Prima lezione sul linguaggio
 9788858101834

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Universale Laterza 816

PRIME LEZIONI

VOLUMI PUBBLICATI

Sociolinguistica

Medicina

di Gaetano Berruto

di Giorgio Cosmacini

Archeologia orientale di Paolo Matthiae

Grammatica di Luca Serianni

Storia delle relazioni internazionali di Ennio Di Nolfo

Letteratura di Piero Boitani

Storia contemporanea

Letteratura italiana di Giulio Ferroni

Sociologia del diritto di Vincenzo Ferrari

Metodo storico a cura di Sergio Luzzatto

Psicologia della comunicazione di Luigi Anolli

Relazioni internazionali

di Claudio Pavone

di Luigi Bonanate

Sociologia

Filosofia morale

di Arnaldo Bagnasco

Fisica di Carlo Bernardini

Scienza politica di Gianfranco Pasquino

Storia moderna di Giuseppe Galasso

di Eugenio Lecaldano

Sulla televisione di Aldo Grasso

Psicologia dell’educazione di Felice Carugati

Filosofia di Roberto Casati

Tullio De Mauro

Prima lezione sul linguaggio

Editori Laterza

© 2002, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2002 Terza edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-6671-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Per Silvana ...addò tutte ’e pparole, / so’ ddoce so’ ammare, / so’ ssempe parole d’ammore

Premessa

Quando la redazione della casa editrice ideò la serie delle «prime lezioni», promisi a Vito Laterza di tentare di scriverne una. Ma prima dovevo portare a termine un lavoro lessicografico di qualche impegno e mole. Terminatolo, avevo ricominciato a pensare alla «prima lezione» quando impegni pubblici mi hanno distolto da ciò per oltre un anno. Appena ho potuto, mi sono rimesso al lavoro soprattutto per onorare l’impegno preso con Vito, per me (e non per me solo) sempre presente. Il testo cerca di essere il meno specialistico possibile. L’intenzione è quella di parlare non tanto di linguistica, quanto di linguaggio, lingue e parole, e, anche, persone. Di parlarne a chi ha interesse al linguaggio, ma non necessariamente ha già acquisite conoscenze specialistiche di linguistica. Naturalmente ho parlato anche di linguisti e filosofi, ma, spero, senza tecnicismi e ho cercato in particolare di ascoltare e far riecheggiare la voce di alcuni grandi maestri che il cannibalismo e consumismo accademici cercano di farci dimenticare. La speranza è che a qualcuno venga voglia di prendere in mano, poi, qualche libro di linguistica, vecchio e nuo-

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Premessa

vo: di libri classici di primo accesso si parla qualche volta nel testo, ma soprattutto qualche traccia bibliografica di primo e più facile accesso sta nelle note, destinate a chi volesse fare qualche passo oltre ciò che si racconta nel testo. Tra testo e note si parla più volte di antichi testi greci e latini, più di quanto sia accettabile da una corporazione che ha sognato e sogna di essere nata bell’e pronta nel 1815, oppure nel 1916 o nel 1956 o nel 1970. Naturalmente non è così. Ritorni ad acquisizioni antiche sono resi necessari da ragioni che spiegava bene, con una punta di ironia («avevano meno bibliografia, e idee più chiare»), il mio vecchio professore, Pagliaro, e che è tornato più dottamente a spiegare il mio buon amico (e, come lui dice, «protodidascalo») Raffaele Simone. Ma c’è un’altra ragione che, da ragazzo, trovai esposta nel libro di un brillante studioso nordamericano, Willy Durand: quando cerchiamo di arrivare a discutere delle questioni fondamentali, prima o poi ci ritroviamo seduti intorno al letticciuolo di Socrate, nella prigione di Atene. È stato già detto da altri, da ben altri, quanto è difficile, anzi, forse, teoricamente non possibile parlare in modo completo del linguaggio e quindi, se ci si prova, è possibile solo offrire, di quel che si sa e se ne pensa, alcuni Landschaftskizzen, schizzi paesaggistici. Poiché ogni scarrafone è bbello a mamma soja, come si dice nell’eletto linguaggio della antica capitale del Regno, ho pensato che potesse forse ammettere di esser destinataria di questi approssimativi acquerelli la persona che ha accettato perfino di essermi sposa e compagna. Almeno lei, forse, non li disdegnerà del tutto. Lei, per altro, ha un titolo, una minuscola primazia formale che nessuno può toglierle. Nella notte dei tempi l’insegnamento di

Premessa

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Linguistica generale, per vari e in parte bizzarri motivi, era massimamente osteggiato nelle facoltà umanistiche italiane. Finalmente Marcello Durante convinse la facoltà di Magistero di Palermo a istituirlo. Si fece nel 1967 un primo concorso (ne uscimmo vincenti Luigi Rosiello, Giulio Lepschy e io) e fui chiamato sulla cattedra palermitana, la prima e, allora e per qualche anno, l’unica. Nel giugno del 1968 si presentò a sostenere l’esame, il primo della materia nel nostro paese!, la studentessa Silvana Ferreri. Se anche la vita non ci avesse portato, multa per aequora, fianco a fianco, a lei sarebbe stato comunque giusto che dedicasse questa chiacchierata il suo vecchio professore. Tullio De Mauro Roma, 27 gennaio 2002

Prima lezione sul linguaggio

I.

Le parole tra memoria e progetto

Le parole, le frasi, la lingua abitualmente parlata hanno radici profonde nella nostra vita psicologica e nella nostra costituzione fisica. Per chi è interessato a capire come funziona il linguaggio umano questa è la prima cosa di cui vale la pena rendersi conto. Osserviamola più da vicino. Le parole circondano il presente, ogni istante del nostro presente. Ci accompagnano quando parliamo con altri o leggiamo e scriviamo, ma anche nel silenzio e perfino nei sogni. E dal presente più immediato si distendono verso il passato e si protendono verso il futuro, coinvolgendo anche pensieri, volontà e coscienze umane. Dalla prima infanzia le parole impegnano la capacità di memoria degli esseri umani e attraverso essa legano il presente al passato. Il passato cui abbiamo accennato è anzitutto quello a termine brevissimo, fatto in genere di pochi secondi, sei o sette secondo gli psicologi. È un passato che nella percezione comune, irriflessa, ci appare fuso e confuso con l’immediato presente, ma che in realtà presente non è o già non è più. Osserviamo: mentre diciamo o scri-

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Prima lezione sul linguaggio

viamo le parole di una frase dobbiamo tenerle a mente per seguitare a dire e scrivere parole coerenti con quelle appena usate e con il progetto di frase che, in genere, abbiamo in mente. La nostra voce o la mano con cui scriviamo o digitiamo è guidata dal progetto di frase e dalla memoria a breve che ne abbiamo. Anche mentre ascoltiamo o leggiamo dobbiamo fare qualcosa di analogo, dobbiamo a ogni momento che passa ricordarci quello che abbiamo appena udito o letto per ricostruire infine, dopo qualche secondo, l’intera frase che qualcuno ha realizzato per noi. Molto prima degli psicologi e dei neurologi che da poco più d’un secolo studiano la memoria, molto prima dei non molti linguisti che si occupano della relazione tra parole e memoria, di ciò, di questo stretto rapporto tra la parola e il passato più brevemente trascorso, si avvide assai bene già sant’Agostino (354-430 d.C.). Anche per questa sua attenzione egli è restato per secoli il più acuto esploratore introspettivo della memoria. Oggi disponiamo in proposito di ricerche sperimentali e di nozioni teoriche più sofisticate. Ma il modo in cui Agostino descrive la memoria a breve termine e in particolare la memoria linguistica è ricco di formulazioni che ci appaiono ancora nitide e adeguate (De musica, VI 8, 21, De Genesi ad litteram XII 16, 33, Confessiones XI 27, 34-28, 38). Il tener fermo nella memoria a breve termine ciò che si viene esperendo è una precondizione necessaria per fissare il profilo della frase che una voce o un testo vengono realizzando e questo ci è indispensabile per connettere fine e inizio e quindi per capire ciò che ascoltiamo o leggiamo. Inoltre nelle Confessioni Agostino nota con acutezza che tale precondizione è necessaria anche per tenere fermo in mente il progetto

I. Le parole tra memoria e progetto

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di esecuzione di una frase, di un canto. Eseguiamo nel tempo la realizzazione di una frase. Senza tenere a mente il progetto della frase mentre la diciamo o scriviamo, non sapremmo realizzare la frase. Senza la memoria a breve termine non sapremmo produrre la sequenza di parole di una frase intera. Quella che gli psicologi chiamano ‘memoria a breve’ deve essere continuamente al lavoro per consentirci di programmare di dire e per effettivamente dire cose che abbiano una direzione, un senso, e per intendere direzione e senso delle parole altrui. Dunque da un lato il nostro passato più immediatamente prossimo pesa sul nostro istantaneo parlare e sul comprendere parole di altri. E, d’altro lato, nel parlare e nell’intendere, le parole ci obbligano a riconnetterci a quegli istanti appena trascorsi. Le parole, insomma, ci obbligano a tenere continuamente attivo un ponte che, attraverso la memoria a breve termine, collega il presente e il passato appena trascorso. Possiamo tutti osservare e sappiamo oggi anche sperimentalmente che dopo alcuni secondi la memoria a breve termine tende in generale a svanire dalla nostra consapevolezza. Essa è sostituita, anzi è incalzata da altre memorie a breve che si succedono. Ma non tutto si perde nelle distese del passato. Dalla memoria a breve, molte esperienze e in particolare l’esperienza che abbiamo delle parole passano in buona parte nella memoria a lungo termine e in essa si depositano. È forse suggestivo credere che parole molto lette o dette o ascoltate si consumino, come sassi che rotolano troppo per troppi secoli e millenni. Ma questo può valere e vale per parole relativamente rare messe alla moda da qualche snobismo intellettuale o da trovate pubblicitarie. Del resto, il fastidio per parole alla moda troppo dette non

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Prima lezione sul linguaggio

va confuso con la dimenticanza. In generale, invece, le parole che più abbiamo bisogno di dire o capire e che più spesso, quindi, sentiamo, leggiamo o diciamo, quelle parole attraverso i mille e mille loro passaggi nella memoria a breve termine rifluiscono poi nello spazio della memoria a lungo termine. Qui, come sappiamo anche sperimentalmente, parole che già vi erano rafforzano e precisano la loro fisionomia ogni volta che le replichiamo o ne udiamo una replica. E spesso anche le parole nuove che udiamo o leggiamo per la prima volta e che capiamo o cerchiamo di capire vanno a depositarsi accanto alle parole già memorizzate. E lo stesso vale per le parole che, pur raramente, eccezionalmente, possa accadere di foggiare per la prima volta. Abbiamo detto spesso, e non abbiamo detto sempre: la memoria a lungo termine ha dei limiti e lascia da parte parole che ci cadano sotto gli occhi solo qualche volta senza suscitare interesse. Come sappiamo dagli studi di lessicologia1, nei testi e discorsi prodotti nella lingua di un popolo di lunga tradizione e di complessa articolazione produttiva, sociale e culturale, esistono centinaia di migliaia di parole, anzi, se mettiamo nel conto anche le terminologie di scienze come la chimica, la zoologia, la botanica, nei testi scritti e nei discorsi pronunciati in una lingua appaiono milioni di parole diverse. I dizionari generali, anche i più estesi, ne registrano soltanto alcune centinaia di migliaia. Si tratta in grandissima parte di parole note solo a ristretti gruppi di persone specializzate in una particolare attività di lavoro o di studio. Del mare di parole apparse nei testi di una lingua una persona linguisticamente molto colta e di buona memoria serba in mente solo alcune decine di migliaia di parole che, all’occorrenza, sa riconoscere e

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capire e sa usare sensatamente, estraendole appunto dalla sua memoria a lungo termine. Lo spazio della memoria a lungo termine è per un certo aspetto uno spazio privato, personale, nel senso che non può avere e non ha un contenuto identico per ogni essere umano. E quindi per questo aspetto la precisa configurazione del patrimonio di parole memorizzate è privata, personale. Solo i pochi componenti di un nucleo familiare conoscono le parole di quel «lessico famigliare» che, in un caso esemplare, fu illuminato dalla memoria poetica di una grande scrittrice, Natalia Ginzburg. Nelle società e nei paesi in cui l’istituto familiare ha un peso ogni famiglia ha tracce di dialetti di remota origine (le venete negrigure del padre della Ginzburg) o di scherzi e deformazioni infantili, di qualche familiare quando era infante o quasi: parole che si ha pudore di esportare fuori della cerchia più ristretta, più riservata. Ma con maggiore ampiezza sociale e rilevanza intellettuale lo stesso accade per altri gruppi che si formano entro una comunità linguistica. Solo un avvocato o una giudice conosce e sa usare parole come institore o soccombenza e capisce o usa alcune altre migliaia di parole che invece, per esempio, una mineralogista ignora, ma capisce che vuol dire cubaite. Giuristi e mineralogisti ignorano parole come lochiazione, note invece a un ostetrico, o come solenoidale, chiara a una professoressa di matematica, o come cucchiaino, ovvia per un muratore, che a sua volta ignora le parole di quelli e tutti rischiano imbarazzo dinanzi a stagflazione e altre parole degli studiosi e teorici dell’economia. Ci sono poi i gruppi regionali. Un italiano di famiglia siciliana conosce e può usare la parola scarrozzo, i friulani si salutano con un allegro mandi!, mal comprensibile ad altri ita-

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liani. Il gruppo di quelli che conoscono una lingua straniera si riconosce allo stesso modo: un italiano che conosca il tedesco capisce e magari usa parole come gemütlich o gespannt, ignote in Italia ai più. Insomma, le parole che una persona conosce sono in gran parte condivise da lui solo con una cerchia relativamente ristretta, talora poco più che familiare. E tuttavia tra le parole memorizzate dalle persone componenti di una stessa comunità c’è certamente un nucleo comune di alcune migliaia di parole, di cui ci serviamo ogni giorno per farci capire da persone lontane dal nostro gruppo professionale, regionale, sociale e per capire a nostra volta queste persone. Tutte queste parole, le comuni e le altre differenti a seconda dei gruppi sociali e delle esperienze personali e di studio, mettono in rapporto a ogni istante ogni essere umano, nel suo sempre fugace presente, con il passato personale e non solo personale. Sia le parole più largamente comuni sia quelle che condividiamo con gruppi più ristretti le serbiamo nella memoria personale, ma non appartengono solo a noi. Quasi ogni parola che possiamo ricordare, forse tutte, e certo tutte le più importanti e usuali sono parole che abbiamo udito dai nostri cari, dalle persone con cui siamo venuti in contatto, da ciò che abbiamo udito con qualche attenzione, da ciò che abbiamo letto. Una volta un gentile poeta italiano, che era un valoroso giurista, ha scritto: Ho imparato da te tante parole. / Ogni parola / un compagno. Ogni parola / il volto d’una persona amica. E un altro poeta, più grande (se graduatorie sono da fare nella poesia) e più noto, Eugenio Montale, ha scritto: Le parole / sono di tutti e invano / si celano nei dizionari. Se la configurazione del patri-

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monio di parole che conosciamo è personale, gli elementi della configurazione ci vengono di lontano: da punti e persone distanti nella realtà sociale e geografica e, soprattutto, da epoche lontane nel tempo, come è stato acquisito con sicurezza dagli studi di linguistica storica e comparativa2. Anche se non sappiamo di storia, anche se non ne leggiamo e sentiamo raccontare o ne raccontiamo, ogni parola che usiamo per capire o farci capire ci viene dal passato e ci lega al passato e non solo al nostro passato personale, ma a quello del gruppo familiare e dei gruppi umani e, più oltre, del popolo cui apparteniamo e dei popoli noti o dimenticati che usarono parole e lingue da cui, trasformandosi in parte nel tempo, sono nate le nostre. Ogni parola ci lega alla storia. Ma parole e memoria hanno anche un altro rapporto, non meno profondo. Finora abbiamo presentato la memoria come un deposito, con le sue scaffalature robuste capaci di ospitare migliaia e, nei casi individuali migliori, decine di migliaia di parole diverse. È un po’ l’immagine che se ne faceva il popolano di un bel sonetto di Gioachino Belli: un magazzino de dogana. Ma oggi sappiamo che le parole non sono merci scollegate e inerti in un magazzino che entro ampi limiti resta a sua volta inerte al loro depositarvisi. Il magazzino è il nostro cervello, che è un insieme sempre in movimento, un insieme dinamico di miliardi di cellule nervose, i neuroni, ciascuna legata ad altre in miliardi e miliardi di diversi circuiti. La neurolinguistica da qualche anno sta cercando di esplorare in che modo una parola che entra nel magazzino si connette ad altre e alle memorie di altre nostre esperienze. Le frontiere della ricerca avanzano rapidamente, ma, con quel che già sanno, linguistica,

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psicologia e psicoanalisi ci dicono che ciascuna parola non vive in solitudine3. Non solo si connette ad altre parole, affini per la forma o per il senso o per prossimità nell’uso abituale, ma si connette in modo profondo alle esperienze con cui il suo uso ha avuto a che fare. La connessione è qualcosa di più di una semplice giustapposizione. È una connessione profonda, vitale. Anzitutto con la sua presenza la parola rafforza memorie cui sia connessa. Per esempio, più aggettivi e nomi di colori conosciamo, e cioè più e meglio articoliamo il campo semantico del colore, meglio distinguiamo i diversi colori e però, d’altra parte, meglio e più lavoriamo e viviamo distinguendo i colori, come fanno i pittori, i restauratori o i tessili o le molte donne più dei maschi attente all’abbigliamento e all’arredamento, e meglio impariamo a capire nomi e aggettivi di colori. Altro esempio noto è il campo semantico della neve. Chi vive sempre in città vede e nomina, se gli capita, la neve, ma già il provetto arrampicatore su ghiaccio o lo sciatore nomina perché vede e sa riconoscere nevi diverse. E, dove gli europei vedono e nominano solo la neve, gli inuit, gli eschimesi, vedono e nominano decine di nevi diverse. Il campo semantico è articolatissimo in funzione di loro esigenze vitali. Ma, senza costringerci ad andare fino al Circolo Polare, una valorosa studiosa francese, Henriette Walter (n. 1929), in un suo libro tanto piacevole quanto istruttivo, L’avventura delle lingue in Occidente, ha richiamato l’attenzione sul banale (per gli italiani) campo semantico della pastasciutta. Possiamo constatare che dove il non italiano vede o chiede un piatto di pasta, un italiano distingue, nomina e di volta in volta cucina o pretende in modo sottilmente differenziato spaghetti, vermicelli, fusilli, spaghettini, bucati-

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ni, capellini, maccheroncini, zita, penne e mezze penne, tagliatelle, tagliolini, pappardelle, maltagliati... a non parlare di ravioli, ravioloni, raviolini, tortelli, tortellini, tortelloni, cappelletti, cappellacci e altre decine di parole delicatamente interrelate nella pratica semantico-culinaria degli italiani. È un problema controverso capire fino a che punto la percezione sensoriale stessa sia determinata dalla presenza o assenza della memoria e conoscenza di certe parole. Certo, dalla presenza o assenza è orientata la consapevolezza articolata di ciò che esperiamo e, con la consapevolezza, è orientata la memoria. Il gioco mutuo tra esperienze, memoria e parole fa sì che, come la madeleine, il pasticcino in A la recherche du temps perdu di Marcel Proust, ciascuna parola può fungere da capo della matassa in cui si avvolgono i ricordi delle nostre esperienze. Essa è spesso il filo rosso che collega ricordi disparati e li dipana. E infine è anche certo che molte parole stanno nella memoria raccolte non solo in associazioni e campi semantici, ma contigue con altre in sequenze più o meno ampie: proverbi ed espressioni proverbiali, filastrocche, indovinelli, battute e barzellette, motti, titoli di opere, frasi celebri, preghiere, operazioni e formule matematiche e teoremi, poesie, romanze, canzoni. A ciascun pezzo di questo materiale composito diamo il nome di ‘mema’ (in inglese meme). I memi sono le unità funzionali della nostra memoria. Anch’essi sono una proprietà privata e, insieme, condivisa e pubblica. Più ancora di singole parole, i memi creano un collegamento sia con la nostra famiglia, con gli amici più stretti, col gruppo sociale cui apparteniamo sia con l’insieme di gruppi che costituiscono un popolo e una nazione.

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Così le parole rioperano sulla memoria e costituiscono un elemento forte della nostra identità personale, familiare, sociale, culturale, nazionale. Si capisce perciò che molti popoli, anche quando hanno appreso e usato altre lingue, hanno però conservato gelosamente la propria nativa e tradizionale. Giapponesi e coreani appresero nei secoli e usano ancora il cinese mandarino e i suoi ideogrammi, ma non hanno abbandonato le loro lingue native, che anzi mantengono ben vive. Nell’Europa medievale le classi appena istruite conservarono o appresero tutte il latino, ma all’ombra di questo rinsaldarono le loro parlate vulgares, popolari (theotisca lingua, tedesco, questo voleva dire: lingua del vulgus, del popolo), che così fiorirono e si affermarono. In Africa le grandi lingue dette «di civilizzazione», e cioè l’arabo e le lingue europee coloniali (francese, inglese, portoghese, spagnolo), e le lingue locali transglottiche4, come il suahili, non hanno cancellato le circa duemila lingue locali. Del resto non c’è da andare lontano nel tempo e nello spazio: in Italia, durante l’età della Repubblica, dopo il 1946, i cittadini hanno imparato (quasi) tutti l’italiano, ma molti (sei su dieci) conservano memoria e uso di uno dei tanti dialetti. In una lingua, nei suoi suoni, nelle sue parole con i loro sfumati significati è depositata la memoria profonda e l’identità di un popolo. Proprio perché così corradicate col passato a breve e a lungo termine sia nostro sia altrui le parole possono avere a che fare col nostro presente più immediato. Ci permettono di interagire con gli altri, di capire gli altri e di farci capire. Ci permettono di riflettere interiormente su ciò che abbiamo vissuto o stiamo vivendo e di confrontarci con altri e capire meglio noi stessi. Ci permettono di elaborare emozioni, idee, paure, fantasie,

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sogni, ragionamenti, speranze e, soprattutto e di continuo, più o meno attendibili programmi e progetti per le nostre azioni e intraprese future. Lo abbiamo appena evocato: paure, speranze, progetti. Le parole non ci legano solo al passato, non ci sono preziose solo nel presente. Anche ci aprono porte verso il futuro. Il futuro più immediato impegna la memoria a breve termine per consentirci di finire la frase che abbiamo cominciato o per capire, come spesso è necessario, dove e come vanno a finire le frasi altrui. Ma anche il futuro più lontano entra in gioco attraverso le parole e la memoria a lungo termine. Nelle e con le parole di cui disponiamo prendono corpo istruzioni per azioni successive, ordini, progetti, programmi, prescrizioni. Passato prossimo e remoto, presente, futuro più immediato e più lontano, l’intera vita di un essere umano è coinvolta nelle e dalle parole. Esse nascono dalle esperienze reali e possibili, dal convergere delle capacità di emozione, azione, intelligenza di cui ogni essere umano è dotato e rioperano potentemente su queste capacità, le consolidano, le strutturano, le rendono comunicabili e comuni. Ce lo ricorda non un umanista, ma un grande fisico teorico, Albert Einstein (1879-1955). «La maggior parte di quanto sappiamo e crediamo ci è stata insegnata da altri per mezzo di una lingua che altri hanno creato. Senza la lingua la nostra capacità di pensare sarebbe assai meschina e paragonabile a quella di altri animali superiori»: comincia così Come io vedo il mondo. Chi ha una formazione umanistica o è comunque estraneo agli studi sulla fisiologia della memoria potrebbe forse essere indotto in inganno dalla sottolineatura che abbiamo fatto delle valenze psicologiche, in-

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tellettuali e storiche che, attraverso la memoria, dobbiamo riconoscere alle parole. Quelle indubbie valenze esistono perché le parole e frasi si radicano anzitutto nella nostra fisicità, nel nostro essere corporeo. Ciò vale con tutta evidenza per la voce, in cui prendono corpo i ‘significanti’, il versante esterno di parole e frasi. Come ha scritto un grande fonetista britannico, David Abercrombie (Elements of General Phonetics, Edinburgh University Press, Edinburgh 1967, p. 1), «parliamo con tutto il corpo». Le emissioni di aria dai polmoni e le vibrazioni della glottide si fanno diverse perché le lavoriamo e conformiamo col diverso atteggiarsi della cavità orale, ma la voce che così ne nasce sarebbe quasi impercettibile se non venisse amplificata dalle sue risonanze nella cassa del torace (di qui ci arrivano le onde acustiche che udiamo); e sarebbe assai poco variata senza la guida del cervello. Un grande fonetista, Paul Passy (1859-1940), osservava nella sua insuperata Petite phonètique des principales langues européennes, che l’apparato vocale umano non si deve paragonare a uno strumento, ma a un complesso di strumenti, a fiato, a corda, a arco, a percussione... Non funzionerebbe senza un direttore d’orchestra. La capacità di usare il cervello è decisiva per articolare la voce, per coordinare i delicati gesti della bocca e degli organi della voce al fine di ottenere le sottili differenziazioni che ci permettono di distinguere diverse famiglie di suoni e di toni. E il cervello ha una funzione altrettanto importante nel (come si dice giustamente) tendere l’udito e tra i rumori selezionare il suono della voce che vogliamo udire e, in questa, per cogliere il variare di ritmi e toni e il succedersi di suoni significativi e per integrare quel che percepiamo con la forma delle parole che conosciamo.

I. Le parole tra memoria e progetto

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E anche nell’apprendere e nell’usare gli equivalenti della voce, il relativamente raro sign language, il linguaggio gestuale delle comunità di sordomuti (di cui parleremo più oltre, p. 108, n. 1) e il più comune leggere e scrivere c’è un impegno per tutto il nostro corpo: muscoli, vista, arti, cervello. Evidente nell’esercizio produttivo e percettivo dei linguaggi segnati dei sordomuti, esso è presente anche nello scrivere e nel leggere. Agli intellettuali per i quali leggere, scrivere, apprendere appaiono attività facili, perché diventate per loro abituali, una grande e tragica personalità del Novecento, Antonio Gramsci (1891-1937), ricordava, dal chiuso delle carceri fasciste, che c’è fatica, fatica muscolare come egli specificava, nel sapere stare ad ascoltare, nello star seduti a leggere, a scrivere, a studiare parole. Del resto oggi sappiamo che senza l’apporto chimico e fisico di tutto il corpo non si fissano tracce in quella memoria a lungo termine, essa stessa fisicamente costituita in rapporto con l’intero corpo, di cui abbiamo già sottolineato l’importanza per la vita delle parole e delle lingue. E ciò vale non solo per le voci e i significanti: non ricorderemmo quelle voci senza attribuire a esse un senso, il senso che abbiamo esperito con tutto il nostro essere. Chi immagina che le parole abbiano un versante tutto fisicità, quello della vocalità che produciamo e udiamo, e un versante di puro spirito, quello dei significati e sensi studiati dalla semantica e dalla grammatica, appare fuori strada: è di nuovo con tutto il nostro corpo che viviamo l’esperienza di dare un senso alle voci e, poi, di serbare a lungo nella memoria voci collegate a sensi e sensi a voci, cioè parole. Aveva profondamente ragione il «favoloso Gianni», lo scrittore italiano Gianni Rodari, che rivaleggia con Dante, Machiavelli e Umberto Eco per numero di

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traduzioni nel mondo. Mentre faceva ai bambini di Reggio Emilia le «lezioni» poi diventate La grammatica della fantasia, quando i bambini, sollecitati da lui per inventare storie partendo da un dettaglio o da una parola, tacevano e dicevano di non ricordare né parole né memorie, Rodari, sorridendo, diceva: «Ma la tua punta del naso, ma il tuo mignolo, ma la tua gamba destra, possibile che non si ricordi niente? E il tuo gomito? Non ha una parola che si ricorda solo lui?». Bambine e bambini ridevano e parole e ricordi riaffioravano venendo dalla punta del naso, dal mignolo, dal gomito. Non solo la voce, ma tutto il nostro parlare e capire e sapere una lingua affonda le sue radici in tutto il nostro corpo. E tuttavia è anche vero che le parole trascendono il piano della pura fisicità. Studiare le onde acustiche o le variazioni cromatiche prodotte dalla voce o dalla grafia quando si realizza una parola con la voce o con la scrittura e osservare il comportamento fisico di chi la dice o la riceve insegnano cose importanti e, in ultima analisi, ci ammoniscono a ricordare sempre che privati di radici nella fisicità significati e significanti di parole e frasi non sussisterebbero; ma non dicono da quali luoghi e tempi una parola è venuta fino a noi, in che modo essa sta collocata nella memoria e mente, quali limiti la sua forma e le usanze impongono al suo uso e, quando la adoperiamo, in che rapporto sta con altre parole non dette. Si potrebbe continuare: il fatto è che una parola, radicata certamente in fenomeni fisici e fisiologici, appare fatta in modo da non ridursi a essi. Torniamo a ricordarlo: una parola vive oltre la fisicità individuale durando attraverso innumeri generazioni nel tempo. Vive oltre essa valicando, di persona in persona, lo spazio materiale e sociale in cui fisicamente ci collochiamo co-

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me singoli. E, soprattutto, le motivazioni per cui decidiamo di dirla e gli effetti che suscita quando la udiamo non si lasciano ridurre a cause o effetti di natura fisica. Questo evanescente oggetto materiale che è la parola ha i caratteri della banalità quotidiana più trita, ovvia, immediata, e insieme ci sorprende perché reca in sé qualcosa di straordinario, una potenza o, come fu detto da un grande pensatore e linguista tedesco, Wilhelm von Humboldt (1767-1835), ha una enérgeia che trascende ogni banalità e quotidianità. Questo radicamento fisico, fisiologico, delle parole e, insieme, questo loro evidente potere di trascendimento hanno fatto sì che nella storia delle riflessioni sul linguaggio a più riprese studiosi e pensatori rigorosi, lontani da ogni misticismo (basterà evocare qui nomi che più volte incontreremo, Saussure, Croce, Chomsky), hanno detto che un’ombra di mistero pare circondare il nostro parlare e il nostro intenderci con parole. Ci inoltreremo nel mondo delle parole cercando di ricordarcene, ma anche cercando di diradare le ombre fin dove sarà possibile. E così capiremo meglio quanta ragione aveva quel grande poeta popolare italiano, Ignazio Buttitta, quando nel suo siciliano scriveva: Un populu / diventa poviru e servu / quannu ci arrobbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri. / Diventa poviru e servu, / quanno i paroli non figghianu paroli / e si manciano tra d’iddi. / Mi nn’addugnu ora, / mentri accordu a chitarra du dialettu / ca perdi na corda lu jornu, «Un popolo diventa povero e servo quando gli rubano la lingua avuta in dote dai padri: è perduto per sempre. Diventa povero e servo quando le parole non figliano parole e si mangiano tra loro. Me ne accorgo ora, mentre accordo la chitarra del dialetto che perde una corda al giorno».

II.

In che modi le parole ci sono presenti

Ci sono esseri viventi anche molto simili agli umani che non dispongono della capacità di usare parole e frasi. Comunicano, anche in modi complessi, ma non posseggono un linguaggio simile all’umano. Ad alcuni di questi altri animali, per esempio agli scimpanzé, specie alla femmine, è stato ed è possibile insegnare, domesticandoli, alcuni elementi di una lingua. Ciò è interessante per più aspetti, e su alcuni avremo occasione di soffermarci, ma resta il fatto che in natura, allo stato libero, soltanto gli esseri umani sviluppano la capacità di usare le parole. In questo senso dobbiamo dare ragione a uno studioso nordamericano, Philip Lieberman. Lieberman, dopo essersi occupato a lungo di ricostruire i primi ipotetici passi che possono avere segnato il passaggio da altre forme di comunicazione dei primati e di altri rami dell’Homo al linguaggio per parole e frasi dell’Homo sapiens, anni fa, nel 1991, ha dato a un suo libro di sintesi un titolo già in sé significativo: Uniquely Human (Unicamente umano). La capacità di usare le parole non opera in modo costante nella vita umana. Ci sono esperienze che compiamo, anche di qualche complessità, senza rivestirle di pa-

II. In che modi le parole ci sono presenti

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role. Ed esse non appartengono solo a sfere di esperienza che potremmo dire o diciamo animale o, con una punta di disprezzo, animalesca. Creare o anche solo sapere apprezzare immagini o musiche, risolvere parecchi problemi costruttivi o operativi anche complessi e risolverli razionalmente, scegliendo e adeguando i mezzi ai fini da ottenere, sono esempi di forme di esperienza e attività la cui realizzazione non avviene necessariamente ricorrendo a parole. Le parole non sono tutto e non sono necessariamente presenti in tutto il nostro vivere. Tuttavia si può anche supporre che, pur non direttamente operanti nella creazione di una musica o di un’architettura o nella risoluzione immediata di un qualunque problema operativo, le parole, anche se non in evidenza, siano però l’humus nascosto, il presupposto non evidente e tuttavia indirettamente operante delle realizzazioni e forme di esperienza di cui si accennava. Anche realizzate senza una concomitante presenza di parole, molte di queste esperienze, come l’ideazione di un quadro o di un tema musicale, presuppongono anteriori acquisizioni ed elaborazioni mediate dal possesso e dall’uso di parole. In altri termini, ci si può chiedere se esseri del tutto privi di parole sarebbero capaci di tali realizzazioni. È una domanda a cui l’etologia, lo studio di altre specie animali, di loro comportamenti e capacità, dà oggi risposte non univoche e non banali. Nell’insieme queste risposte allo stato attuale ci permettono di affermare che capacità relativamente complesse di ragionamento e anche capacità innovative e in questo senso creative non sono limitate alla sola specie umana. Già parecchi anni fa, nel 1974, lo spiegò bene un etologo italiano, Dànilo Mainardi (n. 1933), in un suo libro dal titolo allora provocatorio: L’animale culturale. Dun-

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que, altri animali, che, diversamente dagli umani, non usano parole e lingue, sono tuttavia capaci di innovare le loro forme di vita, di sviluppare, varcando i limiti dell’eredità biologica, proprie forme di cultura che si trasmettono attraverso le generazioni non per via genetica, ma, senza intervento di parole, attraverso imitazione e comunicazione. Se qui sottolineiamo i limiti della presenza delle parole nella vita umana ciò non intende servire a togliere valore al linguaggio. Al contrario, vuole aiutarci a dire e a capire meglio in che modo si determina l’importanza delle parole e del loro uso. Solo rinunziando a dire enfaticamente ed erroneamente che le parole sono tutto, che tutto il razionale è verbale, possiamo sperare di meglio capire che le parole sono molto e cercare di determinare in che consiste questo molto. Precisiamo una constatazione abbastanza ovvia già fatta: le parole possono accompagnarci e di fatto ci accompagnano in ogni sorta di momenti della nostra vita. Del resto, anche le esperienze creative e operative non verbali cui abbiamo accennato poc’anzi possono (non devono) includere e spesso includono una più o meno vasta elaborazione progettuale in parole, le parole ne accompagnano la realizzazione e tornano a poterci servire per confrontarle e capirle. Ma soprattutto, in innumeri altri casi e tipi di esperienza, le parole sorgono come senza sforzo dal fondo della nostra memoria o di là le richiamiamo e direttamente ci aiutano a tanti fini diversi. A enumerare tali fini, o meglio a mettere in crisi l’idea che sia possibile una loro enumerazione esaustiva e definitiva, è dedicato un particolare passaggio delle Philosophische Untersuchungen, Philosophical Investigations, Ricerche filosofiche, l’opera capitale del grande

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filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein (18891951) apparsa postuma nel 1953: Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda, ordine?- Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica.) Qui la parola «giuoco linguistico» è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, una forma di vita. Considera la molteplicità dei giuochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: Comandare, e agire secondo il comandoDescrivere un oggetto in base al suo aspetto o alle sue dimensioniCostruire un oggetto in base a una descrizione (disegno)Riferire un avvenimentoFar congetture intorno all’avvenimentoElaborare un’ipotesi e metterla alla provaRappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammiInventare una storia; e leggerlaRecitare in teatroCantare in girotondoSciogliere indovinelliFare una battuta; raccontarlaRisolvere un problema di aritmetica applicataTradurre da una lingua in un’altraChiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare... (§ 23).

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Su questa molteplicità di motivazioni e destinazioni dell’uso delle parole avremo modo di tornare. Ma appare già evidente quel che non sempre è stato tenuto presente e cioè che non è possibile collegare le parole a un solo ambito della vita umana, la poesia o la ragione o la prassi. «Nei simboli fonici è da cercare [...] tutto il moto della coscienza, di cui la lingua è forma: la parola non è solo la “tomba delle Muse”, ma il sacrario della vita di tutta l’umanità», come scriveva, negli stessi anni di Wittgenstein, il linguista italiano Antonino Pagliaro (1898-1973) nel Segno vivente (ESI, Napoli 1952, p. 52). In questo e in altri suoi scritti Pagliaro cercò con insistenza di richiamare l’attenzione su un’altra dimensione dell’uso delle parole. È una dimensione tanto ovvia per i non linguisti quanto spesso e a lungo lasciata in ombra negli studi degli specialisti: la dimensione dell’intendere. Le parole ci accompagnano non solo quando ci esprimiamo. A esse dobbiamo fare appello anche per comprendere ciò che altri dicono. A parte Pagliaro, questo aspetto, che, come si è detto, al profano può apparire ovvio, era stato tematizzato nella prospettiva del migliorare la comprensione di ciò che scriviamo da uno studioso nordamericano di origine austriaca, Rudolf Franz Flesch (n. 1911). A Flesch dobbiamo una delle più attendibili formule per misurare e mettere in rapporto la leggibilità di un testo con i diversi gradi della sua effettiva comprensione da parte di lettori di vario livello culturale1. Flesch e Pagliaro non bastarono. La linguistica teorica internazionale ha dovuto aspettare gli anni sessanta e gli importanti lavori del semiologo argentino Luis Prieto (1927-1995) e del filosofo inglese H. Paul Grice

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(1913-1988) perché si sviluppasse l’attenzione alle condizioni concrete entro cui si svolge la comprensione degli enunziati. Ciò comportava sviluppare una complementare attenzione non solo per la lingua, ma per le modalità concrete con cui essa si piega alle esigenze della produzione di enunziati e, quindi, della loro comprensione. Soprattutto due linguisti francesi, Émile Benveniste (1902-1976) e Antoine Culioli (n. 1924), hanno spinto la linguistica ad attrezzarsi per lo studio non più solo della lingua, ma dei modi con cui una lingua si piega alle esigenze dell’enunziazione, della concreta realizzazione di frasi e di testi. Molti altri si sono occupati di come parole e frasi sono organizzate per dare luogo a un testo ed è nato un settore specifico: la linguistica testuale2. Tutte le linee di ricerca, quella semiologica, quella filosofica e quella linguistica, ci portano a constatare che le parole da sole non bastano, non sono tutto non solo nel vivere, ma perfino nel processo della costituzione e della comprensione dell’enunziato di una frase o di un testo. Dinanzi a una voce che risuona, a una scritta che ci cada sotto gli occhi dobbiamo risalire alla forma della frase o del testo di cui sono la realizzazione concreta; ma, come torneremo poi a vedere anche meglio, enunziazione concreta, frase e testo dobbiamo anche saperli mettere in rapporto con la situazione in cui sono prodotti, con le circostanze e con il contesto non linguistico, incluso in questo anche il riferimento alla persona che ha scritto o prodotto un testo o un enunziato. Le parole da sole non sono sufficienti, ma ovviamente sono tuttavia una condizione necessaria della comprensione di enunziati o, almeno, di una loro più piena comprensione. Anche su ciò avremo modo di tornare. Qui im-

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porta per ora sottolineare che almeno dagli anni sessanta del Novecento in poi è chiaro anche agli specialisti che le parole ci accompagnano non solo quando produciamo enunziati e testi, ma anche quando li riceviamo e cerchiamo di comprenderli3. Così, insomma, le parole ci accompagnano anche nel silenzio dell’ascolto e della lettura. Resta immerso nel buio memoriale della prima infanzia il momento e modo in cui ci siamo appropriati delle prime parole. Ma anche per questo periodo aurorale, per i primi anni, anzi mesi, anzi, come oggi sappiamo, per i primi giorni di vita resta vero che le parole ci hanno accompagnato nel muto ascolto. A partire dalla voce della persona che ha loro parlato da prima, nutrendoli e toccandoli, i piccoli appena nati imparano a sintonizzarsi su quella che sarà poi la loro lingua materna. Certo le parole della madre non sono capite nel senso adulto del termine. Oggi, grazie agli studi dello psicologo argentino Jacques Mehler (n. 1936) sappiamo però che i piccoli le colgono nella globalità delle espressioni loro rivolte, assunte come un segnale globale. E in poche ore imparano ad apprezzare il ritmo, il profilo intonativo, il complessivo accento delle espressioni vocali che ascoltano, in poche ore mostrano di avere imparato a distinguere queste caratteristiche della lingua udita dapprima dalla madre dalle caratteristiche di altre lingue, perfino se è la madre a parlarle. Diciamo: si affezionano alle caratteristiche ritmiche e intonative della lingua parlata loro per prima dalla madre più che alla voce stessa della madre (che anche imparano a individuare subito: ciascuna voce umana ha una sua tipica impronta individuale). Vedremo oltre quanto è rilevante, anche nell’uso degli adulti, la comprensione degli enunziati come segnali

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globalmente apprezzabili. Certo è che di qui i piccoli muovono verso l’esplorazione della lingua materna. L’esplorazione procede di soglia in soglia, dal comprendere i toni di affetto o rimprovero, di cruccio o di gioco fino alla comprensione distinta delle prime espressioni e parole (verso i sei, otto mesi) e, soltanto dopo, fino ai tentativi, sempre più scaltriti, di produrre in proprio sillabe, parole, prime frasi. Nel comprendere gli altri e nel farsene comprendere, gli esseri umani dagli inizi della vita scoprono progressivamente lo straordinario potere interattivo delle parole. Ma conta qui sottolineare che anche allora, quando, come si dice, «ancora non parla» ed è perciò detto alla latina ‘infante’ (infans è chi non sa fari, «parlare»), anche allora un piccolo della specie umana comincia a usare le parole per capire e le parole accompagnano le sue giornate. Avere evocato questo uso silente delle parole per intendere gli altri porta il discorso verso una terza, fondamentale e troppo spesso dimenticata dimensione dell’uso delle parole: l’uso puramente interiore delle parole, che consente a ciascuno di ragionare tra sé e sé, riflettere, lasciare libero corso a pensieri e memorie. Per i piccoli tra i sei e gli otto, nove mesi, così come per gli adulti, nel silenzio maturano esperienze, idee, soluzioni, emozioni. Uno dei più famosi filosofi tedeschi, tanto amato quanto avversato, Georg Friedrich Wilhelm Hegel (1770-1831), colse in modo suggestivo questa dimensione nascosta quando (e fu forse l’ultima riga da lui scritta) evocò la capacità umana di chiudersi nella Stille der nur denkenden Erkenntnis, nel silenzio della conoscenza intenta soltanto a riflettere e pensare. Anche qui le parole possono essere preziose compagne del nostro essere umani.

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Il quadro della pervasiva presenza delle parole che abbiamo delineato resterebbe incompleto senza rammentare un fatto molto importante almeno per le persone istruite. Da alcuni millenni la scuola si è diffusa tra i popoli della Terra e da qualche secolo (in Italia però solo da qualche decennio) ha coinvolto sempre più ampie fasce della popolazione. La scuola è nata essenzialmente come luogo di apprendimento della scrittura e della lettura4. Anzitutto essa, la scuola, ha fatto sperimentare che, accanto alla voce che emettiamo e udiamo e che evochiamo interiormente, un’altra via ci fa presenti le parole: appunto la via della lettura e scrittura. Tecniche sempre più sofisticate di riproduzione e trasmissione degli scritti hanno sviluppato sempre di più la possibilità di affidare alla scrittura ciò che intendiamo dire o altri vogliono dirci. Scritture e letture si mescolano oramai ai più vari momenti della nostra esistenza e rendono ancora più estesa e coinvolgente la presenza delle parole.

III.

La naturale interattività dell’uso delle parole

Le parole pervadono dunque la vita degli esseri umani come il vedere e forse anche più, come il respirare. Osservando ciò non sapremmo dare torto a quell’antico testo greco della scuola medica di Ippocrate (circa 470370 a.C.), il Perì diaítes (I XXIII, 9), «Sul modo di vivere», che nell’elencare le fondamentali capacità del corpo umano inserisce anche la diálektos, il parlare, tra udito, vista, odorato, gusto, tatto, respiro. Eppure delle differenze vi sono. Proviamo a indicarle qui di seguito. Osserviamo anzitutto che altre attività del corpo si realizzano per necessità interne, fisiologiche, come il respiro, oppure rispondono puntualmente a stimoli esterni, come l’udito o l’odorato. La diálektos, il parlare, appare invece indipendente da stimoli esterni. Certo, si può dire, non del tutto e non sempre: talune espressioni di gioia, stupore o dolore possono rispondere anche a stimoli esterni, configurarsi come reazioni meccanicamente obbligate. E tuttavia anche queste espressioni possono facilmente reprimersi e, soprattutto, esse possono assumere forme assai diverse, solo nel primo avvio dipendenti da uno stimolo, ma poi assai più liberamente configurate. Per il resto il parlare è libero da obbedi-

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Prima lezione sul linguaggio

re meccanicamente a stimoli esterni e in tutti i casi, anche nelle manifestazioni più condizionate, resta assai più libero delle altre attività fisiologiche del nostro corpo. Ci è difficile, se non impossibile oltre stretti limiti, sospendere o controllare le attività fisiologiche, mentre possiamo farlo per l’uso delle parole o, almeno, per il loro uso ‘esofasico’, esterno ed evidente. Consideriamo una seconda differenza. Anche le attività fisiologiche si realizzano o possono realizzarsi in modo controllato nelle loro manifestazioni, variando e adattandosi a seconda delle situazioni: socchiudiamo gli occhi o aguzziamo la vista, dilatiamo le nari, rallentiamo o acceleriamo il respiro... Anche il linguaggio ha un alto grado di adattabilità e cioè può esser fatto variare nelle sue realizzazioni a seconda del variare delle situazioni: abbassiamo o alziamo il volume della voce, acceleriamo o rallentiamo il ritmo, passiamo da toni gravi a toni più acuti. Fin qui non appaiono differenze. E tuttavia possiamo facilmente osservare che, anche in nesso con la prima differenza, e cioè in nesso con la indipendenza assai maggiore o totale da stimoli esterni, buona parte della adattabilità dell’uso delle parole dipende da impulsi autonomi, autocorrettivi, non dovuti a immediati stimoli che ci vengano dall’esterno, ma da impulsi e scelte che si producono in noi stessi. In questa variabilità autonoma non è in gioco soltanto una differenza esteriore di comportamenti. Vi è un aspetto neurologico profondo. Nella corteccia cerebrale umana, accanto all’area che governa il linguaggio già scoperta dal chirurgo e antropologo francese Pierre-Paul Broca (1824-1880), il neurologo tedesco Karl Wernicke (1848-1905) scoprì una seconda piccola area unicamente umana, assente in altri primati e mammife-

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ri, con funzioni di regolazione e autoregolazione della voce, e cioè con funzioni contemporaneamente autopercettive e motorie. È l’area corticale di Wernicke che consente agli esseri umani di intervenire immediatamente, mentre producono la voce, sulla loro stessa voce variandone l’andamento indipendentemente da ogni influenza esterna. Come vedremo, tale capacità autocorrettiva audiovocale predisposta geneticamente è correlabile a una proprietà che investe ancor più ampiamente il linguaggio umano. Su di essa, che per ora lasciamo sine nomine, dovremo tornare più volte, anche tra breve. Infine la differenza maggiore. Rispetto alle altre attività il linguaggio è contrassegnato dalla interattività. Dobbiamo avvertire che grandi pensatori e studiosi, come l’italiano Benedetto Croce (1866-1952) e il nordamericano Noam Avram Chomsky (nato nel 1928), pur non negando l’innegabile, e cioè la presenza dell’uso interattivo e comunicativo delle parole, hanno tuttavia negato che la funzione del comunicare sia una caratteristica primaria del linguaggio umano. Per entrambi, pur mossi da ottiche teoriche e intenti scientifici e filosofici del tutto differenti, il linguaggio si costituirebbe come un vento dello spirito, come un dispositivo irrelato a ogni altra esigenza che non sia il suo costituirsi stesso. Solo secondariamente e accessoriamente linguaggio e parole si piegherebbero ai compiti dell’interazione comunicativa. Altri invece hanno ritenuto essenziale nel linguaggio proprio la funzione del comunicare, la sua interattività costitutiva, il suo mettere in comune i saperi. Anche senza pretendere di risolvere un contrasto così radicale si possono e devono mettere in evidenza al-

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meno tre elementi che appaiono comunque sicuri. Il primo fu ben messo in luce già da un pioniere degli studi di biolinguistica e neurolinguistica, l’americano Eric Lenneberg, in un classico libro, Biological Foundations of Language (1967). Nei piccoli della specie umana le capacità d’uso delle parole si atrofizzano o non si sviluppano più una volta varcata una certa soglia d’età (circa otto anni) se, come accade in casi fortunatamente rarissimi, prima di tale soglia i piccoli non hanno stabilito un rapporto durevole con altri esseri umani. In secondo luogo, anche l’uso più personale, intimo, non interattivo delle parole si realizza pur sempre con parole (e regole) apprese in generale da altri. Infine, larga parte dell’uso che facciamo delle parole è legata alla necessità di intendere altri o farcene intendere e cioè è legata direttamente all’interattività. Oggi ci pare indubbio: dobbiamo considerare la capacità di usare le parole come iscritta specificamente nel patrimonio genetico dell’Homo sapiens sapiens, come una parte della sua natura ereditaria. Del resto già nell’antica cultura greca non soltanto i medici, ma pensatori diversi come Aristotele (384-322 a.C.), nella sua Politica (1253 a 1-29) e altrove, ed Epicuro (341-272 a.C.), per esempio nella sua Lettera a Erodoto (§ 75), pensarono proprio questo, che il lógos, il linguaggio, gli esseri umani lo ricevono dalla loro specifica phúsis, dalla loro costituzione naturale. E in un passo assai suggestivo del De rerum natura (V 1028-40), il poeta epicureo latino Lucrezio (circa 90-50 a.C.) paragona lo sviluppo del linguaggio nei piccoli umani a un impulso nativo, a un istinto, come quello che porta il vitello a servirsi delle corna nascenti per minacciare o difendersi, i tigrotti e leoncelli a difendersi e assalire con artigli e denti, gli

III. La naturale interattività dell’uso delle parole

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uccelli ad affidarsi per volare alle penne ancora tremule delle ali. Recita un conclusivo esametro lucreziano: Sentit enim vis quisque suas quoad possit abuti: «ogni essere ha il senso dell’uso che può fare delle sue capacità»; e tra le altre vis i piccoli della specie umana si abbandonano all’istinto linguistico, al language instinct cui anni fa (nel 1994) uno studioso nordamericano, Steven Pinker, ha intitolato un suo libro di sintesi. Tutto ciò ci appare vero. Ma dobbiamo anche dire che tra le altre attività fondamentali naturali, ereditarie per ogni essere umano, nessuna ha un grado di interattività paragonabile a quello del linguaggio. Del resto, diversamente da alcuni moderni, i grandi antichi citati più su vedevano bene e dicevano che la naturalità del linguaggio era indubbia, epperò essa appariva loro funzionale alle necessità dell’uso comune, all’esser ogni creatura umana (dice Aristotele nello stesso passo ricordato) uno zôon politikón, un animal civile, un essere vivente «politico» o, diremo meglio, «sociale», «comunitario», che per esser tale deve interagire e discutere con i suoi simili nella pólis, nella sua comunità, e per discutere deve disporre dell’uso delle parole. Nell’uso delle parole l’interattività si manifesta, come abbiamo visto, fin dai primi momenti della vita umana e continua a sorreggere il cammino linguistico entro la comunità cui apparteniamo. Consapevolmente o no, continuamente accade di doverci fare scolari di altri e maestri di altri nell’uso delle parole. L’interattività così estesa si collega direttamente alla necessità di una continua riflessione sulle parole che ascoltiamo o leggiamo e su quelle che diciamo ad altri. Vedremo che tale riflessione, che riceverà il suo nome tecnico più in là, si configura come una vera e propria

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Prima lezione sul linguaggio

proprietà intrinseca e specifica del linguaggio umano. Qui la richiamiamo per sottolineare che ognuno a buon diritto può considerarsi maestro nell’uso della sua lingua, a patto che sappia anche farsi scolaro di altri e diventare sempre meglio consapevole della complessità inerente all’uso delle parole. È qui una non secondaria giustificazione del lavoro di chi indaga il linguaggio e anche di questa «prima lezione». Indagare il linguaggio può essere di grande interesse teorico, conoscitivo, e così è stato dai primordi degli studi filosofici, etnologici, medici. Ma potrebbe apparire superfluo a fini pratici, operativi. Per dirla con Dante, «opera naturale è ch’uom favella» (Paradiso XXVI 130): parlare e riflettere sul parlare ci è del tutto naturale. Si potrebbe dire: in quanto esseri umani sappiamo da madre natura, sappiamo nascendo e, poi, vivendo con i nostri simili come regolarci senza bisogno di speciali lezioni. Ciò è solo in parte vero. Ma perfino se lo fosse interamente, l’indagare il linguaggio non avrebbe e non ha un puro valore conoscitivo, teoretico: non sarebbe e non è superfluo se ci aiuta a percepire la complessità insita nell’usare parole e dunque se serve a renderci conto che l’arte del parlare (inclusa in ciò l’arte di ascoltare, leggere e scrivere) è una ars longa, un cammino pieno di sorprese e di qualche insidia, che si sviluppa per tutta la nostra vita, così come accadde e accadrà per le generazioni che ci hanno preceduto e, diis adiuvantibus, ci seguiranno.

IV.

La intrinseca complessità dell’uso delle parole

Anche nel Novecento e fino agli anni vicini a noi più d’uno studioso, e spesso tra i più insigni, è stato tentato dal serrare la realtà del linguaggio in una formula unica e unificante di ogni sua parte. Ora uno ora un altro aspetto o carattere del linguaggio ha polarizzato l’attenzione teorica e, pur in assai diverse prospettive scientifiche, è stato presentato come unica condizione necessaria e sufficiente per il darsi del linguaggio e per definirlo. Ricordiamo alcuni esempi illustri di questo atteggiamento teorico. Benedetto Croce riteneva che il linguaggio potesse definirsi come espressione e un grande linguista francese, André Martinet (1908-1999), come la facoltà di adoperare segni doppiamente articolati: suddivisibili cioè in ‘monemi’, parole o parti di parole dotate di una faccia significante e di un loro significato, e con la parte significante ulteriormente articolata e scomponibile in successivi fonemi. Noam Chomsky ha concepito il linguaggio come un dispositivo innato in grado di «generare» (nel senso matematico del termine, e cioè non solo produrre, ma anche intendere e saper descrivere in modo ordinato e strutturato) un numero potenzialmente infinito di frasi a partire da un numero

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Prima lezione sul linguaggio

limitato e chiuso di regole grammaticali e di mezzi lessicali (ma sulla natura di questi ultimi il pensiero di Chomsky ha conosciuto oscillazioni). Paul Grice vi ha visto la capacità di dar luogo a processi di inferenza; Luis Prieto la facoltà di adoperare segni i cui significati sono di volta in volta in un rapporto di esclusione, di completa inclusione o di più o meno estesa intersezione e sinonimia, questi ultimi obbligando chi li voglia intendere a correlare gli enunziati alle circostanze; lo psicologo americano Steven Pinker ne ha sottolineato ed esaltato il carattere di istinto biologico. A queste e simili formule occorre riconoscere più di un merito. Il primo è quello di avere avvertito, implicitamente o esplicitamente, la necessità teorica di dare una caratterizzazione specifica del linguaggio rispetto ad altre forme dell’attività umana e della stessa comunicazione. Un secondo merito di quanti si sono cimentati in questo compito è quello di essersi obbligati ad acute riflessioni sulla realtà del linguaggio e di avere obbligato a ciò anche altri sia per argomentare la condivisione di questa o quella formula sia, più spesso, per segnarne i limiti facendo così risaltare ciò che le formule rischiano di lasciare nell’ombra: la complessità intrinseca se non addirittura la eterogeneità costitutiva del linguaggio. In effetti, il problema che si pone a chi rifletta con mente teorica sul linguaggio è tenere insieme due esigenze non immediatamente collimanti: dare una caratterizzazione specifica del linguaggio e, insieme, riconoscerne e assumerne nella teoria e definizione la intrinseca eterogeneità. Lo sviluppo recente degli studi sul linguaggio ci mette in grado di dare riccamente conto della complessità

IV. La intrinseca complessità dell’uso delle parole

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insita nell’uso delle parole. Ma bisogna ricordare che la complessità non è una scoperta di oggi ed è stata ben presente nella storia delle idee sul linguaggio. Per esempio, come abbiamo già ricordato, sia Aristotele sia Epicuro ebbero chiara la qualità insieme e naturale e «politica» del linguaggio, legato cioè sia alla phúsis, alla natura, sia al costituirsi delle diverse comunità e culture umane. Ad Aristotele non sfugge un altro aspetto di complessità, e cioè il duplice valore che possono avere gli enunziati: puramente «semantici», cioè indicativi di stati d’animo, desideri, piacere o dolore e dunque simili in ciò al grido delle belve; oppure «apofantici», sottomessi a giudizio di verità e falsità (De interpretatione 16 b 34-17 a 7), e questi ultimi a loro volta collegabili in sillogismi sia in funzione di verità sia di mera persuasione, gli entimemi. Per Epicuro ciò che chiamiamo con termine unitario ‘significato’ delle parole è costituito in realtà da entità di qualità assai disparata (emozioni, ricordi, immagini, concetti) che di volta in volta sono veicolate dalle parole. La complessità della realtà linguistica si è fatta a mano a mano sempre più chiara, si potrebbe dire sempre più complessamente chiara, attraverso il sedimentarsi di esperienze culturali, intellettuali e scientifiche del mondo medievale e dell’età moderna. Abbiamo già accennato al fatto che a essa si richiamano alcuni dei maggiori teorici e studiosi del Novecento. Ricordiamo in particolare il linguista svizzero Ferdinand de Saussure, autore di un libro apparso postumo, il Cours de linguistique générale (1916), sorgente di ispirazione per molta linguistica teorica del Novecento, e Ludwig Wittgenstein, che anche abbiamo già menzionato. Per entrambi il parlare in tutte le sue manifestazioni si colloca al-

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l’incrocio tra due sfere diverse: da una parte, un patrimonio innato, una innata capacità del cervello umano sede genetica del linguaggio, ossia la Naturgeschichte, la «storia naturale» della specie umana cui va ricondotto «come il camminare, il mangiare, il bere, il giocare», dice Wittgenstein nelle Philosophische Untersuchungen (§ 44); dall’altra, le diverse realtà temporali e sociali (sulla temporalità insiste soprattutto Saussure) in cui le lingue vivono e in cui operano i diversi tipi di «addestramento» all’uso delle parole propri delle diverse società umane (sulla Abrichtung, sul training, insiste soprattutto Wittgenstein). Wittgenstein nel suo riflettere ci appare assorto in un colloquio metastorico con alcuni pochi grandi del passato, Platone (428-349 a.C.), Agostino, il logico e matematico tedesco Gottlob Frege (1848-1925), anche se non gli mancarono rapporti con qualche economista ed epistemologo del suo tempo. Saussure, quantunque a suo modo anch’egli isolato, fu invece attento e interessato allo stato istituzionale, accademico, dei diversi campi di studio: economia teorica, psicologia e nascente psicoanalisi, sociologia, teoria delle scienze, oltre naturalmente la filologia e i tradizionali studia humanitatis. E anche in questo orizzonte di rapporti tra scienze e discipline egli scorgeva la complessità del linguaggio. Per la sua natura complessa gli pareva che il linguaggio a giusta ragione potesse essere rivendicato come «materia» di studio da una pluralità disparata di discipline: storia e fisiologia, psicologia e sociologia, filologia e, naturalmente, linguistica (oggi potremmo aggiungere statistica e neuroscienze, teoria dell’informazione ed etnologia). Il linguaggio, dice Saussure, è una realtà «eteroclita», lo è come quei verbi o sostantivi altamente irre-

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golari la cui flessione si completa con temi e parole di origine affatto diversa: nominativo vis e genitivo roboris, presente fero, perfetto tuli, supino latum, presente I am o sono e passato I was o ero e fui. Tale appariva a Saussure il linguaggio: luogo di confluenza di strutture eterogeneamente diversificate. Una disciplina non può sperare di qualificarsi dichiarando semplicemente che si occupa di tale materia così intrinsecamente eteroclita, ma deve specificare sotto quale profilo se ne occupa. E alla linguistica Saussure suggeriva di assumere come filtro epistemologico, come punto di vista, quello del costituirsi e organizzarsi delle lingue sotto la spinta delle esigenze individuali di esprimersi (che Saussure chiamava in francese parole) e grazie alla facoltà innata, naturale, del linguaggio. Le lingue, nella loro varietà e nelle loro idiosincrasie, sono un oggetto teorico di cui in sede appunto teorica erano e sono spesso restati largamente ignari filologi, psicologi, sociologi e, esistenti da poco come categoria accademica, anche parecchi docenti di filosofia del linguaggio. Secondo Saussure, esplorare come si formano e funzionano le lingue dà alla linguistica la possibilità di offrire un suo contributo specifico al coro delle discipline che da altri punti di vista si occupano del linguaggio. Riprendiamo il filo del nostro discorrere. Non pare possibile ignorare tanti e tali giustificati richiami alla complessità del linguaggio. Chi voglia caratterizzare il linguaggio in maniera complessiva e specifica deve tenerne conto. La via che qui seguiremo intende soddisfare a questa esigenza, intende cioè dare pieno riconoscimento alla complessità del linguaggio, senza però rinunziare al compito di darne una caratterizzazione di

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insieme. Seguendo questo cammino metteremo a confronto l’uso delle parole con altre forme dell’attività di cui gli esseri umani sono capaci e, grazie al confronto, ricercheremo e selezioneremo progressivamente le caratteristiche più specifiche ed esclusive del linguaggio.

V.

Il linguaggio come forma di interattività semiotica

Nella loro lingua, prima ancora che nelle loro filosofie, gli antichi Greci distinguevano nel vivere umano tra práxis «azione» e gnôsis «conoscenza», tra fare e conoscere. E la distinzione non è stata scalzata nelle età e culture successive. Né è stata scalzata, ma a più riprese è stata valorizzata, anche assai di recente, una suddistinzione nella sfera del fare: da un lato il semplice agire che si esaurisce nei suoi effetti, dall’altro l’agire che si concreta nel porre in essere un oggetto, una cosa nuova, secondo una tékhne, una tecnica; da un lato il puro e semplice prássein, dall’altro il produttivo e tecnico poieîn, fabbricare, costruire, creare. La risposta oscilla se ci chiediamo, come ci si è chiesti, a quale dei due ambiti, al fare o al conoscere, appartenga l’uso delle parole. Abbiamo già ricordato un aspetto che appare evidente a noi e appariva tale già alla riflessione antica: l’aspetto interattivo dell’uso delle parole. In quanto interattivo l’uso delle parole si configura come un agire, un reciproco agire tra chi produce espressioni e chi le riceve e intende. L’uso delle parole infatti è un agire e interagire non solo quando produciamo parole per farci in-

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tendere, ma anche quando ci appelliamo a esse (e, abbiamo detto, alle circostanze) per intendere le espressioni altrui o quando le richiamiamo dalla memoria e le impieghiamo in un colloquio puramente interiore per ragionare mentalmente. Se poi richiamiamo la suddistinzione greca è interessante osservare che l’agire usando parole si potrebbe considerare un agire ‘poietico’. Nella comune estimazione, nei proverbi, il dire non gode di buona reputazione rispetto al fare. Per correggere la sottovalutazione si potrebbe far ricorso agli alti esempi del dire e dello scrivere, alle ardue opere dell’ingegno umano affidate alla parola parlata o scritta. O anche, come faceva Antonio Gramsci, si potrebbero ricordare le fatiche che spesso costano la lettura e comprensione di tali opere. Ma più è utile osservare la lunga fatica dei piccoli, di tutti i piccoli nel loro procedere verso il dire. Per osservarla sono ancora una guida preziosa le ricerche di un grande naturalista e psicologo svizzero, anticipatore di orientamenti divenuti dominanti sul finire del Novecento, Jean Piaget (1896-1980). Come Piaget ha mostrato, nell’esercizio della vocalità i piccoli attraversano diverse fasi: la prima iniziale, di cui già abbiamo detto, è quella dell’attenzione globale ai segnali vocali materni; di qui i piccoli passano a una fase più esternamente ed evidentemente attiva, di pura ripetizione imitativa del pianto di altri neonati; poi a una terza fase di produzione di suoni finalizzata al puro piacere dell’esercizio vocale. Segue, come quarta fase, quel lungo, prezioso silenzio di cui anche abbiamo detto: i piccoli ora ascoltano gli adulti sezionando il dire che ascoltano e, di solito, varcati gli otto mesi, si avventurano nella quinta fase, quella dei primi balbettii che ripetono sensata-

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mente alcune delle parole catturate dagli adulti. Ma è necessaria una marcia ancora più lunga perché guadagnino la soglia delle prime espressioni in forma di frase. I piccoli cominciano a produrre realizzazioni di frasi quando non sanno fare ancora nient’altro di tecnicamente disciplinato. Questo loro realizzare frasi è il loro primo poieîn, il primo agire finalizzato a porre in essere secondo regole i pur fuggevoli, ma preziosi prodotti sonori. Il linguaggio è dunque un fare, anzi un poieîn? Nella seconda metà del Novecento la linguistica si è attrezzata per studiare questa dimensione sia sotto il profilo sociologico (è nata così la sociolinguistica) sia soprattutto sotto il profilo dello studio della conversazione, delle interazioni sul campo. La grande ondata di studi di linguistica pragmatica degli anni sessanta-ottanta del Novecento, che ha messo l’accento sulla dimensione interattiva dell’uso delle parole, potrebbe indurre a una risposta facilmente positiva alla domanda fatta più su. A contrastarla o, almeno, a renderne evidente la problematicità stanno gli aspetti che appaiono connettere l’uso delle parole piuttosto all’ambito della conoscenza. Questa connessione è stata colta in diverse prospettive. Nel positivismo logico o neopositivismo, il vasto movimento che fu inaugurato da Wittgenstein con la sua prima opera, il Tractatus logico-philosophicus apparso in tedesco nel 1921/1922, e che fiorì poi in Austria, Germania e USA negli anni trenta e quaranta, e anzitutto nello stesso Tractatus, al linguaggio e alle proposizioni viene riservato il ruolo di mediatori indispensabili per la conoscenza. Nel Tractatus la comprensione di proposizioni vere o false è l’accesso alla conoscenza della realtà (Tractatus 4.011, 4.021, 4.06). Questa prospet-

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tiva è stata poi abbandonata e criticata dallo stesso Wittgenstein, nella seconda fase del suo pensiero, ma è in essa che si è mossa gran parte della riflessione dei positivisti logici. Per un altro teorico già citato, Pagliaro, il linguaggio è una forma di conoscenza e lo è a doppio titolo. In primo luogo lo è perché per parlare e intendere altri che parlino occorre far ricorso alle parole di una lingua con i loro significati, che Pagliaro definiva «valori saputi», nozioni generiche acquisite nel tempo attraverso processi astrattivi e messe in comune nella lingua e nella cultura di una comunità. E in secondo luogo lo è perché col singolo atto linguistico, grazie al ricorso ai «valori saputi», chi parla fa chiaro a sé e rende conoscibile agli altri un particolare contenuto di coscienza. È di qualche interesse non solo biografico osservare che, movendosi nello stesso senso del cammino di Wittgenstein, anche Pagliaro nei suoi ultimi scritti ha accentuato il carattere pratico, «finalistico» e «operativo» del ricorso alla «tecnica» della lingua per comunicare: infine il linguaggio gli è apparso «come semiotica che è condizionata da una tecnica funzionale [...], la lingua». L’accenno alla natura semiotica del linguaggio appare solo negli ultimi scritti di Pagliaro. Per lui l’accenno era nuovo e, del resto, era estraneo anche alla terminologia di Wittgenstein. Il riferimento oggi ci appare risolutivo e merita sviluppo. Lo si consideri più affine alla prassi o al conoscere, in ogni caso il linguaggio non può non concretarsi nel realizzare parole e frasi e nell’intendere o evocare tali realizzazioni. Parole e frasi che diciamo o ascoltiamo non sono segni o segnali qualsiasi, come sempre meglio vedremo, ma non possono non essere anzitutto segnali che rendono manifesti i segni

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verbali che abbiamo in mente sia come produttori di espressioni o come ascoltatori o lettori sia in quanto siamo impegnati in un colloquio interiore. Parlare significa sempre e comunque progettare o intendere segni, dotati di una faccia esterna, a cui gli Stoici antichi prima, poi Saussure e la linguistica moderna hanno dato il nome di ‘significante’ (per i filosofi greci semaînon); e dotati di una faccia interna, che ne è il contenuto e che diciamo ‘significato’ (per i filosofi greci semainómenon). Riconoscere ciò ha una ricca serie di implicazioni. Una implicazione terminologica è cominciare a definire l’uso delle parole come una forma di attività semiotica o, più semplicemente, una semiotica. Già gli antichi medici greci avevano parlato del semeiotikón: l’arte di riconoscere i semeîa, i segni o sintomi delle malattie. E di ‘sem(e)iotica’ o ‘sem(e)iologia’ come sintomatologia hanno continuato e continuano a parlare le moderne scienze mediche. Dobbiamo a un grande filosofo inglese del Seicento, John Locke (1632-1704), l’uso del termine con riferimento al linguaggio. Nel concludere il suo Essay Concerning Human Understanding (1689), in cui il terzo dei quattro libri è dedicato alle parole e al linguaggio, Locke propose una partizione delle scienze in tre grandi domini: quello della conoscenza della natura, la «natural philosophy» o, alla greca, phusiké; il dominio della prassi, della politica e dell’etica, praktiké; e infine, autonomo rispetto ai primi due, un terzo dominio: la «dottrina dei segni» o semeiotiké, che, aggiunge Locke, poiché i segni più consueti sono parole e discorsi, potrebbe anche chiamarsi logiké, «dottrina del lógos». La scelta di Locke andò maturandosi tra Settecento e Ottocento e nel Novecento si è affermato l’uso

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di ‘semiotica’ (cui Saussure preferiva il termine sémiologie, già usato nei secoli anteriori) sia per la scienza dei segni linguistici e non linguistici sia per la stessa attività di produzione e comprensione dei segni. L’uso delle parole è, dunque, una forma di attività semiotica o, come anche diciamo, una forma di ‘semiòsi’. Il termine semeíosis, adoperato già dal filosofo epicureo campano Filodemo (circa 110-35 a.C.) in un trattato dedicato appunto ai segni e alla semiosi, fu rimesso in onore in questo senso dal filosofo nordamericano Charles Sanders Peirce (1839-1914). Ma, dicendo tutto ciò, non stiamo facendo semplicemente delle precisazioni terminologiche. Riconoscere nell’uso delle parole una forma di semiosi comporta anzitutto il sottrarsi alla necessità di una risposta rigida, esclusivistica, alla domanda posta più su: il linguaggio è teoria o prassi, conoscenza o azione? La semiosi si installa in un suo spazio specifico. Ogni semiosi presuppone e trasferisce, ma anche elabora conoscenza; e in ciò e con ciò presuppone e determina azioni e interazioni tra i partecipi della semiosi. Si connette all’ambito del conoscere e a quello dell’agire senza dissolversi nell’uno o nell’altro. In secondo luogo, il riconoscimento della semioticità dell’uso delle parole getta o, almeno, prefigura un ponte tra l’uso delle parole «uniquely human» e altre forme di semiosi sia umana (gesti, posture del corpo, danza, musica, numerazioni, cifrazioni, calcoli), con cui l’uso delle parole come vedremo interagisce strettamente, sia propria di altri esseri viventi, con i quali rende almeno compatibile una eventuale ipotesi evolutiva. Ma non basta. Una terza conseguenza è illuminare di luce diversa i primi passi infantili sulla via del linguag-

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gio: i piccoli cominciano ad apprezzare le parole che odono come segnali globali. Questa segnicità primordiale, come vedremo, continua a svolgere compiti preziosi anche per chi è in età adulta, come sussidio all’interazione propriamente linguistica e come avvio primo del processo di comprensione (vedi oltre cap. VII). Riconoscere in una increspatura dell’aria, in una traccia che si stacchi da un fondo la realizzazione di un segno linguistico e non un accidente naturale è già cominciare a stabilire un rapporto interattivo con chi tale realizzazione ha prodotto ed è già inoltrarsi sulla via di capire un senso e un significato. È già scoprire un «orizzonte di senso», per usare l’espressione di un filosofo italiano, Emilio Garroni (n. 1925). Ancora due considerazioni. Dalla semiotica sappiamo che un segno non si dà mai da solo. Per esistere deve diversificarsi da un altro segno almeno, col quale dunque potenzialmente coesiste. L’insieme potenziale dei segni e il sistema delle loro differenze è ciò che chiamiamo ‘codice semiotico’ o, saussurianamente, ‘semiologico’. Se la parola ci rivelerà caratteri che trascendono la pura segnicità, anche una lingua è altro e più rispetto a un codice semiologico convenzionale. Ma possiamo dire ciò in modo non retorico o dogmatico, in modo analitico e confutabile, critico e scientifico, solo mettendo a confronto le proprietà delle lingue e dei segni linguistici con quelle di altri codici semiologici e altri tipi di segni: dunque dando all’analisi delle caratteristiche del linguaggio quella prospettiva semiotica che del resto già si dischiude dinanzi a noi col riconoscimento della fondamentale semioticità dell’uso delle parole. Settori importanti della linguistica teorica del Novecento hanno continuato ad arroccarsi nella chiusura al

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confronto tra il linguaggio verbale umano e altri codici semiologici e altri linguaggi. Non li imiteremo. In ogni studio del linguaggio, delle lingue, dell’esprimersi e comprendere con parole si rivela altamente produttivo in ogni sua direzione sapersi dare un orizzonte semiotico: lo studio della conversazione e quello del rapporto tra parlato e scritto, la riflessione sul ruolo della grammaticalità, la teoria degli enunciati, la comprensione teorica dei particolari caratteri del significato dei segni linguistici e delle parole, la determinazione della continuità e della differenziazione tra parole e usi comuni, da un lato, e parole e usi crescentemente determinati nell’ambito di tecniche e di scienze sono tutte direzioni che filosofia del linguaggio e linguistica teorica e descrittiva sono in grado di percorrere positivamente solo sapendosi dare una strumentazione semiotica per intendere al meglio similarità e differenze tra ciò che è generalmente semiotico e ciò che è invece specifico e proprio del linguaggio verbale e solo sapendo cogliere quanto le realizzazioni verbali devono alla integrazione continua con altre semiotiche. Nelle pagine seguenti ci inoltreremo dunque nell’isolare le proprietà che caratterizzano parole, frasi, lingue e linguaggio umano rispetto ai segni e all’organizzazione di altre semiotiche.

VI.

Il linguaggio come semiotica

Con le altre semiotiche che popolano l’universo degli esseri viventi il linguaggio verbale umano condivide quelle che chiamiamo le proprietà costitutive della semiosi. Centrale in ogni semiosi è la produzione o il riconoscimento di ciò che qui chiamiamo ‘segnale’1, ossia è la produzione o il riconoscimento del collegamento tra una variazione dello stato fisico, che qui diciamo ‘espressione’, e qualcosa che con quella variazione si indica, che qui diciamo ‘senso’. Come abbiamo già ricordato, molte specie di esseri viventi, anche organismi elementari, sono capaci di semiosi. E gli esseri umani, nella loro lunga storia naturale, si sono resi capaci di porre in essere una straordinaria quantità di semiotiche diverse. È un merito storico e teorico di Saussure avere visto e detto chiaramente che il linguaggio umano è sì la più importante fonte di organizzazione semiotica, ma è solo una delle tante che, sull’impulso di Saussure e, prima di lui, di Peirce, abbiamo imparato a riconoscere e catalogare: segnali affidati a gesti, a posture del corpo, a movenze rituali e a danze, segnali audio-orali non linguistici, segnali musicali, segnaletiche iconologiche e plastiche, segnaletiche convenzionali, ideogrammi, let-

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tere e sistemi scritturali diversi per fissare graficamente i suoni della voce, cifre e sistemi diversi di cifrazione per fissare graficamente i nomi dei numeri presenti nelle lingue e poi i diversi tipi dei numeri stessi a mano a mano elaborati, calcoli aritmetici, algebre, linguaggi simbolici delle scienze e linguaggi logici... 2. Produrre e riconoscere un segnale sono l’alfa e l’omega, principio e fine di ogni semiosi. Il resto, come dice il Vangelo (nelle vecchie traduzioni!), «viene in appresso». Il resto è naturalmente importante nella storia naturale e nella storia culturale delle specie viventi e degli esseri umani. Per funzionare un segnale deve essere identificabile come quel segnale: il suo senso e la sua espressione, in sé e per sé unici e irripetibili come ogni voce dal sen fuggita, devono essere fatti in modo tale da essere individuabili con sufficiente approssimazione come quel senso e quella espressione. Naturalmente questa esigenza di identificazione del concreto, ma sempre fuggente particolare non vale solo per la semiotica. Fa parte delle esigenze più profonde e ancestrali di ogni essere vivente potere individuare un oggetto, un cibo, un simile della propria specie o un estraneo, come quella entità con cui stabilire o no un contatto, da ricercare o da evitare. Nelle latebre stesse della vita delle specie i viventi hanno dovuto sviluppare apparati cognitivi in grado di rispondere in modo appropriato ai loro bisogni vitali. A questo livello profondo bisogna collocare lo sviluppo della capacità di isolare nel perenne fluttuare e divenire degli esseri e dell’ambiente le proprietà più stabili, gli schemi di persistenza e di identificazione che si incarnano nel concreto ma non si esauriscono in esso e con esso: a tali schemi le totalità concrete, in sé irripetibili, sono riconducibili per essere identificate, ricorda-

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te e se necessario imitate e replicate. È a questi livelli profondi che nasce la necessità della mediazione astratta, cioè la necessità della elaborazione di generalità astratte che condensino (e guidino?) le percezioni e consentano di conoscere, riconoscere, operare e, insomma, vivere e convivere con il concreto. A quanto sembra gli schemi astratti che consentono di conoscere e trattare le entità concrete tra cui un organismo deve muoversi per vivere e sopravvivere devono avere un certo grado di conformità alle entità stesse, anche se non possono non essere funzionali anche ai bisogni vitali e alle possibilità cognitive e operative dell’organismo vivente. Anche in essi, in tali schemi, si può riconoscere la traccia del soggetto che percepisce, memorizza ed elabora percezioni. Ma il grado di conformità all’oggetto non può non essere alto, la forma dello schema non può non essere dipendente nel più alto grado possibile dalle modalità con cui l’oggetto è percepito e si presenta. In questo ambito primordiale fortemente condizionata da bisogni e capacità vitali e da esigenze di conformità alle entità con cui entrare in rapporto, la semiosi accende una scintilla di libertà creativa. Delle innumeri entità percepite, cioè degli innumeri schemi, quali fare entrare nell’orizzonte dei segnali e assumere come ‘sensi’? Qualsiasi specie vivente, anche se è lontana dal poterlo formulare, ha vissuto in re questo problema e si è attrezzata, anche geneticamente, a rispondervi. Il gallo cedrone avrà buone ragioni di specie per segnalare la presenza di predatori aerei raccogliendoli tutti in una unica classe di significato e tutti insieme distinguendoli da tutti i pericoli terrestri. Ma è difficile scovare ragioni per capire perché come altra unica, terza categoria di

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segnali produca e riconosca, a quanto pare, solo i segnali di disponibilità all’amore. Perché tace del bisogno di cibo o di altre paure e altri pericoli? Nei suoi silenzi e nelle scelte dei segni del suo stringato codice di comunicazione il gallo cedrone esercita i margini di libertà che la natura gli concede. Riopera, nella costruzione delle categorie di segnali, la capacità astrattiva che si è detta. Perché sia individuabile il singolo concreto segnale, è necessario a un essere vivente elaborarne uno schema di identificazione e persistenza: tale schema, che, come già abbiamo ricordato più su, diciamo ‘segno’, è lo schema invariante di produzione e riconoscimento dei concreti segnali, sempre in parte diversi ogni volta. Il segno, come il segnale, è bifacciale: un lato serve a raccogliere i sensi concreti collegati alle espressioni nei concreti segnali, a identificarli e a governarne la produzione, ed è il lato che, come anche abbiamo ricordato, chiamiamo, con gli antichi Stoici e con Saussure, ‘significato’; l’altro lato serve a raccogliere, identificare e regolare le espressioni, cioè, ripetiamolo, le variazioni dello stato fisico che un vivente sa produrre e riconoscere per collegarle a un senso, ed è il lato che chiamiamo ‘significante’, di nuovo seguendo l’esempio degli antichi Stoici e di Saussure. Col suo costituirsi un segno introduce un principio d’ordine nel fluire delle cose e delle esperienze delle creature che lo adoperano. Si può dimostrare che esso non sussiste mai da solo, ma sempre si accompagna almeno al suo complemento negativo3 e, più spesso, convive con una pluralità di altri segni distinti dallo stesso linguaggio. Negli anni trenta del Novecento il filosofo e lingui-

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sta austriaco Karl Bühler (1879-1963) prima e poi il filosofo nordamericano Charles Morris (1901-1979) hanno aperto la strada a capire che ogni segno può essere collocato e studiato su quattro dimensioni: la dimensione ‘semantica’ è quella che collega il segno ai sensi particolari, concreti che possono raccogliersi nel suo significato generale e astratto; la dimensione ‘sintattica’ è quella che collega la sua forma, attraverso similarità e differenze, alle forme degli altri segni dello stesso linguaggio; la dimensione ‘pragmatica’ è quella che collega il segno alle interazioni cui danno luogo i segnali in cui si concreta tra chi li produce e chi li riceve; la dimensione ‘espressiva’ è quella che collega il segno ai materiali che danno corpo al suo significante. Su ciascuna dimensione un segno e i segnali che gli si coordinano esercitano una funzione: la funzione ‘rappresentativa’ o ‘denotativa’, per cui un segnale vale a denotare qualcosa, una situazione, uno stato; la funzione ‘di appello’ è quella esercitata dando luogo alle interazioni pragmatiche tra chi produce e chi riceve i segnali; la funzione ‘espressiva’ è quella per cui un segnale funge da segnale di territorio, rivela la presenza di chi lo produce; infine la funzione ‘sistemica’ è quella per cui il segno, con la sua forma e le sue connessioni con altri segni, rivela di appartenere a un certo linguaggio, a un particolare codice semiotico, a una lingua particolare. Ripercorrendo questi tratti essenziali di ogni possibile semiotica, il linguaggio verbale ci appare conforme a essi, come Peirce e Saussure avevano intuito. Sotto la copertura di denominazioni a volte diverse, l’uso delle parole e frasi esibisce i medesimi tratti costitutivi di ogni semiotica. La voce o la grafia cui riconosciamo un senso e il senso stesso che esprimiamo con voci e grafie so-

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Prima lezione sul linguaggio

no le due facce del segnale linguistico, cioè di ciò che diciamo ‘enunziato’. All’atto di produzione di un segnale corrisponde l’enunziazione ovvero l’‘acte de parole’, nella terminologia di Saussure e di molti linguisti, o ‘speech act’, nella terminologia del filosofo britannico John Langshaw Austin (1911-1960) e di molti filosofi del linguaggio. Come i segnali di ogni altra semiotica, così gli enunziati sono governati, quando li produciamo e quando li riceviamo e comprendiamo, dal loro riferirsi a un segno: e il corrispettivo del segno è la frase4 o, meglio, ogni sequenza linguisticamente ordinata e possibile di parole cui ci atteniamo nel realizzare o nell’intendere un enunziato. Anche i segni linguistici sono bifacciali: a un significato, a una potenzialità generale di abbracciare sensi concreti negli innumeri usi possibili, fa riscontro un significante, una intelaiatura astratta che si realizza nelle fonie che produciamo e udiamo o nelle grafie che tracciamo e leggiamo in sostituzione delle fonie. E anche le frasi si lasciano ben collocare sulle quattro dimensioni semantica, sintattica, espressiva e pragmatica; e frasi ed enunciati svolgono i compiti di rappresentazione, di appello, di strumento interattivo tra locutori di una lingua e di indicatori della loro pertinenza al linguaggio verbale e a una delle seimila lingue del mondo. Constatare la rispondenza del linguaggio verbale ai tratti essenziali, costitutivi delle semiotiche è tuttavia solo il primo passo del cammino intrapreso. Di qui in poi il riferimento al restante universo semiotico ci aiuterà a capire in che cosa una lingua diverge da ogni altra semiotica e perché il linguaggio si presenta come qualcosa di unico. Vedremo che, singolarmente prese, quasi tutte le caratteristiche riconoscibili nella realtà

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linguistica umana ricompaiono isolatamente in altre semiotiche. Ciò che non ha riscontro è l’intreccio di tali caratteristiche, ciascuna presente in alto grado e però, spesso, come constateremo subito, accompagnata anche dal suo opposto.

VII.

Una semiotica a segni articolati e non articolati: semeîon antilegómenon

Nella lunga storia delle riflessioni sul linguaggio umano1, la natura articolata dei segni linguistici apparve, subito dopo la molteplicità delle lingue, un primo tratto specifico e caratteristico, assunto come tale già nella Grecia classica. Aristotele vide assai bene che canti degli uccelli, urla e grida delle belve erano capaci di semaínein, di «indicare» stati dell’anima non meno dei segni linguistici. Questi però gli apparvero diversi dai segnali animali perché erano scomponibili in singole parti significative, nomi, espressioni predicative, verbi, particelle, e tali parti erano connettibili in proposizioni predicative. Le voci d’altri animali, invece, gli sembravano significative solo nella loro globalità. Si può osservare per inciso che il concepire il significato delle frasi come risultato della somma dei significati delle sue parti costituenti ebbe dunque in Aristotele un primo consapevole alfiere, assai prima che Gottlob Frege lo teorizzasse esplicitamente. Due studiosi italiani, Walter Belardi (n. 1923) e Franco Lo Piparo (n. 1946), hanno messo in evidenza che già per Aristotele la articolatezza si spingeva anche oltre, investendo anche il significante delle parti signifi-

VII. Una semiotica a segni articolati e non articolati

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cative. Osservava Aristotele (ma non era il solo) che nomi, verbi, particelle hanno un significante decomponibile in grámmata, «lettere» e/o, anche, «fonemi». Ne derivava agli occhi di Aristotele la «scrivibilità» delle parti costitutive delle voci umane, altro tratto specifico e differenziale rispetto alle voci di altri animali. Anche in ciò si può cogliere l’anticipazione di un punto di vista moderno, quello di André Martinet, che ha indicato come tratto specifico delle lingue la «doppia articolazione» dei loro segni. Questi si articolano una prima volta, a un primo livello, in parti dotate di significante e significato, cioè nelle parole o, meglio, nei costituenti delle parole stesse, che il linguista svizzero Henri Frei (1899-1980), Martinet e altri hanno chiamato «monemi» (in altra terminologia diciamo invece ‘morfi’). I monemi (o morfi) sono sia le basi lessicali primarie (per esempio in italiano ved-), sia i prefissi (per esempio ri- o pre-) e suffissi (per esempio -ev- o -ut- che, con le basi, costituiscono i temi di parole (come, restando all’esempio, prevedev-, rivedut-, ravvediment- ecc.), le desinenze (-ere, -i, -o, -a ecc.). Al livello di tale prima articolazione segue un secondo livello, una seconda articolazione: il significante di parole e monemi si articola, a sua volta, in fonemi, unità minime prive in sé di significato e non ulteriormente scomponibili. Queste unità minime sono (come del resto le lettere dell’alfabeto cui guardavano gli antichi) per ogni lingua relativamente poche, alcune decine, in italiano e nella media delle altre lingue una trentina. Pochi fonemi con il loro vario raggrupparsi e ordinarsi bastano a individuare e differenziare un numero enorme di significanti di parole diverse. La componente articolatoria dei segni linguistici e in particolare la doppia articolazione hanno certamente

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Prima lezione sul linguaggio

un ruolo fondamentale nel costituirsi e funzionare delle lingue e dei loro segni, parole e frasi. Dall’articolatezza dipende anzitutto la potenziale infinità delle frasi prevedibili in una lingua. L’articolatezza conferisce infatti ai segni di una lingua il carattere di raggruppamenti di un certo limitato numero di unità di base, cioè le parole, i vocaboli. Più precisamente, nei termini del calcolo combinatorio, i raggruppamenti di parole possono considerarsi ‘disposizioni con ripetizione’: il diverso ordinamento delle parole diversifica i raggruppamenti, le frasi (il bambino dà il libro alla maestra è frase diversa da la maestra dà il libro al bambino) e la ripetizione di una stessa parola è possibile e, di nuovo, differenzia raggruppamenti per il resto identici (il bambino dà il libro alla maestra che stava sulla cattedra è diverso da il bambino dà il libro alla maestra, libro che stava sulla cattedra). Molte semiotiche, per esempio le cifrazioni e i calcoli, condividono queste proprietà, prevedono cioè segni costruiti come disposizioni con ripetizione di un ristretto numero di unità di base. Se consideriamo la abituale cifrazione araba (sugli aspetti semiotici di questa dovremo tornare più volte) e se pensiamo alle dieci cifre di base da 0 a 9, vediamo che per esempio 31 è diverso da 13, 6/2 è diverso da 2/6, e 331 è diverso da 31. Nelle semiotiche a segni non articolati non c’è niente del genere. Un segno si oppone a un altro nella sua globalità. Torniamo alle dieci cifre arabe di base e consideriamole come un minilinguaggio di dieci segni, da 0 a 9, ciascuno con un significante e ciascuno individuante un valore numerico. Il segno 0 o il 2 si possono ben frantumare in pezzetti, ma questi pezzetti non hanno alcuna funzionalità, non vogliono dire niente, sono rottami materiali di significanti. Il segno 0 si oppone al segno

VII. Una semiotica a segni articolati e non articolati

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7 o 9 e questi a quello e ai rimanenti nella loro globalità. Nelle lingue invece, come nell’intera cifrazione araba o nei calcoli, le cifre (31, 13, 331 ecc.), le operazioni (3 ⫹ 2 = 5; 5 ⫺ 2 = 3 ecc.) e le frasi si scompongono in parti significative, i monemi o morfi. Nelle lingue (come nelle cifrazioni e nei calcoli) poiché non esiste un limite teorico al numero di parole allineabili in una frase (data una qualsivoglia frase è sempre possibile prolungarla iterandone ricorsivamente una parola o più), il numero di raggruppamenti prevedibili è potenzialmente infinito. La infinità potenziale delle frasi a partire da un repertorio limitato di parole e regole e dei significanti a partire da poche decine di fonemi ha attratto l’attenzione di grandi teorici, da Humboldt a Saussure e Chomsky. L’infinità potenziale delle frasi, come delle cifre e delle operazioni aritmetiche, discende dalla natura di combinatoria che l’articolatezza dei segni conferisce a queste semiotiche e, in particolare, alla lingua. Poggiano inoltre in larga misura sulla doppia articolazione la enorme ridondanza che caratterizza le lingue e le regole di restrizione e di grammatica che essa consente e che possono assumere valore autonomamente significativo. Senza la ridondanza la forma e la vita stessa delle lingue e dei suoi utilizzatori sarebbero radicalmente diverse2. L’esistenza di una seconda articolazione è l’aspetto in cui la ridondanza si fa più evidente, anche se non è il solo. Essa si manifesta a ogni livello della organizzazione delle lingue e qua e là torneremo a accennarvi. E, del resto, anche al solo livello della seconda articolazione, su cui ora ci fermeremo, la ridondanza si manifesta in più di un modo. Ma anzitutto diamone la più semplice

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definizione possibile: nella comunicazione in generale e in quella linguistica in particolare è ridondanza tutto ciò che non è strettamente necessario al fine di distinguere e individuare un’entità, nel nostro caso un’entità linguistica, rispetto alle altre. Se guardiamo alla fonologia delle lingue, scorgiamo ridondanza anzitutto nel costituirsi delle «famiglie di suoni» o fonemi che una lingua distingue e di cui si serve per distinguere e per individuare i significanti delle parole della prima articolazione. I fonemi sono in numero variabile a seconda delle lingue: vanno da poco più di dieci a poco più di cento. Esaminando le seimila lingue del mondo si è calcolato che in media una lingua distingue e possiede circa trenta fonemi, che è il numero di fonemi dell’italiano (interiezioni a parte). Se torniamo a quell’orchestra che, come diceva Paul Passy, è il nostro apparato di fonazione, possiamo stimare a circa settecento i profili fonici di famiglie producibili e distinguibili con la nettezza con cui produciamo e distinguiamo una p dell’italiano da una t, una e da una u ecc. Da questo enorme magazzino di possibilità una lingua come l’italiano estrae dunque solo una parte minima: il resto è ridondanza pura. Una volta dati, i fonemi si raggruppano tra loro per distinguere e individuare il significante dei monemi o morfi. Il calcolo combinatorio ci dice che questi raggruppamenti, che ammettono come distintiva la ripetizione di uno stesso elemento (caro è diverso da carro) e che, inoltre, si distinguono anche per il diverso ordine degli stessi elementi (reco è diverso da creo), si chiamano ‘disposizioni con ripetizione’. Dato il numero degli n elementi di base (i fonemi) e il numero di posti previsti per un raggruppamento (la lunghezza dei significanti delle parole), una for-

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mula per fortuna assai semplice, e cioè nk, permette di calcolare quante disposizioni con ripetizione si possono avere. Se n è dato dai trenta fonemi italiani, sappiamo che i raggruppamenti a un posto (k = 1), come le parole a o d’, sono trenta, quelli a due posti (k = 2), come tu o se, sono 900, quelli a tre balzano a 27.000. Ci sono 27.000 parole di tre fonemi come uno, tuo, per? La risposta è già negativa. Moltissimi posti restano vuoti (*aba, *aca, *aea, *aoa, *apa ecc.). Ma è solo il principio: le disposizioni a quattro posti teoricamente possibili sono 810.000: con queste siamo già assai oltre il numero di parole registrate dai maggiori dizionari su carta. Parole italiane relativamente brevi come appunto caro o sede sono estratte da questo grande insieme, già ricco di sequenze inutilizzate (crao, sdee, dese ecc.). Ma parole appena più lunghe di un posto, come carta o vieni le estraiamo da un insieme di 24.300.000 possibili disposizioni: la stragrande maggioranza di queste disposizioni (*crata, *traca, *tarca ecc., *inevi, *vinie ecc.) non ha cittadinanza in italiano. E la parola italiano? Non è una parola particolarmente lunga, non è italianizzazione o dimetilbetapirazolone, è una parola di lunghezza mediobreve. Il calcolatorino tascabile non basta più: essa è estratta da un insieme di miliardi di raggruppamenti. Con italianizzazione le disposizioni a quindici posti arrivano a cifre di portata letteralmente cosmica: calcolare 3015 per rendersene conto. Una parola come italianizzazione naviga, con poche altre, in uno spazio immenso di raggruppamenti a quindici posti non utilizzati. Che significa tutto questo? Che per distinguere i significanti delle centomila parole di un dizionario per famiglie o dei tre, quattro milioni di una banca dati (che

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per ora non esiste) vastissima il numero di fonemi e la lunghezza delle parole sono sovrabbondanti o, appunto, ridondanti. Potremmo: (1) ridurre drasticamente il numero dei fonemi; (2) oppure ridurre altrettanto drasticamente la lunghezza media delle parole. L’italiano, beninteso più o meno come ogni altra lingua, sembra offendere l’economicità con la sua enorme ridondanza di numero di fonemi e lunghezza di parole. Ma le conseguenze dell’eliminazione della ridondanza sarebbero assai pesanti per la lingua e per i suoi utenti: i profili fonici (e, quindi, grafici) delle parole si accosterebbero l’un l’altro; ogni raggruppamento sarebbe possibile e un momento di disattenzione o di rilassamento, un rumore, una lettera mal stampata o mal letta basterebbero per mettere fuori strada chi pronunzia (o scrive) una frase e chi la ode o legge. Inoltre un fenomeno già accennato e su cui torneremo, e cioè l’oscillazione della massa lessicale o per l’arrivo di nuove parole da altre lingue o per nuovo conio, sarebbe reso difficile, se non impossibile: la grande distanza tra le sequenze esistenti, creata dalla ridondanza fonologica, permette invece nuove inserzioni senza grandi difficoltà. La ridondanza dunque da un lato consente alla lingua di non dovere cambiare sistema fonologico a ogni ondata di parole nuove e dall’altra consente appunto di mutare e adattarsi al nuovo. La ridondanza rende dunque evidente la importanza della doppia articolazione. Ma insistere su ciò non comporta accettare quello che le formulazioni correnti, da Aristotele a Frege o Martinet, hanno implicato: che la articolatezza sia un tratto specifico, esclusivo, del linguaggio umano e che tutti i segni linguistici siano necessariamente articolati.

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Contrariamente a ciò che pensava Aristotele, parecchi linguaggi animali, come ad esempio quelli delle api e dei cetacei, prevedono segni scomponibili in parti dotate anch’esse di significato. Dunque anche nei linguaggi animali troviamo segni articolati. Inoltre anche tra le semiotiche umane diverse dalle lingue e dai linguaggi segnati dei sordomuti sono numerose, se non addirittura prevalenti, quelle che prevedono segni articolati. Basti pensare alle segnaletiche stradali dette verticali. Un esempio tipico già qui evocato è offerto dai sistemi di cifrazione dei numeri: dalla Cina all’India all’Europa essi si presentano come semiotiche che prevedono un inventario di cifre di base, analoghe ai monemi di Martinet, cifre di base che, secondo certe regole sintattiche, si combinano in segni articolati: #I#, #II#... #IV#, #V#, #VI#, ...#IX#, #X#, ...#XXIV#, ...#XLI#, ..., #XCII# ecc. nella cifrazione romana; #0#, #1#, #2#, ...#9#, #10#, #11#, ...#20#, ...#22#, ...#100# ecc. nella cifrazione posizionale in base dieci che diciamo araba. Una adeguata prospettiva semiotica mostra dunque che l’articolatezza non è una caratteristica esclusiva del linguaggio umano e analisi più pazienti portano a riconoscere che anche in altre semiotiche troviamo casi di doppia articolazione, analoga all’articolazione dei segni in monemi e del significante dei monemi in unità distintive minime3. Dunque la natura articolata, combinatoria, dei segni linguistici non ne è un carattere specifico ed esclusivo. Ma questa conclusione riguarda solo un lato della questione. L’altro lato, che resta troppo spesso in ombra, è l’estensione e, diciamo così, la obbligatorietà dell’articolatezza e combinatorietà nelle stesse lingue. Certamente le lingue, come abbiamo visto, sono costruite in-

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cludendo un potentissimo meccanismo combinatorio che apre loro la strada a generare frasi potenzialmente infinite servendosi di insiemi finiti di fonemi e di monemi o morfi. Ma le lingue sono di tal natura da potere anche rinunziare, ove occorra, a questa potenza. Diversamente da ciò che avviene in altre semiotiche a segni articolati, combinatori, non tutti i segni linguistici sono tali. Non tutti i segni linguistici corrispondono ai requisiti della combinatorietà e della doppia articolazione. Per rendercene conto dobbiamo guardare a due aspetti dei fenomeni linguistici. Il primo aspetto è dato dalla presenza delle interiezioni e dei fonosimboli. Si deve agli antichi grammatici latini, probabilmente al primo autore di una Ars grammatica latina, modellata sulle tékhnai greche, Remmio Palemone (5-76 d.C.), l’utilizzazione della parola interiectio «inserimento», per designare non più solo e non più tanto ogni sorta di inserzione incidentale, parentetica nel discorso, ma la specifica parte del discorso che diciamo appunto ‘interiezione’. A lui altrettanto probabilmente risale anche la distinzione tra interiezioni primarie, come eheu, o in latino o, in italiano, ih, eh, ehi, pst, uff e simili, e interiezioni secondarie, rappresentate da parole appartenenti ad altre parti del discorso usate interiettivamente, come capperi, cavolo, diavolo!, senti, vero e altre ancor più note, popolari e pittoresche. La concezione della frase come analoga alla rappresentazione di un’operazione aritmetica, logica, matematica, è certamente disturbata dal fatto non negabile (tutt’al più occultabile non si sa a beneficio di che) che nelle frasi delle lingue è presente ogni sorta di inserimento incidentale, parentetico. Anche nei livelli più ordinati e formali di esposizione usiamo interporre

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espressioni più o meno lunghe dette ‘incidentali’ che interrompono, correggono, commentano ciò che veniamo dicendo o scrivendo. Si consideri una frase come la seguente: L’individuazione della categoria delle interiezioni dovuta a Remmio Palemone – mi rifaccio all’ottima edizione dei «Fragmenta» di Antonio Mazzarino – completò il quadro delle «partes orationis». Una frase del genere non ha analogie nell’ambito dei calcoli. È come se, rappresentando una qualunque operazione aritmetica, potessimo intercalare aggiunte e commenti e assumere come accettabili sequenze quali # 3 + 7 // 93 : 33 + √49 // = 10 # Inaccettabili in un calcolo, inserimenti parentetici del genere sono possibili e comuni in ogni lingua. E tuttavia l’espressione intercalata considerata in sé risponde ancora e pur essa alle forme e regole abituali di una lingua. Interiezioni e fonosimboli rompono invece assai più radicalmente il quadro delle regolarità. Si intercalano e insinuano, con sicuri effetti di senso, nel nostro parlare, specie nel parlato più comune e abituale, spezzando ogni regolarità sintattica e fonologica. Infatti non solo sono generalmente asintattiche, ma in buona parte i loro significanti sono costruiti con materiali fonetici estranei a quelli usati per dar corpo alle unità minime indivisibili previste dall’inventario di fonemi di una lingua. Rispetto al restante vocabolario di una lingua4 le interiezioni (ma non egualmente i fonosimboli come tictac, chicchirichì, bau-bau) sono usate generalmente in un modo che sfugge alle categorizzazioni sintattico-grammaticali delle altre parti del discorso5 e, ancor più, sfug-

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gono in gran parte alla analizzabilità in fonemi e alla doppia articolazione. Di qui, come conseguenza estrema, la difficoltà di portare le interiezioni nelle rappresentazioni ortografiche correnti e la goffaggine di alcune evocazioni ortografiche: ehm ehm o pfui. E la difficoltà scrittoria è accresciuta dal fatto che una componente essenziale nelle interiezioni è l’andamento prosodico, dal grave all’acuto, dall’acuto al grave, accelerato o rallentato ecc., che al suo variare conferisce allo stesso materiale fonico (per esempio in italiano il mugolio a bocca chiusa che rappresentiamo più o meno con mmm) il valore di espressione di dubbio, di minaccia, di richiesta di chiarimento, di asseverazione, di soddisfazione. Ma anche per le variazioni prosodiche i sistemi ortografici tradizionali incontrano difficoltà a dare rappresentazioni adeguate, al di là di generiche indicazioni su interrogazione ed esclamazione. Troppo poco rispetto alle differenze intonative cui si affida tanta parte del valore semantico complessivo degli enunziati parlati e della stessa loro scansione sintattica6. Il richiamo alla significatività delle variazioni prosodiche ci riconduce a un argomento già sfiorato (cap. I): sia la progettazione sia la comprensione degli enunziati avvengono per blocchi dotati di una unità che scavalca le singole parole e i singoli gruppi di parole. Queste, nel parlato e nella pur approssimativa evocazione che ne fa un testo scritto in modo appropriato, si conglomerano come pietre che si sorreggono mutuamente entro il succedersi degli archi prosodici. La realizzazione e la percezione della complessiva gittata prosodica sono il prius della trasmissione e della comprensione di un senso centrale dell’enunziato parlato e le interiezioni primarie, facendosi carico della intera gittata, perciò possono

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sostituire efficacemente intere frasi. Se guardiamo ai parlanti reali, come qualcuno non si stanca di raccomandare7, vediamo che nella progettazione e produzione come nella ricostruzione ricettiva e nella comprensione degli enunziati si mescolano e integrano globalità non articolata e articolatezza. Un riflesso di ciò si ha nella formazione e vitalità dei ‘lessemi complessi’ frequenti nell’uso linguistico sia comune sia, anche, tecnico e specialistico. Parliamo di ‘lessemi complessi’ o, anche, di espressioni ‘polirematiche’ quando una sequenza di parole ammette, accanto a un significato ricavabile dalla articolazione delle sue parti, anche un valore globale, unitario, assai vario dall’una all’altra lingua. Ciò che chiamiamo bestia nera in italiano o bête noire in francese, a volte, ma solo a volte può essere un animale di colore assai scuro. Ciò accade quando queste espressioni hanno un valore composizionale, articolato, e corrispondono a ciò che un tedesco dice schwarzes Tier o un inglese black animal. Ma quando le espressioni italiana e francese hanno valore globale di lessema complesso, di polirematica, gli equivalenti di bestia nera non sono e non possono essere schwarzes Tier o black animal, e saranno piuttosto Schreckgespenst o pet hate o pet peeve, espressioni a loro volta non traducibili, come si dice, alla lettera, verbum de verbo. Sono questi e simili incroci e inciampi ad avere creato sensibilità intorno al problema delle polirematiche fra gli studiosi di tecniche della traduzione e di didattica delle lingue straniere. Ma l’aspetto più rilevante teoricamente è quello interno a ciascuna lingua: è il fatto che la coesistenza di lessemi complessi e di sequenze composizionali fa sì che, per fare solo un esempio scherzoso, di un abile raccoglitore di

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granchi si può dire in italiano, ma non certo in altre lingue, che, raccogliendo granchi non prende mai un granchio o di un ben educato salumiere che si guarda bene dal dare del salame ai suoi clienti. Entro la stessa lingua sequenze di eguale composizione assumono ora un valore composizionale ora un assai diverso valore globale8. Dobbiamo dunque concludere che una lingua non è definibile senz’altra specificazione, sic et simpliciter, come una semiotica a segni articolati. Dobbiamo dire che essa si configura e funziona come una semiotica a segni sia globali sia articolati o, se si vuole, a segni che possono essere articolati. Non si cesserà dal sottolineare quanta parte, anche in termini di pura quantità, hanno nelle lingue i segni articolati e l’articolatezza: la infinità potenziale dei segni linguistici, proprio in quanto articolati, schiaccia, per dir così, a percentuali quantitativamente minime la presenza dei segni linguistici non articolati o funzionanti comunque in modo globale. E tuttavia si tratta di una presenza sempre latente che impedisce di ridurre il funzionamento di una lingua a un’aritmetica, a qualcosa di decifrabile e calcolabile sempre allo stesso modo e analiticamente, parola per parola come cifra per cifra leggiamo un numero. Essa impone invece di riconoscere la natura semioticamente eterogenea dei suoi segni, ora funzionanti in quanto articolati, composizionali, ora funzionanti in tutto o in parte nella loro globalità. Se dunque consideriamo il linguaggio sotto il profilo di quella caratteristica dirimente dell’universo delle semiotiche che è l’articolatezza e combinatorietà dei segni, la realtà linguistica si presenta caratterizzata dalla sua presenza ma anche dalla sua negazione, cioè dalla presenza del suo opposto: l’inesistenza di articolazioni,

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la valenza globale di una parte dei segni (le interiezioni primarie) o l’azzeramento delle eventuali articolazioni in altri segni (le polirematiche). A un’analisi non forzata entro schemi teorici precostituiti il segno linguistico comincia a rivelare la sua natura di semeîon antilegómenon, signum contradictionis (Lc. II, 34), segno che, da una volta all’altra, imprevedibilmente, può contraddire il suo valore.

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Una semiotica non non-creativa

La comparsa nei segni e tra i segni linguistici, generalmente articolati, di parti non doppiamente articolate, come le interiezioni, oppure di apparenza articolata ma, in realtà, di significato globale, come i lessemi complessi, è solo una delle manifestazioni della imprevedibilità che accompagna i segni linguistici. Un’altra è la possibilità sempre latente di comparsa di parole nuove, inaudite. Ogni locutore di qualunque lingua viva conosce questa esperienza che si lega a una caratteristica profondamente connaturata alle lingue umane (comprese le lingue segnate dei sordomuti) e che abbiamo quasi inevitabilmente sfiorato fin dalle prime pagine: l’oscillazione continua della massa dei vocaboli di una lingua. Multa renascentur quae iam cecidere / cadentque quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, scriveva Quinto Orazio Flacco (65 a.C.-8 a.C.) nella sua Ars poetica (vv. 71-72). E Dante, quasi al termine del viaggio oltremondano narrato nella Commedia, immagina che lo stesso padre Adamo gli parli, con tutta la sua autorità, riecheggiando Orazio e confermandone l’asserto: ché l’uso dei mortali è come fronda / in ramo che l’un va e l’altra vene. Ma, come abbiamo accennato, questi auc-

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tores giovano solo a confermare una comune esperienza umana: sentire, ripetere, leggere parole nuove e, riflettendo, se ci si inoltra negli anni, rammentarsi di parole non più udite. Esperienza comune, ma, oltre che nel pratico vivere, anche teoricamente assai significativa e composta di più facce. L’oscillazione del lessico di una lingua ha anzitutto un aspetto soggettivo. In materia di vocabolario della propria lingua «nessuno nasce imparato», dice un saggio proverbio romanesco. Abbiamo ricordato come, a partire dai sei, sette mesi, i piccoli cominciano a imparare parole per loro nuove (cap. II) e continuano poi a imbattersi in parole nuove da mandare a mente prima assai intensamente, poi con frequenza decrescente. E abbiamo ricordato che, a seconda degli ambienti familiari, regionali, sociali, di lavoro e di studio ognuno costruisce un proprio vocabolario ricettivo e produttivo che solo nel nucleo delle parole di più alta frequenza e più disponibili e comuni tende a essere lo stesso di altri della stessa comunità linguistica, differendone per altri aspetti. Chiunque si inoltri in un ambiente nuovo, in nuovi argomenti è esposto a dover incontrare parole per lui nuove. Già questo è teoricamente interessante: mentre le cifre di una numerazione si riducono a un numero finito e chiuso di cifre di base, mentre i segni delle operazioni di un calcolo (⫹, ⫺, x,:, = nell’aritmetica elementare) sono una lista chiusa, le «cifre» delle frasi di una lingua, i vocaboli, sono dal punto di vista del singolo locutore una lista sempre aperta. La lista è aperta perché può accrescersi, ma può anche calare per l’oblio che cancella dalla memoria individuale parole non più sentite o dette.

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Accade così che la estensione del vocabolario di una lingua posseduto dai singoli varii molto da una persona all’altra o, meglio, da un tipo di persone all’altro: da poche migliaia per i bambini o le persone meno istruite, ad alcune decine di migliaia per chi sta compiendo studi universitari, a sessanta-ottantamila per chi li ha compiuti bene (e non è ancora entrato in un’età in cui le placche sclerotiche delle arterie cerebrali cominciano a colpire la memoria verbale, e non solo...). Queste oscillazioni soggettive si compongono, per dir così, in oscillazioni oggettive, che coinvolgono l’intera massa delle persone che usano una lingua. Un buon dizionario, anche di dimensioni modeste («monovolume» si dice nel gergo editoriale), se vuole essere utile deve contenere non solo le parole in honore, diceva Orazio, ma anche una scelta di parole oggi non più usate, ma trovabili in testi di un secolo fa o più. Sfogliamo uno dei più popolari dizionari italiani, del resto ben fatto, lo «Zingarelli», e troviamo dalla prima pagina àbavo «trisavolo», abbachista «chi ha pratica di conti», abbacone, abbadessa, abbarrare... Alcuni accompagnati da una mesta ed evidente crocetta, altri da un meno evidente disus. Sono decine di migliaia le parole obsolete che anche un dizionario dell’uso registra. E la proporzione cresce nei grandi dizionari storici. Perfino nella Divina Commedia, che ha fornito nei secoli il nerbo del vocabolario comune italiano, un italiano anche colto trova parole oramai fuori uso: abbicarsi, abborrare, accaffare, accarnare, acceffare, acclino, accoccare... Parole che vanno, parole che vengono, ma anche parole che solo in apparenza stanno e resistono. Le oscillazioni della massa lessicale hanno sia l’aspetto numeri-

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co e quantitativo più evidente, su cui ci siamo fermati, sia un aspetto qualitativo, di significato, semantico. La variabilità semantica delle parole ha di nuovo aspetti soggettivi e sociali e aspetti storici. A seconda delle professioni si creano usi speciali delle lingue per cui una parola assume in certi contesti significati assai diversi da quelli comuni. Così nella legislazione civile e penale di un paese come l’Italia tra parole specifiche del diritto e parole solo apparentemente comuni si leggono frasi mal decifrabili anche da persone di buona cultura, ma senza robusta preparazione giuridica. Non si parla di arance o pere quando il Codice civile stabilisce (art. 1483): «Se il compratore subisce l’evizione totale della cosa [...] egli deve corrispondere al compratore il valore dei frutti che questi sia tenuto a restituire a colui dal quale è evitto...»; e non di volgari cose da mangiare nei molti articoli che si occupano di alimenti o dispense (Codice civile, artt. 51, 156, 433-43, 437-47 ecc.). Chi si accosta ad ambienti di lavoro per lui nuovi o a trattazioni tecniche, specialistiche, di argomenti per l’innanzi ignoti, incontra a ogni passo casi del genere, che però, per la verità, si vorrebbero ridotti al minimo possibile in testi che, come i codici, regolano o dovrebbero regolare la vita di tutta una comunità. Meno evidenti all’esperienza comune sono le variazioni di significato delle parole più comuni. Già gli antichi filosofi greci si erano resi conto che una stessa parola ammette sensi assai eterogenei: all’interno del suo significato si notano famiglie e raggruppamenti di sensi che i filosofi di età medievale chiamarono ‘acceptiones’, ‘accezioni’, modi particolari di assumere una parola. Una parola come ente, per riprendere un esempio fatto da Aristotele appunto a proposito di tò ón, ha sensi as-

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sai diversi quando: in accezione filosofica vale «ciò che (in qualche modo) esiste»; in accezione matematica vale «oggetto astratto cui sono attribuite proprietà espresse da assiomi matematici»; in accezione giuridica vale «struttura organizzata cui la legge riconosce personalità giuridica». In questi casi per una parola un dizionario registra nel ‘lemma’ o ‘voce’ riguardante la parola non una sola definizione, ma più definizioni diverse, una per ciascuna accezione. Sull’esempio degli antichi filosofi greci, diciamo queste parole ‘polisemantiche’ o, più comunemente, ‘poliseme’ o ‘polisemiche’. Un dizionario italiano di qualche ampiezza registra decine di migliaia di parole polisemiche. Anche dizionari impostati in modo da contenere il numero di accezioni diverse mostrano che tra le parole polisemiche più di metà ha più di tre accezioni diverse e parecchie migliaia ne hanno più di cinque. Proporzioni simili si notano in tutte le lingue. E più le parole sono comuni e frequenti più ricca ed estesa è la loro polisemia: un grande dizionario in dare distingue 11 accezioni, in battere o centrale 12, in andare 14, in campo 15, in tenere 41, in fare 43, in prendere 48. In inglese (considerando dizionari come l’Oxford English Dictionary che trattano come parole diverse i verbi e i nomi o aggettivi omofoni) le parole polisemiche sono, analogamente all’italiano, circa il 30% e, come in italiano e ogni altra lingua, la polisemia caratterizza soprattutto il vocabolario comune e, ancor più, quello di alta e altissima frequenza. La polisemia registrata nei dizionari non è dunque un fatto eccezionale o patologico. Essa è il riflesso del continuo variare del significato di ciascuna parola nell’uso che ne viene fatto. Sotto la spinta dei bisogni di

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esprimersi e di intendersi i confini del significato di ciascuna parola possono ampliarsi o specificarsi disegnando nel tessuto degli usi nuovi gruppi di sensi. Ciò avviene per vie diverse. Evochiamo qui rapidamente solo qualcuno degli innumerevoli esempi. Una parola come il greco kanthòs indicava l’angolo estremo dell’occhio, la parte più esterna, il fascione esterno di una ruota. In età imperiale la parola affiorò nel latino scritto con il valore di parte più esterna ed estrema e di qui mosse la sua storia neolatina e moderna: canto come angolo di un edificio e, poi, di una figura geometrica e canto e cantone «angolo di un edificio, di una strada, cantonata di un edificio, zona ristretta di una regione, ripartizione amministrativa» e cantina «luogo appartato, ripostiglio, luogo per conservare vini...» in italiano (entrambi collidenti con canto «canzone»: ma di ciò diremo poi), cant «angolo, spigolo» in francese antico, da cui il tedesco Kant(e) «spigolo, lato di un poliedro» (e il cognome di un sommo filosofo...), e in francese moderno chant «bordo». Una parola latina come orbus (legata etimologicamente al greco orphanós «orfano») dal generale valore di «privo o deprivato di qualcosa» (e quindi anche «orfano») già nel latino tardo e poi nelle lingue romanze sopravvive specializzandosi nel significato di «privo di un occhio, cieco». In altri casi i mutamenti fonologici che colpiscono una parola nell’uso parlato e popolare, ma non nell’uso scritto, si combinano con le variazioni di significato: il latino pensare «pesare» dà luogo, attraverso sensi come «soppesare con attenzione», a pensare, pensiero, pensata in italiano, penser e pensèe in francese; ma nell’uso parlato cambia leggermente forma e conserva il senso

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antico: pesare. E putare «ripulire, nettare» (è il valore che possiamo ancora oggi riconoscere in amputare) già in latino viaggia in due accezioni: 1. «valutare con cura (un metallo)» e, quindi, poi «valutare, ritenere, pensare», donde reputare, computare, disputare, imputare ecc.; 2. «ripulire una pianta», da cui, con il mutamento fonologico parlato, potare. Come si vede le accezioni nascono l’una dall’altra in modo ragionevole, ma non prevedibile a priori, attraverso ora estensioni inizialmente metaforiche, ora restrizioni di un valore più generale a un ambito particolare. Chi appena accetti di affacciarsi sul mondo delle imprevedibili histoires de mots può guarire, se ne soffre, da ogni tentazione di concepire le parole come etichette foniche appiccicate convenzionalmente a concetti precostituiti, a idee sempiterne stanziate immobilmente nell’alto dei cieli. Con le parole e i loro gruppi di sensi vediamo costituirsi nel tempo storico, nelle accidentate vicende delle culture, in alcune lingue in un modo, in altro in altre lingue (e in altre ancora in nessun modo) le nozioni espresse oggi in italiano da parole come analisi, arte, calcolo, cifra, classe, composizione, coscienza, costituzione, credenza, dogma, legge, libertà, nazione, norma, numero, oggetto, opinione, pensiero, popolo, ragione (e razione), regola, senso, sentimento, sintesi, sistema, soggetto, struttura... Considerando il variare dei significati delle parole attraverso il tempo, in diacronia, scorgiamo il riflesso di quella pluralità di accezioni che constatiamo anche in un dato momento, in sincronia. Ed entrambi gli ordini di fenomeni riflettono la possibilità che l’uso faccia variare anche profondamente e inopinatamente i confini di significato di ciascuna parola. Come il re dell’antico

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mito condannato a trasformare in oro tutto ciò che toccava, una parola che sfiori anche occasionalmente qualcosa (oggetto, situazione, atto, persona) lo trasforma in senso e un senso qualsiasi, come il piccolo corpo estraneo intorno a cui si forma la perla, può essere il nucleo di una nuova accezione. A fenomeni del genere gli antichi retori greci dettero il nome di metonimía, parola prestata al latino e più fortunata dei tentativi di ricalcare la parola greca con forme latine, per esempio transnominatio, parola non infelice perché i fatti sono quelli di una vera e propria ‘transnominazione’: sono fatti che formicolano nel linguaggio d’ogni giorno, in casa dove capita di dire accendi l’acqua della pasta oppure il caffè o butta, cala la pasta, in automobile dove diciamo accendi il motore, in esami e concorsi in cui si dice ho fatto Manzoni e si potrebbe continuare. Un purista con fisime razionalistiche sosterrà di non dire mai cose del genere, ma di dire piuttosto cose come fa sì che (o, meglio, opera acciocché) si accenda la fiamma del fornello soggiacente alla pentola entro cui è contenuta l’acqua necessaria alla cottura della pasta o, meglio, di quel particolare impasto di farina di grano che «per excellentiam» diciamo pasta oppure come ho svolto positivamente il compito di leggere e studiare i testi delle opere di cui fu autore Alessandro Manzoni: parafrasi preziose per capire quanto, invece, la mobilità dei significati aiuta l’espressione di ciò che occorra dire. Questa estensibilità o restringibilità e questa specificazione imprevedibili sono la radice teorica di due fenomeni caratteristici del lessico delle lingue. Il primo è l’enantiosemia, lo sviluppo, in e per una stessa parola, di accezioni marcatamente contrastanti: in arabo ba’a «comprare» e «vendere», in inglese to con-

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fess «far confessione dei propri peccati, confessarsi», «ascoltare la confessione dei peccati altrui, confessare», in italiano avanti «prima di noi nel tempo», «dopo di noi nel tempo», cacciare «fare uscire fuori», «mettere dentro», in latino exspectare «essere in attesa di un evento», «desiderare un evento», in tedesco aufheben «lasciare da parte, superare qualcosa» e «conservare qualcosa» ecc.1. Il secondo fenomeno nasce per dir così dal combinarsi della variabilità e vastità della massa lessicale, mal controllabile da un singolo, con i fenomeni di variabilità dei significati. Da punti diversi parole etimologicamente diverse confluiscono in un solo significante. Nelle pagine immediatamente precedenti sono state già ricordate le due parole, inizialmente di forma significante assai diversa, canto «angolo ecc.» (dal greco kanthòs, latino canthus) e canto «canzone» (dal latino cantus, formato da cano «cantare»). Il dizionario di qualunque lingua di lunga tradizione offre simili esempi di parole di egual significante e di significato e origine radicalmente differenti. In italiano sono centinaia le coppie e talora triplette omonimiche, da abbrancare «afferrare» (da branca) e abbrancare «riunire in branco», accapponare «castrare» (da cappone «pollo castrato») e accapponare «issare l’ancora fissandola a un gancio detto cap(p)one (da capo)», addestrare «rendere destro» e addestrare «accompagnare, standogli a destra, un cavaliere», attitudine «atteggiamento» (dal latino actitudo, da actus «atto») e attitudine «capacità» (dal latino aptitudo, da aptus «adatto»), borsa «sacca di pelle o stoffa» (dal latino bursa e dal greco búrsa «pelle») e borsa «mercato pubblico per la contrattazione di merci, azioni ecc.» (probabilmente dal nome del palazzo della fami-

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glia Beursen di Bruges), buretta «tubo di vetro» (dal francese burette) e buretta «cascame di seta» (dal francese bourette, da boure «cascame di lana o seta») fino a zannata «colpo di zanna» e zannata «azione da Zanni, da buffone». Venendo da aree linguistiche e linguaggi speciali spesso lontani gli omonimi si sono inseriti indipendentemente l’uno dall’altro nella compagine lessicale. Quando le contingenze dell’uso li sospingono vicini, nello stesso campo di discorsi, sono il contesto oggettivo, la situazione, e il co-testo verbale a offrire appigli alla loro corretta interpretazione. Del resto, in più casi essi sono avvertiti dai parlanti non come omonimi, ma come varianti di una sola e stessa parola polisemica: così avviene per attitudine o per irresoluto «indeciso» e «irrisolto» e il problema teorico che pongono è lo stesso delle parole polisemiche. Un problema teorico, quello appena accennato, che si rivela assai più esteso e sistematico quando dagli omonimi assoluti, messi a lemma nel dizionario (parole di diverso significato, ma di eguale significante e che possono appartenere alla stessa categoria grammaticale), l’attenzione si sposti verso gli omonimi testuali: forme omonime che, specialmente nella coniugazione e declinazione delle lingue flessive, assumono parole di diversa categoria, come, in via d’esempio, la nota musicale, la articolo femminile, la pronome femminile, oppure faccia sostantivo femminile e faccia voce del congiuntivo del verbo fare. È bene avvertire che non si tratta di curiosità patologiche: considerando sotto questo profilo i testi di lingue assai diverse le parole omonime testuali sono presenti nei testi in percentuali che variano fra il trentacinque e il cinquanta per cento.

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L’attenzione nel precedente e in questo capitolo si è concentrata finora sul lessico delle lingue. Ma tutti i fenomeni che abbiamo individuato investono anche l’apparato grammaticale, i monemi o ‘morfi’ portatori della grammaticalità di una lingua: prefissi, infissi, suffissi, desinenze, particelle sintattico-grammaticali (preposizioni, congiunzioni). Secondo una tesi vulgata, mentre è difficile negare la variabilità lessicale, qui, nell’apparato grammaticale si collocherebbe la parte hard della lingua vista come meccanismo. Ma lo hard a un’analisi attenta si rivela anch’esso soft. Se osserviamo l’italiano, ma osservazioni analoghe sono state fatte per altre lingue specie se non si considerano nella sola variante scolastico-normativa, si trovano tutti i fenomeni che in questi due capitoli abbiamo visto caratteristici del lessico. In italiano, come nel restante vocabolario, si trovano formazioni polirematiche anche tra congiunzioni e preposizioni: a causa di, a motivo di, durante, attraverso, in luogo di, invece di, mediante, per mezzo di, per via di ecc.; dal momento che, dato che, nella misura in cui, nel modo che, qualora, visto che ecc. Una stessa generazione di locutori può vedere oscillare significante e significato di morfi grammaticali, così avvenne in Italia tra Ottocento e Novecento per le forme io aveva, era, amava e io avevo, ero, amavo poi prevalse. Riacquistano accettabilità forme già presenti in passato e poi tenute ai margini dell’uso colto, come il che che diciamo ‘polivalente’ (mi ritrovo che ho perduto il treno). La polisemia, con l’omonimia (sono è prima persona singolare e terza plurale), è largamente presente e così l’enantiosemia: per esempio in italiano la preposizione da ha sensi opposti in Stefano va da Luigi e in Stefano viene da casa di Luigi (l’intera sequenza Stefano viene da Luigi è enantiosemi-

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ca). La coniugazione non è compattamente presente, come la norma grammaticale richiederebbe, nell’uso effettivo di locutori anche di buon livello culturale, oscillano in particolare forme e utilizzazione effettiva dei passati remoti, di molti participi passati, dei modi finiti non indicativi. A questo punto, dinanzi a una così estesa presenza di forme equivoche (e ancora non ne abbiamo individuato tutti i tipi), dalle parole poli- ed enantiosemiche agli omonimi assoluti agli omonimi testuali, è giusto chiedersi: come mai essa non impedisce lo scambio linguistico, la conversazione, la lettura? Come mai la presenza così ampia sfugge alla consapevolezza comune (e perfino a quella di alcuni studiosi)? La risposta, come vedremo nel prossimo capitolo, ci viene in buona parte dal considerare in questa prospettiva caratteri della lingua e del suo concreto funzionamento nella produzione di enunziati, discorsi e testi e nella loro effettiva comprensione. Un punto tuttavia possiamo considerare acquisito e va reso esplicito per meglio formulare le domande poste più su. Fra anni trenta e cinquanta matematici e logici hanno elaborato una teoria rigorosa della ‘calcolabilità’ e hanno definito i requisiti per cui un insieme di simboli significativi possa considerarsi un calcolo. Queste elaborazioni dovrebbero essere tenute sempre ben presenti nello studio delle semiotiche naturali e, in particolare, delle lingue. Incontreremo tra breve altri requisiti formali dei calcoli. Qui richiamiamo il primo, condizione necessaria di tutti gli altri. Perché un calcolo sia tale i suoi simboli (o, come anche si dice, i ‘vocaboli’ del suo ‘vocabolario’) e le regole di connessione dei simboli nei suoi segni devono avere il requisito di non variare nel corso delle opera-

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Prima lezione sul linguaggio

zioni cui il calcolo dà luogo. Le regole devono costituire insiemi chiusi e, per quanto riguarda i simboli, questi devono essere di significato distinto e stabilmente univoco. I teorici della computabilità definiscono ‘noncreativi’ tali insiemi e chiamano ‘non-creatività’ il requisito della chiusura di simboli e regole. È chiaro che una lingua, come si è visto, è ben lontana dal rispondere a tale requisito. Diversamente dalle cifrazioni e dai calcoli essa appare dunque come una semiotica creativa, nel senso rigorosamente matematico di tale termine. Per rimarcare tale senso, ed evitare equivoci e abusi cui il termine creatività può dare luogo, conviene dire e concludere che una lingua è una semiotica non noncreativa. Prima di procedere oltre è utile fermarsi un istante almeno su un punto. In quanto semiotica non-creativa che combina unità date e fisse secondo certe regole, in modo sistematico, e però anche in quanto semiotica non non-creativa, che ammette l’abbandono di vecchie forme e l’introduzione di nuove, una lingua comporta il convergere di diverse forme generali, pre- e non linguistiche, dell’intelligenza umana: l’intelligenza combinatoria, naturalmente, e l’intelligenza propriamente creativa, capace di produrre e intendere ciò che sia radicalmente nuovo. Ma l’una e l’altra forma di intelligenza non sussisterebbero senza un’altra capacità e intelligenza: la capacità di mimèsi, l’imitazione. Senza capacità imitativa non si entra in una lingua, né in altre semiotiche, e non la si domina.

IX.

Gli argini della non non-creatività

Possiamo ora riproporre le domande formulate più su. Nella comunicazione affidata a calcoli, per esempio alla rappresentazione delle operazioni dell’aritmetica elementare che quasi tutti conosciamo, produzione e comprensione si svolgono in modo automatico. Dobbiamo preliminarmente apprendere: (1) i valori dei ‘vocaboli’ di base, cioè d’abitudine le cifre della cifrazione araba e, quindi, per far questo, dobbiamo preliminarmente apprendere i valori delle dieci cifre di base, da 0 a 9, e le regole della loro combinazione nelle infinite cifre che ci danno appunto i valori degli infiniti numeri; (2) dobbiamo apprendere i valori dei quattro segni + - x: (cioè, da un punto di vista semiotico, morfi sintattici) che indicano le operazioni da fare sui numeri e il valore del segno = che stabilisce l’equivalenza tra i numeri su cui si è operato e la cifra che dà il risultato dell’operazione. Una volta appreso ciò, di solito nei primissimi anni di scuola, la produzione e comprensione si svolgono in modo automatico per un numero potenzialmente infinito di addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni. Grazie alla automaticità è stato possibile costruire e programmare congegni meccanici che, una volta im-

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Prima lezione sul linguaggio

messi i dati di una operazione (in termini semiotici: un segno di cui si cerca l’equivalente più breve e semplice possibile), sono capaci di eseguire calcoli in modo automatico e offrire il risultato senza alcun ulteriore intervento umano. La garanzia di questa automaticità è la non-creatività di cui parlano i matematici e teorici del calcolo. Forma significante e significato delle cifre non devono variare o, come accade per le infinite cifre arabe possibili, devono essere automaticamente riducibili per tutte le infinite cifre a un numero finito di cifre di base, le dieci cifre, che non possono variare di numero, forma, significante e significato. E così non devono variare numero, forma e valore dei simboli delle operazioni. Se trovassimo cifre non riducibili a quelle prefissate o simboli imprevisti, il calcolo, anche di apparenza più semplice, si bloccherebbe: quanto fa 3 + )( =? E 7 - @ sarà o no eguale a 2? E potremmo dire che 7 + 4 = 14 è giusto perché, in questo contesto, 4 è nella accezione di 7 oppure perché + 4 è una polirematica che, nell’insieme, equivale a + 7? Oppure è giusto perché 14 è un omonimo di 11? Oppure è giusto perché 7 + 4 ha «un’intonazione ironica» e vuol dire in realtà 7 + 7? E potremmo dire che @ è una interiezione con cui «intendiamo dire», in questo contesto, 3 e che, quindi, va bene 7 - @ = 4? In riferimento a un calcolo tutte queste domande hanno risposta ovviamente negativa e anzi suonano ridicole. Nei calcoli non c’è spazio per interiezioni, per variazioni prosodiche, per cifre o simboli non riducibili a quelli di base, per omonimi e polisemi, per polirematiche, per novità o oscillazioni di significato. Se e quando si pone la necessità di una novità, e ciò è avvenuto più volte nella storia dei calcoli, è necessario, per

IX. Gli argini della non non-creatività

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accoglierla, costruire un altro e nuovo calcolo, che esso di nuovo sia però non-creativo. In riferimento alle frasi delle lingue e alle lingue domande analoghe hanno invece risposta positiva. Dobbiamo dunque abbandonare l’idea che una lingua sia un calcolo e le sue frasi siano operazioni di un calcolo. Ma le domande formulate sul finire del cap. VIII ci si ripropongono. Come mai la non riducibilità a calcolo e la non non-creatività delle lingue non impediscono lo scambio linguistico, la conversazione, la lettura? Non solo, a quanto pare, la produzione di enunziati non viene bloccata, ma nemmeno la comprensione è disturbata dai fenomeni che abbiamo più volte evocato, inaccettabili nello sviluppo e nella lettura di un calcolo: il senso fluttuante delle fonologicamente sfuggenti interiezioni, il minimo variare di un’intonazione, il concrezionarsi di più parole in un significato unico, il significato variato e nuovo di una parola, il significato appropriato di un omonimo assoluto, il susseguirsi continuo di omonimi testuali. E come mai la presenza così ampia dell’incalcolabile e imprevedibile sfugge spesso alla consapevolezza comune (e perfino degli studiosi)? È la lingua stessa, una qualunque lingua, che offre, nella sua natura, nel suo essere, i mezzi per fronteggiare la non non-creatività, l’emergenza di oscillazioni e novità d’ogni genere. Individuare questi mezzi aiuta a costruire risposte attendibili alle domande che ci ponevamo e ci porta nel cuore profondo delle lingue. Un primo mezzo per fronteggiare la non non-creatività, un primo bilanciamento ai rischi di incomprensione che essa potrebbe comportare, è dato dal fatto che, diversamente dai calcoli, le lingue prevedono formalmente l’ancoraggio delle frasi e degli enunziati alla si-

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Prima lezione sul linguaggio

tuazione in cui si realizzano. È un ancoraggio molteplice e complesso perché con il termine e l’etichetta unica di ‘situazione’ ci riferiamo a realtà eterogenee: la persona che realizza un enunziato; le persone cui l’enunziato può essere destinato; la condizione materiale, ma anche anzitutto linguistica e, poi, sociale e antropologica, perfino storica in cui l’enunziato si realizza ed è destinato a essere ricevuto. A sua volta il termine ‘condizione’ unifica realtà molteplici: il ‘co-testo’, e cioè il collegamento con enunziati precedenti e seguenti, della stessa o di altre persone, enunziati anche lontani più o meno esplicitamente evocati (i ‘discorsi riportati’, gli ‘infratesti’, i ‘memi’); e il ‘contesto’, e cioè l’ambiente materiale, sociale, antropologico, storico, ma anche la presumibile conoscenza di tale ambiente da parte dei partecipi alla comunicazione. Torneremo su alcuni di questi elementi eterogenei. Fermiamoci ora sulle modalità con cui i segni linguistici si ancorano alla situazione in cui si realizzano. In parte si tratta di modalità del tutto intuitive, senza riscontro nella forma dei segni e, in tal senso, informali. Gli esseri umani di una data comunità linguistica non hanno alcun imbarazzo nel comprendere il valore di interiezioni come uff o pst che odano, di una scritta SALUMI o USCITA. E neanche ne hanno nel comprendere segni come #per di qua#, #là#, #da questa parte#. Nella forma dei segni non c’è nulla che ci orienti a capire che uff in un caso va compreso come rifiuto di andare al cinema e in un altro come percezione della ponderosità di una lezione oppure della noia di un film; oppure a capire che SALUMI vuole dire di volta in volta che in un certo esercizio si vendono e comprano salami e mortadelle oppure che in un certo edificio si fabbrica-

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no. Se capiamo è perché la nostra conoscenza linguistica si è formata assimilando la conoscenza e l’esperienza dei processi, delle pratiche sociali e culturali e, beninteso, dei vincoli materiali, fisici, biologici, entro cui ci muoviamo e si muovono le altre persone della nostra comunità. Un fondamentale aiuto informale alla comprensione e produzione degli enunziati è la loro integrabilità nel parlato con le diverse modalità della gestualità, nello scritto con modalità grafiche e iconografiche. L’integrazione del parlato con le posture del corpo, le espressioni del volto e i gesti, particolarmente sviluppata nella tradizione scenica greca e latina, era un fenomeno ben noto agli antichi trattatisti di oratoria e Quintiliano dedica a essa ampio spazio e acute osservazioni nelle Institutiones oratoriae (I, XI 3, 16; XI, III 63 sgg., 88 sgg. ecc.). La lunga disattenzione al «parlante reale» (vedi n. 7 del cap. VII), il «grafocentrismo» di fatto di gran parte delle analisi linguistiche, i tabù verso le lingue dei segni dei sordomuti hanno pesato a lungo negativamente nel definire i modi di diverso rilievo formale con cui posture, gesti ed espressioni facciali pesano nell’appoggiare e scandire, come la prosodia, gli enunciati, nell’integrarli semanticamente, come è stato mostrato da un acuto studioso americano della gestualità «napoletana», Adam Kendon, infine nel sostituirli sia con la gestualità non articolata di tipo appunto napoletano o amerindiano sia con le articolate e strutturate lingue dei segni. Qui non interessano tanto queste ultime, lingue a pieno titolo come le altre a dominanza fonico-acustica e, per un buon terzo delle seimila lingue del mondo, anche grafica, ma interessa l’appoggio informale che il corpo e i gesti danno alla produzione e comprensione di enunziati1.

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Prima lezione sul linguaggio

Pur rapidamente, occorre ricordare che l’impostazione grafica degli enunziati e testi scritti e la loro correlazione con immagini è, nella pratica grafica migliore, importante per favorire produzione e comprensione dei segni linguistici scritti tanto quanto lo sono intonazione e gestualità nel parlare. Il peso della valutazione intuitiva di ciò che non ha posto nella forma del segno, ma che della realizzazione del segno è complemento ineliminabile, è rilevabile in ogni processo di comprensione, dai segni assai semplici che abbiamo evocato, a quelli più lunghi e complessi. Consideriamo alcuni di questi segni più lunghi e complessi: #C’è una porta aperta qui# #Per correr miglior acque alza le vele/omai la navicella del mio ingegno/ che lascia dietro a sé mar sì crudele# #Nel tempo, dunque, nessuna conoscenza in noi precede all’esperienza, e ogni conoscenza comincia da questa# Ciascuno di essi, strappato alla situazione in cui si realizza, ammette riformulazioni che, per ciascuno, sono profondamente diverse per esempio a seconda delle accezioni in cui supponiamo usate le parole porta, aprire, navicella, ingegno, nel tempo. I segni più lunghi e complessi sono equivoci non meno dei semplici e brevi citati più su. E anche nel comprendere questi in un modo o nell’altro dobbiamo fare e facciamo appello alla loro situazione di realizzazione, al legame tra il formalmente detto e il non detto che lo circonda. E tuttavia tra i brevi segni anzidetti e questi una differenza rimarca-

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bile c’è: in questi sono presenti elementi di un apparato grammaticale che aiuta a circoscrivere e orientare la ricerca del loro ancoraggio alla situazione. Nel primo segno c’è e qui orientano verso il presente e il vicino, omai «ormai», mio e sì orientano a cercare in ciò che prima è stato detto dalla stessa persona che parla la chiave per intendere che cosa saranno mai le miglior acque, le vele e la navicella del mio ingegno e il mar sì crudele. Il terzo segno col suo dunque ci orienta a cercare in ciò che immediatamente la precede le sue ragioni e l’accezione giusta da dare a nel tempo per evitare sensi facilmente dimostrabili come falsi. È questo uno dei tre grandi compiti cui, pur nella loro estrema diversità da una lingua all’altra, assolvono gli apparati grammaticali (desinenze, pronomi personali e dimostrativi, avverbi deittici): portare nella forma del segno linguistico e rendere esplicito il rapporto tra l’enunziato che realizza il segno e la situazione in cui la realizzazione avviene; e, in tal modo, offrire nella forma del segno alcuni points de repère, alcuni benchmarks al processo di comprensione orientandola. In tal modo le frasi di una lingua possono esprimere quel che non c’è nelle formulazioni dei calcoli, apersonali, atemporali, atopici: il riferimento formale alle persone coinvolte nell’enunziazione e rispetto a cui l’enunziazione prende posizione, l’io e il tu, il lui e il voi, e poi, ancora, a seconda delle lingue, il qui e ora o il poi e il lontano rispetto alla realizzazione dell’enunziato. È la concreta vita dei parlanti quella che entra a forza, attraverso la grammatica, nella forma dei segni linguistici. Il secondo compito della grammatica, di solito tradizionalmente più riconosciuto, è quello di rafforzare la coesione delle parti, cioè dei morfi, che compongono il

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Prima lezione sul linguaggio

segno. Qui un complesso di norme sottili e variabili da una lingua all’altra stabilisce quale è la collocazione del morfo o dei morfi che marcano, per esempio, il plurale o il singolare o altre valenze sintattico-grammaticali di un morfo lessicale. Tale collocazione segue il morfo lessicale come in SALUMI, lo precede come può avvenire nel francese parlato e, per i verbi, avviene in parte anche nello scritto, oppure si intreccia con esso come in una parola di una lingua semitica o bantu o, infine, manca del tutto e lascia, eventualmente, a più ampi contesti la eventuale determinazione di certi valori, per esempio del maschile, femminile o neutro di un morfo sostantivale in inglese e, per tante parole, anche in italiano e altre lingue. Qui la grammatica può dare la sensazione di una costrizione: non si può dire in italiano (almeno per ora) isalum, eacqu, ma si deve dire salumi, acque. In realtà, essa è uno strumento di libertà, oltre che di intesa: è alla grammaticalità che affidiamo, che possiamo affidare la connessione tra parole anche lontane nella frase attraverso il loro accordo. Naturalmente qui vediamo riaffiorare l’efficacia della ridondanza: per fare solo un esempio in una frase come Le ragazze che ora sono uscite erano davvero graziose rimarchiamo quattro volte la femminilità del soggetto e sei volte la pluralità. La grande ridondanza assicura la coesione delle parole anche lontane nella sequenza. Infine viene il terzo compito che in generale troviamo assolto in tutte le lingue: la grammatica divide le parole di una lingua in classi, le parti del discorso, e può prevedere apposite marche da cui ricavare l’appartenenza di una parola a una o altra classe. Di nuovo ci tro-

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viamo dinanzi a un apparente limite e a fatti di ridondanza che orientano e facilitano però la comprensione. E tuttavia tutto ciò può non bastare per dissolvere ambiguità e, come usa dire, disambiguare le frasi. Linguisti si sono dati a cercare esempi di sequenze di morfi le quali sono perfettamente grammaticali, e tuttavia altrettanto perfettamente ambigue a vario titolo, cioè per un motivo o per l’altro risolvibili in parafrasi completamente differenti a seconda dei contesti: tali sono frasi come Flying planes can be dangerous o una vecchia legge la regola. Ma non ci sono solo queste frasi trabocchetto: la necessità di muovere da una forma già realizzata per renderne o per chiedere che ne sia reso meglio esplicito il contenuto, il significato, si pone a ogni passo della nostra vita linguistica. In questa esigenza che possiamo definire primordiale, se primordiale, biologicamente primordiale è la necessità di convivere in una comunità e dunque di capirci con parole, ha radice l’altra proprietà delle lingue che a ogni passo bilancia i rischi della incomprensione legata alla non non-creatività. È la proprietà che abbiamo più volte sfiorato nel ragionare di lingue e parole e che chiamiamo con i nomi astrusi e misteriosi (e non solo per i profani) di ‘autonimia’ e di ‘metalinguisticità riflessiva’. Ed è forse la più banale e insieme più specifica proprietà dell’intelligenza linguistica degli esseri umani. Della sua presenza si avvidero già gli occhi acutissimi dei logici antichi, che si dettero a sottili dispute intorno a Epimenide. Epimenide, personaggio mezzo storico, secondo Platone e Aristotele, mezzo mitico secondo minori autorità, era per antonomasiam, per eccellenza, un gran bugiardo. Si rideva delle favole che raccontava: che poteva andarsene a zonzo fuori del suo corpo,

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che una volta aveva dormito 57 anni di seguito, che aveva la venerabile età di 157 anni, a volte, oppure di 299, e grazie a ciò era stato presente ad Atene nel 600 a.C. in veste di purificatore (lo assicura Aristotele) e poi verso il 500 a.C. per rilasciare alcune profezie (lo riferisce Platone). Un bugiardo, dunque. Che succede, si chiesero gli antichi logici da Aristotele a Teofrasto e Crisippo, se il gran bugiardo dice «Io mento»? Assumiamo come vera la sua affermazione? Intendiamo che il bugiardo sta finalmente gettando la maschera e dicendo per una volta la verità? Ma, allora, se sta dicendo la verità e però dice «Io mento» vuol dire che sta davvero mentendo. Ma, se sta mentendo, allora è vero che sta mentendo e cioè è vero che sta dicendo la verità, cioè non è vero che mente... Assumiamo come falsa la sua affermazione? Ma, allora, se l’affermazione è falsa, il bugiardo ancora una volta sta mentendo, ma, se sta mentendo, non è vero che la sua affermazione è falsa, essa è vera, con le inestricabili conseguenze già segnalate. Sia essa vera o sia falsa, l’affermazione di Epimenide ci caccia in un susseguirsi di contraddizioni da cui gli antichi non sapevano come uscire e uno di loro, Filita di Coo (340-285 a.C.), a furia di non dormir la notte per risolvere il problema ne morì. Come Epimenide, anche il caso logico del Mentitore è restato a dormire a lungo, finché al Cretese bugiardo non si affiancò un topo in vesti latine, dunque un mus. Ma mus non è solo un topo, è anche una sillaba della lingua latina. Dunque, osservarono gli scolastici, possiamo ben dire che mus est syllaba, ovvero, potremmo noi dire, topo è un bisillabo. Ma, ed è inconfutabile: syllaba non rodit caseum, «i bisillabi non rodono formaggio». Dunque, è ben dicibile e vero che mus non ro-

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dit caseum, «topo non rode formaggio». Gli scolastici, tra cui Guglielmo di Shyreswood, san Tommaso d’Aquino e il grande predicatore san Vincenzo Ferreri, se la cavarono assai meglio del povero Filita di Coo. Essi si resero conto della proprietà di cui andiamo dicendo. Nelle frasi di una lingua una parola può apparire in una duplice funzione o suppositio. C’è la suppositio materialis, per cui una parola figura come nome della parola stessa, come quando diciamo (l’esempio è di san Tommaso) Corro è un verbo oppure mus est syllaba. E c’è la suppositio formalis, come quando usiamo correre, mus o topo per esprimere il loro significato, «andar di corsa», «mammifero roditore (in latino)», «mammifero roditore (in italiano)». Nel sillogismo le due supposizioni vanno tenute ben distinte e genera errori confondere l’una con l’altra come nel sillogismo del topo. Con ciò, osservava un grande logico del Novecento, il domenicano polacco Joseph Bochenski (n. 1902) nella sua bella Formale Logik, i logici scolastici si aprirono e ci aprirono la strada verso la distinzione novecentesca tra linguaggio e metalinguaggio, riferimento e autoriferimento, maturata tra i logici e i filosofi del positivismo logico e collegata alla teoria dei calcoli di cui già abbiamo accennato. Per evitare antinomie e falsi sillogismi come quelli accennati e altri individuati dai logici, un linguaggio formale o un calcolo devono escludere dai loro segni ogni autoriferimento, ogni segno che parli dei segni stessi. Tutti i simboli devono essere, per dirla con gli scolastici, sempre e solo in suppositio formalis. Se si vuole parlare in modo formalmente corretto dei simboli, delle regole sintattiche, degli usi di una lingua A è possibile farlo, ma occorre costruire un nuovo linguaggio formale, un nuovo calcolo più potente della lingua

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A, nel senso che ha come suo contenuto, come suoi significati i simboli della lingua A e altri simboli in grado di nominarli e descriverli. Questa seconda e più potente lingua B è il metalinguaggio di A. Per essa, naturalmente, vale la stessa regola. La lingua B non ammette autoriferimenti e possiamo parlare in modo formalmente corretto dei suoi simboli solo attraverso un ulteriore metalinguaggio C che assuma la lingua B a suo oggetto, e così via. Uno dei motivi (non l’unico) per cui logici e matematici fin dagli anni trenta del Novecento hanno abbandonato l’idea di trattare una lingua naturale come un linguaggio logico, un calcolo, è stata la constatazione della presenza fisiologica della autonimia e dell’autoriferimento nelle frasi ordinarie di qualunque lingua, in cui tutte le parole e parti di parole possono apparire secondo la suppositio materialis, come nomi di se stesse, ed è possibile parlare di una lingua con la stessa lingua. Contro la regola logica della distinzione di piani tra linguaggio e metalinguaggio, tutte le lingue umane sono ciascuna metalingua di se stessa, ogni lingua umana è dotata della possibilità di ripiegarsi su se stessa, di riflettere sé in sé e cioè di usare in modo metalinguistico riflessivo ogni sua parte e ogni suo uso. Ciò che dal punto di vista della costruzione di calcoli e linguaggi formali è un errore, un vizio da evitare, è non solo presente nell’uso delle lingue, ma è una proprietà preziosa. Ogni volta che temiamo di non essere compresi, ogni volta che non comprendiamo, citiamo le parole già dette o che ci accingiamo a dire, le glossiamo e commentiamo, ne chiediamo o chiariamo il significato e la forma. Dove la non non-creatività crea il rischio di opacità e dissociazioni nell’uso, la metalinguisticità ri-

IX. Gli argini della non non-creatività

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flessiva ci permette di dare e chiedere spiegazioni, di fare e ottenere chiarezza, di ripristinare il processo della mutua comprensione e del dialogo. Come ha mostrato e amava rammentare Guido Calogero (1904-1986), il grande studioso italiano di storia del pensiero antico e di filosofia2, dai tempi di Socrate, del suo paziente dialégesthai «discutere, dialogare» sulla piazza del mercato di Atene, è nel dialogo che si verifica l’effettività della mutua comprensione e si manda a effetto, aggiungiamo, quella coralità di apporti conoscitivi e etico-politici che proprio attraverso la lingua, con i suoi vincoli e le sue libertà, una comunità garantisce a se stessa.

X.

La creatività linguistica tra determinatezza e indeterminatezza

Vincoli e libertà, come si è detto al termine del capitolo precedente: così ci si presenta una lingua se delle lingue facciamo esperienza senza precluderci di osservare ciò che in essa vi è di regolare e obbligante per ciascun locutore e ciò che a ogni passo essa consente di innovare, nelle forme significanti come nei significati. Uno dei maggiori teorici del Novecento, secondo molti il maggiore, che già abbiamo menzionato, Noam Chomsky, non mancò di sottolineare una volta questa coesistenza di creatività regolare, per lui essenzialmente sintattica, e di creatività travalicante le regole, anche se ha legato poi gran parte del suo impegno alle ricerche su ciò che di riducibile a regole e a regole naturali, universali, vi è nelle lingue. Questa coesistenza non è una giustapposizione. Le lingue sono profondamente diverse tra di loro per forme significanti combinatorie e per forme non doppiamente articolate o prosodiche, per significati cui danno cittadinanza stabile nei morfi, per grammaticalità e sintassi. E, dove possiamo osservarne il divenire su ampi tratti temporali, vediamo che ciascuna lingua può conoscere le più imprevedibili avventure: può trasformarsi profondamente assimilandosi ad altre, come è av-

X. La creatività linguistica tra determinatezza e indeterminatezza

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venuto per l’arabo a Malta, latinizzatosi, o per il persiano moderno, semitizzatosi profondamente; può frangersi in tradizioni linguistiche tra loro molto diverse, come è avvenuto al latino; può muovere da un tipo linguistico verso un altro radicalmente diverso, come è avvenuto all’inglese, passato dal tipo linguistico «sintetico» dell’antico germanico e indoeuropeo a un tipo sempre più marcatamente analitico; può fondersi con un’altra dando luogo a una terza e nuova lingua, d’ambito d’uso ristretto, per esempio, di solito, meramente commerciale, come i pidgin, o d’uso generalizzato, come il suahili o le lingue creole. Si può discutere e si è discusso a lungo su quanto questi mutamenti imprevedibili intacchino o no principi universali, costitutivi di ogni lingua umana. Certo i mutamenti sono così importanti che, se anche li supponiamo incanalati entro principi universali, la distanza tra questi e l’immensa variabilità di ciò che pur è regolare in ciascuna delle lingue è tale da non consentire di vedere nelle lingue, compresa, ripetiamo, la loro parte più regolare e regolata, la mera proiezione dei presunti principi universali. La sola chiave esplicativa dei mutamenti e delle diversità sta nel vedere in essi la sedimentazione millenaria di quella variabilità d’usi, di quella componente non non-creativa, che vediamo all’opera in ogni lingua che conosciamo come viva e che risponde, come le regolarità, a esigenze profonde del comunicare con parole. Ciò si dimostra particolarmente vero sul versante semantico. In forma di constatazione o di assioma più volte è stato affermato da filosofi, logici, teorici, che non possiamo a priori dettare limiti a ciò che può essere dicibile in una lingua: assai diversamente da ogni altra semiotica nota, e in particolare dai linguaggi formali e lo-

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Prima lezione sul linguaggio

gici e dai calcoli, i sensi circoscritti dai significati di qualunque altra semiotica e di qualunque lingua sono traducibili nelle frasi e nei segni di una qualunque lingua. Il lavoro della traducibilità, della messa in opera delle innovazioni che possono condizionare preliminarmente concrete traduzioni, può comportare tempi lunghi: la patrii sermonis egestas evocata da Lucrezio può rendere difficile il lavoro di dire nuovi contenuti: ché non è impresa da pigliare a gabbo / discriver fondo a tutto l’universo / né da lingua che chiami mamma o babbo. Eppure il compito tante volte è stato assolto attraverso le generazioni e gli anni, quanti sono necessari a far sì che un idioma appartato e rispondente a esigenze locali di sopravvivenza quotidiana sia reso capace di dar forma ai contenuti espressi dai Vangeli o da Shakespeare nei suoi drammi o da Kant nelle Critiche. Sotto i nostri occhi troppo spesso distratti dai fantasmi della globalizzazione linguistica migliaia di lingue, tra gli anni settanta del Novecento e questi nostri anni, sono passate dallo stadio di lingua soltanto parlata in funzione di esigenze e tradizioni locali allo stadio di lingue capaci di ospitare una traduzione dell’Antico Testamento e dei Vangeli. E si danno casi in certo senso inversi ma non meno interessanti: lingue che, per riprendere l’immagine d’uno scrittore italiano del tardo Settecento a proposito della sua lingua, lingue che «si giacevano morte nei libri», come l’ebraico e, fuori di Toscana, l’italiano, hanno conosciuto una straordinaria dilatazione del campo del dicibile giungendo ad abbracciare ogni occorrenza semantica della vita quotidiana e degli sviluppi tecnico-scientifici più avanzati. La cellula prima di tutto ciò sta in quei fenomeni di allargamento del significato di ciascuna parola e morfo

X. La creatività linguistica tra determinatezza e indeterminatezza

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e di introduzione di nuove parole che abbiamo osservato nel cap. VIII. Il nucleo è la plurideterminabilità dei significati di ciascun morfo, la violabilità di ogni previa determinazione, proprietà che, in modo fastidioso per alcuni, è stata chiamata ‘indeterminatezza semantica’. Tale inderminatezza trova nella metalinguisticità riflessiva il modo di incanalarsi nell’alveo dell’uso comune. L’indeterminatezza è la matrice dell’ampliabilità semantica delle parole. Grazie a essa le lingue realizzano il principio dell’onniformatività semantica: a priori non vi sono limiti alla ‘dicibilità’, al campo di cose dicibili in e con una lingua. E, soprattutto, dall’inderminatezza nasce il continuo oscillare e diversificarsi delle lingue nel tempo e, di conseguenza, nello spazio. Ma poggiano su questi aspetti creativi non regolati a priori anche gli usi più rigorosamente razionali, gli usi giuridici, scientifici, logico-matematici delle parole. Se parole come forza o corpo o piano o circolo, come raggio e stato e condurre e muovere non avessero goduto, come ogni altra, di una plastica plurideterminabilità, non sarebbero state possibili le costruzioni più rigorose del pensiero scientifico che da queste e analoghe parole hanno preso le mosse determinandole poi variamente a seconda dei diversi ambiti di pensiero1. Per queste loro proprietà, per la loro deformabilità semantica che ci permette di farle aderire a ogni nostra esperienza, anche la più nuova e stravagante, e insieme per il loro coesistere regolatamente con altre, le parole, come abbiamo visto nei primi capitoli, possono accompagnare ogni momento della molteplice vita degli individui e delle comunità. Ma per intendere a fondo questo nesso tra il linguaggio e il vivere dobbiamo guardarlo in ogni suo aspetto, in ogni sua manifestazione. Non

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Prima lezione sul linguaggio

badare solo alle innovazioni non regolari, come sostenevano di fare i vecchi linguisti che si richiamavano a Croce. E nemmeno dobbiamo chiudere gli occhi dinanzi a tutto ciò che allontana una lingua e le sue frasi da un calcolo statico, atemporale e impersonale. Naturalità e storicità, articolatezza e globalità, regolarità e invenzione coesistono o, meglio, si fondono in ogni lingua, frase, enunciato. Avevano ragione i Greci, li dobbiamo ricordare ancora una volta, quando con un’unica parola tratta da légein «dire», e cioè con l’unica parola lógos, abbracciavano la facoltà di ragionare, misurare e computare e quella del parlare visto in tutta la sua estensione. Per loro lógoi erano volta a volta le favole e i racconti documentati, le canzoni e le prose, i miti e le trattazioni argomentate, il dire più trito e il più nuovo, il più freddo e il più appassionato, il falso e il verace, il più confuso o approssimativo e il più rigoroso, il più triviale e quello sacro degli oracoli e del «dio ignoto». Già sul finire dell’età arcaica dal filosofo Melisso di Samo il lógos poteva venir detto mégiston semeîon, «il massimo segno». È così: per la sua latitudine funzionale il lógos può esserci compagno in ogni occorrenza e direzione. Solo grazie a esso, alla sua capacità di dilatarsi a significare ciò che ancora non ha già trovato espressione in nuove e specifiche parole e nei rigorosi termini di qualche scienza, possiamo tuttavia sempre «lottare contro l’inesprimibile» con i mezzi di cui già disponiamo e cominciare a dare conto e a renderci conto delle molte cose che, nel succedersi delle diverse epoche, «your philosophy», dice Amleto a Orazio (I, vv. 166-67), non seppero e non sanno nemmeno sognare «in heaven and earth». E del resto, come risorsa estrema del lógos, chi parla può intralciare la sua stessa parola e interromper-

X. La creatività linguistica tra determinatezza e indeterminatezza

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si e dare senso anche al tacere2: Spesso in un dir confuso / e ’n parole interrotte / meglio si esprime il core / e più par che si mova, / che non si fa con voci adorne e dotte: / e ’l silenzio ancor suole / aver prieghi e parole.

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Capitolo primo 1 Un ramo importante della linguistica è la lessicologia, lo studio del lessico, cioè dell’insieme delle parole delle lingue. Essa si avvale largamente della lessicografia, che è un ramo della linguistica applicata. Taluni linguisti la guardano con una punta di disprezzo. La lessicografia infatti si occupa delle tecniche con cui costruiamo i dizionari delle varie lingue e della loro effettiva costruzione: la costruzione non può non avvenire tra mille problemi anche assai pratici e la purezza dei sublimi veri lessicologici e della linguistica teorica si sporca al contatto con i sudici fatti. Ma la lessicologia non avrebbe materia prima (e anche parecchie idee teoriche) senza la materia fornita dall’umile lessicografia. Torniamo a questa. Ci sono molti tipi di dizionari. (1) Anzitutto i più diffusi e antichi, i dizionari bilingui, che mettono in rapporto le parole di lingue diverse: accadico e ittito, accadico e egiziano antico (gli scribi ne produssero fin dal II millennio a.C.), italiano e latino e viceversa, italiano e inglese e viceversa, francese e inglese o tedesco e viceversa ecc. (2) I dizionari etimologici, date le parole di una lingua, ricostruiscono o la derivazione ‘interna’ alla lingua stessa (andamento deriva da andare ecc.) o la derivazione da parole di altre lingue sia più o meno coeve (abbandonare deriva in italiano dal francese abandoner) sia più antiche, da cui nasce gran parte del corpo di una lingua, come dal latino nascono le lingue neolatine e romanze, tra cui l’italiano, e i dizionari etimologici ci dicono allora che, per esempio, abbazia deriva dal latino tardo abbatia, tratto, per derivazione interna al latino, da abbas abbatis, derivato dalla parola greca abbás abbâtos, derivata a sua volta da ‘abbá «padre», parola di una lingua semitica antica, l’aramaico. (3) I dizionari speciali, di pronunzia e ortografia, di gerghi, dialetti, parole straniere, linguaggi spe-

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ciali della medicina, botanica ecc. (4) Infine i più importanti, i dizionari generali ‘monolingui’, che, a partire dalle due grandi lingue antiche, latino e greco, si sono fatti in Europa dal Cinquecento. Alla base di tutto stanno ormai i dizionari monolingui. Nell’ambito dei monolingui distinguiamo i dizionari di apprendimento (con poche migliaia di parole del vocabolario di base, più necessarie per dominare gli usi più comuni di una lingua), i dizionari di consultazione per studenti o famiglie (con parecchie decine di migliaia di parole del vocabolario di base, del vocabolario comune e anche con termini specialistici) e infine i grandi dizionari di riferimento, con parecchie centinaia di migliaia di parole anche rare e specialistiche: questi, volenti o no, hanno in generale un taglio storico e abbracciano molti o tutti i secoli di storia di una lingua, come per l’italiano fa ad esempio il Grande dizionario della lingua italiana ideato dal filologo e critico Salvatore Battaglia (1904-1971), che la UTET di Torino ha cominciato a pubblicare nel 1961, giunto nel 2001 al vol. XX (SCI-TOG), mentre sono ormai in stampa gli ultimi due volumi. I dizionari storici sono preziosi, dunque, non solo per il lessicologo, ma per gli storici della lingua e, in genere, per gli storici. E non basta, i dizionari monolingui generali, anche i più modesti, sono una fonte preziosa di notazioni grammaticali e sintattiche. Non è un caso che una delle migliori grammatiche italiane di livello scientifico, quella che dobbiamo a Luca Serianni (Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, con la collaborazione di Alberto Castelvecchi, UTET, Torino 1988), sia in larga misura e dichiaratamente (p. VIII della Introduzione) una proiezione sistematica dei materiali del Battaglia. Da alcuni anni i supporti informatici consentono di creare banche di dati lessicografici che raggiungono e superano il milione di parole, ma potrebbero spingersi assai oltre se includessero tutti i termini di scienze come la botanica e la zoologia. Sulla base del lavoro dizionaristico e lessicografico si è sviluppata la moderna lessicologia. Una studiosa italiana, Carla Marello, ha scritto due buoni libri di sintesi: Dizionari bilingui, Zanichelli, Bologna 1989, e Le parole dell’italiano. Lessico e dizionari, ivi 1996. Ma, più sintetici, sono ancora utili Giovanna Massariello Merzagora, La lessicografia, ivi 1983, e, necessariamente, ancora meno upto-date, il sapido e rapido Che cos’è un vocabolario di Bruno Migliorini (I ed., Edizioni della Bussola, Roma 1946, poi più volte riedito: Sansoni, Firenze 19613 ecc.). Infine: alcuni dati lessicologici esposti nel testo, nei pressi della nota e altrove, non sono ancora del tutto di dominio comune e derivano (appunto) dal lavoro lessicografico fatto per redigere il GRADIT. Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., UTET, Torino 1999: qui essi si trovano documentati in una premessa

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lessicografica e in una appendice lessicologica (vol. I, pp. VII-XLII, Introduzione e vol. VI, pp. 1163-1204, Caratteri del lessico italiano). 2 In buona parte il lavoro dei linguisti è stato e resta proprio questo: partire dalle parole di lingue ben documentate, antiche come il sanscrito o il greco o il latino oppure moderne e attuali, italiano o tedesco, giapponese o arabo, e dalle parole documentate risalire alle forme più antiche e ai significati più remoti che ebbero nel tempo storico e di qui, dove e quando è possibile, spingersi verso la preistoria, le lingue madri ipotetiche e ricostruite: l’indoeuropeo comune (ricostruito a partire da latino, greco, antico iranico e sanscrito, lingue germaniche, slave ecc.), il semitico comune o protosemitico (ricostruito a partire da arabo, ebraico, aramaico, eblaitico ecc.), l’uralo-altaico (ungherese, finlandese, turco ecc.), il camitico, il sino-tibetano ecc. Da queste protolingue ipotetiche ogni venti o trent’anni qualche studioso, e non degli ultimi, è tentato di risalire verso proto-protolingue, con la speranza di arrivare, su su, nel corso dei tempi, alla lingua che avranno parlato i remoti antenati quando, duecentomila anni fa secondo l’«orologio biologico», centomila secondo la data dei primi sicuri reperti fossili, apparve l’Homo sapiens sapiens già presumibilmente parlante, come, forse, già parlanti in qualche modo erano i suoi progenitori immediati da qualche altro centinaio di migliaia di anni. Ma la risalita è assai problematica. Fa difficoltà anzitutto l’eccessivo varco temporale tra le protolingue ricostruite sulla base di ipotesi rigorose, fondate su documenti e accurate osservazioni di reali persistenze e mutamenti fonetici e semantici, e le origini temporali delle prime lingue umane. Altra difficoltà è la documentata radicalità dei mutamenti di suono, funzioni e strutture delle lingue note, radicalità su cui spesso dovremo fermarci. Anche studiosi non insensibili a problemi di origini ritengono impraticabili le vie di un accesso fondatamente ipotetico a ricostruzioni di lingue primigenie. In ogni caso, un elenco di circa 25 radici di basi lessicali che alcuni sostengono comuni a tutte le seimila lingue note e, dunque, forse residui di una remota monogenesi, può trovarsi in Franco Cavazza, Lezioni di indoeuropeistica con particolare riguardo alle lingue classiche (sanscrito, greco, latino, gotico), Edizioni ETS, Pisa 2001, pp. 226-29, ivi, ad indices, per altre notizie sui lavori attendibili orientati a cercare tracce di monogenesi delle lingue. Sulle questioni qui evocate sono assai utili Romano Lazzeroni (a cura di), Linguistica storica, Carocci, Roma 1987, e Id., La cultura indoeuropea, Laterza, Roma-Bari 1998, e Anna Giacalone Ramat, Paolo Ramat (a cura di), Le lingue indoeuropee, Il Mulino, Bologna 1988. Per l’etimologia in particolare va oltre una pur felice messa a punto storiografica il lavoro di Marco Mancini, «Ex ipsis vocabulorum originibus». Vico e l’etimologia dei filosofi: lo si veda, con

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altri contributi, in Marina Benedetti (a cura di), «Fare etimologia». Presente, passato e futuro della ricerca etimologica, Il Calamo, Roma 2001. 3 Già nell’Ottocento un linguista polacco, Mikolaj Kruszewski (1851-1887), e poi nel Novecento il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure (1857-1913) avevano compreso che nella mente le parole si associano per affinità formali e semantiche, cioè per similarità della forma significante e per contiguità dei loro significati e che tale contiguità non è un fatto meramente psicologico, memoriale: la contiguità è determinante per definire i confini di significato delle parole, il campo di sensi entro cui, nell’uso, una parola può spaziare abbracciandoli e trasmettendoli. Da ciò, più tardi, lo studioso tedesco Jost Trier (1894-1970) ha sviluppato la nozione di Wortfeld, ‘campo semantico’: intorno a un significato dominante si aggregano le parole di significato affine, che, cioè, condividono alcuni possibili riferimenti o sensi. Un panorama degli studi più recenti, in particolare statunitensi, è dato da Cristina Cacciari, Psicologia del linguaggio, Il Mulino, Bologna 2001, in particolare pp. 159-211, e da Grazia Basile, Le parole nella mente. Relazioni semantiche e struttura del lessico, Franco Angeli, Milano 2001. Per un punto di vista psicoanalitico è assai utile il lavoro di Jacqueline Amati Mehler, Simona Argentieri, Jorge Canestri, La babele dell’inconscio, Raffaello Cortina, Milano 1991. 4 L’aggettivo ‘transglottico’, più appropriato di ‘internazionale’, qualifica le lingue che si affermano fuori della loro area nativa non come semplici lingue straniere, apprese da gruppi più o meno ristretti, ma come lingue «seconde», in uso accanto a una lingua nativa nella comunicazione scritta e pubblica, negli uffici, nelle scuole ecc. Oggi il pensiero corre subito al caso dell’inglese (analizzato da Claude Truchot, L’anglais dans le monde contemporain, Le Robert, Paris 1990): tipica lingua transglottica, nativa per circa 250 milioni di persone in sei paesi del mondo (nel maggiore, gli USA, incalzata dallo spagnolo) e lingua seconda abituale in un’altra sessantina di paesi, tra cui l’immenso subcontinente indiano. Ma altre grandi lingue transglottiche furono nella storia l’accadico, il greco, l’aramaico, il latino, e sono oggi l’arabo, il cinese mandarino, il francese, il portoghese, il russo, il suahili, lo spagnolo.

Capitolo secondo 1 Sui diversi livelli di comprensione di uno stesso testo a seconda dei diversi livelli di istruzione e sulle tecniche per controllare che un testo si possa prevedere accessibile a tali diversi livelli informano am-

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piamente Piero Lucisano (a cura di), Misurare le parole, Kepos, Roma 1992; Id. (a cura di), Alfabetizzazione e lettura nel mondo, Tecnodid, Napoli 1994; Emanuela Piemontese, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, Tecnodid, Napoli 1996. Vedi anche n. 3. 2 Un panorama di sintesi della linguistica moderna è dato da Giulio C. Lepschy, La linguistica del Novecento, Il Mulino, Bologna 20003. Due utili manuali introduttivi, uno più semplice, il secondo più ampio, sono Gaetano Berruto, Corso elementare di linguistica generale, UTET, Torino 1997, e Raffaele Simone, Fondamenti di linguistica, Laterza, Roma-Bari 19952. Partendo non da autori e correnti o da un’esposizione sistematica, ma da termini e concetti assolvono allo stesso compito di orientamento a un livello più sintetico Federica Casadei, Breve dizionario di linguistica, Carocci, Roma 2001, e a un livello più avanzato Gian Luigi Beccaria (direttore), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Einaudi, Torino 1994. 3 Ai problemi della comprensione si è dedicata Lucia Lumbelli, Fenomenologia dello scrivere chiaro, Editori Riuniti, Roma 1989. Vedi anche la n. 1. Della natura non lineare, sempre problematica della comprensione ho discusso in Capire le parole, Laterza, Roma-Bari 19992. Sulla comprensione dei testi letterari resta fondamentale Umberto Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1986. Che nelle scuole la comprensione possa fare un gran balzo in avanti in opportuni ambienti educativi, con positivi effetti sui dislivelli di alfabetizzazione e su tutto il profitto, è mostrato documentatamente da Silvana Ferreri (a cura di), «Non uno di meno», 1 vol. e CD, La Nuova Italia, Firenze 2002. 4 Sull’alfabetizzazione: Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981; Armando Petrucci, Scrivere e no, Editori Riuniti, Roma 1987. Ma vedi anche n. 3.

Capitolo sesto 1 Si avverta che le nomenclature variano: nella teoria matematica della comunicazione (vedi oltre n. 2 del cap. VII) ‘segnale’ è impiegato per indicare ciò che qui diremo piuttosto ‘espressione’ e, d’altra parte, questo termine è stato talora usato per tradurre in italiano il francese ‘parole’; ‘senso’ e ‘significato’, così come i termini della coppia tedesca ‘Sinn’ e ‘Bedeutung’, sono usati in modo opposto dai logici (quelli italiani preferiscono tradurre il Sinn di Frege con senso e Bedeutung con significato) da un lato, e, dall’altro, dai linguisti di tradizione schleiermacheriana e saussuriana, che traducono il semainó-

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menon stoico e il signifié saussuriano con significato. Lettori e lettrici devono perdonare queste oscillazioni alla relativa giovinezza della semiotica e al fatto che essa nasce all’incrocio di tradizioni di studio eterogenee. 2 Una ricca e classica presentazione di semiotiche fu data da Umberto Eco (n. 1932) nel Trattato di semiotica, Bompiani, Milano 1975. Una recente presentazione di semiotiche di varie specie animali è quella di Felice Cimatti, Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva, Carocci, Roma 1998; dati precisi e concreti in Dànilo Mainardi (a cura di), Dizionario di etologia, Einaudi, Torino 1992. Per una classificazione formale e semantico-sintattica di semiotiche rinvio a quanto ho scritto in Minisemantica dei linguaggi non verbali e delle lingue, Laterza, Roma-Bari 1982, 20017. 3 De Mauro, Minisemantica cit., pp. 13-19. 4 Cercando di attenermi a usi prevalenti (non tra loro in tutto coerenti) riservo il termine ‘enunziato’ al prodotto di ogni realizzazione linguistica parlata o scritta, il termine ‘segno (linguistico)’ a ogni unione di significante e significato che sia forma di un enunziato. Interiezioni isolate, parole isolate per nominare luoghi, istituzioni, insegne, espressioni avverbiali isolate, elenchi e altri enunziati non predicativi sono a pieno titolo segni linguistici. Riservo il termine ‘frase’ (ingl. sentence) ai segni linguistici predicativi sia senza verbo (frasi ‘nominali’) sia con verbo (frasi verbali o, anche, frasi senz’altra specificazione).

Capitolo settimo 1 Per gli aspetti più propriamente filosofici degli studi recenti sul linguaggio e per la lunga storia del pensiero che li precede, disponiamo ora del profilo storico di Lia Formigari, Il linguaggio. Storia delle teorie, Laterza, Roma-Bari 2001. 2 Nelle trattazioni linguistiche la ridondanza non ha grande spazio con l’eccezione di una parte degli studi di fonologia e degli studi sulla formazione delle parole. La nozione è per certi aspetti antica ed è riferita proprio al linguaggio: Quintiliano cita il caso dei verba redundantia «parole sovrabbondanti» come esempio tipico di stile affettato (Inst. VIII III, 57). Il termine è restato e ancora resta in uso con valore negativo nel linguaggio corrente. Poi sono venute, a metà Novecento, le ricerche sulla teoria matematica dell’informazione e comunicazione, di cui una prima presentazione, restata classica, fu nel 1949 il libro di Claude E. Shannon e Warren Weaver, The Mathematical Theory of Communication (trad. it., La teoria matematica delle co-

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municazioni, ETAS-Libri, Milano 1971). Al centro della teoria vi è la nozione di ‘informazione’. Come avverte Weaver nel libro citato (p. 8) «il termine informazione in questa teoria viene usato in una accezione speciale che non deve essere confusa con quella corrente. In particolare, informazione non deve essere confusa con significato. [...] L’informazione è una misura della libertà di scelta che si ha quando si sceglie un messaggio». La ridondanza in questo quadro viene ridefinita come sovrabbondanza rispetto alle strette necessità di individuare un segnale capace di trasmettere una data informazione, come spiegò W. Ross Ashby, An Introduction to Cybernetics (Chapman & Hall, Londra 1956, tradotto in italiano, Introduzione alla cibernetica, Einaudi, Torino 1971, pp. 227-30). Un quadro elementare della ridondanza fonologica si può vedere nel mio libretto Linguistica elementare, Laterza, Roma-Bari 20017. Una trattazione ampia e ricca del fenomeno è stata data da Isabella Chiari, Ridondanza e linguaggio. Una regola costitutiva delle lingue, Carocci, Roma 2002. 3 Codici a doppia articolazione, diversi dalle lingue, sono esaminati in De Mauro, Minisemantica cit., pp. 66 sgg. 4 L’idea talvolta affacciata per cui le interiezioni e i fonosimboli sarebbero una intrusione naturalistica non pertinente alle singole lingue, ma a una sorta di gestualità fonica naturale (ma sulla culturalità e storicità dei gesti vedi n. 1 del cap. IX), è smentita ampiamente dall’osservazione. I fonosimboli trasparenti per i parlanti di una lingua risultano incomprensibili ai parlanti di altre lingue e, d’altra parte, interiezioni foneticamente assai simili hanno valori divergenti in lingue diverse: S. Karcevskij, Introduction à l’étude de l’interjection, «Cahiers F. de Saussure», I, 1941, pp. 57-75, e Paola Villani, Note teoriche per lo studio dei fonosimboli, in «Linguaggi», III, 1986, 1-2, pp. 32-44, che resta fondamentale per l’intero argomento. 5 Tuttavia una proprietà delle lingue su cui dovremo fermarci più oltre, e cioè la metalinguisticità riflessiva (vedi cap. IX), fa sì che anche le interiezioni siano citabili e, in quanto citate, integrabili nel sistema grammaticale quali nomi delle interiezioni stesse, per esempio in frasi come un oh pieno di stupore, il tuo mmm di dubbio ecc. 6 Miriam Voghera, Sintassi e intonazione nell’italiano parlato, Il Mulino, Bologna 1992. La rinnovata attenzione al parlato effettivo delle varie lingue, su cui informò in generale già Rosanna Sornicola, Sul parlato, Il Mulino, Bologna 1981, sta portando a sviluppare in sede scientifica sistemi notazionali sempre più rigorosi, per uno dei quali, eccellente, rinvio a Brian MacWhitney, Il Progetto CHILDES. Strumenti per l’analisi del linguaggio parlato, Edizioni del Cerro, Tirrenia (PI) 1997, e a Umberta Bortolini, Elena Pizzuto, Il progetto CHILDES in Italia. Contributi di ricerca sulla lingua italiana, ivi.

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7 Guardiamo ai parlanti reali non per annegare nell’empiria, ma per costruire e/o per falsificare adeguate ipotesi teoriche: da ultimo Vincenzo Lo Cascio, De echte spreker: Overvegingen bij hat totstandkomen van een tweetalig woordenboek Italiaans/Nederlands Nederlands/Italiaans, Vossiuspers UvA, Amsterdam 2001. 8 Per una raccolta sistematica di oltre sessantamila polirematiche italiane sia usuali (buttare a mare, vedere rosso) sia tecnico-scientifiche (particella elementare, pianta annuale) rinvio a Tullio De Mauro (direttore), GRADIT. Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., UTET, Torino 1999, I, pp. XXXI-XXXII per definizione e criteri, VI, p. 1177 per una considerazione lessicologica d’insieme. Buoni repertori di polirematiche facilmente accessibili sono per l’inglese, specie americano, Richard A. Spears, American Idioms. Dictionary of Everyday Expressions of Contemporary American English, Zanichelli-National Textbook Company, Bologna-Lincolnwood (Ill.) 1988, per il francese Raoul Boch, La boîte à images. Dizionario fraseologico delle locuzioni francesi, Zanichelli, Bologna 1990.

Capitolo ottavo 1 Grazia Basile, Sull’enantiosemia. Teoria e storia di un problema di polisemia, Centro Editoriale dell’Università della Calabria, Rende 1996. È un bel tentativo, molto istruttivo, di mettere ordine in fenomeni fortemente idiosincratici, come anche sono quelli delle imprevedibili metafore, che pure si riuniscono in fasci relativamente omogenei come mostra Federica Casadei, Metafore ed espressioni idiomatiche. Uno studio semantico dell’italiano, Bulzoni, Roma 1996.

Capitolo nono 1 Il valore della gestualità non sfuggì all’occhio acuto di Croce (Il linguaggio del gesto, in Varietà di storia letteraria e civile, Laterza, Bari 1935), le cui complessive riflessioni linguistiche sono state ora rivisitate con grande originalità di acquisizioni da Fabrizia Giuliani, Espressione ed ethos. Il linguaggio nella filosofia di Benedetto Croce, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 2002. Sulle diverse funzioni della gestualità e, in particolare, sulle lingue dei segni, profondamente diverse da un’area all’altra e (si noti) non in coincidenza con le aree delle lingue foniche, si vedano i contributi in Caterina Bagnara e altri (a cura di), Viaggio nella città invisibile, Atti del 2° Conve-

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gno Nazionale sulla Lingua Italiana dei Segni, Edizioni del Cerro, Tirrenia 2000. Si veda anche Andrea de Jorio, Gesture in Naples and Gesture in Classical Antiquity. A Translation of «La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano», with an Introduction and Notes by Adam Kendon, Indiana Univ. Press, Bloomington 2000. L’opera di de Jorio era stata riedita da un maestro dei nostri studi demoantropologici, Giuseppe Cocchiara: A. de Jorio, La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, con prefazione di G. Cocchiara, Associazione Napoletana per i Monumenti e il Paesaggio, Napoli 1964. Gesti tipici sono tali in aree circoscritte e risultano fuori di esse incomprensibili o di tutt’altro valore, come il cenno di diniego «meridionale» che i settentrionali scambiano per assenso o il gesto «va piano» rivolto ad automobilisti che è orribile gesto di maledizione nel Levante mediterraneo o l’assai diverso valore che è attribuito alle dita a V in diverse parti del mondo ecc. E largamente incomprensibili fuori dell’area napoletana sono molti gesti codificati da de Jorio e studiati da Kendon o, fuori della Sicilia, gesti tipici di quella regione. 2 Sull’opera di Calogero e il suo significato rinvio allo scritto limpido e completo di un suo allievo troppo presto sottrattoci, Gabriele Giannantoni, In ricordo di Guido Calogero, in «Elenchos», VIII, 1987, 1, pp. 5-24.

Capitolo decimo 1 La tensione tra usi correnti di una lingua e costruzioni terminologiche formali, e, insieme, l’idea che per ogni costruzione formale e scientifica sia ineluttabile muovere dagli usi correnti (e mostrare di sapervi tornare) trovano una prima nitida sistemazione teorica in Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), in particolare nel Consilium de Encyclopaedia Nova conscribenda methodo inventoria, in Id., Opuscules et fragments inédits, a cura di Louis Couturat, Paris 1903, rist. anastatica, Olms, Hildesheim 1966, pp. 30-41. Di queste pagine e dell’intero pensiero linguistico di Leibniz si è fatto interprete Stefano Gensini, di cui si veda almeno G.W. Leibniz, L’armonia delle lingue, testi scelti, introdotti e commentati da S. Gensini, Laterza, Roma-Bari 1995. I rapporti tra parlare comune e i diversi linguaggi specialistici e scientifici sono ormai variamente indagati: si vedano ad esempio i contributi raccolti nel volume collettivo Studi sul trattamento linguistico dell’informazione scientifica, Bulzoni editore, Roma 1992, e per un settore delicato e importante come quello giuridico Le parole della legge di Bice Garavelli Mortara (Einaudi, Torino 2001). Per quanto gli studi portino nuovi dati, la cellula teorica germinale resta sem-

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pre l’idea leibniziana della intrinseca flessibilità dei significati delle parole e, quindi, della loro plurideterminabilità. È l’idea che nelle Ricerche Wittgenstein precisa in quella della indefinita espandibilità delle lingue (§ 18: «La nostra lingua è come una vecchia città...»), tanto flessibili, tanto non non-creative, da potersi fare, a condizioni formali esplicite e in ambiti ben definiti, anche geometriche e, in quegli ambiti, non-creative. 2 I versi di Torquato Tasso (Aminta, II III Coro 29-35) sono consonanti con altri suoi sulla «muta eloquenza» e con le riflessioni in proposito dei teorici barocchi e, poi, dello stesso Vico (su queste si veda ora il bel libro di Jürgen Trabant, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico, traduzione dal tedesco di Donatella Di Cesare, Laterza, Roma-Bari 1996). Le basi erano già nei testi antichi esemplari come l’Eneide con le sue interruzioni significative (il proverbiale Quos ego... di Nettuno, I 135, ma cfr. anche V 195, IX 51, XI 289) e nella trattatistica oratoria sulla reticentia o interruptio e sulla sua efficacia comunicativa nel co-testo e contesto creato dall’enunziato verbale (Cicerone, De oratore III 53, 205, Quintiliano Inst. IX II, 54). Poiché infine è pur sempre la parola che, nello spazio che crea tra i parlanti, conferisce significatività anche al tacere. È questo l’estremo modo di «lottare con l’inesprimibile» che una lingua ci consente. Questa formula, in una pagina chiave dei Fondamenti della teoria del linguaggio (introd. e trad. it. di Giulio Lepschy, Einaudi, Torino 1968, p. 117), Louis Hjelmslev (1899-1965) la attribuiva (senza più precise citazioni) all’altro grande danese, Søren Kierkegård (18131855). Essa si può ritrovare in quella pagina di Stadi nel cammino della vita, in cui Kierkegård, in modo insieme appassionato e ironico, illustra l’insostituibile potere di significazione della «lingua di casa», della «lingua del mercato», «che non geme per l’impotenza dinanzi a un pensiero difficile», «non si mostra ansimante e affaticata quando sta davanti all’inesprimibile, ma si dà da fare – un po’ per scherzo e un po’ sul serio – finché l’inesprimibile viene detto».

Indici

Indice dei nomi

Abercrombie, David, 14. Agostino, Aurelio, santo, 4, 36. Argentieri, Simona, 104. Aristotele, 30-31, 35, 54-55, 6061, 71, 89-90. Ashby, William Ross, 107. Austin, John Langshaw, 52. Bagnara, Caterina, 108. Basile, Grazia, 104, 108. Battaglia, Salvatore, 102. Beccaria, Gian Luigi, 105. Belardi, Walter, 54. Belli, Gioachino Giuseppe, 9. Benedetti, Marina, 104. Benveniste, Émile, 23. Berruto, Gaetano, 105. Boch, Raoul, 108. Bochenski, Joseph, 91. Bortolini, Umberta, 107. Broca, Pierre-Paul, 28. Bühler, Karl, 51. Buttitta, Ignazio, 17. Cacciari, Cristina, 104. Calogero, Guido, 93, 109. Canestri, Jorge, 104. Cardona, Giorgio Raimondo, 105.

Casadei, Federica, 105, 108. Castelvecchi, Alberto, 102. Cavazza, Franco, 103. Chiari, Isabella, 107. Chomsky, Noam Avram, 17, 29, 33-34, 57, 94. Cicerone, Marco Tullio, 110. Cimatti, Felice, 106. Cocchiara, Giuseppe, 109. Couturat, Louis, 109. Crisippo, 90. Croce, Benedetto, 17, 29, 33, 98, 108. Culioli, Antoine, 23. Dante Alighieri, 15, 32, 68. de Jorio, Andrea, 109. De Mauro, Tullio, 106-108. Di Cesare, Donatella, 110. Durand, Willy, VIII. Durante, Marcello, IX. Eco, Umberto, 15, 105-106. Einstein, Albert, 13. Epicuro, 30, 35. Epimenide, 89-90. Ferreri, Silvana, IX, 105. Filita di Coo, 90-91.

114 Filodemo, 44. Flesch, Rudolf Franz, 22. Formigari, Lia, 106. Frege, Gottlob, 36, 54, 60, 105. Frei, Henri, 55. Garavelli Mortara, Bice, 109. Garroni, Emilio, 45. Gensini, Stefano, 109. Giannantoni, Gabriele, 109. Ginzburg, Natalia, 7. Giuliani, Fabrizia, 108. Gramsci, Antonio, 15, 40. Grice, H. Paul, 22, 34. Guglielmo di Shyreswood, 91. Hegel, Georg Friedrich Wilhelm, 25. Hjelmslev, Louis, 110. Humboldt, Wilhelm von, 17, 57. Ippocrate, 27. Kant, Immanuel, 96. Karcevskij, Sergej, 107. Kendon, Adam, 85, 109. Kierkegård, Søren, 110. Kruszewski, Mikolaj, 104. Laterza, Vito, VII. Lazzeroni, Romano, 103. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 109. Lenneberg, Eric, 30. Lepschy, Giulio C., IX, 105, 110. Lieberman, Philip, 18. Lo Cascio, Vincenzo, 108. Locke, John, 43. Lo Piparo, Franco, 54. Lucisano, Piero, 105. Lucrezio Caro, Tito, 30, 96. Lumbelli, Lucia, 105. Machiavelli, Niccolò, 15.

Indice dei nomi

MacWhitney, Brian, 107. Mainardi, Dànilo, 19, 106. Mancini, Marco, 103. Manzoni, Alessandro, 75. Marello, Carla, 102. Martinet, André, 33, 55, 60-61. Massariello Merzagora, Giovanna, 102. Mazzarino, Antonio, 63. Mehler, Jacqueline Amati, 104. Mehler, Jacques, 24. Melisso di Samo, 98. Migliorini, Bruno, 102. Montale, Eugenio, 8. Morris, Charles, 51. Orazio, Quinto Flacco, 68, 70. Pagliaro, Antonino, VIII, 22, 42. Passy, Paul, 14, 58. Peirce, Charles Sanders, 44, 47, 51. Petrucci, Armando, 105. Piaget, Jean, 40. Piemontese, Emanuela, 105. Pinker, Steven, 31, 34. Pizzuto, Elena, 107. Platone, 36, 89-90. Prieto, Luis, 22, 34. Proust, Marcel, 11. Quintiliano, Marco Fabio, 85, 110. Ramat, Anna Giacalone, 103. Ramat, Paolo, 103. Remmio Palemone, Quinto, 6263. Rodari, Gianni, 15-16. Rosiello, Luigi, IX. Saussure, Ferdinand de, 17, 3537, 43-44, 47, 50-52, 57, 104. Serianni, Luca, 102.

115

Indice dei nomi

Shakespeare, William, 96. Shannon, Claude E., 106. Simone, Raffaele, VIII, 105. Socrate, VIII, 93. Sornicola, Rosanna, 107. Spears, Richard A., 108.

Truchot, Claude, 104.

Tasso, Torquato, 110. Teofrasto, 90. Tommaso d’Aquino, santo, 91. Trabant, Jürgen, 110. Trier, Jost, 104.

Walter, Henriette, 10. Weaver, Warren, 106-107. Wernicke, Karl, 28-29. Wittgenstein, Ludwig, 21-22, 35-36, 41-42, 110.

Vico, Giovanni Battista, 110. Villani, Paola, 107. Vincenzo Ferreri, santo, 91. Voghera, Miriam, 107.

Indice delle cose notevoli

ambiguità, 86-87, 89 sgg. apprendimento linguistico, 24 sgg., 30, 40-41, 69 sgg. articolazione, 54 sgg. associazione, 104.

indeterminatezza semantica, 96 sgg. interattività, 25-30, 39 sgg. interiezioni, 62 sgg., 107. intonazione, 24-25, 64 sgg., 107.

calcolo, 79-82. campo semantico, 10-11, 104. comprensione, 22-24, 83-88, 104-105. contesto, 84 sgg. co-testo, 83 sgg.

lessico: estensione del –, 6, 70 sgg.; oscillazioni del –, 68 sgg. lessico familiare, 7. lessico individuale, 8. lessico regionale, 7. lessico specialistico, 7-8. lessicologia, 6, 101-102. lingua e storicità, 16-17. linguaggio e conoscenza, 42-43. linguaggio e fisicità, 14-16. linguaggio e natura, 29-31, 36, 48 sgg. linguaggio e prassi, 39-41. linguaggio e progetto, 13, 19. linguaggio e semiotica, 42 sgg., 47 sgg. linguaggio e silenzio, 24-26. linguistica storica, 9, 103.

doppia articolazione, 55 sgg. enantiosemia, 75 sgg., 108. enunziato, 22-23, 106. espressione, 47, 51. eterocliticità, 36-37. fonemi, 54 sgg., 58. fonosimboli, 62 sgg., 107. funzioni del linguaggio, 20-22, 50 sgg. gestualità, 85, 108. Homo sapiens, 18, 30, 103. imitazione, 80.

mema, 11. memoria a breve termine, 3-5; – a lungo termine, 5, 8-11. memoria e identità collettiva, 12.

118 metalinguisticità riflessiva, 89, 91-93, 97, 107. metonimia, 75 sgg. monemi, 55, 57. morfi, 55, 57. morfi grammaticali, 78 sgg., 8789. naturalità, 29-31. neurolingustica, 9-10. non non-creatività, 79, 81 sgg. omonimia, 76 sgg. paradossi, 90 sgg. parole di alta frequenza, 5-6. percezione, 48-49. polirematiche, 65-66, 108. polisemia, 72 sgg.

Indice delle cose notevoli

pragmatica, 51. rapporti associativi, 11. ridondanza, 57 sgg., 88-89, 106107. scrittura, 26, 105. segno, 50-51, 106. semantica, 51, 95 sgg. semiotica, 42 sgg. significato, 71 sgg., 105-106, 109-10. silenzio, 98-99, 110. sintattica, 51. terminologia, 109. traducibilità, 96. transglottico, 12, 104.

Indice del volume

Premessa

VII

3

I.

Le parole tra memoria e progetto

II.

In che modi le parole ci sono presenti

18

III.

La naturale interattività dell’uso delle parole

27

IV.

La intrinseca complessità dell’uso delle parole

33

V.

Il linguaggio come forma di interattività semiotica

39

VI.

Il linguaggio come semiotica

47

VII.

Una semiotica a segni articolati e non articolati: semeîon antilegómenon

54

VIII. Una semiotica non non-creativa

68

IX.

Gli argini della non non-creatività

81

X.

La creatività linguistica tra determinatezza e indeterminatezza

94

120

Indice del volume

Note

101

Indice dei nomi

113

Indice delle cose notevoli

117