Prima lezione sul teatro
 9788842098584

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Universale Laterza 927

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Prima lezione sul teatro

Editori Laterza

© 2012, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2012 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2012 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9858-4

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a chi ha scelto il meccano, e non sa cosa si è perso a tutti quelli che amano il teatro, perché sanno benissimo cosa si sarebbero persi

Premessa

Cosa dirà un futuro storico del teatro di questo primo decennio del XXI secolo? Noi oggi possiamo dire che il primo decennio del secolo scorso è stato innovativo, pieno di fermenti e di proposte rivoluzionarie, che hanno cambiato le prospettive critiche e la storia del teatro. Il futuro storico del teatro non potrà dire lo stesso per questo decennio appena trascorso. Il fatto è che allora il teatro era in una fase espansiva, era al centro di un universo culturale in movimento, e di questo movimento era parte attiva, spesso propulsiva. Oggi, invece, il teatro è ancora sostanzialmente alle prese con la cultura del XX secolo. I nostri punti di riferimento sono di fatto tutti lì. E diverso è anche il contesto, perché pare che la creatività oggi si spenda soprattutto in altri ambiti, con altri linguaggi, mentre il teatro vive una situazione di sostanziale marginalità nei meccanismi della produzione culturale. Il luogo prioritario di questa nuova creatività non è più neanche il cinema, sono le forme dell’immagine veloce, i videoclip, i “corti” autoprodotti, persino gli short pubblicitari, e soprattutto il web. È questo il luogo in cui si formano, si scontrano e si diffondono i prodotti culturali dell’innovazione. Se, come si dice spesso anche sulla base del libro di

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Guy Debord del 1967, quella attuale è la società dello spettacolo, in cui «tutta la vita [...] si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli», con la diffusione massiccia di queste tecnologie siamo arrivati al culmine del processo. E allora come può accadere che il teatro, che è sempre stato il luogo dello spettacolo in ogni cultura precedente, soffra oggi di questa marginalizzazione? Naturalmente è necessario accostarsi a questi fenomeni senza snobismi, senza alcuna pretesa di superiorità culturale. E tuttavia, al di là del confronto tra i linguaggi, è necessario valutare le profonde modificazioni che queste tecnologie hanno indotto nei processi stessi della percezione, e dunque nelle modalità di fruizione dei fenomeni culturali. È in questa prospettiva che si vede chiaramente come il teatro sia del tutto alternativo e irriducibile a questa cultura dell’infinita riproducibilità, della diffusione immediata e globale, della creatività veloce che non ha bisogno di apparati complessi. In una società che chiede la riproducibilità di ogni evento, il teatro è il luogo in cui la riproduzione è impossibile, perché «il teatro è il solo luogo al mondo dove un gesto fatto non si ricomincia due volte», come dice Artaud. In una società in cui le esperienze e le conoscenze sembrano affidate a una realtà virtuale fatta di schermi, computer e algoritmi, il teatro è il luogo in cui le cose accadono in presenza, in un incontro-confronto tra persone, in un intreccio di compresenza fisica e di scambio di emozioni reali. In una società in cui il valore primario è la velocità, l’accelerazione del tempo, il teatro è il luogo in cui il tempo è durata esistenziale, irriducibile a ogni compressione. In una società che affida i suoi messaggi prevalentemente all’immediatezza di un’immagine spesso senza profondità, il teatro è il

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luogo dell’approfondimento problematico. In una società che tende sempre più alla semplificazione, il teatro è il luogo della complessità. In una società sempre più tecnologica, il teatro è il luogo di un’artigianalità antica fatta di spazi, corpi, oggetti, parole, silenzi. Ma le modificazioni apportate dalle nuove tecnologie stanno oggi aggredendo anche lo spazio specifico del teatro. Le avvisaglie ci sono già tutte, a partire dall’enorme successo che sta ottenendo Hatsune Miku, la ragazzina che riempie i teatri, in Giappone e negli Stati Uniti ma presto anche altrove, mandando in visibilio il suo pubblico con la grazia della sua voce e delle sue movenze. Nelle sue esibizioni ci sono tutte le condizioni del teatro e della musica dal vivo: c’è la sala teatrale, c’è la scenografia, c’è l’azione spettacolare, ci sono le risposte entusiaste del pubblico. Ma la particolarità è che Hatsune Miku non è una persona, è un ologramma, non è un corpo ma una sorta di illusione ottica creata dal computer. Si tratta dunque di spettacolo allo stato puro, totalmente artificiale, prodotto con un lavoro tecnologico che non ha più nulla a che fare col lavoro teatrale. Ciò che appariva fantascienza quando nel 2002 uscì il film S1mOne di Andrew Niccol, con Al Pacino, oggi è realtà. In questa nostra società dello spettacolo, il teatro si configura allora come un luogo di resistenza, in cui coltivare l’idea e la pratica di una cultura diversa, più profonda, più vera, alla fine più umana. Alla resistenza tuttavia non basta la passione. La resistenza ha bisogno di persone consapevoli e di strumenti di comprensione dei fenomeni. Questo libro vuole offrire alcuni di questi strumenti, per cercare di chiarire, a noi stessi e agli altri, in cosa consista alla fine la magia del teatro, quali siano le sue forme, quali i suoi meccanismi, quale la storia dei

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suoi linguaggi. Niente di più. Ma anche niente di meno, perché l’impresa appare addirittura temeraria se ancora ci interroghiamo su questo tema e sentiamo la necessità – o almeno io la sento – di una sorta di alfabetizzazione dello spettatore teatrale, surrogando in questo l’assoluta latitanza dell’istituzione scolastica, almeno in Italia. Oggi il teatro, al di là dei singoli eventi che possono anche essere straordinari dal punto di vista estetico e linguistico, gioca in difesa la partita del confronto globale nel mondo dello spettacolo. Ma il teatro ha resistito a ben altro, ad esempio a una plurisecolare campagna di contrapposizione da parte della Chiesa e della cultura cristiana. Resisterà anche a Hatsune Miku.

Prima lezione sul teatro

Avvertenza Nel testo non sono presenti note, perché l’intenzione è quella di una leggibilità il più possibile trasparente. All’interno di un disegno che vorrei comunque rigoroso e non superficiale, la finalità del volume è in senso lato divulgativa e introduttiva alla complessità del fenomeno teatrale. Per questo non ci sono citazioni se non provenienti dalla cosiddetta letteratura primaria, anche se naturalmente questo lavoro deve moltissimo agli scritti di tanti colleghi. Solo alcuni di questi debiti sono esplicitati nella breve bibliografia ragionata, che non comprende tutti i necessari riferimenti ma serve solo come indicazione di ulteriori approfondimenti. La mia prospettiva è qui più teorica che storica, per cui sarà inutile la ricerca delle presenze e delle assenze nelle citazioni, perché le esemplificazioni che vengono dalla storia o dalla cultura teatrale contemporanea dipendono dal filo del discorso e dunque sono arbitrarie e quasi casuali.

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La prima lezione di teatro

Un teatrino di legno e cartone, di quelli fabbricati in Cecoslovacchia che i genitori democratici regalavano ai figli trent’anni fa per contrastare l’avanzata dei terrificanti giocattoli robot di provenienza giapponese. Un teatrino con una piattaforma rialzata, due quinte dipinte e un fondale double face, un arco di proscenio nero e tre ometti da muovere attraverso bacchette magnetiche da far passare sotto la scena. L’ho regalato anch’io a mio figlio, assieme al meccano, altro strumento per stimolare la manualità e la creatività, un po’ di tempo fa. Lui poi ha scelto il meccano ed è diventato ingegnere, e il teatrino è rimasto in un cassetto. Ora quel teatrino lo uso io come strumento didattico, per mostrare come il teatro sia alla fine un’arte antica, povera, artigianale, in qualche modo primordiale. Entro in classe e monto diligentemente tutte le componenti di quel giochino che è in fondo l’immagine cristallizzata dell’idea di teatro che abita nella nostra coscienza di persone mediamente colte della civiltà occidentale del XX e del XXI secolo. Poi lo decompongo, davanti agli studenti, togliendo un elemento alla volta e via via fermandomi per verificare con loro se, pur senza quell’elemento, quel che resta è ancora compreso

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nell’idea che noi abbiamo di “teatro”. Via quindi l’arco di proscenio, senza problemi. Poi via anche le quinte e il fondale, perché tutti si conviene che si possa tranquillamente fare teatro non solo senza quinte e fondali (elementi figli di una concezione e di una pratica molto tradizionali) ma anche senza scenografie e arredi scenici di sorta. Così come si possono togliere le luci artificiali, che pure qui non ci sono. A palcoscenico nudo, a luce ambiente, coi tre omini sopra, la situazione si complica un po’ e diviene meno pacifica. Gli omini, essendo di legno, hanno dipinti addosso i propri costumi e dunque non si può spogliarli, ma, potendo, potremmo lasciali nudi sulla scena? Certo, lo si è visto un sacco di volte. Basta solo convenire che un attore nudo non è un attore senza costume, perché quella nudità implica comunque una scelta esplicita e cosciente, che diviene per questo significante. Significa ad esempio la volontà di trasgredire le regole, di stupire o di provocare. O quanto meno il rifiuto di ogni costume che contestualizzi storicamente e socialmente l’azione. Questo ci porta a un primo punto fermo, che deve accompagnare ogni riflessione e ogni discorso sul teatro: sulla scena il grado zero della significazione non esiste, ogni segno (o anche ogni mancanza di segno) è significante, ogni gesto o ogni immobilità lo è, ogni parola, ogni suono, ogni silenzio. C’è però ancora qualcosa che si può togliere in quel teatrino ormai ridotto a uno scheletro, ed è la sopraelevazione della piattaforma, del palcoscenico, che può essere utile dal punto di vista ottico per permettere una visione migliore, ma non è certo indispensabile per definire l’identità dell’evento teatrale. Si resta alla fine con uno spazio delimitato e qualche omino, anche uno solo, dentro ad esso. Ci si aggiunge ciò che ancora non c’è

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perché occorre crearlo, ossia il tempo, la durata dell’azione, e qui ci si ferma. Altro punto fermo: non si dà teatro senza uno spazio, un tempo e un’azione (che può anche essere una immobilità silenziosa). Tutto questo serve per comprendere che qualcosa che possiamo chiamare “teatro” può darsi ovunque, in ogni luogo e in ogni condizione, perché a definire l’evento è l’azione che si compie. Il “teatro” è così ridotto ai suoi minimi termini, a un minimo comun denominatore che comprenda tutto quanto si può fare all’interno di questi termini. Qualcosa di molto semplice, molto primitivo, non dissimile in sostanza dal gioco dei bambini che trasformano un prato di periferia in una prateria del Far West in cui combattono indiani e soldati dalle divise blu. Eppure, se ci si fermasse a questo minimo comun denominatore, non si darebbe conto dell’enorme complessità che il teatro ha manifestato nella sua storia, delle sue forme molteplici e molto differenti tra loro, del suo ruolo antropologico, del suo significato sociale nelle diverse civiltà. Per iniziare a comprendere questo, allora, non basta più il teatrino di legno e cartone, è necessario affidarsi ad altri strumenti. Mostro allora, attraverso dvd o vecchi vhs, alcuni spezzoni di spettacoli. Che so, una grande produzione lirica con vistosi apparati scenografici e sofisticati giochi di luce, e subito dopo Dario Fo che recita in maglioncino nero e palco nudo un esilarante monologo di Mistero buffo. E poi un balletto in tutù, magari il classico Lago dei cigni, e a seguire un capolavoro della danza contemporanea, così distante da quel modello, come Café Müller di Pina Bausch. E poi i movimenti marionettistici e la scenografia pop da cartone animato di uno spettacolo dell’avanguardia italiana degli anni Ottanta come Tango glaciale di Falso Movimento subito dopo la Tempesta di

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Shakespeare con la regia di Giorgio Strehler, con le sue luci solari e la straordinaria invenzione di Ariel col costume bianco svolazzante mentre volteggia sopra la testa di Prospero. E la poetica semplicità del Mahπbhπrata di Peter Brook contrapposta alla grandiosa macchineria degli Ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus nella straordinaria messa in scena di Luca Ronconi al Lingotto di Torino. Senza contare tutti gli esempi che si potrebbero trarre dalle culture teatrali non occidentali, dalla danza indiana di Kathakali a uno spettacolo N≥ giapponese. Il fine di questa carrellata, arbitraria e casuale come ogni esemplificazione sommaria, è solo quello di mostrare l’inestinguibile molteplicità delle forme teatrali, che mettono in campo tipologie di recitazione, modelli di rapporto col pubblico, struttura dello spazio scenico, meccanismi di costruzione dello spettacolo tra loro molto differenti e difficilmente comparabili. Per arrivare a un altro punto fermo: l’idea di teatro che abbiamo in testa, che è il prodotto della cultura nella quale siamo cresciuti, non è l’unica forma possibile di teatro, perché, dentro quel minimo comun denominatore di cui si è detto, la magia del teatro si esplica in mille modi diversi, assolutamente non riconducibili a uno. Il passo successivo è poi quello di comprendere che, se parliamo di “teatro”, parliamo di un evento, quello che comunemente viene chiamato spettacolo, e non di un testo letterario. A minimo e provvisorio sostegno di questa affermazione, che non è così ovvia come dovrebbe, si può intanto mostrare come, a partire da uno stesso testo, possano conseguire risultati estetici molto differenti. Bastano un paio di esempi. Un Amleto con la struttura del testo sostanzialmente rispettata e una straordinaria prova di recitazione classica come quello di Laurence Olivier a confronto con quello di Carmelo

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Bene, smembrato, contaminato con altri testi, recitato con inusitate cadenze vocali e gesti melodrammatici. Oppure i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello con la regia di De Lullo per la Compagnia dei Giovani, austero e rigoroso, anche per il bianco e nero con cui possiamo recuperarlo dalla trasmissione televisiva dell’epoca, e quello stravolto e come “in prova” di Anatolij Vasiliev, con gli attori che recitano in mezzo agli spettatori e la colonna sonora di un Besame mucho cantato con l’accompagnamento di una chitarra in scena. Una pausa dopo questa abbuffata di immagini, di suoni e di parole. È dunque tutto questo il “teatro”, è la somma di questi esempi, e di tanti altri che si potrebbero analogamente portare, a definirlo? Dopo il minimo comun denominatore, è possibile per questa via definire anche una sorta di massimo comune multiplo dell’evento teatrale? Probabilmente no, perché le forme sono tendenzialmente infinite, perché il teatro è continuamente mutevole e perché comunque all’appello delle testimonianze mancano tutte le forme del passato, non documentabili, dalla tragedia greca alla commedia romana, dal teatro sacro medievale agli spettacoli di Molière, di Shakespeare, di Calderón de la Barca o di Goldoni, dalla spettacolarità delle strabilianti scenografie barocche alle prove d’attore dei grandi interpreti dell’Ottocento... Eppure questa prima e comunque sommaria lezione non può dirsi compiuta se non si inserisce un altro elemento, che è poi quello fondamentale. Perché finora si sono solo mostrate le memorie, le testimonianze, le documentazioni del fenomeno teatrale, ma non il “teatro”, che è «opera d’arte vivente», come scriveva Adolphe Appia agli inizi del Novecento, assolutamente non riducibile ad alcuna trasposizione o trascrizione

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cinematografica o elettronica, per quanto fedele essa possa essere. Perché il teatro crea il proprio senso in maniera effimera: appena creati, quel gesto, quel soffio di parola, quell’espressione di un sentimento, svaniscono e lasciano dietro di sé solo il ricordo e l’emozione. Per questo al teatro è essenziale la compresenza, viva e non mediata, tra chi agisce e chi partecipa all’evento. Perché si crei un contatto e attraverso di esso passi un’emozione. Allora, se è vero che il teatro si può fare ovunque e in qualsiasi situazione, perché non anche in un’aula, come esperimento didattico? Un collega chimico userebbe alambicchi e provette, io invece chiedo a un amico attore di recitare lì, sotto la luce piatta di un neon, un pezzo teatrale, uno qualsiasi. Esco dai discorsi sul teatro per portare un pezzetto di teatro, per mostrare la irriducibile differenza, proprio come esperienza esistenziale, tra la visione di un filmato anche di uno spettacolo straordinario e la partecipazione a un evento, anche in condizioni di fortuna, che instaura quel filo di comunicazione e di emozione che si produce dalla presenza simultanea di un attore e di uno spettatore. Perché il “teatro” o è emozione o non è.

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Il teatro che abbiamo in testa

Scrive Pier Paolo Pasolini nel Manifesto per un nuovo teatro, pubblicato sulla rivista «Nuovi Argomenti» nel 1968, rivolgendosi ai lettori: «Non c’è nessuno di voi che davanti a un testo o a uno spettacolo resista alla tentazione di dire: “Questo È TEATRO”, oppure: “Questo non È TEATRO” il che significa che voi avete già in testa, ben radicata, una idea del TEATRO». Come operazione preliminare a ogni tentativo di definizione, è allora utile verificare se nella pancia della cultura corrente alberghi una qualche “idea di teatro” sufficientemente condivisa, partendo dalla consapevolezza che ne hanno persone mediamente colte ma ancora al di qua di ogni specialismo. È un test che mi è capitato di fare molte volte, ad esempio con gli studenti universitari che si affacciano per la prima volta agli studi teatrali. La nozione che ne esce non è in realtà così univoca, ma disegna in ogni caso alcune traiettorie di pensiero, che cercherò di illustrare, naturalmente semplificandole ed estremizzandole un poco, per renderne più chiaro il significato.

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1. Il teatro come istituzione Se dunque ne chiediamo in giro una sorta di definizione, di solito viene descritta la struttura del teatro così come si è andata consolidando nella prassi degli ultimi secoli, con tutte le componenti incontrate nella comune esperienza di spettatore teatrale, e dunque l’attore, il pubblico, il regista (nel senso almeno di capocomico o comunque di organizzatore dello spettacolo), lo spettacolo, la scenografia, le quinte, il palcoscenico, il teatro come edificio, il testo drammatico col suo autore, la rappresentazione come meccanismo fondante dell’evento teatrale. Diamo pure per scontato che questa descrizione rappresenti davvero ciò che, nella gran parte dei casi, ci capita di incontrare nell’universo del teatro di oggi. O anche di ieri, rimontando nel tempo addirittura fino alle corti dell’Italia del Cinquecento, quando, grosso modo attraverso queste categorie, sono state poste le fondamenta del teatro moderno. Tuttavia, per non restare solo su un piano puramente descrittivo, è inevitabile la domanda: è questa l’unica forma di teatro possibile? La risposta è immediata: evidentemente no, tanto è vero che sono facilmente rintracciabili nella storia, e anche nell’esperienza quotidiana di spettatori, eventi che poco o tanto si discostano da questo modello. Allora la questione ulteriore è: quali di queste componenti sono contingenti, prodotte da un determinato momento storico e culturale, e dunque risultano inessenziali a definire lo statuto generale del teatro, e quali invece sono necessarie e ineliminabili? Come si è visto nel capitolo precedente, per alcuni elementi la risposta è ovvia. È chiaro ad esempio che può esistere un teatro che non usa la scenografia, alme-

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no intesa nel senso ristretto di apparato: gli ambienti nudi cari a tanto teatro “povero” che mira all’essenzialità dell’azione scenica, oppure gli spazi certo non arredati del teatro di strada, o anche la chiesa occupata con azioni para-teatrali nel primitivo teatro medievale indicano chiaramente la possibilità di un teatro senza arredi e senza apparati. I medesimi esempi, e altri che si potrebbero agevolmente citare, ci indicano che anche la scena non è necessaria, almeno intesa in senso specifico come luogo attrezzato e precostituito, come palcoscenico, quinte e fondali. E altrettanto non necessario è l’edificio teatrale, se si considera che nell’intera storia del teatro occidentale è forse più lungo il periodo in cui l’evento teatrale si è svolto al di fuori di un edificio specifico (dalla tarda età romana fino al XVI secolo) di quello che prevede un teatro costruito (la Grecia e l’età romana classica e poi l’epoca moderna dalla seconda metà del Cinquecento). Dopo questa specie di spogliazione dell’idea di teatro, cosa resta? Restano il testo (col suo autore), l’attore, il regista o il capocomico, il meccanismo della rappresentazione e lo spettatore. Sgombriamo pure il campo dal regista, che è figura molto moderna, ma anche dal capocomico o comunque dall’organizzatore dello spettacolo, che si può eliminare senza che per questo crolli l’impalcatura teorica del teatro come istituzione. Ciò che resta alla fine è la triade autore (testo)-attore-spettatore, assieme al meccanismo significante della rappresentazione, che costituisce il perno centrale di tutto il sistema. È da questo impianto che occorre partire, perché è qui che la cultura corrente vede il fondamento e le modalità di funzionamento del teatro. Lo approfondiremo nei prossimi paragrafi e nei prossimi capitoli. Qui vorrei solo riportare, come posizione esemplare di

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questa impostazione culturale ancora oggi corrente, le considerazioni di un autorevolissimo critico e storico del teatro della prima metà del Novecento, Silvio D’Amico, che nell’introduzione alla sua Storia del teatro del 1939 scrive: un dialogo, scritto o non scritto, concertato o improvvisato, per il solo fatto d’essere dialogo, ha per autore chi lo ha comunque composto, o anche creato all’improvviso. E se costui è l’attore, non vuol dire che l’autore non c’è: vuol dire semplicemente che la persona dell’autore coincide con quella dell’attore. In conclusione non si conosce Teatro drammatico senza l’ovvia triade: autore, attori, spettatori.

«L’ovvia triade». Come a dire che non ci sono altre possibilità. Naturalmente non bisogna dimenticare che D’Amico intende trattare solo del teatro drammatico, ossia del teatro di parola, «quel Teatro, insomma, dove il Verbo prende carne. E dove, perciò, madre e sovrana è la Parola». Ma non per questo viene a cadere la pretesa di universalità dello schema autore (testo)-attorespettatore, perché per D’Amico il teatro drammatico non solo è il «Teatro-principe», ma è anche, in quanto «rappresentazione», l’unico che possa «fare dell’arte». È questa idea, in fondo, che è radicata nella nostra coscienza collettiva. 2. Il teatro come testo. Dal testo alla scena All’interno di questa concezione corrente, il teatro è dunque, prima di tutto, parola, meglio ancora se parola scritta a monte dello spettacolo, che dunque prevede un autore. La conseguenza che ne deriva è che sia del tutto normale considerare il teatro come uno dei generi della letteratura, come un testo da leggere in poltrona o da

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studiare sui banchi di scuola. Certo, ci sono alcune differenze formali tra questo genere e quello, ad esempio, della narrativa. Soprattutto non ci sono di norma descrizioni o narrazioni o comunque interventi dell’autore a commento dell’azione dei personaggi. Un testo teatrale si definisce dunque per una struttura che prevede solo dialogo in forma diretta dei personaggi, come dice esplicitamente D’Amico nella citazione appena riportata. Il dialogo dei personaggi del testo si condenserà poi, quando il testo verrà messo in scena, nelle battute degli attori, a ciascuno dei quali sarà assegnata una parte o un ruolo, per l’interpretazione dei personaggi. A corredo del dialogo, ci sono di solito nel testo anche alcune indicazioni sugli arredi e gli oggetti di scena, sui costumi, sui movimenti e le espressioni dei volti, sull’intonazione con cui pronunciare le battute, per mezzo di quelle che vengono chiamate in termine tecnico didascalie e che nell’edizione a stampa del testo sono di solito in corsivo. In una cultura come quella occidentale, dominata da sempre dalla parola e dalla scrittura, è pressoché inevitabile che la stesura in forma scritta dell’ossatura di azioni e dialoghi sia già considerata “il teatro”, e che la successiva realizzazione concreta da parte degli attori sia sentita come secondaria o addirittura inessenziale. Questa gerarchia tra testo e rappresentazione, con predominio assoluto del testo, è già del resto esplicita nei fondamenti della cultura classica, in quello che si può considerare il primo trattato di teoria del teatro, la Poetica di Aristotele, in cui è chiaramente indicato il primato della parola (logos) sulla vista (opsis). Anche se la trattazione aristotelica, su questo punto specifico, non appare a noi moderni del tutto chiara, è comunque sufficientemente esplicito il finale del capitolo 6 (50b): «La vista è sì di grande seduzione, ma la più estranea

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all’arte e la meno propria della poetica; l’efficacia della tragedia sussiste anche senza rappresentazioni e senza attori» (trad. D. Lanza). «L’efficacia della tragedia [del teatro in generale, perché nella Poetica Aristotele parla solo della tragedia] sussiste anche senza rappresentazioni e senza attori», dunque. E ancora, nel capitolo finale (62a), nel contesto del confronto tra tragedia e epica: «anche senza movimenti [i movimenti degli attori, la rappresentazione sulla scena], la tragedia realizza le sue proprietà come l’epica [la forma narrativa], perché quale essa sia si rivela chiaramente alla lettura». Sin dalle origini della riflessione sul teatro, già la struttura formale di un testo letterario che affida il progredire dell’azione quasi esclusivamente al dialogo è dunque sufficiente perché si possa legittimamente individuare in questi testi il “teatro”. Anche nelle epoche successive questa impostazione teorica, con la gerarchia tra testo e spettacolo che ne consegue, potrà talvolta attenuare la sua rigidità ma non verrà mai sovvertita, tranne che, almeno in parte, nella teoria e nella prassi della cultura novecentesca. Questa idea della supremazia del testo e, anzi, della sua autosufficienza, è talmente radicata ancora oggi che scorrendo i manuali scolastici delle varie letterature, tra l’epica, il romanzo e la poesia, ci si imbatte ogni tanto anche nel capitolo sul “teatro”. In quei capitoli i testi teatrali vengono di fatto analizzati nella loro valenza letteraria, con strumenti critici non dissimili da quelli utilizzati per gli altri generi, ponendo attenzione alla poetica generale dell’autore, alle sue scelte linguistiche, alla struttura della trama, alla psicologia dei personaggi e alle dinamiche dei loro rapporti reciproci, alla morale che se ne può trarre, alla intenzionalità sociale o politica che vi è eventualmente iscritta. Così, fin dagli

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studi scolastici, ci si abitua a pensare che Goldoni non è tanto diverso da Manzoni, se non per il fatto che scrive opere classificabili come commedie anziché romanzi o poesie. E così ogni studente che affronti le culture straniere sa che Shakespeare è il maggiore autore della letteratura inglese e Schiller uno degli esponenti di spicco del periodo romantico della letteratura tedesca. Della letteratura appunto, e solo secondariamente, molto secondariamente, del teatro. All’interno di questo modello, dunque, non c’è alcuna differenza sostanziale se uno scrittore compone un testo teatrale invece di un romanzo. Anche perché, nella storia della cultura, sono numerosi gli autori che si sono cimentati indistintamente con testi narrativi o poetici o teatrali, da Seneca ad Ariosto, da Machiavelli a Shakespeare, da Cervantes ad Alfieri, da Goethe a Pirandello, da García Lorca a Oscar Wilde, da Brecht a Beckett, solo per citarne alcuni. Anche se poi autori altrettanto numerosi e importanti hanno scritto quasi esclusivamente testi destinati alla rappresentazione, dai tragici greci a Plauto e Terenzio, da Corneille a Molière, da Calderón de la Barca a Marlowe, da Lope de Vega a Racine, da Goldoni a Ibsen, da Eduardo De Filippo a Dario Fo. Seguiamo allora per un attimo questo modello, che assegna una priorità assoluta al testo letterario. C’è dunque uno scrittore nel suo studio, che per suggestione romantica ci piace spesso immaginare freddo e spoglio, quando non addirittura una mansarda buia come nel primo atto della Bohème, che compone un testo teatrale. Tecnicamente assume con ciò la funzione di drammaturgo, ma poco cambia rispetto alla scrittura di un romanzo o di un poema se l’autore intende quel testo come una prova letteraria tra le altre, e come tale viene

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pubblicato e letto. Come avviene ad esempio quando Manzoni scrive le sue opere “teatrali” in versi, l’Adelchi o Il conte di Carmagnola, che sono sicuramente molto più attente alla dimensione letteraria che a quella di una concreta rappresentabilità sulla scena. Quando invece il testo è scritto in vista di una realizzazione scenica che dovrà costituire la sua principale ragion d’essere, si instaura un altro percorso, che deve prevedere come primo passaggio una qualche forma di pubblicizzazione. Per l’epoca attuale questo passaggio è solitamente la pubblicazione editoriale a stampa, mentre per le epoche precedenti la diffusione può essere intesa come consegna del testo a un capocomico o come diffusione del manoscritto attraverso vari canali, o come lettura a un pubblico di amici e di interessati. In ogni caso, in questo passaggio, il testo comincia a cambiare un po’ la sua natura, non è più solo un’opera letteraria ma acquisisce anche la dimensione di copione, ossia di testo passibile di una concreta utilizzazione sul palcoscenico. A questo punto il testo deve incontrare chi si faccia carico della sua trasposizione in spettacolo teatrale. A volte è lo stesso drammaturgo che mette in scena i suoi testi, riassumendo in sé le due funzioni di autore del testo e di allestitore. È il caso di alcuni dei momenti più alti della storia del teatro, dai tragici e dai comici dell’antichità greca e latina a Shakespeare o Brecht, fino ai casi di autori-allestitori che sono anche attori di se stessi, come Molière, Eduardo o Fo. Naturalmente la situazione è differente quando l’allestitore, il metteur en scène, è persona diversa dall’autore. In questi casi capita spesso che il rapporto sia più complesso e a volte conflittuale. Nelle epoche anteriori alla nostra, il capocomico commissiona o acquista un testo e lo gestisce a

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suo piacere, con tagli, rielaborazioni o manipolazioni, almeno fino a quando, verso la fine dell’Ottocento, il “diritto d’autore” non ottiene un riconoscimento giuridico. Basterebbe pensare alla vera e propria tirannia esercitata dai capocomici-attori di grande successo dell’Ottocento, che commissionano i testi ai drammaturghi, ne impongono rielaborazioni successive e spesso ne stravolgono il senso e la struttura. La situazione si fa tuttavia più complicata con la nascita del regista, figura moderna che ha circa un secolo e mezzo di storia e non è più solo colui che si incarica della organizzazione della compagnia, della distribuzione delle parti e di una generica direzione di scena. Il regista ha altre ambizioni, come vedremo meglio nei prossimi capitoli, perché fornisce l’interpretazione generale del testo, ne sottolinea alcune suggestioni anziché altre, indirizza la recitazione degli attori verso una determinata cifra stilistica. Il regista pretende così la funzione di vero e proprio autore dello spettacolo, o almeno di responsabile della sua dimensione estetica, per cui ogni altra professionalità del teatro, dagli attori allo scenografo, dal musicista ai tecnici, si deve assoggettare alle sue direttive. Assumendo questa funzione, il regista diviene spesso una figura dittatoriale, come ribadisce con chiarezza forse il più grande regista del teatro italiano del Novecento, Luchino Visconti, in una lunga intervista radiofonica del 1962, ora nella raccolta di scritti Il mio teatro: Ognuno [degli attori] ha il suo punto di vista, certo. Ma, siccome il lavoro è il mio, lo commento e lo conduco nella mia direzione, perché io parto da un certo progetto e, in fondo, sono io che ho la responsabilità dello spettacolo. Un attore può anche avere dei dubbi sopra una certa cosa, per esempio sull’interpretazione di un dettaglio, di una scena, di una

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battuta. Ma io lo convinco che quella scena vista nell’insieme, così come io l’ho concepita, deve essere così e non cosà, altrimenti sarebbe un controsenso, non sarebbe in armonia col resto.

«Il lavoro è il mio». È un’affermazione da autore quella di Visconti, non da semplice allestitore. La gerarchia tra regista e attore, del resto, è ben codificata al momento stesso in cui la figura del regista comincia a imporsi, verso la fine dell’Ottocento. Lo si vede bene da una lettera, spesso citata, che André Antoine, uno dei primi registi europei, scrive nel 1893 a un attore, nella quale rimarca la sottomissione dell’attore alla volontà e alla creatività di un regista che almeno in questo caso agisce in nome della salvaguardia della ricchezza poetica del testo da rappresentare: «[gli attori] non capiscono mai niente delle opere che devono recitare. [...] Sono manichini in realtà, marionette più o meno perfezionate che il talento guida, e che l’autore riveste e agita secondo la sua fantasia». In questo passaggio verso la rappresentazione, il testo letterario è definitivamente divenuto un copione teatrale, non di rado, come si è visto, sottoposto a manipolazioni e riduzioni, determinate dalle necessità espressive del regista o dalle pretese degli attori. Quando l’allestimento è completato, è quindi lo spettacolo e non più il testo che entra nel circuito della distribuzione, ossia diviene un prodotto che deve trovare una collocazione sul mercato e deve incontrare il suo pubblico. È con questo oggetto che entra in contatto lo spettatore che va a teatro, paga il biglietto, si siede, guarda e ascolta. E poi applaude o fischia, apprezza o disapprova, ma non interviene minimamente nel processo di costruzione organizzativa ed estetica dello spettacolo.

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In questa ricostruzione del meccanismo complesso che porta all’evento teatrale, il rapporto fondamentale non è dunque quello di compresenza fisica tra l’attore e lo spettatore ma quello virtuale e mediato tra lo scrittore di teatro, il drammaturgo, e lo spettatore. Perché in questa concezione del teatro l’origine di tutto, il vero deposito di senso con cui lo spettatore deve entrare in contatto è il testo. Per questo il percorso che abbiamo descritto si può rappresentare come un processo lineare ma su un piano inclinato, in cui a ogni passaggio un poco di quel senso originario va smarrito, come l’acqua che si disperde nelle tubazioni mai a tenuta stagna dell’acquedotto. Già il drammaturgo spesso non riesce a tradurre nel testo tutta la ricchezza del mondo poetico prodotto dalla sua immaginazione, come se la scrittura, la forma, opponesse una resistenza non del tutto superabile. Ce lo dicono le tante dichiarazioni di poetica degli autori ferocemente impegnati in un corpo a corpo con un lavoro di scrittura che non di rado li lascia insoddisfatti. Una parte cospicua di senso si disperde poi nel passaggio successivo, quello della trasposizione scenica. Intanto perché il regista, o comunque chi si occupa della messa in scena, sceglie solo una tra le tante interpretazioni possibili, tralasciando tutte le altre. Ma soprattutto perché il regista o l’allestitore è costretto a trasportare i contenuti e le suggestioni del testo in un linguaggio diverso, quello della scena, che ha spesso parametri molto più costrittivi. Non c’è paragone, infatti, tra la libertà quasi assoluta dell’immaginazione letteraria e le possibilità concesse dal meccanismo complesso di organizzazione dello spettacolo, legato a una materialità che restringe notevolmente le concrete scelte operative. Per comprendere questo passaggio basterebbe pensare alla

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diffidenza nei confronti della realizzazione scenica di un autore convinto assertore del testo come unico luogo della “artisticità” del teatro come Luigi Pirandello. Il suo ragionamento, semplificando, è appunto che l’esito finale del processo sfugge al controllo del drammaturgo, e risulta alla fine inquinato dalla materialità volgare della scena e degli attori. E non a caso Pirandello usa il termine di «traduzione scenica» per definire il lavoro dell’attore, assimilando appunto questo lavoro a quello ancillare del traduttore, che deve soltanto rendere in un’altra lingua un mondo poetico di cui non è l’autore, vietandosi necessariamente ogni velleità estetica e ogni autonoma valenza simbolica, che si possono apprezzare appieno solo nell’originale. Anche le traduzioni sceniche dell’attore, dunque, più o meno “fedeli” che siano, non potranno che essere inferiori all’originale iscritto nel testo, come Pirandello scrive esplicitamente, nel saggio Teatro e letteratura, del 1918: Perché, se ci pensiamo bene, l’attore deve fare e fa per forza il contrario di ciò che ha fatto il poeta. Rende, cioè, più reale e tuttavia men vero il personaggio creato dal poeta, gli toglie tanto, cioè, di quella verità ideale, superiore, quanto più gli dà di quella realtà materiale, comune; e lo fa men vero anche perché lo traduce nella materialità fittizia e convenzionale d’un palcoscenico. L’attore insomma necessariamente dà una consistenza artefatta, in un ambiente posticcio, illusorio, a persone e ad azioni che hanno già avuto un’espressione di vita ideale, qual è quella dell’arte e che vivono e respirano una realtà superiore.

«Persone». Come se i personaggi fossero persone reali e come se il palcoscenico fosse il luogo in cui si manifestano i personaggi-persone e non il luogo in cui lavorano gli attori. Basterebbe del resto leggere in que-

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sta prospettiva la complicata macchina drammaturgica di Sei personaggi in cerca d’autore, un testo che ha avuto diverse stesure tra il 1921 e il 1925, con quei Personaggi che vorrebbero vivere la loro storia “al di qua” dell’interpretazione degli attori, i quali possono solo mettere «in bella copia» la loro vicenda, ma nella sostanza la immiseriscono «in nome d’una verità volgare, di fatto», come chiosa sconsolatamente il Padre, il personaggio che più di altri sembra riportare le opinioni dell’autore. Ma anche il metteur en scène, a sua volta, non riuscirà mai a rendere pienamente la sua idea di spettacolo, per l’inadeguatezza degli attori ad esempio, o per la limitatezza del budget a disposizione, o per la necessità di comprimere le prove, o per uno dei tanti altri impedimenti e contrattempi che si incontrano nell’allestimento di uno spettacolo. E anche in questo passaggio poco o tanto del senso originario va perduto. Ma forse la parte più cospicua di questa dispersione di senso si riscontra nell’ultimo passaggio, quando lo spettacolo incontra concretamente lo spettatore. Perché nessuno spettatore, neanche il più consapevole e colto, riuscirà mai a cogliere tutte le sfumature del testo che gli viene proposto e tutti i significati, tutte le allusioni, tutte le citazioni che il regista e gli attori hanno immesso nella costruzione dello spettacolo. La concezione qui sommariamente enunciata, che sicuramente la storia e la cultura hanno depositato nella nostra coscienza collettiva, descrive dunque il teatro sostanzialmente come una catena di atti successivi di comunicazione, che a un certo punto del percorso prevede anche una sorta di «traduzione», come scrive Pirandello, da un codice letterario a un altro codice, quello dei linguaggi della scena. E ogni traduzione, si sa, è anche una forma di tradimento. Se il teatro si ri-

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ducesse davvero a questa concezione, che parte dalla priorità istituzionale del testo, si determinerebbe infatti l’incontro tra uno spettatore concreto e uno spettacolo particolare, che in realtà è solo la terminazione ultima di un processo di progressivi adattamenti e traduzioni che il testo originario ha subito, con un conseguente progressivo impoverimento di quel patrimonio di senso che il drammaturgo aveva racchiuso nello scrigno del testo là, nel suo studio freddo e spoglio. Nei prossimi capitoli proveremo a sottoporre a critica questa concezione, nel tentativo di dimostrare, partendo da presupposti teorici differenti, che nel percorso che abbiamo descritto si inseriscono in realtà altre forze, altre forme di creatività che trasformano radicalmente questo modello. 3. Il teatro come luogo della rappresentazione della realtà Il teatro, quando non è o non è più un testo letterario ma è un evento concreto, che instaura una relazione in presenza tra attore e spettatore, viene comunemente inteso come uno strumento per rappresentare la realtà quotidiana nella maniera più “realistica” possibile. Proprio perché nei codici istituzionali del teatro il narratore scompare e i personaggi agiscono e parlano autonomamente, come fossero persone reali, si suppone che gli attori cerchino di rappresentare, ossia di imitare il più fedelmente possibile, i caratteri, i gesti e i sentimenti dei personaggi, a loro volta assunti come rappresentanti esemplari delle persone reali che abitano la quotidianità. È sufficiente anche in questo caso un piccolo esperimento. Basta chiedere ai normali spettatori delle nostre stagioni teatrali (naturalmente escludendo gli spettatori

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professionali) con quali categorie anche implicite giudichino la recitazione di un attore. Ci sentiremo spesso rispondere che un attore tanto più è bravo quanto più «sembra vero» o «sembra che non reciti», al contrario di un altro, giudicato negativamente perché «si vede troppo chiaramente che sta recitando». Risposte talmente consuete da sembrare ovvie, ma che contengono un evidente paradosso: lo stupore e il rammarico di vedere, a teatro, un attore che «recita». Come se il teatro non fosse il luogo in cui gli attori sono chiamati, proprio per contratto, a recitare. Si tratta appunto di un paradosso, indotto in fondo dalla natura stessa del teatro, ma che la tradizione realista di fine Ottocento ha portato alle estreme conseguenze. È infatti da un’epoca relativamente recente, diciamo da poco più di un secolo in maniera argomentata e consapevole, che è quasi automatico ritenere che l’agire dell’attore sia il mezzo espressivo e comunicativo destinato più di ogni altro a rappresentare la realtà, poiché più di ogni altro è in grado di farlo. Per rappresentare corpi azioni spazi gesti e passioni della realtà, un letterato deve usare parole su un foglio di carta e un pittore linee e colori su una tela, mentre un attore usa proprio quegli stessi elementi, e rappresenta un corpo con un corpo, un gesto con un gesto, uno spazio con uno spazio, una parola con una parola, l’espressione di un sentimento con l’espressione di un sentimento. Per questo, proprio per l’omologia delle due forme, i personaggi teatrali portati sulla scena dal corpo vivo degli attori risultano straordinariamente “credibili”, tanto da poter essere considerati alla stregua di persone reali, come si è visto bene nell’argomentazione già citata di Pirandello. Come si diceva, è la cultura realista e naturalista di

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fine Ottocento che porta all’estremo questo processo, producendo una vera e propria mutazione delle modalità di percezione dell’evento teatrale. Il grande regista russo Konstantin Stanislavskij, tra fine Ottocento e inizio Novecento, raccomanda ad esempio ai suoi attori di lavorare sul proprio personaggio per fornirgli una biografia completa, anche al di là della porzione di vita descritta nel testo, nel tentativo di trasformarlo sempre più da personaggio a persona reale. E Pirandello, con un’operazione che è certo un’invenzione letteraria ma è anche il segno di una concezione teorica che sente condivisa dallo spirito del tempo, confessa in apertura della novella La tragedia di un personaggio di dare udienza ai suoi personaggi ogni domenica mattina, «cinque ore, dalle otto alle tredici», proprio come fossero individui reali, e poi scrive Sei personaggi in cerca d’autore, che è la sedimentazione drammaturgica di quell’idea. Anche al di fuori del mondo specificamente teatrale è poi riscontrabile lo stesso meccanismo, se è vero che lo psicoanalista Georg Groddeck disquisisce del comportamento di Nora, protagonista di Una casa di bambola di Ibsen, come se si trattasse di una persona, valutando le motivazioni dei suoi atti e prevedendo il futuro che l’attende dopo la chiusura del dramma. E anche Sigmund Freud psicoanalizza Amleto, o Lady Macbeth, o la Rebecca di Rosmersholm di Ibsen, e addirittura dà nomi di personaggi teatrali ai «complessi», alle disfunzioni psicologiche o caratteriali che affliggono le persone. È appunto questa eredità che ci viene dalla cultura ottocentesca, per la quale i personaggi sono quasi persone reali, che determina l’orizzonte di aspettative dello spettatore verso il teatro come luogo di rappresentazione verosimile della realtà quotidiana. Ma per le sue caratteristiche e per la sua funzione, il teatro è

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in realtà un fenomeno molto più complesso e per certi versi misterioso. Certo più complesso di ogni altra espressione artistica, perché non è solo un’espressione artistica, e comunque perché, a differenza di ogni altra espressione artistica, è appunto fatto della stessa materia di cui è fatta la realtà quotidiana (spazio, tempo, corpi, gesti, parole, rumori, emozioni...). Materia reale, perché reali e concreti sono i corpi e gli oggetti, i suoni e i silenzi di cui il teatro si compone, ma che deve trasportare lo spettatore nell’universo della fantasia, del gioco, del mito, del sogno, insomma della non-realtà. «Noi siamo della stessa materia di cui sono fatti i sogni», dice il mago Prospero nella Tempesta di Shakespeare, con una battuta che viene spesso intesa proprio come un riferimento alla natura del personaggio teatrale. Proprio questo intreccio tra realtà e finzione, che bene si vede nel rapporto tra la materia reale di cui sono fatti gli attori e la materia di sogno di cui sono fatti i personaggi, costituisce del resto la magia stessa del teatro. 4. Il teatro come luogo della finzione «Che cos’è un palcoscenico? Mah, vedi? un luogo dove si giuoca a far sul serio». È la lapidaria e un poco inquietante formula con cui la Figliastra di Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello cerca di spiegare alla sorellina in quale universo sia capitata. Nel caso specifico è quell’universo pirandelliano del cosiddetto “metateatro” o “teatro nel teatro”, che gioca esplicitamente sulla linea di confine tra verità e finzione, ma quella definizione può in realtà assumere un senso ben più generale. Perché davvero il palcoscenico è un luogo dove si gioca a fare sul serio. Oppure anche, rovesciando i termini, dove si fa sul serio giocando. È proprio

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qui, infatti, nel rapporto di incontro-scontro tra gioco e serietà, tra finzione e verità che si può collocare il primo punto di approccio all’universo molto particolare del teatro, in cui la finzione si maschera da verità ma, allo stesso tempo, la verità usa la finzione per sfuggire la superficialità del quotidiano. È pur vero, infatti, che sul piano dei criteri di giudizio è per lo più prevalente l’idea del teatro come rappresentazione realistica della realtà, ma è vero anche che nella coscienza collettiva, magari a un livello più profondo, è sedimentata l’idea del teatro come finzione. Basta pensare ai modi di dire e alle metafore che utilizzano termini del lessico teatrale e che sono restate imprigionate nel linguaggio corrente. Quelle secondo cui, quando si accusa qualcuno di fare la scena o di fare l’attore, si vuole proprio indicare un comportamento ipocrita, di chi mente per far credere vere cose che vere non sono, con strumenti artificiali e un fondo di insincerità. Se proviamo a fare una sorta di fotografia un po’ più definita dell’immagine di teatro che esce dall’uso di queste metafore, potremo verificare quanto essa sia distante dall’idea di teatro che abbiamo appena illustrato. Come detto, già il termine attore è sempre vagamente spregiativo, e serve a indicare una persona che si comporta in maniera artificiale, magari un po’ pomposa ma soprattutto insincera, con una accentuazione maggiore nel caso di termini come istrione, teatrante o commediante. Anche teatrale e teatralità sono sempre, incontestabilmente, sinonimi di artificio e artificiosità, sono le qualificazioni di ciò che è esagerato, insincero, ostentato. Definire un gesto o un atteggiamento come teatrale significa applicare immediatamente un giudizio di valore, designandoli in fondo come falsi ed esasperati. Così come l’espressione gesto plateale, che evidentemente fa

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riferimento alla platea come insieme degli spettatori, indica un gesto prodotto non per intima convinzione ma per impressionare chi guarda. E dunque la teatralità, quando non è qualità dell’inganno, è sempre almeno qualità dell’artificio e dell’ostentazione. Più neutra è la nozione di spettatore, che non è negativa, ma contiene comunque una connotazione di passività, che individua immediatamente chi sta dall’altra parte rispetto a chi agisce. Essere spettatore di un avvenimento è essere “fuori” da quell’avvenimento, senza alcuna possibilità di agire su di esso. Lo spettacolo è infatti qualcosa che si può solo guardare, magari con ammirazione o stupefazione, come un paesaggio montano o un cielo arrossato dal tramonto, ma che non ha in sé valori né positivi né negativi, tanto che si può utilizzare l’aggettivo spettacolare anche per eventi a forte impatto negativo, come ad esempio un incidente stradale. Cosa che può paradossalmente produrre titoli di giornale del tipo «Spettacolare carambola di auto in autostrada. Tre morti». Anche il termine regista, quando non indica una sorta di organizzatore, da cui prende corpo una iniziativa (come ad esempio il regista di una squadra di calcio), acquisisce connotazioni negative, perché designa un personaggio-ombra che coordina lo svolgersi degli eventi, ma stando il più possibile fuori dall’azione, dietro le quinte. Per questo il regista ha quasi sempre un ruolo oscuro e intrigante, di chi non si espone di persona e strumentalizza gli altri per fini spesso non limpidi. In questo, il regista si colloca, anche se con connotazioni meno marcate, in una posizione simile a quella del burattinaio o del puparo (specie se si tratta di avvenimenti di ambito siciliano), che è colui che “muove i fili”

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delle azioni altrui, sempre nascosto, mai visibile e di cui spesso nemmeno si ipotizza la presenza. Numerose sono poi le costruzioni linguistiche che utilizzano le parole scena, palcoscenico o ribalta. Entrare in scena, uscire di scena, chiamare in scena, salire alla ribalta, agire su un palcoscenico sono modi di dire che disegnano un’immagine coerente della scena, che si presenta come un luogo prestabilito o comunque preesistente alle azioni che vi si svolgono, tanto che in essa si può entrare, essere chiamati o uscire. Si tratta comunque di un luogo fortemente illuminato (le luci della ribalta) e per questo sottoposto all’attenzione generale, un luogo privilegiato in cui si compiono azioni che in qualche modo sono sempre pubbliche. Proprio il fatto che sia illuminata e piena di azione fa della scena un luogo intermedio tra due altri spazi che illuminati non sono, come il retroscena, che lo determina, e la platea che lo guarda, abitata da uno spettatore irrimediabilmente staccato e lontano dall’azione. Proprio in virtù di queste caratteristiche la scena è, ancora, un luogo fittizio, artificiale, illusorio. Così il colpo di scena è un effetto a sorpresa, destinato a sconcertare lo spettatore ma che è preordinato dal regista e dall’attore e ubbidisce alle loro strategie. E soprattutto messinscena designa un’operazione artificiosa e falsante, inganno consapevole da parte di qualcuno a danno di altri. Le medesime connotazioni di falsità, come si è detto, sono presenti in espressioni come fare la scena, cioè quando il termine scena non designa un luogo ma l’insieme delle azioni che in quel luogo si svolgono. Con le espressioni retroscena e dietro le quinte assume ancora maggiore evidenza l’idea di un teatro che è apparato e finzione, dunque l’idea della duplicità del teatro, che non è mai ciò che sembra. Quel che avviene

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sulla scena non possiede mai il proprio senso ultimo in sé, senso che è invece determinato da ciò che avviene o da chi sta dietro le quinte o nel retroscena. Il rapporto causa-effetto di questo meccanismo è talmente forte che retroscena, da termine di denotazione spaziale (lo spazio appunto dietro la scena), ha assunto una dimensione più generale, quando si parla dei retroscena come di azioni o intenzioni che, oscuramente, determinano e regolano i fatti che si fanno leggere visibilmente. Il protagonista, nel retroscena o dietro le quinte (le quinte qui assumono quasi il significato di un paravento, di un diaframma che nasconde), non è l’attore, che è sempre in vista e sempre in rapporto scoperto con lo spettatore, ma il regista o addirittura il burattinaio, ossia chi è nascosto a chi guarda. Il retroscena è insomma il luogo oscuro, appunto non illuminato, in cui sta l’effettivo centro del potere, di cui ciò che avviene sotto le luci del palcoscenico non è che l’effetto preordinato. Anche il termine generale teatro indica sempre un luogo, uno spazio preesistente all’azione e indipendente da essa. Essere o essere stato teatro di un fatto per qualche verso notevole vuol dire per un luogo assumere uno statuto speciale. Fatto notevole è comunque che il teatro di un avvenimento è quasi sempre un luogo chiuso, comunque circoscritto e ben delimitato. Le connotazioni di teatro non sarebbero dunque molto diverse da quelle di scena, se non fosse che in questo caso non emerge il tema del rapporto con lo spettatore. Anzi, spesso in questo spazio non sono proprio previsti spettatori, se non come osservatori che stanno fuori dal perimetro del teatro: si pensi ad esempio agli spazi spesso molto vasti, anche intere regioni, quando diventano un teatro di guerra. Tutte queste espressioni, e altre che si potrebbero

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citare anche in lingue diverse dall’italiano, sembrano disegnare un’idea di teatro che è prima di tutto uno spazio, uno spazio tendenzialmente chiuso e definito, preesistente a ogni evento che vi si manifesta e da questo assolutamente non modificato. Un puro contenitore, insomma, che ha tuttavia il potere di enfatizzare le azioni che vi si svolgono. Dentro al teatro anche la scena è identificata come uno spazio delimitato, ma soprelevato, evidenziato, illuminato, in ogni modo staccato dalla platea. Per questo lo spazio destinato agli spettatori e quello occupato dagli attori sono rigidamente determinati e non comunicanti. Soprattutto, in ogni caso, il teatro e la scena sono spazi fittizi, illusori, alla fine ingannatori. Il teatro risulta il luogo e il momento dell’artificio, dell’apparato, del non naturale e dell’insincero, il luogo che istituzionalmente cambia la natura di tutto quanto trova collocazione al suo interno, a cominciare dall’uomo che assume appunto la duplicità dell’attore e non è mai solo se stesso, è anche altro e rappresenta sempre qualcosa di diverso da quel che appare. Questa immagine complessiva, come si vede, è ben diversa, in certo senso è addirittura opposta, rispetto a quella che abbiamo analizzato nel precedente paragrafo. Il riferimento implicito sembra infatti a un’idea di teatro che non appartiene alla spinta estrema verso il realismo dell’epoca tardo-ottocentesca e rimanda invece a un teatro precedente, che sa di cultura barocca e di trompe l’oeil, fatto di artificio e di amplificazione, di finzione e di fascinazione seduttiva dello spettatore. Quasi che l’idea tradizionale del teatro come luogo istituzionale della finzione e dell’artificio, che ha raggiunto il suo culmine appunto in epoca barocca, non avesse mai smesso di abitare, anche in maniera sotterranea, la nostra coscienza e la nostra cultura. Come reperti ar-

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cheologici sepolti nelle pieghe del linguaggio, queste espressioni valgono alla fine anche come una sorta di antidoto alla concezione del teatro come luogo della rappresentazione verosimile che la stagione realistica dell’Ottocento ha lasciato in eredità alla nostra epoca. E come un fiume carsico che si inabissa e si nasconde per certi tratti, ogni tanto riaffiorano a ricordarci che il teatro è, può essere e deve essere anche altro.

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Teatro e spettacolo: ipotesi di definizione

Alla fine, la domanda ineludibile è: cos’è il teatro? Domanda all’apparenza semplice ma in realtà molto insidiosa, come abbiamo visto. Domanda che sembrerebbe presupporre una risposta univoca, quando invece sono tante le risposte al tempo stesso “giuste” e “sbagliate”, perché molti e disparati sono i modi di accostarsi a un fenomeno che è tanto complesso nella struttura quanto inafferrabile nella sua “essenza”, ammesso che ne abbia una. «Possiamo [...] definire il teatro come “ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore”»: lo dice il regista polacco Jerzy Grotowski, uno dei principali teorici del Novecento, in una intervista del 1965 raccolta in un volume ormai classico del 1970, Per un teatro povero. Come a dire che il teatro è in fondo un fenomeno difficilmente definibile, che tuttavia implica come condizione necessaria una relazione, un passaggio di energia tra chi fa un’azione teatrale e chi vi assiste, un “qualcosa” che ha comunque bisogno della partecipazione attiva di tutti e due gli interlocutori. Come due polarità tra cui deve scattare una scintilla. Bella definizione quella di Grotowski, affascinante proprio per la sua apparente genericità, che è invece una consapevole resa al mistero. Nelle parole di Gro-

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towski, infatti, il teatro assume quasi la dimensione di un’esperienza esistenziale, ma all’interno di presupposti e contesti differenti il teatro è anche un luogo di aggregazione sociale e di divertimento, è lo spazio ideale per l’affermazione di modelli culturali, lo strumento privilegiato di sperimentazioni estetiche, il luogo simbolico dell’espressione dei valori di una comunità e tanto altro ancora. Intanto, teniamo come punto acquisito che il testo letterario che sta alla base di tanti eventi teatrali non è “il teatro”. Certo, quel testo ha a che fare con la dimensione teatrale, ne è spesso un elemento fondamentale, ma certo non può pretendere di esaurire in sé l’intero fenomeno. Tanto è vero che è del tutto legittimo ipotizzare eventi teatrali che non abbiano alla base un testo scritto. La storia, d’altro canto, ne fornisce numerosi esempi. E non mi riferisco tanto al mimo o alla danza, che parrebbero la più ovvia delle esemplificazioni, perché capita spesso che questi spettacoli abbiano dietro di sé una partitura scritta molto rigida. E neppure agli spettacoli della commedia dell’arte, che una tradizione mitica ma nella sostanza non veritiera vorrebbe basati esclusivamente sull’improvvisazione degli attori. O a certi esperimenti delle avanguardie novecentesche, in cui i testi vengono stravolti o annullati. Penso invece a qualcosa di più profondo, che ci costringa a rivedere completamente il modello culturale illustrato nel capitolo precedente. 1. Il teatro come evento. Dall’evento alla scrittura In quel modello siamo partiti dal testo letterario, perché questa è la nozione prevalente, sedimentata nella cultura corrente. Ma perché – verrebbe da chiedersi – si

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deve necessariamente partire dal testo per costruire un modello di funzionamento, quando nelle parole che designano il fenomeno teatrale sono chiaramente individuabili radici etimologiche che rimandano all’universo della visione? «Teatro», dal greco théatron, attraverso il verbo theàsthai; e «spettacolo», dal latino spectare, dunque vocaboli che rimandano sempre al «guardare». Anzi, sia il latino spectaculum che il greco théatron designano, oltre che l’evento da guardare, anche l’insieme delle persone che guardano, ossia la comunità riunita per partecipare all’evento teatrale. Non è dunque una forzatura né teorica né storica provare a cambiare la prospettiva e assumere come punto di partenza che il teatro nasce come evento che deve essere guardato e non come testo che deve essere letto o rappresentato in un momento successivo o anche solo ascoltato. Per meglio definire questo concetto, occorre tuttavia fare qualche passo indietro e pensare a un “teatro” che non ha ancora acquisito i caratteri istituzionali che conosciamo, a partire dalla tragedia greca del VI-V secolo a.C. Occorre pensare a qualcosa che è ancora in embrione come evento spettacolare, ma che già può evidenziare le sue caratteristiche di base. Rileggiamo allora i vv. 590-605 del canto XVIII dell’Iliade, che descrivono una danza raffigurata sullo scudo di Achille: Qui giovani e giovanette che valgono molti buoi, danzavano, tenendosi le mani pel polso: queste avevano vesti sottili, e quelli tuniche ben tessute vestivano, brillanti d’olio soave; ed esse avevano belle corone, e questi avevano spade d’oro, appese a cinture d’argento; e talvolta correvano con i piedi sapienti, agevolmente, come la ruota ben fatta tra mano

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prova il vasaio, sedendo, per vedere se corre; altre volte correvano in file, gli uni verso gli altri. E v’era molta folla intorno alla danza graziosa, rapita; due acrobati intanto dando inizio alla festa roteavano in mezzo (trad. R. Calzecchi Onesti).

Una festa, dunque. Una situazione in cui la quotidianità arresta il suo flusso per offrire uno spazio ad azioni inconsuete e improduttive, che sanno di giocosa solarità, di leggerezza, di libertà espressiva. Ci sono le evoluzioni degli acrobati e le danze dei giovinetti, ci sono i costumi e gli accessori che allontanano da ogni dimensione di quotidianità (vesti sottili e tuniche, corone nei capelli e spade d’oro). E c’è anche la folla, «rapita», assiepata attorno alla danza. Pur in un contesto che è quello della festa e non del teatro, siamo nondimeno in presenza di azioni e di modalità di svolgimento che appartengono di diritto all’universo che sarà poi del teatro e dello spettacolo. Eppure non viene pronunciata alcuna parola e non ci sono altre tracce sonore oltre alle manifestazioni di apprezzamento della folla. Men che meno, ovviamente, ci sono testi da rappresentare. Siamo invece, grossomodo, all’interno della nozione di théatron nell’accezione appena richiamata, ossia una dimensione da un lato visiva e dall’altro partecipativa. Certo, Omero appartiene a un’epoca arcaica, quando ancora la tragedia non è apparsa all’orizzonte culturale. Ma questo principio della priorità dell’evento sulla scrittura non muta sostanzialmente di segno, e anzi si rafforza, se ci accostiamo al tema, peraltro ancora non poco nebuloso, delle “origini” della tragedia. Perché anche in questo fenomeno – ne siamo sufficientemente certi – all’inizio non c’è assolutamente il drammaturgo

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che scrive un testo e poi, successivamente, lo affida al meccanismo della trasposizione scenica. All’inizio non ci sono attori che recitano e non ci sono spettatori che assistono, c’è solo la festa rituale. Ovviamente si tratta di un inizio puramente teorico, che cronologicamente non sapremmo collocare con precisione perché la carenza di fonti ci impedisce di verificarlo perfettamente nella concretezza della storia. E tuttavia è sicuro che il teatro definisce in questa sua derivazione dalla festa rituale non tanto e non solo le proprie origini ma la sua stessa natura, la ragione della sua forma. Non c’è dunque un ruolo per la letteratura, e quasi neppure per ogni dimensione estetica, in questo contesto antropologico, nel quale il teatro è semmai parente stretto del rito religioso e della festa. La festa, antropologicamente e storicamente, è il luogo in cui la comunità si contrae e cementa i vincoli che la rendono tale, in cui una cultura si riconosce in se stessa e si rappresenta a se stessa. Per assolvere a questa funzione di auto-rappresentazione sociale, nella festa si determinano anche momenti rituali, fatti di gesti, parole, cerimonie codificate, pur all’interno di un contesto che assegna ampio spazio all’improvvisazione. Sempre, in ogni cultura, il teatro nasce dalla festa rituale, come una sorta di distillato chimico, proprio per questa teatralità intrinseca che già la festa possiede. La particolarità sociale della festa, come si vede dall’esempio della folla che sta attorno ai danzatori sullo scudo di Achille, prevede che non ci sia alcuna frattura istituzionale tra chi agisce e chi guarda, per cui tutti agiscono, tutti sono partecipi, indipendentemente dalla natura del loro coinvolgimento specifico nell’azione. Il partecipante alla festa, anche se compie le azioni che saranno poi quelle dell’attore, anche se balla o canta o compie evo-

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luzioni acrobatiche, non è dunque un “attore”, perché ancora non si è consumata la frattura tra le due funzioni separate di attori e spettatori. Quando questa frattura si produce, la festa lascia il campo al teatro e allo spettacolo, raggrumandosi in forme che non sono più la rappresentazione di sé a sé ma la rappresentazione di sé ad altri. Questo è appunto ciò che avviene in questa Grecia antica che costituisce l’origine riconosciuta del percorso della cultura occidentale. All’inizio del processo che dalla festa conduce alla tragedia sta il coro, una sorta di “attore collettivo” che è molto più vicino alla dimensione del celebrante di un rito che a quella dell’interprete. Non ci sono ancora personaggi, né intrecci che ne giustifichino la presenza, e dunque non ci sono testi. Ci sono solo le evoluzioni e il canto di un coro che rappresenta la comunità ed esprime la voce del dio, appunto nel contesto festivo e cerimoniale del rito in onore degli dèi, di Dioniso soprattutto. Come nel ditirambo, da cui probabilmente prende origine la tragedia, che è una danza eseguita in circolo da cinquanta coreuti che si accompagnano col canto. Tutto sommato, molto poco sappiamo del processo attraverso cui dal ditirambo si è passati alla forma strutturata della tragedia, prima, e della commedia, poi. Ma in questa sede, che non è filologica, poco importa. Quel che importa è che tra il 535 e il 533 a.C. già sono istituiti gli agoni tragici ad Atene e la tragedia, definita dal rapporto tra il coro e un attore, ha assunto, in embrione, la sua struttura fondamentale. La tradizione assegna a Tespi, già presente in quel primo agone tragico documentato, l’innovazione straordinaria di un attore che, attraverso l’interazione fisica e dialogica col coro, permette lo sviluppo di un’azione drammatica, per quanto embrionale. Gli attori che interagiscono col

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coro diventeranno poi due e alla fine tre, ed è in questo contesto che si inserisce anche il tema del testo scritto a monte dell’evento teatrale. Lo scarto fondamentale, che muta la natura stessa dell’evento, è il passaggio dal protagonismo assoluto del coro al confronto tra il coro e un attore. Fino a quando esiste solo il coro, siamo ancora all’interno della dimensione festiva e religiosa, perché il coro parla in nome del dio, ma quando il coro è chiamato a rapportarsi dialetticamente con un soggetto che non ha queste caratteristiche, tutto il processo in certo senso si “laicizza”. Le radici e le connotazioni religiose restano, ma l’evento si colloca ormai in un’altra dimensione, che davvero ora è quella del teatro. Perché al teatro, o meglio alla sua struttura drammaturgica, è necessaria la relazione, il confronto-scontro tra almeno due soggetti. Questi soggetti possono essere di natura diversa, e dunque saranno qui un personaggio plurimo come il coro e un personaggio individuale, in altre epoche due o più personaggi individuali e in altre ancora, specie quando prevale una concezione “psicologica” del teatro, due pulsioni diverse nell’animo di uno stesso personaggio. Ma sempre la drammaturgia si nutre di scontro di posizioni. Il drammaturgo si fa carico di costruire l’architettura di questo scontro, come si vede bene nella struttura delle tragedie classiche. Ma la comparsa del drammaturgo e con esso del testo non è all’inizio del percorso, come abbiamo visto. È vero tuttavia che quando questo accade la struttura dell’evento ne viene radicalmente modificata. Da quel momento, quello che prima era una sorta di celebrante, perché aveva a che fare in maniera diretta col rito, diventa attore in senso specifico, facendosi interprete delle parole e delle azioni di un personaggio, che devono essere stabilite “prima” dell’evento. È qui il

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nodo. Perché, da quando si stabilisce che “prima” c’è il testo e “dopo” c’è la sua rappresentazione scenica, il testo acquisisce una priorità non solo cronologica ma istituzionale, e dunque si determina una gerarchia. Nella sistematizzazione teorica di Aristotele, un paio di secoli dopo, questo rovesciamento è acquisito, come si percepisce dall’affermazione perentoria che «l’efficacia della tragedia sussiste anche senza rappresentazioni e senza attori». A partire da lì si compie quel rovesciamento per cui un evento che denuncia nella sua etimologia l’appartenenza all’universo della visione e a quello della partecipazione si trasforma in un fenomeno che fonda il proprio meccanismo sulla scrittura e sulla parola. Quando la festa dà luogo definitivamente al teatro e consuma la separazione primaria, trasformando i partecipanti nelle distinte funzioni di attori e spettatori, è dunque la scrittura ad assumere su di sé l’operazione fondamentale, quella di pre-determinare la struttura e le modalità dell’evento. È in questo passaggio che il baricentro passa dall’evento alla scrittura, perché la scrittura ha la possibilità di pre-scrivere le modalità di esecuzione dell’evento. Pre-scrivere, ossia “scrivere prima” ma anche “ordinare, disporre”, come le prescrizioni del medico nella ricetta. Questo perché la scrittura possiede un codice rigido, per mezzo del quale il significato dell’operazione si fissa in parole e concetti (e attraverso loro, sentimenti e valori) che possono poi riprodursi tendenzialmente senza scarti quando la scrittura si trasforma in parola viva. Eppure, dentro la ricostruzione qui sommariamente abbozzata risiede un equivoco di fondo, che peserà non poco sulla nozione di teatro anche nelle epoche successive. In quel contesto, infatti, la parola è essa stessa evento, azione. Nella cultura moderna, quella in cui il

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teatro è rappresentazione di eventi verosimili, alla parola è affidato soprattutto il compito di esprimere i sentimenti dei personaggi, di scandagliare le cause psicologiche delle loro azioni. Questo perché, secondo le argomentazioni della psicologia otto-novecentesca, le azioni non sono che il frutto del carattere e dei sentimenti che albergano nell’intimo delle persone. Il movimento è dunque dall’interno dell’animo umano all’esterno del suo comportamento, e per questo è primario indagare ciò che avviene dentro al cuore e alla mente del soggetto. Prima il “dentro”, dunque, e solo dopo il “fuori”. Ma nella tragedia greca la parola è già “esterna”, è già pienamente azione e non psicologia. Basta annotare ancora quello che scrive Aristotele nella Poetica (50a): Il più importante di questi elementi [quelli che compongono la tragedia: racconto, caratteri, linguaggio, pensiero, vista e musica] è la composizione dei fatti. La tragedia infatti è imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita; non si agisce dunque per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri a motivo delle azioni; pertanto i fatti, cioè il racconto, sono il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte. Inoltre senza azione non può esserci tragedia, senza caratteri può esserci.

«Non si agisce dunque per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri a motivo delle azioni». Affermazione difficilmente comprensibile per la sensibilità moderna, per la quale, semmai, sarebbe ipotizzabile, e anche storicamente riscontrabile, un dramma senza azione ma non senza caratteri e psicologia. Per la cultura greca, come ci dice Aristotele, è appunto vero il contrario, se ragioniamo un po’ grossolanamente, come conviene fare qui: un personaggio deve primariamente compiere determinate azioni, e solo in ragione delle azioni che deve

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compiere è fornito di un carattere che le renda possibili. Una tale concezione muta radicalmente l’approccio al personaggio che è consueto per la cultura moderna: nella tragedia il personaggio è definito dalle sue azioni e dai discorsi che le rendono palesi, dal destino di cui è portatore, dalla tensione drammatica che innesca, e non dalla credibilità delle sue motivazioni psicologiche («la tragedia infatti è imitazione non di uomini ma di azioni e di modo di vita»). È dunque di questo genere la parola che presidia la tragedia greca, è una parola-azione e non un deposito di senso per future rappresentazioni sceniche. Tanto è vero che i testi delle tragedie sono pensati solo in funzione di quell’unica, determinata occasione per la quale vengono scritti. Solo per caso, infatti, alcuni testi vengono conservati e riproposti in altre occasioni, quando la cattiva qualità dei tragediografi dell’epoca successiva fa rimpiangere quelli antichi... Questa parola-evento non appartiene comunque solo alla cultura teatrale greca. Anche se in forme diverse e con intensità di molto depotenziata, la si ritrova in varie epoche della storia del teatro occidentale, almeno fino a che il teatro stesso è prevalentemente evento e non letteratura. Diciamo, come ultima residuale stazione, fino al teatro romantico della prima metà dell’Ottocento, nel quale la parola pregnante e densa, portatrice di azione essa stessa, costituisce una delle caratteristiche fondamentali. Col teatro realistico e naturalistico, poi, la parola-evento cede definitivamente il posto a una parola-sentimento, a una parola “interna”, che si muove in un teatro anch’esso tutto interno, tutto psicologico, in cui il percorso giunge a definizione ed è finalmente la psicologia che determina l’azione. E l’azione stessa è, in qualche modo, psicologia.

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2. Evento e rappresentazione L’insistenza sulla nascita del teatro nella cultura greca si deve ovviamente alla considerazione per un momento storico di fondamentale importanza, ma anche al fatto che da lì abbiamo tratto gli elementi di base per il concetto che stiamo definendo, secondo il quale il teatro è evento e come tale va considerato. Questo concetto tuttavia, perché non sia una pura enunciazione teorica, va messo alla prova anche nelle epoche successive. In questa sede, che si vuole più teorica che storica, non ne faremo la rassegna, per concentrarci invece sull’epoca a noi più vicina. Il momento di svolta è appunto quello tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando tutto un movimento di teorici e operatori si ribella al tradizionale dominio della parola. La ragione la esprime bene Edward Gordon Craig, uno tra i maggiori teorizzatori del nuovo teatro, quando nel 1905 scrive e nel 1907 pubblica il dialogo L’Arte del Teatro. Il suo ragionamento espone in una maniera diretta e quasi ingenua una sorta di sillogismo: il testo teatrale è sicuramente arte, e appartiene alla letteratura; il teatro, a sua volta, o è un’arte o non lo è; ma se lo è non può essere nello stesso tempo un’arte (teatrale) e un’altra (letteraria); pertanto l’arte teatrale non può appartenere alla letteratura, e dunque non risiede nel testo drammaturgico. La questione posta da Craig con questo ragionamento è fondamentale. Vuol dire che è la scena, col lavoro concreto di tutte le professionalità che vi intervengono (dall’attore al regista, dallo scenografo al costumista...), il luogo in cui il teatro “è”, in cui elabora i suoi linguaggi specifici. Ponendo la questione in questi termini, implicitamente o esplicitamente, si contesta e si rovescia il modello illustrato nel capitolo precedente, quello li-

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neare del travaso progressivo di senso, dall’autore del testo all’attore allo spettatore. È proprio il punto di partenza teorico che viene modificato. Qui si assume che il senso non stia tutto nel momento iniziale, quello del testo, e si presuppone invece che nuovi significati vengano prodotti a ogni momento del processo, perché a ogni momento c’è una creatività specifica che si attiva e apporta senso all’intera operazione. Così lo spettatore potrà sì perdere tanto o poco dei significati del testo, come si è detto illustrando il modello precedente, ma in compenso acquisirà, in termini di senso e di emozioni estetiche, tutto quanto viene prodotto dalla creatività, specificamente teatrale, del regista, dello scenografo, soprattutto dell’attore. Anche per questo molti protagonisti della cultura teatrale del Novecento rinunciano espressamente alla centralità del testo, a volte lo eliminano del tutto, spesso lo manipolano, lo riducono insomma a mero materiale tra gli altri, al servizio di una creatività che è esclusivamente quella prodotta nell’evento scenico. Questo movimento di pensiero che impegna i teorici di inizio Novecento non mette tuttavia in crisi solo la priorità del testo scritto, ma serve anche a scardinare un altro dei fondamenti della concezione tradizionale del teatro, quella nozione di “rappresentazione” che troppo spesso si usa con leggerezza, senza che ne venga ben definito il significato. Al livello più immediato questo termine designa il passaggio dalla scrittura allo spettacolo, quando una messa in scena viene intesa appunto come la “rappresentazione” del testo che le sta a monte. Anche questa accezione comunemente accettata deve tuttavia spiegare il suo meccanismo. Perché e come la messa in scena è la rappresentazione di un testo? Quali

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sono, insomma, le connotazioni che stanno dentro la nozione di “rappresentazione”? L’etimologia già ci può aiutare, perché il termine deriva dal verbo latino praesentare (che vale ovviamente «presentare»), con l’aggiunta del prefisso rafforzativo rad, come nei verbi «raddolcire», «raddrizzare» o «raddoppiare». Anche nel nostro caso il prefisso può avere valore rafforzativo, producendo il significato di «presentare con maggior forza», ma più probabilmente è da intendere come un segno di duplicazione, per cui si può assumere che «rappresentare» voglia dire sostanzialmente «presentare di nuovo». Ma perché «di nuovo»? «Presentare» significa appunto rendere presente, visibile e soprattutto identificabile un oggetto, una persona, una situazione. L’attore presenta dunque qualcosa a qualcuno, che è chiaramente lo spettatore. Ma per comprendere “cosa” presenta, è necessario ricorrere a quel prefisso rad: il vero e originario luogo della pienezza del senso sta in qualcosa di antecedente, che qui e ora la rappresentazione è solo chiamata a ripresentare. Assumendo il termine in questa accezione, la rappresentazione scenica rimanda dunque al deposito di senso che è già costituito dentro al testo che sta a monte dello spettacolo. Ma la nozione di «rappresentazione» è in realtà molto più ampia. Per meglio comprendere, è utile partire ancora una volta da Aristotele, quando, nel capitolo conclusivo della Poetica, vuole un po’ sbrigativamente dimostrare la superiorità del teatro (nella fattispecie la tragedia) rispetto all’epica, ossia al racconto. Con una costruzione retorica un poco curiosa, Aristotele attribuisce alla tragedia una «più evidente consistenza» in ragione degli elementi propri dello spettacolo, per poi trasferire questa «evidenza» anche al testo della tragedia:

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Inoltre [la tragedia è superiore all’epica] perché possiede tutto ciò che possiede l’epica [...] e in più in non piccola parte la musica [e gli spettacoli, specifica di seguito il testo, con quella che ai filologi pare una aggiunta posteriore] grazie a cui i piaceri acquistano più evidente consistenza, e questa evidenza la possiede sia alla lettura sia all’esecuzione.

Poiché, come si è visto, Aristotele è anche altrove preoccupato di limitare l’invadenza del dispiegamento visivo dello spettacolo più che di sottolinearla, è curioso e proprio per ciò interessante che questo passo voglia attribuire una «più evidente consistenza» di piacere estetico ai procedimenti spettacolari ma poi anche ai meccanismi di scrittura della tragedia. La «più evidente consistenza», o la «vivezza della rappresentazione», come traduce il passo Manara Valgimigli in un’altra edizione del testo, sta dunque nella forma teatrale in sé, nel meccanismo con cui il teatro si rapporta al tema fondante dell’imitazione della realtà. Perché nell’epica l’agire dei personaggi viene raccontato, ma nella tragedia i personaggi si presentano a noi nel momento dell’azione, senza intermediazioni del narratore. E l’azione, anche quando è espressa con parole, è sempre comunque visiva e plastica. In questa concezione più larga e più profonda, la “rappresentazione” è dunque il meccanismo attraverso cui il teatro si confronta con la realtà. Soprattutto perché il teatro, quando lo si consideri nella sua dimensione di evento e non più di testo scritto, possiede una materialità che le altre forme di espressione non hanno, perché è proprio la stessa della quotidianità, fatta di corpi, movimenti, suoni che, volendo, possono imitare perfettamente quelli della realtà di tutti i giorni. Questo è il teatro rappresentativo, ossia quel teatro che vuole

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porsi prioritariamente come uno strumento di imitazione della realtà. Le modalità di questa rappresentazione, di questa imitazione della realtà, sono nella storia anche molto differenti tra loro, perché sono determinate dai parametri estetici propri di ogni epoca e di ogni cultura. Guardando solo agli esempi più prossimi a noi, il Grande Attore dell’Ottocento, ad esempio, filtra la rappresentazione della realtà attraverso le pose della statuaria e dell’iconografia pittorica, in favore di una recitazione che serva soprattutto a esaltare la propria azione fascinatoria nei confronti del pubblico. L’attore della generazione successiva, di stampo naturalista, è invece molto più attento a riprodurre i segni del comportamento quotidiano, si “immedesima” nella psicologia del personaggio per rendere realisticamente plausibili e verosimili le proprie azioni. Ma al di là di queste differenze tecniche e di stile, il principio di base del lavoro scenico è sempre fondamentalmente quello di rappresentare la realtà. È poi la rivoluzione estetica nel giro di secolo tra Otto e Novecento che si incarica di contestare e di mettere in crisi questo rapporto così stretto tra l’azione teatrale e la realtà. La ricerca è anzi verso un teatro che allenti il più possibile e al limite recida questo legame, perché il teatro possa dispiegare, affrancandosi dalla necessità riproduttiva e rappresentativa, tutta la creatività dei suoi linguaggi specifici. Il principio lo enuncia chiaramente ancora Gordon Craig, agli inizi del Novecento: Dobbiamo abbandonare l’idea che esistono azioni naturali o innaturali, e suddividere invece le azioni in necessarie e inutili. Se un’azione è necessaria a un certo punto, si può dire che in quel momento è l’azione naturale (trad. F. Marotti).

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È con tale semplice affermazione che Craig imposta – e in questa prospettiva genialmente risolve – la questione cruciale del rapporto della cultura teatrale novecentesca con il lascito teorico del naturalismo, nel saggio del 1907 Gli artisti del teatro dell’avvenire. Una volta sganciato il teatro dalla tradizionale funzione di rappresentazione della realtà, una volta abbandonato il traguardo della “naturalezza” e della verosimiglianza come metro di giudizio, l’unico parametro che resta sul campo è quello della “necessità” estetica. Se non c’è più alcun modello da copiare, alcuna realtà quotidiana cui avvicinarsi, resta solo l’intenzionalità artistica a dettare la forma dell’azione. Naturalmente il movimento di pensiero impegnato in questa operazione è molto più vasto. Se la base della teoria aristotelica sta nella opposizione fondamentale tra teatro (tragedia) e narrazione (epica), Bertolt Brecht pensa ad esempio di mettere in crisi l’impianto teorico e la tradizionale prassi teatrale azzerando questa opposizione. Il teatro che oppone a quello «aristotelico» è allora quello «epico», in cui l’autore si introduce nella struttura drammaturgica, con ciò limitando proprio quella autonomia dei personaggi che Aristotele aveva individuato come peculiarità del teatro. Lo si vede bene ad esempio in Un uomo è un uomo, del 1926, in cui Brecht mette direttamente in scena la propria poetica: Un uomo è un uomo, dice il signor Bertolt Brecht. E su questo nessuno può eccepire alcunché. Ma il signor Bertolt Brecht ora dimostrerà che, un uomo, lo si può rifare a volontà (scena VIII, trad. G. Veronesi).

Più in generale, comunque, Brecht vuole proprio intervenire sull’intero impianto rappresentativo del teatro,

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con una prassi teatrale che si serve di diversi espedienti per impedire allo spettatore una fruizione solo emozionale, rendendolo sempre consapevole della artificialità della situazione teatrale. Per questo prevede proiezioni, frequenti interruzioni della linearità dell’azione con l’inserimento di canzoni, di cartelli, addirittura di riflessioni in prima persona come nell’esempio sopra citato. All’interno di questa concezione, il rapporto del teatro con la realtà non è più di imitazione, ma di riflessione su di essa, perché il teatro possa adempiere a quel ruolo sociale che il drammaturgo tedesco gli assegna: non solo divertire ed emozionare ma soprattutto costringere a ragionare, a prendere coscienza dei meccanismi sociali, delle forze e degli interessi che li muovono. In generale, è appunto questa la funzione maggiore che i rinnovatori del teatro novecentesco assegnano al teatro, una presa di posizione sul mondo, una riflessione su di esso e insieme un’analisi e una messa in gioco dei linguaggi specifici del teatro che rendono tutto questo possibile. Per questo il teatro novecentesco, molto più che rappresentativo, è teorico e metalinguistico, spesso astratto e di difficile comprensione. Perché si sottrae alla funzione rappresentativa, perché vuole produrre il suo senso lì, sulla scena, senza alcun rimando ad altro, che sia un testo o la stessa realtà quotidiana. Alla fine, la descrizione forse più convincente di quale possa essere la nozione di teatro per i parametri della cultura contemporanea mi sembra quella contenuta in un episodio del film La cinese del regista franco-svizzero Jean-Luc Godard. Il film è del 1967, all’epoca della rivoluzione culturale cinese e dell’aspro confronto tra Cina e Unione Sovietica. Un giovane cinese, di fronte a tutta la stampa occidentale appositamente convocata, arriva con una enorme fasciatura alla testa. Dice di es-

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sere stato ferito in uno scontro con la polizia sovietica e comincia a sciogliere la benda, bersagliato dai flash dei fotografi. Ma alla fine, quando la testa è completamente liberata, si scopre che è del tutto illesa. Questo è teatro, commenta il personaggio godardiano, cioè una riflessione sulla realtà, come Brecht o Shakespeare. Mi pare veramente straordinaria questa azione teatrale e, con essa, la concezione di “teatro” che Godard ci propone. Perché da quell’azione è eliminato ogni elemento che non sia essenziale: c’è un’azione, semplicissima e profondamente carica di significato, che non mantiene alcun rapporto rappresentativo con la realtà, e anzi il cui rapporto con la realtà si rivelerà falsante, bugiardo. E tuttavia ci dice molte cose sulla realtà stessa. Non certo attraverso un procedimento di verosimiglianza (quel che il giovane cinese asseriva era falso, ma avrebbe anche potuto essere vero), ma al contrario proprio perché non assume come codice comunicativo quello della rappresentazione. Si tratta insomma di un gesto che vale in sé e per i significati di cui riesce a caricarsi, e non per il suo rimando alla realtà. In questa prospettiva, il teatro non è e non vuole più essere il luogo della ripetizione ma il luogo di eventi unici, irripetibili e irrecuperabili, in cui il senso si produce e si consuma nello stesso momento, con una effimera provvisorietà che non costituisce il suo limite ma il suo fascino. Come scrive il regista e teorico francese Antonin Artaud nel saggio Basta con i capolavori, inserito nel 1938 in Il teatro e il suo doppio: riconosciamo che ciò che è stato detto non è più da dire; che un’espressione non vale due volte, non vive due volte: che ogni parola pronunciata è morta, e non agisce che nel momento in cui viene pronunciata, che una forma, quando

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sia stata impiegata, non serve più e invita soltanto a ricercarne un’altra, e che il teatro è il solo luogo al mondo dove un gesto fatto non si ricomincia due volte (trad. E. Capriolo).

«Un gesto fatto non si ricomincia due volte». Ecco, quella nozione di “rappresentazione” che si è cercato di definire, con il suo portato di raddoppiamento e di ripresentazione, è qui negata alla radice. Proprio perché il teatro è esattamente il luogo in cui ogni ripetizione è impossibile, in cui «ogni parola pronunciata è morta» e «ciò che è stato detto non è più da dire». L’affermazione di Artaud è sufficientemente radicale da permetterci di formulare la questione in termini più generali, anche se meno affascinanti. A teatro, sulla scena, ogni volta si dà sempre, necessariamente, una nuova creazione. Creazione di gesti e di parole, di senso e di emozioni. Anche quando lo spettacolo voglia essere solo la messa in scena, la “rappresentazione” anche fedele di un testo pre-esistente, la natura istituzionalmente effimera dell’evento, la necessità ineliminabile di produrre senso lì, nel momento stesso in cui quel senso viene speso e muore, obbliga ogni volta l’attore a un nuovo atto creativo. Perché «un gesto fatto non si ricomincia due volte», e ogni volta è un gesto nuovo, intriso di un suo senso specifico, poco o tanto diverso da quello della sera prima o da quello previsto del testo. E quella forma, «quando sia stata impiegata, non serve più e invita soltanto a ricercarne un’altra». 3. Teatro e spettacolo Comprendere in profondità il fenomeno teatrale, come si è visto, non è agevole, tale è la sua complessità e tante le dimensioni che coinvolge. Anche perché alla

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comprensione nuoce un equivoco di fondo, quello che sovrappone spesso la nozione di “teatro” con quella di “spettacolo”. Nozioni che dovrebbero invece restare chiaramente distinte. Perché il teatro è un’attività, è un meccanismo di produzione di senso, mentre lo spettacolo è solo il risultato di questo lavoro, un prodotto destinato alla fruizione di qualcuno che guarda. Al limite sono infatti pensabili anche azioni che non prevedano lo spettatore ma che non per questo cessano di appartenere all’universo del teatro, come ad esempio le operazioni cosiddette para-teatrali dell’ultimo periodo di attività di Grotowski, dopo il suo ultimo spettacolo, Apocalypsis cum figuris, del 1968. Da allora fino alla sua scomparsa nel 1999 Grotowski recupera infatti una dimensione di lavoro teatrale a piccoli gruppi, che non sfocia in spettacolo ma esplora in maniera ancor più approfondita, proprio perché sganciata dalle necessità e dalle costrizioni dello spettacolo pubblico, le tecniche dell’attore, la presa di coscienza del proprio corpo, la rivisitazione di tecniche provenienti da altre culture. Lo spettacolo invece prevede di necessità l’occhio esterno che guarda, che anzi viene inglobato nella struttura stessa dello spettacolo. Consideriamo ad esempio l’impianto più “spettacolare” della storia del teatro, ossia il cosiddetto teatro “all’italiana”, che si definirà più compiutamente in seguito ma che è nella sostanza quello a cui siamo abituati ancora oggi, con l’azione frontale a uno spettatore che resta istituzionalmente separato dalla scena. La linea della ribalta si costituisce come una sorta di diaframma trasparente su cui si condensa e si proietta, per offrirsi allo sguardo dello spettatore, il risultato, il prodotto del lavoro di messa in scena. Lo spettacolo, dunque, si appoggia in maniera parassitaria sul teatro, di cui costituisce sempre, ne-

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cessariamente, un momento successivo. Quale che sia l’opzione estetica da cui si parte, “prima” c’è la messa in scena, la costruzione formale, dunque il lavoro teatrale, e “dopo” c’è la sua costituzione in spettacolo. Lo si può comprendere con facilità considerando ad esempio le modalità operative del regista André Antoine, così come sono descritte in un articolo del 1905, Causerie sur la mise en scène: Perché una scena risulti originale, caratteristica, ingegnosa [...] andrebbe stabilita, se si tratta di un interno, con i suoi quattro lati, le quattro mura, senza preoccuparsi di quale dovrà sparire in seguito per lasciar penetrare lo sguardo dello spettatore. Bisognerebbe poi disporre le uscite naturali tenendo conto della verosimiglianza architettonica, stabilire esattamente, addirittura tracciare fuori dalla scena le stanze e i corridoi su cui aprono; ammobiliare sulla pianta questi appartamenti destinati ad essere solamente intravisti da una porta socchiusa. [...] Una volta compiuto questo lavoro preliminare ed esaminato in ogni suo lato questo paesaggio o questo appartamento, non vi rendete conto di come sarà facile e interessante scegliere il punto esatto dove operare la sezione, togliendo quella famosa quarta parete e conservando alla scena il suo aspetto più caratteristico, adeguato all’azione? (trad. S. Carandini).

Antoine scinde in due momenti le operazioni per la preparazione della scena: prima ci si deve preoccupare delle necessità interne alla drammaturgia dello spazio (la definizione, in pianta, della posizione degli arredi e dei percorsi degli attori), e solo in un momento successivo si può decidere quale delle quattro pareti della stanza sia più utile togliere per permettere la visione agli spettatori. Questo secondo momento, in cui si determina quale sarà il punto di vista da cui si assisterà all’e-

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vento teatrale, è appunto quello in cui un’operazione teatrale si trasforma anche in spettacolo. Quando un’azione diventa un’immagine preparata in funzione di un occhio che guarda (da quella parte e non da un’altra, con quella incidenza dello sguardo e non con un’altra) il meccanismo si articola proprio in questi due momenti. Da un lato c’è l’artificializzazione di un’azione, in vista di una visione “piazzata”, come è evidente in tutte le operazioni che presuppongano uno sguardo esterno, dal mettere in posa il modello da parte del pittore o del fotografo alla messa in scena dello spettacolo teatrale o di quello cinematografico. Dall’altro lato c’è poi una sorta di neutralizzazione di questa artificialità in favore della leggibilità globale del prodotto. Lì si costituisce lo spettacolo, oggetto chiuso e definito, che lo spettatore può solo guardare dall’esterno. In questa prospettiva, analizzando la questione in astratto, l’invadenza della nozione di spettacolo disegna una sconfitta per la cultura del teatro. Perché il teatro è produzione di senso, produzione pura, senza tesaurizzazione del prodotto. È energia, è creatività che si carica e che può trasformarsi solo in emozione. Lo spettacolo è invece il risultato concreto del lavoro teatrale offerto allo sguardo dello spettatore, è il prodotto che entra nel mercato, è la forma che si vende e si compra attraverso l’acquisto del biglietto. Ma la differenza non è solo di ordine socio-economico, è proprio tecnica e in qualche modo ideologica. Perché, come osserva Roland Barthes in un saggio del 1973, Diderot, Brecht, Ejzenštejn, nel momento in cui l’oggetto-spettacolo è costituito e offerto allo sguardo dello spettatore, il lavoro “teatrale” che lo ha costituito deve essere come neutralizzato, deve essere mascherato e cosmetizzato, perché lo spettatore possa trovarsi davanti un oggetto compiuto da contem-

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plare e da apprezzare, in cui il senso sia dato, e non si legga più il percorso faticoso e magari contraddittorio attraverso cui quel senso è stato definito.

IV

Il teatro e il mondo

L’antropologia ci dice che non si conoscono società senza una qualche tipologia di “teatro”, sia esso sotto forma di rappresentazione o di rituale che ha sbiadito la matrice di culto. Così come non esistono società senza forme religiose, senza festa comunitaria, senza gioco, le altre funzioni a cui il teatro è antropologicamente apparentato. Della festa e del rito si è detto. Proviamo allora a porci un’altra domanda, diversa da quella del capitolo precedente. Non più il “cosa è”, ma il “come” e il “perché” del teatro. Non sarà un caso che ancora una volta ci venga incontro l’Aristotele della Poetica, che quasi all’inizio della sua trattazione (48b) indica le ragioni della nascita di ogni linguaggio rappresentativo: Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni [...]. Perciò vedendo le immagini si prova piacere, perché accade che guardando si impari e si consideri che cosa sia ogni cosa [...]. Poiché dunque noi siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare, della musica e

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del ritmo [...], dapprincipio coloro che per natura erano più portati a questo genere di cose, con un processo graduale dalle improvvisazioni dettero vita alla poesia.

Pagina mirabile e molto conosciuta, dalla quale mi preme estrapolare soprattutto tre concetti. Da un lato c’è l’individuazione di una “necessità” antropologica da parte di ogni comunità umana a mettere in atto delle pratiche imitative e rappresentative, nelle quali si riconosce il fondamento stesso della cultura, perché l’uomo ne trae «le nozioni fondamentali», impara a conoscere le cose del mondo e con esse prova il piacere della conoscenza. È lì che sta, in embrione, il “perché” del teatro, che delle attività di imitazione è la più diretta. Dall’altro lato c’è quel fugace accenno al fatto che «l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia», che serve evidentemente a paragonare queste pratiche che daranno vita a ogni forma artistica all’universo del gioco infantile. E infine c’è quella specificazione che, sì, come uomini «siamo naturalmente in possesso della capacità di imitare», ma possediamo anche il senso della musica e del ritmo, ossia della forma, delle regole entro cui calare questa attitudine «naturale». Come si diceva, non esistono società senza una qualche forma di attività rappresentativa, gioco o teatro che sia, a testimonianza del fatto che queste funzioni sono la risposta a un bisogno che può assumere forme diverse, di maggiore o minore intensità, ma resta ineliminabile e necessario. Quel bisogno si chiamerà gioco, o fantasticheria, o evasione dalla realtà, o ricerca dell’immaginario, o voglia di essere altro, o avvicinamento attraverso la finzione a una verità più profonda, o ricerca di un contatto con un mondo ultra-umano, o necessità di individuare simbolicamente i propri valori di riferimen-

IV. Il teatro e il mondo

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to, ma comunque la sua caratteristica principale sarà la diversità dalla realtà “vera”. L’attore, come il bambino che gioca, sa che l’azione nella quale si sta impegnando, per quanto possa apparire simile o addirittura uguale a quelle della vita quotidiana, per quanto possa impegnarlo profondamente, non è comunque da prendere “sul serio”, perché agisce in un campo, delimitato nel tempo e nello spazio, entro il quale valgono regole particolari e differenti rispetto a quelle della vita “reale”. Il “facciamo finta che” vale infatti sia per il bambino che si immagina come un eroe a caccia di mostri sia per gli attori. Ma per entrambi, perché ciò che accade possa avere un senso, è necessario stabilire delle regole, designare il luogo e il tempo di quello che deve accadere, istituire anche tacitamente delle convenzioni. Quello che prima era solo il tappeto ai piedi del divano ora è il mare da cui affiora il mostro con le fauci spalancate sotto le sembianze di un nonno incardinato in quel ruolo, e quella freccia di plastica che lo colpisce al petto nella vita reale non fa male ma nelle regole del gioco è una ferita mortale. 1. Azione quotidiana, azione teatrale, azione spettacolare Il “come” dell’azione teatrale, il suo senso, sta in fondo in questa differenza rispetto all’azione della vita quotidiana alla quale pure rimanda. Abbiamo già verificato e meglio verificheremo in seguito quanto diverse possano essere le modalità di questo rapporto. Ma qui è necessario definire soprattutto lo statuto di questa diversità, provare insomma a indicare in che cosa l’azione teatrale sia “diversa” dall’azione reale. Proponiamo un esempio-limite, proprio perché una forzatura può rendere

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più evidente il meccanismo. Si tramanda dunque che sulle scene della Roma antica, quando la rappresentazione prevedeva un omicidio, l’attore fosse sostituito furtivamente con uno schiavo o un condannato, che veniva davvero ucciso nel corso dello spettacolo. Con un esempio meno estremo, potremmo anche pensare a tutte le volte che un personaggio deve ricevere uno schiaffo “teatrale” e l’attore che lo interpreta riceve uno schiaffo “vero”, o all’inverso viene gratificato da un bacio vero diretto al suo personaggio. Dove sta allora la differenza, se in casi come questi non c’è nemmeno la rappresentazione di un gesto ma proprio un gesto reale, lì, sulla scena? Se un bacio, uno schiaffo o un’uccisione sono un bacio, uno schiaffo, un’uccisione “veri”? Restando all’esempio estremo, l’uccisione sulla scena romana è drammaticamente “vera” per le conseguenze che ha sulla vittima, ma resta nondimeno un’azione teatrale, costruita, alla fine “finta” ed evocativa per l’intenzionalità che la produce, perché il fine non è uccidere lo schiavo ma provocare con quel gesto un’emozione nello spettatore. La differenza sta dunque nell’intenzionalità dell’azione. Nella vita quotidiana, nella realtà, si produce un gesto perché abbia una finalità pratica: si dà uno schiaffo a una persona che ci ha offeso, le si dà un bacio per affetto o amore, al limite la si uccide per difesa o disperazione o vendetta. A teatro si può produrre lo stesso gesto ma con una finalità solo comunicativa, perché quell’azione è necessaria all’interno dell’evento, perché si vuole produrre una reazione emotiva nello spettatore. Il gesto teatrale, dunque, diviene sempre il “segno” di un gesto, un gesto attento soprattutto alla propria forma, un gesto complesso, evocativo, sempre artificiale,

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finto e costruito anche quando è analogo o addirittura identico a uno “vero”, della quotidianità. E tuttavia, questa differenza va maneggiata con cautela. Perché, come si è accennato nel secondo capitolo analizzando i modi di dire e le metafore, si danno forme di “teatralità” anche nella vita quotidiana. C’è ad esempio una evidente teatralità nei rituali con cui il padrone di casa riceve gli ospiti in salotto, oppure nell’incedere compiaciuto di una donna affascinante che sente su di sé gli occhi dei passanti. Sono gesti che hanno tratti di artificialità, sono studiati, costruiti e consapevoli dello sguardo altrui, anche se il loro fine primario è mettere a proprio agio l’amico in visita o attraversare la strada per andare dal lattaio. Il problema teorico non sarà allora quello di distinguere due categorie, quella dell’azione “teatrale” e quella dell’azione “quotidiana”, ma di intendere la teatralità come una qualificazione dell’azione, di ogni azione. Come se fosse una sorta di ingrediente, che so, come il sale, e tutto sta a definire quanto ce n’è e se per un determinato risultato di gusto ce n’è troppo o troppo poco. Nell’azione quotidiana la teatralità sarà allora presente in maniera irrilevante, o occasionale, o accessoria, e comunque non dominante, come si è visto negli esempi citati, mentre diventerà preponderante e quasi totalizzante nell’azione dell’attore. Tanto che una medesima azione può passare da quotidiana a teatrale quasi impercettibilmente, solo superando una piccola frontiera che sta nella mente di chi la compie. L’enunciazione teorica risulta difficoltosa e un po’ astrusa, ma un esempio concreto può servire a meglio comprendere le nozioni sul tappeto. Per illustrare con una splendida esemplificazione gli scarti progressivi che differenziano un’azione quotidiana da un’azione teatrale, mi piace

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spesso citare una sorta di parabola che il grande scrittore e drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist inserisce in un breve, folgorante saggio del 1810, Sul teatro di marionette. Scrive dunque Kleist, affidando il racconto a un “io narrante”: Io feci un bagno [...] circa tre anni fa, con un giovane, sulla cui persona allora era diffusa una grazia meravigliosa. Poteva essere a un dipresso sui sedici anni e solo di lontano si lasciavano scorgere, provocati dal favore delle donne, i primi segni della vanità. Per caso appunto poco tempo prima a Parigi avevamo visto il giovinetto che si leva la spina dal piede; la copia della statua è nota e si trova nella maggior parte delle raccolte tedesche. Uno sguardo ch’egli, mentre poneva il piede su uno sgabello per asciugarlo, gettò su di un grande specchio, glielo ricordò; sorrise e mi disse che scoperta aveva fatta. Anch’io nello stesso momento avevo scoperto quella reale somiglianza; ma, sia per provare la sicurezza della grazia in lui innata, sia per rimediare in qualche modo salutare alla sua vanità, io risi e dissi ch’egli soffriva d’allucinazione. Egli arrossì e alzò il piede una seconda volta per darmene la prova; ma il tentativo, com’era facile a prevedere, fallì. Smarrito, egli alzò il piede la terza, la quarta e lo alzò anche forse la decima volta: inutilmente! Egli non fu in grado più di riprodurre lo stesso movimento. Che dico? I movimenti che faceva, erano tanto comici che io faticavo a ritenere le risa (trad. L. Traverso).

A me pare che Kleist riesca qui a definire, con concisione e chiarezza, proprio le nozioni di cui parliamo. Quando il giovane compie il primo gesto, si tratta di un’azione quotidiana, che ha il solo scopo concreto di asciugare il piede. Quando viene raddoppiato dalla visione allo specchio, il gesto non è più lo stesso, perché perde il riferimento alla funzione pratica per cui era stato prodotto, e diviene il “segno” di un gesto, in certo

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senso è già una “rappresentazione”. Proprio per questo assume connotazioni estetiche, ricerca parallelismi artistici e dunque è attento esclusivamente alla sua forma, tanto che il paragone è con gesti che possiedono una finalità differente (togliere una spina e non più asciugare il piede). Nella visione dello specchio, attraverso la coscienza e l’occhio del giovane, quel gesto si fa allora artificiale, allusivo, costruito, finto, insomma “teatrale”. Nel racconto c’è poi la descrizione di un terzo gesto, quello che il ragazzo ripete tre quattro dieci volte, esclusivamente per mostrarlo al suo interlocutore. E si tratta di un gesto da “attore” in senso pieno, perché, oltre che teatrale, diviene anche “spettacolare”, nel senso illustrato alla fine del capitolo precedente, perché si costruisce “in favore” di qualcuno che guarda. Il senso del gesto, in questo ultimo step, non sta più solo nel ricercare una forma ma anche e soprattutto nello stabilire un atto di comunicazione, condizionato da uno sguardo esterno, che diviene non solo il destinatario ma la ragione stessa della costruzione del gesto. E non è senza significato che Kleist, proseguendo il racconto, attribuisca a questa volontarietà di comunicazione, a questa dipendenza dallo sguardo dell’altro la perdita della «grazia», perché quell’eccesso di consapevolezza produce affettazione. È in questi progressivi scarti che sta la diversità tra un gesto “quotidiano” e un gesto “teatrale”, ossia cosciente della propria forma, e poi quella tra un gesto “teatrale” e un gesto “spettacolare”, ossia prodotto in funzione di qualcuno che guarda, per cui alla coscienza della forma si aggiunge la coscienza dello sguardo esterno. La coscienza dello sguardo, della sua collocazione ma anche della sua distanza, della sua qualità, della sua competenza, determina e altera la forma di un gesto pen-

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sato ed eseguito proprio “in favore” di quello sguardo. Come mostra il racconto di Kleist ma anche l’esperienza di chi prova un innaturale irrigidimento quando si scopre improvvisamente sotto l’osservazione di qualcuno o anche nell’inquadratura di una telecamera – l’occhio meccanico dei mezzi di riproduzione è ancora più intrusivo perché fissa i nostri gesti per sempre –, questo meccanismo può produrre affettazione, ossia fastidiosa artificialità di atteggiamento. E si tratta proprio delle situazioni in cui “si vede lontano un miglio” che l’attore recita. O quando una persona, nella vita quotidiana, è accusato di fare gesti “teatrali” o “plateali”, insomma di “fare la scena”. Governare questo effetto è proprio una delle funzioni dell’attore. Naturalmente il teatro ha svolto nelle maniere più diversificate questo tema. Ci saranno poetiche che cercheranno il più possibile di avvicinare l’azione teatrale all’azione quotidiana, elaborando tecniche che riducano il più possibile l’affettazione e l’artificiosità del gesto. Ma ci saranno anche azioni che, pur non rinnegando la funzione generale della rappresentazione, non rimuoveranno questa artificialità, costruendosi secondo principi differenti, nella direzione di un gesto simbolico, ad esempio, oppure di ludica spettacolarità fine a se stessa. E ci saranno anche, specie nello spettacolo novecentesco, azioni quasi del tutto sganciate da ogni preoccupazione rappresentativa, e dunque astratte, o grottescamente deformate, o ridotte all’essenzialità del movimento della marionetta. Ma lo vedremo nell’ultimo capitolo.

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2. Il teatro e la realtà Il “come” e il “perché” del teatro resterebbero tuttavia allo stadio embrionale che abbiamo finora descritto se non si introducesse il tema del ruolo e della funzione che le diverse culture hanno assegnato e assegnano all’azione teatrale. Che si tratti di rappresentazione della realtà, di riflessione su di essa o anche, paradossalmente, di fuga dalla realtà e di costruzione di una realtà alternativa, le forme del rapporto col mondo sono fondamentali per ogni definizione storica del teatro. L’azione teatrale può anche trarre origine, come dice Aristotele, dalla necessità e dal desiderio dell’uomo di rappresentare il mondo fuori da sé, ma la storia ci ha poi consegnato infinite varianti di questo rapporto. Alla luce di quanto si è visto dopo, a noi moderni pare ad esempio che la asserita volontà di «imitare azioni e stili di vita» della tragedia greca sia da assumere con molta cautela, vista la conclamata artificialità di quel teatro. Essendo al massimo tre gli attori ma ben più numerosi i personaggi della tragedia, ogni attore deve ad esempio interpretare più ruoli, con un rapporto tra attore e personaggio difficilmente comprensibile alla nostra sensibilità contemporanea e consentito solo dalla convenzionalità che regola tutto il meccanismo. A identificare il personaggio non è infatti l’attore ma la maschera, soprattutto, e talvolta gli accessori, come lo scettro per i re, le bende per gli indovini o la pelle di leone e la clava per Eracle. Tutti gli attori, poi, sono maschi, pur in presenza di tanti personaggi femminili di grande intensità e centralità drammaturgica, per cui è già in partenza negata ogni possibilità di “realismo”, almeno nel senso moderno del termine. A dare credibilità all’azione tragica non è infatti la

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verosimiglianza, la riduzione a quotidianità riconoscibile dei corpi, degli atteggiamenti e delle parole, ma la convenzione che si instaura tra attori e spettatori. È la parola, e il sentimento che è imprigionato in essa, che rende visibili agli spettatori lo scontro drammatico, le tensioni, le passioni. Tutto questo è reso possibile dal carattere sostanzialmente comunitario del teatro greco, che fa sì che attori e spettatori condividano contesto sociale e culturale di riferimento, universo mitico, valori e schemi di comportamento. Il tragediografo nella sostanza non inventa le sue storie e affonda invece le mani nel patrimonio comune di miti e di racconti che già sono presenti alla memoria della comunità. Le vicende di Fedra o di Antigone, nelle grandi linee, sono già conosciute dalla comunità degli spettatori e il poeta non fa che rielaborarle, reinterpretarle, mantenendo tuttavia le strutture fondamentali delle passioni e delle tensioni di cui esse sono portatrici. Certo è agevole per noi contemporanei, che siamo in grado di ricostruire sia pur sommariamente i modelli di oltre 2500 anni di storia del teatro, rilevare le incongruenze tra una asserita volontà di «imitazione della realtà» e la concretezza di pratiche che sembrano andare in direzioni opposte. Per questo è necessario, per quanto è possibile, rapportare sempre l’analisi al contesto e ai parametri socio-culturali dell’epoca. Questa avvertenza non può tuttavia esimerci dal rilevare come il rapporto tra il teatro e il mondo, nella storia, si risolva molto più spesso in termini di confronto dialettico, di marcato convenzionalismo, di argomentazione interpretativa, più che di imitazione diretta. Ovviamente prima dell’irruzione della poetica “realistica” dell’Ottocento, funzionale, sul piano ideologico, alle necessità

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di comunicazione sociale della borghesia, nuova classe dirigente in quel medesimo periodo. Il teatro religioso del Medioevo cristiano, ad esempio, come del resto tutta l’arte e tutta la comunicazione medievale, si appoggia a una rigida convenzionalità, assai più preoccupata della coerenza interna del sistema simbolico che costruisce che del riscontro realistico con la quotidianità. Anche qui gli interpreti sono rigorosamente maschi, all’inizio anche religiosi, e in più sono in sostanza prigionieri di un meccanismo di significazione tutto particolare, che rende impossibile il consueto rapporto attore-personaggio. In quel contesto, infatti, nessuno può pensare di assumere su di sé il personaggio di Cristo o addirittura di Dio, nutrendolo della propria psicologia e delle passioni del proprio vissuto, come fa invece l’attore moderno, perché ciò significherebbe precipitarlo dall’assoluto al contingente, dalla infinitezza del divino alla finitezza degradante e materiale dell’umano. Al massimo, quei personaggi è possibile citarli, mostrarli, immobilizzarli in icone che solo per il movimento e la parola sono differenti da quelle dipinte negli affreschi o scolpite nei capitelli delle chiese. Per analogia, questo vale anche per le altre figure sacre delle Scritture o, per ragioni simmetriche e opposte, per le figure maligne, perché assumere su di sé la personalità del demonio espone a un grave pericolo di contaminazione morale e, alla fine, di perdizione. Analoghi tratti di convenzionalità, sia pure in forma meno marcata, sono visibili in altri momenti successivi della storia del teatro occidentale, a partire da quello che, nelle corti signorili dell’Italia centro-settentrionale del Cinquecento, pone le fondamenta del teatro moderno. Pur nel contesto di una volontà di rappresentazione, affidata soprattutto alle valenze illusionistiche

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della scenografia in prospettiva, anche questo teatro mantiene quasi esclusivamente la recitazione solo maschile, che evidentemente ostacola ogni verosimiglianza. Basterebbe leggere la precettistica dei trattati della seconda metà del Cinquecento: Leone de’ Sommi, ad esempio, che scrive i suoi Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche forse negli anni Sessanta del Cinquecento, raccomanda di non assegnare «una parte da donna (e da donzella maxime) ad uno che avesse la voce grossa». E ancora Angelo Ingegneri, il corago (regista, diremmo oggi) dello spettacolo inaugurale del Teatro Olimpico di Vicenza nel 1585, nel trattato Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, del 1598, ancor più specificamente annota: «Di coloro che recitano le parti femminili, non occorre aggiungere altro se non che, procurandosi che di faccia sieno quanto più sia possibile accomodati al bisogno, nel resto si vadano adattando con capegli, con veli, con nastri e con altri abbigliamenti da capo condecenti all’età che si desidera». Raccomandazioni che potrebbero valere anche per l’altro grande fenomeno del teatro dell’età moderna, il teatro elisabettiano dell’Inghilterra tra fine Cinquecento e inizio Seicento. Anche qui gli attori sono solo maschi, ma questo principio è mediato con una tensione verso la verosimiglianza che porta ad affidare le parti femminili a ragazzi impuberi, a soggetti cioè in cui i caratteri maschili non sono ancora del tutto definiti. L’azione teatrale è dunque anche qui molto diversa dall’azione della realtà, eppure su questa realtà prende posizione, si interroga, e chiede allo spettatore di fare altrettanto. Perché tra l’attore e lo spettatore si deve instaurare una sorta di “contratto”, in cui lo spettatore è chiamato a sospendere le categorie di comprensione e di riconosci-

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mento della realtà che utilizza nella vita quotidiana per dar credito, con l’aiuto della propria immaginazione, a quanto gli viene mostrato sul palco, che evidentemente da quella realtà quotidiana è molto lontano. Il Coro, nel prologo dell’Enrico V di Shakespeare, in qualità di portaparola dell’autore, esplicita con chiarezza questo mistero della finzione teatrale: [...] Ma perdonate, signori, le pedestri, prosaiche menti che hanno avuto l’ardire su questo indegno tavolato di rappresentare un tema così augusto: può questa ristretta pedana [contenere la sterminata campagna di Francia? Oppure possiamo [noi gremire questo O di legno anche dei soli elmi che atterrirono l’aria ad Agincourt? [...] supplite col vostro pensiero alle nostre imperfezioni; dividete in mille parti ogni singolo uomo ed immaginatevi un possente esercito; pensate, quando parliamo di cavalli, di vederli stampare i superbi zoccoli sulla docile terra; poiché col pensiero vostro dovrete ora equipaggiare [i nostri re, spostarli qua e là, saltando gli intervalli del tempo e condensando le imprese di molti anni nel giro d’una clessidra (trad. V. Gabrieli).

Uno dei punti determinanti del rapporto tra teatro e realtà, come si è visto, è la negazione di un ruolo teatrale alle donne e dunque la necessità di ricorrere a interpreti maschili anche per i personaggi femminili. Agli esempi citati sarebbero da aggiungere anche le tragedie e le commedie del teatro romano prima dell’introduzione del mimo e molte forme dei teatri orientali o comun-

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que non occidentali. Le ragioni di questa esclusione sono naturalmente di ordine sociale e hanno a che fare soprattutto con la posizione subalterna della donna in queste società, ma qui interessano soprattutto le ricadute sul ruolo del teatro, che non può evidentemente pretendere di essere una rappresentazione verosimile della realtà ma diventa in certo senso il luogo in cui, simbolicamente, si evidenziano le linee della struttura sociale del tempo. Lo snodo fondamentale a questo riguardo è la commedia dell’arte italiana del Cinquecento e del Seicento, perché anch’essa, almeno all’inizio, si serve di attori solo maschili, ma poi è proprio lì che si introduce la straordinaria novità delle donne in scena. Non ancora con una funzione di verosimiglianza, ma semmai con fini di fascinazione e di seduzione erotica degli spettatori. Perché anche la commedia dell’arte è un teatro che molto poco si preoccupa della verosimiglianza. Lo spettacolo, veloce e agile, mira esclusivamente a divertire il pubblico, «tanto ch’io credo che Zanni [lo Zanni è il principale personaggio della commedia dell’arte] sia nato / per passatempo, burla, giuoco e festa, / e fare il mondo star lieto e beato», come scrive il poeta Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, poco dopo la metà del Cinquecento. La struttura è intessuta soprattutto di movimento, azioni, gag, situazioni che per essere divertenti sfidano ogni credibilità. L’uso delle maschere, la ripetitività delle situazioni, i colloqui sospirosi o dispettosi degli innamorati, i giochi di parole degli Zanni, la magniloquenza senza senso del dottore o gli sproloqui di amore senile di Pantalone sono tutti elementi al servizio dell’azione, in cui a essere messa in scena non è tanto la realtà quotidiana quanto piuttosto una sua buffa parodia.

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Ed è sempre l’Italia del Seicento, tra Firenze e Roma, che inventa il melodramma, un’altra tipologia di spettacolo che ottiene uno straordinario e immediato successo. Tra macchinerie mirabolanti, splendidi costumi, coreografie, musica e la pratica del «recitar cantando», il melodramma trasporta lo spettacolo in una fascinosa dimensione di artificialità. Uno spettacolo che più di ogni altro esprime la cultura teatrale barocca, col fine dichiarato non più di imitare la realtà, ma di trasfigurarla. La civiltà teatrale dell’ultimo Cinquecento, del Seicento e anche del primo Settecento vive soprattutto di questo lascito, in cui grandiose scenografie e apparati illusionistici disegnano un teatro nel quale il principio ispiratore primario non è davvero quello dell’imitazione della realtà. Sono poi le mutazioni sociali a produrre un cambiamento delle finalità del teatro e dunque del suo rapporto con la realtà esterna. Con la crescita di autorevolezza sociale della borghesia, dalla seconda metà del Settecento, il teatro comincia a essere assunto come il principale veicolo culturale (assieme al romanzo) per la definizione e la diffusione dei valori della società borghese. Perché una classe giovane, almeno come ruolo dominante, ha bisogno di uno strumento che non sia puro divertimento o grandiosità spettacolare slegata dal mondo reale e offra invece modelli di comportamento, scale di valori, situazioni realistiche in cui gli spettatori possano identificarsi. In questo contesto, con la teorizzazione del dramma fatta da Denis Diderot in Francia o da Gotthold Ephraim Lessing in Germania, oppure con la rinnovata commedia di Carlo Goldoni in Italia, liberata dagli stereotipi di una ormai esaurita commedia dell’arte, si stringono i rapporti tra teatro e mondo, impostando i termini della concezione del teatro come

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rappresentazione, o addirittura come specchio, della realtà. Da lì parte la pretesa culturale che il teatro debba essere il luogo di una imitazione credibile della quotidianità, senza più dèi e neanche eroi, senza apparati fantasmagorici di nuvole che si aprono per far scendere cocchi alati, senza servi astuti e padroni sciocchi, senza più uomini che interpretano personaggi femminili, alla ricerca di una verosimiglianza che sia la vera ragion d’essere dello spettacolo teatrale. Naturalmente, come per ogni fenomeno culturale, il percorso non è lineare. Questa istanza di rappresentazione verosimile vede ad esempio una attenuazione con il teatro romantico, quando il dramma riprende a riempirsi di eroi e di ambientazioni non quotidiane, alla ricerca di quell’assoluto che è il segno principale della cultura romantica. Ma poi la stessa istanza acquista nuovo vigore e viene spinta alle estreme conseguenze con il teatro realistico e naturalistico della seconda metà dell’Ottocento, quando si impone definitivamente quel modello di verosimiglianza che ancora occupa, implicitamente o esplicitamente, la cultura corrente della nostra epoca e che abbiamo provato a illustrare nel secondo capitolo. L’ideale di questa poetica è che lo spettatore consideri ciò che vede come una porzione di realtà trasportata sulla scena e sottoposta alla sua attenzione. Questo porta di solito a identificare il palcoscenico con una stanza, che si offre alla visione degli spettatori come attraverso una parete trasparente, quella “quarta parete” che serve per vedere dentro la scena come se gli attori non si rendessero conto di essere osservati e dunque potessero comportarsi come davvero si comporterebbero nell’intimità, tra le quattro mura della propria stanza. È Diderot che per primo consiglia agli attori di recitare

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«come se il sipario non si fosse mai alzato», facendo conto che lo spettatore non esista e immaginando «sul limite del palcoscenico, un gran muro che [li] separi dalla platea», come scrive nel saggio Sulla poesia drammatica, del 1758. Ma è poi il drammaturgo Jean Jullien che quasi un secolo e mezzo dopo, nel 1892, definisce con precisione questa nozione della quarta parete: Anche se l’attore deve stare sempre attento a seguire le impressioni della sala, non lo deve dare a vedere, deve recitare come fosse a casa sua, senza preoccuparsi dell’emozione che suscita, degli applausi e dei dissensi; al posto del sipario deve trovarsi una quarta parete, trasparente per il pubblico, opaca per l’attore (trad. S. Carandini).

È poi con la crisi di quella cultura, nel giro di secolo tra Ottocento e Novecento, che la funzione del teatro come specchio e rappresentazione del mondo si affievolisce e anzi, molto spesso, si ribalta. E il teatro ritorna ad essere una riflessione sulla realtà, più che una sua rappresentazione. Anche perché nel frattempo la finalità di rappresentare verosimilmente e credibilmente le vicende quotidiane viene assunta da un nuovo strumento, più adatto e più economicamente funzionale, come il cinema. Per questo al teatro si aprono nuove possibilità di espressione e il suo linguaggio si fa più astratto, più distante dal mondo reale. In questo contesto culturale non si rompe definitivamente il vincolo di rappresentazione fra il teatro e la realtà, perché anche molte esperienze della teatralità contemporanea vi si assoggettano, ma certo viene meno il principio della sua “necessità” istituzionale. Il teatro può dunque anche fare altro, oltre a rappresentare la realtà. Ma questa raggiunta libertà espressiva viene poi scontata con quel fenomeno di distacco dall’orizzonte di aspettative di uno spettatore

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assuefatto ai canoni della rappresentazione realistica che determina quella difficoltà di comprensione, quella sorta di astrusità così spesso lamentata dagli spettatori del teatro contemporaneo. 3. Il mondo come teatro e come spettacolo Lo spettacolo teatrale, lo abbiamo visto, nelle sue diverse forme è presente in ogni cultura. Per questo è facile comprendere come possa diventare anche un modello per descrivere i meccanismi dell’universo sociale di cui è espressione. La metafora del mondo come teatro ne è un esempio evidente. Coniata in età antica, quando il teatro è un fenomeno sociale della vita collettiva, quasi scompare in epoca medievale, quando anche il teatro come istituzione si decompone sotto la martellante campagna anti-spettacolare della dominante cultura cristiana. La metafora ricompare con una incisività accresciuta dal ritrovato gusto per il teatro nell’Europa del Cinquecento, ad esempio nell’Elogio della pazzia di Erasmo da Rotterdam, nel 1515: «E la vita umana che altro è se non una commedia? In questa, gli attori escono in pubblico, celandosi chi sotto una maschera, chi sotto un’altra [...]. Tutta la vita non ha alcuna consistenza; ma, tant’è, questa commedia non la si può rappresentare altrimenti» (trad. T. Fiore). E soprattutto in William Shakespeare, che già chiama Globe (Mondo) il suo teatro, sul quale sta scolpito il motto, che pare derivi da un pensatore cristiano del XII secolo, Giovanni di Salisbury, «totus mundus agit istrionem» (tutto il mondo agisce come un istrione), e poi innerva di questa metafora tante sue opere, fino alla più compiuta formulazione nel Macbeth (V, 5), in cui si colora di pessimismo e di sconfitta:

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La vita non è che un’ombra che cammina; un povero [attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale poi non si ode più nulla: è una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla (trad. A. Lombardo).

Anche Pierre Corneille, il grande drammaturgo francese, scrive nel 1635 una commedia di grande fascino, L’illusion comique, in cui la commistione fra teatro e vita è tanto stretta da riuscire a confondere e ingannare il padre di un attore che, per un sortilegio, vede da lontano il proprio figlio ucciso, per scoprire poi con sollievo che si trattava solo di una scena teatrale. Non è certo casuale che il tema del mondo come teatro, con la metafora relativa, ricompaia con tanta evidenza nella cultura europea del Cinquecento e soprattutto del Seicento. Perché se il mondo è teatro e il teatro è il luogo dell’artificio e della finzione (e per nessuna epoca il dato è più vero che per il Seicento europeo), allora il tema del rapporto tra vero e falso, tra maschera e volto, tra artificio e realtà, non può non divenire uno dei punti centrali della riflessione cinque-seicentesca sia sulla convivenza civile che sulla rappresentazione teatrale. È ancora Erasmo che, immediatamente prima del passo sopra citato, riprende la questione con grande lucidità: Se uno, mentre gli attori rappresentano un dramma, tentasse di toglier loro la maschera, per mostrarli agli spettatori con le loro facce vere e naturali, non guasterebbe tutta la rappresentazione? [...] Certo, per opera sua tutte le cose piglierebbero un nuovo aspetto, e chi prima era donna, ora sarebbe uomo, chi poco fa giovane, subito dopo, vecchio, chi era re poco prima, si rivelerebbe all’improvviso un mascalzone [...]. Ma [...] è lecito distruggere quest’inganno? Non si scompi-

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glierebbe tutto il dramma? Poiché è proprio questa illusione, questo trucco a tener incatenati gli spettatori.

La «maschera», le facce «vere e naturali», l’«ingan­ no», l’«illusione». Sta qui tutta la nuova poetica teatrale e la riflessione che fa del teatro il modello anche del comportamento quotidiano, in una società, come sarà poi quella del Seicento e del primo Settecento, tutta spettacolarizzata, tutta rivolta a codificare le regole dell’apparire e del farsi guardare. Anche Miguel de Cervantes, nel capitolo XII della seconda parte del Don Chisciotte, che è del 1615, fa illustrare al suo protagonista la metafora (peraltro non nuova, come gli fa notare lo scudiero Sancio Panza) del mondo come teatro e dunque del ruolo che ciascuno è chiamato a recitare nella vita. Ma poco dopo, nel capitolo XXVI, Don Chisciotte si avventa contro i mori finti del teatrino di marionette di Mastro Pietro, dimostrando con ciò di non percepire il confine tra vita reale e scena e dunque combattendo contro le marionette come combatterebbe contro i mori veri. Naturalmente si tratta di un esempio estremo, ad opera di un personaggio come Don Chisciotte che già “mette in scena” la sua intera vita come una recita di ciò che vorrebbe essere. E tuttavia serve a segnalare come nella cultura seicentesca i confini tra teatro e mondo siano diventati molto più permeabili. Qualche decennio dopo, sempre in quella cultura spagnola in cui il tema è molto frequentato, Pedro Calderón de la Barca, forse il più grande drammaturgo dell’epoca, scrive e rappresenta agli inizi degli anni Trenta del Seicento un testo come La vita è sogno, di cui nel 1673 fornisce anche una versione sotto la forma del teatro religioso degli autos sacramentales. Qui il confronto non è direttamente tra la vita e il teatro, ma

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è evidente che è una forma vicina alla teatralità quella sorta di “prova” della vita reale cui è sottoposto il principe Sigismondo, rimasto imprigionato per anni e poi trasportato a corte per verificare il suo comportamento. La prova non darà esito positivo, perché Sigismondo, inselvatichito e incattivito dalla segregazione, si comporterà in modo malvagio, ma questa esperienza (vera o finta? reale o solo rappresentazione della mente, come in un sogno?) gli servirà per comportarsi magnanimamente quando tornerà, “sul serio” e legittimamente, a regnare. Che quest’opera voglia dirci qualcosa anche sul rapporto tra teatro e mondo è testimoniato dal fatto che, dopo appena un anno o due, Calderón scrive un testo esplicitamente dedicato a questo rapporto, Il gran teatro del mondo. Qui il meccanismo che fa del mondo un teatro, e dunque individua nel teatro lo strumento migliore per rappresentare il mondo, è del tutto esplicito. Il testo ha soprattutto significati religiosi, in ordine al tema della predestinazione e del libero arbitrio dell’uomo, ma per noi è importante che argomenti di tale rilevanza siano trattati attraverso la metafora del mondo come teatro. C’è dunque Mondo, un personaggio allegorico che evidentemente rappresenta tutto il creato, a cui un Autore Sovrano, ossia Dio, che è il creatore e padrone di Mondo, chiede di mettere in scena uno spettacolo, costituito dalla vita degli uomini, in cui ciascuno reciterà il proprio ruolo: AUTORE. Poiché io sono il tuo autore e tu la mia creatura, oggi intendo affidarti l’esecuzione di un mio progetto. Voglio celebrare una festa al mio stesso potere [...]. E siccome ciò che più ha rallegrato e divertito è sempre stato la recita molto applaudita, e la vita umana è in sé una recita, sarà una commedia quella a cui oggi il Cielo assisterà nel tuo teatro.

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Se io son l’autore, e mia è la festa, mia sarà per forza anche la compagnia; e giacché sin dall’inizio scelsi gli uomini quali attori e compagni, essi, nel teatro del mondo [...] dovranno recitare con stile opportuno. Naturalmente darò ad ognuno il ruolo che più gli si addice [...]. Per cui, al contempo, saremo io l’Autore, tu il teatro e l’uomo il commediante (trad. P. Monti e G. Buttafava).

L’uomo è dunque chiamato a recitare il suo ruolo, in questo mondo che non è che un teatro, per sottoporsi poi al giudizio di quell’Autore che gli aveva assegnato quella parte. Nelle epoche successive, quando si affievolisce il grande meccanismo di spettacolarizzazione della vita di cui è impregnata la cultura barocca, questo rapporto così stretto tra teatro e mondo si allenta, soprattutto perde i connotati di una possibile sovrapposizione. Il teatro invade sempre meno la vita, la realtà sta da una parte e il teatro dall’altra. La metafora del mondo come teatro perde sempre più consistenza, perché sempre più l’uomo si sente padrone di se stesso e in grado di cambiare, con le sue decisioni, il proprio ruolo e il proprio destino. Non potendo più esserne la metafora, il teatro si assumerà allora il compito di rappresentare il mondo, di scandagliarne gli aspetti piacevoli o sgradevoli, magari di indicare i modi per emendarlo dai difetti. Lo si vede bene nella pagina famosa di Carlo Goldoni sui suoi rapporti col «Mondo» e col «Teatro», nella Prefazione delle sue opere nell’edizione Bettinelli del 1750: i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d’essermi servito, furono il Mondo e ’l Teatro. Il primo mi mostra tanti, e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che mi paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose, ed istruttive

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commedie; mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni; mi provvede di avvenimenti curiosi; m’informa de’ correnti costumi; m’istruisce de’ vizi, e de’ difetti, che son più comuni del nostro secolo, e della nostra nazione, i quali meritan o la disapprovazione, o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi coi quali la virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, e meditandovi, in qualsiasi circostanza, od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo libro, il libro cioè del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono.

Il «Mondo» e il «Teatro», dunque, si confrontano in una situazione di separatezza. Il teatro osserva il mondo e lo rappresenta con fedeltà, aggiungendo semmai i «colori», per trovare «ciò, ch’è più atto a far impressione sugli animi», come scrive ancora Goldoni. A questa concezione, pur con l’adeguamento alle diverse poetiche che via via i drammaturghi hanno proposto, il rapporto tra teatro e mondo resterà incardinato, almeno fino alla crisi di questa forma teatrale nello snodo tra Otto e Novecento. Da quel momento nulla sarà più come prima, e il confronto col mondo, con la realtà quotidiana, diventerà un problema e un impedimento per gli operatori del teatro. E allora il mondo sarà ignorato, per rifugiarsi nel mito o nel sogno o nella fantasticheria irreale come nell’universo simbolista o in quello dadaista e surrealista, oppure grottescamente intravisto attraverso uno specchio deformante come nella cultura espressionista, oppure ridotto a fredda esemplificazione dei meccanismi sociali come nel teatro di Brecht, oppure

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sminuzzato, violentato, rimontato, contraddetto come in tanti esperimenti delle avanguardie storiche dei primi decenni del Novecento. Oppure occorrerà inventarsi un altro mondo, un mondo bruciante di tensione esistenziale come in Artaud e nella linea che ne discende, o invece assoluto e astratto come nella drammaturgia di Samuel Beckett. Con questi presupposti, naturalmente, il teatro perde la pretesa e la possibilità di rappresentare credibilmente ciò che accade nel mondo. Eppure la cultura contemporanea è piena di “rappresentazioni”, di immagini, di spettacoli, che qualcosa o molto devono ai meccanismi del teatro. Ma non è più il teatro il luogo privilegiato per il dispiegarsi di questi meccanismi, perché ha perso quella centralità sociale che aveva nelle altre epoche e ha lasciato il campo – ma con una possibilità di diffusione incredibilmente maggiore – allo spettacolo, che come abbiamo visto è insieme un suo derivato e il suo opposto. Perché non si fatica a vedere come sia davvero lo spettacolo, come meccanismo di conoscenza della realtà e come strumento di azione sociale, che governa la nostra civiltà contemporanea. In qualche modo, sia pure non ancora nelle forme di oggi, il fenomeno era evidente già nella seconda metà dell’Ottocento. Nel 1873-1874, nella seconda delle Considerazioni inattuali, quella Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich Nietzsche, parlando dell’«uomo moderno», lo vedeva infatti come uno spettatore che si diverte e contempla, è trasportato in uno stato al quale solo grandi guerre, grandi rivoluzioni possono per un istante apportare qualche mutamento. Una guerra non è ancora finita, che già è in mille modi trasformata in carta stampata; già è presentata come novissimo stimolante

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alla stanca gola dell’uomo avido di storia. Pare quasi impossibile che un suono forte e pieno possa essere prodotto anche se si toccano con forza e a un tempo tutte le corde: subito il suono si altera, dopo un momento già risuona storicamente, fluido e privo di forza (trad. S. Giametta).

La realtà, anche drammatica, immediatamente trasformata in rappresentazione. Secondo i mezzi comunicativi di allora in «carta stampata», ma solo perché non esistevano strumenti come la tv o il web, con i quali la realtà si trasforma immediatamente in immagine da guardare. Già allora, dunque, il meccanismo della rappresentazione e dello spettacolo aveva cominciato a erodere il territorio della realtà. Oggi, con gli strumenti di comunicazione quasi del tutto basati sull’immagine, questa condizione di una realtà che quasi non esiste se non trova uno strumento di rappresentazione, una qualche forma di spettacolo che la renda visibile, è molto più evidente, tanto che la stessa realtà sociale e politica ha bisogno di una “copertura mediatica”, come si dice, per poter contare, per poter esistere. Ma nello spazio tra un’azione e la rappresentazione di quella stessa azione si gioca tutta la possibilità di un intervento di sterilizzazione e di normalizzazione del senso, quando non di oggettiva manipolazione. Nella cultura contemporanea il rapporto fondante non sarà più allora quello tra la realtà e il teatro, ma semmai quello tra la realtà e lo spettacolo. Per questo, quella attuale è stata più volte definita come la «società dello spettacolo», secondo il titolo di un famoso libro di Guy Debord del 1967, che proprio nelle prime pagine sentenzia: Tutta la vita delle società in cui regnano le moderne condizioni di produzione si presenta come un’immensa accumu-

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lazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione [...]. Là dove il mondo reale si tramuta in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo, come tendenza a far vedere attraverso differenti mediazioni specialistiche il mondo che non è più direttamente afferrabile, trova di norma nella vista il senso umano privilegiato, che in altre epoche fu il tatto [...]. Ma lo spettacolo non è identificabile con il semplice sguardo, anche se combinato con l’ascolto. Esso è ciò che sfugge all’attività degli uomini, al riesame e alla correzione della loro opera. È il contrario del dialogo.

«Un’immensa accumulazione di spettacoli». Ma se la nozione allargata di “spettacolo” è quella che abbiamo cercato di delineare, questa società dello spettacolo che ci si para davanti non assume connotazioni positive. Sul piano socio-ideologico proprio per le ragioni che sono illustrate sommariamente qua sopra, perché la nostra possibilità di comprendere le dinamiche della società in cui viviamo è come schermata da un processo di mascheramento, in cui non arriviamo mai a percepire il reale ma siamo sempre costretti a incrociare l’immagine, la rappresentazione, lo spettacolo del reale che qualcuno ha predisposto per il nostro sguardo. Basterebbe per questo pensare al funzionamento linguistico e ideologico degli strumenti di comunicazione di massa, immenso apparato virtuale che, nel raccontarla, non può che modificare, poco o tanto, la realtà che propone alla nostra attenzione. Nella società contemporanea si può vedere tutto, avere esperienza di tutto, purché questa esperienza avvenga attraverso lo schermo di un televisore, di un computer, al limite del finestrino di un pullman, insomma attraverso qualcosa che trasformi un evento o

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un’esperienza in un’immagine. Immagine spettacolare che è anestesia e neutralizzazione del senso, esatto contrario di quel processo di creazione di senso cui è chiamato il teatro. Se le nozioni di “teatro” e di “spettacolo” fossero solidali, il teatro sarebbe il motore della moderna società dello spettacolo. La situazione di marginalizzazione sociale in cui vive oggi il teatro ci dimostra proprio quanto le due nozioni siano distanti e anzi contrapposte.

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Lo spazio e il tempo

1. Lo spazio per il teatro In termini generali, secondo quanto ci dice la cultura corrente, l’evento che si chiama “teatro” trova collocazione in un luogo che gli pre-esiste e che si chiama anch’esso “teatro”. Teatro come evento, dunque, e teatro come edificio, con una identità lessicale che sembra presupporre la necessità dell’esistenza di un luogo specifico, già identificabile come luogo teatrale, ancora a monte di ogni possibile utilizzo. Certo, gli edifici teatrali esistono, e sono ben visibili nel tessuto urbanistico delle città, siano essi reperti antichi o architetture moderne o costruzioni contemporanee. Ma è poi vero che l’evento-teatro debba necessariamente darsi dentro l’edificio-teatro? Certamente no, se si pensa ad esempio a quante esibizioni, che di diritto appartengono all’universo teatrale, avvengono fuori da ogni edificio, all’aperto, oppure dentro edifici che teatrali non sono. E ancor più se si pensa che storicamente c’è un lunghissimo periodo di oltre mille anni, dalla tarda romanità alla fine del Cinquecento, in cui gli edifici teatrali non esistono e gli spettacoli hanno luogo nelle piazze, dentro e davanti le chiese, nei cortili e nelle sale dei palazzi.

V. Lo spazio e il tempo

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Da un punto di vista teorico, tuttavia, la questione è un poco più sottile: che si tratti di un edificio specifico o di un luogo qualsiasi designato come location, come si direbbe oggi, è davvero necessario che il teatro-luogo pre-esista all’evento teatrale? Oppure è immaginabile che sia l’evento stesso a istituire a “teatro”, magari provvisoriamente, uno spazio quotidianamente adibito ad altre funzioni? In sostanza, la piazza occupata da una troupe di giocolieri, che diviene indubbiamente un luogo teatrale per i cittadini che vi si assiepano intorno, mantiene davvero le stesse valenze che aveva prima del loro arrivo? Proviamo a ricorrere, come già abbiamo fatto nel secondo capitolo, all’idea di teatro nascosta tra le pieghe del linguaggio corrente. Pensiamo ad esempio a quando parliamo di un luogo che occasionalmente è divenuto “teatro” di un evento storico o comunque rilevante. Non c’è uno spazio attrezzato a priori, separato dagli spazi della quotidianità, perché a qualificare quel luogo come “teatro” bastano le caratteristiche dell’evento che gli è capitato di ospitare. E sono necessariamente caratteristiche di non quotidianità, di una straordinarietà che sarà storica se si tratta della piana di Custoza o dei campi tra Curtatone e Montanara oppure strettamente personale se si tratta di quella stanza in cui ho scambiato il mio primo bacio o dell’Aula Magna il giorno della mia laurea. Ma subito dopo, esaurito l’evento straordinario, quel luogo tornerà ad essere uno spazio qualsiasi, senza alcuna differenza con gli spazi contigui, l’Aula Magna sarà restituita alle sue funzioni consuete e i campi di Curtatone saranno di nuovo affidati al lavoro dei contadini. Il meccanismo è analogo anche quando si tratta di eventi e azioni più direttamente definibili come teatrali.

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Prendiamo un esempio minimale, un suonatore ambulante o un giocoliere che si piazza su un marciapiede, a ridosso di un muro, e compie la sua performance. Gli spettatori si dispongono con naturalezza a semicerchio intorno a lui, ma a una certa distanza, quasi a disegnare uno spazio che appartiene solo al performer. Quello spazio, che pure materialmente non viene modificato, sul piano simbolico e nella percezione di chi partecipa all’evento, diviene tuttavia, per un certo tempo, uno spazio “altro”, sottratto alla fruibilità consueta. Perché lì una persona, magari vestita in modo stravagante, fa ballare due marionette su un tappeto, racconta storie bislacche, fa uscire lingue di fuoco dalla bocca. Ecco, per il tempo di quel piccolo evento, quel frammento di strada è diventato “teatro”, è entrato in una dimensione speciale. Ma subito dopo tornerà ad essere uno spazio qualsiasi. Il senso generale che possiamo trarre da questo esempio è che l’evento teatrale può trovare collocazione in qualsiasi luogo, ma nel momento in cui lo occupa con un’azione che è di necessità diversa da quelle della quotidianità, trasferisce anche allo spazio questa diversità e questa eccezionalità. L’azione teatrale, di qualsiasi tipo, ha dunque necessariamente bisogno di uno spazio, i cui confini devono essere sufficientemente precisi perché si possa individuare un “dentro” e un “fuori” e dunque si istituisca una “soglia” che non si oltrepassa con leggerezza. Tanto che, come è facile verificare, chi passa accanto al performer di strada del nostro esempio ma è disinteressato alla sua azione, ben difficilmente attraverserà il semicerchio degli spettatori e preferirà piuttosto girare al largo, proprio per non invadere uno spazio di cui percepisce la mutazione: non è più un pezzo di strada ma qualcosa di “altro”.

V. Lo spazio e il tempo

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L’evento teatrale, in sé, non avrebbe bisogno d’altro, se non di questo spazio e di questo tempo delimitati, che lo separano dalle azioni della quotidianità. Sono poi le esigenze delle diverse società a istituire dei luoghi istituzionali per questa separatezza che il teatro vorrebbe anche solo temporanea. È dunque l’evidenza architettonica degli edifici leggibili nel tessuto urbanistico delle nostre città a radicare nelle nostre coscienze l’idea che il teatro debba risiedere di necessità dentro un edificio dedicato. Ma a supportare questa evidenza interviene anche un modello concettuale, nato con lo spazio cosiddetto “all’italiana”, inventato e proposto nelle corti italiane dei primi decenni del Cinquecento. Nel Medioevo, la scenografia delle varie forme del cosiddetto teatro sacro è sempre costituita da una pluralità di luoghi, dispersi nella chiesa o nella piazza, oppure accostati uno accanto all’altro con strutture rettilinee o circolari. I vari episodi trovano collocazione ciascuno in uno spazio specifico, che viene abbandonato e come “spento” quando l’azione passa all’episodio e allo spazio successivo. L’evento si basa poi su una significazione di tipo simbolico, in cui ciò che conta non è certo la rispondenza alla realtà. Una sedia può rappresentare un palazzo reale e una struttura sommaria può indicare contemporaneamente sia l’esterno che l’interno di un edificio, perché fondamentalmente l’apparato deve significare un disegno generale, appunto di natura simbolica. Molte scenografie di questo teatro, ad esempio, prevedono ai due estremi i luoghi opposti del paradiso e dell’inferno, ossia il Bene e il Male assoluti, perché quello che viene proposto è un microcosmo totalizzante che riproduce simbolicamente il macrocosmo creato da Dio e che l’uomo è chiamato ad abitare e a riempire con le sue azioni.

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Nella cultura del Rinascimento la costruzione prima dello spazio figurativo e successivamente anche di quello teatrale è chiamata a ubbidire ad altre regole. Detto un po’ grossolanamente, ora è l’uomo e non più Dio, con le simbologie correlate, a costituire il perno delle operazioni culturali. E l’uomo ha esperienza del mondo attraverso i sensi e usa prevalentemente lo sguardo per misurare, comprendere e dominare lo spazio che lo circonda. A queste finalità risponde la grande rivoluzione della prospettiva rinascimentale, che gerarchizza gli oggetti e le persone non più sulla base della loro rilevanza sul piano simbolico ma secondo parametri ottici e geometrici, che intendono rappresentare “oggettivamente” la realtà. Con questi presupposti, lo spazio della quotidianità reale e lo spazio della rappresentazione tendono ad avvicinarsi, perché la prospettiva pretende di raffigurare il mondo con un’immagine che è del tutto simile a quella che si stampa sulla retina dell’occhio umano. La pratica della scenografia teatrale si appropria dei principi della prospettiva agli inizi del Cinquecento, circa un secolo dopo la sua utilizzazione in pittura, ma poi arriva a costituirsi come il luogo di più evidente applicazione di questa tendenza illusionistica. La straordinaria innovazione della scena all’italiana, detto davvero per sommi capi, concentra in un unico spazio di rappresentazione gli spazi multipli della scena medievale, e su quella scena unitaria, percepibile con un solo sguardo, avvicenda gli episodi uno dopo l’altro, come avviene appunto sui palcoscenici moderni. Un unico luogo, dunque, con scenografie dipinte e ordinate prospetticamente a creare l’illusione di percepire la realtà vera. Basterebbe del resto leggere qualcuno dei resoconti dell’epoca, che insistono sulla stupefacente novità del “realismo” di quelle scene. Ad esempio quello di Marco

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da Lodi che descrive la scena di Baldassarre Peruzzi per le Bacchides di Plauto a Roma nel 1531: La sciena fu posta da un capo del aparato et fu in Athene, bella e superbissima, quanto io vedessi mai, et fatta con sì bello artificio che quasi la vista delli spettatori restava ingannata. Ivi era un tempio sustentato da colonne tutto sferico senza altre pareti [...]. Et appresso un altro tempio stava in fronte de rilevo con un portico di colonne ioniche di tavoloni messi in tal scurzo [scorcio prospettico] ch’ello rappresentavano largo et lungo molto [...]. Ivi per mezzo dello artificio appariva un sole con gli contralumi in vaso di vetro causati per reflessione di torce et lampade. Per lo traverso della sciena nel capo sotto l’arco v’era una strada per la quale vi passavano di continuo uomini finti di figura un palmo et mezzo, quali rappresentavano uomini in Roma come ritratti dal naturale.

Come si vede, questa nuova impostazione prevede di necessità che il teatro si tramuti quasi totalmente in spettacolo, proprio secondo la definizione che abbiamo dato nel terzo capitolo, ossia un oggetto costruito in funzione di un occhio che guarda da una condizione frontale e di separatezza, che nel caso è primariamente quello del principe e poi di tutti gli altri spettatori ordinati intorno a lui. E questa è sostanzialmente anche la ragione per cui la prospettiva viene utilizzata a teatro con un secolo di “ritardo” rispetto alla sua applicazione nelle arti figurative. Perché la prospettiva non può trovare un ruolo in un evento fruibile da angoli visivi molteplici e differenziati, e occorre invece che il teatro si tramuti in spettacolo, trasformandosi da evento a cui partecipare in immagine da guardare, da un punto di vista predefinito e frontale. Proprio per questo, in quei primi secoli di sviluppo dello spazio all’italiana, nel Cinquecento, nel Seicento e anche in parte nel Settecento,

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gli attori sono costretti a recitare non dentro ma davanti alla scenografia, appunto ridotta a un’immagine sia pure molto articolata e realistica, perché rinculando troppo rischierebbero di vanificare l’illusionismo dell’intera operazione, apparendo agli spettatori grandi come uno dei palazzi della scenografia. E infatti dentro quella scena c’è posto solo per quegli «uomini finti di figura un palmo et mezzo» di cui parla Marco da Lodi. L’edificio teatrale come struttura architettonicamente stabile nasce qualche decennio dopo, verso la fine del Cinquecento, col Teatro Olimpico di Vicenza e il Teatro di Sabbioneta, ma già negli apparati dei saloni principeschi si definisce una concezione della scena come spazio dotato di una sua autonomia, che lo spettatore più solo guardare da “fuori”. La “scena” medievale non è un luogo di spettacolo ma un luogo di partecipazione, tanto che lo spazio riservato all’azione si confonde spesso e si mescola con lo spazio degli spettatori, per cui è poco agevole, e alla fine improprio, istituire un “dentro” e un “fuori”. Nella scena all’italiana invece la separazione è netta, istituzionale. La scenografia è immagine, è una macchina ottica che presuppone il proprio spettatore fuori da sé, frontale davanti a sé. Anche quando, col tempo, il palcoscenico avrà assunto forme più definite, come quelle che ancora oggi si usano, la scena come macchina comunicativa in sé resterà sempre un luogo dotato di memoria e di fascino, anche vuota, prima e fuori da ogni azione che la abiti. La esprime chiaramente, questa fascinazione sprigionata dalla scena vuota, una delle annotazioni di Jacques Copeau nel suo Journal, del 1920: La scena, così come l’ho concepita e come noialtri abbiamo iniziato ad abbozzarne la realizzazione, vale a dire: sgom-

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bra, spoglia al massimo, in attesa di qualche cosa e pronta a ricevere la sua forma dall’azione che vi si svolge, questa scena non è mai così bella come al suo stato naturale, primitivo e vacante, quando niente vi accade ed essa riposa silenziosa, debolmente rischiarata dalla mezza luce diurna [...]. Quando ho rivisto la scena, resa a se stessa, lo scorso luglio, ho capito che tutto quello che era accaduto su di essa durante la stagione, accessori, costumi, attori, luci, non aveva fatto che sfigurarla [...]. Ma per come è la nostra scena bisognerebbe servirsene senza aggiungere nulla – né scale, né praticabili o facili effetti di luce –, in tutta la sua verità e implacabilità. Ho visto che era più bella e più commovente quando la si lasciava sola (trad. M.I. Aliverti).

«Bella e commovente» la scena vuota e spoglia, «verità e implacabilità» la sua natura quasi di luogo mistico. Queste espressioni sono figlie naturalmente della specifica poetica di Copeau, che vorrebbe un teatro senza orpelli e senza spettacolarità, affidato alla nuda e pregnante significazione delle azioni degli attori. E tuttavia servono a indicare quanto lo spazio teatrale definito a partire dal Rinascimento italiano sia destinato a rimanere centrale nell’idea moderna di teatro, presupponendo la necessità di uno spazio teatrale come luogo specifico e dedicato, pre-esistente a ogni eventuale azione spettacolare. 2. Spazio teatrale e spazio scenico A enunciarla sembra un’ovvietà, eppure non è così consueto che si sottolinei il fatto che uno spazio teatrale, specie quando si istituisce in edificio, contiene sempre una precisa idea di teatro e per questo iscrive nella propria struttura architettonica principi e valori che sono solidali con quelli della società che lo produce. Come a

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dire che nella forma del teatro sono leggibili le linee della struttura sociale, i meccanismi di potere e le gerarchie di ogni cultura. Basterebbe per dimostrarlo una comparazione anche sommaria tra l’edificio teatrale greco e quello romano, in apparenza molto simili. Perché nelle modifiche che l’edificio romano apporta rispetto al suo modello greco si legge con tutta evidenza il passaggio da una concezione comunitaria del teatro a una concezione risolutamente spettacolare. Nel teatro greco, infatti, non c’è la frontalità tra lo spazio degli attori e lo spazio degli spettatori, perché la gradinata è avvolgente ma soprattutto perché l’orchestra, lo spazio circolare nel quale si insedia il coro, costituisce sia dal punto di vista spaziale che da quello simbolico un trait d’union tra attori e spettatori. È evidente che questa struttura dello spazio induce nel cittadino-partecipante quel senso di appartenenza alla comunità e quel coinvolgimento esistenziale che costituisce la stessa ragion d’essere del teatro greco. Nel teatro romano non c’è quasi più traccia della dimensione comunitaria e si è già consumata, e istituzionalmente codificata, la separazione tra il luogo e le funzioni di chi agisce e il luogo e le funzioni di chi è destinato solo a guardare lo spettacolo in una situazione psicologica e sociale di estraneità. Il rapporto disegnato dalla struttura dello spazio è tra due alterità che si fronteggiano, la scena e la gradinata, senza elementi mediani e mediatori. I tre spazi integrati dell’edificio greco (gradinata, orchestra e scena) sono qui ridotti a due (gradinata e scena), perché l’orchestra, divenuta semicircolare, è sottratta alla sua originaria funzione mediatrice ed è inglobata nello spazio del pubblico, a disposizione degli spettatori eminenti. Il pubblico è poi ordinato sulle gradinate dal basso all’alto, a istituire una evidente ge-

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rarchia sociale. A ciò si aggiunga che il teatro ora viene spesso costruito in piano e quindi viene dotato di muri di cinta, tanto da farne un monumento di rilevante valenza urbanistica, con funzioni simbolicamente celebrative del prestigio e dell’opulenza di una città. L’edificio teatrale non è dunque più, come per i greci, l’approdo necessario di un processo, una necessità interna all’evento e alle sue dinamiche antropologiche, ma è soprattutto la risposta a motivazioni sociali e politiche. Ampliando il discorso oltre questo esempio, appare del tutto evidente che nel corso della storia alcune civiltà sono fortemente interessate al tema del rapporto tra l’evento teatrale e l’insieme delle persone che vi partecipano. L’attenzione a questo rapporto porta a strutture differenti, secondo i valori delle diverse epoche: in Grecia, ad esempio, assume la dimensione della comunitarietà. Ma ci sono anche civiltà, non meno numerose, che mettono in secondo piano le forme di questo rapporto per concentrarsi invece su una dimensione più estetica e comunicativa, lavorando maggiormente su ciò che avviene sulla scena. È il caso proprio della straordinaria e per certi versi esasperata spettacolarità della cultura teatrale romana, che è del tutto sconosciuta a quella greca. In termini generali, pur senza forzare determinazioni meccaniche e opposizioni rigide, si potrebbe dunque enunciare il principio che vi sono società in cui è primaria la costituzione dello spazio teatrale, perché primario è il tema del rapporto spettacolo-spettatori, pur in una serie di accezioni diverse che cercheremo di evidenziare, e società in cui è primario il lavoro sullo spazio scenico, perché è prevalente la dimensione in senso lato estetica, o comunque spettacolare. In questi casi è fondamentale “cosa” avviene sulla scena, negli altri il “per chi” e il “perché”.

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L’esempio evidente è quello della tipologia di edifici storici che ancora frequentiamo nelle nostre città, generalmente settecenteschi o primo-ottocenteschi, ma nella sostanza eredi di una tipologia che nasce in pieno Seicento. Molto spesso si è posta in evidenza la grandiosità degli spettacoli ospitati su quelle scene seicentesche, con scenografie sontuose e complicate, macchinari stupefacenti, musiche, balli e ricchi costumi. Eppure, dal punto di vista della definizione dello spazio scenico, la cultura sei e settecentesca non fa che portare a compimento i meccanismi spettacolari ereditati dalla cultura rinascimentale, senza alterare la forma della scena “all’italiana” e la struttura del rapporto frontale tra lo spazio della scena e lo spazio degli spettatori. Molto meno si è invece sottolineato che la vera invenzione di quest’epoca, del tutto originale, è la costruzione di un preciso modello di spazio teatrale, di edificio. L’architettura a ordini sovrapposti di palchetti, “ad alveare” come anche si dice, è infatti del tutto omologa a una società tutta spettacolarizzata come quella barocca, in cui è fondamentale il meccanismo dell’esposizione di sé. Per questo la struttura del teatro riproduce di fatto n volte il modulo del riquadro della scena, per cui ogni palchetto è appunto un piccolo palcoscenico da cui dar spettacolo di sé, affacciandosi da una sorta di boccascena che ha la stessa struttura e la stessa funzione dell’arco di proscenio che inquadra la scena. Questo edificio diviene dunque una macchina ottica globale e complessa, che si costituisce come un reticolo di sguardi incrociati, perché non una sola ma tante sono le “scene” verso cui guardare. Per comprendere appieno questa valenza occorre tuttavia ricordare che in quest’epoca non c’è la prassi del buio in sala, per cui tutto il teatro è in piena luce, i palchetti e la platea come il palcoscenico.

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Naturalmente poi, in una società che possiede ancora un’evidente stratificazione sociale, la struttura del teatro deve rendere ben visibili le gerarchie, col privilegio del principe insediato nel palco reale e lo scalare di importanza dal basso verso l’alto delle file dei palchetti, come bene si vede dalle decorazioni che via via perdono di raffinatezza e di ricchezza ornamentale. Completamente diverso è il caso della cultura ottocentesca. Sembrerebbe paradossale per una società che colloca il teatro al centro della propria vita sociale e ancor più ne fa il luogo principale della messa in campo dei valori della cultura borghese ormai dominante, ma in questo periodo raramente si costruiscono nuovi edifici teatrali. E anche quando si costruiscono, specie nei primi decenni del secolo, nella sostanza si riprendono i modelli sei-settecenteschi, stilisticamente neoclassici all’esterno e barocchi all’interno, senza l’elaborazione di una tipologia di spazio peculiare. In questo periodo il teatro rimane certamente uno degli spazi deputati all’esposizione di sé, ma non più come luogo della certificazione delle gerarchie e semmai come luogo che evidenzia la mobilità possibile delle condizioni sociali, tra l’esibizione di nobiltà acquisite e lo sfoggio di veloci fortune economiche. E per queste necessità sociali della nuova cultura borghese è ancora del tutto funzionale l’edificio teatrale ereditato dalla morente, o già morta, società aristocratica. Parallelamente però, in questo periodo, specie nella seconda metà del secolo, si assiste a un grande lavoro teorico ed estetico sul problema dello spazio scenico, ossia sul “cosa” debba stare sul palcoscenico e “come” lo possa fare. Del resto, proprio perché il teatro è ridiventato luogo di comunicazione di valori e di modelli di comportamento, è proprio lì, sulla scena, dunque nel

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luogo di produzione degli atti di comunicazione, che deve collocarsi la maggiore attenzione. Non è dunque un caso che proprio in questo periodo il lavoro della mise en scène cominci a reclamare prima attenzione critica, già in epoca romantica ad esempio con le invadenti supervisioni alla realizzazione scenica dei propri testi di Dumas padre o di Victor Hugo, e poi, nell’ultimo scorcio del secolo, guadagnando anche autonomia sotto il profilo estetico. È in questo contesto che nasce la figura del regista in senso moderno, che pretende di “firmare” lo spettacolo come autore e che ritiene che il luogo autentico del teatro sia la scena, perché il lavoro specificamente teatrale è quello che avviene sul palcoscenico. Nella società novecentesca questa situazione non muta di segno e semmai si radicalizza. Gli edifici teatrali costruiti nel XX secolo, infatti, oltre che poco numerosi sono soprattutto non caratterizzati, perché questa età non esprime una concezione della funzione sociale del teatro che sia generalmente condivisa e dunque possa sedimentarsi in una tipologia riconoscibile. La tendenza è semmai verso una semplificazione e una democratizzazione del modello sette-ottocentesco, dapprima con i politeama di fine Ottocento e inizio Novecento, che sostituiscono i palchetti con le balconate, e successivamente con una tipologia architettonica che è in sostanza quella dei cinematografi del dopoguerra, con una platea e una balconata sovrapposta. Certo, ci sono anche straordinari progetti di tipologie innovative, primo fra tutti il teatro pensato da Walter Gropius, tuttavia mai realizzato, dotato di una duttilità strutturale che gli avrebbe permesso di assumere ogni tipo di forma, dalla scena a pianta centrale col pubblico tutto attorno al tradizionale spazio all’italiana, alla piattaforma aggettante in mezzo al pubblico che richiama alla lontana il

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modello greco e più direttamente la scena elisabettiana. Ma si tratta appunto di casi sporadici ed eccezionali, che non sono riusciti a costituirsi in modello condiviso. Se l’Ottocento, infatti, ha portato a termine il processo di centralizzazione, sia architettonica che urbanistica, dell’edificio teatrale, il Novecento pare aver rovesciato il processo, privilegiando spesso spazi d’intervento marginali, decentrati, al riparo, per quanto è possibile, dall’ufficialità. Per questo si arriva in questo periodo alla ricerca di luoghi alternativi e in certo senso “vergini”, dalle locations all’aperto ai capannoni industriali, o all’invasione di spazi non teatrali come musei o gallerie o palazzetti dello sport o persino case private. Oppure si adattano ad attività teatrali degli spazi neutri, che consentano soluzioni non convenzionali e differenziate a seconda delle operazioni proposte. Perché quella ricerca di duttilità iscritta nel progetto di Gropius è un’esigenza forte della teatralità novecentesca, che mal sopporta la rigidità strutturale degli edifici teatrali che è costretta a utilizzare. Ma non è tanto sulla struttura dello spazio teatrale che si è spinta questa ricerca di duttilità e di libertà quanto piuttosto, sin dall’epoca delle avanguardie storiche di inizio Novecento, sulle forme dello spazio scenico. Con operazioni che in generale sembrano voler saltare tutta la tradizione post-rinascimentale per attingere simbolicamente alla libertà dello spazio medievale o della teatralità popolare, oppure alla creatività delle tradizioni teatrali non occidentali, che diventano fenomeno molto innovativo se trasportate nella nostra civiltà.

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3. Lo spazio della scena Quali sono dunque le ragioni e quali le forme di questa nuova strategia di lavoro scenico? Certo non quelle ricevute in eredità dalla tradizione, che ha raggiunto il suo culmine nell’ultimo Ottocento, con il salotto borghese e la “quarta parete” che separa simbolicamente l’azione degli attori da un pubblico di spettatori ridotti a passivi voyeurs. Per tutti gli operatori della scena del XX e di questo inizio del XXI secolo pare anzi che quello sia il modello da cui stare il più possibile lontani, perché il presupposto comune è quello di far uscire lo spettatore da questa situazione di passività per farne, pur con modalità differenziate, un interlocutore attivo. L’opzione più radicale è quella che tenta di recuperare, almeno in parte, la dimensione comunitaria del teatro delle origini, rifiutando di considerare il teatro solo un evento di comunicazione, per annodare sul piano esistenziale fili di diversa consistenza tra chi agisce e chi è chiamato a partecipare e non solo a guardare. Dietro a queste esperienze sta in genere la suggestione di Antonin Artaud, che chiede al teatro di non essere solo un fatto estetico ma anche e soprattutto un’esperienza esistenziale. Dimensione che è evidente nella discesa nelle strade del Living Theatre e del Bread and Puppet, così come nei coinvolgimenti comunitari con cui l’Odin Teatret di Eugenio Barba “baratta” il proprio lavoro teatrale con quello delle comunità indie del Sudamerica, fino anche all’invasione delle piazze di Avignone o di Edimburgo durante i festival che vi si svolgono. Sul piano della struttura dello spazio è significativo che i luoghi scelti per queste operazioni esprimano con nettezza la volontà di spezzare la frontalità tra attori e spettatori, per tendere semmai a una circolarità che

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permetta a chi sta dentro l’evento di riconoscersi come comunità, come noi. Ma è pur necessario sottolineare come questa funzione comunitaria si manifesti ormai difficilmente col teatro in senso stretto e si possa semmai riconoscere nell’opera aggregante dei concerti di musica rock o nelle situazioni collettive che appartengono in qualche modo alla dimensione della festa, dal concerto del Primo Maggio in piazza San Giovanni a Roma ai raduni dei Papaboys. Perché le aggregazioni comunitarie che l’epoca contemporanea consente a un teatro che ha perso la centralità antropologica che possedeva in altre epoche hanno dimensioni ristrette, episodiche, particolari, alla fine elitarie anche al di là delle intenzioni degli operatori. Si pensi solo ai gruppi molto ristretti ammessi ai laboratori dell’ultimo periodo di attività di Grotowski, ma anche agli spettacoli del suo primo periodo, ideati sempre per spazi ristretti e raccolti. O anche alla capacità effettiva di mobilitazione delle coscienze degli spettacoli del Living, con l’uscita dello spettacolo sulla strada che tuttavia alla fine coinvolge sempre e solo gli spettatori che già si trovano dentro al teatro. Anche esperienze come queste, dunque, si risolvono alla fine in operazioni di rinnovamento del linguaggio teatrale più che di ricollocazione del teatro nei meccanismi di centralità antropologica e di funzione sociale che aveva nelle società passate, spesso molto lontane. Dal punto di vista dell’utilizzazione dello spazio, queste tipologie di eventi non sono alla fine molto dissimili da quegli spettacoli che partono da differenti presupposti teorici ma parimenti utilizzano gli spazi all’aperto e mescolano il luogo degli attori col luogo degli spettatori, come ad esempio lo straordinario Orlando furioso, la riduzione di Edoardo Sanguineti dal poema di

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Ariosto, messo in scena da Luca Ronconi al festival di Spoleto del 1969, con le sue macchine e la sua pluralità di fuochi di azione. O come l’Orestea di Eschilo che il regista tedesco Peter Stein allestisce nuovamente nel 1994, dopo l’edizione originale del 1980, con la compagnia dell’Armata Rossa a Mosca, senza scenografia e col coro seduto in mezzo agli spettatori. Ciò che resta, in tutti i casi, e che rende comunque memorabili tutti questi spettacoli sotto il profilo estetico e linguistico, è il tentativo di superare la frontalità post-rinascimentale, con una struttura dello spazio che di fatto rimanda alla teatralità medievale. Non è tuttavia il rimando storico ciò che è rilevante in questa scelta, quanto piuttosto la modificazione dei meccanismi di percezione e di fruizione dell’evento. La frontalità della scena all’italiana disegna il luogo dello spettacolo come uno spazio totalmente separato da quello degli spettatori. Con questa struttura di memoria medievale, invece, lo spettatore percepisce all’interno dello stesso sguardo sia gli attori che gli altri spettatori, con una conseguente relativizzazione dello spazio scenico. Lo spettatore ha così la consapevolezza che sta condividendo un’esperienza estetica ed esistenziale con altre persone, con le quali, bene o male, arriva a costituire una comunità, per quanto instabile e provvisoria. Questa tendenza verso uno spazio scenico relativizzato si può poi mantenere anche in certi spettacoli realizzati al chiuso, come ad esempio Gli ultimi giorni dell’umanità da Karl Kraus, ancora con la regia di Luca Ronconi, nell’enorme capannone del Lingotto di Torino appena dismesso dalla Fiat, nel 1990. Anche qui, come nell’Orlando furioso, ci sono molteplici luoghi in cui spesso l’azione si svolge simultaneamente, anche qui ci sono gli spettatori lasciati liberi di percorrere lo spazio e di

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scegliere in autonomia su quale frammento della vicenda soffermarsi, anche qui dunque c’è una fruizione dell’evento che non può prescindere dalla percezione della presenza degli altri spettatori, con cui anzi si può dialogare e condividere l’esperienza. Questo meccanismo della percezione degli spettatori, e dunque della relativizzazione dello spazio scenico, è in atto, sia pure in forma minore, anche con altre strutture dello spazio. Ad esempio quando gli spettatori sono posti, anziché in posizione frontale, su due o tre lati della scena o addirittura attorniano completamente l’area dello spettacolo. Anche in questi casi, come avviene ad esempio con molti spettacoli dell’Odin Teatret di Barba, lo sguardo traguarda, oltre la scena, i corpi, i visi, le reazioni degli altri spettatori, così che si istituisce una comunità, per quanto minimale, e allo stesso tempo si rende percepibile la dimensione artificiale, e dunque estetica, dell’evento. Ma anche quando – non di rado per ragioni di mercato, ossia di possibilità di circuitazione degli spettacoli – si accetta lo spazio tradizionale del palcoscenico, gli operatori teatrali scelgono molto spesso di romperne comunque l’unitarietà. Fenomeno che non dovrebbe tuttavia sorprendere, perché non fa che riprendere, naturalmente con altri strumenti espressivi, ciò che è accaduto ancor prima nel campo delle arti figurative. Già la pittura impressionista della seconda metà dell’Ottocento comincia ad alterare i dati apparentemente oggettivi della visione, Manet moltiplica i piani prospettici nel Déjeuner sur l’herbe e Cézanne sgombra definitivamente il campo dall’equivoco che lo spazio sia un dato per farne invece un processo, un campo di intervento attivo della coscienza. Fino ad arrivare agli sconvolgimenti delle avanguardie primo-novecentesche, alla negazione

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della prospettiva unitaria del cubismo, alla ricerca del movimento dei futuristi, alle diverse dimensioni dell’arte astratta. A teatro, dove le regole della scatola ottica sono ancora più costrittive, il processo, almeno all’inizio, è più lento. Passa dal pittoricismo dei Balletti russi di Djagilev e di tante esperienze simboliste, che tendono a lasciare inalterato il quadro per agire dal di dentro con un appiattimento della profondità che nega plasticità alla scena. Oppure passa dal rifiuto radicale di intendere la scena come uno spazio che ricostruisce fedelmente la realtà per renderla invece un luogo astratto, attraverso le forme geometriche di Adolphe Appia, ad esempio, o gli screens di Gordon Craig, i pannelli mobili che articolano e strutturano lo spazio senza alcuna concessione a un’idea di rappresentazione realistica. Ma poi, su questa linea non-realistica della scena, c’è tutto il grande teatro russo fino alla fine degli anni Trenta, c’è la scenografia brechtiana che «prende posizione» rispetto al testo e dunque non può che negarsi a una funzione meramente rappresentativa, ci sono gli esperimenti di tutte le avanguardie storiche, c’è la polverosa scena della memoria di Tadeusz Kantor, ci sono le scene di Bob Wilson o tante esperienze di teatro-immagine, come meglio vedremo nel prossimo capitolo. Anche quando il palcoscenico non diventa un luogo di sperimentazioni avanguardistiche, la prassi registica contemporanea ci ha comunque abituato a soluzioni che quasi non avvertiamo più come trasgressione alla legge di un palcoscenico che invece esigerebbe, per la sua forma e per la sua storia, una scena unitaria. Il caso più consueto di questo disarticolarsi della scena unitaria dell’Ottocento è la compresenza simultanea sul palcoscenico di diversi ambienti scenografici, magari

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“accesi” volta a volta dagli effetti di luce. Come esempio mi piace citare uno spettacolo troppo poco ricordato, la riduzione di Delitto e castigo di Dostoevskij messa in scena da Luchino Visconti nel 1946. Su quel palcoscenico, come ci testimonia la documentazione fotografica, trovano posto simultaneamente ambienti esterni e ambienti interni, uno accanto all’altro, così che la stanza di Raskolnikov, senza porte né pareti, lascia vedere in secondo piano il cimitero con lo sfondo di un fantastico cielo stellato, e l’ufficio dell’inquisitore è accostato alla strada in cui ballano le prostitute, all’osteria dell’incontro tra il protagonista e Marmeladov, alla casa del delitto, che incombe sulla scena con una scala che oltrepassa il quadro scenico e punta all’infinito. Un’articolazione quasi da Mistero medievale, per una storia che parla di peccati e di ricerca di redenzione. Non sono tuttavia solo le strutture fisiche dello spazio che articolano la scena del teatro contemporaneo. Assume spesso una funzione spaziale anche la luce, dotata ora di una complessità e una duttilità che le erano sconosciute nell’epoca delle torce o del gas o anche delle prime utilizzazioni dell’elettricità. Il fascio di luce che isola un personaggio dal buio del resto della scena, per fare solo un esempio minimale, serve evidentemente a sottrarre quel personaggio dal contesto, come a immobilizzarlo in una sorta di fermo immagine (non di rado per permettergli di esprimere i suoi pensieri, come negli a parte della tradizione). Ma ben altri effetti si possono ottenere, come sa ogni frequentatore di teatro, con le luci computerizzate di oggi e con tutte le altre tecnologie che in qualche modo coinvolgono la luce, dalle proiezioni di immagini e di filmati alle multivisioni che permettono la moltiplicazione dei punti di vista. Anche

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di questo tratteremo più ampiamente nel prossimo capitolo. È dunque evidente che anche nel teatro del Novecento, come si diceva per la pittura, lo spazio non è più un dato ma un processo, è spesso un luogo che definisce la sua struttura e le sue funzioni proprio lì, nel momento in cui si offre allo sguardo degli spettatori. In questa prospettiva, il punto di approdo in qualche modo terminale della radicale mutazione novecentesca dello spazio scenico è costituito dal palcoscenico totalmente vuoto e privo di arredi scenici dello straordinario Mistero buffo di Dario Fo, lo spettacolo del 1969 che, dopo varie versioni, ha prolungato la sua vita fino ad oggi. La scena vuota con al centro l’attore, circondato spesso dagli spettatori che non hanno trovato posto in platea, in maglione nero e illuminato da una luce fissa e senza effetti, appare in qualche modo la rappresentazione plastica di uno spazio scenico non più luogo della rappresentazione del reale ma puro contenitore fisico di una fabulazione che alimenta un teatro immaginario nella mente degli spettatori. 4. Lo spazio iscritto nei testi Non è solo a livello di prassi scenica che cambiano le coordinate dello spazio nel teatro contemporaneo. Anche l’idea di spazio implicita o esplicita che è iscritta nei testi dei drammaturghi presenta radicali mutazioni. Nella drammaturgia borghese di fine Ottocento il palcoscenico deve definire uno spazio chiuso, molto spesso un salotto o comunque una stanza, descrizione realistica di un ambiente che potremmo incontrare anche nella realtà quotidiana, perché la scena rappresenta un frammento di mondo, che presuppone una contiguità con

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tutto il resto dello spazio che sta “fuori scena”. Si pensi per questo a Stanislavskij, il regista principe di questa epoca e di questa poetica, che proprio per dare un senso di continuità reale costruisce e arreda a volte anche gli altri ambienti attorno a quello rappresentato in scena. Ambienti che, pur restando fuori scena, celati allo sguardo dello spettatore, servono all’attore per restare sempre ben dentro all’atmosfera psicologica della pièce. Nello spazio iscritto in questo tipo di drammaturgia, anche quando l’ambiente descritto dalle didascalie è un luogo aperto (un parco o un giardino, ad esempio), resta tuttavia l’idea di fondo che il palco sia uno spazio definito e chiuso, perché il drammaturgo scrive per una scena che ha appunto queste caratteristiche, fisiche ma anche simboliche. Prendiamo, per esemplificare, l’inizio di uno dei testi più suggestivi di quel teatro, Il gabbiano di Anton Cˇechov, del 1895. Nella didascalia d’apertura c’è la compiuta descrizione di un luogo aperto (un «largo viale» nel parco, sbarrato da un «palcoscenico improvvisato per una rappresentazione di dilettanti» che impedisce la vista del lago, e poi i «cespugli», le «sedie», un «tavolinetto»), con specifiche indicazioni di atmosfera («da poco è tramontato il sole», «si sente tossire e picchiare», la presenza incombente di quel lago pur negato allo sguardo). Il tutto descritto come a dipingere un quadro, a fotografare un pezzo di mondo isolato dal contesto, definito in ogni particolare e offerto così allo sguardo dello spettatore. E proprio perché, al di là di ogni pretesa di realismo, quello spazio è solo fintamente aperto ma in realtà è chiuso, in esso si entra e da esso si esce: «Maša e Medvedenko entrano da sinistra, di ritorno da una passeggiata», come entreranno altri personaggi nelle scene successive («Entrano da sinistra Sorin e Konstantin Trepliov», «Entrano Polina

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Andreevna e Dorn»...) mentre altri ne «escono» (trad. G. Guerrieri). Questo spazio chiuso e uniforme che viene dalla tradizione ottocentesca è presente naturalmente ancora in buona parte della produzione drammaturgica del Novecento. Ma per molti autori contemporanei lo spazio iscritto nel testo si nega invece alla rappresentazione realistica di un pezzo di mondo, prevedendo spesso gli stessi spazi frammentati e disomogenei che mettono in campo gli operatori della scena. Si pensi agli universi spaziali assolutamente non unitari della drammaturgia di Bertolt Brecht, ad esempio, oppure alle disarticolazioni degli spazi, oltre che della struttura drammaturgica, praticate da tutte le avanguardie storiche di inizio Novecento. L’operazione più interessante e più tipica della drammaturgia novecentesca va tuttavia in una direzione diversa, per certi versi antitetica. Anziché disarticolare lo spazio unitario, questi autori tendono semmai a renderlo ancora più chiuso, prevedendo spazi assoluti e in certo senso astratti, dei non-luoghi che non hanno rimandi, se non molto mediati e metaforici, con i luoghi della quotidianità. Vanno in questa direzione, ad esempio, gli ambienti assurdi e isolati dei testi di Eugène Ionesco, o le stanze come fortini assediati del primo Harold Pinter, o gli spazi quasi metafisici di tanta drammaturgia più recente, dal tedesco Heiner Müller al francese Bernard-Marie Koltès, dall’italiana Emma Dante al norvegese Jon Fosse. Il punto più estremo in questa direzione si può trovare nei testi di Samuel Beckett, che infatti non si cura minimamente di dirci dove, quando, in che contesto storico e sociale si collocano le azioni (anzi, lascia tutto volutamente indeterminato), ma è spesso preciso fino alla pignoleria nel definire in didascalia la struttura fi-

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sica dello spazio. Come ad esempio in Giorni felici, del 1961, con la didascalia che raccomanda una «massima semplificazione e simmetria», per costruire una «distesa di erba inaridita che forma un ponticello al centro» e Winnie interrata «esattamente al centro del ponticello». La spazialità di Beckett è appunto molto precisa, e per questo del tutto astratta come indicazione di un universo plausibile in cui collocare i personaggi, ma geometricamente concreta, con le sue simmetrie e la sua continua ricerca del centro. In questo senso è forse Finale di partita, del 1956, che meglio definisce l’idea beckettiana di uno spazio scenico che vuole proporsi non come rimando alla realtà ma come luogo artificiale per un evento artificiale, che non esisteva prima e non esisterà dopo l’azione che vi si compie. Per questo quello spazio deve essere descritto e misurato nel momento stesso in cui si offre allo sguardo degli spettatori, come fa appunto Clov, il personaggio più giovane dei due protagonisti, proprio all’inizio: Va a mettersi sotto la finestra di sinistra [...]. Volta la testa, guarda la finestra di destra. Va a mettersi sotto la finestra di destra [...]. Esce, e subito ritorna con una scaletta, la piazza sotto la finestra di sinistra, vi sale, apre la tenda. Scende dalla scaletta, fa sei passi verso la finestra di destra, torna indietro a prendere la scaletta, la piazza sotto la finestra di destra, vi sale, apre la tenda. Scende dalla scaletta, fa tre passi verso la finestra di sinistra, torna indietro a prendere la scaletta, la piazza sotto la finestra di sinistra, vi sale, guarda dalla finestra. Breve risata. Scende dalla scaletta, fa un passo verso la finestra di destra (trad. C. Fruttero).

Clov dunque misura lo spazio – sei passi, tre passi, un passo – e con questo ce lo rende visibile e anzi ce lo istituisce davanti agli occhi. Lo spazio è sempre uno

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spazio definito e chiuso, esattamente come quello del teatro borghese di fine Ottocento, ma il suo funzionamento è opposto, perché quello di Beckett è uno spazio assoluto, che non contempla altri spazi fuori da sé, non è un pezzo di mondo reale che preveda una continuità con ciò che sta “fuori”. Perché fuori non c’è niente, e dunque quello spazio astratto può essere abitato solo da presenze altrettanto astratte come i personaggi bec­ kettiani, e da lì non si può uscire. «Allora andiamo?», si chiedono rispettivamente Vladimiro ed Estragone alla fine di ognuno dei due atti di Aspettando Godot, del 1952. L’altro risponde «Andiamo». E la didascalia, lapidaria, «Non si muovono». Nessuno esce mai dagli spazi di Beckett, perché si tratta di spazi mentali più che fisici. Ed è con operazioni come queste che la dissoluzione dello spazio ereditato dall’Ottocento, pur nella similarità della forma, è definitivamente compiuta. 5. Il tempo del teatro Anche qui occorre fare una distinzione tra il tempo iscritto nei testi e il tempo dell’evento scenico. Dentro ai testi si prevede quasi sempre una contrazione del tempo che convoglia uno accanto all’altro il passato e il presente. Per rendere credibile questa commistione di tempi, che nella realtà non si può dare, si chiede allo spettatore di sospendere le categorie di comprensione e di riconoscimento della realtà che si utilizzano nella vita quotidiana per dar credito, con l’aiuto dell’immaginazione, a quanto gli viene mostrato sul palco. È quanto viene magistralmente esposto nel prologo dell’Enrico V di Shakespeare, già citato nel capitolo precedente, con cui il Coro chiede agli spettatori una disponibilità del

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genere, «saltando gli intervalli del tempo / e condensando le imprese di molti anni / nel giro d’una clessidra». «Condensare le imprese di molti anni nel giro d’una clessidra»: non si potrebbe esprimere meglio questo principio della condensazione del tempo che sta dentro ai testi teatrali. Nel caso di Shakespeare e in genere del teatro elisabettiano si tratta di un procedimento che prevede di condensare nella durata dello spettacolo tempi storici anche lunghi, di mesi o di anni. Altre volte, come nella tragedia greca, la condensazione è di altra natura, perché si prevede quasi un’analogia tra il tempo iscritto nel testo e la durata dell’evento teatrale, con l’assunzione del passato attraverso il ricordo e soprattutto il racconto. Altre volte, come nel teatro classicista del Cinquecento e del Seicento che rispetta le tre regole “aristoteliche” dell’unità di spazio, tempo e azione, tutta la vicenda deve concludersi nel corso di una sola giornata, dunque con una condensazione che taglia solo poche ore. Nella drammaturgia contemporanea, poi, anche il rapporto col tempo si fa più complesso, più articolato. Nel Lungo pranzo di Natale dell’americano Thornton Wilder, del 1931, si condensano ad esempio in un atto unico novanta anni delle vicende di una famiglia attraverso novanta pranzi di Natale, in cui tuttavia la scenografia e i discorsi dei protagonisti rimangono sempre gli stessi, come nella ripetizione di un eterno presente. Nei testi che stanno alla base degli spettacoli del grande autore-regista polacco Tadeusz Kantor, invece, il passato e il presente non si allineano sull’asse del tempo ma si sovrappongono in un presente composito, in certo senso magmatico, nel quale il passato affiora ma senza denunciarsi esplicitamente come tale, come in quello che è forse il suo capolavoro, Wielopole, Wielopole, del

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1980. Un procedimento analogo si trova anche in testi più recenti, come ad esempio l’affascinante Sogno d’autunno di Jon Fosse, ambientato in un cimitero in cui tre generazioni si incontrano e interagiscono in una mescolanza di tempo certamente non realistica. Ma ci sono anche casi che presentano una perfetta identità tra l’azione rappresentata e l’evento teatrale. Basti pensare ai testi di Beckett, dai due atti di Aspettando Godot agli Atti senza parole fino alle ultime brevi e concentrate pièces come Passi o Improvviso dell’Ohio, in cui i tempi iscritti nel testo segnano esattamente la durata dello spettacolo, senza alcuno scarto, e l’azione scenica avviene dunque in tempo reale. Tutto questo nei testi. Sulla scena invece il tempo è sempre necessariamente declinato al presente. In un linguaggio pure vicino come quello del cinema, il montaggio può comprimere il tempo, accorciarlo, depurandolo di quelli che vengono chiamati i tempi morti. A teatro invece non ci sono tempi morti, tutto il tempo è vivo e presente, non comprimibile. In questo senso il tempo del teatro è come il tempo della vita, è tempo-durata, concreto e continuo. Ma contemporaneamente il tempo del teatro è diverso da quello della vita, perché è un tempo sospeso, delimitato e concentrato. Il contatto che si stabilisce tra attore e spettatore deve trasportare lo spettacolo nel presente dello spettatore, ma contemporaneamente lo spettatore deve essere trasportato nel presente artificiale e distillato dello spettacolo. Perché i due presenti non hanno la stessa natura e lo stesso spessore: quello dello spettatore è un presente contingente, quello del teatro è un presente molto più denso, concentrato, in certo senso assoluto. «Il teatro è presente assoluto», scrive infatti il filosofo György Lukács nel 1913, in un saggio sulla comparazione tra teatro e cinema, Rifles-

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sioni per una estetica del cinema. Un presente diverso da quello della quotidianità perché «mai ciò che si dice “vita” raggiunge una tale intensità da convogliare tutto nella sfera del destino», e proprio per questo «il teatro è il regno delle anime nude e dei destini» (trad. G. Piana). Per questo al teatro son consentiti interventi di durata in certo senso smisurata, impensabile con altri strumenti espressivi, con spettacoli che durano anche molte ore, come il Mahπbhπrata di Peter Brook o tante regie di Luca Ronconi o l’Orestea di Eschilo, il Faust di Goethe o i Demoni di Dostoevskij messi in scena da Peter Stein. Come lo spazio della scena, che è fisico e misurabile ma non per questo è della stessa natura di quello abitato dagli spettatori, così anche il tempo sul palcoscenico si snoda nella durata dell’incontro con lo spettatore, ma in quella durata lo spettatore abbandona i parametri della quotidianità e la nozione del tempo che essa contiene. Per questo, così come avviene con lo spazio, anche il tempo della scena deve essere definito, perimetrato da segnali più o meno codificati di inizio e fine, come l’aprirsi e il richiudersi del sipario, lo spegnersi e l’accendersi delle luci in sala, l’improvviso illuminarsi del palcoscenico e il suo ripiombare nel buio. Ma anche i tre colpi di bastone che segnano l’inizio di tanti spettacoli della cultura popolare, o l’apparire in scena di un attore che ha funzioni di Prologo, o i discorsi introduttivi di tanti spettacoli di Dario Fo. In tutti i casi questi segnali vanno nella direzione di una richiesta di attenzione e insieme di una sorta di avvertenza: da questo momento si entra in una dimensione differente rispetto alla vita quotidiana, in cui ciò che accade deve essere guardato con occhi diversi e con una diversa disposizione psicologica. Pur restando comodamente seduti in poltrona, di tratta davvero di entrare in un altro mondo, che ha

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bisogno non solo dell’attenzione ma anche della collaborazione dello spettatore. Sono dunque lo spazio e il tempo gli elementi fondamentali dell’evento teatrale, le uniche condizioni necessarie perché quell’evento abbia luogo. Come scrive il grande regista inglese Peter Brook proprio in apertura di un suo importante volume del 1968, Il teatro e il suo spazio: «Posso scegliere un qualsiasi spazio vuoto e dire che è un nudo palcoscenico. Un uomo attraversa questo spazio vuoto mentre un altro lo sta a guardare, e ciò basta a mettere in piedi un’azione scenica» (trad. R. Petrillo). Tutto il resto è alla fine secondario e accessorio.

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1. Drammaturgia e scrittura scenica Lo abbiamo ribadito a più riprese: il teatro non può coincidere col testo scritto, e anzi nella cultura contemporanea è generalizzato il rifiuto della sudditanza della scena alla scrittura. Non per questo è tuttavia lecito espellere il testo da ogni considerazione sull’evento teatrale, se non altro per la ragione inconfutabile che un’opera scritta da un drammaturgo è sempre stata ed è tuttora alla base della stragrande maggioranza degli spettacoli teatrali. Ciò che cambia nella cultura del Novecento sono proprio le modalità di questo rapporto, che si fa meno rigido e costrittivo. La teatralità contemporanea ammette e anzi favorisce la manipolazione del testo, la sua riduzione, l’interpolazione con altri materiali, a volte anche la non adesione alla sua filosofia di base e alla sua struttura drammaturgica, fino addirittura a una utilizzazione in chiave parodistica. Proverò a fornire qualche esemplificazione di questi meccanismi, più avanti. Ma ora è più urgente sgombrare il campo dall’idea che nelle epoche passate esistesse sempre un rispetto assoluto per la lettera del testo. Nel teatro greco e romano, per quanto ne sappia-

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mo, è poco probabile che l’allestitore potesse prendersi eccessive licenze, visto che la sua figura coincideva con quella del drammaturgo. Può anche darsi che Sofocle o Euripide correggessero in corsa qualche particolare del testo, durante le prove dello spettacolo, ma la questione è irrilevante, perché si tratterebbe comunque di ripensamenti del drammaturgo, fenomeno molto comune nella storia della scrittura teatrale. Lo stesso si può ritenere con relativa sicurezza per i testi che stanno alla base del cosiddetto teatro sacro medievale, sia perché quei testi vengono direttamente dalle Sacre Scritture, e dunque sono per definizione non modificabili nella loro sostanza, sia per la rigida supervisione che le gerarchie ecclesiastiche esercitano nella preparazione degli eventi, che devono avere soprattutto una funzione pedagogica per gli spettatori-fedeli. Quando poi, nel Quattro e Cinquecento, nel contesto della cultura umanistica e rinascimentale, lo spettacolo si laicizza, sono ugualmente improbabili le manipolazioni del testo, visto che Ariosto o Machiavelli o Ruzante sono insieme autori delle commedie e allestitori dell’evento. E anche quando la competenza della realizzazione dello spettacolo passa in altre mani, il confronto col drammaturgo è semmai sui modi della messa in scena più che sul rispetto del testo, che è dato per scontato. Citiamo ad esempio l’episodio del contrasto tra l’apparatore Ippolito Calandra e lo scenografo, che pure è il grande pittore e architetto Giulio Romano, per la rappresentazione della Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena a Mantova nel 1532. Calandra si lamenta delle ingerenze di Giulio Romano con una lettera indirizzata direttamente al duca Federico Gonzaga: «Io credo bene quanto sia per le fabriche et disegni m. Julio se intenda meglio di me, ma quanto sia per governare la

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comedia et dire quelli li bisogna, se intende poco alle ragione ch’io li ho ditto che lui non vole capire». La controversia è su una questione tecnica di messa in scena, perché lo scenografo vorrebbe addossare la scena a un muro vero, anziché «di asse che faria più bello vedere con le sue case di relevo como altre volte è stata fatta», con la conseguenza che gli attori avrebbero avuto più difficoltà a sentire i suggeritori e dunque la comprensione del testo ne avrebbe sofferto. È dall’affermarsi della commedia dell’arte, solo qualche decennio più tardi, che la questione muta radicalmente. Ma non perché la commedia dell’arte si basi esclusivamente sull’improvvisazione degli attori, visione mitica del fenomeno che la storiografia ha ormai abbandonato, piuttosto perché i comici sono attori ad ampio raggio d’azione ed è tutt’altro che raro che rappresentino fedelmente le commedie regolari, interamente scritte, sia di autori-letterati che degli stessi capocomici. E poi perché testi scritti a monte dello spettacolo sono ampiamente utilizzati dai comici dell’arte anche nelle commedie cosiddette “all’improvviso”. E non si tratta solo dei canovacci che definiscono la trama della vicenda da rappresentare, quanto piuttosto dei lazzi, ossia le gag comiche, e soprattutto dei generici, interi blocchi di testo mandati a memoria per gli snodi cruciali della storia (che so, la dichiarazione d’amore del giovane innamorato o la scenata di gelosia dell’innamorata o gli sproloqui pseudo-scientifici del dottore). Anche tenendo conto di queste revisioni storiografiche, resta comunque evidente che nelle commedie all’improvviso è affidata all’azione degli attori sulla scena una centralità che esplicitamente non prevede una dipendenza dal testo scritto. In questo caso comunque la questione è alla fine poco rilevante, perché a monte di questo lavoro

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scenico non c’è un testo scritto “d’autore” da rispettare o da trasgredire. Molto più interessante per il nostro discorso è il caso dei grandi autori che in qualche modo fondano il teatro moderno, come Shakespeare o Molière. In entrambi i casi si tratta, come per i grandi drammaturghi dell’antichità, di autori che allestiscono direttamente le proprie opere (e nel caso di Molière anche le interpretano). E in entrambi i casi gli studi ci testimoniano che il rapporto tra scrittura e messa in scena è sostanzialmente differente da quello a cui siamo abituati a pensare, che viene da modelli di epoche successive. Per Shakespeare e Molière, tra fine Cinquecento e primi decenni dei Seicento, il testo non è tanto un’opera letteraria, definitivamente consegnata alla scrittura, quanto piuttosto un copione per lo spettacolo. Perché è lo spettacolo che costituisce la vera priorità, per degli autori che sono impresari di se stessi e che dallo spettacolo e non dal testo ricevono sostentamento economico e gratificazione sociale. Questo porta come conseguenza operativa a una scrittura molto veloce, in sostanza provvisoria, che deve trovare la sua verifica nello spettacolo. Nella sua dimensione di copione, alla prova del palcoscenico, il testo è dunque modificabile, manipolabile, esattamente come avviene per tanti autori-attori contemporanei, da Eduardo De Filippo a Dario Fo, per restare solo nella drammaturgia italiana. Del resto, basterebbe pensare agli enormi problemi che pone la filologia dei testi shakespeariani, mai pubblicati dall’autore come opere letterarie. Perché Shakespeare si vuole letterato e poeta quando pubblica i sonetti, ma non concede la medesima stabilità formale ai suoi testi teatrali, che intende come una sorta di semilavorato, come materiale da utilizzare per il fine ultimo

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del suo lavoro, costituito dallo spettacolo. Posizione nella sostanza analoga a quella di Molière, che non a caso tanto deve alla lezione delle compagnie dei comici dell’arte italiani emigrati a Parigi, con i quali condivide per molto tempo anche la sala teatrale. Il metodo della scrittura veloce e provvisoria, da mettere alla prova sul palcoscenico, è del resto un tratto comune, anche se con modalità differenti, a tanti grandi autori di questo straordinario momento della storia del teatro, diciamo dalla metà del Cinquecento a poco oltre la metà del Seicento, che vede all’opera le compagnie della commedia dell’arte che partendo dall’Italia si spargono in tutta Europa, la grande stagione del teatro elisabettiano in Inghilterra, il genio di Molière in Francia, il fermento del cosiddetto Secolo d’oro in Spagna, con autori imprescindibili come Tirso de Molina, Lope de Vega o Calderón de la Barca. È l’epoca successiva, quella settecentesca e soprattutto ottocentesca, che chiede al testo teatrale una maggiore stabilità di opera letteraria e introduce il tema del rispetto di quest’opera da parte degli allestitori. Questa nuova stagione del rapporto tra testo e scena è determinata, o quantomeno favorita, dalla sostanziale separazione della funzione del drammaturgo da quella dell’allestitore dello spettacolo, anche se la figura dell’autore che sovrintende alla messa in scena delle sue opere si trova ancora nella seconda metà del Settecento, ad esempio con Carlo Goldoni, e anche in epoca successiva. Ma in generale l’autore è ormai un letterato in senso pieno, che spesso scrive i suoi testi a prescindere da una rappresentazione che sarà prevalentemente affidata ad altre mani. È per questa ragione che nei testi della drammaturgia settecentesca e con frequenza sempre maggiore in quella ottocentesca e novecentesca compare un

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espediente di scrittura che non trova riscontri se non minimali nelle epoche precedenti, ossia la didascalia. Non c’è quasi traccia di didascalie, se non per le interpolazioni degli editori moderni, nei testi del teatro antico o in quelli di Shakespeare, e pochissime se ne trovano, riferite per lo più alle modalità di porgere le battute, in Molière o in Calderón o in Marivaux, nel primo Settecento francese. Già se ne trovano di più accurate, riferite anche all’ambientazione e alla gestualità degli attori, in Goldoni o in Beaumarchais, nel secondo Settecento, quasi a certificare la necessità per il drammaturgo di iscrivere dentro al proprio testo anche le indicazioni per i futuri allestitori, che non potrà controllare direttamente. Del resto è stato Denis Diderot, uno dei curatori della grande Enciclopedia illuminista, che è anche tra i principali teorici del nuovo teatro borghese, a raccomandare l’attenzione alla «pantomima muta», ossia all’azione che deve essere imposta anche agli attori non impegnati con le battute. Beaumarchais, nel Barbiere di Siviglia, rappresentato nel 1773, ad esempio prescrive in didascalia (II, 5): «Durante tutta questa scena, il Conte fa ciò che può per parlare a Rosina, ma l’occhio inquieto e vigilante del tutore glielo impedisce sempre: ciò che forma un gioco muto di tutti gli attori, estraneo alla discussione tra Bartolo e Figaro» (trad. A. Calzolari). Didascalie così esplicitamente prescrittive sono una novità. Tuttavia questa pratica di scrittura assume un ruolo fondamentale soprattutto a partire dall’Ottocento, ossia da quando è definitivamente compiuta la scissione tra le figure professionali del drammaturgo e dell’allestitore di spettacoli, il metteur en scène. È in questo contesto che il drammaturgo, cosciente dell’importanza crescente della messa in scena per il succes-

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so dell’opera, cerca in ogni modo di condizionare chi si occuperà della realizzazione scenica, iscrivendo nel testo precise indicazioni per la scenografia, i costumi, i movimenti degli attori, le espressioni, i gesti, le intonazioni... E non è un caso che i riscontri più precisi di questo procedimento si possano trovare negli autori del romanticismo francese, nella prima metà dell’Ottocento, ossia in una civiltà teatrale che ha da poco premiato con un grande favore di pubblico un fenomeno come il mélo, il cui successo è stato determinato dalla ricchezza dell’apparato spettacolare e non certo dalla consistenza dei testi rappresentati. Così Victor Hugo, ad esempio, sovrintende personalmente alla messa in scena delle proprie opere, scrive lunghe prefazioni illustrative e soprattutto inserisce ampie e dettagliate didascalie, nel tentativo di prescrivere anche i modi della messa in scena. Basterebbe ricordare la lunga didascalia d’apertura di Ernani, del 1830, con la puntigliosa descrizione del costume di Don Carlos, «magnificamente vestito in un abito di seta e velluto, alla moda castigliana del 1519», non un anno di più né un anno di meno. Oppure l’altrettanto precisa didascalia che apre il primo atto di Il re si diverte, del 1832, che prescrive addirittura che il re appaia «come è stato raffigurato da Tiziano» in un quadro che si trova al Louvre. O ancora la lunghissima didascalia iniziale di Ruy Blas, del 1838, tanto dettagliata che non è nemmeno possibile trascriverla per intero: Il salone di Danae nel palazzo reale a Madrid. Magnifici mobili di gusto fiammingo, che risalgono all’epoca di Filippo IV. A sinistra grande finestra dal telaio dorato, a piccoli riquadri. Da entrambi i lati una porta bassa, su pareti trasversali, dà negli appartamenti interni. Sul fondo una vetrata a riquadri dorati [...]. Dalla porticina a sinistra entra Don Sallustio,

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seguito da Ruy Blas e da Gudiel che trasporta un cofanetto e parecchi involti che fanno pensare a preparativi di viaggio. Don Sallustio sfoggia una veste di velluto nero, un abito cortigiano di moda all’epoca di Carlo II. Al collo porta il toson d’oro. Sopra il severo abito nero indossa un ricco mantello di velluto verde chiaro ricamato d’oro e foderato di raso nero. La sua spada è sormontata da un’elsa imponente. Il cappello è adorno di piume bianche [...] (trad. E. Groppali).

Questa ansia del drammaturgo di prescrivere, attraverso le didascalie, una attività di messa in scena che non rientra più nelle sue funzioni prosegue poi in maniera massiccia nel dramma borghese di fine Ottocento. Ad esempio, con la descrizione di quella «stanza accogliente e piena di gusto, ma arredata senza lusso» che fa da scenografia a Una casa di bambola di Henrik Ibsen, del 1879: pianoforte, tavolo rotondo con poltrone, sofà, stufa di maiolica, poltrone, sedia a dondolo e poi «una étagère con oggetti di porcellana e altri ninnoli artistici; una piccola biblioteca con libri rilegati splendidamente. Tappeto sul pavimento; fuoco nella stufa» (trad. R. Alonge). Oppure quel giardino del primo atto di Zio Vanja di Cˇechov, del 1896, con la tavola apparecchiata sotto un vecchio pioppo, una chitarra su una panchina, un’altalena e un personaggio descritto anche nel suo aspetto fisico: «Marina (una vecchietta eccessivamente ingrassata dall’età e che ha difficoltà a camminare) siede vicino al samovar, sferruzza una calza» (trad. G. Guerrieri). Anche nel Novecento la didascalia minuziosa, di lunghezza crescente, sarà sempre più usata dai drammaturghi-autori, qualche volta per completare letterariamente il testo, come spesso avviene con Gabriele D’Annunzio ad esempio, oppure, più frequentemente, per neutralizzare eventuali incomprensioni e preten-

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dere fedeltà al mondo poetico dell’autore. È il caso di Pirandello, dichiaratamente sospettoso nei confronti della materialità della scena, sentita come degradante e impoverente rispetto all’universo ideale e perfetto immaginato dal drammaturgo. Si pensi ad esempio alle lunghissime didascalie della sua opera più famosa, Sei personaggi in cerca d’autore, specie quella che precede l’arrivo dei Personaggi, nella quale l’autore dispensa i suoi «suggerimenti» a «chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia». E i suggerimenti si spingono fino a indicare la colorazione della luce, l’uso di maschere dettagliatamente descritte, la disposizione di Attori e Personaggi sul palcoscenico, con la specificazione che «la disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli [i Personaggi] saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio». In questo caso estremo la didascalia fa talmente corpo col testo che l’autore può permettersi addirittura di segnalarla all’attenzione del futuro allestitore («la disposizione [...] indicata nelle didascalie»). Nella seconda parte del Novecento l’invadenza della didascalia non cessa, ma in certo senso perde la sua centralità teorica, la sua funzione di epicentro dello scontro tra un drammaturgo che vuole imporre la propria egemonia anche sulla scena e una scena che rivendica la propria autonomia. Quella battaglia il drammaturgo l’ha persa, nella sostanza, perché da tempo è acquisita la consapevolezza dell’autonomia del lavoro scenico, di quella che viene ormai definita la scrittura di scena, proprio per contrapporla alla scrittura letteraria. Per questo, di fronte a tanti autori che continuano a utilizzare la didascalia prescrittiva di tradizione ottocentesca, nella seconda metà del Novecento compaiono con frequenza operazioni di radicale mutamento d’orizzonte. Da

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un lato, ad esempio, c’è la geniale estremizzazione del tema in Atto senza parole di Samuel Beckett, del 1956, operazione poi replicata lo stesso anno in Atto senza parole II. Se il confronto è tra testo, ossia la partitura di parole che dovranno essere pronunciate dagli attori, e didascalie, ossia la descrizione dello spazio, degli oggetti e delle azioni degli attori, qui il confronto è del tutto annullato, perché non è prevista alcuna parola e l’opera consiste in un’unica lunga didascalia, in cui le azioni sono minuziosamente e quasi ossessivamente descritte: Personaggio: Un uomo. Gesto abituale: spiega e ripiega il fazzoletto. Scena: Deserto. Luce abbagliante. Azione: Spinto violentemente in scena da destra, all’indietro, l’uomo barcolla, cade, si rialza immediatamente, si spolvera, riflette. Colpo di fischietto da destra. L’uomo riflette, esce a destra. Subito rigettato in scena, barcolla, cade, si rialza immediatamente, si spolvera, riflette. Colpo di fischietto da sinistra. L’uomo riflette, esce a sinistra. [...].

Dall’altro lato, specie nei decenni più recenti, appare con sempre maggiore evidenza il movimento opposto. Come se la scrittura drammaturgica, liberata dalla necessità di prevedere e di prescrivere la propria messa in scena, potesse riacquistare una delle sue caratteristiche originarie, producendo una parola densa, non quotidiana, spesso evocativa o addirittura poetica, che si pone molto meno come copione e molto più come opera. Lo teorizza con lucidità Pier Paolo Pasolini nel già citato Manifesto per un nuovo teatro del 1968, quando propone il ritorno a un «teatro di parola», che

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rimanda «esplicitamente al teatro della democrazia ateniese». Un teatro nel quale possa risuonare una parola alta, per mezzo della quale possano divenire protagoniste «le idee, che sono i reali personaggi di questo teatro» (corsivo nel testo). E infatti le opere teatrali di Pasolini (Calderón, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia, Bestia di stile), scritte quasi di getto nel 1966 ma pubblicate anni dopo, sono in versi e non presentano didascalie, se non meramente indicative del luogo dell’azione. Ma Pasolini non è naturalmente un caso isolato nell’indicare una scrittura teatrale che ponga come valore prioritario lo spessore del proprio linguaggio. Nella medesima direzione va anche, per restare all’Italia, il teatro di Giovanni Testori, almeno a partire dalla “Trilogia degli Scarrozzanti” (L’Ambleto, Macbetto, Edipus, dal 1972 al 1977), con il suo impasto linguistico fatto di neologismi e arcaismi, latinismi e inflessioni dialettali. Oppure anche la nuova fioritura del teatro dialettale, dai siciliani Franco Scaldati o Emma Dante al napoletano Enzo Moscato, in cui l’uso del dialetto non ha assolutamente una funzione nostalgica o naturalistica ma ha una dimensione colta, di artificializzazione del linguaggio, contro la parola usurata e impoverita della quotidianità e della chiacchiera di stampo televisivo. Anche fuori dall’Italia diversi grandi autori riscoprono il fascino della parola forte e autonoma, capace di imporre il proprio senso e i propri valori a prescindere dagli apporti della futura messa in scena. In Germania ad esempio con Peter Weiss, l’autore del Marat/Sade, del 1964, e dell’Istruttoria, del 1965, o Heiner Müller, che scrive opere dense e affascinanti come Filottete, del 1968, Hamletmaschine, del 1979, o Quartetto, del 1982. Ma poi anche in Francia, con Bernard-Marie Koltès, che scrive quello che è forse il suo capolavoro, Nella

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solitudine dei campi di cotone, del 1987, come un dialogo a due soli personaggi, senza alcuna indicazione o contestualizzazione, e nel precedente Scontro di negro contro cani, del 1979, introduce nel testo solo poche didascalie, relegando la descrizione dei luoghi e dei rumori nel para-testo, sotto l’elenco dei personaggi. E se Pasolini si richiamava esplicitamente al teatro greco, molti di questi drammaturghi sembrano invece ricollegarsi idealmente alle raccomandazioni di August W. Schlegel, il teorizzatore del nuovo teatro romantico tedesco nel Corso di letteratura drammatica, del 18081809, che rimprovera a Diderot proprio l’introduzione delle didascalie per dirigere a priori l’azione degli attori: Diderot fece ancora grande ingiuria all’eloquenza drammatica con l’usanza ch’egli introdusse di notare distesamente lo sceneggiar muto de’ personaggi. Egli è come se il poeta tirasse una lettera di cambio sopra l’attore, invece di pagare di propria borsa. Senza dubio tutti i buoni poeti drammatici pensano allo sceneggiar muto in mentre che scrivono; ma se l’attore ha d’uopo che gli si dieno istruzioni in tal proposito, è da temere ch’egli non abbia pure il talento di seguirle con sagacità. Il dialogo debb’essere scritto di sorta, che un attore intelligente non possa ingannarsi circa il modo di cogliere le particolarità del personaggio da lui rappresentato (trad., ottocentesca, G. Gherardini).

Come a dire che al drammaturgo compete la costruzione di parole e alla scena compete la costruzione di un universo fisico e visivo in cui quelle parole trovano una collocazione che risponde a logiche differenti. In questa prospettiva perde non poco di rilevanza il tema, che per molto tempo è stato al centro del dibattito, della fedeltà della messa in scena rispetto al testo che le sta a monte. Intanto per le ragioni che enuncia Schlegel, per

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l’autonomia interpretativa che deve essere concessa a chi usa un linguaggio diverso. Ma poi, specie quando si mettono in scena opere di epoche passate, perché un drammaturgo scrive coi parametri culturali del suo tempo e all’interno di modalità di produzione di spettacolo che nelle epoche successive possono essere cambiate anche radicalmente. E dunque è del tutto legittimo che un operatore teatrale rilegga un testo alla luce di categorie estetiche diverse da quelle entro le quali il testo era stato prodotto, proprio per dargli una vita nuova e nuovi valori da esprimere. Per l’insieme di queste ragioni la cultura teatrale contemporanea, specie in Italia, ha introdotto e accettato la nozione di scrittura scenica, per sostituire i termini tradizionali di rappresentazione o di messa in scena. Perché con rappresentazione e messa in scena si accetta implicitamente il principio che il punto di partenza sia sempre e comunque il testo del drammaturgo, che viene appunto rappresentato o messo in scena, relegando il lavoro di scena a una funzione secondaria e ancillare. La scrittura scenica, invece, riconosce esplicitamente che quella che si dà sul palcoscenico è una nuova scrittura a pieno titolo, costituita da materiali e linguaggi differenti e autonomi dalla scrittura drammaturgica. La nozione di scrittura scenica è spesso intesa in un’accezione ristretta, come vedremo nel prossimo paragrafo, ma nel contesto del nostro discorso è opportuno intenderla in un senso più ampio, come lavoro e creatività teatrale che utilizza per il proprio operare gli strumenti e i linguaggi specifici della scena. In questa accezione anche la scrittura scenica non elude il rapporto con la drammaturgia, solo si rifiuta di considerare questo rapporto nei termini tradizionali. Perché è solo a contatto con lo spazio e il tempo del-

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la scena che il testo diventa, da fenomeno letterario, elemento pienamente “teatrale”, e i personaggi immaginati e descritti dal drammaturgo diventano vita, concreta e presente. Anche quando lo spettacolo prevede il rispetto più totale del testo di riferimento, il lavoro teatrale non lo “rappresenta” e non lo “mette in scena”, ma lo fa vivere. È solo attraverso lo spazio e il tempo della scena che i personaggi immaginati e descritti dal drammaturgo diventano vita, concreta e presente, che può confrontarsi con quella, altrettanto concreta e presente, degli spettatori. C’è in questa operazione una vera e propria mutazione del testo, perché il rapporto tra scena e testo innesca un processo creativo, che, mettendo in campo il fascino dei linguaggi specifici della scena, vivi e solidali con l’esperienza dello spettatore, rende vivo anche il testo che propongono. 2. La scrittura scenica In senso lato la scrittura scenica potrebbe coincidere con la teoria e la pratica della moderna regia, nata sul finire dell’Ottocento per gerarchizzare sotto di sé e armonizzare gli apporti dei diversi operatori della scena, dallo scenografo all’attore, dal costumista al musicista, al fine di dare unitarietà alla messa in scena. Con questa operazione il regista assume il potere nella costruzione dell’evento, subordina a sé e alle proprie scelte estetiche e organizzative tutte le altre professionalità, pretendendo di firmare lo spettacolo così come il drammaturgo firma il testo. In questo contesto di rivendicazione di autonomia e pari dignità artistica rispetto alla scrittura drammaturgica, l’intento è tuttavia ancora quello di porsi in una funzione almeno complementare rispetto al testo da rappresentare. Spesso anzi l’azione del re-

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gista è tesa a contrastare il protagonismo debordante soprattutto degli attori principali proprio allo scopo di salvaguardare le ragioni più profonde del testo, come si vede bene nella lettera di André Antoine a un attore, già citata nel secondo capitolo, in cui si pone esplicitamente il lavoro di regia al servizio del personaggio e dunque del mondo poetico del drammaturgo. In un senso più ristretto, la nozione di scrittura scenica è più calzante con le operazioni delle avanguardie storiche di inizio Novecento, nelle quali viene non di rado spezzata la subordinazione, o anche solo la complementarietà, dell’azione scenica rispetto al testo. Nelle serate futuriste o dadaiste, ad esempio, l’evento si regge spesso solo su materiali e linguaggi della scena, senza alcuna drammaturgia a monte. E negli esperimenti teatrali del Bauhaus si costruiscono partiture di suoni forme luci e azioni, in cui la parola ha cittadinanza solo come elemento tra gli altri, senza alcuna egemonia rispetto ai diversi linguaggi. Il fenomeno si può poi riscontrare, con peso teorico ben maggiore e con più decisiva influenza sulla cultura teatrale dei decenni successivi, ad esempio nelle due straordinarie figure di Antonin Artaud e Bertolt Brecht, che affondano le proprie radici nei movimenti d’avanguardia (surrealista l’uno ed espressionista l’altro) ma ne travalicano decisamente i confini. Soprattutto Artaud è il teorizzatore estremo, in una serie di saggi scritti tra il 1931 e il 1934 e pubblicati con il titolo Il teatro e il suo doppio, della contrapposizione all’idea dominante nella cultura occidentale del teatro come luogo della rappresentazione, della parola, del dialogo, della psicologia. Affascinato dallo spettacolo dei danzatori balinesi all’Esposizione coloniale di Parigi del 1931, trae da lì lo spunto per una teorizzazione del

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teatro come materialità, come luogo della compresenza non gerarchizzata dei linguaggi anziché del dominio della parola. Anche se «la grammatica di questo nuovo linguaggio è ancora da trovare», tuttavia è per Artaud evidente che «il gesto ne è la materia e l’essenza; se si preferisce, l’alfa e l’omega. Parte dalla necessità della parola, molto più che dalla parola già formata. Ma trovando nella parola un intralcio, ritorna spontaneamente al gesto». Il gesto, e non la parola (se non come materia fonica), il corpo e non la psicologia sono dunque i fondamenti e i materiali della scena: Sostengo che la scena è un luogo fisico e concreto che esige di essere riempito e di poter parlare il suo linguaggio concreto. Sostengo che questo linguaggio concreto, destinato ai sensi e indipendente dalla parola, deve anzitutto soddisfare i sensi, che esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, e che questo linguaggio fisico e concreto cui alludo non è veramente teatrale se non nella misura in cui i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato (trad. E. Capriolo e G. Marchi).

Bertolt Brecht, invece, a proposito del quale Roger Planchon introduce nel 1961 appunto la nozione di «scrittura scenica», non rinuncia alla drammaturgia, e anzi è uno dei principali scrittori di teatro del Novecento. E tuttavia raccomanda, nelle note di regia e nei testi teorici, interventi decisivi nella costruzione dello spettacolo, proprio con gli strumenti linguistici della scena. Partendo da una «radicale separazione degli elementi» (corsivo nel testo), di cui parla in Il teatro moderno è il teatro epico, che pone come Note all’opera “Ascesa e caduta della città di Mahagonny”, del 1931, Brecht prevede appunto che ogni elemento dello spettacolo «prenda posizione», autonomamente, rispetto al contenuto

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della pièce. La musica non dovrà dunque necessariamente assecondare l’atmosfera in cui è calata l’azione e potrà anzi contraddirla, così come il gesto e la dizione dell’attore potranno essere dissonanti rispetto alle parole che vengono pronunciate. E poi, con l’uso di cartelli e scritte, di sipari e fondalini, di oggetti e proiezioni, la scena scrive un proprio discorso autonomo rispetto al dettato del testo. Perché la finalità dello spettacolo non è tanto quella di rappresentare il testo quanto quella di costruire un evento scenico, di cui evidentemente anche il testo è chiamato a far parte, in cui lo spettatore abbia comunque la percezione di trovarsi a teatro e in cui i linguaggi della scena lo interpellino e gli chiedano di prendere posizione rispetto a quanto gli viene proposto. Effetto che deve essere ottenuto soprattutto con un tipo di recitazione particolare, lo «straniamento», di cui diremo meglio nel prossimo capitolo. In senso specifico, tuttavia, la dizione scrittura scenica ha preso piede verso la fine degli anni Sessanta, in Italia soprattutto con un prezioso volumetto di Giuseppe Bartolucci e successivamente con una rivista da lui stesso diretta, ed è servita a designare le modalità operative delle neo-avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, e oltre. In questa accezione più specifica la scrittura scenica si contrappone proprio alle modalità del teatro di regia, perché non presuppone più, a monte del proprio lavoro, un testo scritto da interpretare o da mettere in scena. Il riferimento implicito e spesso esplicito è agli esperimenti delle avanguardie storiche di inizio secolo, specie per lo smarginamento dei confini tra le varie arti, che favorisce ogni contaminazione di linguaggi. Molte di queste esperienze assemblano quindi teatro e musica, come gli spettacoli di Meredith Monk, o accentuano la dimensione visiva, come avviene ad esempio in Ita-

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lia con il cosiddetto teatro-immagine di Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Mario Ricci, e poi dei gruppi La Gaia Scienza o Falso Movimento, e a livello internazionale con Bob Wilson o Richard Foreman. In questo contesto culturale trae origine anche lo straordinario fenomeno del teatro-danza, col grande successo di personalità come Pina Bausch o Maguy Marin e in Italia, più tardi, del gruppo Sosta Palmizi. Naturalmente la nozione di scrittura scenica è ben più vasta delle esperienze qui sommariamente ricordate, perché dovrebbe applicarsi a tutte le operazioni che partono da una non dipendenza del testo e riconoscono come strumenti primari del proprio discorso di scena, molto più del testo e del dialogo della tradizione teatrale, lo spazio, le luci, il movimento, il gesto, la musica, l’immagine, il suono, l’oggetto, il corpo dell’attore. A ognuno di questi elementi è concesso di esprimersi in autonomia, proprio come vuole Brecht, senza assoggettarsi né alla dipendenza di un testo né alla gerarchizzazione dello sguardo unitario e della volontà prescrittiva del regista. Dunque dovrebbero comprendersi anche le esperienze di Grotowski e del Living Theatre, dell’Odin Teatret e del Bread and Puppet, di Carmelo Bene e di Leo De Berardinis, fino ai gruppi italiani più recenti, dal Teatro Valdoca alla Societas Raffaello Sanzio, da Motus a Fanny & Alexander. Ossia tutti quelli che hanno operato per il superamento della rappresentazione come fondamento dell’esperienza teatrale. 3. I linguaggi della scena Uno degli attori disse a Cˇechov, la seconda volta che era andato alle prove del Gabbiano (11 settembre 1898) al Teatro

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d’arte di Mosca, che in quinta si sarebbe udito il gracidio delle rane, il frinire delle cicale, l’abbaiare dei cani. – Ma perché? – domandò con aria seccata Anton Pavlovicˇ [Cˇechov]. – È realistico – rispose l’attore. – Realistico – ripeté Anton Pavlovicˇ sogghignando e, dopo una breve pausa aggiunse: – Il teatro è arte. Kramskoi ha un quadro di genere in cui sono raffigurati dei volti in maniera meravigliosa. Che cosa accadrebbe se si tagliasse il naso dipinto a uno dei volti e lo si sostituisse con un naso vero? Il naso sarebbe realistico, ma il quadro sarebbe rovinato (trad. G. Crino).

Partiamo da qui, da questo scorcio di vita teatrale raccontato da Mejerchol’d in uno scritto del 1906, Il teatro naturalista e il teatro d’atmosfera, nel quale annota la sua esperienza di attore negli spettacoli di Stanislavskij. Partiamo da qui per ribadire che uno spettacolo è prima di tutto una questione di linguaggi, perché «la scena richiede un tanto di convenzione», come scrive ancora Mejerchol’d appena sotto il brano citato, sempre riportando parole di Cˇechov, e dunque tutto sulla scena è necessariamente artificiale. Certo, a teatro la questione è più complessa di come ha cercato di risolverla Cˇechov attraverso il paragone con la pittura e l’esempio del naso finto/vero. Perché il pittore opera con colori e forme piatte, mentre il teatrante opera con la materia stessa di cui è fatta la vita, e a teatro il naso è sul serio un «naso vero». Tuttavia quel naso è anche contemporaneamente un naso “finto”, nel senso almeno che il teatro non può essere il luogo della trasposizione pura e semplice della realtà quotidiana sulla scena, come voleva la poetica estrema del naturalismo con la teoria della tranche de vie, del pezzo di vita vera trasportato sul palco. Anche i famosi quarti di bue esibiti in scena da André Antoine in

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Les Bouchers (I macellai) di Fernand Icres nel 1888, più che la loro verità oggettiva portano a teatro soprattutto la sconcertante sorpresa di una materialità ostentata e prima inammissibile sulla scena. E proprio per questo entrano inevitabilmente nel meccanismo della rappresentazione come segno, ossia con una valenza artificiale e persino simbolica che va ben oltre il loro essere “veri”. Ogni oggetto tratto dalla quotidianità, ogni espressione e ogni passione che si pretende “vera” e non artificiale comunica sulla scena prima di tutto la propria pretesa di verità e di realtà, e dunque diviene immediatamente “segno” di questa sua stessa asserita verità e realtà. Anche quando Stanislanskij si sedeva in platea e diceva ai propri attori «Non ci credo», perché pretendeva da loro l’espressione di sentimenti “veri”, che non fossero un’imitazione ottenuta con tecniche d’attore, ma provenissero direttamente dalla «memoria emotiva» dell’individuo-attore che in quel momento era sul palco, voleva che a favore dello spettatore passasse soprattutto questa “impressione di verità”. Ma anche questa impressione di verità è alla fine un fatto di linguaggio, è il frutto di una scelta di poetica e il risultato di precise tecniche messe in atto dall’attore. Niente è vergine a teatro, niente è puro. Soprattutto niente è così scontato, sulla base del presupposto che gli elementi di cui è fatto essenzialmente il teatro (corpi, parole, azioni, suoni, silenzi, emozioni...) sono gli stessi che formano la realtà quotidiana e dunque sono immediatamente comprensibili per chiunque. Al contrario, invece, a teatro tutto è arbitrario, tutto è segno, alla fine tutto è “finto”. In fondo il teatro ha lo stesso funzionamento del microscopio. L’oggetto osservato al microscopio non cessa di essere un oggetto reale, ma le lenti che ne ingrandiscono la grana e perforano con questo la superficie di

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una percezione quotidiana, lo indagano nella sua profondità. Lo sguardo offerto dal microscopio è dunque uno sguardo molto più concentrato, intenso, profondo, analitico, indagatore di senso, specie del senso nascosto allo sguardo miope e impotente della visione quotidiana. A questo sguardo in qualche modo perforante, l’oggetto svela una sua “verità” più profonda, ben al di là della verità oggettiva, consueta e rassicurante, percepita ad occhio nudo. Ma l’oggetto sottoposto alla lente del microscopio non ha le stesse fattezze dell’oggetto visibile ad occhio nudo. Pur rimanendo il medesimo oggetto, assume forme diverse, inusitate. In questo senso si può dire che il microscopio compie una sorta di artificializzazione dell’oggetto, rendendolo addirittura irriconoscibile ma scoprendone dimensioni nascoste. Come se facesse assumere alla materia una maschera inconsueta, per rimuovere l’inautentico della percezione quotidiana e svelare l’autentico della sua realtà più profonda. Così funziona anche il teatro. Con altre parole ma con autorevolezza maggiore della mia lo dice anche Peter Brook in un prezioso volumetto del 1993, La porta aperta: Si va a teatro per trovare la vita, ma se non c’è differenza tra la vita fuori dal teatro e quella al suo interno, allora il teatro non ha senso. Non c’è nessuna ragione di farlo. Ma se accettiamo il fatto che la vita nel teatro è più visibile, più vivida che all’esterno, allora riusciamo a capire come sia contemporaneamente la stessa cosa e qualcosa di diverso [...]. La vita nel teatro è più leggibile e intensa perché è più concentrata. L’atto di ridurre lo spazio e comprimere il tempo crea un concentrato (trad. M. D’Amico).

I linguaggi della scena sono dunque il microscopio attraverso cui l’operatore teatrale (il regista, l’attore, lo

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scenografo) osserva la realtà, mettendola in maschera per cavarne significati inaspettati ed emozioni profonde. Assistendo a uno spettacolo si può anche cedere al puro e “ingenuo” piacere dell’abbandono al fascino di una straordinaria prova d’attore, della ricchezza di un testo, della preziosità della scenografia e dei costumi, degli improvvisi cambi di scena, di fantastici giochi di luce, di musiche commoventi e di quant’altro può creare la ricchezza dei linguaggi della scena, ma se si vuole anche comprendere per quanto è possibile il senso di quell’operazione teatrale è necessario leggere il significato e il valore di quei linguaggi. Sempre tuttavia partendo dal presupposto che nessuno, neanche lo spettatore più colto e più tecnicamente avvertito, riuscirà mai a comprendere tutte le valenze e le intenzionalità, tutti i significati e i rimandi con cui gli operatori teatrali hanno costruito il loro lavoro. Delle scelte sulla struttura dello spazio abbiamo parlato nel capitolo precedente e della recitazione dell’attore parleremo nel prossimo capitolo. Qui cercheremo di dare qualche indicazione riguardo agli altri principali elementi della scrittura scenica. Cominciamo da ciò che riveste l’attore, dal costume. E partiamo dal punto che diamo per acquisito, ossia dalla considerazione che a teatro non esiste un grado zero di espressività, che tutto a teatro è artificiale e significante. Interpretare Amleto o Don Giovanni in abiti quotidiani, in jeans e maglietta, non significa rinunciare ai costumi, ma solo rinunciare ai costumi previsti in didascalia o comunque coerenti con l’epoca e la situazione rappresentata, per assumere un altro costume, che dia un segno di contemporaneità e di quotidianità, sostituendo dunque un “segno” con un altro segno, per indirizzare lo spettatore verso differenti modelli di comprensione di quel personaggio o di quel testo. E anche

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abbandonare completamente i vestiti e presentarsi nudi in scena, come spesso è stato fatto, non può essere considerata una rinuncia al costume, perché la nudità è invece altamente significante, come si è visto tante volte ad esempio negli spettacoli del Living Theatre. Dunque l’attore, nudo o coi jeans, con la tunica o con la parrucca, porta sempre un costume, che è sempre frutto di una scelta estetica e di poetica. Negli spettacoli contemporanei capita spesso che i costumi non corrispondano all’epoca in cui è ambientata la pièce, ma non è da credere che questo sia un fatto inusuale nella storia del teatro. Nel teatro elisabettiano ad esempio, quello di Shakespeare, gli attori indossano sempre costumi contemporanei, anche recitando testi ambientati nel passato. E neppure si preoccupano troppo di calibrare il costume alla condizione sociale del personaggio, perché gli attori indossano spesso abiti molto ricchi, non di rado acquistati dai servitori di nobiluomini che li hanno lasciati loro in eredità. E gli attori e le attrici del teatro sei e settecentesco recitano anch’essi con gli abiti sontuosi e le parrucche della loro contemporaneità, tanto che suscita un’enorme sorpresa chi, come il grande attore francese François-Joseph Talma, recitando il Brutus di Voltaire nel 1789, osa presentarsi in scena con braccia e gambe nude e indossando una tunica di foggia antica. E l’aneddotica tramanda anche il commento scandalizzato dell’attrice Madame Vestris in quell’occasione: «Cochon!» (maiale). Nessuna novità e nessuno scandalo, dunque, se un regista contemporaneo cambia la collocazione temporale di una vicenda, adeguando i costumi all’ambientazione scelta. È un’opzione che fa parte della lettura registica che viene data a un testo, alla ricerca di risvolti inediti, di nuovi significati, alla fine di una vita nuova per un te-

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sto magari tante volte rappresentato. Un solo esempio: la grandiosa messa in scena della trilogia dell’Orestea di Eschilo da parte di Peter Stein nel 1980, che inserisce le vicende in un contesto molto più contemporaneo, in una Germania ferita dalla guerra e ancora divisa, col coro dei vecchi di Argo dell’Agamennone vestito di poveri abiti gualciti ma dignitosi (cravatta, cappotto liso e cappello floscio) e quello delle donne nelle Coefore in tailleur scuro e velo nero da vedove di guerra. Allo stesso trattamento può naturalmente essere sottoposta anche la scenografia, che è sempre un elemento primario per definire non solo l’impianto stilistico dello spettacolo ma addirittura la sua filosofia di base. Escludiamo il teatro antico, di cui troppo poco sappiamo a questo riguardo. Ma già nelle varietà dello spettacolo medievale c’è una notevole differenza tra lo spazio nudo di una chiesa romanica occupato, con pochissimi accessori, dalle prime azioni para-teatrali e gli spettacoli di grandissimo impatto scenografico del tardo Medioevo, con la bocca dell’inferno che manda fiamme, l’eden come un giardino lussureggiante di piante e fiori, un monumentale paradiso a diversi piani abitato da angeli e santi. Nel primo caso siamo ancora all’interno di una prassi molto legata alla liturgia, mentre nel secondo la stupefazione della scenografia e degli apparati è largamente prevalente rispetto a ogni dimensione devozionale. Allo stesso modo la prodigiosa macchineria e gli sfondamenti prospettici infiniti degli spettacoli seicenteschi diventano il vero centro e il vero scopo dello spettacolo, tanto che possono tranquillamente supportare la scarsa profondità letteraria dei testi che vengono rappresentati. Naturalmente, però, quello che più ci interessa è l’esplorazione anche sommaria delle modalità con cui la

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scenografia può apparire sui nostri palcoscenici di oggi, dopo che la storia ha conosciuto gli arredi realistici della scena borghese di tradizione tardo-ottocentesca, gli sconvolgimenti delle avanguardie storiche, le scene dipinte del liberty, gli apparati complessi del costruttivismo, gli arredi minimali di Brecht, le citazioni orientali di tanto teatro fra le due guerre, il fascino della scena nuda di cui parla Copeau e che pratica Dario Fo. Proprio perché tutte queste proposte, e tutte le altre che non abbiamo nominato per brevità, fanno parte del bagaglio di conoscenze di ogni operatore teatrale, oggi non c’è più una norma alla quale ci si debba o ci si possa attenere, e per questo ogni soluzione scenografica comporta una scelta tra opzioni diverse, tutte legittimamente proponibili. L’inserimento dell’azione teatrale in un palcoscenico vuoto o quasi, ad esempio, solitamente vuole attirare l’attenzione dello spettatore sui movimenti degli attori, sulla loro corporeità, oppure sulla pregnanza della parola che viene pronunciata o della situazione che viene rappresentata. Tanto teatro-danza va in questa direzione, così come le fabulazioni del Dario Fo di Mistero buffo o i racconti monologanti degli attori del teatro di narrazione, come Marco Paolini o Marco Baliani. Anche i testi teatrali di Pasolini, cui abbiamo accennato nel capitolo precedente, proprio perché hanno il loro punto di forza e la loro stessa ragion d’essere nella densità poetica della Parola, difficilmente potranno essere collocati in una scena scenograficamente ricca. Le pièces di Samuel Beckett, poi, lasciano pochi margini all’invenzione scenografica perché prevedono, se non un azzeramento, certo una forte riduzione di ogni apparato, in una scena che è pensata come uno spazio astratto e non realistico, con le didascalie che, più che

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agli elementi della scenografia, fanno riferimento alle strutture stesse del palcoscenico, come il «fondale», la «ribalta», le «quinte». Un’analoga essenzializzazione delle scenografie c’è nelle scelte stilistiche degli ultimi decenni di Peter ­Brook, dalla fantastica e sterminata riduzione dell’antico poema indiano Mahπbhπrata del 1985 alla Tempesta di Shakespeare del 1990, in favore di una concentrazione sulla gestualità degli attori, sulla parola, sulla più trasparente leggibilità della vicenda. In tutti questi casi, insomma, per non distrarre l’attenzione dello spettatore con elementi non essenziali, la scelta è quella di «togliere la salsa», ossia tutti gli orpelli spettacolari, come diceva Jacques Rivière, amico e sodale di Jacques Copeau. All’estremo opposto stanno i grandi apparati e le stupefacenti macchinerie di certi spettacoli di Luca Ronconi (dall’Orlando furioso in piazza agli Ultimi giorni dell’umanità al Lingotto), per i quali sarebbe ineliminabile la raffinata articolazione degli spazi e degli apparati, perché anche lì si concentra la creatività dell’operazione. E in mezzo a questi estremi stanno tutte le soluzioni intermedie che naturalmente non è possibile riassumere qui. C’è spesso l’accettazione sostanziale della impostazione scenografica tardo-ottocentesca, con le ambientazioni realistiche e i mobili veri, a dare una credibilità di tipo naturalistico alla rappresentazione. O c’è la riduzione minimalista di questa tradizione, con una sorta di stilizzazione della scenografia naturalista, con arredi semplificati ma ugualmente in grado di rappresentare credibilmente un ambiente reale. Quando non sia dettata da ragioni puramente economiche, questa semplificazione degli elementi scenografici serve a ottenere quel «tanto di convenzione» della scena di cui parla Cˇechov e che segnala la sostanziale artificialità dell’evento cui si

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sta assistendo, punto di partenza irrinunciabile per la gran parte del teatro del Novecento. Al di là di questo confine dell’accettazione anche parziale dei canoni di base della scenografia di tradizione ottocentesca, c’è tutto uno sconfinato catalogo di opzioni, tecniche e linguistiche. Ci sono innanzi tutto le operazioni di frammentazione dell’unitarietà della scena, ottenuta ad esempio con l’assemblaggio di miniricostruzioni scenografiche l’una accanto all’altra, come nel Delitto e castigo di Visconti citato nel terzo capitolo. Lo stesso procedimento di decostruzione della scena unitaria è a volte ottenuto con elementi astratti e neutri come pedane, praticabili o anche giochi di luce, oppure con la scelta più radicale – quasi una citazione dello spazio medievale – di far snodare la vicenda in piccoli e dispersi palcoscenici autonomi, come nei già ricordati spettacoli di Ronconi o in 1789 del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, del 1970-1971. In tutti questi casi l’impianto scenografico, per quanto articolato e imponente, mantiene sempre, per così dire, una funzione di “contenitore”, è un quadro scenico anche accurato al servizio dell’attore e della sua azione. Ci sono invece operazioni in cui il rapporto in certo senso si complica o addirittura si rovescia, con l’impianto visivo della scenografia che assume un ruolo fondamentale o prioritario. Un caso particolare è quello di Tadeusz Kantor che, proprio per le sue radici di artista figurativo, costruisce impianti scenografici di rara intensità, con singolari oggetti auto-costruiti o col recupero di materiali, spesso poveri e degradati, ricondotti a una nuova vita artistica, con un’operazione di ascendenza dadaista. Un procedimento diverso e in certo senso opposto è quello che tende a de-materializzare la scena, come negli spettacoli del cosiddetto teatro-

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immagine. Gli esempi si possono trovare nella neoavanguardia degli anni Sessanta e Settanta in Italia o, a livello internazionale, in alcuni memorabili spettacoli di Bob Wilson, come lo straordinario Einstein on the Beach, con la partitura musicale di Philip Glass, presentato al Festival di Avignone del 1976 e poi in un lungo tour mondiale, in cui l’azione si raggela in movimenti lentissimi degli attori sullo sfondo di una scenografia visivamente raffinatissima. In molte di queste realizzazioni l’impianto scenografico è quasi bidimensionale, con una sorta di contrazione, o comunque di non sfruttamento della profondità del palcoscenico, che recupera un procedimento del cosiddetto «teatro della convenzione» nei primi anni di attività di Mejerchol’d, nel primo decennio del Novecento. Proprio perché individua nella profondità plastica e nella abitabilità della scena il principale fondamento della poetica realista, Mejerchol’d sceglie di negare questa profondità, collocando un fondale dipinto quasi a ridosso della ribalta e dunque costringendo gli attori a movimenti artificiali, quasi come in bassorilievo contro il fondale. In una direzione analoga vanno gli spettacoli della cosiddetta «nuova spettacolarità» degli anni Ottanta in Italia, di compagnie come i Magazzini e Falso Movimento, nei quali appunto il fondale è spesso portato molto in avanti, ad appiattire il più possibile la resa figurativa dello spettacolo. Caso esemplare è Tango glaciale di Falso Movimento, del 1982, in cui l’immagine di fondo è costituita da una proiezione di immagini che vengono dalla cultura pop, a colori netti e definiti, o da pagine di fumetti, davanti a cui gli attori scandiscono gesti artificiali sulla base di ritmi musicali. Con questo esempio, ma anche con quello di molti spettacoli di Bob Wilson, che usa spesso le retro-proie­

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zioni per costruire le immagini dei propri fondali, si accede al campo delle nuove tecnologie usate a fini scenografici, che negli ultimi decenni vengono sempre più utilizzate. Un esempio in certo senso estremo di questi procedimenti è la regia di Giorgio Barberio Corsetti di La pietra del paragone di Gioachino Rossini al Teatro Regio di Parma nel 2007, nella quale i cantanti agiscono nello spazio della scena praticamente vuoto ma, ripresi da telecamere, vengono contestualmente inseriti in ambienti virtuali proiettati su un maxischermo per la visione degli spettatori. Le possibilità offerte da queste nuove tecnologie sono in ogni caso praticamente infinite, anche perché consentono la moltiplicazione dei punti di vista e dunque infrangono il funzionamento stesso della scena all’italiana, basato sulla frontalità della visione. Il risultato principale di queste tecnologie è tuttavia quello di spingere verso una sorta di de-materializzazione della scena contemporanea, che risulta quindi costituita sempre meno da oggetti e scene materiali e sempre più da immagini virtuali. È dunque la luce, alla fine, l’elemento cardine della costruzione dell’immagine scenografica del teatro degli ultimi decenni, sia attraverso la mediazione delle tecniche che producono proiezioni o realtà virtuali sia anche, più semplicemente, attraverso gli effetti che gli impianti computerizzati riescono a ottenere. L’uso della luce in funzione espressiva non è in realtà un’invenzione contemporanea, se pensiamo alle tecniche raffinate già utilizzate dagli scenografi cinquecenteschi e poi perfezionate dalla spettacolarità barocca. Ce ne fornisce un esempio Sebastiano Serlio, nel Secondo libro di prospettiva del 1545, quando parla della sorpresa suscitata dalle scene

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ornate d’infiniti lumi, grandi, mezzani e piccoli [...]. Quivi si vede la cornuta e lucida luna levarsi pian piano, et essersi inalzata, che gli occhi de gli spettatori non l’han veduta muoversi; in alcune altre si vede il levare del sole, et il suo girare, e nel finire della commedia tramontar poi con tale artificio che molti spettatori di tal cosa stupiscono.

Quando tuttavia, a partire dalla fine del Settecento e per tutto l’Ottocento, l’ambientazione delle pièces rifluisce verso gli interni e soprattutto la centralità dello spettacolo passa dall’apparato scenografico alla recitazione dell’attore, l’uso in certo senso “creativo” dell’illuminazione si fa più contenuto. I grandi attori dell’Ottocento non recitano in piena luce, perché l’illuminazione viene prevalentemente dal basso, dalla fila di lampade a olio o a gas allineate sul pavimento del palco, al limite della ribalta. Ed è solo con l’impiego della luce elettrica, alla fine dell’Ottocento, che a registi, scenografi e light designer, come si chiamano oggi, si aprono possibilità ulteriori e maggiormente creative. Prima, ad esempio, sarebbe stato più difficile per Pirandello suggerire in didascalia quel «riflettore verde» che proietta da dietro il fondalino, «grandi e spiccate», le ombre dei Personaggi nell’inquietante finale di Sei personaggi in cerca d’autore. Più in generale, nel teatro contemporaneo, è proprio la luce a dare molto spesso l’impronta “stilistica” allo spettacolo. Un’illuminazione piena, diffusa, che imita la luce naturale, porta solitamente verso la credibilità di un ambiente naturale e quotidiano. Ma può anche servire a creare un’atmosfera fiabesca e sospesa come nella splendida Tempesta di Shakespeare messa in scena da Giorgio Strehler nel 1978, con quei toni chiari e solari che via via imbruniscono col passare del tempo,

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in qualche modo contrapposti alle tonalità dell’azzurro impiegate dallo stesso regista qualche anno dopo, nel 1980, per L’anima buona del Sezuan di Brecht. Una luce diretta e concentrata su un oggetto o un attore serve invece a isolare quell’oggetto o quell’attore dal contesto, per sottoporlo a un’attenzione speciale dello spettatore. Se l’attore si muove, solitamente viene utilizzato un proiettore anch’esso mobile che lo segue, chiamato appunto segui-persone. Ma si tratta di soluzioni ormai poco utilizzate, se non nel teatro di varietà o in forme similari. Continua invece a rivestire un ruolo importante un’illuminazione di provenienza espressionista, che colloca le fonti di luce in posizioni innaturali rispetto all’illuminazione quotidiana, ad esempio dal basso o di lato, col risultato di alterare la percezione “normale” soprattutto dei volti, rendendoli inquietanti o grotteschi o addirittura demoniaci. È una tecnica utilizzata da Carmelo Bene, che nei suoi spettacoli prende spesso la luce totalmente di taglio, mostrando una parte del viso fortemente illuminata e l’altra in oscurità, con un forte contrasto luce/ombra che rimanda appunto alla cultura espressionista. Un’altra soluzione, per certi versi opposta, è quella di chi colloca la fonte di luce alle spalle della persona, per produrre intorno alla sua testa una sorta di aureola luminosa, come si può vedere esemplarmente in certi ritratti fotografici di Andy Warhol. Quello che consentono le moderne tecnologie è tuttavia soprattutto una grande possibilità di variazione delle luci nel corso dello stesso spettacolo, con effetti che possono rendere un cambiamento di atmosfera psicologica, mutazioni di tempo e di luogo, particolari sottolineature emotive. In certo senso, da questo punto di vista, l’illuminazione può avere una funzione ana-

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loga a quella della musica, almeno quando si tratti di musica di accompagnamento, di connotazione psicologica delle situazioni rappresentate. Ma naturalmente la musica può assumere in uno spettacolo anche ruoli diversi, molto più centrali e fondamentali nell’economia dello spettacolo. Può essere prodotta da musicisti in scena, anche nel caso di spettacoli diversi dal teatro musicale in senso stretto, con funzione direttamente drammaturgica, può svolgere un proprio discorso non necessariamente correlato a quello che viene dal testo, o addirittura «prendere posizione» rispetto ad esso, magari contestandone l’impianto, come suggerisce Brecht. Oppure la musica può dettare essa stessa i ritmi dell’azione, come in certe esperienze delle avanguardie storiche o delle neo-avanguardie più recenti, che fanno della contaminazione dei linguaggi il centro focale della propria poetica. Abbiamo già citato il caso di Einstein on the Beach di Bob Wilson e Philip Glass, ma per i decenni precedenti si può citare il favoloso Parade, del 1917, con testo di Jean Cocteau, la musica di Erik Satie, la coreografia di Léonide Massine e la scenografia e i costumi di Pablo Picasso, e in tempi più recenti ad esempio Cuori strappati del gruppo La Gaia Scienza, del 1982, suddiviso in una serie di quadri in cui la gestualità danzata degli attori è coordinata appunto alla sequenza dei pezzi musicali. Naturalmente uno spettacolo è un oggetto complesso, che non può essere ridotto ai pochi elementi che qui abbiamo grossolanamente indicato. Ci sono gli accessori di scena, gli oggetti, il trucco degli attori. Ci sono i meccanismi dei cambi di scena. C’è la dinamica dell’alternanza tra azione e ritorno alla quotidianità, scandita dagli intervalli, che spesso è molto significante. C’è tanto altro, perché molto vasta e articolata e imprevedibile

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è la creatività dei linguaggi della scena e della scrittura scenica. Ma, soprattutto, c’è la magia del teatro, che non può essere pienamente compresa e illustrata analizzando le sue componenti. Ci si può accostare con gli strumenti dell’analisi a uno spettacolo come atto di comunicazione, come fenomeno che impiega linguaggi specifici. Ma per fortuna l’incanto che viene dal teatro, quando il teatro è capace di produrlo, alla fine è fatto di ben altro. Quando raggiunge il suo scopo, è fatto «della materia di cui sono fatti i sogni», come scrive Shakespeare, e i sogni non si possono spiegare e comprendere del tutto.

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Torniamo allora all’inizio, alla definizione di Grotowski: «Possiamo [...] definire il teatro come “ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore”». In fondo l’evento teatrale si riduce a quel “qualcosa” che avviene lì, in quell’incontro, un “qualcosa” che alla fine non siamo riusciti né riusciremo a definire compiutamente. Ciò che possiamo ragionevolmente indagare sono le forme attraverso cui l’attore propone questo incontro e le modalità con cui lo spettatore le recepisce. 1. Grammatiche d’attore e “autenticità” Non è certo questo il luogo in cui redigere un catalogo di queste forme, mentre è invece possibile indicare alcuni percorsi, alcune linee che innervano le modalità della recitazione teatrale degli ultimi decenni. Proviamo, come modellino teorico, a istituire allora una prima differenza tra due impostazioni di fondo. Poniamo da una parte l’attore che costruisce la propria azione sul rispetto delle regole della buona dizione, del modo corretto di porgere le battute, di atteggiare il corpo e il viso, insomma l’attore attento alla grammatica e alla sintassi di un linguaggio scenico che si presuppone codificato

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e stabile, quello che viene insegnato nelle accademie. Dall’altro lato poniamo l’attore che salta a piè pari queste regole, anche con piena consapevolezza, alla ricerca di codici diversi, di linguaggi non iscritti nella tradizione, oppure di una sorta di “autenticità” che venga prima di ogni regola scenica. Di chi cerca nuovi e diversi linguaggi ci occuperemo nei prossimi paragrafi. Qui vorrei invece istituire una sorta di opposizione netta tra la “grammatica” e l’“autenticità”. Le grammatiche, allora. C’era una volta, direi fino ai primi decenni del Novecento, la figura del “figlio d’arte”, cioè dell’attore che proseguiva una tradizione di famiglia, impostando la propria azione sulle regole e le modalità di recitazione imparate nel lungo apprendistato al seguito di genitori e parenti. Non che manchino anche oggi attori figli di attori, ma ciò che manca è proprio quella pratica della “bottega” di artigianato teatrale che era caratteristica dei comici dell’arte e poi delle compagnie girovaghe fino a tutto l’Ottocento e ai primi del Novecento. Oggi a dettare le regole di una recitazione “corretta” sono semmai le accademie o comunque le scuole di recitazione, mai così numerose come in questi ultimi decenni. Con ogni probabilità appartiene a questa categoria una buona parte degli attori che incontriamo sui palcoscenici di oggi, portatori di uno stile che, indipendentemente dalla provenienza o meno da una scuola istituzionale, potremmo definire “accademico”. Si tratta di quell’attore che ha una corretta pronuncia e una perfetta dizione, che prende i fiati in maniera da non strozzare la voce nel mezzo di una frase, che sa modulare in modo appropriato i gesti e le espressioni del viso, che sa rendere il proprio personaggio in maniera credibile e accattivante. Questo attore dalla grammatica recitativa corretta è esattamente quello che

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definisce la norma di una civiltà teatrale, quello che ne fornisce l’indispensabile tessuto di base, come quello che possiedono paesi di grandi tradizioni teatrali come la Germania e soprattutto l’Inghilterra. È la tradizione dei grandi attori shakespeariani inglesi, ad esempio, che raggiunge la massima espressione con le straordinarie figure di Laurence Olivier o John Gielgud, il cui campo d’azione privilegiato è la parola, come rileva con acutezza Peter Brook, proprio a proposito di Gielgud, in Il teatro e il suo spazio: John Gielgud è un mago: la sua forma di teatro è tale da arrivare, come si sa, più in alto del comune, dell’ordinario, del banale. La sua lingua, le sue corde vocali, il suo senso del ritmo, formano uno strumento che lui ha consapevolmente sviluppato in tutto il corso della sua carriera, in perenne armonia con la vita [...]. La sua arte è sempre stata più vocale che fisica: ancor quasi agli inizi della carriera decise che il corpo gli sarebbe stato strumento meno flessibile della testa. [...] non è soltanto questione di parola, di melodia, è il moto continuo tra il meccanismo di formazione della parola e la sua intelligenza, che ha reso la sua arte così preziosa, così toccante e soprattutto così consapevole.

In quanto interprete di una tradizione poco influenzata dal dibattito e dalle teorie della civiltà teatrale novecentesca, questo attore si fa portatore di una credibilità che sta ancora al di qua, per così dire, dell’istanza stanislavskiana della “verità” sulla scena. Perché è un attore che mette a disposizione le proprie abilità tecniche, magari straordinarie, ma non la propria intimità, le pieghe del proprio vissuto individuale, insomma la propria “autenticità” di persona prima che di attore. Stanislavskij voleva invece un attore che mettesse in campo i propri sentimenti, le proprie emozioni di uomo e non

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la rappresentazione o l’imitazione anche tecnicamente corretta di quei sentimenti e di quelle emozioni. Da questo punto di vista, pur sempre all’interno di una poetica di tipo rappresentativo, si può dunque già istituire una sostanziale differenza, quasi una contrapposizione, tra un attore che si fa portatore di un corretto uso grammaticale delle tecniche di recitazione e un attore che prova a “vivere” la propria parte, mettendosi in gioco come uomo. Per portare un esempio minimo di questa contrapposizione è forse utile riportare l’aneddoto spesso citato della diversità di atteggiamento tra Laurence Olivier e Dustin Hoffman nel corso delle riprese del film Il maratoneta di John Schlesinger, del 1976. Si dice che Hoffman, prima di recitare una scena in cui uno spietato dentista nazista, Olivier appunto, gli avrebbe trapanato un incisivo senza anestesia, abbia fatto una lunga corsa spossante per presentarsi sul set in una situazione di effettivo, personale, disagio esistenziale, tutto sudato e stravolto. Intanto Olivier aspettava pazientemente, ma alla fine della scena ha pronunciato una frase che è rimasta come lapidaria affermazione di una diversa concezione del lavoro dell’attore: «Visto? Bastava recitare». Ecco, Olivier è l’attore che recita con la sua straordinaria tecnica d’attore e solo con questa ottiene quanto è richiesto dal suo ruolo, mentre Hoffman, che viene dalla tradizione stanislavskiana attraverso la scuola dell’Actors Studio di Lee Strasberg, è l’attore che si mette in gioco come persona, che ha bisogno di vivere come individuo le palpitazioni del proprio personaggio. E poco importa, da questo punto vista, che l’esempio sia tratto da un’esperienza cinematografica, perché i meccanismi recitativi in gioco sono gli stessi del teatro. Con questo esempio siamo comunque all’interno di

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una concezione che indirizza il teatro verso una rappresentazione credibile della realtà, in cui l’attore deve rendere verosimile, o addirittura “vero”, il personaggio che interpreta. Ma naturalmente la ricerca di “autenticità” contrapposta alla “grammatica” interpretativa va ben oltre, come vedremo nel prossimo paragrafo con le teorie e le pratiche di Artaud, di Grotowski, del Living o di Barba, che appunto pretendono dall’attore un’adesione esistenziale totale e non limitata alla recitazione episodica di una scena. Ma anche al di fuori di queste esperienze in qualche modo estreme, il teatro contemporaneo rinuncia sovente, e consapevolmente, alla correttezza grammaticale in favore di una capacità di espressione più immediata, meno formale. Si spiegano così tanti spettacoli volutamente “sporchi”, tante pronunce imperfette, al limite del dialettale e anche oltre, tante fisicità anche sgraziate, tante presenze sceniche che sarebbero impensabili e scorrette in un teatro retto dalle regole della tradizione. Negli ultimi decenni si sono anzi moltiplicate le proposte che spingono sempre più in questa direzione. Il teatro fatto, anziché con professionisti della scena, con persone “normali” che proprio per questo non posseggono i fondamenti tecnici della recitazione, è diventato quasi una moda negli ultimi anni. Alcune notevoli esperienze di questo tipo invadono addirittura lo spazio più formalizzato di tutti, quello della danza, riuscendo proprio per questo deficit di professionalità a suscitare emozioni non comuni. Ne sono un esempio gli spettacoli allestiti negli ultimi anni con bambini o con anziani da un coreografo importante come Virgilio Sieni, o le riedizioni recenti del mitico Kontakthof del 1978, che Pina Bausch costruisce nel 2000 con un ensemble di anziani over-65 e nel 2008 con una compagnia di ado-

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lescenti. E sono sempre più numerosi gli spettacoli con attori non solo non professionali ma anche con particolari connotazioni socio-esistenziali, come ad esempio i detenuti oppure i soggetti con un vissuto di emarginazione e di difficoltà, come i ragazzi del quartiere di Scampia a Napoli o le comunità di immigrati. Molte di queste esperienze partono da situazioni laboratoriali e anzi proprio sul laboratorio fondano la propria attenzione primaria. Ma in alcuni casi raggiungono esiti particolari e felici anche sul piano estetico, come alcuni memorabili spettacoli di Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra. Al netto di ogni eventuale finalità di tipo sociale, in questi casi non sono ovviamente le abilità tecniche degli attori a costituire la centralità dell’operazione ma proprio la ricerca di immediatezza espressiva, di necessità comunicativa, di messa in gioco di sé, di autenticità insomma. Un caso particolare e ancora più spinto in questa direzione è quello degli operatori e delle compagnie che scelgono di lavorare con attori con disabilità fisiche o mentali, come Lenz/Rifrazioni o Pippo Delbono. Delbono soprattutto è un caso esemplare, perché si tratta di un attore-regista già di suo e sin dall’inizio poco “grammaticale”, che immette una forte dose di emozionalità propria nei suoi lavori, che non si cura di costruire spettacoli puliti e rifiniti e proprio per questo li rende affascinanti e coinvolgenti. Da tempo, poi, Delbono allestisce alcuni spettacoli sulla base di attività laboratoriali con attori non professionisti, come il memorabile Enrico V da Shakespeare, che ancora oggi viene presentato specie all’estero, costruito dopo un laboratorio con gli studenti dell’Università di Parma nel 1992. Negli ultimi anni l’operazione di Delbono è poi divenuta ancor più complessa e articolata, appunto con

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l’utilizzazione di attori con disagi esistenziali, a partire dallo straordinario Bobò, che il regista ha addirittura adottato sottraendolo a una reclusione manicomiale, e con operazioni di contaminazione molto particolari, ad esempio quando accanto a questi attori-non attori viene inserito un fine interprete del teatro di tradizione come Umberto Orsini, in Urlo, del 2004. Non solo nel caso di Delbono ma in generale in tutti gli spettacoli con presenze non professionali e dunque, si suppone, più autentiche, la poetica sembra partire da una sostanziale contestazione della rappresentazione ottenuta con gli strumenti classici delle tecniche d’attore, in favore della ricerca di una “verità” esistenziale che sta prima delle tecniche. Con un’operazione che non è la stessa ma che è collegabile in certo senso alla ricerca del «comportamento scenico pre-espressivo» di cui parla Eugenio Barba nel volume del 1993 La canoa di carta, ossia di ciò che sta prima della utilizzazione espressiva, artistica, del corpo umano in un evento spettacolare di qualsiasi natura. Per Barba si tratta di rintracciare e riconoscere quella «qualità extra-quotidiana dell’energia che rende il corpo scenicamente “deciso”, “vivo”, “credibile”; così la presenza dell’attore, il suo bios scenico, è in grado di tenere l’attenzione dello spettatore prima di trasmettere un qualsiasi messaggio. Si tratta di un prima logico, non cronologico [virgolettati e corsivi nel testo]». Per Barba, dunque, la “verità” biologica deve poi mettersi al servizio di un’azione in cui intervengono le forme consapevoli dell’espressività scenica. Per le esperienze di cui stiamo parlando, invece, l’espressività è già tutta in quei corpi e in quelle presenze che si lasciano leggere proprio nella “verità” della loro azione, neanche prima ma proprio al di fuori di ogni elaborazione tecnica.

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Da questo punto di vista, questa esibizione di una umanità “vera” sulla scena non è nella sostanza diversa da quella scenografica di André Antoine che alla fine dell’Ottocento collocava i quarti di bue veri in scena. In quel caso a creare lo scandalo e la sorpresa era una materia grezza presentata allo sguardo dello spettatore senza alcuna mediazione che la trasformasse in elemento artificiale, ma accanto a quella carne da macelleria recitavano pur sempre attori che, quale che fosse il loro grado di professionismo, usavano tecniche rappresentative per interpretare il proprio personaggio. Qui l’operazione è ancor più radicale, perché la materia grezza non è più un dato scenografico ma il corpo e l’azione di chi sta sulla scena. Lo scandalo e la sorpresa stanno qui in una persona che si dà nella sua quotidianità, dunque non trasformata in “attore” tecnicamente consapevole, incidendo proprio sul nucleo fondamentale di ogni evento teatrale, l’azione, la corporeità, la presenza di chi agisce. E tuttavia, come il quarto di bue di Antoine, collocato su un palcoscenico, risultava alla fine pur sempre il “segno” di un quarto di bue ed esibiva così la propria pretesa di verità quotidiana, anche questo attore-non attore porta in scena il “segno” della propria pretesa di autenticità. L’esempio ultimo è il vero cappellano del carcere che accoglie gli spettatori di Giulietta e Romeo. Mercuzio non vuole morire, messo in scena da Armando Punzo con i carcerati di Volterra nel 2011. Perché, alla fine, che quel discorso sia pronunciato da un prete vero e non da un attore che interpreta la parte di un prete può avere significato all’interno dei meccanismi micro-sociali del carcere, ma sul piano estetico è quasi irrilevante, perché quel sacerdote è bravo nella sua esposizione e la sua dimensione di autenticità sfuggirebbe se non venisse se-

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gnalata. Anche l’autenticità non-teatrale, insomma, portata su un palcoscenico, con ciò stesso diviene teatrale, ed entra nel gioco dialettico dei linguaggi della scena. 2. L’utopia comunitaria La ricerca di una dimensione comunitaria del teatro, che coinvolga attore e spettatore in un’esperienza esistenziale comune, è proprio quella di Grotowski, da cui abbiamo tratto la citazione iniziale. Naturalmente, per raggiungere questo obiettivo, per sottrarre lo spettatore alla sua abitudine di passività, l’attore deve uscire dai canoni tradizionali del teatro di rappresentazione, deve mettersi a disposizione, donarsi senza resistenze in un atto quasi di sacrificio di sé, concentrandosi su una «“maturazione” [...] che è espressa da una tensione verso l’assoluto, da una denudazione completa, dall’estrinsecazione degli strati più intimi del proprio essere [...]. L’attore fa dono totale di sé», come scrive Grotowski in un saggio del 1965, Per un teatro povero. È la teoria dell’attore «santo», illustrata in un’intervista a Eugenio Barba del 1964 pubblicata con il programmatico e impegnativo titolo di Nuovo Testamento del teatro: Non mi fraintendete. Io parlo di “santità” da miscredente: mi riferisco ad una “santità laica”. Se l’attore provoca gli altri provocando se stesso pubblicamente, se con un eccesso, una profanazione, un sacrilegio inammissibile, scopre se stesso gettando via la maschera di tutti i giorni, egli permette anche allo spettatore di intraprendere un simile processo di auto-penetrazione. Se egli non esibisce il suo corpo, ma lo annulla, lo brucia, lo libera da ogni resistenza agli impulsi psichici, allora, egli non vende il suo corpo ma lo offre in sacrificio; ripete l’atto della Redenzione; si avvicina alla santità.

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C’è qui una ricerca di “necessità” dell’azione scenica che chiede all’attore una autenticità più profonda di quella che manifesta chi espone nuda e cruda sulla scena la propria quotidianità esistenziale. Ma anche qui non ci sono più le grammatiche, le regole di corretta dizione o di gestualità codificata dalla tradizione. Gli imperativi sono altri. L’attore che discende da questa impostazione deve infatti avere il pieno dominio dei suoi mezzi fisici, anche di tipo ginnico-acrobatico, ma soprattutto attraverso di essi deve esprimere forza, intensità, urgenza del proprio agire, come è mirabilmente esemplificato dal grande Ryszard Cieslak, interprete di alcuni degli spettacoli più famosi di Grotowski, dal Principe costante ad Apocalypsis cum figuris. Per costruire questa tipologia di attore, che non appartiene alla tradizione teatrale occidentale, è naturalmente necessario insistere molto sull’attività laboratoriale e su un training fisico e psichico costante, che formi e tenga allenato l’attore come individuo ancor prima che come interprete di un determinato ruolo. La sfida a cui è chiamato l’attore è quella di esplorare e superare continuamente i propri limiti fisici e psicologici, alla ricerca di una “purezza” da conquistare sotto le corazze del comportamento quotidiano e sociale. Se è lecito il paragone, all’attore si chiede in sostanza la desnudez, la “nudità”, di cui parla, in un contesto mistico, il cinquecentesco carmelitano Juan de la Cruz, l’italianizzato Giovanni della Croce, nella Salita del Monte Carmelo. Va nella direzione sostanzialmente analoga la dedizione che pretende dai suoi attori anche Eugenio Barba, che di Grotowski è stato allievo. Ed è interessante sottolineare che gli attori dell’Odin sono stati originariamente reclutati tra chi era stato respinto dalle accademie, proprio per marcare la diversità di questo lavoro tea-

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trale dalle tipologie recitative della tradizione. Analogamente a quanto avviene con Grotowski, l’impostazione dell’Odin prevede una forte impronta laboratoriale, che chiede agli attori una profonda adesione personale al progetto e una disponibilità assoluta. Scrive Barba nel 1967 in una pubblica Lettera all’attore D., lamentandosi di una «mancanza di serietà» nel lavoro: Come prima cosa si ha l’impressione che le tue azioni non siano dettate da un convincimento interiore, da una necessità irrefrenabile che lascia il suo marchio nell’esercizio, nell’improvvisazione, nella scena che esegui. Puoi essere concentrato nel tuo lavoro, non risparmiarti, i tuoi gesti possono essere tecnicamente precisi, ma le tue azioni rimangono vuote. Non credo in quello che fai. Il tuo corpo dice solo una cosa: obbedisco a un ordine ricevuto dall’esterno. I tuoi nervi, la tua colonna vertebrale, il tuo cervello non sono impegnati, e con un’attività epidermica vuoi farmi credere che ogni azione è vitale per te. Tu stesso non avverti l’importanza di quello di cui vuoi rendere partecipe lo spettatore. Come puoi sperare, allora, che lo spettatore sia preso dalle tue azioni?

«Non credo in quello che fai». È quasi la stessa frase che pronunciava Stanislavskij quando si sedeva in platea e interrompeva la prova di un attore che usava solo tecniche rappresentative per interpretare il suo personaggio, ma non ci metteva la “verità” della sua adesione personale. I presupposti teorici in questo caso sono però diversi. Là si trattava di credere o non credere alla verità del sentimento rappresentato, qui si tratta invece di credere o non credere al senso di «irrefrenabile necessità» e di urgenza di cui l’attore deve impregnare la sua azione, alla sua “autenticità”, che è evidentemente cosa diversa dalla credibilità psicologica. Per questo l’attore dell’Odin deve essere un attore “totale”, che si

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esprime prima di tutto con la corporeità ma poi deve essere anche musicista e danzatore, esecutore di una partitura rigida prefissata e improvvisatore, apprendista e pedagogo. Questa figura di attore e questa ipotesi di lavoro teatrale basato sul gruppo comunitario costituiscono poi, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, un modello per un intero settore del teatro internazionale, quello convenzionalmente chiamato Terzo Teatro, a partire da una definizione dello stesso Barba, in un articolo del 1976 che ne diviene in qualche modo il manifesto. Diverso e separato sia dal “primo” che dal “secondo” teatro, ossia dal teatro di tradizione e dal teatro di ricerca, questo teatro di gruppo, spesso ai margini del mercato e magari poco professionale secondo i canoni tradizionali, costituisce appunto una terza via, che affida il senso del proprio lavoro più all’urgenza esistenziale che alla necessità di comunicare, come dice il “manifesto” di Barba: Quel che sembra definire il Terzo Teatro, quel che sembra essere il comune denominatore fra gruppi e esperienze così differenti, è una tensione difficilmente definibile. È come se bisogni personali a volte neppure formulati a se stessi – ideali, paure, molteplici impulsi che resterebbero torbidi – volessero trasformarsi in lavoro, con un atteggiamento che all’esterno viene giustificato come un imperativo etico, non limitato alla sola professione, ma esteso alla totalità della vita quotidiana. Però, in realtà, essi pagano in prima persona il prezzo della loro scelta.

È proprio questo «pagare di persona», questo coinvolgimento esistenziale prima ancora che professionale, a definire la cifra fondamentale e riassuntiva di questa tipologia di teatro e di attore. Si tratta di un attore che

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«paga di persona» proprio per indurre lo spettatore a fare altrettanto, a mettersi in gioco dal punto di vista esistenziale. Per ottenere questo risultato è anche necessario che gli spettacoli, come in tutte le esperienze di tipo “comunitario”, prevedano un abbattimento delle barriere tra attore e spettatore, non solo dal punto di vista esistenziale, ma anche fisicamente, con un accorciamento delle distanze tra i due soggetti. Perché la vicinanza fisica aiuta a trasmettere emozionalità e sentimenti di condivisione. Questa tensione verso una dimensione comunitaria dell’esperienza teatrale, che appartiene, oltre che a Grotowski e a Barba, anche al Living Theatre, trova sostanzialmente le sue radici in Antonin Artaud, il visionario teorico e regista francese attivo negli anni Venti e Trenta del Novecento, che ipotizza un evento teatrale slegato dalla centralità della parola e dell’introspezione psicologica, in grado di pretendere dallo spettatore «un’adesione intima, profonda», perché «sa di venire a sottoporsi a una vera e propria operazione, dove sono in gioco non solo il suo spirito ma i suoi sensi e la sua carne»: «Egli deve essere convinto che siamo capaci di farlo gridare», scrive Artaud, con un’immagine estrema, nel programma del Teatro Alfred Jarry, fondato assieme a Roger Vitrac e Robert Aron nel 1926. Tutte queste teorie, a loro volta, sembrano trovare un’ascendenza più remota in quel fenomeno di rivalutazione e quasi di mitizzazione della dimensione comunitaria del teatro greco ad opera della cultura romantica di inizio Ottocento, specie in area tedesca. All’interno della visione della cultura greca come una sorta di età dell’oro, il teatro era lì individuato come il luogo della presenza a sé della comunità, da contrapporre alla concezione del teatro come fenomeno puramente culturale,

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quando non di solo divertimento. È lì che nasce il mito della comunitarietà del teatro greco, di un evento carico di valenze antropologiche e in certo senso di sacralità, considerato come una sorta di paradiso perduto, di assoluto verso cui tendere. Lo illustra bene un brano del già citato Corso di letteratura drammatica di Schlegel, il teorizzatore del nuovo teatro romantico tedesco: La cultura morale de’ Greci era l’educazione della natura perfezionata; discesi di bella e nobile stirpe, dotati d’organi squisiti, e d’un’anima serena, e’ vivevano, sotto un cielo dolce e puro, in tutta la pienezza d’una florida esistenza; [...] la loro poesia aspira di continuo a conciliare, a unire intimamente i due mondi fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sensi e quello dell’anima; [...] In breve essa dà anima alle sensazioni, corpo al pensiero.

Noi moderni non siamo più in quella condizione di «pienezza» che Schlegel immagina per l’età classica e di cui la poesia teatrale è la massima espressione, per cui la comunione dell’uomo con la natura e dell’uomo con gli altri uomini può essere solo evocata e rimpianta. Ma noi non viviamo più «sotto un cielo dolce e puro», e quella comunione possiamo solo ricrearla occasionalmente e artificialmente, in situazioni riparate e protette, tutto sommato elitarie, ben lontane comunque dalla condizione di “normalità” che questa esperienza possedeva nella cultura greca. 3. La ricerca di altre grammatiche. I procedimenti per sottrazione In realtà, al di là di queste ricerche di una situazione comunitaria in certo senso difficilmente raggiungibile, il teatro contemporaneo è più spesso impegnato a

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trovare modalità diverse da quelle tradizionali per produrre senso dall’incontro tra l’attore e lo spettatore. Naturalmente prosegue per tutto il Novecento anche la poetica stanislavskiana del sentimento “vero” presentato dall’attore allo spettatore, specie nel teatro americano che più di tutti ha ereditato questa impostazione. È l’azione dell’Actors Studio, la scuola di recitazione di New York fondata nel 1947 e diretta dal 1950 da Lee Strasberg, da cui sono passati praticamente tutti i grandi interpreti del teatro e del cinema americano, a risultare fondamentale in questo contesto. Anche per questa pratica d’attore la tradizione da contrastare è comunque quella della imitazione realistica di gesti, azioni e sentimenti, perché il punto di partenza (e anche di arrivo) non è l’imitazione della realtà ma la realtà stessa, espressa da gesti e sentimenti che appartengono all’attore e non al personaggio. Lo si è visto col citato esempio di Dustin Hoffman. La gran parte degli operatori della scena novecentesca mette tuttavia in atto processi differenti, che partono dalla coscienza della ineludibile e necessaria artificialità dell’azione teatrale. Anche i tentativi di recupero della dimensione comunitaria del teatro attraverso quella “nudità” scandalosa che abbiamo mutuato da Giovanni della Croce, o le operazioni di recupero di “autenticità” fuori dalle regole tradizionali della rappresentazione hanno in sé il segno di questa consapevolezza. Esattamente come il teatro che si affida alla parola “sporca” del dialetto per contrastare l’omogeneità della lingua standardizzata e “corretta”, questi spettacoli producono infatti un risultato che sta ben lontano dalla naturalezza della quotidianità. In questi casi il percorso per l’artificializzazione dell’azione si esprime con un meccanismo che potremmo chiamare di sottrazione, attra-

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verso una spogliazione progressiva e tendenzialmente totale dalle regole e dalle tecniche della recitazione. Anche il teatro di narrazione, che specie in Italia ha trovato ampio spazio negli ultimi decenni, alla fine mette in atto meccanismi analoghi. Il narratore, pur servendosi del teatro come strumento di comunicazione, spesso non si sente “attore” in senso tecnico e pare anzi collocarsi quasi fuori, o comunque in una posizione marginale rispetto al mondo teatrale tradizionalmente inteso. Le vicende narrate da Ascanio Celestini o Laura Curino, da Marco Baliani o Marco Paolini sono di norma molto dirette, appartengono quasi sempre alla quotidianità, alla storia di oggi, quando non addirittura alla biografia del narratore. C’è insomma un dato di “intimità” svelata, quasi di confessione, che annoda ancor di più lo spettatore-ascoltatore alle vicende che gli vengono presentate. Chi assiste sente di entrare in un mondo “privato”, ma che non è tanto distante dal “suo” privato. Sente che quelle vicende gli appartengono direttamente, o potrebbero appartenergli. Naturalmente questi spettacoli prevedono un lavoro anche lungo di costruzione e di montaggio, ma la percezione del pubblico dovrebbe assomigliare a quella della visione di un film in presa diretta, producendo l’impressione di un racconto improvvisato, nato lì per lì, sull’onda dei ricordi, o di un pensiero che passa per la mente. Anche per questo i narratori riducono al minimo indispensabile la scenografia e l’attrezzeria, perché lo spettatore rimuova il più possibile la percezione di “teatralità”, e dunque di artificialità, nella situazione che sta vivendo. Nella medesima direzione va poi anche un uso del linguaggio spesso iper-colloquiale, magari con declinazioni regionali o dialettali, teso a potenziare la suggestione di un racconto rivolto non alla collettivi-

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tà degli spettatori ma a ciascuno spettatore, individualmente. Naturalmente questa sottrazione di teatralità non si ritrova in altre tipologie di narratori, che si presentano più chiaramente come performance di “attori”, dunque con tecniche interpretative raffinate, come Franco Parenti alle prese con l’impasto linguistico della “Trilogia degli Scarrozzanti” di Giovanni Testori, o Paolo Poli, che svela con straordinaria leggerezza e una mimica molto espressiva gli aspetti più nascosti e meno convenzionali di testi anche molto noti, a partire dalla Vispa Teresa. Oppure come Alessandro Bergonzoni, che produce monologhi che hanno anche un filo narrativo, peraltro spesso esile, in cui la centralità è la vertiginosa creazione verbale, l’incalzare delle battute, dei paradossi, dei cortocircuiti del linguaggio. Oppure, ed è il caso più stupefacente e affascinante, come Dario Fo quando produce i suoi fantastici monologhi, a partire dall’inarrivabile Mistero buffo. Dario Fo, grande attore comico anche nella tradizionale struttura della commedia o della farsa, inventa infatti con Mistero buffo e poi con altri spettacoli analoghi una modalità recitativa basata su una affabulazione mutuata dai modi dei giullari medievali, in cui l’attore, senza costumi o scenografie, sulla base di una strepitosa tecnica gestuale e vocale, racconta storie con una lingua meticciata, arcaica e nuovissima, riuscendo virtuosisticamente a renderci presenti i vari personaggi solo alterando un poco il tono della voce o girando il capo dall’altra parte. Certo, le capacità tecniche di Fo sono inarrivabili, ma è la struttura stessa dello spettacolo, con la scena nuda abitata da un attore che racconta storie, a indurre nello spettatore la percezione di un filo diretto, quasi la convinzione che quel racconto sia rivolto direttamente

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a lui, perforando una quarta parete mai così permeabile. Non è senza significato che il Fo attore-raccontatore nasca non in teatro ma in radio, dunque con uno strumento che necessariamente costringe ad affinare le tecniche che trasformino le parole dell’attore in immagini dentro la mente e l’immaginazione dell’ascoltatore. 4. La ricerca di altre grammatiche. I procedimenti per accumulazione Con le teorie naturaliste e, ancor più specificamente, col sistema teorizzato e praticato da Stanislavskij, è arrivato al punto estremo il tentativo di produrre una impressione di realtà sulla scena, con la richiesta all’attore non più di recitare realisticamente ma di “vivere” le emozioni del suo personaggio. Il fine di questa poetica è evidentemente quello di sottrarre, quanto più è possibile, ogni tratto di “teatralità” all’azione teatrale. Ma se il teatro è storicamente e necessariamente il luogo dell’artificio, a quel punto c’è chi comincia a chiedersi perché mai sia necessario togliere teatralità al teatro, prospettando l’ipotesi che il compito nuovo sia al contrario quello di riconquistare la teatralità perduta, tornando ad assegnarle la sua tradizionale centralità sulla scena. Le modalità di questo percorso di “riteatralizzazione” del teatro sono molteplici e diversificate, ma sono soprattutto i registi e i teorici russi della generazione successiva a Stanislavskij a riportare la teatralità e l’artificio sulla scena, capitanati da Vsevolod Mejerchol’d, che resta la figura centrale e imprescindibile negli anni e decenni febbrili della cultura russa del primo Novecento, e più in generale dell’intera cultura teatrale europea. Nel saggio I primi tentativi di teatro «della convenzione», contenuto nella raccolta Sul teatro del 1913, Mejerchol’d prova

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a dettare le prime regole di una recitazione «convenzionale», ossia artificiale, in questo caso di ispirazione simbolista: È necessario scandire freddamente le parole, senza alcuna vibrazione (trèmolo), senza lamentose coloriture. È necessaria l’assoluta assenza di tensione e l’abbandono dei toni cupi. Il tono deve essere sempre sostenuto, le parole devono cadere come gocce in un pozzo profondo [corsivi nel testo] (trad. G. Crino).

Tono sostenuto e freddo, parole dense e distinte come gocce che cadono in un pozzo profondo, nessuna ansia di espressività nel gesto, nessuna immedesimazione psicologica: quanto di più lontano possibile dalla poetica stanislavskiana. «Io auspico il ritorno dall’inutile verità delle scene attuali alla consapevole convenzionalità del teatro antico», scrive ancora Mejerchol’d nell’altro saggio Il teatro «della convenzione». Mejerchol’d sperimenterà poi altre forme di artificializzazione della recitazione dell’attore, da quella che viene dalla tradizione popolare a quella di ascendenza costruttivista, con una tecnica che chiamerà «biomeccanica», data soprattutto da una gestualità del tutto non quotidiana, artificiosa e ginnico-acrobatica. Ma sempre partendo dal presupposto dell’artificialità dell’azione teatrale. Ancora si percepiscono gli echi di questa teorizzazione in tanti spettacoli contemporanei basati sulla corporeità dell’attore più che sulla parola, su una fisicità espressiva che quasi per nulla si risolve nella rappresentazione del quotidiano. In fondo anche molte esperienze di teatrodanza devono molto di più a questa tradizione che a quella classica del balletto e della danza tradizionale. Questo è il punto di partenza, storico e soprattutto teorico. Da lì deriva una infinità di proposte che natu-

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ralmente non è possibile, e neanche utile, descrivere in questa sede. Quel che si può fare è indicare qualche linea. La linea forse prevalente è quella che tenta di spezzare il legame molto stretto che la cultura prenovecentesca ha instaurato tra attore e personaggio, pretendendo che il personaggio, attraverso la mediazione dell’attore, prenda le sembianze di una persona reale, dotata di una propria biografia e una propria psicologia. Poiché il collante di questa unione attore-personaggio è appunto rappresentato dalla psicologia, ossia dal carattere e dalle passioni che l’interprete deve riprodurre sulla scena, l’attore novecentesco deve trovare soluzioni del proprio stare in scena che dipendano il meno possibile o prescindano del tutto da un’azione costruita per fornire credibilità psicologica al proprio personaggio. Il caso estremo, in questa operazione di svuotamento dell’attore dalla sua funzione tradizionale di rappresentazione della psicologia, è quella sorta di mito della marionetta come utopia di un teatro puro che ha percorso il teatro europeo almeno fino agli anni Trenta. L’inizio di questo percorso si può addirittura collocare sul finire dell’Ottocento, con lo straordinario debutto dell’Ubu re di Alfred Jarry, nel 1896. Il poeta e drammaturgo William Butler Yeats, tra gli spettatori, parla di un «Dio Selvaggio» apparso con quello spettacolo, in cui vede che gli attori si muovono come bambole o marionette, compiendo gesti non naturali e scomposti come quelli dei giocattoli a molla. Una trasposizione di codici che diviene un gesto rivoluzionario, anche sul piano teorico, come enuncia lo stesso Jarry in un discorso pronunciato la sera della prima: Alcuni attori hanno volentieri consentito a perdere per due sere ogni personalità e a recitare chiusi in una maschera,

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per essere esattamente l’uomo interiore e l’anima delle grandi marionette che vedrete [...]. Perché, per quanto marionette si desideri essere, noi non abbiamo sospeso ogni personaggio a un filo, cosa che sarebbe stata, se non assurda, almeno complicata per noi, e per di più non eravamo sicuri delle scene d’insieme della nostra folla mentre nel teatro delle marionette un fascio di pulegge e di fili può comandare ordinatamente tutto un esercito. Aspettiamoci di vedere personaggi ragguardevoli, come il signor Ubu e lo Zar, costretti a caracollare tête-à-tête su cavalli di cartone (abbiamo fatto nottata per dipingerli) per riempire la scena (trad. L. Crepax).

Ma perché, a quale scopo questa trasposizione dei movimenti e dell’agire delle marionette sulla scena di un teatro d’attori? Proprio per le ragioni che Jarry enuncia con chiarezza, quando chiede all’attore di «perdere ogni personalità», recitando con una maschera «per essere esattamente l’uomo interiore e l’anima delle grandi marionette che vedrete». Come a dire che, per raggiungere davvero l’interiorità e l’«anima», la strada non è quella dell’introspezione psicologica e della verosimiglianza, ma al contrario quella della maschera, dell’artificialità, della fissità e della rigidità della marionetta. Nel panorama culturale dei primi decenni del Novecento, che contesta radicalmente i presupposti realistici della cultura tardo-ottocentesca, questa indicazione viene massicciamente ripresa e la marionetta viene individuata come una strada per allentare quel nodo troppo stretto tra l’attore e il suo personaggio che era invece un punto d’arrivo qualificante per il teatro naturalista. In questa prospettiva la marionetta offre un percorso possibile ai molti “riteatralizzatori” della scena novecentesca, proprio sotto la forma di una marionettizzazione degli attori, alla ricerca di una recitazione de-psicologicizzata, ad esempio con una gestualità geometrica, con la censura

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della passionalità e dello scavo interiore a favore di una recitazione tutta estroversa, tutta risolta in azione. Su questa linea si trovano la teoria della Supermarionetta di Gordon Craig e poi le realizzazioni di Oskar Schlemmer nel laboratorio teatrale del Bauhaus, che usa appunto la marionetta oppure costringe l’attore dentro a costumi geometrizzati, che ne censurano l’umanità esaltandone la dimensione di forma astratta. Ma anche le serate dadaiste al Cabaret Voltaire di Zurigo, negli anni Dieci del Novecento, usano questi costumi costruiti col cartone, per nascondere le fattezze umane dell’attore e farlo diventare di nuovo il più vicino possibile a una marionetta o a un pupazzo. E poi anche il futurismo, qualche anno dopo, ospita al proprio interno questa tendenza alla marionettizzazione dell’attore attraverso i costumi e l’attrezzeria, e basta pensare a Enrico Prampolini e soprattutto a Fortunato Depero, che costruisce anche marionette in senso stretto. Tutti questi esperimenti e teorie, togliendo “umanità” e psicologia, intendono togliere coscienza, affettazione e intenzionalità, costringendo l’attore ad essere solo “uno che agisce”, come peraltro è indicato nella sua etimologia, dal latino agere, ossia «agire». Proviamo a pensare quanto devono a questa impostazione, consciamente o meno, i movimenti appunto “marionettistici” di Totò o l’andatura caracollante di Charlot, l’immortale personaggio creato da Charlie Chaplin. Oppure, in maniera meno marcata, i movimenti di tanti spettacoli che presentano un attore dai gesti formalizzati come quelli delle avanguardie già citate degli anni Settanta e Ottanta, da Bob Wilson ai gruppi italiani come La Gaia Scienza o Falso Movimento. Ma pensiamo anche alla grande importanza, sia come indicazione metodologica che come risultati estetici, che

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nel corso del Novecento e di questo primo decennio del XXI secolo ha assunto il cosiddetto “teatro di figura”, che comprende in una categoria generale gli spettacoli fatti con le figure inanimate, siano esse i burattini tradizionali o il più nuovo teatro d’oggetti. Lì, addirittura, l’attore in carne e ossa non c’è più, sostituito da oggetti e figure che naturalmente non possono pretendere di rappresentare credibilmente l’umano e lo psicologico. Il tentativo di spezzare o alterare il rapporto attorespettatore non è naturalmente sempre così radicale. Anche quando l’attore rimane nella pienezza di essere umano, con tutte le sue caratteristiche fisiche e psicologiche, spesso subisce comunque una deformazione che lo allontana dalla rappresentazione della quotidianità. Questa deformazione dell’umano passa raramente attraverso la maschera come oggetto da indossare sul viso, davvero poco praticata nel teatro contemporaneo occidentale, e invece molto di più attraverso il trucco o il costume e soprattutto attraverso una modalità di recitazione che spinge verso il grottesco o comunque verso un innaturale sovraccarico di espressività. È soprattutto la cultura di derivazione espressionista che va in questa direzione, oppure quella che rimanda a una gestualità melodrammatica, a una declamazione artificiale, dagli accentuati toni di emozionalità. Abbiamo già citato il caso esemplare e straordinario di Carmelo Bene, coi suoi atteggiamenti molto sottolineati e “artificiali”, con le sue pose fisse e il trucco vistoso quasi da grande attore ottocentesco, accompagnate spesso da musiche da melodramma. Caratteristici sono poi il suo piegare la testa di lato, a cogliere la luce che proviene di taglio, o il rovesciare gli occhi all’indietro fin quasi a far scomparire l’iride. Ma è soprattutto la dizione a costituire la cifra principale del suo stare in scena, con una

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voce spesso “di testa”, assai poco naturale, che spezza artificialmente l’andamento della frase o del verso, spostando gli appoggi a creare una musicalità per certi versi indipendente dal senso delle parole. La teoria che maggiormente ha segnato questa ricerca di non-naturalità della recitazione da parte dell’attore novecentesco è tuttavia quella enunciata da Bertolt Brecht, che parte dal presupposto dello spettacolo come una creazione artificiale che non deve nascondere l’artificio, perché proprio lì sta il senso dell’operazione. Anche l’attore, oltre agli altri elementi della scena, come abbiamo visto nel capitolo precedente, deve dunque prestarsi a disvelare questo artificio. La tecnica che Brecht propone è quella dello «straniamento», attraverso cui il drammaturgo e teorico tedesco intende marcare proprio la distanza tra l’attore e il suo personaggio. La finalità è quella di attivare e mantenere nello spettatore un atteggiamento critico che gli impedisca di abbandonarsi a una fruizione solo emotiva dello spettacolo. Atteggiamento reso necessario dal ruolo sociale che Brecht assegna al teatro, che non è quello di divertire, di emozionare o di consolare, ma quello di costringere a ragionare, a prendere coscienza dei meccanismi sociali, soprattutto delle forze e degli interessi che li muovono. Come scrive Brecht nel 1931, in quelle note alla propria opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny cui dà il titolo Il teatro moderno è il teatro epico, lo spettatore deve essere «messo in grado, non già di provare emozioni, ma di dover per così dire dare il proprio voto, non già di identificarsi, ma di prendere posizione». In questo tipo di teatro, l’attore, invece di calarsi completamente nel personaggio, «prende posizione», lo giudica e lo «cita», elaborando nella distanza prodotta da questo atteggiamento una particolare strategia di

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recitazione. Il tono è dunque didascalico, esemplificativo, “freddo” in certo senso, con quella distanza emotiva che si produce quando si raccontano vicende accadute non a sé ma a qualcun altro, e sempre attento a mostrare che non di realtà si tratta ma di un attore che recita. Perché quella dell’immedesimazione psicologica è una catena: più saldo sarà il processo di immedesimazione dell’attore nel personaggio e più immediato e duraturo sarà il coinvolgimento emozionale dello spettatore nell’azione che gli viene presentata. Per impedire questa catena è dunque necessario spezzare l’anello iniziale, da cui muove l’intero processo, appunto quello tra attore e personaggio. Anche il teatro antico e quello medievale, e oggi ancora quello orientale, dice Brecht, utilizzavano e utilizzano tecniche di straniamento attraverso le maschere o un particolare uso del corpo o della musica, proprio per ostacolare il processo di immedesimazione psicologica dello spettatore. Ciò che cambia, nel teatro epico, è la finalità, perché ora le tecniche servono a un processo che le trascende, diventano il meccanismo attraverso cui il teatro si fa a sua volta strumento di impegno e di lotta politica e sociale. Dal punto di vista operativo, le indicazioni di Brecht portano nella recitazione novecentesca a soluzioni differenziate. Nell’impossibilità di verificare nel concreto le tecniche e le modalità utilizzate negli spettacoli realizzati dallo stesso Brecht, restano le testimonianze delle regie di Giorgio Strehler per i testi brechtiani rappresentati al Piccolo Teatro di Milano, spesso approvati dallo stesso autore. In questi spettacoli, ad esempio le diverse edizioni dell’Opera da tre soldi o di L’anima buona del Sezuan, la recitazione “straniata” si manifesta sì con la dizione fredda prescritta da Brecht ma a volte si contamina con altre modalità, specie quella del grande

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attore italiano di tradizione, che è già di suo, anche se non consapevolmente, fortemente marcata da elementi stranianti. In tanti altri casi le teorie di Brecht hanno invece funzionato genericamente come indicazione di un percorso, come esplicita ricerca di una recitazione senza tratti di naturalismo. La ricerca è allora quella di una artificialità che ricordi continuamente allo spettatore che ciò cui sta assistendo è uno spettacolo, ossia un «riflessione sulla realtà», come dice Godard, e dunque qualcosa di ben diverso non solo dalla realtà ma anche dalla sua imitazione. Non si deve credere tuttavia che uno spettacolo brechtiano sia necessariamente freddo e non coinvolgente, anche dal punto di vista emotivo, per lo spettatore. Basterebbe pensare alla straordinaria messa in scena dell’Opera da tre soldi da parte di Bob Wilson nel 2007, proprio con la compagnia erede della tradizione brechtiana, il Berliner Ensemble. Il tratto che alla fine caratterizza maggiormente il teatro contemporaneo è in ogni caso la contaminazione dei linguaggi e delle tecniche, perché raramente accade che l’attore si affidi a un unico stile di recitazione. Praticamente tutti i grandi registi del teatro contemporaneo chiedono ai propri attori di non restare imprigionati dentro un’unica cifra di recitazione e di variare invece, quando è necessario nella particolarità dell’azione in cui si è impegnati, le tecniche e gli stili. Lo chiede Peter Brook, lo chiede Giorgio Strehler, lo chiede Bob Wilson. Lo chiede in sostanza lo stesso Bertolt Brecht, che negli ultimi tempi della sua attività ha spesso ammorbidito la rigidità della propria teoria. Lo chiede Ariane Mnouchkine agli attori del Théâtre du Soleil, che mescola sapientemente la cifra del grottesco e del circense coi rimandi alla tradizione popolare o coi continui riferimenti alla teatralità orientale. Lo chiede anche Luca

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Ronconi, quando altera i linguaggi della tradizione con l’imposizione ai suoi interpreti di una dizione artificiosa, programmaticamente non naturale. Perché, alla fine, «la professionalità di un attore dipende dalla quantità di tecniche che conosce e dalla capacità di combinarle» (trad. M.R. Fasanelli), come enuncia nel 1921-1922 Vsevolod Mejerchol’d, attraverso gli appunti presi durante le sue lezioni da un allievo d’eccezione, quel Sergej M. Ejzenštejn allora impegnato in ambito teatrale ma destinato a divenire in seguito il più grande regista della storia del cinema. 5. Lo spettatore È nell’ultima parte dell’Ottocento che si produce la mutazione fondamentale, quando si impongono a livello generale due condizioni che cambiano radicalmente le modalità di partecipazione dello spettatore allo spettacolo. Da un lato c’è la grande innovazione dell’oscuramento della sala, che Richard Wagner sperimenta nel teatro di cui ispira struttura e funzioni, la Festspielhaus di Bayreuth, inaugurata nel 1876. Dall’altro c’è la poetica della “quarta parete”, già nella sostanza anticipata dagli scritti di Diderot sulla nascita del dramma borghese ma teorizzata compiutamente dalla cultura naturalista, come abbiamo visto nel quarto capitolo. Poiché in gran parte delle pièces di questo periodo si prevedono ambienti interni, sulla scena vengono scenograficamente costruite tre pareti, lasciando aperta la quarta, per permettere la visione degli spettatori. Ma quella parete deve essere assente, o trasparente, solo per chi assiste, perché l’attore deve recitare invece come se quella parete ci fosse, fisicamente solida come le altre tre. Questo espediente, questa auto-illusione gli permetterà di agire

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con maggiore naturalezza, come se davvero fosse nella sua intimità, nascosto ad ogni sguardo. Entrambe le novità, una che incide sulle modalità di ricezione dello spettatore e l’altra che governa la recitazione dell’attore, ottengono un generale e pressoché immediato accoglimento. Così il buio in sala diviene la norma in ogni teatro, sia musicale che di prosa, e la recitazione con la “quarta parete” diventa una sorta di chiave universale per gli attori della generazione naturalista, quelli che cercano quanto più è possibile l’illusione della realtà sulla scena. Come è evidente, il rapporto che così si instaura tra palcoscenico e platea è di reciproca estraneità. L’attore recita fingendo che lo spettatore non esista, come fosse dentro le mura impermeabili di una stanza, e lo spettatore è ridotto a spiarlo dal grande buco della serratura costituito dalla quarta parete, in una situazione esistenziale di passività, immobile e silenzioso nel buio. È in questo contesto che nascono e si consolidano le modalità di fruizione dello spettacolo teatrale cui ancora oggi siamo abituati. Naturalmente, e lo abbiamo verificato illustrando le condizioni di svolgimento degli eventi teatrali nelle altre epoche e nelle altre civiltà, non sempre è stato così. Anzi, mai è stato così, perché mai lo spettatore è stato indotto a questa passività da voyeur. Intanto mai c’è stata una sostanziale diversità di illuminazione tra sala e scena, sia quando gli spettacoli avvenivano alla luce del giorno, come in Grecia o a Roma o coi comici dell’arte o nei teatri dell’epoca elisabettiana o nei corrales, i cortili del grande spettacolo spagnolo del Seicento, sia quando il teatro era praticato negli edifici totalmente chiusi, a partire dai teatri italiani di fine Cinquecento e inizio Seicento, nei quali il luogo degli spettatori era illuminato quanto il palcoscenico. E poi, in tutti questi casi, non

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Prima lezione sul teatro

c’è mai stata la ricerca di estraneità tra chi agisce e chi guarda, perché l’attore cercava invece il contatto diretto col pubblico, lo interpellava, lo provocava, ne induceva e ne controllava le reazioni. Per questo sono così frequenti i tentativi del teatro contemporaneo di recuperare, nei modi diversi che sommariamente abbiamo visto, un contatto diretto con lo spettatore, nell’intento di farlo uscire dalla situazione di sostanziale passività cui è stato ridotto. Per questo sono frequenti anche i tentativi, almeno al livello minimale del singolo evento, di ricreare quella dimensione comunitaria in cui sta in sostanza l’origine e la stessa ragion d’essere dell’esperienza teatrale. Per questo, alla fine, nel contesto di una società tecnologica che produce prevalentemente realtà virtuali, il teatro ancora oggi difende la sua caratteristica essenziale e ineliminabile, quella di un evento che si dà in presenza, con l’incontro sia fisico che spirituale di persone reali, di corpi, di materialità concreta, di emozioni, nella compresenza di spazio e tempo, comune a tutti, attori e spettatori. Allo spettatore il teatro contemporaneo, quale che sia la sua poetica, chiede una disponibilità attiva, senza la quale l’incontro di cui parla Grotowski è di fatto spento, e quel “qualcosa” che è l’essenza del teatro, la scintilla estetica ed emozionale, non può prodursi. In termini concreti il teatro contemporaneo chiede allo spettatore un atteggiamento “vergine” di fronte all’evento teatrale, che non si rinchiuda nell’orizzonte di aspettative di un evento figlio di una pratica teatrale ottocentesca, prodotta da un contesto storico, sociale e culturale del tutto differente dall’attuale. Gli chiede in sostanza di non fossilizzarsi in quella «idea del teatro» precostituita di cui parla Pasolini nel suo Manifesto del 1968, per aprirsi senza pregiudizi a proposte rette

VII. L’attore e lo spettatore

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da altri presupposti estetici. Questo è ciò che il teatro contemporaneo chiede allo spettatore di oggi, e di conseguenza il compito della teoria, della divulgazione e della informazione teatrale è quello di fornire gli strumenti per questa nuova e sostanziale formazione dello spettatore. Nella società contemporanea proliferano le scuole per attori, ma forse l’esigenza più urgente è quella di una scuola per gli spettatori, certo non istituzionalizzata ma generalizzata e diffusa. Si tratta di una responsabilità culturale e civile che docenti, studiosi, esperti di teatro dovrebbero sentire necessaria. La scuola, almeno in Italia, non aiuta, dato che esclude l’analisi dello spettacolo da qualsiasi programma di studio. E l’università, pur nel proliferare delle cattedre di ambito teatrale, raramente sente questa opera di formazione “primaria” come un suo compito istituzionale. A me sembra invece auspicabile una specifica “ecologia del teatro”, che trasformi in investimento culturale lo spreco estetico di tanti spettacoli che restano senza un sostanziale riscontro da parte dello spettatore. Perché lo spettatore è spesso rinchiuso dentro un orizzonte di attese estetiche e comunicative che sono radicalmente diverse dalle proposte della scena contemporanea. Se si vuole invece che lo spettatore teatrale sia davvero il protagonista di quella “resistenza” consapevole all’appiattimento degradante della società tecnologica di cui si diceva, occorre fornirgliene gli strumenti. Questo volume si propone come una sorta di libro di testo per una necessaria scuola dello spettatore, con l’auspicio che altri si aggiungano al più presto. Altrimenti il teatro non sarà che un genere tra gli altri, di fatto il meno importante, nel mercato della società dello spettacolo.

Nota bibliografica

Le indicazioni sono puramente orientative, utili per un primo approfondimento sui diversi temi. Per questo sono inseriti solo titoli reperibili in italiano. Anche se l’impianto del volume non è storico, per facilitare la consultazione della bibliografia si seguirà una scansione prevalentemente temporale. Imprescindibili restano le voci della grande Enciclopedia dello spettacolo, 11 voll., Le Maschere, Roma 1954-1968. Da consultare anche i saggi della più completa e aggiornata storia generale del teatro, dal Rinascimento al Novecento, Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di Roberto Alonge e Guido Davico Bonino, 4 voll., Einaudi, Torino 2000-2003. Un utile strumento elencato per voci è ancora la Enciclopedia del teatro del ’900, a cura di Antonio Attisani, Feltrinelli, Milano 1980. Esistono poi varie storie delle diverse componenti del teatro. Sulla drammaturgia possono servire i due volumi gemelli di Roberto Tessari, La drammaturgia da Eschilo a Goldoni, Laterza, Roma-Bari 1993, e Luigi Allegri, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza, Roma-Bari 1993. Sull’attore, Luigi Allegri, L’arte e il mestiere. L’attore teatrale dall’antichità ad oggi, Carocci, Roma 2005 e Cesare Molinari, L’attore e la recitazione, Laterza, Roma-Bari 1993. Sullo spazio teatrale e la scenografia, Franco Perrelli, Storia della scenografia: dall’antichità al Novecento, Carocci, Roma 2002. Sul costume, Paola Bignami, Storia del costume teatrale. Oggetti per esibirsi nello spettacolo e in società, Carocci, Roma

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Nota bibliografica

2005. Un utile compendio dei rapporti tra il teatro occidentale e quello orientale è Nicola Savarese, Teatro e spettacolo tra Oriente e Occidente, Laterza, Roma-Bari 1992. Una utile introduzione alla storia delle teorie teatrali è Marvin Carlson, Teorie del teatro. Panorama storico e critico, Il Mulino, Bologna 1988. La nozione della società contemporanea come “società dello spettacolo” è teorizzata in Guy Debord, La società dello spettacolo, Agalev, Bologna 1990. Per il teatro antico, indicazioni interessanti vengono dagli studi che tentano di ricostruire le modalità della messa in scena: Umberto Albini, Nel nome di Dioniso. Vita teatrale nell’Atene classica, Garzanti, Milano 1991, Vincenzo Di Benedetto - Enrico Medda, La tragedia sulla scena, Einaudi, Torino 1997, Massimo Di Marco, La tragedia greca. Forma, gioco scenico, tecniche, Carocci, Roma 2000. La fonte più importante per conoscere modi e significati della tragedia greca è naturalmente la Poetica di Aristotele (qui è utilizzata l’edizione a cura di Diego Lanza, Rizzoli, Milano 1987, con un’ampia e approfondita introduzione). Uno sguardo generale sullo spettacolo medievale è quello di Luigi Allegri, Teatro e spettacolo nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1988, che dà conto anche delle fonti documentarie, peraltro esigue. Le fonti cominciano ad essere più numerose e pertinenti a partire dal Rinascimento, quando appaiono, tra il finire del Cinquecento e il Seicento, i primi trattati teorici che si occupano anche della messa in scena: Leone de’ Sommi, Quattro dialoghi in materia di rappresentazioni sceniche, a cura di Ferruccio Marotti, Il Polifilo, Milano 1968; Angelo Ingegneri, Della poesia rappresentativa e del modo di rappresentare le favole sceniche, a cura di Maria Luisa Doglio, Panini, Modena 1989; Il Corago, o vero alcune osservazioni per mettere in scena le composizioni drammatiche, a cura di Paolo Fabbri e Angelo Pompilio, Olschki, Firenze 1983. Come veloce ricostruzione storica è utile Giovanni Attolini, Tea­ tro e spettacolo nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1988. Numerosi naturalmente gli studi sulla commedia dell’arte. Una utile introduzione è Cesare Molinari, La commedia

Nota bibliografica

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dell’arte, Mondadori, Milano 1985. Documenti importanti per la comprensione del fenomeno sono negli imponenti volumi di Ferdinando Taviani, La commedia dell’arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Bulzoni, Roma 1969, e Ferruccio Marotti - Giovanna Romei, La commedia dell’arte e la società barocca. La professione del teatro, Bulzoni, Roma 1991. Documenti e una particolare ricostruzione storica stanno anche in Ferdinando Taviani - Mirella Schino, Il segreto della commedia dell’arte, La Casa Usher, Firenze 1982. Il fenomeno generale della commedia dell’arte è poi succintamente ma lucidamente esaminato da Roberto Tessari, Commedia dell’Arte: la Maschera e l’Ombra, Mursia, Milano 1981, e sottilmente indagato anche nella sua dimensione europea in Siro Ferrone, Attori mercanti corsari, Einaudi, Torino 1993. Siro Ferrone è autore anche di una sorta di “biografia” di Arlecchino, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, Laterza, Roma-Bari 2006. Sul teatro elisabettiano, e poi sul teatro del Seicento e del Settecento in Francia, Spagna, Inghilterra e Germania la bibliografia è prevalentemente nelle rispettive lingue. In italiano si può utilmente partire dai due volumi di compendio di Silvia Carandini, Teatro e spettacolo nel Seicento, Laterza, Roma-Bari 1990, e di Roberto Tessari, Teatro e spettacolo nel Settecento, Laterza, Roma-Bari 1995 e dagli ampi contributi contenuti nel primo e nel secondo volume della già citata Storia del teatro moderno e contemporaneo. Sul teatro dell’Ottocento valgono da introduzione Claudio Meldolesi e Ferdinando Taviani, Teatro e spettacolo nel primo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1991, e Roberto Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1988. Fonte molto interessante per la teorizzazione del dramma romantico e la nostalgia del teatro greco è August W. Schlegel, Corso di letteratura drammatica, il melangolo, Genova 1977. Un approccio storico ai primi esempi di regia nel teatro del secondo Ottocento, anche al di fuori dalle linee tradizionali della storiografia, è quello di Franco Perrelli, La seconda creazione. Fondamenti della regia teatrale, UTET, Torino 2005.

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Nota bibliografica

Sul teatro del Novecento la bibliografia è praticamente sterminata. Per un inquadramento generale si possono consultare i saggi del terzo volume della citata Storia del teatro moderno e contemporaneo e poi Franca Angelini, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Laterza, Roma-Bari 1988, e Paolo Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza, Roma-Bari 1990. Un accostamento, anche teorico, alle avanguardie dei primi decenni del secolo è Roberto Tessari, Teatro e avanguardie storiche. Traiettorie dell’eresia, Laterza, Roma-Bari 2005. Due utili antologie di scritti teorici del periodo cruciale a cavallo tra Ottocento e Novecento nelle culture teatrali francese e tedesca sono Silvia Carandini, La melagrana spaccata. L’arte del teatro in Francia dal naturalismo alle avanguardie storiche, Levi, Roma 1988, e Mara Fazio, Lo specchio, il gioco e l’estasi. L’arte del teatro in Germania dal realismo storico all’espressionismo, Levi, Roma 1988. Per quanto riguarda gli scritti dei teorici novecenteschi, citeremo qui i più rilevanti. A partire da quelli dei due grandi “padri” della teoria teatrale e della regia novecentesca, Adolphe Appia, Attore musica e scena, a cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano 1975 e Edward Gordon Craig, Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano 1971. E poi Konstantin S. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Laterza, Bari 1956, poi riproposto dallo stesso editore col titolo Il lavoro dell’attore su se stesso, e Il lavoro dell’attore sul personaggio, Roma-Bari, Laterza, 1988, oltre all’autobiografia La mia vita nell’arte, Einaudi, Torino 1963. Vsevolod E. Mejerchol’d (qui Meyerhold), La rivoluzione teatrale, Editori Riuniti, Roma 1975, e poi L’Ottobre teatrale. 1918-1939, Feltrinelli, Milano 1977, L’attore biomeccanico, Ubulibri, Milano 1993, 1918: Lezioni di teatro, Ubulibri, Milano 2004. L’approccio di Lee Strasberg alla teoria di Stanislavskij e alla sua trasformazione è nel volume discorsivo e poco sistematico Il sogno di una passione. Lo sviluppo del metodo, Ubulibri, Milano 1990. I principali scritti degli altri teorici: Bertolt Brecht, Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1971; Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968; Jacques Copeau, Il luogo

Nota bibliografica

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del teatro. Antologia degli scritti, a cura di Maria Ines Aliverti, La Casa Usher, Firenze 1988; Julian Beck e Judith Malina, Il lavoro del Living Theatre (materiali 1952-1969), a cura di Franco Quadri, Ubulibri, Milano 2000; Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970, Il Performer, Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale, Pontedera s.d.; Eugenio Barba, Alla ricerca del teatro perduto. Una proposta dell’avanguardia polacca, Marsilio, Venezia 1965 (su Grotowski), La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Il Mulino, Bologna 1993, e Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, Ubulibri, Milano 1996; Dario Fo, Manuale minimo dell’attore, Einaudi, Torino 1987, e Dialogo provocatorio sul comico, il tragico, la follia e la ragione, con Luigi Allegri, Laterza, RomaBari 1990; Peter Brook, Il teatro e il suo spazio, Feltrinelli, Milano 1968, e La porta aperta, Einaudi, Torino 2005; Tadeusz Kantor, Il teatro della morte, Ubulibri, Milano 2000. Scritti di e su Bob Wilson sono in Robert Wilson o il teatro del tempo, Ubulibri, Milano 1999. Interviste ai protagonisti del teatro internazionale degli anni Settanta sono nei due volumi a cura di Franco Quadri, Tradizione e ricerca. Stein, Chéreau, Ronconi, Mnouchkine, Grüber, Bene, Einaudi, Torino 1982, e L’invenzione di un teatro diverso. Kantor, Barba, Foreman, Wilson, Monk, Terayama, Einaudi, Torino 1984. Materiali sulla neo-avanguardia italiana si trovano nei due volumi a cura di Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia, Einaudi, Torino 1977, e in Giuseppe Bartolucci - Lorenzo e Achille Mango, Per un teatro analitico esistenziale. Materiali del teatro di ricerca, Studio Forma, Torino 1980; riflessioni di Giorgio Barberio Corsetti come esemplificazione della neo-avanguardia italiana sono in L’attore mentale, a cura di Renata Molinari, Ubulibri, Milano 1992. La teorizzazione della nozione di “scrittura scenica” è in Giuseppe Bartolucci, La scrittura scenica, Lerici, Roma 1968, e poi in Lorenzo Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, Roma 2003. Riflessioni parallele sono in Maurizio Grande, La riscossa di

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Nota bibliografica

Lucifero. Ideologie e prassi del teatro di sperimentazione in Italia (1976-1984), Bulzoni, Roma 1985. Per un primo approccio sui registi teorici, anche con analisi di spettacoli esemplari, Mara Fazio, Regie teatrali. Dalle origini a Brecht, Laterza, Roma-Bari 2006, e Roberto Alonge, Il teatro dei registi, Laterza, Roma-Bari 2006. Monografie accurate su tre protagonisti della scena europea del Novecento sono Giovanni Attolini, Gordon Craig, Laterza, Roma-Bari 1996, Cesare Molinari, Bertolt Brecht, Laterza, Roma-Bari 1996, e Maria Ines Aliverti, Jacques Copeau, Laterza, RomaBari 1997. Su Stanislavskij il primo accostamento può essere l’agile volumetto Fausto Malcovati, Stanislavskij. Vita, opere e metodo, Laterza, Roma-Bari 1988. Più specifico sull’evoluzione della teoria dal Sistema al Metodo è Mel Gordon, Il sistema di Stanislavskij. Dagli esperimenti del Teatro d’Arte alle tecniche dell’Actors Studio, Marsilio, Venezia 1987. Sull’insieme del movimento teatrale russo nella grande stagione dei primi decenni del secolo sono ancora fondamentali i volumi di Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, Einaudi, Torino 1959, e soprattutto Il trucco e l’anima. I maestri della regia nel teatro russo del Novecento, Einaudi, Torino 1965. Una analisi di alcune delle maggiori esperienze della ricerca internazionale degli anni tra Sessanta e Ottanta è quella di Franco Perrelli, I maestri della ricerca teatrale. Il Living, Grotowski, Barba e Brook, Laterza, Roma-Bari 2007. Su queste esperienze si possono vedere anche Michael Kirby, Happening, De Donato, Bari 1968, Pierre Biner, Il Living Theatre, De Donato, Bari 1968, Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina, Elèuthera, Milano 1995, Thomas Richards, Al lavoro con Grotowski sulle azioni fisiche, Ubulibri, Milano 1993, Antonio Attisani, Un teatro apocrifo. Il potenziale dell’arte teatrale nel Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, Medusa, Milano 2006, Franco Perrelli, Gli spettacoli di Odino. La storia di Eugenio Barba e dell’Odin Teatret, Edizioni di Pagina, Bari 2005, Eugenio Barba - Nicola Savarese et al., L’arte segreta dell’attore. Dizionario di

Nota bibliografica

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antropologia teatrale, Ubulibri, Milano 2005, George Banu, Peter Brook. Da “Timone d’Atene” a “La tempesta”, La Casa Usher, Firenze 1994. Sul teatro di narrazione italiano, con inquadramento e testimonianze dei protagonisti, La bottega dei narratori, a cura di Gerardo Guccini, Audino, Roma 2005.

Indici

Indice dei nomi

Alfieri, Vittorio, 15. Antoine, André, 18, 52, 125, 129, 151. Appia, Adolphe, 7, 100. Ariosto, Ludovico, 15, 98, 112. Aristotele, 13-14, 39-40, 44-45, 47, 55, 63. Aron, Robert, 156. Artaud, Antonin, viii, 49-50, 78, 96, 125-26, 148, 156. Baliani, Marco, 135, 159. Barba, Eugenio, 96, 99, 148, 150, 152-56. Barbierio Corsetti, Giorgio, 139. Barthes, Roland, 53. Bartolucci, Giuseppe, 127. Bausch, Pina, 5, 128, 148. Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de, 116. Beckett, Samuel, 15, 78, 104-6, 108, 120, 135. Bene, Carmelo, 6-7, 128, 141, 166. Bergonzoni, Alessandro, 160. Bibbiena, Bernardo Dovizi da, 112. Bobò, 150. Brecht, Bertolt, 15-16, 47, 49, 77, 104, 125-26, 128, 135, 141-42, 167-69.

Brook, Peter, 6, 109-10, 131, 136, 146, 169. Calandra, Ippolito, 112. Calderón de la Barca, Pedro, 7, 15, 74-75, 115-16. Cˇechov, Anton Pavlovicˇ, 103, 118, 128-29, 136. Celestini, Ascanio, 159. Cervantes, Miguel de, 15, 74. Cézanne, Paul, 99. Chaplin, Charlie, detto Charlot, 165. Cieslak, Ryszard, 153. Cocteau, Jean Maurice Eugène Clément, 142. Copeau, Jacques, 88-89, 135-36. Corneille, Pierre, 15, 73. Craig, Edward Gordon, 42, 4647, 100, 165. Curino, Laura, 159. Da Lodi, Marco, 86, 88. D’Amico, Silvio, 12-13. D’Annunzio, Gabriele, 118. Dante, Emma, 104, 121. De Berardinis, Leo, 128. Debord, Guy, viii, 79. De Filippo, Eduardo, 15-16, 114. Delbono, Pippo, 149-50.

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Indice dei nomi Ingegneri, Angelo (o Angiolo), 66. Ionesco, Eugène, 104.

Della Croce, Giovanni (Juan de la Cruz), 153, 158. De Lullo, Giorgio, 7. Depero, Fortunato, 165. Diderot, Denis, 69-70, 116, 122, 170. Djagilev, Sergej Pavlovicˇ, 100. Dostoevskij, Fëdor Michajlovicˇ, 101, 109. Dumas, Alexandre (padre), 94.

Jarry, Alfred, 163-64. Jullien, Jean, 71.

Ejzenštejn, Sergej Michajlovicˇ, 170. Erasmo da Rotterdam, 72-73. Eschilo, 98, 109, 134. Euripide, 112.

Lessing, Gotthold Ephraim, 69. Lope de Vega, Félix y Carpio, 15, 115. Lukács, György, 108.

Federico II Gonzaga, 112. Fo, Dario, 5, 15-16, 101, 109, 114, 135, 160-61. Foreman, Richard, 128. Fosse, Jon Olav, 104, 108. Freud, Sigmund, 24. García Lorca, Federico, 15. Gielgud, John Arthur, 146. Giovanni di Salisbury, 72. Glass, Philip, 138, 142. Godard, Jean-Luc, 48-49, 169. Goethe, Johann Wolfgang, 15, 109. Goldoni, Carlo, 7, 15, 69, 76-77, 115-16. Grazzini, Anton Francesco, detto il Lasca, 68. Groddeck, Georg, 24. Gropius, Walter Adolph, 94-95. Grotowski, Jerzy, 32-33, 51, 97, 128, 144, 148, 152-54, 156, 172. Hoffman, Dustin, 147, 158. Hugo, Victor, 94, 117. Ibsen, Henrik, 15, 24, 118. Icres, Fernand, 130.

Kantor, Tadeusz, 100, 107, 137. Kleist, Heinrich von, 60-62. Koltès, Bernard-Marie, 104, 121. Kraus, Karl, 6, 98.

Machiavelli, Niccolò, 15, 112. Manet, Édouard, 99. Manzoni, Alessandro, 15-16. Marin, Maguy, 128. Marivaux, Pierre Carlet de Chamblain de, 116. Marlowe, Christopher, 15. Massine, Léonide, 142. Mejerchol’d, Vsevolod Emil’evicˇ, 129, 138, 161-62, 170. Miku, Hatsune, ix-x. Mnouchkine, Ariane, 137, 169. Molière, pseud. di Jean-Baptiste Poquelin, 7, 15-16, 114-16. Monk, Meredith Jane, 127. Moscato, Enzo, 121. Müller, Heiner, 104, 121. Niccoll, Andrew, ix. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 78. Olivier, Laurence, 6, 146-47. Omero, 35. Orsini, Umberto, 150. Pacino, Alfredo, detto Al, ix. Paolini, Marco, 135, 159. Parenti, Franco, 160.

Indice dei nomi Pasolini, Pier Paolo, 9, 120-22, 135, 172. Perlini, Amelio, detto Memè, 128. Peruzzi, Baldassarre, 87. Picasso, Pablo, 142. Pinter, Harold, 104. Pirandello, Luigi, 7, 15, 20-21, 23-25, 119, 140. Planchon, Roger, 126. Plauto, 15, 87. Poli, Paolo, 160. Prampolini, Enrico, 165. Punzo, Armando, 149, 151. Racine, Jean-Baptiste, 15. Ricci, Mario, 128. Rivière, Jacques, 136. Romano, Giulio, 112. Ronconi, Luca, 6, 98, 109, 13637, 169-70. Rossini, Gioachino, 139. Ruzante, pseud. di Angelo Beolco, 112. Sanguineti, Edoardo, 97. Satie, Alfred Eric Leslie, 142. Scaldati, Franco, 121. Schiller, Friedrich, 15. Schlegel, August Wilhem von, 122, 157. Schlemmer, Oskar, 165. Schlesinger, John Richard, 147. Seneca, 15. Serlio, Sebastiano, 139. Shakespeare, William, 6-7, 15-16, 25, 49, 67, 72, 106-7, 114, 116, 133, 136, 140, 143, 149. Sieni, Virgilio, 148. Sofocle, 112. Sommi, Leone de’, vedi Yehuda Sommi di Portaleone.

187 Stanislavskij, Konstantin Ser­gee­ vicˇ, pseud. di Konstantin Ser­ geevicˇ Alekseev, 24, 103, 12930, 146, 154, 161. Stein, Peter, 98, 109, 134. Strasberg, Lee Israel, 147, 158. Strehler, Giorgio, 6, 140, 168-69. Talma, François-Joseph, 133. Terenzio, 15. Tespi, 37. Testori, Giovanni, 121, 160. Tirso de Molina, pseud. di Gabriele Téllez, 115. Tiziano, vedi Vecellio. Totò, pseud. di Antonio de Curtis, 165. Valgimigli, Manara, 45. Vasilicò, Giuliano, 128. Vasiliev, Anatolij, 7. Vecellio, Tiziano, 117. Vestris, Lucia Elizabeth (Madame), 133. Visconti, Luchino, 17-18, 101, 137. Vitrac, Roger, 156. Voltaire, pseud. di François-Marie Arouet, 133. Wagner, Richard Wilhelm, 170. Warhol, Andy, 141. Weiss, Peter, 121. Wilde, Oscar, 15. Wilder, Thornton Niven, 107. Wilson, Robert, detto Bob, 100, 128, 138, 142, 165, 169. Yeats, William Butler, 163. Yehuda Sommi di Portaleone, 66.

Indice del volume

Premessa I.

La prima lezione di teatro

II. Il teatro che abbiamo in testa

vii

3 9

1. Il teatro come istituzione, p. 10 - 2. Il teatro come testo. Dal testo alla scena, p. 12 - 3. Il teatro come luogo della rappresentazione della realtà, p. 22 - 4. Il teatro come luogo della finzione, p. 25

III. Teatro e spettacolo: ipotesi di definizione

32

1. Il teatro come evento. Dall’evento alla scrittura, p. 33 - 2. Evento e rappresentazione, p. 42 - 3. Teatro e spettacolo, p. 50

IV. Il teatro e il mondo

55

1. Azione quotidiana, azione teatrale, azione spettacolare, p. 57 - 2. Il teatro e la realtà, p. 63 3. Il mondo come teatro e come spettacolo, p. 72

V. Lo spazio e il tempo 1. Lo spazio per il teatro, p. 82 - 2. Spazio teatrale e spazio scenico, p. 89 - 3. Lo spazio della scena, p. 96 - 4. Lo spazio iscritto nei testi, p. 102 - 5. Il tempo del teatro, p. 106

82

­190

Indice del volume

VI. Lo spettacolo

111

1. Drammaturgia e scrittura scenica, p. 111 - 2. La scrittura scenica, p. 124 - 3. I linguaggi della scena, p. 128

VII. L’attore e lo spettatore

144

1. Grammatiche d’attore e “autenticità”, p. 144 - 2. L’utopia comunitaria, p. 152 - 3. La ricerca di altre grammatiche. I procedimenti per sottrazione, p. 157 - 4. La ricerca di altre grammatiche. I procedimenti per accumulazione, p. 161 - 5. Lo spettatore, p. 170



Nota bibliografica

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Indice dei nomi

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