia, non è vero; soltanto, avrei bisogno di sperimentare su me stesso questo di cui si ragiona, e cioè ... di ricordarmi. Veramente, da quello che si provò a dimostrare Cebète, già mi vengo, alla meglio, ricordando e persuadendo; ma non di meno udrei volentieri ora in che modo ti provasti tu nella dimostrazione. - In questo modo, disse Socrate. Noi siamo d'accordo sicuramente che se uno si ricorderà di qualche cosa, bisogna che di codesta cosa egli abbia avuto cognizione in precedenza. - Sta bene, disse. - E allora, siamo noi d'accordo anche in questo, che, quando uno ha cognizione di qualche cosa nel modo che dico, codesta è reminiscenza? Che modo io dico? Questo. Se uno, veduta una cosa o uditala o avutane comunque un'altra sensazione, non solamente venga a conoscere quella tale cosa, ma anche gliene venga in mente un'altra, -un'altra di cui la cognizione non è la medesima, ma diversa; - ebbene, non s'adoperava noi la parola nel suo giusto valore quando dicevamo, a proposito di quest'altra cosa venutagli in mente, che colui «Se ne era ricordato,? - Come dici? - Per esempio: altra è, tu ammetti, nozione di uomo, altra è nozione di lira. -Senza dubbio. -Ebbene, non sai tu che agli innamorati, se vedono una lira o un mantello o un altro oggetto qualunque di cui il loro innamorato fosse solito valersi, accade questo, che riconoscono la lira e al tempo stesso rivedono con la mente la figura dell'innamorato di cui era la lira? Questo è reminiscenza: allo stesso modo che, capitando a uno di vedere Simmia, egli si ricorda di Cebète; e si potrebbero citare infiniti esempi di questo genere.- Infiniti veramente, disse Simmia.- Dunque, disse Socrate, questo e simile a questo non sono casi di reminiscenza? tanto più quando càpitano in proposito di cose che per il tempo e per non averle più sotto gli occhi si erano oramai dimenticate?- Perfettamente, disse. -Bene, soggiunse Socrate; e, se uno veda un cavallo dipinto e una lira dipinta, è possibile che si ricordi di un uomo? e se Simmia dipinto, che si ricordi di Cebète? Certo. -E anche, se uno veda Simmia dipinto, non è possibile che egli si ricordi del vero Simmia?- È possibile certo, disse. - Ora, da tutti questi esempi non risulta che la reminiscenza avviene in due modi, per via di somiglianza e per via di dissomiglianza?- Sì.- Bene: ma quando uno si ricorda di qualche cosa per via di somiglianza, non gli viene fatto necessariamente anche questo, di pensare se la cosa che ha destato il ricordo sia o no, quanto alla somiglianza, in qualche parte manchevole rispetto a quella di cui destò il ricordo?- Necessariamente, disse.- Vedi allora, rispose Socrate, se la cosa sta così. C'è qualche cosa, è vero?, di cui noi affermiamo che è eguale: e non già voglio dire di legno a legno, di pietra a pietra o di altro simile; bensì di cosa che è di là e diversa da tutti questi eguali, dico l'eguale in sé. Possiamo di questo eguale in sé affermare che è qualche cosa, o non è nulla affatto? - Dobbiamo affermarlo sicuramente, disse Simmia; proprio così. - E conosciamo anche ciò che esso è in se stesso?.- Certo, rispose. -E di dove l'abbiamo avuta questa conoscenza? Non l'abbiamo avuta da quegli ugualr"di cui si parlava ora, o legni o pietre o altri oggetti qualunque, a vedere che sono uguali? non siamo stati indotti da questi uguali a pensare a quell'uguale, che è pur diverso da questi? O non ti pare che sia diverso? Considera anche da questo punto. Pietre uguali e legni uguali non accade talvolta che appariscano, anche se gli stessi, a uno eguali e a un altro no?- Sicuramente. - E dimmi, l'eguale in sé si dà mai il caso che apparisca disuguale, e insomma l'uguaglianza

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La nozione di uguale è già contenuta 11111111 IIUSi!'il lnlllltl'l

P1•ima di nesr.ere la lnllntl! COIUISCe tutte le idee

disuguaglianza?- Impossibile, o Socrate.- Infatti non sono la stessa cosa, disse Socrate, questi uguali e l'uguale in sé. -Mi par bene, o Socrate. -Ma pure, disse, è proprio per via di questi uguali, benché diversi da quell'eguale, che tu hai potuto pensare a fermare nella mente la conoscenza eli esso eguale, non è vero?- Verissimo, disse. -E come eli cosa o simile o dissimile da codesti, no? -Precisamente.- Perché non fa differenza, aggiunse. Basta che tu, veduta una cosa, riesca da codesta vista a pensarne un'altra, sia essa simile o dissimile, ecco che proprio qui, disse, in questo processo, tu hai avuto necessariamente un caso di reminiscenza.- Benissimo.- E dimmi, riprese, succede a noi qualche cosa eli simile rispetto a quegli eguali che osserviamo nei legni e negli altri oggetti eguali di cui discorrevamo or ora? Ci appariscono essi così eguali come appunto è l'eguale in sé, o difettano in qualche parte da esso, qÙanto a essere tali e quali all'eguale, o non difettano in nulla? - Molto anzi, egli disse, ne difettano. -E allora, quando a uno, veduta una cosa, viene fatto eli pensare così: «Questa cosa che ora io vedo tende a essere come un'altra, e precisamente come uno eli quegli esseri che esistono per se stessi, e tuttavia ne difetta, e non può essere come quello, e anzi gli rimane inferiore,; ebbene, chi pensa così, non siamo noi d'accordo che colui ha da essersi pur fatta dapprima, in qualche modo, un'idea eli quel tale essere à cui elice che la cosa veduta s'assomiglia, ma da cui è, in paragone, difettosa?- Necessariamente. -E allora, dimmi, è avvenuto anche a noi qualche cosa eli simile, o no, rispetto agli eguali e all'eguale in sé?- Certo.- Dunque è necessario che noi si sia avuta già prima un'idea dell'eguale; prima cioè eli quel tempo in cui, vedendo per la prima volta gli uguali, potemmo pensare che tutti codesti eguali aspirano sì a essere come l'eguale, ma gli restano inferiori. - È proprio così. - E quindi siamo d'accordo anche in questo, che non da altro s'è potuto formare in noi codesto pensiero, né da altro è possibile che si formi, se non dal vedere o dal toccare o da alcun'altra di queste sensazioni; ché tutte per me valgono ora lo stesso. -Valgono lo stesso, o Socrate, rispetto a ciò che ora vuol dimostrare il nostro ragionamento. Ma, naturalmente, proprio da queste sensazioni deve formarsi in noi il pensiero che tutti gli eguali che cadono sotto eli esse sensazioni aspirano a esser quello che è l'uguale in sé e a cui tuttavia rimangono inferiori. O come vogliamo dire? - Così. - Dunque, prima che noi cominciassimo a vedere e a udire e insomma a far uso degli altri nostri sensi, bisognava pure che ci trovassimo in possesso della conoscenza dell'eguale in sé, che cosa realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, riportarli a quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello, mentre poi gli rimangono al di sotto.- Da quello che s'è detto, o Socrate, bisogna concludere così. -Or dunque, sùbito appena nati, non vedevamo noi, non udivamo, non avevamo tutti gli altri sensi? - Senza dubbio. - E non bisognava anche, abbiamo detto, che, prima eli tutto ciò, fossimo già in possesso della conoscenza dell'uguale in sé?- Sì.- E dunque, come pare, già prima di nascere noi dovevamo essere in possesso di codesta conoscenza. - Così pare. - Se dunque è vero che noi, acquistata codesta conoscenza prima di nascere, la portammo con noi nascendo, vorrà dire che prima di nascere e sùbito nati conoscevamo già, non solo l'eguale e quindi il maggiore e il minore, ma anche tutte insieme le altre idee; perché non tanto dell'eguale stiamo ora ragionando quanto anche del bello in sé e del buono in sé e del giusto e del santo, e insomma, come dicevo, eli tutto ciò a cui, nel nostro disputare, sia interrogando

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sia rispondendo, poniamo questo sigillo, che è ih sé. Onde risulta necessariamente che di tutte codeste idee noi dobbiamo aver avuta conoscenza prima di nascere. - È così. - E anche risulta - salvo che, una volta in possesso di codeste conoscenze, non ci troviamo poi, a ogni nostro successivo rinas·cere, nella condizione di averle dimenticate - che appunto nèl nostro perenne rinascere non cessiamo mai di sapere, e conserviamo questo sapere per tutta la vita. Perché il sapere è questo, acquistata una conoscenza, conservarla, e non già averla dimenticata. Non è questo, o Simmia, che diciamo dimenticanza, perdita di conoscenza?- Proprio questo, egli disse, o Socrate. - Sta bene: ma se invece, io penso, acquistate delle conoscenze prima di nascere, noi le perdiamo nascendo, e poi, valendoci dei sensi relativi a certi dati oggetti, veniamo ricuperando di ciascuno di essi quelle conoscenze che avevamo già anche prima; ebbene, questo che noi diciamo apprendere, non sarà un recuperare conoscenze che già ci appartenevano? e, se adoperiamo per questo la parola ricordarsi, non l'adoperiamo nel suo giusto significato?- Certamente. -Questo infatti fu già dimostrato possibile, che uno, avuta sensazione di qualche cosa, perché l'abbia veduta o udita o in altro modo percepita, ecco che costui, per via di questa cosa, si fa a pensarne un'altra della quale s'era dimenticato e a cui quella si avvicinava o per somiglianza o anche per dissomiglianza. Cosicché, come dicevo, delle due l'una: o noi siamo nati già conoscendo quelle idee e ne conserviamo la conoscenza durante la vita tutti quanti, oppure, in séguito, quelli i quali diciamo che apprendono, non fanno altro costoro che ricordarsi, e questo apprendimento sarà appunto reminiscenza. - Proprio così, disse, o Socrate.

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Platone, Pedone, 72e-76a, pp. 126-131

Aristotele: la facoltà sensitiva e l'intelletto Sul problema dell'origine della conoscenza Aristotele rovescia la prospettiva platonica: per lui la conoscenza ha origine dai sensi, ovvero dall'esperienza. L'intelletto non potrebbe pro-

durre concetti generali (ad esempio il concetto di uomo) se non avesse a disposizione alcuni dati sensibili (molti uomini visti e conosciuti) a cui fare riferimento. Questa posizione è definita empirismo: prima di giungere all'intelletto le conoscenze sono ricavate dai sensi. L'intelletto, tuttavia, secondo Aristotele ha un rapporto tutto particolare con il dato sensibile perché ne riceve l'essenza, la forma intelligibile. Ecco perché il pensare costituisce una funzione superiore dell'anima, non posseduta da tutti i viventi, ma soltanto dall'uomo. Inoltre appartengono all'intelletto alcune conoscenze, come ad esempio i principi logici, che non provengono affatto dall'esperienza. Alla facoltà sensitiva Aristotele dedica una lunga discussione nel trattato su L'anima, da cui prendiamo i brani seguenti, mettendo in luce come si genera la sensazione in generale e nei cinque sensi in particolare. La sensazione l1iiJ§:l consiste nel subire un'azione dall'esterno ~11-4, ma ci sono due modi di percepire, uno in atto e l'altro in potenza. Così nel momento in cui percepisce (ad esempio quando vediamo qualcosa), la facoltà sensitiva è in atto, mentre quando non percepisce (quando teniamo gli occhi chiusi) diciamo che è in potenza ,..1516. La facoltà sensitiva- dice Aristotele- è in potenza ciò che l'oggetto percepito è in atto. Essa è completamente passiva e si limita a subire l'agente esterno divenendo «simile» ad esso. È dunque l'oggetto esterno che stimola la facoltà sensitiva, che altrimenti resterebbe inattiva (se non ci fossero oggetti visibili la vista non vedrebbe) ~>116-26.

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i La facoltà sensitiua deve essel'e stimolata dall'esterno

La facoltà sensitiua diviene simile all'oggetto pet•cepito

Ognuno dei cinque sensi possiede un modo particolare di percepire l'oggetto esterno~. Esistono poi alcune qualità degli oggetti esterni che vengono percepite nello stesso modo dai cinque sensi e che Aristotele chiama sensibili comuni: il movimento, la quiete, il numero, la figura e la grandezza ~127-39.

La facoltà sensitiva Stabilite queste cose, dobbiamo parlare in generale di ogni sensazione. Come s'è detto, la sensazione consiste nell'essere mossi e nel subire un'azione, giacché sembra che sia una specie di alterazione. Ora alcuni sostengono che il simile subisce l'azione del simile. [. . .] Si presenta però un problema: perché non si ha sensazione degli stessi sensorP, ovvero perché questi ultimi, senza gli oggetti esterni, non percepiscono, benché in essi si trovino il fuoco, la terra e gli altri elementi, i quali sono oggetto di sensazione in se stessi o nei loro accidenti 2 ? Ovviamente la risposta è che la facoltà sensitiva non è in atto, ma soltanto in potenza, e perciò la percezione non avviene, alla stessa maniera che il combustibile non brucia da se stesso, senza il comburente: in caso contrario brucerebbe da sé e non ci sarebbe affatto bisogno del fuoco esistente in atto. Poiché «percepire» si dice in due accezioni (giacché diciamo che ascolta e vede sia chi ascolta e vede in potenza, anche se per caso dorma, sia chi presentemente ascolta e vede in atto), anche la facoltà sensitiva ha due significati: in quanto è in potenza e in quanto è in atto. La stessa cosa vale per l'oggetto sensibile: o è tale in potenza o in atto. Cominciamo allora la trattazione ammettendo che subire, essere mosso ed agire siano la stessa cosa. Infatti, come s'è detto in altri scritti, il movimento è una specie di atto, benché imperfetto 3 • Ora ogni essere che subisce un'azione ed è mosso, lo è ad opera di un agente che si trova in atto. È pertanto possibile, come abbiamo detto, che una cosa subisca l'azione del simile come pure del dissimile. La cosa infatti che subisce è il dissimile, ma quando ha subìto è similé. [. .. ] Ora, come s'è detto, la facoltà sensitiva è in potenza ciò che il sensibile è già in atto. Pertanto essa subisce, poiché non è simile all'oggetto, mentre quando ha subìto assomiglia e diventa simile a quello.

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Aristotele, L'anima, II, 416b33-418a7, pp. 143-149

Le tre specie di sensibili

Ciascun senso percepisce una qualità diuersa dell'oggetto

Riguardo a ciascun senso, si deve parlare anzitutto dei sensibili 5 . Il sensibile può denotare tre specie di oggetti: due diciamo che sono sensibili per sé ed uno per accidente. Di quei due, poi, uno è proprio di ciascun senso, mentre l'altro è comune a tutti. Dico «proprio» quello che non può essere percepito con un altro senso, e rispetto a cui non è possibile l'errore: ad esempio per la vista il colore, per l'udito il suono e per il gusto il sapore, mentre il tatto ha per oggetto molte varietà di sensibili. Tuttavig. ogni senso

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l. I sensori sono gli organi predisposti alla sensazione.

2. Nelle loro qualità sensibili.

3. Ossia non è un fine in sé, ma un processo che conduce a un fine. 4. Cioè diventa simile all'oggetto di cui ha subito l'azione. 5. I sensibili sono gli oggetti di cui si può avere sensazione.

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Alcune caratteristiche sono percepite da tutti i sensi

giudica almeno i propri oggetti, e non s'inganna sul fatto che un colore o un suono ci sia, ma su che cosa e dove sia l'oggetto colorato o sonoro. Tali sensibili, dunque, si dicono propri eli ciascun senso. I sensibili comuni sono invece il movimento, la quiete, il numero, la figura e la grandezza, giacché essi non sono propri eli alcun senso, ma comuni a tutti, in quanto un dato movimento è percepibile sia al tatto che alla vista.

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Aristotele, L'anima, II, 418a7-25, p. 149

L'intelletto t!litlll, invece, è ciò con cui l'anima pensa e apprende. Nei confronti dell'oggetto intelligibile è passivo come la sensazione nei confronti dell'oggetto sensibile. È l'intelligibile infatti che stimola l'attività dell'intelletto, attività che consiste nel divenire simile non all'oggetto particolare, ma alla sua forma universale. L'intelletto infatti subisce l'azione non dell'oggetto particolare, ma della forma universale presente in esso. Le forme sono gli intelligibili e l'intelletto diviene simile alle forme quando le pensa ~>140-48. L'intelletto poi è separato dal corpo (Aristotele dice «non mescolato» per riprendere un'espressione di Anassagora), ma è comunque una parte dell'anima ~>148-59. Ciò sembra contraddire l'assunto iniziale del trattato, per cui anima e corpo non sono sostanze separate. Tuttavia, l'esperienza dimostra che intelletto e sensibilità sono due cose diverse perché mentre sensazioni troppo forti inibiscono la capacità di sentire, pensieri troppo intensi non impediscono di continuare a pensare t>l59-67. L'intelletto inoltre è in grado di pensare se stesso, ma soltanto quando possiede già qualche nozione, cioè quando ha cominciato la propria attività ~>167-71. L'intelletto, aggiunge Aristotele, non sente il caldo e il freddo, quindi è separato dal corpo: non percepisce le qualità sensibili delle cose, ma la loro forma intelligibile, cioè l'essenza ~>172-82. Ciò pone la questione di come l'intelletto, separato dal corpo, possa ricevere stimoli dall'esterno. La risposta a questo problema richiederà l'introduzione di un'altra facoltà dell'intelletto, che Aristotele chiama intelletto produttivo, che ha il compito di astrarre la forma intelligibile dagli oggetti e offrirla all'intelletto passivo. Quest'ultimo si presenta come una tavoletta di cera su cui non è ancora stato scritto niente, ma appena riceve la forma intelligibile dall'intelletto produttivo «diviene» quella forma e l'apprende. Una volta acquisita la conoscenza delle forme, l'intelletto può pensare sia le forme senza gli oggetti sensibili sia se stesso come intelligibile ~>183-1 03.

L'intelletto in potenza Pensa1'e significa subire l'azione di una forma intelligibile

Riguardo alla parte dell'anima con cui essa conosce e pensa (sia questa parte separabile, sia non separabile secondo la grandezza, ma soltanto logicamente) si deve ricercare quale sia la sua caratteristica specifica ed in qual modo il pensiero si produca. Ora se il pensare è analogo al percepire, consisterà in un subire l'azione clell'intelligibile 6 o in qualcos'altro eli simile. Questa parte dell'anima deve dunque essere impassibile, ma ricettiva della forma 7 , e dev'essere in potenza tale qual è la forma, ma non identica acl essa; e nello stesso rapporto in cui la facoltà sensitiva si trova rispetto agli oggetti sensibili, l'intelletto si trova rispetto agli intelligibili. È necessario dunque, poiché l'intelletto pensa tutte

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6. Come il sentire è subire l'azione eli un oggetto sensibile, così il pensare è subire l'azione eli un oggetto intelligibile.

i. Si intende la forma intelligibile .

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l'essenza delle cose

le cose, che sia non mescolato, come dice Anassagora, e ciò perché domini, ossia perché conosca (l'intrusione, infatti, di qualcosa di estraneo lo ostacola ed interferisce con lui). Di conseguenza la sua natura non è altro che questa: di essere in potenza. Dunque il cosiddetto intelletto che appartiene all'anima (chiamo intelletto ciò con cui l'anima pensa ed apprende) non è in atto nessu-. no degli enti prima di pensarli. Perciò non è ragionevole ammettere che sia mescolato al corpo, perché assumerebbe una data qualità, e sarebbe freddo o caldo, ed anche avrebbe un organo come la facoltà sensitiva, mentre non ne ha alcuno. Quindi si esprimono bene coloro8 i quali affermano che l'anima è il luogo delle forme, solo che tale non è l'intera anima, ma quella intellettiva, ed essa non è in atto, ma in potenza le forme. Che poi l'impassibilità della facoltà sensitiva e quella della facoltà intellettiva non siano la stessa risulta evidente se si considerano gli organi sensori e il senso. In effetti il senso non è in grado di percepire dopo l'azione di un sensibile troppo intenso; ad esempio non può udire il suono dopo aver percepito suoni troppo forti, né può vedere o odorare dopo aver percepito colori o odori troppo intensi. Invece l'intelletto, quando ha pensato qualcosa di molto intelligibile, non è meno, ma anzi più capace di pensare gli intelligibili inferiori, giacché la facoltà sensitiva non è indipendente dal corpo, mentre l'intelletto è separato. Quando poi l'intelletto è divenuto ciascuno dei suoi oggetti, nel senso in cui si dice «sapiente, chi lo è in atto (e questo avviene quando può esercitare da sé la propria conoscenza), anche allora è in certo modo in potenza, ma non come prima di avere appreso o trovato; ed allora può pensare se stesso. Poiché sono diverse la grandezza e l'essenza della grandezza, come l'acqua e l'essenza dell'acqua (e ciò vale per molti altri casi, benché non per tutti, giacché in alcuni esse s'identificano9 ), il soggetto giudica l'essenza della carne e la carne o con qualcosa di diverso o con qualcosa che si trova in una diversa condizione. Infatti la carne non esiste senza la materia, ma, come il camuso, una determinata forma in una determinata materia. Pertanto con la facoltà sensitiva il soggetto distingue il caldo, il freddo e le altre qualità di cui la carne costituisce una data proporzione; e con un'altra facoltà- separata da quella o in relazione ad essa al modo in cui la linea spezzata sta a se stessa, quand'è estesa -distingue l'essenza della carne. [. .. ]In generale, dunque, come gli oggetti sono separati dalla materia, così viene a trovarsi l'intelletto. Si potrebbe porre una questione: qualora l'intelletto sia semplice e impassibile, e non abbia nulla in comune con alcunché, come afferma Anassagora, in che modo penserà, se il pensare è una specie di subire? (Infatti è in quanto due enti hanno qualcosa in comune, che uno sembra agire e l'altro subire). Inoltre l'intelletto è esso stesso intelligibile? Infatti o anche gli altri esseri saranno dotati d'intelletto, se l'intelletto non è intelligibile mediante qualcos'altro e se l'intelligibile è qualcosa eli specificamente unico; oppure l'intelletto avrà mescolato in sé qualcosa che lo rende intelligibile come lo sono gli altri esseri. Ora riguardo al subire in virtù di un elemento in comune si è discusso precedentemente, e ciò consente di affermare che l'intelletto è in certo modo potenzialmente gli intelligibili, ma in atto non è nessuno di essi prima di pensarli. Diciamo "potenzialme_nte, allo stesso modo di una tavoletta per scrivere, sulla

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3. Probabilmente i platonici.

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9. Nel primo motore immobile ente ed essenza si identificano.

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L'intelletto è come una tavola su cui niente è scritto L'intelletto può pensat•e se stesso

quale non ci sia attualmente nulla di scritto. È precisamente questo il caso dell'intelletto. Inoltre è esso stesso intelligibile come lo sono gli oggetti intelligibili. Infatti, nel caso degli oggetti senza materia, il soggetto pensante e l'oggetto pensato sono la stessa cosa, poiché la scienza teoretica e il suo oggetto s'identificano (del fatto che non si pensi sempre, si dovrà ricercare la causa). Invece negli oggetti che hanno materia ciascuno degli intelligibili è presente potenzialmente. Di conseguenza gli enti materiali non saranno dotati di intelletto (giacché l'intelletto è la facoltà di conoscere tali enti senza la loro materia), mentre esso possederà l'intelligibile.

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Aristotele, L'anima, III, 429a10-430a10, pp. 213-217

Altro discorso riguarda il cosiddetto intelletto attivo o produttivo IW0l, la cui natura ha fatto discutere i critici e gli studiosi di Aristotele, soprattutto nel Medioevo. Continuamente in atto, la sua funzione è quella di produrre le forme intelligibili allo stesso modo in cui la luce produce il colore. Come senza la luce il colore non sarebbe riconoscibile, così senza l'intelletto produttivo la forma universale resterebbe non intelligibile per l'intelletto stesso ,..11 04-111. Questa parte dell'intelletto è sempre in atto, perché altrimenti avrebbe bisogno di un'altra parte ancora dell'intelletto per passare dalla potenza all'atto. E poiché ciò che è sempre in atto non può perire (secondo il principio che, prima viene l'essere in atto, poi l'essere in potenza), l'intelletto produttivo è per Aristotele l'unica parte dell'anima non mortale. Si tratta però di un'attività intellettiva completamente spersonalizzata, in quanto pensiero delle forme pure, simile al primo motore immobile che è pensiero di pensiero ~>1111-120.

L'intelletto produttivo è come la luce che •·ende visibili i coiOJ•i

L'intelletto in potenza e l'intelletto produttivo Poiché, come nell'intera natura c'è qualcosa che costituisce la materia per ciascun genere di cose (e ciò è potenzialmente tutte quelle cose), e qualcos'altro che è la causa e il principio produttivo, perché le produce tutte allo stesso modo che la tecnica si rapporta alla sua materia, necessariamente queste differenze si trovano anche nell'anima. E c'è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le cose, ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto. Equesto intelletto è separabile, impassibile e non mescolato, essendo atto per essenza poiché sempre ciò che fa è superiore a ciò che subisce, ed il principio è superiore alla materia. Ora la conoscenza in atto è identica all'oggetto, mentre quella in potenza è anteriore per il tempo nell'individuo, ma, da un punto di vista generale, non è anteriore neppure per il tempo 10 ; e non è che questo intelletto talora pensi e talora non pensi11 • Quando è separato, è soltanto quello che è veramente, e questo solo è immortale ed eterno (ma non ricordiamo, perché questo intelletto è impassibile, mentre l'intelletto passivo è corruttibile12), e senza questo non c'è nulla che pensi.

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Aristotele, L'anima, III, 430a10-25, p. 219 lO.La priorità cronologica, logica ed essenziale spetta alla conoscenza in atto, ad esempio quella del maestro rispetto a quella del discepolo. 11.L'attività dell'intelletto produttivo non è mai in potenza, ma sempre in atto. 12.L'intelletto passivo o potenziale è corruttibile perché legato alle affezioni sensibili: percezioni, immagini, ricordi, passioni. Al contrario, l'intelletto produttivo è separato dal corpo e di conseguenza è incorruttibile.

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Achille cura Patroclo ferito, interno di coppa attica firmata

da Sosias, da Vulci, 500-490 a.C., Berlino, Staatliche Museen, Antikensammlung.

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more e amicizia erano valori molto sentiti nella cultura greca, anche se le abitudini e i costumi sessuali erano molto diversi dai nostri. L'amicizia (philia) era diffusa soprattutto tra i cittadini maschi, in quanto favoriva le alleanze politiche e la fedeltà in battaglia. Esisteva poi un tipo di amicizia particolare che legava gli adulti con i giovani e aveva anche uno scopo educativo in quanto l'individuo maturo trasmetteva la propria E;sperienza a quello più giovane. Esempi di questi rapporti di

amicizia li troviamo già nell'Iliade dove Omero descrive l'intenso rapporto che lega Achille e Patroclo. In certi casi l'amicizia tra adulti e giovani dava luogo a rappmti di tipo omosessuale che erano tollerati per un certo periodo, fino a quando il maschio adulto non era pronto per il matrimonio. Amicizia (philia) e amore (éros) pertanto erano spesso diretti verso la stessa persona, cioè da un adulto verso un giovinetto, senza che questo generasse scandalo nella società. Esisteva poi l'amore tra uomo e donna, o come semplice attrazione sessuale o come unione che clava vita al matrimonio e alla famiglia. In entrambi i casi, nell'amore omosessuale o eterosessuale non mancavano i comportamenti promiscui e dissoluti, che furono condannati da molti autori antichi. A questo riguardo Platone, nel Simposio, si preoccupa di distinguere due tipi di amore: l'amore volgare (pandemos éros) che è attratto dalla bellezza del corpo e ha solo fecondità corporea, e l'amore celeste (ourani6s éros) che è attratto dall'anima e ha una fecondità spirituale. A questo secondo tipo di amore si rivolge l'interesse del filosofo. Se, da un lato, una condotta di vita disordinata nella sfera sessuale allontana dalla virtù e dalla ricerca del vero, dall'altro la ricerca filosofica non può essere opera di un intelletto "spassionato", cioè privo di desiderio e di patbos. Fare filosofia significa coinvolgere tutte le forze dell'anima nella ricerca del vero, del giusto e del bello. Nel Simposio platonico, l'autore sottolinea la tensione che anima la ricerca del filosofo, il suo desiderio di conoscenza, la sua aspirazione alla bellezza ideale, il suo sentirsi mancante di qualcosa, tutte caratteristiche che lo rendono simile a un amante. Anche Aristotele, nell'Etica a Nicomaco, si sofferma sul significato dell'amicizia, dapprima tra persone comuni, poi tra coloro che condividono la stessa attività morale e intellettuale; e mostra come queste ultime possano trovare proprio nell'amicizia un mezzo per rendere migliore la loro vita e sperimentare una più grande felicità.

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Platone: l'amore filosofo Nel Simposio Platone esamina l'analogia che esiste tra l'amore (éros) e la filosofia. Come amore è sensazione di mancanza di qualcuno e desiderio di possederlo, così anche la filosofia è percezione di ignoranza (intesa come mancanza di sapienza) e desiderio di sapienza. Ma ciò che lega l'esperienza erotica a quella della filosofia non è soltanto una analogia: eros e i' l

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filosofia hanno lo stesso fine, il possesso delle cose belle. Il desiderio nasce infatti quan-

do siamo attratti da una persona «bella». Ma anche la filosofia è desiderio di sapienza che è una cosa «bella». A partire da questo presupposto, la sacerdotessa Diotima insegna a So. crate un cammino di educazione amorosa che dal desiderio dei «corpi belli» passa a quello delle «anime belle», dei «discorsi belli» e delle «opere belle», per arrivare infine alle «conoscenze belle» e alla visione della «Bellezza ideale». L'eros quindi non è soltanto spinta al piacere e all'accoppiamento, è una forza psichica che spinge l'uomo oltre la dimensione fisica: l'eros infatti subisce attrazione dalla bellezza che si presenta in molteplici forme nell'universo sensibile destando nell'anima la nostalgia della sapienza. Nel brano che proponiamo~. la sacerdotessa Diotima mostra a Socrate quale sia la natura enigmatica di Eros, considerato un essere divino nella cultura greca ~>11-62. Ricorrendo al mito della sua nascita, Diotima descrive le caratteristiche di Eros come quelle di un essere inquieto e contraddittorio, ricco e povero insieme, che non sta né in cielo né in terra, ma che collega i mortali ai divini ~>-163-1 08. Come Eros, il filosofo è una creatura a metà strada tra ignoranza e sapienza, amante del sapere così comé Eros della bellezza. Entrambi possono venir chiamati «dèmoni», esseri che stanno in mezzo tra uomini e dei. Come Eros non è bello, ma amante del bello, così il filosofo non è sapiente, ma amante della sapienza. Presupposto di questo discorso di Diotima è l'identità profonda che esiste tra bellezza e sapienza, oggetto entrambe di desiderio ~>11 09-124.

f},[ìilifN

Erosn1111 è 1111 dio

Quanto a te, comunque, ormai ti lascerò in pace; ma il discorso intorno ad Eros, che un gim:no udii da una donna di Mantinea, Diotima\ la quale era sapiente e in queste cose e in molte altre - e agli Ateniesi una volta, per un sacrificio da essi offerto, prima della peste, procurò una dilazione di dieci anni dell'epidemia-, il discorso, dunque, che costei pronunciò, cercherò eli riferirvelo - partendo da ciò che è stato concordato fra me ed Agatone~ - io stesso con le mie forze, per quanto sarò capace. Bisogna ora, come spiegavi tu, Agatone, trattare anzitutto di Eros stesso, dicendo chi è e qual è la sua natura, e in seguito delle sue opere. Mi sembra, orbene, che la cosa più facile sia di raccontare seguendo il modo di procedere della straniera, quando mi interrogava. Anch'io infatti dissi a lei approssimativamente le stesse cose appunto, che ora Agatone ha detto a me, ossia che Eros sarebbe un gran clio, e si rivolgerebbe alle cose belle; essa allora mi confutò proprio con quegli argomenti con cui io ho confutato costui, e provò che, secondo le mie dichiarazioni, Eros non doveva essere né bello né eccellente. Ed io domandai: - Che dici, o Diotima? Eros è dunque brutto e dappoco? E quella esclamò:- Non bestemmiare! Ciò che non è bello, credi forse che debba necessariamente essere brutto? - Certo che lo credo. - Allora anche ciò che non è sapiente dovrà essere ignorante? O non ti accorgi invece che tra la sapienza e l'ignoranza c'è qualcosa di mezzo? -E che cos'è? - Il possedere opinioni giuste, senza essere in grado di renderne ragione, non

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l. Sacerclotessa di Mantinea vissuta nel V secolo a.C. Secondo il Simposio fu lei a istruire Socrate giovane sull'amore. L'unica fonte in cui è menzionata è questo dialogo di Platone, per cui non è ce1to se sia una donna realmente vissuta o una creazione letteraria. 2. Agatone (448-401 a.C.) è un poeta e drammaturgo ateniese, amico di Eul-ipide e di Platone, ricordato da Aristotele nella Poetica.

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Lanatlll'll mediana

di E1•os

Eros il 1m grnnile demone

sai forse- disse- che non è né sapere (come potrà essere scienza, infatti, una cosa priva di ragione?), né ignoranza (come potrà essere ignoranza, infatti, una cosa che coglie ciò che è?)? L'opinione giusta, orbene, è senza dubbio qualcosa di tale natura, a mezzo tra la saggezza e l'ignoranza. - Dici la verità - feci io. -Non pretendere dunque che ciò che non è bello sia necessariamente brutto, e ciò che non è eccellente sia necessariamente dappoco. Così pure, riguardo a Eros, dal momento che tu stesso ammetti che non è né eccellente né bello, allo stesso modo non credere che egli debba essere brutto e dappoco: piuttosto -disse- sarà qualcosa di mezzo tra i due. - Eppure, - dissi io - è certo ammesso da tutti, che egli sia un gran dio. - Dicendo da tutti - domandò - intendi da coloro che non sanno, o anche da coloro che sanno? - Da tutti quanti, ti dico. E lei, ridendo: -E come, o Socrate, -fece -potrà essere riconosciuta la sua natura di grande dio da parte di coloro che affermano che egli non è neppure un dio? - Chi sono costoro? - chiesi io. - Uno intanto - disse - sei tu, e un'altra, poi, io. E io replicai, domandando: - Come puoi dire questo? E quella:- È facile- dichiarò.- Dimmi un po', non affermi forse che tutti gli dei sono felici e belli? Oppure oserai asserire che qualcuno degli dei non è né bello né felice? - Per Zeus, io no di certo! - dissi. - E felici non chiami, poi, coloro che possiedono le cose buone e le cose belle? - Senza dubbio. -Eppure hai ammesso che Eros, per la mancanza delle cose buone e belle, desideri appunto queste cose di cui è mancante. - L'ho ammesso, infatti. -Come potrà essere un clio, allora, colui che è privo delle cose belle e buone? -Non lo potrà affatto, almeno a quanto pare. - Vedi dunque, - disse - che anche tu non ritieni che Eros sia un dio? - Che mai sarà allora Eros? - feci. - Un mortale? - Meno che mai. - Ma che cosa, dunque? - Come nei casi precedenti- disse- qualcosa di mezzo fra mortale e immortale. - Che sarà allora, Diotima? - Un grande demone, o Soct·ate: giacché tutto ciò che è demonico è qualcosa di mezzo tra clio e mortale. - Quale potere - feci io - possiede? - Di tradurre e di trasmettere agli dei le cose che giungono dagli uomini, e agli uomini quelle che giungono dagli dei, degli uni le preghiere e i sacrifici, degli altri i comandi e le ricompense dei sacrifici: e stando a metà tra gli uni e gli altri, riempie completamente tale regione, cosicché il tutto risulta collegato con se stesso. Attraverso il demonico procede tutta quanta la divinazione, come pure l'arte dei sacerdoti e di coloro che si dedicano ai sacrifici, ai riti di iniziazione, agli incantesimi, a ogni potere profetico e alla magia. Il dio, peraltro, non si mescola all'uomo, ed è attraverso il demonico, piuttosto, che gli dei tengono ogni comunicazione e ogni dialogo con gli uomini, sia nella veglia sia nel sonno. E chi è esperto in tali argomenti è un uomo demonico, chi invece è

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Nascita di Eros da Espediente e Povertà

Eros è desiderio di sapienza

Gli amanti della sapienza

esperto in qualcos'altro, o nelle arti o nei lavori manuali, è un uomo volgare. Questi demoni, orbene, sono molti e svariati: uno di essi, poi, è anche Eros. - Ma chi è suo padre - domandai io - e chi sua madre? -È piuttosto lungo - disse - a raccontare. Tuttavia te lo dirò. Dunque, quando nacque Afrodite, gli dei tenevano banchetto, e tra gli altri c'era anche il figlio di Metis", Poros4 . E dopo che ebbero cenato, giunse Penia per mendicare, poiché il cibo era stato sontuoso, e stava alla porta. Poros intanto, ubriaco di nettare, il vino infatti non c'era ancora, era entrato nel giardino di Zeus e, appesantito dall'ebbrezza, dormiva. Penia allora, proponendosi, per la propria povertà, di avere un figlio da Poros, si distende accanto a lui e concepisce Eros. Per tale ragione, del resto, Eros risulta seguace eli Afrodite e dedito al suo servizio: egli infatti è stato generato durante la festa per la nascita di lei, e al tempo stesso è, per natura, amante della bellezza e di Afrodite, che è bella. In quanto è figlio eli Poros e di Penia, dunque, acl Eros è toccata una siffatta sorte. Anzitutto, è sempre povero, e ben lungi dall'essere morbido e bello, come crede il volgo; piuttosto è ruvido e irsuto e scalzo e senza asilo, si sdraia sempre per terra, senza coperte, dorme a cielo scoperto davanti alle porte e sulle strade, e possiede la natura della madre, sempre dimorando assieme all'indigenza. Secondo la natura del padre, d'altro canto, ordisce complotti contro le cose belle e le cose buone: invero, è coraggioso e si getta a precipizio ed è veemente, è un mirabile cacciatore, intreccia sempre delle astuzie, è desideroso eli saggezza ed insieme ricco eli risorse, passa tutta la vita ad amare la sapienza, è un terribile mago, e stregone, e sofista. E la sua natura non è né eli un immortale né di un mortale: in una stessa giornata, piuttosto, ora è in fiore e vive, quando trova una strada, ora invece muore, ma ritorna eli nuovo alla vita grazie alla natura del padre; ciò che si è procurato, peraltro, a poco a poco scorre sempre via, cosicché Eros non è mai né sprovvisto né ricco, e d'altro canto sta in mezzo fra la sapienza e l'ignoranza. Le cose stanno infatti nel modo seguente. Nessuno degli dei ama la sapienza, né desidera diventare sapiente, poiché lo è già; se poi c'è qualcun altro ad essere sapiente, neppure costui ama la sapienza. D'altro canto, nemmeno gli ignoranti amano la sapienza, né desiderano diventare sapienti. Proprio in questo, difatti, l'ignoranza è insopportabile, nel credere, da parte di chi non è né bello né eccellente, e neppure saggio, di essere adeguatamente dotato. Chi non ritiene di essere privo, dunque, non desidera ciò di cui non crede eli aver bisogno. - Chi saranno allora, o Diotima, -chiesi io- gli amanti della sapienza, se non lo sono né i sapienti né gli ignoranti? -A questo punto la cosa è ormai evidente - disse - anche per un bambino: saranno coloro che stanno in mezzo a questi due, e tra di essi vi sarà anche Eros. In effetti, la sapienza fa parte senza dubbio di ciò che vi è di più bello, ed Eros, dal canto suo, è amore a riguardo della bellezza, cosicché necessariamente Eros sarà amante della sapienza, e, essendo amante della sapienza, sarà nel mezzo tra il sapiente e l'ignorante. E la causa, per lui, eli queste cose sta del pari nella sua nascita: ha infatti un padre sapiente e ricco di risorse, una madre invece non sapiente e priva di risorse. Orbene, la natura del demone, caro Socrate, è questa: quanto poi a colui che tu ritenevi essere Eros, non ti è accaduto nulla di sor-

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3. Metis è la dea dell'ingegno e dell'astuzia.

4. Pows significa Espediente e non a caso è figlio eli Metis, l'Ingegno. Unito a Penia (la Povertà) generò l'Amore, come si apprende dal mito eli Platone.

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prendente. Tu credevi invero - come mi sembra, a giudicare da quanto dici che l'oggetto amato, e non già quello che ama, fosse Eros. Per questo, io penso, Eros ti appariva totalmente bello. Giacché l'oggetto degno di essere amato è ciò che essenzialmente è bello e tenero e perfetto e da ritenere felice; ciò che ama, invece, certo ha un'altra figura, quella appunto che io ho spiegato.

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Platone, Simposio, 201cl-204c, pp. 65-70

Aristotele: l'amicizia dei buoni e la felicità

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Nella riflessione aristotelica il tema dell'amicizia, cui sono dedicati ben due libri dell'Etica a Nicomaco (VIli e IX), occupa un ampio spazio. Come leggeremo nei passi qui proposti, l'amicizia secondo Aristotele è un'esperienza indispensabile per l'uomo. Senza amici, infatti, Si'i§J si viene privati di un bene necessario alla propria natura di esseri socievoli ~>11-33. Per conoscere il motivo per cui due persone diventano amici si può discutere se l'amicizia nasca tra individui che hanno caratteristiche simili o contrarie; ma ancora più importante è sapere cosa gli uomini amano, cosa cercano gli uni negli altri. Ebbene, di solito gli uomini amano ciò che è utile, piacevole o buono. Tuttavia, considerando che ciò che è utile viene ricercato in vista di un piacere o di un bene, si può dire che il piacere e il bene sono amati più di ogni altra cosa ~>134-60. «Piacevole» e «buono» sono concetti relativi, cambiano a seconda delle persone, ma nella vera amicizia esite un punto fermo, condiviso universalmente: si vuole il bene dell'amico. Questo sentimento è chiamato da Aristotele «benevolenza» ed è necessario, perché vi sia l'amicizia, che sia ricambiato esplicitamente dall'amico ~>161-83. Esistono tuttavia tre tipi diversi di amicizia, a seconda delle motivazioni che spingono gli uomini a unirsi tra loro. Aristotele osserva che di solito gli uomini diventano amici per ragioni molto varie: per motivi di utilità pratica, per il piacere di stare insieme, per la stima e per il bene dell'amico stesso. Solo quest'ultimo tipo di amicizia è «durevole» e «perfetto». Infatti, quando la ricerca del vantaggio reciproco o il piacere di stare insieme all'amico finiscono, anche le prime due forme di amicizia si interrompono ~>184-125. Nell'ami_çizia perfetta, invece, l'amico non viene considerato come un mezzo (per raggiungere vantaggi pratici o piacere), ma come un fine in sé. Ciò non significa che l'amico perfetto non possa dimostrarsi utile nei momenti difficili o che la sua compagnia non sia piacevole. Al primo posto, tuttavia, come motivo principale dell'amicizia, vi è il bene dell'amico: le attenzioni a lui rivolte saranno disinteressate e avranno come scopo la sua felicità. Inoltre, poiché la felicità massima consiste nella ricerca della virtù e della sapienza, l'amicizia perfetta sarà orientata a questo scopo che coinvolgerà i due amici in uno sforzo comune e condiviso. In conclusione, il sentimento da cui nascono le «amicizie tra i buoni~> è sempre la «stima»: due persone riconoscono le qualità morali presenti nell'altra e cominciano a volersi bene per questo. La vera amicizia nasce quindi dalla stima reciproca unita alla benevolenza: se tali sentimenti permangono inalterati, essa sarà perfetta e fonte durevole di felicità ~>1126-155.

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Motivi della pet·tinenza dello studio sull'amicizia al trattato di etica Dopo ciò seguirebbe che si tratti dell'amicizia: infatti è una virtù o quanto meno è unita alla virtìt; inoltre è cosa quanto mai necessaria per la vita, giacché senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, anche se possedesse tutti gli altri beni. E difatti, ad avviso di tutti, è chi è ricco ed ha acquistato dignità e poteri che soprattutto ha bisogno di amici, giacché che utilità vi sarebbe di una simile floridezza se si toglie la beneficenza la quale si esplica principalmente ver-

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L'amicizia è un sentimento naturale

L'amicizia favorisce la cDncor•dia

so gli amici e verso di loro è massimamente lodevole? O come detta prosperità sarebbe custodita e salvaguardata senza amici? Effettivamente, quanto più è grande, tanto è malsicura. Nella povertà e nelle altre sventure gli uomini ritengono che il solo rifugio sono gli amici. E l'amicizia è d'aiuto ai giovani perché evitino gli errori, ai vecchi perché siano assistiti e suppliti nella mancanza d'attività che è dovuta alla loro debolezza, a coloro che sono nel pieno vigore delle forze per compiere azioni moralmente belle. «Quando due uomini vanno assieme ... ": essi infatti sono più capaci di pensare e di agire. L'amicizia pare essere ingenita per natura in chi procrea verso la creatura e nella creatura verso il genitore, non soltanto negli uomini, ma anche negli uccelli e nella maggior parte degli animali; e negli individui di una stessa specie è ingenita l'amicizia degli uni verso gli altri, e principalmente negli uomini: donde lodiamo i «filantropi". Inoltre si può osservare anche nei viaggi come ogni uomo sia un essere familiare per l'uomo, ovvero un essere amico. Pare anche che l'amicizia tenga unite le città e che i legislatori si diano più preoccupazione per essa che per la giustizia. Infatti la concordia sembra essere alcunché di simile all'amicizia; ed è a questa che mirano principalmente i legislatori, e bandiscono soprattutto la discordia perché ne è nemica. E se gli uomini sono amici non c'è nessun bisogno della giustizia, ma, se sono giusti, hanno inoltre bisogno dell'amicizia: e l'attitudine che tra tutte è la più giusta è, ad avviso unanime, un'attitudine amicale. Pertanto l'amicizia è una cosa non soltanto necessaria, ma anche bella: infatti noi lodiamo coloro che amano i loro amici e, secondo l'opinione corrente, l'avere molte amicizie è una delle cose belle. Ed alcuni pensano che sono gli stessi uomini buoni ad essere anche amici.

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Le condizioni per essere amici

Opinioni autm·euoli sull'amicizia

Intorno all'amicizia si discute non poco. Alcuni infatti pongono che essa è una sorta di somiglianza e che coloro che sono simili sono amici. Donde il proverbio: "il simile va verso il suo simile, e «la cornacchia va verso la cornacchia,, e detti di questo genere. Altri all'opposto dicono che tutti gli individui che si assomigliano sono l'uno con l'altro come vasai 1 . Intorno a questi medesimi problemi taluni ricercano una spiegazione più elevata e più fisica: si tratta di Euripide, il quale afferma «che la terra quando è inaridita ama la pioggia, ed il venerabile cielo gonfio di pioggia ama piombare sulla terra,; e di Eraclito, secondo il quale «ciò che è opposto è utile» e «dai contrari nasce bellissima armonia, e «tutto si genera secondo contesa". Ma in opposizione a costoro si espresse, tra gli altri, anche Empedocle: egli infatti sostenne che il simile tende al suo simile. Ma tralasciamo i problemi di ordine naturalistico (essi infatti non sono peltinenti alla presente ricerca), invece tutti quelli che sono di ordine antropologico ed hanno a che fare con le abitudini e le passioni, siano questi che esaminiamo: ad esempio, se l'amicizia sorge in tutti gli uomini o se non è possibile

1. Nel senso che si modellano a vicenda.

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Si ama ciò che è buono, piacevole, utile

L'amicizia nasce Ila un sentimento di benevolenza

Natm•a mutevole

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che siano amici uomini che sono perversi; e se dell'amicizia vi è una sola specie o se ve ne sono molteplici. Infatti coloro che ritengono che ce n'è una sola perché ammette il più e il meno, credono in una prova non sufficiente: infatti ammettono il più e il meno anche le cose che sono differenti per la specie. Ma di questi problemi si è parlato più sopra. Forse vi sarebbe chiarezza sulle questioni anzidette se si conoscesse ciò che è amabile, giacché è opinione comune che non ogni cosa è amata, ma ciò che è amabile, e questo è buono o piacevole o utile. Tutti altresì ammetteranno che utile è ciò in forza di cui nasce un certo bene o un certo piacere, cosicché, come fini, saranno amabili il bene e il piacevole. Ma allora gli uomini amano il bene oppure quello che per loro è un bene? Talvolta infatti questi differiscono. Uguale .domanda va posta anche per quello che concerne il piacevole. Comunemente si crede che ciascuno ama ciò che è bene per lui, e che, in senso assoluto, amabile è il bene, ma per ciascuno è ciò che per ciascuno è bene. In tal caso però ciascuno non ama quello che per lui è, bene, ma quello che gli «sembra, bene. Non importa nulla: l'amabile sarà infatti un amabile apparente. Stante dunque che tre sono le determinazioni per le quali gli uomini amano, nel caso dell'affezione per gli oggetti inanimati non si parla d'amicizia, giacché non c'è contraccambio d'affezione né si può volere il bene di quel dato oggetto (sarebbe certamente ridicolo infatti voler ciò che è bene per il vino, ma semmai si vuole che si conservi, per possederlo). Invece per l'amico si dice che si deve volere ciò che è bene per lui. ~ Ma alle persone che vogliono bene in questo modo diamo l'appellativo di benevole se lo stesso sentimento sorge anche da parte di colui che amano; infatti è in chi è contraccambiato che la benevolenza è amicizia. Non bisogna forse aggiungere: «Se essa non resta celata,? Molti infatti sono benevoli verso persone che non hanno mai visto, ma che pensano essere oneste ed umili; e qualcuna di esse può pure provare lo stesso sentimento verso di loro. Questi individui, quindi, si manifestano vicendevolmente benevoli, ma come si può dire che sono amici se ignorano d'avere sentimenti reciproci? Occorre dunque che ci sia mutua benevolenza e che l'uno voglia ciò che è bene per l'altro senza tenerlo nascosto, per una delle ragioni che abbiamo detto.

Le amicizie fondate sull'utile e sul piacere Ora, queste ragioni differiscono specificamente l'una dall'altra, ed anche le affezioni e le amicizie. Tre sono pertanto le specie dell'amicizia, in numero uguale a ciò che è amabile: infatti, rispetto a ciascuna, vi è corrispondenza non latente di affezioni. E coloro che si amano reciprocamente vogliono ciascuno ciò che è bene per l'altro in quella specie dell'amicizia per cui si amano. Quegli uomini· dunque che si amano reciprocamente in ragione dell'utile, si amano non per se stessi, ma in quanto deriva loro qualche bene all'uno dall'altro. Similmente si deve dire anche di coloro la cui amicizia è motivata dal piacere: infatti hanno care le persone di spirito non per il fatto che sono dotate di quelle qualità, ma perché risultano loro piacevoli. Pertanto coloro che ad amare sono motivati dall'utile, amano in forza eli ciò che è bene per loro, e quelli che sono motivati dal piacere, in forza di ciò che per loro è piacevole: cioè non in quanto si tratta della persona amata, ma in quanto è utile o piace- . vale. Pertanto queste amicizie sono accidentali: non è infatti in quanto chi è

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Sull'utile nasce spesso l'amicizia tra uomini 11dulti

Tra i giouani nMcono amicizie fondate sul piilCI!I'I'!

Amicizia e IUIIOI'II sono molto instabili tra i giovani

amato è quello che è nella sua essenza che viene amato, ma in quanto apporta l'uno qualche bene, l'altro un piacere. Le amicizie di questo genere sono quindi facili a rompersi dal momento che le due parti non restano sempre uguali: infatti se non sono più utili o piacevoli cessano di amarsi. Ora, l'utile non è duraturo, ma in un certo momento è una cosa, in un altro altra. Di conseguenza, essendo venuta meno la causa per la quale esse erano amiche, vien meno anche la loro amicizia, in quanto, appunto, l'amicizia mirava quei fini. Comunemente si ritiene che l'amicizia di questo genere sorge soprattutto tra i vecchi (gli uomini di quest'età infatti non perseguono il piacevole, ma l'utile); ma sorge anche tra tutte quelle persone mature e tutti quei giovani che ricercano il loro interesse. Assolutamente gli amici di questo genere non conducono nemmeno una vita d'intimità tra loro; talvolta infatti non sono neppure piacevoli l'uno all'altro. Pertanto non sentono nemmeno il bisogno eli questo tipo eli frequentazione, se non sono utili. Infatti in tanto sono piacevoli l'uno all'altro in quanto hanno speranze eli ottenere qualche bene. In questa categoria eli amicizie gli uomini pongono anche l'ospitalità. Invece, ad avviso di tutti, l'amicizia dei giovani è motivata dal piacere. Costoro infatti vivono secondo passione e perseguono soprattutto ciò che a loro piace personalmente e ciò che piace al momento. Ma quando l'età muta; anche le cose che piacciono diventano altre. Per questo in fretta diventano amici ed in fretta cessano di esserlo: giacché la loro amicizia muta assieme a ciò che piace, ed i piaceri della giovinezza sono soggetti a rapidi cambiamenti. I giovani sono pure inclini all'amore, giacché gran parte dell'amicizia amorosa asseconda la passione ed è dovuta al piacere. Per questo motivo amano e cessano di amare con rapidità, mutando più volte nel medesimo giorno. Questi desiderano trascorrere le giornate in compagnia e condurre vita in comune, perché in questo modo nasce loro ciò che è conforme all'amicizia.

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I caratteri dell'amicizia fondata sulla virtù

L'amicizia dei buoni è durevole

L'amicizia dei buoni ii anche utile e piacevole

L'amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi infatti, in quanto buoni, vogliono in ugual modo l'uno ciò che è bene per l'altro, e buoni essi sono di per se stessi. Ma coloro che vogliono ciò che è bene per gli amici per loro stessi, sono massimamente amici, giacché ciascuno lo è dell'altro per l'altro stesso e non per accidente. Quindi l'amicizia di costoro perdura finché sono buoni, e la virtù è cosa durevole. E ciascuno è buono in senso assoluto e per l'amico, giacché i buoni e sono buoni in senso assoluto e sono vicendevolmente utili. Ed in ugual modo sono anche piacevoli, giacché i buoni sono piacevoli e in senso assoluto e l'uno all'altro. Infatti le azioni che sono proprie e quelle del medesimo genere sono secondo piacere, e le azioni dei buoni sono identiche o simili. È normale che l'amicizia di questo genere sia durevole, giacché in essa si riuniscono tutte le qualità che devono appartenere agli amici. Infatti ogni amicizia è dovuta al bene o al piacere, o in senso assoluto o per chi è amato, ed esige una certa somiglianza tra gli amici. Ma a quest'amicizia appartengono tutte le condizioni che abbiamo detto, e le appartengono in virtù della natura stessa degli amici, giacché in questaamicizia gli amici sono simili anche per le altre condizioni, e ciò che è buono in senso assoluto è anche piacevole in senso assoluto. Ora, sono soprattutto queste determinazioni che sono degne d'es-

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L'amicizia ha hisogmJ di tempo

sere amate, eppertanto l'amore e l'amicizia si realizzano principalmente in queste e l'amicizia è la più eccellente. Ed è logico che le amicizie di questo genere siano rare; infatti gli amici di questo genere sono rari. Inoltre vi è bisogno di tempo e di consuetudine di vita, giacché, secondo il proverbio, non è possibile conoscersi l'un l'altro prima d'aver consumato assieme il sale di cui esso parla2 • Né pertanto è possibile accogliere qualcuno nella propria amicizia né essere amici prima che ciascuno si sia mostrato amabile all'altro ed abbia ottenuto fiducia. Coloro che instaurano rapidamente tra loro i vincoli dell'amicizia, vogliono essere amici, ma non lo sono se non sono anche degni d'amore e lo sanno. Infatti il desiderio di amicizia sorge rapidamente, ma l'amicizia no.

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Aristotele, EticaNicomachea, VIII, 1155a; 1155a-1156b, pp. 703-717

Aristotele si domanda poi se il saggio, al di fuori di se stesso, abbia bisogno di qualcuno per essere tale~- Il tema era molto dibattuto nella cultura greca in cui si riconosceva al saggio il potere di bastare a se stesso ~11-6. Aristotele sostiene al contrario che l'amicizia è indi· spensabile anche per il sapiente prima di tutto perché essa rientra tra i beni che rendono felici, poi perché l'uomo virtuoso ama fare del bene, soprattutto agli amici ~17 -16. Infine, l'amiciza permette di soddisfare la naturale inclinazione dell'uomo verso la socievolezza, per cui sarebbe impossibile, senza amici, godere di una completa felicità H 17-23.

L'uomo felice. deve avere amici L'uomo imono ama fare

del bene agli amici

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La pet·sona felice ed il bisogno di amici Si discute anche intorno all'uomo felice, se avrà bisogno di amici o no. Si dice infatti che per coloro che sono beati e bastano a se stessi non vi è nessun bisogno di amici: infatti possiedono già i beni. Essendo dunque autosufficienti, non hanno bisogno di niente, e l'amico, che è un altro se stesso, procura ciò che l'uomo non può avere da se medesimo. Donde il proverbio: «Quando la fortuna sia favorevole, che bisogno c'è di amici?». D'altro canto ha tutta l'aria di un'assurdità, dopo attribuito tutti i beni all'uomo felice, il non assegnargli degli amici: cosa questa che - ad avviso di tutti - è il più grande dei beni esteriori. Inoltre, se proprio dell'amico è piuttosto il fare del bene che riceverne ed è proprio dell'uomo dabbene e nella virtù il beneficiare; ancora, se è più bello fare del bene agli amici che agli estranei, il virtuoso avrà bisogno eli coloro che ricevano i suoi benefici. È questo il motivo per cui si ricerca anche se si ha maggior bisogno eli amici nella buona o nella cattiva sorte, atteso che e chi versa nella cattiva sorte ha bisogno di coloro che lo beneficano e quelli ai quali la fortuna è favorevole di persone a cui fare del bene. Di più, è senza dubbio assurdo anche il fare di chi è beato un solitario; nessuno infatti sceglierebbe eli possedere tutti i beni per goderne da solo, giacché l'uomo è un essere politico e naturalmente portato a vivere in società. Ora, queste caratteristiche appartengono anche all'uomo felice, giacché egli possiede ciò che per natura è buono; ed è evidente che è meglio trascorrere le proprie giornate assieme acl amici ed a persone virtuose che con estranei e con quelli che capitano. Anche per l'uomofelice vi è dunque bisogno eli amici.

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Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 1169b,' pp. 703-717, 807-809. 2. Cioè dopo aver condiviso la tavola, simbolo di familiarità.

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Giustizia e ingiustizia el mondo greco erano varie le divinità che presentavano la giustizia. Themis è una delle più antiche, detta anche "l'irremovibile, perché . veniva invocata a protezione dei giuramenti. Le figlie di Themis avevano tutte a che fare, in qualche modo, con ... la giustizia: Dike era venerata come patrona dei tribuna- t: li e punitrice dei malfattori; Eunomia era la dea dell'ordinamento legale; Eirene la dea della pace, secondo la tradizione di Esiodo. In ambito filosofico, il termine giu- . stizia poteva essere usato con significati diversi: uno, riferito alle istituzioni e alla vita politica in generale (giustizia politica); l'altro, riferito alla virtù e al comporta- · mento morale degli individui (giustizia morale). I pitagorici avevano grande rispetto per la giustizia, poiché nel loro sistema l'armonia, sinonimo di giustizia, era il principio di unità cosmica, psichica e morale. Per questo Pitagora, secondo le testimonianze, ingiungeva ai suoi discepoli di comportarsi in modo giusto e affermava che occorre fondare la giustizia politica su questo "principio divino». Platone stabilì uno stretto legame tra la giustizia morale e la giustizia politica grazie alla nozione pitagorica di ar- · monia. Nella Repubblica stabilì che la giustizia fa parte delle quattro virtì:1 principali, con la temperanza, il coraggio, la saggezza. Moralmente, ciascuna virtù costituisce una parte dell'anima, ma è la giustizia che realizza l'accordo tra tutte e tre. In ambito politico, ciascuna virtù si riferisce a una classe di cittadini: ma è sempre la giustizia che stabilisce l'accordo tra tutte e tre le classi, poiché è in obbedienza alla giustizia che ciascuna realizza il proprio compito per il bene della città. Per Aristotele, la giustizia è essenzialmente misura (mes6tes) e poiché questo carattere è quello della vittù etica in generale, intesa come "giusto mezzo,, la giustizia diventa la virtù più importante e ammirevole. A differenza di Platone, Aristotele considera separatamente la giustizia morale e la giustizia politica. L'uomo privato e l'uomo pubblico esercitano infatti attività differenti. Tuttavia neppure Aristotele può trattare della prima, la giustizia morale, senza fare riferit11ento alla seconda, la giustizia politica. Ciò che è giusto infatti si definisce in base all'uguaglianza e alla legalità: non vi è giustizia se non per coloro che vivono sotto la legge e la rispettano. L'uomo giusto comunque, si definisce tale se compie azioni virtuose non per paura della legge, ma volontariamente. Themis di Rammunte, opera di Chairestratos, inizi III sec. a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Platone: quali vantaggi dall'agire giustamente? Come abbiamo detto, il problema centrale della Repubblica è definire cosa sia la giustizia. Un sofista; Trasimaco, sostiene che la giustizia è l'utile del più forte, cioè di colui che si trova in quel momento al governo. È lui infatti a creare le leggi che gli tornano più utili. Socrate replica servendosi di un paragone: chiunque si occupa di un'arte non persegue il proprio utile, ma quello riguardante l'oggetto specifico dell'arte stessa. Di conseguenza l'arte del governo non cercherà l'utile di chi governa, ma quello dei sudditi, che sono oggetto del governo. Trasimaco non è convinto e continua a sostenere che l'ingiustizia è superiore alla giustizia. Di solito, infatti, la vita dell'ingiusto è più ricca di soddisfazioni di quella dell'uomo giusto. Inoltre, l'ingiusto possiede l'astuzia necessaria per ingannare gli altri, mostrandosi saggio e virtuoso anche se non lo è. Ancora una volta Socrate dimostra che l'ingiusto, oltre a non essere virtuoso né sapiente, è litigioso e sempre in discordia con gli altri e con se stesso, in quanto deve sforzarsi di apparire diverso da quello che è: quindi è un uomo fragile. Infine, ricorre a un argomento basato sulla natura stessa dell'anima: afferma che la virtù propria dell'anima è la giustizia e che quindi solo l'anima giusta può vivere bene. Dopo questi discorsi entra in scena Glaucone lli'illJ!l per difendere la tesi di Trasimaco, ma con un nuovo argomento. Egli sostiene che se gli uomini non commettono azioni ingiuste è solo per paura di essére scoperti e puniti. Per dimostrare il suo punto di vista, rammenta la favola dell'anello di Gige, che rende invisibile chi lo porta, e conClude: chiunque, se possedesse un anello che lo rende invisibile, sarebbe pronto a fare ingiustizia, perché nessuno lo vedrebbe e non potrebbe essere punito ~>11-46.

Rtriiil~J li desiderio

di sopraffare l'altro è rmturale

Il potere di Gige

Però anche coloro che praticano la giustizia lo fanno malvolentieri e solo perché sono incapaci eli commettere ingiustizia. Ce ne renderemmo perfettamente conto se immaginassimo un caso come questo: concediamo a tutti e due, al giusto e all'ingiusto, eli fare qualunque cosa vogliano, poi seguiamoli e osserviamo dove ciascuno sarà tratto dal suo desiderio. Coglieremo il giusto nell'atto eli dirigersi verso la medesima mèta dell'ingiusto, spinto dalla voglia eli soverchiare altrui, cosa che tutti per natura ricercano come un bene e da cui s'astengono solo perché la legge li costringe a rispettare l'uguaglianza. La facoltà di cui parlo è questa qui, di disporre del potere che si elice abbia avuto un tempo Gige, l'antenato del Lidio 1 . Costui era pastore alle dipendenze del principe che governava allora la Liclia. Ora, in séguito a un nubifragio e a una scossa tellurica la terra si squarciò per un certo tratto producendo una voragine nel luogo dove egli pascolava l'armento. A quella vista, pieno di stupore, discese nella voragine e oltre alle meraviglie eli cui narra la fiaba scorse un cavallo bronzeo, cavo, provvisto di aperture. Vi si affacciò e vide giacervi dentro un cadavere di proporzioni, a quanto pareva, sovrumane, senza nulla addosso se non un aureo anello alla mano. Glielo prese e se ne tornò fuori. Quando, come di consueto, si fece la riunione dei pastori per inviare al re il rapporto mensile sulle greggi, si presentò pure lui con l'anello. Ed ecco che, mentre se ne stava seduto insieme con gli altri, girò per caso il castone dell'anello verso la propria persona, dalla parte interna della mano, e con ciò divenne invisibile a quelli che gli erano seduti accanto, sì che discorrevano di lui come se se ne fosse an-

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1. Forse è da intendere Creso, re di Lidia, battuto nel 548 a.C. da Ciro il Grande, re di Persia, e notissimo per le sue enormi ricchezze.

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Anche il giusto, se non uistu, agirebbe ingiustamente

Nessuno ritiene che la giustizia sia un lume

dato. Ed egli se ne meravigliava e continuava a gingillarsi con l'anello, finché ne girò il castone dalla parte esterna; e con ciò tornò visibile. Ripensando al caso, seguitò a fare prove con l'anello per controllarne questo potere e gli succedeva ogni volta di diventare invisibile se girava il castone verso l'interno, visibile se verso l'esterno. Come se ne rese conto, sùbito brigò per essere uno dei messi da inviare al re e quando giunse da lui, gli sedusse la moglie e con il suo aiuto lo assalì e l'uccise. E così conquistò il potere. Supponiamo ora che ci siano due di tali anelli e che l'uno se lo infili il giusto e l'altro l'ingiusto. In tal caso non ci sarebbe nessuno, si può credere, tanto adamantino da restare giusto e da avere la forza di astenersi dal toccare la roba d'altri, quando gli si offrisse la possibilità di asportare dal mercato impunemente e ciò che più gli piacesse, di entrare nelle case e di unirsi a chi volesse, di ammazzare o liberare dalle catene chi desiderasse, e di fare ogni cosa come un dio tra gli uomini. Così facendo non si comporterebbe diversamente dall'altro: ambedue moverebbero alla medesima mèta. E questa, si potrà dire, è la prova decisiva che nessuno è giusto di proposito, ma in quanto vi è costretto: ciò perché nel suo intimo nessuno considera un bene la giustizia, ché anzi ciascuno, dove crede di poterlo fare, commette ingiustizia. Privatamente ogni uomo giudica assai pitl vantaggiosa l'ingiustizia che la giustizia. E ha ragione: così almeno dirà chi sostenga tale principio. Supponiamo che uno disponga di una simile facoltà e tuttavia non consenta mai a commettere un'ingiustizia e a toccare la roba d'altri: quanti venissero a saperlo lo giudicherebbero ben disgraziato e sciocco. Eppure nei loro conversari lo loderebbero, pronti però a ingannarsi l'un l'altro, tanta è la paura di soffrire una ingiustizia. Così stanno le cose.

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Platone, Repubblica, II, 359b-360cl, pp. 65-67

Di fronte alle numerose provocazioni di Trasimaco e Glaucone, Socrate propone di allargare l'orizzonte del discorso e di cercare cosa sia la «giustizia» in un quadro più ampio e più facile da esaminare, quello dello Stato riiE. Dopo aver distinto tre classi diverse di cittadini e indicato la loro analogia con le tre parti dell'anima, Socrate può finalmente definire l'oggetto della ricerca, ovvero cosa sia la giustizia, sia nello Stato che nell'anima. Esiste una virtù per ogni classe di cittadini: per i governanti la sapienza, per i guerrieri il coraggio, per il ceto dei produttori la temperanza. La temperanza, poi, deve essere praticata da tutte le classi sociali per vivere d'accordo e riconoscere i compiti di ciascuna. Ma la virtù comune a tutte le classi sociali è la giustizia èhe consiste nel saper svolgere correttamente il proprio compito nella p6/is ~11-29. Al contrario, se nello Stato individui di classi sociali differenti pretendono di svolgere compiti non di loro competenza, allora si produrranno disordine e ingiustizia ~129"52. L'indagine prosegue col mettere a confronto il singolo individuo con lo Stato, il micromodello con il macra-modello. A rendere possibile questo confronto sono due ragioni: prima, che la giustizia è sempre la medesima, sia che la si studi nello Stato che nell'individuo; seconda, che le caratteristiche presenti nello Stato devono per forza provenire dagli individui che lo compongono ~153-1 02. Ora, l'anima di ciascun individuo è composta di tre parti, razionale, irascibile, concupiscibile. L'indirizzo sarà giusto quando la parte razionale governerà le altre due e queste ultime le obbediranno. In particolare, Socrate pone il rapporto tra la parte razionale e quella irascibile sotto il segno della concordia e dell'alleanza, favorite da un'educazione specifica, basata sulla poesia, la musica e la ginnastica. Invece la parte concupiscibile dovrà soltanto essere frenata e sottomessa perché gli appetiti del corpo non pretendano di guidare tutta la condotta dell'individuo .. 11 03-145.

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Lo Stato giusto sarà allora composto necessariamente da cittadini educati alla giustizia, cioè allo svolgimento responsabile dei propri compiti. Uno svolgimento non soltanto esteriore, ma frutto consapevole di un'educazione di sé, volta a creare l'armonia tra le diverse componenti dell'anima

Nello Stato la giustizia consiste nello suolgere bene il proprio compito

Nello Stato 111111 ci deue essei'll confusione di compiti

~>1145-188.

- Ebbene, ripresi, ascolta se ho ragione. Secondo me, la giustizia consiste in quel principio che fin dall'inizio, quando fondavamo lo stato, ponemmo di dover rispettare costantemente: in esso, o in qualche suo particolare aspetto. Ora, se rammenti, abbiamo posto e più volte ripetuto che ciascun individuo deve attendere a una sola attività nell'organismo statale, quella per cui la natura l'abbia meglio dotato. - Sì, l'abbiamo ripetuto. - E d'altra parte dicevamo che la giustizia consiste nell'esplicare i propri compiti senza attendere a troppe faccende: è un discorso che abbiamo udito da molti altri e noi stessi spesso ripetuto.- L'abbiamo ripetuto, sì.- Questo dunque, mio caro, continuai, se realizzato in un determinato modo, può darsi che sia la giustizia: esplicare i propri compiti. Sai da che cosa lo congetturo?- No, ma dillo, rispose. -Dopo aver esaminato, feci io, la temperanza, il coraggio e l'intelligenza, mi sembra che quanto rimane nello stato sia quella dote che a tutte le altre ha dato la forza di nascenri e, quando sono nate, permette loro di conservarsi, finché viva in esse. Ora, dicevamo che, se avessimo trovato le altre tre, la residua sarebbe stata la giustizia. -Per forza, sì, rispose. - Però, ripresi io, se bisognasse veramente giudicare quale di esse più contribuirà con la sua presenza a renderei buono lo stato, sarebbe difficile giudicare se si tratti della concordanza di opinione tra governanti e governati, o del fatto che i soldati contraggano e conservino l'opinione legittima di quali sono e quali no le cose da temere, oppure dell'intelligenza e vigilanza insite nei governanti; o se a renderlo buono sia soprattutto questa virtù presente nel fanciullo, nella donna, nello schiavo, nel libero, nell'artigiano, nel governante e nel governato, questa virtù per la quale ciascun individuo esplica il proprio compito senza attendere a troppe cose. È un giudizio difficile, rispose; come no?- Per la virtì:J dello stato gareggia dunque, sembra, con la sapienza, con la tèmperanza e con il coraggio anche quest'altra forza, di far esplicare a ciascuno il proprio compito entro lo stato.- Certo, rispose. - E la dote che gareggia con queste per la virtì:J dello stato non la potresti considerare giustizia? - Assolutamente. - Esamina ora anche da quest'altro punto di vista se ti confermerai nel tuo parere: i processi non li farai giudicare a chi detiene il governo dello stato?- Sicuramente. -E, giudicando, i governanti mireranno forse acl altro fine più che a come evitare che ogni individuo possa avere l'altrui ed essere privato del proprio?- No, ma mireranno a questo. - Perché è giusto? - Sì. - Anche in questo modo allora si potrebbe riconoscere come giustizia il possesso eli ciò che è proprio e l'esplicazione dei proprio compito. -È così. -Vedi ora se la pensi come me. Se un falegname intraprende il mestiere del calzolaio o un calzolaio quello del falegname, o se si scambiano gli strumenti o gli uffici, o anche se la stessa persona intraprende entrambi i mestieri, tutto questo scambio di mestieri potrà portare, secondo te, un grave danno allo stato?- No, affatto, rispose. -Quando però, credo, uno che per natura è artigiano o un altro che per natura è uomo d'affari e che poi si eleva per ricchezza o per numero eli seguaci o per vigore o per qualche altro simile motivo, tenta eli assumere l'aspetto del guerriero; o un guerriero quello di consigliere e guardiano, anche se non ne ha i requisiti; e costoro si

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Confronto tra il singolo o lo Stato

L'uomo giusto è diuerso dallo Stato giusto 111111

scambiano gli strumenti e gli uffici; o quando la stessa persona intraprende tutte queste cose insieme, allora, io credo, anche tu penserai che questo loro scambiarsi eli posto e questo attendere a troppe cose sia una rovina per lo stato. -Assolutamente. -Allora, l'attendere a troppe cose e lo scambiarsi di posto delle tre classi sociali sono un danno assai grave per lo stato e si potrebbero con piena ragione denominare un enorme misfatto.- Precisamente.- E non ammetterai che il maggiore misfatto verso il proprio stato è l'ingiustizia? - Come no? - Ecco dunque che cosa è l'ingiustizia. E viceversa possiamo dire così: se le classi degli uomini d'affari, degli ausiliari, dei guardiani si occupano soltanto della propria attività, quando ciascuna eli esse esplica il compito suo entro lo stato, questo fatto, contrariamente al caso di prima, non sarà la giustizia e non renderà giusto lo stato? - Mi sembra, rispose, che non possa essere altrimenti. - Non affermiamolo ancora troppo recisamente, feci io. Se però, riportando questa dote anche a ciascun individuo, riconosceremo che pure nel singolo essa è la giustizia, saremo già d'accordo. Che obiezioni potremo ancora fare? In caso contrario, cercheremo altrove. Ora però terminiamo l'esame che abbiamo pensato di fare: cioè che, se avessimo cercato la giustizia prima in un ambito più largo, ci sarebbe stato più facile vedere che cosa essa è in un individuo. A noi è sembrato che questo ambito più largo fosse quello dello stato, e così abbiamo fondato uno stato, il più perfetto possibile, ben sapendo che in uno stato buono si sarebbe trovata la giustizia. E dunque riportiamo all'individuo i risultati di quella nostra indagine e, se si perverrà a un'analoga constatazione, andrà benissimo; se invece nell'individuo si manifesterà qualche diversità, torneremo di nuovo allo stato e li sottoporremo a prove: e forse, confrontandoli e strofinandoli, come da pietre focaie ne potremmo far brillare la giustizia e, manifesta che sia, consolidarla in noi. - Bene, rispose, parli con metodo, e bisogna fare così. - Ora, ripresi, una cosa che sia detta «l'identica, di un'altra, anche se sono una maggiore e una minore, è forse dissimile dalla seconda in ciò per cui la si dice identica, o le è simile? - Simile, disse. -Allora un uomo giusto non differirà per niente da uno stato giusto per ciò che riguarda l'aspetto della giustizia in se stesso, ma gli sarà simile. - Simile, rispose. - D'altra parte uno stato ci è sembrato giusto quando le tre classi eli nature in esso esistenti esplicavano ciascuna il compito suo; e inoltre temperante, coraggioso e sapiente per certe altre condizioni e disposizioni di queste medesime classi. - È vero, disse. -Allora, mio caro, giudicheremo così anche per l'individuo: poiché l'anima sua presenta questi medesimi aspetti ed egli si trova nelle stesse condizioni di quelle classi, merita a ragione i medesimi appellativi che lo stato. -Per forza, rispose. -Eccoci ricondotti, feci io, mio ammirevole amico, al facile problema se l'anima abbia o no in sé questi tre aspetti.- Non mi sembra affatto un problema facile, rispose; perché, Socrate, è forse vero il detto «le cose belle sono clifficili» 1 . - È evidente, risposi. E sappi, Glaucone, che, a mio parere, con quei metodi che usiamo attualmente nelle discussioni non riusciremo mai a toccare bene la nostra mèta. Altra è la strada che vi conduce, più lunga e più estesa. Forse però la raggiungeremo in maniera degna dei discorsi e delle ricerche precedenti. -E non è desiderabile?, fece. Per il momento mi contenterei. - Per me poi, dissi, sarà più che sufficiente. - E quindi non stancarti,

1. Il eletto è attribuito a Salone.

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Lo Stilto riflette le Cl1-31. Infatti non sempre un'azione che definiamo ingiusta è veramente tale. Con maggiore correttezza si dovrà parlare di «errore» (azione ingiusta commessa da un soggetto volontario, ma senza intenzione di nuocere), «disgrazia» (azione ingiusta commessa da un soggetto involontario) r.>l32-41, «atto ingiusto» (azione ingiusta compiuta coscientemente, ma sotto l'influsso di una passione) r.>l41-59 e «ingiustizia» (azione ingiusta compiuta deliberatamen· te): solo in quest'ultimo caso sia l'azione che il soggetto devono propriamente essere definiti «ingiusti» "160-68. Il diritto dovrà quindi conformarsi a queste importanti distinzioni.

:;. La mutevolezza delle cose umane non implica, come invece sostenevano i sofisti, l'inesistenza di una legge naturale e, di conseguenza, la riduzione di tutto il diritto in quello positivo, cioè stabilito dalle convenzioni e non dalla natura. 4. Le prescrizioni dovt!te a convenzione, al pari delle misure, cambiando da costituzione a costituzione, possono essere più o meno vicine a ciò che è giusto per natura. Nella costituzione migliore, in~ vece, l'utile convenzionale .si avvicina al massimo all'utile naturale. §. Acl esempio il furto è una cosa ingiusta, mentre il rubare è un'azione ingiusta.

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Pe••chli sia o ingiusta, llll'ilziame

deue essea·e volontaria

Se alla vohmtiì si la delibm•azimm, l'azione è anello maluagia

L'errore è frutto di

lllillil'llillll

Trascinati dalle

Essendo le cose giuste e ingiuste quelle che abbiamo detto, si agisce ingiustamente e si compiono azioni giuste quando le si compie volontariamente; quando invece le si compie involontariamente, né si agisce ingiustamente né si compiono azioni giuste se non per accidente. Infatti si compiono azioni alle quali accade di essere giuste o ingiuste. L'azione giusta e l'azione ingiusta sono definite dalla volontarietà e dall'involontarietà. Quando infatti l'atto è volontario, è biasimato e assieme è allora anche un atto ingiusto. Di conseguenza, se non si aggiunge la volontarietà è qualcosa d'ingiusto, ma non ancora un atto ingiusto. Chiamo "volontario", come anche prima è stato detto, ciò che, tra le cose che dipendono da lui, uno compie in piena avvertenza, e cioè non ignorando né la persona, né il mezzo, né il fine: ad esempio, chi percuote o con che cqsa e a quale fine; e ciascuna di queste circostanze non deve essere accidentale né per costrizione (al modo che, se prendendo la mano di una persona uno ne colpisse un'altra, la prima non agisce volontariamente; infatti non dipende da lei). È possibile che la persona colpita sia il padre, e che il colpitore sappia che è un uomo oppure uno dei presenti, ma che ignori che è il padre. E similmente si operino tali distinzioni anche sul fine e riguardo all'azione nella sua interezza. Quindi ciò che si ignora, o che non si ignora ma non dipende dal soggetto, o che è per costrizione, è involontario. Molte infatti delle cose che sono per natura noi le compiamo e subiamo avendone conoscenza, ma nessuna di esse non è né volontaria né involontaria: acl esempio l'invecchiare o il morire. Parimenti si dà l'accidente nelle cose ingiuste e nelle cose giuste. E infatti uno potrebbe restituire il deposito contro voglia e per paura, e costui non bisogna dire né che fa cose giuste né che compie un'azione giusta se non per accidente. E similmente bisogna dire che chi non restituisce il deposito perché è costretto contro voglia, agisce ingiustamente e compie l'ingiusto per accidente. Tra le azioni volontarie, alcune compiamo per scelta, altre non per scelta: per scelta tutte quelle che compiamo avendo precedentemente preso una deliberazione, non scelte invece sono tutte quelle non procedenti da una deliberazione precedente. Essendo tra i danni che si possono compiere nei rapporti con gli altri, quelli che s'accompagnano ad ignoranza sono «errori»: quando si ha agito supponendo che la persona o la cosa o il mezzo o il fine fossero diversi. Infatti si credeva o di non colpire, o non con quel mezzo, o non quella persona, o non per quel fine, ma è giunto un esito diverso da quello che si credeva: acl esempio non si ha agito per ferire, ma per pungolare, oppure non quella persona, oppure non con quel mezzo. Insomma, quando il danno ha luogo contro ogni previsione, però senza malizia, si ha un «errore, (si commette un errore, infatti, quando il principio dell'imputazione risiede nel soggetto; si ha invece una disgrazia quando risiede fuori del soggetto). Quando poi ha luogo con piena avvertenza, ma senza una deliberazione precedente, si ha un'azione ingiusta: acl esempio le azioni che si compiono per collera o per quante altre passioni, necessarie o naturali\ sopraggiungono all'uomo. Causando infatti questi danni e commettendo questi errori si agisce ingiustamente, e si tratta eli azioni ingiuste, ma tuttavia per esse non si è ancora ingiusti né malvagi: infatti il danno

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1. Necessarie sono le passioni attinenti ai bisogni del corpo e agli istinti sessuali; naturali sono le passioni inerenti alla natura umana, anche se non necessarie: acl esempio, l'ira.

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Si è giusti 11 ingiusti solo se ui è scelta deliberata

non è dovuto a cattiveria. Quando invece l'azione deriva da una scelta deliberata si è ingiusti e cattivi. Per questo a buon diritto gli atti che provengono da collera non si giudicano derivati da premeditazione: infatti non prende l'iniziativa chi agisce per collera, ma chi l'ha provocata. Inoltre non è sul fatto che ci sia stato o no un danno che si discute, ma sulla giustezza del motivo; infatti l'ira si scatena su qualcosa che sembra essere un'ingiustizia. Ché le parti non discutono come nei contratti sul fatto che un danno ci sia stato, e eli esse una è necessariamente in mala fede, a meno che non lo facciano per dimenticanza; ma, essendo d'accordo sul fatto, discutono su quale delle due versioni lo interpreti secondo giustizia (invece chi ha ordito una macchinazione non lo ignora). Di conseguenza una ritiene d'aver subito ingiustizia, l'altt'a no. Se invece si provoca danno per scelta deliberata, si commette ingiustizia; e in corrispondenza di queste azioni ingiuste chi commette ingiustizia è ingiusto, quando viola la proporzione o l'uguale. E similmente un uomo è giusto, quando compie azioni giuste per scelta deliberata; e compie azioni giuste soltanto se le compie volontariamente. Delle azioni involontarie alcune sono perdonabili, altre non sono perclonabili. Infatti tutti gli errori che gli uomini commettono, non soltanto ignorando ma anche per ignoranza 2 , sono perdonabili; tutti quelli invece che si commettono non per ignoranza, ma ignorando e a causa eli una passione né naturale né umana, non sono perclonabili.

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Aristotele, Etica Nicomachea, V, 1135a-1136a, pp. 363-367

2. Nel compiere un errore involontariamente si possono ignorare le conseguenze eli una certa azione oppure si può ignorare completamente che tale azione sia un male. Tuttavia; non si possono perclonare le azioni compiute da chi non ignora che esse siano sbagliate e tuttavia le compie ugualmente perché si lascia vincere da passioni non umane. Nel libro VII dell'Etica Aristotele ricorda che esistono perversioni legate alla natura umana e perversioni morbose o addirittura bestiali che, nel caso si conosca ciò che è bene e ciò che è male, non sono perclonabili.

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~ In che senso per Platone la filosofia è una luce

La voce del contemporaneo

iiFp Perché Pierre Hadot sostiene che, nel

Simposio,

Platone «devalorizza» l'immagine del filosofo? Sulla base delle tue conoscenze, ritieni che la figura del filosofo sia davvero svalutata da Platone? ~'" Il paragone tra Eros e filosofia, che Hadot richia-

. ma nel suo brano, aiuta di più a capire cos'è ['amore (eros) o la filosofia? Ti sembra un paragone indovinato? Esponi le tue opinioni a riguardo. ~ In che senso Maria Zambrano si domanda se in

Platone si affacci una verità oltre la filosofia e perché la definisce poetica? Esprimi la tua opinione in proposito, muovendo da una ricognizione delle diverse tipologie di mito in Platone. ~ Martha C. Nussbaum imposta

il confronto tra Ari-

stotele e Platone sulla base dell'opposizione dentro/fuori. Sviluppa questo suggerimento e poi argomenta se ti convince o meno.

lo sguardo della tradizione ~ In che senso il magistero socratico agisce in Plato-

ne e in Aristotele? Hai a disposizione 8 righe.

che brilla dell'anima e che si alimenta di sé? Hai 15 righe a disposizione. W?ìf!l Documentati sulla questione delle cosiddette dot-

trine non scritte e sull'intenso dibattito critico che essa ha suscitato a partire dagli anni Sessanta, e riferiscine in una relazione di 4 cartelle dattilo. scritte . ~jjj Illustra in 3 righe il ruolo psicagogico della retori-

ca in Platone. ~ In che senso Platone è un filosofo politico? Ri-

spondi in 1O righe. ~ Illustra in 20 righe lo sviluppo platonico della dia-

lettica socratica. ~ Perché, per Platone, l'essere è un'idea? Rispondi

in 8 righe. ~ Platone viene spesso accusato di avere introdotto

nella cultura occidentale la dicotomia tra corpo e anima. Documentati in proposito e riferiscine in una relazione di 2 cartelle. ~ Illustra la dicotomia corpo/anima attraverso una

ricerca iconografica nella storia dell'arte. ~ In che senso, per Platone, la filosofia è prepara-

zione alla morte? Rispondi in 1O righe.

~ Chiarisci in 3 righe il significato dell'immagine platonica dell'uomo come albero rovesciato in Timeo 90a-b a p. 189.

~ Chiarisci la distinzione fra educazione e istruzione nel testo di Repubblica VII, 518b-d a p. 211. In 3

~ Per Platone le idee sono trascendenti, ma parlano del mondo e il mondo ci parla di loro. Come è possibile? Affronta la questione in un componimento di 20 righe.

~ In un componimento di 20 righe, illustra come la

~ Perché per Aristotele tutte le realtà naturali racchiudono qualcosa di meraviglioso? Rispondi prima in 8 righe e poi in 2.

~ Illustra in 5 righe l'opposizione classica tra scienza e opinione, riferendoti a Eraclito, Parmenide, Socrate, Platone e Aristotele.

~ Come si lega il

Protrettico di Aristotele alla storia

dell'Accademia platonica? Rispondi in 5 righe.

righe. psicologia, cioè la dottrina dell'anima, soccorra la politica nell'ideazione di Kallfpo/is. ~ Perché, per Platone, la proprietà minaccia la giu-

stizia? In 3 righe. ~ Racconta il mito di Er ed esponi il suo significato

filosofico in 20 righe. ~ Che ruolo svolgono i generi sommi nel mondo

delle idee? Disponi di 1O righe. ~ Platone, nel Parmenide, sottopone ad una critica

serrata la propria dottrina delle idee. In che termini? Hai a disposizione 15 righe.

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L'ETÀ CLASSICA DELLA FILOSOFIA: PLATONE E ARISTOTELE

~ In che senso l'universo platonico è matematico?

Hai 6 righe a disposizione. ~ In 15 righe, illustra il rapporto tra la filosofia e gli

altri saperi in Platone e Aristotele. ~W Di cosa si occupano, per Aristotele, rispettiva-

mente: logica, metafisica, etica e politica? Dillo in 5 righe. ~ Illustra in 1O righe il legame tra politica, educazio-

ne ed etica in Aristotele. ~ Quante e quali sono le virtù dianoetiche? Quali e

quante sono le virtù etiche? In 5 righe.

"1.'1a Illustra, prima in 1O righe e poi in 5, le diverse forme di governo e le loro degenerazioni secondo Aristotele.

!lif8'll Perché la tradizione chiama metafisica la «filosofia prima» di Aristotele e perché la tradizione chiama metafisica quella che Aristotele chiama «filosofia prima»? In 5 righe. ~ Traduci o ricerca la traduzione dell'espressione la-

tina scire est scire per causas e spiegane in 5 righe l'origine aristotelica.

ll>!fo':J Fai 7 esempi di passaggio dalla potenza all'atto tratti da ambiti diversi di esperienza.

I>J't11 Sintetizza Metafisica VII, 1028a a p. 252 in 4 righe, facendo a meno di esempi. ~l'l Per Aristotele, un cadavere è un uomo? Rispondi

&:4111 La questione dei futuri contingenti, impostata da Aristotele nella celebre trattazione della battaglia navale, ha una lunga storia. Dopo averne chiarito i termini aristotelici, documentati sugli sviluppi e riferiscine in 4 cartelle dattiloscritte. ~ Chiarisci in 5 righe la relazione tra logica e metafi-

sica riguardo al concetto di sostanza in Aristotele. ll:ZJ'S'll Analizza le caratteristiche e la correttezza dei seguenti ragionamenti dal punto di vista della teoria aristotelica del sillogismo: ------- -------- -------- ------ -----.-------Tutti gli

mnericani

sono esseri umani --------

Tutti gli esseri umani sono mortali Tutti glÌ___

Sono

Tutti boy scout tutti sono coloro che onesti conoscono la geometria

AlCuni Tutti i Ogni europeo topi sono cani vertebrati hanno il nato pelo prima del lungo 1725 è morto

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Gli europei stanno ancora

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americani europei sono sono mortali mortali

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ammessi

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Alcuni animali hanno il pelo lungo Tutti i ~;-;;-!-

Filippo non conosce la geometria

a pelo lungo sono animali

non è ammesso

Filipp~----

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professore di filosofia non è un boy SCOUt"

Il_____ professore di filosofia è disonesto

~2fl Cos'è un entimema? In 2 righe.

"tf!fl

Quali e quanti sono i generi del discorso per Aristotele? In 4 righe.

~ Qual è l'origine antropologica della poesia per

Aristotele? In 5 righe.

in 2 righe, motivando la risposta. ~ Illustra il percorso ariostotelico dalla fisica celeste

alla teologia, prima in 20 righe e poi in 5 righe.

11§''4;!1 Cosa c'entra il cosmo aristotelico con la Commedia di Dante Alighieri? In 1O righe. ~ Perché il mondo è eterno per Aristotele? 7 righe. "S't§sensazioni

che sono ~----l:~>>-Sempre

vere

l che producono Criteri di verità

sono

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immagini mentali

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il cui afflusso costante produce

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La morale epicurea

Epicm·o OI'!Jil!llioso e «salvatore»

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concetti (pro lessi)

che diventano

criteri di giudizio (possibilità di errore)

La fortuna di Epicuro Epicuro era nato in una società che, al pari della maggior parte delle società apparse nella storia, considerava la ricchezza, la posizione sociale, gli attributi fisici e il potere politico tra i massimi beni da conquistare. Per di più era una società fondata sulla schiavitù e su una cultura che reputava gli uomini superiori alle donne e i Greci superiori a tutti gli altri popoli. Il bene che Epicuro prescriveva era ben lontano da questi valori e da queste distinzioni. La libertà dal dolore e la tranquillità dell'anima, uniti a una vita piacevole e serena, sono beni che appartengono all'orizzonte di ogni uomo, in tutte le società e in ogni tempo. Epicuro dedicò la propria vita a dimostrare che essi sono alla portata di tutti e a indicare in quale modo possiamo raggiungerli. La sua etica è innegabilmente centrata sull'utile individuale, riassumibile ad esempio nella sentenza: «La più grande ricchezza è nel bastare a se stessi». Ma, come abbiamo visto, Epicuro attribuisce una grande importanza all'amicizia, e a buon diritto molti hanno lodato più la nobiltà del suo carattere che il suo codice morale. C'è anzi molta umanità nell'etica di Epicuro, priva com'è di ogni pretenzioso moralismo, attenta ad alleviare le sofferenze di ciascuna persona, aperta a chiunque la voglia praticare. C'è un solo difetto che possiamo rilevare nel carattere di Epicuro: uno sfrenato orgoglio intellettuale che lo indusse a disprezzare e a insultare i filosofi precedenti, persino quelli a cui doveva molto, come Democrito e la sua scuola. Proclamatosi sempre un autodidatta, Epicuro mancò eli riconoscenza verso i suoi predecessori da cui nondimeno riprese numerosi spunti per costruire il suo sistema di pensiero. La sua dottrina tuttavia dovette sembrare così completa e originale che mai i discepoli vollero metterla in discussione ed essa si è conservata intatta nel tempo senza subire alcuna modifica. Essere un epicureo significava accettare una vera e propria conversione di vita e iniziare un cammino all'interno di quella singolare scuola che era il Giardino. Lucrezio descrisse con immagini poetiche la condizione felice del saggio epicureo, che osserva da lontano il naufragio dei propri simili, trascinati dall'ignoranza e dalla forza cieca delle passioni. Ai cittadini dell'universo, quali erano diventati gli uomini dell'età ellenistica, che spesso si muovevano come atomi nel vuoto, la dottrina epicurea offriva un appiglio sicuro a cui tenersi saldi mentre infuriava la tempesta.

353

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1. Zenone di Cizio

L'influenza

dello stoicismo

e mo lo stoicismo 9

Lo stoicismo nella cultura dell'Occidente Non sappiamo se fu l'interesse per la filosofia oppure, come dicono altre fonti, un casuale naufragio a spingere Zenone verso Atene, intorno al311 a.C. Secondo Diogene Laerzio, Zenone, originario di Cizio, una cittadina nell'isola di Cipro, e di professione .mercante, giunto nell'agoni di Atene, per caso udì un venditore di libri leggere alcuni passi dei Memorabili di Senofonte in cui si parlava di Socrate. Restò così colpito dall'esempio del grande maestro che si-infiammò di amore per la filosofia e domandò dove avrebbe potuto incontrare un uomo simile. Passava di là Cratete, filosofo cinico, e il libraio gli disse: «Eccolo là, seguilo!, Così ha inizio l'avventura dello stoicismo, il più importante movimento filosofico dell'età ellenistica e, tra tutti, quello che ha esercitato l'influenza più profonda nella sua epoca e in quelle successive. Fondato da Zenone nel III secolo a.C., esso si diffuse per oltre quattro secoli prima nel mondo greco e poi in quello romano. Tra le sue fila annoverò esponenti delle élites colte della società antica svolgendo, fin dall'epoca romana, un ruolo fondamentale nell'educazione dei cittadini del mondo occidentale. Per secoli, infatti, autori come Epitteto, Seneca e Marco Aurelio furono letti e riletti da coloro che potevano istruirsi, fossero uomini di Chiesa, magistrati, uomini di lettere o politici. Perfino molti Padri della Chiesa contrari alle filosofie pagane tennero un insegnamento morale molto vicino a quello stoico. Secoli più tardi, nel Rinascimento, gli intellettuali umanisti presero a tradurre i testi originali degli autori stoici favorendo una circolazione ancora maggiore delle loro dottrine. Nel secolo dei Lumi, inoltre, i principi dello stoicismo conobbero una grande fortuna tra coloro che auspicavano un ritorno dell'umanità alla ragione e alla natura e che trovarono negli stoici un punto di riferimento autorevole e prestigioso. Così, in età moderna, filosofi come Baruch Spinoza (1632-1677) e Immanuel Kant (1724-1804) e poeti come Giacomo Leopardi (1798-1837) mostrarono verso lo stoicismo un interesse speciale e ricavarono da questa filosofia stimoli importanti per il loro pensiero. Ancora oggi nel linguaggio comune comportarsi «come uno stoico, o «in maniera stoica" significa t·esistet·e alle avversità con animo fet·mo e cot·aggioso, senza lasciarsi andare alla disperazione. Anche questo è un segno evidente della penetrazione dei principi morali dello stoicismo nella cultura dell'Occidente. Del resto, le domande a cui la filosofia degli stoici cercò di rispondere sono domande perenni dello spirito dell'uomo: il mondo è il regno del caso o di un misterioso destino? Come posso raggiungere la libertà dell'anima? Come debbo vivere per non !asciarmi turbare dagli avvenimenti esteriori? Che senso hanno per me la vita e la morte? E quale senso hanno nell'universo?

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354

2.

llna scuola di libertà: il cinismo

Ascesi e libertà di par•ela

Il cosmopolitismo e lo spi1•ito missiuna1•io

le origini dello stoicismo Il movimento dei cinici • Intorno al 300 a.C. Zenone cominciò a insegnare la sua filosofia sotto il Portico dipinto (StoaPoikile) nell'agora di Atene. Questo luogo divenne una specie di aula all'aperto dove Zenone incontrava i discepoli e teneva discorsi. Perciò la scuola fu chiamata stoicismo e i discepoli di Zenone stoici, cioè «quelli della Stoa". Molti elementi dell'insegnamento di Zenone e soprattutto la sua visione particolare della vita derivavano dall'esempio di un gruppo singolare di filosofi-asceti, i cosiddetti cinici. Piì1 che una filosofia vera e propria, il cinismo era un movimento anticulturale e antisociale, le cui origini venivano fatte risalire ad Antistene di Atene C444-365 a.C.), un discepolo di Socrate. Questi aveva accentuato in modo esagerato gli aspetti ascetici e anticonformisti della vita di Socrate, senza riuscire, tuttavia, a interpretarne la complessità del pensiero. L'aneddoto raccontato da Diogene Laerzio e riportato all'inizio del precedente paragrafo, vuole sottolineare la continuità tra l'insegnamento degli stoici e quello dei cinici, facendo di quest'ultimo la fonte originaria del primo. Zenone infatti fu discepolo di Cratete e questi fu allievo di Diogene di Sinope, vissuto tra il412 ed il 323 a.C., entrato nella leggenda filosofica per i suoi comportamenti ritenuti strani. A dimostrazione che per vivere non c'è bisogno di una dimora particolare, egli visse, almeno così è narrato, in una botte; non solo, egli andava in giro tra gli uomini, in pieno giorno con una lanterna accesa, rispondendo a chi gli chiedeva che cosa cercasse, che egli cercava l'uomo. Risposta questa che lasciava sorpresi coloro che lo interrogavano, in quanto ciò che cercava, per la gente che lo vedeva, era presente abbondantemente con loro. Diogene in realtà voleva far capire a chi lo vedeva che tra di loro non c'era l'uomo, in quanto tutti erano mascherati nel lusso, nella ricerca di piaceri, nell'obbedienza alle consuetudini. L'uomo che egli cercava, invece, era l'uomo libero da ogni forma di schiavitù, capace di vivere solo con il necessario indicatogli dalla stessa natura, ovvero, un riparo, un indumento, un bastone e una bisaccia.

Uma vita seccmdo natura • I cinici avevano fatto la scelta di vivet·e liberi, senza obbedire alle t·egole sociali, e soltanto questa chiamavano vita virtuosa o vita secondo natura. La natura, essi dicevano, richiede il minimo indispensabile per sopravvivere, non ha bisogno di abbondanza di oggetti, abiti, monete, titoli, onorificenze, impieghi di prestigio. Tutte queste forme così necessarie alla vita sociale rendono gli uomini schiavi, privandoli della libertà. La vita che i cinici conducevano era simile, quindi, a quella dei mendicanti: andavano in giro come cani randagi (da cui il loro nome), scalzi, con un solo semplice indumento, con il bastone e la bisaccia, che diventò il loro simbolo. Ostentavano con tale atteggiamento la loro libertà da qualsiasi bene che non fosse disponibile in natura. La libertà dei cinici era comunque frutto di un faticoso allenamento (ascesi) del corpo e dello spirito attraverso il quale si esercitavano a rinunciare alle comodità di una vita agiata. Erano anche animati da un forte spirito missionario: andavano in giro per il mondo criticando le convenzioni e il comportamento degli uomini e insegnando a tutti quale fosse la via da seguire. Diventarono famosi per la loro libertà di parola (parres{a) che non li fermava di fronte a nessuno, neppure davanti agli uomini potenti. Si distinguevano inoltre per il loro cosmopolitismo: consideravano il mondo come una grande repubblica in cui il diritto di cittadinanza andava riconosciuto soltanto agli uomini liberi e saggi, mentre gli stolti ne erano esclusi. Il loro disprezzo per la vita sociale li faceva apparire talvolta come grandi individualisti. Ma il popolo cominciò a provare simpatia per questi uomini bizzarri che non 355

LE FILOSOFIE ELLENISTICHE

si tenevano alla larga dalla gente comune. Cratete (IV sec. a.C.), ad esempio, il maestro di Zenone, era solito frequentare le famiglie ateniesi per confortare e dare consigli morali, tanto da meritarsi il soprannome di «apriporta». Altri svolgevano un'attività utile nei confronti del popolo e venivano ammirati per il loro ascetismo e per la loro instancabile predicazione morale.

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lo stoicismo nell'antichità greca e romana IL'iti'ìi'Ulil©J~iuu~ dJ® i ~©l~~i@ ~\G@U©CQJ • Fondato sull'esempio dei filosofi cinici, l'insegnamento di Zenone non si limitava alla trasmissione della dottrina, ma consisteva soprattutto in uno stile di vita sobrio, nel distacco dalle passioni e dai beni materiali, nel raggiungimento della completa 'atarassi~! o tt·anquillità interiore. Di conseguenza l'immagine popolare del saggio stoico fu subito quella di un uomo che t·esta impassibile di ft·onte alle disgrazie, indifferente fino alla freddezza, autosufficiente, impertur-. babile, intangibile come una statua di marmo. Immagine che esagerava evidentemente alcune caratteristiche della dottrina dei primi fondatori dello stoicismo. Col passare del tempo, soprattutto quando lo stoicismo cominciò a diffondersi nella società romana, la durezza e l'asprezza delle origini furono notevolmente ammorbidite, fino a trasformare l'immagine dello stoicismo, per merito eli alcuni autori come Seneca e Marco Aurelio, in una filosofia meno intransigente e dal volto più umano.

le fonti dell!ensiet·o degli stoici

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inteso anche come

provvidenza l destino (principio impersonale)

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per cui

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ogni esser·e è parte necessaria del Tutto

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il male non esiste la morte è solo trasformazione

L'etica: armonia con la ragione universale

L'armonia cnn ilpl'll!J!!Uo divino

~1Qlll1t~ td®ll~ ll1~\Gm·~ • Compito dell'etica è indicare all'uomo cosa è bene e cosa è male. Ora, per gli stoici il bene si identifica con la natura. Come abbiamo visto, essi identificano la natura con ill6gos divino, con la razionalità che governa il mondo. Tutto ciò che è opera della natura è quindi «buono". Ne consegue la regola d'oro dell'etica stoica: si deve considerare buono tutto ciò che agisce in confot·mità con la natut·a. «Buoni» sono tutti gli esseri viventi, vegetali e animali, in quanto appartenenti alla natm'a e fatti per conservare il proprio stato e per portare vantaggio al buon funzionamento del tutto. Gli animali, ad esempio, sono preorclinati fin dalla nascita a procurarsi il cibo necessario e a fuggire le cose che li potrebbero danneggiare. Anch'essi si comportano in modo «razionale, in quanto il loro comportamento è guidato da un impulso orientato a un fine, l'auto-conservazione, stabilito dalla provvidenza universale. A differenza degli animali, l'uomo possiede anche la ragione: è la ragione che consente all'uomo, unico tra gli esseri viventi, eli poter comprendere il progetto divino e di agire consapevolmente in accordo con esso. In questo senso gli stoici sostengono che la ragione è il pdncipio egemonico, che deve comandare, dell'anima umana, e una pat1:e della ragione universale, un frammento del l6gos divino. Per gli uomini il fine supremo consiste nel vivere in accordo con la natura, ma nel loro caso l'accordo si fonda su una scelta consapevole, sull'assenso che essi soli nell'universo possono dare li-

365

Il destino è piì1 forte della volontà dell'uomo

beramente all'ordine naturale. Buono sarà quindi l'uomo che comprende l'ordine universale e sceglie di agire in armonia con esso; malvagio, al contrario, chi si ribella contro l'ordine universale e indirizza la sua vita contro la logica della natura. L'assurdità del ribellarsi contro l'ordine universale stabilito dalla natura è illustrata dagli stoici con l'immagine del cane legato a un carro. Il carro rappresenta la serie degli eventi che capitano nella vita di un uomo che influiscono sulla sua vita e che sfuggono spesso al suo controllo. L'uomo non può agire indipendentemente da essi e neppure fare in modo che accadano diversamente da come accadono. Il carro rappresenta quindi il destino, o la legge della natura, a cui la vita di ogni uomo è sottomessa. L'uomo può decidere autonomamente di essere come il cane che corre dietro al carro oppure come quello che si rifiuta di correre, ma viene trascinato ugualmente, contro il suo volere. Il destino è sempre più forte della volontà umana. Inutile quindi cercat'e di resistere, protestare, ribellarsi, rifiutarsi di seguirlo docilmente. L'uomo malvagio, secondo questa immagine, che non riconosce la bontà del destino, verrà comunque trascinato dalla forza del carro, mentre il buono deciderà spontaneamente di seguirlo, cioè di accordare la propria volontà particolare con quella della natura universale. Così scrive C}eante, chiamando ill6gos divino con il nome tradizionale di Zeus: Conducimi, o Zeus, e tu, o destino, là dove avete stabilito per me; vi seguirò senza esitare; se resistessi, dovrò seguirvi, da vile, pur sempre. Stoicorum Veterum Fragmenta, I, 527

Il conflitto tra deside1•i e l'ealtà

366

In testi come il Manuale di Epitteto l'etica stoica si presenta come una specie di «ricetta» per vivere bene. Non sfugge agli stoici che una delle ragioni per cui l'uomo si sente infelice risiede nel fatto che non può realizzare tutti i suoi sogni e i suoi desideri. In altri termini, molti desideri si scontrano con la durezza della realtà. Qùando le circostanze si oppongono alla realizzazione dei desideri, l'uomo cerca di modificarle a proprio vantaggio. Ma vi sono circostanze che è impossibile modificare. Allora nascono sentimenti di frustrazione, di rabbia, di insoddisfazione. L'uomo è spinto a maledire le circostanze esterne oppure a ostinarsi di volerle piegare con violenza ai propri disegni. Oppure, ancora, a ritorcere contro di sé la delusione che prova, attribuendone la colpa alla propria incapacità. Per gli stoici, invece, è molto più saggio riconoscere che non sempre la realtà esterna si può adattare ai nostri desideri. Meglio quindi adattare i nostri desideri alla realtà: «Non cercare eli fare in modo che ciò che accade accada come desideri, ma desidera che ciò che accade accada come accade, e il corso della tua vita sarà lieto» (Epitteto, Manuale, 8). L'atteggiamento interiore che gli stoici propongono non è fatto di semplice rassegnazione: il saggio, come abbiamo visto, non subisce passivamente i colpi del destino, ma li accoglie con animo pronto e gioioso quali eventi necessari nell'ordine universa· le. Se un uomo potesse conoscere tutti i fatti dell'universo e tutte le relazioni che intercorrono tra questi fatti, non giudicherebbe mai un evento come negativo perché ne riconoscerebbe subito la necessità per l'ordine del tutto. Poiché invece l'uomo non è in grado di conoscere tutti i fatti dell'universo, egli deve credere che tutti gli eventi siano buoni e necessari, sulla base della certezza che il l6gos, la ragione divina che governa l'universo, non può fare niente che non vada a vantaggio dell'universo stesso. Forte di questa convinzione, il saggio non resterà sorpreso da nessun evento, manter- · rà sempre la sua tranquillità interiot·e in mezzo a qualunque situazione, sarà imper· turbabile di fronte ai mutamenti del destino.

la uirtù • Con la virtù l'uomo possiede la sola cosa sufficiente per vivere felice. In contrasto con gli epicurei, gli stoici ritengono che l'uomo sia orientato, fin dalla nascita, non già verso il piacere, ma verso la virtù. Con la parola intendono la capacità t·azionale di conoscere il bene e di t•ealizzarlo. L'uomo ne è provvisto fin dalla nascita in quanto, come abbiamo visto precedentemente, è dotato di ragione e la sua ragione è un frammento della ragione universale. L'agire secondo vittù consisterà allora nel compot1:arsi in armonia con la ragione universale. L'uomo può comprendere quale sia l'ordine provvidenziale dell'universo e il posto che gli è stato assegnato. Agire con virtù, scriverà Epitteto, significa riconoscere la parte che ci è stata data nel grande dramma dell'universo, ben sapendo che il copione non è stato scritto da noi, ma dalla mano divina: Ricordati che sei un attore che interpreta una parte in un dramma che è come lo vuole il drammaturgo. Una parte breve, se vuole che sia breve, lunga se vuole che sia lunga. Se vuole che tu interpreti la parte del mendicante, bada di interpretare con bravura questo ruolo: oppure quella di uno zoppo, o di un magistrato, o di un privato cittadino. Infatti il tuo compito è questo: interpretare bene il ruolo che ti è stato assegnato. Ma scegliere questo ruolo spetta a qualcun altro. Epitteto, Manuale, 17

lltUIIJ!Jio stoico

L'ideale di vita: apatia e indiffe1•enza

In questa logica, uomo virtuoso è chi sa interpretare bene il ruolo che gli è stato assegnato e interpretare bene significa in primo luogo ragionare bene. A tale proposito, Zenone riconosce che le virtù sono molteplici, ma tutte si possono riassumere nella sola saggezza. Il saggio, infatti, sa quando deve agire con giustizia, quando con tem- · peranza, quando con coraggio, quando con fortezza. Chi possiede la virtù della saggezza, quindi, le possiede tutte. Zenone afferma anche che tutte le virtù hanno odgioe nella ragione e che "possedere» la virtù non significa soltanto «Sapere, cosa è giusto fare, ma anche attuarlo in ogni circostanza della vita. Nell'ottica dello stoicismo, nella stessa persona coincidono saggezza, virtù, razionalità e bontà. Non è possibile infatti possedere una sola virtù, ma un'unica persona le possiede tutte insieme o non ne possiede nessuna. Ciascuna virtù è inseparabile dalle altre e tutte si riassumono nella saggezza. L'atteggiamento del saggio stoico nei confronti di emozioni e passioni deve essere di assoluto distacco. Gli stoici, infatti, respingono la separazione platonica e aristotelica dell'anima in parti distinte. Secondo loro, l'anima dell'uomo è unica ed è tutta ragione. Le passioni, le emozioni, i desideri non sono quindi attività inferiori dell'anima che devono essere controllate e guidate dalla ragione; essi sono «ragione cot·rotta», cioè giudizi sbagliati su ciò che è bene e ciò che è male per noi. Di conseguenza le passioni e le emozioni non devono essere controllate, ma sradicate. L'ideale della vita stoica è l'[:it,Ji~t!ij.j, cioè la libet1:à da ogni passione, emozione e affetto, cioè da quelle tendenze dell'anima che la potrebbero pervertire.

Apatia: dal greco aphateia, composto da alfa privativa, «non,, e pathos, «passione": letteralmente significa «senza passione". L'apatia è la condizione ideale del saggio ellenistico, il vivere senza passioni, insensibili al dolore, indifferenti ai turbamenti, impassibili. Oggi, nel linguaggio ordinario «apatico" viene usato con una accezione negàtiva come sinonimo di insensibile, indolente, privo di emozioni, spento, depresso.

367

La tradizione ci ha consegnato un'immagine austera del saggio stoico tutto teso a realizzare l'ideale dell'apatia: un uomo indifferente alle cose esteriori, alla salute, alle ricchezze, alla gloria, al potere e senza traccia di affetto irragionevole verso i famigliari e gli amici. Ogni azione e pensiero del saggio deve essere soltanto ragionevole e virtuoso, in completa armonia con il principio regolatore dell'universo. Una pagina del Manuale di Epitteto esprime molto bene questo ideale, che a volte sembra disumano:

Per ogni cosa che ti attrae o che ti è utile o che ti piace, ricordati di aggiungere per te stesso che cos'è, a partire dalle cose più piccole. Se ti piace una pentola, di' a te stesso: uMi piace una pentola''· Cos~ se essa si rompe, tu non ne sarai turbato. Se abbracci tuo figlio o tua moglie, di' a te stesso: 'Abbraccio un essere umano". Se muore, non ne sarai turbato. Epitteto, Manuale, 3

Cnllllll'il'i;unento ideale

nella vita concreta

La figura del saggio era oggetto di venerazione da parte dei discepoli della scuola: egli solo era superiore a qualsiasi cambiamento o evento della vita e inattaccabile dalla fortuna; possedendo la virtù, possedeva l'unica cosa importante. Con l'andare del tempo, tuttavia, gli stoici si resero conto che l'ideale dell'apatia e dell'indifferenza er0 irrealizzabile. Nella vita concreta, anche il saggio si trovava a dover scegliere tra una cosa e l'altra. Secondo le testimonianze, lo stesso Zenone, capostipite della scuola, giunse a distinguere le cose in tre categorie:

Queste Zenone dice esser le cose che hanno realtà. E delle cose che sono alcune sono beni, altre sono mali, altre ancora sono indifferenti. Beni sono cose come queste: la saggezza, la temperanza, la giustizia, la fortezza, e tutto ciò che è virtù, o che partecipa della virtù. Mali sono cose come queste: la stoltezza, la sfrenatezza, l'ingiustizia, la viltà, e tutto quello che è vizio o di questo partecipa. Indifferenti sono cose di questo tipo: la vita, la morte, la fama o l'oscurità, la ricchezza o la povertà, la malattia o la salute, e tutte le cose a queste simili. Soicorum Veterum Fragmenta, I, 190

Nel Manuale di Epitteto lo stesso concetto è chiarito con termini diversi: vi sono cose che sono in potet·e dell'uomo, come i giudizi, gli impulsi, i desideri, e cose che non lo sono, come la vita, la morte, la salute, la malattia, la ricchezza, la povertà. L'uomo è libero soltanto nelle cose che sono in suo potere, mentre nelle altre non lo è, perché non dipendono dalla sua volontà. Queste ultime sono dunque le cose indiffet·enti (adiàphora), né buone né cattive. Mentre i giudizi, gli impulsi e i desideri possono essere buoni o cattivi, in quanto dipendono dalla volontà dell'uomo. ib©J ldlK'!Ii:lì;rill'il©J ©!~i!~ ©K'!I~~ ~r~~®rill:ilolo ~ umill ~:!lD"!iil~l!il&'ill:ilm • Tra le cose indifferenti,

tuttavia, esiste una distinzione ulteriore tra cose pt·eferibili secondo natut·a e cose non preferibili o da respingersi in ogni caso, perché contro natura. Così uno stoico può considerare preferibile la salute invece della malattia, senza pregiudicare la sua filosofia. Con questa distinzione la dottrina degli stoici offriva un criterio per orientarsi nella vita concreta della società, dove gli uomini devono compiere scelte in numerose circostanze e non possono restare indifferenti di fronte alle possibilità che si presentano. In generale, infatti, e nonostante il loro austero ideale di saggezza, gli stoici si adattarono alla società in cui si trovarono. Il loro ideale di vita secondo ragione o natura non richiedeva necessariamente l'ascetismo dei cinici, il loro liberarsi di ogni cosa, il ridur-

368

Lauita pubblica

La fedeltà al compito assegnato dal destino

re al minimo le necessità di sussistenza. Al contrario, gli stoici si integrarono nella normale vita civilizzata, con i suoi doveri e le sue responsàbilità. A cominciare da Zenone, che pure non fu mai impegnato personalmente nell'attività politica, tutti gli stoici raccomandarono ai loro discepoli di pat·tecipat·e alla vita pubblica e per questo la loro filosofia fu bene accolta dai Romani. Dovere dell'uomo nella società è compiere le azioni convenienti alla condizione di vita in cui si trova e al compito che gli è stato assegnato dal destino. Il filòsofo che più è stato conquistato da questo pensiero è Marco Aurelio. Imperatore romano dal161 al180 d.C., si convertì alla filosofia stoica durante la giovinezza traendo da essa i principi-guida della sua opera di sovrano:

Se assolvi il compito che hai al presente seguendo la retta ragione, con diligenza, con energia, con animo ben disposto, e non ti dedichi a nessuna cosa accessoria, ma ti curi solamente di mantenere puro il tuo demone (il principio regolatore della vita: la razionalità) come se tu dovessi restituir/o da un momento all'altro; se adotti questi principi senza attendere nulla e senza cercare di evitare nulla, ma soddiifatto di compiere secondo natura l'azione presente e di dire eroicamente la verità in ogni tuo discorso e in ogni parola che pronunci, allora vivrai felice. E non vi è nessuno che possa impedirlo. Marco Alirelio, A se stesso, III, 12

Le giustificazione del suicidio

L'ideale della f1•atellanza uniuersale

In base alla dottrina delle cose preferibili e non preferibili, gli stoici giungevano a sostenere anche la legittimità del suicidio. Quando il saggio si accorge che nella propria vita la percentuale delle circostanze preferibili è nettamente inferiore a quella delle circostanze non preferibili, allora può decidere di abbandonare la vita uccidendosi. Paragonavano questa decisione a quella di un bambino che abbandona un gioco di cui si è stancato o a quella di un uomo che esce da una stanza piena di fumo. Tipico della morale stoica è anche il sentimento di fratellanza universale, basato sulla consapevolezza di appartenere a un'unica t·ealtà vivente animata dallogos divino (cosmopolitismo). Tale sentimento si esprime in particolare nei confronti degli altri uomini in quanto possiedono tutti una parte del medesimo intelletto regolatore. Da ciò deriva il dovet·e di non fare violenza al pt·ossimo e di rispettarlo anche se questi è ignorante e malvagio. Così Marco Aurelio ricorda a se stesso il suo dovere di amare tutti gli uomini:

Di buon mattino bisogna cominciare col dire a se stessi: m 'imbatterò in un indiscreto, in un ingrato, in un prepotente, in un imbroglione, in un invidioso, in un egoista. Tutti questi difetti provengono loro dall'ignoranza del bene e del male. Io, invece, che ho meditato sulla natura del bene e del male, e ho concluso che l'una consiste in ciò che è moralmente bello, l'altra in ciò che è turpe, e ho meditato altresì sulla natura dello stesso peccatore, e ho concluso che egli è mio parente, non perché dato dallo stesso sangue e dallo stesso seme, ma perché ha in comune con me l'intelletto, e cioè una particella della divinità; io, dunque, non posso subire alcun danno da nessuno di essi- nessuno, infatti, potrà farmi compiere azioni turpi- e nemmeno posso adirarmi con un mio parente o prender/o in odio. Infatti siamo nati per cooperare, come i piedi, come le mani, come le palpebre, come i denti superiori e inferiori. Dunque agire gli uni contro gli altri è contro natura; e adirarsi con qualcuno ed evitarlo con disprezzo significa appunto agire contro il prossimo. Marco Aurelio, A se stesso, II, l

369

l principi dell'etica stoica Natura = /6gos (divino)

ne consegue

bontà della natura

l ne consegue

t

regola dell'etica stoica: vivere in armonia con la ragione universale (16gos)

l

che equivale

l

"

(per l'uomo) accettazione consapevole e lieta del destino ~ adattare i desideri 1 alla realtà poiché

razionale...,;{'-----'~---~ l'uomo (crede nel /6gos e)

l'uomo è un essere (che comprende il progetto divino e sceglie)

mantiene una tranquillità interiore

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vivere secondo virtù (saggezza) comporta

l

- e partecipare alla vita " beni pubblica " mali "' adempiere ai propri doveri " cose indifferenti (dottrina delle cose " avere spirito di preferibili) fratellanza universale

7.

La virtù come meta ideale

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Lo stoicismo dalla Grecia a Roma DI medio stoicismo • Le principali concezioni dell'antica Stoà (come le teorie dei cicli cosmici, della conflagrazione universale, degli incorporei, del sillogismo anapodittico), dopo Crisippo, furono oggetto di revisione già da parte degli immediati successori. Questi erano per la massima parte provenienti dalla città di Tarso, in Siria, come Zenone, Archedemo, Antipatro, e dalla città di Seleucia, sul Tigri, come Apollodoro e Diogene Babilonese (che partecipò con l'accademico Carneade e il peripatetico Critolao a una celebre ambasceria inviata dai Greci a Roma nel155 a.C.). Questi pensatori, sulla base di spunti spesso presenti negli autori stessi dell'antico stoicismo, generalmente finirono col concepire la sapienza assoluta, in cui gli stoici antichi identificavano la virtù, non tanto come una condizione stabile propria del saggio, quanto piuttosto come la meta ideale vet·so la quale pt·ogredire, rivalutando conseguentemente le azioni convenienti (tà kathékonta), più modeste rispetto all'azione perfettà (tò kat6rthoma), che attua la virtù, ma certamente più praticabili. Fondamentale diventa quindi per questi filosofi il concetto di scelta (eklogé, da cui deriva ad esempio «eclettismo•>), presente in Crisippo: pur nella consapevolezza che il bene è il fine supremo verso cui tendere, l'uomo sceglie i doveri "da preferirsi", perché dotati di valore.

Panezio: il concetto di 191-1 09.

lì!ii§)l

Prendendo spunto da ciascuno degli avvenimenti che si verificano nel mondo, è facile lodare la Provvidenza, a condizione che si posseggano due cose: la capacità di abbracciare con un solo sguardo tutto ciò che a ciascuno accade, e il senso della gratitudine. Se no, o non si vedrà l'utilità degli avvenimenti, o non se ne proverà un senso di riconoscenza, neppure vedendone l'utilità. . Se Dio avesse fatto i colori, ma non una facoltà atta a vederli, quale vantaggio se ne avrebbe? Proprio nessuno. E se, d'altro canto, avesse fatto la facoltà, ma le cose non fossero tali da essere colte dalla facoltà visiva, anche in questo caso, quale vantaggio se ne avrebbe? Proprio nessuno. E allora, se avesse fatto l'una e l'altra di queste cose, ma non avesse fatto la luce? Neppure in tal caso si avrebbe un qualche vantaggio. Chi è, dunque, colui che ha armonizzato questo a quello e quello a questo? Chi è colui che ha armonizzato la spada al fodero e il fodero alla spada? Nessuno? Eppure, proprio partendo dalla costiDio ha fatto il mondo tuzione degli oggetti, siamo soliti affermare che sono senz'altro opera di un arcnme un'opi!i'il d'a1·te tista e niente affatto costituiti a caso. Ognuno di essi, quindi, manifesta l'esistenza di un artista; e gli oggetti visibili e la visione e la luce non la manifestano? E il maschio e la femmina e il desiderio di unirsi l'uno all'altra e la capacità di usare gli organi idonei a tale scopo, neppure questo manifesta l'artista? Sì, queste cose lo manifestano. E la speciale costituzione del nostro intelletto, che ci consente non solo di ricevere le impressioni dagli oggetti sensibili, quando veniamo in contatto con essi, ma anche di scegliere tra questi oggetti, di togliere, di aggiungere, di combinare insieme alcuni di essi da noi stessi e di passare, per Zeus, dagli uni agli altri che sono in qualche modo somiglianti, eb-

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L'u11mo possiede la capacità di comprendere l'opel'il divina

Bisogna ap!'ÌI'e gli occhi

sulle meraviglie deii'III1ÌIIei'Sil

Abbiamo le capacità per sopportare ogni auueninumto

bene, neppure tutto questo riesce a scuotere certuni, inclucencloli a riconoscere l'artista? Oppure ci spieghino che cosa è ciò che determina ciascuno eli questi risultati, o come è possibile che tante cose meravigliose e ingegnose esistano a caso e ad opera di se stesse. E dunque? Limitatamente all'uomo si verificano tali cose? Molte si verificano effettivamente solo in noi, e si tratta di cose delle quali l'animale ragionevole aveva particolare bisogno; molte, invece, le troverai comuni a noi e agli esseri che non hanno ragione. Questi ultimi, dunque, arrivano a comprendere le cose che avvengono? No. Infatti, altro è l'uso delle rappresentazioni e altro la comprensione del medesimo. Dio aveva bisogno di quegli esseri che usano le rappresentazioni, e anche di noi che ne comprendiamo l'uso 1 • Perciò, per quelli è sufficiente mangiare, bere, riposare, accoppiarsi e compiere, ciascuno, tutte le altre cose che richiede la loro natura; per noi, invece, poiché Dio ci ha concesso anche la facoltà di comprendere, questo solo non basta; e se non agiamo nel modo che si conviene, ordinatamente e seguendo ciascuno la sua natura e struttura, non conseguiremo mai il fine che ci è proprio. Infatti, chi ha struttu. re differenti, ha pure azioni e fini differenti. A colui la cui struttura è adatta al solo uso, basta un uso comunque rivolto. Chi, al contrario, ha anche la comprensione dell'uso, se a quest'ultimo non si aggiunge il modo conveniente, non conseguirà mai il suo fine. E gli animali? Dio assegna a ciascuno la sua struttura, di guisa che uno serve di cibo, un altro serve d'aiuto nei lavori agricoli, un altro serve a produrre formaggio, un altro ancora serve per un altro bisogno affine. Ebbene, per queste loro azioni c'era forse bisogno che comprendessero le rappresentazioni e le potessero giudicare? 2 L'uomo, invece, Dio l'ha introdotto nel mondo come spettatore di Lui e delle sue opere; e, anzi, non solo come spettatore, ma anche come interprete delle medesime. Perciò è vergognoso per l'uomo cominciare e finire dove cominciano e finiscono anche gli esseri senza ragione; bisogna piuttosto che egli cominci di lì e finisca là dove finisce la nostra natura. Essà finisce nella contemplazione, nella comprensione delle cose e in una condotta di vita in armonia con la natura. Fate attenzione, dunque, a non morire senza aver contemplato queste cose. Voi, però, viaggiate fino ad Olimpia per vedere il capolavoro di Fidia, e ciascuno di voi ritiene una sfortuna morire senza averlo potuto vedere. E dove non c'è bisogno di viaggiare per arrivarvi, perché già vi trovate e avete le opere davanti ai vostri occhi, non proverete il desiderio di contemplarle e di capirle? Non cercherete, dunque, eli comprendere chi siete, perché siete nati, che senso ha lo spettacolo che vi è stato concesso di godere? «Ma ci sono cose spiacevoli e dure nella vita». E ad Olimpia non ci sono? Non bruciate dal caldo? Non state stipati per la folla? Non fate il bagno scomodamente? Se piove, non vi bagnate? Non dovete sorbit-vi il tumulto, le grida e tutti gli altri inconvenienti? Eppure, credo, mettendo sulla bilancia tutti questi fastidi e l'importanza dello spettacolo, voi li sopportate e li tollerate. Invero, non avete ricevuto delle facoltà per sopporta-

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l. Il fatto che solo l'uomo abbia la "comprensione, (parakolouthesis) dell'uso delle rappresentazioni si-

gnifica, in definitiva, che l'uomo, in quanto provvisto della facoltà razionale, è l'unico ad essere cosciente di sé. 2. L'ordine del cosmo è antropocentrico: per tutti gli stoici, le forme di vita inferiori esistono in funzione di quelle superiori. Si tratta di un punto di vista forse di origine semitica, se non del tutto estraneo al sentire greco classico, quantomeno desueto.

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Ercole è diuenuto eroe affrontando numerose pt•oue

Empio è lamentarsi

della sfortuna

re ogni accadimento? Non avete ricevuto la grandezza d'animo? Non avete ricevuto il coraggio? Non avete ricevuto la sopportazione? E, avendo un animo grande, che cosa mi può ancora importare delle cose che possono capitare? Che cosa mi farà uscire da me stesso, che cosa mi turberà, che cosa mi sembrerà doloroso? Non userò la facoltà per far fronte alle circostanze per cui l'ho ricevuta e, invece, mi metterò a piangere e a lamentarmi per le cose che capitano? «Sì, ma ho il moccio al naso." E perché, allora, hai le mani, schiavo? Non è anche per pulirti il naso? «È dunque conforme a ragione che nel mondo ci siano nasi col moccio?, E non sarebbe meglio che te lo pulissi, il naso, invece di imprecare? Che uomo sarebbe stato, secondo te, Eracle, se non ci fossero stati il famoso leone e l'idra e la cerva e il cinghiale e un certo numero di uomini malvagi e brutali che egli eliminò e di cui purificò il mondo? E che cosa avrebbe fatto, se non fosse esistito nessuno di questi esseri? Non è forse evidente che sarebbe rimasto a dormire avvolto nelle coperte? Innanzitutto, dunque, sonnecchiando per tutta la vita in tale placida mollezza, non sarebbe stato Eracle; e, se anche lo fosse stato, che utile ne avrebbe avuto? Che uso avrebbe fatto di quelle sue braccia e, insomma, del suo vigore, della sua forza, della sua nobiltà, se tali frangenti e situazioni non avessero sollecitato ed esercitato le sue doti? «E che? Avrebbe dovuto fabbricarsele queste occasioni, cercando di condurre nella sua terra il leone, il cinghiale e l'idra?" No, questo sarebbe follia e stoltezza! Ma, poiché esistevano ed erano stati trovati, erano utili mezzi per mostrare ed addestrare Eracle. Suvvia, anche tu, presa coscienza di ciò, rivolgiti alle facoltà che hai e, dopo aver fatto questo, di': «Ora, o Zeus, ponimi di fronte alla circostanza che vuoi; possiedo, infatti, le risorse che mi hai dato e gli strumenti necessari per farmi onore attraverso quello che capita". No, voi, invece, restate seduti, tremando per la paura che vi accada qualcosa, affliggendovi, lamentandovi e piangendo per quel che vi succede, e, infine, ve la prendete con gli Dei. E, infatti, che cos'altro può far seguito a tale miseria, se non anche l'empietà? E dire che Dio non solo ci ha dato queste facoltà, mediante le quali possiamo sopportare tutto ciò che accade senza esserne umiliati o spezzati, ma, come si conveniva ad un buon re e, anzi, in verità, a un buon padre, ce le ha date esenti da impedimenti, libere da ostacoli e incoercibili; e tutto ciò ha messo nelle nostre mani, senza tenere per sé alcun potere di impedirlo o di impacciarlo. Orbene, avendo in vostro potere tali facoltà libere e vostre, non ve ne servite e neppure capite che doni avete ricevuto e da chi, ma rimanete seduti, in lacrime e in lamenti, gli uni completamente ciechi sul conto del donatore stesso e nell'ignoranza riguardo alloro benefattore, gli altri, poi, pronti, per ignobiltà, a muovere rimproveri e accuse contro Dio. Eppure, potrei mostrarti che hai mezzi e struttura idonea per avere un animo grande e coraggioso: per essere corrivo~ a biasimare e ad accusare, fammi vedere tu quali risorse possiedi. Epitteto, Diatribe, I, VI, pp. 93-99

3. Corrivo: pronto.

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Contro la prowidenza: la tesi dell'epicureismo Contro la dottrina stoica della provvidenza Epicuro scagliò violenti attacchi, negando l'intervento degli dei nelle vicende umane. La sintesi più radicale della sua argomentazione è stata tramandata da un autore cristiano, Lattanzio (250-327 d.C. ca.): «Dio o vuole eliminare il male e non può, o può e non vuole, o né vuole e né può, o vuole e può. Se è vero il primo caso, è impotente; se il secondo, malevolo; se il terzo, entrambi; se il quarto, il solo che convenga a Dio, allora perché non lo fa?» (De ira Dei, 13,20). L'unica difesa della divinità, secondo Epicuro, consiste nello scagionarla dalla responsabilità per tutto quanto accade nell'universo considerandola estranea, fisicamente e moralmente, alle vicende umane.

A Roma, la voce di Epicuro risuonò inizialmente attraverso il teatro: Cicerone (1 06-43 a.C.), filosofo e avvocato vissuto nell'ultimo periodo della Repubblica romana, ci ha tramandato la notizia che in una perduta tragedia di Ennio, il Te/amane, un personaggio esclamava: «Ho sempre detto e dirò che esistono gli dei, ma credo che non si curino delle azioni umane: perché se se ne curassero, andrebbe bene ai buoni e male ai malvagi, il che è lungi dall'essere». Cicerone stesso scrisse un'opera sulla natura della divinità, il De natura deorum, in cui espose le tesi degli epicurei e degli stoici intorno all'esistenza e alla natura degli dei, includendo le posizioni scettiche di un filosofo accademico l tre protagonisti del dibattito- l'epicureo, lo stoico, l'accademico- riassumono le posizioni delle loro scuole sulla provvidenza divina. Riportiamo qui di seguito la parte del discorso dell'epicureo Velleio in cui si nega la provvidenza divina. Replicando a Balbo, esponente del provvidenzialismo stoico, Velleio obietta che se la divinità si dovesse occupare delle vicende del mondo o addirittura si identificasse con esso, allora non sarebbe felice. Infatti per Epicuro felicità e tranquillità sono la stessa cosa ~>-11-14. Ma allora perché taluni ricorrono all'idea di una divinità ordinatrice? Perché non sono capaci di scorgere il meraviglioso meccanismo con cui la natura produce da se stessa il mondo ~>-114-28. In conseguenza di ciò hanno bisogno di un dio giudice supremo e lo pongono sulla testa degli uomini così da terrorizzarli ~>128-31. Velleio osserva che il concetto stoico di heimarméne (necessità) non fa altro che riportare gli uomini alla mentalità superstiziosa autorizzando la pratica della divinazione per interpretare i segni del fato ~>-131-39, mentre Epicuro ha liberato le menti da simili credenze una volta per tutte .,.139-42.

m.m.

È vostra abitudine, Balbo, chiederci quale sia la vita degli dei e qùale esisten-

Gli dei di Epicuro non sono coinvolti nelle vicende del mondo Per gli stoici invece la divinità non è mai tranquilla

za conducano. Evidentemente si tratta di una vita a paragone della quale non si può concepire nulla di più felice e di più ricco di tutti i beni. Il dio non fa nulla, non è coinvolto in nessuna attività, non si occupa di nessun lavoro, gode della sua saggezza e della sua virtù, sa con certezza che si troverà sempre in una condizione di piacere massimo ed eterno. A ragione diremo questo dio felice; il vostro invece è indaffaratissimo. Se il mondo stesso è dio, che cosa vi può essere di meno tranquillo che girare ininterrottamente a straordinaria velocità attorno all'asse del cielo? Ma ciò che è beato è necessariamente in uno stato di tranquillità; se invece nel mondo si trova un dio che regge, governa e mantiene il corso delle stelle, le stagioni, la successione ordinata degli eventi, e osservando le terre e i mari protegge gli agi e la vita dell'uomo, allora certamente è impegnato in attività fastidiose e faticose. Noi invece poniamo la felicità della vita nella tranquillità e nella libertà da ogni impegno. Infatti coluP che

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Jt. Epicuro.

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che lanatuo•a

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se stessa

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di intervento diuino

Epicuro ha liberato l'uomo dalla superstizione e dalla paura degli dei

ci ha insegnato tutto il resto, ci ha anche insegnato che il mondo è stato creato dalla natura, che non c'è stato bisogno di alcuna costruzione e che la creazione (che secondo voi è impossibile senza l'abilità divina) è così facile che la natura creerà, crea e ha creato mondi innumerevoli. E siccome non vedete co2 me la natura possa fare ciò senza una intelligenza, fate come i poeti tragici : non riuscendo a concludere l'azione, ricorrete al dio. Ma non avreste alcun bisogno della sua opera se foste in grado di concepire l'estensione dello spazio, smisurata e infinita in ogni direzione; quando la mente si proietta e si rivolge verso di essa, vaga in lungò c in largo senza scorgere un limite dove fermarsi. In questa immensità di larghezza, lunghezza, e altezza vola una quantità infinita di atomi innumerevoli i quali, pur essendo separati dal vuoto, aderiscono tra loro attaccandosi gli uni agli altri e formando ora questi ora quegli agglomerati; da questo processo sono costituite le forme e le figure delle cose che, secondo voi, non possono essere create senza mantici e incudinP. Così avete messo sopra le nostre teste un signore eterno che noi dovremmo temere giorno e notte. E chi non avrebbe paura di un dio curioso e intrigante, che a tutto pensa e provvede, che tutto osserva e ritiene che tutto lo riguardi? Da qui derivò prima di tutto la necessità del fato che chiamate heimarméne: ogni evento, secondo voi, prenderebbe origine dalla realtà eterna e da un concatenamento di cause. Ma questa filosofia deve apparire assai valida a chi, come le vecchiette (ma quelle ignorantì!), ritiene che tutti gli avvenimenti siano determinati dal fato! Segue poi la vostra mantiké, che in latino si chiama divinazione, a causa della quale saremmo talmente imbevuti di superstizione che, se volessimo dar retta a voi, dovremmo venerare gli aruspici, gli auguri, gli astrologi, gli indovini, gli interpreti di sogni. Epicuro ci ha liberati da queste paure e ci ha liberati tlalla schiavitù, così che non temiamo quegli dei che, come capiamo, non creano fastidio a se stessi e non ne procurano ad altri, e veneriamo con devozione e con reverenza una natura eccellente e superiore.

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Cicerone, La natura divina, I, 19,50-20,56, pp. 87-91

2. Spesso per risolvere un intreccio complicato gli autori delle tragedie ricor,revano all'intervento eli

un Dio. 3. Strumenti dell'artigiano divino.

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a .1:1aggior parte cl~gli uom~1:i vive dentro società pm o meno orgamzzate, pm o meno strutturate. Si devono rispettare le leggi e pagare le tasse, ma si godono anche i vantaggi che la societàoffre, come il servizio sanitario gratuito, l'istruzione per tutti, la sicurezza personale, la pensione. Tutte le decisioni che riguardano la vita comunitaria vengono prese, a vari livelli, nell'ambito della pratica politica. Tuttavia la politica non attira soltanto individui che hanno a cuore le sorti della società, ma anche ambiziosi, carrieristi, gente in cerca eli prestigio, denaro, potere. Problemi come questi erano avvertiti anche nella società antica, dove il potere non era esteso a tutti i cittadini, ma soltanto a una piccola cerchia, destinata a comandare sugli altri per nobiltà eli origini o in seguito alla conquista del potere. Tuttavia, le vie eli accesso al potere erano diverse eli epoca in epoca, eli Stato in Stato, e cambiavano a seconda del regime politico in vigore. Le grandi trasformazioni politiche e sociali che interessarono il periodo ellenistico cambiarono anche l'atteggiamento delle scuole filosofiche di fronte alla vita politica. Le filosofie nate all'interno della p6lis consideravano naturale l'impegno stabile o periodico del cittadino nelle istituzioni pubbliche. Questa tradizione si conservò in Grecia anche nel periodo ellenistico, mentre negli altri regni ellenistici la politica diventò una professione riservata ai funzionari dello Stato, con uno stipendio e una posizione eli prestigio nella società. Il nuovo ideale della tranquillità imperturbabile dell'anima mal si conciliava con le lotte necessarie per conquistare le posizioni più in alto nella società e per mantenerle contro i nemici. Tornò attuale il problema sollevato dai sofisti: se le leggi civili riflettono l'ordine naturale dell'universo, sono da considerare sacre in quanto espressioni del progetto divino; ma se al contrario sono convenzioni degli uomini, stabilite per l'utile comune, allora il patto volontario che dà origine alla società può anche essere sciolto. Nel primo caso gli uomini sono tenuti a vivere in società, a venerare e a custodire le leggi con spirito religioso; nel secondo, potrebbero anche ignorarne l'esistenza ritirandosi a vivere tranquilli ai margini di essa. È evidente la scarsa considerazione che gli epicurei avevano della società e della carriera politica, mentre la posizione degli stoici riguardo la società era positiva: la difesa del diritto naturale e il richiamo a svolgere il proprio compito per il bene comune della società e dell'universo sono temi ricorrenti in molti autori dello stoicismo.

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Marco Aurelio, II sec. d.C., Napoli, Museo Archeologico Nazionale.

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Epicuro: «Vivi nascosto!» Nell'insegnamento di Epicuro e della tradizione che a lui fa capo domina una doppia consapevolezza: per un verso, la legge è ritenuta opera «convenzionale e storica», per cui non esiste un diritto naturale buono in assoluto, ma leggi che danno voce a interessi e bisogni di singoli e di gruppi sociali; per un altro verso, la pratica politica comune è caratterizzata da ansia, sopraffazione, paura e dolore. Pertanto l'invito di Epicuro è a «vivere nascosto», cioè lontano dagli affanni e dai turba-

menti della vita politica. Ciò non si traduce nel completo isolàniento, ma nel ritiro in una comunità di amici che cercano nella filosofia epicurea la liberazione dalle paure della morte, degli dei, del dolore. Nelle Massime capitali; una serie di pensieri e di sentenze attribuite ad Epicuro, l'amicizia è considerata come il massimo bene che gli uomini possono trarre gli uni dagli altri H 1-5, mentre la comunità politica, con le sue leggi, è fondata sul minimo utile comune: non fare né ricevere danno ~>-16-7 e ~>116-19. Ne consegue che non esiste un diritto immutabile di natura, come invece sostenevano sia Aristotele che gli stoici, né una giustizia assoluta ~>18-15. È giusto ciò che gli uomini di un determinato popolo stabiliscono per legge, in base all'utile di tutti, ma se cambia la legge, cambia anche ciò che è giusto. Il criterio di discernimento è sempre l'utile a riguardo del quale può essere giudice soltanto l'esperienza ~>120-38. In ogni caso, il massimo che si può pretendere dal vivere in società è di essere lasciati in pace lasciando a nostra volta in pace i nostri vicini H 39-43.

L'amicizia procura beatitudine

Di quanto la saggezza prepara alla beatitudine di tutta la vita, la cosa senza confronto più grande è l'amicizia. Quel medesimo pensiero che ci affida d'ogni timore insegnandoci che nessun male è eterno e duraturo, vede perfetta quant'altro mai, pur nei limiti entro i quali si svolge la nostra vita, la sicurezza che ci viene offerta dall'amicizia.

La comriuenza ciuile si fonda su un patto

Il diritto di natura 1 consiste nel patto fondato sull'utile allo scopo di non recare gli uni agli altri danno e di non riceverne. Per quegli esseri viventi che non possono far patto di non recare gli uni agli altri danno e di non riceverne, non v'è né giusto né ingiusto. Il medesimo vale per quei popoli che non poterono o non vollero far patto di non recare gli uni agli altri danno e di non riceverne.

Giustizia e ingiustizia non esistono

pe1• se stesse, ma per convenzione

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La giustizia non è qualcosa che sia per sé: essa è solo nei rapporti reciproci, dovunque e quante volte esista un patto di non fare e di non ricevere danno. L'ingiustizia non è per sé un male, ma per il timore dato dal sospetto di non riuscire a sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di simili fatti 2 .

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ll. Quello che Aristotele e gli stoici definivano "diritto di natura" consiste per gli epicurei soltanto nell'uti-

le reciproco. 2. I magistrati.

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Non è possibile che chi ha nascostamente contravvenuto ad alcuno dei patti fermati tra gli uomini allo scopo di non recarsi e di non ricevere danno, confidi di avere a rimanere occulto, anche se mille volte gli riesca al presente: non è difatti certo che egli possa rimanere occulto fino alla morte. Le norme del diritto

si basano sull'utilità reci11roca

Giusto e utile coincidono

Preso nella sua nozione generale, il diritto è il medesimo per tutti: consiste infatti nell'utile da osservarsi nei rapporti comuni; ma se si guarda a ciò che ciascuna regione o qual altra si voglia causa hanno di proprio, non per tutti consegue che il diritto sia il medesimo. Delle cose ritenute giuste quella che l'esperienza attesti essere utile nei bisogni dei rapporti comuni, ha quanto occorre per essere base di diritto, sia essa per tutti la medesima o non sia. Ma se una cosa sia stata solo posta per legge, ma non si dimostri conforme all'utile dei rapporti comuni, essa non ha più la natura del giusto. E se anche l'utile, che è a fondamento del diritto, si muti, ma per un certo tempo sia conforme alla prenozione~ di esso, non per questo per tutto quel tempo esso non è stato giusto, ove non ci si confonda la mente con parole vuote di senso, ma si guardi alle cose. Dove, immutate restando le condizioni circostanti, norme ritenute giuste sirivelino alla prova dei fatti non conformi alla prenozione del diritto, tali norme non erano giuste. Dove, invece, la condizione delle cose essendo mutata, norme poste come giuste non risultano più utili, ivi s'ha da dire che esse furono giuste fino a che furono utili ai reciproci rapporti dei singoli facenti parte della comunità politica, ma che in seguito non furono giuste quando non furono più utili.

La buona conuiuenza è fonte di felicità

Quanti hanno avuto la possibilità di mettersi in stato di non avere, per quanto è possibile, a non temere nulla da parte dei vicini, costoro vivono insieme la vita più piacevole, sostenuti dalla fiducia più salda, e dopo aver goduto gli uni con gli altri la pii:J ampia familiarità, non piangono come degna di commiserazione la dipartita di colui che li ha preceduti nella morte.

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Epicuro, Massime capitali, XXVII, XXVIII, :XXXI-XXXVIII, XL, pp. 69-75

L'uomo cittadino dell'universo, secondo gli stoici La filosofia politica degli stoici si fonda, per dirlo con parole moderne, su due capisaldi: il giusnaturalismo e il cosmopolitismo. Il giusnaturalismo (dal latino jus, «legge», e naturae, «della natura»: legge della natura) è quella dottrina politica e del diritto che antepone alle leggi storiche, che gli uomini si danno per regolare la loro convivenza, una serie di norme naturali e razionali irrinunciabili, universali e anteriori ad ogni formulazione scritta, cui gli uomini dovrebbero conformarsi per stabilire leggi veramente buone. Tali norme si fondano a loro volta nell'ordine naturale, necessario, razionale dell'universo. Trasgredire queste norme significa violare l'ordine della

3. Cioè alla nozione che si aveva di esso prima eli cambiare opinione.

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natura. La buona politica consisterà quindi nel riferirsi costantemente a queste norme naturali riconosciute mediante la ragione. Per gli stoici, sostenitori del diritto naturale, non esiste contrapposizione tra il saggio e il politico. Entrambi sorio chiamati a esercitare il proprio dovere nel posto in cui li ha messi il destino. Per il saggio, come per l'uomo politico, tale posto consiste nel compiere un servizio per la società e gli uomini. L'atteggiamento morale del saggio stoico è inoltre caratterizzato dal cosmopolitismo (dal greco k6smos, l1-13 e il richiamo che il filosofo imperatore rivolgeva ogni mattina a se stesso: alzati e va compiere il compito per cui sei nato e sei stato collocato al tuo determinato posto nell'universo ~>114-35.

Se l'intelligenza è comune a noi tutti, è comune anche la ragione, per la quale siamo esseri razionali; se è così, anche la ragione che dispone ciò che si deve o non si deve fare è comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo concittadini; quindi siamo membri di un'unica organizzazione politica; quindi il cosmo è come una città. Di quale altra organizzazione politica comune si potrà infatti dire che faccia parte tutto il genere umano? Proprio di lì, da questa

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comune città, derivano la nostra stessa intelligenza, la nostra ragione e la nostra legge; altrimenti, da dove potrebbero mai derivare? Infatti, allo stesso modo che le parti di terra che vi sono in me mi sono state assegnate prelevandole da qualche terra, le parti umide da un altro elemento, il soffio vitale da qualche sorgente, il calore e il fuoco da una sorgente loro propria (infatti nulla viene dal nulla, come nulla ritorna al nulla), così anche l'intelligenza viene da qualche parte. [.. .] Tutti hanno un com11ito nell'universo

Il compito di un sour•ano è fare il bene della comunità

All'alba, quando sei restio a svegliarti, abbi subilo presente questo pensiero: «Mi desto per compiere il mio dovere di uomo; dovrei dunque lamentarmi ancora di andare a compiere ciò per cui sono nato e sono stato messo nel cosmo? o forse sono fatto per starmene a godere il calduccio del letto?».- Ma questo è più piacevole. - Allora sei nato per godere, per essere passivo, insomma, per non agire? Non vedi che gli arboscelli, i passerotti, le formiche, i ragni, le api assolvono la funzione che è loro propria e cooperano per la loro parte all'ordine universale? E tu allora non vuoi compiere ciò che è dovere degli- uomini? Non corri a compiere ciò che è conforme alla tua natura?- Ma è necessario anche riposarsi.- È necessario: lo affermo anch'io; però anche per questo lanatura ha fissato dei limiti, come li ha fissati per il mangiare e per il bere, e non di meno ttl vai oltre questi limiti, vai oltre ciò che è sufficiente, mentre invece quando si tratta di agire non ti comporti più in questo modo, ma ti mantieni al di sotto delle tue possibilità. E questo avviene perché tu non ami te stesso, perché altrimenti ameresti anche la tua natura e ciò che essa vuole. Altri, appassionati dei loro mestieri, si logorano nell'esercitarli, trascurando di lavarsi e di mangiare; tu stimi la tua natura meno di quanto il cesellatore stimi l'arte del cesello o il danzatore la danza o l'avaro i soldi o il vanaglorioso la misera gloria. E costoro, quando sono presi dalla passione, non desiderano né mangiare né dormire più che fare progressi nelle opere alle quali dedicano tuttele loro cure; a te, invece, le opere che mirano al bene della comunità sembrano meno importanti e degne di minor cura.

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Marco Aurelio, A se steS$0, IV, 4; V, l, pp. 40-41; 55-56

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La natura dell'anima

Monumentofunebre, Atene, Museo AJ:cheologico Nazionale.

noi, uomini di oggi, la nozione eli anima sembra provenire da una sopravvivenza della religione. Per secoli il cristianesimo ha insegnato che non siamo fatti soltanto di un corpo, ma anche di un'anima che sopravvive dopo la morte, in attesa della risurrezione finale. La scienza moderna invece ha da tempo abbandonato la nozione di anima. Ammesso che l'anima esista, sarebbe assai difficile per uno scienziato studiarne la natura con i metodi e gli strumenti a sua disposizione. La scienza preferisce studiare emozioni, impulsi, comportamenti, - riconducibili al cervello e al suo complicatissimo funzionamento. Soltanto la psicologia usa ancora il concetto di «psiche", conservando qualcosa di quello che· era l'antico significato di questa parola nel mondo antico. Eppure come uomini continuiamo a porci la domanda: siamo fatti soltanto di materia o anche di qualcosa destinato a sopravvivere dopo la morte? E questo ..qualcosa" è forse l'anima?

Nella cultura greca, l'anima era il principio vitale, il soffio che dà la vita agli esseri viventi. Per alcuni filosofi, anima era anche il principio razionale, intelligente, che dirige la vita dell'uomo e della natura. Era infatti credenza comune tra i filosofi che non solo l'uomo possedesse la ragione (l6gos), ma che essa fosse insita nei processi naturali, regolasse la crescita dei viventi e fosse all'origine dell'ordine dell'universo. Platone, nel Timeo, chiamò questo principio universale «anima del mondo, e gli stoici, dopo di lui, lo identificarono con ill6gos divino che dà vita e forma a tutto il mondo. Contrariamente a Platone, tuttavia, le filosofie ellenistiche concepirono l'anima di natura corporea. Di conseguenza, all'eterna questione ..qualcosa di noi sopravvive dopo la morte?, essi dettero una risposta sostanzialmente negativa. Per gli epicurei, con la morte del corpo le particelle eli materia di cui è fatta l'anima (gli atomi) si separano per formare con il tempo altri aggregati atomici che non hanno nessun rapporto con quelli precedenti. Epitteto e Marco Aurelio sembrano porsi sulla stessa linea quando affermano che la morte non è altro che una trasformazione del nostro essere, necessaria all'ordine del tutto. Per altri stoici invece, l'anima, dinatura corporea, sopravvive alla morte del corpo, per riprendere il suo posto nel medesimo corpo dopo la conflagrazione universale, quando un nuovo universo si formerà in tutto identico al precedente. Nulla resta, in ogni caso, della coscienza individuale, cioè della memoria di essere vissuti. Per cui anche questa credenza, !ungi dal concedere all'io personale speranza nell'immortalità, risulta intrisa di nobile rassegnazione di fronte all'oblio prodotto dalla morte. Nei primi due brani che proponiamo, tratti rispettivamente dalle opere eli Epicuro e di Lucrezio, troviamo argomenti a favore della natura corporea e mortale dell'anima. Nei successivi tre brani, attribuiti ai maestri della scuola stoica, accanto alla tesi della co-rporeità dell'anima, simile in questo alla tesi epicurea, si sostiene che essa è il principio che guida il corpo e che è fatta della stessa natura dell6gos divino.

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La natura corporea dell'anima nella scuola epicurea Secondo Epicuro anche l'anima, al pari del corpo, è costituita di atomi. Essa è inoltre principio di movimento, cioè di vita. Gli atomi che la compongono sono più leggeri di quelli del corpo per consentire la rapidità, la varietà e la molteplicità delle funzioni psichiche. A differenza di Democrito, tuttavia, Epicuro ritiene che la struttura dell'anima non sia unitaria. Nella Lettera a Erodoto imJl sulla fisica spiega che gli atomi che compongono l'anima non sono tutti uguali e rotondi, ma dì quattro tipi diversi: di aria, di vento, di fuoco e di un quarto elemento sottilissimo, senza nome. Gli atomi aerei, ventosi e ignei costituiscono la parte dell'anima che Epicuro identifica con l'energia vitale, diffusa per tutto il corpo ~11-5. Gli atomi più sottili formano invece la parte dell'anima responsabile della sensazione, del pensiero e della volontà ~15-9. L'anima possiede in sé la facolta di sentire e, mescolata con il corpo, ne rende partecipe tutto l'organismo. Ma è il corpo che fornisce all'anima le sensazioni, per cui al di fuori di questa unione non vi è percezione sensibile ~»19-31. In altri luoghi Epicuro afferma anche che la parte razionale dell'anima, cioè il pensiero, ha sede nel petto e che il sonno sopraggiunge quando l'anima si ritira in un punto dell'organismo lasciando il resto inerte ~»131-38.1n ogni caso, l'anima è fatta di atomi perché se fosse incorporea non sarebbe capace né di agire né di subire alcunché; per cui errano coloro che ritengono incorporea la sostanza dell'anima ~»138-49. La stretta compenetrazione di anima e di corpo e il loro reciproco influsso non consentono di sostenere l'immaterialità dell'anima. Sul piano etico, a cui la dottrina fisica è orientata, la conseguenza è l'annullamento della paura della morte e delle preoccupazioni relative alla vita ultraterrena.

L'anima è un corpo sottile diffuso in tutto l'organismo

L'anima è causa principale della sensazione

In seguito a ciò, mantenendo quale punto di riferimento le sensazioni e i sentimenti - in tal modo si otterrà la convinzione più salda -, bisogna considerare che l'anima è un corpo sottile, diffuso per tutto l'organismo, molto simile al respiro e dotata di una certa miscela di calore e somigliante sotto qualche aspetto all'uno e sotto qualche aspetto all'altro. C'è poi una parte che è per sottigliezza assai differente da entrambi gli elementi e per questo motivo può partecipare con particolare sintonia a ciò che il resto dell'organismo sente. Di tutto ciò sono prova le facoltà dell'anima, i sentimenti, i moti, i pensieri e tutto ciò la cui privazione determina per noi la morte. Bisogna inoltre ritenere che l'anima racchiude in sé la causa principale della sensazione: non potrebbe certo avere questa, se a sua volta non fosse in qualche modo contenuta nel resto dell'organismo; esso, procurando all'anima la causa della sensazione, è a sua volta partecipe delle facoltà dell'anima, ma non certo di tutte quelle di cui essa è provvista: perciò, una volta privato dell'anima, l'organismo non ha la facoltà di sentire. L'organismo non possedeva infatti di per sé tale capacità, ma la forniva all'elemento nato insieme a lui; e l'anima, grazie alla forza che diviene attiva al suo interno per il movimento, dopo aver prodotto in sé la facoltà di sentire, spontaneamente ne rende partecipe l'organismo, in virtù del contatto fra anima e corpo e della loro corrispondenza nel sentire, come ho già detto. Per questo, finché permane nel corpo, l'anima non perde affatto la capacità di sentire, anche se si distacca qualche altra parte dell'organismo: e qualunque parte dell'anima perisca con il corpo perché ciò che la contiene si distrugge tutto o in parte, finché essa permane, conserva la facoltà di sentire. Il resto dell'organismo invece, sussista tutto o in parte, non possiede più la sensazione, una volta perduto quel certo numero di atomi che serve a costituire la natura dell'ani-

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Senza il corpo l'anima perde io tll!llltitìi di senti1•e

L'animo non è incorporea

ma. Inoltre, se tutto il resto dell'organismo si dissolve, l'anima si disperde e non conserva più le proprie facoltà, né i moti, cosicché perde anche la capacità eli sentire. Non è infatti possibile pensare che l'anima sia senziente fuori da questo complesso eli anima e corpo, né che possieda ancora questi moti quando il corpo che la racchiude e la contiene non è più nella condizione, in cui essa, proprio perché ora vi si trova, può avere tali moti. Ma anche questo [clice 1 altrove che l'anima è composta da atomi molto levigati e eli forma toncleggiante, per molti aspetti differenti da quelli che compongono il fuoco; e una parte di essa, quella diffusa per tutto il corpo, è priva di raziocinio; la parte razionale invece ha sede nel petto, come risulta evidente dalla paura e dalla gioia; e che il sonno insorge quando le parti dell'anima sparse per tutto l'organismo si concentrano in un solo punto o si disperdono per il corpo o vengono espulse per via degli urti; e che il seme genitale proviene da tutto l'organismo] è necessario aggiungere alle precedenti considerazioni: che definiamo incorporeo, nel senso più generale del termine, ciò che è concepibile come sussistente di per sé; ma non è possibile riconoscere nulla di incorporeo che sussista di per sé che non sia il vuoto; e il vuoto non può agire né subire, ma soltanto consentire il movimento dei corpi attraverso di sé. Di conseguenza, vaneggia chi asserisce che l'anima sia incorporea: perché l'anima non potrebbe agire né subire, se fosse tale, mentre noi cogliamo chiaramente che l'anima possiede entrambe queste facoltà. Se qualcuno saprà riferire tutti questi ragionamenti sull'anima ai sentimenti e alle sensazioni, ricordando quanto si disse in principio, li vedrà con sufficiente chiarezza compresi nelle linee fondamentali della dÒttrina e con essi conseguirà una salda e precisa conoscenza degli aspetti particolari.

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Epicuro, Lettera a Erodoto, 63-68, in Lettere sulla fisica, sul cielo e su7lafelicità, pp. 93-97

Nel seguente brano, tratto dal De rerum naturae di Lucrezio Iii§!, troviamo esposta la dottrina secondo cui l'animus, il pensiero, è cosa diversa dall'anima, il soffio vitale diffuso per tutto l'organismo ~>11-16, ma entrambi hanno rapporti reciproci ~>117-25 e sono di natura corporea altrimenti non potrebbero entrare in contatto tra di loro né subire o agire reciprocamente ~>126-41. Per il resto, Lucrezio espone le tesi tradizionali della dottrina epicurea: l'animo, cioè la mente, è fatto di atomi sottilissimi, piccoli e rotondi: lo dimostrano i movimenti rapidissimi con cui l'immaginazione e il pensiero si spostano ~>142-70, ma anche il fatto che, subito dopo la morte, quando l'animo e l'anima abbandonano il corpo, la consistenza fisica di un uomo non cambia ~>171-85. Animo e anima sono come il profumo del vino che, quando evapora, nulla toglie al peso della sostanza da cui proveniva ~>186-95.

~ Animo e ;mima

Ora affermo che l'animo e l'anima 2 sono tenuti avvinti fra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare su tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente, e che ha stabile sede nella zona centrale del petto.

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1. Questa affinità è eli Diogene Laerzio che riporta la Lettera a Erodoto eli Epicuro. 2. Lucrezio intende con «animo", animus, la mente e con «anima", anima, il principio vitale diffuso in

tutto il corpo.

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L'animo ii indipendente dall'anima

L'anima inuece dipende dall'animo

Animo e anima

sono cnrpill'ei

L'animo è formato da atomi sottilissimi

Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l'animo. La restante parte dell'anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all'impulso della mente. Questa da sé sola prende per sé conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l'anima e il corpo. E come quando il capo o gli occhi sono offesi in noi da un eccesso di dolore, non siamo tuttavia tormentati in tutto il corpo, così l'animo talvolta è offeso esso solo e si ristora poi di letizia, mentre tutte le altre parti dell'anima per membra e giunture non sono stimolate da alcuna novità. Tuttavia se la mente è turbata da un più veemente timore, constatiamo che tutta l'anima corrisponde attraverso le membra, e così sudore e pallore appaiono per tutto il corpo, ia lingua sembra impastoiarsi e la voce smorire, gli occhi annebbiarsi, sibilare le orecchie, gli arti afflosciarsi, infine vediamo spesso gli uomini crollare a terra per il terrore dell'animo; così che è facile a chiunque arguirne che l'anima è congiunta con l'animo e, percossa da una violenta emozione dell'animo, a sua volta scuote e turba il corpo. Questo medesimo ragionamento dimostra che la natura dell'animo e dell'anima è corporea. Infatti, quando la vediamo comunicare il moto alle membra, strappare il corpo dal sonno, trasformare l'espressione del volto, e sorreggere e guidare tutta la persona, eventi di cui è impossibile il verificarsi se non v'è contatto -com'è impossibile il contatto senza i corpi-, non bisogna riconoscere che l'animo e l'anima consistono di natura corporea? Parimenti vedi che l'animo condivide la vita del corpo, e insieme a ogni suo senso si accorda. Se la terribile violenza d'un dardo tuttavia non estingue la vita, anche se raggiunge le ossa, lacerati internamente i nervi, tuttavia ne consegue un languore, e un molle abbandonarsi in terra, e in terra un tumultuoso delirio che si produce nella mente, e talvolta una quasi incerta volontà di sollevarsi. Dunque è necessario çhe la natura dell'animo sia corporea, poiché è travagliata da armi e potenze corporee. Ora proseguirò spiegando di quale materia e da quale origine l'animo sussista formato. Anzitutto affermo che, oltremodo sottile qual è, consiste di corpuscoli minimi. E che sia così lo puoi intendere da questo, se tendi l'acume dell'intelletto: nulla si vede accadere in modo rapido, simile a quello della mente se immagina un evento ed essa stessa lo avvia. L'animo dunque si muove più veloce di tutte le cose la cui natura si palesa davanti ai nostri occhi. Ma ciò che è tanto mobile deve necessariamente comporsi di semi rotondi e in sommo grado sottili, così che possano muoversi sospinti da un minimo impulso. Infatti l'acqua oscilla e fluttua a ogni piccola scossa, in quanto formata da particelle scorrevoli e minute.

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Quando l'anima lascia il corpo noi non la vediamo

Al contrario la natura del miele è più viscosa, il suo fluido pil:l pigro, e il suo movimento maggiormente s'attarda; infatti ne è pil:t aderente fra sé l'intera sostanza, senza alcun dubbio perché non consiste di corpuscoli tanto levigati, né così sorti e rotondi. Un soffio d'aria, pur rattenuto e leggero, può far scivolare dalla cima un alto mucchio di semi di papavero; invece non lo può con un ammasso di pietre o di spighe. E dunque i corpi, quanto più sono di minima misura e di somma levigatezza, tanto più sono forniti di mobilità. Al contrario tutti quelli che si trovano di notevole peso e di scabra struttura, hnto più sono inclini a star fermi. Ora, poiché abbiamo scoperto che la natura dell'animo è straordinariamente mobile, deve essere formata da corpuscoli oltremodo minuti, levigati e rotondi. L'aver appreso questo concetto, o amico, ti sarà utile in molte circostanze, e dovrai riconoscerlo opportuno. Anche un altro fatto illustra la natura dell'animo, di qual sottile struttura consista, in che piccolo spazio sia contenuto, ammesso che possa addensarsi, poiché non appena l'immobile quiete della morte s'è impadronita dell'uomo, e questi è abbandonato dalla sostanza dell'animo e dell'anima, nulla di lui vedrai sottratto all'intero corpo, né all'aspetto, né al peso: la morte lascia intatta ogni cosa, tranne il senso vitale e il caldo traspirare. Dunque tutta l'anima deve consistere di particelle minuscole intrecciata alle vene, alle viscere, ai nervi, giacché, quando è esalata per intero da tutto il corpo, tuttavia il profilo esterno delle membra sussiste immutato, e il peso non è affatto sminuito. Lo stesso fenomeno accade quando il sentore di Baccd è svanito, o il soave aroma d'un balsamo si dissolve nell'aria, o da qualche sostanza ormai s'è involato il sapore; ebbene quella cosa per tale ragione non appare per nulla diminuita allo sguardo, e nulla sembra sottratto al suo peso, certamente perché il sapore e l'odore, contenuti in tutta la sostanza dei corpi, sono formati da germi innumerevoli e minuti. Perciò ancor più la natura dell'animo e dell'anima si può considerare originata da semi assai minuti, poiché essa involandosi non perde nulla di peso.

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Lucrezio, La natura delle cose, III, 136-230, pp. 257-263

2. Il profumo del vino.

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Il principio egemonico degli stoici Per gli stoici, come per gli epicurei, non esistono realtà nell'universo che non siano corporee. Persino il L6gos divino è da essi concepito come un fuoco sottilissimo che permea tutto l'universo dandogli vita e intelligenza. Di conseguenza, anche l'anima dell'uomo, che è parte di questo principio divino, è fatta di un corpo leggerissimo che si diffonde per l'organismo e che viene definito soffio (pneOma). Esiste tuttavia una parte dell'anima che tutti gli stoici considerano egemonica, cioè destinata a comandare, a dirigere la vita dell'uomo, e che consiste della facoltà razionale. È attraverso questa facoltà che l'uomo si distingue dagli altri animali: essere dotato di intelligenza, l'uomo è anche autocosciente, cioè consapevole delle proprie decisioni, quindi in grado di scegliere e di orientare la propria vita. Possiamo osservare tuttavia alcune differenze nelle dottrine dei vari maestri della scuola. Secondo Zenone di Cizio lliE, l'anima è corporea perché è causa dei movimenti del corpo, e niente che sia incorporeo può essere causa del movimento di un corpo ~14-17. Zenone afferma che l'anima si genera per esalazione dalla sostanza umida del corpo ~>-118-27 e che nell'anima dell'uomo si possono distinguere diverse facoltà: i sensi, la facoltà vocale, quella generativa e, piu importante di tutte, il «principio direttivo» o «egemonico», cioè la ragione ~128-32. Dalla ragione dipendono i desideri e le passioni, intesi come giudizi di assenso o di rifiuto alle rappresentazioni degli oggetti ricevute dai sensi.

Sostanza dell'anima è il fuoco L'anima è corporea

Poiché si discuteva di una questione straordinariamente difficile, quale quella se vi sia una quinta natura 1 da cui nascono la ragione e l'intelligenza, e si poneva il problema di quale sia la sostanza dell'anima, Zenone disse che essa è il fuoco. La sostanza gli uni la definirono incorporea, come Platone e i suoi discepoli, ma Zenone e i suoi dicevano che essa muove realtà corporee, e supposero che perciò fosse soffio vitale 2 • Infine definendo l'anima «Spirito che si genera internamente" insegna che «ciò che, al suo uscire, determina la morte dell'essere animato, non può essere altro che realtà corporea; ma ciò avviene quando lo spirito interno esce: quindi lo spirito interno è corporeo. E tuttavia questo stesso spirito interno è anche anima: vale a dire che l'anima è corporea», Ma gli Stoici ritengono che il cuore sia la parte direttiva dell'anima, e non tanto il sangue, perché questo nasce insieme col corpo. A proposito dello spirito Zenone così argomenta, per dimostrare che esso si identifica con l'anima: «ciò che, quando se ne va dal corpo, ne causa la morte, ne è certamente l'anima; ma quando lo spirito vitale naturale se ne va dal corpo, l'essere vivente muore, quindi lo spirito vitale naturale ne è l'anima".

L'animi! si p1·oduce pe1• esalazione dal corpo

Parlando dell'anima, Cleante, esponendo l'opinione di Zenone nel confronto con quelle degli altri fisici, afferma che Zenone dice essere l'anima una esalazione dotata di sensi, come già aveva detto Eraclito. Questi infatti, volendo dimostrare come di volta in volta ... le anime intellettive nascono per esalazione,

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Oltre alle quattro nature di cui i corpi sono fatti: terra, aria, acqua, fuoco.

2. Gli stoici, come già Epicuro, non concepiscono la possibilità che una sostanza non corporea possa

agire per contatto su una sostanza corporea.

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elice: «agli stessi fiumi sopravvengono sempre nuove acque, e sempre nuove ne scorrono via", e le anime si esalano dall'umidità. Ora, Zenone dimostra allo stesso modo di Eraclito che l'anima è un'esalazione; e la elice dotata eli facoltà sensoria in quanto la sua parte direttiva subisce impressioni da parte delle cose esistenti e sussistenti, per mezzo degli organi sensori, ed è capace di accogliere in sé tali impressioni. Queste sono le proprietà dell'anima. Le

dell'anima

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Zenone stoico dice che l'anima si compone eli otto parti: la suddivide in parte direttiva, cinque sensi, la capacità vocale, quella generativa. I seguaci di Zenone ritengono che l'anima sia divisibile in otto parti per il fatto che numèrose sono le sue facoltà: per esempio nella parte direttiva si trovano le rappresentazioni, l'assenso, l'impulso, il ragionamento.

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Stoicorum Veterum Fragmenta, I, 134, 136-138, 141, 143, pp. 290-291

Cleante ~è convinto che non solo le caratteristiche del corpo siano ereditarie, ma in parte anche quelle dell'anima. Ignorando il ruolo che svolgono l'educazione e l'esempio dato dai genitori, egli osserva che l'indole dei figli assomiglia spesso a quella dei genitori, da cui conclude che anche le caratteristiche dell'animo devono essere in qualche modo ereditarie. D'altra parte, questa teoria si sposa assai bene con la natura fisica dell'anima: se i genitori trasmettono ai figli le caratteristiche principali del corpo, così devono trasmettere anche le caratteristiche dell'anima, se vogliamo che essa sia corporea. Sono due teorie che si confermano a vicenda ~>11-5. In generale, egli tende a contrapporre la ragione, intesa come principio egemonico, ai turbamenti generati dalle passioni, ma comunque, sulla base dell'osservazione e dell'esperienza, è sicuro del legame inscindibile tra l'anima e il corpo, tanto che l'una prova le stesse sensazioni dell'altro. Ad esempio, se il corpo è ferito anche l'anima prova dolore e quando l'anima è turbata da una passione amorosa anche il viso arrossisce o impallidisce. Così, il rapporto psico-somatico è considerato come una prova della sostanziale identità di anima e di corpo ~>15-13.

~ Anche i tratti dell'anima sono ereditawi

l.'nnima è di nat11ra corpm·ea

La delle amime

Afferma Cleante che non solo per i tratti fisici, ma anche per le caratteristiche dell'anima risponde ai genitori, quasi come l'immagine in uno specchio, la somiglianza dei figli: somiglianza di costumi, indole, sentimenti. Essi prendono infatti la somiglianza fisica oppure, la dissomiglianza; allo stesso modo l'anima, come il corpo, è soggetta a somiglianza e a dissomiglianza. E mentre è impossibile che le affezioni dei corpi e delle realtà incorporee abbiano un rapporto diretto fra eli loro, l'anima invece subisce le stesse affezioni del corpo, sì che, se questo è offeso, quella si duole al tempo stesso dei colpi che l'altro riceve, delle sue ferite, delle sue piaghe; e quando l'anima è afflitta da pena, angoscia, passione amorosa, il corpo si rattrista insieme con lei per il danno arrecato da ciò a quella tensione vitale che insieme li unisce, e lo attestano il suo pallore e il suo rossore, segni di spavento e di vergogna. Perciò, se l'anima partecipa in tal modo delle passioni corporee, essa deve essere di natura corporea. Cleante elice che le anime continuano tutte a sussistere individualmente fino alla conflagrazione, Crisippo invece solo quelle dei sapienti. Stoicorum Veterum Fragmenta, I, 518, 523, pp. 290-291

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Crisippo ~sostiene la struttura unitaria dell'anima: l'anima è un principio vitale presente dappertutto nel nostro corpo. Pur essendo una, tuttavia svolge funzioni differenti: quando essa scorre per la trachea consente l'uso della voce, negli occhi dà origine alla vista, nelle orecchie all'udito, per tutto il corpo genera il tatto e cosl via per gli altri sensi, mentre dà luogo, nell'apparato genitale maschile, al seme riproduttivo ~11-9. Tuttavia il principio egemonico dell'anima, cioè la ragione, ha sede nel cuore. Crisippo, oltre ad affermare che il principio egemonico è ciò per cui tutte le altre facoltà dell'anima esistono (perché i sensi, la voce ecc. svolgono la loro funzione in vista dell'organizzazione razionale del corpo, quindi sono diretti dalla ragione) ~19-11, si oppone alla tendenza delle scuole mediche a lui contemporanee, orientate a riconoscere che la sede dei centri vitali sono il cervello e il sistema nervoso, e continua invece a identificare il centro dell'anima con il cuore ~>-111-16. D'altra parte la collocazione dell'anima, cioè del centro vitale della persona, nel petto, o meglio ancora nel cuore, aveva una tradizione molto antica alle spalle e si basava sulla constatazione che l'individuo muore quando il cuore cessa di battere e che la maggior parte degli stati d'animo, o delle emozioni, come ad esempio la paura e il corag.gio, l'amore e l'odio, si avvertono proprio al centro del petto e possono cambiare il ritmo cardiaco. Secondo Zenone e Cleante, l'anima non muore col corpo né è immortale. Alla morte del corpo, l'anima ne fuoriesce e continua a vivere come fantasma fino alla prossima conflagrazione universale, quando tutta la materia sarà rifusa nel fuoco cosmico e rinascerà un nuovo universo in tutto identico al primo. Secondo Crisippo, invece, questo destino,è riservato soltanto alle anime dei sapienti, mentre tutte le altre muoiono col corpo.

L'anima IICIII're in Mto

il corpo

La ••aginne è nel cuore o nella testa

Crisippo, dico, nella sua prima trattazione sull'anima e sulle sue parti, cominciando dal menzionare anzitutto la parte direttiva, cerca poi di dimostrare che il principio dei moti psichici risiede esclusivamente nel cuore; e dice così: «L'anima è spirito vitale connaturato in noi, che scorre per tutto il corpo, e avviene per questo che lo spirare dell'anima sia presente nel nostro corpo. Poiché le parti di essa si stendono per tutte le membra del corpo, il suo scorrere nell'arteria trachea «lo chiamiamo, voce, quello negli occhi vista, nelle orecchie udito, nella lingua gusto; quello per tutta la carne tatto, quello, secondo analoga ragione, nei testicoli seme generativo; quello in vista di cui tutte queste cose si compiono diciamo che sta nel cuore e la parte direttiva fa parte del cuore stesso. Che le cose stiano così, si è per la maggior parte d'accordo; il disaccordo nasce a proposito della parte direttiva dell'anima, che viene collocata a seconda dei casi in luoghi diversi: alcuni ritengono che essa si trovi nel petto e altri nella testa: e anche nell'ambito di queste due opinioni si discute in quale luogo stia del petto, in quale della testa, non trovando un accordo su questi punti.

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Stoicorum Veterum Fragmenta, II, 885, pp. 290-291

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La ricerca della felicità . -~

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· l!os'è la· felicità?

omande eterne, a cui le scuole filosofiche ellenistiche hanno cercato di dare risposta elaborando teorie etiche di grande significato e di perenne attualità. Secondo la mitologia prevalente nel periodo ellenistico, la vita dell'uomo è dominata da Tyche (la Fmtuna), divinità terribile e incontrollabile cui il pensiero antico affidava la distribuzione dei doni e dei destini. Tra gli uomini, di conseguenza, nessuno può dirsi felice, sia per l'instabilità dei beni, che la fortuna concede e toglie, sia per l'imprevedibilità della sorte di ciascuno. Non è un caso che i Greci designassero quel che noi intendiamo per felicità con il termine eudaimonia, che significa letteralmente avere un buon (eu) demone (daimon), ovvero essere favoriti dalla fortuna. È forte la convinzione che la felicità non corrisponda mai a una condizione perenne. Il bene è precario, si è felici quasi per caso, per un dono degli dei. Agli uomini è concesso di «toccare il cielo con un dito", ma il bene acquisito, labile e transitorio, ha fatto sì che nella cultura greca si ritenesse la felicità una condizione impropria, non appartenente al mondo degli uomini, il risultato di un gioco imponderabile regolato dalla sorte. I filosofi greci si sono opposti a questa concezione popolare della felicità. Se eudaimonia vuoi dire avere un buon demone, una protezione sicura nei frangenti della vita, hanno voluto imparare e insegnare a procurarselo. Hanno inventato pertanto l'idea della «Vita migliore, per indicare la forma di vita che gli uomini dovrebbero assumere, in ogni circostanza, per essere tranquilli e garantire a se stessi una vita beata o comunque per mettersi al riparo dalle tempeste della sotte. Tra le scuole ellenistiche, nessuna distingueva gli esseri umani secondo il

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se alloro grado di saggezza. Dicevano che i saggi, sapendo valutare nel giusto modo le circostanze della vita, hanno assicurata una vita beata, mentre gli stolti, dominati dagli impulsi inazionali, ora sono felici e un momento dopo sono infelici, non trovando mai equilibrio e stabilità. Per usare un'immagine eli Plularco, gli stolti sono condannati all'oscillazione perpetua del navigante che, pur cambiando imbarcazione, non riesce a guarire dal mal di mare. Nei confronti della felicità le filosofie ellenistiche si presentano pettanto come arti mediche: vogliono capire le cause che rendono gli uomini infelici e suggerire al tempo stesso una cura efficace per guarirli. È soprattutto in queste scuole che si consolida l'idea che la felicità non dipende dai beni esteriori, ma consiste piuttosto in una vera e propria "arte del vivere, posta completamente nelle mani dell'uomo, se questi accetta di farsi istruire. Sia per gli stoici che per gli epicurei la vera ricchezza dell'uomo, il suo inalienabile possesso, consiste nell'imparare a dominare i propri impulsi e desideri: questa scienza è un bene eli cui nessuno può essere spogliato se davvero l'ha appresa con tutto se stesso. Sebbene divisi sul problema se la vera felicità consista nella virti:l o nel piacere, stoici ed epicurei sono concordi, tuttavia, nel ritenere che nessuna circostanza sfavorevole sarà in grado di turbare la tranquillità interiore del saggio. In Epicuro, come nello stoico, si realizza davvero l'ideale dell'autarchia, il "bastare a se stessi,, il non lasciarsi perturbare dall'ambiente circostante, il cercare soddisfazione soltanto in ciò che rientra nel dominio del proprio io. Talvolta, come nel caso di alcuni stoici, questo non sembra sufficiente a rendere gli uomini davvero felici; ma può evitare almeno di e_ssere continuamente turbati e spaventati dai fatti negativi che accadono.

La Fortuna di Antiochia, copia romana

di originale greco del III sec. a.C., di Eutychides, Città del Vaticano,

-cr-it_e_ri_o_d_e_l_la-fo_rt_t_m_a_,_m_a_i_n_b_a_-_ ______________________M_u_se_i_V:_a_t_ic_a_n_i._ _ _ _~ 414

Epicuro: la felicità è il piacere Il cuore del pensiero filosofico epicureo è l'etica, in cui si trova la risposta all'aspirazione a una vita intimamente libera, saggia e tranquilla. Proponiamo qui per intero la Lettera a Meneceo liii!'il.l, una specie di invito ad abbracciare la pratica filosofica, in cui Epicuro riassume i principi fondamentali della sua etica. Poiché la felicità consiste nella salute dell'anima, non è mai troppo presto, né troppo tardi per cominciare a filosofare. Ciò significa, concretamente, impegnarsi a mettere in pratica i precetti insegnati dal maestro per ottenere una vita felice ~11-9. Il primo di questi precetti riguarda la vera opinione che si deve avere degli dei. L'immaginazione popolare attribuisce alla divinità caratteristiche sbagliate. Si aspetta dagli dei vantaggi o svantaggi, condannandosi a vivere nella speranza o nella paura, ma gli dei, esseri immortali e beati, non si occupano delle faccende degli uomini e accolgono tra i loro devoti solo coloro che li imitano col cercare la felicità nella tranquillità dell'anima ~11 0-22. Il secondo precetto riguarda la paura della morte. Bisogna abituarsi a pensare che la morte è nulla, perché una volta che sopraggiunge è persa ogni sensazione, inclusa quella di sentire la morte. Per di più, l'assenza della paura della morte rende piacevole la vita, poiché libera l'uomo dal desiderio di non morire ~123-35. L'attenzione del saggio, quindi, non si concentra sul modo di evitare di morire, ma su come rendere la propria vita, breve o lunga che sia, più piacevole possibile. Nessuna indulgenza è concessa al pessimismo di chi si lamenta della vita. Il saggio epicureo rifiuta il suicidio perché apprezza allo stesso modo il vivere o il morire, come realtà da cui non può ricevere danno alcuno ~>135-49. Dominata la paura degli dei e della morte, il terzo precetto dell'etica epicurea mira a insegnare il controllo dei desideri. Tra di essi vanno distinti i desideri naturali e quelli vani. Tra i naturali, i necessari e i non necessari ~>-1 50-61. Fine dell'uomo, come di ogni altro animale, è il piacere ~>162-65 (hedoné, da cui edonismo) e il piacere è in prima istanza assenza di dolore. La natura del piacere epicureo è innanzitutto privativa e consiste nella quiete e nella sicurezza di sé (piacere catastematico). Esistono poi anche piaceri causati dal movimento, dallo stimolo della parte del corpo interessata, che Epicuro chiama cinetici, e sono di natura inferiore rispetto ai catastematici. In base a questa distinzione, il piacere del corpo è garantito dalla salute, quello dell'anima dall'assenza di turbamento. Per assicurarsi la salute del corpo e la tranquillità dell'anima, il saggio deve moderare i propri desideri, assecondandoli o contrastandoli, in base a un calcolo dei vantaggi e degli svantaggi ~>165-74. Implicando scelte tra possibilità diverse, l'etica di Epicuro affida all'uomo il compito di modellare il proprio destino, con libertà, cioè con indipendenza dai propri desideri, ragionevolezza e responsabilità. Vantaggi e svantaggi che si possono valutare in base alla distinzione tra i vari tipi di piacere e desideri ad essi correlati 1>175-99. Il saggio, infine, secondo l'ultimo l'ultimo precetto dell'etica epicurea, non deve temere il dolore, perché se esso è intenso dura poco, se dura molto è blando e sopportabile ~>11 00-104. Se avrà costanza di seguire queste norme, l'uomo non aspetterà di ricevere beni e mali dalla Fortuna o, peggio ancora, dalle mani del Fato, ma riuscirà da solo a procurarsi i beni necessari per una vita beata, con la saggezza e il libero arbitrio ~>11 04-122.

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&:il Scopo della filosofia Ì!

la felicità

Epicuro saluta Meneceo. Non aspetti il giovane a filosofare, né il vecchio eli filosofare si stanchi: nessuno è troppo giovane o troppo vecchio per la salute dell'anima. Chi elice che non è ancora giunta l'età eli filosofare o che è già trascorsa, è come se dicesse che non è ancora o non è più l'età per essere felici. Cosicché devono filosofa-

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Gli dei sono indiffel'lmti alla sm·te degli uomini

La morte non è da temere

li saggio non si lamenta della vita

re sia il giovane, sia il vecchio: questo perché invecchiando rimanga giovane nei beni, per il ricordo gradito del passato; quello perché sia insieme giovane e vecchio, per l'assenza di timore di fronte al futuro: bisogna dunque esercitare ciò che procura la felicità, perché se abbiamo questa, abbiamo tutto, ma se manca, facciamo di tutto per averla.

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I precetti che ti ho continuamente raccomandato mettili in pratica ed esercita-

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li, ritenendoli il principio fondamentale di una vita felice. Per prima cosa considera la divinità un essere immortale e beato, come la comune nozione del divino suggerisce, e non attribuire a essa nulla che sia estraneo all'immortalità o diverso dalla beatitudine: anzi, pensa riguardo a essa tutto ciò che possa conservarne la beatitudine congiunta all'immortalità. Gli dei esistono: perché la loro conoscenza è evidente\ ma non esistono nel modo in cui i più li concepiscono, perché non conservano la nozione che ne hanno. Empio non è chi non riconosce gli dei del volgo, ma chi agli dei applica le opinioni del volgo. Perché non sono prenozioni, ma ingannevoli supposizioni i giudizi del volgo sugli dei. Da ciò si attribuiscono agli dei i più grandi danni e vantaggi. Essi in realtà, dediti soltanto alle virtù loro proprie, accolgono i loro simili, reputando estraneo tutto ciò che non è tale. Abituati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo: ma la morte è perdita di sensazione. Per cui, la retta conoscenza che lamotte per noi è nulla rende piacevole che la vita sia mortale, non perché la prolunga per un tempo infinito, ma perché la libera dal desiderio dell'immortalità. Non c'è infatti nulla di temibile nella vita per chi ha la profonda convinzione che nulla di temibile vi è nel non vivere più. Cosicché è folle chi asserisce di temere la morte non perché quando sarà presente gli arrecherà dolore, ma perché è l'attesa che gliene provoca. Ciò che non ci inquieta se presente, ci affligge infatti vanamente quando lo si attende. Il male, dunque, che più ci atterrisce, la morte, è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non-c'è la morte, e quando c'è la morte noi non siamo più. Pertanto essa è nulla per i vivi e per i morti, perché per quelli non c'è, e questi non sono più. Ma la gente ora fugge la morte come il più grande dei mali, ora la cerca, come la fine dei mali della vita. «Il saggio invece non rifiuta la vita,, né teme l'assenza di vita: perché non si oppone alla vita e non ritiene un male il non vivere più. E come cerca non il cibo più abbondante, ma quello più gradevole, così gode non del tempo più lungo, ma di quello più dolce. Chi invita il giovane a vivere bene e il vecchio a morire bene è stolto non soltanto per ciò che di piacevole vi è nella vita, ma anche perché l'esercizio del vivere bene e del morire bene è il medesimo. Ancor peggio chi dice: bello non essere nato,

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ma, una volta nato, al più presto varcare le soglie dell'Ade 2 • Se è infatti davvero convinto di quello che dice, perché non abbandona la vita? Giacché questo è nel suo pieno potere, se così salda è per lui questa opinione; ma se scherza, è stolto a farlo in questioni che non lo richiedono.

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1. Evidenti non sono le prove della loro esistenza, quanto il fatto che tutti gli uomini ne riconoscano l'esi·

stenza. Il consenso universale viene preso da Epicuro come una prova sufficiente dell'esistenza degli dei. 2. Il verso è del poeta greco Teognide (VI-V sec. a.C.), ma lo stesso pensiero si trova anche in altri poeti

greci.

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Il futuro 11011 ci appnrtiene del tutto

Bisogna conoscere i vari tipi di deside1•i

Si è felici cnn la salute del cor110 e In tranquillità dell'anima

Non si deve scegliere ogni piacere, né evitare ogni dolore

Il bene più grande è l'indipendenza

dai deside&•i

Il sob1·io calcolo è alla base di ogni scelta

Si deve poi ricordare che il futuro non è del tutto nostro, né del tutto non nostro, perché non ci illudiamo come se assolutamente si dovesse avverare, né perdiamo la speranza, come se non si dovesse avverare affatto. Analogamente bisogna credere che dei desideri alcuni sono naturali, altri vani; e di quelli naturali, alcuni sono necessari, altri solamente naturali; e di quelli necessari, alcuni sono necessari per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa. Una sicura conoscenza di essi sa infatti ricondurre ogni scelta e ogni rifiuto alla salute del corpo e alla tranquillità dell'anima, perché questo è il fine della vita felice. È in grazia di ciò che compiamo ogni nostra azione, per non soffrire e non avere turbamento. E quando abbiamo raggiunto questo, ogni tempesta dell'anima si dissolve, perché l'essere vivente non ha più qualcosa da inseguire come se ne fosse privo, né qualcos'altro da cercare, con cui completare il bene dell'anima e del corpo. In quanto è allora che abbiamo bisogno del piacere, quando soffriamo perché il piacere non c'è; (ma quando non soffriamo), non abbiamo più bisogno del piacere. Per questo diciamo che il piacere è principio e fine della vita beata. Sappiamo infatti che il piacere è il bene primo e a noi connaturato: da questo muoviamo per ogni scelta e ogni rifiuto e a esso facciamo riferimento, giudicando ogni bene in base alle affezionP prese per norma. E poiché questo è un bene primo e innato, non scegliamo ogni piacere, ma può essere che ne tralasciamo molti, quando da essi provenga un fastidio maggiore, e riteniamo molti dolori preferibili ai piaceri, quando ne consegua un piacere maggiore, perché per lungo tempo abbiamo sofferto dolori. Tutti i piaceri sono dunque un bene, perché sono per natura a noi congeniali, ma non tutti sono da scegliere; così come tutti i dolori sono un male, ma non tutti sono tali da dover essere fuggiti. Conviene certo giudicare tutte queste cose in base a una visione opportunamente commisurata dei vantaggi e degli svantaggi. Perché in certe circostanze il bene può essere per noi un male, e viceversa il male può essere un bene. E crediamo che l'indipendenza dai desideri sia il bene più grande, non perché dobbiamo accontentarci sempre soltanto del poco, ma perché, se non abbiamo il molto, sappiamo farci bastare il poco; profondamente convinti che trae massimo godimento dall'abbondanza chi non ne ha bisogno e che è facile procurarsi ciò che serve ai bisogni naturali, difficile invece ottenere il superfluo; i cibi frugali danno un piacere identico a un vitto sontuoso, quando sia affatto eliminata la sofferenza del bisogno, e pane e acqua danno un piacere altissimo, quando ne riceve chi ne ha bisogno. L'abituarsi dunque a un cibo semplice e non ricco da un canto dà salute, dall'altro rende l'uomo sollecito verso le esigenze necessarie della vita; e quando di tanto in tanto ci accostiamo a vita sontuosa, ci dispone meglio nei suoi confronti e ci rende privi di timore verso la sorte. Quando dunque diciamo che il piacere è un bene completo, non alludiamo ai piaceri dei dissoluti o a quelli dell'ebbrezza, come pensano alcuni che non conoscono o non condividono o interpretano male il nostro insegnamento, ma al non aver dolore nel corpo né turbamento nell'anima. Perché non bevute e banchetti continui, né il godersi fanciulli e donne o pesci e quant'altro offre una lauta mensa genera una vita felice, ma un sobrio calcolo che esamini le motivazioni eli ogni scelta e rifiuto e recisamente respinga le false opinioni, da cui deriva il maggior turbamento che prende le anime.

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3. I desideri e le loro varie tipologie.

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La prudenza rende felici

La sapienza migliora Invita

Meglio credere ai miti che al fato

La saggezza è il bene

piì1grande

Di tutte queste cose il principio e il massimo bene è la prudenza. Per questo la prudenza è anche più pregevole della filosofia, e da essa hanno origine anche tutte le altre virtì::l, perché insegna come non è possibile una vita felice che non sia una vita saggia, bella e giusta, (e non è possibile una vita saggia, bella e giusta) che non sia felice. Le virtù sono infatti connaturate alla vita felice e la vita felice è da esse inseparabile. Poiché chi ritieni sia migliore di un uomo che ha pie opinioni sugli dei ed è affatto privo di paure nei confronti della morte ed è consapevole di che cosa sia il bene secondo natura e ha ben chiaro che il limite estremo dei beni è facile da raggiungere e da procurarsi, laddove il limite estremo dei mali è breve nel tempo o lieve nelle pene? E che proclama che quel potere ritenuto da molti padrone di tutte le cose ... 4 (alcune delle quali avvengono per necessità), altre per caso, altre dipendono da noi, perché la necessità è irresponsabile, la sorte è instabile, ma il nostro arbitrio è libero, e per questo può essere oggetto di biasimo o, al contrario, ricevere lode. Davvero sarebbe stato meglio credere ai miti sugli dei che essere schiavi del fato dei fisici 5 : il mito offre la speranza di placare gli dei con onori, il fato ha invece una necessità implacabile. E un uomo simile, non considerando la sorte un dio, come molti credono - un dio non fa nulla che sia privo di ordine -, né un principio causale privo di fondamento, non crede che sia la sorte a dare agli uomini il bene e il male che determinano una vita felice, ma solo che da essa provengano i principi di grandi beni e di grandi mali: ritiene infatti sia meglio essere saggiamente sfortunati che stoltamente fortunati, perché è preferibile che nelle nostre azioni una decisione saggia (non sia premiata dalla fortuna, piuttosto che una decisione stolta) sia premiata. Medita dunque queste cose e quelle dello stesso genere giorno e notte, in te stesso e con chi è simile a te, e non avrai mai turbamento né nel sonno, né da sveglio, ma vivrai come un dio fra gli uomini: perché in nulla è simile a un mortale un uomo che viva fra beni immortali.

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Epicuro, Lettera a Meneceo, in Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, pp. 143-155

Gli stoici: la felicità è l'imperturbabile tranquillità dell'anima Anche per la tradizione stoica il culmine della filosofia è l'etica, che ha per protagonista il saggio e per fine l'imperturbabilità. Opposto a quello di Epicuro è il tipo di interpretazione del mondo da cui la proposta etica degli stoici trae il suo significato. L'universo, con tutte le sue vicende, è retto da una rigida, incontrovertibile necessità, detta heimarméne, cioè fato, per cui ogni evento è bene che succeda come, dove e quando succede. 11/ogos, in quanto razionale, è provvidenza, cioè opera sempre per il meglio. Nei primi due testi che proponiamo, tratti dalle testimonianze di Diogene Laerzio llii:i§l e di Plutarco ~!ii§] sul filosofo Crisippo, appare evidente come il cardine dell'etica stoica sia la «coerenza» o accordo (homo!oghfa), nella duplice forma di coerenza con la propria ra· gione, nell'azione, e di invito a «vivere secondo la natura», cioè ad assecondare il ritmo razionale dell'universo, senza opporre inutili resistenze. Volentem fata ducunt, no/entem trahunt, «il fato conduce chi lo vuole e trascina chi non lo vuole». 4. In questo punto il testo di Epicuro presenta una lacuna. 5. Epicuro si riferisce in particolare alla fisica degli stoici.

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Capace di ragione, solo l'uomo è capace anche di virtù e di libertà. In una interpretazione del mondo come assoluta necessità, la libertà non è intesa come scelta tra possibilità, ma come adeguazione razionale e volontaria alle disposizioni del destino. Virtù è vivere secondo la natura dell'uomo, ovvero la ragione, che è la stessa che governa l'universo, conseguendo la felicità iE! ~11-1 Oe l'iJE1 ~11-9. Vizio è agire contro la ragione, lasciandosi prendere dalle passioni. Tutto ciò che non è né vizio né virtù è «indifferente» alla morale llii§J ~111-35 e lii:i§l ~11 0-25. Gli indifferenti (adiaphora) o sono conformi a natura e quindi «preferibili», o non lo sono ll.i:m H 26-34. La vita, la salute, la ricchezza, la bellezza sono in via generale, da preferirsi alla morte, alla malattia, alla povertà e alla bruttezza, ma possono comunque non essere perseguiti se sono di ostacolo alla virtù, cioè al conformarsi della ragione individuale alla ragione universale. Le passioni sono sempre «giudizi scorretti» su un evento, in cui l'uomo scambia il bene per il male e viceversa o non valuta adeguatamente la portata di un male o di un bene. Per questo gli stoici chiamano le passioni «ragione corrotta» t!i:iE.ll ~135-47.

Virtuoso ii l'uomo che ville secondo ragione

Cose buone, cattive,

indifferenti

Saluti! e ricchezza non sono beni

Cose da sceoliel'll e da rioetta1•e

Crisippo nel libro primo Dei fini afferma inoltre che il vivere secondo virtù coincide col vivere nell'esperienza degli accidenti naturali; ché le nostre nature sono parti della natura dell'universo. Per questo motivo il fine è costituito dal vivere secondo natura, cioè secondo la natura singola e la natura dell'universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l'universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell'universo. Ed in ciò consiste la virtù dell'uomo felice e il facile corso della vita, quando tutte le azioni compiute mostrino il perfetto accordo del demone che è in ciascuno di noi col volere del signore dell'universo. [. . .) Delle cose che sono essi dicono che alcune sono buone, altre cattive; altre ancora né buone né cattive. Buone sono le virtù, prudenza, giustizia, fortezza, moderazione, etc.; cattive sono i vizi, stoltezza, ingiustizia, etc.; indifferenti sono tutte le cose che non portano né vantaggio né danno: p. es. vita, salute, piacere, bellezza, forza, ricchezza, buona reputazione, nobiltà di nascita e i loro contrari, morte, infermità, pena, bruttezza, debolezza, povertà, ignominia, oscura nascita e simili. Questi dunque non sono beni, ma sono cose indifferenti e degne di essere desiderate in senso relativo, non in senso assoluto. Come infatti proprietà del caldo è riscaldare, non raffreddare, così anche proprietà del bene è giovare, non danneggiare; la ricchezza e la salute 1 offrono più danno che vantaggio, dunque né la ricchezza è un bene né la salute. Inoltre essi dicono che non è un bene ciò di cui si può fare buono e cattivo uso; poiché sia della ricchezza sia della salute si può fare uso buono e cattivo, né la ricchezza è un bene né la salute. Dunque è degno di essere scelto tutto ciò che ha un valore: nel campo spirituale la dote naturale dell'ingegno, la capacità tecnica, il progredire e simili; nel

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:B.. Nell'ottica dello stoicismo la salute e la ricchezza provocano spesso attacamento alla vita materiale

per cui possono danneggiare la condotta libera e virtuosa. Per questo non sono definite beni in senso assoluto, come la virtù, ma «indifferenti". Tuttavia, proprio perché tra gli indifferenti vi sono alcuni più preferibili eli altri, salute e ricchezza possono essere considerate come beni in senso relativo.

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campo materiale la vita, la salute, la forza, la buona complessione fisica, l'integrità degli organi, la bellezza e simili; nel campo dei beni esterni la ricchezza, la gloria, la nobiltà di natali e simili. È invece degno di essere rigettato: nel campo spirituale l'assenza eli doti naturali o tecniche, e simili; nel campo materiale la morte, la malattia, la debolezza, la cattiva complessione fisica, la mutilazione, la bruttezza e simili; nel campo esterno la povertà, l'assenza di gloria, l'oscurità di natali e simili. Ma vi sono anche cose che non fanno parte di nessuna delle due classi e pertanto non devono essere né scelte né evitate.

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Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIJ 87 (SVF III, 4); VII 102 (SVF III, 117); VII 106 (SVF III, 127), pp. 274-280

L'accordo con la legge uniuersalel'llnde l'uomo felice

Cose buone, cattiue, indiffel'enti

Cose preferibili e non p••efel'ibili

La uirtù è retta l'agione

E inoltre il vivere secondo natura equivale al vivere seguendo l'esperienza delle cose che avvengono per natura, come dice Crisippo nel libro I Dei jzni. Le nostre nature fanno parte del tutto, e perciò il fine è vivere seguendo la natura, sia la propria sia quella del tutto, nulla facendo eli ciò che suole vietare la legge universale che non è altro che la retta ragione scorrente per tutta la realtà e si identifica con Zeus, signore e guida di tutte le cose esistenti. Lo stesso è la virtù dell'uomo felice e il buon scorrere della vita, quando tutto si compia in accordo col clemone2 ch'è in ciascuno di noi e con riguardo alla volontà del reggitore dell'universo. Dicono che delle realtà alcune sono beni, altre mali, altre indifferenti ... Le indifferenti sono quelle che non giovano né danneggiano; e sono per esempio la vita, la salute, la bellezza, la forza, la ricchezza, la fama, la nobiltà, e le cose contrarie, la morte, la malattia, la sofferenza, la vergogna, la debolezza, la povertà, l'oscurità, la viltà di stirpe ed altre simili; [... ] Esse non sono beni, ma indifferenti, tutt'al più, secondo la specie, preferibili. Come è proprio del caldo riscaldare e non raffreddare, così lo è del bene giovare e non danneggiare; ma la ricchezza e la salute non giovano più di quanto non danneggino; non sono quindi dei beni. E dicono ancora: ciò di cui si può usare sia bene sia male, non può essere un bene; della ricchezza e della salute si può usare sia bene sia male; ricchezza e salute non sono quindi dei beni. Preferibili sono le cose, che hanno un certo valore, per esempio le buone doti naturali dell'anima, l'abilità nelle arti, la propensione ad apprendere e cose simili; fra le doti fisiche, la vita, la salute, la forza, la buona disposizione, la bella proporzione, la bellezza: tra le cose esteriori, la ricchezza, la fama, la nobiltà, e altre simili. Non preferibili sono rispetto all'anima la cattiva disposizione naturale, l'inabilità e simili; rispetto al corpo la morte, la malattia, la debolezza, la salute cagionevole, la minorazione, la bruttezza e altre simili: rispetto alle cose esteriori, la povertà, l'oscurità, la viltà di nascita e altre del genere. Non si preferiscono né si respingono le cose assolutamente indifferenti. In generale tutti costoro [gli stoici] ritengono che la virtù sia una disposizione e una capacità della parte direttiva dell'anima, che si verifica in base a ragione o, meglio ancora, che essa stessa sia ragione coerente, salda e non suscettibile di rovesciamento; e ritengono anche che la parte affettiva e irrazionale non sia

2. La ragione che è divina.

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Il vizio è ragione cm•rottn

divisa dalla parte razionale per una qualche interna articolazione dell'anima3 , ma che la stessa parte dell'anima che essi chiamano parte direttiva e pensiero, a seconda di come si volga e si muti in moti affettivi e conversioni di atteggiamento e disposizione·, possa diventare alternativamente vizio o virti:l non avendo una parte irrazionale. L'irrazionale si verifica, essi dicono, quando per l'eccesso dell'impulso, divenuto forte e dominante, la parte direttiva dell'anima è trascinata verso qualcosa di assurdo, con_trario alle scelte della ragione. La passione è infatti una ragione malvagia e intemperante, che deriva impetuosamente da un giudizio stolto ed errato, e acquista forza.

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Plutarco, Della virtù morale, 441c (SVF III, 459), pp. 205-206

Il testo che segue lli:il'J.ll è una scelta di passi del Manuale di Epitteto, opera in cui il filosofo riassume i punti principali del suo pensiero. Dopo aver distinto le cose in quelle che dipendono dalla nostra volontà e in quelle che al contrario non dipendono dal nostro volere ~»116 e dopo aver dichiarato le prime libere e le seconde schiave ~>17-9, Epitteto afferma che seguendo le seconde l'anima sarà sempre ostacolata nell'agire e proverà tristezza e inquietudine, mentre perseguendo le prime vivrà libera e felice r»l1 0-18. la ricerca dei beni interiori, che rendono felici, comporta tuttavia uno sforzo, e non si concilia con il desiderio di onori e di ricchezze ~»119-25. Il Manuale di Epitteto mostra come, in epoca romana, l'etica stoica si traduca in una sorta di «esercizio spirituale»: un discorso che il saggio ripete continuamente a se stesso per allenare la propria mente a conformarsi alla legge del/6gos universale.

~ Non tutto è in nost1•o potel'l!

Solo ciò che è nostro ci rende libe1·i

Rinunciare a quello che illlll è llllSÌI'II

ci rende sereni

Tra le cose che esistono, le une dipendono da noi, le altre non dipendono da noi. Dipendono da noi: giudizio di valore, impulso ad agire, desiderio, avversione, e in una parola, tutti quelli che sono propriamente fatti nostri. Non dipendono da noi il corpo, i nostri possedimenti, le opinioni che gli altri hanno di noi, le cariche pubbliche, e in una parola tutti quelli che non sono propriamente fatti nostri.

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Le cose che dipendono da noi sono per natura libere, senza impedimenti, senza ostacoli. Le cose che non dipendono da noi sono in uno stato di impotenza, di schiavitù, di impedimento, e ci sono estranee. Ricordati dunque che, se credi che le cose che sono per natura in uno stato di schiavitù siano libere e che le cose che ti sono estranee siano tue, sarai ostacolato nell'agire, ti troverai in uno stato di tristezza e di inquietudine, e rimprovererai dio e gli uomini. Se al contrario pensi che sia tuo solo ciò che è tuo, e che ciò che ti è estraneo - come in effetti è - ti sia estraneo, nessuno potrà più esercitare alcuna costrizione su di te, nessuno potrà più ostacolarti, non muoverai più rimproveri a nessuno, non accuserai più nessuno, non farai pii:1

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3. Il riferimento critico è alla dottrina platonica dell'anima dove la parte razionale è distinta dalle parti non razionali, con il compito eli guidarle e governarle. Per Crisippo, invece, come per tutti gli stoici, non ci sono componenti irrazionali nell'anima, ma solo disposizioni corrette o sbagliate verso gli impulsi provenienti dal corpo, sollecitato da stimoli esterni. ..

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nulla contro la tua volontà, nessuno ti danneggerà, non avrai più nemici, perché non subirai più alcun danno. Ottenere i beni interiori · implica rinuncia a onori e l'icr.hrme

Desiderando dunque cose così elevate, ricordati che non devi cercare di attenerle accontentandoti di uno sforzo moderato, ma ci sono cose alle quali devi rinunciare completamente e altrè che per il momento devi rinviare. Ma se vuoi sia questi beni, sia, nello stesso tempo, cariche pubbliche e ricchezze, rischi di non ottenere nemmeno queste ultime, perché desideri anche i primi; in ogni caso, è sicuro che non otterrai quei beni, che sono i soli a procurare libertà e felicità.

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Epitteto, Manuale, I-IV, pp. 143-147

Troviamo un «esercizio spirituale» simile a quello di Epitteto anche nei pensieri di Marco Aurelio liEI, una specie di diario in cui l'imperatore richiama i principi essenziali su cui conformare la propria vita ormai giunta verso la fine. l malvagi sono definiti tali perché ignorano cosa è bene e cosa è male, ma non vanno odiati, in base al principio che tutti gli uomini dotati di intelletto sono parenti. Del resto è impossibile per un uomo saggio ricevere danno dallo stolto o essere costretto a odiare un proprio parente. Siamo tutti nati per cooperare alla grande opera dell'universo ~11-15.

L'antropologia di Marco Aurelio riduce il nostro essere a tre elementi: la materia, di cui è fatto il corpo, destinata a perire; il soffio vitale, flebile vento che entra ed esce attraverso il respiro; la ragione, il vero principio direttivo, l'unico di cui ci si deve prendere cura, se si ha il desiderio di diventare liberi ~116-26. Tutti siamo parte dell'unico cosmo e il cosmo è retto dalla provvidenza divina. Quello che accade è utile e necessario per la conservazione del cosmo. Anche la morte dei singoli, che è soltanto una trasformazione ~>127-36. Scopo dell'uomo è comprendere di essere un'emanazione del/6gos. Bisogna approfittare della vita presente per conseguire questa consapevolezza e conquistare la serenità dello spirito, prima che sia troppo tardi ~>137-42. L'imperatore Marco Aurelio salda l'etica dello stoicismo all'etica tradizionale della società romana: ricorda a se stesso di essere un maschio e un romano, destinato a comportarsi virilmente e ad assolvere i propri compiti con serietà e scrupolo ~>143-51. Infine, ancor prima di agire, occorre fissare bene la definizione dell'oggetto che ci si presenta di fronte, collocarlo nella giusta prospettiva nell'ordine del tutto, stabilendo volta per volta qual è l'atteggiamento giusto da adottare verso di esso ~>152-74.

Adirai'Si contro il prossimo è contrario

alla natua•a

Di buon mattino bisogna cominciare col dire a se stessi: m'imbatterò in un indiscreto, in un ingrato, in un prepotente, in un imbroglione, in un invidioso, in un egoista. Tutti questi difetti provengono loro dall'ignoranza del bene e del male. Io, invece, che ho meditato sulla natura del bene e del male, e ho concluso che l'una consiste in ciò che è moralmente bello, l'altra in ciò che è turpe, e ho meditato altresì sulla natura dello stesso peccatore, e ho concluso che egli è mio parente, non perché dato dallo stesso sangue e dallo stesso seme, ma perché ha in comune con me l'intelletto, e cioè una particella della divinità; io, dunque, non posso subire alcun danno da nessuno di essi - nessuno, infatti, potrà farmi compiere azioni turpi - e nemmeno posso adirarmi con un mio parente o prenderlo in odio. Infatti siamo

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Appello a seguire la ragione

Siamo Jllll'ti ili un cosmo retto dalla prouuidenza

Non l'imandare il tempo por conqnistare la saggezza

Compie1•eogni azione come se fosse l'ultima

nati per cooperare, come i piedi, come le mani, come le palpebre, come i denti superiori e inferiori. Dunque agire gli uni contro gli altri è contro natura; e adirarsi con qualcuno ed evitarlo con disprezzo significa appunto agire contro il prossimo. Qualunque cosa sia questo essere che io sono, si riduce a questo: un po' di carne, un po' di soffio vitale, il principio dirigente 1 • Butta via i libri2 , non lasciarti più distrarre: non ti è concesso. Piuttosto disprezza la carne come chi è ormai prossimo alla morte: non è altro che sangue guasto, un po' d'ossa e un reticolato, un intreccio sottile eli nervi, venuzze e arterie. Considera poi anche che cos'è il soffio vitale: vento, e neppure sempre lo stesso, ma continuamente espirato e poi di nuovo aspirato. Resta dunque la terza parte: il principio dirigente. Rifletti: sei vecchio; non permettere più che esso sia schiavo, non permettere più che si lasci tirare come una marionetta dagli impulsi egoistici, non permettere più che sopporti a malincuore il suo destino presente o che scruti con apprensione quello futuro. Le opere degli dei sono piene eli provvidenza; quelle della fortuna non sono prive eli un ordine naturale o, comunque, non mancano di essere connesse e intrecciate con quelle disposte dalla provvidenza. Tutto scaturisce di là; inoltre tutto è necessario e utile al complesso di quel cosmo del quale sei una parte. Ora, per ogni singola parte della natura è un bene ciò che la natura universale produce e ciò che è utile per la sua conservazione. E alla conservazione del cosmo contribuiscono tanto le trasformazioni degli elementi quanto quelle dei composti. Queste riflessioni ti siano sufficienti: siano sempre dei dogmi. Scaccia la sete eli libri, perché tu possa morire non mormorando, ma veramente sereno e grato agli dei dal profondo del cuore. Ricordati da quanto tempo rimandi queste cose e quante volte, pur ottenendo dagli dei sempre nuovi termini eli scadenza, non sai trame profitto. Devi comprendere una buona volta di quale cosmo sei una parte e eli quale principio che dirige il cosmo sei un'emanazione, e inoltre che il tempo che ti è concesso è ben circoscritto: se non ne approfitti per raggiungere la serenità dello spirito, svanirà, svanirai anche tu e non sarà più possibile. In ogni momento bada con fermezza, come si addice a un Romano e a un maschio, a compiere ciò che hai per le mani3 , con quella serietà che è al tempo stesso scrupolosa e non affettata, con disposizione d'amore, con libertà, con senso eli giustizia, e cerca eli renderti libero da ogni altro pensiero. Ci riuscirai se compirai ogni azione della vita come se fosse l'ultima, evitando ogni leggerezza, ogni avversione passionale per i dettami della ragione, ogni falsità, ogni egoismo, ogni malcontento per la tua sorte. Vedi come sono poche le doti delle quali si deve venire in possesso per poter trascorrere una vita serena e pia; gli dei, infatti, non pretenderanno nulla di più da chi osserva questi princìpi.

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1. La ragione. 2. I libri sono considerati fonte di distrazione rispetto all'uso corretto della ragione.

3. Il compito che ti è stato assegnato.

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llefinil•e un oggetto significa cmnprendel'll la sua funzione nel cosmo

C'è un modo giusto di rappm•ta••si a ogni cosa

Ai precetti già esposti se ne aggiunga ancora uno: fissare sempre la definizione o tracciare la descrizione dell'oggetto che cade sotto i sensi, sì da poterlo vedere distintamente quale esso è nella sostanza, nudo, nella sua totalità e nelle parti che lo compongono, e da pronunziare fra sé il nome che gli è proprio e i nomi di quegli elementi dai quali fu composto e nei quali si dissolverà. Nulla, infatti, contribuisce a rendere l'animo grande tanto quanto l'esser capaci di esaminare uno per uno con metodo e cercando la verità i singoli eventi della vita e il contemplarli continuamente in modo da comprendere quale utilità abbiano per quale cosmo, e perciò quale valore abbiano rispetto all'universo e quale rispetto all'uomo, che è cittadino della città più sublime, di cui le rimanenti città sono come le singole case; in modo da comprendere che cosa sia, di quali elementi sia composto, quanto tempo per natura debba durare quest'oggetto che ora produce in me la rappresentazione, e quale virtù sia necessaria in relazione ad esso, come per esempio la dolcezza, la fortezza, la sincerità, la buona fede, la semplicità, la capacità di essere autosufficienti, e così via. Perciò per ciascun oggetto bisogna dire: questo proviene da Dio, quest'altro dalla concatenazione degli eventi, dalla trama serrata del destino e, similmente, dalle coincidenze degli eventi e dalla fortuna, quest'altro invece da un essere che appartiene alla mia stessa razza, alla mia stessa stirpe, alla mia stessa comunità, ma ignora che cosa sia per lui secondo natura. Io però non lo ignoro; e perciò tratto con lui secondo la legge naturale che regola i rapporti tra gli uomini, con benevolenza e senso di giustizia; in pari tempo, tuttavia, nell'ambito delle cose intermedié, miro a stabilire il loro valore. Marco Aurelio, A se stesso, II 1-5; III 11, pp. 15-17; 33-34

4. Si riferisce alle cose indifferenti che possono essere preferibili o non preferibili.

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RIPENSIAMO INSIEME

La voce del contemporaneo

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20 righe. Il sociologo Edgar Morin indica alcune figure cui l'uomo contemporaneo si rivolge in situazioni di crisi personale. Informati e definisci ciascuna di esse con precisione.

~ Che effetto ti fa sentir parlare di saggezza da un

tuo contemporaneo? Chi è un saggio per te? Che impressioni associ a questo termine? Sei saggio? Ti piacerebbe essere saggio?

Lo sguardo della tradizione ~ Perché è difficile pensare agli epicurei come liberti-

ni dissoluti? In 1O righe. ~ill

"'PP Atomismo democriteo ed epicureo a confronto, in

Per l'umanista Erasmo da Rotterdam il cristiano è il miglior discepolo di Epicuro. Sviluppa questo tema in un componimento di 4 colonne di foglio protocollo.

~òil Perché per Epicuro bisogna vivere nascosti? In 5

righe. ~ Perché la concezione morale di Epicuro e special-

mente la sua identificazione di bene e piacere si sviluppano all'interno della tradizione platonica e aristotelica, nonostante le differenze? In 20 righe. ~ Spiega l'espressione «edonismo calcolato» che in-

terpreta la morale epicurea. In 3 righe. ~ Piaceri naturali e piaceri vani, piaceri necessari e

piaceri non necessari: illustra il tuo punto di vista e quello di Epicuro. In 20 righe. ~2 Perché nella tradizione epicurea non c'è contraddi-

~ Il

c!inamen epicureo tra fisica ed etica. Sviluppa il tema in un componimento di 20 righe.

~ C'è traccia di Socrate nelle filosofie ellenistiche?

Cosa è rimasto di lui? Manuali, compendi filosofici, un certo dogmatismo, la stessa comunanza di vita. contraddicono o confermano l'ideale socratico? Socrate fu un uomo inquieto o tranquillo? La sua tranquillità di fronte alla morte è come quella del saggio stoico o epicureo? Sviluppa il tema «Socrate e lo stoicismo» in 3 colonne di foglio protocollo.

liZ'l'tf" È possibile delineare una continuità Socrate-cinicistoici? In 7 righe.

!;i1'!P La figura di Diogene cinico ha lasciato tracce nella storia dell'arte. Documentati e riferisci.

lii1'ifl Gli antichi spesso affibbiavano soprannomi significativi ai filosofi, come «apriporta» a Cratete cinico. Prova a dare tu qualche nomignolo ai filosofi dell'età ellenistica. ~ Logica, fisica, etica. Di cosa si occupano per gli stoi-

ci? In 6 righe.

91f' Cosa significa per noi «seguire la natura»? E per gli stoici? Ci sono possibili punti di contatto tra le due concezioni, anche dal punto di vista etico, cioè della condotta? Sviluppa il tema in 5 colonne di foglio protocollo.

"'"lf! Cosa è «corpo» per gli stoici e cosa non lo è? In 5 righe. ~ Perché, per gli stoici, il mondo è animato e addirit-

tura felice? In 8 righe.

zione tra il fatto che l'amicizia sia utile e sia, al tempo stesso, un valore in sé? In 4 righe.

EE:f'f8 Ci sono tracce della filosofia presocratica nella tra-

ilò'ffù In che senso la saggezza è un bene mortale, men-

dizione stoica? Svolgi il tema in 3 colonne di foglio protocollo.

tre l'amicizia immortale, per Epicuro? Si tratta solo di una frase ad effetto? In 15 righe.

~ Destino, fato, provvidenza. Attraverso le etimolo-

~-:;-] Confronta in un componimento di 20 righe la dot-

gie, ma senza fermarti ad esse, cerca di distinguere queste nozioni. In 6 righe.

trina epicurea della libertà con quella stoica.

llllflfl

l versi di Orazio a p. 348 sono un compendio in forma poetica dell'epicureismo. Commentali filosoficamente, alla luce della dottrina che li ispira, in un componimento di 3 colonne di foglio protocollo.

~? Per gli stoici l'uomo è un «cane attaccato a un car-

ro». Perché? In 3 righe. ~"' Beni, mali, indifferenti. Cosa sono per gli stoici? In

3 righe.

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quella di Platone rispetto all'ingiusta condanna di Socrate.

~ L'etica stoica è un'etica del dovere? Documenta-

ti sul significato generalmente condiviso di questa espressione e poi rispondi alla domanda in 20 righe.

~ Riferendoti al brano iJEJi p. 396 del tema «L'origi-

ne del male», chiarisci il ruolo della distinzione tra uso e comprensione dell'uso (righe 28-54).

~ Cosa sono le passioni per uno stoico e cosa per un

platonico? Quale rapporto intrattengono con la ragione? In 20 righe.

W p. 396 del tema «L'origine del male», chiarisci il ruolo dell'esempio di Oli mpia nell'argomentazione.

~ Riferendoti al brano

~ Perché per gli stoici le virtù non stanno da sole? In

1O righe. ~

~ Nel brano~ p. 399 del tema «L'origine del ma-

le» emergono, nella polemica, tratti tipici di dottrine stoiche ed epicuree. Schematizza le opposizioni.

Cos'è per gli stoici la rappresentazione catalettica? Prima in 8 righe, poi in 2.

~ Spiega l'immagine del pugno riferita dagli stoici al-

la comprensione. In 3 righe.

~ Nei testi del tema «Il saggio e la politica» p. 401

sgg. la distinzione tra natura e convenzione, che gioca un ruolo decisivo nelle argomentazioni e nelle prese di posizione, è implicita o esplicita? Dopo averne ricostruito la configurazione teorica a partire dai sofisti, rileva i passi in cui gioca un ruolo importante e illustrali.

~ Cos'è la prolessi per gli stoici? In 4 righe. ~ Che differenza c'è tra una «logica dei termini» e

una «logica proposizionale»? In 1O righe. ~ Spiega la differenza tra il sillogismo aristotelico e

quello stoico. In 1O righe. ~ Perché per gli stoici un sillogismo concludente non

~ Nel brano lii[iJ p. 407 del tema «La natura dell'a-

nima» le categorie aristoteliche dell'agire e del subire giocano un ruolo determinante. Illustralo.

necessariamente è vero? In 5 righe. ~ Errore e giudizio in Epicuro e negli stoici. In 3 righe.

~ Nel brano im p. 408 del tema «La natura dell'ani-

~ La prolessi epicurea e quella stoica. In 5 righe.

ma» la nozione di contatto gioca un ruolo decisivo. In che modo?

~ Per un epicureo, se vedo un albero, come faccio a

dire sensatamente che quello che vedo «è» un albero? In 7 righe.

~ Crea un apparato di note storiche e concettuali al

brano ~p. 411, righe 1-12, del tema «La natura dell'anima», mettendo in luce l'aspetto interpretativo.

~ Confronta in un componimento di 20 righe lo scet-

ticismo socratico e platonico e quello degli scettici. ~

Racconta e spiega il senso dell'aneddoto del pittore Apelle, in 8 righe.

~ Schematizza l'argomentazione di Sesto Empirico

sull'apprendimento a p. 380. ~

In 7 righe esponi la dottrina scettica e poi domandati se essa esista in base alla dottrina stessa.

~ Riferendoti al brano IWi!lill p. 415 del tema «La ricer-

ca della felicità», chiarisci il senso del vivere tra gli uomini come un dio. ~

Nel brano~ p. 420 del tema «La ricerca della felicità» è contenuta una definizione esplicita di virtù: trovala e chiarisci in che senso essa compendia i ragionamenti che la precedono.

~ Nel brano~ p. 420 del tema «La ricerca della fe-

La parola ai filosofi ~ Nel brano llii1J p. 385 del tema «La natura dell'uni-

verso», si producono tre argomenti a favore della tesi «tutto è infinito». Formulali. ~ Nel testo di Seneca del tema «L'origine del ma-

le», ~ p. 392, si affronta il problema classico dell'infelicità del giusto. Ricostruisci in che termini e poi confronta la posizione di Seneca con

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licità» è introdotta la distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che invece non dipende da noi. Sembra intuitiva, ma, a guardare bene, non lo è poi tanto. Hai qualcosa da obiettare agli esempi di Epitteto?

"'f3'l\l Nel brano~ p. 421 del tema «La ricerca della felicità» ci sono chiare indicazioni su cosa fare di sé. Prova ad applicarle, indicando gli ambiti in cui potresti agire nel modo suggerito dall'imperatore. Fai degli esempi, esplicita delle circostanze.

prova a pensare da solo ~

~

Documentati sulla figura del «consulente filosofico» e riferiscine in una relazione dattiloscritta di 3 cartelle. Ti piacerebbe essere un consulente filosofico? Senti che una figura come questa risponda a bisogni reali? Nella tua scuola c'è uno psicologo? Secondo te che lavoro fanno gli psicologi? È simile a quello dei consulenti filosofici? Ti convince l'espressione «arte di vivere» 7 La vita si lascia condurre, guidare, modificare da una qualche arte? Se c'è un'arte, ci sono maestri di quell'arte. Ne conosci? Saresti disposto a seguirne uno? Che ne sarebbe della tua libertà se tu seguissi un maestro? In famiglia si impara l'arte di vivere?

IIVJ])l «Allora io non esisterò più?» «Tu non sarai più ciò che sei, ma qualcos'altro di cui il mondo avrà bisogno.» Questa considerazione stoica ti consola o ti angoscia? ~ L'uomo come attore è una metafora stoica. Si par-

la di autenticità o di finzione, di un modo di essere nella verità o nella menzogna? Di essere liberi o schiavi? Le tue riflessioni in 3 colonne di foglio protocollo. Poi riduci il tutto a 15 righe. ~ Documentati sui tipi umani detti sensation seekers. ·

Contraddicono l'ideale dell'imperturbabilità dell'animo o lo confermano? Sono saggi o scriteriati? Da questa situazione, fatta oggetto di riflessione filosofica, cerca di condurre alcune considerazioni sulla relazione tra saggezza e imperturbabilità o tranquillità dell'animo.

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no cosa succede? Il mondo si moltiplica? E quando noi stessi guardiamo noi stessi da punti di vista diversi e cosl fanno gli altri, che ne è di noi? Il punto di vista migliora il mondo o lo peggiora? Sviluppa il tema in 5 colonne di foglio protocollo. ~ Adattare noi al mondo o il mondo a noi. Sembra

l'alternativa tra conservazione rivoluzione. È cosl? ~ Considera qualcosa che ti dà gioia e chiediti che

cos'è. Lo vedi come prima? Cambia il tuo punto di vista? Considera qualcosa che ti fa soffrire e fai la stessa cosa. Considera, infine, qualcosa che speri o desideri e qualcosa che temi. ~ «Di buon mattino bisogna cominciare col dire a se

stessi: m'imbatterò in un indiscreto, in un ingrato, in un prepotente, in un imbroglione ... » Un buon modo di cominciare la giornata? ~ Vivere nascosti. Ti è mai venuta la voglia di fuggire,

di scomparire? Una tentazione o un valore? Quella di Epicuro è fuga, oblio 7 Esponi il tuo pensiero in proposito in un componimento di 3 colonne di foglio protocollo. ~ Il cinema e la letteratura hanno più volte preso in

considerazione il tema della vita nascosta, della fuga dal mondo. Documentati in proposito e riferiscine, sviluppando considerazioni di filosofia morale sulle scelte e le esperienze di vita dei protagonisti delle opere che hai preso in considerazione. ~ È più piacevole il movimento o la tranquillità? An-

dare in cerca di piaceri sempre nuovi o godere di quelli che si hanno? Vivere nell'agitazione o nel riposo?

Per gli stoici tutto o quasi è corpo. Ma cos'è un corpo per te 7 Corpo e materia sono la stessa cosa 7 Cosa è corporeo nella tua concezione? Quanto incidono i corpi nella tua vita e quanto le cose incorporee? Ti piacerebbe non avere un corpo? Quali vantaggi, quali inconvenienti? Documentati sulla letteratura e la cinematografia dell'incorporeo.

lilfr Vita senza amico è «divorare di leone e di lupo»,

~ Per gli stoici il mondo è un essere animato e felice. E perte?

~ La paura della morte per Epicuro è un male curabi-

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Supponi che sia vero che tutto si ripresenterà come è stato, come pensavano gli stoici o alcuni di loro. Sarebbe un bene o un male? Ti piacerebbe? Come faresti ciò che fai in questo momento? Come guarderesti ciò che hai già fatto? Come agiresti per il futuro? Ti sentiresti più o meno libero?

~ Quanto il punto di vista incide nella nostra vita? E quando i punti di vista delle persone non coincido-

~ Ti offende il pensiero che un amico sia «utile» 7 L'a-

mico è un «mezzo per» o un fine in sé? secondo Epicuro. È proprio cosl? Documentati sull'etologia dell'altruismo e riferiscine in una relazione di 4 cartelle dattiloscritte. le con la ragione. È cosl? Cosa temiamo della morte? La morte in sé? Un mondo senza di noi? L'impossibilità di essere ancora felici? La morte nostra o la morte degli altri? Prova a dare risposte epicuree a queste domande, fin dove è possibile. Poi dai le tue o avanza nuovi dubbi, nuove obiezioni, nuove difficoltà. ~ Secondo te, sospendere il giudizio sistematicamen-

te rende imperturbabili o aumenta il turbamento?

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~,~.

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LE FILOSOFIE ELLENISTICHE

Altri orizzonti ~ Thomas Nagel, Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore, 1988.

Il tema del punto eli vista, decisivo nelle filosofie ellenistiche e ben radicato nelle filosofie classiche, è centrale in un filosofo contemporaneo come Nagel che distingue particolarmente tra un punto eli vista interno e uno esterno, tra uno sguardo impersonale al mondo e uno interessato, coinvolto. Rintraccia nei saggi eli Nagel i metodi di indagine degli antichi che hai conosciuto. Emblematico il saggio sulla morte che inaugura la raccolta, in cui ci si domanda se morire sia un male, come se lo chiedevano epicurei e stoici.

~ Giovanni Reale,

La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell'anima, Milano, Bompiani, 2003.

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Seneca non è soltanto il più grande filosofo latino, ma è tutt'ora uno dei più letti e amati, forse perché il suo pensiero si rivolge agli uomini e alle donne eli ogni tempo, fecenclosi interprete dei problemi esistenziali e delle angosce che da sempre assillano l'essere umano. Cercando eli conciliare la sua filosofia eli vita con l'attività quotidiana di uomo pubblico in anni difficili e inquieti, come quelli della Roma imperiale, si dimostra anche un filosofo modernissimo, per aver affrontato situazioni per certi aspetti simili alle nostre. La sua, pertanto, non è una scienza astratta, ma una scuola eli saggezza, che aiuta a raggiungere l'equilibrio e la felicità. Attraverso una penetrante analisi della psiche umana, Seneca riesce a trarre alcuni insegnamenti importanti per curare i «mali dell'anima". Prova a conoscere questo grande pensatore più da vicino leggendo il libro di Giovanni Reale e stabilisci da solo, con la tua valutazione critica, se la diagnosi e i rimedi proposti dal filosofo sono effettivamente validi oppure no.

~ Alai n De Botton, Le consolazioni della filosoQ fia, Parma, Guanda, 2000.

Comela medicina non dà alcun beneficio se non toglie i dolori dal corpo, così la filosofia è inutile se non scaccia i turbamenti dall'anima. Guidato da questo principio epicureo, l'autore compie un itinerario attraverso la cultura occidentale, trovando in sei -grandi pensatori della nostra tradizione i compagni eli viaggio ideali nel

percorso alquanto travagliato della nostra esistenza di uomini di oggi. Socrate, Epicuro, Seneca, Montaigne, Schopenhauer e Nieztsche diventano in questo libro personaggi cordiali e comunicativi che possono pre- · starei soccorso o dare almeno un consiglio su problemi quali: l'impopolarità, l'uso del denaro, la frustrazione per impotenza, il senso di inadeguatezza, le pene d'atl1ore, le difficoltà del vivere. Dopo aver letto il libro di Alain De Botton, valuta da solo se la filosofia possiede il potere di ispirare e consolare.

~ Pie.rre Grimal, 1998.

L'anima romana,

Roma, Donzelli,

Il giovane Marco Annio Vero, futuro imperatore eli Roma con il nome eli Marco Aurelio, passeggia a piedi o a cavallo con il suo maestro, il filosofo Frontone. Durante queste passeggiate nascono dialoghi profondi sulle origini di Roma, sulla sua storia, sugli antenati, sulle battaglie vinte o perse, sui costumi e le credenze, sui destini della Repubblica e dell'Impero. Sotto la finzione del romanzo storico, Pierre Grimal, uno dei massimi esperti mondiali della cultura latina, disegna un affresco affascinante e veritiero per chi desidera conoscere l'atmosfera entro cui sorse e si sviluppò l'anima romana, a cui appartenne anche Marco Aurelio . L'autore dedica il libro «a tutti i giovani curiosi eli conoscere le proprie radici". Non si tratta eli un testo eli filosofia, ma eli una ricostruzione del contesto storico e culturale in cui la filosofia latina si è sviluppata esprimendo il suo contributo originale alla storia del pensiero occidentale. Dopo aver letto questo libro, prova a inventarti un dialogo immaginario con un maestro e a mettere sulla sua bocca le parole che vorresti sentirti dire.

~ Ala n Musgrave, Senso

ticismo,

comune, scienza e scet-

Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995.

Dopo aver conosciuto le obiezioni dei sofisti e degli scettici antichi alle pretese della conoscenza, ti sarai certamente domandato se sia possibile conoscere qualcosa con certezza. Filosofi e scienziati hanno più volte risposto affermativamente, ma l'«amara genia degli scettici, non ha mai smesso di sficlarli sul loro terreno, mettendo in dubbio ora l'evidenza sensibile, ora la saldezza dei principi delle scienze. Alan Musgrave ricostruisce in questo libro i vari contesti del dibattito che ha attraversato tutta la storia della filosofia, interessando anche la logica, la matematica, la psicologia e, nel Novecento, l'informatica. Proprio nel Novecento, con il suo grande sviluppo scientifico e tecnologico e le sue profonde ri-

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RIPENSIAMO INSIEME

~

voluzioni intellettuali, si è fatta strada una «terza via, tra dogmatismo (fiducia assoluta nella ragione conoscitiva) e scetticismo (sfiducia totale nelle possibilità conoscitive} la via eli un sapere fallibile e continuamente rivedibile. Il libro che ti proponiamo non è facile perché ana-

j'

lizza le teorie eli filosofi moderni e contemporanei che ancora non conosci. Tuttavia è scritto in modo chiaro e accessibile e può interessare uno studente che si sia posto il problema della verità delle conoscenze, problema fondamentale di qualsiasi scienza e filosofia.

Ve••so un pensiero creativo ~ Sui pacchetti di sigarette si leggono messaggi come «il fumo uccide». Sono previsti per legge è dovrebbero ave-

re un effetto dissuasivo, dal momento che le ricerche sugli effetti del fumo sull'organismo ne dimostrano la pericolosità per la salute. Accade tuttavia che l'abitudine al fumo continui ad essere diffusa. È ragionevole ipotizzare che un fumatore abituale non desideri suicidarsi né compromettere la propria salute; eppure, un messaggio evidente può restare ininfluente sul suo comportamento. Perché tale messaggio resta ininfluente? Si può dire che non venga creduto, o il problema è di altra natura? Può accadere di non desiderare le conseguenze di un'azione, eppure di farla comunque, pur essendo avvertiti esplicitamente delle conseguenze e dunque non per mera incoscienza. Può accadere di non volere agire in un certo modo e di agire comunque così. Perché ciò accade? Sapreste individuare dei casi simili (pensate ad esempio alle abitudini alla cattiva alimentazione, all'inquinamento ecc.)? Cosa ci dicono questo caso e altri simili a proposito dei concetti di «piacere», «felicità» e «saggezza» (intesa come phr6nesis)? ~ La trattazione delle «passioni» chiama in causa il rapporto tra mente e corpo. C'è un «interruttore del piacere»

localizzabile in qualche modo nel cervello? E che dire del radicamento corporeo delle altre passioni? ~ Gli esseri umani aspirano a «vivere bene» e possono immaginare molti modi per farlo; eppure, spesso si accon-

tentano semplicemente di «vivere» o anche, come si usa dire, di «tirare avanti», di «sopravvivere». Siete d'accordo con questa affermazione? Se sì, perché ciò accade?

Per idee, spunti e curiosità sulle domande precedenti, vedi il

~1 Seminario «Vivere bene».

BIBLIOGRAFIA Opere da cui sono tratti i testi

-Manuale di Epitteto, a cura eli P. Hadot, Torino, Einaudi, 2006.

Cicerone, La natura divina, trae!. di C.M. Caleonte, Milano, Rizzoli, 1992. Diogene Laerzio, Vite dei filosofi (Zenone, Epicuro, Pirrone, Crisippo), a cura di M. Gigante, Bari, Laterza, 1993. Epicuro, Lettere sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, trad. di N. Russello, Milano, Rizzoli, 2004. - Massime capitali, in Scritti morali, trae!. di C. Diano, Milano, Rizzoli, 1987. Epitteto, Diatribe, in Diatribe, Manuale, Frammenti, trae!. di C. Cassanmagnago, Milano, Rusconi, 1982.

Gli Stoici. Opere e testimonianze, a cura eli M. Isnardi Parente, Milano, TEA, 1994. Lucrezio, La natura delle cose, trae!. di L. Canali, Milano, Rizzoli, 2004. Marco Aurelio, A se stesso, trae!. eli G. C01tasso, Firenze, Le Lettere, 1989. Plutarco, Della virtù morale, in M. Isnardi Parente, La filosofia dell'ellenismo, Torino, Loescher, 1977. Seneca, La provvidenza, trad. di A. Traina, Milano, Rizzoli, 2004. -Sulla felicità, trae!. di A. Schiesaro, Milano, Rizzoli, 2004. Sesto Empirico, Contro ijlsici. Contro i

moralisti, trae!. di A. Russo, RomaBari, Laterza, 1990. -Contro i logici, trae!. di A. Russo, Bari, Laterza, 1975. - Schizzi pirroniani, trae!. di A. Russo, Bat'i, Laterza, 1988. Stoicorum Veterum Fragmenta, a cura di H. von Arnim, Lipsia, 1903-1905 (ed. anast. Stuttgardiae, 1964). Testi citati o consigliati Morin, E. Il metodo 6. Etica, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005. Marinoff, L. Platone è meglio del Prozac, Milano, Piemme, 2001.

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La rtlosofia nell'età imperiale e tardo antica Raffaello Sanzio, Scuola di Atene (part.), 1509-1511 ca., Città del Vaticano, Musei Vaticani, Stanza della Segna tura. Nel particolare è rappresentato: 1. Plotino.

MAR .MBDITERIVJNIW

.......

nota l'espressione di Whitehead: "La filosofia occidentale non è che una serie di note a piè di pagina ai dialoghi di Platone". Ciò può significare in primo luogo che la probleniatica platonica ha segnato in modo definitivo la filosofia occidentale, ed è vero. Ma può significare anche che lafilosofia occidentale ha preso, concretam.ente, la forma di commentari, di Platone o di altri filosofi, e più in genemle lafonna esegetica. E anche questo è vero, in grandissima nzisura. In effetti, è estremamente importante constatare che per quasi duemila anni, dalla metà del IV secolo a.C.fino alla fine del XVI secolo, la filosofia è stata concepita prima di tutto come un 'esegesi che si riferisce a un ristretto numero di testi derivanti da "autorità", di cui le principali furono, come è noto, Platone e Aristotele. Ed è legittimo domandarsi se, dopo la rivoluzione cartesiana, la filosofia non risenta sempre di questo lungo passato e se non rimanga sempre, fino a un certo punto, un 'esegesi. P. Hadot, Études de pbilosophie ancienne, p. 3

Le trasformazioni di un mondo dalle lunghe tradizioni Le nuove scuole • Nella storia del pensiero filosofico del mondo antico furono rilevanti, per la loro diffusione e per la loro influenza, le scuole filosofiche: qui, una parte considerevole dell'attività consisteva nell'interpretazione del pensiero dei maestri. Poiché interpretazione si dice in greco exégesis, gli studiosi hanno parlato dell'epoca delle scuole come di un ' 437

Il ruolo di mediazione di Cicerone

L'eclettismo ciceroniano

Concetti e te1•mini filosofici in latino

tori latini non si comprendono senza la cultura greca, dall'altro, sono loro stessi i custodi di quella tradizione. Emblematica per la formazione di una cultura filosofica romana, distinta ma non opposta a quella ellenica, fu l'opera di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.). Come autore e divulgatore di cultura la sua opera costituisce un vero e proprio crocevia in cui tradizione greca e latina s'incontrano e si confrontano, su temi principalmente eticopolitici. Prima di Cicerone, il centro della cultura filosofica romana era costituito dall'importante famiglia degli Scipioni che, sul finire del II secolo a.C., avevano favorito l'affermazione dello stoicismo in ambiente romano tramite l'insegnamento di Panezio, fondatore con Posidonio della cosiddetta Media Stoà. Nelle opere di maggior rilievo filosofico, come Paradoxa stoicorum, Academici libri, De fini bus honorum et malorum, De ofjtciis, Tusculanae disputationes, De legibus, De amicitia, scritte negli anni della sua maturità, Marco Tullio Cicerone si dedicò allo studio delle dottrine filosofiche elleniche, contribuendo a creare un eclettismo filosofico in cui elementi stoici, accademici e platonici si contaminano a vicenda. Cicerone non aderì a nessun sistema filosofico in particolare, pur polemizzando contro il materialismo epicureo, facendo proprio il criterio di scelta della migliore tra le dottrine a disposizione su qualunque argomento in questione. Come Cicerone furono eclettici molti intellettuali romani della tarda repubblica in quanto dalla filosofia greca classica, eli Platone in particolare, e dalle filosofie ellenistiche, stoiche, epicuree, scettiche, sceglievano quanto era importante e utile per l'interpt·etazione della vita individuale e della convivenza civile, poco importando loro eli comporre un sistema concettuale coerente. Cicerone elette vita comunque a una teoria dello Stato ideale, che altro non era se non lo stato senatorio romano della tarda repubblica, in cui modello di condotta politica è il princeps, campione eli temperanza e eli virtù, nonché custode del diritto universale, in cui ormai l'aristocrazia romana aveva trovato la sua più profonda identità storico-culturale. Ma Cicerone non è da ricordare solo per il suo eclettismo filosofico, bensì anche per il contributo dato dalla sua opera alla trasposizione in lingua latina dei tet·mini e dei concetti del pensiero gt·eco ed alla diffusione dell'interesse per la filosofia nella società romana. Infatti, gradualmente, la filosofia diverrà un elemento importante nell'educazione del ceto dirigente romano: e se inizialmente i nobili romani si recavano ad Atene per perfezionare le proprie conoscenze in materia di filosofia, in seguito Roma stessa divenne un centro importante di attività filosofica in concorrenza con Atene, Alessandria d'Egitto, Rodi.

la teologia biblica: la prospettiva ebraico-cristiana Il Dio biblico • Mentre la cultura filosofica greca si afferma e si diffondono le varie scuole filosofiche, assistiamo anche al fermento suscitato all'interno dell'Impero dalla fede ebraico-cristiana alimentata dalla parola biblica. Del resto la Bibbia (dal greco ta Biblìa, i Libri per eccellenza che contengono la rivelazione eli Dio a Israele e la storia della salvezza) non poteva essere accolta senza difficoltà dalla mentalità greco-romana. Il Dio della rivelazione biblica è uno (monoteismo); è assoluto in quanto non dipende da altro che da se stesso; è trascendente, cioè separato e infinitamente superiore al resto del mondo; è una Persona, perché sa e vuole; è onnisciente (sa tutto) e onnipotente (può tutto); è creatore dell'universo in quanto fa dal nulla ciò che vuo· le (creazione).

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La parola biblica

Ascolto, fede, etica biblica

Il culto del tempio

Unicità dell'elu•aismo nel mondo antico

La religione del Libro

La caratteristica principale della letteratura biblica sta nel fatto che essa deriva da una mentalità estranea al mito: vi troviamo finzioni, storie, parabole, non miti. Se il mito si inserisce in una forma di pensi,ero che elimina la durata e rappresenta una realtà eterna, il significato degli avvenimenti biblici è inseparabile dalla loro realtà stodca. «Dio disse ad Abramo, (Gn 12,1): il significato di questo racconto non consiste soltanto in ciò che sarà detto, ma nel' fatto che Dio ha parlato effettivamente ad Abramo e, attraverso di lui, al popolo eletto. La salvezza biblica non consiste nella conoscenza del pensiero di Dio, in sé impenetrabile, ma nell'ascoltare la parola effettiva di Dio che ha parlato. Tipica della letteratura biblica è la dimensione dell'ascolto: se Dio parla, l'uomo è tenuto a porsi di fronte a Dio in una posizione determinata dall'ascolto. A questo proposito, il primo dei dieci comandamenti biblici «Non avrai altro Dio all'infuori di me» è preceduto da un invito ben chiaro ad ascoltare ciò che Dio vuole dire al popolo: «Ascolta Israele!». All'ascolto si deve aggiungere poi la fede (fiducia) nella bontà di Dio e dei suoi comandamenti, condizione necessaria per fidarsi della sua parola e metterla in pratica. Sulla Parola di Dio la letteratura biblica fonda anche la sua etica, le cui norme sono osservate non tanto perché ritenute universalmente valide, quanto piuttosto perché dettate da Dio in persona ai capi del popolo e ai profeti come Mosè. Ecco perché non si può parlare semplicemente di «religione del Libro»: centrale e determinante è anche l'esperienza di Dio che Israele vive e testimonia, nonostante che la religiosità degli ebrei si fondi sulla lettura e sull'ascolto della Bibbia e sull'osservanza dei comandamenti. Fino al 70 d.C. il centro religioso dell'ebraismo fu Getusalemme, città dove sorgeva il tempio di Salomone, principale luogo di culto del popolo ebraico. Nel tempio si leggevano i libri della Bibbia, si insegnavano i comandamenti dellà'Legge, si compivano i sacrifici rituali di animali, soprattutto durante le feste annuali, in ctÌi ·si ricordavano i momenti salienti della lunga storia dell'alleanza di Dio con il suo popolo. Tra queste feste la più importante era la Pasqua, in occasione della quale si celebrava ikricordo della liberazione del popolo dalla schiavitù dell'Egitto per mano di]ahvè, il Dio che aveva scelto Mosè come capo del suo popolo. Esistevano tuttavia anche altri luoghi di culto, le sinagoghe, presenti nelle località più lontane da Gerusalemme, dove ogni sabato, giorno di riposo settimanale, si leggevano e si commentavano i testi sacri. Capi religiosi erano i sacerdoti che amministravano il culto nel tempio di Gerusalemme, riuniti in un consiglio detto Sinedrio, affiancati dai maestri o dottori della Legge e dagli scribi, con il compito eli interpretare i testi sacri. Con la perdita deli'indipendenza politica, dapprima con i Macedoni e in seguito con i Romani, gli ebrei si erano arroccati ancor più intorno alla loro religione, che non poteva essere inserita nel Pantheon delle divinità straniere. Il Dio della Bibbia, infatti, esigeva eli essere adorato come unico e condannava i culti degli altri popoli come idolatria. Per tale motivo gli ebrei mal si integrarono nell'Impero romano di cui non accettarono mai il politeismo né la tolleranza verso le altre religioni. In particolare, si rifiutarono di rendet·e culto all'itnperatore come se fosse un clio, attirandosi spesso la diffidenza e l'ostilità delle autorità romane. Tra gli ebrei, poi, alcuni erano disposti ad accettare l'autorità politica dei dominatori romani in cambio della libertà e dell'autonomia religiosa, altri invece, in nome della religione, si ribellavano al dominio straniero, proclamandosi popolo libero e scatenando la persecuzione dei Romani. Dopo la distruzione del tempio eli Gerusalemme da parte di Tito (70 d.C.) e la diaspora (dispersione) delle comunità ebraiche nel mondo ellenistico-romano, la storia dell'ebraismo è una storia di comunità di credenti. La distruzione del tempio di Gerusalemme segna l'esigenza di una profonda rivoluzione religiosa per Israele che vede la nascita di una dimensione più interiorizzata della religione, lo sforzo eli definire i li-

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LA FILOSOFIA NELL'ETÀ IMPERIALE E TARDO

Un Dio trascendente, che non può es!lel'e rappl'e!umtato

bri «canonici" (dal greco kanòn, «canna", ovvero «regola", «norma,), la cessazione del sacrificio cruento, l'emergere della religione come fattore di identità per un popolo ormai disperso in mezzo ad altre nazioni. Diverse erano le caratteristiche del Dio degli ebrei che lo ponevano in contrasto con gli dei delle nazioni confinanti: era un Dio trascendente, ovvero non identificabile con nessun elemento naturale, anzi era lui stesso che dal nulla aveva creato il mondo, come si poteva leggere nel primo libro della Bibbia, chiamato in greco Genesi, in cui si narrava l'origine del mondo, la creazione dell'uomo, il peccato originale, l'alleanza stretta da Dio con i patriarchi di Israele. Per sottolineare la trascendenza di Dio la fede ebraica ne impediva la rappresentazione in pitture o sculture (aniconismo), come invece accadeva normalmente presso gli altri popoli, e lo stesso nome di Dio Qahvè) veniva scritto con le sole lettere consonanti e mai pronunciato: per invocarlo si usavano altri appellativi, come Signore, oppure si nominavano i suoi attributi (onnipotente, misericordioso, santo ecc.). La trascendenza del nome di Dio costituiva l'oggetto di uno dei comandamenti dati a Mosè sul monte Sinai («non nominare il nome di Dio invano,), insieme al rigido monoteismo («non avrai altro Dio all'infuori di me,) e all'obbligo di santificare le feste religiose, insieme ad altri precetti di natura etica e civile. IL.:~ rBiOll~©it.:~

d(!:111 ©tri~tiii:m~~imrill ., Il cristianesimo si innesta nella lunga tradizione ebraica non solo radicandosi nella tradizione biblica, ma sviluppandosi proprio a partire dalla mentalità semitica, di cui assumerà alcune fondamentali caratteristiche. Su fatti storici (la vita, la predicazione, la morte e la risurrezione di Gesù di Nazareth) si fonda anche la nascita del cristianesimo, le cui dottrine potrebbero considerarsi assurde se private del loro dferimento alla realtà storica. Proprio ricordando l'incontro personale che ha avuto con Gesù, l'evangelista Giovanni apre la sua lettera ai cristiani d'Asia con queste parole:

Ciò che era .fin dét principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veGli apostoli Matteo, Andrea, Giovanni e Pietro, XII sec., mosaico di San Giusto (part.), Trieste.

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l. Filòsofia e religione nell'età imperiale

duta e di ciò rendiamo testimonianza. e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo an-

nunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. 1Gv 1,1-3

La teologia negli scritti delll/ttouo Testame11to

L'opera di riflessione dei primi cristiani

l contenuti della l'iuelazione cristiana

!be l111~:DVità del cristi0:1!1l1esim~:D • Il messaggio dei cristiani parla di una speranza offerta a tutti gli uomini che credono che Gesù, il Cristo (cioè l'unto di Dio, il suo eletto), è il Figlio di Dio, morto e risuscitato per liberare gli uomini dal male e dai peccati e clonare a tutti la risurrezione e la vita eterna. Questo annuncio è la «buona notizia.. (in greco eu-aggélion, evangelo), custodito dalle comunità dei credenti, trasmesso inizialmente per via orale e in seguito t;accolto nei testi canonici che costituiscono il Nuovo Testamento: i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere apostoliche, l'Apocalisse. Il Cristianesimo si diffonde rapidamente nel mondo antico intorno al bacino del Mediterraneo attraverso la vita delle sue comunità, le chiese (ecclesia in greco significa «assemblea, e chiese venivano chiamate le assemblee dei primi cristiani), e dei suoi testimoni (méirtyroi). Gli scritti del Nuovo Testamento non sono trattati eli teologia, ma nascono dalla necessità di trasmettet·e la fede e di ammaestrare o di incoraggiare le comunità cristiane appena nate, come appare evidente, ad esempio, nelle Lettere dell'apostolo Paolo. Tuttavia, il cristianesimo acquista subito anche un forte spessore teologico, cioè di riflessione su Dio, rispondendo al bisogno di rendere ragione della speranza che lo anima. Il cristianesimo delle prime comunità si caratterizza, infatti, per un determinato stile eli vita, per la missione di portare il Vangelo a tutte le genti e per la testimonianza della carità; nondimeno richiede uno sforzo di comprensione e eli intelligenza. All'annuncio della «buona notizia,, gli scritti del Nuovo Testamento accostano la t·iflessione teologica, già a partire dai testi più antichi (50-67 d.C. ca.), le Lettere eli Paolo, anteriori alla redazione dei Vangeli eli Matteo, Marco, Luca, Giovanni. Fin dal suo nascere, quindi, il cristianesimo si fa riflessione e cultum, adottando le lingue più diffuse nei luoghi in cui i cristiani si trovano: il greco, che nel Mediterraneo era, per eccellenza, la lingua colta, e presto anche il latino. Si sviluppa, così, una profonda opera di riflessione articolata in quattro direzioni: la comprensione dei contenuti della fede, l'esigenza eli collegarli e sistematizzarli, lo sforzo di motivarli, il dialogo con le culture vicine. Non facilmente, infatti, potevano essere compresi e accolti dai contemporanei gli assunti centrali che la rivelazione cristiana presentava, e che saranno oggetto di una lunga elaborazione teologica da parte della Chiesa: • • •

Difficoltà di tt·asmissilllm del cristianesimo

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il mistero di Dio che in Gesù ha assunto la natura umana (fuca:rnazionè-); il mistero della sua mot1:e e dsurt·ezione; il mistero della tdnità divina.

Quest'ultimo mistero racchiude la dottrina cristiana su Dio, la sua identità, il suo rapporto con l'uomo. Dio è Padre, creatore del mondo e di tutti gli esseri che vivono, tra cui l'uomo. Gesù è Figlio di Dio e Dio stesso incarnato per salvare l'umanità. Ma Dio è anche lo Spirito Santo, donato per sostenere gli apostoli, inviati (apo-stéllo, «in-

Incarnazione: termine che indica la discesa eli una potenza divina in un corpo animale o umano. Concetto centrale del credo cristiano, indica la «discesa" Dio che si fa incontro all'uomo per salvarlo, la seconda persona della Trinità, il L6gos, che «Si è fatto carne» nella persona eli Gesù.'

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dall'Areopago dell'apostolo Paolo

vio») a diffondere la buona notizia della salvezza, di conseguenza, Dio, pur essendo Uno, ha una sussistenza trinitaria e nel nome del Dio trinitario la salvezza è donata a tutte le genti, attraverso l'annuncio del Vangelo e il Battesimo. Un'importante testimonianza della difficoltà incontrata dalle prime comunità cristiane nel comunicare i motivi principali della nuova fede nel mondo greco-ellenistico la troviamo negli Atti degli Apostoli (At 17), là dove si racconta l'episodio in cui Paolo, giunto ad Atene, tiene un discorso ai cittadini ateniesi sulla collina dell'Areopago, di fronte all'Acropoli. Inizialmente Paolo si collega ad alcuni temi della religiosità e della filosofia ellenistiche, come la ricerca della vera nalura di Dio e l'esigenza di non identificare la divinità con nessuno degli elementi della natura. In particolare, egli richiama il tema, caro allo stoicismo, di un cosmo finalisticamente ordinato di cui l'uomo è parte consapevole e che rimanda a un artefice divino. Ma quando Paolo intende annunciare ai Greci che l'artefice del mondo si è rivelato attraverso un uomo, Gesù Cristo, che è morto e risorto e che giudicherà tutti alla fine dei tempi, gli uditori lo abbandonano schernendolo: Allora Paolo, ritto in mezzo all'areopago disse: Ateniesi sotto ogni punto di vista io vi trovo sommamente religiosi. Infatti, passando ed osservando i vostri monumenti sacri ho trovato anche un altare sul quale stava scritto: ·.fati~.l:l,el [(e'iji'gièJ.1.e], ossia alle «operazioni sul divino", attraverso riti e magie, che sfruttano il legame e il reciproco richiaino tra i livelli dell'esistenza in cui l'Uno stesso si dispiega, credendo di condizionare indit·ettamente la divinità, altrimenti impassibile. Il teurgo può operare su statue oppure con i veri nomi degli dei a lui noti che, essendo veri, sfuggono la convenzionalità del linguaggio e dicono direttamente l'essenza del dio, rendendola anzi presente. Scopo della teurgia era quello di innalzare gli uomini fino al contatto con gli dei attraverso opere di valore divino. In effetti, Giamblico subisce fortemente il fascino del mondo religioso egiziano e in questo interesse per il mondo egiziano è erede di una lunga tradizione che risale a Platone e Aristotele e non solo. L'adesione alle pratiche teurgiche dà un'evidente idea di una particolare sensibilità religiosa e del progressivo allontanamento rispetto alla via tracciata da Platino. Quest'ultimo non attribuiva affatto significato, per l'ascesa dell'anima, ai riti religiosi e alle pratiche magiche, perché l'identità più elevata dell'uomo non poteva essere influenzata esternamente con procedimenti fisici. L'avvicinamento e la contemplazione dell'Uno erano il frutto di uno sforzo etico e spirituale. E se già Porfirio attribuisce alla teurgia ùn significato purificatorio, almeno per le parti più basse dell'anima, Giamblico considera la teurgia un mezzo indispensabile per l'ascesa dell'anima al divino. In questo senso, lo scritto Sui misteri degli Egiziani, costituisce uno sviluppo de La vita pitagorica, dove si traccia un affascinante ritratto del filosofo Pitagora, radicato nella tradizione egiziana ed egli stesso dotato di poteri divini. Del resto, nel curricolo di formazione dei neoplatonici, come attesta un maestro della scuola ateniese, Siriano il Gmnde (che sarà a capo dell'Accademia fino al 437 d.C., anno della sua morte), oltre a due anni dedicati allo studio di Aristotele e alla meditazione sulle opere di Platone, avevano un ruolo determinante gli Inni or.fici e gli Oracoli caldaici, cioè due opet·e iniziatiche, la prima all'orfismo, la seconda alla religione dei Caldei, cioè dei Babilonesi, fondata sulla nozione eli triacle attraverso gli oracoli, ossia i responsi divini. Di quest'ultima opera era forse autore proprio un teurgo del II secolo d.C., Giuliano il Caldeo.

Giuliano e il sogno di una restaurazione pagana • I decenni successivi all'Editto di Milano (313 d.C.), con cui l'imperatore Costantino concesse ai cristiani piena libertà di culto, furono càratterizzati dalla cosiddetta Chiesa impedale, ovvero da un'istituzione che si trovò in una posizione di privilegio rispetto al potere dello Stato. Mentre la Chiesa, in accordo con la sua nuova immagine pubblica, cercava di definire sempre pil:1 la sua dottrina attraverso i concili, il paganesimo fu visto come un pe-

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Teurgia: dal greco theourghia, «fabbricazione eli dei", indica l'arte «tnagica, che riteneva eli poter influire sulla divinità, che si rendeva presente in qualche oggetto o statua. Diffusa in ambito neoplatonico, era fondata sulla conoscenza (gnosis) della vera divinità.

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lpazia, una donna filosofo

Permanenza, processione, conversione

Il male: un'illusione ottica

so del passato da cui gli imperatori volevano liberarsi. Il neoplatonismo, come le altre religioni e filosofie pagane, divenne culturalmente minoritario cosicché gli autori che ancora si rifacevano a questa corrente di pensiero accentuarono la loro polemica contro il cristianesimo, vagheggiando con nostalgia il tempo in cui la tradizione filosofica antica aveva ancora il primato. Tra di essi vi fu Flavio Claudio Giuliano, allievo della scuola neoplatonica di Pergamo, considerato dal filosofo illuminista Voltaire (16941778) addirittura il «p;;tdrino dei filosofi,, appassionato di cultura classica e di filosofia, imperatore romano dal360 al 363 d.C. Fu chiamato Giuliano l'Apostata dai cristiani (da apostasia, «abbandono della fede••), in particolare dal Padre della Chiesa e suo compagno di studi Gregorio di Nazianzio (329-390), per il suo allontanamento dalla fede cui era stato educato per volontà del cugino imperatore Costanzo II, che lo aveva tenuto prigioniero in Cappadocia, dopo aver sterminato il resto della famiglia. In realtà Giuliano, pur impegnandosi effettivamente in una confutazione del cristianesimo nell'opera Contro i cristiani, poi distrutta per ordine dell'imperatore cristiano Teodosio II, era egli stesso molto probabilmente ateo anche rispetto alle divinità pagane. Giuliano tentò di instaurare, sul modello dell'organizzazione ecclesiastica cristiana, un clero professionale di una religione di Stato tollerante e univet·sale, in grado di tenere coeso l'Impero, cioè in cui tutti i culti, compreso quello cristiano, rivestissero un ruolo, senza che nessuno prevaricasse. A tale scopo richiamò nella propria sede chiunque fosse stato rimosso per motivi religiosi, ma il suo progetto di restaurare l'antico politeismo romano ebbe vita breve e terminò con la sua morte. Il clima di conflitto tra la cultura pagana antica e la nuova cultura cristiana tra il IV e V secolo d.C. appare evidente anche nel caso della filosofa e matematica neoplatonica Ipazia, figlia di Teone di Alessandria (IV sec. d.C.), matematico e astronomo insigne, attivo nell'ultima stagione del Museo di Alessandria. Sebbene donna, Ipazia insegnò pubblicamente filosofia e a lei si devono numerose geniali invenzioni, tra cui il planisfero e l'astrolabio. Fu uccisa ad Alessandria nel 415 d.C. da alcuni fanatici istigati dal vescovo Cirillo, che la accusava di dividere il popolo dei fedeli con i suoi insegnamenti circa la distinzione tra fede e ragione. Il suo discepolo, Sinesio di Cirene (370-413 d.C.), è autore del Diane, in cui celebra il valore della cultura e della ragione contro ogni forma di entusiasmo, pagano e cristiano. Acclamato vescovo di Tolemaide in Libia, rimase sospeso tra la tradizione ellenica e quella cristiana a cui aderì in modo problematico e con diverse riserve.

la scuola neoplatonica di Atene: IProclo e Simplicio • Del neoplatonismo del V secolo d.C., Proclo è senz'altro la figura di maggior rilievo. Nato a Costantinopoli nel 410 e morto ad Atene nel 485 d.C., è autore della Teologia di Platone, degli Elementi di teologia, oltre che di commenti ai dialoghi platonici e agli Elementi di Euclide. La sua vita è narrata dal discepolo Marino, che si sofferma sulla sua bellezza, la sua memoria e la sua capacità di lavoro. La sua versione del neoplatonismo rappresenta un ritorno a Platino rispetto alla questione dell'immanenza o trascendenza dell'Uno, perché egli rifiuta l'ipostasi oltre l'Uno immaginata da Giamblico e accolta invece da un successore di Frodo stesso, Damascio di Damasco ( 480-seconda metà del VI sec. d.C.). Inoltre Frodo precisa i termini della processione dall'Uno, distinguendo la permanenza (mone) in cui l'Uno è solo con se stesso nella propria perfezione; la pt·ocessione Cpr6odos) in cui l'Uno esce da sé; e la conversione (epistrophe), in cui la realtà si ricongiunge finalmente al proprio principio. Affrontando il problema della compatibilità dell'esistenza del male con la provvidenza divina, Frodo cerca una risposta inserendosi nella tradizione platonica e dando

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una risposta ottimistica: il male che ha una qualche forma di esistenza è però sempre commisto al bene e docile al disegno pt·ovvidenziale. Il male è quindi un'illusione ottica, ridotta, della realtà, che richiede invece uno sguardo più universale, in cui il male è creatura infima del bene.

Se è giusto ciò che diciamo e se tutto proviene dalla provvidenza, allora anche il male trova posto tra gli enti. E così si può dire che gli dei creano anche il male ma in quanto bene e lo conoscono in quanto hanno di tutte le cose una conoscenza unitaria: conoscono infatti nel modo dell'indivisibile le cose divisibili, nel modo del bene i mali, nel modo dell'unità la molteplicità. Frocio, La provvidenza e la libertà dell'uomo, p. 207

Simtllicio e il commento ad Aristotele

Macrobio: il sogno di Scipione

Marziano Capello e le a••ti libe•·ali

Tra gli ultimi esponenti del neoplatonismo vi fu Simplicio, nato in Cilicia e vissuto nel VI secolo d.C., che vide la chiusura della scuola neoplatonica ateniese da parte di Giustiniano. Autore di importanti commenti alle opere di Aristotele, tanto che Galileo Galilei (1564-1642), giocando anche sul significato letterale, dette il suo nome al personaggio che, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632), interpreta il difensore dell'autorità di Aristotele, fu inoltre protagonista di una celebre disputa sull'etet·nità del mondo, che egli difese contro il creazionismo del neoplatonico cristiano Giovanni Filopono (490-570), detto Giovanni il Grammatico. Quest'ultimo fu un illustre commentatore di Aristotele e fu detto anche Triteita, in quanto iniziatore di una concezione della Trinità come costituita da tre dei e non da un Dio unico in tre persone, considerata eretica dalla Chiesa cattolica. La sua argomentazione è principalmente di ispirazione neoplatonica e nei suoi commenti ad Aristotele sviluppò una dottrina sulla creazione del mondo in polemica con alcune teorie aristoteliche. BI neopiatonism(ll latino • Temi e suggestioni del neoplatonismo pagano furono ripresi anche nel mondo latino da parte di eruditi come Macrobio e Marziano Capella e di un commentatore, Calcidio. Di Ambrosia Teodosio Macrobio, forse di origine africana, vissuto a Roma tra il IV e il V secolo, sopravvivono alcuni testi tra cui un Commentarius in Somnium Scipionis, un commento al sogno di Scipione così come è raccontato da Cicerone nel suo De republica. Scipione Emiliano sogna lo spirito dello zio Scipione Africano che gli preannuncia il premio celeste per i servitori della patria, all'interno di una descrizione dell'universo e del posto che l'uomo e la terra vi occupano. Macrobio non commenta esaurientemente il testo di Cicerone, ma si addentra in una serie di interpretazioni eli stampo neoplatonico sui sogni, sulle proprietà mistiche dei numeri, sulla natura dell'anima, sull'astronomia e sulla musica. Un posto singolare tra i neoplatonici di lingua latina occupa Mineo Felice Marziano Capella, cartaginese, vissuto nella seconda metà del IV secolo d.C., autore eli un'opera in prosa e in versi molto influente su tutta la cultura medievale, intitolata Le Nozze di Mercurio e Filologia. In essa si immagina, con intenti allegorici ed enciclopedici, che il clio dell'eloquenza Mercurio sposi Filologia, il sapere, contornata dalle sette Arti liberali: Grammatica, Retorica, Logica o Dialettica, Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia. Quest'opera, importante per la trasmissione degli studi organizzati nelle sette discipline o arti liberali, sarà diffusa solo in parte, fino alla scoperta del testo integrale nel XIX secolo. A Calcidio, vissuto anch'egli tra IV e V secolo d.C., si deve invece un commento al Timeo, determinante per la conoscenza di Platone fino al XII secolo.

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IL FILO CEL PENSIERO

L'età imperiale e Plotino filosofia e religione nell'età imperiale m

La filosofia epicurea si diffuse a Roma soprattutto per opera di Lucrezio, poeta, filosofo e autore del De rerum natura, poema in versi per divulgare gli insegnamenti di Epicuro. Per Lucrezio la dottrina epicurea è l'unico appiglio sicuro per l'uomo, altrimenti travolto dalle vicende della natura e della storia. Rifiutando la religione come vuota superstizione, il saggio contempla il rovinoso spettacolo della vita degli altri uomini, paragonato ad un naufragio, con la sottile beatitudine di sentirsi al riparo.

ti gli uomini che credono nella personalità storica di Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per liberare gli uomini dal peccato e dalla morte e donare loro la vita eterna. L'annuncio cristiano è custodito dalle comunità di credenti (chiese) e trasferito nei testi del Nuovo Testamento (nuova alleanza) che si va ad aggiungere, per i cristiani, al Vecchio, cioè ai testi degli ebrei. lill

m Contemporaneamente a Lucrezio nasce la tradizione filosofica di lingua latina, con la traduzione del vo-

cabolario filosofico dei Greci ad opera di filosofi e di personalità della cultura sia pagane che cristiane. Tra questi, Marco Tullio Cicerone si dedicò allo studio delle dottrine filosofiche greche contribuendo con i suoi scritti a creare un eclettismo filosofico in cui raccolse il meglio del platonismo e dello stoicismo, polemizzando contro il materialismo epicureo. Cicerone coniò anche una dottrina dello Stato ideale sul modello della repubblica senatoria romana.

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Nell'Impero romano si diffonde anche la ·fede ebraico-cristiana. La Bibbia parla di un Dio solo (monoteismo), trascendente, personale, onnisciente e onnipotente, creatore dell'universo dal nulla. Il Dio biblico ha dato inizio a una storia di salvezza scegliendo un popolo, Israele, come primo destinatario della sua rivelazione e alleanza. Queste credenze si conciliavano solo in parte con la cultura filosofica greco-romana dove, ad esempio, non esisteva l'idea della creazione dal nulla, né quella di un Dio personale. Inoltre gli ebrei, a causa del loro monoteismo, non accettavano il culto degli dei stranieri né quello dell'imperatore e quindi non erano assimilabili, sotto il profilo religioso, agli altri popoli dell'Impero romano.

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Dall'ebraismo nasce il cristianesimo, il cui messaggio «la buona notizia» parla di una speranza offerta a tut-

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Il confronto con la mentalità greco-romana si svolse secondo due direttive: la 'ricerca di un terreno comune di intesa, ad esempio sulla credenza in un Artefice divino dell'universo, e la sottolineatura delle immancabili diversità, per cui l'apostolo Paolo parlerà di follia del cristianesimo.

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Durante la sua diffusione nel mondo greco-romano, il cristianesimo si trasforma in riflessione e cultura, adottando le lingue straniere, soprattutto il greco, e cercando la comprensione dei contenuti della fede e il dialogo con le culture vicine. l suoi contenuti dottrinali sono l'incarnazione di Dio nell'uomo Gesù, la sua morte e risurrezione, la trinità divina, per cui Dio è uno ma anche Padre, Figlio e Spirito Santo.

Figura di spicco del mondo ebraico-ellenistico è Filone di Alessandria, autore di un progetto di mediazione culturale tra la fede della Bibbia e le filosofie ellenistiche. Filone cercò di interpretare allegoricamente la Bibbia per trovare il senso riposto della scrittura sacra, dando vita così a una dottrina filosoficamente accettabile anche da chi non apparteneva alla tradizione degli ebrei. Per Filone Dio è un essere incorporeo e unico, creatore del mondo; tuttavia non agisce direttamente su di esso, ma attraverso varie potenze o attività intermediarie. La più importante è il L6gos o intelligenza divina, luogo delle idee su cui le cose sono improntate. L'uomo è per Filone composto di corpo, mente e spirito (pneuma). Con l'esercizio della mente l'uomo si distacca dalla vita materiale, ma si può unire a Dio soltanto attraverso il pneuma, quando questo è ispirato direttamente da Dio.



• Con la moltiplicazione dei centri dell'attività filosofica nell'Impero romano, ad Atene il Liceo aristotelico entra in una fase di decadenza speculativa, limitandosi all'enciclopedismo e all'erudizione. Sono tuttavia pubblicate le opere del maestro da parte di Andronico di Rodi (l secolo) che le ordina secondo lo schema con cui ancora oggi le conosciamo. L'edizione di Andronico dette impulso a una nuova lettura dei testi aristotelici da cui nacquero commenti significativi come quello di Alessandro di Afrodisiache interpreta l'intelletto agente o produttivo di Aristotele come un'essenza separata dall'anima e divina.

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m La prima ipostasi è l'Uno, cioè il principio supremo

in cui tutto in effetti consiste. Esso è assolutamente semplice, cioè esclude la molteplicità, ed è trascendente, ovvero al di là dell'essere, di ciò che esiste ve-

ramente, ossia, secondo la dottrina platonica, al di là delle idee. Ili

L'Uno è in sé inconoscibile e quindi ineffabile, nel senso che non si può dirne, a rigore, nulla. Tuttavia è possibile accostarsi ad esso con la ragione attraverso la via negativa, cioè negandone sistematicamente ogni attributo e determinazione. Per cui esso risulta illimitato, privo di figura, privo di parti, senza luogo, immobile, ma nemmeno in quiete, fuori del tempo, fuori dell'essere e anzi addirittura non uno. Esso non è nemmeno pensiero di pensiero come il Dio di Aristotele, perché altrimenti sarebbe molteplice.

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Possiamo tentare di dire l'Uno usando espressioni come Bene o Dio, ma non con la pretesa di dire effettivamente qualcosa, semmai solo per esaltarne la potenza e la maestà.

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L'Uno, pur essendo trascendente, è immanente alle cose, perché le ipostasi successive sono effetto dell'Uno, ma esso non è la causa; per questo paradosso, le ipostasi successive sono un'emanazione, cioè uno svolgimento, uno sviluppo dell'Uno, non in senso fisico, ma come processione eterna e necessaria, un

• La tradizione platonica invece si sviluppa ad Alessandria d'Egitto fino ali li secolo con il cosiddetto medio platonismo. Centro di interesse dei medio platonici è il rapporto di dio con il mondo, tra l'uno e i molti, dove per dio si intende una Mente suprema, principio di tutta la realtà. l medio platonici spiegano il rapporto tra la Mente e il mondo attraverso l'azione di potenze intermedie, chiamate in vario modo, come Seconda Mente o Anima del mondo. • Ai medio platonici si aggiungono i neopitagorici che, nel tentativo di rilanciare culturalmente il pitagorismo, interpretano Dio come l'uno o la monade e trasformano Pitagora in una figura leggendaria. Figura isolata tra i medio platonici è Plutarco di Cheronea, autore di scritti morali sui vizi e sulle virtù degli uomini, difensore della tradizione filosofica e religiosa dei Greci, propugnatore di una religione dualista in cui Dio è identificato con il Bene platonico e il mondo è plasmato da un'Anima cosmica artefice delle cose sensibili e del male. Plutarco è anche autore di una demonologia, cioè di una teoria che tra Dio e il mondo ammette una serie di demoni, cioè di spiriti intermedi.

Plotino e il neoplatonismo 1

Con neoplatonismo si indica l'ultima fase del platonismo antico, dopo il platonismo di Platone e dell'Accademia, e il cosiddetto medio platonismo. Il neoplatonismo è la filosofia più influente e diffusa della tarda antichità. Ne fu iniziatore Plotin_o, che offre la propria speculazione come un commento a Platone.

Plotino dà un'interpretazione antologica e gerarchica di Platone, sostenendo un'articolazione dell'universo in tre livelli di realtà o ipostasi, iA cui la molteplicità è nulla nel primo livello e aumenta gradualmente nei successivi.

uscire permanendo, come il sole irradia la luce, un profumo profuma, una radice genera. Non si tratta di creazione, come nel rapporto tra il Dio giudaico-cristiano e il mondo, perché la creazione implica un frattura tra Dio e mondo, compensata da un atto di volontà da parte di Dio stesso, e precisamente di amore. Ma l'Uno non è volontà, perché non ha nulla da volere fuori di sé. m La seconda ipostasi è l'Essere, cioè l'universo intelli-

gibile delle idee platoniche, modelli viventi, cioè comunicanti, delle cose del mondo sensibile. Essa ha di se stessa un'intuizione immediata, in un perfetta coincidenza di essere e pensiero, ed è perciò Mente.

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IL FILO DEL PENSIERO

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La terza ipostasi è l'Anima, che con il proprio versante superiore guarda l'essere della Mente, cioè le idee, e con il versante inferiore, o Anima del mondo, trasmette la vita e l'essere delle idee alle cose sensibili e materiali, in forma di ragioni seminali, cioè vita disseminata.

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La materia è, nell'Anima, il momento di massima distanza dall'Uno, ma è comunque implicita nell'Uno, come l'ombra rispetto alla luce, perché nessuno modo di esistere è fuori dell'Uno, cioè dell'unica realtà.

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L'Anima contiene le anime individuali e come esse ragiona discorsivamente, cioè attraverso passaggi, mentre la Mente intuisce direttamente.

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Proprio l'anima individuale, resa consapevole dalla filosofia, può rendersi protagonista di una faticosa e meravigliosa conversione all'Uno, cioè una risalita alla

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sua fonte. Per questo deve purificarsi moralmente dominando le passioni che la incatenano al mondo ma~ teriale, deve dedicarsi alla contemplazione estetica alimentando, attraverso la fruizione delle cose belle, 1~ nostalgia della bellezza assoluta dell'Uno, deve dedicarsi alla dialettica che innalza almeno alle idee. llD

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Ma giunta alle soglie dell'Uno l'anima è chiamata ad un'esperienza strordinaria di estasi- che Platino visse quattro volte- cioè di uscita da sé, dai propri confini, per toccare direttamente l'Uno, e diventarlo. Proclo fu tra i maggiori neoplatonici posteriori a Piotino e a lui si deve un'efficace precisazione della dottrina della processione e un intervento sulla questione della trascendenza dell'Uno, contrario alle posizioni di altri neoplatonici che, per salvaguardarla, avevano sentito il bisogno di introdurre addirittura un'ipostasi sopra l'Uno, assolutmente trascendente.

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ost tno e 1 a della hiesa

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è un personaggio che ha sempre affascinato le menti europee e che, per il luogo geografico della sua nascita, non è propriamente un europeo. E questo particolare, appunto, sarà di utilità all'Europa. Questo grande uomo è Sant'Agostino. La sua vita, resa trasparente~dalle Confessioni, ci offre, nella sua concrezione personale, il transito dal mondo antico a quello moderno. Le sue Confessioni, in verità, ci mostrano allo stato di diafanità il doppio processo coincidente di una conversione personale che al tempo stesso è storica. La storia stessa si confessa in lui. Infatti ciò che cambia non è tanto l'anima di Sant'Agostino, ma l'anima del mondo antico che si trasforma in quello nuovo. È una conversione storica o, se si preferisce, l'uscita da una crisi, dalla crisi in cui il mondo antico-filosofia greca e potere romano- muore per sopravvivere, è vero, ma in altra forma.

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M. Zambrano, L'agonia dell'Europa, p. 73

1.

Il transito dal mondo antico a quello moderno la ricerca insaziabile della sapienza • Il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar

Il primnto dell'uomo interim•e

Il rapporto con la cnltura classica

0905-1988) ha messo ben in luce la caratteristica particolare della riflessione di Agostino: pensare e parlare «davanti a Dio", piuttosto che parlare «SU Dio». Ma la teologia di Agostino arriva ad essere un dialogo «davanti a Dio» solo al culmine di una lunga e sofferta ricerca. Agostino condivide con molti filosofi della tradizione greca la domanda sul senso della vita e la ricerca della felicità. Ma dove trovare la felicità? Per Agostino, la felicità si trova nella sapienza, ovvero nel possesso di una conoscenza in grado di rispondere all'aspirazione dell'uomo alla beatitudine. Alla fine eli un lungo e tormentato itinerario di ricerca interiore Agostino comprenderà che la sapienza che non è altro che uno dei nomi eli Dio, unico bene che può assicurare la felicità. La sapienza, dunque, sarà per Agostino conoscenza, ma anche unione di vita con Dio, ben oltre una conoscenza puramente intellettuale. · In questa ricerca, il filosofo di Ippona scopre che la verità, capace eli saziare la nostra sete eli felicità, non deve essere cercata fuori dell'uomo perché essa '. Infatti se faceva qualcosa, che altro faceva, se non una creatura? Oh, se sapessi quanto desidero con mio vantaggio di sapere, allo stesso modo come so che non esisteva nessuna creatura avanti la prima creatura! Se qualche spirito leggero, vagolando fra le immagini del passato, si stupisce che tu, Dio che tutto puoi e tutto crei e tutto tieni, autore del cielo e della terra, ti sia astenuto da tanto operare, prima di una tale creazione, per innumerevoli secoli, si desti e osservi che il suo stupore è infondato. Come potevano passare innumerevoli secoli, se non li avessi creati tu, autore e iniziatore di tutti i secoli? Come sarebbe esistito un tempo non iniziato da te? E come sarebbe trascorso, se non fosse mai esistito? Tu dunque sei l'iniziatore di ogni tempo, e se ci fu un tempo prima che tu creassi il cielo e la terra, non si può dire che ti astenevi dall'operare. Anche quel tempo era opera tua, e non poterono trascorrere tempi prima che tu avessi creato il tempo. Se poi prima del cielo e della terra non esisteva tempo, perché chiedere cosa facevi allora? Non esisteva un allora dove non esisteva un tempo. Agostino, Confessioni, XI, 12

Il tempo è distensione dell'anima

Indicare un «prima, significa presupporre il tempo, mentre il mondo è creato da Dio con il tempo (cum tempore). Il mondo infatti è movimento, cioè successione di stati, e senza successione non vi sarebbe tempo. Della successione, tuttavia, occorre qualcosa che si accorga rimanendo fermo, perché se tutto si muovesse non vi sarebbe né percezione né misura della durata del tempo. Se qualcosa di stabile non si accorgesse del tempo, in sé il tempo non esisterebbe affatto perché il passato non è più, il presente, consumandosi nell'istante, non ha durata, e il futuro non è ancora. Tale elemento stabile è l'anima, per cui in effetti il tempo è essenziahnente dispiegamento della parte eccellente dell'anima, cioè della memoria (distensio animi). È l'anima che fa il passato rendendolo presente nel ricordo come presente del passato Cpraesens praeteriti); è l'anima che fa il presente nell'attenzione dell'intuito diretto (contuitus) come presente del presente Cpraesens praesentis); ed è ancora l'anima che fa presente il futuro nell'aspettativa come presente del futuro Cpraesens futuri). Queste articolazioni del presente attestano il fatto che l'anima è essenziahnente memoda: memoria di sensazioni passate da ricordare, memoria come essere presente dell'anima a se stessa e a Dio che la abita, ma anche, paradossalmente, memoria di ciò che ancora non è accaduto nel tempo.

Il problema del male [Qla doue Yiene il m~!e? • Una delle questioni che più impegnarono Agostino, fin dalla lettura dell'Ortensio ciceroniano, è quella dell'ontologia del male: cos'è in sé il male? La risposta alla domanda «Se esiste Dio, da dove viene il male?" (Si Deus est, unde malum?) può indurre a negare l'esistenza di Dio, e quindi portare alla disperazione.

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Il male come p1•iuoziune

di lume

Dopo avere aderito alla dottrina manichea che considera il Male un principio eternamente contrapposto a quello del Bene, Agostino, attraverso la riflessione dei neoplatonici e in particolare di Plotino, giunge alla conclusione che il male in sé non esiste, pet·ché il mondo è stato ct·eato da Dio che è infinitamente buono. Così Agostino spiega l'importanza decisiva di questa scoperta in un passo delle Confessioni:

Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è danno, il che non può essere, o, com 'è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma può esservi asserzione più mostruosa diquesta, che una. cosa è divenuta migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non esisteranno del tutto; dunque, .fìnché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio .fatto tutte le cose buone assai. Agostino, Confessioni, VII, 12

Tr•e nccezil.mi di male

Approdato alla conclusione che il male non è un principio positivo, ma è una corruzione delle realtà create da Dio, quindi pt'ivazione di bene, Agostino distingue tre . accezioni del male: l) il male morale è il peccato: a partire da Adamo, è il frutto del cattivo uso di ciò che,

dopo il peccato originale, resta della libertà che in principio Dio donò agli uomini, ossia il libero arbitrio, per cui i peccatori spesso antepongono beni finiti all'infinito Bene di Dio, secondo un amore che non rispetta l'ordine (amor inordinatus); 2) il male fisico è la pena, come conseguenza oggettiva del male morale che ha corrotto la natura umana sottoponendola alla motte e al dolore, e cui volle assoggettarsi, pur innocente, anche Gesù Cristo, in quanto vero uomo; 3) le imperfezioni che si tt·ovano nella natum :ftnita che, per Agostino, vanno ossetvate non come un male positivo, ma come un difetto di bene Cde.fèctus boni), cioè come mancanza di quella pienezza di essere che appartiene solo al Creatore. Questo tipo di male sarà denominato male metafisico dal filosofo G.W. Leibniz (1646-1716) che riprenderà a suo modo la teoria agostiniana per giustificare la presenza del male nell'opera della creazione. ili11 non è responsabile del male

Di nessuno dei tre tipi di male Dio può essere ritenuto responsabile: del male morale è colpevole l'uomo, il male fisico è giusta punizione del peccato, il male metafisica frutto della distanza delle creature dal Creatore. Quest'ultima riflessione induce Agostino a considerare il male non una causa efficiente, produttiva (causa r?;/Jìciens), bensì

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una causa deficiente, mancante (causa deficiens). Esistono tuttavia due tipi di mancanza, una che spetta alla creatura per natm·a (ad esempio, all'uomo mancano le ali per volare, ma questo non è considerato un male), ed una che accade pet• accidente in una creatura cui spetterebbe una certa perfezione (come ad esempio la mancanza della vista in un cieco). Solo di quest'ultima mancanza si può dire che sia un male. Tuttavia, Agostino, riprendendo un argomento degli stoici, afferma che anche ciò che da un punto di vista soggettivo può essere ritenuto un male concorre in realtà alla perfezione com-' plessiva del tutto in base a un disegno della provvidenza divina. A questa si deve aggiungere un'altra tesi: Dio, nella sua infinita bontà e saggezza, ha ritenuto migliore la possibilità di trarre dal male il bene piuttosto che creare un mondo dove il male fosse completamente assente.

Il male deriva da

...........~,... morale --------~... cattivo uso [peccato dell'uomo) del libero arbitrio

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da cu1 c~nsegue

può essere

Il male _.:._____1-_,.._fisico [dolore, morte)

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La dott••ino del peccato Ol'iginale: pessimismo antrl'llllllogico

(metafisica) = privazione di bene (imperfezione della creatura)

la dottrina della Grazia • Nella dura polemica contro Pelagio, Agostino prosegue la riflessione sul male. L'eresia cristiana pelagiana, molto diffusa in Africa dove il monaco irlandese Pelagio era riparato dopo il sacco di Roma del 410 d.C., sosteneva infatti che il peccato di Adamo è l'esempio di ciò che ognuno fa quando pecca (tutti hanno peccato in Adamo, come afferma san Paolo), e che in sé ricade soltanto sul primo uomo che lo commise e non sull'intera stirpe umana; quindi il Battesimo non lava il peccato originale; i neonati sono innocenti, amici di Dio e raggiungono la vita eterna anche non battezzati; l'uomo può vincere il peccato con le sue sole forze, senza il soccorso della Grazia divina; la morte di Cristo sulla Croce non è, come per i cattolici, redenzione nel senso di riscatto pagato da Cristo, vero uomo e vero Dio, per rimediare una colpa infinita verso Dio che l'uomo, in quanto finito, non avrebbe potuto in nessun modo colmare, essa è piuttosto un esempio sublime di amore, insieme alla Legge comandata dalla Bibbia e al libero arbitrio stesso. Per Agostino, invece, il peccato di Adamo è dcaduto sull'intera umanità, facendone una massa giustamente dannata (massa peccati, iniquitatis, irae et perditionis) indegna dei doni soprannaturali che Dio aveva elargito al primo uomo, cioè l'esenzione dalla morte Cposse non mori), la liberazione dall'infermità e dal dolore, la scienza in~

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.. • .LA FILOSOFIA NELL'ETA IMI'EFIIAI.E

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La questione della predestinazione

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La volontà è mossa dall'amore

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fusa e l'impossibilità dell'errore, il dominio sui sensi, l'immagine e somiglianza di Dio e la libertà perfetta che, pur potendo scegliere tra il bene e il male, inclina al bene (posse non peccare). Resta all'uomo il libero arbitdo, ma egli non può non peccat·e (non posse non peccare), e anzi inclinerebbe irrimediabilmente al male senza il soccorso gratuito della Grazia, offerto dalla misericordia divina, cui l'uomo ha il dovere di collaborare, ma non il merito. Non solo, ma Dio conoscendo da sempre, attraverso la prescienza, la maggioranza di quanti, nel Giudizio universale, giustamente si danneranno e la vasta minoranza di quanti per la sua misericordia si salveranno, ha predisposto i mezzi per la salvezza di questi ultimi (fede, speranza e perseveranza) e il conseguimento della definitiva libertà maggiore (libertas maior), che non opera che il bene (non posse peccare). Prescienza e preparazione dei mezzi configurano una vera e propria pt·edestinazione, dottrina che è stata attribuita ad Agostino ma che a ben vedere costituisce solo uno dei due poli tra cui oscilla il suo pensiero. Sul mistero della predestinazione uno spirito pensoso come quello di Agostino non poteva non soffermarsi a lungo. Dal principio teologico dell'onnipotenza divina consegue che Dio può, mantenendo intatta la nostra libertà, preset·vat·e l'uomo dal compiere il male o mutare ogni volere umano dall'inclinazione al male verso il bene. Perché allora non si serve di questo potere a favore di tutti gli uomini, che sono sue creature? Se nessuno si salva che non abbia ricevuto i doni della fede e della perseveranza finale, perché non tutti li ricevono, quando Cristo è morto perché tutti si salvino? Contro gli smarrimenti della ragione Agostino trova rifugio nel porto della fede che lo porta a fissare i termini del mistero senza scioglierne l'enigma. L'amore divino verso gli uomini è garanzia dell'universalità della redenzione che Dio offre a tutti senza distinzioni. Cristo, infatti, è morto per tutti, come scrive l'apostolo Paolo, e quelli che si perdono devono accusare soltanto la loro colpevolezza. Ma non si può ignorare neppure la predilezione di Dio verso gli eletti e il dovere di ringraziare Dio da parte eli quelli che si salvano, al cui misericordioso aiuto debbono la salvezza.

Il bene, la felicità, la storia lb'Uuil©iim:llè!D@B'l® ocll®!i©J Y@imlli;oJJ Y®H'§©l ii ibl®m~ • Il fine ultimo cui tende il desiderio dell'uomo è la felicità. Ora accade che il desiderio spinga l'uomo all'inseguimento eli certi beni, ma questi sono sempre sbagliati. La natura umana, infatti, contaminata dal peccato eli Adamo, è incline all'errore, cioè al male. Occorre dunque che la volontà (voluntas), ovvero la capacità eli scegliere l'oggetto desiderato e di mettere in atto tutte le energie per raggiungerlo, sia liberata dall'influsso del peccato che la spinge a scegliere i beni sbagliati. Per questo occorre l'intervento della Grazia divina che dona all'uomo la vera libertà, la libet·tà di non peccat·e. La forza propulsiva della volontà è il desiderio, che Agostino chiama amore. L'amote muove la volontà e l'uomo intero facendolo inclinare verso l'oggetto amato come un corpo tende a prendere la direzione cui lo spinge il proprio peso. L'uomo dopo il peccato di Adamo è portato ad amare le cose create, transitorie e parziali, che non potranno mai dargli la felicità assoluta che egli tuttavia desidera. La sua volontà corrotta dal peccato sceglie i beni materiali e non quelli spirituali lasciando il desiderio eli felicità insoddisfatto. La felicità si potrà ottenere allora spostando l'amore dagli oggetti inferiori a quelli superiori, dai beni terreni e transitori a quelli soprannaturali ed eterni. Agostino non elice che non bisogna amare le creature, ma che esse non possono diventare l'oggetto primo

. 3. Agostino e i Padri della Chiesa

La vil•tù è l'ordine dell'amore

La P•·ovuilhmza divina agisce nella stor•ia

Tempo ciclico e tempo linea1•e

Città celeste e città terrena

Le due città nel cuore

dell'uomo

ed esclusivo dell'amore. Per essere felice l'uomo deve orientare il propdo amot·e vet·so Dio. E soltanto la Grazia permette all'uomo di amare nel modo corretto, per primo il Creatore e poi le creature, e di vivere per conseguenza nel ri10do felice. Se l'uomo ama i beni terreni e parziali, riponendo in questi la speranza della propria felicità, è destinato ad inseguire l'impossibile. Occorre invece che egli metta nel giusto ordine gli oggetti del proprio amore. Dei beni creati l'uomo può usare Cuti) per giungere a Dio, ma non può fruire (jrui) per essere felice. Soltanto Dio, infatti, è il bene la cui fruizione rende felici. Così Agostino stabilisce nella Città di Dio che «una vera definizione della virtù sia: essa è l'ordine dell'amore Cardo amoris)». La vera felicità consiste quindi nel conoscere Dio ed amarlo. Ma soltanto Dio può donare, mediante la Grazia, la gioia di sceglierlo liberamente e di preferirlo acl ogni altra cosa. ~01 {f:;if;'6i!J ff:!Ji {Q)i!f»: l\J.Iill120-30. Il tema affrontato successivamente, se cioè la felicità si accresca con il tempo, era stato a lungo dibattuto nelle scuole filosofiche, e proprio dal confronto critico con aristotelici, stoici, cirenaici ed epicurei scaturisce la risposta di Platino: la felicità non si accresce col tempo, poiché essa si realizza integralmente nel tempo presente e, a maggior ragione, nel presente eterno e sovratemporale dell'intelligibile ~>131-62. La felicità, in quanto godimento del tempo presente, esclude il tempo. La vera felicità può estendersi perciò fuori dal tempo, nel profondo della propria interiorità. Il metodo con cui Platino procede nella trattazione segue lo schema delle sue lezioni nella scuola: dapprima espone le obiezioni degli avversari o di coloro che hanno pensato diversamente e subito dopo vi risponde con sue argomentazioni. Infine Platino rifiuta l'idea che siano le azioni che facciamo a rendere l'uomo felice: la felicità risiede nella disposizione dell'animo e nulla ha a che vedere con quello che l'uomo compie esteriormente 1>163-80.

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Chi dice che la felicità risulta di molti anni e azioni, la compone di esseri che non sono più, di avvenimenti passati e dell'istante presente che è unico. Per questo noi ci siamo chiesti se essere felici per un tempo maggiore volesse dire essere felici di pi1:t, dato che la felicità è presente in ogni istante. Ora si deve sapere se le azioni numerose permesse da una maggiore durata rendano anche la felicità maggiore. Anzitutto, si può essere felici anche non agendo, e non meno, ma più che agendo; e poi le azioni non producono il bene per se stesse, poiché sono le nostre disposizioni che rendono oneste le azioni; e il saggio quando agisce raccoglie il frutto non delle azioni, né degli avvenimenti, ma di ciò che possiede intimamente. La salvezza della patria può venire anche da un malvagio ed essa è così utile come se fosse conseguita da un altro. Non l'accadimento produce il piacere proprio dell'uomo felice, ma la disposizione dell'anima crea la felicità e il piacere conseguente. Porre la felicità nelle azioni è porla in cose estranee alla virtù e all'anima; l'atto dell'anima consiste nell'essere saggio ed esso è un atto interiore a lei. Qui sta la felicità.

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Platino, Enneadi, I, 4,4; 5,1-3, 8,10, pp.101, 119, 123, 125

Giamblico: insufficienza della filosofia per trovare la felicità Il siriano Giamblico studia con viva partecipazione la religiosità egiziana, frutto di una civiltà e di una cultura cui i Greci avevano sempre guardato con ammirazione e attenzione. Specialmente con il suo trattato Sui misteri degli Egiziani, Giamblico è un testimone rilevante di questo interesse per la tradizione egiziana che egli interroga per enuclearvi quegli aspetti misterici funzionali a una filosofia aperta alla problematica religiosa, come il neoplatonismo. Nel X libro del suo trattato, riprende un interrogativo che già Porfirio si era posto, ovvero se sia possibile trovare la felicità indipendentemente dalla religione iii:!~. Per Giamblico, se il bene nella sua perfezione è divino, la religione costituisce il fine di tutto quello che è buono e la via privilegiata verso la felicità ~>11-12. Nella religione si può contemplare la verità e raggiungere la conoscenza spirituale, e mediante la conoscenza degli dei, noi torniamo a noi stessi e impariamo a conoscere noi stessi ~>112-15. Una volta fissato lo sguardo sulle divinità- che Giamblico fa coincidere, filosoficamente, con le sostanze intelligibili- non ci sarà più bisogno né di rimproverare la debolezza umana a sentirsi lusingati dagli elogi degli altri, né di deplorare la tendenza dell'uomo a fantasticare su cose che non esistono: la mente sarà, infatti, rivolta verso l'alto, sulle realtà vere, e non potrà più né cadere in basso né vagare nell'irrealtà della fantasia ~>116-26. Il culto degli dei, allora, sarà necessario sia alla teologia (studio delle realtà divine) sia alla teurgia (arte di unire l'uomo al divino) che aprono all'uomo la strada verso la felicità ~>126-33. Infine, l'arte di leggere i segni degli dei (mantica) appare a Giamblico intimamente connessa alla felicità giacché qualunque conoscenza gli uomini abbiano degli dei li rende più felici ~134-49.

L'unione con gli dei pr•ocm•a la felicità

il

Rimane 1 da parlare, da ultimo, della felicità, sulla quale tu facesti varie ricerche, dapprima muovendo varie obiezioni e poi rimanendo in difficoltà e successivamente chiedendo istruzioni. Ponendo, dunque, ciascuna delle tue questioni nel modo in cui le hai proposte, ti risponderemo in modo adeguato acl 1. A parlare è il sacerdote egiziano Abammone, secondo la finzione letteraria che caratterizza quest'opera di Giamblico, costruita su un dialogo immaginario tra il sacerdote egiziano e Porfirio.

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La teurgia unisce

l'uomo al diuino

lnterp1•eta1'e i segni degli dei significa conn1u:ere il loro pensiero e diuenta1•e felici

esse. Hai obiettato, infatti,_ che potrebbe avvenire che la strada verso la felicità fosse diversa senza che uno se ne accorgesse: ma allora quale altra ascesa ra. zionale acl essa potrebbe esservi, che fosse lontana dagli dei? Se, infatti, è posta negli dei la sostanza e la perfezione di tutti i beni, così come la prima potenza e il dominio su tali beni sono posti soltanto presso di noi2 e presso coloro che allo stesso modo nostro stanno a contatto con gli esseri superiori e sinceramente si procurano l'unione con loro, allora ci si prende cura con vero impegno di quello che è il principio e la fine di tutti i beni. Ed è certo in questo ambito, dunque, che si trovano la contemplazione della verità e quella della conoscenza intellettuale, e il ritorno a se stessi, congiunto alla conoscenza degli dei, si accompagna alla conoscenza di se stessi. Inutilmente, dunque, tu ti angusti, dicendo che non bisogna considerare le opinioni degli uomini. Chi, infatti, ha il tempo di guardare in basso alle lodi degli uomini, se ha la mente rivolta verso gli dei? Ma nemmeno la tua questione successiva ha attinenza con quanto si dice, e cioè che l'anima inventa grandi cose muovendo dalla prima che le capita. Quale principio di inventare cose inesistenti si trova, infatti, negli esseri che realmente sono? Non è forse vero che la capacità d'immaginazione che è in noi crea dei fantasmi e che, invece, nessuna immaginazione si desta, quando la vita intellettuale opera perfettamente? Non è forse vero che negli dei la verità sussiste secondo la sostanza e non secondo una coincidenza, in quanto ha sede negli intelligibili? Dunque a caso tu e quant'altri chiacchierate di queste cose. E nemmeno quelle considerazioni con cui alcuni condannano come vagabondi e ciarlatani gli adoratori degli dei (e tu hai parlato più o meno come costoro) hanno a che fare con la vera teologia e la vera teurgia. Ma se persone di questo genere spuntano accanto alle scienze di cui dispongono le persone oneste, come accanto alle altre scienze germogliano le arti false, queste arti false sono certamente opposte alle arti vere più che a qualsiasi altra cosa, perché il male contrasta con il bene più che con il non bene. [. .. ] Dunque, solamente la mantica divina3 che ci congiunge agli dei ci fa partecipare veramente della vita divina, e, in quanto ha parte della prescienza e dei pensieri degli dei, solo essa ci rende veramente divini, e sempre la medesima divinazione ci procura con sicurezza ciò che è bene, poiché il beatissimo pensiero degli dei è pieno della totalità dei beni. Dunque coloro che posseggono quest'arte non è vero, come tu dici, che prevedono il futuro ma non sono felici, perché tutta la prescienza divina è buona nella sua forma. E nemmeno è vero che costoro prevedono le cose future, ma non sanno servirsene convenientemente, perché insieme con la prescienza essi ricevono il bello in sé e l'ordine vero e conveniente, e in quell'arte si trova anche l'utile. Gli dei, infatti, donano anche la capacità di guardarsi dai pericoli che provengono dalla natura, e allorquando si deve praticare la virtù e questo essere virtuosi è richiesto anche dall'oscurità del futuro, essi nascondono l'avvenire perché l'anima divenga migliore; e quando questa ignoranza non è importante ed è utile alle anime il conoscere il futuro, gli dei, per salvarle e per condurle in alto, pongono nel mezzo della loro sostanza la prescienza che posseggono gli oracoli. Giamblico, I misteri degli Egiziani, X, l, 2, 4, pp. 449-455

21. Si riferisce ai sacerdoti egiziani. 3>. L'interpretazione dei segni divini, prerogativa dei sacerdoti pagani.

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Agostino: la memoria custodisce la felicità Subito dopo la sua conversione al cristianesimo, al tempo del suo ritiro a Cassiciaco, Agostino ha dedicato il dialogo De beata vita all'argomento della felicità: è felice solo chi vuole un bene duraturo e stabile e questo bene è Dio. Altrove Agostino afferma che la felicità è possedere la sapienza. Ma cos'è la sapienza? È il possesso di una conoscenza e di una verità tale da saziare la nostra aspirazione verso la beatitudine. Questa sapienza coincide con una conoscenza di Dio non solamente intellettuale, sapienza che non può essere mai completamente raggiunta in questa vita e sarà posseduta compiutamente solo nell'eternità. Anche nelle Confessioni~ Agostino si interroga sull'aspirazione alla felicità che tutti, apparentemente, sentono ~>11-1 O. Da dove nasce questa aspirazione? Agostino si domanda se gia l'uomo non sappia in qualche modo cosa essa sia. La risposta è che tutti, in un modo misterioso, sembrano aver fatto esperienza della felicità tanto da riconoscerla nella memoria non appena ne sentono parlare ~>11 0-30. Persino chi si abbandona ai desideri della carne aspira alla felicità, ma non potendo trovarla nei beni dello spirito a causa del peccato, si accontenta di una forma degradata di felicità ~>131-37. E tuttavia la vera felicità è il godimento della Verità, tanto è vero che nessuno ama essere ingannato. La ricerca della felicità consiste allora nel trovare la Verità dentro se stessi, nella propria memoria che ne conserva un ricordo, e questa Verità si identifica con Dio 1>137-60.

l 'ii® l Tutti vogliono la felicità

Desiderare una cosa significa averla già conosciuta

Come ti cerco dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la felicità della vita. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te. Come cerco dunque la felicità? Non la posseggo infatti, finché non dico: «Basta, è lì». E qui bisogna che dica come la cerco: se mediante il ricordo, quasi l'abbia dimenticata ma ancora conservi il ricordo di averla dimenticata, oppure mediante l'anelito di conoscere una felicità ignota perché mai conosciuta o perché dimenticata al punto di non ricordare neppure d'averla dimenticata. La felicità della vita non è proprio ciò che tutti vogliono e nessuno senza eccezioni non vuole? Dove la conobbero per volerla così? dove la videro per amarla? Certo noi la possediamo in qualche modo. C'è il modo di chi lapossiede, e allora è felice, e c'è chi è felice per la speranza di possederla. I secondi la posseggono in modo inferiore ai primi, felici già per la padronanza della felicità; tuttavia stanno meglio di altri, non felici né per padronanza né per speranza. Però nemmeno questi ultimi desidererebbero tanto la felicità, se non la possedessero in qualche modo; che la desiderino, è certissimo. Non so come, la conobbero, e perciò, perché la conoscono, la posseggono, in una forma a me sconosciuta, che mi travaglio di conoscere. È forse nella memoria? Se lì, ci fu già un tempo, in cui fummo felici; se ciascuno individualmente, o nella persona del primo peccatore in cui tutti siamo morti e da cui tutti siamo nati infelici (lCor 15,22), non cerco ora di sapere. Ora cerco di sapere se la felicità si trova nella memoria. Certo, se non la conoscessimo, non l'ameremmo. All'udirne il nome tutti confessiamo di desiderarla in se stessa, e non è il suono della parola che ci rallegra. Non si rallegra un greco quando l'ode pronunciare in latino, poiché non comprende ciò che viene detto, mentre noi ci rallegriamo, come si rallegra lo stesso greco all'udirlo in greco, poiché la cosa in se stessa non è greca né latina, ed è la cosa, che greci e latini e popoli di ogni altra lingua cercano avidamente. L'umanità intera la conosce. Se si potesse chiederle con una sola parola se vuol essere felice, non v'è dubbio che risponderebbe di sì. Il che non accadrebbe, se

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Esistono forme !legt'lllhmti di felicità

Chi

delia felicità

anche della verità

La verità si trmm nella memoria

Chi ha trovato la ueritìl è anche felice

appunto la cosa che la parola designa non si conservasse nella memoria. [.. .l. Dunque non è certo che tutti vogliono essere felici: quanti non cercano il godimento di chi, come te, è l'unica felicità della vita, in realtà non vogliono la felicità. O forse tutti la vogliono, ma, poiché le brame della carne sono opposte allo spirito, e quelle dello spirito alla carne, sì che non fanno ciò che vogliono (Gal5,17), cadono là dove possono, e ne sono paghi, perché ciò che non possono, non lo vogliono quanto occorrerebbe per volerlo? Chiedo a tutti: «Preferite godere della verità o della menzogna?". Rispondono di preferire la verità, con la stessa risolutezza con cui affermano di voler essere felici. Già, la felicità della vita è il godimento della verità, cioè il godimento di te, che sei la verità, o Dio, mia luce (Sal26,1), salvezza del mio volto, Dio mio (Sal41,6). Questa felicità della vita vogliono tutti, questa vita che è l'unica felicità vogliono tutti, il . godimento della verità vogliono tutti. Ho conosciuto molte persone desiderose di ingannare; nessuna di essere ingannata. Dove avevano avuto nozione della felicità, se non dove l'avevano anche avuta della verità? Amano la verità, poiché non vogliono essere ingannate; e amando la felicità, che non è se non il godimento della verità, amano certamente ancora la verità, né l'amerebbero senza averne una certa nozione nella memoria. Perché dunque non ne traggono godimento? Perché non sono felici? Perché sono più intensamente occupati in altre cose, che li rendono più infelici di quanto non li renda felici questa, di cui hanno un così tenue ricordo. C'è ancora un po' di luce fra gli uomini. Camminino, camminino dunque, per non essere sorpresi dalle tenebre (Gv 12,35). [... ] Ecco quanto ho spaziato nella mia memoria alla tua ricerca, Signore; e fuori di questa non ti ho trovato. Nulla, di ciò che di te ho trovato dal giorno in cui ti conobbi, non fu un ricordo; perché dal giorno in cui ti conobbi, non ti dimenticai. Dove ho trovato la verità, là ho trovato il mio Dio, la Verità persona\ e non ho dimenticato la Verità dal giorno in cui la conobbi. Perciò dal giorno in cui ti conobbi, dimori nella mia memoria, e là ti trovo ogni volta che ti ricordo e mi delizio di te. È questa la mia santa delizia, dono della tua misericordia, che ebbe riguardo per la mia povertà (Sal 30,8).

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Agostino, Le confessioni, X, 20.23.24, pp. 325-327; 329-331

1. Il riferimento è al Vangelo eli Giovanni dove il Cristo si identifica con la verità che tutti cercano e che rende felici: «Io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14,6). ;,~:\';1''------------------------------------------------

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Sulla bellezza latino si rivela un intelligente erede della tr·adi: . zione filosofica a lui anteriore anche nella sua · riflessione sulla bellezza. Riecheggiando Platone, può affermare che bellezza è "proporzione delle parti, sia tra loro, sia col tutto, congiunta con la grazia del colore .. (Enneadi, I, 6, 1), esprimendosi secondo l'ideale di bellezza come ordine, cosmo, armonia, proporzione. Ma per Platino le definizioni che possiamo dare di un'opera, nella sua bellezza, sono del tutto secondarie rispetto al sentimento di piacere che suscita la vista del bello: davanti a un'opera bella, il piacere che si prova è in realtà un sentimento di commossa partecipazione al mistero dell'Uno, dell'essere infondato, del principio indefinibile di tutte le cose che sono. L'opera d'arte ha una sua «forma.. che ci appare bella, ovvero riuscita, non tanto perché, a posteriori, vi rintracciamo le caratteristiche canoniche del bello (armonia, proporzione ecc.), e nemmeno perché appare come la realizzazione di un ideale di bellezza prestabilito (o l'esplicitazione di un contenuto): l'opera (sia essa della natura, e quindi opera del demiurgo, sia opera della tecnica, realizzata dall'artista) colpisce per la forma che in essa risplende. Da qui il carattere libero ed enigmatico della bellezza: la meditazione sulla forma conduce Platino al suo superamento, all'Uno che è senza forma perché è ciò che eternamente genera la forma. Per Platone lo splendore. della bellezza ideale nel sensibile ridesta l'Eros, che fa «mettere le ali, verso la Bellez-

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Perché una cosa è bella?

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·C'è solo la bellezza che si vede con gli occhi?

za soprasensibile, com.e leggiamo nel Fedro: Eros è «quella manìa per la quale, quando uno vede la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza, mette le ali ... " (Fedro 250c-d). Agostino, riprendendo questo passo platonico, afferma che Dio si identifica con la Bellezza, la Bontà, la Verità. Ma il filosofo cristiano si spinge anche oltre: Dio, nel Verbo incm·nato, ci ha amati per primi e l'anima diventa bella amando Dio, corrispondendo al suo amore. L'unione con Dio non è più sforzo umano, unione intellettuale, come in Platino, ma iniziativa di Dio che si manifesta nella Bellezza della caritas, dell'amore di Dio che si dona per salvare gli uomini.

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Venere Esquilina, metà del I sec. a.C., Roma, Centrale Monte Martini.

Platino: la bellezza purifica l'anima Platino non sviluppa una concezione «mimetica» della bellezza (come imitazione di un modello ideale), ma piuttosto una concezione catartica (come via di purificazione dell'anima verso Dio)~. Se vogliamo vedere il Bello, dobbiamo, similmente a coloro che si purificano prima di salire ai sacrari dei templi, dismettendo le loro vesti, procedere abbandonando tutto ciò che è estraneo a Dio finché, soli davanti al Solo, lo si vedrà in tutta la sua semplicità e purezza. Al contatto di ciò che è bello si risvegliano emozioni contrastanti: stupore, meraviglia gioiosa, desiderio, amore, ma anche spavento accompagnato da piacere. La purificazione che la bellezza richiede spinge a non soffermarsi sulla bellezza sensibile per tendere verso la Bellezza di cui i corpi sono solo un'immagine imperfetta ~»11-16. Chi non coglie questa differenza replicherà il mito di Narciso e il suo tragico destino: innamorato della sua propria immagine riflessa nell'acqua, al punto di desiderare di afferrarla, Narciso trova la morte, cadendo in profondità tenebrose lontano dalla bellezza ideale, intelligibile. Dobbiamo piuttosto fuggire verso la «cara patria», il Padre-Uno, che la Bellezza ci indica ridestando in noi eros, il desiderio di raggiungerla.

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Platino richiama anche la figura di Ulisse che, invincibilmente attratto verso la patria, non si fa trattenere dalla bellezza sensibile, rappresentata dalla maga Circe e dalla dea Calipso ~116-21. La fuga verso la «cara patria» richiede di cambiare la nostra vista. Bisogna imparare a vedere la bellezza con gli occhi interiori dell'anima con cui soltanto è possibile ammirare le beile azioni degli uomini e la virtù delle anime ~>-122-31. A questo punto, l'anima purificata, come il marmo che lo scultore libera del superfluo, diventa essa stessa una luce vera e senza misura ~>-132-50. Per contemplare la vera bellezza, che è morale e divina, occorre farsi simili a Dio, cioè belli interiormente e virtuosi ~>-150-57. Infatti la bellezza suprema si identifica con il Bene (l'Uno) che è la fonte delle forme ideali intelligibili da cui, platonicamente, hanno origine tutte le forme sensibili ~>-157-62.

La bellezza dell'Uno resta nascosta La bellezza dei corpi è immagine della bellezza dell'Uno

Il viaggio uerso la bellezza dell'Uno

Esiste una bellezza intel'iore che mm siuede

la bellezza dell'anima si ottiene con la purificazione

Qual è dunque il modo della visione? Quale il mezzo? Come si vedrà questa bellezza inestimabile che rimane, per così dire, nell'interno del santuario e non procede verso l'esterno perché i profani la vedano? Colui che può vada dunque e la segua nella sua interiorità abbandonando la visione degli occhi e non si rivolga verso lo splendore dei corpi come prima. È necessario infatti che colui che vede la bellezza dei corpi non corra ad essi, ma sappia che essi sono immagini e tracce e ombre e fugga verso quella Bellezza di cui essi sono immagini. Se si corresse loro incontro per afferrarli come fossero realtà, si sarebbe simili a colui che volle afferrare la sua bella immagine riflessa sull'acqua 1 - come una favola, mi pare, vuol dimostrarci - ed essendosi piegato troppo verso la corrente profonda disparve: nello stesso modo colui che tende alle bellezze corporee, non col corpo, ma con l'anima, piomberà nelle profondità tenebrose e orribili per l'Intelligenza e soggiornerà nell'Ade, cieco compagno delle ombre. Fuggiamo dunque verso la cara patria, questo è il consiglio più vero che si può dare. Ma qual è questa fuga? E come risalire? Come Ulisse che narra di essere sfuggito alla maga Circe e a Calipso2 , facendo comprendere, secondo la mia opinione, che non desiderava rimanere, benché vivesse in mezzo ai piaceri della vista e a bellezze sensibili di ogni specie. La nostra patria è quella donde veniamo e lassù è il nostro Padre. Che sono dunque questo viaggio e questa fuga? Non coi piedi bisogna farlo, perché i nostri piedi ci portano sempre eli terra in terra; neppure c'è bisogno di preparare cocchi o navigli, ma è necessario staccarsi da queste cose e non guardar più, ma mutando la vista corporea con un'altra ridestare quella facoltà che ognuno possiede, ma che pochi adoperano. Che vede dunque questa vita interiore? Appena risvegliata, essa non può veder bene gli oggetti risplendenti. Bisogna abituare l'anima stessa a vedere anzitutto le belle occupazioni, poi le belle azioni, non quelle che le arti eseguono, ma quelle degli uomini che diciamo virtuosi, e in seguito l'anima di coloro che compiono queste belle azioni. Ma come si può vedere la bellezza dell'anima buona? Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella. Egli toglie, raschia, liscia, ripulisce finché nel marmo appaia la bella immagine: come lui, leva tu il super-

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1. L'allusione esplicita è al mito di Narciso. 2. Circe e Calipso sono rispettivamente la maga e la dea che trattengono Ulisse lontano dalla patria,

nelle pagine celebri dell'Odissea: cfr. Omero, Odissea, IX, 29 sgg.; X, 483-484.

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Solo l'anima pin•ificata puìì vedere la "grande bellezza••

Il Rene è il principin del Belin

fluo, raddrizza ciò che è obliquo, purifica ciò che è fosco e rendilo brillante e non cessare di scolpire la tua propria statua, finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e non veda la temperanza sedere su un trono sacro. Se tu sei diventato ciò; se tu vedi tutto questo; se sarà pura la tua interiorità, e tu non avrai alcun ostacolo alla ttia unificazione e nulla che sia mescolato interiormente con te stesso; se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza o di forma misurabile che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura, perché superiore a ogni misura e a ogni qualità; se ti vedi in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente'~ e puoi confidare in te stesso. Anche rimanendo quaggiù tu sei salito né più hai bisogno di chi ti guidi; fissa lo sguardo e guarda: questo soltanto è l'occhio che vede la grande bellezza. Ma se tu vieni a contemplare lordo di cattiveria e non ancora purificato oppure debole, per la tua poca forza non puoi guardare gli oggetti assai brillanti e non vedi nulla, anche se ti sia posto innanzi un oggetto che può essere veduto. È necessario, infatti, che l'occhio si faccia eguale e simile all'oggetto per accostarsi a contemplarlo. L'occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un'anima vedrebbe il bello se non fosse bella. Ognuno dunque diventi anzitutto deiforme e bello, se vuole contemplare Dio e la Bellezza. Salendo, egli arriverà dapprima presso l'Intelligenza e saprà che colà tutte le Idee sono belle e dirà che quella è la bellezza - cioè le Idee: per queste infatti che sono il prodotto e l'essere dell'Intelligenza, esistono tutte le bellezze -. Ciò che è al di là della bellezza è detto la natura del Bene e la Bellezza le sta innanzi tutt'intorno. Così con una formula sintetica diremo che la Bellezza è l'essere primo; ma chi voglia distinguere gli intelligibili, chiamerà il Bello intelligibile luogo delle idee, e il Bene che è al di là lo dirà sorgente e principio del Bello. Altrimenti, si dovrebbe identificare anzitutto bello e bene: comunque, il Bello è lassù nell'intelligibile.

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Platino, Enneadi, I, 6, 8-9, pp. 139-143

Agostino: la bellezza è inno di lode a Dio Sappiamo dalle Confessioni che Agostino aveva dedicato un trattato Sul bello e il conveniente quando era ancora appena ventiseienne e aderiva alle dottrine manichee, ma il testo era andato perduto già pochi anni dopo. Agostino riflette con rigore sul bello a partire anche dalla propria esperienza: da un lato, la bellezza ha una forma in sé, presente nelle cose stesse che ci appaiono belle; dall'altro, la ragione del bello è nel soggetto, che ne prova piacere. È l'alternativa, che vale tanto in rapporto alla bellezza, quanto in rapporto alla verità o al bene: la misura è nel soggetto o nell'oggetto? è bello ciò che è bello o è bello ciò che piace? Per chi, come Agostino, è giunto al forte senso dell'oggettività del vero, non c'è alcun dubbio: «Le cose piacciono perché sono belle». La bellezza di ciò che è bello non dipende dal gusto del soggetto, ma è inscritta nelle cose: «Le cose sono belle perché le parti, per una sorta di intimo legame, danno luogo ad un insieme conveniente». Bello è ciò che presenta un'intima, organica convenientia: la «forma» rispecchia nel finito l'armonia infinita, la bellezza riproduce nel mondo sensibile i «numeri del cielo».

3. L'anima purificata è in grado di vedere la bellezza intellegibile: le Idee e il loro principio, l'Uno.

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L'itinerario di Agostino appare dunque come un cammino dalla bellezza alla Bellezza, per poter poi ritrovare il senso e la misura della bellezza di tutto ciò che esiste nella luce del fonda~ mento di ogni bellezza. La via della Bellezza è la via di Dio, la via della salvezza e della verità: nella bellezza tutto è unificato, tutto giustificato nel suo ultimo senso. Nel Discorso 24111ii31, Agostino polemizza con i pagani perché, riconoscendo nella bellezza del creato uno stimolo a ricercarne l'Artefice ~11-32, non hanno saputo spingere a fondo le loro deduzioni: hanno scoperto che l'uomo è fatto di una parte che si vede (il corpo) e di una che non si vede (l'anima) e che quest'ultima è superiore al corpo e se ne serve come di uno strumento. Da qui hanno supposto che se la bellezza dei corpi visibili, o la bellezza dell'anima invisibile, è una bellezza mutevole, deve esistere una bellezza non soggetta a corruzione ~>-132-65. Ma i pagani, secondo Agostino, cadono nell'idolatria in quanto adorano false divinità senza riconoscere il vero Creatore. Così l'idolatria è la manifestazione dell'insufficienza e dell'impotenza di una visione del mondo che riconosce Dio nel creato, ma non sa dire chi è questo Dio ~>-166-82.

l filosofi pagani COIIOSCI!IlO Dio attra11e1'SO la natura

la bellezza del creato è 1111 inno di lode al C1•eator•e

Ieri vi parlavamo 1 dei sapienti del paganesimo- coloro che vengono chiamati filosofi - e in particolare di coloro che sono stati i più qualificati. Vi sottolineavamo com'essi, scrutando la natura, attraverso le opere del creato sono pervenuti alla conoscenza dell'Artefice. Non avevano ascoltato i Profeti, non avevano ricevuto la Legge divina, ma Dio, pur rimanendo in silenzio, parlava in certo qual modo alla loro mente attraverso le opere che aveva cosparse nel mondo, e la stessa bellezza dell'universo costituiva per loro un richiamo a ricercare l'Artefice delle cose. Non potevano infatti accettare l'ipotesi che il cielo e la terra ci fossero senza uno che li avesse fatti. Di costoro così parla il beato apostolo Paolo: L'ira di Dio - dice - si palesa dal cielo contro ogni empietà. Che significa? Contro ogni empietà? L'ira di Dio si palesa dal cielo non solo contro i Giudei, che ricevettero la legge e si ribellarono all'Autore della legge, ma anche contro ogni empietà del mondo pagano. E affinché nessuno sussumesse2 . Ma perché questo, dal momento che costoro non hanno ricevuto la legge? prosegue affermando: E contro ogni ingiustizia di coloro che tengono la verità asservita all'iniquità. Provati a ribattere: Ma qual è questa verità? Si tratta infatti di gente che non ha ricevuto la legge né ascoltato i Profeti. Ascolta qual è questa verità. Dice: Poiché quel che di Dio è conoscibile è stato loro manifestato. In che maniera manifestato? Ascolta ancora: Dio l'ha loro manifestato. E se vuoi sapere ancora in qual maniera lo abbia loro manifestato, dal momento che una legge non l'ha loro data, ascolta come: In effetti, a cominciare dalla creazione del mondo, le cose invisibili di lui si comprendono mediante la penetrazione delle cose create. Le cose invisibili di lui, cioè quanto in Dio c'è d'invisibile; a cominciare dalla creazione del mondo, cioè da quando egli formò il mondo; si comprendono mediante la penetrazione delle cose create, cioè: le cose invisibili vengono comprese attraverso la penet:razione delle altre. Non esclusa l'eterna- riferisco ancora le parole dell'Apostolo e le ricollego alle precedenti-, non esclusa l'eterna sua potenza e maestà. Sottintendi: Vengono comprese attraverso tale penetrazione. Affinché non possano avanzare scuse. E perché non lo possono? Perché avendo conosciuto Dio, non l 'hanno glorificato come Dio né l 'hanno ringraziato (Rm l, 1821). Non dice che non hanno conosciuto Dio, ma: Avendolo conosciuto. Come l'hanno conosciuto? Attraverso le cose create. Interroga la bellezza della terra,

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1. I Discorsi sono insegnamenti sui contenuti della fede cristiana che Agostino impartiva ai fedeli. 2. Presumesse eli fare a meno del vero Dio . .',\·,4·---------------------------------------------~

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Il cm•po è visibile, l'anima invisibile

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L'anima è più nobile del corpo

Le mutazioni del corpo e dell'anima J•imandano a Dio che non muta

l Pilllillli conoscono Dio,

ma non iluea·o Dio

del mare, dell'aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo e l'ordine delle stelle; interroga il sole che col suo splendore illumina il giorno e la luna che con la sua luce attenua l'oscurità della notte che al giorno tien dietro; interroga gli animali che si muovono nell'acqua, che popolano la terra o svolazzano nel cielo: han celata l'anima mentre il corpo è visibile; è visibile ciò che ha bisogno d'esser retto, è invisibile ciò che lo regge. Interroga tutte queste cose. Esse ti risponderanno: Guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lode. Ora, queste creature, così belle ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è bello in modo immutabile? Da ultimo passarono ' a scrutare l'uomo per poter conoscere, adoperando l'acume della mente, Dio creatore dell'intero universo; e dell'uomo interrogarono (così mi avviavo a dire) il corpo e l'anima. Interrogavano ciò da cui essi stessi risultavano costituiti: il cor;po che vedevano e l'anima che non vedevano. Eppure, il loro corpo non l'avrebbero veduto se non in virtù dell'anima. Lo vedevano, sì, con gli occhi, ma "colui che guardava attraverso queste finestre stava dentro. E, per finire, osserva come, allontanandosi il padrone che vi abita, la casa crolla; allontanandosi colui che lo teneva in piedi l'uomo cade e, appunto perché cade, lo si chiama cadavere. Nel cadavere gli occhi restano sani, ma per quanto li si apra, non vedono nulla. Restano anche gli orecchi ma è partito chi era in grado di ascoltare. Parimenti è della lingua: resta lo strumento ma se ne è andato il musicista che lo suonava. Ebbene, i filosofi interrogarono questi due elementi, il corpo visibile e l'anima invisibile, e riscontrarono che l'elemento invisibile è più nobile di queHo visibile, che cioè l'anima, occulta nell'uomo, è superiore e che il corpo, visibile, è inferiore. Esaminarono questi due elementi, li scrutarono a fondo, discussero sull'uno e sull'altro, e conclusero che quanto compone lo stesso uomo è dinatura mutevole. Muta il corpo col succedersi delle età, perché si deteriora, perché ha bisogno di alimenti per ristorarsi, perché viene meno e nella vita e nella morte. Passarono poi a considerare l'anima, che ovviamente riscontrarono superiore e si meravigliarono per il fatto che era invisibile. Tuttavia dovettero concludere che anch'essa è soggetta a mutazioni: ora vuole ora non vuole, ora sa ora non sa, ora ricorda ora dimentica, ora teme ora azzarda, ora avanza verso la sapienza ora si affloscia nella stoltezza. Videro dunque che anche l'anima è mutevole e si spinsero anche al di sopra di lei cercando qualcosa che fosse immutabile. In tal modo, servendosi delle cose create da Dio, giunsero a conoscere colui che le aveva create. Ma - dice l'Apostolo - non lo glorificarono come Dio né lo ringraziarono. Ma divennero stolti nei loro pensieri e il loro cuore, istupidito, divenne tenebroso. Pur chiamandosi sapienti, divennero insipienti. Attribuendo a sé le cose che avevano ricevuto persero ciò che possedevano. Considerandosi, per così dire, chi sa che cosa, divennero insipienti. E dove arrivarono? Dice: E scambiarono la gloria del! 'incorruttibile Dio forgiandosela simile alla figura dell'uomo corruttibile. Si riferisce agli idoli, e, a questo riguardo, era poco dire che si forgiarono idoli somiglianti all'uomo e conformarono l'artefice al risultato del loro lavoro. Era poco questo. E allora che cosa ci aggiunsero? E di uccelli e di quadrupedi e di serpenti (Rm 1,21-23). Tutti questi animali, muti e privi di ragione, quei grandi sapienti (dico per dire) li presero per loro dei. Ti rimproveravo perché adoravi il simulacro di un uomo: cosa dovrò farti adesso che ti vedo adorare una statua raffigurante un cane, un serpente, un coccodrillo? Poiché fino a questo punto sono arrivati. Quanto s'erano spinti in alto con le loro ricerche, tanto sono sprofondati in basso allorché sono caduti. Chi infatti precipita da un luogo elevato cola a picco molto più in profondità.

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Agostino, Discorsi, 241, 1-3

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Il tempo e l'eterno

a nozione del tempo costituisce uno dei problemi costanti della riflessione filosofica e scientifica. Pur vivendo immersi nel tempo e dando per ovvia la sua esistenza, a tutti succede di interrogarsi sulla sua natura che appare enigmatica e misteriosa. Alle origini del pensiero greco il concetto di tempo, come successione ritmiq delle fasi in cui si svolge il divenire della natura, è ancora influenzato profondamente dal mito, che indica in Crono il padre di tutte le cose e, soprattutto nella tradizione m·fica, parla eli «cicli" del tempo come eli ruota del destino in cui tutti gli esseri eternamente muoiono e rinascono. Solo con Parmenide il tempo comincia acl assumere quel senso problematico che lo caratterizza come questione filosofica: esso infatti viene contrapposto per la prima volta all'immutabile eternità dell'essere e riconclotto all'ambito della mutevole opinione. Per superare la dicotomia tra essere e divenire, tra eternità e tempo, nel Timeo di Platone il tempo viene definito «immagine immobile dell'eternità" che «procede secondo il numero" in quanto il movimento regolare e continuo delle sfere celesti imita l'ordine eterno e immutabile delle Idee. Ma è con Aristotele che l'attenzione si sposta dal movimento percepito e misurato dal soggetto al soggetto stesso che percepisce e registra il movimento. «Se è vero - scrive Aristotele nella Fisica- che nella natura delle cose soltanto l'anima, o l'intelletto che è in essa, hanno la capacità di numerare, risulta impossibile l'esistenza del tempo senza quella dell'anima".

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Sulla scia eli questa lunga storia dell'idea di tempo, Platino dedica un trattato (Enneade, III, 7) al problema del tempo e dell'eternità. Si tratta di un rigoroso ripensamento dell'intera tradizione filosofica greca, a partire da Parmenicle, Platone e Aristotele, nel tentativo eli superare, intorno al problema del tempo, i vincoli teorici imposti da quella tradizione. Se l'eternità è la forma eli vita immobile propria del mondo intellegibile, il tempo è generato dalla mobilità inquieta dell'anima, che in Plotino è la protagonista eli quell'avventura filosofico-esistenziale che vede svolgersi, tragicamente, il distacco del tempo dall'eternità e il suo precipitare nel mondo sensibile. Tuttavia l'anima tende all'eterno e desidera ritornare all'Uno. La sua è ancora ùna tensione che si inscrive nella visione greca del tempo ciclico e dell'eterno ritorno. Agostino riflette lungamente intorno all'enigma del tempo, soprattutto nelle Confessioni e la Città di Dio: come è percepito il tempo dall'anima? Che relazione c'è tra. il tempo e l'eterno, tra Dio, assoluto e immutabile, e l'uomo che vive in una realtà transitoria? Che rapporto c'è tra la città celeste e la città terrena, ovvero in cosa si distingue la visione cristiana della storia da quella pagana? Agostino, nel cercare di rispondere a questi interrogativi, si distacca dalla concezione cosmico-ciclica del divenire per conferire al tempo una direzione lineare e progressiva. Il tempo è infatti la condizione della storia del mondo che precede dalla caduta di Adamo verso la meta del riscatto e del ritorno a Dio, per confluire infine nella fine del tempo e nella dimensione dell'eternità divina.

Platino: il tempo è la vita dell'anima Dopo essersi interrogato sull'eternità, vita piena, indivisibile, infinita, che è presso l'Uno e resta nell'Uno, e aver trattato il problema del tempo in relazione al movimento e alla sua misurabilità, è nel destino dell'anima individuale, nel suo dramma interiore, che Platino si sofferma liii1!, affondando la sua ahalisi. Se l'Uno, il NoOs e l'Anima universale non hanno storia e vivono al di là del tempo ~11-12, le anime individuali sperimentano il tempo, la storia e il suo dramma. L'origine del tempo è da rintracciare nella natura inquieta dell'Anima inferiore che tende a trasfondere nel sensibile le forme contemplate nell'intelligibile e così facendo si disperde nella molteplicità e dà origine alla successione di istanti temporali qualitativamente diversi ~»113-40. Prodotto dall'Anima, il tempo è immagine dell'Eterno così come il mondo sensibile è immagine del mondo intelligibile e la molteplicità è immagine dell'Uno. La vita dell'Anima inferiore sarà quindi detta «vita» soltanto per omonimia, perché la vita vera quella che si svolge nell'immobilità dell'intelligibile ~>141-55. L'universo sensibile nella sua interezza è generato dall'Anima e all'interno dell'Anima, all'interno del suo movimento, inizia a svilupparsi il tempo, che altrimenti non esisterebbe, come non esisterebbe l'universo mutevole che conosciamo ~156-59. Il tempo è, quindi, vita dell'Anima che si distende in mutamenti uniformi e continui. Se essi cessassero, il tempo sarebbe annullato e con esso anche l'Universo sensibile generato dall'Anima ~>-160-81.

Il tempo si svolge nell'eternità, in quanto l'anima si pone dentro la Legge universale e ne esprime, anche esteriormente, l'attuazione. Platino persegue tuttavia la sua filosofia salvifica che indica all'anima e al tempo la via di un ritorno presso l'immobile vita dell'eterno. Questo «dramma» spirituale si svolge dentro la visione ellenica del «tempo ciclico» e dell'eterno ritorno.

Nell'Uno e nella Mente divina non esiste il tempo

Il tempo è generato dalla natura irrequieta dell'Anima

I.'Anirna produce il mondo sensibile a immagine di quello intelligibile e il tempo a

immagine dell'ete1•nità

Bisogna che noi ci riferiamo di nuovo a quella maniera d'essere che abbiamo riconosciuto all'eternità: vita immutabile, tutt'intera, infinita, completamente stabile, ferma nell'Uno e rivolta all'Uno. Non c'era ancora il tempo, o almeno non c'era per gli esseri intelligibili, poiché esso sarà generato per opera del pensiero e della natura di ciò che vien dopo. E poiché questi esseri rimangono in se stessi in una quiete assoluta, per sapere come mai sia sorto il tempo non si possono invocare le Muse, poiché esse ancora non esistevano - [forse si potrebbe se allora fossero già esistite] -; si può chiedere piuttosto al tempo stesso come è apparso e come è nato. Esso direbbe di se stesso così: prima che avesse generato l'anteriorità e, legato ad essa, avesse bisogno della posteriorità, esso riposava nell'essere; non era il tempo, ma conservava la sua immobilità nell'essere. Se non che, la natura irrequieta volendo esser padrona di sé ed appartenere a se stessa e decidendo di ricercare uno stato migliore del presente, si mosse e con lei si mosse anche il tempo, diretti così verso un avvenire sempre nuovo, non identico al passato, ma diverso, e continuamente diverso, e dopo essere avanzati ancora un po' noi abbiamo fatto il tempo che è un'immagine dell'eternità. C'era infatti nell'Anima una potenza inquieta che voleva sempre far passare in altro ciò che aveva contemplato nel mondo intelligibile, e non sopportava che l'essere intelligibile le fosse presente tutto insieme. E come da un germe immobile esce la ragione spermatica sviluppandosi a poco a poco, come si pensa, verso il molteplice, manifestando nella divisione la sua molteplicità e

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Il mondo sensibile si tmmue nell'Anima e quindi anche nel tempo, che le appartiene

Il tempo è la uita

dell'Anima a immagine dell'ete1·nità

Il tempo esiste

solo nell'Anima

Se il movimento dell'Anima si fe1•masse, il tempo sarebbe annullato

invece di conservare in sé la sua unità la diffonde all'esterno e diventa, procedendo, sempre più debole; così l'Anima produce il mondo sensibile ad immagine di quello intelligibile e lo fa mobile non del movimento intelligibile, ma di uno che è simile a quello e che aspira a esserne immagine, e temporalizza anzitutto se stessa producendo il tempo in luogo dell'eternità; poi pone il mondo da lei generato alle dipendenze del tempo e lo pone tutt'intero nel tempo racchiudendo in esso tutti i suoi movimenti. Infatti il mondo muovendosi nell'Anima - e il luogo dell'universo sensibile non è che l'Anima -, si muove anche nel tempo che all'Anima appartiene 1 . L'atto che l'Anima compie segue sempre ad un altro ed è sempre nuovo; con un atto essa produce quello che vien dopo e con un altro pensiero che segue al precedente effettua ciò che prima non era, poiché né il suo pensiero era già tutto compiuto né la sua vita presente è simile a quella precedente. E proprio perché è una vita differente, essa anche occupa perciò un tempo differente. E così la dispersione della vita dell'Anima occupa del tempo; la parte di quella vita che procede occupa ad ogni istante un tempo nuovo, quella passata occupa un tempo passato. Se si dicesse dunque che il tempo è la vita dell'Anima che muovendosi passa da uno stato di vita ad un altro, non si affermerebbe forse qualcosa? E poiché l'eternità è una vita nella quiete e nell'identità, vita identica a se stessa ed infinita, necessariamente il tempo è immagine dell'eternità e sta ad essa come il mondo sensibile sta a quello intelligibile. In luogo della vita intelligibile bisogna dunque affermare un'altra vita, propria di quella potenza, cioè dell'Anima, e che è detta vita solo per omonimia; in luogo del movimento dell'intelligenza il movimento d'una parte dell'Anima; in luogo dell'identità, dell'immutabilità e della permanenza, il cangiamento e l'attività sempre nuova; in luogo dell'indivisibilità e dell'unità, un'immagine dell'unità, l'uno nel continuo; in luogo dell'infinito attuale e della totalità, un processo incessante verso l'infinito; in luogo di ciò che è tutto intero insieme, un tutto che sarà tale solo parzialmente e che sempre deve diventare tale. Infatti l'universo sensibile, se aspira ad acquistar sempre più di essere, imiterà il Tutto attuale compatto e infinito; e così l'essere suo sarà immagine dell'essere intelligibile. Ma non dobbiamo prendere il tempo al di fuori dell'Anima, come non si deve prendere l'eternità al di fuori dell'essere; esso non accompagna l'Anima né le è posteriore, come non è tale l'eternità rispetto all'essere; ma si manifesta in essa, è in essa e con essa, come l'eternità nell'essere intelligibile. Bisogna perciò concepire la natura del tempo come una distensione della vita dell'Anima che si svolge in mutamenti uniformi, simili tra loro e procedenti in silenzio, e che possiede un atto continuo. Ed ora se noi col pensiero facciamo risalire la potenza dell'Anima e arrestiamo questa vita che ora non può arrestarsi né cessare, poiché essa è l'atto di un'Anima eternamente esistente, non interiore o rivolto verso di lei, ma consiste in una produzione e in una generazione; se dunque supponiamo che essa non agisca più e che questo atto si arresti e che questa parte dell'Anima ritorni all'Intelligenza e alla eternità e alla tranquilla immobilità, che ci sarebbe allora oltre l'eternità?

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1. Platino riprende la dottrina platonica dell'anima del mondo, esposta nel Timeo. (;-,4··-------------------------------------~

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Il tempo è nato conl'uniuerso

Perché il mutamento, se tutto rimane nell'unità? E perché il prima? E perché il poi? O piuttosto, a che cosa si rivolgerebbe l'Anima, se non all'Intelligibile, nel quale essa è? Anzi, nemmeno a questo: perché per rivolgersi ad esso dovrebbe prima esserne lontana. Nemmeno la sfera celeste ci sarebbe, perché non potrebbe esistere prima del tempo: essa infatti è nel tempo e si muove in esso. E se anche si arrestasse, noi potremo misurare la sua quiete solo in quanto l'Anima agisca e finché sia fuori della eternità. Se dunque il tempo è annullato, quando l'Anima di qui se ne va ad unirsi all'Intelligibile, è chiaro che l'iniziativa del movimento dell'Anima verso le cose sensibili e questa sua vita producono il tempo. Perciò è stato detto che il tempo è nato con questo universo, poiché l'Anima l'ha generato insieme con questo universo. Infatti anche questo universo è stato generato per opera di un tale atto: questo atto è il tempo, e l'universo è nel tempo.

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Platino, Enneadi, III, 7, 11-12, pp. 495-499

Agostino: il tempo come realtà dell'anima Il problema del tempo e dell'eternità, connesso al tema della creazione, ha impegnato a lungo Agostino, come testimoniano i suoi testi, dalle Confessioni a La città di Dio. Nelle Confessioni, il libro Xl è come una lunga e complessa meditazione intorno al problema del tempo, in assoluto uno dei testi più belli e profondi sull'argomento liii§J. «Che cos'è il tempo? -si chiede Agostino- Se nessuno mi interroga lo so; se volessi spiegarlo a chi m'interroga, non lo so» (Xl, 14, 17). In realtà, il tempo è un «complicatissimo enigma» (Xl, 22, 28). Respingendo la spiegazione di «qualche dotto» che identificava il tempo con «il movimento del sole, della luna e delle stelle» (Xl, 23, 29), Agostino caratterizza il tempo come la relazione tra una realtà che muta e una coscienza che registra e ricorda quel mutamento. Abbiamo infatti la capacità di misurare la durata di una voce che ri-

suona, ma non prima che abbia finito di risuonare: in realtà la misuriamo dopo che essa non c'è più ~>11-26. E nell'anima, infatti, che noi misuriamo il tempo grazie alla facoltà della memoria che mantiene in vita ciò che è passato e ciò che ancora non si è attuato H 27-45. Il tempo, quindi, è una estensione dell'anima che aspetta, intuisce e ricorda. Il passato è memoria, il futuro attesa, il presente attenzione. Ma solo il presente esiste realmente, in quanto contiene il passato nella memoria presente e il futuro nell'attesa presente. Con l'anima, o meglio con la parte di essa che si identifica con la memoria e con il pensiero, possiamo misurare anche gli intervalli di tempo dei silenzi, cioè dei momenti in cui nulla accade, paragonandoli ad altri momenti precedenti in cui qualcosa è accaduto ed è stato registrato dai nostri sensi, come pure anticipare intervalli di tempo che verranno 1!>146-66. Resta comunque fermo che solo il presente esiste realmente, mentre il passato e il futuro corrispondono ad operazioni del nostro spirito. che è capace di ricordo (memoria) e di antiCipazione (attesa), come pure di percepire il momento presente nella sua frugacità (attenzione) ~>167 -78. La capacità di percepire la durata di una singola azione è la stessa che ci permette di misurare l'intera vita di un uomo, fatta di tante azioni, e tutta la storia degli uomini, di cui i singoli individui sono parte ~>179-91.

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Come pos:sian~o misut•are il tempo?

Èla memo1•ia che per•mette di misurm•e il tempo

Il pensiero trattiene l'impressione delle cose che llil!lliòliiO e anticipa quelle che verranno

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Insisti, spirito mio, e fissa intensamente il tuo sguardo. Dio è il nostro aiuto (Sal61,9), egli ci fece, e non noi (Sal 99,3). Fissa il tuo sguardo dove albeggia la verità. Ecco, immagina che una voce, corporea, cominci a risuonare, risuona, risuona ancora, ed ecco cessa, è già tornato il silenzio, la voce è passata, non c'è più voce ormai. Era futura, prima di risuonare, e non si poteva misurarla, perché non era ancora, come non si può ora, perché non è più. Si poteva misurarla quando risuonava, perché allora era, in modo che si poteva misurare. Ma anche allora non era ferma, perché andava, passava. O proprio per questo invece si poteva? Passando, infatti, si estendeva per un certo spazio di tempo, durante il quale si poteva misurarla, poiché il presente non ha nessuna estensione. Ammesso dunque che in quel frangente poteva essere misurata, eccoti ora una seconda voce, che cominciò a risuonare e risuona tuttavia con tono uniforme, senza alcuna variazione. Misuriamola finché risuona, poiché, appena avrà cessato di risuonare, sarà ormai passata e non sarà più, in modo che si possa misurare! Misuriamola, presto, e indichiamone la durata. Ma sta risuonando ancora: non si può misurarla, se non partendo dall'inizio della sua esistenza, ossia dal momento in cui cominciò a risuonare, e giungendo alla fine, ossia al momento in cui cessa. Gli intervalli si misurano appunto da un certo inizio e a un certo fine; quindi una voce non ancora finita non può essere misurata, non si può dire quanto sia lunga o breve, né dire se sia uguale a un'altra, o semplice o doppia o comunque diversa rispetto a un'altra. Ma una volta finita non sarà più. Come si potrà misurarla allora? Eppure misuriamo il tempo: non quello che non è ancora, né quello che non è più, né quello che non si estende in durata, né quello che non ha limiti; cioè non lo misuriamo né futuro, né passato, né presente, né passante; eppure lo misuriamo, il tempo. Deus creator omnium: in questo verso si alternano otto sillabe brevi e lunghe: le quattro brevi, cioè la prima, terza, quinta e settima, semplici rispetto alle quattro lunghe, cioè la seconda, quarta, sesta e ottava. Di queste ultime ognuna dura un tempo doppio rispetto a ognuna delle prime, come annuncio mentre le pronuncio, e come è, secondo che ci fanno intendere manifestamente i sensi. Come manifestano i sensi, io misuro la sillaba lunga mediante la breve, sentendo che la lunga ha una durata doppia della breve. Ma una sillaba risuona dopo un'altra; se prima è la breve, la lunga dopo, come trattenere la breve? e come applicarla sulla lunga per misurarla e trovare così che ha una durata doppia, se la lunga comincia a risuonare soltanto quando la breve cessò di risuonare? e la stessa sillaba lunga la misuro quando è presente, mentre non la misuro che finita? Ma quando è finita è passata. Cosa misuro dunque? Dov'è la breve, che uso per misurare? dov'è la lunga, che elevo misurare? Entrambe risuonarono, svanirono, passarono, non sono più. Eppure io misuro e rispondo, con tutta la fiducia che si ha in un senso esercitato, che una è sempllce, l'altra doppia, in estensione temporale, s'intende: cosa che posso fare solo in quanto sono passate e finite. Dunque non misuro già le sillabe in sé, che non sono più, ma qualcosa nella mia memoria, che resta infisso. È in te, spirito mio, che misuro il tempo. Non strepitare contro eli me: è così; non strepitare contro di te per colpa delle tue impressioni, che ti turbano. È in te, lo ripeto, che misuro il tempo. L'impressione che le cose producono in te alloro passaggio e che perdura dopo il loro passaggio, è quanto io misuro, presente, e non già le cose che passano, per produrla; è quanto misuro, al-

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Passato, lli'esente e futuro esistono solo nel soggetto pensante

Con l'anima misu••iamo anche la vita intera ili 1111 uomo e la storia intera dell'umanità

lorché misuro il tempo. E questo è dunque il tempo, o non è il tempo che misurd. Ma quando misuriamo i silenzi e diciamo che tale silenzio durò tanto tempo, quanto durò tale voce, non concentriamo il pensiero a misurare la voce, come se risuonasse affinché noi possiamo riferire qualcosa sugli intervalli di silenzio in termine di estensione temporale? Anche senza impiego della voce e delle labbra noi percorriamo col pensiero poemi e versi e discorsi, riferiamo tutte le dimensioni del loro sviluppo e le proporzioni tra i vari spazi di tempo, esattamente come se li recitassimo parlando. Chi, volendo emettere un suono piuttosto esteso, ne ha prima determinato l'estensione col pensiero, ha certamente riprodotto in silenzio questo spazio di tempo, e affidandolo alla memoria comincia a emettere il suono, che si produce finché sia condotto al termine prestabilito: o meglio, si produsse e si produrrà, poiché la parte già compiuta evidentemente si è prodotta, quella che rimane si produrrà. Così si compie. La tensione presente fa passare il futuro in passato, il passato cresce con la diminuzione del fÙturo, finché con la consumazione del futuro tutto non è che passato. Ma come diminuirebbe e si consumerebbe il futuro, che ancora non è, e come crescerebbe il passato, che non è più, se non per l'esistenza nello spirito, autore di questa operazione, dei tre momenti dell'attesa, dell'attenzione e della memoria? Così l'oggetto dell'attesa fatto oggetto dell'attenzione passa nella memoria. Chi nega che il futuro non esiste ancora? Tuttavia esiste già nello spirito l'attesa del futuro. E chi nega che il passato non esiste più? Tuttavia esiste ancora nello spirito la memoria del passato. E chi nega che il tempo presente manca di estensione, essendo un punto che passa? Tuttavia perdura l'attenzione, davanti alla quale corre verso la sua scomparsa ciò che vi appare. Dunque il futuro, inesistente, non è lungo, ma un lungo futuro è l'attesa lunga di un futuro; così non è lungo il passato, inesistente, ma un lungo passato è la memoria lunga di un passato. Accingendomi a cantare una canzone che mi è nota, prima dell'inizio la mia attesa si protende verso l'intera canzone; dopo l'inizio, con i brani che vado consegnando al passato si tende anche la mia memoria. L'energia vitale dell'azione è distesa verso la memoria, per ciò che dissi, e verso l'attesa, per ciò che dirò: presente è però la mia attenzione, per la quale il futuro si traduce in passato. Via via che si compie questa azione, di tanto si abbrevia l'attesa e si prolunga la memoria, finché tutta l'attesa si esaurisce, quando l'azione è finita e passata interamente nella memoria. Ciò che avviene per la canzone intera, avviene anche per ciascuna delle sue particelle, per ciascuna delle sue sillabe, come pure per un'azione più lunga, di cui la canzone non fosse che una particella; per l'intera vita dell'uomo, di cui sono parti tutte le azioni dell'uomo; e infine per l'intera storia dei figli degli uomini (Sal 30,28), di cui sono parti tutte le vite degli uomini.

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Agostino, Le confessioni, XI, 27-28, pp. 397-401

1. È la soluzione agostiniana al problema del tempo. Non è il movimento dei cieli: è una estensione psi-

cologica e perciò è presente in tutto: nella memoria in quanto passato, nell'attenzione·se attuale, nell'attesa se futuro.

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Agostino: la concezione lineare del tempo Agostino torna sul problema del tempo nell'imponente opera della sua maturità, La città di Dio, configurando il rapporto tra la città terrena e la città celeste, e quindi misurando la distanza che separa la visione cristiana della storia e della società da quella pagana. La tesi neoplatonica secondo cui ciò che ha avuto un inizio deve anche avere una fine viene respinta da Agostino (X, 31 ), lasciando intendere come in una prospettiva cristiana si abbandona la concezione cosmico-ciclica del divenire, privilegiando piuttosto un piano storico-esistenziale: il tempo è la misura di un singolo, irripetibile movimento rettilineo della storia da parte della consapevolezza umana. L'eternità non può essere paragonata neppure a un tempo lunghissimo, che è pur sempre limitato e finito, perché è assoluta immutabilità, mentre il tempo è qualificato dalla mutabilità propria delle nature create (Xl, 16). Tuttavia, il tempo, come «corsa verso la morte», tende all'eternità come al suo compimento. La città di Dio itinerante prefigura la città dei pacifici nel cielo dove l'uomo troverà il sommo bene, quando, liberato dalla sua condizione temporale, godrà della vita eterna nella carità e nella stabilità incorruttibile. Nelle pagine della Città di Dio che seguono Iii§], Agostino discute la dottrina dei cicli del tempo propria dei filosofi pagani: se tutto dovesse tornare come è stato una volta, allora l'anima si illuderebbe di trovare la felicità perché un giorno ritornerebbe infelice come prima ~11-18. Lo stesso libro di Qoè/et, dove si legge che nulla di nuovo accade sotto il sole, non va letto come prova della ciclicità assoluta del tempo, ma come discorso intorno alle realtà finite, che nascono e che muoiono, e in questo si assomigliano tutte. Ma nascono e muoiono una. volta sola, non infinite volte come sostengono i pagani ~119-44. Cristo invece è morto una sola volta per i peccati degli uomini, ovvero la salvezza è stata offerta per sempre da un atto unico e irripetibile ~144-53. D'altra parte, non vi sono contrarietà nel pensare che l'umanità non sia sempre esistita, come invece affermano molti autori antichi, e che Dio l'abbia creata una volta sola nel tempo ~153-60. L'obiezione più insidiosa dei filosofi pagani è tuttavia questa: se Dio avesse creato l'universo dal nulla, nel tempo precedente la creazione sarebbe rimasto inoperoso. Ma come può la bontà di Dio rimanere inoperosa? Pertanto i pagani affermano che o l'universo esiste da sempre oppure che esso nasce e muore in un perenne alternarsi di cicli, cioè che torna ad essere quello che è stato ~>160-72. Accanto a questa obiezione ve n'è un'altra che parte da un presupposto assai diffuso nella mentalità filosofica degli antichi: non è possibile avere scienza di qualcosa di infinito, se si intende per infinito ciò che non è determinato, perché questo non può essere concettualizzato. Neppure Dio, quindi, può avere tale scienza, anzi dell'infinito non si dà alcuna scienza. Ora, se il mondo non fosse una scena su cui si ripetono continuamente gli stessi eventi, se cioè non ci fosse una legge che regola costantemente il corso del tempo attraverso cicli ricorrenti e sempre uguali, gli eventi che accadono sarebbero infiniti e tutti diversi, unici e irripetibili, non determinati da alcuna legge, e quindi non potrebbero essere oggetto di scienza da parte di nessuna mente, neppure di quella di Dio. Dio non avrebbe né la possibilità di conoscere tutto quello che avviene nell'universo né di pensarlo in anticipo per poterlo creare ~172-84. A queste obiezioni dei filosofi pagani Agostino replica con un argomento semplice: essi possiedono un concetto di mente e di scienza tutto umano e trasferiscono su Dio il proprio modo di pensare ristretto e limitato. Non giungono a comprendere che in Dio riposo e azione coincidono, anzi che queste non sono categorie applicabili a Dio così come si applicano alle cose umane. ~185-109. In realtà, la decisione di Dio di creare il mondo era già presa dall'eternità: Dio non ha mai cambiato opinione, né è mai passato dall'ozio all'azione, perché la volontà di Dio è immu· tabile, non soggetta al tempo e al divenire. ~>11 09-119.

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Se il tempo è ciclico lleSSIIitll felicità è stabile

l cicli del tempo sono

relativi ad eventi che possono verifica••si di nuovo, ma in soggetti sempre diversi

Nella storia della salvezza vi sono eventi irripetibili come la mm·te e la I'ÌSIII'rezione di Cristo

I filosofi naturalisti ritennero di poter o dovere risolvere la suddetta controversia introducendo dei cicli di tempo. Affermarono che con essi tornavano a ripetersi in natura sempre i medesimi eventi e che allo stesso modo per il futuro si sarebbero avuti senza fine i ritorni degli avvenimenti che vengono e vanno, sia che i cicli si verifichino in un mondo senza tramonto, sia che il mondo sorgendo e tramontando a determinate distanze di tempo offrisse come nuovi sempre gli stessi avvenimenti sia passati che futuri. Così questi filosofi non riescono a considerar libera da questa beffa del destino l'anima immortale, anche se ha acquisito la sapienza, poiché va senza sosta verso una falsa felicità e senza sosta ritorna a una vera infelicità. Non può infatti essere vera felicità perché non si ha sicurezza della sua eternità e perché in quello stato l'anima o per radicale inesperienza non conosce nella realtà l'infelicità del mondo o la teme con angoscia pur essendo nella felicità. Ma se essa non dovrà più tornare all'infelicità terrena, passa da questa alla felicità. Avviene dunque nel tempo qualcosa che prima non era avvenuto e che non ha il limite del tempo. Questo si può dire dunque anche del mondo ed anche dell'uomo creato nel mondo. Quanto dire che con la sana dottrina attraverso una via dritta si devono evitare gli assurdi ritorni ciclici inventati da filosofi assurdi e impostori. Alcuni ritengono che si debba interpretare nel senso dei suddetti cicli che ritornano al medesimo e fanno tornare tutto al medesimo anche quel che si legge nel libro di Salomone, intitolato l'Ecclesiaste: Che cos'è ciò che è stato? Quello stesso che sarà. E che cos'è ciò che è avvenuto? Quello stesso che avverrà. Non v'è nulla di nuovo sotto il sole. Non si potrà dire: Guardate che questo evento è nuovo, perché è avvenuto nei secoli che furono prima di noi1 . Ma egli ha detto quelle parole riferendosi agli eventi di cui parlava in precedenza, cioè alle generazioni che vanno e vengono, ai giri del sole, al fluire dei corsi d'acqua e infine a tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Vi furono infatti uomini prima di noi, vi sono assieme a noi, vi saranno dopo di noi. Altrettanto si dica degli altri animali e delle piante. Perfino i fenomeni straordinari, che si verificano fuori dell'aspettativa, sebbene siano diversi fra di loro e di alcuni si dica che siano avvenuti una sola volta, nel senso che sono in genere fatti meravigliosi e straordinari, tuttavia vi sono stati e vi saranno e non è un fatto nuovo che si verifichino eventi straordinari sotto il sole. Però alcuni interpretano quelle parole nel senso che quel grande sapiente voleva far intendere che tutto è stabilito nell'ordinamento divino e che quindi niente v'è di nuovo sotto il sole. Comunque secondo le norme della retta fede non dobbiamo credere che con le parole di Salomone furono indicati i cicli con cui si hanno, come pensano costoro, i medesimi ritorni di tempi e di avvenimenti nel tempo; ad esempio, come il filosofo Platone in quel tempo ha insegnato agli allievi nella città di Atene, nella scuola detta l'Accademia, così il medesimo Platone, la medesima città, la medesima scuola, i medesimi alunni sarebbero tornati attraverso le infinite successioni di tempo nel passato a fasi molto lunghe ma determinate e tornerebbero nelle infinite successioni che verranno. Non dobbiamo, dico, credere a queste fandonie. Infatti Cristo è morto una sola volta per i nostri peccati (Rm 6,10), ma risorgendo dai morti non muore più e la morte non l'assoggetterà più nell'avvenire (Rm 6,9), e noi dopo la risurrezione saremo sempre col Signore (1 Ts 4, 17), al quale nel tempo presente diciamo quel che ci sugge-

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1. Il riferimento è allibro biblico eli Qoèlet o Ecclesiaste (Qo 1,9,10).

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Difficoltà di conciliare ritloso e azione, eternità e tempo

Secondo i pagani il ritm•no dell'identico è condizione della pt•escienza diuina

l pagani ert•ano perché misu••ano l'intelligenza divina con la loro mente limitata

risce il sacro Salmo: Tu, o Signore, ci custodirai e ci d{fenderai dalla generazione presente, fino nell'eternità. Penso infine che a questi filosofi si adatti molto bene il versetto seguente: Gli empi si muoveranno in giro (Sal 11,8-9), non nel senso che la loro vita ritornerà ai cicli da loro immaginati, ma perché nel tempo presente la via del loro errore è un circolo vizioso, cioè una falsa dottrina. [.. .l. Non ho dubbi neanche sul fatto che prima della creazione dell'uomo non sia esistito in qualche tempo alcun uomo e che non è stata restituita all'esistenza attraverso non so quali cicli e non so quante volte una umanità della medesima specie o altra simile nella natura. Non mi distolgono da questa credenza gli argomenti dei filosofi, anche se è considerata molto profonda la loro teoria che l'infinito non si può rappresentare come oggetto di scienza2 . Pertanto Dio, dicono essi, contiene in sé tutte le ragioni finite delle cose finite che crea. Inoltre, soggiungono, non si deve pensare che la sua bontà sia rimasta per qualche tempo senza agire per non affermare che la sua azione sia nel tempo, giacché il suo riposo sarebbe nell'eternità e poi, come se si fosse pentito del precedente suo riposo senza inizio, avrebbe dato inizio alla sua opera. Pertanto è necessario, dicono, che ritornino sempre i medesimi eventi e trascorrano identici nel loro perpetuo ripetersi. Quindi il mondo o si perpetuerebbe nel divenire perché, sebbene sia sempre esistito senza avere inizio nel tempo, è stato creato, ovvero, nonostante il suo sorgere e tramontare, sarebbe tornato e tornerebbe sempre a ripetersi mediante quei cicli. Col dire, cioè, che le opere di Dio hanno avuto un inizio nel tempo, si verrebbe ad affermare che egli abbia in qualche modo condannato il precedente suo riposo senza inizio come inerte e ozioso e perciò riprovevole e che pertanto sia passato al movimento. Se al contrario si afferma che egli ha sempre compiuto opere temporali, di volta in volta diverse, e che così è giunto una buona volta a creare anche l'uomo, che anteriormente non aveva creato, potrebbe sembrare, a sentir loro, che ha creato le cose che ha creato non con la scienza, con cui a loro avviso non ci si può rappresentare l'infinito, ma così secondo l'opportunità, come gli veniva in mente con una intermittenza dovuta al caso. Quindi, secondo loro, se si ammettono quelle palingenesi con cui tornano i medesimi eventi nel tempo o in un mondo perpetuo o in un mondo che inserisce in cicli identici il ripetersi del suo sorgere e tramontare, non si attribuiscono a Dio né un ozio indolente, tanto più che è di una lunghezza senza inizio, né un'inconsapevole sprovvedutezza nell'agire. Se non si dà il ritorno dell'identico, è impossibile, dicono, che sia colta da una sua scienza o prescienza la realtà differenziata con infinita diversificazione. Se la ragione non riesce a confutare queste elucubrazioni, con cui pensatori miscredenti tentano di stornare la nostra religiosità semplice dalla via dritta per farci girare con loro attorno ai cicli (Sal 11,9), la fede dovrebbe farsene beffe. Si aggiunge che con l'aiuto del Signore Dio nostro una dimostrazione apodittica riesce a spezzare questi cicli periodici che la suddetta teoria si affanna a rappezzare. Costoro errano, al punto da preferire un circolo vizioso alla via vera e dritta, principalmente in questo che dall'angolazione della mutevole e angusta intelligenza umana misurano l'intelligenza divina assolutamente immutabile, comprensiva eli qualsiasi infinità e che dispone in una sue-

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2. Per la filosofia greca, in particolare dai Pitagorici fino acl Aristotele, l'infinito rappresenta la dimen-

sione del disordine, dell'indeterminato, clell'inconoscibile, della materia opposta alla forma.

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In Ilio rillllSO e azione coincidono

Il volere di Ilio è immutabile

cessione, senza passare da un pensiero all'altro, l'infinita serie dei numeri. Capita loro quel che dice l'Apostolo: Non capiscono perché confrontano se stessi a se stessi (2Cor 10,12). Essi infatti devono eseguire con una decisione nuova tutto ciò che loro capita in mente di dover fare poiché hanno la mente posta nel divenire. Proponendosi quindi al pensiero non Dio, che non possono rappresentarsi, ma in vece di lui se stessi, confrontano non Dio ma se stessi e non a lui ma a se stessi. Noi non dobbiamo ritenere che Dio si trovi in una condizione quando è in riposo e in un'altra quando è in attività. È perfino inconcepibile che sia condizionato, come se nel suo essere si verifichi qualche cosa che prima non c'era. Chi è condizionato infatti subisce una modificazione e ogni essere che subisce una modificazione è nel divenire. Nel suo riposo dunque non si devono ravvisare pigrizia, ozio, inerzia, come nella sua attività lavoro, sforzo, fatica. Sa agire nel riposo e riposare nell'azione. Può applicare acl un'opera nuova una determinazione non nuova ma eterna e non ha cominciato a fare ciò che non aveva fatto perché si è pentito di essere stato anteriormente in riposo. Ma supponiamo che fosse prima in riposo e poi in attività, anche se io non so come questi concetti siano accessibili al pensiero umano. Ovviamente le nozioni del prima e del poi si riferirono alle cose che prima non esistevano e poi sono esistite. In Dio al contrario non si ebbe un volere successivo che mutò o sostituì il volere antecedente, ma un solo medesimo eterno immutabile atto della volontà fece sì che le cose create non esistessero finché non esistettero e che poi esistessero quando cominciarono ad esistere. Mostrò così a coloro che potevano conoscere queste verità, rivelandole forse con un intervento straordinario, che non aveva bisogno delle cose ma che le aveva create per disinteressata bontà, giacché anche senza di esse era rimasto in una felicità non minore da un'eternità senza inizio.

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Agostino, La città di Dio, XII, 13.17, pp. 578-580, 585-587

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La ricerca di Dio

a sempre l'uomo credente ha cercato di avvicinarsi a Dio con i mezzi a sua disposizione: i sacrifici, i riti, le preghiere. I filosofi antichi, nella maggior parte dei casi, non hanno rifiutato la credenza nel divino, cercando tuttavia di purificarne l'immagine da tutte le proiezioni antropomorfiche della religiosità popolare. Nella ragione hanno visto una facol-

S. Botticelli, S. Agostino nello studio, 1480 Firenze, Chiesa di Ognissanti: tà che non allontana l'uomo dal divino, ma al contrario lo avvicina alla sorgente ultima della verità, della bellezza e della bontà. Diverse sono state le risposte dei filosofi anche nell'epoca tardo antica, in un contesto in cui proliferavano molte proposte religiose e in cui la ricerca di Dio era sentita particolarmente importante. Insieme alla ragione, i filosofi tardo-antichi mettono in evidenza anche il ruolo dell'ascesi, del distacco dai beni esteriori e dall'esercizio delle virtù, come mezzi preliminari per accostarsi alla vita divina. Inoltre, essi nella maggior parte considerano la conoscenza intellettuale, e quindi la filosofia, come una scala che porta l'uomo in cima alla contemplazione, ma che deve essere anch'essa abbandonata per giungere all'unione completa con Dio .. Secondo Filone, filosofo ebreo di Alessandria, la figura di Abramo riassume, nella sua natura di uomo di fede e soprattutto di pellegrino, l'essenza dell'itinerario dell'uomo che tende a Dio e che permette di ereditare le "cose divine", giungendo all'Assoluto. Per fare ciò occorre lasciare il mondo, prendendo le distanze dal proprio corpo e anche dalla propria intelligenza, e rientrare in se stessi. Anche per Platino è solo volgendosi all'interiorità dell'anima che possiamo tendere verso l'Uno: l'anima, staccandosi da tutte le cose esteriori, spengendo ogni conoscenza e riconoscendo il proprio nulla, può abbandonarsi alla contemplazione di Lui. Tutta la vita di Agostino, d'altra parte, può essere definita come un'instancabile ricerca eli Dio. Ed è a partire dalla sua esperienza personale che Agostino presenta la ricerca eli Dio come un itinerario in cui anche l'intelligenza è impegnata in uno sforzo di conoscenza, unendo così in modo inscindibile fede e ragione.

Filone: l'erede delle cose divine Il filosofo alessandrino sceglie come protagonista del suo trattato L'erede delle cose divine la figura biblica di Abramo ii'!Ud: la sua vicenda, narrata nel capitolo 15 della Genesi e di cui Filone fa una lettura allegorica, corrisponde, nell'interpretazione del filosofo ebreo, alla vicenda dell'anima che cerca la compiutezza spirituale, e rappresenta così il paradigma di un itinerario verso Dio che ogni anima in cerca dell'Assoluto deve percorrere. Secondo Filone, Abramo è un «pellegrino» e un «migratore», e ogni itinerario a Dio passa attraverso due migrazioni: dal mondo e da se stessi, cioè dal proprio intelletto, per poter ten-

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dere verso l'Assoluto. Parlando di migrazione dal mondo, Filone interpreta l'abbandono della terra che fu richiesto da Dio ad Abramo come distacco dalle passioni del corpo, l'abbandono della parentela come distacco dalle sensazioni e l'abbandono della casa paterna come rinuncia al proprio linguaggio. Il corpo, le sensazioni e il linguaggio devono essere infatti progressivamente abbandonati se l'uomo vuole incontrarsi con Dio. Migrare da se stessi significa, poi, non affidarsi esclusivamente alla propria intelligenza perché solo l'intelligenza che sa trascendere se stessa può arrivare a Dio. Abbandonare la propria intelligenza non significa però smettere di pensare, ma cessare di farlo confidando solo nelle proprie capacità. Occorre affidarsi a Dio perché illumini dall'alto i nostri pensieri ~>11-35. La rinuncia alla propria intelligenza viene paragonata da Filone all'offerta che il credente fa nel santuario, solo che qui non si tratta di un'offerta fatta in un santuario materiale, ma in un santuario spirituale ~>136-44. Per uscire da se stessi bisogna infatti alzare gli occhi verso il cielorverso i beni che Dio concede soltanto agli uomini virtuosi in quanto essi soli possono vedere Dio mentre gli altri, iilnche se hanno gli occhi aperti, li tengono fissi soltanto sulle miserie terrene ~>144-64. L'espressione «uscire da se stessi» va intesa infaW nel suo significato moréile. Si può uscire da se stessi anche restando nel proprio corpo come dimostra il fatto che non sempre la nostra anima è presente nel medesimo luogo dove si trova il nostro corpo come anche il sacerdote, pur essendo nel tempio, si trova presso Dio, o l'amico, essendo lontano, si trova vicino a noi. Si può quindi rimanere nel proprio corpo, uscendone fuori o con l'anima o con il pensiero ~>165-83. La scoperta del proprio essere nulla è il presupposto dell'incontro con .Dio. Il migratore diventa erede nel momento in cui riconsegna tutto ciò che ha e tutto ciò che è a Dio ~>183-95.

DJI Per gode1•e di Dio bisogna IISCÌI'Il dal mondo

e da se stessi

Il cm·po, la sensazione, il linguaggio sono insufficienti

e ingannevoli

Chi, dunque, sarà l'erede? Non certo il pensiero che resta per sua spontanea scelta nella prigione del corpo, bensì quello che, spezzate le catene e fattosi libero, è uscito fuori dalle sue mura ed ha abbandonato, per così dire, anche se stesso. ••Colui che uscirà da te» sta scritto .. questi sarà il tuo erede» 1 . Se dunque, o anima, penetrerà in te qualche desiderio di ereditare i beni divini, non solo dovrai abbandonare la ••, in quanto da lui è creato e a lui ritorna. La realtà di Dio in se stessa è infatti inconoscibile e la creazione è una sua manifestazione. Funzione della filosofia e della teologia, le cui nozioni in Scoto Eriugena coincidono, è quello di scorgere nelle manifestazioni di Dio i riflessi e i simboli della sua Luce inaccessibile, cosl da intraprendere un percorso di risalita o anagogico, cioè mirante al ricongiungimento mistiCo con Dio.

E in realtà, dal momento che [la bontà divina] inizia ad apparire nelle sue teofanie si può dire che essa proceda in qualche modo dal nulla al qualcosa: la realtà che è considerata superiore a ogni essenza è conosciuta proprio in ogni essenza. Pertanto ogni creatura visibile e invisibile può essere definita una teofania, ovvero un apparire di Dio. [. . .]Pertanto le forme e le specie delle realtà sensibili prendono il nome di teofanie capaci di mostrarsi nel modo più evidente. Giovanni Scoto Eurigena, Periphyseon, 3, 680

Un pensiei'O panteista?.

Benché Dio, nella sua propria natura, non possa mai essere conosciuto, Egli si manifesta nell'universo creato. E poiché tutto ciò che esiste è una teofania, Eriugena asserisce, all'interno del rapporto Dio-mondo, che Dio stesso è creato nelle cose che egli ct·ea. In questo senso, l'Incarnazione del Verbo, commentata nell'Omelia sul Prologo di Giovanni, è vista soprattutto come il processo in Cl{i l'Uno si diffonde per riportare il molteplice all'unità di se stesso. Sviluppando un linguaggio molto ardito e complesso, Giovanni giunge a comprendere il mondo come un momento della vita divina e per questo il suo pensiero è stato interpretato come una forma di panteismo. Nel Periphyseon, tuttavia, Giovanni sottolinea il ruolo centrale di Ct'isto, del L6gos, come supt·emo archetipo della ct·eazione. L'Intelletto o L6gos (la seconda persona della Trinità) è l'intermediario e lo strumento della creazione. Il L6gos è infatti l'unità e la sede delle «Cause primordiali", cioè delle Idee platonicamente intese, che costituiscono la mediazione tra Dio e le creature. In questo senso, l'intero sistema speculativo di Giovanni assume un valore mistico originale: tutto il suo pensiero sembra tendere a descrivere il ritorno dell'umanità a Dio, sottolineando il ruolo di Cristo come redentore cosmico:

Assumendo dunque la natura umana, assunse ogni creatura. E per questo se salvò e restaurò la natura umana, che aveva assunto, restaurò certamente ogni creatura visibile e invisibile. Di conseguenza riteniamo non inutile comprendere che l'incarnazione del Verbo di Dio ha giovato non meno agli angeli che agli uomini; giovò infatti agli uomini per la loro redenzione e per il rinnovamento della loro natura, giovò agli angeli per la loro conoscenza. Prima che si incarnasse, il Verbo era senza dubbio incomprensibile ad ogni creatura visibile e invisibile[. ..},- ma quando in quel certo modo discese dal cielo, facendosi carne, entrò nella conoscenza della natura angelica e umana con una straordinaria e molteplice e infinita teofania, ed egli che era sconosciuto sopra tutte le cose, assunse da tutte le cose la natura in cui potesse essere conosciuto, riunendo in sé il mondo sensibile e intelligibile in una inafferrabile armonia. E la luce inaccessibile si aprì a ogni creatura spirituale e razionale. Giovanni Scoto Eriugena, Pertphjiseon, 5,25

Di11inizzazione

dellanatm•aumana

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In effetti, per Giovanni, il Verbo essendo sapienza creatrice e sapienza creata, Dio e uomo nella stessa persona, rappresenta il culmine del processo di divinizzazione (deificatio), mediante la quale Dio e l'uomo sono uniti in una sola sostanza. Si trat-

Il dibattito sulla 11redestinazione

2.

Costantinopoli centi'D di cultura

Il declino delllll!lere filosofico

ta di un ritorno a Dio che implica una trasformazione, appunto la deificatio (o théosis), concetto centrale nella teologia e nella spiritualità dell'Oriente cristiano. Secondo questa concezione, tutti gli uomini sono chiamati a questa trasformazione con una scelta libera, aderendo alla fede cristiana, nella convinzione che la «vera filosofia è la vera religione e la vera religione è filosofia". In questa prospettiva, si può leggere anche il suo intervento nel dibattito sulla predestinazione, sollevato a quel tempo dal monaco sassone Gotescalco d'Orbais (801870) che negava il valore della libera scelta dell'uomo a favore o contro la fede in Cristo come Verbo incarnato. Una concezione che Giovanni confuta con serrate argomentazioni nel suo trattato De praedestinatione, ribadendo il valore della scelta e della responsabilità personale. Nel suo complesso, l'opera di Giovanni Scoto sarà ripresa e discussa nei secoli successivi dai maestri della Scolastica, quali Alberto Magno (1206-1280) e Tommaso d'Aquino.·

La filosofia nel mondo bizantino La vita culturale e filosofica dell'Impero d'Oriente si concentrò progressivamente sempre di più nella sua capitale, e in stretta relazione con la vita di corte. Direttamente dipendenti dalle direttive e dai finanziamenti della corte, uomini di cultura e pensatori bizantini rimasero sempre legati alle istituzioni ufficiali, fortemente condizionate dalla politica imperiale. Dopo la chiusura della scuole filosofiche, e in particolare quelle di Alessandria e di Atene nel 529, per iniziativa di Giustiniano (482-565), Costantinopoli (Bisanzio) divenne il centt·o principale per una formazione supedore, dove però la lingua utilizzata, senza interagire con le altre lingue correnti nell'Impero, era il greco. A partire dal VI secolo, l'accesso agli studi superiori fu riservato alle élites che potevano permettersi insegnanti privati. Il latino non era più trasmesso, salvo che per lo studio del diritto, e il greco, coltivato dalla ristretta cerchia degli intellettuali, era la nobile lingua classica, tenuta viva come modello insuperabile. Questa venerazione verso la lingua della grande cultura greca, di fatto, non favorì alcuna spinta verso un rinnovamento linguistico. Dato che l'insegnamento delle arti liberali era affidato a privati, laici, il monachesimo orientale non sentì l'esigenza di dar~ vita a nuove istituzioni educative e la teologia, appresa all'interno dei monasteri, non divenne mai una disciplina universitaria. Se in un primo momento, sulla scia sicura dei Padri della Chiesa, i pensatori bizantini, profondamente istruiti nella retorica e nella filosofia classica, avevano rielaborato la teologia nel confronto con la tradizione filosofica greca, nel corso del tardo Medioevo bizantino, invece, si venne a creare una progressiva spaccatura tra la tradizione filosofica e la spiritualità orientale.

Teologia e mistica in Dionigi Areopagita • Dionigi Areopagita (V sec., noto anche come Pseudo-Dionigi) ebbe straordinaria influenza nella cultura cristiana tardo antica e, attraverso la traduzione delle sue opere da parte di Giovanni Scoto Eriugena, nel IX secolo, anche sulla teologia medievale, in particolare latina. È detto «Areopagita, perché tradizionalmente, ma erroneamente, identificato con il primo vescovo di Atene, un pagano convertito da san Paolo, secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli, con il celebre discorso sul «Dio ignoto» da lui tenuto nell'Areopago di Atene (At 17,16"34).

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Teologia positiua e oegotiua

La

di Dio si identifica con l'ignoranza

COIIIISCilllZil

Lo Pseudo-Dionigi è in realtà un autore siro-palestinese, attivo verso la fine del V secolo, le cui opere sono raccolte nel Corpus dionysianum (De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia, Epistole). Egli si dimostra influenzato dal neoplatonismo di Proclo, di cui accoglie la processione triadica (Uno-Intelligenza-Anima) conciliandola con la nozione cristiana di creazione, chiamata a spiegare il passaggio dall'Uno al mondo. Il mondo è a sua volta organizzato in gerarchie, quella celeste, quella legale e quella ecclesiastica. Dionigi propone inoltre una fondamentale distinzione tra teologia positiva o catafatica (affermativa) e teologia negativa o apofatica, che si richiamano a due aspetti nella divinità: la trascendenza (monè) e l'f:eiJiari.azione) Cpr6odos). La trascenclenza corrisponde alla divinità nella sua assoluta immobilità e inalterabilità. L'emanazione si riferisce invece alla totalità degli esseri provenienti dalla divinità, come emanazione ed eccesso della sua potenza. La mente umana può giungere solo alla contemplazione delle emanazioni del primo principio, mentre la divinità nella sua trascendenza rimane inaccessibile, anche alle intelligenze angeliche. Da qui la necessità per conoscere Dio eli ricorrere al metodo negativo, che consiste nello spogliare la divinità eli tutti gli attributi, che possono essere applicati solo all'emanazione eli Dio, Sul piano razionale, la conoscenza del primo principio s'identifica con l'ignoranza e il silenzio che avvolgono la mente umana nel tentativo eli accostarsi al divino nella sua trascendenza, e ha un corrispondente simbolico nel personaggio biblico eli Mosè, eli cui si dice nel libro dell'Esodo che "avanzò verso la nube oscura, nella quale era Dio» (Es 20,21):

[Mosè} si distacca da ciò che è visibile e da coloro che vedono, e penetra nella tenebra veramente mistica dell'ignoranza. Rimanendo in essa, chiude ogni percezione conoscitiva ed entra in colui che è del tutto intoccabile e invisibile: allora appartiene veramente a colui che tutto trascende, senza essere più di nessuno, né di se stesso né di altri; fatta cessare ogni conoscenza, si unisce al principio del tutto sconosciuto secondo il meglio delle sue capacità, e proprio perché non conosce più nulla, conosce al di sopra dell'intelligenza. Dionigi Areopagita, Teologia mistica, l, 3

L'unione mistica e In sforzo di dire l'indicibile

Dio è conosciuto quindi da Mosè come non esistente, vale a dire non identificabile con nessuno degli esseri esistenti. All'uomo è dato di sperimentare la forma di conoscenza che è caratteristica dell'unione (hénosis) con il pdmo pdncipio e superiore a qualsiasi conoscenza razionale. In questo contatto con la trascendenza le parole vengono meno e il linguaggio di Dionigi non può che ricorrere alla figura retorica dell'ossimoro (accostamento di due termini fra loro contrastanti, come ad esempio «tenebra luminosissima•.), nello sforzo di dire l'indicibile:

Tenebra luminosissima del silenzio che inizia al mistero: là dove c'è più buio essa fa brillare ciò che è oltremodo risplendente, e nella sede del tutto intoccabile ed .invisibile ricolma le intelligenze prive di vista di stupendi splendori. Dionigi Areopagita, Teologia mistica, l, l

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Emanazione: concezione filosofica orientale, fatta propria dal neoplatonismo, secondo la quale gli es-seri derivano secondo un processo eli emanazione: Dio restando uno e immutabile fa sorgere da sé gli enti, dando luogo a un ordine gerarchico dell'universo.

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Un ossimoro che accosta tenebre e luce, nel tentativo di descrivere l'esperienza di un misterioso e indicibile silenzio: il mistero che evidenzia l'impossibilità di dire l'esperienza della trascendenza, si risolve in un'illuminazione ineffabile.

Massimo il Confessore e l'affet•mazione dell'tnmmità di Cristo

Giovanni Damasceno

e la difesa delle immagini

l teologi bizantini • Tra il VI e il VII secolo, Massimo il Confessore (580-663) è stato certamente uno dei pensatori più originali del suo tempo e le sue opere attestano la sua profonda cultura che attinge agli scritti della patristica, così come alle opere dei filosofi antichi. Massimo entrò in polemica con alcune correnti eretiche e in particolare il monenergismo, che sosteneva esservi in Cristo solo un'energia divina e quindi negava la sua umanità. Massimo confutò questa eresia rifacendosi a Origene, Gregorio di Nazianzo e allo Pseudo-Dionigi, ribadendo l'autorevole punto di vista dei Padri della Chiesa che avevano sempre sostenuto la piena umanità di Cristo unita alla divinità della sua persona. Massimo era consapevole dell'importanza di affermare l'umanità di Ct'isto: riconoscendone soltanto la divinità lo si sarebbe completamente alterato e dissolto in un mito, mentre la sua umanità e divinità sono misteriosamente congiunte nell'unica persona del Verbo che in un momento determinato della storia è divenuto carne, per la salvezza dell'uomo. Affermare l'umanità di Cristo, significava anche affermat·e l'impot·tanza della volontà per ottenere la salvezza che non poteva trovare la sua più alta esaltazione che nella persona di Cristo, che ha accettato volontariamente la sua passione. Similmente, il cristiano è chiamato a partecipare attivamente con la sua volontà al mistero della Redenzione: . n mistero della salvezza appartiene a coloro che lo vogliono, non a coloro che lo subiscono, (Interpretazione del "Padre nostro", p. 69). Anche Giovanni Damasceno (675-749) confermò l'autorevole insegnamento dei Padri, sviluppando ~a dottdna cdstologica e trinitaria, non accettata dall'Islam, in un contesto in cui la religione di Maometto tendeva a diffondersi rapidamente, grazie alla convinzione di dover imporre l'Islam anche con la spada. Studiò filosofia ed espose la dottrina cristiana, utilizzando la dialettica aristotelica, nella sua imponente opera La fonte della conoscenza. Difese, inoltre, il culto delle immagini nella controversia con gli iconoclasti (dal greco eik6n, «immagine", klao, «spezzo,), secondo i quali la venerazione delle icone coincideva con l'idolatria, e che indussero l'imperatore d'Oriente Leone III Isaurico (675741) a disporre la distruzione delle immagini sacre (730). I suoi discot·si, composti in difesa delle rappresentazioni sacre, costituiscono fino ad oggi il fondamento dogmatico del culto delle immagini nella Chiesa ortodossa: se Dio si è calato nella materia per salvare l'uomo, la materia, e in particolare la rappresentazione sensibile di Dio in un'icona dipinta, può servire a favorire la venerazione di Dio:

Io non venero la creatura al posto del Creatore, ma venero il Creatore che è stato creato in modo simile al mio ed è disceso nella creazione senza diminuzione né detrazione, per glorificare la mia natura e renderla partecipe della natura divina. [. ..} Perciò con fiducia io raffiguro l 'invisibile Dio come invisibile, ma diventato visibile per la partecipazione della carne e del sangue. Io non raffiguro la divinità invisibile, -ma la carne di Dio che è stata vista. Giovanni Damasceno, Difesa delle immagini sacre, I, l, 4

Le icone risultano così essere non solo dei «sermoni silenziosi,, ma dei segni visibili della santificazione della materia, conseguente all'incarnazione del L6gos.

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Gli ultimi lll'otagonisti dell'attività filosofico bizantina

Nell'XI secolo, tra i sostenitori del valore della filosofia per la speculazione teologica vi fu Michele Psello (1018-1078 ca.), chiamato a insegnare nella scuola imperiale istituita da Costantino IX Monomaco (1045). Riprendendo il pensiero di Giamblico (245325 ca.), Psello cercò di conciliare la teoria dell'esistenza di intermediari tra Dio e la creazione materiale con la dottrina cristiana, nella convinzione che il neoplatonismo potesse se1vire come propedeutica alla conoscenza del cristianesimo. Ma la sua visione, un tempo facilmente accettata dai Padri della Chiesa, fu considerata sospetta, come in generale l'attività filosofica. Sia Psello che il suo discepolo Giovanni Italo (XI sec.) subirono provvedimenti disciplinari e furono destituiti dall'insegnamento. Di fatto, dopo lo scisma dalla Chiesa di Roma, nel1054, i teologi bizantini non mostrarono l'esigenza eli istituire contatti con i filosofi occidentali o di attivarsi per tradurne le opere. L'attività filosofica, tuttavia, rimase viva, riaccendendosi, particolarmente, in occasione della disputa sulla pratica dell'esicasmo (dal greco esychia, «quiete..), la pacificazione interiore perseguita con la preghiera continua praticata dai monaci. Gregorio Palamas (XIV sec.) fu uno dei più convinti difensori della tradizione monastica, espressione di un intelligente conservatorismo che aveva i suoi punti di riferimento nella liturgia bizantina e nell'ideale della vita monastica e contemplativa.

la filosofia nel mondo islamico

l centri della filosofia si spostano od Oriente

Le controversie religiose e l'appr·ofondimentn dei dngmi del Ciii'DnD

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l'ili1©1QJH'illi;U"@ cl®I!'D~!ram ©IQJI'il la 1iii"»~IQJfia gr®©a • La chiusura dell'Accademia platonica da parte di Giustiniano ebbe come conseguenza l'esilio di tanti filosofi e studiosi che si trasferirono verso Oriente, in Siria e Mesopotamia. Se Atene era stata per secoli la capitale della cultura, altri centri assunsero progressivamente sempre più importanza e sempre più verso Oriente: Hanan (a sud-est dell'attuale Turchia, a confine con la Siria), Damasco, Edessa, Antiochia diventarono importanti centri di diffusione della filosofia greca grazie a una grande attività di traduzione: dal greco in siriaco e dal siriaco all'arabo, o direttamente dal greco all'arabo, in primo luogo per iniziativa dei cristiani di Siria, desiderosi di attingere alla grande tradizione classica e cristiana e poi · da parte dei musulmani che conquistarono la Siria, la Persia e l'Egitto. Gli islamici scoprirono così le opere di Aristotele che costituivano la parte più rilevante e filosoficamente più feconda di quel patrimonio culturale. Di fatto, l'VIII secolo coincise con la divisione dell'Islam in due aree: l'Islam orientale e quello occidentale che arrivò a conquistare la Spagna, con la dinastia omayyade di Cordova. L'Islam odentale, con il califfato ab baside, fece di Baghdad il centro di maggior rilievo per la cultura filosofica ed è nel corso del IX secolo che l'arabo tenderà a sostituire il siriaco come lingua filosofica. A Baghdad verrà istituita la «Casa della Sapienza,, per promuovere lo studio e la traduzione dell'Organon aristotelico; contemporaneamente, verranno tradotti i testi dei filosofi neoplatonici e di gran parte degli antichi filosofi greci. Il contatto dell'Islam con le dottrine filosofiche e teologiche greche, ebraiche e cristiane accese numerose dispute tra i maestri musulmani sollevando gravi questioni. Tanto più che, come l'ebraismo e il cristianesimo, anche l'Islam sentì presto l'esigenza di caph·e meglio i contenuti della pt·opria religione e di interpretarli razionalmente. Le dottrine del Corano sono in buona parte un adattamento dei dogmi religiosi ebraici e cristiani, con cui condividono la fede in un unico Dio creatore dell'universo

l. Le origini del pensiero medievale

l mutaziliti e la tradizione del Kalam

Il pensiel'll eclettico dei fa/iìsifa

AI-Kindl: la dottrina dell'intelletto agente

e l'attesa di un giudizio finale. Per il Corano Dio ha creato il mondo con un atto libero della sua volontà ed è così onnipotente e onnisciente da conoscere in anticipo tutto quello che avverrà nel futuro. La prescienza di Dio potrebbe indurre a pensare che tutti gli avvenimenti siano predestinati, tuttavia l'Islam ritiene che l'uomo sia libero e responsabile delle proprie azioni, tanto è vero che alla fine ci sarà un giudizio, per alcuni il paradiso, per altri l'inferno. Si tratta di dogmi, quindi, che tendevano a richiedere spiegazioni e approfondimenti. La nascita della setta dei mutaziliti si deve proprio all'influenza del pensiero greco, con il costituirsi delle prime forme di speculazione filosofica nell'Islam, tese a rendere internamente coerenti e intellettualmente accettabili le dottrine del Corano. Alla fine del IX secolo, si formò questo movimento che si fondava sul Kalam, «parola, o «argomentazione ragionata". L'intenzione dei promotori del Kalam era, a un tempo, polemica con le altre religioni e rivolta a risolvere i dibattiti interni al mondo islamico. Si affermava così un monoteismo radicale, contro ogni forma di politeismo, e in polemica con la dottdna tdnitada cristiana, riprendendo il principio aristotelico secondo ctÌi Dio è radicalmente uno, senza distinzione tra la sua essenza e i suoi accidenti. I mutaziliti si opposero anche a un'altra corrente, gli ash 'ariti, che accentuava l'annipotenza divina negando il libero arbitrio dell'uomo. Propensi a un uso eclettico di singole idee ltlosofiche per ragioni di utilità contingente, i mutaziliti ricorsero anche agli insegnamenti degli atomisti e degli epicurei, secondo cui l'universo è governato dal caso, così da escludere la dottrina della predestinazione. La difesa del libero arbitrio riprendeva un argomento già usato da Agostino nella polemica contro i manichei: se l'uomo ha il libero arbitrio, la causa del male nell'universo è individuabile nell'uomo e non in Dio. Le principali teorie mutazilite riguardavano l'identità eli Dio, considerato come unità assoluta e incorporea; la libertà della volontà umana, per cui il male è opera dell'uomo e non di Dio; i contenuti della rivelazione coranica che annuncia punizioni per i malvagi e ricompense per i giusti; la condizione dei peccatori, ritenuti più degli infedeli, meno dei veri credenti; l'obbligo di intraprendere la guerra santa, coincidente con l'obbligo eli combattere il peccatore. Tutte dottrine contenute nel Corano, ma bisognose di approfondimento e di argomentazione razionale per essere insegnate ai credenti e difese contro gli infedeli. Ma la corrente filosofica più specifica, che incontrerà meno fortuna all'interno dell'Islam ma che avrà un grande ruolo nella storia intellettuale europea, è quella delfalsafah (filosofia), trascrizione araba del greco philosophia, praticata daifaliìsifa (filosofi). Questi Itlosofi furono tutti eclettici, riferendosi ciascuno a una qualche scuola filosofica della tradizione greca ed ebbero profondi interessi e competenze in vari ambiti: scienza, medicina, musicologia, matematica. I falasifa si distinguono per essersi guadagnati da vivere come medici di corte o al servizio dello Stato. L'unica eccezione, in questo senso, è la figura eli Al-Kindi' (ca. 800-866), riconosciuto ufficialmente come filosofo, che insegnò alla sua cerchia personale di studenti e fu il tutore del figlio del califfo Al-Mu'tasim (835-842). Al-Kindi visse prima della chiusura della «Casa della Sapienza, da parte dei califfi, dove seguì personalmente la traduzione eli oltre 200 opere di autori greci, convinto della necessità di attingere alla ricchezza della tradizione filosofica greca:

Noi dobbiamo ringraziare moltissimo tutti coloro che ci hanno comunicato anche una piccola particella di verità, e a più forte ragione coloro che ce ne hanno insegnato di più, perché ci hanno resi partecipi dei frutti delle loro riflessioni e hanno semplificato le questioni complesse che riguardano la natura della realtà. Se non ci

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avessero fornito queste premesse che spalancano la porta della verità, noi saremmo stati incapaci, nonostante prol~;tngate e assidue ricerche, di trovare i principi primi da cui sono derivate le conclusioni delle nostre ricerche su questioni oscure, e che sono stati trasmessi di generazione in generazione fino ai giorni nostri. Al-Kincli, Libro dellafilosojìa prima, p. 340

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AI-Fn••iibl: In distinzione trn essenza ed esistenza

Nel tentativo di sviluppare una filosofia più sistematica rispetto a quella proposta dalla tradizione del Kalam, Al-Kindi si basò sulle dottrine neoplatoniche e in parte su elementi aristotelici. Tra le sue teorie più importanti, sviluppate nel suo De intellectu, quella aristotelica di intelletto agente, la facoltà della mente che consente di formulare idee astratte e di comprendere la causa delle cose, riletta in chiave neoplatonica: si tratta di un'entità spidtuale, superiore al genere umano, la cui presenza nella mente consente le attività intellettuali. Nella convinzione che il pensiero di Aristotele fosse in fondo in accordo con quello di Platone, i filosofi arabi hanno fatto grandi sforzi nel tentativo di conciliarli. Al-Farabi (870-950), personalità polieclrica, considerato Magister secundus (inferiore solo acl Aristotele) per la sua acutezza, ha composto un'opera già significativa nel suo titolo Concordanza di Platone e Aristotele, a dimostrazione del fatto che la filosofia del mondo islamico non si è affatto limitata a prolungare quella eli Aristotele. Fondamentale la sua distinzione tra essenza ed esistenza: Aristotele aveva distinto soltanto sul campo logico essenza ed esistenza, al fine eli pensare questi due aspetti dell'essere uno per volta, ma in realtà sono parimenti reali e inseparabili nell'essere. Secondo AlFarabi, invece, l'essenza precede l'esistenza di un essere ed è necessario cogliere prima l'essenza di un essere, per comprenderne l'esistenza. Così, Al-Farabi trasforma platonicamente la distinzione aristotelica attribuendo priorità non solo logica, ma anche metafisica, all'aspetto astratto dell'essere, a spese del suo carattere concreto. Rifacendosi al trattato sull'anima eli Aristotele, Al-Farabi clisting;ue quattro facoltà della mente umana: l) intelletto potenziale la capacità di dominare conoscenze non ancora studiate 2) intelletto in atto la mente che studiando attua il suo potenziale 3) intelletto acquisito la mente che ha già preso possesso della conoscenza che è in atto eli acquisire 4) intelletto agente che impone forma alla materia nella creazione del mondo, similmente al demiurgo platonico

Dio condividerebbe così il suo potere creatore con altri esseri, idea incompatibile con il Corano e che dimostra l'autonomia della sua spèculazione. Al-Farabi elaborò anche una originale filosofia della politica commentando la Repubblica di Platone, dove delineò il microcosmo del califfato come immagine del macrocosmo universale. Ma le sue teorie non furono riprese dai filosofi musulmani successivi.

l..a metafisica di Avicenna • Tra i filosofi dell'alto Medioevo islamico, lo scienziato persiano Avicenna (Ibn-Sina, 980-1037) è stato il più originale e il più influente. Il suo Canone della medicina, in cui raccolse gli insegnamenti di Ippocrate, Aristotele e Galeno intorno all'arte medica, divenne il testo di riferimento di tutti gli studiosi di medicina nel Medioevo latino e fu insegnato nelle università fino al secolo XIV. Autore di un'esposizione enciclopedica del sapere (Libro della guarigione), Avicenna, tuttavia, fu prima di tutto un metafisica, ritenendo che l'essenza delle cose potesse essere co-

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L'intuizione e l'argomento dell'uomo uohmte

Essere possibile ed essere necessaa•io

nosciuta correttamente e direttamente dalla mente umana. Una convinzione, di tendenza platonica, anche più fondamentale della sua teoria della conoscenza, basata sui sensi, e derivata da Aristotele. Per Avicenna, l'essere, in quanto fenomeno metafisica, è la nozione primada immediatamente accessibile alla mente umana, indipendentemente dalla conoscenza sensibile o dalla memoria. La nozione eli essere, infatti, non può venire definita, dal momento che non esiste un concetto più generale dell'essere stesso, mediante il quale si potrebbe definirlo. È una nozione, quella di essere, che si coglie intuitivamente, senza poterla dedurre da altre nozioni più generali, né ricavare dall'esperienza. Per dimostrare questa verità Avicenna ricorre a un argomento singolare, quello dell'«uomo volante". Ammettiamo che un uomo ricominci a vivere di nuovo, con la pienezza delle sue facoltà mentali, però sospeso nello spazio, senza poter ricevere alcuno stimolo dai propri sensi e senza percepire neppure di avere un corpo. Anche in questa situazione, come mente pura, egli verrebbe a conoscere di esistere. Ciò prova che la percezione della propria esistenza non dipende dalla conoscenza delle pt·opde azioni, né dalle esperienze dei sensi, e dimostra anche come la nozione di essere sia immediatamente presente alla mente umana. Analizzando i concetti di essere, necessità, possibilità, Avicenna offre un'inedita dimostt·azione dell'esistenza di Dio, senza far riferimento al mondo naturale, all'esperienza sensibile o a dati psicologici, dimostrazione che sarà ripresa anche da Tommaso d'Aquino. L'essere possibile, per definizione, potrebbe anche non esistere. Quindi ha bisogno di una causa che lo porti ad esistere. Ora, se tutti gli esseri che esistono fossero possibili, potrebbero anche non esistere, a meno che ciascuno di essi non sia prodotto da una causa. Ma se ogni esset·e possibile ha bisogno di una causa per esistere, la serie di esseri possibili di cui uno sia causa dell'altro non può essere infinita, deve avere un termine. Occorre ammettere l'esistenza di un essere necessario che sia responsabile dell'esistenza eli tutti gli esseri che in se stessi sono soltanto possibili e che pure esistono. L'essere necessado, causa pdma delle cose che esistono, è quindi l'oggetto principale della metafisica:

La metafisica è .filosofia prima perché è la scienza delle cose prime nell'esistenza, e cioè la Causa prima, e delle cose che sono prime per la generalità, e cioè l 'essere e l 'unità. Essa è anche sapienza, che è la migliore scienza del migliore dei conoscibili: essa, infatti, è la migliore scienza- cioè quella certa- del migliore dei conoscibili, cioè di Dio, altissimo, e delle cause a Lui successive. Essa è anche conoscenza delle cause supreme del tutto ed è anche conoscenza di Dio; le compete la d~finizione di scienza divina, che è scienza delle cose che sono separate dalla materia nella definizione e nell'esistenza. Infatti, come si è chiarito, non vi è nulla dell'essere in quanto essere e dei suoi principf e dei suoi accidenti che non sia anteriore alla materia nell'esistenza e che, quanto all'esistenza, non sia indipendente dall'esistenza della materia. Avicenna, Metafisica, l, 2

La causa efficiente metafisica

Le componenti

neoplatoniche

Avicenna, inoltre, aggiunge all'idea aristotelica di causa efficiente l'idea di causa efficiente metafisica: mentre nel mondo fisico ogni fenomeno ha la sua particolare causa efficiente fisica, tutti i fenomeni hanno in Dio la stessa causa efficiente metafisica che sorregge e mantiene in vita tutte le cose. Nel pensiero di Avicenna vi è anche una componente neoplatonica, ad esempio nella sua cosmologia: egli sostiene una visione emanazionista della creazione, cioè per gradi successivi e interconnessi, così come la teoria del male come privazione del bene, pur sapendo di contraddire la visione ortodossa della teologia musulmana. In ge-

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nerale, Avicenna fu più stimolato dai parallelismi e dalle diversità fra le tradizioni platonica e aristotelica che dall'esigvnza di far concordare teologia e filosofia, confermando uno spirito autonomo ed eclettico.

i.'nristotolismo come unico filosofia

l commenti ad Aristotele

Benozzo Gozzoli, Averroè, Trionfo di San Tommaso d'Aquino (part.), 1470-75, Parigi, Louvre.

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l'aristotelismo di Averroè • La storia della filosofia dell'Islam occidentale ha origine con la conquista araba della Spagna (711-716) e interessa soprattutto i secoli XXII. I testi della tradizione greca e la loro elaborazione da parte dei filosofi arabi arrivarono da Baghdad a Cordova; Toledo diventò in seguito il centro della vita intellettuale medievale latina nella penisola iberica, essenziale per i contatti fra i pensatori ebrei, cristiani e arabi. Averroè (1126-1198, nome latinizzato di Ibn Rushd), nativo di Cordova, è stato un filosofo brillante, il più letto e commentato nel Medioevo latino, ma anche il filosofo da cui i contemporanei musulmani hanno forse sentito il bisogno di prendere subito le distanze in modo netto, e con lui, dall'esercizio dellafalsafah, la filosofia, percepita come un pericolo per la religione islamica. Averroè concepì Adstotele come la ragione incarnata, il filosofo insuperato che scoprì la fisica, la logica, la metafisica: niente che sia degno di nota, secondo Averroè, è stato aggiunto in queste discipline, dopo Aristotele. Non si tratta certo, nel suo caso, di un'ammirazione ingiustificata: Averroè raggiunse una conoscenza della filosofia aristotelica superiore a chiunque in passato e si dedicò allo studio e al commento delle opere del maestro, per favorirne una conoscenza sistematica e corretta. La sua convinzione che l'aristotelismo fosse l'unica filosofia lo portò ad assumere posizioni provocatorie, anche se non volutamente in contrasto con l'Islam. Dopo aver goduto della protezione dei califfi almohadi che lo incoraggiarono nel suo lavoro sull'opera aristotelica, fu osteggiato e cadde in disgrazia, tra il 1170 e il 1180, periodo in cui alcuni suoi scritti furono distmtti. Pur avendo approfondito l'intera opera aristotelica, di Averroè ci sono giunti i commenti alle opere di logica, metafisica, psicologia, cosmologia e filosofia naturale: ogni opera è composta di tre commenti, rivolti idealmente a studenti principianti, intermedi e avanzati. Da qui il nome di Commenti minori o epitomi, Commenti medi, che offrono una parafrasi del testo, e i Grandi commenti che affrontano discussioni dettagliate su ciascun paragrafo. Del resto, Averroè, questo emdito e colto filosofo, cui in realtà mancava la conoscenza del greco e la possibilità di accedere direttamente alle fonti, divenne noto presso i latini soprattutto come commentatore di Aristotele, «il commentatot·e, per eccellenza, e sarà citato da Dante nell'Inferno come colui «che 'l gran comento feo» (IV, 144). Eppure, Averroè sviluppa anche teorie personali e originali. Nel Destructio destructionis, entra in polemica con Al-Ghazali e la sua opera Incoerenza dei filosofi dove costui aveva accusato apertamente i filosofi di indurre il popolo all'abbandono della fede: egli vede Al-Ghàzàli come un'autorità religiosa praticante del Kalam cioè dell'argomentazione razionale subordinata alla difesa dei contenuti del Corano e quindi come un superficiale conoscitore della filosofia.

Fede e ragione:

le uie lllll' la l'icerca dellaue1•itiì

Convinto dell'accordo sostanziale della filosofia aristotelica con il Corano, Averroè traccia la sua visione del rapporto tra fede e ragione. Riferendosi alla Retorica di Aristotele e ai tre modelli di dimostrazione da lui trattati, dichiara che intorno alle verità esposte nel Corano sono possibili tre tipi di discorso, a seconda delle capacità intellettuali dell'interlocutore: • l'esortazione (o retorica), che parte da dati forniti dalla fede, è l'argomentazione appropriata al popolo non educato; • l'argomentazione dialettica, che si basa su premesse probabili e giunge a conclusioni probabili, è il metodo dei teologi; • la dimostrazione, propria dei filosofi, è il metodo che impiega prove razionali, verificabili deduttivamente e che generano certezza scientifica. Un metodo che può essere perseguito solo dalle menti duttili e allenate, anche se la Rivelazione, la teologia e la filosofia perseguono tutte la verità.

Qualora vi sia apparente conflitto tra filosofia e verità espressa dal Corano, la lettut·a allegorica del testo permetterà di dissolvere le apparenti divergenze. Questo punto di vista fu accolto con sospetto e gli valse l'ingiusta accusa di professare una doppia vedtà (una verità desunta dal Corano e una dalla ragione), mentre Averroè era convinto che si trattasse di tre vie diverse per giungere alla verità, pur affermando, tuttavia, la filosofia come via privilegiata per risolvere i .conflitti, e promuovendo così un'interpretazione del Corano non accettata dai musulmani:

E quindi come staranno le cose per la disciplina suprema, la filosofia? { . .} Nel caso reperissimo presso i nostri predecessori, appartenessero pure a popoli più antichi, qualcuno che ha già approfondito l'analisi e l'esame della realtà esistente applicando le regole previste dalla dimostrazione, ci preoccupiamo di studiare le affermazioni contenute nei loro libri. E ciò che costoro hanno detto di conforme alla verità, lo accetteremo con gioia e gliene saremo grati; mentre ciò che hanno detto di difforme dalla verità, lo evidenzieremo e ne diffideremo, pur perdonando/i per l'errore commesso. Da ciò è chiaro che lo studio dei libri degli antichi (filosofi} è obbligatorio per Legge, poiché il loro fine è identico a quello cui ci sprona la Legge [del Corano}. Chi proibisce a qualcuno che ne avrebbe la capacità, cioè a qualcuno che possiede intelligenza naturale unita a integrità religiosa e a virtuosa dirittura sapienziale e morale, di applicarvisi, sbarra la porta attraverso la quale la Legge chiama gli uomini alla conoscenza di Dio. E poiché si tratta della porta dello studio teoretico, l 'unica che conduce a un 'autentica penetrazione della verità divina, tale proibizione costituisce un atto di ignoranza e di estraniazione dall'Altissimo. Averroè, Il trattato decisivo sull'accordo della religione con la filosofia, I, pp. 55-56 Dio come attDIIUI'II

L'eternità della materia

Nelle sue opere Averroè critica anche la filosofia eli Avicenna che egli considera troppo condizionata dalla filosofia neoplatonica: piuttosto che distinguere tra essere necessario ed essere possibile, Averroè si rifà alla distinzione tra potenza e atto. Dio solo è atto puro, mentre le creature tendono a realizzare la loro potenzialità dall'interno, ovvero realizzando la loro potenzialità autonomamente e senza che Dio operi direttamente su di loro. Dio è, dunque, causa prima e necessaria, ma le creature non necessitano che Dio le sostenga nell'essere e ne attivi le operazioni. Basandosi sulla Fisica di Aristotele, Averroè cdtica la teoda emanazionista neoplatonica, in base alla quale la divinità non entra in contatto diretto con la materia, dato che sono le intelligenze subordinate, come l'Anima in Platino, a unire materia e far-

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la dottrina dell'intelletto

l'introduzione 11iù accurata al pensiern di Aristotele

ma. Piuttosto, la mateda è eterna, così come le fot·me che esistono nella mente di Dio. La materia in se stessa non viene mai creata e non muore mai. Questa concezione preserva l'idea di libertà e di onnipotenza di Dio che la teoria emanazionista metteva in discussione affermando che Dio condivide la sua attività creativa con altri esseri inferiori e che deve creare necessariamente. Tuttavia, la teoria di Averroè suscitò opposizione fra i teologi islamici perché contrastava il principio del Dio che crea dal nulla. Anche la definizione aristotelica di intelletto agente è riformulata da Averroè: la mente umana ha due facoltà, l'intelletto passivo, ovvero la nostra disposizione potenziale verso la conoscenza, che è forma della persona e del corpo cui è unita, e l'intelletto agente, che permette alla mente di realizzare la sua potenzialità. L'intelletto agente è facoltà separata, che ha origine nel cielo della luna, e non è possesso personale, mentre l'intelletto passivo muore con il corpo, e dunque non esiste un'immortalità personale dell'anima umana. L'immortalità è propria solo di un'intelligenza supet"Umana, e dell'intelletto agente che vi partecipa: una dottrina problematica, di sapore neoplatonico, e in contrasto con la fede nell'immmtalità dell'anima dell'Islam. Con Averroè, l'approfondimento della tradizione filosofica greca nel mondo islamico raggiunge il suo vertice, fornendo l'introduzione più accurata ad Aristoetele che mai fosse stata scritta e che troverà molto ascolto nel mondo occidentale latino. La vicenda di Averroè, le cui dottrine vennero condannate e il cui studio fu vietato dalla corte almohade, segna, al tempo stesso, il progt·essivo rifiuto della filosofia da parte dell'Islam, che tenderà a sviluppare il Kalam, l'argomentazione razionale, da un lato, e la tradizione del sufismo, ovvero la dimensione mistica nell'esperienza religiosa personale dall'altro. Privati della protezione delle autorità religiose e civili, i filosofi successivi condivideranno le loro teorie all'interno di ristrette cerchie di allievi, senza diffonderle pubblicamente.

La ricerca della verità Le tre vie per cercare la verità sono

t

esortazione (retorica)

l

che si basa su

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dimostrazione

dialettica

l

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che si basa su

che si basa su

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i contenuti del

sillogismi dialettici:

sillogismi dimostrativi:

Corano

premesse probabili a conclusioni probabili

da premesse vere a conclusioni certe

l

ed è adatta

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al popolo

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ai teologi se vi è conflitto tra verità religiosa e quella filosofica si ricotTe a

+

l'interpretazione allegorica

del Corano

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l

ed è adatta

t

ai filosofi

la fiue degli studi filosofici degli Arabi

Artistotulisnm e religione eill'aica

Svalutazione della filosofia • Accanto ai pensatori che favorivano lo scambio tra religione islamica e filosofia antica, infatti, il sostegno allo studio della filosofia incontrò resistenza e opposizioni. Nel corso del XI secolo l'istituzione dei Madrasat, ovvero centri pet· lo studio avanzato delle scienze religiose, coincise con una tendenziale svalutazione della filosofia: gli studenti dovevano accettare le idee degli insegnanti e non era previsto un dibattito aperto fra diverse posizioni filosofiche. In generale, la posizione dei filosofi nel mondo isla1nico restò sempt·e precaria e fu vista con sospetto. Dopo la confutazione della filosofia da parte di Al-Ghàzàli (1033-1088), autore di una Liberazione dall'errore in cui rimproverò ai filosofi di essere incapaci di produrre valide argomentazioni razionali e di favorire con ciò la miscredenza, la filosofia cessò di svilupparsi nei territori orientali e neppure nella Spagna musulmana, come dimostra il caso di Averroè, sarà mai accettata incondizionatamente. La memorizzazione del corano e lo studio della grammatica per l'apprendimento dell'arabo classico sostituiranno lo studio delle arti liberali, considerato essenziale a Bisanzio e nell'Èuropa occidentale. Così con, il progressivo venir meno eli un sostegno ufficiale all'insegnamento della materia, ritenuta superflua per una formazione religiosa, mancherà anche la preparazione necessaria allo studio della filosofia. Nel corso del XII secolo, lo straordinario patrimonio culturale ereditato dagli Arabi, e inizialmente accolto dai patronati musulmani, passerà al mondo occidentale, attraverso la mediazione dei filosofi islamici della Spagna meridionale e la traduzione dei testi in latino. Il pensiero ebraico: Mosè Maimonide • Tra i filosofi ebrei vissuti nella penisola iberica, e profondi conoscitori dell'arabo e dell'ebraico, oltre che dell'aramaico e delle lingue locali, attivamente partecipi della vita culturale, almeno fino alla fine del XII secolo, una delle personalità piì:l rappresentative è quella di Mosè Maimonide (1135-1204). Nato e formatosi a Cordova, e contemporaneo eli Averroè, condusse una ricerca filosofica tesa a sintetizzare la tt·adizione adstotelica con la tt·adizione religiosa ebraica nella sua opera La guida dei perplessi: una sintesi che egli ritiene possibile, da un lato, recuperanclo le teorie aristoteliche, purificate dalle posteriori interpretazioni neoplatoniche, dall'altro, prendendo le distanze da un uso eclettico e non rigoroso della filosofia. Ogni persona dotata di discernimento deve tenere distinte nella propria mente e nei propri ragionamenti tutte le cose cui presta fede, e dire: a questo credo in virtù della tradizione, a questo credo in virtù del senso, a questo credo in virtù della ragione. Mentre chiunque presti fede a qualche cosa di diverso da queste tre categorie, è su di lui che viene detto, l'inesperto crede a ogni parola (Proverbi 14, 15). { . .}L'uomo non deve mai respingere dietro di sé la ragione: gli occhi sono posti davanti, non dietro. Mosè Maimonicle, Lettera sull'astrologia, 5. 26

Per Maimonide, le verità rivelate devono essere riproposte in termini filosofici, perché verità rivelata e it1osofia sono conciliabili. Dunque, è possibile riformulare la teologia ebraica in termini aristotelici, considerando che con la filosofia di Aristotele è stato raggiunto l'apice dalla ragione umana. Le verità che risultavano evidenti all'uomo dell'epoca biblica possono risultare evidenti all'uomo contemporaneo grazie alla mediazione della filosofia. Al tempo stesso, Maimonide afferma il limite della filosofia, acl esempio a proposito del problema della creazione dell'universo: egli rifiuta la teoria emanazionista neoplatonica, ribadendo l'assoluta trascendenza di Dio.

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Le tre PI'DVe dell'esistenza di Dio

Tuttavia, anch'egli teorizza tre prove dell'esist> paragonando il Padre alla potenza, il Figlio alla sapienza, lo Spirito all'amore. Questo metodo non fu compreso da Bernardo di Chiaravalle che accusò Abelardo di aver ridotto le tre persone di Dio a modi di essere della sostanza di Dio, negandone la realtà di persone divine. La particolare concezione che Abelardo ha della storia della salvezza, secondo cui Dio si è rivelato attraverso la ragione anche ai pagani, porta a considerare i filosofi antichi come st1-umenti della Rivelazione divina: Abelardo li considera i precursori dei monaci, nel loro stile di vita sobrio e soprattutto per le loro opere che portano testimonianza del vero e unico Dio. Gli antidii filosofi hanno affermato le verità principali del cristianesimo - come l'unicità di Dio, l'immortalità dell'anima, il valore so~ _ prannaturale della vita- prima della Rivelazione stessa, perché il Verbo divino è la ragione universale che pervade il mondo e che conferisce agli uomini la possibilità di comprendere la realtà naturale e, sia pure solo metaforicamente, Dio stesso.

l'etica secondo Abelal'diJ • Nell'Ethica o Scito te ipsum (Etica o Conosci te stesso), Abelardo riprende il motto delfico «conosci te stesso", già proposto da Socrate, e lo reinterpreta sottolineando la centralità dell'intenzione nell'azione morale. Si tratta della fondazione di una morale dell'intenzione che presuppone la centralità del soggetto e che si appella alla capacità di discet·net·e il bene dal male. La moralità di un'azione non consiste nell'azione stessa, ma nella motivazione interiore del soggetto che la compie: [L 'etica] è detta scienza dei beni e dei mali, cioè la sola capacità di discernere quelle cose che in se stesse devono essere dette propriamente beni o mali. Infatti alcune cose sono buone o cattive per se stesse, propriamente e per così dire sostanzialmente, come le virtù e i vizi, alcune in verità accidentalmente e attraverso qualcosa d'altro. Quest'ultimo caso è quello delle azioni che compiamo: in sé sono indifferenti, si di-· cono tuttavia buone o cattive a seconda dell'intenzione da cui procedono. Pietro Abelardo, Dialogo tra un .filosofo, un giudeo e un cristiano, p. 113

il consenso interiore

.:.

·.··:

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Abelardo apre la sua Etica con la distinzione tt·a vizio e peccato: il vizio è l'inclinazione al male della natura umana corrotta dal peccato originale, mentre il peccato è propriamente il consenso che l'uomo dà a tale inclinazione con l'intelletto e con la volontà. Ne consegue che l'inclinazione naturale al male non può essere considerata col-

2. La fUosofia delle scbolae

Etica m•istiana ed etica natuu·ale

pevole, in quanto collegata intimamente all'uomo in quanto tale. Solo il consenso intenzionale, che deriva dall'orientamento consapevole della volontà al male, è imputabile di responsabilità morale. Dio, infatti, non guarda agli effetti delle azioni, ma all'animo di chi le compie. Le azioni che «come s'è detto, sono comuni egualmente ai cattivi e ai buoni in sé sono del tutto indifferenti e si devono dire buone o cattive solo secondo l'intenzione di colui che le compie». Abelardo si richiama, quindi, ai passi dei Vangeli in cui si sottolinea l'importanza dell'atteggiamento interiore, dell'intenzione e dello sguardo del cuore, per affermare che il valore delle nostre azioni e il giudizio che esse richiedòno, davanti a Dio e agli uomini, non si misura dal fatto di aver violato una norma- aver commesso un furto, un omicidio- ma dall'orientamento della volontà e dall'intenzione che sono all'origine della trasgressione. Fu proprio l'indicazione del -consenso come radice del peccato uno dei punti ritenuti più pericolosi dal Concilio di Sens il quale, sulla base delle accuse di Bernardo, giudicò che potesse minare la concezione del peccato originale e quindi la Redenzione come fondamento per la Salvezza. Infatti, se l'uomo, nonostante la sua natura sia inclinata al male, potesse negare l'assenza a tale inclinazione senza l'aiuto della Grazia divina, allora non avrebbe bisogno della salvezza di Cristo. Ai mesi imn1_ediatamente precedenti la morte risale il Dialogus inter Philosophum, judaeum et Christianum (Dialogo tra un .filosofo, un giudeo e un cristiano), in cui ritornano molti dei temi della precedente riflessione abelardiana. L'autore immagina che il filosofo, con un metodo dialettico che si ispira a quello socratico, proponga questioni agli altri due interlocutori, i quali ritengono ciascuno di possedere la verità assoluta, grazie alla Rivelazione divina. Abelardo, riconoscendo il valore delle due etiche, ebraica e cristiana, fondate sulla venerazione di un unico Dio, afferma la conciliazione dell'etica ct'istiana, basata sull'amore, con l'etica naturale, che è fondata sulla ragione e che discende dalla stessa Sapienza divina.

Suscita meraviglia ilfatto che, mentre in tutti gli altri campi la comprensione umana cresce via via con il passare del tempo e il succedersi delle età, nella fede, su cui incombe gravissimo il pericolo dell'errore, non ci sia stato nessun progresso, anzi, allo stesso modo, piccoli e grandi, semplici e dotti, affermino di credere queste cose e venga detto saldissimo nella fede colui che non va oltre il comune senso del popolo. { . .]gli uomini si vergognano quando non sono in grado di rispondere alle domande che sono poste loro. { . .]Inoltre costoro sono spesso tanto pazzi da dichiarare senza vergogna di credere in ciò che essi pure ammettono di non poter capire, come se la fede consistesse nel pronunciare delle parole, più che nel comprenderle con l'intelligenza, quasi insomma che la .fede stesse più sulla bocca che nel cuore. Pietro Abelardo, Dialogo tra unfilosofo, un giudeo e un cristiano, pp. 41-42 1.'111111

della rende la fede cnosl!peuole

La convergenza tra etica cristiana e ragione si_ realizza nella comune convinzione che una fede autentica non possa identificarsi con l'accettazione passiva dell'autorità, intesa come divieto di interrogarsi su ciò in cui si crede: al contrario, il cdstiano è sempre chiamato a rendet·e conto, anche nell'etica, della propria fede, senza mai avvilire né il suo credo, né la ragione. Fede e ragione si compenetrano: nella ragione la fede trova fondamenta sicure e la vera fede, che è sempre e comunque inizialmente un clono della Grazia divina, è per Abelardo un atteggiamento ben diverso dalla semplice abitudine irriflessa a una serie di consuetudini e di riti che finiscono per diventare formule vuote. La fede, di questo «dialettico intemperante, che fu Pietro Abelardo, si caratterizza, piuttosto, come un atteggiamento attivo, che cerca dappertutto le «ragioni necessarie» al credere.

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4.

Bernardo e Abelni'llu: due 1m.1di di intendet·e

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La filosofia, tra vita monastica ed esp.erienza mistica Proprio alla luce della vicenda di Abelardo, pensatore profondamente originale ma anche testimone di una tendenza che si stava affermando negli studi filosofici e teologici del suo tempo, lo studioso Jean Leclercq (1911-1993) ha parlato di «due medioevi», che si sviluppano contemporaneamente, ent:J:ando fra lgrp in un rapporto drammaticamente teso: un Medioevo-monastico e un Medioevo scolastico. Di queste due tendenze, Bernardo eli Chiaravalle e Pietro Abelardo sono come due simboli. In realtà, la figura di Abelardo non è semplicemente espressione della Scolastica, essendo il suo un percorso del tutto originale e unico. Pitl in profondità, in loro vediamo soprattutto due atteggiamenti spil'ituali diversi di fronte alla verità della fede, se il mondo monastico, cui appartiene Bernardo, forma dei itnisticii, ovvero dcet·catori dell'unione con Dio, il mondo della scuola forma dei dcercatori della verità su Dio. Non a caso, Bernardo è stato considerato l'ultimo dei Padri della Chiesa, il testimone di una ricerca teologica che è sapienza della fede, più che sapienza dei filosofi, e che riconosce il primato del mistero insondabile di Dio, che supera le capacità dell'intelligenza umana. La differenza tra i due atteggiamenti, quello di Bernardo e quello di Abelardo, è stata ben sintetitazza dal teologo e studioso Marie-Dominique Chenu (Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, pp. 84-85). Convinzione di Bernardo è che il teologo, essendo anzitutto un credente, è un uomo che partecipa dei misteri divini, e non un intellettuale alle dipendenze dei teoremi di cui connette e sviluppa le implicazioni. I Padri della Chiesa dicevano che il teologo era simile al mistagogo, cioè a colui che introduce all'esperienza del mistero di Dio. Egli non può quindi diventare un semplice «professom•, poiché egli non è il proprietario della verità su Dio, ma ne è tutto posseduto. Abelardo invece volle essere un professore: nel suo insegnamento il mistero viene sì analizzato, ma attraverso questa operazione intellettuale è come se fosse impoverito. Egli è indubbiamente dotato di una sorprendente capacità inventiva, ma si tratta più eli un'invenzione cerebrale che dell'effetto della contemplazione sempre gratuita del mistero.

Bernardo di Chiaravalle e la spiritualità cistercense • Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) è una di quelle grandi figure di riformatori dell'ordine benedettino che si susseguirono per tutto il Medioevo. I monasteri benedettini, infatti, diffusi per tutto il territorio europeo, non sempre riuscivano a mantenersi fedeli allo spirito originario della Regola di San Benedetto. Data la loro importanza, molti diventarono con il tempo centri di potere e eli ostentazione di ricchezza. Così, a più riprese, diversi monaci tentarono eli riformare la vita benedettina, fondando a loro volta altri monasteri dove raccogliere uomini desiderosi eli una vita religiosa autentica e radicale. Bernardo, la cui esperienza monastica si inscrive nel movimento cistercense, un Ordine nato alla fine del XI secolo in forte reazione contro il monastero benedettino eli Cluny, che stava perdendo il suo spirito riformatore, aveva ricevuto una formazione che gli permise eli acquisire un'ottima conoscenza della letteratura classica. Una com-

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Mistici: la mistica, dal greco mystiké, ovvero relativo ai misteri, indica l'esperienza che si svolge sul piano soprannaturale nelle profondità misteriose dell'incontro uomo-Dio. Nella teologia è quella parte che ha come oggetto il ritorno dell'uomo a Dio, mediante un cammino ascetico graduale che si compie nella divinizzazione dell'uomo. Di solito in tale processo è implicato l'abbandono progressivo dell'esperienza sensibile e della riflessione filosofica per giungere a una percezione del divino in forma soprannaturale o estatica.

La dottt·ina dell'amm•e e i gradi della via mistica

petenza che si riflette nell'eloquenza della sue opere, per le quali fu definito doctor mellijluus («maestro dal dolce parlare,). All'interno dell'ordine cistercense, ma anche nella Chiesa del suo tempo, Bernardo ha svolto un'importante attività di riforma della vita monastica, dopo essere divenuto abate dell'abbazia di Clairvaux (Chiaravalle) e, in seguito, una delle personalità più influenti della sua epoca, grazie anche ai suoi autorevoli interventi sui più scottanti problemi politico-ecclesiastici, fino a predicare la crociata per liberare il Santo Sepolcro di Gerusalemme (1146). A un tempo artista e teologo, scrittore dotato e prolifico, Bernardo sviluppa una teologia fondata sul testi biblici. Tra l suoi numerosi scritti, il trattato De diligendo Dea (Il dovere di amare. Dio) esemplifica bene la caratteristica principale della sua ricerca teologica che non è tanto volta a trovare soluzioni ai problemi che la fede pone, quanto piuttosto a intet·t·ogare l'espedenza cristiana: la conoscenza per esperienza. Per Bernardo, infatti, l'amore è la condizione della conoscenza; non è sufficiente un progresso intellettuale, teorico della conoscenza. Bernardo cerca una conoscenza basata sull'esperienza dell'amore: senza disconoscere l'importanza della ricerca intellettuale, Bernardo mostra che essa diviene completa solo quando va oltre se stessa. La sua dottrina cristiana dell'amore, in questo senso, è del tutto originale, indipendente da ogni influenza platonica e neoplatonica. Per Bernardo il motivo dell'amore di Dio è Dio stesso, e la misura dell'amore è «amarlo senza misura". Nel suo trattato, De diligendo Dea, il monaco cistercense parla di quattt·o gradi dell'amot·e: • primo grado: amiamo Dio per il nostro bene personale • secondo grado: amiamo Dio perché siamo attratti da lui come bene supremo • terzo grado: avendo raggiunto l'unione mistica con Dio, la nostra volontà e la nostra ragione sono perfezionate, amiamo Dio attraverso il prossimo • quarto grado: amiamo Dio, amando noi stessi per il bene di Dio

L'unione mistica con Dio

All'ultimo grado dell'amore corrisponde l'esperienza dell'estasi o della deificazione:

Proclamerò beato e santo colui al quale sarà stata concessa una simile esperienza in questa vita mortale magari di rado, o anche una volta sola, e ciò addirittura di sfuggita, nello spazio appena di un solo istante. Infatti, perderti, in certo qual modo, come se non esistessi, e non avere più affatto la percezione di te stesso, e svuotarti proprio di te stesso, e quasi annullarti, è la condizione di vita del cielo, non un 'esperienza umana. Bernardo di Chiaravalle, Il dovere di amare Dio, X, 27-28

Per Bernardo di Chiaravalle l'unione mistica con Dio è infatti un mezzo per ristabilire la nostt·a natum odginaria e precedente alla caduta di Adamo, ovvero al peccato originale. Come Abramo, prima del peccato, era intimamente congiunto a Dio mediante un rapporto di assoluto amore e fiducia, così il mistico può sperimentare, già in questa vita, una condizione simile quando, nel momento dell'estasi, sente annullarsi la distanza da Dio provocata dal peccato. Allo stesso tempo, Bernardo considera l'esperienza mistica come via pet· formare eticamente la persona, di fronte a se stessa, al prossimo e a Dio. Simone dei Crocifissi, San Bernardo consegna la regola, XIV secolo, Bologna, Pinacoteca Nazionale. :\J~

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NEL. MEDIOEVO:

la uia mistica di Ugo di San llittm·e

Dalla conoscenza

della natm•a alla conoscenza di Dio

E INNOVAZIONE

la SciUioia di San Vittore • La vivacità e l'esigenza di rinnovare la vita religiosa, nel XII secolo, è testimoniata anche da altre esperienze, intellettualmente molto attive, come ad esempio quella dei canonici di San Vittot·e, una comunità di sacerdoti agostiniani fondata da Guglielmo eli Champeaux (1070-1121), appena fuori le mura di Parigi, e dedita all'assistenza spirituale degli studenti che affluivano in città. Il Didascalicon eli Ugo di San Vittore (1096-1141) è un'opera pedagogica, di sistemazione enciclopedica del sapere, che ben testimonia la ricca prospettiva con cui si guardava al problema educativo. Ugo raccomandava di coltivare l'ampiezza intellettuale, insistendo sullo studio delle arti liberali, necessarie all'interpretazione della Bibbia, e incoraggiava anche lo studio del mondo naturale e della letteratura. Tuttavia con Ugo e i suoi allievi si tende a conciliare la speculazione filosofico-teologica con la spiritualità e la via mistica. L'antropologia eli Ugo vede l'uomo inserito in una concezione neoplatonica della creazione: tutto è stato creato da Dio e a lui ritorna e la contemplazione è uno dei modi per conoscere e inserirsi nel processo di ritorno a Dio. Attraverso. i sensi e la ragione, l'uomo può raggiungere una conoscenza scientifica e ltlosofica della natura ct·eata, come pure arrivare a riconoscere Dio come causa prima del creato, attraverso i suoi effetti nella creazione. La contemplazione assidua e lo studio delle opere della creazione invitano l'uomo spirituale a volgere lo sguardo verso la sapienza divina che le ha create: Tutto questo mondo sensibile è infatti come un libro scritto dalle mani di Dio, cioè creato dalla potenza divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dall'arbitrio dell'uomo, ma istituite dalla volontà di Dio per manifestare ed indicare la sua invisibile sapienza. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, scorge i segni, ma non capisce il senso, così lo stolto e "l'uomo animale" che «non capisce le cose divine" (1 Co,r 2, 14) in queste creature visibili vede l 'aspetto esteriore, ma non ne capisce interiormente il significato. Colui che è spirituale, invece, ed è capace di valutare tutte le cose, mentre considera all'esterno la bellezza dell'opera, interiormente comprende quanto mirabile sia la sapienza del Creatore. Perciò non vi è nessuno a cui le opere di Dio non appaiano mirabili, ma mentre l'insipiente ammira in esse soltanto l'aspetto esteriore, il sapiente invece da ciò che vede all'esterno scorge il profondo pensiero della sapienza divina. [. . .]È bene dunque contemplare e ammirare assiduamente le opere divine, ma da parte di coloro che sanno volgere a un fine spirituale la bellezza delle realtà corporee. Infatti proprio per questo motivo la Sacra Scrittura ci invita così insistentemente a considerare le mirabili realtà create da Dio, affinché, per mezzo delle cose che vediamo nel mondo esterno, possiamo giungere nel nostro intimo alla conoscenza della verità. Ugo eli San Vittore, I tre giorni dell'invisibile luce, p. 57

Ragione e G1•azia nell'attività contemplatiua

La contemplazione, per Ugo, richiede ugualmente l'esercizio della ragione e la Grazia, cioè il dono della fede, per conoscere Dio in se stesso e la creazione come opera di Dio. L'attività contemplativa, dunque, alimenta sia la conoscenza sia il rinnovamento morale dell'uomo. Ugo distingue tre momenti dell'attività contemplativa:

• il pensat·e, quando la mente opera discorsivamente sulle cose percepite dai sensi o custodite nella memoria; • il meditare, che cerca di chiarire dati già presenti nella mente ma in uno stato complesso e oscuro; • e la contemplazione, ovvero. quando si giunge a una comprensione spontanea e intuitiva dell'oggetto della conoscenza compreso nella sua interezza.

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la mistica speculatilm di Riccardo dì San Uittoro

Daf suo maestro Ugo, l'allievo Riccat·do di San Vittot·e (1123-1173) riprende l'interpretazione dell'Antico Testamento in chiave allegorica, come punto di partenza per la vita contemplativa, e l'aperto ideale pedagogico, con la sua trattazione sistematica della via contemplativa, cercando di combinare la dimensione affettiva con quella cognitiva. Riccardo cerca, insomma, eli conciliare le opposte tendenze dei dialettici, come Abelardo, e degli spirituali, come Bernardo, seguendo la via di una mistica speculativa, ovvero eli una speculazione filosofico-teologica tesa all'ascesi e alla vita mistica. Nel prologo del De Trinitate Riccardo fa un'importante precisazione che ci rivela il metodo da lui proposto: partire dalla fede per giungere alla comprensione piena di quello in cui si crede:

Come nella fede. si ha l 'inizio di tutto quanto il bene, così nella conoscenza c 'è il compimento di tutto il bene e la sua perfezione. { . .]Affrettiamoci a giungere dalla fede alla conoscenza: adoperiamoci intensamente, nella misura in cui ci è possibile, ad intendere quello che crediamo. Pensiamo a quanto si sono dimostrati diligenti efino a che punto hanno progredito in una simile conoscenza i.filoso.fi di questo mondo, e vergogniamoci di risultare, sotto questo aspetto, inferiori a loro { . .}. Pertanto, ilfatto che noi crediamo riguardo a Dio ciò che è ortodosso e vero, non deve bastarci; diamoci ben da fare, piuttosto, come si è detto, per capire quello che crediamo. Non stanchiamoci di tentare, per quànto è lecito e possibile, di comprendere con la ragione ciò che riteniamo per fede. Riccardo di San Vittore, De Trtnitate, Prologo

l t1·e stadi della vita contemplativa

La sua teologia trinitaria riprende il linguaggio agostiniano dove il Padre è l'eterno amante del Figlio, il Figlio è l'eterno amato del Padre, lo Spirito è l'eterno amore che li unisce. L'uomo, creato a immagine di Dio, gli somiglia nella sua capacità di amare, sviluppando la sua facoltà affettiva, che risiede in primo luogo nella volontà. Con l'aiuto della Grazia, l'uomo può dottenere la purezza anteriot·e al peccato originale e tornare a Dio in un processo che si richiama alla via già deline. Qui i richiami sono esplicitamente acl Agostino e al suo invito a ricercare la verità nell'uomo interiore. 4. Dio è luce inaccessibile, chiarissima ma impenetrabile alla mente umana.

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Miseria e infelicità dell'lillllll:!

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signore, e non ti ho visto mai! Tu mi hai creato, mi hai redento e mi hai dato tutto ciò che ho di buono, eppure io non ti conosco. Infine, io sono stato creato per vederti, e non ho ancora fatto quello per cui sono stato creato. O misera la sorte dell'uomo, dal momento che ha perduto quello per cui è stato creato! Duro e crudele questo fatto! Ahi, che cosa ha perduto, o che cosa ha trovato! Che cosa è sparito e che cosa è rimasto! Ha perduto la beatitudine, per la quale era stato creato, ed ha trovato la miseria, per la quale non era stato creato. È sparito quello, senza il quale nulla c'è di beato, ed è rimasto quello, che di per sé è soltanto miserabile. Allora l'uomo mangiava il pane degli angeli, di cui ora è affamato, ora invece mangia il pane dei dolori, che allora non conosceva. Ahi, pubblico lutto degli uomini, universale pianto dei figli di Adamo! Egli ruttava di sazietà, noi sospiriamo per fame; egli abbondava, noi mendichiamo. Egli nella felicità possedeva, e poi miseramente perdette; noi nell'infelicità abbiamo bisogno e nella miseria bramiamo, e, ahimé, restiamo a mani vuote. Perché, pur potendolo facilmente, non ha fatto la guardia per noi, per cui noi dovessimo sentirei tanto gravemente privi? Perché ci ha oscurato in questo modo la luce ed ha steso sopra di noi le tenebre? Per che scopo ci ha tolto la vita e ci ha inflitto la morte? Da dove, noi disgraziati, siamo stati cacciati e verso dove siamo stati spinti! Da dove precipitati! Dove sepolti! Dalla patria all'esilio, dalla visione di Dio alla nostra cecità, dalla gioia dell'immortalità all'amarezza ed all'orrore della morte. Infelice cambio eli quanto gr9-nde bene in quanto grande male! Grave danno, grave dolore, grave tutto. Ma me misero, che sono uno fra gli altri figli di Eva, allontanati da Dio. Che cosa ho cominciato? Che cosa ho concluso? Dove miravo? Dove son giunto? A che cosa aspiravo? In mezzo a che cosa sto sospirando? Cercai i beni, ed ecco il turbamento. Mi indirizzavo verso Dio, e mi sono incontrato con me stesso. Cercavo tranquillità nel mio segreto, ed ho trovato tribolazione e dolore nella mia intimità. Volevo ridere per gioia della mia mente, e sono costretto a ruggire a gemito del mio cuore. Si sperava letizia, ecco invece donde s'addenseranno sospiri. E tu, o Signore, fino a quando? Fino a quando, o Signore, ti scordi di noi, fino a quando torci il tuo viso da noi? Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai il tuo volto? Quando ti restituirai a noi? Guardaci, Signore: ascoltaci, illuminaci, mostrati a noi. Restituisciti a noi, perché il bene sia con noi; senza eli te, per noi è il male. Abbi misericordia delle fatiche e dei tentativi nostri, che verso di te facciamo noi, che senza di te nulla valiamo: tu ci inviti, dunque soccorrici! Ti scongiuro, Signore, di non dover disperare sospirando, ma di respirare sperando. Ti scongiuro, Signore, si è amareggiato il mio cuore nella desolazione, addolciscilo tu con la tua consolazione. Affamato ho cominciato a cercarti, ti scongiuro, Signore, di non dover cessare digiuno di te; mi sono avvicinato famelico, che non mi debba allontanare senza cibo. Sono venuto povero dal ricco, infelice dalla misericordia; che non mi debba allontanare a mani vuote e disperato. E se prima di mangiare io sospiro, anche dopo i sospiri dammi da mangiare. O Signore, curvo come sono, non posso guardare se non in basso; mettimi dritto, perché possa mirare in alto. Le mie iniquità oltrepassano la mia testa e mi avviluppano e, come un grave peso, mi opprimono. Tirami su, liberami, perché !afossa delle mie iniquità non chiuda la sua bocca sopra di me (Sal 68,16): mi sia concesso di vedere la tua luce o da lontano o dal profondo. Insegnami a cercarti e mostrati a me, che· ti cerco, perché io non posso cercarti, se tu non me lo insegni, né trovarti, se

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Occorre credea•e Pi!l'

tu non mi ti mostri. Io ti cercherò desiderandoti, ti desidererò cercandoti, ti troverò amandoti, ti amerò trovandoti. Confesso, Signore, e te ne ringrazio, che tu hai creato in me questa tua immagine, allo scopo d'esser memore di te, di pensarti, di amarti. Ma essa si è talmente affievolita per l'attrito dei vizi, si è talmente offuscata per il fumo dei peccati, che non può fare quello per cui è stata fatta, se tu non la rinnovi e non la restauri. Io, o Signore, non tento di penetrare nella tua altezza, perché in nessun modo le paragono il mio intelletto, ma in una certa misura desidero capire la tua verità, che il mio cuore crede cd ama. Difatti, io non cerco di capire per credere, bensì credo per capire. Ed anche quest'altro io credo, che cioè se non crederò non capirò.

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Anselmo d'Aosta, Proslogion, Proemio e cap. I, pp. 65-69

Averroè: l'accordo tra religione e filosofia Per Averroè, la filosofia, indagando scientificamente la realtà, aiuta a riflettere in modo determinante sull'esistenza di Dio ~11-8. In questo senso, l'indagine filosofica non può che essere accolta e incoraggiata dalla religione islamica ~>18-29. Se fine della filosofia è la ricerca del vero, non può esserci contrasto tra filosofia e religione rivelata. Partendo da questo presupposto, Averroè esamina due ulteriori questioni: il rapporto della Legge islamica con l'uso del metodo specifico dell'indagine filosofica, cioè la dimostrazione razionale ~>130-38, e con lo studio dei testi degli antichi filosofi non musulmani, dove quel metodo è insegnato ~>-139-70. Gli insuccessi e gli errori che si possono commettere nell'esame dei filosofi antichi devono essere considerati occidentali e mai devono indurre a proibire la lettura dei testi filosofici ,..171-89. In ogni caso, la religione mantiene indiscutibilmente un carattere superiore, in quanto più universale, e la legge religiosa è vincolante per tutti i credenti, indipendentemente dalle loro conoscenze filosofiche. Averroè infatti distingue tre categorie di persone: i filosofi che, studiando la verità rivelata con argomentazioni e prove dimostrative, possono dare un'interpretazione allegorica dei testi del Corano, illuminandone il senso più profondo; i teologi, che interpretano il testo sacro e discutono su di esso senza approfondirne il senso nascosto; la massa, priva di una preparazione culturale e filosofica, cui ci si può rivolgere solo con argomentazioni retoriche ~>190-1 03. Le tre tipologie di credenti prestano fede alle stesse verità del Corano, ma in modi diversi, a seconda del loro temperamento. Di conseguenza, impedire a chi ne ha la possibilità di approfondire la conoscenza dei testi sacri con gli strumenti della filosofia significa sbarrare «la porta attraverso la quale la Legge chiama gli uomini alla conoscenza di Dio».

L'indagine filosofica della natura comiuce 11

Dio

Ordunque: il fine di questo scritto è indagare, dal punto di vista dello studio della Legge religiosa, se la speculazione filosofica e le scienze logiche siano lecite secondo il shar'1 o proibite o obbligatorie, sia perché commendevoli2 sia perché necessarie. E quindi diciamo: ogni attività filosofica altro non è che speculazione sugli esseri esistenti, e riflessione su come, attraverso la considerazione che sono creati, si pervenga a dimostrare il Creatore: infatti, gli esseri esistenti sono prodot-

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1. La legge religiosa e civile dell'Islam. 2. Lodevoli.

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L'indagine scientifica m:m fare a meno di 11rogrediro

ti, per cui dimostrano di avere un produttore. Tale conoscenza relativa alla produzione delle cose, tanto più è completa quanto più consente una conoscenza completa di Colui che le ha prodotte. La Legge religiosa autorizza, e anzi stimola, la riflessione su ciò che esiste, per cui è evidente che l'attività indicata col nome [di filosofia] è considerata necessaria dalla Legge religiosa, o, per lo meno, ne è autorizzata. Che la Legge religiosa chiami a un'indagine intellettuale sugli esseri esistenti e richieda (di pervenire) a una conoscenza su di essi, appare chiaro da parecchi versetti del Libro eli Dio Benedetto ed Eccelso, tra i quali per esempio il seguente: «Riflettete, o voi che avete occhi a guardare!». Questo versetto certifica la necessità dell'uso del ragionamento intellettùale, ovvero, contemporaneamente, del ragionamento intellettuale e eli quello giuridico-legale. Dice ancora il Corano: «Non han forse studiato il regno dei cieli e della terra e le cose tutte che Dio ha creato?». Questo versetto induce chiaramente a speculare sugli esseri esistenti nella loro totalità. Iddio Altissimo ha insegnato che tra quelli, in particolare, cui è stato concesso l'onore di possedere la scienza vi è Abramosu di lui la pacé! - e infatti ha detto: «E così mostrammo ad Abramo il regno dei cieli e della terra perché fosse di quelli che solidamente sono convinti». Ha inoltre affermato l'Altissimo: «Ma non guardano dunque gli uomini al cammello, come fu creato, e al cielo, come fu innalzato?»; e ancora: «I quali ... meditano sulla creazione dei cieli e della terra». Ed esistono innumerevoli altri versetti simili a questi. Siccome si è stabilito che la Legge religiosa rende obbligatoria la speculazione e l'indagine razionale sugli esseri esistenti, e poiché tale indagine non consiste in altro che nella deduzione e nella derivazione dell'ignoto dal già noto - e questo è ciò che si chiama sillogismo, ovvero ciò che si ottiene per mezzo del sillogismo -, è pure obbligatorio che ci rivolgiamo allo studio della realtà esistente per mezzo del ragionamento razionale. È inoltre evidente che questo tipo di analisi cui la Legge religiosa chiama e incita, è la specie più perfetta di studio collegata alla specie più perfetta di ragionamento, cioè a quella che si chiama «d~mostrazione [apodittica],, [... ] Se la questione si pone in questi termini, e se tutto ciò di cui si ha bisogno per lo studio del ragionamento razionale è stato indagato attentamente e nel modo migliore dagli antichi (filosofi), è opportuno che avidamente ne prendiamo in mano i libri e approfonditamente ne esaminiamo le opinioni. E se ci risultano vere, le accetteremo; ma sè qualcosa ci sembrerà falso, lo rileveremo. Quando avremo concluso questo esame e ci saremo impadroniti delle metodologie con cui potremo ottenere retta considerazione degli esseri esistenti e determinare che sono stati prodotti - che chi non conosce la produzione non conosce il prodotto, e chi non conosce il prodotto non conosce il produttore-, allora sarà necessario rivolgersi all'analisi degli esseri esistenti secondo quell'ordine e quella disposizione che avremo inferito dalla conoscenza ottenuta per mezzo del ragionamento dimostrativo. È inoltre chiaro che il fine che perseguiamo [con lo studio] degli esseri esistenti è perseguibile con un progresso a tappe successive dell'indagine, e che il successore deve garantirsi, a tal scopo, l'aiuto dei suoi predecessori, analogamente a quanto accade nelle scienze matematiche. [.. .]Se tutto ciò [che si è detto finora] è vero, è necessario per noi [filosofi] che, nel caso reperissimo presso i nostri predecessori, appartenessero pure a popoli pii:l antichi, qualcuno che ha già approfondito l'analisi e l'esame della realtà

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esistente applicando le regole previste dalla dimostrazione, ci preoccupiamo di studiare le affermazioni contenute nei loro libri. E ciò che costoro hanno eletto di conforme alla verità, lo accetteremo con gioia e gliene saremo grati; mentre ciò che hanno detto di difforme dalla verità, lo evidenzieremo e ne diffideremo, pur perdonandoli per l'errore commesso. Da ciò è chiaro che lo studio dei libri degli antichi è obbligatorio per Legge, poiché il loro fine è identico a quello cui ci sprona la Legge. Chi proibisce a qualcuno che ne avrebbe la capacità, cioè a qualcuno che possiede intelligenza naturale unita a integrità religiosa e a virtuosa dirittura sapienziale e morale, di applicarvisi, sbarra la porta attraverso la quale la Legge chiama gli uomini alla conoscenza di Dio. E poiché si tratta della porta dello studio teoretico, l'unica che conduce a un'autentica penetrazione della verità divina, tale proibizione costituisce un atto di ignoranza e di estraneazione dall'Altissimo. Quindi non è affatto lecito a un tale, se da parte sua erra o fallisce nell'impresa dello studio filosofico, o per carenza eli capacità o per indisciplina logica o per eccesso di passionalità o per non aver trovato un maestro capace di educarlo e informarlo o per tutte queste ragioni messe insieme -, non gli è lecito, si diceva, proibire a qualcun altro che ne è in grado di adoperarsi in ciò in cui egli ha fallito. Infatti, questo fallimento (nello studio filosofico) è accidentale rispetto alle sue cause, e non sostanziale; cosicché non v'è ragione per cui ciò che è utile per sua natura e pregio venga trascurato a causa di qualche aspetto presente in esso per accidente. Perciò, quando un uomo, cui il Profeta aveva consigliato eli curare la diarrea del fratello col miele, si era lamentato che, anzi, la diarrea era aumentata dopo la somministrazione del miele, il Profeta - su di lui la pace! rispose: «Dio ha ragione! A mentire è il ventre di tuo fratello". Così, noi diciamo che, colui il quale proibisce a chi ne ha la facoltà eli studiare i libri dei filosofi con la scusa che ci sarà poi gente che lo accuserà di deviare dalla retta via, è simile a colui che impedisce a un assetato di bere dell'acqua fresca, fino a farlo morire, con la scusa che avrebbe potuto rimanerne soffocato. Infatti, morire per un'acqua malamente ingurgitata è accidentale, mentre morire di sete è secondo sostanza e necessità. [. .. ] Avendo stabilito tutto ciò, ed essendoci persuasi, in quanto musulmani, che la nostra divina religione è vera, e che essa ci incita a perseguire quella massima felicità che consiste nella conoscenza di Dio Potente ed Eccelso e delle sue creature, ne deriva che per ogni musulmano, secondo il suo temperamento e la sua natura, è prescritto un particolare tipo di assenso a tali verità. Infatti, i caratteri degli uomini si diversificano qualitativamente riguardo a questo assenso, essendovi chi lo presta alla dimostrazione razionale, chi alle dispute dialettiche con la stessa intensità eli chi crede alle dimostrazioni - e ciò perché la sua natura non gli consente altrimenti-, e chi lo presta ai discorsi retorici, pure con la stessa intensità di chi crede alle dimostrazioni. Quindi, poiché la nostra divina religione chiama gli uomini a sé secondo queste tre vie, l'assenso prestatovi è generalizzato, e ne resta escluso solo chi pretende ostinatamente di combatterla a parole, o chi, per sua propria negligenza, rifiuta di abbracciare la strada più adatta che lo porta a Dio. Averroè, Il trattato decisivo sull'accordo della religione con lajllosofia, l, pp. 45-49, 55-61

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Tommaso d'Aquino: armonia tra fede e ragione il filosofo e teologo domenicano Tommaso d'Aquino afferma con forza, all'inizio della sua Summa contra Genti/es, la possibilità e la necessità di conciliare fede e ragione. Non è pos-

sibile infatti che Dio abbia infuso nella mente degli uomini principi naturali così chiari ed evidenti che siano tuttavia in contrasto con le verità di fede ll>i1-32. La ragione umana ha raggiunto un vertice, che costituisce un prezioso punto di riferimento, con la filosofia aristotelica. Ma le verità fondate su argomenti razionalmente dimostrati dalla filosofia si possono considerare come premesse necessarie e utili alla fede: così la filosofia risulta compiere il servizio di un'utile e umile «ancella della teologia». La dottrina sacra, infatti, è la sola scienza razionale che investiga le verità rivelate da Dio e che la ragione non può sondare in tutta la loro profondità. Con Tommaso, dunque, la teologia assume sempre più il carattere di una disciplina scientifica che tuttavia ricorre con vantaggio alle argomentazioni razionali: ogni apparente contrasto tra fede e ragione è risolvibile ricorrendo ai dogmi e ad argomenti rigorosamente razionali e dunque pienamente condivisibili. Se verità di fede e verità di ragione sembrano in contrasto ciò significa che le argomentazioni razionali erano errate e devono essere corrette ll>i33-37.

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Sebbene la verità della fede cristiana superi la capacità della ragione, tuttavia i princìpi naturali della ragione non possono essere in contrasto con codesta verità. Infatti: l. I princìpi così innati nella ragione si dimostrano verissimi: al punto che è impossibile pensare che siano falsi. E neppure è lecito ritenere che possa esser falso quanto si ritiene per fede, essendo confermato da Dio in maniera così evidente. Perciò essendo contrario al vero solo il falso, com'è evidente dalle loro rispettive definizioni, è impossibile che una verità eli fede possa essere contraria a quei princìpi che la ragione conosce per natura. 2. Inoltre, le idee che l'insegnante susciti nell'anima del discepolo contengono la dottrina del maestro, se costui non ricorre alla finzione; il che sarebbe delittuoso attribuire a Dio. Ora, la conoscenza dei princìpi a noi noti per natura ci è stata infusa da Dio, essendo egli l'autore della nostra natura. Quindi anche la sapienza divina possiede questi princìpi. Perciò quanto è contrario a tali princìpi è contrario alla sapienza divina; e quindi non può derivare da Dio. Le cose dunque che si tengono per fede, derivando dalla rivelazione divina, non possono mai essere in contraddizione con le nozioni avute dalla conoscenza naturale. 3. In più, ragioni contrarie legano l'intelletto nostro al punto da non poter procedere alla conoscenza della verità. Perciò se Dio ci infondesse conoscenze contrastanti, impedirebbe al nostro intelletto eli conoscere la verità. Il che non si può pènsare eli Dio. 4. Inoltre, ciò che è naturale non può essere mutato finché permane la natura. Ora, opinioni contrastanti non sono compatibili nel medesimo soggetto. Dunque non è possibile che Dio infonda nell'uomo un'opinione, o una fede, incompatibile con la sua conoscenza naturale. Di qui le parole dell'Apostolo: ,,n messaggio è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, cioè il messaggio della fede che vi predichiamo, (Rm 10,8). Ma poiché le verità eli fede superano la ragione, alcuni sono portati a considerarle come acl essa contrarie; il che è impossibile. Ciò è confermato da quelle parole di S. Agostino:

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«Quanto viene manifestato dalla verità in nessun modo può essere in contrasto sia col Vecchio, che col Nuovo Testamento» (De Genesi ad litteram, c. 18). Da ciò si ricava con chiarezza che tutti gli argomenti addotti contro gli insegnamenti della fede, non derivano logicamente dai princìpi primi naturali noti per se stessi. E quindi essi non hanno valore di dimostrazioni; ma, o sono ragioni solo dialettiche, o addirittura sofistiche, e quindi si possono sempre risolvere.

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Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, I, 7, pp. 72-73

Bonaventura da Bagnoregio: luce della ragione e luce della fede Bonaventura afferma con decisione la superiorità della fede sulla filosofia e su tutte le altre discipline scientifiche. Seguendo la metafora di Dio come luce e della conoscenza come illuminazione, Bonaventura considera Dio come il fondamento e l'origine che tutto illumina attraverso gradì diversi dì illuminazione. Vi è una luce esterna, relativa alle conoscenze tecniche; una luce inferiore, che rende possibili le conoscenze sensibili; una luce interiore, ovvero la conoscenza filosofica; una luce superiore, donata dalla Grazia e dalla Rivelazione delle Sacre Scritture. Solo quest'ultima illumina l'uomo sulla verità che lo salva ~11-12. li lume interiore, riferito propriamente alla ragione filosofica, si articola a sua volta in tre parti, a seconda che l'indagine razionale si rivolga ai discorsi (logica), alla natura (fisica) o al comportamento umano (morale) ~113-20. Sì deve distinguere nettamente il lume interiore della ragione, limitato all'esperienza e all'individuazione delle cause che regolano il mondo delle realtà sensibili, dal lume della fede, che procede dalla Rivelazione divina e che indica all'uomo il suo fine ultimo, destinato a restare nascosto all'uomo al di fuori dell'ordine della Rivelazione ~121-36. Anche il lume del·la fede sì distingue in tre partì, a seconda che il testo della Scrittura sia interpretato in senso allegorico, morale o anagogico. Suggestiva è l'immagine del «crepuscolo» di questa vita, quando tutte le luci si spengeranno per lasciare posto non alla notte, ma all'unica luce senza tramonto della gloria di Dio ~137-45. Giocando sulla simbologia dei numeri, Bonaventura conta come sei le luci provenienti dall' alto (quella filosofica viene distinta in tre parti) e le paragona ai sei giorni della creazione. Il primo giorno, quando Dio creò la luce vera e propria, incontra cosl un corrispettivo nella conoscenza delle Sacre Scritture, là dove Dio si rivela più direttamente, per cui tutte le altre luci o conoscenze si dovranno riferire e orientare a questa prima luce. Ogni conoscenza avrà quindi come fine una maggiore penetrazione del significato della Rivelazione secondo un programma che Bonaventura definisce «riduzione delle arti alla teologia» ~146-55. Tutte le conoscenze possono servire alla teologia, ma solo la conoscenza che deriva dallo Spirito Santo conduce alla conoscenza della «verità tutta intera» ~156-69.

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«Ogni cosa eccellente e ogni dono perfetto vengono dall'alto, discendendo dal Padre della luce»: così scrive Giacomo nel primo capitolo della sua lettera. In questo testo si parla dell'origine di ogni illuminazione e, nello stesso tempo, si fa comprendere che da questa luce originaria discendono copiosamente molteplici luci. Sebbene, poi, ogni illuminazione della nostra conoscenza sia interiore, possiamo tuttavia con ragione introdurre una distinzione, così da dire che esiste una luce esterna, cioè quella della capacità tecnica; una inferiore,

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quella della conoscenza sensibile; una interiore, cioè quella della conoscenza filosofica; una superiore, quella della grazia e della Sacra Scrittura. La prima ci illumina riguardo alle forme prodotte dall'uomo, la seconda riguardo alle forme naturali, la terza riguardo alla verità intelligibile, la quarta ed ultima riguardo alla verità che ci salva. [... ] La terza luce, che ci illumina per farci penetrare le verità intelligibili, è quella della conoscenza filosofica, ed è detta interiore, giacché, ricerca le cause intime e nascoste servendosi dei principi delle scienze e della verità naturale, che sono insiti nell'uomo per natura. Essa si divide in tre parti, razionale, naturale e morale, e l'esattezza di questa suddivisione si può comprendere così. Vi è, infatti, una verità nei discorsi, una verità nelle cose ed una verità nel comportamento. La filosofia razionale considera la verità dei discorsi, la filosofia naturale quella delle cose, la filosofia morale quella del comportamento. [... ] La quarta luce, che illumina riguardo alla verità che ci salva, è quella della Sacra Scrittura. Tale luce è detta superiore, perché ci indirizza alle realtà più elevate, facendoci conoscere ciò che eccede la nostra ragione, e anche perché, non la scopriamo noi, ma ci viene rivelata, discendendo «dal Padre della luce». Benché essa, presa nel suo senso letterale, sia unica, tuttavia è triplice se presa nel suo senso mistico e spirituale. Infatti, in tutti i libri della Sacra Scrittura, oltre al senso letterale che è espresso dalle parole stesse, si coglie un triplice senso spirituale•: cioè quello allegorico, che ci mostra ciò che bisogna credere della divinità e dell'umanità; qtiello morale, che ci insegna come dobbiamo vivere; quello anagogico, che ci mostra in che modo dobbiamo aderire a Dio. In tal modo, tutta la Sacra Scrittura ci insegna questi tre punti, cioè l'eterna generazione e l'incarnazione di Cristo, la regola di vita e l'unione di Dio e dell'anima. Il primo concerne la fede, il secondo il comportamento, il terzo il loro fine comune. Lo sforzo dei dottori deve affaticarsi intorno al primo, quello dei predicatori intorno al secondo, quello dei contemplativi intorno al terzo. [... ] Risulta da quanto è stato detto che, sebbene secondo una prima suddivisione la luce che discende dall'alto sia quadruplice, di essa esistono tuttavia sei specie differenti, cioè la luce della Sacra Scrittura, quella della conoscenza sensibile, quella della capacità tecnica, quella della filosofia razionale, quella della filosofia naturale e quella della filosofia morale. Queste sei illuminazioni, pertanto, sono presenti in questa vita ed hanno il loro crepuscolo, poiché ogni «Scienza sarà distrutta», e, per questo motivo, acl esse fa seguito il settimo giorno, quello del riposo, che non ha crepuscolo, ed è l'illuminazione della gloria celeste. Di conseguenza, queste sei illuminazioni possono essere riconclotte molto opportunamente alle sei opere eli donazione di forma, ovvero di illuminazione, durante le quali è stato creato il mondo, in modo che la conoscenza della Sacra Scrittura corrisponda alla prima opera eli donazione di forma, cioè quella della luce, e così di seguito secondo l'ordine indicato. E come tutte avevano

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1. Oltre al senso letterale, la patristica e la scolastica erano solite individuare nella Sacra Scrittura un sen-

so allegorico (un testo o un'immagine esprimono un significato riposto), un senso morale (una presunzione o un'indicazione eli comportamento) e un senso anagogico (gli eventi della Bibbia sono interpretati in senso mistico e contemplativo, oppure come anticipazioni eli avvenimenti escatologici, riguardanti cioè il destino finale dell'anima e dell'umanità).

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Tutte le conosc1mze

celano Dio e possono servire alla teologia

origine da una sola luce, così tutte queste conoscenze sono ordinate alla conoscenza della Sacra Scrittura, sono incluse in essa, trovano in essa il loro compimento e mediante essa sono ordinate all'illuminazione eterna. Ne segue che ogni nostra conoscenza deve avere il proprio punto finale nella conoscenza della Sacra Scrittura. [. .. ] È chiaro, così, in che modo la «multiforme sapienza di Dio,, di cui limpidamente ci informa la Scrittura, è celata in ogni cognizione e nella natuta di ogni realtà. È chiaro, altresì, come tutte le cognizioni possono servire alla teologia, la quale, pertanto, trae esempi e usa termini desunti da ogni tipo di conoscenza. È chiaro, infine, quanti sono i modi in cui possiamo essere illuminati e come ogni cosa o sentita o conosciuta cela nella sua intimità lo stesso Dio. E il frutto di tutte le scienze è tale che in ognuna si edifica la fede, «Si rende onore a Dio,, si organizza la condotta, ci si disseta nella consolazione, presente nell'unione dello sposo e della sposa che avviene mediante la carità. Questa costituisce il termine a cui si indirizzano interamente la Sacra Scrittura e, di conseguenza, ogni illuminazione che discende dall'alto, e senza la quale ogni sapere è vano, poiché non si giunge mai al Figlio se non per mezzo dello Spirito Santo, il quale ci insegna «tutta la verità, ed «è benedetto-nel secoli dei secoli. Amen".

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Bonaventura da Bagnoregio, Riduzione delle arti alla teologia, Prologo, 4-7, 26, pp. 411-428

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Dio esiste, si può dimostrare in dai Padri della Chiesa, i pensatori cristiani, con l'affermarsi della dialettica e dell'argomentazione filosofica, si sono sforzati di giustificare razionalmente l'esistenza di Dio, presentando prove in grado di rispondere alle domande della ragione intorno a Dio e alla sua esistenza, a complemento della certezza che il credente detiene grazie alla fede. Nel Medioevo era considerato normale che un pensatore tenesse nel proprio bagaglio intellettuale qualche prova razionale dell'esistenza di Dio, non tanto per tentare di convincere eventuali atei, che in quell'epoca ancora non esistevano, ma per rafforzare i credenti nelle ragioni della loro fede. Le dimostrazioni dell'esistenza di Dio divennero pertanto comuni a quasi tutti i filosofi che si confrontavano criticamente con quelle elaborate nel passato e ne inventavano spesso di originali. Anselmo d'Aosta nel Monologion aveva esposto quattro argomenti di impostazione platonica che dalla considerazione dei gradi di perfezione esistenti negli esseri naturali giungevano a postulare un modello assoluto di perfezione, cioè Dio. Attraverso l'unico argomento del Proslogion, invece, Anselmo deriva l'esistenza di Dio da ciò che Dio è, dall'idea che ogni uomo possiede nella sua mente. Ci sono, poi, prove che partono dal mondo, e che hanno come presupposto la filosofia aristotelica, secondo la quale è Dio a muovere l'universo: ad utilizzare questi argomenti è Tommaso d'Aquino che integra la tesi aristotelica con prove teleologiche, tese a individuare in Dio stesso il fine (in greco thélos) cui tendono tutte le cose. Sia con le prove a priori sia con quelle a posteriori, si vuole verificare e dimostrare la compatibilità tra la fede e la ragione in relazione all'esistenza di Dio, e quindi la ragionevolezza del credere. Con Meister Eckhart si delinea, invece, il tentativo di parlare di Dio a partire dall'esperienza mistica: Dio abita nell'anima e lo si conosce anche con la ragione. Tuttavia, la ragione può condurre soltanto alla soglia dell'esperienza di Dio che viene colta soltanto attraverso la rinuncia alla ragione stessa. Guglielmo di Ockham, infine, è certo dell'impossibilità di cogliere con la ragione il Dio della fede: con la ragione è solo possibile farsi un'idea di Dio, anche se del tutto insufficiente e inadeguata.

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Si può convincere un ateo dell'esistenza di Dio? ~

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Dio creatore del mondo, Bibles moralisées, prima metà XIII secolo, Parigi.

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Anselmo d'Aosta: l'argomento antologico Il credente cerca ragioni necessarie e incontrovertibili alla sua fede, ma soprattutto un argomento decisivo intorno al problema dell'esistenza di Dio. Anselmo d'Aosta si chiede se sia possibile trovare un'unica argomentazione capace di provare l'esistenza di Dio. A differenza di quanto aveva fatto nel Monologion, nel Pros/ogion Anselmo non procede con prove a posteriori, che giungano a dimostrare l'esistenza di Dio a partire dall'esperienza del mondo creato. Piuttosto, l'argomento fondante è desunto a priori, partendo cioè dall'essenza stessa di Dio, così come appare evidente al concetto che ne abbiamo nella nostra mente. L'essenza di Dio è racchiusa nella definizione che Anselmo ne dà, divenuta presto celebre: Dio è «ciò di cui non si può pensare niente di più grande». Ammettiamo che ci sia qualcuno che, al pari dell'uomo empio di cui si parla nel Salmo 13 della Bibbia, ritenga in cuor suo che Dio non esiste. Anselmo prende le mosse proprio da questa affermazione, o meglio dalla negazione esplicita dell'esistenza di Dio. Egli tende a dimostrare che l'uomo empio, negatore di Dio, è uno stolto, un insipiente, poiché non si accorge della contraddizione che è insita nella sua stessa affermazione. Nel Pros/ogion, Anselmo confuta dialetticamente la posizione del suo interlocutore, identificato in colui che afferma dentro di sé che Dio non esiste (insipiente): anche l'empio, per affermare che Dio non esiste, possiede almeno il concetto di Dio. E qual è questo concetto? Come è pensato Dio?Dio è con ogni evidenza ciò di cui non si può pensare niente di più grande, cioè l'ente più perfetto che si possa pensare. Ora, se Dio non esistesse, si potrebbe pensare l'esistenza di un essere più grande di lui, un essere cioè che possiede tutte le caratteristiche di Dio più l'esistenza. Ma questo è evidentemente contraddittorio. Chi sostiene che Dio non esiste deve infatti ammettere nella sua mente almeno l'esistenza del concetto di Dio, cioè di qualcosa di cui non è pensa bile niente di maggiore ~11-17. Ma tanto più è maggiore ciò che, oltre ad essere presente nella mente, è presente anche nella realtà. Di conseguenza Dio non può esistere solo nella mente, ma deve esistere anche nella realtà ~118-24. Se Dio è ciò di cui non si può pensare niente di più grande, esiste perché ciò che è presente nella realtà è maggiore di ciò che è presente solo nella mente ~125-32. Ciò conferma, tra l'altro, il principio secondo cui Dio soltanto possiede la pienezza dell'essere, a cui appartiene necessariamente anche l'esistere a differenza di tutte le altre cose che gli sono inferiori e che possono anche non esi-

stere ~133-43. In conclusione, se lo stolto dice in cuor suo che Dio non esiste, è perché non riflette al significato delle sue parole; altrimenti si accorgerebbe della sua grande contraddizione ~144-56.

Anche l'insipiente possiede nella propria mente la nozione di Dio come ciò di cui non si può pensare niente di più grande

Dunque, o Signore, tu che dai l'intelligenza alla fede, concedimi di comprendere, per quanto sai che mi possa giovare, che tu esisti come crediamo e che sei quello che noi crediamd. E davvero noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande. O forse non vi è una tale natura, perché «disse l'insipiente in cuor suo: Dio non esiste, (Sal 13)? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ascolta ciò che dico, cioè «qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande,, comprende ciò che ode; e ciò che comprende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che quella cosa esista. Altro, infatti, è che una cosa sia nell'intelletto, e altro è intendere che quella cosa esista. Quando il pitto-

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1. Anselmo chiede l'aiuto di Dio per vedere e capire che le cose stanno come la fede propone, una fe-

de che però non teme l'indagine razionale.

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Ma ciò di cui non si può pensaJ•eniente di più grande !leve esistere am::he nella realtà

Ilio ha la pienezza dell'essere quindi anche l'esistenza

Affer·mar·e .. mo non esiste>> 1111111 dire mm cnmpr•endere -il significato delle parole

re infatti, prima pensa a ciò che sta per fare, ha certamente nell'intelletto ciò che ancora non ha fatto, ma non intende ancora che questo esista. Quando invece lo ha già dipinto, non solo ha nell'intelletto ciò che ha già fatto, ma intende anche che esso esista. Anche l'insipiente, dunque, deve convenire che, almeno nell'intelletto, vi sia qualcosa di cui non si può pensare nulla di più grande, perché quando sente questa espressione la intende, e tutto ciò che si intende è nell'intelletto. Ma, certamente, ciò di cui non si può pensare qualcosa di più grande non può essere nel solo intelletto. Se infatti è almeno nel solo intelletto, si può pensare che esista anche nella realtà, il che è maggiore 2 . Se dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore è nel solo intelletto, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore. Ma evidentemente questo non può essere. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste, senza dubbio, sia nell'intelletto sia nella realtà. Tutto ciò è talmente vero, che non si può neppure pensare che Dio non esista. Infatti si può pensare che vi sia qualcosa di cui non si possa pensare che non esiste; e questo è maggiore di ciò che si può pensare non esistente. Quindi, se ciò di cui non si può pensare il maggiore può essere pensato non esistente, quello stesso di cui non si può pensare il maggiore non è ciò di cui non si può pensare il maggiore; ma questo è contraddittorio. Dunque ciò di cui non si può pensare il maggiore esiste così veramente che non si può neppure pensare non esistente. E questo sei tu, Signore Dio nostro. Dunque tu esisti così veramente, Signore Dio mio, che non. puoi neppure essere pensato non esistente. E giustamente. Se infatti una qualche mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe al di sopra del Creatore e sarebbe giudice del Creatore; il che sarebbe grandemente assurdo. In verità, di tutto ciò che è, all'infuori di te solo, si può pensare che non sia. Tu solo dunque hai l'essere nel modo più vero, e perciò massimo, rispetto a tuttè le cose, perché qualsiasi altra cosa non è in modo così vero e, quindi, ha un essere minore. Perché dunque «l'insipiente ha detto in cuor suo: Dio non esiste", quando è così evidente a una mente razionale che tu sei più di tutte le cose? Per quale motivo, se non perché è stolto e insipiente? Ma in quale modo l'insipiente ha detto in cuor suo ciò che non ha potuto pensare, o in che modo non ha potuto pensare ciò che ha detto in cuor suo, dato che è la stessa cosa dire nel cuore e pensare? Se poi veramente, anzi perché veramente, pensò (perché disse in cuor suo), e non disse in cuor suo (perché non poteva pensare), ciò significa che non in un modo soltanto si dice nel cuore o si pensa qualcosa. In un modo, infatti, una cosa è pensata quando si pensa la parola che la significa; in un altro modo, quando si comprende ciò che la cosa è. Nel primo modo, pertanto, si può pensare che Dio non sia, ma nel secondo assolutamente no. Perciò nessuno, il quale còmprenda ciò che Dio è, può pensare che Dio non esista, sebbene dica in cuor suo queste parole, non dando loro alcun significato o dandogliene uno estraneo. Dio, infatti, è ciò di cui non si può pensare il maggiore. Chi comprende bene questo, comprende certamente che egli esiste in modo tale che neppure nel pensiero può non esistere.

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Anselmo d'Aosta, Proslogion, II-IV, pp. 69-72 2. L'ente di cui non si può pensare il maggiore non può esistere solo nell'intelletto, altrimenti non sarebbe l'ente di cui non si può pensare il maggiore.

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Tommaso d'Aquino: cinque prove per l'esistenza di Dio Tommaso considera insufficiente la dimostrazione di Anselmo: essa prova che l'essenza di Dio implica la sua esistenza, non che Dio esiste. L'uomo deve partire non da Dio, la cui essenza gli sfugge, ma dalla realtà conosciuta all'uomo, ovvero dagli effetti dell'esistenza di Dio, rintracciando le cause degli effetti. Ogni effetto ha una causa: è la dimostrazione a posteriori privilegiata da Tommaso. La conoscenza umana deve sempre partire dalla realtà sensibile, anche per elevarsi alla realtà soprasensibile e a Dio stesso. Come giunge Tommaso a respingere l'argomento di Anselmo e a proporre in alternativa le sue cinque vie? Nel brano che proponiamo, tratto dalla Summa Theo!ogiae, Tommaso esamina i vari tipi di proposizione, allo scopo di distinguere due tipi di evidenza: vi sono proposizioni evidenti per se stesse e anche per noi, quando il predicato è contenuto nel soggetto e sia il significato del predicato sia il significato del soggetto sono a noi perfettamente noti. Quando, invece, il significato del soggetto o del predicato non sono del tutto noti, allora la proposizione è evidente per se stessa, ma non per noi; manca infatti qualcosa perché essa, evidente in senso logico, lo sia anche per la comprensione del significato del suoi termini. Così avviene nella proposizione «Dio esiste». Nel soggetto (Dio) è compreso anche il predicato (esiste) giacché, come giustamente ha argomentato Anselmo d'Aosta, non si potrebbe pensare il concetto di Dio se non come l'essere perfetto che necessariamente possiede anche l'esistenza. La proposizione, tuttavia, non è evidente per noi uomini mortali e limitati, perché in realtà il significato del soggetto non ci è perfettamente noto. Infatti, dal momento che la mente umana appartiene a un ente finito, come può possedere un'idea adeguata di Dio, che invece è un ente infinito? Di conseguenza, non possiamo appoggiarci al concetto di Dio per dedurne l'esistenza. Dobbiamo tentare di dimostrare la sua esistenza per altre vie, cioè partendo dalle cose che per noi sono evidenti ~>11-19. Alla dimostrazione propter quid (a partire dalla causa) Tommaso preferisce quindi quella propter quia (a partire dagli effetti) da cui si può risalire alla causa ultima. Tali effetti sono le realtà finite che noi percepiamo con i sensi ~>.120-29. Secondo Tommaso, dunque, 1) «tutto ciò che si muove è mosso da altro» e il credente può chiamare Dio ciò che Aristotele definiva motore immobile causa del movimento ~>130-51; 2) oltre al divenire, anche le cause, che sono all'origine degli effetti osservabili, permettono di risalire a una causa originaria non causata da nulla ~>152-63; 3) il mondo della contingenza, dove tutto è generato e destinato alla corruzione, può derivare il suo essere solo da un essere che ha in sé la sua ragione d'essere, non derivata da altro ~>164-81; 4) la realtà imperfetta del mondo partecipa di ciò che è assolutamente perfetto ~>182-94; 5) il fine cui tendono tutte le cose non è conseguenza del caso, ma fissato da un principio intelligente che tutto ordina verso. un fine, e che è Dio stesso ~>195-1 03.

Ui sono proposizioni di pe1• sé evidenti ma bisogna conoscerne i termini

La PI'OJID!Iizione "Dio esiste» non è evidente pel' noi che mm conosciamo l'essenza di Dio

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Una cosa può essere di per sé evidente in due modi: primo, in se stessa, ma . non per noi; secondo, in se stessa e anche per noi. Infatti una proposizione è di per sé evidente se il predicato è incluso nella nozione del soggetto, come per esempio: l'uomo è un animale, poiché animale fa parte della nozione stessa di uomo. Se dunque è a tutti nota la natura del predicato e del soggetto, la proposizione risultante sarà per tutti evidente, come avviene nei primi principi delle dimostrazioni, i cui termini sono nozioni comuni che nessuno può ignorare, come ente e non ente, il tutto e la parte, ecc. Se però a qualcuno rimane sconosciuta la natura del predicato e del soggetto, la proposizione sarà evidente in se stessa, ma non per quanti ignorano il predicato e il soggetto della proposizione. E così accade, come nota Boezio, che alcuni concetti sono co-

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Per dimostrare l'esistenza ili Dio bisogna pa1•tire dagli effetti a noi noti

Tutto ciò che si muove è mosso ala altro e il primo motore è Dio

Tutte le colle lumno una causa e la causa IJI'imaèl.lìo

munì ed evidenti solo per i dotti: questo acl esempio: «Le realtà immateriali non sono circoscritte in un luogo". Dico dunque che questa proposizione: Dio esiste, in se stessa è immediatamente evidente, poiché il predicato si identifica con il soggetto, dato che Dio [. .. ] è il suo stesso essere; ma siccome noi ignoriamo l'essenza eli Dio, per noi non è evidente, e necessita eli essere dimostrata per mezzo eli quelle cose che sono a noi più note, anche se per loro natura meno evidenti, cioè mediante gli effetti. [. . .] Vi è una duplice dimostrazione. L'una procede dalla [conoscenza della] causa, ed è chiamata propter quid: e questa muove da ciò che eli per sé ha una priorità antologica. L'altra invece parte dagli effetti, ed è chiamata dimostrazione quia: e questa muove da cose che hanno una priorità solo rispetto a noi; ogni volta infatti che un effetto ci è più noto della sua causa, ci serviamo di esso per conoscere la causa. Da qualunque effetto poi si può dimostrare l'esistenza della sua causa (purché gli effetti siano a noi più noti della causa): dipendendo infatti ogni effetto dalla sua causa; posto l'effetto è necessario che preesista la causa. Quindi l'esistenza eli Dio, non essendo evidente rispetto a noi, può essere dimostrata per mezzo degli effetti da noi conosciuti. [... ] Che Dio esiste può essere provato attraverso cinque vie. La prima e la più evidente è quella che è desunta dal moto. È certo infatti, e consta dai sensi, che in questo mondo alcune cose si muovono. Ora, tutto ciò che si muove è mosso da altro. Nulla infatti si trasmuta che non sia in potenza rispetto al termine del movimento, mentre ciò che muove, muove in quanto è in atto. Muovere infatti non significa altro che trarre qualcosa dalla potenza all'atto; e nulla può essere ridotto dalla potenza all'atto se non da parte di un ente che è già in atto. Come il fuoco, che è caldo attualmente, rende caldo in atto il legno, che era caldo solo potenzialmente e così lo muove e lo altera. Ora, non è possibile che una stessa cosa sia simultaneamente e sotto lo stesso aspetto in atto e in potenza, ma lo può essere soltanto sotto diversi rapporti: come ciò che è caldo in atto non può essere insieme caldo in potenza, ma è insieme freddo in potenza. È dunque impossibile che sotto il medesimo aspetto una cosa sia al tempo stesso movente e mossa, cioè che muova se stessa. È quindi necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da altro. Se dunque l'ente che muove è anch'esso soggetto a movimento, bisogna che sia mosso da un altro, e questo da un terzo e così via. Ma non si può in questo caso procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nèssun altro motore, dato che i motori intermedi non muovono se non in quanto sono mossi dal primo motore, come il bastone non muove se non in quanto è mosso dalla mano. Quindi è necessario arrivare a un primo;motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio. La seconda via parte dalla nozione di causa efficiente. Troviamo infatti che nel mondo sensibile vi è un ordine tra le cause efficienti; ma non si trova, ed è impossibile, che una cosa sia causa efficiente di sé medesima: perché allora esisterebbe prima di se stessa, cosa inconcepibile. Ora, un processo all'infinito nelle cause efficienti è assurdo. Infatti in tutte le cause efficienti concatenate la prima è causa dell'intermedia, e l'intermedia è causa dell'ultima; siano molte le intermedie o una sola; ma eliminata la causa è tolto anche l'effetto: se dunque nell'ordine delle cause efficienti non fosse una prima causa, non vi sarebbe neppure l'ùltima, né l'intermedia. Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale a eliminare la prima causa efficiente: e così non avremo nep-

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l g1•adi di perfezione dell'esse1•e postulano l'esistenza Ili un ente sommamente pe1•fetto

Se i corpi privi di intelligenza agiscono per un fine, deve esistere un ente intelligente che li governa

pure l'effetto ultimo, né le cause intermedie, il che è evidentemente falso. Quindi bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio. La terza via è presa dal possibile [o contingente] e dal necessario, ed è questa. Tra le cose ne troviamo alcune che possono essere e non essere; infatti certe cose nascono e finiscono, il che vuol dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutto ciò che è di tale natura esista sempre, poiché ciò che può non essere, prima o poi non è. Se dunque tutte le cose [esistenti in natura sono tali che] possono non esistere, in un dato momento nulla ci fu nella realtà. Ma se ciò è vero, anche ora non esisterebbe nulla, poiché ciò che non esiste non comincia a esistere se non in forza di qualcosa che esiste. Se dunque non c'era ente alcuno, è impossibile che qualcosa cominciasse a esistere, e così anche ora non ci sarebbe nulla, il che è evidentemente falso. Quindi non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà vi sia qualcosa di necessario. Ma tutto ciò che è necessario o ha la causa della sua necessità in un altro essere, oppure non l'ha. D'altra parte negli enti necessari che hanno altrove la causa della loro necessità non si può procedere all'infinito, come neppure nelle cause efficienti, come si è dimostrato. Quindi bisogna porre l'esistenza di qualcosa che sia necessario di per sé, e non tragga da altro la propria necessità, ma sia piuttosto la causa della necessità delle altre cose. E questo essere tutti lo chiamano Dio. La quarta via è presa dai gradi che si riscontrano nelle cose. È evidente infatti che nelle cose troviamo il bene, il vero, il nobile e altre simili perfezioni in un grado maggiore o minore. Ma il grado maggiore o minore viene attribuito alle diverse cose secondo che esse si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto: come più caldo è ciò che maggiormente si accosta a ciò che è sommamente caldo. Vi è dunque un qualcosa che è sommamente vero, e sommamente buono, e sommamente nobile, e di conseguenza sommamente ente: poiché, come dice Aristotele [Metaph., II, 1], ciò che è massimo in quanto vero è tale anche in quanto ente. Ora, ciò che è massimo in un dato genere è causa di tutte le realtà appartenenti a quel genere: come il fuoco, che è caldo al massimo grado è la causa .di ogni calore sempre secondo Aristotele. Quindi vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo essere lo chiamiamo Dio. La quinta via è desunta dal governo delle cose. Vediamo infatti che alcune cose prive di conoscenza, come i corpi fisici, agiscono per un fine, come appare dal fatto che agiscono sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione: per cui è evidente che raggiungono il loro fine non a caso, ma in seguito a una predisposizione. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, come la freccia dall'arciere. Vi è dunque un qualche essere intelligente dal quale tutte le realtà naturali sono ordinate al fine: e questo essere lo chiamiamo Dio. ' Tommaso d'Aquino, Summa Tbeologiae, I, q. 2, art. 1-3 resp., I, pp. 48-50

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Meister Eckhart: l'esperienza mistica Secondo Meister Eckhart, che riprende la teologia negativa di Dionigi Areopagita, l'uomo misura tutta la sua impotenza quando cerca di dimostrare razionalmente Dio e la sua esistenza. Di Dio non si può predicare nulla, in quanto negazione di ogni negazione, sempre ulteriore rispetto a ogni nostra definizione, abisso insondabile alla mente umana. Commentando il passo del Vangelo di Luca «sappiate che il regno dei cieli è vicino» (Le 21,31 ), Eckhart si chiede che significato ha questa vicinanza per l'uomo del regno di Dio. Al credente è richiesta infatti una consapevolezza di ciò che crede, altrimenti sarebbe come un re che non sa di esserlo, cioè un uomo incapace di godere del bene che possiede ~>l 1-13. Eckhart stabilisce un'equivalenza tra l'essere consapevoli della presenza di Dio nell'anima e il grado di beatitudine che si può raggiungere già in questa vita. L'uomo ha nell'anima una potenza, una scintilla, che rende l'anima «assolutamente recettiva di Dio». Citando Agostino, Eckhart può affermare che Dio è «più vicino a me di me stesso» e questa vicinanza, questa presenza, lo fa essere. La beatitudine dell'uomo consiste in questa consapevolezza della presenza in lui del regno di Dio che è Dio stesso ~>113-37. Dio è presente ugualmente in tutte le cose, come pure in tutti i luoghi e momenti della vita di un uomo. Tuttavia, per esser certi della sua presenza, sempre e dovunque, bisogna prendere distanza dalle cose terrene in modo da non permettere che queste sconvolgano l'anima. Eckhart ricorre qui a un paragone: se Dio è il cielo, allora l'anima, cioè l'occhio che lo guarda, deve farsi simi.le al cielo e assumere tutte le sue caratteristiche: essere ugualmente distante da tutti i punti della terra e superiore a tutto ~>138-65, porsi al di là dello spazio e del tempo, perché Dio è uno e non è limitato dalle coordinate spazio-temporali ~166-74, tralasciare la rappresentazione mentale di qualunque creatura, perché in confronto a Dio ogni essereè un nulla ~>175-81, dimenticare se stessa per amore di Dio, perché Dio è amore. Cosl soltanto l'anima potrà trovare Dio e sarà ricompensata da una nuova conoscenza di sé e delle creature, che ora vedrà dal punto di vista di Dio ~>182-92. Eckhart ribadisce quindi la via mistica per conoscere Dio: morire a tutte le cose per allargare lo spazio dell'anima affinché Dio le possa infondere tutti i doni di cui ella necessita per godere della sua presenza ~>193-116.

La beatitudine consiste nel sapere che Dio è vicino a noi

Il nostro amato Signore dice qui: «Sappiate che il regno di Dio è vicino a voi» 1 . Sì, il regno di Dio è in noi, e san Paolo dice che la nostra salvezza è più vicina a noi di quel che crediamd. Dovete sapere in primo luogo come il regno Dio è vicino a noi; in secondo luogo, quando il regno di Dio è vicino a noi. Perciò dobbiamo considerare con cura il significato. Se io fossi un re, ma senza saperlo io stesso, non sarei affatto un re. Se avessi invece la ferma fede di essere un re, e questa stessa opinione fosse creduta da tutti gli uomini insieme a me, ed io avessi per certo che tutti gli uomini lo credono, sarei davvero un re, e mia sarebbe tutta la ricchezza del re, e niente di essa mi mancherebbe. Queste tre cose sono necessarie, se devo essere un re. Se me ne mancasse anche soltanto una, non potrei essere re. Un maestro dice - e così anche i nostri migliori maestri - che la beatitudine sta nel fatto che l'uomo conosce e sa il bene più alto, che è Dio stesso~. Io ho nell'anima una potenza che è assolutamente

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1. Le 21,31 2. Rm 13,11 3. Il maestro citato potrebbe essere Aristotele, o comunqtie la tradizione tomista.

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Il reono di Dio è Dio stesso nell'anima

Dio è presento in tutte le cose, in tutte le situazioni, in tutti i luoghi

Per co1mscel'll Dio l'anima deve fiii'Si simile nl cielo ...

recettiva di Dio. Io sono certo, come del fatto di vivere, che niente mi è così vicino come Dio. Dio è a me più vicino, di quanto io lo sia a me stesso; il mio essere dipende dal fatto che Dio è a me vicino e presente. Lo è anche ad una pietra o al legno, ma essi non lo sanno. Se il legno sapesse di Dio, e conoscesse quanto egli è vicino, così come lo sa il più alto degli angeli, il legno sarebbe altrettanto beato quanto l'angelo più alto. Perciò l'uomo è più beato di una pietra o del legno, perché egli conosce Dio e sa quanto Dio gli è vicino. Ed è beato quanto più conosce ciò, e quanto meno lo conosce, tanto meno è beato. Non è beato per il fatto che Dio è in lui c a lui così vicino e che egli ha Dio, ma per il fatto che egli conosce quanto Dio gli è vicino, e che egli sa di Dio. Un tale uomo saprà «che il regno di Dio è vicino". Il profeta dice nel ·salterio: «No n dovete essere ignoranti· come un mulo o un cavallo, 4 . Un'altra parola la dice il patriarca Giacobbe: «Veramente, Dio è in questo luogo, e io non lo sapevo, 5 . Si deve sapere di Dio, e riconoscere «che il regno di Dio è vicino,, Quando penso al regno di Dio, rimango spesso ammutolito per la sua grandezza. Perché il regno di Dio è Dio stesso con la sua intera ricchezza. Non è una piccola cosa il regno di Dio: se ci si rappresentassero tutti i mondi che Dio può creare, questo non è il regno di Dio! Sono solito dire talvolta una parola: l'anima, in cui il regno di Dio appare e che riconosce vicino a sé il regno di Dio, non ha bisogno di ascoltare prediche o insegnamenti: da quello ha già ricevuto insegnamento, e l'assicurazione della vita eterna. Chi sa e riconosce quanto vicino gli è il regno di Dio, può dire con Giacobbe: «Dio è in questo luogo, e io non lo sapevo,, ma ora lo so. Dio è ugualmente vicino in tutte le creature. Il sapiente dice: Dio ha steso le sue reti e le sue funi su tutte le creature, perché si possa trovarlo in ciascuna di esse e riconoscerlo, se solo si vuole percepirlo. Un maestro dice: conosce Dio rettamente chi lo riconosce in modo identico in tutte le cose. Io ho detto già una volta: che si serva Dio nel timore, è bene; che lo si serva per amore, è meglio; ma che l'uomo possa concepire l'amore nel timore, questa è la cosa migliore di tutte. Che un uomo abbia una vita tranquilla e quieta in Dio, è bene; che sopporti con pazienza una vita piena di affanni, è meglio; ma la cosa migliore di tutte è avere pace negli affanni. Un uomo va nel campo, dice la sua preghiera e conosce Dio; oppure è in chiesa e conosce Dio: se conosce meglio Dio per il fatto di trovarsi in un luogo tranquillwciò dipende dalla sua insufficienza, non da Dio; perché Dio è nello stesso modo in tutte le cose ed in tutti i luoghi, ed è pronto a donarsi nello stesso modo, per quanto dipende da lui; e conosce Dio rettamente chi lo riconosce come uguale. San Bernardo dice: perché il mio occhio, e non il piede, conosce il cielo? Ciò deriva dal fatto che l'occhio è più simile al cielo del piede. Se dunque la mia anima deve conoscere Dio, deve essere celeste. Ma cos'è che porta l'anima a conoscere Dio in sé ed a sapere quanto è vicino? Fate attenzione! Il cielo non può ricevere alcuna impressione estranea: nessuna penosa .necessità può impressionarlo e portarlo fuori dal suo corso. Così, anche l'anima, che deve conoscere Dio, deve essere così rafforzata e confermata in Dio, da non poter es-

4. Sal31,9 5. Gn 28,16

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..• ilistaCCIII'SÌ dalle cose tel'l'll!lll ...

... porsi al di sopra del tempo e dello

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In Dio l'anima conosce se stessa e tutte le creòlture

ilio esige molto per potet• donare molto

Il distacco è difficile solo all'inizio

sere impressionata da niente, né speranza né timore, né gioia né afflizione, né amore né dolore, né alcuna altra cosa che possa portarla fuori del suo cammino. Il cielo è in tutti i suoi punti ugualmente lontano dalla terra. Così anche l'anima deve essere ugualmente lontana da tutte le cose terrene, in modo da non essere più vicina all'una che all'altra; essa deve mantenersi ugualmente distante nella gioia e nel dolore, nell'avere e nell'esser privo, o comunque sia: a tutto deve essere completamente morta, distaccata ed elevata al di sopra. Il cielo è puro e chiaro, senza alcuna macchia, ad eccezione della luna. I maestri la chiamano la levatrice del cielo, l'astro più vicino alla terra. Il tempo e lo spazio non lo toccano. Tutte le cose corporee non hanno là alcun luogo. Non sta neppure nel tempo, il suo corso è incredibilmente veloce; i maestri dicono che è senza tempo, ma il tempo deriva dal suo corso6 . Niente ostacola l'anima nella conoscenza di Dio tanto, quanto il tempo e lo spazio. Tempo e spazio sono parti, ma Dio è uno. Se dunque l'anima deve conoscere Dio, deve conoscerlo al di sopra dello spazio e del tempo, perché Dio non è questo né quello, come le molteplici cose terrene: Dio è uno. Se l'anima deve vedere Dio, essa non può guardare alcuna cosa nel tempo; perché non può mai conoscere Dio fin tanto che le sono presenti il tempo e lo spazio, o altre rappresentazioni simili. Se l'occhio deve conoscere il colore, deve essere prima spoglio di ogni colore. Se l'anima deve conoscere Dio, essa non può avere nulla in comune con il nulla. Chi conosce Dio, sa che tutte le creature sono nulla. Se si pone una creatura di fronte all'altra, essa appare bella ed è qualcosa; ma se la si mette di fronte a Dio, essa non è nulla. Io dico inoltre: se l'anima deve conoscere Dio, deve anche obliare se stessa e perdersi; perché non vede e conosce Dio, finché vede e conosce se stessa. Se invece si perde per amor di Dio e rinuncia a tutte le cose, allora ritrova se stessa in Dio. Mentre conosce Dio, conosce se stessa e tutte le cose, da cui si è separata, in modo perfetto in Dio. Se devo conoscere davvero il sommo bene o l'eterna bontà, devo conoscerla là dove essa è la bontà in sé, non dove è divisa. Se elevo conoscere davvero l'essere, devo conoscerlo dove è l'essere in se stesso, ovvero in Dio; non dove è diviso, nelle creature. In Dio soltanto è l'intero essere divino. In un uomo non è l'intera umanità, perché un uomo non è tutti gli uomini. Ma in Dio l'anima conosce l'intera umanità, e tutte le cose nel grado più alto, perché le conosce secondo l'essere. Un uomo, che abiti in una casa ben dipinta, la conosce certo meglio di un altro, che non vi è mai stato e che, tuttavia, ne volesse parlare a lungo. Nello stesso modo io sono certo, come son certo di vivere e che Dio vive, che l'anima deve conoscere Dio al eli sopra del tempo e dello spazio, se davvero deve conoscerlo. Una tale anima conosce Dio e sa quanto vicino è il suo regno, ovvero Dio con tutta la sua ricchezza. I maestri sollevano molte questioni nella scuola a proposito di come sia possibile che l'anima conosca Dio. Non deriva dalla giustizia o dal rigore di Dio il fatto che egli molto esiga dall'uomo; deriva dalla sua grande liberalità, perché egli vuole che l'anima si allarghi, per poter ricevere molto, e perché molto le possa dare. Nessuno deve credere che sia difficile giungere a questo punto, per quanto suoni difficile e difficile sia all'inizio e nel distaccarsi e morire a tutte le cose.

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6. Il riferimento è alla teoria agostiniana, cfr. Confessioni, XII, 9, 6.

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Ma quando si è un po' pratici, allora non v'è vita più facile, piacevole ed amabile. Dio è infatti molto premuroso di essere sempre accanto all'uomo, e lo istruisce per condurlo a sé, se quello vuole seguirlo. Mai un uomo ha desiderato qualcosa tanto quanto Dio desidera portare l'uomo a conoscerlo. Dio è sempre pronto; noi invece siamo poco pronti; Dio è vicino a noi: noi invece siamo lontani da lui; Dio è all'interno, noi invece siamo all'esterno; Dio è in noi in casa propria, ma noi siamo in un paese straniero. Il profeta dice: «Dio conduce i giusti per uno stretto sentiero nell'ampia strada, perché giungano nell'ampiezza e nella larghezza,7 ; che significa: nella vera libettà dello spirito, che è diventato un solo spirito con Dio. Ci aiuti Dio, perché noi tutti lo seguiamo, in modo che egli ci porti in sé, dove lo conosciamo veramente. Amen.

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Meister Eckhart, Sappiate che il regno di Dio è vicino, in Sermoni tedeschi, pp. 178-184

Guglielmo di Ockham: il criticismo della ragione Ockham considera insufficienti le cinque vie per provare l'esistenza di Dio di Tommaso: Dio non è conoscibile a partire dai fenomeni naturali e per questa strada non è possibile dimostrare razionalmente la sua esistenza. In questo brano Ockham critica in particolare la prova di Tommaso che parte dall'osservazione degli effetti, da cui necessariamente si deve risalire, di causa in causa, a una causa incausata. Riguardo agli effetti, ossia alle cose che esistono nel mondo, Dio può essere considerato o come causa immediata (sufficiente) o come causa mediata (parziale). Nel primo caso è causa diretta di quello che accade nel mondo, nel secondo caso è causa indiretta. La tesi di Ockham è che né il primo caso né il secondo si possono dimostrare con l'uso della ragione naturale. Difatti non possiamo dimostrare in quale misura i corpi celesti siano la causa efficiente di ciò che avviene sulla terra, per cui non possiamo affermare che Dio sia la causa diretta in modo certo e chiaro ~11-1 O. Né, d'altro lato, è possibile dimostrare con certezza se i corpi celesti, ultimi elementi della catena delle cause naturali, siano stati fatti da un ente superiore ~>111-17 o che l'anima intelligente che governa il mondo sia stata fatta da Dio. Perciò non è possibile concludere neppure che Dio sia causa mediata o indiretta dei fenomeni che accadono nel mondo "'117-25. Allo stesso modo, Ockham è convinto della radicale impossibilità di dimostrare l'unicità di Dio a partire da premesse certe, ovvero dalla certezza della sua esistenza.

Dopo aver posto la questione ~>126-35, Ockham parte da due definizioni_ di Dio. Nella prima lo definisce come qualcosa che supera ogni altra in eccellenza e in perfezione. Ora, in base a questa definizione non si può dimostrare che questo Dio esiste. Infatti, l'affermazione «Dio esiste» non può essere provata, né è evidente per sé, né a partire dall'esperienza. Soltanto se fosse provata, si potrebbe anche provare, a partire sempre dalla prima definizione, che Dio è uno ~>136-58. Tuttavia, se l'unicità di Dio non può essere provata con argomenti razionali, neppure si può provare il contrario, cioè che Dio non sia uno ~>159-67. La seconda definizione invece è quella da cui parte l'argomento a priori di Anselmo: Dio è l'essere di cui non esiste uno migliore e più perfetto. La ragione può accettare che a partire da essa si dimostri l'esistenza di Dio, ma non l'unicità, che si può credere solo per fede. ~>168-73.

i. Sap 10,10.

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Non si IIIIÒ ilimostl'lll'e che Dio è causa

immediata ili tutto ...

... 1111'che sia causa mediata ili alcun effetto

Èpossibile dimost1•are mediante In l'agione naturale che esiste 1111 solo Dio?

Due significati del tei'IUÌIIe «DiO>>

Se si potesse dimostra1•e l'esistenza di 1111 esse1·e perfetto •.•

Affermo in primo luogo che non può essere dimostrato dalla ragione naturale che Dio è causa efficiente immediata di tutte le cose. Sia perché non può essere sufficientemente dimostrato che altre cause, ad esempio i corpi celesti, non siano sufficienti a spiegare i molti effetti, e che, quindi, non si ponga invano una causa efficiente immediata di essi. Sia perché, se si potesse dimostrare con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di tutte le cose, e se non si potesse dimostrare con la ragione naturale che egli è causa parziale necessaria, o insufficiente, del tutto, si potrebbe con uguale facilità dimostrare, con la ragione naturale, che è causa sufficiente di tutto, e allora le altre cause efficienti sarebbero poste inutilmente. In secondo luogo affermo che non può dimostrarsi con la ragione naturale che Dio è causa efficiente di alcun effetto, perché non può dimostrarsi in modo soddisfacente che esistono fenomeni effettibili che non siano quelli generabili e corruttibili le cui cause sufficienti sono i corpi naturali inferiori e celesti; perché, non si può sufficientemente dimostrare che una qualunque sostanza separata o un qualunque corpo celeste è causato da una qualunque causa efficiente. Neppure si può dimostrativamente affermare che l'anima intellettiva (che è tutta in tutto, e tutta in ogni parte) sia causata da qualche efficiente, poiché non può dimostrarsi che tale anima si trova in noi. Da questo segue necessariamente che non si può dimostrare che Dio sia la causa mediata di alcun effetto, perché se si potesse dimostrare che Dio è causa mediata di un effetto, si potrebbe dimostrare anche che è causa immediata di un altro nel genere della causa efficiente. Ma questa seconda tesi non si può dimostrare, perciò neppure la prima. Per cui si conclude che non può naturalmente dimostrarsi che Dio è causa efficiente totale o parziale di alcun effetto. Taluni sostengono che è possibile perché- come è detto nel libro XII della Meta.fisica1 - un solo mondo non può avere che un solo principe; ora, poiché si può dimostrare filosoficamente che c'è un mondo solo, come attesta Aristotele nel primo libro Del cielo, si può anche dimostrare filosoficamente che c'è un signore solo, ma tale Signore è Dio; dunque ecc. Si può tuttavia opporre che un articolo di fede non è mai dimostrabile in modo evidente; e siccome la proposizione che vi è un solo Dio è un articolo di fede, quindi ecc. Accingendoci a risolvere tale questione, spiegherò innanzitutto che cosa si debba intendere con il termine «Dio"; risponderò, quindi, alla questione. Quanto al primo punto dico che del termine «Dio, possiamo dare due diverse definizioni. La prima è questa: Dio è qualcosa che supera ogni altra cosa diversa in eccellenza ed in perfezione. La seconda è questa: Dio è l'essere di cui non ne esiste uno migliore e più perfetto. Quanto al secondo punto dico che, se prendiamo il termine «Dio, nella prima definizione, non possiamo dimostrare per via apodittica2 che esiste un solo Dio. La ragione è che non si può sapere in maniera evidente se Dio, inteso in tal modo, esista, e quindi non possiamo neppure sapere con evidenza se Dio, inteso in tal senso sia soltanto uno. L:i conseguenza è chiara. La premessa si dimostra così: la proposizione «Dio esiste, non è immediatamente evidente, poi-

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1. La Metafisica di Aristotele. 2. Partendo, cioè, da premesse immediatamente evidenti o di accertata verità.

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... si (liltrebbe dimostrat•e anche

la !11111

IIIJÌCÌtÌl

Non si può dimostral'e né che Dio sia 11110 né che nonio sia

L'unicità ili mu ua creduta per fede

ché molti dubitano di essa; non si può neppure dedurre da premesse immediatamente evidenti, poiché ogni argomentazione implica qualcosa di dubbio o di accettato per fede; e non è neppure evidente per l'esperienza, come è chiaro. Dico inoltre che, se si potesse dimostrare in modo evidente l'esistenza di Dio - intendendo «Dio, nel senso indicato dalla prima definizione -, in tal caso si potrebbe anche dimostrare la sua unicità. Infatti, se esistessero due Dei A e B, A sarebbe, in base a quella definizione, un essere più perfetto di qualunque altro, e quindi anche più perfetto di n, e n meno perfetto di A. Nello stesso modo, tuttavia, anche B sarebbe, per definizione, più perfetto di A, e A di B; cosa che è evidentemente contraddittoria. Sicché, ove fosse possibile dimostrare in modo apodittico che Dio esiste nel senso della prima definizione, sarebbe pure possibile dimostrarne l'unicità. In terzo luogo dico che non è dimostrabile l'unicità di Dio, se intendiamo Dio nel senso della seconda definizione. Però anche questa proposizione negativa - «non si può dimostrare con evidenza che esiste un solo Dio, - non può essere dimostrata a sua volta in modo apodittico; giacché è possibile dimostrare che l'unicità di Dio è indimostrabile solo confutando tutti gli argomenti contrari. Così come non è possibile dimostrare in modo apodittico che le stelle sono di numero pari, o che le persone divine sono tre. Né, tuttavia, si possono dimostrare in modo evidente le proposizioni negative: e cioè che non è possibile dimostrare che le stelle sono pari, e che in Dio vi sono tre Persone. Dobbiamo però sapere che è possibile dimostrare l'esistenza di Dio se intendiamo 'Dio' nel significato della seconda definizione. Altrimenti, infatti, si verificherebbe un processo all'infinito se tra tutti gli esseri non ve ne fosse uno del quale non potesse darsene un altro anteriore o più perfetto. Da ciò, per altro, non consegue affatto che di tali esseri ne esista uno solo; noi lo teniamo solamente per fede. Guglielmo di Ockham, Quodlibeta, II, q. l; I, q. l, pp. 400-403

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La libertà di scelta e la salvezza

e per i filosofi greci l'etica era ordinata al conseguimento della felicità, per i cristiani acquista un particolare rilievo il destino dell'anima, la sua salvezza e la sua beatitudine eterna. Da qui l'accento che viene posto sul ruolo della libertà, della volontà e della coscienza: mentre per i Greci contava soprattutto l'azione, il primato della coscienza mette in risalto l'importanza e la centralità delle intenzioni che sono all'origine delle scelte e delle azioni. In questo senso, si tende ad esaltare il ruolo della volontà nelle scelte morali, sulla scia eli quanto già i Padri della Chiesa avevano sostenuto. Oltre al ruolo del libero arbitrio e della libertà di coscienza, i pensatori cristiani sottolineano la centralità della Grazia di Dio nel procurare il sostegno necessario per condurre una vita buona e ottenere la :Salvezza. L'affermazione della libertà dell'uomo che, aiutato dalla Grazia divina, può scegliere il bene e respingere il male si scontra tuttavia con l'altra tesi, non meno centrale, clell'onniscienza divina. Dio conosce tutto e quindi sa in anticipo quali decisioni prenderanno gli uomini e quali azioni faranno: come può dunque l'uomo ritenersi veramente libero e responsabile? A questa domanda, che ricorre numerose volte nelle dispute delle scuole medievali, ha cercato di rispondere Severino Boezio pro-

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Wiligelmo, Creazione di Adamo ed Eva e peccato originale, 1106, Modena, Duomo.

vanclo a conciliare libero arbitrio e onniscienza divina. Una volta confermata l'esistenza del libero arbitrio, sorge un'altra domanda, quali sono i criteri con cui possiamo giudicare la bontà di un'azione? È merito di Pietro Abelardo l'avere introdotto, forse per la prima volta in modo chiaro nel pensiero occidentale, la categoria eli "intenzionalità", mostrando come un'azione non possa essere giudicata morale o immorale, ma si possono giudicare tali soltanto le intenzioni eli chi la compie. Un'altra grande questione della scolastica è se l'uomo, usando soltanto la ragione naturale, sia in grado di conoscere il bene e di sceglierlo. La risposta di Pietro Lombardo esprime fiducia nella ragione naturale dell'uomo, ma non esclude l'intervento della Grazia eli Dio che soccorre la volontà ferita dal peccato originale. Al contrario, Giovanni Duns Scoto ritiene che non sia sufficiente all'uomo la sola ragione naturale per conoscere quale sia il bene supremo e perseguirlo. Le considerazioni eli Duns Scoto vanno lette all'interno di un contesto di sopraggiunta sfiducia nelle capacità naturali dell'uomo e di conseguente esaltazione della trascendenza divina: senza la luce soprannaturale che proviene da Dio l'uomo, pellegrino in questa vita terrena, non è in grado di conoscere il proprio fine supremo né i mezzi necessari per raggiungerlo.

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Severino Boezio: prescienza divina e libertà umana Una delle questioni più dibattute nella filosofia medievale è il rapporto tra la prescienza di Dio e la libertà dell'uomo. Se Dio conosce in anticipo tutto ciò che avverrà, il che è necessario perché altrimenti non sarebbe onnisciente, allora conosce anche le scelte e le azioni che gli uomini faranno nel futuro. Di conseguenza, quello che faremo è scritto e programmato. Questa osservazione va contro la dottrina del libero arbitrio e distrugge alla radice la nozione di peccato: non possiamo peccare se non siamo liberi di scegliere e di agire come vorremmo, quindi non ci può essere imputato alcun male. Nella Consolazione della Filosofia, Boezio affronta il problema partendo dalla natura stessa di Dio e spiegando quale sia il tipo di conoscenza che egli ha delle cose. Qual è la natura di Dio? La natura di Dio è l'essere eterno. In cosa consiste l'eternità? L'eternità consiste nel «possesso simultaneo e perfetto della vita senza termine» .,11-33. Le realtà temporali possiedono al massimo una parvenza di eternità: il perdurare del mondo lo fa sembrare eterno, mentre le singole creature nascono e periscono. Si dovrà quindi distinguere la natura di Dio da quella del mondo: eterno il primo, perpetuo il secondo ~133-48. La tesi di Boezio è che Dio non prevede il futuro, ma la sua conoscenza · deriva dall'essere presente a tutte le cose. Dio, come colui che contempla l'universo da una vetta alta e privilegiata, penetra tutte le cose, comprendendole nel suo presente eterno. Come un uomo posto sopra un'altura può vedere simultaneamente quanto accade sotto di lui senza influenzare alcun evento, cosl Dio vede ciò che deve avvenire nel mondo, sia necessa- · riamente sia accidentalmente: necessari sono gli eventi regolati dalle leggi di natura, accidentali quelli che provengono dalla libertà dell'uomo .,149-77. Ma può sorgere la domanda: se Dio conosce in anticipo tutto quello che avverrà, non saranno allora tutti gli eventi necessariamente determinati ad accadere cosl come accadono? Per rispondere a questo interrogativo Boezio considera due tipi diversi di necessità. Il primo riguarda le cose che non potrebbero essere diverse da quelle che sono: ad esempio, che tutti gli uomini siano mortali. Questo tipo di necessità si riferisce alla natura stessa dell'uomo ed è detta «semplice». Un altro tipo di necessità riguarda invece la conoscenza delle cose: è evidente che, una volta conosciute, le cose non possono essere diverse da come sono conosciute. Se, ad esempio, vediamo un uomo che cammina, quell'uomo «deve» camminare. Tuttavia, il fatto che conosciamo lo stato attuale di una cosa non determina affatto quella cosa. t piuttosto lo stato di quella cosa che determina la nostra conoscenza di essa. Boezio chiama questo tipo di necessità «condizionale>> perché varia a seconda delle condizioni in cui le cose si trovano. Ora, gli atti che nascono dalla libera decisione degli uomini sono necessari solo nella seconda accezione del termine, cioè in relazione alla conoscenza che Dio ha di essi. Ma non sono necessari in se stessi perché, benché siano conosciuti da Dio; non perdono nulla della loro assoluta accidentalità . .,1-78-115. In conclusione, la libertà dell'uomo non diminuisce la prescienza divina, che è sempre perfetta e infallibile; al tempo stesso, l'onniscienza divina non determina la natura delle cose condizionandone la libertà .,1116-145.

Dio abbraccia simultaneamente Mti i tempi

Poiché dunque, come poc'anzi si è dimostrato\ tutto quel che si conosce vien conosciuto non in virtù della propria natura, ma di quella di coloro che lo comprendono, vediamo ora, per quel che ci è consentito, quale sia la condizione dell'essenza divina, così da poter anche riconoscere quale sia la sua scienza. È giudizio comune di tutti gli esseri provvisti di ragione che Dio è eterno. Consideriamo dunque che cosa sia l'eternità; questa infatti ci disvelerà nello stesso

1. È la filosofia che espone questo discorso a Boezio.

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.:~. ~:;/-'::'.::,;~--11-14. Il peccato consiste esclusivamente nel consenso dato alle cattive inclinazioni D>l15-18, in quanto tale consenso manifesta in modo più o meno esplicito un disprezzo verso i comandamenti di Dio ~>-118-25. L'azione che scaturisce come conseguenza del consenso a una cattiva inclinazione non aggiunge nulla al peccato, in quanto l'uomo potrebbe anche non compierla, ma resterebbe comunque peccatore per aver consentito alla cattiva inclinazione. D'altra parte è impossibile per l'uomo sradicare dalla propria natura le cattive inclinazioni, per cui la sua responsabilità morale si concentra sulla scelta di seguirle o meno D>l26-49. Con questa teoria Abelardo distrugge il concetto stesso di «azione peccaminosa». L'azione di per sé non aggiunge nulla alla gravità del peccato. Abelardo contesta apertamente coloro che considerano un'aggravante il piacere che si prova nel commettere un'azione peccaminosa, ad esempio in un'unione carnale illegittima, perché lo stesso identico piacere si può provare anche quando l'azione è lecita, come nel caso di due coniugi. Le azioni, questa è la tesi di Abelardo, non sono né buone né cattive in se stesse, ma sono le intenzioni a renderle tali di frotJte a Dio ~>150-83. Solo nel pensiero abbiamo una responsabilità morale, prima ancora di agire, nella nostra predisposizione a mettere in atto la nostra intenzione: infatti, è la coscienza della persona la sede della morale umana.

luizi sono inclinazioni al peccato, non peccati

Peccato è il consenso che diamo alle cattive inclinazioni

I vizi dell'animo ci rendono inclini alle cattive azioni, cioè inclinano la volontà a qualche cosa che non si deve affatto o fare o omettere. Il vizio così inteso non si identifica affatto col peccato, né il peccato si identifica a sua volta con l'azione cattiva. Per esempio, l'essere iracondo; cioè incline o facile a lasciarsi prendere dall'ira, è vizio e inclina là mente a compiere in modo inconsulto e senza controllo della ragione qualche cosa che non deve esser fatto. Ora questo vizio ha la sua sede nell'anima in modo che sia facile ad adirarsi anche quando non viene mossa all'ira; così lo zoppicare, per cui appunto un uomo si dice zoppo, si trova in lui anche quando non cammina zoppicando, poiché il vizio c'è anche quando l'azione non c'è ancora. Del pari la stessa natura o la. complessione fisica rende molti inclini alla lussuria, come all'ira; e tuttavia costoro non peccano per il fatto stesso che sono così come sono, anzi da ciò possono ricavare motivo di lotta, per conquistare attraverso la virtù della temperanza la corona del trionfo su se stessi [.. .l. Il vizio è pertanto ciò per cui siamo resi inclini a peccare, cioè siamo inclinati ad acconsentire a cose illecite, siano azioni oppure omissioni. Ora questo consenso chiamiamo propriamente peccato, cioè la colpa dell'anima per cui essa merita la dannazione o viene a porsi in condizione di rea presso Dio. Che cos'è infatti questo consenso se non il disprezzo di Dio e l'offesa a lui recata? Dio infatti non può essere offeso dal danno, ma dal disprezzo. Dio è appunto quella somma potenza che non può essere sminuita da alcun danno, ma che ven-

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Ilio ouarlla l'animo, 11011 le azioni

L'azione 11011 auoiunoe nullo11é al met•itu né al peccato

Il piacere non è peccato

Il male è nell'anima, 111111 fuori Ili essa

dica il disprezzo che si mostra di lei. Il nostro peccato è pertanto disprezzo del Creatore e peccare è disprezzare il Creatore, cioè non fare per lui ciò che crediamo che per lui noi dovremmo fare, o non tralasciare per lui quello che crediamo che si dovrebbe tralasciare. [... ] Ma, dirai, che merito acquistiamo presso Dio per il fatto che operiamo secondo volontà o nostro malgrado? Nessuno certamente, rispondo, poiché Dio nel dare il premio guarda e pesa l'animo piuttosto che l'azione, e l'azione non aggiunge nulla al merito, sia che proceda da una volontà buona o da una volontà cattiva, come mostreremo pii:1 avanti. Se ci viene comandato di odiare il padre, non di ucciderlo, altrettanto si dica della volontà; non dobbiamo seguirla, ma non siamo tenuti a distruggerla dalle fondamenta. Colui infatti che dice: «Non seguire le tue concupiscenze e volgiti contro la tua volontà, ci comanda di non accondiscendere alle nostre concupiscenze, ma non di esserne privi. La prima cosa è vizio, mentre la seconda è impossibile per la nostra infermità. Non è peccato perciò bramare una donna, ma è peccato dare consenso alla concupiscenza; e non è condannabile la volontà dell'unione carnale, ma il consenso alla volontà. [. . .] Ma dove ci portano questi esempi? A chiarire una volta per tutte che in simili casi non si può chiamare peccato la volontà stessa o il desiderio di fare ciò che non è lecito, ma piuttosto, come si è detto, il consenso alla volontà e al desiderio. Il consenso a una cosa illecita si ha poi quando non ci ritraiamo dal compierla, anzi siamo senz'altro pronti a tradurla in atto, qualora se ne presenti l'occasione. Chiunque pertanto è colto in un proposito del genere, incorre in modo completo nella colpa, mentre il sopraggiunto effetto dell'azione non aggiunge nulla che aumenti il peccato, ma davanti a Dio è già egualmente reo colui che si sforza, per quanto può, di agire secondo quel proposito e che, per quanto sta in lui, lo porta a compimento; proprio come se fosse stato colto, come ricorda Agostino, addirittura nel compiere l'azione. Pur non essendo dunque la volontà peccato, tant'è vero che talora, come abbiamo detto, commettiamo dei peccati involontariamente, pure alcuni dicono che ogni peccato è volontario; essi trovano tuttavia una certa differenza fra peccato e volontà in quanto si elice che la volontà è una cosa e l'azione volontaria è un'altra; ossia una cosa è la volontà e altra cosa è ciò che si commette per mezzo della volontà. [.. .] Alcuni si stupiscono e si adombrano non poco quando ci sentono dire che l'azione peccaminosa non aggiunge nulla alla colpevolezza o alla condanna in cui ci si trova eli fronte a Dio. E oppongono che nell'azione peccaminosa segue un certo diletto che aumenta il peccato, come nel caso dell'unione sessuale o nel caso di mangiare i frutti, come s'è eletto più sopra. Questo che essi dicono non sarebbe assurdo se riuscissero a dimostrarci che quel piacere carnale è peccato, e che perciò non si può mai commettere qualche cosa eli simile senza peccare. Ma se entrano in quest'ordine di idee, allora è chiaro che a nessuno è lecito godere del piacere carnale; quindi non sarebbero immuni da peccato nemmeno i coniugi quando si uniscono, concedendosi appunto il diletto carnale; e non è immune da peccato nemmeno colui che mangia con piacere dei frutti eli sua proprietà. [. .. l Tutte queste considerazioni poi sono state da noi introdotte affinché qualcuno volendo sostenere che ogni diletto carnale è peccato non ci dica che lo stesso peccato è aggravato dall'azione, quando uno traduca il consenso dell'animo nell'atto concreto, così da macchiarsi non solo per il consens_o al male ma an-

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che per la bruttura dell'azione; quasi che ciò che avviene al di fuori, nel corpo, possa contaminare lo spirito. Un'azione qualsiasi pertanto non ha nulla a che vedere con un aumento del peccato; mentre non può in modo alcuno inquinare l'anima, se non ciò che procede dall'anima, vale a dire il consenso, che solo abbiamo detto che è peccato; non la volontà che lo precede o l'azione che lo segue. Infatti sebbene si voglia o si faccia ciò che è illecito, non si deve dire per questo che si pecca, dal momento che spesso azioni simili si compiono senza che ci sia peccato; come anche per contro il consenso può stare senza la volontà e senza l'azione; come in parte abbiamo già dimostrato, volontà senza consenso si riscontra in colui che è indotto a desiderare una donna che ha veduta, o dei frutti altrui, senza lasciarsi tuttavia trascinare all'assenso.

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Pietro Abelardo, Etica, pp. 5-27, 34, 40-42, 50, 53

Pietro lombardo: il libero arbitrio come facoltà razionale Nelle sue Sentenze Pietro Lombardo dà una definizione del libero arbitrio, come facoltà propria dell'essere umano dotato di razionalità, che si distingue in questo dagli altri esseri, orientati piuttosto dai sensi e dall'appetito sensibile. L'uomo è libero di scegliere il bene, assistito dalla Grazia, aderendo così al bene con la volontà ~>-11-3.

Nell'esercizio del libero arbitrio la ragione ha un ruolo determinante, come facoltà di discernere il bene dal male (arbitrio) ~14-7. Esiste poi nell'uomo una volontà che è detta libera in quanto può essere spinta a scegliere o l'uno o l'altro. Infatti, l'uomo possiede sia una inclinazione naturale al bene, anche se è fragile e bisognosa della Grazia divina per trasformarsi in volontà forte ed efficace, sia una inclinazione al male ~17-15. Nel discernimento della ragione così come nell'adesione della volontà al bene ha quindi un ruolo irrinunciabile la Grazia che aiuta a scegliere e a volere il bene.

La ragione discerne il bene e il male

La volontà sceglie

il bene se aiutata dalla Grazia

Il libero arbitrio è la facoltà della ragione e della volontà per cui si sceglie il bene, con l'assistenza della grazia, o il male quando questa vien meno. E si dice libero in quanto alla volontà, che può essere piegata all'uno e all'altro. Ma si dice arbitrio in quanto alla ragione, alla quale appartiene quella facoltà o potere cui è proprio anche il discernere tra il bene ed il male e, talvolta, invero, avendo discrezione del bene e del male, sceglie ciò che è male e talvolta ciò che è bene. Ma ciò che è bene non sceglie senza l'aiuto della grazia, ma il male di per sé sceglie. C'è, infatti, nell'anima razionale una volontà naturale, per cui naturalmente vuole il bene, sia pure con tenuità ed esilità se non c'è l'aiuto della grazia: la quale, intervenendo, l'aiuta e la erige a volere efficacemente il bene. Di per sé, poi, può volere efficacemente il male. Dunque, quel razionale potere dell'animo, per cui può volere il bene o il male, discernendo l'uno e l'altro, è chiamato libero arbitrio, cosa che gli animali bruti non hanno perché sono privi di ragione: questi, tuttavia hanno il senso e l'appetito sensibile. Pietro Lombardo, Sentenze, II, dist. XXIV, 5, p. 620

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Giovanni Duns Scoto: il primato della volontà divina Secondo Giovanni Duns Scoto la ragione umana si dimostra del tutto insufficiente riguardo alla comprensione di Dio come sommo bene e suo fine naturale. Solo la ragione aiutata dall'illuminazione della Grazia può aprirsi alla vita ultraterrena e al rapporto con Dio. Sostenendo questa posizione, Duns Scoto contesta Aristotele e ogni visione che nega la necessità di una conoscenza soprannaturale che orienti la ragione e la volontà verso il suo vero fine. Il filosofo greco, limitandosi agli atti in cui si manifesta la natura umana, dimostra invece l'impotenza della ragione nell'indicare come raggiungere il fine dell'uomo, e i mezzi necessari per perseguirlo ~>11-38. In particolare Scoto presenta tre argomenti. Primo, l'uomo non può conoscere qual è il proprio scopo basandosi solo sulle realtà naturali. Lo stesso Aristotele si limita a indicare come condizione perfetta la contemplazione delle realtà metafisiche, ma non aggiunge altro ~>113-23. Secondo, ammesso che sia possibile conoscere lo scopo dell'uomo, bisogna poi sapere come raggiungerlo e questo l'uomo non lo sa ~>124-26. Terzo, se anche l'uomo lo sapesse, dovrebbe essere sicuro che i mezzi a sua disposizione per raggiungere il suo scopo sono sufficienti, altrimenti nel dubbio vi metterebbe poca convinzione ~>126-31. L'uomo non può comprendere con la sola ragione cosa sia la beatitudine, che è il premio di Dio quale riconoscimento delle azioni umane considerate meritevoli da parte della sua volontà. Duns Scoto mette così l'accento sulla volontà di Dio che determina ciò che è buono per l'uomo e vincolante per la sua scelta. La volontà di Dio è così libera, per Scoto, che un uomo non può mai presumere di sapere quali siano le azioni meritevoli di premio. Se così non fosse, Dio sarebbe vincolato ad una legge, anche se da lui stesso stabilita, il che è impossibile. Inoltre, l'uomo non può neppure sapere se le azioni meritevoli di premio siano sufficienti per attenerlo, perché anche in questo caso è solo Dio che decide ~>132-42. L'intelletto umano resta nei limiti degli oggetti che cadono sotto i sensi e non conosce neppure l'intera e complessa natura dell'uomo se non con l'aiuto di un lume soprannaturale. A maggior ragione gli è impossibile conoscere il fine soprannaturale del suo essere. E anche se lo conoscesse, non potrebbe raggiungerlo se non con mezzi soprannaturali, cioè con il sostegno della Grazia divina ~>143-58.

Aristotele sostiene che l'uomo JIUÌI CIJIIDSCI!I'Il da solo il suo fine uutu•·ale

M11 seguendo

la ragione naturale 11011 è possibile conoscln'e qual è il prDIII'io fine

Si chiede se all'uomo, nella sua condizione terrena, sia necessaria una qualche speciale dottrina di ispirazione soprannaturale, tale cioè che l'intelletto non potrebbe raggiungerla col lume naturale ... A questo proposito filosofi e teologi appaiono in contrasto. I filosofi sostengono la perfezione della natura negando la perfezione soprannaturale; i teologi invece riconoscono l'imperfezione naturale, la necessità della Grazia, la perfezione soprannaturale. Secondo il Filosofo 1 pertanto, l'uomo viatore 2 non avrebbe bisogno di alcuna conoscenza soprannaturale, ma potrebbe attingere tutte le conoscenze che gli sono necessarie attraverso l'azione delle cause naturali. A sostegno di questa posizione si adducono al tempo stesso l'autorità e le ragioni del Filosofo tratte da diversi luoghi... Contro di essa si possono addurre tre argomenti. Primo: A chiunque agisca scientemente è necessaria un'esatta conoscenza del proprio fine ... Ma l'uomo non può conoscere esattamente il proprio fine fondandosi sulle cose naturali; perciò gli è necessaria in proposito qualche cogni-

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1. Aristotele. 2. Pellegrino in questa vita terrena, in cammino verso la beatitudine eterna.

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L'uomo mm conosce neppure i mezzi per

couseguir•e la felicità

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Ammesso che l'uomo IJIISSil COIIIISCel'e

il suo fine ·natm•ale, non conoscerebbe quello snpi'lllllliltlll'ale

Anche cum:edendn che Dio sia il fine naturale,

l'unmn 111111 In raggiunge se non cnn la G1•azia supr•annaturaie

zione soprannaturale ... Il Filosofo, seguendo la ragione naturale, o ripone la perfetta felicità nella conoscenza delle sostanze separate''\ come sembra fare nel I e nel X dell'Etica 4 o, se proprio non sostiene che la suprema perfezione possibile per noi sia quella, non giunge, fondandosi sulla ragione naturale, ad affermarne un'altra, di modo che sulla sola base della ragione naturale, o cadrà in errore circa il fine in particolare, o resterà in dubbio; di qui appunto il dubbio del I dell'Etica: «Se vi ha un dono divino, è ragionevole [ammettere) che sia la felicità», [... ) Secondo: chiunque agisca scientemente per un fine deve sapere come e in quale modo questo fine si conquisti; e deve anche conoscere tutti i mezzi necessari per raggiungerlo e, in terzo luogo, che tali mezzi bastino a conseguirlo. Se ignora come e in qual modo il fine si acquisti, è evidente, non saprà come disporsi a conseguirlo. Se non conosce tutto ciò che si richiede, potrà fallire per l'ignoranza di qualche atto necessario. E se ignora se quei mezzi necessari siano sufficienti, nel dubbio di ignorarne qualcuno, terrà dietro ad essi con scarsa efficacia. Ma il viatore non può conoscere queste tre cose con la ragione naturale. La beatitudine è un premio conferito da Dio per i meriti che Dio riconosce degni, e di conseguenza non tien dietro senz'altro ai nostri atti, ma Dio la concede, in via contingente, ad alcuni atti che accetta come meritevoli rispetto a lui. Questo non risulta conoscibile per via naturale: i filosofi sbagliavano anche qui, ammettendo che tutte le cose direttamente dipendenti da Dio ne dipendano secondo necessità. Almeno due punti sono chiari: la ragione naturale non può conoscere l'atto contingente con cui la volontà divina accetta questi o quei meriti come degni della vita eterna; e neppure può conoscere quando siano sufficienti; tutto ciò dipende infatti dal rapporto tra la volontà divina e le cose rispetto a cui essa si comporta in modo contingente. Si può obiettare: [...) essendo la natura dell'uomo naturalmente conoscibile per l'uomo, in quanto non sproporzionata alla sua capacità conoscitiva, dalla conoscenza di questa natura si potrà ottenere quella del fine che le è proprio ... Ma se è vero che l'uomo può conoscere il suo fine naturale, non si può dire lo stesso del fine soprannaturale ... L'anima nostra, infatti, e la nostra natura, nella nostra condizione presente, noi possiamo conoscerle solo sotto un qualche aspetto generale, con dati ricavati per astrazione dal senso. Sotto questo aspetto generale, all'uomo non appartiene né l'essere ordinato al fine soprannaturale, né l'accogliere la grazia, né l'aver Dio come proprio oggetto perfettissimo ... È ben vero che se una sostanza fosse conosciuta sotto la propria ragione, da essa, così conosciuta, si potrebbe risalire alla sua causa per sé. Ma noi non conosciamo così alcuna sostanza, perciò non possiamo giungere ad alcun fine proprio della sostanza se non attraverso le manifestazioni di essa evidenti in una conoscenza generale e confusa ... Concedo che Dio è il fine naturale dell'uomo, ma non che si possa raggiungerlo naturalmente, bensì soprannaturalmente.

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Giovanni Duns Scoto, Opus oxoniense, Pro!., I, q. l, pp. 350-353

3. Sostanze separate sono per Aristotele quelle non congiÌmte alla materia, ad esempio il Primo motore. 4. Il riferimento è all'Etica Nicomachea di Aristotele.

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RIPENSIAMO INSIEME

La voce del contemporaneo ~

In che senso Etienne Gilson, illustre studioso della filosofia medievale, scrive di una fiera modestia dei maestri medievali? Cosa intende quando parla, appunto, di maestri? È un'espressione generica? Che idea della filosofia traspare nella sua valutazione? Un'impresa collettiva o individuale? Una disciplina su cui istruirsi o un'esperienza totalmente creativa?

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