Presenza e immortalità 9788858761861

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Presenza e immortalità
 9788858761861

Table of contents :
Cover......Page 1
Collana......Page 2
Frontespizio......Page 3
Copyright......Page 4
Prefazione di Glauco Tiengo......Page 5
NOTE ALLA PREFAZIONE......Page 18
INTRODUZIONE di Andrea Serra e Maria Pastrello......Page 28
NOTA EDITORIALE......Page 54
PRESENZA E IMMORTALITÀ......Page 56
Prefazione(1959)......Page 59
IL MIO INTENTO FONDAMENTALE (1937)......Page 63
GIORNALE METAFISICO (1938-1943)......Page 97
PRESENZA E IMMORTALITÀ (1951)......Page 465
APPARATI......Page 496
NOTE INTEGRATIVE AL TESTO......Page 497
BIBLIOGRAFIA......Page 504

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Testo francese a fronte

A cura di Maria Pastrello e Andrea Serra 

Gabriel Marcel Presenza e immortalità  [Prefazione di Glauco Tiengo]

BOMPIANI TESTI A FRONTE

BOMPIANI TESTI A FRONTE direttore

GIOVANNI REALE

segretari: Pier Davide Accendere Alberto Bellanti Vincenzo Cicero Diego Fusaro Giuseppe Girgenti Roberto Radice Glauco Tiengo

GABRIEL MARCEL PRESENZA E IMMORTALITÀ Testo francese a fronte

A cura di Maria Pastrello e Andrea Serra Traduzione e note di Maria Pastrello

Prefazione di Glauco Tiengo

BOMPIANI TESTI A FRONTE

ISBN 978-88-58-76186-1 © 2011 Bompiani/RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli 8 - 20132 Milano I edizione digitale 2013 da I edizione Testi a fronte agosto 2011

MARCEL PENSATORE DELL’ESISTENTIVITÀ. Note sull’esistenzialismo tra Russia e Francia1 (I) Prefazione di Glauco Tiengo

“La verità che precede la libertà è la verità metafisica e la verità che segue alla libertà è la verità esistenziale” Cornelio Fabro

Follia e follia della filosofia2. Assenza della totalità categorica3, esposizione del frammento residuale4, luce bionda (come è quella del sole) che illumina l’ombra dell’abisso più odioso – quella della dimenticanza di Dio, nel nostro Nome in Lui pronunciato –, presenza che si fa sottrazione dell’ovvio, di ciò che ci si attende quando l’Essere si dis-vela veritativamente; pensiero rivolto all’Altro, al suo ‘esserci-per-l’essere’5 prima ancora che al suo volto o al suo ritratto frontale nella resurrezione6. Sono queste le sensazioni nette che ci provengono dalla scrittura di Marcel e soprattutto dal Marcel del Giornale metafisico7 e di Presenza e immortalità. Sussurri che prendono forma polifonicamente, suggestioni dettate da quella memoria coscienziale (là dove il problema della coscienza rimanga anche per Marcel una delle fonti primarie di ogni verità) che unisce sia la fenomenologia sia la metafisica della speranza al teologale dialogo dell’amore; del personalistico tema dell’alteramente Te8. In poche, brevi tracce: esistentività vissuta come spazio delle ‘relazioni vitali’ (Florenskij), pensabilità polifonica, alterità che si fa presenza e speranza dell’Altro o ancora ‘amore prossimale’9, ben al di là dell’Ereignis (heideggeriano) nell’idea dell’abbandono dell’essere in favore del dono (Gabe) là dove – per come abbiamo detto anche altrove – il primo renda possibile il secondo unitamente al tempo10. Voci che silenziosamente dicono di un Marcel impossibile a definirsi ultimativamente e il cui pensiero abbraccia nel contempo l’indomabile sapere dell’uomo e la sua vocazione al tragico; all’assurdo, all’esistenza misterica che chiama in causa la trascendenza ma in un modo del tutto nuovo, innominabile ed inimmaginabile.

Nello stesso tempo non possiamo fare a meno di accorgerci che con Marcel ci troviamo nuovamente11 di fronte ad un filosofo autenticamente legato all’esistentitivà della vita: Berdjaev – parafrasando qui il suo dire su un altro ‘anomalo’ esistenzialista, ossia Lev Isaàkovič Švarcman (Schwartzmann), meglio noto come Lev Šestov – direbbe “esistenzialista fino al midollo, filosofo con tutto il suo essere” in quanto «per lui la filosofia non fu una specializzazione accademica, ma piuttosto una questione di vita o di morte [poiché] dedicò al tema fondamentale della sua vita ogni cosa che pensò, che disse e che scrisse»12; guardando al mondo esclusivamente entro il contesto del proprio oggetto d’interesse, considerandolo e trasformandolo in relazione a quello stesso oggetto13. Ebbene, le stesse parole si potrebbero – in questo caso come in altri, beninteso – usare per questo pensatore che mantiene costante l’interesse per il problema ontologico come fondamento stesso della descrizione esistenziale e che ne fa il suo motivo primo di relazionabilità col mondo medesimo. Ancor prima di questo dire però, non scordiamoci che Marcel – per usare le parole di Tiliette – è un Privatdenker, un autentico pensatore privato14 e la sua, come egli stesso ebbe a dire, è una filosofia concreta; una autentica filosofia dell’esistere (più che dell’esistenza, certo), diremmo noi. Per questo affermiamo subito che la nostra intenzione – al di là di quello che sapientemente è messo in luce nella densa introduzione di Serra e Pastrello – non è certo quella di presentar qui il pensiero marcelliano in tutta la sua complessità teoretica, articolatezza ermeneutica e non-ricondicibilità ad un pensiero sistematico, quanto piuttosto soffermarci stavolta (benché sommariamente) su un aspetto definitorio di questo ‘pensare’, ossia: come si possa intendere, in Marcel, la filosofia dell’esistere.

Certamente quella del Nostro è una filosofia perennemente in dialogo con l’Essere, ma di quell’Essere inteso essenzialmente (in senso necessitantemente ontologico) come Mistero: come quello che cioè non è del mondo – o fuori dal mondo – ma necessario per esprimere anche il mondo come tale15. L’essere-dell’Essere dunque in quanto mistero che ‘in divenire’ si riconosce come ‘l’esistente dell’esistenza’ (“polo intrascendibile del nostro essere”, o “ricerca dell’essere”, per come direbbe lo stesso Jaspers) ossia: ciò che mi impedisce – nel mio totalizzante coinvolgimento ontologico – di mantenere una chiara distinzione tra soggetto ed oggetto, nella sola riconoscibilità dicotomica cartesiana. Parafrasando le parole di Chiodi su Jaspers (ed adattandole alla riconoscibilità del percorso del Nostro qui tracciabile), potremmo dire che anche per Marcel «il problema dell’esistenza acquista un particolare ruolo nel quadro del problema dell’essere perché muta il modo di intendere il rapporto fra i due problemi; [nel senso che] il problema dell’esistenza non è più inteso come un problema interno al problema dell’essere, ma come la condizione preliminare per la posizione stessa del [al] problema dell’essere. Il rifiuto di qualifica di “filosofia dell’esistenza”16 [anche nel caso di Marcel,] è determinato dal timore che la Existenzphilosophie17 sia intesa come una filosofia che ha per oggetto l’esistenza anziché l’essere, il che sarebbe doppiamente falsante: perché l’esistenza non è l’“oggetto” della filosofia dell’esistenza e perché l’essere è tutt’altro che estraneo ad essa.»18 Più ancora, per Marcel – e in modo ancora diverso da Heidegger e Jaspers, ci sembra – il vero problema è l’esistere, ossia l’esistenza come rapportabilità possibile (di quel ‘possibile’ che “rimane al di qua dell’esistenza”19) fra l’uomo e l’essere, ossia la ricerca dell’essere secondo il mistero. E non come ‘semplice’ possibilità, non come (l’esistenza) «auto-progettazione da parte dell’uomo di un rapporto

possibile con l’essere»20, bensì proprio come percorribilità di trascendere il Dasein: ciò che Jaspers chiamava “l’essere autentico dell’uomo” anche se in realtà, in Marcel, questa autenticità dell’essere si dà come superamento nell’apertura dinamica all’alterità dell’Io nel Tu dell’altro. La dimensione nuova tracciata da Marcel insomma sta proprio nel proiettare l’uomo in un’auto-progettualità (che è necessitantemente discorsività ontologica con l’essere da parte dell’esistente) che grazie al mistero sia ri-definizione stessa del rapporto tra l’uomo e l’Essere non come ‘semplice possibilità’ quanto piuttosto come certezza dell’evento che si crea nel darsi (dell’uomo) come dono senza con-sequenzialità e senza pre-determinazione! Il mistero infatti non è sempre proiettante al-di-fuori-disé e dunque ‘dono’ nel senso dell’evento determinato dalla sua datità inaspettata? Per questo – ancora a proposito della filosofia dell’esistere – diciamo che il ‘dialogo esistenziale’ per eccellenza cui ci chiama Marcel è un ‘dire’ che finisce forzatamente per essere uno scontro (che segue sempre il contenzioso della riflessione, che è la derivazione più prossima all’ombra della ricerca dunque, in primis, alla perdita della conoscibilità della ‘cosa’ come di qualsiasi Esser-ci di questa) tra le parti; quasi tra ‘comprendere’ ed ‘affidarsi’, al limite tra ‘vedere’ e saper ‘guardare’: tra vita e falsità dell’esistenza viva. Un dialogo esistenziale che si (dis-)pone come ontologico insomma, in quanto è essenziale all’affermazione del mistero in quanto evento, del mistero in quanto dono; appunto. Un’antinomia veritativa strutturale per la risoluzione degli interrogativi esistenziali dell’uomo. Interrogazioni che angosciano nel profondo l’Io del suo in sé ontologicamente unito (in virtù della memoricità spirituale) al tempo dell’eventità di Dio e che si ripropongono sempre alla presenzialità (continua)

della sua coscienza, sopra ogni cosa quand’egli è posto di fronte alle scelte fondanti il proprio kardia (Origene). A questo ci porta – ci sembra – la questione dell’esistentività21 messa in campo da Marcel, per dire che il rapporto ‘filosofia-esistenza’ è da lui sentito come un rapporto di relazionabilità che deve tornare a porre in essere i fondativi problemi dell’essere o meglio ancora: dell’esser-ci-per-l’essere (quello del quale accennavamo all’inizio, nel nostro breve prologo: rivolto al pensiero dell’Altro “prima ancora che al suo volto o al suo ritratto frontale nella resurrezione”) cioè del divenire avente per oggetto un diveniente che è, per forza di cose, un dinamico divenimento in atto: quello dell’uomo che riguarda il suo-in-sé più prossimo-a-sé (l’Io che si fa Tu nel Me dell’Altro22). E dove altro – in che luogo-altrove del dialogo e dell’incontro – la questione dell’esistentività si risolve se non nel mistero che si incontra con il ‘Tu dell’Altro’? ‘Altro’ e ‘Tu’ che devono sempre rivelarsi reciprocamente in un ‘mistero’, altrimenti tornerebbe a porsi il problema dell’alternanza oggetto-soggetto. Altrimenti tornerebbe a porsi la questione del problema come consequenzialità di oggettivazioni cui siamo per forza soggetti insieme alla predeterminazione che li destina. Insomma: parafrasando un altro studioso (Monseu, riferendosi al già citato Šestov), potremmo dire che la filosofia esistenziale di Marcel «pone, in ragione del principio originale che la caratterizza, un’interrogazione che essenzialmente verte su una delle possibilità che forse ci è più peculiare come esseri umani: la capacità di poter far ritorno sulla [di più: alla] nostra [più autentica] esistenza. Se questo modo di procedere, attraverso il quale l’esistenza può dispiegarsi nello sforzo di comprendersi, è di tipo riflessivo, ne consegue che tutta la filosofia di [Marcel] si presenta come una messa in questione radicale della pertinenza e della validità dell’atto di riflessione speculativa, per interrogarsi finalmente sullo

statuto enigmatico di un esistente che, nel momento stesso in cui vive, può per principio e secondo una potenzialità inaudita comprendere che vive.»23 Questa – così ci appare – è la vera rivelazione della filosofia dell’esistere del Nostro! Una scoperta da comprendersi, di più: da compiersi concretamente nella sostanziale solitudine delle scelte essenziali: nel dramma dei motivi radicali che interiormente le ispirano. Una filosofia dell’esistere dunque che anche con Marcel si impone con un inizio di scelta, di aut-aut kierkegaardiano: pensiero al quale deve «esser conferito, per un transitorio smarrimento nel meramente obiettivo, l’accento del pensiero fondamentale di Kierkegaard».24 Perché solo (così ci sembra) nella solitudine della scelta kierkegaardiana scopriamo la pertinenza dell’interrogazione “sullo statuto enigmatico” dell’esistente che scopre di vivere nel momento stesso in cui autenticamente vive-libero (è conscio di): in quell’autaut che ci si pone di fronte fin dal nostro primo dubbio; in quella scelta che significa la nostra ‘visione del mondo’ e che la determina, la concretizza nell’atto conoscitivo proprio. In ciò dunque (in questa scelta di scegliere) viviamo pienamente, autenticamente e, abbandonando ogni idolatria del ‘male radicale’ inestirpabile dalla nostra coscienza, affrontiamo il cammino della verità che, irtamente, ci porterà alla vocazione della nostra ‘bellezza tragica’ (lo abbiamo già detto altrove, in altra sede), di quella bellezza (‘dramma e tragedia dell’esistenza’25) cioè che «che rende vani gli atti del “cieco destino” della follia, della sofferenza e della morte»26 e che ci fa urlare come Giobbe davanti a Dio, contro Dio e con Dio. Esistere dunque che non è solo ‘somma’ di quel mi è accaduto27, addensarsi dell’esperibilità possibile, ma è piuttosto quel ‘farsi vuoto’28 (dopo l’esistenza-in-sé della bellezza tragica destinativa e vocazionale dell’uomo) che accoglie la rivelazione della ‘presenza’; quella presenza che (come detto fin

dal nostro iniziale prologo) si fa tale solo nell’assenza e che si costituisce come apertura alla trascendenza, proprio attraverso la dimensione del mistero29. Proprio questo accoglimento (successivo al ‘farsi vuoto’ determinato in modo tanto particolare dalla questione dell’alterità posta in essere da Marcel come questione ‘radicalmente aperta e polifonica’30) pone in una luce nuova il problema sia della soggettività della verità31, sia della possibilità d’una libertà autenticamente propria, piena, ‘vivente’, totalizzante e dunque direttamente riferibile alla Verità32. Libertà ‘proiettata’ nei confronti della verità che richiede una ricerca attorno alle “radici ultime del pensiero”; che ammetta dunque una libertà diversa dal suo affermarsi anteriore all’essere: è questo l’autentico compito dell’unica autenticabilmente ‘vera’ (viva: che protende e fa protendere alla vita) filosofia della libertà. Una filosofia della libertà però che non sia più in opposizione ad una filosofia dell’essere33 e Marcel, nel corso del suo pensiero e particolarmente nel suo Presenza e immortalità, pone bene la differenza tra la filosofia esistenziale e la filosofia “di tipo cartesiano”, così come fa anche Šestov – un altro rappresentativo pensatore dell’esistentività qui più volte citato – fra la filosofia esistenziale e la filosofia del reale; di ‘rammemoriazione’ hegeliana. Proprio quest’ultimo infatti dice – con chiare quanto rivelative parole – che «dove la filosofia speculativa vede la fine di tutte le possibilità e con arrendevolezza ritira le mani, la filosofia esistenziale incomincia l’ultima e più grande battaglia. La filosofia esistenziale non è riflessione (Besinnung) che “interroga” la realtà e ricerca la verità nei dati immediati della coscienza, è il superamento di ciò che al nostro raziocinio appare insuperabile. “Per Dio – ripete instancabilmente Kierkegaard – non c’e niente di impossibile”, e in queste poche parole traccia un bilancio di ciò che è giunto fino a lui dalla Scrittura. Il salmista esclama: “De profundis ad te, Domine, clamavi”. Dal pro-

fondo spaventoso della caduta e della disperazione l’uomo implora il Signore. [I profeti] ci annunciano che Dio si prende cura di ogni uomo vivo, che in ultima analisi non trionferà la realtà con i suoi atti improbi e implacabili, ma Dio che “conta i capelli sulla testa dell’uomo”, Dio che è amore, che promette di asciugare ogni lacrima. Non c’e niente da dire, per la nostra ragione tutta questa lotta, ogni promessa e ogni speranza umana legata alle promesse è un’assurda illusione e una menzogna».34 Ecco come si dis-piega (con tutte le sue conseguenze) e pro-pone una ‘via stretta’ della ricerca alla verità che è tutta interiore e che pienamente si confà alla logica di quel De profundis ad te, Domine, clamavi. Una via della differenza, della detrazione, che toglie nell’affermare e che di contro afferma nell’abbandono: una “filosofia della marginalità” (o dell’esistere, appunto) una via della negazione apofatica che nega (al limite) financo la negazione che rende nulla ogni parola sull’essere o il non-essere di Dio35 e il cui risultato derivante sarà appunto un ‘risveglio edificante’ che permette la fondazione definitiva di quella filosofia della libertà (per l’uomo) già detta. Una sequela questa che coincide con la via della giobbesca lotta – anche prima citata – con Dio contro Dio e che proprio nell’attraverso del De profundis ad te, Domine, clamavi diviene – perfettamente quanto autenticamente – praticabile. Ci rendiamo ben conto dunque – così come abbiamo già detto in altra sede – che la chiamata vocazionale alla esistentività dell’uomo ‘vuole’, ‘pretende’ un movimento forte, prepotente e non consente quella rassegnazione al proprio destino che è l’inganno maggiore sulla via del riscatto della condizione umana nella sua complessità. Occorre dunque un fuga repentina dall’abisso (dopo averne come toccato il fondo). “Fuga” che però non deve (non può) essere scambiata per semplice volontà a dimenticare, a non voler vedere

o a ricordare proprio quell’abisso, ma è superamento dello stesso nell’approdo ad una condizione che preveda di scegliere senza più le costrizioni di qualsivoglia assoggettamento che sia autentico annichilimento. Ecco come si identifica adesso il De profundis ad te, Domine, clamavi: come un grido tremendo, che fa tremare le fondamenta del mondo per intensità e dramma dispiegate. Un grido di rabbia però, non di dolore o sofferenza, poiché l’uomo che letteralmente lo trasuda riafferma con esso la libertà del proprio Io (dell’in sé della propria volontà interiore sul lumen naturale, nella risposta alla sua “chiamata vocazionale”) nel giungere ormai finalmente allo “spessore” intonso, prezioso e rivelativo della propria Vita. Questo mette in luce anche Marcel, ci sembra, prepotentemente nella sua vicinanza al pensare russo. Perché ci sembra che anche per il Nostro l’accettazione di questa negazione – appunto di questo apofatismo – ci rende maggiormente vicini al mistero dell’essere36 ed è nell’abbandono (proprio nella “rinuncia all’autocompiacimento”) che raggiungiamo la via praticabile all’intendimento (penetrazione) dell’oggetto della conoscenza, dimostrando(ci) l’esistenza del mistero. Al di là del contingente e del necessario, dell’universale e del particolare, al limite anche della rivelazione. Per noi l’orrore del rifiuto e del disprezzo (già oltre la rinuncia) di se stessi porta al rinnegamento del proprio Io nell’accoglimento (dell’idea) di sé verso l’altro come dono. Il de profundis, per come dicevamo poco fa, è certamente una lotta che è movimento del tutto contrario alla rassegnazione di fronte al destino della propria condizione limitata e limitativa, ma l’approdo finale è proprio quello della proiezione del sé nei confronti dell’altrui bisogno37. Di colui che ad un certo punto non basta a se stesso per riempirsi, per giustificare la sua azione di quel “rinnegamento dell’umano” che però non va qui inteso come semplice rinuncia che non sa prospettare

alcun approdo o, peggio ancora, che è possibile scambiare per semplice qualità emergente ontologica di chi ama nella prospettiva della negazione di sé. Approdiamo così ad un altro fondamentale tema per il pensiero di Marcel (che ci ripromettiamo di trattare esaustivamente in una delle prossime prefazioni), ossia la questione dell’amore che intenderemmo presentare nella sua dimensione (e dinamica, s’intende) personalistica: altra straordinaria comunanza – corrispondenza ermeneutica – tra il pensiero esistenzialista russo e quello del filosofo francese. Per certi versi infatti Marcel si potrebbe avvicinare a Solov’ëv, quand’egli dica che «l’autentico compito dell’amore è di rendere effettivamente eterno l’amato, di liberarlo effettivamente dalla morte e dalla corruzione, di rigenerarlo definitivamente nella bellezza».38 E questa rigenerazione nella bellezza per giungere all’effettività (dell’affettività) dell’essere amato, non è forse quella stessa trasfigurazione che avviene nel ripercorrere il sentiero dell’oltre-passamento necessario per giungere a quella ‘bellezza tragica’ di cui abbiamo detto che sola, nella solitudine delle scelte che seguono il momento della lotta interiore e del giobbesco abbandono, può destinarci al rinnovamento nel mistero e nel mistero dell’Altro? Rendere eternamente amato l’amato: questa condizione si può raggiungere (in una idealità esistenzialistica) solamente dopo aver sperimentato la bellezza tragica di cui già sappiamo; dopo aver provato la solitudine pervasiva che già abbiamo individuato, dopo aver esaurito la drammaticità della nostra condizione vocazionale (l’urlo nel deserto che scuote dalle fondamenta il mondo così come la coscienza del nostro Prossimo-più-prossimo-a-me) e dopo aver compreso che la via della negazione edificante – che sottraendo afferma – è l’unico impervio ‘Holzwege’ da seguire nella prospettiva di una salvezza che inneschi, prima della de-costruzione del mondo, la domanda sull’essere o il non-essere.

Anche in questo senso “liberare l’uomo effettivamente dalla morte” è proiettarsi in quel percorso nel quale la bellezza tragica (ci) destina e ‘fa divenire’: l’unico modo, ci sembra, che l’amore ha per determinarsi come trasfiguratività ultimativa e salvifica; a patto che abbia avuto luogo –precedentemente– quella de-costruzione di cui già sappiamo. Certo, qui bisognerebbe chiamare in causa anche il cuore come ‘luogo delle scelte esistenzialmente essenziali’ e a questo punto sarebbe di grande interesse conoscere – volendo infittire le trame speculative di una corrispondenza tra esistenzialismo religioso russo e pensiero marcelliano – ciò che, a tal proposito, ci direbbe il ‘Socrate russo’: Grigórij Skovodà (1722-1794)39. Brevemente, possiamo dire che egli sviluppa una originale concettualità teoretica sul tema del cuore e dell’amore nei suoi Dialoghi, trasponendo «la mistica del cuore della tradizione filocalica in termini filosofici secondo la sua personale interpretazione del socratico “conosci te stesso”, che è il punto di partenza di quel cammino coraggioso e rischioso sugli abissi dell’essere (…). Per il filosofo ucraino, “ognuno è ciò che è il suo cuore, ognuno è là dov’è il suo cuore” e il cuore altro non è che (…) il vero uomo nell’uomo, o per esprimerci con le stesse parole del Dialogo dei cinque viandanti sulla vera felicità della vita: “è l’uomo dentro l’uomo… il corpo interno al corpo”, è il luogo della sua eternità, il punto di congiunzione dell’umano con il divino»;40 un richiamo agostiniano e pascaliano alla categoria biblica del cuore molto preciso che restituisce un anelito interiore autenticamente vero, di una “conoscenza vitale in grado di restituire all’intelletto i ritmi del cuore” (Grandi). Giungiamo così alla determinazione (lungamente discussa dal Nostro; che percorre l’intero suo pensiero come un costante e sotteso ‘fil rouge’) dell’unico problema autenticamente metafisico: che cosa sono io? accorgendoci, per altro,

di avervi già risposto proprio con tutto il nostro dire sull’esistentività. A ben vedere adesso, proprio attraverso la dinamica dell’intendibilità del cuore come uomo dentro l’uomo, ci si prospetterebbe tutta quella discorsività sulla ‘trasfiguratività ultima’ originariamente detta. Tras-(oltre)figurazione autenticamente creatrice dell’(nell’)Uomo Nuovo da cui verrà una nuova rivelazione ormai nota:41 il risveglio edificante che permetterà da quel momento la fondazione della sua filosofia della libertà attraverso la ‘tragicità’ della bellezza. Non v’è il tempo però – come accennato – di metterla in relazione con il pensiero del Nostro in questa sede, rimanendo questo un preciso obbiettivo delle prossime prefazioni. A ben vedere. A ben credere in un’esistentività autenticamente formante, necessitante (sulla via dell’alterità) e dischiudente una trascendenza del mistero attraverso la quale saremo fatti degni, un giorno, di pronunziare il marcelliano “spero in te per noi”.

NOTE ALLA PREFAZIONE

1 Dichiariamo immediatamente – con l’azzardo di cui solo nei prologhi si trova traccia data la ‘sventatezza’ del cominciamento – che l’intenzione nostra, in questa sede, è quella di mettere in luce (seppur per brevi cenni) una corrispondenza tra l’esistenzialismo russo e quello francese; il primo rappresentato da autori ‘anomali’ (già di per sé di difficile collocazione) come Šestov e Berdjaev, mentre il secondo da pensatori come Sartre, Marcel, Lévinas (per citarne solo alcuni, certo), ognuno dei quali – va da sé – attinge sia da differenti ‘significanze’ di Dasein ed Existenz, di Verità e libertà, di oggettivazione e soggettivazione, di mistero e dono, giungendo infine a conclusioni che qui, s’intende, non avremmo lo spazio neppure di elencare, figuriamoci di indagare. Ciò che vogliamo piuttosto fare in questo succinto spazio è –sulla base della fondamentale opera qui presentata per la prima volta in traduzione integrale– cogliere parallelismi e concordanze proprio tra il pensiero russo e quello francese, in particolare tra il pensiero di Gabriel Marcel e quello di Lev Šestov; con l’opportunità di indagare un ambito che, per molti versi, è ancora del tutto inesplorato ma che può illuminare sulle radici di una stagione del pensiero novecentesco straordinariamente intensa e per questo ancora estremamente prolifica per la complessità ed articolatezza del suo essere ‘contemporanea’. Ci teniamo a dire infatti, che l’edizione sia del Giornale metafisico che di Presenza e immortalità qui presentata è la prima di una piccola serie di opere marcelliane che la casa editrice Bompiani riporterà alla luce nei prossimi anni, sempre per le collane “Il Pensiero Occidentale” e Testi a fronte” dirette dal Prof. G. Reale. Progettualità – coordinata con onore e piacere dal sottoscritto – grandemente preziosa, sia per l’occasione di ‘rinnovamento editoriale’ della letteratura primaria (nonché per la proposizione di opere non ancora tradotte integralmente), sia per la diffusione del pensiero marcelliano che, oggi, ci appare sempre più di maggior attualità nel suo dire esistentivo e vitale per l’uomo contemporaneo; esattamente come il pensiero russo (religioso e non) del ‘900. Per questo “Note sull’esistenzialismo tra Russia e Francia”. Per questo, nello spazio dato di queste prefazioni, rifletteremo ogni volta su di un carattere –si potrebbe arrivare a dire– “ontologicamente irrinunciabile” del pensiero del Nostro: di un pensare però, che ricostruisca sempre il tracciato di un detto che nei luoghi e nei tempi talvolta più impensati ha lanciato semi di novità teoretica ed ermeneutica.

2 Perché «la filosofia deve essere folle», in L. ŠESTOV, Potestas clavium, introduzione e cura di G. TIENGO ed E. MACCHETTI, Bompiani, Milano 2009, p. 241 (tit. orig. Vlast’ ključej. Potestas clavium, Berlin, Izd. Skify, p. 282). 3 «Vi è presenza (…) soltanto nell’assenza o attraverso l’assenza, e che è proprio in questo che consiste la trascendenza» (ivi, p. 365; il corsivo è nostro): uno dei punti nodali, ci sembra, dell’intero percorso marcelliano non solo in questo suo fondamentale lavoro; per come si vedrà. 4 Il rimando indiretto è qui al Residuo indivisibile. Su Schelling e questioni correlate di SLAVOJ ŽIZEK (tit. orig. The Indivisible Remainder. An Essay On Schelling And Related Matters, London-New York, Verso, 1996) al quale rinviamo a pro degli opportuni riferimenti. La traduzione italiana di questa fondamentale opera del pensatore sloveno è in corso d’opera per i tipi della casa editrice Orthotes (Napoli), pronto nel prossimo settembre 2011. 5 Qui però, più che intendere questo “esserci-per-l’essere” come orizzonte ontologico dell’essere dell’essente, lo dobbiamo pensare come relazione del pensiero con l’Altro cioè come modalità del tempo come aldi-là-dell’essere in senso lévinasiano; altrimenti che l’esser-ci heideggeriano come «l’appropriazione nel proprio dell’eventuare» (in M. HEIDEGGER, “Heideggers Gesamtausgabe”, vol. 70, Über den Anfang, V. Klostermann - Frankfurt am Main, 2005, trad. it. Sul principio, a cura di G.B. DEMARTA, Bompiani, Milano, 2006, pg. 61). 6 Ovviamente qui, il “ritratto frontale secondo resurrezione” è intendibile come Volto (secondo la tradizione del pensiero russo) nel ri-conoscimento dell’Io che accoglie l’Altro trasfigurandosi nell’ospitalità che – nei confronti di questo – deve assumer(-si)e. Il ‘ritratto’ – così inteso – è il volto interiore manifesto della propria essenzialità vocazionale o meglio ancora: “sintesi della propria personalità temporale.” È dunque questo un tema intimamente collegato alla questione dell’Io, del Tu e dell’Altro nella modalità che ‘genera’ (in tempi e modi che anche altrove abbiamo precisato) conoscenza, amore e bellezza. Teniamo conto però che del Volto come “livello di sintesi” che porta all’intendimento uni-totalizzante di ogni immagine o evento conoscibile trasfigurato (un livello di sintesi che “potrebbe essere definito appunto ritratto secondo la resurrezione”) ne abbiamo già parlato ampliamente in alcuni nostri scritti precedenti, in particolare G. TIENGO, Pavel Florenskij e l’uni-totalità del tempo. Frammenti teoretici sparsi per una affermazione del tempo come eventità, in Excerpta. Voci e

testimonianze del pensiero contemporaneo, a cura di P.D. ACCENDERE, prefazione di U. PERONE, ed. Il Prato, Padova, 2007, pp. 273 e ss. 7

Diario dell’anima indirizzato all’anima di ogni uomo.

8 Che supera – per come brevemente accenneremo – il binomico Io-Tu. Su questo tema poi, è interessante quel che dice Cornelio Fabro anche in riferimento al pensiero marcelliano: «da Jacobi a Fichte, fino a Feuerbach e poi a Gabriel Marcel, F. Ebner e gli esistenzialisti spiritualisti, l’atto fondamentale di coscienza è indicato nel rapporto di io-tu. Ma il plesso io-tu non è assolutamente primario e questo sia perché tale plesso di io-tu esprime l’appartenenza stretta personale la quale da una parte si prolunga nell’appartenenza reduplicata del “noi”, vera sintesi esistenziale del plesso comunicante di io-tu; sia, e qui passiamo al momento teoretico fondante, perché io-tu-noi-voi-essi... suppongono il plesso di “essere-nelmondo” ch’è il plesso fondante sul piano esistenziale di io-tu-noi» (C. FABRO, Aforisma 412, Editrice del Verbo Incarnato, Segni, Roma, 20052010; inoltre, sempre di Cornelio Fabro, si vedano –in riferimento agli argomenti qui trattati– i seguenti volumi: l’Io, l’esistenza e altri brevi scritti, Edusc, 2009; Dall’Essere all’esistente. Hegel, Kierkegaard, Heidegger e Jaspers, Marietti, 2004; là dove siano rilevabili – a nostro avviso – molti punti di contatto tra l’esistenzialismo di Fabro ed il pensiero di Marcel. 9 A proposito di alterità e di amore prossimale, sappiamo bene che uno dei passi maggiormente conosciuti di Marcel recita: “Ama un essere significa dirgli: tu non puoi morire”; o meglio ancora: tu non morirai mai. Il che porta a compimento la speranza di quella disperazione (“Può esservi speranza solo quando interviene la tentazione di disperare”, dice in Homo Viator) che, accompagnando l’uomo sulla via della piena (vocazionale) comprensione al De profundis ad te clamavit, fa dire al Nostro “spero in te per noi”; là dove la speranza venga intesa come apertura al mistero dell’essere. Ne parleremo, qui come altrove, nelle prossime prefazioni. Si veda inoltre D. VON HILDEBRANDT, Essenza dell’amore, Bompiani, 2003, a cura di P. PREMOLI DE MARCHI (tit. orig. Das Wesen der Liebe, Joseph Habbel, Regensburg, 1971), per i possibili parallelismi che si possono costruire tra Marcel e Von Hildebrand riguardo al tema dell’amore come Gabe (dono). Per un primo riferimento si veda: G. MARCEL, Tu ne mourras pas, Éditions Arfuyen, 2005, (trad. it. Tu non morirai, a cura di F. RIVA e M. PASTRELLO, trad. di M . PASTRELLO, Valter Casini Editore, Roma, 2006).

10 Sulla questione, [che già altrove, in uno dei nostri saggi, è stata centrale quanto fondativa; in riferimento: G. TIENGO, Al di là del presente. Il tempo che il tempo si prende in AA.VV., (Post-)Fenomenologia in limine, L’Harmattan Italia – Harmattan Paris (edizione bilingue), Torino-Paris, 2010, pp. 83-156] si veda C. TARDITI, Con e oltre la fenomenologia. Le “eresie” fenomenologiche di Jacques Derrida e Jean-Luc Marion, Il Melangolo, Genova, 2008 (particolarmente pg. 153-161) e U. REGINA, Dono e Tempo, in G. FERRETTI (a cura di), Il codice del dono. Verità e gratuità nelle ontologie del Novecento, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2003, pg, 103-122. Entrambi evidenziano come in Heidegger l’Ereignis sia la parola chiave (emblematica della sua ‘svolta’) che indirizza i Beiträge zur Philosophie del 1936-’38 [trad. it. M. HEIDEGGER, Contributi alla filosofia (dall’evento), Adelphi, Milano, 2008] e Tarditi in particolare indica come l’interpretabilità dell’Ereignis heideggeriano, a partire proprio dai Beiträge, «porti a pensare in modo diverso il tempo e l’essere» i quali “si danno” nell’essere come «frutto di un inviare (Schicken) e di un porgere (…), cioè doni che l’Ereignis fa all’uomo perché questi possa, se vuole, realizzare liberamente se stesso e la verità (…). In questa prospettiva l’Ereignis rende possibile la Gabe. Se l’essere si dà (Es gibt), allora esso si dà incondizionatamente, come un puro donare: l’essere è dono perché il vero dono non può essere meno del dono totale e assolutamente libero, il dono è autentico solo se rimane dono nel suo stesso darsi, se si conserva tale nel Geben che dà il dono, ossia se non cessa di essere donante anche dopo aver donato» (C. TARDITI, Con e oltre la fenomenologia…, op. cit., p.156). Del resto è – su questa stessa falsariga – lo stesso Heidegger a dirci che «il tempo non è. Il tempo c’è, si dà (Es gibt)» [M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens, Tubinga, M.Niemeyer 1969, trad. it. Tempo ed essere, Milano, Longanesi 2007, il corsivo è mio]: esattamente ciò che affermavamo più indietro (ivi la nota 6) a partire dalla questione del Volto come dono – nella dinamica dell’alterità marcelliana e del ‘ritratto secondo resurrezione’ florenskijano – del Tu-a-Me e dell’Io-al-Lui. 11 Personalmente, lo abbiamo già visto con altri autori. In riferimento si vedano le mie introduzioni ai volumi di L. ŠESTOV, Shakespeare e Turgenev [tit. orig. ɒȿɄɋɉɂɊ ɂ ȿȽɈ ɄɊɂɌɂɄ ȻɊȺɇȾȿɋ - 32 ɝɥɚɜɵ.] - ɋ. ɉɟɬɟɪɛɭɪɝ, ɬɢɩ. Ⱥ.Ɇ. Ɇɟɧɞɟɥɟɜɢɱɚ, 16°, p. 282, “Šekspir i ego kritik Brandes” (Shakespeare e il suo critico Brandes), Sankt-Peterburg, dalla Tip. Mendeleviča per la prima volta nel 1898 e ɌɍɊȽȿɇȿȼ. “Turgenev” (Turgenev), Ann Arbor, pubblicato per la prima volta ad Ardis, Michigan, USA, nel 1982; in prima traduzione mondiale, a cura e introduzione di G. TIENGO e E. MACCHETTI, Milano, Bompiani, 2010] e V. SOLOV’ËV, Il dramma della vita di Platone (tit. orig. Sobranie sočinenij Vladimira

Solov’ëva – tom. X, izd-vo “Žizn s Bogom” – Foyer Oriental Chrétien, Bruxelles, Belgique, 1966-1969, pp. 194-241), a cura e introduzione di G.TIENGO e P.D. ACCENDERE, Bompiani, Milano, 2010, dal titolo: Appunti per una filosofia della marginalità – Parte III. Dall’apofatismo esistenziale al realismo nichilista o il suo contrario: il ‘cominciamento’ in Lev Šestov, pp. 5-106 e Note per una Grammatologia sulla Frammentarietà – Parte I. Contra Solov’ëv: sulla bellezza che non salverà il mondo, pp. 5-106; là dove – tralasciando la fin troppo consueta immagine di Solov’ëv autentico filosofo mistico – cerco di darne una nuova ‘veste’ (e giustificabilità teoretica, s’intende) in primis come filosofo ‘esistenzialista’. Per il riferimento si veda in particolare le pp. 23-49 e 49-75, rispettivamente il Frammento 2, intitolato Il dramma nel Dramma di Solov’ëv nonché il Frammento 3, intitolato Bene, Verità e Bellezza: per una Grammatologia della coincidenza tra vita ed esistentività. 12 Berdjaev lo dice di Lev Šestov; N.A. BERDJAEV, Osnovnaja ideja filosofii L’va Sestova, in “Tipy religioznoj mysli v Rossii”, YMCA-Press, Paris, 1989, p. 407; originariamente in Put’, 1938-1939, p. 5. Anche in Apoteosi della precarietà. Esperimento di pensiero adogmatico, ed. Trauben, Torino, 2005. 13

Cfr. ibidem.

14

Cfr. G. MARCEL, Tu non morirai, op. cit., p. 31.

15 Cfr. A. MALRAUX, Psicologie de l’art. La création artistique, Parigi, 1950, pg. 51-54. 16 E infatti noi abbiamo parlato di filosofia dell’esistere (più che di ‘filosofia dell’esistenza’: è questa la reale distinzione), cosa ben diversa e alla cui definizione ci riferiremo da qui in avanti. 17 Nel testo originale in traduzione italiana al posto di Existenzphilosophie leggasi “nuova filosofia”. 18 K. JASPERS, Vernunft und Widervernunft in unserer Zeit, Verlag, München, 1950 (trad. it. Ragione e antiragione nel nostro tempo, trad. di G. SACCOMANNO, pref. di P. CHIODI, SE, Milano, 1999, p. 93). Le parentesi quadre sono mie. 19

Cfr. infra, p. 113.

20

K. JASPERS, Ragione e antiragione …., op. cit., p. 94.

21 E l’esistentività, in questo nostro dire, è la ‘qualità ontologica prima’ dell’esistere nella dimensione del mistero (di apertura nei confronti della trascendenza, certo) finora detta e interpellata continuamente, dinamicamente in itinere. Qui ci accorgiamo che l’“esistentività” ha strettissimi rapporti ermeneutici con l’eventità, di cui già altrove abbiamo detto [in particolare si veda il già citato G. TIENGO, Pavel Florenskij e l’uni-totalità del tempo. Frammenti teoretici …, op. cit., e G. TIENGO, Appunti per una filosofia della marginalità – Parte IV. Sulla posterità di Atene e l’antecedenza di Gerusalemme (per il cui riferimento bibliografico si veda più avanti la nota 25)]. 22 Sul tema molto, davvero troppo ci sarebbe da dire e non volendo finire fuori dai limiti (d’ambito e non di spazio) auto-impostici nel nostro presente riflettere – così come capiterà altre volte; sapendo fin d’ora di tradire questa seppur determinante promessa – rimandiamo ad alcuni ‘spazi’ là dove abbiamo già ampiamente espresso il nostro pensare in proposito. In particolare si vedano: G. TIENGO, Pavel Florenskij e l’uni-totalità del tempo. Frammenti teoretici..., op. cit., un po’ in tutto il testo ma con specifico riferimento alle pp. 326-333 e ancora il recente G. TIENGO, Al di là del presente: il tempo che il tempo si prende …, op. cit., pp. 104 e ss. 23 N. MONSEU, La concretezza del soggetto. Šestov, Levinas e il problema dell’affettività, in Humanitas 64 (3/2009), p. 455. Il corsivo è nostro così come le aggiunte nelle tre parentesi quadre. 24

K. JASPERS, Ragione e antiragione …., op. cit., p. 61.

25 Cfr. Infra, p. 259. Ci permettiamo di far notare che, in tal senso, già in altra sede abbiamo precisato come «il dramma della dimensione tragica scoperta come la vera vocazione dell’umana natura non va vissuta con passività o indifferenza poiché l’uomo non può fermarsi nello slancio destinato a portarlo vicino ad un Oltre senza quell’azione di attraversamento che lo induce (lo completa e lo sostenta ontologicamente nell’atto stesso) a passar quella soglia medesima. La negazione conferma la ricerca e l’edificazione (il rintracciamento autentico) del nuovo percorso: così la traccia non è più semplicemente ‘traccia’ (assenza del presente) o supplenza di questa» (G. TIENGO, Appunti per una filosofia della marginalità – Parte IV. Sulla posterità di Atene e l’antecedenza di Gerusalemme, introduzione a L. ŠESTOV, Speculazione e rivelazione, [tit. orig. Umozrenie i Otkrovenie. Religioznaja filosofija Vladimira Solov’ëva i drugie stat’i (Speculazione e

rivelazione. La filosofia religiosa di Vladimir Solov’ëv e altri saggi), Pariž, YMCA-Press], a cura di G. TIENGO e E. MACCHETTI, Bompiani, Milano, 2011, p. 20. 26 G. TIENGO, Appunti per una filosofia della marginalità – Parte IV. Sulla posterità di Atene e ….op. cit., p. 20. 27

Cfr. Infra, p. 135.

28

Cfr. Infra, p. 365.

29 Cfr. Infra, p. 365. Certo, qui bisognerebbe soffermarsi sulla distinzione che Marcel pone in atto tra presenza e inferenza, così come tra esistenza ed opacità-otturazione o sul senso dell’affermar che “l’esistenza rappresenta un ostacolo per la rivelazione”, proprio in quanto “l’esistenza è opacità” e “l’esistere è otturazione”, ma vi rimandiamo direttamente nel riferimento al testo marcelliano così come ad una delle prossime (nostre) prefazioni, là dove ne discuteremo più approfonditamente avendo modo di riflettere su cosa intenda il Nostro con il termine di ‘rivelazione’ proprio in una dinamica di mistero donativo che si apre all’accoglienza dell’alterità nell’Io del Tu; così come abbiamo anche qui accennato a più riprese e ancora, brevemente, faremo. 30 La polifonicità: una delle caratteristiche maggiormente evidenti ed importanti del pensare marcelliano che – tra le righe – abbiamo messo in luce fin dal nostro prologo e che, acutamente, è evidenziata dalle parole di Serra e Pastrello nell’introduzione di questo stesso volume. In tale circostanza infatti vien detto che «la filosofia di Marcel è aperta radicalmente all’alterità: essa è per essenza polifonica (polyphonique), dice Marcel nell’Introduzione scritta nel 1937 a Presenza e immortalità. La polifonia [infatti] designa quell’attestazione concreta e drammatica dell’alterità plurale, degli altri, del mio corpo, di me a me stesso. Anche l’io è originato da un noi plurale che sta al suo centro come un appello continuo e una fonte inesauribile di irradiazioni ontologiche e intersoggettive» (ivi, p. 13, la parentesi quadra è mia). Ancora a proposito della ‘polifonicità’ poi, non può non venirci in mente il tema della “polifonicità coscienziale” riferibilmente alla musica – ne accenneremo brevemente – e a quel che, a tal proposito, dicono sia Husserl che Florenskij, là dove il primo la definisca meglio come melodia. A tal proposito diamo solo due rimandi, dicendo che in particolare il pensatore russo ne parla estesamente nella Lezione Ottava della sua serie di lezioni tenute al VChUTEMAS – la scuola sperimentale moscovita (Atelier Superiori tecnico-artistici di Stato) che lo

vide, tra il 1923 e il 1924, docente di Analisi della spazialità nell’opera d’arte – che servì successivamente (1925) per il trattato dal titolo Analiz prostranstvennosti i vremeni v chudožestvenno-izobrazitel’nych proizvedenijach, [Analisi della spazialità e del tempo …, op. cit.], mentre Husserl ne parla nel paragrafo I (Introduzione della distinzione essenziale tra ricordo ‘fresco’ e ‘rimemorazione’. Mutamento di contenuto e differenze di apprensione nella coscienza del tempo) della Parte B del suo Zur Phänomenologie des Inneren Zeitbewusstseins [“Husserliana” Bd. X, Martinus Nijhoff, The Hagu, Olanda, 1966, trad. It. Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, Franco Angeli Editore, Milano, 1981, a cura di R. BOEHM, trad. A. MARINI, pg. 165 e ss.]. In riferimento si veda il mio G. TIENGO, Pavel Florenskij e l’uni-totalità del …, op. cit., p. 261 e ss. 31

Si veda in riferimento infra, a partire da p. 73.

32 Per questo più personale ed identitaria. Ri-appropriazione insomma, che finalmente realizzi un’autentica filosofia della libertà realmente vissuta al di là di ogni ‘filosofia della natura’. 33

Cfr. Infra, p. 83.

34

L. ŠESTOV, Speculazione e rivelazione, op. cit., p. 731.

35 E il presupposto iniziale di questa ‘via della detrazione’ «è proprio il concepimento di quella libertà che si afferma (che può affermarsi) solamente nel paradosso, nell’assurdità, nella contraddizione della fede religiosa attestata proprio come esperienza possibile di libertà» (in G. TIENGO, Appunti per una filosofia della marginalità – Parte IV. Sulla posterità di Atene …, op. cit., p. 57. 36 Al “mistero della vita”, per come lo definirebbe ancora Šestov in un’ideale (qui) termine di paragone con Marcel. 37 Con questo non vogliamo certo dire che l’esclusività dell’amore sia la gratuità del dono verso l’altro (cioè il completo ‘annientamento’ del sé per e nell’altro) ma ci sembra che – parlando di dono nei termini di abbandono prima e di rinnegamento dopo – si possono più facilmente porre in essere dei legami tra ‘verità’ e ‘libertà’, ‘dono’ e ‘amore’ nell’alfabeto del Nostro. 38 V. SOLOV’ËV, Il dramma della vita di Platone, op. cit., p. 247 . Il corsivo è mio.

39 Hryhorij Savyč Skovorodà: sulla vita di questo straordinario personaggio, il primo grande filosofo ucraino nella Russia del settecento, purtroppo non v’è molto, per lo meno non come su altri filosofi più tardi. Pellegrino socratico, abituato ad osservare ed interrogar(si)e proprio come il filosofo ateniese, visse povero ed errabondo fino alla fine dei suoi giorni, passando gli ultimi anni della propria vita nell’ospitalità degli amici. A tal proposito si racconta che giunto presso la casa di uno di questi, vi si fermò tre giorni, affermando di dover morire di lì a poco e allontanandosi solo al mattino, per scavare la propria fossa. In effetti, al terzo giorno, dopo pranzo, disse “è giunta la mia ora” e andatosi a coricare spirò serenamente [tuttavia la versione che ne dà Kovalinskij – il suo maggior biografo, amico e discepolo, autore di Vita di Grygoriy Skovorodà, in G. SKOVORODÀ, Povne zibrannaya tvoriv (Opera omnia), ed. Naukova dumka, Kiev, 1973 – è esattamente opposta, consegnandoci l’immagine di una morte serena e confortata dai sacramenti della Chiesa]. Ancora in russo si veda l’interessante D. BAGALIJ, Ucrains’kyj mandrivnyj filosof Grygoriy Slovorodà (il viandante filosofo ucraino Grygoriy Slovorodà), ed. Orij con UKSP Kobza, Kiev, 1992, A.A. VASIL’CIKOV, Semeistvo Razumovskich, Pietroburgo, 1880, tomo I, D. TSCHIZEWSKIJ, Skovorodà, Dichter, Denken, Mistiker, W. Fink Verlag, München, 1974, soprattutto l’opera di S.V. ERN, G.S. Skovorodà: la vita e l’insegnamento, Mosca, 1912 e il volume degli Atti a lui dedicato AA.VV., Skovorodà, philosophe ecrainien, Colloque (a cura di P. PASCAL), Istitut d’études Slav, Parigi, 1976; mentre in italiano si veda L. SATTA BOSCHIAN, L’illuminismo e la steppa. Settecento russo, Edizioni Studium, Roma, 1994. Per quanto riguarda invece i suoi scritti (nessuno dei quali pubblicato in vita) la prima raccolta di opera risale al 1961, stampata ad opera dell’“Accademia delle Scienze della Repubblica Ucraina Socialista Sovietica”, mentre l’edizione di riferimento dell’Opera omnia è quella editata dalla “Harvard library of early ukrainian literature” del 1993. Le successive edizioni, quelle del 1994 e del 1996 (Kiev) sono entrambe basate sull’edizione di Harvard. Per quanto riguarda i titoli, ne elenchiamo solo alcuni, ossia quelli maggiormente conosciuti: L’Anello, La porta iniziale della morale cristiana, L’Alfabeto del mondo sulla natura, e soprattutto i Dialoghi, vero e proprio capolavoro teoretico di Skovorodà. 40 G. GRANDI (a cura di), L’idea di persona nel pensiero orientale, Rubettino, Soveria Mannelli, pp. 26-27.

41 Che, porterà alla ‘donazione’ dell’Io del sé all’Altro. «Proprio così la “sapienza del dare” nella comunione interpersonale ci riconduce al dono all’Altro: la scoperta del Tu nel Me che, in una visione cristocentrica, è

anticipazione dell’Io nell’Altro! Una rivelazione dettante una reale e autentica conversione insomma che non tenga solo conto ma che in senso proprio si ‘edifici’ sul paradosso dell’ama il prossimo come te stesso! Perché il ‘proprio sé stesso’ (nel senso della sua identità) è in inscindibile unità dialetticamente in tensione con l’altra persona. Non è un particolare insignificante questo dono dell’altro e non dobbiamo sottovalutare il problema della scoperta del sé attraverso il Tu dell’Altro poiché è questo che fonda la sua vera finale qualità carismatica. Con estrema soluzione di continuità il secondo passo è dunque proprio questo riempimento del Tu dell’Altro, questo dono (sapienza del dare) attraverso il quale si diventa un tutt’uno con il prossimo tuo: unione non in senso moralistico, ma in senso propriamente ontologico! Prima di tutto, infatti, è da curare il rapporto nella modalità tra ‘Io’ e ‘Tu’ prima di giungere al rapporto della modalità del ‘Lui’ e degli (con gli) ‘Altri’. Perché se si parla della modalità dell’Io, la divinizzazione dell’uomo (…) appare come una conoscenza, mentre vista nella modalità del ‘Tu’ appare come amore e ancora vista nella modalità del ‘Lui’ è la bellezza [cfr. ivi, nota 6]. Tuttavia solo nella modalità con l’Altro come collettività (dunque propriamente gli-Altri) avremo quella consustanzialità indicata come legame ontologico tra gli esseri personali che è simile all’unità instaurata tra le Ipostasi trinitarie e che appare ora proprio come la nostra conosciuta Somiglianza» (G. TIENGO, Pavel Florenskij e l’uni-totalità del tempo..., op. cit., in particolare pp. 330-332).

INTRODUZIONE di Andrea Serra e Maria Pastrello

IL VIAGGIO ORFICO DELL’ANIMA. Gabriel Marcel e il rischio d’amare.

Pochi anni prima della sua morte, Gabriel Marcel1 conclude così la propria autobiografia: «Non mi perdonerei tuttavia di concludere questo scritto su un tale accordo perfetto. Sarebbe cedere ad una tentazione che ho combattuto dal principio fino alla fine. L’accento finale deve essere messo piuttosto su questa strada sassosa, sul mio passo esitante e incerto in questi anni difficili: non dirò mai abbastanza quanto mi senta dipendente, non solo fisicamente, ma anche moralmente, e quanto, a volte, questa dipendenza mi 1

Per le opere di Marcel richiamate più frequentemente si sono utilizzate le seguenti sigle: JM, Journal métaphisique, Gallimard, Paris 1927, Etre et avoir, Aubier, Paris 1935, Présence et immortalité, Flammarion, Paris 1959, tr. it. di FRANCA SPIRITO, Giornale metafisico, Edizioni Abete, Roma 1966; EA, Être et Avoir, Aubier, Paris 1935, trad. it. di IOLANDA POMA, Essere e avere, Esi, Napoli 1999; HV, Homo viator, Aubier Paris 1945, Présence de Gabriel Marcel, Paris 1998, trad. it. di LUIGI CASTIGLIONE e MARIO RETTORI, Homo viator, Borla, Roma 1980; RI, Du refus à l’invocation, Gallimard, Paris 1940, tr. it. di LAURA PAOLETTI, Dal rifiuto all’invocazione, Città Nuova, Roma 1976; DS, Le déclin de la sagesse, Plon, Paris 1954, trad. it. di CARMELA COSSA, Il declino della saggezza, Logos, Roma 1982; DU, La dignité humaine et ses assises existentielles, Aubier, Paris 1964, trad. it. di Z. TRENTI, La dignità umana e le sue matrici esistenziali, Elle Di Ci, Torino 1983; UP, L’Homme problématique, Aubier, Paris 1955, tr. it. di LEONARDO VERDI-VIGHETTI, L’uomo problematico, Borla, Roma 1992; PEA, Entretiens Paul Ricœur-Gabriel Marcel, Aubier, Paris 1968, Présence de Gabriel Marcel, Paris 1999, trad. it. di FRANCO RIVA, Paul Ricœur e Gabriel Marcel, Per un’etica dell’alterità. Sei colloqui, Edizioni Lavoro, Roma 1998; PST, Pour une sagesse tragique et son au-delà, Plon, Paris 1968; IC En chemin vers quel éveil, Gallimard, Parigi 1971, trad. di L. ALTEROCCA, In cammino verso quale risveglio?, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1979. Per una panoramica d’insieme dell’ultimo ventennio di studi su Marcel si rimanda all’Aggiornamento bibliografico 1983-2003 del volume ANDREA SERRA, Esistenza e dialogo. Gabriel Marcel e la filosofia italiana, Marco Valerio Editore, Torino 2005, pp. 184-198.

sembri umiliante. Le circostanze hanno permesso, tre anni fa, che Geneviéve Boegner, purtroppo la sola sorella di mia moglie che sia ancora al mondo, potesse venire ad abitare da me, strappandomi ad una solitudine che, lo sento bene, non potrei più sopportare»2. Questo brano ci restituisce il senso ultimo della filosofia di Gabriel Marcel: si tratta di una riflessione che non deve essere intellettualizzata e ridotta a meri concetti astratti, ma osservata e ascoltata per quello che è, ossia un sentiero arduo e sassoso scandito dagli incontri, dalle presenze e dalle assenze delle persone amate. In altre parole, un vero e proprio viaggio orfico dell’anima, che dalle tenebre percorre la propria strada alla ricerca di Euridice. L’esperienza filosofica per Marcel non è teoresi di idee valide per tutti ma ricerca personale in cui occorre partecipare responsabilmente, perché in gioco è il senso della propria esistenza. Parlare di Presenza e immortalità significa dunque affrontare un viaggio orfico. L’opera d’altronde è tutta incentrata sul mito di Orfeo ed Euridice che fu al cuore dell’ esistenza di Marcel, vissuta nella costante ricerca della persona amata perduta (la madre, poi la moglie). Si cadrebbe in un grave errore se si decidesse di descrivere questo diario marceliano elaborando un’articolata e sofisticata sintesi del suo pensiero, e cedendo in questo modo allo spirito d’astrazione e alle geometrie perfette del concetto. Sarebbe più opportuno incamminarsi con Marcel sulla strada sassosa e in penombra dell’esistenza, rimanendo in ascolto delle contraddizioni drammatiche del testo e dell’esperienza marceliana, vere e proprie ferite dello spirito e della carne, capaci però di autentica generatività. 2

IC 255.

Una biografia polifonica. Gabriel Marcel rappresenta una delle voci fondamentali del pensiero filosofico del Novecento e la sua riscoperta è tutt’ora in corso. Il pensiero di Marcel ha generato e influenzato pensatori del calibro di Ricœur, Levinas, Pareyson, Mounier, Merleau Ponty. Marcel non è dunque solo uno dei maggiori filosofi della stagione esistenzialistica ma anche un pensatore che si è confrontato con i massimi filosofi moderni e contemporanei, da Kierkegaard a Schelling, da Nietzsche ad Heidegger, da Bloch a Sartre, da Jaspers a Camus per citare solo i maggiori. Marcel nacque a Parigi il 7 dicembre 1889 e si spense sempre a Parigi l’ 8 ottobre 1973. Da giovane studiò al Liceo Carnot ed alla Sorbona, dove risentì dell’influenza di Léon Brunschvicg e di Henri Bergson. Si laureò con una tesi su L’influence de Schelling sur les idées métaphysique de Coleridge e svolse l’attività di professore di liceo fino al 1923, insegnando a Vendôme, Sens, Parigi e Montpellier. Ma i dati salienti della sua biografia, indissociabile dal suo pensiero, sono i suoi incontri e i suoi rapporti, rappresentati innanzitutto dalla perdita della madre quando aveva appena quattro anni. Il vuoto creato da questo lutto sarà all’origine di gran parte delle sue meditazioni filosofiche, teatrali e musicali. Bisogna infatti sottolineare che Marcel fu al contempo critico teatrale, drammaturgo, filosofo e compositore di musica. L’apertura polifonica delle sua riflessione è specchio della sua personalità aperta alla pluralità delle esperienze. Oltre la perdita della madre, altre due esperienze decisive per la sua formazione furono la prima guerra mondiale, che lo vide coinvolto sul fronte per contattare le famiglie dei dispersi e dei caduti (esperienza che sarà all’origine del suo interesse per la metapsichica), e l’incontro con il cattolicesimo e la sua conversione nel 1929.

La produzione filosofica non può dunque configurarsi come un insieme di trattati facenti parte di un sistema. I suoi testi scritti, piuttosto, rappresentano socraticamente una prosecuzione di quel colloquio mai esausto che Marcel imbastì con se stesso e con le persone amate, incontrate, conosciute nel suo percorso esistenziale. Così la forma prediletta da Marcel è il diario, che, al pari del dialogo socratico, rimane ancorato alla concretezza della ricerca quotidiana di senso che appartiene a ciascuno di noi e non cede alla facili lusinghe del concetto. Oltre al diario, la scrittura di Marcel sposa anche la forma del saggio breve, che molto spesso è il testo di un discorso tenuto in una particolare occasione, di fronte a determinate persone. Opere come Dal rifiuto all’invocazione, Homo viator, Il declino della saggezza, Gli uomini contro l’umano o Il mistero dell’essere sono raccolte di saggi, meditazioni su scelte, esperienze concrete, riflessioni in dialogo con altri pensatori, che lungi dall’approdare a conclusioni valide una volta per tutte, propongono vie alternative, nuovi interrogativi, quesiti sommersi, interpretazioni differenti, lasciando sempre all’altro l’ultima parola, e con essa la possibilità di decidere della propria esistenza. L’ontologia di Marcel non affronta il problema dell’essere e dei suoi caratteri. Non si tratta dell’essere ma di essere. La sua ontologia è concreta e personale e apre ad un’unica alternativa: quella tra chi si assume la responsabilità di rispondere con la propria esistenza agli appelli dell’altro e tra chi rifiuta di aprire la porta dell’io per rischiare se stesso sulla strada sassosa dell’esistenza, chiudendosi in una forma inautentica di vita che Marcel considera al pari del suicidio spirituale. Al di là di ogni concetto e teoria filosofica, l’alternativa fondamentale per l’uomo, in cui si decide il senso della sua vita, è questo sì o no in risposta alle voci altre dell’esistenza, stando bene a non confondere la riflessione di Marcel con un invito all’attivismo assoluto. Anzi, il fare esasperato dell’uomo

contemporaneo non rappresenta una risposta all’appello dell’altro, quanto la faccia opposta del suicida che non vede altro che se stesso. In entrambi i casi siamo sempre su di un piano problematico, dominato esclusivamente dal calcolo dell’Io che possiede la sua vita come un oggetto da utilizzare e consumare. Rispondere agli appelli dell’esistenza significa cambiare orizzonte e perdere come centro l’io calcolatore. Nella dimensione del mistero, i confini tra l’io e gli altri non sono definiti da steccati e muri ma da relazioni e rapporti drammatici, ossia immersi nel pathos dell’esistenza. L’uomo autentico è colui che di fronte agli incontri e alle relazioni della vita non si tira indietro ma rischia se stesso, perché solo perdendo il piccolo cerchio dell’io calcolatore può ritrovare il cerchio ampio e poroso dell’io disponibile e aperto, capace di rischiare e di amare. Presenza e immortalità: un percorso orfico. La filosofia di Marcel, come hanno sottolineato i più fini interpreti, rappresenta un pensiero nuovo, che supera la metafisica ontica e oggettivante e inaugura una riflessione metaforica e concreta. Se si recuperano i toni drammatici della sua filosofia, si porterà alla luce un Marcel inedito, autore di un pensiero esperienziale, dialogico e critico verso ogni forma di astrazione. Nel periplo della sua produzione drammatica, musicale, critica e filosofica, Presenza e immortalità rappresenta uno dei momenti più profondi e significativi. È qui che il diario marceliano muove alla ricerca a tentoni e sempre incerta del senso ultimo dell’esistenza. Ricerca orfica di un io che ha vissuto e amato altri, sul sentiero imprevedibile che solo chi “rischia di amare”, mettendo in gioco tutto se stesso e rispondendo all’appello dell’Altro, può percorrere.

Présence et Immortalité fu pubblicato per la prima volta nel 1959 per Flammarion. Il libro comprendeva, oltre ad una breve prefazione di Marcel (Avant-propos de 1959), una introduzione intitolata Mon propos fondamental del 1937, il Journal Métaphysique scritto tra il 1938 e il 1943 (che prosegue quello pubblicato nel 1927 e quello nel 1935), il saggio Présence et Immortalité e l’opera teatrale L’insondable, che dalle edizioni successive venne esclusa. L’intera opera è ambientata durante il secondo conflitto mondiale, anche se Marcel non si ricollega esplicitamente agli eventi bellici. La strada sassosa e impervia di Presenza e immortalità è dunque quella del viandante che percorre un mondo in guerra, esposto alla tentazione della distruzione e della disperazione assoluta, un mondo svuotato dal senso. Un mondo avvolto dalla notte e dal buio. Il riferimento orfico al viaggio dal buio alla luce non è secondario in quest’opera e nell’intera filosofia di Marcel. Anzi: come ha ricordato Tilliette3, in Marcel: «la ricerca orfica è il più delle volte notturna e sotterranea, ma non per questo non è suscitata e orientata da una luce che scompare, che si vela, ma non si spegne, come un sole nascosto»4. «Per saperne di più dovremmo consultare le sue opere teatrali, le prefazioni a scritti di veggenza, gli ultimi colloqui di Cerisy, le conferenze su Rilke (in Homo viator); lì è Marcel che commenta, ed è lui che ode l’eco dei sogni del vecchio compagno trasportata dal poeta orfico. Egli appartiene alla loro stessa razza, e di essi è impregnato, è nutrito della loro sostanza»5. 3 TILLIETTE, Schelling e Gabriel Marcel: un “compagno esaltante”, in “Annuario filosofico”, 3, 1987. 4 Ivi 252. 5 Ivi 254.

Intraprendere un viaggio all’interno di Presenza e immortalità significa allora richiamarsi allo spirito orfico di metamorfosi, posto a chiusa di Homo viator: «Spirito di metamorfosi. Quando tenteremo di cancellare la frontiera di nubi che ci separa dall’altro regno, guida tu il nostro gesto inesperto! E quando suonerà l’ora prescritta, desta in noi la letizia del viandante che allaccia il sacco, mentre dietro il vetro appannato spunta il chiarore incerto dell’aurora!»6. E in questo itinerario orfico, che è insieme l’esistenza e la filosofia di Marcel, noi, in quanto viandanti, muoviamo dalle nubi della notte verso una luce lontana, forse l’aurora. La notte è, come dice lucidamente Marcel nella Prefazione del 1959, la morte dell’altro, la morte dell’essere amato, come, per Marcel, la madre perduta quando aveva solo quattro anni. La filosofia di Marcel è aperta radicalmente all’alterità: essa è per essenza polifonica (polyphonique), dice Marcel nell’Introduzione scritta nel 1937 a Presenza e immortalità. La polifonia è il connettore del pensiero di Marcel con il teatro e con la musica, in quanto designa quell’attestazione concreta e drammatica dell’alterità plurale, degli altri, del mio corpo, di me a me stesso. Anche l’io è originato da un noi plurale che sta al suo centro come un appello continuo e una fonte inesauribile di irradiazioni ontologiche e intersoggettive. D’altronde il mito di Orfeo ed Euridice è innanzitutto teatro, posizione drammatica di esseri in tensione tra loro, ricerca, incontro, perdita, ricordo. È pensiero, pensiero dell’altro, pensiero della nostalgia, pensiero della disperazione. È musica, musica che porta agli inferi per ritrovare la 6

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propria amata, musica che rimane, alla fine, come amore non più fisico ma aereo, spirituale, eterno, amore che è divenuto immortale, che dalla testa, dall’anima di Orfeo continua a risuonare nel cosmo. La polifonia marceliana sono i molti suoni di Orfeo che cantano del rischio d’amare, dell’amore imperituro, dell’amore che vince la morte, della presenza dell’amato oltre la morte e dell’immortalità degli amanti. Il pensiero marceliano si configura non come sistema autoreferenziale dell’Io assoluto e neanche come rapporto/ relazione del soggetto con l’oggetto ma come dialogo a più voci, dialogo polifonico, colloquio socratico, che procede orficamente alla ricerca di una nuova luce, come ha sottolineato Ricœur nei dialoghi con Marcel. Lo stesso andamento diaristico, l’aspetto socratico della filosofia marceliana rappresenta la metafora fondamentale dell’accesso all’esperienza: «abbiamo parlato di Socrate: lei è socratico, ma certamente non platonico, se è vero che il ‘platonismo’ trascina verso un ‘altrove’, verso un ‘laggiù’. Ora è il problema dell’intersoggettività, dell’altro, che la sospinge ininterrottamente verso un inestinguibile concreto: è l’atto del riconoscere altri che riconduce senza posa all’esperienza, e fa di questa una prova»7 . Marcel risponde, chiarendo che: «il socratismo non è uno scetticismo, è una ricerca, una ricerca a tastoni, ma una ricerca che non implica che ci si fermi ad una luce quando la si è vista»8. 7 8

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Filosofia come dialogo vibrante e incrociato. Marcel definisce il fine dialogico del proprio sforzo filosofico e drammaturgico raccontando dell’inizio del proprio cammino: «in realtà due problemi connessi mi si imponevano: da un parte, ciò che noi chiamiamo la realtà, o se si vuole la natura, come può rispondere all’uomo nella sua ricerca di verità? Detto diversamente, come può intervenire fra l’uomo e la natura qualcosa che assomigli allo scambio che avviene tra due esseri umani, in dialogo l’uno con l’altro? D’altra parte, e questa è l’unica questione su cui voglio soffermarmi in quella che è ora la mia prospettiva, come è possibile questo stesso dialogo, il dialogo fra gli uomini»9. Ancora più esplicito è nella propria autobiografia: «il significato esitante e come tremante di tutto il mio sforzo filosofico o drammaturgico sarà consistito nel tradurre nel linguaggio della riflessione e ancor più del dialogo esistenziale, quella specie di sicurezza implicita»10. In Essere e avere chiama il proprio pensiero un «dialogo vibrante e incrociato». Vibrante nel senso della ricerca drammatica e concreta sempre esposta al pericolo del tradimento e della disperazione, incrociato perché immerso nella pluralità altra del noi intersoggettivo originario, nel crocevia delle relazioni con gli altri e con me stesso che costellano l’esistenza autentica vissuta con il coraggio (con il cuore) di rischiare se stessi ed amare, aprendosi ad altri. 9

DU 59. IC 257.

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Il pensiero di Marcel non è una filosofia del dialogo perché non tematizza il concetto di dialogo e non lo tratta alla stregua di un problema neutrale che può essere oggettivato, afferrato e risolto. Il suo è piuttosto un pensiero nel dialogo. Parlare del dialogo è già una rinuncia al dialogo, è già un tradire e fuggire nello spirito d’astrazione, nel puro verbalismo che del dialogo è la negazione. Non troviamo tra gli scritti di Marcel un solo saggio dedicato alla tematizzazione della nozione di dialogo perché la sua è una filosofia immersa nel dialogo che parla del dialogo praticandolo, pensandolo, esercitandolo, cercandolo. Ma in maniera ancora più radicale la filosofia di Marcel è un pensiero nel dialogo perché afferma l’impossibilità del dialogo, perché si muove nel paradosso della negazione del dialogo che allo stesso tempo lo rende possibile. Il negativo del dialogo –l’irriducibilità e il conflitto delle differenze e dell’alterità– è insieme l’impossibilità e la possibilità del dialogo, è l’àncora a cui è affidata la nave del dialogo. È la notte orfica e insieme la possibilità dell’aurora. Il pericolo della caduta nell’astrazione è qui avvertito come dialogia in sé buona e sempre efficiente, immagine edulcorata e illuministica del dialogo che distrugge ogni individualità, ogni particolarità di prospettive e quindi ogni storicità. La possibilità del dialogo è la sua impossibilità, roccia dura e impermeabile, che resiste ad ogni mediazione, allo stesso modo dell’irriducibilità dell’esistenza da cui il pensiero di Marcel ha preso le mosse rompendo con ogni forma di idealismo e di rifugio nell’astratto. L’abisso insondabile del dialogo è l’incomunicabilità originaria che attanaglia l’uomo. Questo è il tragico per Marcel che si rifrange esistenzialmente sulla possibilità sempre aperta della disperazione e del suicidio. Il dialogo dell’esistenza è continuamente esposto al pericolo drammatico del vuoto, del nichilismo del senso, della possibilità concreta del suicidio. Il dialogo dell’esistenza coincide con la libertà, e per questo si svolge nell’ombra della nostra

creaturalità, l’ombra: metafora più che metafora dell’intreccio di possibilità e impossibilità in cui siamo immersi, che non è notte oscura perché si possono dare dei bagliori (la speranza, la fede, l’amore) ma non è rischiaramento assoluto perché l’ego non è origine di illuminazione, la ragione non è di per sé rischiarante ma piuttosto trova come altro da sé una fonte, un’origine che mentre la costituisce, la trascende. L’ombra designa nel modo migliore il luogo intermedio del dialogo: intermedio nel senso etimologico di inter- il “tra” l’uomo e la trascendenza e il “tra” gli uomini e soprattutto il “tra” l’uomo stesso, infraumano, il dialogo –secondo le parole di Marcel– “vibrante e incrociato fra le ‘parti’ più attive, più critiche dell’orchestra interiore”. L’opera di Marcel è una filosofia nel dialogo perché svolge una fenomenologia dell’impossibilità del dialogo. È dal suo fondo negativo, insondabile, irriducibile che emerge il suo possibile irraggiamento. Lo scambio del dialogo avviene su questo rifiuto di ogni relazione. Il pensiero dialogico si basa sulla relazione io-tu, vissuta come originaria e strutturante. In Marcel vi è una prospettiva ulteriore. Il tu, l’alterità, non è mai colta ed esperita come frontale al soggetto, e dunque riducibile ad oggetto. Il tu è vissuto nella sua pluralità esteriore e, prima ancora, interiore all’io. L’io è un noi. Una comunità che forma con se stessa un complesso di voci in rapporto tensionale tra loro. Per cogliere la tonalità fondamentale del dialogo tragico, incarnato e plurale di Marcel bisogna considerare la sua filosofia come un pensiero dell’ombra. Il rifiuto dell’idealismo, che muove tutto il suo itinerario di pensiero, coincide con la polemica contro la volontà di chiarezza razionale e assoluta della coscienza cartesiana e moderna. Il cogito è un otturatore. Al centro non vi è la luce ma l’ombra, questo è anche il senso dell’umiltà, la virtù ontologica fondamentale. Ogni filosofia che pretenda di produrre autonomamente rischia-

ramento si macchia della più grave superbia. La rigorosità del pensiero è la rigorosità dell’ascolto. L’ombra che è anche la densità del sentimento corporeo. È lo spazio del mistero, del non intellegibile. Per la metafisica moderna e per la coscienza illuministica si tratta di una caduta nell’irrazionale. Ma l’ombra –del corpo, del mio rapporto interiore con me stesso e con gli altri– è la densità del mio essere al mondo, è la partecipazione reale, viva, storica della mia esistenza. La vera irrealtà e inconsistenza è quella del cogito, del soggetto epistemologico che non ha tempo e né spazio alcuno, perché può essere ovunque e per chiunque, ma nella sua universalità astratta è sospeso nel vuoto. Quella di Marcel può essere considerata senza dubbio una filosofia dell’ombra per il tono non entusiastico, trionfalistico o totalizzante del suo procedere (il diario, la riflessione privata, anziché il trattato o il sistema), per il carattere aperto e mai concluso della sua interrogazione (il socratismo che non si ferma ad una luce quando la vede, quasi una scuola del sospetto del rischiaramento assoluto), per il riferimento al carattere misterioso e non oggettivabile del reale. In questo senso anche il dialogismo si anima di tinte crepuscolari e si delinea come dialogia orfica. Significativo in questo senso è il riferimento al dialogo nello studio su Rilke, dove l’attenzione si ferma sul lungo colloquio che il poeta ebbe durante un’esperienza medianica con un’entità che designò come “l’ignoto”. Occorre notare che Marcel stesso prese parte a sedute medianiche che lo portarono a riflettere sul carattere oscuro, sotterraneo di una comunicazione con l’invisibile. Essere in cammino. La dialogia orfica dell’anima si delinea esemplarmente in Presenza e Immortalità. Ma inoltrarsi in quest’opera vuol

dire, come del resto per tutte le opere marceliane, intraprendere un cammino spirituale. Soprattutto nell’opera che più di tutte incarna l’esigenza marceliana di recuperare una comunicazione vivente con le persone amate che non ci sono più. Soprattutto in un’opera che rivendica esplicitamente il carattere itinerante dell’anima e la sua aspirazione all’immortalità. Seguiremo dunque non tanto l’architettura concettuale dell’opera quanto gli incontri fenomenologici con le presenze che l’anima trova davanti e dentro sé sul proprio sentiero sassoso. In questo percorso il primo incontro è con la figura della morte, la mia morte e la morte delle persone amate. Per Marcel è la morte della madre, avvenuta quando aveva quasi quattro anni, e la ricerca costante di una comunicazione con lei. Le immagini della disperazione e della morte risultano essere drammaticamente presenti nella sua esistenza: «può darsi che queste immagini abbiano per me un valore essenzialmente disperante soltanto perché trovano in me un essere traumatizzato fin dall’infanzia dalla morte di altri, dalla morte di mia madre quando avevo quasi quattro anni. Non esito a dire che la mia vita – e la vita del mio spirito – si sono svolte sotto il segno della morte»11. Più dettagliato è il racconto presente in La dignità umana e le sue matrici esistenziali in cui affiora un ricordo carico di sviluppi per Marcel: «è certamente incontestabile che la morte improvvisa di mia madre mi scosse profondamente e risvegliò in me un interrogativo carico d’ansia. Non mi sentivo pago dell’incertezza nella quale 11

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constatavo che si erano acquietati i miei. Conservo il ricordo preciso di una passeggiata –dovevo avere sette o otto anni– durante la quale la zia mi disse che era impossibile sapere se i morti finivano nel nulla o sopravvivano in qualche modo; io esclamai: più tardi, io tenterò di saperlo. Credo che si avrebbe torto a minimizzare il significato di questa parola di fanciullo: in certo senso, fissava il mio destino»12. Il riferimento autobiografico ha un valore filosofico fondamentale, non solo perché nel dialogo tra Marcel e la zia si fissa il destino speculativo marceliano, ma soprattutto perché compare quella coppia di opposti incertezza/certezza che costella la sua intera opera e fa capo alla distinzione tra essere e avere, mistero e problema. La figura dell’incertezza corrisponde a quella della disperazione, alla solitudine tragica dell’uomo che rimane prigioniero di se stesso, confinato sul piano dell’avere e del problema e chiuso in una strada senza uscita. Mentre la certezza indica il percorso della speranza, il cammino della fiducia nella vita oltremondana dell’anima, dato dall’apertura musicale e polifonica al noi concreto. L’immagine del percorso compare in Presenza e immortalità in una nota del 18 maggio 1942: «Sopravvivere a… In quale senso posso dire: io sono sopravvissuto a un tale? Questa affermazione ha un suo significato soltanto in funzione di una determinata rappresentazione, cioè quella di un percorso; io e un tale abbiamo fatto la strada insieme fino a un certo momento, cioè in sostanza fino ad un determinato punto; a partire da questo io ho fatto il percorso da solo; quel tale non mi ha 12

DU 48.

accompagnato al di là di questo punto. Sopravvivere è dunque oltrepassare un certo cammino»13. Il 31 maggio 1942 Marcel ritorna subito all’immagine del percorso e ne sente la carica di innovazione: «Ho riletto proprio adesso queste annotazioni e mi sembra proprio di sentirci palpitare un nuovo pensiero; è certo che non ho mai scritto niente che sia più ricco di esperienza. Si ritorna sempre all’immagine del percorso»14. Percorso che è lo stesso di Orfeo che scende agli inferi e risale con Euridice. Su quel percorso Orfeo ritrova la propria amata e sullo stesso percorso la perde, perdendo se stesso. È un percorso notturno, nelle profondità dell’Ade, che segue il chiarore di un’aurora sperata, il ritorno di Euridice, in mezzo a nebbie, oscurità e vicissitudini di ogni sorta e che troverà il proprio sole alla fine, nel canto immortale di Orfeo. In Homo viator Marcel sottolinea come «è proprio l’anima il vero viandante; e parlando dell’anima, ed essa soltanto, si può dire in tutta verità che esistere significa essere in cammino»15. Cammino orfico, le cui valenze Marcel richiama a più riprese: «esiste un valore permanente dell’orfismo che non sarà mai possibile ignorare impunemente»16. 13

JM 398. JM 401. 15 HV 15. 16 HV 16. 14

Il percorso orfico di Présence et Immortalité si muove a partire dalle oscurità della notte dell’anima: per più di metà del diario marceliano, in cui assistiamo al germinare quotidiano del pensiero, si assiste ad una serie di tentativi, a volte appena accennati, a volte vuoti di possibilità di sviluppo, a volte potenzialmente fecondi. Spesso Marcel, rileggendo le note dei giorni o dei mesi precedenti, rimedita sulle vie imboccate, sui tentativi riusciti e sui vicoli ciechi, come un viandante che di passo in passo ci descrive gli ostacoli e le direzioni errate del proprio procedere: «Vorrei riprendere il filo delle riflessioni di ieri; questo filo rischia di perdersi o di imbrogliarsi»17; «Io sono estremamente scontento di ciò che ho scritto l’altro ieri»18; «In queste ultime osservazioni non vi è nulla che valga la pena di essere tenuto in considerazione; si tratta infatti di un vicolo cieco»19; «Vorrei d’altronde prendere posizione nei confronti della libertà e dell’immortalità. Ma ciò è ancora molto oscuro nel mio spirito»20. I temi della prima metà del Journal (dal gennaio del 1938 al febbraio del 1941) si caratterizzano per una serie di percorsi in parte solo abbozzati o abbandonati, comunque ancora avvolti dall’oscurità della notte, il chiarore dell’aurora è ancora lontano. Le note del 1938 affrontano le nozioni di idea profonda, di vita e di passato, di esperienza, commemorazione, male e giudizio. Si tratta di temi intrecciati, come in una melodia, che preparano il terreno alla seconda parte del Journal in cui il percorso orfico si avvicinerà sempre di più 17

JM 386. JM 392. 19 JM 431. 20 JM 420. 18

ai “fuochi intermittenti dell’indefettibile”. Tutti questi temi infatti scandagliano il lato scuro, ctonio della ricerca orfica, che si prolunga anche nello stile e nella struttura di queste pagine: il problema del significato del passato della vita di una persona amata e non più presente, del ricordo, del sentimento profondo dell’altro, dell’esperienza della presenza dell’altro, della commemorazione del suo ricordo, e infine la domanda sul male ( la morte di un essere amato come male per eccellenza) e il giudizio possibile sul male. Del percorso di Presenza e immortalità si potrebbe riferire quanto Marcel dice di Rilke e dei Sonetti ad Orfeo: «nulla in essi è dimostrazione o esposizione; tutto è domanda, invocazione, e anche evocazione, dibattito interiore di un’anima che si sente responsabile dell’universo e sente quasi la missione di maturarlo o addirittura di rigenerarlo»21. L’analisi che apre il Journal sulle condizioni che determinano un’idea o un sentimento profondo sono in realtà la preparazione del percorso successivo: l’idea profonda presenta fenomenologicamente una stranezza che: «viene ad interrompere una certa uniformità d’ambiente come una ineguaglianza di terreno si presenta a noi, come portasse in qualche luogo, come un possibile cammino verso un altrove»22. L’immagine del cammino si fa strada già dalle prime pagine, e associata e connessa intimamente a questa l’idea di un al di là. L’idea profonda è tale in quanto sembra condurre ad 21 22

HV 276. JM 374.

un al di là. Marcel dichiara di fare riferimento ad una esperienza del profondo che sembra aprirsi su un certo lontano, che non è un altrove, un “altro luogo” ma un “proprio qui” nel senso di un “nostalgicamente nostro” (nostalgiquement nôtre). Si attua una tensione tra un avvenire anticipato e un passato remoto. Passato e avvenire, lontano e vicino si congiungono, sul piano del profondo, in ciò che si può chiamare l’eternità. Qui Marcel trova una consonanza con la nozione di eterno ritorno di Nietzsche, definita come il diapason stesso della profondità. Sono qui contenuti in nuce tutti i temi successivi, l’esperienza del profondo è un cammino, un cammino in cui si svolge il dialogo orfico con la persona amata ormai non più presente. In essa passato e avvenire si congiungono nell’attimo del presente che esce dal tempo perché appartiene all’eternità. Si tratta di un mistero non oggettivabile, di una realtà paradossale che non si può spiegare ma solo avvicinare come, sottolinea Marcel, nel mito di Orfeo ed Euridice: «L’essenza è vicina, poiché da essa emana la chiarezza senza la quale niente sarebbe per me; è infinitamente lontana in quanto non posso andare verso di essa, senza che sparisca improvvisamente nel tentativo di avvicinarla. Il mito di Euridice diventa qui rivelatore»23. Nella nota successiva Marcel prende in considerazione l’ambiguità della nozione di vita, che può accogliere in sé l’idea di immortalità solo se considerata non come una successione di momenti e avvenimenti ma come suscettibile di essere data, sacrificata o perduta. Il cammino orfico è un cammino del profondo, in cui la vita deve essere considerata come un dono (don), così la vita diventa creatrice e realizza 23

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una tappa in più nel cammino (chemin) che si definisce come consacrazione (consécration). La ricerca orfica mira al sacro, al chiarore presagito dell’aurora dell’essere. Il sacrificio dell’io e la nascita del noi. L’anima, nel viaggio del profondo, si consacra sacrificandosi (en se sacrifiant), ma ciò che viene sacrificato, la mia vita non deve essere considerato un possesso, un avere. Il sacrificio può essere compiuto solo quando la coscienza non si considera più come centro di proiezione. Ci troviamo qui di fronte ad un aspetto centrale del cammino orfico dell’anima: ad ogni passo essa si scopre sempre meno isolata e autocentrata, ma intimamente intrecciata ad altri. Nelle note successive Marcel svolge una serie di riflessioni sulla dimensione temporale implicita nel sacrificio dell’anima, dimensione temporale che coinvolge il passato come insieme di tutto ciò che l’anima ha vissuto e realizzato. Ma arrivare ad una definizione del passato sembra arduo, perché non soddisfa il concetto di cronaca come insieme di momenti giustapposti uno all’altro, non sembra d’altronde possibile raggiungere alcuna definizione. Il passato appare una collezione di momenti che non possono essere tutti uguali ma che mi appartengono e mi toccano solo in quanto: «io sono essenzialmente e per sempre divenuto per me stesso un tu, in quanto formo una comunità (communauté)»24. Nasce l’idea che l’anima sia un io comunitario, a partire da quel dialogo (dialogue) con se stessi che è esperienza presente fin dall’infanzia. La comunità non può essere una 24

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molteplicità formata da unità giustapposte ma collegate in maniera intima con me. Il percorso orfico apre l’anima alla propria polifonia, essa si scopre “comunitaria” ma non si tratta di una scoperta “neutrale” perché questo implica drammaticamente la relazione con altri e il problema della morte delle persone amate. Marcel stesso ammette in una nota successiva: «sento che vi è ancora molto cammino da fare»25. Non si può pensare di ingigantire la vita terrena escludendo o eliminando la possibilità di un al di là. Il percorso dell’anima deve poter andare oltre l’esistenza corporea. Forse l’affermazione di Nietzsche secondo cui “l’uomo è un qualche cosa che deve essere superato”, interpretata in un senso non-temporale (come nota Marcel con una nota del 1958 alla propria osservazione del 1940) può voler significare una nuova visione incentrata sulla questione dell’immortalità. Nelle pagine successive il cammino incespica, si susseguono una serie di considerazioni sul diritto di giudicare e di lamentarsi, sulla possibilità di porsi al posto dell’altro, ma siamo arrivati a metà del percorso, ora l’anima intravede il senso del proprio cammino. La comunicazione vivente con gli altri. In una nota inserita successivamente Marcel annuncia che fenomenologi come Heidegger e Sartre si sono preoccupati di comprendere il rapporto intimo che mi lega alla mia morte, ma nessuno dei due si è veramente preoccupato di indagare come la morte dell’essere amato possa colpire colui che da questa morte è sconvolto. L’io ora è un noi, aperto e disponibile per altri. La strada inizia a farsi più chiara:

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«Rileggendo queste note mi sembra che esse costituiscano un inizio interessante»26; «Credo che le mie annotazioni di questi ultimi giorni comincino a prendere forma»27. Infatti in una nota del dicembre 1958 a complemento della nota del 27 febbraio 1941 viene alla luce il percorso intrapreso: «l’argomento delle mie seguenti riflessioni verterà sul problema della morte dell’essere amato e su tutto ciò che essa implica». Nelle note successive è come se l’anima, ormai consapevole del suo viaggio nel profondo e della sua originaria comunità, iniziasse ad incontrare altri sul proprio percorso. Quegli altri che sono presenti nella comunità che mi costituisce e che sono le persone che ho amato. Ma ciò che mi appare di essere, in questa discesa agli inferi, è la loro ultima immagine, il loro fantasma (fantôme). Si tratta di una immobilizzazione della nostra immaginazione che è: «rimasta affascinata dalle ultime visioni lasciatemi da questi esseri, dagli ultimi colloqui (entretiens) che abbiamo avuto»28. Ma questi fantasmi non sono le reali presenze delle persone che ho amato ma solo un simulacro creato da me, una oggettivazione di cui devo liberarmi. Marcel si rende conto dell’importanza del cammino intrapreso: 26

JM 389. JM 442. 28 JM 399. 27

«ho riletto proprio adesso queste annotazioni e mi sembra proprio di sentirci palpitare (palpiter) un nuovo pensiero (une pensée naissante); è certo che non ho mai scritto niente che sia più ricco di esperienza. Si ritorna sempre all’immagine del percorso»29. Nella discesa nel profondo due sono i pericoli per l’anima: la tentazione di oggettivare e trasformare in cose controllabili le immagini delle persone amate e il pericolo dell’ipnotizzazione, della fissazione su un immagine, di un pensiero assillante. Il rapporto con l’altro deve superare il ricordo assillante, perché si rischia di cancellare il rapporto e instaurare una ossessione. Il rapporto deve svolgersi come scambio (échange), come comunicazione vivente (communication vivante). Si tratta allora di comprendere quali atteggiamenti interiori (attitudes intérieures) l’anima possa adottare nei confronti dei fantasmi che le appaiono davanti e quale comportamento interiore (agir intérieur) sia da attuarsi: occorre passare da un agire a un “comunicare con” (communiquer avec). È un passaggio decisivo del viaggio orfico nel profondo. L’anima comprende di dover trasformare il proprio atteggiamento interiore nei confronti delle immagini che incontra (che sono solo sue materializzazioni di ricordi): non deve agire (ossia oggettivarle in cose, pensieri) ma comunicarecon, passando da un piano materiale, il piano del possesso e dell’avere, dell’io centrato su se stesso, al piano del noi, della comunità con altri. Non deve relazionarsi con il corpo ma con l’anima delle immagini che le si presentano. L’anima che scende negli inferi e che incontra le persone che ha amato è quella di Orfeo, insieme, quella di Marcel. L’errore di Orfeo è stato quello di 29

JM 401.

aver oggettivato l’immagine di Euridice e di essersi voltato ad osservarla, ossessionato dal ricordo (non era con il corpo dell’immagine ma con la sua anima che doveva comunicare) e Marcel sembra avvertire se stesso di questo doppio pericolo. Un altro pericolo che si presenta è di considerare la scomparsa dell’essere amato come una perdita. Ma si perde solo ciò che si è posseduto. Quindi, più l’essere scomparso sarà pensato come essere meno sarà inteso come possesso e come cosa e la sua assenza sentita come perdita. Con un essere inteso come cosa non posso formare un vero noi: la comunità che l’io è originariamente, è un noi. Salvaguardando il noi, rimango in una comunicazione vivente con l’altro. È proprio per amore dell’altro che devo liberarmi dal pensiero assillante della perdita, occorre invece salvaguardare la sua trascendenza. L’altro è presente nell’atto con il quale io mi libero non di lui, ma dell’idolo che gli ho sostituito immobilizzandolo. L’anima ha dunque imparato che non deve agire ma comunicare con le presenze degli esseri amati. Ma comunicare come? Non secondo l’idea di una comunicazione di ordine fisico, come di un filo che collega due stazioni radio. Non si tratterà di cercare qualcuno dall’altro capo del filo o qualcuno di là. L’egli che invoco è in realtà un tu, e basterà un semplice “sei tu?”, “eccoti” “sei proprio tu”. L’incontro con la persona amata è il vero approdo della ricerca orfica, il vero fine dell’anima finalmente rischiarata dalla luce dell’altro che può dire: “sei tu, proprio tu”. Il rischio di amare. Il tema dell’amore e della comunicazione vivente con le persone amate, non è solo il senso profondo di Presenza e

Immortalità ma è il vero filo rosso che percorre tutta la produzione marceliana, al pari della grande filosofia russa da Šestov a Solov’ëv. Esso è presente fin dai primi frammenti filosofici che Marcel scrisse a inizio Novecento, dove l’accento è subito posto sulla dialettica di liberazione che l’amore mette in moto: «l’amore è l’atto di una libertà che ne afferma un’altra»30. E ricompare anche in uno degli ultimi saggi scritti un po’ di anni prima della sua morte: Notes pour une philosophie de l’amour del 195431. Marcel dichiara che risulta impossibile dare una definizione concettuale dell’amore e rischiararne l’essenza, perché si tratta di un’esperienza che porta al decentramento dell’io e all’apertura all’altro: «c’è un certo sapere dell’amore che, confrontato con ciò che chiamiamo solitamente sapere, si presenta come un non-sapere (…) la consapevolezza che possiamo avere dell’amore non si lascia rendere intellettualisticamente»32. Ma quella di Marcel non è una filosofia che vuole oggettivare l’amore o la sua essenza, al contrario ne riconosce l’irriducibilità ad ogni concetto e tentativo di classificazione: «una topografia dell’amore è impossibile, come lo è d’altronde una topografia dell’anima»33. 30

Fragment philosophique, 1909-1914. GABRIEL MARCEL, Per una filosofia dell’amore, in Il pensiero dell’altro, a cura di FRANCO RIVA, Edizioni Lavoro, Roma 1999, pp. 3-11. 32 Ivi, pp. 5-6. 33 Ivi, p. 7. 31

Marcel rifiuta ogni sorta di intelligibilità dell’amore, pena una sua riduzione a concetto ed essenza. L’unica via che rimane aperta è quella dell’empirismo superiore di Schelling: «se l’amore può essere accostato, è al di là dei limiti della filosofia negativa. E a Schelling concederò anche che qui ha diritto di parola soltanto un empirismo superiore senza il quale d’altronde, la rivelazione non sarebbe in nessun modo pensabile. Soltanto questo empirismo ci costringe a riconoscere che hic et nunc, cioè nel mondo concreto in cui dobbiamo aprirci il cammino attraverso una penombra che può infittirsi fino a diventare tenebre, l’amore non può diventare principio di intelligibilità radicale»34. Marcel conclude attestando l’impossibilità di pensare l’amore, perchè: «tutto in lui ci rinvia –però in una confusione che la ragione è incapace di mettere in ordine– ad un immemoriale tragicamente sommerso, ma niente affatto eliminato»35. Sommerso come la testa di Orfeo nel fiume dell’esistenza. Il cui canto risuona eternamente come un amare infinito. Sommerso come la testa di chi mette in gioco tutto se stesso e rischia di incontrare altri. Rischiando di vivere. Rischiando. Di amare. 34 35

Ivi, p. 9. Ivi, p. 11.

NOTA EDITORIALE

Viene qui offerta al lettore l’opera di Gabriel Marcel Présence et immortalité, pubblicata nel 1959 presso Flammarion. Il volume, nella sua versione originale, comprendeva in appendice (pp. 195-234) un frammento teatrale, nucleo di una pièce dal titolo L’insondable mai portata a termine. Il filosofo si riferisce a quest’opera in un passo della “Prefazione”, motivando in modo deciso tale scelta inusuale nel contesto di un testo filosofico. Per la presente traduzione ci si è attenuti alla nuova edizione dell’opera pubblicata nel 2001 dall’Associazione “Présence de Gabriel Marcel” di Parigi, che non riproduce l’appendice teatrale ed espunge quindi dalla “Prefazione” il passo cui si è accennato. Nel pieno rispetto di tale scelta, si è inteso –nello stesso tempo– valorizzare il discorso puramente filosofico di Gabriel Marcel, nella consapevolezza, comunque, dell’importanza che il pensatore attribuiva al teatro. La sua ampia produzione teatrale, infatti, era da lui considerata strettamente legata alla sua riflessione filosofica, anzi, irrinunciabile e imprescindibile per la gestazione e comprensione di quest’ultima, come emerge nel passo riportato nella nota 1, che recupera il passaggio espunto. In nota si troveranno anche i riferimenti bibliografici che favoriscono la comprensione dei rinvii ad altre opere da parte del filosofo. Eventuali errori del testo francese risultano presenti anche nell’edizione originale, che i curatori non hanno voluto correggere.

PRÉSENCE ET IMMORTALITÉ

PRESENZA E IMMORTALITÀ

Le mythe d’Orphée et d’Eurydice est au cœur même de mon existence.

AVANT-PROPOS

de 1959

Sans doute n’est-il pas superflu d’apporter ici quelques éclaircissements sur la préoccupation fondamentale qui a présidé à la composition du présent volume. On a souhaité qu’il traduise aussi distinctement que possible les aspects divers mais étroitement solidaires d’une œuvre qui presque toujours a été considérée selon une perspective déterminée plutôt que dans son unité: il faut d’ailleurs reconnaître que cette unité n’est pas en tant que telle d’un accès facile. La plus grande partie de ce volume est occupée par un Journal que j’ai tenu de façon d’ailleurs intermittente, surtout dans ma maison de Corrèze, pendant la seconde guerre mondiale. Ce Journal est la suite de ceux qui ont été publiés en 1927 (Journal Métaphysique) et en 1934 (Etre et Avoir, Première partie). Tous ceux qui ont étudié sérieusement ma pensée savent qu’à partir d’une certaine date qu’on peut situer vers 1925, j’ai renoncé de façon délibérée à composer une œuvre philosophique systématique. Ma pensée m’est apparue de plus en plus comme un cheminement parfois hasardeux comportant des tâtonnements, des arrêts, des reprises, des remises en question. Lorsque je publiai le Journal Métaphysique, j’étais loin d’être assuré qu’il trouverait des lecteurs. L’expérience a montré que mes craintes n’étaient pas fondées et que, dans des pays très divers, des esprits étaient prêts à m’accompagner dans ce qui ressemble beaucoup à un voyage de découvertes.

Il mito di Orfeo e di Euridice si pone proprio al cuore della mia esistenza.

Prefazione (1959) Non è sicuramente superfluo premettere alcuni chiarimenti sulla preoccupazione fondamentale che sta alla base del presente volume: è nato con l’auspicio di riuscire a tradurre il più chiaramente possibile gli aspetti diversi ma strettamente connessi di un’opera considerata quasi sempre da una prospettiva determinata anziché nella sua unità. Non si può non riconoscere d’altronde che questa unità in quanto tale non si lascia cogliere facilmente. Questo libro è costituito per la maggior parte da un mio Diario scritto, anche se in modo discontinuo, durante la seconda guerra mondiale, soprattutto nella mia casa di Corrèze. Esso rappresenta la continuazione dei diari pubblicati nel 1927 (Journal métaphysique*) e nel 1934 (Être et avoir*, Prima parte). Tutti coloro che si sono seriamente occupati del mio pensiero sanno che a partire da un certo momento, collocabile verso il 1925, ho volutamente rinunciato a realizzare un’opera filosofica sistematica: il mio pensiero mi si è presentato piuttosto sempre più come un cammino talvolta rischioso, caratterizzato da un ripetuto brancolare, da momenti di arresto e di ripresa, da discussioni. Quando ho pubblicato il Journal métaphysique ero ben lontano dall’essere certo che avrebbe avuto dei lettori. I miei timori non erano fondati, lo ha dimostrato l’esperienza, e uomini di riflessione di Paesi molto diversi erano pronti ad accompagnarmi in quello che assomiglia molto a un viaggio di scoperta.

Surtout depuis la fin de la seconde guerre mondiale, j’ai été amené à faire de très nombreuses conférences, non seulement en Europe, mais au Liban, en Afrique du Nord, au Canada, en Amérique du Sud et au Japon. Chacune de ces conférences peut être considérée comme une tentative de mise au point portant sur ce qui s’était d’abord présenté à moi sous la forme du Journal. On trouvera ici le texte de deux conférences inédites, l’une datant de 1937 et destinée à l’Université de Gand, n’a pas été livrée au public, la seconde, qui date de 1951, a été faite à Rabat, à Sao Paulo, et dans quelques autres villes sud-américaines. La première présente un caractère extrêmement général et m’a paru propre à éclairer le lecteur peu familier avec ma pensée sur les caractères généraux de celle-ci. La seconde aborde directement le problème central qui est au cœur de ce livre: c’est ce que j’ai appelé quelque part les Prémices Existentielles de l’Immortalité, celle-ci étant considérée non point du tout dans la ligne de la philosophie traditionnelle, mais dans la perspective de la mort d’autrui, de la mort de l’être aimé. Il va de soi d’ailleurs que cette question n’est pas séparable de tout un contexte métaphysique qui apparaît clairement dans le Journal. [...]* Il me semble qu’on méconnaîtrait radicalement les caratères propres de ma pensée, telle qu’elle s’exprime en particulier dans ces Journaux de Corrèze, si on ne comprenait qu’elle est avant tout cheminement sur une crête au-dessus d’un abîme. Ceci est resté vrai, même après ma conversion, car on se fait en vérité de la Foi une idée bien pauvre et bien caricaturale si on imagine qu’elle est une sorte de talisman ou de porte-bonheur, alors qu’elle est une vie, une vie où la joie et l’angoisse se coudoient continuellement, une vie qui restera jusqu’au terme menacée par la seule tentation dont en dernière analyse nous ayons à nous garder, et qui est celle du désespoir.

Ho avuto l’occasione, soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, di tenere in Europa ma anche in Libano, in Africa settentrionale, in Canada, in America meridionale e in Giappone moltissime conferenze, ciascuna delle quali può essere considerata come un tentativo di puntualizzare ciò che in un primo momento mi si era presentato nella forma del Diario. Sono qui raccolti i testi di due conferenze inedite: una, datata 1937 e destinata all’Università di Gand, non è stata proposta al pubblico, mentre la seconda, risalente al 1951, è stata fatta a Rabat, a San Paolo e in qualche altra città sudamericana. La prima, essendo estremamente generale, mi è sembrata adatta per chiarire al lettore che ha poca familiarità con il mio pensiero le sue linee di fondo. La seconda affronta direttamente il problema centrale che si pone al cuore di questo libro: si tratta di ciò che in qualche luogo della mia opera ho chiamato le Primizie Esistenziali dell’Immortalità, non considerata affatto nella linea della filosofia tradizionale, ma nella prospettiva della morte dell’altro, della morte dell’essere amato. Ne consegue inevitabilmente, d’altronde, che tale questione non si può separare da un contesto metafisico complessivo che nel Diario emerge chiaramente. Ciò che caratterizza il mio pensiero, così come trova espressione in particolare nei Diari di Corrèze, verrebbe misconosciuto in modo radicale se non si comprendesse che è prima di tutto un cammino su un crinale al di sopra di un abisso. Rispetto a questo nulla è cambiato dopo la mia conversione. Ci si fa infatti un’idea alquanto povera e alquanto caricaturale della Fede se viene immaginata come una sorta di talismano o di portafortuna, mentre è una vita, una vita in cui la gioia e l’angoscia stanno continuamente l’una a fianco all’altra, una vita che fino alla fine resterà sotto la minaccia dell’unica tentazione dalla quale, in ultima analisi, dobbiamo guardarci: quella della disperazione.

MON PROPOS FONDAMENTAL

(1937)

IL MIO INTENTO FONDAMENTALE

(1937)

1937. En cherchant à dégager, en vue d’une conférence que je dois faire à Gand dans le cours des prochains mois, certains thèmes essentiels de ma pensée philosophique, j’ai été amené à reconnaître d’une façon qui m’a moi-même quelque peu déconcerté à quel point celle-ci est difficilement exposable ex-cathedra. Ceci tient à des raisons multiples sur lesquelles je me vois tenu d’insister; je crois devoir repérer certains obstacles auxquels se heurte nécessairement quiconque prétend donner de mon œuvre une idée d’ensemble. La première difficulté, relativement superficielle mais dont j’aurai à découvrir les racines profondes, consiste en ce que mon œuvre philosophique ne se laisse pas réellement dissocier de mon théâtre. En effet, celui-ci ne constitue nullement une illustration ou une traduction d’un certain corps de pensées qui lui pré-existerait et aurait été d’abord exposé sous une forme abstraite. En réalité, comme l’ont vu les meilleurs interprètes de ma pensée, il faut accorder au drame une véritable primauté dans mon œuvre. Combien de fois j’ai anticipé dans mes pièces sur des conclusions auxquelles je ne devais parvenir que plus tard sur le plan philosophique! Rien de plus caractéristique à cet égard que la scène finale de l’Iconoclaste, où est reconnue la valeur positive du mystère. Mais peu importe, me dira-t-on; ces conclusions, rien ne vous empêche de les isoler du contexte dramatique dans lequel primitivement elles se trouvaient engagées et de les formuler dans leur pureté abstraite. – Ici, il faut prendre garde: les plus importantes, les plus significatives de mes pièces, le Quatuor, l’Iconoclaste, le Chemin de Crête, et surtout les Cœurs Avides, s’achèvent sur un accord complexe, sur une harmonie à laquelle le spectateur – ou le lecteur – est convié à participer, mais qui ne se laisse pas réduire en formules

1937. Nel tentativo di chiarire alcuni temi fondamentali del mio pensiero filosofico, in vista di una conferenza che devo tenere a Gand nei prossimi mesi, mi sono reso conto, in un modo che ha un po’ sconcertato anche me stesso, fino a che punto esso si possa difficilmente esporre ex cathedra, per molteplici ragioni sulle quali mi pare opportuno insistere. Ritengo di dover individuare alcuni ostacoli contro i quali urta inevitabilmente chiunque abbia la pretesa di offrire un’idea d’insieme della mia opera. La prima difficoltà, relativamente superficiale ma di cui dovrò scoprire le radici profonde, consiste nel fatto che la mia opera filosofica non si lascia realmente dissociare dal mio teatro. Quest’ultimo, infatti, non costituisce affatto un’esemplificazione o una traduzione di un insieme di riflessioni ad esso preesistenti, già esposte in un primo momento in forma astratta. In realtà, come i migliori interpreti del mio pensiero hanno compreso, bisogna attribuire al dramma una vera priorità nella mia opera. Quante volte nelle mie pièce ho anticipato conclusioni alla quali filosoficamente sarei giunto soltanto in un momento successivo! In questo senso nulla è più significativo della scena finale de L’Iconoclaste, dove viene riconosciuto il valore positivo del mistero. Non è importante, mi si dirà: nulla le impedisce di isolare queste conclusioni dal contesto drammatico nel quale originariamente svolgevano un ruolo, e di formularle nella loro purezza astratta. – Su questo bisogna fare attenzione: le più importanti, le più significative tra le mie opere teatrali, Le Quatuor*, L’Iconoclaste*, Le chemin de crête*, e soprattutto Les cœurs avides*, si concludono con il raggiungimento di un accordo complesso, di un’armonia alla quale lo spettatore – oppure il lettore – è invitato a partecipare, ma che non si lascia ridurre in formule senza venire in qualche misura

sans s’altérer à quelque degré. Comme le dit un personnage du Quatuor, «cette pensée en laquelle nous ne fûmes qu’un seul, va-t-elle mourir dans les mots?» Il appartient au drame comme à la musique de réaliser par-delà la connaissance discursive proprement dite, une conscience supérieure en laquelle notre être se trouve introduit dans son intégrité, et qui transcende les énonciations abstraites dont l’intelligence pure est obligée de se contenter. C’est vers des consonances de cet ordre que ma pensée philosophique est orientée. Elle est polyphonique par essence, et s’oppose par là radicalement à toutes les idéologies plus ou moins directement issues de la pensée philosophique française du XVIIIe siècle. Mais il y a plus, lorsque je tente de procéder par rapport à mes propres écrits, comme je le ferais s’il s’agissait de rendre compte de la philosophie d’un autre, ce qui m’apparaît comme une démarche non seulement licite, mais recommandable, je me trouve en présence de graves difficultés. Quand je me reporte à mes écrits anciens, j’y reconnais comme par transparence les pensées essentielles que je tente d’exprimer depuis dix ans. Le langage est tout autre cependant, et je ne puis m’empêcher de me demander si je n’y projette pas abusivement un sens que ces écrits ne présentaient pas à l’époque où je les rédigeais. Ceci contribue d’ailleurs à me rendre assez sceptique quant à la valeur de beaucoup de travaux d’histoire de la philosophie qui impliquent justement des réinterprétations dont on ne peut dire au juste si elles sont ou non légitimes. Je pourrais à vrai dire faire table rase de ces écrits anciens. Mais il me faut avouer que mon embarras est plus fondamental encore. Il me sera, je pense, toujours impossible de présenter rien qui ressemble à une exposition ou à des maquettes dont chacune serait une théorie plus ou moins adroitement raccordées aux théories voisines. C’est qu’en

alterata. Come afferma un personaggio del Quatuor, “il pensiero nel quale raggiungemmo l’unità troverà la morte nelle parole?”. Caratteristico sia del dramma che della musica è realizzare, al di là della conoscenza discorsiva propriamente detta, una superiore consapevolezza nella quale il nostro essere si trova introdotto nella sua interezza, e che trascende le affermazioni astratte delle quali deve necessariamente accontentarsi l’intelligenza pura. Il mio pensiero filosofico è orientato proprio verso consonanze di questo tipo, è polifonico per essenza, e si contrappone perciò radicalmente a tutte le ideologie basate, più o meno direttamente, sul pensiero filosofico francese del XVIII secolo. Ma c’è dell’altro. Mi scontro con gravi difficoltà quando tento di rapportarmi ai miei scritti come farei se dovessi rendere conto della filosofia di un altro – modo di procedere che mi sembra non soltanto ammissibile, ma auspicabile. Quando ritorno ai miei vecchi scritti, vi ritrovo come in controluce le riflessioni fondamentali che tento di esprimere da dieci anni, anche se il linguaggio è completamente diverso. Non posso quindi fare a meno di chiedermi se forse non si tratti di una proiezione indebita su di essi di un significato non presente all’epoca il cui li ho elaborati. Questo contribuisce d’altronde a rendermi alquanto scettico sul valore di molti lavori di storia della filosofia che implicano proprio reinterpretazioni la cui legittimità non si può stabilire con precisione. A essere sincero, potrei fare tabula rasa di quei vecchi scritti, ma devo confessare che questo mi provoca un imbarazzo ancora più profondo. Non riuscirò mai, penso, a presentare qualcosa di simile a un’esposizione oppure ad abbozzi delle singole teorie, raccordati più o meno abilmente con le teorie vicine. È questo il punto: in realtà non mi

réalité il ne me paraît pas que la recherche philosophique comporte, au même sens que l’investigation scientifique, un acquis que l’esprit ne remet pas en question et d’où il part pour étendre ses conquêtes. Je tends à croire qu’il est de l’essence d’une pensée philosophique vivante de remettre toujours à quelque degré en question les conclusions auxquelles elle est peu à peu parvenue. Ceci risque de paraître au premier abord non seulement décourageant, mais désespérant, et il me faut y insister. Il m’est souvent arrivé de concentrer mon attention sur ces deux mots: mon système ou ma philosophie, et d’être saisi d’une sorte d’effroi en présence de leur caractère dérisoire. Ceci s’est toujours traduit par la gêne insupportable que j’éprouve lorsqu’on me demande – ce sont en général des femmes du monde – de dire en quelques mots «en quoi consiste ma philosophie». Cette requête suffit à anéantir la conscience que j’en puis avoir. Il me semble que j’ai toujours senti, sans peut-être me le formuler à moi-même avec cette netteté, que la philosophie par définition n’est pas et ne peut pas être quelque chose qu’on détient, qu’on a. Aucun philosophe digne de ce nom n’a pu, je pense, appréhender sa propre doctrine comme apanage ou comme possession, si ce n’est au cours de polémiques, où il la voyait prise à parti et où il avait à la défendre comme on défend sa peau. Mais il faudrait se demander si à partir du moment où elle est ainsi traitée comme avoir, une philosophie ne se dégrade pas, ne se mue pas en son propre cadavre. Question difficile et que je me borne ici à poser. Mais, objectera-t-on, n’est-il pas de l’essence d’une recherche philosophique de tendre vers la constitution d’un ensemble de propositions cohérentes et fortement liées? Renoncer à cet idéal, n’est-ce pas réduire cette recherche à n’être qu’un jeu formel, un exercice stérile? La philosophie

sembra che la ricerca filosofica comporti, così come accade invece per l’investigazione scientifica, un’acquisizione che il pensiero non mette in questione, e che costituisce il punto di partenza per ampliare le sue conquiste. Tendo a credere che per essenza un pensiero filosofico vivente riconsideri sempre, in qualche misura, le conclusioni alle quali è man mano giunto, cosa che in prima battuta rischia di sembrare non soltanto fonte di scoraggiamento, ma anche di disperazione. Su questo devo insistere. Spesso mi è successo di concentrare la mia attenzione su due espressioni, il mio sistema oppure la mia filosofia, e di essere colto da una sorta di terrore di fronte al loro carattere derisorio. Tutto ciò si è sempre tradotto nel fastidio insopportabile che provo quando mi viene chiesto – in genere si tratta di donne di mondo – di spiegare in poche parole “in che cosa consista la mia filosofia”. Una tale richiesta è sufficiente per annientare la consapevolezza che posso averne. Ho sempre ritenuto, mi sembra, pur senza formularlo a me stesso, forse, in modo così netto, che per definizione la filosofia non è e non può essere qualcosa che si possiede, che si ha. Nessun filosofo degno di questo nome ha potuto concepire la sua propria dottrina, penso, come privilegio o come possesso, tranne in occasione di polemiche in cui veniva presa di mira, e in cui doveva perciò difenderla come si difende la propria pelle. Bisognerebbe chiedersi, tuttavia, se a partire dal momento in cui una filosofia è trattata in questo modo, cioè come un avere, non si snaturi, non diventi il corpo morto di se stessa. Problema difficile, qui soltanto posto. Potrebbe essere mossa un’obiezione, però: mirare a dare vita a un insieme di proposizioni coerenti e strettamente connesse non è forse proprio dell’essenza di una ricerca filosofica? Rinunciare a questo ideale non vuol dire invece ridurre tale ricerca a un puro gioco formale, a uno sterile esercizio? Se non è ricerca, la filosofia non è nulla, però cercare

n’est rien, si elle n’est pas une recherche, mais chercher, c’est espérer trouver, c’est tendre vers du définitif. Il faut ici pénétrer beaucoup plus avant et écarter bien des malentendus. Certes, la philosophie est essentiellement une recherche, et cette recherche est celle de la Vérité. Mais ce mot présente une foncière ambiguïté que nous nous devons à nous-même de déceler. La Vérité, au sens philosophique de ce mot, est incommensurable avec les vérités particulières qu’il est donné au savant de découvrir au terme de ses patientes investigations. Il importe de voir pourquoi il en est ainsi. Le propre d’une vérité particulière, de quelque ordre qu’elle soit, est d’être strictement formulable, et elle risque même de se confondre avec l’énoncé en lequel elle se résume, ou plus exactement de n’opposer aucune résistance à cette confusion qui est peut-être une corruption. Pour autant qu’elle est prise en soi, c’est-à-dire indépendamment de la recherche dont elle est l’aboutissement, elle tend à apparaître comme extérieure au sujet. Là est la racine du scientisme, entendu comme dégradation de la science véritable. Le rôle de la réflexion philosophique sera de faire apparaître le caractère fallacieux de toute vérité particulière si elle est réduite à un élément isolable du savoir. On pourra montrer plus profondément que le savoir, s’il est conçu comme un mode de possession, tend à se muer en non-savoir, et qu’une dégradation de cette sorte est au contraire impensable là où il s’agit non du savoir, mais du comprendre. Il convient encore d’observer – et toutes ces remarques sont convergentes – qu’une vérité particulière est une vérité impersonnelle; sa valeur de vérité et son caractère d’impersonnalité sont inséparables. Si j’affirme que la conclusion à laquelle je suis parvenu est vraie, je veux dire que tout autre à ma place procédant correctement, c’est-à-dire en confor-

significa sperare di trovare, significa tendere verso qualcosa di definitivo. A questo punto bisogna spingersi molto oltre e fare piazza pulita di molti malintesi. La filosofia è certamente, per essenza, ricerca, e ricerca della Verità, ma questo termine è profondamente ambiguo. Abbiamo quindi il compito di rendere chiara a noi stessi tale ambiguità. La Verità nel senso filosofico del termine è incommensurabile con le verità particolari che lo scienziato può scoprire grazie alle sue pazienti investigazioni. È importante capire perché le cose stanno così. Una verità particolare, di qualunque tipo sia, ha come caratteristica di poter essere formulata in modo rigoroso, e rischia perfino di confondersi con l’enunciato che la sintetizza o, per essere più precisi, di non opporre nessuna resistenza a questa confusione che è forse una forma di corruzione. Nella misura in cui viene considerata per se stessa, cioè indipendentemente dalla ricerca di cui costituisce il punto d’arrivo, tende ad apparire come esterna al soggetto. È questa la radice dello scientismo, inteso come degradazione della vera scienza. La riflessione filosofica avrà il compito di evidenziare il carattere ingannevole di ogni verità particolare quando viene ridotta a un elemento isolabile del sapere. Andando più in profondità si potrà far emergere che il sapere, se concepito come una forma di possesso, tende a diventare non-sapere, e che una degradazione di questo tipo è al contrario impensabile nel caso in cui si tratti del comprendere, non del sapere. Si deve rilevare inoltre – ma tutte queste osservazioni convergono in una stessa direzione – che una verità particolare è una verità impersonale: il suo valore di verità e il fatto di essere impersonale sono inseparabili. Quando affermo che la conclusione alla quale sono giunto è vera, intendo dire che chiunque altro al mio posto, procedendo correttamente,

mité avec une certaine logique impersonnelle, y serait parvenu comme moi; je n’y suis pour rien, ma personnalité n’entre pas en ligne de compte. Il peut se faire que j’aie bénéficié d’une intuition privilégiée en cours de route, mais cette intuition m’a seulement découvert un chemin repérable sur lequel n’importe qui pourra s’engager à ma suite. En dernière analyse, les conditions accidentelles dans lesquelles j’ai découvert ce chemin n’ont pas d’importance, elles ne sont susceptibles que d’intéresser le psychologue ou l’historien. C’est ce que j’exprimerai en disant que les vérités particulières relèvent de la pensée en général (au sens de Kant). On sera d’abord tenté de prétendre que ceci est plus vrai encore pour les vérités dites générales. Mais c’est ici qu’il convient de prendre garde. Il est bien certain que si par vérités générales on entend certaines relations qui seraient dégagées par abstraction des vérités particulières auxquelles nous conduisent les différentes disciplines scientifiques – c’est-à-dire ce qu’on appelle généralement des principes, au sens cartésien par exemple, – il est certain, dis-je, que ces principes relèvent aussi de la pensée en général. Mais il s’agit de savoir si ce sont des principes de ce genre que la philosophie prise dans son essence se propose d’établir. Il y a là surtout à vrai dire une question de définition. Mais la philosophie telle qu’avec beaucoup d’autres contemporains je l’ai toujours comprise, est orientée vers des fins très différentes. Je dirai d’abord d’un mot, que la vérité vers laquelle aspire la recherche philosophique est par essence impossédable; d’aucune manière, elle ne peut être considérée ou traitée comme un avoir. C’est ce que je voulais dire en 1910-1914, lorsque je soutenais que la métaphysique est avant tout une philosophie de la participation, et j’ai été très frappé de constater au Congrès de Philosophie de Paris (1937) que Louis Lavelle

cioè in conformità con una certa logica impersonale, avrebbe conseguito il mio stesso risultato. Io non conto nulla, la mia personalità non viene presa in considerazione. Può capitare che strada facendo io abbia beneficiato di un’intuizione privilegiata, che però mi ha soltanto aperto un cammino ben determinato nel quale chiunque altro, venendo dopo di me, potrà impegnarsi. In ultima analisi le condizioni fortuite nelle quali ho scoperto questo cammino non hanno importanza, sono degne di attenzione soltanto per lo psicologo o lo storico. Esprimerò tutto ciò dicendo che le verità particolari sono proprie del pensiero in generale (così come lo intende Kant). In un primo momento si avrà la tentazione di sostenere che questo è ancora più vero se riferito alle verità chiamate generali, ma è proprio su questo che bisogna stare in guardia. Se per verità generali si intendono alcune relazioni individuate per astrazione dalle verità particolari alle quali ci conducono le varie discipline scientifiche – generalmente vengono chiamati principi, ad esempio in senso cartesiano –, questi principi fanno parte anch’essi del pensiero in generale. Si tratta di sapere, però, se sono principi di questo tipo che la filosofia considerata nella sua essenza si propone di stabilire. Un problema di definizione: è soprattutto di questo che si tratta, a dire il vero. La filosofia, invece, così come l’ho sempre intesa con molti altri contemporanei, è orientata verso fini molto diversi. Detto molto brevemente, la verità alla quale aspira la ricerca filosofica per essenza non si può possedere: non può essere considerata o trattata affatto come un avere. Intendevo affermare proprio questo quando, nel 19101914, ho sostenuto che la metafisica è prima di tutto una filosofia della partecipazione. Sono stato molto colpito nel costatare, al Congresso di Filosofia di Parigi nel 1937, che

se servait de ce même terme de participation dans une acception sans doute identique – et par conséquent bien différente de celle qu’il reçoit chez Platon. Ce dont il est question ici, c’est de la participation de la pensée à l’être. Oui, dès le moment où s’introduit le mot participation, nous sommes conduits à substituer le terme être au terme vérité. Il faut cependant ici encore écarter tout malentendu. Autrefois, j’affirmais inconsidérément ce que j’appelais la transcendance de l’être par rapport à la vérité. C’est là une façon dangereuse et inacceptable de s’exprimer. Je déclarerais plutôt aujourd’hui que l’être et la vérité sont identiques, mais à condition de marquer, comme je l’ai fait plus haut, l’incommensurabilité de la Vérité par rapport aux vérités finies auxquelles la science nous donne accès, c’est-à-dire de reconnaître explicitement que les méthodes de vérification par rapport auxquelles une vérité se définit, sont ici inutilisables. La transcendance de l’être, c’est celle de la vérité, par rapport à ces méthodes et à ces vérités partielles. Je voudrais maintenant creuser quelque peu autour de cette affirmation qui, prise dans sa nudité abstraite, risque de sembler presque inintelligible. Si, à l’idée trop vague, trop ample de connaissance, nous substituons celle de lecture nous comprendrons très bien comment, sous la matérialité objective d’un texte qui est là pour tout le monde, peuvent se cacher des sens hiérarchisés qui se décèleront successivement au lecteur s’il est doué d’une puissance de pénétration suffisante. C’est encore trop peu dire: Ce qui intervient ici, c’est une volonté d’interprétation qui ne se satisfait pas d’une signification superficielle et prétend chercher au-delà. Le propre d’un sens est de ne se révéler qu’à une conscience qui s’ouvre pour l’accueillir; il est en quelque manière une réponse à une certaine attente, active et persévérante, ou plus exactement à une exigence.

Louis Lavelle utilizzava proprio il medesimo termine partecipazione in un’accezione sicuramente identica – e quindi ben diversa da quella platonica. Il problema che qui si pone è quello della partecipazione del pensiero all’essere. È proprio così: dal momento in cui viene introdotto il termine partecipazione, siamo portati a sostituire il termine essere al termine verità. Anche in questo caso, però, bisogna eliminare ogni malinteso. In passato sostenevo sconsideratamente quella che chiamavo la trascendenza dell’essere rispetto alla verità: si tratta di un modo pericoloso e inaccettabile di esprimersi. Oggi direi piuttosto che l’essere e la verità sono identici, ma a condizione di sottolineare, come ho fatto prima, l’incommensurabilità della Verità in rapporto alle verità finite che la scienza ci mette nelle condizioni di raggiungere, cioè di riconoscere esplicitamente che in questo caso i metodi di verifica in relazione ai quali è possibile definire una verità sono inutilizzabili. Rispetto a questi metodi e a queste verità parziali la trascendenza dell’essere è quella della verità. Vorrei ora approfondire un po’ questa affermazione che, considerata nella sua nudità astratta, rischia di sembrare quasi incomprensibile. Se all’idea troppo vaga, troppo ampia di conoscenza sostituiamo quella di lettura capiamo benissimo come nella materialità oggettiva di un testo che è a disposizione di tutti possono nascondersi significati gerarchizzati che al lettore, se dotato di una sufficiente capacità di penetrazione, si sveleranno in momenti successivi. Non basta affermare: in questo caso interviene una volontà di interpretazione che non si accontenta di un significato superficiale e pretende di cercare al di là. Il significato ha questo di caratteristico: si rivela soltanto a una coscienza che si apre per accoglierlo. È in qualche modo una risposta a una certa attesa, attiva e perseverante, o, più esattamente, a un’esigenza.

La hiérarchie des sens est fonction de celle des exigences. Mais ce qui est vrai de la lecture d’un texte, s’applique presque exactement à la recherche philosophique telle que je l’entends. Elle est en réalité un déchiffrage. Gardons ce mot en mémoire: le déchiffrage musical nous offre ici un terme de comparaison meilleur encore. Voici une partition, il y a là des signes dont la valeur est rigoureusement définie pour quiconque connaît le système de notation musicale courant; cette lecture-là correspond à ce que j’ai appelé la pensée en général. Mais il s’agira pour le musicien, qu’il soit ou non exécutant, d’interpréter ces signes, de découvrir le sens musical de ce qui n’est d’abord qu’un cryptogramme, c’est-à-dire de procéder à une véritable création à laquelle il est expressément invité ou appelé par l’existence même de la partition. Recréation plutôt que création, me fera-t-on observer. – Ceci est à la fois vrai et faux. Pour le compositeur qui possède une conscience parfaitement distincte de ce qu’il a non seulement voulu mais entendu, il s’agit bien de recréation ou même de reproduction. Mais le lecteur ou l’exécutant étant par définition dépourvu de cette connaissance préalable, ne peut compter que sur lui-même, sur sa puissance d’intuition sympathique propre. Il lui faudra se donner, s’ouvrir à ce mystère dont il n’a devant lui que la maigre trace sensible et objective. Mais cette interprétation créatrice à laquelle il tend, c’est une participation effective à l’inspiration même du compositeur. J’attache la plus grande importance à cette comparaison, car elle permet de reconnaître directement qu’il existe un ordre situé à la fois au-delà de ce qui ne serait que valable, mais également au-delà de ce qui ne serait qu’une subjectivité entendue en un sens psychologique et privatif. Il est en effet bien clair qu’il y a une certaine réalité de Schumann ou de Chopin, par exemple, que l’interprète doit incarner, à laquelle il doit se soumettre activement, mais qui ne se laisse

La gerarchia dei significati è in relazione a quella delle esigenze. Ciò che è vero della lettura di un testo, però, si applica quasi esattamente alla ricerca filosofica così come la intendo io: si tratta in realtà di una decifrazione. Ricordiamoci di questo termine: la decifrazione musicale costituisce un termine di confronto ancora migliore. Consideriamo uno spartito: vi sono dei segni il cui valore è definito in modo rigoroso per tutti coloro che conoscono il sistema di notazione musicale corrente. Questa lettura corrisponde a quello che ho chiamato il pensiero in generale. Il musicista, però, esecutore oppure no, dovrà interpretare questi segni, scoprire il senso musicale di quello che in un primo momento non è che un crittogramma, vale a dire dovrà realizzare una vera creazione alla quale è esplicitamente invitato o chiamato dall’esistenza stessa della partitura. Ri-creazione piuttosto che creazione, mi si farà notare, con un’affermazione nello stesso tempo sia vera che falsa. Per il compositore che è perfettamente consapevole non soltanto di ciò che ha voluto, ma anche sentito, si tratta proprio di ri-creazione o anche di riproduzione. Il lettore o l’esecutore, invece, essendo sprovvisto per definizione di questa conoscenza preliminare, può contare soltanto su se stesso, sulla sua capacità di intuizione simpatetica. Dovrà affidarsi, aprirsi a questo mistero di cui ha di fronte solo la magra traccia sensibile e oggettiva. L’interpretazione creatrice alla quale tende, però, è un’effettiva partecipazione all’ispirazione stessa del compositore. Attribuisco una grandissima importanza a questo confronto, poiché permette di riconoscere in modo diretto che esiste un ordine situato nello stesso tempo sia al di là di ciò che è soltanto valido sia, allo stesso modo, al di là di una soggettività intesa solamente in senso psicologico e privativo. Esiste infatti, senza ombra di dubbio, una certa realtà di Schumann o di Chopin, ad esempio, che l’interprete deve incarnare, alla quale deve sottostare attivamente, ma che

traduire en aucune formule du type de celles qui traduisent les vérités particulières. Le propre de cette réalité est de pouvoir être méconnue ou trahie; oui, il est de son essence de ne pas s’imposer à l’esprit avec la force contraignante d’un texte ou d’une loi physique. Pourtant on commettrait la plus lourde erreur en cherchant à réduire cette réalité à un simple état subjectif, à une disposition fugitive; ce serait là ignorer ce qui donne à une œuvre son poids, sa valeur, sa vertu. Reconnaître qu’une compréhension peut être inégalement profonde, c’est implicitement établir une hiérarchie dans l’appréhension qui s’ordonne par rapport à l’être et non par rapport au valable. Et sans doute devrais-je, pour mieux me faire entendre, pousser plus loin l’analyse de l’idée de validité: elle n’est pas séparable de celle d’utilisation. On montrerait sans peine que le pragmatisme n’a pu s’introduire qu’à la faveur d’une confusion systématique entre vérité et validité. Il y a, je crois, tout intérêt pour notre propos à mettre en lumière l’aspect pratique de la notion de validité, à prendre par exemple comme repère la validité d’un billet de chemin de fer ou de théâtre. Le billet donne droit à tel trajet ou à telle représentation dans des conditions déterminées. Une formule scientifique est applicable elle aussi, bien qu’en un sens différent, dans des conditions nettement spécifiées. Validité implique toujours spécification. D’où il suit que nous tendrons à nous représenter la formule comme jouant à la façon d’un déclic automatique qui se produit quand on presse tel bouton. Que ce ne soit là que du savoir dégradé, je l’ai dit expressément et j’y insiste; mais dans ce registre, cette dégradation tend à se produire presque inévitablement, et seul l’exercice de la réflexion, c’est-à-dire de l’esprit en tant que liberté, peut contrepeser efficacement ce qu’il faut bien regarder comme un processus de sclérose spirituelle pure et simple.

non si lascia tradurre in nessun formula come quelle che traducono le verità particolari. Caratteristico di questa realtà è poter essere misconosciuta o tradita: per essenza, non si impone allo spirito con la forza vincolante di un testo o di una legge fisica. Si commetterebbe un gravissimo errore, però, cercando di ridurre tale realtà a un semplice stato soggettivo, a una disposizione passeggera: significherebbe ignorare ciò che conferisce a un’opera il suo peso, il suo valore, la sua virtù. Riconoscere che un atto di comprensione può essere profondo a livelli diversi significa stabilire implicitamente una gerarchia nell’apprensione che ha di mira non ciò che è valido ma l’essere. Per rendere maggiormente comprensibili le mie parole dovrei certamente andare oltre con l’analisi dell’idea di validità, che non è separabile da quella di utilizzazione. Emergerebbe senza difficoltà che il pragmatismo ha potuto farsi strada soltanto grazie a una sistematica confusione tra verità e validità. Per avvalorare ciò che mi propongo, penso vada messo in luce l’aspetto pratico del concetto di validità, prendendo come riferimento, ad esempio, la validità di un biglietto del treno o del teatro. Il biglietto dà diritto a un certo tragitto oppure a una certa rappresentazione in condizioni determinate. Una formula scientifica è anch’essa applicabile, anche se in un senso differente, in condizioni nettamente definite: validità implica sempre specificazione. Quindi saremo portati a pensare la formula come se funzionasse allo stesso modo di uno scatto automatico prodotto quando si schiaccia un certo bottone. Non si tratta di nient’altro che di sapere degradato: l’ho detto chiaramente e insisto. In questo registro, però, una tale degradazione tende a realizzarsi quasi inevitabilmente, e soltanto la riflessione, cioè il pensiero in quanto libertà, può fare da efficace contrappeso a quello che bisogna considerare proprio come un processo di pura e semplice sclerosi spirituale.

Concentrons notre attention sur ces mots de liberté et de réflexion. Liberté d’abord. Une philosophie digne de ce nom, ne peut être qu’une philosophie de la liberté, et cela en un double sens. D’une part, la philosophie, c’est la pensée axée sur la Liberté, la pensée qui se donne la Liberté elle-même pour contenu. D’autre part, la liberté ne peut être pensée que par la liberté, elle se crée ou se constitue elle-même en se pensant. Il y a là une sorte de cercle que la réflexion se doit de reconnaître et qui n’a rien de vicieux. La notion d’une liberté qui se démontrerait elle-même ou qu’on pourrait faire sortir d’un déterminisme dialectique est une pseudo idée dont la réflexion montre qu’elle est contradictoire. J’ajouterai que de mon point de vue, l’opposition qu’on a voulu parfois établir entre philosophie de l’être et philosophie de la liberté ne peut être maintenue. Elle ne se justifierait que si, «réalisant» imaginativement l’être, on l’identifiait à la substance telle que se la sont représentée les épigones de la philosophie médiévale ou ses adversaires systématiques. Une authentique philosophie de l’être n’est pas une philosophie de la chose, comme l’a cru Renouvier, elle n’est pas non plus, comme l’a pensé Bergson, une philosophie du statique; il est manifeste à mes yeux que l’être, tel que l’ont conçu les grands métaphysiciens, transcende l’opposition du statique et du dynamique. Le terme de réflexion marque plus nettement encore par où ma pensée se sépare du bergsonisme ou tout au moins de l’interprétation qui en est donnée communément. Je pense que la méthode philosophique est réflexive par excellence. Mais il s’agit ici d’une réflexion du second degré qui s’exerce beaucoup moins sur la conscience immédiate

Concentriamo ora l’attenzione sulle parole libertà e riflessione. Libertà, innanzitutto. Una filosofia degna di questo nome non può essere che una filosofia della libertà, e in un duplice significato. La filosofia è da una parte il pensiero centrato sulla Libertà, il pensiero che si dà la Libertà stessa come contenuto, dall’altra la libertà può essere pensata però soltanto attraverso la libertà, essa stessa si crea o si costituisce pensandosi. Ci troviamo di fronte a una sorta di circolo che la riflessione deve riconoscere e che non ha nulla di vizioso. Il concetto di una libertà che dimostrerebbe se stessa o che si potrebbe far uscire da un determinismo dialettico è una pseudo idea di cui la riflessione fa emergere la contraddizione. Dal mio punto di vista, inoltre, l’opposizione che si è voluto individuare talvolta tra filosofia dell’essere e filosofia della libertà non può essere conservata. Potrebbe avere un fondamento solo se, “realizzando” l’essere attraverso l’immaginazione, lo si identificasse con la sostanza così come l’hanno pensata gli epigoni della filosofia medievale oppure i suoi avversari sistematici. Un’autentica filosofia dell’essere non è una filosofia della cosa, come ha pensato Renouvier, ma non è neppure, come ha pensato Bergson, una filosofia di ciò che è statico. È chiaro, secondo me, che l’essere così come lo hanno concepito i grandi metafisici trascende la contrapposizione tra statico e dinamico. Il termine riflessione mette ancora più chiaramente in rilievo in che cosa il mio pensiero si differenzia dal bergsonismo o almeno dall’interpretazione che ne viene offerta correntemente. Penso che il metodo filosofico sia riflessivo per eccellenza, nel senso però di una riflessione di secondo grado che si esercita molto meno sulla coscienza immediata

que sur les premières médiations par lesquelles celle-ci se constitue comme expérience. Quel sera dès lors le point de départ de la recherche ainsi conçue? Ce sera la considération de la situation fondamentale dans laquelle je me trouve placé en tant qu’être humain – ne disons pas encore en tant que créature – de par ma condition d’homme elle-même. Ici apparaît en pleine lumière l’opposition d’une philosophie de type existentiel et d’une philosophie de type cartésien – ceci bien qu’il y ait peut-être chez Descartes, mais non chez ses successeurs, des indications qui pourraient être exploitées dans un sens non cartésien. Néanmoins le cogito, comme plus tard la pensée en général chez Kant, est exempt de tout indice anthropologique. La situation ou la condition humaine n’est, pour cette pensée impersonnelle, qu’un objet de considération comme un autre, elle est traitée par elle comme ne l’affectant pas; mais dans cette mesure elle se supprime comme situation ou comme condition. Suppression fictive; abstraction par laquelle la pensée s’interdit l’accès à l’être. Ici, je ne saurais trop marquer mon accord avec Heidegger et avec Jaspers – avec Jaspers surtout qui a mis un accent si fort sur les situations limites, celles-ci ne pouvant être qu’éclairées, mais non motivées ou même expliquées, si par explication on entend une déduction quelconque à partir d’autre chose qu’elles. Je crois devoir citer ici une note sur l’inquiétude qui est déjà ancienne et qui me semble susceptible d’éclairer le sens profond de mon effort. Inquiétude métaphysique. Il me semble bien qu’une métaphysique n’est rien si elle n’est pas l’acte par lequel une inquiétude se définit, et partiellement – mystérieusement – se supprime ou du moins se transpose. Inquiétude: mais quelle inquiétude? J’entends d’abord par là quelque chose qui n’est pas une curiosité. Etre curieux, c’est à partir d’un

che sulle prime mediazioni grazie alle quali quest’ultima si costituisce come esperienza. Quale sarà allora il punto di partenza di una ricerca così concepita? La considerazione della situazione fondamentale in cui mi trovo collocato in quanto essere umano in virtù della mia stessa condizione di uomo – non ancora in quanto creatura, non lo si può dire –. Si evidenzia così chiaramente la contrapposizione tra una filosofia di tipo esistenziale e una filosofia di tipo cartesiano, e questo nonostante in Cartesio, ma non nei suoi successori, siano presenti, forse, indicazioni che potrebbero essere sfruttate in senso non cartesiano. Tuttavia il cogito, così come successivamente il pensiero in generale in Kant, è privo di ogni indice antropologico. Nella prospettiva di questo pensiero impersonale la situazione o condizione umana è soltanto un oggetto da considerare alla stregua di un altro, è trattata come se non lo riguardasse. In questo modo, però, viene soppressa come situazione o come condizione. Soppressione fittizia, astrazione con la quale il pensiero impedisce a se stesso l’accesso all’essere. Non potrò mai esagerare il mio accordo con Heidegger e con Jaspers su questo – soprattutto con Jaspers, che ha posto l’accento in modo così forte sulle situazioni limite, le quali possono solo essere chiarite ma non giustificate oppure anche spiegate, se per spiegazione si intende una qualsiasi deduzione a partire da qualcosa d’altro rispetto alle situazioni stesse. A questo punto è opportuno citare un appunto sull’inquietudine di molto tempo fa, utile però per chiarire il senso profondo del mio tentativo. Inquietudine metafisica. Mi sembra proprio che una metafisica non sia nulla se non è l’atto con il quale un’inquietudine si definisce, e in parte – misteriosamente – scompare o almeno prende un’altra direzione. Inquietudine: ma quale inquietudine? Mi riferisco innanzitutto a qualcosa d’altro rispetto a una curiosità. Essere curioso significa sporgersi, a

certain centre immobile, se tendre pour saisir, pour étreindre un objet dont on ne se faisait qu’une représentation confuse et schémative. Je dirai en ce sens que toute curiosité est tournée vers la périphérie. Au contraire, être inquiet, c’est n’être pas sûr de son centre, c’est chercher son centre, son équilibre. Ceci est vrai dans tous les sens du mot inquiétude. Si je suis inquiet au sujet de la santé d’un de mes proches, cela veut dire que les doutes ou les craintes que j’entretiens à propos d’elle tendent à détruire ma stabilité intérieure. Une curiosité tend d’autant plus chez moi à devenir une inquiétude que l’objet sur lequel elle porte, fait davantage partie de moi, qu’il est plus étroitement lié à mon confort moral. (Ce mot confort, dirai-je aujourd’hui, est d’ailleurs insuffisant. Il s’agit d’un certain ordre, faute duquel je ne me possède plus.) D’autre part une inquiétude est d’autant plus métaphysique qu’elle concerne plus directement ce qui ne peut être séparé de moi-même et au sens fort aliéné sans que moimême je m’anéantisse. Il y a un sens où il est vrai de dire que le seul problème métaphysique, c’est: que suis-je? Et qu’à celui-là les autres se ramènent: même le problème de l’existence des autres s’y réduit. Quelque chose de puissant et de secret m’assure que si les autres ne sont pas, je ne suis pas non plus; que je ne peux pas m’attribuer une existence que les autres ne posséderaient pas; et ici je ne peux pas ne signifie pas je n’ai pas le droit, mais bien, cela m’est impossible. Si les autres m’échappent, je m’échappe à moi-même, car ma substance est faite d’eux. Cette inquiétude métaphysique, puis-je dire que je l’éprouve comme un état actuellement donné? Je dirai simplement qu’une circonstance peut se présenter où je prendrai conscience d’une inquiétude qui, à la réflexion, m’apparaîtra comme débordant infiniment cette circonstance même; elle

partire da un certo centro immobile, per cogliere, per afferrare un oggetto di cui si aveva una rappresentazione soltanto confusa e schematica. In questo senso direi che la curiosità è sempre rivolta verso la periferia. Essere inquieto, al contrario, significa non essere certo del proprio centro, cercare il proprio centro, il proprio equilibrio: è vero del termine inquietudine in tutti i suoi significati. Se sono inquieto per la salute di uno dei miei cari vuol dire che i dubbi o i timori che essa mi provoca tendono a distruggere la mia stabilità interiore. In me una curiosità tende tanto più a diventare un’inquietudine quanto più l’oggetto al quale si riferisce fa parte di me, quanto più è strettamente legato al mio comfort morale. (Oggi affermerei che il termine comfort è comunque insufficiente. Si tratta di un certo ordine senza il quale non sono più in possesso di me stesso). D’altronde un’inquietudine è tanto più metafisica quanto più si riferisce in modo diretto a ciò che non può essere separato da me stesso, e che non può essere alienato in senso forte, senza che io stesso mi annienti. Da un certo punto di vista si è nel vero affermando che l’unico problema metafisico è: che cosa sono io? E a esso vanno ricondotti anche gli altri problemi, compreso quello dell’esistenza degli altri, che vi si riduce. Qualcosa di potente e di segreto mi garantisce che se gli altri non sono, non sono neppure io. Mi assicura inoltre che non posso attribuirmi un’esistenza che gli altri non potrebbero possedere: in questo caso non posso non significa che non ho il diritto, ma piuttosto che mi è impossibile. Se gli altri mi sfuggono, io sfuggo a me stesso poiché è di loro che la mia sostanza è fatta. Di questa inquietudine metafisica posso affermare che la vivo come uno stato di questo momento? Semplicemente, può presentarsi una circostanza in cui prenderò coscienza di un’inquietudine che alla luce della riflessione mi sembrerà traboccare infinitamente questa stessa circostanza. Essa

présente un caractère de permanence, elle n’est pas liée à tel ou tel maintenant; bien plus, aussitôt qu’elle se formule, elle s’étend à tous les êtres que je peux regarder comme participant à la même expérience que moi; je ne pourrai pas ne pas les regarder comme éprouvant en droit cette même inquiétude qui est la mienne. Mais, pourra-t-on objecter, l’inquiétude n’est-elle pas considérée traditionnellement comme un état d’esprit antiphilosophique, par opposition à une sérénité, à une ataraxie qui se définira d’ailleurs assez différemment dans les diverses écoles philosophiques? Je répondrai que si la philosophie tend en effet universellement à l’instauration d’une certaine paix intérieure, d’une certaine harmonie, il n’en est pas moins vrai que celles-ci ne sauraient être données à l’origine. Ce qui est donné c’est l’aspiration vers elles, et cette aspiration ne peut pas ne pas être éprouvée comme nostalgie, c’est-à-dire comme inquiétude. La seule question est de savoir si on estime devoir ou non mettre l’accent sur ce trouble initial. Plus une philosophie sera conceptuelle, plus elle croira devoir jeter un voile sur ce qu’elle regardera comme un simple événement subjectif dont il s’agit d’extraire le contenu intelligible. Mais à la réflexion cette simple question d’accent se révèle capitale, car ce qui est en cause ici, c’est la valeur, positive ou non, qui sera conférée à l’indice personnel. Une philosophie de type hégélien qui poussera jusqu’au bout l’idée d’une dialectique interne du concept, posera ou tendra à poser en principe que la personne est le simple théâtre en quelque manière accidentel sur lequel se déroule cette dialectique dans sa pureté, elle fera ainsi abstraction du retentissement que celle-ci peut avoir en fait sur une certaine vie du sujet empirique. Ce sera tout au moins pour elle un idéal – mais que renie en tant que tel une philosophie comme celle dont je viens de tracer quelques linéaments.

si presenta come permanente, non è legata a un certo adesso. Piuttosto, non appena è esplicitata, viene estesa a tutti gli esseri che posso ritenere siano partecipi della mia stessa esperienza: non potrò non considerare che provino di diritto la mia stessa inquietudine. Nella tradizione, si obietterà, l’inquietudine non è forse considerata uno stato d’animo antifilosofico, contrapposto alla serenità, all’atarassia, definita d’altronde in modi alquanto diversi nelle varie scuole filosofiche? La filosofia, in effetti, tende universalmente a instaurare una certa pace interiore, una certa armonia. Non è meno vero però che pace e armonia non possono essere date originariamente. All’origine è data l’aspirazione a esse, aspirazione che non può non essere vissuta come nostalgia, vale a dire come inquietudine. L’unico problema è sapere se si ritiene di dovere o meno mettere l’accento su questo turbamento iniziale. Più una filosofia sarà concettuale e più riterrà di dover stendere un velo su ciò che considererà un semplice evento soggettivo di cui estrarre il contenuto intelligibile. Alla luce della riflessione, tuttavia, questo semplice problema di accento si rivela capitale, poiché a essere in causa è il valore, positivo o no, conferito all’indice personale. Una filosofia di tipo hegeliano, che spingerà all’estremo l’idea di una dialettica interna del concetto, porrà o tenderà a porre come principio che la persona è il semplice teatro, in qualche modo accidentale, sul quale si svolge tale dialettica nella sua purezza. Farà quindi astrazione dalle ripercussioni che l’inquietudine può di fatto avere su certi aspetti della vita del soggetto empirico. Si tratterà almeno di un ideale, ma rinnegato in quanto tale da una filosofia come quella che ho appena delineato.

Etre inquiet, ai-je dit, c’est chercher son centre. Mais ces mots marquent suffisamment que la philosophie telle que je la conçois est un développement qui ne se poursuit pas seulement à l’intérieur du sujet considéré comme organisme spirituel, mais encore dans la réalité dont ce sujet est en quelque sorte la fin – je serai même tenté de dire l’enjeu, tant ce développement me paraît assimilable à une partie ou à un drame. Mais c’est trop peu dire encore. Le terme de sujet est trop ambigu; celui de personne serait préférable si on n’en avait fâcheusement abusé au cours de ces dernières années. Il serait préférable dans la mesure où il s’oppose à celui d’individu. La pensée philosophique la plus authentique me semble se situer à la jointure de soi et d’autrui. Quelque chose de puissant et de secret m’assure, je le répète, que si les autres ne sont pas, je ne suis pas non plus. Certes, il y a là une évidence qui n’a pas été universellement reconnue et qu’un certain idéalisme en particulier a tendu à récuser; reste à savoir ce que valent les postulats sur lesquels il se fonde. «Y a-t-il lieu, ai-je demandé naguère (Etre et Avoir, p. 156), de poser en droit la priorité de l’acte par lequel le moi se constitue comme soi, par rapport à celui par lequel il pose la réalité des autres? Cette priorité ne peut, je pense, être affirmée qu’en vertu d’une confusion que d’ailleurs Kant a déjà décelée. Je noterai en passant qu’aucun texte philosophique ne m’a plus fortement impressionné que celui où le philosophe américain W. E. Hocking, dans son livre The Meaning of Good in human experience, a établi que nous ne pouvons en réalité concevoir une saisie d’autrui qui ne soit pas justement celle qui est la nôtre et qui confère à notre expérience son poids humain. Quand je parle de jointure de soi et d’autrui, il faut bien entendu se garder de toute spatialisation indue: nous ne

Essere inquieto, dicevo, significa cercare il proprio centro: queste parole mettono sufficientemente in rilievo che la filosofia così come io la concepisco è uno sviluppo che non si realizza soltanto all’interno del soggetto considerato come organismo spirituale, ma anche nella realtà di cui questo soggetto è in qualche modo il fine – avrei la tentazione di dire addirittura la posta in gioco, a tal punto questo sviluppo mi sembra assimilabile a una parte o a un dramma. Non ho ancora detto abbastanza, però. Il termine “soggetto” è troppo ambiguo. “Persona”, nella misura in cui si contrappone a “individuo”, sarebbe preferibile, se in questi ultimi anni non se ne fosse abusato in modo fastidioso. Il pensiero filosofico più autentico si pone, mi pare, nello snodo tra sé e l’altro. Qualcosa di potente e di segreto mi assicura, lo ripeto, che se gli altri non sono, non sono neppure io. Certo, si tratta di un’evidenza che non è stata universalmente riconosciuta e che un certo idealismo in particolare ha avuto la tendenza a ricusare. Resta da analizzare la validità dei postulati sui quali si fonda. “È possibile, mi sono chiesto in passato, porre di diritto la priorità dell’atto con il quale l’io si costituisce come sé rispetto a quello con il quale pone la realtà degli altri?” (Etre et Avoir, p. 156). Questa priorità può essere affermata, penso, solo in virtù di una confusione che Kant ha d’altronde già individuato. Osservo di sfuggita che nessun testo filosofico mi ha impressionato più di quello del pensatore americano W. E. Hocking, The Meaning of God in Human experience*, in cui ha stabilito che noi in realtà non possiamo concepire un atto di cogliere l’altro che non sia nostro, cosa che conferisce alla nostra esperienza il suo peso umano. Bisogna guardarsi da qualsiasi spazializzazione indebita quando parlo di articolazione tra sé e l’altro: non possiamo

pouvons admettre un seul instant qu’il existe une sorte de démarcation ou de suture entre un domaine qui serait celui du soi et un autre qui serait celui d’autrui. Ce que nous enseignent non seulement l’histoire de la philosophie, mais l’étude des œuvres littéraires, en tant que contributions à la connaissance de l’homme, c’est que le monde des autres s’éclaire d’une lumière de plus en plus intense à mesure que le moi élucide davantage et plus héroïquement ses propres ténèbres. Une puissante tradition philosophique représentée par exemple de nos jours par Léon Brunschvicg tend à instituer une distinction fondamentale entre ce qui est propre à chacun de nous et ce qui nous est commun à tous et présente par là même un caractère rationnel. Je ne prétends pas que cette discrimination soit impraticable, mais je crains qu’elle ne soit inféconde, qu’elle ne relève de ce que j’appellerai volontiers une psychologie plane qui ignore la dimension qui est par excellence celle de la vie spirituelle: la profondeur. On retrouverait ici ce que j’ai dit plus haut des sens et des exigences. La singularité en nous ou en autrui peut toujours à coup sûr être étiquetée bizarrerie et reléguée dans on ne sait quel débarras; mais elle peut aussi se présenter à nous comme un appel à une compréhension plus intime, à une communication plus étroite; elle peut nous inviter comme insidieusement à un renouvellement, à une refonte de nos catégories, au lieu que les caractères communs ou généraux, par le fait même qu’ils se laissent reconnaître, classer, répertorier, ne font que déclencher les opérations les plus habituelles et par conséquent les moins enrichissantes de notre intelligence. J’observerai en passant que cette remarque, qui est à coup sûr dans la ligne des vues critiques les plus profondes d’un Gide, est à la base même de tout mon théâtre. De cet ensemble de réflexions, on peut tirer les conclusions suivantes: plus nous nous efforcerons de communi-

ammettere, neppure per un solo istante, che esista una sorta di demarcazione o di sutura tra un ambito che sarebbe quello del sé e un ambito che sarebbe quello dell’altro. Non soltanto la storia della filosofia ma anche lo studio delle opere letterarie, in quanto contribuiscono alla conoscenza dell’uomo, ci insegnano che il mondo degli altri si illumina di una luce sempre più intensa man mano che l’io rischiara sempre più, e sempre più eroicamente, le sue proprie tenebre. Una potente tradizione filosofica, rappresentata attualmente da Léon Brunschvicg, ad esempio, tende a stabilire una distinzione fondamentale tra ciò che è proprio di ciascuno di noi e ciò che è comune a tutti, e presenta quindi per ciò stesso un carattere razionale. Non sostengo che tale differenziazione sia impraticabile, ma temo che non sia feconda, che dipenda da quella che chiamerò volentieri una psicologia piatta che ignora la dimensione propria per eccellenza della vita spirituale: la profondità. A questo punto si ritrova quello che ho affermato prima dei significati e delle esigenze. L’originalità, in noi o nell’altro, può sempre essere etichettata a colpo sicuro come bizzarria, ed essere relegata in qualche angolo. Può anche presentarsi a noi, però, come un appello a una comprensione più intima, a una comunicazione più profonda: può invitarci, in qualche modo insidiosamente, a un rinnovamento, a un rifacimento delle nostre categorie, mentre le caratteristiche comuni o generali, per il fatto stesso che possono essere riconosciute, classificate, repertoriate, non fanno altro che attivare le operazioni più abituali, e che di conseguenza arricchiscono meno la nostra intelligenza. Questa osservazione, che è sicuramente in linea con le prospettive critiche più profonde di un Gide, è proprio alla base, lo dico en passant, di tutto il mio teatro. Da tutte queste riflessioni si possono trarre alcune conclusioni: quanto più ci sforzeremo di comunicare con noi stessi

quer avec nous-mêmes, j’entends par là avec ce qui en nous paraît d’abord le plus réfractaire à une certaine pénétration intelligente, plus nous nous libérerons de l’automatisme qui n’est qu’une ankylose du jugement; d’autre part, dans la mesure où nous nous abandonnons à cet automatisme, l’autre cesse d’être saisi comme autre, il n’est plus qu’un assemblage d’abstractions avec lequel nous ne pouvons entretenir aucune communication vivante. Mais cette non-communication comporte pour nous-mêmes la plus lourde rançon; elle se traduit par une déperdition souvent inconsciente, et qui porte sur une certaine qualité irradiante dont la présence ou l’absence est immédiatement saisissable pour l’intuition. Sans doute m’opposera-t-on le fait que certains êtres très spontanés et d’ailleurs incapables de percer leurs propres ténèbres intérieures – à supposer qu’elles existent – sont précisément les plus aptes à communiquer avec autrui. J’en demeure d’accord. Mais cette facilité de communication est imputable chez les êtres dont nous parlons, au fait qu’ils sont à peu près exempts de ce qu’on regarde trop souvent comme une supériorité: la conscience de soi, entendue au sens péjoratif du mot anglais self-conscious. C’est à la conscience de soi qu’est liée l’inaptitude à communiquer, ou plus exactement au fait que celle-ci demeure contractée et comme crispée. On pourrait donc, semble-t-il, distinguer deux niveaux où la communication devient réelle: l’un étant celui de la naïveté ou de ce que l’on pourrait appeler l’esprit d’enfance qui précède la conscience de soi, l’autre, infiniment plus élevé, où celle-ci a en quelque sorte triomphé d’elle-même. Le philosophe a par définition derrière lui comme un paradis perdu. (Cet état de spontanéité pure est celui de l’enfant, de l’enfant qui aborde sans effort au rivage d’autrui.) Il ne peut songer à rétrograder en-deçà de la conscience de soi; c’est donc au contraire par un effort de dépassement qu’il peut espérer rétablir des voies de communications en quel-

– e mi riferisco a ciò che in noi sembra, in un primo momento, più refrattario a una certa penetrazione della comprensione – tanto più ci libereremo dell’automatismo, che non è nient’altro che un’anchilosi del giudizio. Nella misura in cui ci affidiamo a questo automatismo, d’altra parte, l’altro cessa di essere colto come altro: è soltanto un assemblaggio di astrazioni con il quale non possiamo intrattenere nessuna comunicazione vivente. Una tale non-comunicazione, però, comporta per noi stessi il prezzo più caro: si traduce in una dispersione spesso priva di consapevolezza, e che riguarda una certa qualità irradiante la cui presenza o assenza può essere colta in modo immediato con l’intuizione. Mi si obietterà che alcuni esseri molto spontanei, e incapaci d’altronde di aprirsi un varco tra le loro proprie tenebre interiori – supponendo che esistano –, sono proprio i più adatti a comunicare con l’altro. Sono d’accordo, ma negli esseri di cui parliamo questa facilità nel comunicare è dovuta al fatto che sono più o meno privi di quella che viene considerata troppo spesso una qualità superiore: la consapevolezza di sé, intesa nel senso peggiorativo dell’espressione inglese self-conscious. L’incapacità di comunicare è legata alla consapevolezza di sé o, più esattamente, al fatto che la coscienza stessa rimane contratta e come tesa. Sembra si possano distinguere dunque due livelli in cui la comunicazione diventa reale: uno è quello della spontaneità, o del cosiddetto spirito d’infanzia che precede la consapevolezza di sé, l’altro, infinitamente più elevato, in cui quest’ultima ha in qualche modo trionfato su se stessa. Il filosofo ha alle sue spalle, per definizione, una sorta di paradiso perduto. (Questo stato di spontaneità pura è quello del bambino, del bambino che attracca senza fatica alla riva dell’altro.) Non può pensare di ritornare al di qua della coscienza di sé, ed è dunque invece con uno sforzo di superamento che può sperare di riaprire vie di comunicazione

que sorte obturées. Encore faut-il qu’il entreprenne cette exploration avec le désir, bien plus, avec l’intention arrêtée de déboucher dans un monde de pensée concrète où il se retrouvera de plain-pied avec son prochain, où il le verra dans une lumière purifiée que le jour blafard des relations quotidiennes permet à peine de pressentir. A mon sens, l’engagement philosophique dont il n’a pas encore été explicitement parlé se situe précisément là. Par opposition à une certaine volonté d’hermétisme dont tel penseur contemporain n’est peut-être pas toujours exempt et qui est surtout discernable chez beaucoup de poètes, je dirai que le philosophe tel que je le conçois doit pousser à la limite la volonté de communication. Mais celle-ci ne peut s’exercer efficacement que par un détour. Philosophiquement, le chemin qui mène de moi à l’autre, passe par mes propres profondeurs. Ceci ne.veut d’ailleurs pas dire que celles-ci soient accessibles à l’introspection livrée à ses seules ressources. Il est même permis de penser que dans ce registre la part qui revient à l’introspection est relativement réduite. Bien plus considérable est celle de l’expérience au sens large, c’est-à-dire de l’épreuve de soi-même au contact de la vie; épreuve qui peut affecter les modalités les plus diverses, parfois les plus déconcertantes. En ce qui me concerne, je suis tenu de reconnaître, comme je l’ai dit en commençant, que cette épreuve a pris le plus souvent la forme de la création dramatique; comme si mes personnages étaient les réactifs essentiels conjurés par une certaine imagination supra-consciente pour permettre à ma pensée la plus intime de procéder à une cristallisation dont elle n’aurait pas été capable toute seule, j’entends par là livrée aux seules ressources de l’ego. Et par là se précise le lien que j’établissais au début entre mon œuvre dramatique et ma recherche proprement philosophique.

in qualche modo bloccate. Inoltre bisogna che intraprenda questa esplorazione con il desiderio, anzi, con la ferma intenzione di sbucare in un mondo di pensiero concreto in cui si ritroverà allo stesso livello del suo prossimo, e in cui lo vedrà in una luce purificata che il chiarore livido delle relazioni quotidiane consente a malapena di presentire. Secondo me, l’impegno filosofico, al quale non si è ancora fatto esplicito riferimento, si situa proprio là. In opposizione a un certo ermetismo ricercato, da cui un certo pensatore contemporaneo non è sempre esente, forse, e che si ritrova soprattutto in molti poeti, dirò che secondo la mia concezione il filosofo deve spingere fino al limite la volontà di comunicazione. Quest’ultima, però, può essere realizzata in modo efficace soltanto seguendo una deviazione: filosoficamente, il cammino che conduce da me all’altro passa attraverso le parti più profonde di me stesso. Questo non significa però che si possa accedere a tali profondità con le sole risorse dell’introspezione, anzi, non si cade in errore pensando che in questo ambito all’introspezione spetta un ruolo relativamente limitato. Ben più considerevole è il ruolo dell’esperienza in senso ampio, cioè della prova di se stesso a contatto con la vita, prova che può assumere le modalità le più diverse, talvolta le più sconcertanti. Per quanto mi riguarda, devo riconoscere, come ho detto all’inizio, che tale prova ha assunto la maggior parte delle volte la forma della creazione drammatica: come se i miei personaggi fossero i reagenti essenziali nati dal complotto di una certa immaginazione al di là coscienza, per permettere al mio pensiero più intimo di procedere a una cristallizzazione che non avrebbe potuto realizzare da solo, vale a dire confidando nelle sole risorse dell’ego. E così si precisa il legame da me stabilito all’inizio tra la mia opera drammatica e la mia ricerca propriamente filosofica.

JOURNAL MÉTAPHYSIQUE

(1938-1943)

A Jacques DURON Affectueusement G .M.

GIORNALE METAFISICO (1938-1943)

A Jacques Duron Affettuosamente G. M.

Paris, janvier 1938. Je voudrais m’interroger ici sur ce que nous entendons spontanément par une idée profonde ou un sentiment profond. Une idée profonde: ne serons-nous pas d’abord tentés de dire qu’elle se qualifie par son contenu? Une idée profonde porterait sur une réalité cachée, non sur une simple apparence. Mais cette interprétation ne mène pas bien loin: d’abord parce que la réflexion montre que la distinction entre apparence et réalité ne porte sans doute pas sur des objets, ou sur des régions objectivement différenciées. On peut se demander si ce que nous appelons réalité n’est pas un autre mode de position de ce qui, dans certaines conditions, se présente comme simple apparence. Je me placerai à un point de vue phénoménologique, et me demanderai ce qui se passe quand une idée ou une pensée se présente à moi comme profonde, c’est-à-dire comme affectée d’un certain indice qui fait défaut aux idées courantes, usuelles, à celles qui constituent mon équipement de tous les jours. Il est important de remarquer que l’idée profonde ne se donne pas à moi essentiellement comme insolite, tout au moins si insolite veut dire bizarre; ou plus exactement peut-être faudrait-il dire que l’étrangeté ne suffit pas à caractériser l’idée profonde en tant que telle. Il y a en effet une étrangeté dans l’ordre spirituel qui peut se comparer à celle d’une disposition, d’un assemblage éphémère – un assemblage de nuées, par exemple. Cette étrangeté-là ne va pas sans la conscience d’une conjonction fortuite, donc précaire. Il y a des pensées qui sont bien de cet ordre: je songe à des paradoxes tels que ceux qu’on rencontre à chaque instant chez un Oscar Wilde. Il faut pourtant noter que l’étrangeté peut ici faire illusion. Comment cela? Manifestement à la faveur d’un effet de perspective; dans la mesure précise

Parigi, gennaio 1938. Cosa intendiamo, spontaneamente, per idea profonda o sentimento profondo? È questo l’interrogativo che vorrei pormi. Un’idea profonda: in un primo momento non siamo forse portati ad affermare che è il suo contenuto a qualificarla? Un’idea profonda dovrebbe riferirsi non a una semplice apparenza, ma a una realtà nascosta. Una tale interpretazione non conduce molto lontano, però: innanzitutto perché riflettendo emerge che la distinzione tra apparenza e realtà non riguarda affatto degli oggetti, oppure ambiti oggettivamente differenziati. Sorge una domanda: ciò che chiamiamo realtà non è forse un altro aspetto di ciò che, in certe condizioni, si presenta come semplice apparenza? È un punto di vista fenomenologico quello che assumerò, e mi chiederò che cosa succeda quando un’idea, o un pensiero, mi si presenta come profonda, cioè come gravata da una certa caratteristica che manca alle idee correnti, usuali, a quelle che costituiscono il mio bagaglio di tutti i giorni. L’idea profonda – è importante sottolinearlo – non mi si presenta come essenzialmente insolita, almeno se insolito significa bizzarro; o, più esattamente, forse la stranezza non basta per caratterizzare l’idea profonda in quanto tale. Infatti nell’ordine spirituale esiste una stranezza che può essere paragonata a quella di uno stato d’animo, di un insieme effimero – un assembramento di nuvole, ad esempio. Questo tipo di stranezza non va separato dalla consapevolezza di un’unione fortuita, quindi precaria. Esistono dei pensieri che sono proprio di questo genere: mi riferisco a dei paradossi come quelli che si trovano continuamente in un Oscar Wilde. In questo caso, però, la stranezza può essere fonte di illusione. Com’è possibile? Palesemente, grazie a un effetto prospettico: proprio come un’irregolarità del terreno che

où cette pensée étrange, qui vient à la façon d’un accident de terrain interrompre une certaine platitude ambiante, se donne à nous comme menant peut-être quelque part, comme un chemin possible vers un ailleurs. L’expérience comme toujours ne pourra être ici qu’épreuve: il s’agira pour moi, au lieu de garder par rapport à cette pensée l’attitude spectatrice de l’amateur, de l’adopter activement comme un tremplin, comme une base de départ, pour reconnaître si elle possède ou non une vertu propulsive. Je pourrai aussi me demander si elle se déploie ou se développe quand je m’approche d’elle – ou si au contraire elle garde la décevante, l’indigente immutabilité d’un décor. Nous pouvons voir dès à présent qu’une idée se présente à nous comme profonde pour autant qu’elle paraît déboucher sur un au-delà: celui-ci par définition ne peut être, à parler strictement, donné; il n’est pas non plus inféré, mais seulement pressenti, ou anticipé, à condition que cette anticipation soit plutôt prémonitoire que logique. La métaphore la plus précise qui s’offre à mon esprit est celle d’un chenal qui s’offrirait à nous de biais, comme tendant vers un épanouissement qui n’est encore que soupçonné. C’est ainsi que certains paysages m’ont donné une émotion proprement spirituelle. Je songe aux approches de Raguse, quand on arrive par mer de Corçula. Je serais donc enclin à me demander si l’expérience du profond comme tel ne serait pas liée au sentiment d’une promesse immanente à l’entrevision. Mais il faut pousser l’analyse plus avant. Il ne suffit pas de dire que la pensée qui se donne à nous comme profonde est celle qui nous semble s’entrouvrir sur un certain lointain: il faut encore se demander ce qu’est ce lointain; et ici nous sommes obligés de briser les cadres d’une représentation purement spatiale. Ce lointain n’est pas éprouvé par nous comme un ailleurs, comme un «autre

interrompe una certa monotonia dell’ambiente, nell’esatta misura in cui questo pensiero strano si offre a noi come per condurci da qualche parte, forse, come un possibile cammino verso un altrove. Come sempre, anche in questo caso la cartina di tornasole sarà costituita dall’esperienza: anziché assumere nei confronti di questo pensiero l’atteggiamento da spettatore del dilettante, dovrò farlo mio attivamente come un trampolino, come una base di partenza, per riconoscere se possieda o no una virtù propulsiva. Potrò chiedermi anche se, quando mi avvicino ad esso, si manifesti o si sviluppi – oppure se, al contrario, mantenga la deludente, misera immutabilità di un ornamento. Diventa subito chiaro che un’idea si presenta a noi come profonda in quanto sembra sfociare in un aldilà, che per definizione non può, rigorosamente parlando, essere dato; non è neppure inferito, ma soltanto presentito, o anticipato, a condizione che questa anticipazione sia piuttosto premonitrice che logica. La metafora più adatta che mi viene in mente è quella di un canale visto di sbieco, e che prosegue poi il suo corso secondo un tragitto soltanto intravisto. È per questo che alcuni paesaggi mi suscitano una vera e propria emozione spirituale. Penso alle vicinanze di Ragusa, quando si arriva da Korcula per mare. Sarei dunque portato a chiedermi se l’esperienza del profondo in quanto tale non sia legata al sentimento di una promessa immanente a ciò che si scorge. Bisogna spingersi oltre con l’analisi, però. Non basta affermare che il pensiero che si presenta come profondo è quello che sembra aprirsi in direzione di un certo orizzonte: è necessario chiedersi anche cosa sia questo orizzonte. E a questo punto siamo costretti a rompere gli schemi di una rappresentazione puramente spaziale. Non sentiamo questo orizzonte come un altrove, come un “altro luogo”:

part»: je dirais bien plutôt que c’est un «tout près». Il faudrait arriver ici à s’exprimer avec rigueur. C’est au fond la distinction même entre l’ici et l’ailleurs qui est transcendée, ou plus exactement inversée dans ce cas. Comment cela se peut-il? Ce lointain s’offre à nous comme à l’intérieur d’un certain domaine dont je serais tenté de dire qu’il est nostalgiquement nôtre. C’est en effet au mythe de l’exil qu’il faut recourir, je crois, pour penser cette situation qui, du point de vue d’une logique exclusivement spatiale, apparaît contradictoire. Nous devons donc concentrer notre attention sur la condition d’un être qui a conscience de ne pas coïncider avec son ici, ou qui éprouve son lieu comme contingent – par opposition à un certain centre qui serait son lieu réel, mais qui, dans les conditions de fait auxquelles il est soumis, ne peut être évoqué que comme au-delà, comme foyer de nostalgie. On pourrait se référer utilement ici à des expériences enfantines qui sont toutes à base d’imagination affective, et qui gravitent autour d’abris secrets, de jardins mystérieux, etc., de ce que, en un langage métaphysique, j’appellerais un ici absolu, qui serait en même temps un là-bas. Il est naturellement possible que des expériences de cet ordre soient d’autre part justiciables d’une interprétation psychanalytique; mais outre que cette interprétation n’est probablement pas nécessaire, je doute fort qu’elle puisse nous aider à élucider le sentiment du profond. Peut-être objectera-t-on que dans tout ceci nous restons au plan du spatial, c’est-à-dire du métaphorique, et qu’on n’élucide pas le sentiment du profond si on ne parvient pas à le déspatialiser tout à fait. Mais j’observerai que nous avons déjà réalisé ici une déspatialisation partielle dans la mesure où nous avons inversé le rapport normal entre l’ici et l’ailleurs. On pourrait dire qu’un ici absolu ne coïncidant pas avec mon ici contingent n’est dans l’espace que comme

direi piuttosto che si tratta di un “molto vicino”. Su questo bisognerebbe riuscire a esprimersi in modo rigoroso. In fondo in questo caso è la distinzione stessa tra il qui e l’altrove che viene trascesa o, più esattamente, invertita. Com’è possibile? Questo orizzonte si offre a noi all’interno di un certo ambito di cui avrei la tentazione di dire che è nostalgicamente nostro. Infatti è al mito dell’esilio che bisogna fare ricorso, credo, per pensare questa situazione, la quale appare contraddittoria dal punto di vista di una logica esclusivamente spaziale. L’attenzione va puntata dunque sulla condizione di un essere che è consapevole di non coincidere con il proprio qui, o che vive il suo luogo come contingente – in contrapposizione a un certo centro che sarebbe il suo luogo reale ma che, nelle condizioni di fatto alle quali deve sottostare, può essere evocato soltanto come aldilà, come sorgente da cui sgorga la nostalgia. In questo caso potrebbe essere utile riferirsi a esperienze infantili tutte fondate sull’immaginazione affettiva, e che gravitano intorno a rifugi segreti, a giardini misteriosi, ecc.: a ciò che, in un linguaggio metafisico, potrei chiamare un qui assoluto, che si porrebbe nello stesso tempo come un laggiù. Naturalmente è possibile che esperienze di questo tipo vengano giustificate sulla base di un’interpretazione psicanalitica ma, oltre al fatto che probabilmente una tale interpretazione non è necessaria, dubito molto che possa aiutarci a mettere a fuoco il sentimento del profondo. Si obietterà forse che in tutto ciò non andiamo oltre la dimensione spaziale, cioè del metaforico, e che non si chiarisce il sentimento del profondo se non si riesce a despazializzarlo completamente. In realtà, però, abbiamo già realizzato una despazializzazione parziale nella misura in cui abbiamo invertito il normale rapporto tra il qui e l’altrove. Un qui assoluto, che non coincide con il mio qui contingente, esiste nello spazio soltanto come se non ci fosse. [Inoltre dubito

n’y étant pas. [Je doute fort au surplus qu’on puisse pousser à la limite un processus quelconque de déspatialisation. Il y aurait probablement à revenir sur l’opposition instituée naguère par Bergson. Je suis convaincu pour ma part qu’Eugène Minkowski, en introduisant et en élaborant la notion d’espace vécu, a sur ce point réalisé un progrès important par rapport à la pensée bergsonienne initiale. Sans doute trouverait-on, il est vrai, chez Bergson lui-même, des indications orientées dans ce sens, mais il ne me semble pas qu’il les ait exploitées suffisamment1.] II serait intéressant de chercher comment, dans le registre temporel lui-même, un paradoxe analogue semble lié à la saisie du profond. L’idée profonde va loin: cela veut dire qu’elle annonce un cheminement qui ne peut se poursuivre que dans le temps; elle est comme une plongée intuitive dans ce qui ne peut être atteint que grâce à une recherche qui se développe dans la durée. On ne rendrait cependant pas compte de l’indice que j’ai ici en vue en mettant exclusivement l’accent sur le fait qu’une pensée profonde est comme un acompte sur l’avenir; ou plutôt l’avenir qui est ici anticipé n’est en aucun cas évoqué comme pure innovation par rapport aux données actuelles. Il me semble que c’est un avenir qui se raccorde mystérieusement au plus lointain passé; j’allais dire au plus profond passé. C’est qu’en effet, entre passé et profondeur, il existe une affinité certaine. On dirait vraiment, si obscure que soit une pareille notion, que le passé et l’avenir, au sein du profond, se rejoignent dans une zone qui est à ce que j’appelle le présent, ce que l’Ici absolu est à l’ici contingent; et cette zone où le maintenant et le alors tendent à se confondre, comme tout à l’heure le proche et le lointain, c’est à n’en pas douter ce que nous appelons

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Les phrases placées entre crochets ont été rédigées en 1945 et font office de compléments ou d’éclaircissements.

fortemente che si possa spingere fino al limite un qualsiasi processo di despazializzazione. Probabilmente bisognerebbe ritornare sull’opposizione di cui ha parlato recentemente Bergson. Da parte mia sono convinto che Eugène Minkowski introducendo ed elaborando il concetto di spazio vissuto, su questo punto ha fatto un notevole passo avanti rispetto all’iniziale riflessione bergsoniana. Nello stesso Bergson si potranno trovare sicuramente indicazioni che vanno in questa direzione, ma non mi sembra che egli le abbia sfruttate a sufficienza1]. Sarebbe interessante capire come un paradosso analogo sembri legato alla comprensione del profondo quando si passa al piano temporale. L’idea profonda va lontano: significa che annuncia un cammino che si può perseguire soltanto nel tempo; è come un’immersione intuitiva in ciò che può essere raggiunto solamente grazie a una ricerca che si sviluppa nella durata. Mettendo l’accento esclusivamente sul fatto che un pensiero profondo è una sorta di acconto sull’avvenire, non ci si renderebbe conto però dell’aspetto che ho qui considerato; o, piuttosto, l’avvenire qui anticipato non è evocato in nessun caso come pura innovazione rispetto ai dati attuali. Mi sembra che si tratti di un avvenire che si riallaccia misteriosamente al più lontano passato, al più profondo passato, stavo per dire. Il fatto è che tra passato e profondità esiste un’affinità certa. Si potrebbe affermare veramente, per quanto oscuro possa essere un simile concetto, che in seno al profondo il passato e l’avvenire si congiungono in un punto che sta a ciò che chiamo il presente come il Qui assoluto sta al qui contingente. E questa zona in cui l’adesso e l’allora tendono a identificarsi, come prima il vicino e il lontano, è senza ombra di dubbio ciò che chiamiamo l’eternità. Da

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Le affermazioni tra parentesi quadra, che costituiscono integrazioni o chiarimenti, risalgono al 1945.

l’éternité. On serait tenté de dire de ce point de vue que, si mythique, si rationnellement injustifiable qu’elle puisse être lorsqu’on la considère en elle-même, et surtout lorsqu’on s’arrête aux arguments pseudo-scientifiques sur lesquels elle prétend s’étayer, l’idée nietzschéenne du retour éternel non seulement présente un sens, mais nous donne en quelque sorte le diapason même de la profondeur. Il faudrait maintenant se demander si ces indications sont confirmées ou peuvent être complétées par l’analyse du sentiment profond. On admettra volontiers que la profondeur d’un sentiment se juge à la résistance qu’il est capable d’opposer à des conditions qui logiquement sembleraient devoir entraîner sa dissolution (la séparation s’il s’agit d’un amour, le fait pour le croyant de vivre dans un milieu où personne ne partage sa foi, etc.). Mais ceci ne nous éclaire que bien indirectement et bien faiblement sur ce qu’il convient d’entendre par profondeur. Observons d’abord qu’un sentiment, dans la mesure même où il est profond, ne se présente pas expressément comme tel à la conscience immédiate, mais seulement à une réflexion qui s’exerce sur lui après coup, et qui porte d’ailleurs plutôt sur soi en tant qu’autre. En principe, quand j’éprouve un sentiment profond, précisément parce que je m’y donne ou que je m’y abandonne, je ne le pense pas comme profond, je ne l’évalue pas, je ne l’apprécie pas. Il peut se faire cependant que j’aie à m’interroger hic et nunc sur la profondeur d’un sentiment que j’éprouve (ne serait-ce que parce que j’ai à prendre une décision qui ne pourra être justifiée à mes propres yeux que si j’ai l’assurance qu’elle m’est dictée par un sentiment profond). La réflexion est liée ici à une puissance d’anticipation qui porte sur mon avenir en tant qu’il est mien: elle n’est possible que si je me décolle en quelque manière de mon présent. Mais ceci permet de

questo punto di vista si avrebbe la tentazione di affermare che l’idea di Nietzsche dell’eterno ritorno, per quanto mitica, per quanto razionalmente ingiustificabile possa essere quando la si considera in se stessa, e soprattutto quando ci si limita agli argomenti pseudo-scientifici sui quali ha la pretesa di fondarsi, non soltanto presenta un senso, ma ci dà in qualche modo il diapason stesso della profondità. Ora, queste indicazioni sono confermate o possono essere completate dall’analisi del sentimento profondo? La profondità di un sentimento è data – lo si riconoscerà senza problemi - dalla resistenza che è capace di opporre a condizioni che a rigor di logica sembrerebbero dover comportare la sua dissoluzione (la separazione se si tratta di un amore, per il credente il fatto di vivere in un ambiente in cui nessuno condivide la sua fede, ecc.). Questo, però, getta una luce soltanto indiretta e molto debole su che cosa si debba intendere per profondità. Osserviamo innanzitutto che, in quanto profondo, un sentimento si presenta esplicitamente come tale non alla coscienza immediata, ma soltanto a una riflessione che si esercita su di esso a posteriori, e che d’altronde riguarda piuttosto sé in quanto altro. In linea di massima, quando provo un sentimento profondo, proprio perché mi do ad esso o a esso mi abbandono, non lo penso come profondo, non lo valuto, non l’apprezzo. Può accadere però che debba interrogarmi hic et nunc sulla profondità di un sentimento che nutro (non ultimo per il fatto che, ad esempio, devo prendere una decisione che ai miei occhi potrà essere giustificata soltanto se ho la certezza che mi è dettata da un sentimento profondo). In questo caso la riflessione è legata a un potere di anticipazione che si riferisce al mio avvenire in quanto mio: è possibile soltanto se in qualche modo riesco a prendere le distanze dal mio presente. Proprio questo, tuttavia, permette di

discerner d’emblée la référence temporelle qui s’attache à la profondeur. Celle-ci pourrait ici apparaître comparable à la surface d’un débiteur, c’est-à-dire au crédit qu’on peut raisonnablement lui ouvrir. Pourtant le problème n’est pas résolu par là: tout au plus sommes-nous en mesure d’en préciser les données: en quoi consiste le caractère – à supposer, ce qui est douteux, que ce mot convienne ici – qui permet d’apprécier ce crédit? Ce caractère est-il précisable, donc désignable? Peut-il être reconnu directement? Il est à peu près certain que non. Mais alors ne faut-il pas renoncer à parler ici de caractère? S’agit-il, non d’une détermination du sentiment lui-même, mais d’une relation, disons plus exactement d’une affinité secrète entre le sentiment et soi? Mais en s’exprimant ainsi, ne risque-t-on pas de réaliser des abstractions? Car justement le sentiment est profond dans la mesure où il ne se laisse pas réellement dissocier du soi, où le soi y trouve un chez-lui – sans que d’ailleurs ceci soit équivalent à la conscience d’une harmonie ou surtout d’une facilité: on peut ne se trouver soi-même que dans le désespoir ou dans le drame. On serait conduit par là à entrevoir que le sentiment profond est celui où l’essence même est engagée. Mais ceci reste encore indéterminé, ou même ambigu. Nous serons portés en général à admettre que si un sentiment profond peut naître brusquement, son éclosion a dû être au moins préparée souterrainement. Mais ceci est au fond une vue a priori, instructive du reste quant à l’exigence que suppose une telle affirmation. Nous postulons au fond que si un sentiment est profond il doit plonger des racines dans un passé lointain, quitte à admettre un métabolisme en vertu duquel ce sentiment enraciné a pu se présenter successivement sous des aspects très divers. Le sentiment profond

discernere immediatamente il riferimento temporale proprio della profondità, la quale in questo caso potrebbe sembrare simile alla solvibilità di un debitore, cioè al credito che gli si può ragionevolmente concedere. Così il problema non è ancora risolto, però, tutt’al più siamo in grado di precisarne i dati: qual è la caratteristica – supponendo, cosa dubbia, che il termine sia adeguato in questo contesto – che consente di stimare questo credito? Questa caratteristica si può precisare, e quindi si può darle un nome? Può essere individuata direttamente? Quasi sicuramente no. In questo caso non bisogna allora rinunciare a parlare di caratteristica? Si tratta non di una determinazione del sentimento stesso, ma di una relazione, più precisamente di un’affinità segreta tra il sentimento e sé? Esprimendosi così, però, non si rischia di dar vita a delle astrazioni? Infatti il sentimento è profondo proprio nella misura in cui non si lascia dissociare realmente dal sé, nella misura in cui il sé vi trova un a casa propria – senza che d’altronde ciò equivalga alla consapevolezza di un’armonia o soprattutto di qualcosa di scontato: è ben possibile che si trovi se stessi soltanto nella disperazione o nel dramma. Si sarebbe così condotti a intravedere che il sentimento profondo è quello in cui è impegnata l’essenza stessa, ma si tratta di qualcosa che rimane ancora indeterminato, oppure addirittura ambiguo. In generale siamo portati a riconoscere che se un sentimento profondo può nascere improvvisamente, il suo sbocciare è stato almeno preparato in profondità. Si tratta però, in fondo, di un punto di vista a priori, istruttivo comunque sull’esigenza che una tale affermazione presuppone. In fondo postuliamo che se un sentimento è profondo deve affondare le sue radici in un passato remoto, col rischio di ammettere un metabolismo in virtù del quale questo sentimento radicato ha potuto presentarsi in momenti successivi in forme assai diverse. In questo caso il sentimento profondo è inter-

est ici interprété en fonction des tendances primitives, qui peuvent être d’ailleurs en elles-mêmes assez indéterminées. Toute interprétation naturaliste du profond sera, je pense, orientée dans ce sens, et tendra à traiter la profondeur comme n’étant pas en réalité une valeur. A moins que par un décret qui semble bien arbitraire on ne proclame au contraire que l’originel en tant que tel présente une valeur intrinsèque, par opposition à tous les éléments adventices, à toutes les déterminations subséquentes qui viennent s’y superposer au cours de l’évolution: ainsi se définit ce qu’on pourrait appeler la pseudo-mystique de l’Ursprünglichkeit, de l’originel en tant que tel. Mais il ne semble pas qu’elle puisse tenir une seconde devant la réflexion. Il n’y a pas en vérité de raison pour que l’essentiel soit donné à l’origine ou au départ. Il se peut en effet qu’à l’origine l’essentiel soit proprement indiscernable, et que les déterminations primitives soient les moins essentielles de toutes – bien qu’il faille d’autre part les considérer comme présentant à tout le moins une valeur séminale. [Si le séminal ne s’identifie pas au profond, c’est peut-être parce qu’il a son avenir devant lui, et qu’en ce sens il est de l’ordre de la chance ou simplement de la possibilité. Mais une possibilité comme telle ne peut être jugée ni profonde, ni superficielle. Le profond se situe dans un autre registre. Je ne veux pas dire par là qu’il existe. Il serait bien plutôt au-delà de l’existence, alors que le possible est endeçà. Mais s’il est au-delà de l’existence, c’est peut-être qu’il ne peut être évoqué sans frapper l’existant d’une certaine irréalité. En regard du profond, ce qui ne fait qu’exister existe à peine.] On peut se demander si cet ensemble de remarques, toutes orientées au-delà de ce qu’une description quelconque peut figurer, ne pointe pas vers une métaphysique de l’essence. Il se peut qu’il en soit ainsi, mais il est évident que l’essence cachée qui semble projeter ici des lueurs intermittentes ne

pretato in funzione delle tendenze originarie, che d’altronde in se stesse possono essere alquanto indeterminate. Ogni interpretazione naturalistica del profondo – penso – sarà orientata in questa direzione, e tenderà a considerare la profondità come se in realtà non fosse un valore. A meno che con un atto del tutto arbitrario non si proclami al contrario che l’originario in quanto tale presenta un valore intrinseco, in contrapposizione a tutti gli elementi avventizi, a tutte le determinazioni successive che vi si sovrappongono nel corso dell’evoluzione: si definisce così quella che potrebbe essere chiamata la pseudo-mistica dell’Ursprünglichkeit, dell’originario in quanto tale. Non sembra tuttavia che possa essere legittimata per un solo attimo dalla riflessione. In verità non esistono ragioni per le quali l’essenziale sia dato all’origine oppure all’inizio. È possibile, infatti, che all’origine l’essenziale sia proprio indiscernibile, e che le determinazioni primitive siano le meno essenziali di tutte – benché sia necessario riconoscere loro almeno un valore seminale. [Forse perché il suo avvenire gli sta di fronte, e quindi in questo senso appartiene alla dimensione della sorte oppure semplicemente della possibilità, il seminale non si identifica con il profondo. In quanto tale, però, una possibilità non può essere giudicata né profonda né superficiale. Il profondo si situa su un altro piano. Con ciò non voglio affermare che esiste: si troverebbe piuttosto al di là dell’esistenza, mentre il possibile è al di qua. Se è al di là dell’esistenza, tuttavia, forse allora non può essere evocato senza dare all’esistente l’impronta di una certa irrealtà. Guardando dal profondo, ciò che esiste e basta esiste appena.] L’insieme di queste osservazioni, tutte proiettate al di là di ciò a cui una descrizione qualunque può dare forma, va forse in direzione di una metafisica dell’essenza? Può essere così, ma appare evidente che l’essenza nascosta la quale in questo caso sembra diffondere dei raggi di luce intermittenti

ressemble en rien à celle qui est affirmée par les philosophies traditionnelles. Ce n’est pas par un acte d’abstraction que nous pouvons l’atteindre; et au surplus ce dernier verbe est ici tout à fait inadéquat. Je dirai non sans hésitation que l’essence est éclairante bien plutôt qu’elle ne peut être éclairée, et a fortiori décrite. Elle est foyer: c’est elle qui est foyer, et c’est pour autant qu’elle est présente à la conscience que celle-ci peut se traiter elle-même comme source lumineuse. Il est d’ailleurs manifeste que dans cette perspective on serait conduit à rapprocher, et à la limite à identifier essence et valeur; mais à condition de refuser délibérément, et une fois pour toutes, l’acte par lequel on prétendrait les convertir en objets intelligibles, en noèta. Toute représentation de cet ordre nie et détruit en fait ce qu’elle prétend poser. Mais de ce point de vue, peut-être est-il possible d’éclairer le paradoxe qui consiste à affirmer l’identité du proche et du lointain au sein du profond. L’essence est proche, puisque c’est d’elle qu’émané la clarté sans laquelle rien ne serait pour moi; elle est infiniment lointaine en ce que je ne puis aller vers elle, c’est-à-dire tenter de l’approcher sans que du coup elle s’évanouisse. Le mythe d’Eurydice devient ici révélateur. Paris, 24 avril 1939. Ce que j’ai vu clairement ce matin, c’est l’ambiguïté foncière de ce que j’appelle ma vie, selon que je la traite comme suite de moments ou d’événements ou comme quelque chose qui est susceptible d’être donné, sacrifié ou perdu. Peut-être est-ce seulement en ce second sens qu’on peut accorder une signification à l’idée d’immortalité.

non assomiglia affatto a quella fatta propria dalle filosofie tradizionali. Non possiamo affatto raggiungerla con un atto di astrazione, tanto più che un tale verbo in questo caso è del tutto inadeguato. Con qualche esitazione, affermerò che l’essenza più che venire rischiarata, e a fortiori descritta, è chiarificatrice. Essa è fuoco: è l’essenza ad essere fuoco, e nella misura in cui è presente alla coscienza quest’ultima può considerarsi essa stessa come sorgente di luce. È d’altronde evidente che ponendosi da questo punto di vista si sarebbe condotti a confrontare, e al limite a identificare, essenza e valore. A condizione di rifiutare deliberatamente, però, e una volta per tutte, l’atto con il quale si avrebbe la pretesa di renderli oggetti intelligibili, cioè noèta. Ogni rappresentazione di questo tipo nega e distrugge di fatto ciò che afferma di porre. Da questo punto di vista, tuttavia, è forse possibile chiarire il paradosso che consiste nell’affermare l’identità del vicino e del lontano in seno al profondo. L’essenza è vicina, poiché è da essa che emana la luce senza la quale nulla sarebbe per me, ma è anche infinitamente lontana per il fatto che io non posso dirigermi verso di essa, cioè tentare di avvicinarla, senza che di colpo svanisca. Il mito di Euridice diventa qui rivelatore. Parigi, 24 aprile 1939. Stamattina mi sono reso conto chiaramente dell’ambiguità costitutiva di ciò che chiamo la mia vita: posso considerarla una sequenza di momenti o di avvenimenti, oppure qualcosa che può essere donato, sacrificato o perso. Soltanto da questo secondo punto di vista, forse, si può riconoscere un significato all’idea di immortalità.

Ma vie, au premier sens, apparaît comme étant limitée, comme occupant un intervalle entre deux dates, comme fournissant la matière d’une chronologie. Elle peut à certains moments me devenir assez extérieure à moi-même pour que je la regarde ainsi, pour que je m’attriste par exemple, en pensant que ces événements ont été peu nombreux. J’en viendrai alors à les considérer comme des îlots, séparés par des vides. J’envisagerai mon avenir du même point de vue; les événements qu’il me reste à vivre sont sans doute moins nombreux que ceux que j’ai déjà vécus. Pour autant que je me retire ainsi de ma vie pour la constater, je dirai qu’elle se cadavérise. De cette vie, c’est justement la vie qui se retire. Si maintenant je réintègre ma vie comme on réintègre un domicile, je me retrouve engagé dans et tendu vers. Engagé dans quoi? Tendu vers quoi? Il n’est facile de répondre à ces questions que dans la mesure où je poursuis un certain travail créateur pour lequel je me sens à quelque degré indispensable. Ce travail créateur peut bien entendu présenter des aspects très divers. Mais il faut remarquer qu’à la limite, il peut se dégrader de deux manières: 1° en besognes accomplies au jour le jour, plus ou moins automatiquement; 2° en intérêt pris aux événements qui se déroulent comme un roman feuilleton: le monde appréhendé comme film. Ici et là on n’est plus séparé du désespoir que par une cloison pelliculaire, puisqu’on éprouve sa propre vie comme inutile, comme irréelle ou comme absente. Le désespoir, à condition qu’il se réfléchisse, peut d’ailleurs apparaître comme un moyen de récupération. Reconnaître cette absence, c’est en quelque façon la transmuer en présence. Mais réintégrer effectivement ma vie, c’est l’éprouver à nouveau comme plénitude: négativement, cela veut dire que je cesse de l’assimiler à une succession d’épisodes plus ou

Nel primo senso la mia vita mi sembra limitata: occupa un intervallo tra due date, offre materiale per una cronologia. In alcuni momenti può diventare talmente estranea a me stesso da arrivare a considerarla in questo modo, da rattristarmi pensando, ad esempio, che gli avvenimenti sono stati poco numerosi. È possibile arrivare al punto da pensarli come isolotti separati dal vuoto. Anche il mio avvenire sarà visto dalla stessa prospettiva: gli avvenimenti che mi rimangono da vivere sono sicuramente meno numerosi di quelli che ho già vissuto. La mia vita si cadaverizza: posso affermarlo nella misura in cui me ne ritraggo così per costatarla. È proprio la vita che si ritira da questa vita. Se invece rientro nella mia vita come si rientra in un domicilio, mi ritrovo impegnato in e teso verso. Impegnato in che cosa? Teso verso che cosa? È facile rispondere a queste domande soltanto se realizzo un certo lavoro creatore per il quale mi sento in qualche modo indispensabile e che, ben inteso, può presentare aspetti molto diversi. Tale lavoro può però degradarsi, al limite, in due modi: 1° in incombenze compiute giorno dopo giorno, più o meno automaticamente; 2° nell’essere interessato agli avvenimenti che si svolgono come se si trattasse di un feuilleton: il mondo pensato come un film. Poiché si fa esperienza della propria vita come inutile, irreale oppure assente, in entrambi i casi si è separati dalla disperazione soltanto da una barriera sottilissima. A condizione che rifletta su se stessa, la disperazione può d’altronde apparire come un mezzo per ritrovarsi: riconoscere questa assenza significa in qualche modo trasformarla in presenza. Rientrare realmente nella mia vita, però, vuol dire viverla nuovamente come pienezza: negativamente significa invece che non la considero più una successione di episodi più o

moins négligeables; si j’évoque maintenant tel ou tel de ces épisodes, il prendra une valeur, une épaisseur en fonction de cette plénitude retrouvée. Cela veut dire encore que je cesse de comparer ma vie à telle autre vie plus favorisée, plus remplie. La plénitude, c’est l’incomparable. Mais n’est-il pas clair en même temps que plénitude est liée ici à consécration? Une vie créatrice n’est telle que dans la mesure où elle est consacrée. Et d’autre part, c’est à partir de cette consécration même que le don de ma vie devient possible; puisque ce don (qui d’un autre point de vue peut paraître contradictoire et même insensé) réalise seulement une étape de plus sur le chemin de la consécration. Refuser dans certaines circonstances extrêmes de donner ma vie, ce serait non la garder, mais la mutiler. C’est comme si le sacrifice était l’accomplissement même, comme si perdre ici était le moyen de sauver. Cependant, il faut prévoir ici le retour offensif d’une réflexion purement critique: on conçoit bien que le sentiment de plénitude atteigne à son apogée dans l’acte par lequel l’homme s’engage tout entier en faveur de ce qu’il sert; mais peut-on dire autrement qu’en jouant sur les mots qu’il sauve par là en réalité ce qu’il semble perdre? Ce sentiment de plénitude ou de surélévation n’est-il pas une donnée toute subjective qui s’engloutit avec le sujet lui-même dans la mort? Il faudrait en réalité soumettre à une réflexion rigoureuse l’affirmation: je fais le sacrifice de ma vie pour que... Il est certain que l’expression est inadéquate, et qu’elle tend à établir ou paraît présupposer un rapport à peu près inintelligible entre «Je» et «ma vie», puisque celle-ci semble être assimilée à un avoir auquel je renoncerais. Il y a là un mode de représentation secondaire ou adventice et déformant. Dans cet acte, ma vie est réellement sujet; elle se consacre en se sacrifiant. Il faut d’ailleurs observer – et c’est capital –

meno trascurabili. Se richiamo uno o l’altro di questi episodi, infatti, acquisterà un valore, uno spessore in funzione di questa pienezza ritrovata. Ciò vuol dire anche che non confronto più la mia vita con un’altra più privilegiata, più ricca. La pienezza è l’incomparabile. Nello stesso tempo non è forse chiaro che in questo caso pienezza ha a che fare con consacrazione? Una vita creatrice può essere tale solo nella misura in cui è consacrata. E d’altra parte proprio partendo da questa il dono della mia vita diviene possibile, poiché tale dono (che da un’altra prospettiva può sembrare contraddittorio, e anche insensato) realizza soltanto un’ulteriore tappa nel cammino della consacrazione. In alcune circostanze estreme rifiutare di donare la mia vita non significherebbe conservarla ma mutilarla. È come se il sacrificio costituisse la realizzazione stessa, come se in questo caso perdere fosse il modo per salvare. A questo punto bisogna però prevedere una nuova offensiva di una riflessione puramente critica. Si condivide l’idea che il sentimento di pienezza raggiunge il suo apogeo nell’atto con il quale l’uomo si impegna con tutto se stesso nella causa che abbraccia, ma si può affermare, senza giocare con le parole, che così facendo in realtà salva ciò che sembra perdere? Il sentimento di pienezza o di sopraelevazione non è forse un dato completamente soggettivo che viene inghiottito dalla morte insieme al soggetto stesso? In realtà bisognerebbe sottoporre a una rigorosa riflessione l’affermazione “io sacrifico la mia vita affinché…”. L’espressione è sicuramente inadeguata, e tende a stabilire o sembra presupporre un rapporto più o meno inintelligibile tra “Io” e “la mia vita”: infatti quest’ultima sembra essere paragonata a un avere al quale io rinuncerei. Si tratta di una forma di rappresentazione secondaria o avventizia e deformante. In questo atto la mia vita è realmente soggetto, e si consacra sacrificandosi. Bisogna d’altronde osservare – ed

que dans la mesure où cet acte se réfléchit, il tend à se dénaturer. Il est extrêmement rare que le sacrifice absolu prenne ainsi conscience de soi, ou plus exactement en prenant conscience de soi, il risque d’irradier une sorte de littérature qui l’altère. La réflexion authentiquement philosophique, ici comme ailleurs, est tenue de retrouver l’acte lui-même en-deçà de cette végétation qui risque de le recouvrir. On peut dire encore que ma vie, lorsque je la sacrifie, n’est pas quelque chose que j’abandonne pour obtenir autre chose. Elle est si l’on peut dire, le contraire même de quelque chose, de ceci ou cela; elle est tout, ou se présente comme étani tout. Ici cependant, une antinomie semble surgir. Il faut bien qu’il y ait quelque chose en dehors de ce tout, quelque chose qui doit être sauvegardé à tout prix, autrement le sacrifice serait sans objet. Cette «autre chose» est posée par moi comme absolument réelle, la réalité en est même mesurée par l’ampleur du sacrifice que je consens pour qu’elle soit sauvée. Ce sacrifice devient donc le témoignage que j’offre à cette réalité traitée comme indépendance de moi; c’est ma façon de l’attester. La mort prend donc ici un sens ou son sens à la fois en tant qu’elle est pensée comme absolue et qu’elle est d’autre part niée au profit d’une réalité qu’elle est incapable de réduire. A la racine du sacrifice absolu, on trouve, disons non seulement un «Je meurs», mais un «toi, tu ne mourras pas», ou encore un «parce que je meurs, tu seras sauvé», ou plus rigoureusement, «ma mort accroît tes chances de vie». Il semble bien en effet que le sacrifice ne prenne son sens que par rapport à une réalité susceptible d’être menacée; c’est-à-dire une réalité donnée historiquement et par conséquent exposée aux forces de destruction qui s’exercent sur tout ce qui dure.

è fondamentale – che nella misura in cui questo atto riflette su se stesso tende a snaturarsi. È estremamente raro che il sacrificio assoluto acquisti coscienza di sé in questo modo o, meglio, prendendo coscienza di sé rischia di irradiare una sorta di letteratura che lo stravolge. Anche in questo caso, come in altri, la riflessione autenticamente filosofica deve ritrovare l’atto stesso al di sotto della vegetazione intricata che rischia di soffocarlo. Quando la sacrifico, inoltre, la mia vita non è qualcosa che tralascio per ottenere qualcos’altro: è proprio il contrario di qualcosa, se così si può dire, di questo o di quello. È tutto, o si presenta come se fosse tutto. A questo punto, tuttavia, sembra emergere un’antinomia. Deve assolutamente esserci qualcosa al di fuori di questo tutto, qualcosa da salvaguardare a qualsiasi prezzo, altrimenti il sacrificio sarebbe senza oggetto. Questo “qualcos’altro” è da me posto come assolutamente reale, anzi, la sua realtà è misurata dall’ampiezza del sacrificio al quale io, affinché sia salvata, acconsento. Il sacrificio diventa dunque la mia testimonianza di questa realtà, considerata indipendente da me: è il mio modo di attestarla. Qui la morte assume perciò contemporaneamente un senso o il suo senso, in quanto è pensata come assoluta e in quanto è negata, d’altra parte, a favore di una realtà che non può degradare. Alla radice del sacrificio assoluto si trova non soltanto un “Io muoio”, ma un “tu non morirai”, o ancora un “poiché io muoio, tu sarai salvato”, oppure, ad essere più rigorosi, “la mia morte accresce le possibilità della tua vita”. In effetti sembra proprio che il sacrificio abbia senso soltanto in rapporto a una realtà suscettibile di essere minacciata: una realtà data storicamente e quindi esposta alle forze di distruzione che agiscono su tutto ciò che dura.

Ici encore l’objection subjectiviste sera à examiner de près. On dira en effet, le sacrifice atteste seulement la valeur que le sujet attache à quelque chose qui en soi n’est peutêtre aucunement une réalité. Le patriotisme ne prouve pas la réalité de la patrie. Il y a ici un nœud de difficultés, car il est hors de doute que l’acte héroïque tend à créer ou encore à confirmer dans l’être cela même à quoi il se suspend (comparaison avec les Martyrs dans l’histoire de l’Eglise). Paris, 25 avril 1939. Ce qui nous arrête ici, c’est une idée rigide et simpliste de la réalité objective conçue comme étant simplement à reconnaître et n’ayant aucunement besoin de nous. Ce qui est plus intéressant, c’est de noter que d’un certain point de vue, le sacrifice absolu ne peut pas ne pas apparaître comme duperie. Comment ne pas remarquer que la réalité à laquelle je me réfère n’est telle que par rapport à un foyer d’évaluations qui coïncide avec ma vie et s’éteint si celle-ci s’anéantit? Dès lors, l’illusion qui est à la base du sacrifice, consisterait à oublier cette dépendance et à traiter comme existant par soi ce qui est en réalité n’est que par rapport à moi. Ma vie est ici conçue comme une lanterne magique qui projette sa lumière sur des figures par elles-mêmes dénuées de relief et de couleur. Mais il est certain que si je me conçois comme étant le créateur d’un certain spectacle, il est absurde de me supprimer pour que ce spectacle continue. Le sacrifice n’est donc susceptible d’être accompli que dans la mesure où la conscience cesse de se traiter comme centre de projection.

Anche in questo caso dovrà essere esaminata con attenzione l’obiezione soggettivista. Il sacrificio attesta infatti soltanto il valore conferito dal soggetto a qualcosa che in sé forse non è affatto una realtà. Il patriottismo non prova la realtà della patria. Eccoci ad affrontare un groviglio di difficoltà: non c’è alcun dubbio, infatti, che l’atto eroico tende a creare oppure anche a confermare nell’essere proprio ciò da cui dipende (confronto con i Martiri nella storia della Chiesa). Parigi, 25 aprile 1939. Giunto a questo punto a paralizzarmi è un’idea rigida e semplicistica della realtà oggettiva, pensata come se dovesse essere soltanto riconosciuta e non avesse affatto bisogno di noi. L’aspetto più interessante è notare che da un certo punto di vista il sacrificio assoluto non può non apparire un’illusione. Come non osservare che la realtà alla quale mi riferisco è tale soltanto in relazione a una sorgente di valutazioni che coincide con la mia vita e viene meno se quest’ultima si annienta? L’illusione che è alla base del sacrificio, quindi, consisterebbe nel dimenticare questa dipendenza, e nel trattare come esistente di per sé ciò che in realtà esiste soltanto in relazione a me. La mia vita viene qui pensata come una lanterna magica che proietta la sua luce su immagini in se stesse prive di forma e di colori. Se tuttavia mi concepisco come il creatore di un certo spettacolo, è affatto assurdo che io mi tolga la vita affinché lo spettacolo continui. Il sacrificio può essere compiuto dunque soltanto nella misura in cui la coscienza non si considera più come centro di proiezione.

Le problème auquel je voudrais m’attaquer consisterait à se demander si une représentation phénoménologique de la mort comme absolue est compatible avec une position hyper-phénoménologique de l’immortalité. Position qui envelopperait évidemment l’affirmation de la Grâce, c’està-dire de soi comme accueilli, recueilli, ressuscité. Ce qui rend la position si aiguë, c’est le fait que le sérieux absolu de la mort, je l’ai dit, apparaît comme garantie suprême de réalité pour la Cause à laquelle le moi s’immole. Pour que ce sérieux absolu soit sauvegardé, il faut à tout le moins que je reconnaisse ignorer absolument ce qui en moi est susceptible de survivre à cette épreuve radicale, il paraît même possible que ce que je préfère en moi, ce à quoi vont mes complaisances, soit destiné à sombrer sans retour. Dire que phénoménologiquement la mort doit être traitée comme un absolu, c’est me dénier toute possibilité de regarder au-delà; d’anticiper quelque chose qui serait sans lendemain – une sortie du tunnel. Ceci tient au fait que ma mort ne peut être considérée par moi comme étant un événement. Elle n’est événement que pour les autres, en tant qu’elle est sa mort, non la mienne – et si je crois pouvoir l’anticiper, c’est en tant que je coïncide par l’imagination avec un autre pour qui elle sera «sa mort». Paris, 26 avril 1939. Le sacrifice comme mesure mesurante, c’est-à-dire conférant sa grandeur à la réalité qu’il mesure. Ma vie comme absolu phénoménologique, mais comme entretenant avec moi un rapport essentiellement ambigu. Car je ne la possède que dès le moment où elle cesse de me posséder. Je peux être livré à ma vie dans la nostalgie, le regret ou la convoitise.

Il problema che vorrei affrontare consiste nel chiedersi se una rappresentazione fenomenologica della morte intesa come assoluta sia compatibile con una posizione iper-fenomenologioca dell’immortalità, posizione che, evidentemente, implicherebbe l’affermazione della Grazia, vale a dire di sé come accettato, accolto, risuscitato. A rendere così scottante tale posizione è il fatto che la serietà assoluta della morte – l’ho detto – si presenta come garanzia suprema di realtà per la Causa alla quale l’io si immola. Per salvaguardare tale serietà assoluta bisogna almeno che io riconosca di ignorare assolutamente ciò che in me può sopravvivere a questa prova radicale. Sembra possibile anche che la parte di me a cui vanno le mie preferenze, i miei compiacimenti, sia destinata a sprofondare definitivamente. Affermare che fenomenologicamente la morte deve essere considerata come un assoluto significa negare a me stesso ogni possibilità di guardare al di là, anticipare qualcosa che sarebbe senza domani: un’uscita dal tunnel. Tutto ciò si lega al fatto che la mia morte non può essere da me considerata come se fosse un avvenimento: è avvenimento soltanto per gli altri, in quanto è la sua morte, non la mia – e se penso di poterla anticipare è solo nella misura in cui grazie all’immaginazione io mi identifico con un altro per il quale essa sarà “la sua morte”. Parigi, 26 aprile 1939. Il sacrificio come metro di misura: conferisce la sua grandezza alla realtà che esso misura. La mia vita in quanto assoluto fenomenologico, ma come se intrattenesse con me un rapporto per essenza ambiguo. La possiedo infatti soltanto a partire dal momento in cui essa non mi possiede più. Io posso essere consegnato alla mia vita nella nostalgia, nel rimpianto o nella brama.

Il faudrait examiner d’autre part comment toute épreuve, même en apparence purement subie, comme la maladie, peut être transmuée en sacrifice, c’est-à-dire offerte. Mais ceci est à creuser profondément; ne pas se contenter d’un certain langage édifiant et tout fait. Il y aura également lieu de dégager l’espèce de dialectique qui se poursuit au fond même de la notion d’absolu. Le mot notion est d’ailleurs ici impropre. Il est de l’essence de ma vie de pouvoir m’apparaître comme absolu: fondement d’un égoïsme radical, d’un solipsisme vécu; ce qu’éprouvent les autres est alors pour moi comme n’étant pas, ou n’étant que du fantomatique par opposition à la substantielle réalité de mon plaisir ou de ma peine. Paris, 30 avril 1939. En relisant mes notes du 24 avril dernier, j’éprouve le besoin de souligner l’ambiguïté du mot vie. Si je me retire de ma vie pour la considérer, je ne peux pas ne pas la voir comme un fleuve qui est destiné à se perdre dans la mort. De ce point de vue, il m’apparaît que tout est déjà perdu. C’est le vertige auquel j’ai fait allusion dans ma communication au Congrès International de Philosophie en 1937. C’est que je suis en présence de quelque chose qui se laisse aller, exactement comme un corps livré à la pesanteur ou comme une plume qu’emporte le vent. Tout travail, quel qu’il soit, tout effort est tendu au contraire dans une direction inverse. Tout travail remonte une pente, le long de laquelle on pourrait s’abandonner, c’est-à-dire se défaire. Nous sommes ici dans une zone de pensées proprement bergsoniennes. Il est impossible de ne pas voir que c’est seulement dans cette direction que la mystérieuse notion d’immortalité peut être signifiante.

D’altronde bisognerebbe vedere in che modo ogni prova, anche se in apparenza puramente subita, come ad esempio la malattia, possa essere trasformata in sacrificio, cioè offerta. Tutto ciò va però sviscerato in profondità: non ci si deve accontentare di un certo linguaggio edificante e già confezionato. Inoltre sarà il caso di cogliere la sorta di dialettica che si realizza al fondo stesso della nozione di assoluto – d’altra parte in questo caso il termine nozione è improprio. La mia vita per essenza può apparirmi come assoluto: fondamento di un egoismo radicale, di un solipsismo vissuto. Allora è come se ciò che gli altri provano non esistesse, oppure come se fosse soltanto qualcosa di fantomatico, in contrapposizione alla realtà sostanziale del mio piacere o della mia pena. Parigi, 30 aprile 1939. Rileggendo le mie annotazioni del 24 aprile scorso sento il bisogno di sottolineare l’ambiguità del termine vita. Se mi ritraggo dalla mia vita per esaminarla, non posso non considerarla come un fiume destinato a sfociare nella morte. Da questo punto di vista tutto è già perduto. È la vertigine alla quale mi sono riferito nella mia relazione al Congresso Internazionale di Filosofia del 1937. Mi trovo infatti di fronte a qualcosa che si lascia andare, non diversamente da un corpo per effetto della gravità o da una piuma portata dal vento. Ogni lavoro, qualunque esso sia, ogni sforzo va invece nella direzione opposta. Ogni opera affronta una salita, lungo la quale ci si potrebbe lasciar andare, cioè dichiararsi vinti. Siamo qui in un ambito di riflessioni propriamente bergsoniane. Soltanto in questa direzione il misterioso concetto di immortalità può avere un significato, è impossibile non rendersene conto.

Lyon, 10 décembre 1940. Voici, si je ne me trompe, les premières notes philosophiques que je rédige depuis le désastre2. Dans ma pensée elles devraient préparer une étude depuis bien longtemps projetée sur le temps et l’éternité. Une fois de plus, je voudrais m’attacher à la question de savoir quels sont les rapports entre moi et mon passé. Mais d’abord, qu’est-ce que mon passé? Ce qui me frappe aujourd’hui, c’est que ce n’est pas en vérité une donnée, l’unité que je lui attribue en énonçant ces deux mots, ne lui appartient qu’en idée. Ce qui m’est donné, ce sont ou bien des lambeaux (il n’est pas sûr que cette métaphore soit tout à fait acceptable), ou bien une certaine qualité, un certain indice indéfinissable; encore faudrait-il examiner de près ce que c’est. En réalité, quand je dis mon passé, sans m’en rendre compte, je postule... Quoi, exactement? Mon postulat ne semble pouvoir prendre corps que dans une certaine image qui peut du reste se décolorer à l’extrême, par exemple celle d’une collection complète de souvenirs ou d’expériences vécues. Laissons de côté pour le moment la question épineuse qui consisterait à se demander si des souvenirs et des expériences vécues peuvent réellement former une collection. De toute manière, quand je dis mon passé, je pose que tout ce qui m’est arrivé constitue un tout susceptible de s’accroître tant que je vivrai. Il m’est arrivé des choses, il m’en arrivera encore. Mais il me paraît certain, que sans bien m’en rendre 2

A ceux qui s’étonneraient à bon droit de ne trouver dans toutes les pages qui suivent aucune mention des événements qui ont bouleversé notre pays à partir de 1939, je tiens à dire que j’ai tenu, au cours de ces cinq années, un autre Journal très détaillé où il n’est au contraire question que de ces événements vécus au jour le jour. Mais il me paraît douteux que cet autre Journal mérite d’être livré au public.

Lione, 10 dicembre 1940. Ecco, se non mi sbaglio, le mie prime annotazioni filosofiche dopo il disastro2. Nelle mie intenzioni, dovrebbero costituire la fase preparatoria di uno studio sul tempo e sull’eternità progettato da un bel po’. Vorrei cercare di comprendere, ancora una volta, quali siano i rapporti tra me e il mio passato. Innanzitutto, cos’è il mio passato? Ciò che mi colpisce oggi è il fatto che in verità non si tratta di un dato: l’unità che gli attribuisco pronunciando queste parole gli appartiene soltanto a livello di idea. Mi sono dati o dei frammenti (non so se questa metafora sia del tutto accettabile) oppure una certa qualità, una certa caratteristica indefinibile. Sarebbe inoltre necessario esaminare con attenzione di che cosa si tratti. Senza rendermene conto, dicendo il mio passato in realtà postulo … Che cosa, esattamente? Il mio postulato sembra poter prendere corpo soltanto in una certa immagine, che del resto può sbiadire al di là di ogni misura, ad esempio l’immagine di una collezione completa di ricordi o di esperienze vissute. Per il momento accantoniamo una questione spinosa: ricordi ed esperienze vissute possono formare realmente una collezione? Ad ogni modo quando dico il mio passato ammetto che tutto ciò che mi è accaduto costituisce un tutto suscettibile di accrescersi finché vivrò. Mi sono accaduti dei fatti, me ne accadranno ancora. Senza neanche rendermene conto, però, mi riferisco a una certa possibile 2

Ritengo importante sottolineare per chi, non a torto, si stupirà di non trovare mai in queste pagine un riferimento agli eventi che hanno sconvolto il nostro Paese a partire dal 1939, che durante quei cinque anni ho tenuto un altro Diario molto particolareggiato in cui, al contrario, non mi occupo d’altro che di quegli avvenimenti vissuti giorno per giorno. Dubito però che quel Diario meriti di essere dato alle stampe.

compte, je me réfère à une certaine histoire possible de mon existence. Ce qui fait partie de mon passé, c’est ce qui devrait prendre place dans cette histoire, supposée authentique et exhaustive. Dès lors, il est permis de se demander si une réflexion rigoureuse sur mon passé ne devrait pas supposer un examen préliminaire de ce que c’est qu’une histoire ou un récit, et des conditions dans lesquelles une histoire ou un récit peut être construit. Peut-être au surplus faudrait-il introduire ici la notion de chronique, entendue comme une sorte d’alignement d’événements qui se succèdent dans le temps. Telle chose m’est arrivée, puis telle autre encore. On peut ici évoquer un journal comme celui de Pepys où tout est noté scrupuleusement, où tout est mis sur le même plan. Il est absolument sûr que chaque existence humaine, que mon existence – et cela qui que je sois – peut donner lieu à un semblable Diary. Les mots compact, dense, expriment assez bien l’impression que donnent pareilles notations; mais il faut ajouter que la répétition des incidents de la vie organique ou organo-psychique a quelque chose de désespérant. C’est un plein qui n’est que du vide. (Je tiens à marquer que je cherche à m’orienter ici vers une critique valable de la notion bergsonienne du passé entièrement présent, notion que je crois décidément inacceptable.) Nous sommes là dans un ordre qui comporte du remplacement constant. Normalement le repas que je viens de faire ou que je vais faire, doit remplacer dans ma conscience celui que j’ai fait hier ou il y a huit jours, ou à fortiori il y a dix-huit ans – (sauf dans le cas exceptionnel où un de ces repas a eu pour moi un caractère «historique», parce qu’il a été extraordinairement bon, ou qu’il m’a rendu malade, ou que je l’ai pris en compagnie d’un tel). Je dirai donc que la chronique a cela de contre-nature, de réaliser dans la mesure du possible la juxtaposition de ce qui ne devrait absolument

storia della mia esistenza. Del mio passato fa parte ciò che dovrebbe prendere posto in questa storia, supposta autentica ed esaustiva. È lecito quindi chiedersi se una riflessione rigorosa sul mio passato non dovrebbe presupporre un esame preliminare di cosa sia una storia o un racconto, e delle condizioni nelle quali essi possono essere elaborati. In questo caso, inoltre, bisognerebbe forse introdurre il concetto di cronaca, considerata come una sorta di successione di avvenimenti nel tempo: mi è capitato un certo fatto, poi un’altra ancora. A tal proposito si può ricordare un diario come quello di Pepys in cui ogni cosa è annotata scrupolosamente, in cui tutto è posto sullo stesso piano. Ogni esistenza umana, la mia esistenza – e questo chiunque io sia –, può essere la fonte di un simile Diary, non c’è ombra di dubbio. I termini compatto, denso, esprimono piuttosto bene l’impressione suscitata da simili annotazioni; bisogna aggiungere però che la ripetizione degli avvenimenti della vita organica oppure organico-psichica ha qualcosa di disperante. È un pieno che non è altro che vuoto. (Sto tentando di orientarmi – ci tengo a sottolinearlo – verso una critica valida del concetto bergsoniano di passato interamente presente, concetto per me decisamente inaccettabile). Qui ci si trova su un piano che comporta sempre una possibilità di sostituzione: di solito nella mia coscienza il pasto che ho appena fatto o che sto per fare deve rimpiazzare quello che ho fatto ieri oppure otto giorni fa, o, a maggior ragione, diciotto anni fa – (salvo nel caso eccezionale in cui uno di questi pranzi abbia rappresentato per me qualcosa di “storico”: è stato straordinariamente buono o mi ha fatto stare male, oppure ero in compagnia di una certa persona). La cronaca ha questo di contro-natura: viene giustapposto, nel limite del possibile, ciò che non dovrebbe esserlo affatto.

pas être juxtaposé. Je ne devrais pas pouvoir avoir sous les yeux, c’est-à-dire dans le champ de ma conscience, à la fois cette suite de repas ou d’incidents viscéraux, etc... Tout cela n’a de sens qu’à condition d’être vécu au fur et à mesure, et ne peut être étalé sans se dénaturer. Or le propre de la chronique est d’être en quelque manière étalement. En somme, ceci revient à dire qu’il est de l’essence de la vie de ne pas se laisser étaler (l’image que j’ai présente à l’esprit est celle d’une étoffe ou d’un papier plissé). Ainsi se justifierait la sélection qui s’impose au narrateur ou à l’historien. Ce serait en somme l’occasion de réfléchir sur le fastidieux. C’est par le plissement que la vie échappe au fastidieux, mais naturellement cette image spatiale du plissement est en un certain sens tout à fait inexacte. Il faudrait se demander comment elle s’impose à l’esprit: elle est liée à un certain effet de perspective. Le plissement est lié à la périodicité dont je pense que nous sommes toujours enclins à faire trop abstraction. Lyon, 11 décembre 1940. Je voudrais ressaisir le fil de mes réflexions d’hier – ce fil risque de se perdre ou de s’embrouiller. J’ai voulu dire que mon passé, comme intégralité, ne peut être envisagé qu’en fonction d’une chronique supposée exhaustive. Mais cette chronique, je ne puis l’imaginer que rédigée et convertissant jusqu’à un certain point la succession en simultanéité. Mais la succession telle qu’elle se réalise dans une existence ne peut être simultanéisée sans perdre son caractère et son sens. On pourrait encore exprimer cela en disant que la vie comporte une part énorme faite au consommé ou au consumé. Il y a là un élément auquel aucune survie quelle qu’elle

Non dovrei poter avere davanti agli occhi contemporaneamente, cioè all’orizzonte della mia coscienza, questa successione di pranzi o di incidenti delle viscere, ecc. Tutto ciò ha senso soltanto a condizione di essere vissuto man mano, e non può essere messo in mostra senza snaturarsi. Ora, proprio della cronaca è essere in qualche modo dispersione. Si è così condotti ad affermare che la vita, per essenza, non si lascia svoltorare (l’immagine che ho in mente è quella di una stoffa oppure di una carta increspata). Risulterebbe così giustificata la selezione alla quale devono procedere sia il narratore che lo storico. Sarebbe insomma l’occasione per riflettere sul noioso. È grazie alle sue pieghe che la vita sfugge al noioso, ma naturalmente l’immagine spaziale dell’increspatura è in un certo senso del tutto inesatta. Bisognerebbe chiedersi in che modo si imponga al pensiero: è legata a un certo effetto prospettico. L’increspatura ha a che fare con la periodicità da cui abbiamo sempre la tendenza ad astrarre troppo. Lione, 11 dicembre 1940. Vorrei riprendere il filo delle mie riflessioni di ieri, che rischia di andare perduto o di ingarbugliarsi. Ho inteso affermare che il mio passato, come integralità, può essere preso in considerazione solo in funzione di una cronaca considerata esaustiva. Questa cronaca, però, posso immaginarla soltanto redatta, e in quanto trasforma, fino a un certo punto, la successione in simultaneità. La successione così come si realizza in un’esistenza, tuttavia, non può essere resa simultanea senza che vadano persi ciò che la caratterizza e il suo significato. Detto diversamente, nella vita un posto enorme spetta a ciò che è concluso oppure consumato, al quale non può

soit – serait-ce celle tout idéale que le narrateur assure à la chose narrée – ne saurait être accordée. (On tendrait par là à refuser absolument l’idée d’une immortalité diluée pour ainsi dire qui appartiendrait en droit à tout ce qui a été vécu: l’immortalité ne peut être pensée que comme concentrée en des noyaux, en des centres doués de consistance et de résistance, par opposition à ce flux, à cette alternance d’absorption et de résorption.) Tout cela va contre l’idée d’un passé réservoir où chacun puiserait. Idée singulièrement tenace; peut-être au reste suffirait-il pour l’exorciser de comprendre qu’il n’y a de réservoir qu’à condition qu’il existe une différence entre un contenant et un contenu complémentaire, et que cette distinction n’offre ici aucun sens. Pourtant, dira-t-on revenant à la charge, ne suis-je pas tenu du penser l’existence d’une certaine somme de ce qui m’est arrivé, de ce qui a été vécu par moi? C’est, je pense, à la notion même de cette somme, qu’il faut justement s’attaquer. Il n’y a de somme possible que d’éléments qui ont été retenus, conservés de façon à pouvoir être additionnés, or mes réflexions depuis hier tendent précisément à montrer qu’ici rien de tel n’est concevable. Le consommé ou le consumé ou le dissipé s’oppose directement au retenu. Ceci reviendrait à dire qu’il y a dans une vie, dans ma vie, un aspect essentiel par où elle est non totalisable, et peut-être cette dissipation pure est-elle une des conditions de l’édification réelle d’un être. Dissipation qui porte en dernière analyse sur de l’insignifiant. Cet insignifiant, nous ne pouvons le nier qu’au nom de principes abstraits et arbitraires et en récusant une donnée certaine de notre expérience. Il y a sûrement une libération effective à reconnaître que cet insignifiant existe comme tel, et peut-être vaudrait-il mieux ne pas employer ici le verbe exister, puisque justement il est

essere concessa nessuna sopravvivenza, di qualunque tipo essa sia – fosse pure quella del tutto ideale che il narratore assicura all’oggetto della narrazione. (Con ciò si sarebbe portati a rifiutare decisamente l’idea di un’immortalità per così dire diluita, che apparterebbe di diritto a tutto ciò che è stato vissuto: l’immortalità può essere pensata soltanto come concentrata in nuclei, in centri dotati di consistenza e di resistenza, in opposizione a questo flusso, a questa alternanza di assorbimento e di eliminazione). Tutto ciò contrasta con l’idea di un passato serbatoio dal quale ciascuno attingerebbe. Idea particolarmente tenace. Del resto per esorcizzarla sarebbe sufficiente capire che si può parlare di serbatoio soltanto se esiste una differenza tra un contenente e un contenuto complementare, distinzione assolutamente senza senso in questo caso. Ma, si dirà ritornando alla carica, sono forse tenuto a pensare l’esistenza di una certa somma di ciò che mi è accaduto, di ciò che è stato da me vissuto? Secondo me è proprio il concetto stesso di una tale somma che va criticato: il totale si può fare soltanto di elementi accantonati, conservati in modo da poter essere addizionati. Ora, da ieri le mie riflessioni tendono a evidenziare proprio che in questo caso non è concepibile nulla di simile. Ciò che si è concluso o consumato o dissipato si contrappone in modo netto a ciò che è accantonato. Significa che in una vita, nella mia vita, è presente un aspetto essenziale in virtù del quale è non totalizzabile. E questa dissipazione pura è forse una delle condizioni dell’edificazione reale di un essere. Dissipazione che, in ultima analisi, si riferisce a qualcosa di insignificante, che può essere da noi negato solo in nome di principi astratti e arbitrari, e rifiutando un dato certo della nostra esperienza. Riconoscere che questo insignificante esiste come tale rappresenta un’effettiva liberazione, anche se forse in questo

de l’essence de cet insignifiant de s’évanouir, de se perdre en fumée. Mais en même temps nous possédons, parce que nous sommes capables d’attention, l’extraordinaire pouvoir d’arrêter de l’insignifiant, de le capter, de lui donner une consistance, une valeur, et par là même de le transmuer. Toutefois, et malgré cette dernière remarque, comment ne pas voir qu’en reconnaissant l’insignifiant comme tel, nous courons le risque de nous traiter nous-mêmes en fin de compte comme fumée, comme consomption pure? Il y a là une tentation. Peut-on faire sa part à l’héraclitéisme? Là est la question. En un autre langage, de ce que mon passé n’est pas un tout, dois-je inférer qu’il n’est rien? Ce serait, là, je pense, une conclusion absurde. Quand je dis mon passé, je vise «quelque chose», et ce que ma réflexion m’a montré, c’est simplement qu’il y a une façon vicieuse d’interpréter ou de se figurer ce quelque chose. Qu’est-ce donc que j’ai en vue quand je dis mon passé? La question est très difficile à poser en termes précis. En effet, si je réponds, ce qui paraît raisonnable, qu’il s’agit toujours d’une certaine perspective, commandée par mon présent vécu, je serai irrésistiblement porté à imaginer que cette perspective est relative à un en-soi comparable à l’objet, au solide qu’il ne m’est jamais donné de voir que selon un certain angle. Or, en concevant cet en-soi, est-ce que je ne rétablis pas la notion de mon passé comme totalité? – A vrai dire, ce n’est pas tout à fait sûr. Il est manifeste que la cathédrale de Chartres, par exemple, ne peut en aucune façon être considérée comme la somme des vues que je peux prendre sur elle, ou des aspects qu’elle présente – ou encore des détails qu’on peut remarquer en elle. Elle est transcendante à tout cela, sans qu’il soit d’ailleurs facile de voir ce qu’il faut entendre positivement par cette transcendance.

caso sarebbe meglio evitare l’uso del verbo esistere poiché in quanto tale l’insignificante si dilegua, va in fumo. Nello stesso tempo, però, essendo capaci di attenzione, abbiamo lo straordinario potere di trattenere l’insignificante, di intercettarlo, di dargli una consistenza, un valore, e quindi, così facendo, di trasmutarlo. Tuttavia, e nonostante quest’ultima osservazione, come non rendersi conto che riconoscendo l’insignificante in quanto tale corriamo il rischio di trattare noi stessi, in fin dei conti, come fumo, come consunzione pura? Si tratta di una tentazione. Si può concedere all’eraclitismo il posto che gli spetta? La questione è proprio questa. In altre parole, dal fatto che il mio passato non è un tutto devo inferire che non è niente? Si tratterebbe, penso, di una conclusione assurda. Quando dico il mio passato mi riferisco a “qualcosa”, e questo qualcosa, come è emerso dalla mia riflessione, può essere interpretato o immaginato in un modo viziato, semplicemente. A che cosa mi riferisco dunque quando dico il mio passato? Problema difficilissimo da porre in termini precisi. Se rispondo infatti – cosa del resto ragionevole – che si tratta sempre di una certa prospettiva, resa necessaria dal mio presente vissuto, sarò inevitabilmente portato a immaginare che essa si riferisce a un in-sé assimilabile all’oggetto, al solido che posso vedere soltanto ed esclusivamente da una certa angolatura. Ora, pensando questo in-sé, non ristabilisco forse il concetto del mio passato come totalità? – Non è del tutto certo, a dire il vero. La cattedrale di Chartres, è evidente, non può affatto essere considerata la somma dei punti di vista da cui la posso osservare, o degli aspetti che presenta – oppure, ancora, dei particolari che si possono rilevare. Trascende tutto ciò, senza che d’altra parte sia facile comprendere che cosa si debba intendere positivamente con tale trascendenza.

Mais voyons de près la différence; elle peut être instructive. Pour moi qui contemple la cathédrale de Chartres, celle-ci est un être, ou si l’on veut un monde qui peut seulement sous certains rapports, être envisagé comme expression de la matérialisation d’une pensée. Je peux, moi aussi, être considéré du dehors, par exemple par celui qui étudie mon œuvre ou qui entend écrire ma biographie. Il y a plus: je peux dans une certaine mesure faire mien ce point de vue de mon critique ou de mon biographe. Mais quand je parle de mon passé, c’est justement à ce point de vue que je ne me place pas; ou plutôt est-ce que je n’adopte pas une sorte de position intermédiaire – et intenable – entre le vivre et le contempler? C’est là ce qu’il va falloir creuser. Je suis un peu fatigué ce soir et je crains de gâcher cette idée en m’y attachant dès à présent. Oui, il me semble bien que lorsque je parle de mon passé je prends figure de mémorialiste, sans cependant rompre les amarres vitales qui me lient à ce que j’évoque. Il faudrait appliquer ceci à la question de savoir ce qui se passe quand je cherche à me rappeler et à décrire celui que j’étais à telle époque déterminée, n’est-ce pas un personnage que je prétends faire revivre? Que suis-je par rapport à ce personnage? Y a-t-il moyen de tirer parti ici de mes remarques précédentes? C’est ce que je ne vois pas encore clairement. Lyon, 12 décembre 1940. Ce personnage que j’étais, quand je me suis marié, par exemple, je ne peux que le reconstituer à partir de certains éléments. Il ne m’est sûrement pas donné en tant qu’unité dans le souvenir. Mais d’autre part, ce moi que j’étais alors n’était pas un personnage; il est devenu personnage par la

Approfondiamo meglio la differenza, però, può rivelarsi istruttiva. La cattedrale di Chartres è, per me che la contemplo, un essere, oppure, per così dire, un mondo, che soltanto da certi punti di vista può essere considerato espressione della materializzazione di un pensiero. Anch’io posso venire considerato dall’esterno, ad esempio da colui che studia la mia opera o che vuole scrivere la mia biografia. Si può andare oltre: io stesso posso fare mia, fino a un certo punto, la prospettiva del critico o del biografo che si occupano di me. Quando parlo del mio passato, tuttavia, è proprio da questo punto di vista che non mi pongo; o, meglio, non faccio forse mia una sorta di posizione intermedia – e insostenibile – tra il vivere e il contemplare? Ecco ciò che bisogna approfondire. Stasera sono un po’ stanco, e soffermandomi su questa idea fin da subito temo di sprecarla. Sì, mi sembra proprio che parlando del mio passato io rivesta i panni del memorialista, pur senza togliere gli ormeggi vitali che mi legano a ciò che rievoco. Tutto ciò andrebbe riferito a questo problema: cosa accade quando cerco di ricordarmi e di descrivere quello che ero in un periodo ben preciso? Non ho forse la pretesa di far rivivere un personaggio? Che cosa sono rispetto a questo personaggio? Su questo si può trarre profitto dalle mie precedenti osservazioni? Non lo capisco ancora chiaramente. Lione, 12 dicembre 1940. Il personaggio che ero quando mi sono sposato, ad esempio, posso soltanto ricostruirlo a partire da certi elementi. Nel ricordo non mi è dato sicuramente come unità, ma d’altra parte l’io che ero allora non era un personaggio: è diventato personaggio in seguito, nella misura in cui è emerso in

suite pour autant qu’il s’est détaché, ou qu’il m’est devenu possible de le traiter comme s’il était détaché. Il y a là d’ailleurs une illusion d’optique, on n’en saurait douter. Ce détachement ne peut pas être absolu; c’est par un véritable artifice que je suis en mesure de regarder comme un personnage caractérisable celui que j’étais alors. J’ai l’impression que ces remarques se terminent en impasse. Je ne vois pas qu’elles puissent conduire à rien de neuf ou d’instructif, du moins pour l’instant. L’observation notée hier soir est plus intéressante. Evoquer mon passé dans son ensemble, c’est adopter une attitude hybride, c’est contempler du vécu, sans se résoudre à cesser de le vivre. Ce qu’on peut dire, c’est que cette attitude, si contradictoire soit-elle, est relative au mouvement par lequel je tends à me retirer en quelque façon de ma vie. C’est ce retrait qu’il faudrait arriver à penser. Il est clair tout à la fois que ces mots «se retirer de sa propre vie» ont un sens et que ce sens est très malaisément précisable. Il faudrait arriver à voir ce que c’est qu’être dans sa vie ou hors d’elle. N’est-ce là qu’une mauvaise métaphore? Montana, 21 décembre 1940. J’ai relu ces notes, elles me semblent constituer un amorçage intéressant. Mais il faudra arriver à sérier les questions qui se trouvent posées à partir de ces premières réflexions. Une des plus importantes consistera à se demander ce que signifie retenir par opposition à dissiper, à laisser se perdre, etc... Il ne faudra pas être dupe des vocables courants en psychologie, tels que attention subconsciente ou inconsciente, etc...: ne pas verser dans la mythologie.

primo piano, o nella misura in cui mi è diventato possibile trattarlo come se fosse in risalto. Si tratta d’altra parte di un’illusione ottica, senza ombra di dubbio. Questo spiccare non può essere assoluto: solo un vero e proprio artificio mi mette nelle condizioni di considerare quello che ero allora come un personaggio caratterizzabile. Ho l’impressione che queste osservazioni conducano in un vicolo cieco. Non mi sembra che possano portare a nulla di nuovo o di istruttivo, almeno per il momento. L’osservazione di ieri sera è più interessante. Evocare il mio passato nel suo insieme significa adottare un atteggiamento ibrido, contemplare il vissuto, senza decidersi di smettere di viverlo. Questo atteggiamento, per quanto sia contraddittorio, è relativo al movimento con il quale tendo a ritrarmi in qualche modo dalla mia vita. Bisognerebbe riuscire a pensare proprio questo ritrarsi. Nello stesso tempo è chiaro che le parole “ritrarsi dalla propria vita” hanno un senso, che però si può precisare con grandi difficoltà. Bisognerebbe riuscire a capire cosa significhi essere nella propria vita o fuori da essa. Si tratta forse soltanto di un’infelice metafora? Montana, 21 dicembre 1940. Mi sembra, dopo averli riletti, che questi appunti costituiscano un interessante punto di partenza, ma bisognerà riuscire a classificare le domande che sono emerse a partire da queste prime riflessioni. Una delle più importanti consisterà nel chiedersi che cosa significhi conservare in contrapposizione a dissipare, a lasciar smarrirsi, ecc. Non bisognerà farsi ingannare dai vocaboli usati correntemente in psicologia, come attenzione subcosciente o incosciente, ecc…: non cadere nella mitologia.

Quand je songe à certaines scènes de ma prime enfance, par exemple un certain retour rue du Général-Foy, par une fin d’après-midi (je ne pouvais avoir plus de trois ans), je suis amené à penser qu’il s’est produit d’une part une survivance initiale (fortuite ou non: il faudrait d’abord se demander ce que signifiie ici fortuit); puis d’autre part, ultérieurement, un clichage. Dans ce second cas, le mot retenir a le sens de fixer. Si le même mot est applicable au premier cas, a-t-il le même sens? Il est probable que non, et ceci à première vue me semble important. Pouvons-nous admettre, à titre d’hypothèses, et sans approfondir, que certaines expériences ont le pouvoir de se survivre ou plus exactement de se ré-imposer à la conscience, et que celle-ci, en réponse à cette récurrence, procède à une fixation qui est une schématisation (Das fixierte Erlebnis wird leblos)? Encore faudrait-il arriver à rendre cette survivance intelligible, ou peut-être se demander dans quelle mesure elle doit l’être – (si par exemple notre exigence d’intelligibilité n’implique pas ici une transposition arbitraire dans un certain ordre de ce qui n’a de sens que dans un autre ordre). On pourrait par exemple imaginer que chaque expérience ou chaque Erlebnis est inégalement amarré à ce que nous appelons assez improprement l’instant où cette expérience se produit, à son lieu spatio-temporel, son Hic et nunc. Ce que j’ai appelé plus haut survivance, ne serait en réalité que la qualité flottante, relâchée, qui appartiendrait à l’Erlebnis en question. Il faudrait examiner cette possibilité. Offre-t-elle vraiment un sens? Pouvons-nous penser que cet amarrage puisse comporter des degrés? A quoi cette gamme pourrait-elle correspondre?

Quando penso a certe scene della mia prima infanzia, ad esempio un certo ritorno in via Général-Foy alla fine di un pomeriggio (non avevo più di tre anni, è certo), sono portato a pensare che da una parte si è realizzata una sopravvivenza iniziale (fortuita oppure no: bisognerebbe chiedersi innanzitutto cosa significhi fortuita in un caso come questo); dall’altra inoltre, successivamente, una stereotipia. In questo secondo caso la parola conservare assume il significato di fissare. Se lo stesso termine si può applicare al primo caso, ha il medesimo significato? No, probabilmente, cosa che in prima battuta è importante, mi sembra. A titolo di ipotesi, e senza approfondire, possiamo riconoscere che alcune esperienze hanno la capacità di sopravvivere a se stesse o, più esattamente, di imporsi nuovamente alla coscienza? E che in risposta a questo ripresentarsi la coscienza procede a una fissazione che costituisce una schematizzazione? (Das fixierte Erlebnis wird leblos)? Inoltre bisognerebbe riuscire a rendere intelligibile questa sopravvivenza, o forse chiedersi in che misura debba esserlo – (ad esempio se in questo caso la nostra esigenza di intelligibilità non implichi una trasposizione arbitraria su un certo piano di ciò che ha senso soltanto a un altro livello). Ad esempio, si potrebbe immaginare che ogni esperienza o ogni Erlebnis sia diversamente ormeggiato a ciò che chiamiamo alquanto impropriamente l’istante in cui tale esperienza avviene, al suo luogo spazio-temporale, al suo hic et nunc. Ciò che prima ho chiamato sopravvivenza in realtà non sarebbe nient’altro che l’essere fluttuante, disteso, dell’Erlebnis in questione. Bisognerebbe esaminare questa possibilità. Ha veramente un senso? Possiamo pensare che questo ormeggio possa realizzarsi a gradi diversi? A cosa potrebbe corrispondere una tale gamma?

A la limite, l’Erlebnis parfaitement amarré (j’admets provisoirement que ce mot ait un sens) est celui qui ne pourrait en aucune façon se survivre. La réflexion fait apparaître ici un paradoxe. Je ne puis parler d’amarre qu’en fonction d’un élément invariant ou traité comme tel. Mais qu’est-ce qui, dans le cas qui nous occupe, pourrait jouer le rôle d’invariant? (En un autre langage, nous pourrions nous demander ce que recouvrent les mots hic et nunc? Peut-il y avoir attache ou manque d’attache à un emplacement?) Si à la réflexion cette question se révèle ne comporter aucune solution, il semble qu’il faille renoncer à ce mode d’interprétation3. Le paradoxe consiste en ce qu’une expérience incapable de se survivre, ou de revivre dans un nouveau contexte, paraît bien ne pouvoir justement pas être conçue comme attachée à un élément fixe. Mais ici encore, une réflexion s’imposerait sur la notion même de fixité (et indirectement sur l’usage possible hors du monde matériel d’une métaphore empruntée au domaine de la matérialité pure). Je me demande en ce moment si ceci ne rejoint pas les réflexions auxquelles je me suis livré naguère au sujet de l’arriver à. Il semble que de certaines choses (ce mot vague n’est guère évitable) je ne puisse pas dire à la lettre qu’elles me sont arrivées; ce sont celles qui ne se survivent pas, ou que je ne pourrai en aucune façon raconter. (La mort me paraît être quelque chose – il ne faut pas dire un événement – de cet ordre que je ne réussis à définir ici que négativement)4.

3 Je note en passant que ma méthode semble consister dans l’alternance d’une sorte de prospection et de réflexion qui analyse et critique ce qui a été donné à la faveur de cette prospection initiale. 4 Il s’agit ici bien entendu de ma mort et non pas de la mort de tel autre qui pour moi fait inévitablement figure d’événement (Notes de 1958).

Al limite, l’Erlebnis perfettamente ormeggiato (concedo a titolo provvisorio che questo termine abbia un senso) è quello che non potrebbe in nessun modo sopravvivere a se stesso. A questo punto la riflessione fa emergere un paradosso: posso parlare di ormeggio soltanto rispetto a un elemento invariante o considerato tale. Nel caso in questione, però, cosa potrebbe svolgere il ruolo di invariante? (In altri termini, potremmo chiederci cosa significhino le parole hic et nunc. Può esserci oppure no aggancio a un luogo?). Se riflettendo questa domanda si rivela affatto priva di risposta, forse bisogna rinunciare a un’interpretazione di questo tipo3. Ecco il paradosso: sembra proprio che un’esperienza incapace di sopravvivere a se stessa, oppure di rivivere in un nuovo contesto, non possa essere concepita, e a ragione, come ancorata a un elemento fisso. A questo punto, però, si imporrebbe anche una riflessione sul concetto stesso di stabilità (e indirettamente sul possibile uso, al di fuori del mondo materiale, di una metafora presa in prestito dall’ambito della pura materialità). Mi chiedo in questo momento se tutto ciò non abbia a che fare con le precedenti riflessioni sull’accadere a. Sembra che di alcune cose (non si può affatto fare a meno di questo termine generico) io non possa affermare alla lettera che mi sono accadute: sono quelle che non sopravvivono a se stesse, oppure che non potrò raccontare in nessun modo (la morte, mi pare, è qualcosa – non bisogna parlare di avvenimento – di questo tipo, che riesco a definire soltanto negativamente)4. 3 Il mio metodo – lo sottolineo en passant – sembra consistere nell’alternarsi di una sorta di ricerca e di riflessione che analizza e critica ciò che è emerso grazie a questa ricerca iniziale. 4 Si tratta, è chiaro, della mia morte, non della morte di un altro, che per me costituisce un avvenimento, inevitabilmente (appunti del 1958).

J’aperçois un lien très net entre cet ensemble de remarques et mes réflexions de Lyon. Mon passé ne peut être traité comme collection que pour autant qu’il est traité comme ensemble d’éléments clichés, repérés, répertoriés. Mon voyage en Yougoslavie, dans la mesure où je le raconte, serait-ce à moi-même, se réduit ainsi à une certaine somme d’éléments dénombrables. Mais en même temps je me rends bien compte que mon passé ne s’épuise pas dans cet ensemble. Ces éléments se présentent à moi, si j’y réfléchis bien, comme des cristallisations partielles, fragmentaires, je pourrais aussi dire des coagulations, de quelque chose de fluide qui les entoure et les imprègne; mais cet élément fluide tend à s’évaporer, ou du moins à devenir imperceptible lorsque je raconte ce voyage et surtout à mesure que je répète mon récit (Cf. la phrase d’Henri, dans le Monde Cassé)5. Corrélativement, notons que ces éléments sont de plus en plus dépersonnalisés; mon récit pourrait être fait par un tiers qui se substituerait à moi. Le récit à la première personne, devenant un récit à la troisième personne: «Gabriel s’est embarqué à Sussak, tel jour, sur tel bateau. Il a d’abord fait une escale à Rab, etc...». Pour moi-même, mon propre passé se dépersonnalise dans la mesure où je me le raconte de cette manière (image d’un chemin tracé par moi à l’origine qui deviendrait un chemin pour tout le monde, un chemin que tout le monde peut suivre). Je me rends du même coup étranger à moi-même en socialisant mon passé, en le rendant banal (au sens de four* de banal), je m’en retire. Mais il pourra suffire d’un hasard, d’un souffle, pour que je revive ce passé comme mien à travers ce récit qui le dénaturait, comme si je l’étreignais à nouveau, lui que j’avais renié en le débitant.

5 «Je vous dirai que j’ai déjà fait ce récit onze fois. Il a entièrement dévoré mes souvenirs; je le sais par cœur, mais j’ai oublié tout ce que j’ai vu.»

Noto un legame ben evidente tra queste osservazioni nel loro complesso e le mie riflessioni di Lione. Il mio passato può essere considerato una collezione soltanto nella misura in cui è trattato come un insieme di elementi stereotipati, classificati, catalogati. Nel momento in cui lo racconto, fosse anche soltanto a me stesso, il mio viaggio in Iugoslavia si riduce a una certa somma di elementi computabili. Nello stesso tempo, però, mi rendo conto chiaramente che il mio passato non si esaurisce in questo insieme. Pensandoci bene, questi elementi mi si presentano come cristallizzazioni parziali, frammentarie, coagulazioni, potrei anche dire, di qualcosa di fluido che le circonda e le impregna. Tuttavia quando racconto questo viaggio, e soprattutto man mano che ripeto la mia narrazione, questo elemento fluido tende a dileguarsi, o almeno a diventare impercettibile (si veda la frase di Henri in Le monde cassé*)5. Correlativamente, questi elementi sono sempre più spersonalizzati, e una terza persona potrebbe benissimo raccontare al posto mio. Il racconto in prima persona diventerebbe un racconto in terza persona: “Il tal giorno Gabriel si è imbarcato a Sussak, su una certa nave. In un primo momento ha fatto scalo a Rab, ecc…”. Nella misura in cui lo racconto a me stesso in questo modo (immagine di un cammino tracciato da me all’inizio, che diventa un cammino per tutti e che tutti possono seguire) il mio proprio passato si spersonalizza per me, e contemporaneamente socializzandolo mi rendo estraneo a me stesso, rendendolo banale, me ne ritraggo. Basterà un caso fortuito, però, un soffio, perché attraverso questo racconto che lo snaturava io riviva questo passato come mio: come se lo facessi di nuovo mio, dopo averlo rinnegato rendendolo pubblico.

5 “Posso dirle che ho ripetuto questo racconto già undici volte. Ha divorato completamente i miei ricordi; lo conosco a memoria, ma ho dimenticato tutto quello che ho visto”.

Si je me réfère à l’exemple choisi du voyage en Yougoslavie, je dois ajouter que l’élément fluide dans lequel baignent les souvenirs dénombrés, se trouve intimement qualifié par le fait que cette expérience fut nôtre à ma femme et à moi. Et ceci serait à creuser. Mais tout de suite, je passe au-delà de ce cas particulier pour me demander si cette conscience d’un nôtre n’est pas présente là même où je me suis – objectivement parlant – trouvé seul; cela dans la mesure où je suis essentiellement et pour toujours devenu pour moi-même un toi, où je forme une communauté qui ne se laisse jamais réduire à une subjectivité pelliculaire. Il me semble bien que c’est par cette présence d’un toi en moi que je peux seulement rendre compte de cette qualité intime, mystérieuse, qui affecte pour moi mon passé (il faut sûrement ajouter qu’une coalescence tend à se réaliser entre ce toi presque insaisissable, inobjectivable, et tous ceux qui furent toi pour moi, c’est-à-dire les «Dear ones». Quel malheur que la langue française se prête si mal à l’expression de ces vérités essentielles! Je suis obligé de dire les bien-aimés). Il faudrait remonter de là à la question que je posais au début de l’après-midi au sujet de l’élément fixe, auquel devraient, semble-t-il, être indestructiblement amarrées les données non flottantes de mon expérience, celles qui ne peuvent entrer dans une collection. Je note encore ceci: j’ai parlé plus haut de survivance. Mais ne se produirait-il pas ici un singulier bouleversement? A partir du moment où il y a fixation, il n’y a pas et il ne peut pas y avoir survie, mais plutôt mortification, au sens où on parle d’une peau morte. C’est bien ici que le mot conservé trouve son application, comme lorsqu’on parle fruits en conserve. Pour autant qu’on entend par souvenir une certaine vie, une certaine survie réelle, il faudrait donc dire paradoxalement que je ne me souviens que de ce dont je ne

Devo aggiungere, sempre riferendomi all’esempio del viaggio in Iugoslavia, che l’elemento fluido nel quale sono immersi i singoli ricordi sgranati è intimamente qualificato dal fatto che l’esperienza è stata nostra, mia e di mia moglie. Questo aspetto andrebbe approfondito, però. Procedendo subito oltre questo caso particolare, mi chiedo se questa consapevolezza di qualcosa di nostro non sia presente anche nel caso in cui io mi sono trovato – oggettivamente parlando – solo: tutto ciò nella misura in cui io sono diventato per me stesso, essenzialmente e per sempre, un tu, nella misura in cui io formo una comunità che non si lascia mai ridurre a una soggettività pellicolare. Proprio per la presenza di un tu in me, e soltanto per questo, io posso rendere conto della qualità intima, misteriosa, che assume per me il mio passato (bisogna sicuramente aggiungere che tende a realizzarsi una coalescenza tra questo tu quasi inafferrabile, inoggettivabile, e tutti coloro che furono tu per me, cioè i “Dear ones”. Che peccato! La lingua francese si presta malissimo a esprimere verità essenziali come queste! Sono costretto a dire “les bien-aimés”). Da qui bisognerebbe ritornare alla domanda posta nel primo pomeriggio sull’elemento fisso al quale dovrebbero essere indistruttibilmente ancorati – così sembra – i dati non fluttuanti della mia esperienza, quelli che non possono entrare a far parte di una collezione. Ancora un’osservazione: prima ho parlato di sopravvivenza. In questo caso non avviene forse un singolare capovolgimento? Dal momento in cui si ha fissaggio non c’è e non può esserci sopravvivenza ma piuttosto disfacimento, nel senso in cui si parla di carne morta. E il termine conservato si addice proprio a ciò, esattamente come quando si parla di frutta in conserva. Se con ricordo si intende una certa vita, una certa sopravvivenza reale, bisognerebbe dunque affermare, paradossalmente, che io mi ricordo soltanto di

me souviens pas. Ici passage à Proust. Cette survie réelle ne serait saisissable que d’une façon fulgurante, évanouissante aussi en tant qu’elle précède tout clichage. Montana, 23 décembre 1940. Je suis extrêmement mécontent de ce que j’ai écrit avanthier. Rien n’est au point. Ce que j’ai écrit sur le toi dans le moi est inintelligible. Il faut que j’arrive à dégager ce que j’entrevoyais confusément. Je pense qu’il y a là l’expression abstraite d’une expérience que j’ai faite depuis l’enfance, celle du dialogue avec moi-même, qui n’a probablement rien de commun avec la relation sujet-objet des philosophes. Elle communique au contraire directement avec celles que j’ai évoquées dans Appartenance et Disponibilité. Pourrait-on exploiter l’idée d’un moi communautaire, c’est-à-dire d’une communauté entre les éléments (mot impropre) non dénombrables, de laquelle se distribueraient les données de l’expérience, ces données étant en conséquence très inégalement personnalisables? On demandera d’abord comment je peux parler d’une communauté dont les éléments ne peuvent être dénombrés. – C’est que cette communauté ne peut en réalité être posée devant moi comme une multiplicité formée d’unités juxtaposées. Poser une telle multiplicité, c’est la rendre étrangère à moi-même, c’est rompre toute intimité entre elle et moi. Or, c’est justement de cette intimité qu’il s’agit de rendre compte. C’est dans la mesure où il ne peut être question de multiplicité, qu’il ne peut pas non plus être question d’élément. J’accorde cependant que je me meus en pleine contradiction, puisque j’ai parlé de distribution entre, ce qui semble bien supposer des éléments dénombrés ou des zones repérées.

ciò che non ricordo. E qui si passa a Proust. Questa sopravvivenza reale può essere colta soltanto in modo fulmineo, evanescente anche, in quanto precede ogni stereotipia. Montana, 23 dicembre 1940. Sono estremamente scontento di quello che ho scritto l’altro ieri: nulla è al suo posto. Le mie affermazioni sul tu nell’io sono incomprensibili. Ciò che intravedevo confusamente deve essere dipanato. In quel caso, penso, è espressa in modo astratto un’esperienza che ho fatto fin dall’infanzia: quella del dialogo con me stesso. Probabilmente non ha niente in comune con il rapporto soggetto-oggetto dei filosofi, ma si ricollega al contrario direttamente con le relazioni di cui ho parlato in Appartenenza e disponibilità*. Si potrebbe sfruttare l’idea di un io comunitario, cioè di una comunità tra gli elementi (termine improprio) non numerabili, dalla quale si diramerebbero i dati dell’esperienza, proprio in quanto tali personalizzabili a livelli molto diversi? La prima obiezione sarà come io possa parlare di una comunità i cui elementi non possono essere enumerati. – Il fatto è che in realtà questa comunità non può essere posta davanti a me come una molteplicità formata da unità giustapposte. Porre una tale molteplicità significa renderla estranea a me stesso, significa annullare ogni intimità tra me e questa comunità. Ora, è proprio di questa intimità che si deve rendere conto. Nella misura in cui non può trattarsi di molteplicità non si può parlare neppure di elemento. Mi trovo nel bel mezzo di una contraddizione, lo riconosco, poiché ho parlato di distribuzione tra, cosa che sembra presupporre proprio elementi enumerati o ambiti catalogati.

Tout se passe comme si j’étais contraint de recourir à une métaphore inadéquate pour traduire une réalité que je peux seulement viser; je me retourne ensuite vers cette métaphore ou contre elle pour en déceler l’inadéquation. Ici encore, une obscurité. On se retourne à partir de... Donc, semblet-il, à partir de quelque chose d’atteint ou de possédé, et non pas de simplement visé. Ce qui me frappe en ce moment, c’est le fait que ce que je cherche si péniblement à élucider correspond au mot latin conscius pris dans son acception étymologique. Il est de mon essence en tant qu’être conscient d’être associé ou accolé à. Montana, Noël 1940. Ce matin, ma pensée s’est arrêtée sur l’acte de commémoration. Il faudrait arriver à penser l’acte ambigu qui s’exprime dans le verbe commémorer. Il ne s’agit sûrement pas seulement d’une évocation subjective, mais d’une re-création, d’un renouvellement. Ceci est vrai pour les fêtes religieuses; pour les fêtes civiques, ce n’est vrai que par analogie avec les premières. On retrouve, on vérifie ici ce que j’écrivais il y a deux ou trois jours au sujet de la périodicité. Alain a bien vu cela, mais peut-être pas jusqu’au fond. La condition humaine est impensable sans une récurrence périodique en soi et hors de soi. Mais en même temps, à travers cette récurrence, passe de l’irréversible. Il faudrait arriver à rendre intelligible le rapport qui lie récurrence et irréversibilité. Y a-t-il là pure et simple opposition? Je ne puis le croire. Question capitale pour qui veut penser l’immortalité. La périodicité nous apparaît comme relative par rapport à quelque chose qui la transcende; mais n’est-ce là peut-être qu’une apparence nécessaire pour que la créature s’appréhende comme créature?

Tutto accade come se io fossi costretto a ricorrere a una metafora inadeguata per tradurre una realtà alla quale posso soltanto aspirare. Mi volgo poi verso questa metafora o contro di essa per coglierne l’inadeguatezza. Oscurità, anche in questo caso. Ci si volge a partire da… Dunque, sembra, a partire da qualcosa che si è raggiunto o si possiede, e non al quale si aspira, semplicemente. A colpirmi in questo momento è il fatto che ciò che tento così a fatica di chiarire corrisponde al termine latino conscius considerato nella sua accezione etimologica: in quanto essere cosciente sono per essenza associato o unito strettamente a. Montana, Natale 1940. Questa mattina mi sono attardato a riflettere sull’atto di commemorazione. Bisognerebbe riuscire a pensare l’atto ambiguo espresso dal verbo commemorare: si tratta sicuramente non soltanto di un’evocazione soggettiva, ma di una ri-creazione, di un rinnovamento. È vero per le feste religiose, mentre per le feste civili lo è solo per analogia con le prime. Su questo si ritrova, si accerta quello che ho scritto due o tre giorni fa a proposito della periodicità, cosa che Alain ha ben capito, ma forse non fino in fondo. La condizione umana è impensabile senza una ripetizione periodica in sé e fuori di sé, e nello stesso tempo in questo ricorrere passa qualcosa di irreversibile. Dovrebbe essere reso intelligibile proprio il rapporto che lega ripetizione e irreversibilità. Si tratta di pura e semplice opposizione? Non posso crederlo. Problema fondamentale per chi vuole pensare l’immortalità. La periodicità ci sembra relativa rispetto a qualcosa che la trascende: si tratta forse soltanto di un’apparenza necessaria affinché la creatura si colga come tale? Tutto ciò non mi è

Ceci n’est pas parfaitement clair dans mon esprit, mais je sens qu’il y a un chemin à suivre. Montana, 31 décembre 1940. La nouvelle reçue à l’improviste vendredi de mon affectation au lycée de Montpellier m’a paralysé intellectuellement pour combien de temps? Hier soir, il m’est venu cette simple remarque: un Nietzsche, un Malraux, ont cru que l’homme libéré de Dieu serait par là même grandi, qu’il aurait plus de place en quelque sorte. Tout permet de penser que la vérité est inverse. J’en dirai autant en ce qui concerne la vie terrestre et l’au-delà. C’est une folle illusion de croire que la vie terrestre s’augmente en quelque sorte lorsqu’on lui refuse tout prolongement outre-tombe. L’homme et la vie, bien loin de trouver là une expansion, se recroquevillent misérablement. Il faut arriver à comprendre pourquoi. Au fond, il faudrait reprendre la phrase de Nietzsche: «l’homme est quelque chose qui doit être dépassé», mais en montrant que dans Zarathoustra cette affirmation est interprétée dans un sens grossièrement temporel qui l’altère et finalement l’annule A reprendre en des circonstances plus favorables6.

6 Ceci me parait aujourd’hui tout à fait contestable. On peut se demander si pour Nietzsche l’avènement du sur-homme ne doit pas au contraire etre considéré de facon non-temporelle (Notes de 1958).

completamente chiaro, e mi rendo conto che c’è tutto un cammino da fare. Montana, 31 dicembre 1940. La notizia improvvisa di venerdì della mia nomina al liceo di Montpellier mi ha paralizzato intellettualmente. Ma per quanto tempo? Ieri sera mi è venuta in mente questa semplice osservazione: un Nietzsche, un Malraux hanno creduto che l’uomo liberandosi di Dio avrebbe addirittura aumentato la sua grandezza, che in qualche modo avrebbe acquisito maggiore libertà di movimento. Tutto induce a pensare che sia vero esattamente il contrario. Direi la stessa cosa per quanto riguarda la vita terrena e l’aldilà. È una folle illusione pensare che la vita terrena acquisti in qualche modo di importanza quando le viene negato ogni prolungamento nell’oltretomba: lungi dal trovare in ciò un’espansione, l’uomo e la vita si accartocciano miseramente. Bisogna riuscire a capire perché. In fondo si dovrebbe riprendere l’affermazione di Nietzsche secondo la quale “l’uomo è qualcosa che va oltrepassato”, mostrando però che in Zarathustra* queste parole sono interpretate in un senso grossolanamente temporale che le altera e finisce per annullarne il senso. Da riprendere in circostanze più favorevoli6.

6 Oggi queste affermazioni mi sembrano affatto contestabili. Ci si può chiedere se per Nietzsche l’avvento dell’oltreuomo non debba al contrario essere considerato in modo non-temporale. (Annotazioni del 1958).

Lyon, 2 janvier 1941, au soir. Mon idée est de faire un cours à Montpellier sur le Bien et le Mal, au point de vue psychologique, moral et métaphysique. Montpellier, 22 janvier 1941. Je ne sais si j’aurai ici la possibilité de noter quoi que ce soit. Mes classes drainent tout, elles me vampirisent très exactement. Montpellier, 25 février 1941. Je voudrais entreprendre une étude sur le droit de juger dont l’idée m’est venue à partir de réflexions sur le mépris amorcées dans une de mes classes. Je supposerai d’abord que le sens des mots «droit de juger» soit parfaitement clair. On me déniera – je devrai me dénier à moi-même – le droit de juger un acte dont j’ignore le contexte ou les conditions. Ou encore, je poserai un principe que je ne puis me mettre à la place de Pierre sur qui je suis appelé à porter un jugement; je serai donc en droit dans l’impossibilité de le faire. Inversement, il semble que si j’ai la possibilité (?) de me mettre à la place de Pierre, je sois en état de le juger, de juger sa conduite. Qu’est-ce que cette possibilité, et qu’est-ce que ce jugement? Cette possibilité consiste dans les éléments d’information que je possède sur Pierre, sur la situation dans laquelle il se trouve. J’admets qu’en partant de ces éléments, je peux me substituer en quelque sorte idéalement à lui; ainsi se trouve assurée la base d’une sorte d’expérimentation dont il faut

Lione, 2 gennaio 1941, sera. Per quanto riguarda Montpellier, ho in mente di tenere un corso sul Bene e sul Male, dal punto di vista psicologico, morale e metafisico. Montpellier, 22 gennaio 1941. Non so se avrò la possibilità di annotare un qualche pensiero finché sarò qui. Le mie classi mi prosciugano completamente, mi vampirizzano, letteralmente. Montpellier, 25 febbraio 1941. Avrei l’intenzione di iniziare uno studio sul diritto di giudicare: l’idea mi è venuta prendendo spunto da riflessioni sul disprezzo abbozzate in una delle mie classi. Presupporrò innanzitutto che il senso delle parole “diritto di giudicare” sia perfettamente chiaro. Mi verrà negato il diritto – dovrò essere io a negarlo a me stesso – di giudicare un atto di cui ignoro il contesto oppure le condizioni. O, ancora, porrò un principio: io non posso mettermi al posto di Pierre che sono chiamato a giudicare. Mi troverò dunque di diritto nell’impossibilità di farlo. Viceversa, sembra che io sia nelle condizioni di giudicarlo, di giudicare il suo comportamento, se ho la possibilità (?) di mettermi al posto di Pierre. Cos’è questa possibilità? E questo giudizio? Questa possibilità consiste negli elementi di informazione che possiedo su Pierre, sulla situazione nella quale si trova. Riconosco che partendo da questi elementi posso in qualche modo sostituirmi a lui, sia pure idealmente: viene così posto il fondamento di una specie di esperimento di cui ora biso-

maintenant préciser la nature. Il s’agit pour moi de supprimer idéalement une extériorité par rapport à la conduite de Pierre, qui serait sensée exclure pour moi la possibilité de condamner par exemple celle-ci (notons qu’en fait il s’agit de condamnation plutôt que d’approbation). J’admets que cette extériorité – analogue à celle de deux figures que l’on compare – a effectivement été supprimée. Supposons maintenant que je reconnaisse qu’à la place de Pierre j’aurais agi comme lui; je tendrai à en conclure que je n’ai pas qualité pour le condamner. Si au contraire j’ai la certitude (?) que dans sa situation j’aurais agi autrement, j’inférerai vraisemblablement de là que j’ai le droit de le juger. Cette argumentation a-t-elle une valeur quelconque? (Je note que nous ne savons toujours pas exactement ce qu’est ce droit de juger que tantôt je m’arroge, tantôt je me dénie.) La réflexion la plus simple suffit à me montrer qu’elle n’en a aucune. 1° A sa place, j’aurais agi de même: mais ce peut être parce que je discerne en moi les mêmes faiblesses que j’aperçois en lui. Au fond, c’est à une simple constatation que j’ai été amené (une constatation portant sur du possible, si singulier que cela puisse sembler). J’aurais agi de même, mais je sais que j’aurais eu tort. En d’autre terme, je garde par rapport à moi-même (comme par rapport à cet autre avec lequel je me confonds idéalement) ma liberté de jugement. Le fait que placé dans les mêmes circonstances que Pierre, j’aurais presque certainement agi comme lui, ne constitue pas à mes yeux une raison valable d’absoudre cette action. 2° A sa place, j’aurais agi autrement que lui: la réflexion me montre aussitôt ce que cette affirmation a de hasardeux; que signifie «à sa place»? Est-ce que je n’objective pas indûment des conditions qui ne sont dissociables

gna precisare la natura. Quello che devo fare è annullare idealmente il fatto di trovarmi all’esterno rispetto al comportamento di Pierre poiché si suppone che mi precluderebbe la possibilità, ad esempio, di condannare tale comportamento (va sottolineato, di fatto si tratta di condanna piuttosto che di approvazione). Prendo atto che questa estraneità – simile a quella di due figure messe a confronto – è stata effettivamente soppressa. Se io riconosco ora che al posto di Pierre avrei agito come lui, sarò portato a concludere che non ho le prerogative per condannarlo. Se ho invece la certezza (?) che trovandomi nella sua situazione avrei agito diversamente, verosimilmente ne dedurrò che ho il diritto di giudicarlo. Questa argomentazione presenta qualche elemento di validità? (Rilevo che non sempre sappiamo esattamente cosa sia il diritto di giudicare che a volte mi arrogo, a volte ritengo di non avere). Una semplicissima riflessione è sufficiente per far emergere che non ha alcun valore. 1° Al posto suo, avrei agito allo stesso modo, forse perché ritrovo in me le sue stesse debolezze. In fondo non ho fatto altro che una semplice costatazione (una costatazione che si fonda su qualcosa di possibile, per quanto possa sembrare singolare). Mi sarei comportato nella stessa maniera, ma so che avrei avuto torto. In altri termini, conservo rispetto a me stesso (come in rapporto all’altro con il quale mi identifico idealmente) la mia libertà di giudizio. Il fatto che collocato nelle stesse circostanze di Pierre avrei agito, quasi sicuramente, come lui non rappresenta ai miei occhi un valido motivo per assolvere questa azione. 2° Al posto suo, non avrei agito come lui: la riflessione mi pone subito di fronte all’azzardo implicito in questa affermazione. Cosa significa “al suo posto”? Non oggettivo forse indebitamente condizioni che si possono dissociare

que par abstraction de l’être qui s’y trouve placé? Je suppose ou j’admets «qu’étant à sa place», je serais resté moi tel que je me connais; mais n’est-ce pas précisément ce qui est en question? Pour me mettre à sa place, ne faudrait-il pas entrer dans tout son passé, épouser en quelque sorte sa courbe vitale? Mais si j’y parvenais, serais-je encore moi? Que s’ensuit-il? Simplement, semble-t-il, que le résultat positif ou non, de l’expérience idéale par laquelle je tente de me substituer à l’autre pour me rendre compte si dans les mêmes circonstances j’aurais agi comme lui, n’a pas à intervenir dans mon jugement sur cette action – d’abord parce que cette expérience est en dernière analyse impraticable – mais aussi parce qu’il est de mon essence en tant qu’être pensant de pouvoir adopter par rapport à mes propres actes une attitude purement objective. Cependant, quelque chose s’inscrit en faux au fond de moi-même contre cette faculté que j’accorde ici à ma raison de porter des jugement valables sur un acte, qu’il ait été commis par moi ou par un autre, sans me soucier de savoir quelle serait ma propre conduite, ou encore en acceptant, en homologuant simplement à l’occasion le désaccord, l’in-congruence entre mes jugements et mes actes. Quelque chose en moi proteste contre cette sorte de facilité que se donne ma raison en ne tenant pas compte de ce qu’est ma conduite réelle. C’est le sens de cette protestation qu’il faudrait élucider. Ne pourrais-je pas l’interpréter à peu près de la façon suivante; ma raison, après tout, c’est encore moi-même; ce n’est pas un tribunal suprême, qui, on ne sait pourquoi ni comment, viendrait siéger en moi ou au besoin statuer sur mon compte, mais sans que cette sentence change au fond rien à ce que je fais ou à ce que je suis.

soltanto in astratto dall’essere che vi si trova posto? Suppongo o riconosco “che essendo al suo posto” io sarei rimasto così come mi conosco. Ma non è proprio questo il problema? Per mettermi al suo posto non dovrei forse entrare nella totalità del suo passato, sposare in qualche modo la sua curva vitale? Ammettendo che ci riesca, sarei ancora me stesso? Cosa ne consegue? Semplicemente – sembra – che il risultato, positivo o meno, dell’esperienza ideale con la quale tento di sostituirmi all’altro per rendermi conto se nelle stesse circostanze avrei agito come lui non deve influenzare il mio giudizio su questa azione: innanzitutto perché questa esperienza è in ultima analisi impraticabile, ma anche perché per essenza in quanto essere pensante posso assumere un atteggiamento puramente oggettivo rispetto ai miei atti. Tuttavia in fondo a me stesso qualcosa dichiara inammissibile la facoltà, che in questo caso io riservo alla mia ragione, di esprimere giudizi validi su un atto, che sia commesso da me oppure da un altro, senza preoccuparmi di sapere come mi comporterei io, oppure accettando, semplicemente ricomponendo per l’occasione il disaccordo, l’incongruenza tra i miei giudizi e i miei atti. In me qualcosa insorge contro questa sorta di faciloneria della mia ragione nel momento in cui non tiene conto di quello che è il mio comportamento reale. È il senso di questa protesta che bisognerebbe chiarire. Potrei interpretarla pressappoco così: dopotutto la mia ragione è ancora me stesso. Non si tratta di un tribunale supremo che, non si sa perché né come, si insedierebbe in me oppure in caso di necessità delibererebbe sul mio conto, senza però che questa sentenza, in fondo, cambi nulla di ciò che faccio o di ciò che sono.

Montpellier, 27 février 1941. Peut-être tout ceci s’éclaire-t-il par voisinage si nous évoquons par exemple ce que signifie le droit de se plaindre. J’ai loué une maison à quelqu’un qui m’a prévenu que la toiture était en mauvais état et risquait d’être percée aux premières intempéries. Effectivement, les chambres sont inondées, le mobilier que j’ai apporté est gâté, etc... Vous me direz que je n’ai pas le droit de me plaindre, car j’étais prévenu. J’avais accepté le risque. Le propriétaire ne mérite aucun reproche. (Peut-être a-t-il eu tort de ne pas faire réparer sa toiture quand il le pouvait, mais j’ai accepté de ne pas revenir sur cette faute possible.) Me plaindre, ce serait accomplir un acte déterminé, ce serait peut-être amorcer une action en dommages et intérêts, etc... C’est cette action que je me suis par avance retiré le droit d’accomplir. En revanche, je garde le droit – mais ce mot a-t-il un sens précis? – de juger sévèrement la négligence dont le propriétaire a fait preuve, et peut-être aussi ma propre légèreté. Mais ce jugement reste essentiellement platonique, il n’affecte pas le monde réel, il demeure purement idéal. Il est en un certain sens comme s’il n’était pas. Il est certes impossible de voir comment on pourrait me dénier le droit (?) de procéder à cette réflexion... Mais ici le mot réflexion apporte avec lui la lumière. Rien ni personne au monde ne peut me refuser le droit de réfléchir, mais justement, parce que ce droit est absolu et imprescriptible, ce n’est peut-être pas du tout un droit. Il est en effet de l’essence d’un droit de pouvoir être reconnu et sauvegardé du dehors. Ici, rien de semblable... Tout se passe en moi et dans une enceinte inviolable, ce qui ne veut pas dire qu’en fait on ne puisse pas me mettre dans l’impossibilité de réfléchir.

Montpellier, 27 febbraio 1941. Un chiarimento può venire forse da un accostamento, ad esempio se ci si riferisce a ciò che significa il diritto di lamentarsi. Ho preso in affitto una casa da un tale che mi ha messo al corrente del fatto che il tetto si trovava in cattive condizioni e rischiava di danneggiarsi con le prime piogge. Effettivamente le stanze si allagano, la mia mobilia è rovinata, ecc. Si penserà che non ho il diritto di lamentarmi: essendo stato avvisato, ho accettato il rischio, e quindi il proprietario non merita nessun rimprovero. (Forse ha sbagliato a non far riparare la copertura quando ne aveva l’opportunità, ma ho accettato di non ritornare su questa possibile colpa). Lamentarsi significherebbe compiere un atto ben preciso, significherebbe forse avviare una causa per danni, ecc. È proprio al diritto di compiere questa azione che ho rinunciato anticipatamente. In compenso conservo il diritto – ma questa parola ha un significato preciso? – di giudicare severamente la negligenza di cui il proprietario ha dato prova, e di giudicare anche, forse, la mia propria leggerezza. Ma questo giudizio rimane essenzialmente platonico, non incide sul mondo reale, resta puramente ideale. In un certo senso è come se non esistesse. È sicuramente impossibile comprendere come si potrebbe negarmi il diritto (?) di fare questa riflessione… Qui però il termine riflessione è chiarificatore. Niente né nessuno al mondo può negarmi il diritto di riflettere, ma proprio perché questo diritto è assoluto e imprescrittibile forse non si tratta affatto di un diritto. Infatti per essenza un diritto può essere riconosciuto e salvaguardato dall’esterno. Niente di tutto ciò in questo caso… Tutto accade in me e in uno spazio inviolabile, ma non vuol dire che di fatto non si possa mettermi nell’impossibilità di riflettere.

Notes de décembre 1958. Je crains bien de n’avoir pas mesuré la portée de cette dernière réserve lorsque j’écrivis ces lignes en 1941. Il est devenu de plus en plus visible, depuis lors, hélas, qu’il est au pouvoir des hommes d’abolir pratiquement le for intérieur. La distinction indiquée plus haut garde néanmoins une certaine valeur, mais cette valeur est loin d’être absolue. La tragédie du jugement, c’est que d’une part il comporte une protension telle que je tends à penser: «si je juge vraiment, ce n’est plus moi qui juge»; mais que d’autre part, pour autant que le jugement est acte, il m’engage, et j’en dois par conséquent porter la responsabilité. *** Les notes qu’on va lire maintenant se rapportent à une question centrale qui n’a jamais cessé de me hanter, et dont il est peut-être utile de préciser d’abord les termes. Des phénoménologues tels que Heidegger et Jean-Paul Sartre, un grand poète tel que Rainer Maria Rilke se sont préoccupés de saisir le rapport intime qui me lie à ma propre mort; Heidegger en particulier, transposant sur le plan philosophique un thème admirablement traité dans les Cahiers de Malte Laurid Brigge, a cru pouvoir définir comme invariant de l’humaine condition ce qu’il appelle l’être-pour-la-mort, c’est-à-dire en quelque façon la préordination qui lie chacun de nous à sa propre mort. Jean-Paul Sartre a présenté dans l’Etre et le Néant une critique de cette conception qui paraît pertinente. Mais aucun de ces deux philosophes ne me semble s’être sérieusement soucié de rechercher comment la mort de l’être aimé peut affecter métaphysiquement celui que cette mort dévaste. C’est qu’au fond, on peut se demander si ces deux penseurs, malgré leurs professions de foi réa-

Appunti di dicembre 1958. Temo proprio di non aver valutato la portata di quest’ultima riserva quando ho scritto queste righe nel 1941. Purtroppo da allora è diventato sempre più evidente che gli uomini di fatto hanno il potere di annullare il foro interiore. La distinzione sopra indicata conserva comunque un certo valore, ma tale valore è ben lontano dall’essere assoluto. La tragedia del giudizio consiste nel fatto che da una parte comporta una protensione tale che ho la tendenza a pensare: “se giudico veramente non sono più io a giudicare”. Dall’altra, però, nella misura in cui il giudizio è atto mi impegna, e di conseguenza devo assumermene la responsabilità. *** Le prossime annotazioni si ricollegano a un problema centrale che non ha mai smesso di assillarmi, e di cui ritengo sia meglio precisare innanzitutto i termini. Fenomenologi come Heidegger e Jean-Paul Sartre, ma anche un grande poeta come Rainer Maria Rilke, hanno avuto la preoccupazione di cogliere il rapporto intimo che mi lega alla mia propria morte. Heidegger in particolare, trasponendo sul piano filosofico un tema affrontato in modo ammirevole nei Cahiers de Malte Laurids Brigge*, ha pensato di poter definire come invariante della condizione umana quello che chiama l’essere-per-la-morte, cioè in qualche modo la preordinazione che lega ciascuno di noi alla sua propria morte. Questa concezione è stata poi criticata da Jean-Paul Sartre ne L’essere e il nulla* in un modo che appare pertinente. Nessuno dei due filosofi, però, si è seriamente preoccupato di ricercare – così mi sembra – in che modo la morte dell’essere amato possa abbattersi metafisicamente su colui che viene devastato da questa morte. In fondo ci si può chiedere se questi due pen-

listes, ont suffisamment porté leur attention sur la nature du lien qui unit l’aimant à l’aimé, et si en fait ils ne restent pas prisonniers d’un idéalisme destructeur, qu’ils ont théoriquement surmonté. C’est autour de ce problème de la mort de l’être aimé et de ses implications que gravitent les réflexions dont on va prendre connaissance. Le Peuch, 19 mai 1942. Je rôde depuis quelques jours – et au fond, depuis bien plus longtemps, depuis toujours – autour d’idées presque insaisissables, et auxquelles je vaudrais arriver à faire prendre corps. Je n’aurai, me semble-t-il, accompli ma mission sur la terre que lorsque j’y serai parvenu. Survivre à... En quel sens puis-je dire: j’ai survécu à un tel? Cette affirmation ne me paraît avoir de sens qu’en fonction d’une certaine représentation, celle d’un parcours; un tel et moi nous avons fait route ensemble jusqu’à un tel moment, c’est-à-dire au fond jusqu’à tel point; à partir de là, j’ai fait le trajet seul; un tel ne m’a pas accompagné au-delà de ce point. Survivre, c’est donc dépasser sur un certain chemin. Je me représente ma vie passée sur une route que je «parcours des yeux» lorsque je me retourne vers elle. Sur cette route qui s’allonge sous mes yeux et pourtant derrière moi, je repère les emplacements où se sont immobilisés, les uns après les autres, tous ceux auxquels j’ai survécu, que j’ai dépassés, comme je serai moi-même un jour dépassé. Mais il faut arrêter ma pensée sur cette immobilisation: il n’est pas vrai que ces êtres qui furent à tout le moins, et peut-être sont aussi vivants que je le suis moi-même,

satori, malgrado le loro professioni di fede realista, abbiano prestato sufficiente attenzione alla natura del legame che unisce l’amante all’amato, e se di fatto non restino prigionieri di un idealismo distruttivo, che dal punto di vista teorico hanno oltrepassato. È proprio attorno al problema della morte dell’essere amato e delle sue implicazioni che gravitano le riflessioni qui proposte. Le Peuch, 19 maggio 1942. Da alcuni giorni ormai – ma in fondo da molto più tempo, da sempre - mi aggiro intorno a idee quasi inafferrabili, che tuttavia vorrei prendessero corpo. Mi sembra che avrò compiuto la mia missione sulla terra soltanto quando ci sarò riuscito. Sopravvivere a … In che senso posso dire di essere sopravvissuto a un tale? Mi sembra che questa affermazione abbia senso soltanto rispetto a una certa rappresentazione: quella di un percorso. Io e un tale abbiamo fatto un tragitto insieme fino a un certo momento, cioè in fondo fino a un certo punto, poi a partire da là l’ho fatto da solo, e il tale non mi ha accompagnato oltre. Sopravvivere significa dunque oltrepassare su un certo cammino. Io mi rappresento la mia vita passata come su una strada, e la “percorro con gli occhi” quando il mio sguardo si volge a essa. Su questa strada che si distende sotto i miei occhi, ma dietro di me, io individuo i punti dove, gli uni dopo gli altri, sono rimasti bloccati tutti coloro ai quali sono sopravvissuto, e che ho superato. Io stesso a mia volta, però, verrò un giorno superato. Ma a questo punto devo soffermarmi su questa immobilizzazione: non è vero che questi esseri che almeno furono, e forse sono vivi tanto quanto me, sono rimasti bloccati in quei

se soient immobilisés à ces places. En vérité, c’est moi qui les immobilise, par une démarche d’autant plus irrépressible de mon imagination que celle-ci s’exerce sur des êtres que j’ai davantage aimés. Là est la raison pour laquelle mon imagination est fascinée par les dernières visions que ces êtres m’ont laissées d’eux-mêmes, par les derniers entretiens que nous avons eus; ces visions, ces entretiens ne sont pas, comme les visions ou les entretiens qui les ont précédés, entraînés dans un certain mouvement, dans un certain glissement de la vie; ils tendent à se présenter à moi comme dotés d’un véritable pouvoir d’arrêt, ils tendent à affecter pour ma pensée l’hermétique opacité d’une chose. Je bute contre eux comme on se cogne contre une porte close. Toutefois, je le répète, la réflexion me montre que c’est là un effet d’imagination dont cette réflexion même, ou peut-être une imagination supérieure, doit me permettre de me libérer. Je pars au fond de ce postulat presque informulable que mon ami en est resté à l’état où je l’ai vu, sur ce lit d’hôpital où j’épiais les mots qui ponctuaient son agonie, exactement comme je pourrais répondre à la question: où avez-vous laissé votre compagnon, où était-il quand il a abandonné la course? Il était à la corne du petit bois, il était si las qu’il doit y être encore. La question que je me pose est de savoir dans quelle mesure une vie – celle de mon ami ou la mienne – est vraiment assimilable à un semblable parcours. Si je considère mon ami comme un certain corps occupant à tout moment une place déterminée dans l’espace, l’assimilation présente un sens; c’est-à-dire que le corps s’est déplacé, qu’il a été transporté de-ci de-là, cependant qu’il subissait une infinité de transformations internes. Il en est de même de mon corps. Il est vrai de même que nous avons eu chacun à accomplir un certain parcours au sens strictement spatial de ce mot; il est vrai que je l’ai vu pour la dernière

posti. In realtà sono io che li immobilizzo, con un cammino della mia immaginazione tanto più irrefrenabile quanto più ho amato gli esseri ai quali si rivolge. Ecco perché la mia immaginazione è affascinata dalle ultime immagini che questi esseri mi hanno lasciato di se stessi, dagli ultimi incontri che abbiamo avuto. Queste immagini, questi incontri non sono trascinati, come quelli che li hanno preceduti, in un certo movimento, in un certo scorrere della vita. Mi si presentano come dotati di un vero e proprio potere d’arresto, tendono ad assumere per il mio pensiero l’ermetica opacità di una cosa. Mi scontro con essi come si va a sbattere contro una porta chiusa. Tuttavia, lo ripeto, la riflessione fa emergere che si tratta di un effetto dell’immaginazione da cui questa stessa riflessione, o forse un’immaginazione su un piano superiore, deve permettermi di liberarmi. In fondo mi baso sul postulato quasi informulabile secondo il quale il mio amico è rimasto fermo nello stato in cui l’ho visto, su quel letto d’ospedale in cui spiavo le parole che punteggiavano la sua agonia. Allo stesso modo potrei rispondere anche alla domanda “Dove ha lasciato il suo compagno, dove si trovava quando ha abbandonato la corsa?”. Si trovava all’angolo del boschetto, era talmente stanco che dovrebbe essere ancora là. Si pone un problema: in che misura una vita – quella del mio amico oppure la mia – si può veramente assimilare a un simile percorso? Un tale paragone ha un senso se considero il mio amico come un corpo che in ogni momento occupa un posto determinato nello spazio: il corpo si è spostato, è stato trasportato di qua e di là, e nello stesso tempo subiva un’infinità di trasformazioni interne. Del mio corpo si può affermare la stessa cosa. È vero inoltre che ciascuno di noi ha dovuto compiere un certo tragitto nel senso strettamente spaziale del termine; è vero che l’ho visto per l’ultima volta, che l’ho

fois, que je l’ai laissé dans cette chambre d’hôpital. Dirai-je qu’ensuite, au cimetière, ce n’était plus lui, c’était un simulacre? Dirai-je que mon compagnon de route est tombé à cette place où je le vois toujours? Mais par là je marque nettement qu’il m’est impossible de penser mon compagnon et ce corps comme ne faisant qu’un, puisque ce corps, au moins lorsque la vie s’en est retirée, n’est plus pour moi qu’une enveloppe vide. [Cette façon de s’exprimer présente l’inconvénient certain de paraître sous-entendre un spiritualisme dualiste qui n’est probablement pas adéquat à l’expérience humaine saisie dans sa réalité. Ce qu’il faut simplement retenir, c’est que l’histoire de mon compagnon – disons plus strictement son histoire visible – s’interrompt en-deçà d’un développement matériel qui ne porte plus que sur une chose.] Comme je le notais précédemment, plus j’ai aimé un être, moins je parviendrai à m’affranchir de la hantise qui porte sur son dernier état; ou plutôt cette fascination des dernières images, des derniers emplacements est la manifestation même d’un amour dont il restera à préciser le caractère. Mais en même temps – et là est le paradoxe sur lequel je veux arriver à concentrer ma pensée – ce qui mesure en quelque façon mon amitié, ma tendresse, c’est la profondeur d’un passé qui devrait oblitérer ces images dernières; car si je suis de bonne foi et de sang-froid, je découvrirai en celles-ci le témoignage d’un effacement plutôt que celui d’une présence. D’où ce paradoxe que l’image autour de laquelle se crispe mon affliction, comme si elle détenait les parcelles les plus précieuses de l’être disparu, est au fond, je suis contraint d’en convenir, celle où il se reconnaîtrait le moins, la plus étrangère à ce qu’il fût. Ce n’est pas tout: lorsque je m’hypnotise sur l’image du parcours ou de la course interrompue, je tends à traiter l’autre comme s’il était resté en-deçà d’un certain but que

lasciato in quella stanza d’ospedale. Potrò affermare che successivamente, al cimitero, non era più lui, che si trattava di un simulacro? Che il mio compagno di viaggio ha ceduto nel posto in cui lo vedo sempre? In questo modo metto chiaramente in evidenza che non mi è possibile pensare il mio compagno e questo corpo come una cosa sola. Il corpo, infatti, almeno quando la vita lo ha lasciato, è per me soltanto un involucro vuoto. [Questo modo di esprimersi presenta senza ombra di dubbio un inconveniente: sembra sottintendere uno spiritualismo dualistico, probabilmente inadeguato all’esperienza umana colta nella sua realtà. Bisogna ricordare, semplicemente, che la storia del mio compagno – diciamo, con maggior rigore, la sua storia visibile – si interrompe al di qua di uno sviluppo materiale che riguarda soltanto una cosa]. Come ho già osservato, quanto più ho amato un essere tanto meno riuscirò a liberarmi dall’ossessione del suo ultimo stato. O, piuttosto, il fascino delle ultime immagini, degli ultimi luoghi, è la manifestazione stessa di un amore di cui bisogna precisare le caratteristiche. Nello stesso tempo, però, – ecco il paradosso sul quale voglio riuscire a concentrare la mia riflessione – ciò che misura in qualche modo la mia amicizia, la mia tenerezza, è la profondità di un passato che dovrebbe annullare le ultime immagini. In buona fede e a sangue freddo, infatti, scoprirò in esse la testimonianza di una cancellazione anziché quella di una presenza. Da qui un paradosso: l’immagine sulla quale si fissa il mio dolore, come se custodisse i frammenti più preziosi dell’essere scomparso, in fondo è quella – devo ammetterlo – in cui egli si riconoscerebbe di meno, la più estranea a quello che è stato. Non è tutto. Quando mi ipnotizzo sull’immagine del percorso o della corsa interrotta tendo a considerare l’altro come se fosse rimasto al di qua di un certo scopo che io invece ho

j’ai moi-même atteint, ou que j’ai encore l’espoir ou la prétention d’atteindre. Mais par là j’applique indûment à cette vie de l’autre une mesure qui est peut-être la mienne – encore n’est-ce pas certain – mais que cette vie assurément ne comporte pas. Qu’est-ce qui le prouve? Ce fait qui paraît indéniable que plus je vis moi-même pleinement, plus je suis (plus j’ai conscience d’être), et moins je me vois comme étant en route vers7. Un parcours n’est que pour et par la représentation, et la vie la plus essentiellement, la plus passionnément vécue, est celle qui n’éprouve pas le besoin et ne se reconnaît sans doute pas la possibilité de se représenter devant elle-même. Le Peuch, 20 mai 1942. Réfléchissant sur la puissance de fascination qui appartient aux dernières images, je constate qu’elle est due certainement au fait que l’encore et le ne plus s’y joignent au point de se confondre. Il était encore là; et pourtant déjà il n’était plus, comme si contre la présence de l’être je retournais l’absence qui allait être la sienne jusqu’à l’y incorporer. Je me demande si l’essence du fantôme ne consisterait pas dans ce corps d’absence au sein d’une présence qui déjà n’est plus qu’une apparence. Invariance du fantôme; il ne peut plus changer, précisément parce qu’il est pur aspect d’une absence pure. Je me garderai d’ailleurs de prétendre que le fantôme ne soit pas autre chose que cette dernière image; tout ce que je crois discerner, c’est que mon expérience m’en fournit au moins l’analogue, et peut-être le principe. Il y aurait cependant une grande difficulté à résoudre, celle de comprendre comment un fantôme peut être donné à plusieurs consciences, et non pas à une seule. 7

Cette affirmation demanderait à être nuancée.

raggiunto, oppure che ho ancora la speranza o la pretesa di realizzare. Così facendo, però, applico indebitamente alla vita dell’altro una misura che è forse la mia – non è ancora certo –, ma che questa vita sicuramente non comporta. Che prova ne ho? Il fatto, innegabile a quanto sembra, che più io stesso vivo pienamente più sono (più ho la consapevolezza di essere), e meno mi vedo come in viaggio verso7. Un percorso è soltanto in vista di e attraverso la rappresentazione, e la vita vissuta cogliendone più in profondità l’essenza, in modo più appassionato, è quella che non sente il bisogno di rappresentarsi davanti a se stessa, e riconosce di non poter neppure farlo. Le Peuch, 20 maggio 1942. Il potere di fascinazione esercitato dalle ultime immagini si spiega sicuramente con il fatto che l’ancora e il non più si congiungono in esse fino a confondersi. Egli era ancora là, e tuttavia non era già più: è come se capovolgessi la presenza dell’essere in quella che stava per diventare la sua assenza fino al punto di incorporarla nella presenza stessa. Mi chiedo se l’essenza del fantasma non consista nel corpo d’assenza in seno a una presenza la quale non è già più che un’apparenza. Invariabilità del fantasma: non può più cambiare proprio perché è puro aspetto di un’assenza pura. Mi guarderò d’altronde dal pretendere che il fantasma non sia altro che quest’ultima immagine. Quello che penso di discernere è che la mia esperienza me ne fornisce almeno l’analogo, e forse il principio. Ci troviamo di fronte a una grande difficoltà, però: capire come un fantasma possa offrirsi a varie coscienze, e non a una soltanto. Si deve forse 7

Bisognerebbe sfumare questa affermazione.

Faudrait-il admettre que la dernière vision, considérée cette fois du point de vue du sujet, détienne un pouvoir immobilisant, c’est-à-dire obsédant, pour celui-là même qui L’a contemplée, et non pas seulement pour celui à qui elle a été proposée? L’expression est ici ambiguë; je ne suis pas parvenu à formuler nettement la distinction entre l’image vue par l’être qui va s’effacer, et celle qu’il donne de lui-même à ceux qui vont lui survivre... Le Peuch, 31 mai 1942. Je viens de relire ces notes, et il me semble bien y sentir palpiter une pensée naissante; je n’ai rien écrit qui soit plus chargé d’expérience, ceci est sûr. C’est toujours à l’image du parcours qu’on en revient. C’est aussi de ce point de vue que le mot perdre prend son sens. Nous étions ensemble, je l’ai perdu. (Comme on perd un enfant dans une foule.) Il s’est confondu... Le Peuch, 1er juin 1942. Confondu?... mais en quoi, avec quoi? Il y a sûrement ici une équivoque possible. J’ai tendance en effet à évoquer malgré moi la dissémination des éléments physiques de ce que j’appelle être. Ils ont fondu dans une absence épaisse; L’argile rouge a bu la blanche espèce. Mais je sens fortement qu’il y a là une tentation; ces éléments n’ont rien conservé de l’être auquel je survis et que je pleure. Excréta, disait Schopenhauer. En un sens, c’est bien

riconoscere che l’ultima visione, considerata stavolta dal punto di vista del soggetto, ha il potere di immobilizzare, cioè di ossessionare, colui che l’ha contemplata, e non soltanto colui al quale è stata destinata? Qui l’espressione è ambigua. Non sono riuscito a distinguere con chiarezza l’immagine vista dall’essere che sta per scomparire e quella che dà di se stesso a coloro che gli sopravviveranno… Le Peuch, 31 maggio 1942. Ho appena riletto questi appunti, e mi sembra proprio di sentirvi palpitare un pensiero in gestazione. Non ho scritto nulla che sia più carico di esperienza, questo è certo. È all’immagine del cammino che si ritorna sempre. La parola perdere acquisisce il suo significato proprio da questo punto di vista. Eravamo insieme, l’ho perso. (Come si perde un bambino tra la folla.) Si è confuso… Le Peuch, 1 giugno 1942. Confuso?... Ma in che cosa, con che cosa? Vi è qui possibilità di equivoco, non c’è dubbio. In effetti tendo, mio malgrado, a richiamare la disseminazione degli elementi fisici di ciò che chiamo essere. Sono scomparsi in una densa assenza; L’argilla rossa ha assorbito quella bianca. Tuttavia mi rendo conto chiaramente che in questo caso si ha a che fare con una tentazione. Quegli elementi non hanno conservato nulla dell’essere al quale sopravvivo e che piango. Excreta, diceva Schopenhauer. In un certo senso è

cela; un sens qui doit être dépassé d’ailleurs si l’on croit à la résurrection de la chair, mais cela ne saurait intervenir à ce point de l’analyse. Je pense qu’il faut s’attacher à la relation entre cet être, ce toi, et moi-même; c’est le moyen de se prémunir contre la tentation d’objectiver, et de se demander ce qu’est devenue «cette chose». (Car c’est à cette question-là et à elle seule qu’il y aurait à répondre: elle s’est défaite, elle a fondu.) L’être qui reste présent à ma pensée, à mon cœur, à ma vision intérieure, n’a précisément pas fondu. Ecartèlement entre l’image de la chose et des mutations qu’elle subit d’une part, la vision intérieure de l’être posé dans sa mystérieuse permanence, d’autre part. Se demander comment la pensée commune résout ou croit résoudre cette contradiction; puis prendre cette solution à bras-le-corps en explicitant les postulats sur lesquels elle se fonde. En écrivant récemment à P. H..., à propos de l’anniversaire de la mort de sa femme: «je comprends de plus en plus clairement que le mot perdu n’a pas de sens», je me référais précisément à cette expérience d’une présence maintenue. Mais il y a l’autre danger, celui que j’ai signalé à mainte reprise, le danger de l’hypnotisation, de la crispation sur une image, de la hantise. Ce que j’apercevais ce matin, c’est que ma relation à l’autre doit ici triompher de cette hantise; car au fond c’est d’abord de la vie de cette relation qu’il s’agit. Observons au surplus que le mot relation est ici probablement impropre, car je me représente comme relation ce qui est d’abord vécu autrement, comme échange, comme communication vivante. Et il restera à se demander s’il est possible d’une manière quelconque d’atteindre l’en soi de l’autre en dehors de cet échange ou de cette communication.

proprio di questo che si tratta, nonostante si debba andare oltre tale significato se si crede alla resurrezione della carne. Ma si tratta di un tema che non è possibile introdurre a questo punto dell’analisi. Bisogna concentrarsi sulla relazione tra questo essere, questo tu, e me stesso. È il modo di premunirsi contro la tentazione di oggettivare, e di chiedersi cosa sia diventata “questa cosa”. (È infatti a questa domanda e a essa soltanto che bisognerebbe rispondere: si è disfatta, si è dissolta). Ecco di cosa si tratta: l’essere che resta presente al mio pensiero, al mio cuore, alla mia visione interiore, non si è dissolto. Scarto tra l’immagine della cosa e dei cambiamenti ai quali è soggetta da una parte, la visione interiore dell’essere posto nella sua misteriosa permanenza dall’altra. Chiedersi in che modo il pensiero comune risolva o pensi di risolvere questa contraddizione; poi afferrare per la vita questa soluzione esplicitando i postulati sui quali si fonda. Scrivevo recentemente a P. H. in occasione dell’anniversario della morte di sua moglie: “comprendo sempre più chiaramente che la parola perso non ha senso”. Mi riferivo proprio all’esperienza di una presenza conservata. Esiste però l’altro pericolo, da me segnalato a più riprese: il pericolo dell’ipnotizzazione, dell’irrigidimento su un’immagine, dell’ossessione. Questa mattina mi sono reso conto che la mia relazione con l’altro deve trionfare su questa ossessione. In fondo a essere in questione è infatti innanzitutto la vita di questa relazione. Si può osservare inoltre che probabilmente in questo caso il termine relazione è improprio. Io mi rappresento come relazione ciò che innanzitutto è vissuto diversamente: come scambio, come comunicazione vivente. E rimane da chiedersi se al di fuori di questo scambio o di questa comunicazione vi sia un modo qualsiasi per cogliere l’in sé dell’altro.

Mais la façon même dont je me suis exprimé en évoquant la vie d’une relation exclut toute représentation matérialisante du souvenir. Or il existe en chacun de nous une tendance presque invincible à assimiler les souvenirs que je garde de l’autre à des photographies que je conserverais par devers moi et que je pourrais feuilleter. «Je pense à» signifierait: j’ai repris en main une de ces photographies: de ce point de vue l’idée d’une relation vivante à... perd toute signification. Mes réflexions du 19 mai permettent de voir que je peux adopter des attitudes intérieures très différentes par rapport au disparu, que je suis même capable d’un certain agir intérieur par rapport à lui. La méthode de recherche que je préconiserais consisterait à se demander si on peut passer de cet agir-là à un «communiquer avec», ou plus exactement à quelles conditions ce passage pourrait être conçu. Ces investigations ne prennent un sens et ne deviennent même possibles qu’à une condition préalable: c’est de reconnaître que l’autre n’est ici aucunement réductible à une image, à une effigie que j’aurais en ma possession, que je manierais à mon gré, mais qui bien entendu serait entièrement passive entre mes mains; s’il en était ainsi, il est trop clair que l’idée même d’une communication devrait être regardée comme vide de sens. Ici j’ouvrirai une parenthèse: il paraît hors de conteste que certains voyants aient le pouvoir de se mettre en communication avec un être absent par l’intermédiaire d’une photographie ou d’un portrait de cet être; il semble même que quelques-uns possèdent l’inexplicable faculté de dire au seul aspect de cette photographie ou de ce portrait, si le modèle est ou non vivant. Ce fait si étrange, si déconcertant, est de ceux dont la pensée du savant ou du philosophe se détourne comme instinctivement, parce qu’il tend à briser les catégories de toute connaissance empirique ou rationnelle. J’estime pour ma part que ce refus constitue une sorte de péché philosophique, et qu’il serait au contraire de

La maniera in cui mi sono espresso evocando la vita di una relazione, però, esclude ogni rappresentazione limitata al piano materiale del ricordo. Ora, in ciascuno di noi esiste una tendenza quasi invincibile ad assimilare i miei ricordi dell’altro a vecchie fotografie conservate tra le mie mani, che ho la possibilità di sfogliare. “Penso a” coinciderebbe con riprendere in mano una di queste fotografie: da questo punto di vista l’idea di una relazione vivente con… non ha nessun senso. Le mie riflessioni del 19 maggio consentono di rendersi conto che nei confronti di chi è scomparso posso fare miei atteggiamenti interiori molto diversi, che in rapporto a lui sono capace anche di una certa azione interiore. Il metodo di ricerca che auspico consiste nel chiedersi se si possa passare da quell’agire a un “comunicare con”, oppure, a essere più precisi, a quali condizioni si possa concepire un tale passaggio. Queste indagini hanno un senso e divengono possibili soltanto a una condizione preliminare: riconoscere che in questo caso l’altro non si può affatto ridurre a un’immagine, a un’effigie in mio possesso, da maneggiare a mio piacimento, e, ovviamente, del tutto passiva tra le mie mani. È fin troppo evidente che se le cose stessero così l’idea stessa di una comunicazione dovrebbe essere considerata come priva di senso. Apro una parentesi: alcuni veggenti hanno il potere di mettersi in comunicazione con un essere assente grazie a una fotografia oppure a un ritratto di questo essere, non c’è ombra di dubbio. Sembra inoltre che alcuni possiedano l’inspiegabile facoltà di dire, soltanto guardando una fotografia o un ritratto, se il modello è ancora in vita oppure no. Questo fatto così strano e sconcertante rientra tra quelli dai quali lo scienziato o il filosofo, con il proprio modo di pensare, prende le distanze come istintivamente: tende infatti a mandare in frantumi le categorie di ogni conoscenza empirica o razionale. Da parte mia penso che questo rifiuto costituisca una sorta di peccato filosofico, e che al contrario

la plus grande importance de s’interroger sur les conditions de possibilité d’une telle prise de conscience. Il faudrait admettre, si paradoxal que cela semble, que l’image, photographique ou autre, doit pouvoir être considérée non pas simplement comme un objet distinct, mais cemme faisant corps en quelque manière avec celui qu’elle représente, et comme participant encore à sa vie. Le privilège du voyant consisterait à saisir cet être non objectif de l’image, celle-ci se comportant par rapport à lui comme un foyer actif, au lieu d’être une simple chose inerte. Je ne me dissimule aucunement ce que de telles considérations ont de hasardeux, et le caractère vertigineux ds paradoxes sur lesquels elles débouchent; mais j’estime qu’il peut être de toutes façons salutaire d’ouvrir en quelque sorte des brèches dans l’armure intelligible où nous étouffons chaque jour davantage. Je ne me dissimule pas non plus qu’une hypothèse comme celle que je viens d’esquisser peut paraître relever de la mentalité prélogique décrite par Lévy-Bruhl et ses disciples. Mais on peut après tout se demander si ces sociologues ont aucunement soupçonné le problème métaphysique que pose l’existence même de cette mentalité; car ce qui importe, c’est de savoir si en s’affranchissant, non pas d’ailleurs complètement, mais dans une large mesure, de cette mentalité et de ces catégories, l’homme ne s’est pas rendu de plus en plus aveugle à certains aspects fondamentaux du monde où il lui est donné de vivre. Cette possibilité entrevue par Bergson ne me semble pas avoir été sérieusement explorée par les philosophes qui l’ont suivi, cela pour des raisons trop faciles à découvrir. Explorer, dis-je: oui, la recherche prend ici un caractère spéléologique; il s’agit de se frayer un chemin au fond d’un gouffre, à la lumière vacillante d’une réflexion qui se doit à elle-même de mettre en question à chaque pas les principes sur lesquels repose la connaissance diurne.

sarebbe estremamente importante interrogarsi sulle condizioni di possibilità di una tale presa di coscienza. Bisognerebbe ammettere, per quanto sembri paradossale, che l’immagine, sia essa fotografia o altro, deve poter essere considerata non soltanto un oggetto a sé stante, ma un tutt’uno, in qualche modo, con colui che rappresenta, ancora partecipe della sua vita. Il privilegio del veggente consisterebbe nel cogliere proprio l’essere non oggettivo dell’immagine che, anziché essere qualcosa di semplicemente inerte, costituisce per lui una sorta di centro attivo. Non mi nascondo affatto ciò che c’è di azzardato in queste considerazioni, e il senso di vertigine provocato dai paradossi ai quali conducono. Penso però che aprire delle brecce nella corazza intelligibile in cui soffochiamo ogni giorno di più possa comunque giovare. Non mi nascondo neppure che un’ipotesi come quella che ho appena abbozzato può sembrare propria della mentalità prelogica descritta da Lévy-Bruhl e dai suoi discepoli. Dopotutto ci si può chiedere però se questi sociologi abbiano minimamente immaginato il problema metafisico posto dall’esistenza stessa di questa mentalità. Ciò che interessa, infatti, è sapere se affrancandosi, sia pure parzialmente, da questa mentalità e da queste categorie la cecità dell’uomo nei confronti di certi aspetti fondamentali del mondo in cui si trova a vivere non sia diventata sempre più profonda. Questa possibilità, intravista da Bergson, non mi sembra che sia stata seriamente esplorata dai filosofi venuti dopo di lui, per ragioni fin troppo facili da svelare. Esplorare, dicevo: sì, in questo caso la ricerca fa propri i caratteri della speleologia. Si tratta di aprirsi un cammino in fondo a una voragine, alla luce vacillante di una riflessione che a ogni passo, da se stessa, deve mettere in questione i principi sui quali si fonda la conoscenza diurna.

Impossible de pousser ici plus avant sur cette voie: je me contenterai de remarquer que même là où l’observation superficielle découvre une simple relation d’être à image, celle-ci recouvre peut-être un rapport infiniment plus secret d’être à être. Il faut bien constater cependant que la réflexion risque de se trouver immobilisée ici par les projections d’une imagination matérialiste. Ne suis-je pas en effet dangereusement exposé à me représenter l’Autre comme une chose qui, avant de se dissoudre, a imprégné telle de ses expressions d’une mystérieuse qualité qui-survit pour un temps à cette dissolution? Mais cela de toute évidence est l’absurdité même. Si une telle imprégnation est concevable, c’est en tant qu’elle s’exerce sur une chose; or ce qui est en question ici, ce n’est pas du tout l’image en tant qu’elle est une chose (c’est-àdire, par exemple, la photographie-objet, en tant qu’elle a telle dimension, telle épaisseur, tel grain), mais bien en tant qu’elle est figurative: on pourrait presque dire que ce qui est en cause, c’est l’âme de l’image, et non son corps. Je dois donc résister de toutes mes forces à la tentation d’interpréter comme une modification physique ce qui ne peut être qu’une participation d’un tout autre ordre. Il est trop clair au surplus que si je tente de me représenter cette participation, du même coup je la matérialise et je tombe dans l’erreur qui vient d’être dénoncée. Tout cela s’éclaire tant soit peu si l’on songe que ce que j’appelle la photographie ne prend vie et réalité que par une certaine lumière intérieure, qui fait apparaître comme visage ou comme être signifiant ce qui n’est en soi qu’une tache colorée. Les deux termes qu’il s’agit de rapprocher sont donc non point du tout deux choses dont l’une serait un être et l’autre son image, mais l’ensemble des forces spirituelles par lesquelles cet être se maintient dans l’existence d’une part, et de l’autre, l’acte – spirituel lui aussi – par lequel il est donné à un sujet de l’appréhender du dehors comme individualité discerna-

Impossibile procedere oltre su questo cammino. Mi accontenterò di notare che anche là dove l’osservazione superficiale scopre una semplice relazione tra essere e immagine, quest’ultima maschera forse un rapporto infinitamente più segreto tra essere e essere. A questo punto la riflessione rischia però di trovarsi immobilizzata dalle proiezioni di un’immaginazione materialistica. Non corro infatti il pericolo di rappresentarmi l’Altro come una cosa che, prima di dissolversi, ha impregnato alcune delle sue espressioni con una misteriosa qualità che sopravvive per un certo tempo a questa dissoluzione? Si tratta però, chiaramente, di qualcosa di assurdo. Una tale impregnazione si può concepire solo rispetto a una cosa. Ora, a essere qui in questione non è affatto l’immagine in quanto cosa (ad esempio la fotografia-oggetto, in quanto ha una certa dimensione, un certo spessore, una certa grana), ma in quanto rappresenta un’immagine. Si potrebbe affermare, probabilmente, che a essere in causa è l’anima dell’immagine, non il suo corpo. Devo quindi resistere con tutte le mie forze alla tentazione di interpretare come una modificazione fisica ciò che non può essere che una partecipazione su tutto un altro piano. Del resto è fin troppo chiaro che nel momento in cui tento di rappresentarmi questa partecipazione la materializzo, e cado nell’errore appena denunciato. Un minimo di chiarimento su tutto ciò si ha se si pensa che quella che chiamo la fotografia prende vita e realtà soltanto grazie a una certa luce interiore: essa fa apparire come volto o come essere significante ciò che di per sé non è altro che una semplice macchia colorata. I due termini da raffrontare non sono dunque affatto due cose, un essere e la sua immagine. Si tratta invece da una parte dell’insieme delle forze spirituali con le quali questo essere si conserva nell’esistenza, e dall’altra dell’atto – anch’esso spirituale – con il quale un essere può coglierlo dal di fuori

ble ou visible. Il faudrait arriver à concevoir, si difficile que ce puisse être, qu’en considérant cette individualité à travers quelque milieu et quelque interposition que ce soit, je fais à quelque degré miennes les puissances qui lui sont immanentes. C’est que ce qui, suivant une certaine perspective, se présente à nous comme appréhension ou comme saisie, peut, suivant une perspective complémentaire, être regardé comme apparition et comme don de soi. Cela est peut-être un peu plus facile à comprendre pour un portrait au sens pictural du mot que pour une simple photographie. Le modèle s’est véritablement livré en quelque manière au peintre, à condition du moins, que celui-ci soit un portraitiste authentique et ne cherche pas simplement un prétexte qui l’aide à inventer des formes; le peintre n’est donc parvenu à donner du modèle une image ressemblante et profondément significative que s’il a sympathisé au sens le plus fort de ce mot avec l’espèce de poussée intérieure continue par laquelle l’autre se propose à ses semblables comme personne visible, comme cette personne-ci, et non cette autre. Mais il est trop évident qu’il n’y aurait aucun sens à imaginer l’imprégnation de la toile par je ne sais quel fluide émanant de l’original. Une redoutable difficulté subsiste cependant, il est de la plus simple honnêteté de l’avouer, en ce qui concerne le voyant qui prétend reconnaître si le modèle du portrait est ou non vivant actuellement. Comment concevoir qu’en s’établissant, si l’on peut dire, au cœur du devenir intérieur de l’absent évoqué par la médiation de l’image, il puisse reconnaître si c’est là une durée actuelle ou révolue? Peut-être cependant la difficulté tient-elle surtout à ce que, malgré nous, nous imaginons cette durée concrète comme une essence qui serait saisie intemporellement; mais si c’est bien d’une durée qu’il s’agit, peut-être peut-on concevoir qu’il y ait place chez le voyant pour un sentiment de concordance

come individualità discernibile o visibile. Per quanto possa essere difficile, bisognerebbe riuscire a pensare che considerando questa individualità attraverso un qualsiasi ambiente o interposizione, io faccio mie, sia pure parzialmente, le forze a essa immanenti. Ecco qual è la questione: ciò che secondo una certa prospettiva ci si presenta come atto apprensivo o come coglimento può, da una prospettiva complementare, essere considerato apparizione e dono di sé. È un po’ più semplice da capire, forse, riferendosi, anziché a una semplice fotografia, a un ritratto nel senso pittorico del termine. Il modello si è in qualche modo veramente offerto al pittore, purché si tratti di un vero ritrattista e non di qualcuno che cerca invece semplicemente un pretesto per inventare delle forme. Il pittore riesce dunque a offrire un’immagine somigliante e profondamente significativa del modello soltanto se ha simpatizzato, nel significato più profondo di questo termine, con la sorta di spinta interiore continua con la quale l’altro si presenta ai suoi simili come persona visibile, come questa persona e non un’altra. Risulta fin troppo evidente che non avrebbe nessun senso immaginare la tela impregnata di un fluido emanato dall’originale. Rispetto al veggente che ha la pretesa di sapere se attualmente il modello del ritratto sia vivo oppure no permane tuttavia una grave difficoltà, bisogna ammetterlo con la più grande onestà. Come è possibile pensare che il veggente ponendosi, per così dire, al centro del divenire interiore dell’assente evocato con la mediazione dell’immagine possa capire se si tratta di una durata attuale o già compiuta? Forse la difficoltà è legata al fatto che nostro malgrado immaginiamo questa durata concreta come un’essenza colta in modo non temporale. Se si tratta però proprio di durata, si può pensare forse che nel veggente ci sia posto per un sentimento di

ou de non-concordance entre la conscience qu’il a de sa durée actuelle propre et celle qu’il prend de cette durée étrangère. Une image se propose ici, qui, si elle était adoptée et utilisée comme moyen d’élucidation, ne pourrait au contraire qu’accroître l’embarras où nous nous trouvons: c’est celle d’une mélodie que je saisis à travers une notation écrite ou gravée; je la fais mienne, je la vis: mais il est trop clair qu’il n’y aurait aucun sens à me poser à son sujet un problème temporel, car elle s’établit en dehors de toute référence à un moment déterminé du temps. Pour que cette référence puisse intervenir, il faut qu’entre ici en action une sympathie divinatrice d’un tout autre ordre. Remarquons au surplus que la notation qui me sert de point de départ est un procédé extérieur à la mélodie notée, au lieu que le portrait, nous l’avons vu, peut à quelque degré être envisagé comme un mode d’existence de l’être qui lui a servi de modèle. A partir de la notation, je construis une certaine forme, je la fais exister. Mais ici rien de tel: la voyance est précisément l’opposé d’une telle construction; puisqu’elle consiste à se rendre assez disponible pour se laisser aimanter par une certaine présence, ou encore à se creuser pour recevoir un certain apport. L’image qui se présente à l’esprit est celle d’une irruption ou d’une marée. Mais comment comprendre qu’il puisse y avoir pour le voyant une différence de qualité sentie entre l’irruption d’une durée actuelle et celle d’une durée révolue? N’y a-t-il pas d’ailleurs ici contradiction dans les termes mêmes: comment ce qui n’est plus pourrait-il nous envahir? Mais il semble qu’il s’agisse en réalité ici plutôt de deux modalités irréductibles d’existence, disons peut-être une existence arrêtée et une existence en cours. Mieux vaudrait alors substituer les mots d’envahissement ou d’invasion à celui d’irruption: un port peut être envahi par des glaces.

accordo o di non-accordo tra la consapevolezza della sua propria durata attuale e la consapevolezza che fa sua di questa durata estranea. A questo punto ci si presenta un’immagine che, se fatta propria e utilizzata come mezzo di chiarificazione, non farebbe altro che aumentare il nostro imbarazzo: è l’immagine di una melodia che colgo grazie a una notazione scritta o impressa. La faccio mia, la vivo, ma è fin troppo chiaro che a suo riguardo non avrebbe nessun senso porre un problema temporale, poiché si colloca al di fuori di qualsiasi riferimento a un momento determinato del tempo. Perché questo riferimento possa intervenire bisogna che entri in azione una simpatia divinatrice di tutt’altro ordine. Inoltre la notazione che mi serve da punto di partenza è un procedimento esterno rispetto alla melodia espressa in note, mentre il ritratto – lo abbiamo visto – può essere considerato in qualche misura come una maniera di esistere dell’essere che è servito da modello. A partire dalla notazione costruisco un certa forma, la faccio esistere. Niente di tutto ciò in questo caso: la veggenza è esattamente l’opposto di una tale costruzione, dato che consiste nel rendersi sufficientemente disponibili per lasciarsi calamitare da una certa presenza o, anche, nel lasciarsi scavare per ricevere un certo contributo. Alla mente si presenta l’immagine di un’irruzione o di una marea. Come è possibile rendere chiaro che il veggente può sentire in modo diverso la qualità dell’irruzione di una durata attuale e quella di una durata passata? Ci troviamo di fronte a una contraddizione tra i termini stessi: com’è possibile che ci invada ciò che non è più? Sembra però che in realtà si tratti piuttosto di due modalità di esistenza irriducibili, diciamo forse un’esistenza interrotta e un’esistenza in corso. Sarebbe meglio allora sostituire a irruzione i termini invasione o occupazione: un porto può essere invaso dal ghiaccio.

Si obscures et incertaines que soient toutes ces indications, si douteuses même que soient les possibilités qu’elles visent à éclairer, elles présentent, me semble-t-il, ce grand intérêt de contraindre l’esprit à rompre avec toute représentation objective (mieux vaudrait dire objectivante) de la vie et de la mort. L’existence du défunt cesse d’être regardée comme celle d’une chose qui se défait, ou d’une machine qui se disloque. En faisant intervenir par exemple la notion d’existence arrêtée, je me prépare peut-être à concevoir plus concrètement et plus métaphysiquement celle d’existence en suspens, sans que je sois encore d’ailleurs aucunement en mesure de me prononcer sur ce que ce suspens annonce ou prépare peut-être. Il devient cependant possible pour moi d’imaginer sur ce plan comment je pourrais peut-être, à la faveur d’un certain recueillement ou d’une attention fervente qui est peut-être déjà l’amorce d’une prière, conspirer avec cette existence en attente. II ne faudrait pourtant pas sous-estimer la valeur des objections auxquelles en s’exprimant ainsi on risque de se heurter: l’existence arrêtée, dira-t-on, n’est-elle pas, par opposition à l’existence en cours, celle même de la chose, de l’objet en tant que tel? Dès lors n’y a-t-il pas quelque chose de frauduleux à évoquer à propos d’elle le suspens, le sommeil, ou encore l’état de la chrysalide qui se prépare aux ultimes transmutations? Mais il faut répondre aussitôt que la voyance ne peut jamais être qu’intersubjective, et qu’il est probablement absurde d’imaginer que la chose en tant que chose puisse la déclencher ou seulement la permettre. Cela serait à compléter par les indications sur la psychométrie que j’ai naguère hasardées dans le Journal Métaphysique.

Queste indicazioni, per quanto oscure e incerte, e per quanto dubbie siano inoltre le possibilità che intendono chiarire, presentano, mi sembra, un grande interesse: costringono a tagliare i ponti con ogni rappresentazione oggettiva (sarebbe meglio dire oggettivante) della vita e della morte. L’esistenza del defunto cessa di essere considerata alla stregua di una cosa che si distrugge, o di una macchina che viene smantellata. Ad esempio, facendo intervenire il concetto di esistenza interrotta, mi metto forse nelle condizioni di pensare più concretamente e metafisicamente quello di esistenza incerta, senza d’altra parte essere affatto ancora nelle condizioni di pronunciarmi su ciò che tale incertezza annuncia o anche prepara. Su questo piano diventa però per me possibile immaginare come, grazie a un certo raccoglimento o a un’attenzione fervida che forse è già l’abbozzo di una preghiera, potrei cospirare con questa esistenza in stato di attesa. Tuttavia non bisognerebbe sottovalutare il valore delle obiezioni che si rischia di sollevare esprimendosi così: l’esistenza interrotta, si dirà, non è forse, in contrapposizione all’esistenza in corso, la medesima della cosa, dell’oggetto in quanto tale? Partendo da questo presupposto non è in qualche modo ingannevole evocare in riferimento a essa l’incertezza, il sonno, oppure anche la condizione della crisalide che si prepara alle ultime trasformazioni? La risposta immediata consiste nell’affermare che la chiaroveggenza non può che essere sempre intersoggettiva, e che probabilmente è assurdo immaginare che la cosa in quanto cosa possa darle vita oppure più semplicemente renderla possibile. A completamento di tutto ciò ci vorrebbero le indicazioni sulla psicometria da me azzardate in passato nel Journal métaphysique*.

Il s’agit en somme, par toutes ces voies détournées et aventureuses, de prospecter et de déblayer un terrain sur lequel le mystère qui s’attache à la mort d’autrui puisse être enfin, je ne dis pas élucidé, mais au moins affronté. On ne dira jamais assez combien ce défrichage est nécessaire pour des êtres aussi prisonniers que nous le sommes des images empruntées au monde des techniques. Ce ne peut être, au moins pour commencer, que par des détours et des expédients, que nous pouvons espérer nous évader d’une prison où le désespoir nous guette au fond de chaque encoignure. A quelles conditions est-il concevable que l’être que j’ai perdu ou que je m’imagine – ou que je suis censé avoir perdu – ait encore part à moi-même et à ma vie? L’être que j’ai perdu: mais on ne perd que ce qu’on possédait; cet autre était-il à moi? En quel sens? Mon compagnon est-il à moi? Il est avec moi, c’est sa façon d’être à moi. S’il a été vrai de dire que je l’avais, est-il exact de dire que je ne l’ai plus? Ou bien au contraire, est-ce mon imagination qui exerce ici son activité maléfique et qui me le persuade? Il est trop clair que le redoutable problème de l’ipséité est enveloppé dans toute cette recherche. Nécessité de poser pour les êtres particuliers le problème que les philosophes ont d’une façon générale réservé à la spéculation pourtant sur Dieu. La première recherche doit donc porter sur l’idée de perte réelle. Peut-être – ceci n’est qu’une lueur – cette idée est-elle d’autant plus applicable qu’elle s’exerce plus strictement sur du possédé. L’objet que je possède, je puis en toute vérité le perdre. Cette montre que je palpais, que je sentais mienne, elle n’est plus là; elle est tombée, ou quelqu’un l’a prise, je l’ai perdue. D’où peut-être cette conclusion (bien hâtive, mais qu’il faut noter): c’est dans la mesure où j’ai cru posséder l’autre que je peux vraiment avoir conscience

Si tratta insomma, attraverso tutte queste vie traverse e avventurose, di preparare e sgomberare un terreno sul quale il mistero legato alla morte dell’altro possa essere infine, se non chiarito, almeno affrontato. Non si evidenzierà mai a sufficienza quanto sia necessario un dissodamento di questo tipo per esseri prigionieri, come lo siamo noi, delle immagini prese in prestito dal mondo della tecnica. Almeno all’inizio, è grazie a vie secondarie e a espedienti che possiamo sperare di evadere da una prigione in cui la disperazione ci attende dietro a ogni angolo. A quali condizioni è possibile pensare che l’essere che ho perso o che mi immagino – oppure che si suppone io abbia perso – faccia ancora parte di me e della mia vita? L’essere che ho perso: si perde però soltanto ciò che si possedeva. L’altro era mio? In che senso? Il mio compagno è mio? Egli è con me, è il suo modo di appartenermi. Se ha corrisposto al vero affermare che lo avevo, è esatto dire che non l’ho più? Oppure, al contrario, è la mia immaginazione che in questo caso esercita la sua azione malefica e che mi induce a pensare in questo modo? In questa ricerca nel suo complesso è implicato fin troppo chiaramente il temibile problema dell’ipseità. Necessità di porre per i singoli esseri il problema che generalmente i filosofi hanno riservato alla speculazione su Dio. La prima ricerca deve riguardare dunque l’idea di perdita reale che forse – ma questa è soltanto una tenue luce – è tanto più utile quanto più viene applicata in modo rigoroso a qualcosa che è posseduto. Siamo nel vero affermando che posso perdere l’oggetto che possiedo. L’orologio che toccavo, che sentivo mio, non è più al suo posto: è caduto, oppure qualcuno l’ha preso, l’ho perso. Da qui, forse, questa conclusione (del tutto affrettata, ma degna di essere annotata): proprio nella misura in cui ho pensato di possedere l’altro

de l’avoir perdu; et c’est en cela qu’il est souvent si vrai de dire qu’on a perdu son enfant. Mais tout de suite une difficulté, une complication: il peut me sembler que ce que je ne possède pas m’est par définition étranger, et je ne puis effectivement perdre ce qui n’a jamais été à moi. Il faudrait donc arriver à explorer cette région médiane qui est celle de l’avec [et qu’un Sartre a si étrangement méconnue.] Ce que je vois pour le moment, c’est que ce que j’ai écrit sur la hantise est sûrement lié à la possession. En me laissant hanter par le dernier état ou la dernière image, je convertis l’être que j’aime en une chose qui en effet s’avère perdue. Avec cette chose, je ne pouvais former un véritable nous; et s’il y a une indestructibilité, c’est seulement à partir du nour que je peux réussir à la penser. Cela n’est cependant qu’un amorçage. Il faudrait montrer maintenant que c’est dans l’ordre de l’avoir que l’opposition entre l’image et la chose même (res ipsa) est la plus meurtrissante. L’accent est d’autant plus fortement mis sur la disparition de la chose que celle-ci est davantage éprouvée ou revendiquée comme mienne. La chose n’est plus là. Il y a ici une véritable tension entre réalité et subjectivité: je veux dire que la réalité de la chose disparue est d’autant plus douloureusement ressentie et remémorée que cette chose a fait davantage partie de moi-même, que je me la suis plus avidement attribuée. La douleur est ici une lésion au sens le plus fort de ce mot. Je souffre pour moi et en moi. Mais la souffrance, comme l’amour lui-même, a un autre pôle, en tant qu’elle est souffrance pour l’autre (for his own sake). Ce qu’il est peut-être permis d’apercevoir ici, c’est que plus l’être disparu sera réellement pensé comme être (mais qu’est-ce que cela signifie au juste?), moins il sera saisi comme possession, et moins par conséquent sa disparition sera ressentie comme perte. [Il faut malheureusement ajouter

posso essere veramente consapevole di averlo perso. Ed è in questo senso che spesso si è nel vero affermando che si è perso il proprio bambino. Ma emerge subito una difficoltà, una complicazione: può sembrarmi che ciò che non possiedo mi sia estraneo per definizione, ed effettivamente non posso perdere ciò che non è mai stato mio. Bisognerebbe dunque riuscire a esplorare la regione intermedia costituita dal con [così stranamente misconosciuta da Sartre]. Ecco ciò che mi appare chiaro per il momento: quello che ho scritto sull’ossessione è sicuramente legato al possesso. Lasciandomi ossessionare dall’ultimo stato o dall’ultima immagine trasformo l’essere da me amato in una cosa che in effetti si rivela perduta. Con una tale cosa io non potevo formare un vero noi, e se esiste dell’indistruttibile posso pensarlo soltanto a partire dal noi. Si tratta soltanto di un punto di partenza. Ora bisognerebbe mostrare che è nell’ordine dell’avere che l’opposizione tra l’immagine e la cosa stessa (res ipsa) è più straziante. Quanto più la cosa è considerata o rivendicata come mia tanto più l’accento viene messo sulla sua scomparsa. La cosa non è più al suo posto. Siamo di fronte a una vera tensione tra realtà e soggettività: la realtà della cosa scomparsa è vissuta e rievocata tanto più dolorosamente quanto più – è questo che intendo dire – questa cosa ha fatto parte di me stesso, quanto più avidamente l’ho considerata mia. In questo caso il dolore è una lesione nel significato più profondo del termine. Io soffro per me e in me. Ma la sofferenza, come lo stesso amore, in quanto è sofferenza per l’altro ha un altro polo (for his own sake). Così ci si può forse rendere conto del fatto che più l’essere scomparso sarà realmente pensato come essere (ma ciò cosa significa esattamente?) meno sarà inteso come possesso, e quindi meno la sua scomparsa sarà vissuta come perdita. [Sfortunatamente bisogna aggiungere che tutti i nostri

que toutes nos affections sont possessives, ce qui limite terriblement la portée pratique de cette observation.] Avant de creuser davantage, je note une fois de plus que dans cet ordre l’attitude intérieure est déterminante, qu’elle retentit profondément sur ce que nous appelons d’ailleurs à tort l’objet lui-même; bien loin d’être contingente comme lorsqu’il s’agit simplement de choses qui suivent passivement leur destin de choses. Je suis donc en droit, au moins en principe, de présumer que mon attitude intérieure par rapport à celui qui n’est plus là influe sur lui (en tant qu’il est en rapport avec moi, mais cette relation a un caractère constitutif et non pas extérieur si l’autre a été vraiment avec moi). Il n’est donc pas indifférent que je m’hypnotise sur lui comme sur une possession perdue. Par là en effet je le trahis. [Je veux dire que je cesse de penser à lui comme à un être et que je tends à le traiter comme un objet.] Il y a cependant une dialectique de la trahison; je peux avoir l’impression que je trahis l’autre en détachant ma pensée de son dernier état, par exemple des tortures qu’il a subies avant de succomber. Je me laisse alors hypnotiser par l’idée qu’un tel détachement est à base d’indifférence. Pourtant c’est vraiment par amour pour l’autre que je dois me libérer de cette obsession, c’est à lui que je dois de ne pas l’immobiliser, de ne pas le nier comme être et comme vie. Ce que je vois encore, c’est plus généralement que je fausse tout en confondant l’être avec les souvenirs que j’ai de lui, et en venant à traiter ceux-ci comme idole, ou si l’on veut comme reliques, en reportant par exemple sur ces souvenirs eux-mêmes le culte que j’ai pour cet être. Ici comme toujours, il y a une transcendance à préserver. Qu’est-elle au juste?

sentimenti sono possessivi, cosa che limita terribilmente la portata pratica di questa osservazione]. Rilevo ancora una volta, prima di approfondire ulteriormente il discorso, che a questo livello l’atteggiamento interiore è determinante: esso dunque, ben lungi dall’essere contingente come quando si tratta semplicemente di cose che subiscono passivamente il loro destino di cose, si ripercuote profondamente su ciò che chiamiamo – a torto, in ogni caso – l’oggetto stesso. Sono perciò autorizzato a presumere, almeno in linea di principio, che il mio atteggiamento interiore nei confronti di colui che non c’è più eserciti un’influenza su di lui (in quanto è in rapporto con me, ma questa relazione è costitutiva e non esteriore se l’altro è stato veramente con me). Non è quindi indifferente il fatto che io mi ipnotizzi su di lui come se si trattasse di un possesso perduto, dato che in effetti in questo modo io lo tradisco. [Intendo dire che non penso più a lui come a un essere e che tendo a trattarlo come un oggetto]. Esiste tuttavia una dialettica del tradimento: posso avere l’impressione di tradire l’altro distogliendo il mio pensiero dal suo ultimo stato, ad esempio dalle torture da lui subite prima di soccombere. Mi lascio allora ipnotizzare dall’idea che un tale distacco si fondi sull’indifferenza. Tuttavia è veramente per amore per l’altro che devo liberarmi da questa ossessione, ho il dovere, proprio nei suoi confronti, di non immobilizzarlo, di non negarlo come essere e come vita. Mi rendo conto inoltre che più in generale falso tutto confondendo l’essere con i ricordi che ho di lui, e arrivando al punto di considerarli come idoli oppure, se si vuole, come reliquie, ad esempio riversando su tali ricordi il mio culto per questo essere. Come sempre, anche in questo caso c’è una trascendenza da salvaguardare. Quale esattamente?

Il me semble que plus un être a été reconnu, salué par moi en sa qualité d’être, moins il s’est confondu en fait avec les vues de détail que les circonstances m’ont permis de prendre de lui; plus en effet j’ai été à même de reconnaître sa valeur, c’est-à-dire quelque chose qui ne peut être qu’illustré dans l’expérience, mais qui va infiniment au-delà de ces illustrations. J’ai dit valeur: dans un autre langage, on pourrait dire essence. Toutefois il convient ici encore de se garder de la tentation d’objectiver. Rappelons-nous qu’il s’agit ici de la vie d’une relation; ce qui nous intéresse, c’est de savoir ce qu’a été le lien entre l’autre et moi, de quoi pour ainsi dire ce lien a été fait. [Je serais porté aujourd’hui à mettre l’accent le plus fort sur le crédit que j’ai ouvert à l’autre, c’est-à-dire sur l’espérance qui animait mon rapport avec lui, espérance tendue vers une communion toujours plus étroite.] Ce qu’il est peut-être possible d’entrevoir, c’est que cette douleur personnelle liée à la disparition est un moment nécessaire précisément en ce que j’ai à en triompher (comme l’espérance triomphe du désespoir, ou plus exactement de la tentation de désespérer). Je dois au reste me garder d’instituer ici de fausses connexions. Cette douleur n’est pas le fait de ce que j’ai appelé le moi je, en ce qu’elle n’enveloppe aucune prétention; mais ce qui est vrai, c’est qu’elle est essentiellement charnelle; en tant que nous sommes des êtres de chair, nous ne pouvons et ne devons même pas souhaiter qu’elle nous soit épargnée. Là est en effet, je crois, le seul soubassement authentique d’une relation supérieure entre le vivant et le mort. En somme, je «lui» dois de ne pas m’abandonner à cette obsession dans laquelle on dirait que je tends à nous ensevelir tous deux. Tout se passe comme si l’autre ne pouvait en triompher qu’à condition que j’en triomphe le premier; mais encore une fois je ne puis en triompher moimême que par amour pour lui. Rien de commun entre un tel sentiment et l’égoïsme de celui qui cherche à secouer sa

Più un essere è stato da me riconosciuto, salutato nella sua qualità di essere, meno di fatto si è identificato con i punti di vista particolari dai quali l’ho colto a seconda delle circostanze. Infatti mi sono trovato molto più nelle condizioni di riconoscere il suo valore, cioè qualcosa che può manifestarsi con chiarezza soltanto nell’esperienza, e che va infinitamente al di là di tali manifestazioni. Ho parlato di valore: con un altro linguaggio si potrebbe parlare di essenza. Tuttavia anche in questo caso bisogna guardarsi dalla tentazione di oggettivare. Ricordiamoci di questo: si tratta della vita di una relazione. Ciò che ci interessa è sapere cosa ha rappresentato il legame tra l’altro e me, di che cosa – per così dire – era costituito questo legame. [Oggi sarei portato a mettere il più possibile l’accento sul credito da me concesso all’altro, cioè sulla speranza che animava il mio rapporto con lui, speranza tesa verso una comunione sempre più intima]. Si può intravedere forse che il dolore personale legato alla scomparsa è un momento necessario precisamente per il fatto che devo trionfarne (come la speranza trionfa sulla disperazione o, più esattamente, sulla tentazione di disperare). Devo guardarmi comunque dallo stabilire false correlazioni. Questo dolore non è un affare di ciò che ho chiamato l’io, dato che non racchiude nessuna pretesa. È vero però che è essenzialmente carnale. In quanto siamo esseri incarnati non possiamo e non dobbiamo neppure augurarci che tale dolore ci venga risparmiato. In effetti è, penso, l’unica base autentica di una relazione superiore tra colui che è vivo e colui che è morto. Insomma, “gli” devo di non abbandonarmi a questa ossessione nella quale si direbbe che tendo a seppellire entrambi. È come se l’altro potesse trionfarne soltanto a condizione che ne trionfi io per primo. Ma, ancora una volta, io stesso posso trionfarne soltanto per amore di lui. Nulla in comune tra un tale sentimento e l’egoismo di colui che cerca di scrollarsi di dosso la sua tristezza, cioè di distrarsi.

tristesse, c’est-à-dire à se distraire. L’autre est présent à l’acte par lequel je me délivre non de lui, mais de l’idole que je lui ai substituée en l’immobilisant. Mais nous retrouvons ici encore le problème de l’ipséité. Qu’est-ce que je veux dire – et comment puis-je être sûr d’être dans mon droit – quand j’affirme que «c’est bien lui», que c’est lui-même qui est présent dans cet acte? Il faudrait montrer ici que nous restons malgré tout obsédés par l’idée d’une communication d’ordre physique, de fil reliant deux postes. La question: «Est-il là en personne?» se présente à nous sous la forme: «Est-ce que c’est lui qui est au bout du fil?» ou bien: «Est-ce que c’est quelqu’un d’autre?» ou bien: «Est-ce qu’en dernière analyse, il n’y a personne, les choses se passant comme s’il y avait quelqu’un?» Je note ici en passant une pensée qui m’est souvent venue: nos inventions paraissent appelées à nous fournir les métaphores de plus en plus précises qui sont destinées à nous servir d’auxiliaires, lorsque nous cherchons à concevoir ce qui est en réalité audelà de toute métaphore et de toute technique concevable. Ce problème de l’ipséité n’est pas vraiment séparable d’une autre question que nous éprouvons quelque difficulté à poser en termes intelligibles. Nous nous demandons: «Y a-t-il quelqu’un là? Qui est là?» Mais que signifie: être là? Le «être là» ne se laisse pas séparer d’un ailleurs d’où on peut venir; le «en personne» ne se laisse pas séparer de l’idée d’une délégation possible: il n’est pas venu lui-même, mais il a envoyé quelqu’un à sa place. L’objection qu’un certain réalisme du sens commun oppose à toutes ces recherches, qui devraient sous-tendre bien entendu tout examen sérieux du spiritisme, c’est qu’il n’est plus nulle part, puisqu’il n’est plus du tout. Mais à ce réalisme, il importe de répondre que le il sur lequel je m’interroge anxieusement, c’est-à-dire l’être que j’invoque et dont la présence perpétuée m’est indispensable, ce il qui est en réalité un toi, ne saurait être confondu avec le il

L’altro è presente nell’atto con il quale mi libero non di lui, ma dell’idolo con il quale l’ho sostituito immobilizzandolo. Eccoci però ancora una volta di fronte al problema dell’ipseità. Cosa intendo dire – e come posso essere certo di averne il diritto – quando affermo che “è proprio lui”, che è lui stesso a essere presente in questo atto? Qui bisognerebbe mostrare che malgrado tutto continuiamo a essere ossessionati dall’idea di una comunicazione di ordine fisico, di un filo che collega due postazioni. La domanda “È proprio lui in persona che si trova lì?” si presenta a noi come: “È lui che si trova all’altro capo del filo?” oppure “Si tratta di qualcun altro?”. O ancora: “Forse in ultima analisi non c’è nessuno e tutto accade come se ci fosse qualcuno?”. Annoto en passant un pensiero che mi è venuto spesso in mente: le nostre invenzioni sembrano destinate a fornirci metafore sempre più precise che ci sono d’aiuto quando cerchiamo di capire ciò che in realtà è al di là di ogni metafora e di ogni tecnica concepibile. Il problema dell’ipseità non si può in verità separare da un’altra domanda che abbiamo difficoltà a porre in termini intelligibili. Ci chiediamo: “Là c’è qualcuno? Chi si trova là?”. Ma cosa significa “essere là”? L’“essere là” non si lascia separare da un altrove da cui si può provenire; l’“in persona” non si lascia separare dall’idea di una possibile delega: non è venuto lui in persona, ma ha mandato qualcuno al posto suo. L’obiezione che un certo realismo del senso comune contrappone all’insieme di queste ricerche che, beninteso, dovrebbero essere alla base di qualsiasi esame serio dello spiritismo, è che non si trova più da nessuna parte, poiché non è più per niente. A tale realismo è importante rispondere che il lui sul quale mi interrogo ansiosamente, cioè l’essere al quale faccio appello e la cui esistenza perpetuata mi è indispensabile, questo lui che è in realtà un tu, non può essere confuso con il lui che è soltanto una cosa:

qui n’est qu’une chose, une chose qui s’est défaite, qui s’est dissoute. L’expérience autour de laquelle nous tournons ne peut se traduire que par un «c’est toi», un «te voici», un «est-ce bien toi?», et cette expérience se situe, malgré les apparences, hors du monde auquel appartient tout ce qui peut être traité comme chose. Le Peuch, 23 janvier, 1943. Premières notes pour l’étude sur la paternité qui m’a été demandée pour Lyon La paternité comme rubrique – La paternité comme valeur d’exaltation: «Je suis père!»... Fierté. Faire état de l’adoption, d’une part, et de la déchéance, d’autre part, pour montrer combien il est impossible de réduire la paternité à une catégorie biologique, et cependant elle appartient au charnel. L’adoption est une greffe. Qu’est-ce qu’engendrer? Différence entre donner et produire. C’est par là qu’on peut comprendre pourquoi la paternité ne se réduit pas à un mode de causalité. Le Peuch, 24 janvier 1943. Symétrie des positions sur le mal et sur la mort. La mort, en tant qu’elle est mon terme, ne comporte pas d’au-delà et ne peut pas être transcendée. Mais, en tant que telle, elle se confond avec le mal. La mort pensée s’oppose à la mort sentie, elle est au contraire transcendée d’emblée, mais ceci

una cosa che si è disfatta, dissolta. L’esperienza sulla quale continuiamo a ritornare può essere tradotta con un “sei tu”, un “eccoti”, un “sei proprio tu?”, e questa esperienza si situa, nonostante le apparenze, al di fuori del mondo al quale appartiene tutto ciò che può essere considerato una cosa. Le Peuch, 23 gennaio 1943. Prime annotazioni per lo studio sulla paternità che mi è stato chiesto a Lione La paternità come categoria. – La paternità come valore per esaltarsi: “Io sono padre!”… Fierezza. Tenere conto da una parte dell’adozione e dall’altra della decadenza in senso giuridico per mostrare come non sia possibile ridurre la paternità a una categoria biologica, nonostante appartenga alla dimensione carnale. L’adozione è un innesto. Cosa significa generare? Differenza tra donare e produrre. Seguendo questa via si può capire perché la paternità non sia riducibile a una forma di causalità. Le Peuch, 24 gennaio 1943. Simmetria delle prospettive sul male e sulla morte. Nella misura in cui costituisce il mio limite ultimo, la morte non comporta nessun al di là e non può essere trascesa. In quanto tale, però, finisce per fare tutt’uno con il male. La morte pensata si contrappone alla morte vissuta, che è invece immediatamente trascesa, vale a dire, in questo caso, elusa.

veut dire ici escamotée. Il faut une tierce position – de même pour le mal. Le pessimisme, applicable à un monde où la mort est appréhendée comme processus; mais ce n’est justement pas comme processus que la mort apparaît dans le sacrifice. L’immortalité, concevable seulement dans un monde où le sacrifice est, non seulement possible, mais effectivement réalisé. Passage d’une dimension à l’autre. Le Peuch, 17 février 1943. Suites des notes sur la paternité II y a un sens où la paternité apparaît, purement et simplement, comme relation de parenté entre deux êtres. Mais ceci suppose qu’ils soient traités comme des données; or c’est justement de ce point de vue que la notion de paternité se vide de son sens authentique. Plus nous nous obstinerons à interpréter la paternité comme rapport entre des êtres donnés séparément, moins nous pourrons comprendre ce qu’elle est. Le Peuch, 18 février. Je me suis demandé hier s’il n’y avait pas lieu de s’interroger sur le fondement métaphysique de l’autorité paternelle: chercher dans quelles conditions, dans quel contexte de décroyance celle-ci s’oblitère (A propos du très beau roman de Robert de Traz, L’ombre et le soleil), et disparaît là où la relation père-fils n’est pas interprétée à la lumière de la relation entre créateur et créature.

È necessario un terzo punto di vista – ma lo stesso vale anche per il male. Il pessimismo, applicabile a un mondo in cui la morte è pensata come processo. Ma non è affatto così che la morte si presenta nel caso del sacrificio. L’immortalità, concepibile soltanto in un mondo in cui il sacrificio è non soltanto possibile ma anche effettivamente realizzato. Passaggio da una dimensione all’altra. Le Peuch, 17 febbraio 1943 Nuove annotazioni sulla paternità Da un certo punto di vista la paternità appare come una relazione di parentela tra due esseri, semplicemente, ma ciò presuppone che essi siano considerati come dei dati. Ora, è proprio in questa prospettiva che il concetto di paternità viene svuotato del suo significato autentico. Più ci ostineremo a interpretare la paternità come rapporto tra esseri dati separatamente meno potremo comprendere cosa sia. Le Peuch, 18 febbraio 1943. Ieri mi sono chiesto se non sia il caso di interrogarsi sul fondamento metafisico dell’autorità paterna: ricercare in quali condizioni, in quale contesto di de-credenza essa si annulli (a proposito del bellissimo romanzo di Robert de Traz L’ombre et le soleil*), e scompaia nel caso in cui la relazione padre-figlio non sia interpretata alla luce della relazione tra creatore e creatura.

Liaison indissoluble de l’Agir et du Pâtir dans la paternité. Gêne du père en présence du fils et du fils en présence du père: à quoi tient-elle? Elle me paraît liée au sentiment d’intrusion là où la relation entre l’enfant et la mère est trop intime. (Nul besoin d’introduire ici les catégories freudiennes.) L’autorité paternelle liée à la conscience d’une responsabilité; l’une et l’autre disparaissent en même temps. Ceci est une clef. Car ce sentiment de responsabilité s’abolit là où la génération s’effectue, soit au hasard, soit dans le prolongement d’un simple caprice sensuel. D’autre part, elle ne peut pas et ne doit pas non plus être la suite ou l’effet d’une volonté calculatrice. Je reviens toujours à l’effusion, à partir d’une plénitude vécue: lien avec le mariage entendu dans sa vérité. En somme, partir de l’analyse de la situation vécue du père en face de l’enfant: voir comment cette situation peut être faussée (soit si j’ai conscience de n’être pour rien moimême dans la présence au monde de cet enfant, soit si, au contraire, je le traite comme mon œuvre, comme effet de ma volonté). Ici et là, est falsifié un rapport très difficilement saisissable et qui a cela de caractéristique qu’il enveloppe un appel. Le Peuch, 19 février. C’est en somme cette situation qu’il s’agit de comprendre dans son ampleur, avec les valeurs qu’elle est susceptible d’envelopper, mais n’enveloppe pas nécessairement. La paternité est un certain «être en présence de...».

Nella paternità legame indissolubile tra Agire e Patire. Imbarazzo del padre in presenza del figlio e del figlio in presenza del padre: perché? A cosa è dovuto? Mi sembra abbia a che fare con la sensazione di essere un intruso quando la relazione tra il bambino e la madre è eccessivamente intima. (In questo caso non è affatto necessario introdurre le categorie freudiane). L’autorità paterna legata alla consapevolezza di una responsabilità: l’una e l’altra scompaiono contemporaneamente. Ecco il cuore della questione. Il senso di responsabilità si annulla infatti quando la procreazione avviene per caso oppure come prolungamento di un semplice capriccio sensuale. D’altra parte essa non può neppure essere, e non deve, la continuazione o l’effetto di una volontà che ha fatto un calcolo. Ritorno sempre all’effusione, a partire da una pienezza vissuta: legame con il matrimonio inteso nella sua verità. Insomma, prendere il via dall’analisi della situazione vissuta del padre di fronte al figlio: considerare come questa situazione possa subire delle deformazioni (sia se ho la consapevolezza che io stesso non ho avuto nessun ruolo nella presenza al mondo di questo bambino sia se, invece, lo considero come opera mia, come effetto della mia volontà). In entrambi i casi viene falsato un rapporto che si può cogliere con grande difficoltà e che ha questo di caratteristico: comporta un appello. Le Peuch, 19 febbraio 1943. Da comprendere è proprio questa situazione in tutti i suoi aspetti, con i valori che può racchiudere, ma che non necessariamente racchiude. La paternità è un certo “essere in presenza di…”.

On dira qu’après tout, il y a bien ici une relation vérifiable, quelque chose qui doit pouvoir être prouvé ou récusé. C’est absolument certain, mais cette relation ne saurait suffire à définir la paternité, au sens vrai et plein du mot. Comme toujours, il faut «dramatiser»; je suis en présence d’un enfant, je sais que cet enfant est le mien, ou plus exactement je puis dire que toutes les probabilités sont pour que cet enfant soit vraiment le mien. Admettons que ceci soit donné à ma conscience en dehors de toute affectivité. Je sais, pour autant que ce mot peut avoir un sens ici, que je suis le père de cet enfant. Mais cette certitude n’éveille en moi aucun écho. Je ne sens pas que je sois le père. Je reconnais que j’ai des devoirs envers cette petite créature, parce qu’il est normal qu’un père, etc... rien de plus. Il peut se faire, soit que ce petit être m’apparaisse comme un intrus, comme quelqu’un qui vient inopinément troubler ma vie, ou notre vie. Il peut se faire aussi que, me mettant à sa place, je déplore sa position: n’aurait-il pas mieux valu pour lui qu’il restât dans les Limbes? Et ces pensées se déroulent en dehors de l’espèce de sanctuaire où le mot paternité prend vraiment son sens; ce sont des pensées profanes, mais qui ne m’apparaîtront telles qu’après que j’aurai pénétré dans le sanctuaire. Ce mot est bien celui qui convient, car la paternité est un mode de piété. Et on devrait pouvoir parler de piété paternelle, comme on parle de piété filiale. Comment, maintenant, la situation se transforme-t-elle lorsque je suis dans le sanctuaire? C’est ici qu’il me faut faire état des remarques d’hier. Négativement, disons que le petit enfant ne m’apparaît plus, ni comme moi-même, ni comme un étranger (indésiré et qui serait en somme le fruit d’un malentendu, l’expression d’un abus de confiance, dont la vie se serait rendue coupable envers moi). Il y a d’abord le

Si dirà che in definitiva abbiamo a che fare con una relazione verificabile, qualcosa che deve poter essere provato oppure ricusato. È assolutamente certo, però, che questa relazione non può bastare per definire la paternità nella verità e pienezza del significato del termine. Come sempre, bisogna “drammatizzare”. Sono in presenza di un bambino, so che questo bambino è mio o, meglio, posso affermare con ogni probabilità che questo bambino è veramente mio. Supponiamo che tutto ciò sia dato alla mia coscienza al di fuori di ogni moto affettivo. Io so – nella misura in cui questo termine può avere un senso in questo contesto – che sono il padre di questo bambino. Una tale certezza, però, non ha alcuna risonanza in me. Non sento di essere il padre. Riconosco di avere dei doveri nei confronti di questa piccola creatura perché è normale che un padre ecc. Niente di più. Può accadere sia che il piccolo mi appaia come un intruso, come qualcuno che all’improvviso viene a turbare la mia vita, o la nostra vita, sia che mettendomi al posto suo io deplori la sua situazione: non sarebbe stato meglio per lui se fosse rimasto nel Limbo? E questi pensieri si susseguono al di fuori di quella sorta di santuario in cui la parola paternità acquisisce il suo vero significato. Si tratta di pensieri profani, che mi sembreranno tali, però, soltanto dopo che sarò entrato nel cuore del santuario. Questo termine è proprio quello giusto: la paternità è una forma di pietà. E si dovrebbe poter parlare di pietà paterna come si parla di pietà filiale. Quali trasformazioni avvengono dunque nella situazione quando mi trovo invece nel santuario? È proprio a questo punto che bisogna mettere a frutto le osservazioni di ieri. Possiamo affermare, negativamente, che non considero più il piccolino né come me stesso né come un estraneo (indesiderato, e in ultima analisi frutto di un malinteso, l’espressione di un abuso di fiducia, di cui la vita si sarebbe resa colpevole nei miei confronti). Vi è innanzitutto il rispetto,

respect, l’émoi profond, en présence d’un être indépendant de moi et de l’inconnu vertigineux qu’il recèle: mais ce sentiment-là, je pourrais, à la rigueur l’éprouver en présence de n’importe quel petit enfant. Ici, il y a plus: ce petit enfant est le mien. Que signifie ici le possessif? Certes, il peut signifier: il m’appartient. Mais, à la réflexion, ceci devra m’apparaître comme pure aberration. Car il est clair que ces mots n’ont aucun sens. Ce qui est bien plutôt vrai, c’est qu’il a sur moi une créance infinie; et plus j’aurai pris conscience du caractère tragique et insondable de l’existence, plus je reconnaîtrai que c’est cela la vérité; comme s’il me disait: «tu m’as tiré de la nuit, tu m’as éveillé à ce monde redoutable, de quel droit?» Je puis, à vrai dire, être alors tenté de répondre à cette accusation: «Je ne l’ai pas voulu, tu es né malgré moi, malgré nous, nous ne savions pas au juste ce que nous faisions, c’est nous-mêmes qui avons été pris au piège de la vie. Dans ces conditions, nous n’avons qu’à nous débrouiller le moins mal possible, trouver un compromis qui ne soit trop onéreux ni pour toi, ni pour nous.» Je noterai en passant que ceci, cette façon d’ergoter, concevable chez l’homme, l’est à peine chez la femme. Et cependant, une perversion profonde est possible, par laquelle la femme s’associe à cette espèce de protestation excédée. Mais tout ceci encore n’est possible qu’en dehors du sanctuaire. Dans le sanctuaire, cette créance, bien loin qu’elle soit un motif de haïr, devient au contraire une raison d’aimer. «Je t’aime, à cause de tout ce que tu attends de moi.» Ici, cependant, une nouvelle perversion est possible: je risque de m’attacher à toi dans la mesure où tu incarneras la peine que j’aurai eue à me donner pour t’élever. – Il y a là un grave danger. En réalité, il n’est pas question de te faire, mais seulement de te permettre de devenir ce que tu es, et qui justement

l’emozione profonda in presenza di un essere indipendente da me e della vertigine dell’ignoto che cela. A essere rigorosi, però, potrei provare questo sentimento di fronte a un qualsiasi bambino. In questo caso c’è dell’altro: questo bambino è mio. Qual è il senso del possessivo in tale contesto? Può sicuramente significare: mi appartiene. Riflettendo, però, mi renderò conto che si tratta di qualcosa di semplicemente aberrante. È evidente infatti che queste parole non hanno nessun senso. È vero piuttosto che mi concede un credito infinito: e più sarò diventato consapevole del carattere tragico e insondabile dell’esistenza più riconoscerò che è proprio questa la verità. Come se mi dicesse: “Tu mi hai tratto fuori dalla notte, tu mi hai aperto dinnanzi questo mondo terribile. Con quale diritto, però?”. In realtà posso avere la tentazione di controbattere così a questa accusa: “Io non l’ho voluto, tu esisti mio malgrado, nostro malgrado, noi non sapevamo esattamente quello che stavamo facendo, siamo noi a essere stati tratti in inganno dalla vita. In una tale situazione non ci resta che districarci il meno peggio possibile, trovare un compromesso che non sia troppo oneroso né per te né per noi”. Tutto ciò, questo modo di discutere, concepibile per un uomo, lo è a malapena – lo rilevo en passant – per una donna. E tuttavia per una possibile perversione profonda la donna può finire per associarsi a questa sorta di protesta eccessiva. Tutto ciò, però, è possibile, ancora una volta, solo al di fuori del santuario. Nel santuario questo credito, lungi dall’essere un motivo di odio, diventa al contrario una ragione per amare. “Ti amo, a causa di tutto ciò che tu ti aspetti da me.” Anche in questo caso, tuttavia, è possibile una nuova degenerazione: rischio di attaccarmi a te nella misura in cui tu incarnerai la fatica che avrò dovuto sobbarcarmi per farti crescere. – È un grave pericolo. In realtà non si tratta di farti diventare ciò che sei, ma soltanto di metterti nelle condizioni di diventarlo: ciò che sei

est indépendant de ce que je suis; et cela, je le reconnaîtrai d’autant plus profondément que j’aurai mieux jaugé mon insuffisance, mon imperfection. Ici encore, un piège est possible: l’idée d’une revanche, atteindre avec toi, par ton intermédiaire, ce que je n’aurai pas pu réaliser par moi-même. Le sanctuaire, c’est d’abord l’oubli de moi-même, à la fois de ce que je suis et de ce que je ne suis pas, de ce que j’ai réalisé et de ce que je n’ai pas pu atteindre. Mais un nouveau danger me guette: l’effacement total devant toi; et par là, je risque de faire de toi un égoïste. Il est de ton intérêt que je te laisse, malgré tout, reconnaître ce que tu me dois. Le Peuch, 20 février. Nécessité de prendre conscience d’un certain désarroi, qui est à la racine de la crise de l’autorité paternelle; crise dont les origines sont au fond les mêmes que celles de la crise de la natalité. Revenir sur l’idée exprimée l’an dernier d’un lien nuptial de l’homme avec la vie. Moins la vie apparaîtra comme don, plus cette crise s’aggravera: de quel droit ai-je infligé la vie à cette créature qui ne demandait pas à exister? Montrer peut-être pourquoi la question ne se pose pas dans les mêmes termes pour la femme qui est, elle aussi, à quelque degré, victime; elle souffre, et sa souffrance même crée entre elle et l’enfant un lien qui n’existe pas avec l’homme. Cette souffrance peut en quelque sorte s’envenimer là où la femme est en révolte sourde ou déclarée contre son sort. Mais il arrive souvent que la femme se réconcilie avec lui à mesure qu’elle sent vivre en elle l’être que d’abord elle aurait peutêtre voulu supprimer.

è appunto indipendente da ciò che sono io. E lo riconoscerò tanto più profondamente quanto più avrò appurato la mia insufficienza, la mia imperfezione. Anche qui è possibile un inganno. L’idea di una rivincita: raggiungere con te, grazie a te, quello che non mi è stato possibile realizzare da me stesso. Il santuario è innanzitutto l’oblio di me stesso, nello stesso tempo di ciò che sono e di ciò che non sono, di ciò che ho realizzato e di ciò che non ho potuto raggiungere. Un nuovo pericolo mi minaccia, però: l’annullamento totale di fronte a te, che rischia di fare di te un egoista. Malgrado tutto, è nel tuo interesse lasciare che tu riconosca ciò che mi devi. Le Peuch, 20 febbraio 1943. Necessità di acquisire consapevolezza di un certo smarrimento, che è alla base della crisi dell’autorità paterna, crisi le cui origini sono in fondo le stesse del calo della natalità. Ritornare sull’idea elaborata l’anno scorso di un legame nuziale dell’uomo con la vita. Meno la vita sarà considerata come dono, più questa crisi si aggraverà. Con quale diritto ho inflitto la vita a questa creatura che non chiedeva di esistere? Mostrare forse perché la domanda non si ponga negli stessi termini per la donna che è anche lei, in qualche modo, vittima. Soffre, e la sua stessa sofferenza crea tra lei e il figlio un legame che con l’uomo non esiste. Tale sofferenza può in qualche modo inasprirsi nel caso in cui la donna si ribelli tacitamente o apertamente contro la sua sorte. Succede spesso, però, che la donna si riconcili con tale destino man mano che sente vivere in se stessa l’essere che in un primo momento avrebbe forse voluto sopprimere.

La notion de don est liée à celle de valeur. Plus la vie sera conçue comme une modalité indifférente de l’existence qui n’a aucune valeur intrinsèque, moins elle sera saisie comme don. Le plaisir apparaîtra alors comme la seule justification possible de la vie. Ceci pourra avoir deux sortes de conséquences: tantôt l’enfant sera détesté comme trouble-fête, tantôt l’espèce de compassion qu’il inspirera comme compagnon de bagne dégénérera en une sorte de complicité. En aucun cas, l’idée de la société ne jouera ici le moindre rôle. Je crois que, du point de vue phénoménologique qui est le mien, on ne saurait accorder la moindre réalité aux constructions du sociologue dans ce domaine. En somme, ma recherche serait orientée dans le sens suivant: le désarroi exclut la conscience d’une autorité légitime; cette autorité ne peut s’exercer que sur la base d’une expérience vécue qui peut d’ailleurs être trahie par la façon dont elle se conceptualise (comme dans un certain traditionalisme). Mais cette expérience vécue ne peut se réfléchir dans sa vérité sans que se découvrent certaines postulations dont il faut prendre conscience, postulations en lesquelles s’articule une certaine affirmation de la vie comme réalité et comme valeur. Au fond, ce qu’il s’agit de penser et d’extirper, c’est un certain nihilisme qui peut se présenter, soit comme un individualisme anarchique, soit comme un totalitarisme en lequel l’individu se fuit pour oublier son néant, pour se détourner de son propre non-être. Montrer, comme contre-épreuve, que la paternité tend à s’abolir dans un cas comme dans l’autre. Ajouter qu’il y a là quelque chose de bien plus fragile que dans le rapport entre la mère et l’enfant. La paternité est essentiellement vulnérable; son être peut être attaqué du dedans: rancune possible du père contre le fils, irritation et révolte du fils contre le père.

Il concetto di dono è legato a quello di valore. Più si considererà la vita come una modalità indifferente dell’esistenza, senza alcun valore intrinseco, meno sarà colta come dono. Il piacere apparirà allora come l’unica giustificazione possibile della vita. Tutto ciò potrà avere conseguenze di due tipi: o il bambino sarà detestato come un guastafeste oppure la sorta di compassione che ispirerà in quanto compagno di sventura degenererà in una specie di complicità. Qui l’idea di società non avrà in nessun caso la minima importanza. Guardando dal punto di vista fenomenologico, che è il mio, in questo ambito le considerazioni del sociologo non possono essere avvalorate in nessun modo. In sostanza la mia ricerca sarebbe orientata in questa direzione: lo smarrimento non rende possibile la coscienza di un’autorità legittima, che può essere esercitata soltanto sulla base di un’esperienza vissuta, a volte d’altronde tradita dal modo in cui viene elaborata in concetti (come in un certo tradizionalismo). Questa esperienza vissuta, però, non può riflettersi nella sua verità senza che vengano svelati alcuni postulati di cui bisogna essere consapevoli e nei quali viene articolata una certa affermazione della vita come realtà e come valore. In fondo si tratta di pensare ed estirpare un certo nichilismo, che può presentarsi sia come individualismo anarchico sia come totalitarismo nel quale l’individuo fugge se stesso per dimenticare il proprio nulla, per sottrarsi al proprio nonessere. Come controprova si può mostrare che la paternità tende a venire meno in un caso come nell’altro. Aggiungere che in quel caso si tratta di qualcosa di ben più fragile rispetto al rapporto tra madre e figlio. La paternità è per essenza vulnerabile, e il suo essere può venire attaccato dall’interno: possibile rancore del padre nei confronti del figlio, irritazione e rivolta del figlio contro il padre.

Le Peuch, 22 février. Il suit de tout cela qu’on fausse entièrement la réalité en distinguant une sorte de substrat objectif, qui serait la paternité proprement dite, et une attitude subjective adoptée par la conscience par rapport à ce substrat et dont il serait au fond licite de faire abstraction. La vérité est que cette attitude est au contraire constitutive. Plus on tendra à faire prédominer ici les données et les considérations biologiques, plus on tendra à oblitérer chez l’homme le sens de la paternité. A cet égard, les progrès de la biologie peuvent représenter un effroyable danger humain; il est permis de se demander si l’ignorance en ce domaine n’a pas été, par le passé, une véritable bénédiction: il serait, par exemple, infiniment périlleux pour l’homme d’être mis en mesure de déterminer le sexe de sa descendance. Le Peuch, 23 février. Aujourd’hui, sur le chemin de Gondres, j’ai réfléchi à ce que j’appellerais volontiers le téléologique à rebours, c’est-àdire l’existence d’un principe qui serait orienté, comme vers sa fin propre, vers la destruction de toute finalité positive, principe dont on méconnaîtrait radicalement la nature en l’assimilant au pur mécanisme. Je me demande si une maladie quelconque est intelligible sans l’intervention d’un principe maléfique de ce genre. Au fond, le maléfique pur est en nous: il doit donc être aussi hors de nous, car il n’y a aucune raison de supposer une différence de nature entre les forces qui sont à l’œuvre en nous et dans les choses. Il faudrait chercher au nom de quel postulat nous répugnons à admettre cette similitude,

Le Peuch, 22 febbraio 1943. Da tutto ciò consegue che la realtà viene completamente falsata se si distingue una sorta di substrato oggettivo, che sarebbe la paternità propriamente detta, e un atteggiamento soggettivo, nei riguardi di tale substrato, fatto proprio dalla coscienza, e da cui in fondo si potrebbe prescindere. La verità è invece che si tratta di un atteggiamento costitutivo. In questo caso più si avrà la tendenza a far prevalere i dati e le considerazioni biologiche più si tenderà ad annullare il senso della paternità. Da questo punto di vista i progressi della biologia possono rappresentare uno spaventoso pericolo per l’uomo. Viene da chiedersi se in passato l’ignoranza in questo campo non sia stata una vera benedizione. Ad esempio, per l’uomo sarebbe infinitamente pericoloso avere la possibilità di determinare il sesso della sua discendenza. Le Peuch, 23 febbraio 1943. Oggi, sulla strada di Gondres, ho riflettuto su quello che chiamerei volentieri il teleologico al contrario, cioè l’esistenza di un principio orientato, come verso il suo proprio fine, in direzione della distruzione di ogni finalità positiva. Si misconoscerebbe in modo radicale la natura di questo principio assimilandolo al puro meccanicismo. Mi chiedo se una qualunque malattia sia intelligibile senza l’intervento di un tale principio malefico. In fondo il malefico puro è in noi: deve trovarsi dunque anche al di fuori di noi, poiché per nessuna ragione si può presupporre una diversità di natura tra le forze all’opera in noi e nelle cose. Bisognerebbe capire in nome di quale postulato ci ripugni riconoscere questa similitudine, o que-

ou cette identité, et aussi à minimiser ou à nier le maléfique pur. Tout ceci sera à reprendre et à approfondir. Il faudra en même temps voir par la suite à quelles conditions ce téléologique à rebours peut être admis, sans qu’on adhère pour cela à une métaphysique manichéenne. Le Peuch, 24 février. Dans ma promenade à Cavagnac cet après-midi, mes idées d’hier ne se sont guère précisées. Ce que je crois voir, c’est la nécessité de préciser les attitudes de la pensée contemporaine en face de l’idée d’un mal radical. C’est plutôt sur ces attitudes que sur le principe qu’il y a lieu de réfléchir, il me semble. Le Peuch, 3 mars. Le Père M... me demande de lui communiquer quelques réflexions sur les responsabilités d’un catholicisme dévoyé dans la dévirilisation que dénoncent certains écrivains (Montherlant, je pense, Petitjean, etc...) et, en particulier, sur le rôle que peut jouer une certaine notion de péché. Cette dévirilisation me semble consister avant tout dans l’affaiblissement du sens du risque et dans l’oblitération du sens de la cité. (Y a-t-il un lien entre ces deux phénomènes?) Il me semble qu’il faudrait chercher quel est le mode d’altération du sens du péché qui peut contribuer à cet affaiblissement. Un premier point me semble évident: plus le péché sera conçu en fonction de l’individu que je suis, plus je risquerai de m’isoler de la communauté: faux détachement. Nécessité de se sentir solidaire de tous les hommes dans le péché. La notion du péché comme principe de communion.

sta identità, e anche minimizzare oppure negare il malefico puro. Tutto ciò dovrà essere ripreso e approfondito. Nello stesso tempo bisognerà considerare anche a quali condizioni questa teleologia al contrario possa, senza per questo aderire a una metafisica manichea, avere un senso. Le Peuch, 24 febbraio 1943. Le mie idee di ieri non si sono affatto chiarite durante la mia passeggiata di oggi a Cavagnac. Penso comunque di rilevare la necessità di precisare gli atteggiamenti del pensiero contemporaneo nei confronti dell’idea di un male radicale. È su tali atteggiamenti, piuttosto che sul principio, che vale la pena riflettere, mi sembra. Le Peuch, 3 marzo 1943. Il Padre M. mi chiede di fargli avere alcune riflessioni sulle responsabilità di un cattolicesimo portato fuori rotta nella svirilizzazione denunciata da alcuni scrittori (mi viene in mente Montherlant, ad esempio, Petitjean, ecc.) e, in particolare, sul ruolo che può avere un certo concetto di peccato. Questa svirilizzazione mi sembra consistere innanzitutto nell’indebolimento del senso del rischio e nell’annullamento del senso della comunità. (Esiste forse un legame tra questi due fenomeni?) Mi pare che sarebbe necessario capire in che modo possa alterarsi il senso del peccato, che può contribuire a questo indebolimento. Un primo punto mi sembra evidente: più il peccato sarà concepito in funzione dell’individuo che io sono, più rischierò di isolarmi dalla comunità: falso distacco. Necessità di sentirsi solidale nel peccato con

Le sens du péché entièrement différent du sentiment d’imperfection. Il est inséparable du sentiment de l’Amour divin. Le sentiment d’imperfection, dont il faudrait d’ailleurs élucider la nature, est ambigu dans ses implications: mon imperfection ne tient-elle pas à la mauvaise qualité intrinsèque – ou à un défaut d’agencement – des éléments qui me constituent? Ou bien, au contraire ai-je ma part de responsabilité dans cette imperfection de mon être? Mon péché, au contraire, n’est tel – il n’est mien et il n’est péché – que si j’y suis vraiment engagé. On ne saurait dire, cependant, qu’il est mon œuvre, car il est à une œuvre véritable ce que la mort est à la vie, et si je dis qu’il est une œuvre de mort, je marque ainsi l’antinomie qu’il enveloppe. II me semble que la réalité de mon péché n’affleure a ma conscience que dans la mesure où je m’éveille à l’Amour infini dont je suis l’objet; mais, inversement, si cet Amour n’est pas reconnu par moi, je ne peux pas non plus me reconnaître pécheur. Je note enfin que ce péché n’est pas seulement mien, mais nôtre; je ne puis, sans pharisaïsme, constater leur péché et m’en déclarer exempt; si le mal est en eux, je suis tenu d’affirmer qu’il est aussi en moi, et peut-être est-ce par cette voie indirecte que je peux le mieux m’élever à la notion du péché – en constatant, par exemple, le retentissement que le péché des autres a en moi, les sentiments de haine, de vengeance ou d’envie qu’il m’inspire –. C’est en ce sens qu’il y a communion. Si je n’ai pas conscience de communier avec les autres dans le péché, je ne peux pas espérer communier avec eux dans les expériences qui acheminent au salut. Toutes ces remarques me paraissent importantes. Réfléchir demain sur les rapports du péché et de la vie – en particulier dans l’œuvre de chair –. Distinguer entre

tutti gli uomini. Il concetto di peccato come principio di comunione. Il senso del peccato completamente differente dal sentimento di imperfezione. È inseparabile dal sentimento dell’Amore divino. Il sentimento di imperfezione, di cui d’altra parte bisognerebbe chiarire la natura, è ambiguo nelle sue implicazioni: la mia imperfezione è dovuta forse alla cattiva qualità intrinseca – oppure a una cattiva disposizione – degli elementi che mi costituiscono? Oppure, al contrario, ho la mia parte di responsabilità nell’imperfezione del mio essere? Il mio peccato, invece, è tale – è mio ed è peccato – solo se sono veramente impegnato in esso. Non si può dire, però, che è opera mia: sta a una vera opera come la morte sta alla vita, e affermando che si tratta di un’opera di morte metto in evidenza l’antinomia che esso racchiude. Mi sembra che la realtà del mio peccato affiori alla mia coscienza soltanto quando mi risveglio all’Amore infinito di cui sono l’oggetto. Ma, viceversa, se non riconosco questo Amore non posso neppure riconoscermi peccatore. Il peccato, infine, non è soltanto mio, ma nostro. Non posso, senza fariseismo, costatare il loro peccato e dichiararmene immune: se il male si trova in loro, devo affermare che si trova anche in me. Forse è proprio questa via indiretta la strada migliore per giungere al concetto di peccato – costatando, ad esempio, le ripercussioni del peccato degli altri in me, i sentimenti di odio, di vendetta o di invidia che mi ispira –. È in questo senso che vi è comunione. E non posso neppure sperare di condividere con loro le esperienze che conducono verso la salvezza, se non sono consapevole di essere in comunione con gli altri nel peccato. Queste osservazioni mi sembrano tutte importanti. Domani riflessioni sui rapporti tra peccato e vita – in particolare nell’opera carnale –. Distinguere tra il falso e

le faux et le véritable ascétisme. C’est en partant de telles recherches qu’on peut espérer répondre à la question posée par le Père M... Y a-t-il à proprement parler sentiment d’imperfection? Je me reconnais, je me juge imparfait, mais ce jugement, sur la base de quelle expérience est-ce que je le prononce? On serait peut-être tenté de dire que je me confronte moi tel que je suis, avec un certain idéalisme plus ou moins clairement conçu; mais il est très douteux que cette interprétation soit exacte. Il me semble que mon imperfection est bien plutôt éprouvée comme une inhibition; je me sens arrêté sur un certain chemin; il y a des cas où j’ai de ce chemin une représentation claire, d’autres où je me borne à me représenter tel acte particulier qui serait à accomplir et dont je me sens incapable: cet argent que je viens de recevoir, je devrais le donner à N..., il lui serait nécessaire, mais je n’en ai pas le courage, ce serait me priver d’un livre ou d’un voyage auquel je tiens. Mais ce qu’il faut bien remarquer, c’est que cette constatation d’un arrêt ne se mue pas nécessairement en jugement d’imperfection, je suis toujours porté à chercher une justification de mon abstention. Le mouvement décisif consistera à écarter cette justi-fication spécieuse, à la percer à jour. Il vaudrait mieux donner cette somme à N..., pourtant je ne puis m’y résoudre: je reconnais donc que, dans tel cas précis, je suis au-dessous de ce que je devrais être. Est-ce par voie de généralisation ou d’induction que je passe à la reconnaissance de mon imperfection générale? En réalité, il y a saisie d’un universel à travers l’expérience particulière. Pour m’être conduit de telle façon dans tel cas particulier, il faut que... Je me vois à travers mon acte ou mon abstention. Mais cette imperfection n’est pas encore appréhendée comme péché. Elle peut se présenter à moi comme infirmité, comme pure déficience, à peu près comme sur le plan physique une

il vero ascetismo. Prendendo come base proprio queste ricerche posso sperare di rispondere alla domanda posta dal Padre M. Esiste il sentimento di imperfezione, propriamente parlando? Io mi riconosco, mi giudico imperfetto: sulla base di quale esperienza formulo però tale giudizio? Si ha forse la tentazione di affermare che confronto me stesso così come sono con un certo idealismo, concepito più o meno chiaramente, ma non è per niente sicuro che questa interpretazione sia esatta. Mi sembra piuttosto che la mia imperfezione sia vissuta come un’inibizione: mi sento bloccato su un certo cammino. In alcuni casi mi rappresento chiaramente tale cammino, in altri invece mi limito a rappresentarmi un certo atto particolare che dovrei compiere ma di cui mi sento incapace. Ho appena ricevuto del denaro, dovrei donarlo a N. perché gli serve assolutamente, mi manca il coraggio, però: vorrebbe dire privarmi di un libro oppure di un viaggio cui tengo. Questa constatazione di una battuta d’arresto non diventa necessariamente un giudizio di imperfezione, tendo sempre a cercare una giustificazione al mio desistere. Mettere da parte una tale giustificazione speciosa, smascherarla: è questo il passaggio decisivo. La cosa migliore sarebbe donare la somma a N., ma io non riesco a decidermi: riconosco dunque che in questo caso specifico rimango su un piano inferiore rispetto a quello su cui dovrei essere. Riesco forse a riconoscere la mia imperfezione complessiva attraverso un processo di generalizzazione oppure attraverso l’induzione? In realtà l’universale si coglie attraverso l’esperienza particolare. Per aver agito in quel modo, in un quel caso particolare, bisogna che… Mi vedo attraverso il mio atto o il mio astenermi da esso. Questa imperfezione, però, non è ancora pensata come peccato. Mi si può presentare come infermità, come pura deficienza, pressappoco come accade a livello

incapacité constatée, celle de porter longtemps un certain poids, de faire un certain exercice, etc... Le Peuch, 5 mars. Pour que mon imperfection m’apparaisse comme péché, il faut – mais il ne suffit pas – que je m’en reconnaisse responsable. Ce n’est d’ailleurs pas assez dire: il faut d’abord que cette imperfection se localise pour moi dans mon propre vouloir et que celui-ci m’apparaisse, sinon comme foncièrement mauvais, tout au moins comme divisé. Mais ce n’est là qu’une condition préalable. Le «video meliora proboque, deteriora sequor» ne traduit pas encore une expérience spécifique du péché, il n’est qu’une constatation. Mais ce que je sens fortement, bien qu’encore confusément, c’est que le péché proprement dit ne se constate pas à proprement parler, le péché n’est pas un fait, et, s’il est une donnée, c’est qu’entre donnée et fait il y a lieu de distinguer. C’est, je crois, par rapport à cette distinction qu’il faudrait définir ce qu’on appelle le sens du péché. La donnée qui est ici en question ne se laisse pas saisir en dehors d’un Amour, plus ou moins clairement conçu, dont le sujet s’apparaît comme l’œuvre ou l’objet; ou, du moins, là où toute notion claire de cet Amour fait défaut, il y a malgré tout une certaine position de soi comme âme, un certain rapport à soi-même qui est de l’essence de la piété. Là où toute piété envers soi-même fait défaut, il ne peut plus rien y avoir qui ressemble au sens du péché. Cette piété est d’ailleurs très difficile à définir. Mais il me semble qu’elle implique l’affirmation d’une transcendance. «Nous ne sommes pas d’ici», disait une vieille femme à J..., à propos de la mort de E... C’est une façon naïve mais authentique d’affirmer cette transcendance. Pour autant que je me pense comme simple

fisico quando si costata un’incapacità: portare a lungo un certo peso, fare un certo esercizio, ecc. Le Peuch, 5 marzo 1943. Perché io consideri la mia imperfezione come peccato bisogna che me ne riconosca responsabile – ma questo non basta ancora –. Con ciò comunque non si è detto abbastanza: bisogna innanzitutto che questa imperfezione venga da me localizzata nella mia volontà, e che quest’ultima mi appaia se non come radicalmente cattiva, almeno come divisa. Si tratta però soltanto di una condizione preliminare. Dato che il “video meliora proboque, deteriora sequor” è soltanto una constatazione, non traduce ancora l’esperienza specifica del peccato. Ciò di cui mi rendo conto in modo deciso ma ancora confuso è che a rigor di termini il peccato propriamente detto non si costata: il peccato non è un fatto, e se si può parlarne come di un dato è perché bisogna distinguere tra dato e fatto. Bisognerebbe definire quello che viene chiamato il senso del peccato proprio in relazione a questa distinzione. Il dato qui in questione non può essere colto al di fuori di un Amore, concepito più o meno chiaramente, di cui il soggetto si rivela come l’opera o l’oggetto. In alcuni casi, pur in mancanza di un chiaro concetto di questo Amore, si ha comunque un porsi come anima, un certo rapporto con se stesso che ha la stessa natura della pietà. Se manca ogni forma di pietà verso se stessi, però, non può esserci nulla che assomigli al senso del peccato. D’altra parte definire la pietà non è cosa facile, ma mi sembra che implichi l’affermazione di una trascendenza. “Noi non siamo di questo mondo”, diceva un’anziana signora a J. riferendosi alla morte di E. Si tratta di un modo ingenuo ma autentico di affermare questa trascendenza. Nella misura in cui penso me stesso come un

fragment de la nature, je me mets hors d’état d’éprouver ce sentiment de piété. Toutefois, en proclamant que je n’appartiens pas à ce monde-ci, est-ce que je ne jette pas, par là même, le discrédit sur cette vie d’ici-bas? Est-ce que la conscience du péché ne se confondra pas avec cette condamnation de la vie naturelle? Il faut certainement reconnaître qu’il y a là une possibilité, une tentation; mais je pense que ce n’est là qu’une déviation, d’ailleurs difficile à éviter. Déviation à partir d’où? Quelle serait la position juste? C’est ce que je vois encore très mal. Le Peuch, 6 mars. Ce que je retiens de mes remarques d’hier, c’est seulement l’idée d’une transcendance enveloppée dans le sentiment du péché. Mais transcendance de qui, ou de quoi? Cette transcendance peut être avant tout la non-appartenance à moimême. Dans une éthique strictement monadiste, à supposer qu’elle soit possible, je ne vois pas qu’il puisse y avoir place pour le péché: pour la faute oui. Mais c’est ici qulapparaît la différence. Le Peuch, 7 mars. Il faut aussi que je commence à prendre quelques notes pour l’essai métaphysique que m’a demandé Grenier. Je compte utiliser mes notes d’avril 39. Le problème de la réalité à partir de l’affirmation. Comment l’affirmation est-elle possible? Y a-t-il un sens quelconque à contester le droit que je m’octroie d’énoncer des affirmations? L’affirmation située par rapport à la vie.

semplice frammento della natura mi metto nelle condizioni di non poter provare tale sentimento di pietà. Nel momento in cui affermo di non appartenere a questo mondo non scredito invece la vita di quaggiù? La coscienza del peccato non finirà per confondersi con questa condanna della vita naturale? Non c’è dubbio: bisogna riconoscere che si tratta di una possibilità, di una tentazione. Penso però che si tratti soltanto di una deviazione, tra l’altro difficile da evitare. Deviazione a partire da dove? Quale sarebbe il giusto modo di porsi? Tutto ciò è ancora molto oscuro. Le Peuch, 6 marzo 1943. Delle mie osservazioni di ieri faccio mia soltanto l’idea di una trascendenza racchiusa nel sentimento del peccato. Trascendenza di chi o di che cosa, però? Questa trascendenza può essere innanzitutto la non-appartenenza a me stesso. Non penso che in un’etica rigidamente monadista – supponendo che sia possibile – possa esserci posto per il peccato: per la colpa invece sì. Ecco la differenza. Le Peuch, 7 marzo 1943. È necessario che io cominci ad annotare qualche riflessione per il saggio metafisico che mi è stato chiesto da Grenier. Conto di utilizzare i miei appunti dell’aprile del 1939. Il problema della realtà a partire dall’affermazione. Come è possibile l’affermazione? Ha un senso contestare il diritto che mi concedo di fare delle affermazioni? L’affermazione posta in rapporto alla vita.

Je voudrais, d’autre part, prendre position par rapport à la liberté et à l’immortalité. Rien de tout cela n’est encore net dans mon esprit. J’ai, comme toujours, l’impression désespérante qu’il faut tout reprendre au commencement. Le Peuch, 8 mars. Si hasardeux qu’il soit de rien affirmer là où il s’agit de la vie la plus secrète des hommes, il ne paraît pas téméraire de penser qu’au cours des dernières années, le sens du péché s’est affaibli jusqu’à disparaître à peu près complètement dans des consciences qui n’ont pourtant pas cessé de se juger chrétiennes. Certes, il n’est sans doute à peu près personne qui, dans des circonstances déterminées, ne soit susceptible de subir le choc qui accompagne cette simple constatation: peccavi, quitte à traiter ensuite ce sentiment comme une survivance ou comme l’écho lointain et trompeur de croyances abolies. – Il s’agit à vrai dire beaucoup moins d’états instantanés que d’une disposition permanente qui constitue la basse continue de la vie intérieure. Encore le mot disposition est-il ici trompeur; il s’agit de cette affirmation, tantôt inarticulé, tantôt distincte: je suis un pécheur, ou encore et plus profondément, nous sommes tous des pécheurs. On ne s’étonnera pas, si l’on prend conscience des réquisitoires contre l’optique et l’éthique chrétiennes qui ont fleuri depuis le désastre, dans les conditions les plus suspectes, et qui, pourtant, d’une façon générale, s’inspiraient d’un humanisme «viril et tonique», d’y retrouver, quelque peu fripé, le vieil argument nietzschéen sur l’action anémiante qu’exerce la croyance au péché sur des consciences en formation. On sera d’abord tenté très légitimement de répondre simplement que, dans notre pays en particulier, les éléments qui se sont révélés les moins résistants ont été le plus souvent

D’altra parte vorrei prendere posizione sulla libertà e sull’immortalità. Per il momento nulla di tutto ciò è chiaro nel mio pensiero. Come sempre, ho la sconfortante impressione che sia necessario riprendere tutto da capo. Le Peuch, 8 marzo 1943. Per quanto possa sembrare azzardato fare affermazioni sulla parte più segreta della vita degli uomini, non sembra però temerario pensare che negli ultimi anni il senso del peccato si è affievolito, fino a scomparire quasi completamente, in coscienze che comunque non hanno smesso di considerarsi cristiane. Senza dubbio non vi è quasi nessuno che in determinate circostanze non subisca lo choc provocato da questa semplice constatazione: peccavi, salvo considerare successivamente questo sentimento come una sopravvivenza o come la eco lontana e ingannatrice di credenze scomparse. – A dire il vero, si tratta molto meno di stati istantanei che di una disposizione continua che costituisce la base della vita interiore. In questo caso anche il termine disposizione trae in inganno. Si tratta di questa affermazione, talvolta inarticolata talvolta ben chiara: io sono un peccatore; anzi, in un senso più profondo, noi siamo tutti dei peccatori. Se si comprendono le requisitorie contro la visione e l’etica cristiane che hanno prosperato dopo il disastro, nelle condizioni più sospette, e che tuttavia si ispiravano, in generale, a un umanismo “virile e vivificante”, non ci si stupirà di ritrovarvi, sia pure un po’ avvizzito, il vecchio argomento di Nietzsche sull’azione anemizzante esercitata sulle coscienze in formazione dalla credenza nel peccato. In un primo momento si sarà tentati, a ragione, di rispondere semplicemente che, in particolare nel nostro paese, gli elementi che si sono rivelati meno resistenti sono stati nella maggior parte dei casi

ceux qui avaient été les plus entamés, non seulement par le laïcisme, mais par les affections chroniques que déterminent à la longue au fond des âmes le goût et l’abus de la facilité. Cette parade ne saurait cependant suffire. Il serait à vrai dire bien peu conforme à l’exigence chrétienne, prise dans son ampleur et telle qu’elle doit s’affirmer au plan même de la réflexion, de faire bénéficier les chrétiens en général de cette sorte d’exonération massive. Il paraît infiniment préférable de s’interroger en toute sincérité sur les déviations ou les aberrations auxquelles le sens du péché peut donner lieu, lorsqu’il n’est pas rectifié par une pensée dogmatique à la fois robuste et compréhensive. Une remarque générale paraît s’imposer ici. Plus le sentiment que j’ai de mon propre péché tendra à se réduire à la crainte de ne pas être en règle et de devoir, par conséquent, être pris en faute lorsqu’il sera procédé à une comptabilité sans appel des actions humaines, – plus je risque de m’enfermer dans un système d’obsessions dont je demeurerai le centre, système gravitant autour de l’image plus ou moins précise de mon salut ou de ma perdition personnelle. Mais, dans la mesure où je demeurerai ainsi prisonnier d’une conception heautocentrique du drame personnel et de la vie spirituelle, il est permis de se demander si je ne tendrai pas à me placer du même coup en dehors du christianisme, entendu dans sa vérité éternelle. Il faut ajouter qu’en même temps, je serai presque inévitablement amené à transposer sur le plan non seulement moral, mais religieux les façons d’être, c’est-à-dire à la fois de sentir, de penser et d’agir, de celui qui s’entoure au maximum de précautions pour mener à bonne fin une affaire qui lui tient particulièrement à cœur – ceci à supposer que la préoccupation du salut soit réelle, et non pas simplement plaquée sur une existence qui ne la comporte pas et qui continue à se dérouler suivant les lois qui lui sont propres.

coloro che erano stati maggiormente corrosi non soltanto dal laicismo, ma dalle malattie croniche provocate a lungo andare in fondo alle anime dal gusto e dall’abuso delle comodità. Questa carrellata non può tuttavia bastare. A dire il vero, infatti, sarebbe molto poco in linea con l’esigenza cristiana, presa nella sua ampiezza e quale deve affermarsi sul piano della riflessione, far beneficiare tutti i cristiani indistintamente di questa sorta di esonero generale. È infinitamente meglio, così sembra, interrogarsi in tutta sincerità sulle deviazioni o sulle aberrazioni alle quali può condurre il senso del peccato quando non è compensato da un pensiero dogmatico vigoroso e indulgente allo stesso tempo. A questo punto sembra imporsi un’osservazione generale. Quanto più il sentimento del mio proprio peccato tenderà a ridursi al timore di non essere in regola, e di dover quindi essere considerato colpevole quando verrà fatto un calcolo contabile senza appello delle azioni umane, tanto maggiormente rischio di rinserrarmi in un sistema di ossessioni di cui continuerò a essere il centro, sistema che gravita attorno all’immagine più o meno definita della mia salvezza o della mia perdizione personale. Ci si può chiedere però se, nella misura in cui rimarrò prigioniero in questo modo di una concezione autocentrica del dramma personale e della vita spirituale, non rischierò per ciò stesso di pormi al di fuori del cristianesimo, inteso nella sua verità eterna. Nello stesso tempo, inoltre, sarò quasi inevitabilmente portato a trasferire sul piano non soltanto morale ma anche religioso i modi d’essere, cioè allo stesso tempo di sentire, pensare e agire, di colui che prende tutte le precauzioni per condurre a buon fine un affare che gli sta particolarmente a cuore – tutto ciò partendo dal presupposto che la preoccupazione per la salvezza sia reale, e non soltanto applicata a un’esistenza che non la prevede e che continua a svolgersi secondo le leggi che le sono proprie.

On ne contestera certainement pas qu’il ait pu se trouver une infinité de braves gens pour souscrire, en toute naïveté, à un individualisme qui plonge de si profondes racines dans notre condition d’êtres finis. On ne saurait d’ailleurs guère douter qu’en fait, à un certain stade du développement de l’humanité, une conception de cet ordre ait été requise pour arracher l’homme, je ne dis pas à son égoïsme, mais à l’aveuglement qui l’empêchait de voir des fins dépassant de loin l’horizon de ses préoccupations immédiates. Si tant est que nous puissions sans présomption espérer entrevoir, dans son dessein général, la pédagogie divine qui est à l’œuvre dans l’histoire des sagesses humaines, il semble que l’idée du salut individuel, considérée dans ses expressions les plus diverses, ait eu à jouer un rôle essentiel. Il n’en est pas moins vrai que, lorsqu’on la considère sous une certaine lumière intérieure, cette notion se révèle, non seulement insuffisante, mais peu compatible avec ce qu’il y a de plus original et de plus pur dans l’aspiration chrétienne proprement dite. Il va de soi qu’ici, entre la représentation du péché et celle du salut, il existe la plus rigoureuse correspondance. Reprenant la terminologie dont j’ai si souvent usé, je dirai que ce n’est pas en langage d’avoir que ces notions capitales peuvent être valablement exprimées. J’entends par là qu’on fausse probablement les rapports qui sont ici en cause lorsqu’on déclare que chacun de nous acquerra des mérites destinés à compenser, voire à surpeser, une certaine tare initiale. Quelle que soit leur ambiguïté, leur redoutable mais féconde ambiguïté, ce sont les idées de vie et de mort qui doivent ici orienter la pensée. Chacun de nous est pécheur pour autant qu’il se trouve participer à une œuvre de mort qui s’accomplit dans le monde et à laquelle nous nous associons, peut-être autant par notre inertie et notre aveuglement que par telle action designable et positivement mauvaise.

C’è un’infinità di brave persone che in modo del tutto spontaneo – non verrà sicuramente messo in dubbio – sottoscriverebbero un individualismo che ha radici profondissime nella nostra condizione di esseri finiti. Di fatto a un certo stadio di sviluppo dell’umanità si è resa necessaria, sicuramente, una concezione di questo tipo per sottrarre l’uomo non dico al suo egoismo, ma all’accecamento che gli impediva di avere in vista fini che oltrepassassero l’orizzonte delle sue preoccupazioni immediate. Se ci è dato, senza presunzione, sperare di intravedere nella sua trama generale la pedagogia divina che è all’opera nella storia della saggezza umana nelle sue varie manifestazioni, sembra che l’idea della salvezza individuale, considerata nelle sue più diverse espressioni, abbia svolto un ruolo essenziale. Non è meno vero che quando lo si considera sotto una certa luce interiore questo concetto si rivela non soltanto insufficiente, ma anche poco compatibile con ciò che c’è di più originale e di più puro nell’aspirazione cristiana propriamente detta. In questo caso, va da sé, tra la rappresentazione del peccato e quella della salvezza esiste una corrispondenza diretta. Riprendendo la terminologia che ho spesso utilizzato, non è con il linguaggio dell’avere che si possono esprimere questi concetti fondamentali. Con ciò mi riferisco al fatto che i rapporti di cui si sta parlando probabilmente vengono falsati quando si afferma che ciascuno di noi acquisirà dei meriti destinati a compensare – cioè a sovrapporsi – una certa tara iniziale. Qualunque sia la loro ambiguità, la loro temibile ma feconda ambiguità, qui sono le idee di vita e di morte che devono indicare la direzione al pensiero. Ciascuno di noi è peccatore nella misura in cui dà il suo contributo a un’opera di morte che si compie nel mondo, alla quale ci associamo in ugual misura, forse, sia con la nostra inerzia e il nostro accecamento sia con un’azione ben precisa e positivamente cattiva.

Le Peuch, 12 mars 1943. J’ai relu tout à l’heure mes notes de mars 42. Je ne pense pas avoir rien écrit de plus important. Mais je n’ai pas su tirer suffisamment parti des notes sur la vie comme parcours. Ou bien nous immobilisons l’autre, le mort, comme s’il était resté à tel point du parcours, ou bien nous imaginons que ce parcours continue parallèlement au nôtre, dans une zone interdite à nos regards. Il ne faut pas exclure absolument cette deuxième hypothèse, mais il me semble, cependant, qu’il faudrait arriver à dépasser cette opposition de l’arrêt et du parcours, et à concevoir la mort comme non réductible à l’un ou à l’autre de ces termes. Nous y parvenons d’autant moins facilement que nous nous obstinons à nous la rapporter à nous-mêmes, d’autant mieux que nous réussissons davantage à la restituer dans sa vérité. La seule question qui compte, c’est de savoir à quelle condition je puis cesser d’être une prison pour moi-même. C’est ainsi que se pose le problème du salut, à l’intersection du problème de l’être et du problème de la liberté. Le Peuch, 13 mars. Sens et conséquence du péché. L’expression sens du péché est certainement défectueuse. Sens est pris ici dans la même acception que lorsqu’on parle de sens moral ou de sens de la vérité, acception qui ne comporte rien d’affectif. Il s’agit d’une certaine puissance spontanée d’adhésion ou de refus. Mais, dans le cas du péché, il y a encore autre chose. Ne pas avoir le sens du péché, cela veut dire être incapable de se saisir suivant une certaine dimension spirituelle. Il est probable que la raison naturelle, en effet, ne le peut pas. Ici

Le Peuch, 12 marzo 1943. Poco fa ho riletto le mie annotazioni del marzo del 1942. Penso di non aver scritto nulla di più importante, però non ho saputo trarre sufficientemente profitto dalle riflessioni sulla vita come percorso. O immobilizziamo l’altro, colui che è morto, come se si fosse fermato a un certo punto del percorso, oppure immaginiamo che un tale percorso continui parallelamente al nostro, in una zona vietata ai nostri sguardi. Non bisogna assolutamente escludere questa seconda ipotesi, ma mi sembra che bisognerebbe riuscire a superare l’opposizione tra fermata e percorso, e a pensare la morte come non riducibile all’uno o all’altro di questi termini. Ci risulta tanto meno facile quanto più ci ostiniamo a riferirla a noi stessi, raggiungiamo l’obiettivo tanto meglio quanto più riusciamo a ricomporla nella sua verità. Si tratta di sapere, è questo ciò che conta, a quale condizione io possa non costituire più una prigione per me stesso. È così che si pone il problema della salvezza: all’intersezione tra il problema dell’essere e quello della libertà. Le Peuch, 13 marzo 1943. Senso e conseguenza del peccato. L’espressione “senso del peccato” è inadeguata, non c’è dubbio, dato che senso viene inteso nella stessa accezione che assume quando si parla di senso morale o di senso della verità, cioè senza nessun riferimento alla sfera affettiva. Si tratta di una capacità spontanea di adesione o di rifiuto. Nel caso del peccato, però, si tratta di qualcosa d’altro ancora. Non avere il senso del peccato significa essere incapace di cogliersi secondo una certa dimensione spirituale. È probabile infatti che la ragione

apparaît la distinction, sur laquelle j’insistais les 4 et 5 mars derniers, entre le sentiment d’imperfection et le sentiment de péché. Je peux reconnaître mes limites, et même en souffrir profondément, sans pour cela reconnaître que je suis pécheur. De ces limites, je ne vois pas que je sois responsable. Attention cependant: le sentiment du péché se confond-il avec le sentiment de responsabilité? Il me paraît à peu près certain que non. Au contraire, plus je mettrai l’accent sur ma responsabilité, plus je risquerai de me montrer étranger au sentiment du péché. Ceci n’est pas encore assez distinct. Voici ce que je veux dire: en présence de tel échec, de telle mésaventure, dont d’autres ont pu être victimes autant que moi ou davantage, je découvre, à la réflexion, que c’est moi qui ai provoqué cet échec ou cet accident, par exemple parce que j’ai négligé de prendre telle précaution. Ceci revient à dire que j’aurais dû, et que j’aurais pu, que je suis donc en faute. Il n’y a rien là qui s’apparente à la conscience du péché. Il semble, en effet, que je puisse une autre fois tirer parti directement de mes constatations rétrospectives, exactement comme un ingénieur qui s’était d’abord trompé dans ses calculs, mais les rectifie par la suite. Si j’ai conscience de mon péché, c’est-à-dire de ma condition de pécheur, je ne me ferai pas d’illusions sur ce point, je reconnaîtrai que, livré à moi-même, je ne «m’en tirerai» pas non plus une autre fois – du moins pas tout seul – mais que je devrai compter sur l’assistance divine pour m’épargner de nouveaux revers. La conscience du péché ouvre donc sur celle d’un recours nécessaire. Mais ici, un double écueil est possible: je pourrai, ou bien m’abriter, en quelque sorte, derrière l’idée de ma volonté pécheresse pour m’enfoncer dans une sorte de fatalisme («Après tout, je n’y peux rien!»),

naturale non ci riesca. Emerge qui in tutta la sua chiarezza la distinzione, sulla quale ho insistito il 4 e il 5 marzo scorsi, tra il sentimento di imperfezione e il sentimento del peccato. Posso riconoscere i miei limiti, e anche soffrirne profondamente, senza per questo riconoscere di essere peccatore. Non posso considerare me stesso il responsabile di questi limiti. Attenzione, però: il sentimento del peccato si confonde con il sentimento di responsabilità? Quasi certamente no. Al contrario, più metterò l’accento sulla mia responsabilità più rischierò di mostrarmi estraneo al sentimento del peccato. Tutto ciò non è ancora abbastanza chiaro, però. Ecco quello che intendo dire: di fronte a un fallimento, a una disavventura, di cui altri sono stati vittime quanto me o in misura anche maggiore, la riflessione mi permette di scoprire che sono proprio io ad aver provocato tale fallimento oppure tale incidente, ad esempio perché per negligenza non ho preso una certa precauzione. Significa che avrei dovuto, e che avrei potuto, e che sono quindi in colpa. In questo caso, però, non vi è nulla che abbia qualcosa in comune con la coscienza del peccato. Sembra infatti che in un’altra occasione potrò trarre vantaggio direttamente dalle mie constatazioni retrospettive, proprio come un ingegnere che nel fare i calcoli inizialmente commette degli errori, ma in un secondo momento è in grado di rettificarli. Se sono consapevole del mio peccato, cioè della mia condizione di peccatore, non mi farò illusioni su questo: riconoscerò che, lasciato a me stesso, un’altra volta non “me la caverò” – almeno non da solo –, ma dovrò contare sull’assistenza divina per vedermi risparmiati nuovi rovesci. La coscienza del peccato sfocia dunque nella consapevolezza della necessità di un aiuto. Ma ecco un doppio ostacolo: o mi rifugerò, in qualche modo, nel pensiero che la mia volontà è peccatrice, e sprofonderò così in una sorta di fatalismo (“In fondo non posso farci nulla!”),

ou bien compter exclusivement sur une volonté étrangère à la mienne, c’est-à-dire non plus faire, mais laisser faire. Telle est, semble-t-il, la double erreur qui est à l’origine des déviations si souvent dénoncées. On peut prétendre en somme que, considérée dans cette perspective, la vie humaine s’appauvrit. Nous n’avons pas le droit d’exploiter à notre avantage le fait du péché; cela reviendrait à le nier, cela prouverait que nous n’y croyons pas. Le péché peut nous isoler là où il est méconnu dans son essence ou, au contraire, nous relier, devenir principe de communion. Le Peuch, 14 mars. Ces dernières remarques sont essentielles. Je n’ai pas à tirer argument ou prétexte du fait que ma condition est celle d’un pécheur pour ne pas faire effort. On pourrait dire très simplement, et en accord avec le bon sens traditionnel, que je dois croire au contraire que les secours surnaturels dont j’ai besoin me seront d’autant plus accordés que je me serai moins abandonné. (Il faudrait souligner les dangereuses équivoques qui s’attachent à la notion d’abandon.) Il y a ici un équilibre à trouver; il ne peut se réaliser que dynamiquement, entre ce qu’on peut appeler sommairement la raison et la foi. Certes, nous avons surtout vu les abus d’un certain rationalisme; mais celui-ci peut susciter, par contrecoup, un fidéisme qui n’est guère moins dangereux. Tout s’éclaire si l’on s’applique à considérer le péché sous l’angle du nous, et non pas simplement du moi.

oppure farò assegnamento soltanto su una volontà estranea alla mia, il che vuol dire non più agire ma lasciar fare. All’origine delle deviazioni così spesso denunciate ci sono proprio questi due errori. Si può sostenere insomma che la vita umana si immiserisce se la consideriamo secondo questa prospettiva. Noi non abbiamo il diritto di sfruttare a nostro vantaggio il fatto del peccato: significherebbe negarlo, sarebbe la prova che non ci crediamo. Il peccato può isolarci se viene misconosciuto nella sua essenza ma anche, al contrario, unirci, diventare principio di comunione. Le Peuch, 14 marzo 1943. Le ultime osservazioni sono essenziali. Non devo fare della mia condizione di peccatore né motivo né pretesto per non impegnarmi affatto. Si potrebbe affermare, molto più semplicemente, e secondo il tradizionale buon senso, che devo credere al contrario che gli aiuti soprannaturali di cui ho bisogno mi saranno tanto più concessi quanto meno mi sarò lasciato andare. (Sarebbe necessario sottolineare i pericolosi equivoci che porta con sé il concetto di lasciarsi andare). Bisogna trovare un equilibrio – che può realizzarsi soltanto in modo dinamico – tra la ragione, chiamiamola così in modo un po’ sommario, e la fede. Certo, abbiamo costatato soprattutto gli abusi di un certo razionalismo, che però per reazione può provocare un fideismo niente affatto meno pericoloso. Tutto diventa più chiaro se si cerca di considerare il peccato dal punto di vista del noi, e non semplicemente dell’io.

Le péché comme milieu: vivre dans le péché. A cet égard, une expression telle que «commettre un péché» est de nature à égarer. Commettre un péché, c’est agir en tant que participant à ce milieu dans lequel nous sommes tous plongés. Notons cependant que nous ne pouvons en reconnaître l’existence que dans la mesure où nous en émergeons. La chute – indépendamment des récits plus ou moins mythologiques qui en ont été donnés – ne peut être que l’événement, en soi profondément mystérieux, par lequel un être créé à l’image de Dieu a reçu en lui les ténèbres, et est lui-même partiellement devenu ténèbres. Il faut, dès lors, être très prudent quand on se demande si ces ténèbres ne devaient pas, en quelque façon, préexister à la chute. Qui sait, en effet, si nous ne procédons pas ici à une sorte d’objectivation rétrospective, ou d’extrapolation quand nous parlons de préexistence – d’autant qu’il n’y a peut-être pas de sens à parler de temps avant la chute. Le temps est relatif au monde – et peut-être n’y a-t-il un monde que par et après la chute. Je suis loin de me dissimuler le caractère hasardeux de ces dernières notes. Le Peuch, 15 mars. Le terme de milieu dont je me suis servi hier est impropre, il faut plutôt parler d’élément. Mais la difficulté consiste à comprendre que cet élément n’est pas une simple ambiance, qu’il me pénètre. Dira-t-on, transposant ici des notions d’ordre médical, que je constitue un terrain favorable au développement des germes pathogènes qui sont répandus dans cette ambiance? Que quelque chose en moi a comme une affinité naturelle avec ce péché-élément?

Il peccato come ambiente: vivere nel peccato. Da questo punto di vista per sua natura un’espressione come “commettere un peccato” ci porta fuori strada. Commettere un peccato significa agire in quanto si è partecipi di questo ambiente nel quali siamo tutti immersi. Va osservato però che possiamo riconoscere l’esistenza del peccato soltanto nella misura in cui ne emergiamo. La caduta – indipendentemente dai racconti più o meno mitologici che ne sono stati fatti – non può essere altro che l’evento, di per sé profondamente misterioso, con il quale un essere creato a immagine di Dio ha ricevuto in sé le tenebre, ed è diventato lui stesso parzialmente tenebra. Bisogna allora essere estremamente prudenti nel chiedersi se queste tenebre preesistessero, in qualche modo, alla caduta. Chi può dire infatti se così facendo non procediamo a una sorta di oggettivazione retrospettiva, oppure, in riferimento alla preesistenza, di estrapolazione – tanto più che forse non ha senso parlare di tempo prima della caduta. Il tempo è relativo al mondo – e forse vi è un mondo soltanto attraverso e dopo la caduta. Sono ben lontano dal nascondere a me stesso il carattere azzardato di queste ultime riflessioni. Le Peuch, 15 marzo 1943. Il termine ambiente che ho usato ieri è improprio, bisogna parlare piuttosto di elemento. La difficoltà consiste però nel comprendere che questo elemento non è un semplice ambiente: penetra in me. Si potrà affermare forse, ricorrendo a concetti propri della medicina, che io costituisco un terreno favorevole allo sviluppo di germi patogeni diffusi in tale ambiente? Che in me c’è qualcosa di naturalmente affine a questo peccato-elemento?

Il faut sans doute beaucoup se méfier de ce genre de rapprochement. Pourtant, si nous cherchons à nous former une représentation du péché, il est peut-être difficile de ne pas faire appel à des notions de cet ordre. Mais voici l’obstacle et le péril: le péché risque fort d’être ici naturalisé; en tant qu’originel, il sera assimilé aux prédispositions fâcheuses que présente, par exemple, un enfant de tuberculeux. De là à préconiser une prophylaxie du péché, ou une hygiène, il n’y a qu’un pas. Je pense qu’il y aurait grand intérêt à creuser la notion du péché en partant, non de ces idées ou de ces images, mais de l’obligation où nous sommes de les refuser. Il faudrait marquer, d’une part que le péché se développe dans et à travers la conscience, bien loin d’être un donné objectif auquel on pourrait s’attaquer comme à une maladie organique, et d’autre part qu’il y a tout à perdre, je l’ai déjà dit, à méconnaître son caractère trans-personnel. L’erreur ou la faute, dans la mesure où celle-ci n’est qu’une variété de l’erreur, peut être constatée et reconnue. Il semble qu’il soit de l’essence du péché de ne pouvoir être que révélé, c’est-à-dire au fond de n’apparaître qu’à la lumière de la grâce – sans doute parce qu’il transcende la conscience immédiate que nous pouvons en prendre. Il suivrait de là, semble-t-il, que le philosophe, comme tel, ne peut affirmer l’existence du péché. Je me disais aussi cet après-midi que le monde semble s’ordonner vers le péché, pour autant qu’il semble se présenter comme le siège d’une téléologie à rebours, c’est-à-dire d’une finalité orientée vers la destruction (c’est en ce sens qu’on peut parler d’œuvre de mort). Mais il semble que cette téléologie à rebours ne soit pas encore le péché. Je me demande, d’autre part, si la révélation ne porte pas essentiellement sur mon insertion dans une communauté infinie, ou encore sur ma dépendance par rapport à Dieu, ce

Bisogna diffidare molto, non c’è dubbio, di questo genere di accostamento, anche se nel momento in cui si cerca di rappresentarsi il peccato è forse difficile non fare ricorso a simili concetti. Ma ecco l’ostacolo e il pericolo: si corre il rischio di naturalizzare il peccato. In quanto originale, sarà considerato alla stregua, ad esempio, delle cattive predisposizioni del figlio di un tubercoloso. Da qui a sollecitare una profilassi del peccato, oppure l’igiene, il passo è breve. Sarebbe estremamente interessante approfondire il concetto di peccato partendo non da queste idee o da queste immagini ma dal fatto che abbiamo il dovere di rifiutarle. Bisognerebbe sottolineare da una parte che il peccato, lungi dall’essere un dato oggettivo da aggredire come si fa con una malattia organica, si sviluppa attraverso e nella coscienza, e dall’altra che vi è tutto da perdere, l’ho già detto, a misconoscere il suo carattere trans-personale. L’errore o la colpa, nella misura in cui essa non è nient’altro che un tipo di errore, può essere costatato e riconosciuto. Sembra che il peccato per la sua stessa essenza possa essere solo rivelato, cioè in fondo apparire soltanto alla luce della grazia – sicuramente perché trascende la coscienza immediata che possiamo averne. Da ciò deriverebbe, sembra, che il filosofo in quanto tale non può affermare l’esistenza del peccato. Altre considerazioni di oggi pomeriggio. Il mondo, nella misura in cui sembra presentarsi come la dimora di una teleologia a rovescio, cioè di una finalità orientata verso la distruzione (è in questo senso che si può parlare di opera di morte), sembra essere strutturato in vista del peccato. Questa teleologia a rovescio non è ancora il peccato, però. Almeno così pare. Mi chiedo d’altra parte se la rivelazione non si fondi essenzialmente sulla mia inclusione in una comunità infinita, o anche, ed è lo stesso, sulla mia dipendenza da Dio, che è

qui revient au même, Dieu étant le lieu d’une communion infinie. De ce point de vue, la conscience, braquée sur ellemême et peut-être se voulant comme close, serait dressée contre la révélation. Le Peuch, 16 mars. Je souhaiterais élucider et exploiter aujourd’hui certaines indications hâtivement notées hier. Au fond, nous sommes ici en présence d’un paradoxe qui confine au scandale: d’une part, là où il n’y a aucune conscience de soi, donc aucune responsabilité, on ne peut parler de péché; et d’autre part, en tant qu’il est un élément, le péché semble déborder infiniment la conscience de soi. Il faudrait arriver à comprendre comment il la pénètre. Mais, il faut ici se méfier de l’imagination qui matérialise la conscience et la représente comme une sorte de contenant poreux – ce qui n’a vraiment aucun sens. Je devrai donc m’attacher à voir quel sens précis on peut donner ici au verbe pénétrer, ou imprégner. Je commence à voir assez nettemeril l’ordre à suivre: 1° Y a-t-il, dans la notion du péché, quelque chose qui risque d’émasculer la nature humaine? On le croit quand on met l’accent sur des interdictions qui seraient prononcées du dehors, quand on s’imagine que la doctrine du péché enferme l’homme dans un préau de pensionnat. Mais, en réalité, rien ne peut être plus superficiel. Il faut partir de l’analogie entre le péché et la mort. Croire au péché, c’est reconnaître que nous sommes infiniment plus atteints que nous ne le croyons lorsque nous concentrons nos regards exclusivement sur l’homme visible.

il luogo di una comunità infinita. È da questo punto di vista che la coscienza, centrata su se stessa e forse tale da volersi chiusa, insorgerebbe contro la rivelazione. Le Peuch, 16 marzo 1943. Oggi vorrei chiarire e far fruttare alcune mie frettolose annotazioni di ieri. In fondo ci troviamo di fronte a un paradosso ai limiti dello scandalo: da una parte, quando non c’è nessuna coscienza di sé, e dunque nessuna responsabilità, non si può parlare di peccato; dall’altra il peccato, in quanto è un elemento, sembra debordare infinitamente al di là della coscienza di sé. Sarebbe necessario riuscire a capire in che modo riesca a penetrarla. Bisogna però diffidare dell’immaginazione che materializza la coscienza e la rappresenta come una sorta di contenitore poroso – cosa del tutto insensata. Dovrei dunque darmi da fare per vedere quale significato preciso si possa attribuire qui al verbo penetrare, o impregnare. Comincio a intravedere assai chiaramente l’ordine da seguire: 1° Nel concetto di peccato c’è qualcosa che rischia di mutilare la natura umana? Sembra di sì, quando si mette l’accento su proibizioni che sarebbero dettate dall’esterno, quando ci si immagina che la dottrina del peccato rinchiuda l’uomo in un cortile di collegio. In realtà, però, non c’è nulla di più superficiale. Bisogna partire dall’analogia tra il peccato e la morte. Credere al peccato significa riconoscere che noi siamo infinitamente più vulnerabili di quanto pensiamo quando focalizziamo la nostra attenzione esclusivamente sull’uomo visibile.

2° N’y a-t-il pas de déviation possible de l’idée de péché? a) Erreur qui consiste à dévitaliser à l’excès le péché et le salut; transposition monstrueuse, dans cet ordre, du chacun pour soi. (Dans tout ceci, je suis sûrement très fortement impressionné par les vues du Père de Lubac.) b) Erreur non moins grave qui consiste à se faire du salut une notion au fond toute négative: d’abord éliminer les risques; éthique de la sécurité. Mais personne ne peut nier que ce soit là une déformation caricaturale de la vraie doctrine catholique. Tout cela est au fond assez évident et ne nous instruit pas beaucoup. Creuser davantage en utilisant mes remarques de ce matin. Reprendre la question que je formulais. Au fond, il s’agit moins d’une pénétration que d’une perversion: je prends ce mot dans son sens étymologique: fait de se tourner du mauvais côté. Faut-il dire que la conscience est pervertie pour autant qu’elle se tourne vers elle-même? Je ne le crois pas. Cependant, il faudrait se demander si l’examen de conscience n’est pas légitime seulement lorsqu’il commande l’action sur soi. Peut-être, si contradictoire que cela semble, ne pouvons-nous et ne devons-nous agir que sur nous-mêmes, alors que nous n’avons à aimer qu’autrui? L’action sur autrui, ou la prétention d’agir sur autrui, serait liée à l’amour de soi: car, au fond, agir sur autrui, c’est vouloir le dominer. Il n’est pas question de nier que l’action sur autrui soit possible, mais là où elle est directe et voulue peut-être participet-elle toujours, à quelque degré, du viol.

2° È possibile una deviazione dell’idea di peccato? a) Errore che consiste nel devitalizzare eccessivamente il peccato e la salvezza; trasposizione mostruosa, su questo piano, dell’ognuno per sé. (In tutto ciò io sono fortemente impressionato dalle idee del Padre de Lubac, non c’è dubbio). b) Non meno grave, errore che consiste nel formarsi un concetto in fondo esclusivamente negativo della salvezza: prima di tutto eliminare i rischi; etica della sicurezza. Nessuno può negare, però, che si tratta di una deformazione caricaturale della vera dottrina cattolica. Tutto ciò è d’altronde alquanto evidente, e non ci fa capire granché. Scavare di più, utilizzando le mie osservazioni di questa mattina. Riprendere la mia domanda. In fondo si tratta meno di una penetrazione che di una perversione. Assumo quest’ultimo termine nel suo significato etimologico: il fatto di volgersi verso la direzione sbagliata. Si deve forse affermare che la coscienza è pervertita nella misura in cui si volge verso se stessa? Non credo. Bisognerebbe chiedersi però se l’esame di coscienza non sia legittimo soltanto quando detta l’azione su di sé. Per quanto possa sembrare contraddittorio, possiamo e dobbiamo forse agire soltanto su noi stessi, mentre dobbiamo amare soltanto l’altro? L’azione sull’altro, oppure la pretesa di agire sull’altro, sarebbe legata all’amore di sé: in fondo, infatti, agire sull’altro significa voler dominarlo. Non si tratta di negare la possibilità di agire sull’altro, ma quando è diretta e voluta partecipa forse sempre, in qualche misura, della violenza.

Le Peuch, 24 mars. Peut-être placer en épigraphe de mon étude: «animas nostras et deum simul concorditer inquiramus» (Saint Augustin, Soliloques, cité par le Père de Lubac). Certitude. – Rapport à l’existence et à la valeur. – Passage à l’engagement et au sacrifice. Il me semble que c’est la certitude métaphysique et le rapport de cette certitude à l’engagement personnel qu’il faut prendre comme centre. Le Peuch, 25 mars. Partir de la certitude empirique. L’immédiat, comme tel, n’est pas objet de certitude; il ne l’est que secondairement, là où il a été mis en question par un autre. Mais ne peut-on pas dire, d’une façon tout à fait générale, qu’il n’y a place pour la certitude que là où autrui (serait-ce en moi?) est d’abord intervenu? Pas de certitude sans une référence inter-personnelle, l’autre personne pouvant se réduire à un schème idéal. Au nom de quoi procéderai-je à une critique de la notion de certitude? Question importante dont il faut préciser la teneur (cette critique pouvant être considérée comme base de toute métaphysique). Réfléchir sur le plausible: pourquoi la catégorie du plausible est-elle étrangère à la métaphysique? L’indubitable. Qu’est-ce qu’un indubitable concret? Distinction entre ce dont je doute en fait et ce dont la réflexion me montre que quelqu’un pourrait douter.

Le Peuch, 24 marzo 1943. In epigrafe al mio studio potrei scrivere: “animas nostras et deum simul concorditer inquiramus” (Agostino, Soliloqui*, citato dal Padre de Lubac): Certezza. – Rapporto con l’esistenza e il valore. – Passaggio all’impegno e al sacrificio. È la certezza metafisica, mi sembra, e il rapporto di questa certezza con l’impegno personale che bisogna considerare come centro. Le Peuch, 25 marzo 1943. Punto di partenza: la certezza empirica. L’immediato, in quanto tale, non è oggetto di certezza. Lo è soltanto in seconda battuta, quando viene messo in discussione da un altro. Non si può forse affermare, però, in modo del tutto generale, che c’è posto per la certezza soltanto dove innanzitutto è intervenuto l’altro (si trova forse in me?)? Nessuna certezza senza un riferimento inter-personale, ma nel senso che l’altra persona può ridursi anche a uno schema ideale. In nome di che cosa procederò a una critica del concetto di certezza? Domanda importante, di cui bisogna precisare la portata (poiché questa critica può essere considerata la base di ogni metafisica). Riflettere sul plausibile: perché la categoria del plausibile è estranea alla metafisica? L’indubitabile. Cos’è un indubitabile concreto? Distinzione tra ciò di cui dubito di fatto e ciò di cui qualcuno potrebbe, come la riflessione evidenzia, dubitare.

Le Peuch, 26 mars. Analyser le besoin d’un indubitable en moi, ou plutôt pour moi. A quelle condition ce besoin est-il légitime? Rechercher d’abord le sens de cette question: que signifie ici légitime? S’agit-il d’une sorte de certitude portative, que je pourrais espérer trouver a ma disposition quand je le voudrais, et qui soit par là même a portée de tout le monde? S’agit-il de découvrir une implication minima de l’expérience – de toute expérience – à laquelle chacun sera tenu de souscrire sous peine de nier cette expérience elle-même? Mais cet indubitable-là, a supposer qu’il puisse être reconnu, ne changera rien pour moi ou pour personne. Or, ce qui m’importe, c’est une certitude qui ait une valeur promotrice, voire créatrice. Un indubitable pour n’importe qui ne peut me servir a rien; mais un indubitable pour n’importe qui, c’est, en vertu de la connexion entre moi et autrui, un indubitable pour moi a n’importe quel moment, dans n’importe quelle disposition. Or, ce qui peut compter pour moi, c’est bien plutot quelque chose dont je ne puisse douter lorsque je suis a un certain niveau de moi-même. Disons encore : a) qu’il n’y aurait aucun intérêt a trouver quelque chose dont personne ne puisse douter sans absurdité; b) mais d’autre part – et ceci est un pas de plus – que je dois, moi qui ne doute pas, non seulement prendre position par rapport à qui doute encore, mais trouver moyen de faire place à ce doute dans l’économie spirituelle que je vise à instaurer8. 8 Je copie ici une note prise hier soir dans un autre cahier: «Le seul Dieu en lequel je puisse croire est un Dieu qui accepte, dans un certain sens qui veut, qu’il soit possible de douter de lui.» Et ceci suffit a écarter toute philosophie spinoziste ou hegelienne. Un indubitable concret doit avoir comme assimilé le doute sans l’exprimer.

Le Peuch, 26 marzo 1943. Analizzare il bisogno di un indubitabile in me o, piuttosto, per me. A quale condizione questo bisogno è legittimo? Ricercare innanzitutto il senso di questa domanda: cosa significa qui legittimo? Si tratta di una sorta di certezza a portata di mano che potrei sperare di avere a mia disposizione quando voglio, e di cui per ciò stesso tutti potrebbero fruire? Si tratta forse di individuare un’implicazione minima dell’esperienza – di ogni esperienza – che dovrebbe essere sottoscritta da ciascuno, pena negare l’esperienza stessa? Quell’indubitabile, però, supponendo che possa essere riconosciuto, non cambierà nulla né per me né per nessuno. Ora, ciò che interessa è una certezza che abbia un valore ispiratore, cioè creatore. Un indubitabile per chiunque non può servirmi a niente, ma un indubitabile per chiunque è, in virtù del legame tra me e l’altro, un indubitabile per me in qualsiasi momento, qualunque sia la mia condizione. Per me può contare piuttosto qualcosa di cui non posso dubitare quando mi trovo a un certo livello di me stesso. Si può aggiungere: a) non ci sarebbe nessun interesse a trovare qualcosa di cui nessuno possa dubitare senza cadere nell’assurdo; b) d’altra parte, però, – e si tratta di un ulteriore passo avanti – proprio io che non dubito devo non soltanto prendere posizione nei confronti di chi dubita ancora, ma devo trovare il modo di lasciare spazio a questo dubbio nell’economia spirituale che intendo realizzare8. 8 Aggiungo qui un’annotazione di ieri sera in un altro quaderno: “L’unico Dio al quale posso credere è un Dio che accetta, che vuole, in un certo senso, che sia possibile dubitare di lui”. E questo basta per escludere ogni filosofia spinoziana o hegeliana. Un indubitabile concreto deve avere assimilato il dubbio, per così dire, senza esprimerlo.

Tout cela revient a dire qu’il y a ici une situation infiniment plus compliquée qu’on ne l’admet d’habitude et dont il faut s’accommoder. Cependant, on objectera que le savant est en quéte d’une certitude qui ne puisse raisonnablement être mise en question. Ici, il faudra faire intervenir la notion d’un indubitable existentiel, par opposition a l’indubitable objectif. Ce chemin mène a Kierkegaard. Mais il faut savoir jusqu’où on doit aller sur cette voie. Je reviens en arrière: référence à un colloque intérieur impliqué dans la certitude. La certitude clôt, elle met fin au débat comme la volition. Qu’y a-t-il à tirer de cette analogie? La certitude a pour essence de se déclarer, ou de se proclamer. Je ne vois pas qu’elle puisse, en aucune façon, être détachée de la déclaration. Mais on ne déclare, on ne proclame qu’à... Il faut ajouter qu’elle tend à se déposer, et c’est en cela que d’acte, elle devient avoir. D’où une ambiguïté essentielle. Puis-je faire un inventaire de mes certitudes? Ce serait comme une liste de titres ou de possessions. Chercher un point de départ. Conformément à la méthode que j’ai toujours suivie, ce ne peut être que le repérage d’une certaine intuition qui est la mienne, et dont je ne puis m’abstraire sans me désavouer ou me dénaturer. Distinguer entre une certitude qui porte sur... et une certitude qui serait être et qui, elle, serait indubitable concret; mais, parce qu’il y a concret, cet indubitable est sujet a éclipses. La notion d’éclipse, comme celle de colloque intérieur, doit être au premier plan de l’étude que j’envisage. La certitude au second sens est sujette a éclipse justement parce qu’elle n’est pas possédée. Ceci, cependant, est à examiner de près; car ce qui est possédé peut être perdu, et s’il ne pouvait pas l’être serait insignifiant. Il y a là des complications.

Tutto ciò significa che ci troviamo di fronte a una situazione infinitamente più complessa di quanto si riconosca di solito, e alla quale bisogna adattarsi. Si obietterà però che lo scienziato è alla ricerca di una certezza che non possa essere messa in discussione con ragioni fondate. In questo caso bisognerà far intervenire il concetto di un indubitabile esistenziale contrapposto a un indubitabile oggettivo. Questo cammino conduce a Kierkegaard, ma bisogna vedere fino a dove sia necessario giungere su questa via. Faccio un passo indietro: riferimento a un dialogo interiore implicato nella certezza. La certezza chiude, pone fine al dibattito come la volizione. Che cosa si può dedurre da questa analogia? La certezza, per essenza, viene dichiarata, o proclamata, e non mi sembra che possa essere disgiunta in nessun modo dalla dichiarazione. Però si dice, si proclama soltanto a… Bisogna aggiungere che tende a depositarsi, e proprio per questo da atto diventa avere. Ne deriva un’ambiguità essenziale: posso fare un inventario delle mie certezze? Sarebbe come una lista di titoli o di possedimenti. Cercare un punto di partenza. Restando fedele al mio metodo di sempre, non può trattarsi che dell’individuazione di una certa intuizione che è mia, e da cui non posso fare astrazione senza rinnegarmi o snaturarmi. Distinguere tra una certezza che si riferisce a … e una certezza che sarebbe invece essere e quindi un indubitabile concreto. Ma questo indubitabile, trattandosi di concreto, è soggetto a eclissi. Il concetto di eclissi, come quella di colloquio interiore, deve essere in primo piano nello studio che ho in mente. Nel secondo significato la certezza è soggetta a eclissi proprio perché non è posseduta. Tutto ciò, tuttavia, va esaminato con grande attenzione. Infatti ciò che è posseduto può essere perso, e se non potesse esserlo sarebbe insignificante. Emergono delle complicazioni.

*** Ma situation est telle qu’il m’est arrivé «des choses», et qu’il m’en arriverà d’autres qui dépendent probablement des premières, mais qui, pour une part a n’en pas douter, ont leurs racines ailleurs. Ces «choses» – j’emploie à regret ce mot vague – m’apparaissent, les unes comme promouvant, les autres comme contrariant une vocation personnelle qui fait corps avec moi, bien que je ne puisse pas toujours m’en former une notion claire, c’est-à-dire me la définir ou la definir a qui que ce soit. Il faudrait marquer ici, il me semble, que cette vocation peut se présenter ou non comme distincte de la réflexion a laquelle je procède; mais il ne semble pas qu’elle puisse s’anéantir pour moi. Peut-être le terme de gestation serait-il préférable a celui de vocation. Le Peuch, 27 mars. Partir de l’opposition entre: aller vers et aller à la derive. A tout moment de ma vie, il est également vrai, ou inégalement vrai, de dire que je suis orienté ou engagé – et que je vais à la dérive: du premier point de vue, ce qui intervient c’est une régulation plus ou moins subie, plus ou moins assumée. Peut-être au terme ambigu de vocation, y aurait-il intérêt à substituer ceux de régulation et d’ordination. Ma vie organique elle-même ne peut se maintenir sans un minimum de régulation. Ma vie professionnelle, ou même familiale, ou sexuelle, peut n’en être qu’un complément, un prolongement – et mon existence peut ainsi m’apparaître, sous tous ses aspects, comme réglée –; néanmoins, lorsque je considère cette existence réglée, il peut se faire que je me fasse l’effet d’aller à la dérive. Il n’en sera pas ainsi si j’ai conscience d’une ordination; c’est cette notion qu’il faudrait creuser.

*** La mia situazione è tale che mi sono successe “delle cose”, e altre me ne capiteranno: probabilmente dipendono dalle prime ma per un altro verso, senza ombra di dubbio, hanno le loro radici altrove. Mi sembra che queste “cose” – utilizzo con rammarico questo termine vago – da una parte favoriscano dall’altra contrastino una vocazione personale che fa tutt’uno con me, benché io non possa sempre formarmene un concetto chiaro, cioè definirla a me stesso o definirla a un altro. Questa vocazione può presentarsi – bisogna sottolinearlo – come più o meno distinta dalla mia riflessione, ma non mi sembra che possa venire meno per me. Al termine vocazione sarebbe forse da preferire gestazione. Le Peuch, 27 marzo 1943. Punto di partenza: la contrapposizione tra andare verso e andare alla deriva. In ogni momento della mia vita è ugualmente vero, o non vero allo stesso modo, che io sono orientato o impegnato – e che vado alla deriva: dal primo punto di vista interviene un’azione regolatrice più o meno subita, più o meno fatta mia. Al termine ambiguo vocazione bisognerebbe forse sostituire regolazione e ordinazione. Neppure la mia vita organica può continuare senza una sia pur minima azione regolatrice. La mia vita professionale, o anche familiare, o sessuale, può esserne soltanto un complemento, un prolungamento – e così la mia esistenza può apparirmi regolata in tutti i suoi aspetti. Quando considero questa esistenza così regolata, però, può accadere che mi sembri di andare alla deriva. Non sarà così se sono consapevole di un’ordinazione. È un concetto da approfondire. Prima, però, vorrei

Mais je voudrais m’assurer d’abord que cette recherche a une utilité pour mon travail sur la certitude métaphysique. Questions: a) Qu’ai-je cru chercher? b) Qu’ai-je cherché en réalité? c) Que serait-ce qu’avoir trouvé? a) Cela veut dire: Quelle image me suis-je faite de l’objet de ma recherche ? b) Cette conception extensive des adhérents ou des disciples s’est peu à peu effacée, en même temps sans doute que se renforçait en moi la conscience d’une polyphonie philosophique nécessaire. Car il n’est pas vrai qu’un système intègre les autres. Il faut que chacun accepte la persistance des irréductibles. Dans ces conditions, puis-je dire que j’ai cherché en réalité à me satisfaire? Sans doute, mais ce n’est là, après tout, qu’une tautologie. Toute recherche est orientée vers une satisfaction; ce qui importe, c’est de savoir quelle en est la nature. Il faut ajouter qu’en aucun cas je ne pourrai me satisfaire si je n’ai pas conscience, en même temps et fondamentalement, de satisfaire autrui, c’est-à-dire de donner. Chercher, ce ne peut être que chercher pour donner. Mais donner quoi? C’est ici qu’il faut reprendre la notion de certitude. Il me semble que cette certitude, je cherche d’abord à me la donner à moi-même; et que je tendrai, du même coup, à la communiquer à autrui. J’ai, en un certain sens, à me traiter moi-même en néophyte, ou à m’initier. Sous un de ses aspects, ma recherche est initiation. Cependant, où est ici l’initiateur?

assicurarmi che questa ricerca sia utile per il mio lavoro sulla certezza metafisica. Domande: a) Che cosa ho creduto di cercare? b) In realtà, che cosa ho cercato? c) Che cosa significherebbe aver trovato? a) Ciò significa: che idea mi sono fatto dell’oggetto della mia ricerca? b) Questa concezione estensiva dei seguaci o dei discepoli a poco a poco è venuta meno, mentre nello stesso tempo in me si è indubitabilmente rafforzata la consapevolezza della necessità di una polifonia filosofica. Infatti non è vero che un sistema integra gli altri: ognuno deve accettare il persistere di ciò che è irriducibile. In queste condizioni, posso affermare che in realtà ho cercato di soddisfare me stesso? Senza dubbio, ma dopotutto si tratta soltanto di una tautologia, non c’è dubbio: ogni ricerca è orientata verso una soddisfazione. Ciò che interessa è conoscerne la natura. Bisogna aggiungere che non potrò mai soddisfare me stesso se non avrò la consapevolezza, nello stesso tempo e fondamentalmente, di soddisfare l’altro, cioè di donare. Cercare non può essere che cercare per donare. Donare che cosa, però? A questo punto bisogna riprendere il concetto di certezza. Questa certezza io cerco innanzitutto di darla a me stesso, mi sembra; e nello stesso tempo sono spinto a comunicarla all’altro. In un certo senso devo considerare me stesso un neofita, o devo procedere alla mia iniziazione. La mia ricerca è iniziazione, in base a uno dei suoi aspetti. Ma dov’è allora colui che inizia?

Le Peuch, 29 mars. Je crois qu’il n’y a rien à retenir de ces dernières indications, c’est une impasse. Le Peuch, 30 mars. Dans cette sorte d’exposition à laquelle on m’invite à participer (le volume collectif sur l’Existence, chez Gallimard), qu’ai-je à «produire»? L’idéal ne serait-il pas d’avoir là, tout préparé, tout formulé, quelque théorème métaphysique accompagné de sa démonstration et qui passerait à la postérité avec mon nom? Certes, en un pareil domaine, on ne peut espérer atteindre à l’incontestable. Mais ne serait-ce pas déjà quelque chose de satisfaisant de donner lieu à une de ces discussions qui, de tout temps, ont réjoui le cœur des professeurs? Pourquoi chercherais-je à me dissimuler que, naguère, j’ai conçu ainsi la fonction du philosophe? Mais aussi, plus ma réflexion s’est aiguisée, plus cette façon de se représenter cette fonction m’est devenue étrangère. En sorte qu’à la question: Qu’avez-vous à produire ou à montrer? je serais tenté de répondre: Rien, en vérité! Je serais même tenté de passer à la contre-attaque et de déclarer tout net que ce n’est jamais sur le plan de l’exposable, c’est-à-dire du manuel, qu’il faut se placer si l’on prétend discerner ce qui constitue la réalité d’une pensée philosophique. Le manuel de l’histoire de la philosophie, si consciencieux soit-il, ne nous offre jamais que le spectacle du plus absurde des jeux de massacre. C’est à ce jeu que le plus profond de moi-même se refuse à participer. Mais, par là, est-ce que je ne me mets pas délibérément hors du jeu? Seulement, est-ce bien d’un jeu qu’il s’agit? Est-ce ainsi que je puis qualifier l’espèce de

Le Peuch, 29 marzo 1943. Penso che non si debba conservare nulla di queste ultime indicazioni. Si tratta di un vicolo cieco. Le Peuch, 30 marzo 1943. Cosa devo “produrre” per quella sorta di esposizione alla quale sono invitato a partecipare (il volume collettaneo sull’esistenza pubblicato da Gallimard)? L’ideale non sarebbe forse avere tutto pronto, formulato, qualche teorema metafisico accompagnato dalla relativa dimostrazione, il quale potrebbe essere tramandato ai posteri con il mio nome? Non c’è dubbio: in un tale ambito non si può sperare di giungere all’incontestabile. Non sarebbe già soddisfacente, tuttavia, far sorgere una di quelle discussioni che in ogni tempo hanno riempito di gioia il cuore dei professori? Perché dovrei nascondere a me stesso che in passato ho concepito in questo modo la funzione del filosofo? Più la mia riflessione si è affinata, però, più mi è diventato estraneo questo modo di rappresentarsi tale funzione, tanto che di fronte alla domanda “Che cosa potete produrre o mostrare?” sarei tentato di rispondere: “Nulla, per la verità!”. Sarei inoltre tentato di passare al contrattacco e di dichiarare in modo netto che non bisogna mai collocarsi sul piano di ciò che si può esporre, cioè del manuale, se si intende distinguere ciò che costituisce la realtà di un pensiero filosofico. Un manuale di storia della filosofia, per quanto possa essere scrupoloso, non può offrirci altro che lo spettacolo del più assurdo tra i giochi al massacro. È proprio a questo gioco che la parte più profonda di me stesso rifiuta di partecipare. Così facendo, però, non mi metto deliberatamente fuori gioco? Ma siamo sicuri che si tratti proprio di un gioco? E posso qualificare

gestation qui, depuis trente-cinq ans, se poursuit en moi? Sûrement non. Mais gestation de quoi? Vouée à quel avortement? Cet avortement, il est, à vrai dire, facile de l’imaginer; mais si, par hasard, l’enfantement attendu se produit, qu’est-ce qui est mis au jour? Le Peuch, 31 mars. Ceci encore me fait l’effet d’un faux départ. Il faut s’en tenir aux notes sur les deux indubitables. Je me disais hier soir que l’idée de système valable pour tous devait encore être approfondie. Chacun est traité au fond comme pur lecteur, c’est-à-dire comme participant à un certain jeu; c’est dans l’enceinte réservée à cet exercice que tout se passe et se décide; d’où l’impression lamentable, artificielle que donnent tant de controverses philosophiques. Le lecteur est comme soustrait au tragique de l’existence; c’est quelqu’un pour qui les problèmes vitaux ne se posent plus ou, plus exactement, pour qui le drame de l’existence est, au moins momentanément, suspendu. Il subsiste entre parenthèses. Impureté due au fait que ce système vaut à celui qui l’a inventé la notoriété ou la consécration. Bien entendu, on ne se fait pas d’illusions, on n’a pas la prétention de réfuter toutes les objections, mais on espère qu’en droit, elles seront néanmoins réduites. Mais, par une dialectique salutaire, cette philosophie n’est pas plutôt devenue officielle qu’elle révèle ses insuffisances, et que, du même coup, l’absurdité intrinsèque qui est la tare secrète de toute philosophie officielle apparaît en pleine lumière. Raisons pour lesquelles la philosophie la plus anti-officielle tend inévitablement à s’officialiser, contre le vœu explicite de ceux qui l’ont d’abord conçue.

forse in questo modo la sorta di gestazione che da trentacinque anni avviene in me? No, sicuramente. Gestazione di che cosa, però? Destinata a quale aborto? A dire il vero, è facile immaginare questo aborto. Se invece, per caso, avviene l’atteso parto, che cosa viene dato alla luce? Le Peuch, 31 marzo 1943. Anche in questo caso ho la sensazione di una falsa partenza. Bisogna attenersi alle annotazioni sui due indubitabili. Ieri sera pensavo che l’idea di sistema valido per tutti non è ancora stata approfondita. In fondo ognuno è considerato come un puro lettore, vale a dire come partecipante a un certo gioco: è nel luogo riservato a questa attività che tutto accade e viene deciso. Da qui la penosa, artificiale impressione che deriva da tante controversie filosofiche. Il lettore è come sottratto al tragico dell’esistenza. Si tratta di qualcuno per il quale i problemi vitali non si pongono più, oppure, a essere più precisi, per il quale il dramma dell’esistenza è, almeno momentaneamente, sospeso. Persiste tra parentesi. Impurità dovuta al fatto che questo sistema per colui che l’ha inventato vale la celebrità o la consacrazione. Sia chiaro: non ci si fa illusioni, non si ha la pretesa di confutare tutte le obiezioni, ma si spera che di fatto saranno ridotte al minimo. Grazie a una dialettica salutare, però, non appena diventata ufficiale questa filosofia rivela le sue insufficienze e nello stesso tempo l’assurdità intrinseca, tara segreta di ogni filosofia ufficiale, appare in piena luce. Ragioni per le quali la filosofia più antiufficiale tende inevitabilmente a ufficializzarsi, contro il desiderio esplicito di coloro che in un primo tempo l’hanno elaborata.

L’indubitable existentiel en tant qu’indubitable, non seulement pour moi, mais pour nous, c’est-à-dire pour ceux qui communiquent avec moi, ce qui n’est possible qu’à un certain niveau de l’expérience, de notre expérience. Tendance à la diffusion de proche en proche, mais qui n’a rien de comparable à la propagation mécanique dont le manuel est le véhicule. Retour au socratisme. Le Peuch, 1er avril. Cette nuit, j’ai pensé que je ferai de l’exigence d’immortalité le pivot de mon étude: – la catégorie du dérisoire, – la mort comme simulacre, – idée d’un contrepoids ontologique de la mort, – le nous comme constellation. Cette recherche pourra être reliée à mes réflexions sur l’indubitable existentiel. En effet, l’immortalité n’a pas à être prouvée comme fait objectif. Bien que quelque chose nous porte invinciblement et malgré tout à aspirer à cette démonstration; mais en même temps, nous sommes capables de transcender cette aspiration: on en revient toujours à la dernière scène de l’Iconoclaste, qui reste un des pivots de mon œuvre. Il me semble que j’arriverai à reconnaître les articulations d’une telle recherche. C’est par rapport à l’être aimé que nous pouvons comprendre comment, en traitant la mort comme donnée ultime, nous sommes invinciblement conduits à proclamer le caractère dérisoire de la vie. Préciser le sens de ces deux mots. Ce contrepoids ontologique de la mort, c’est la présence en moi de ceux qui ont part à moi-même, qui m’ont fait ce que je suis et continuent à me faire. Le culte des morts im-

L’indubitabile esistenziale, in quanto indubitabile non solo per me ma per noi, cioè per coloro che comunicano con me, è possibile soltanto a un certo livello dell’esperienza, della nostra esperienza. Tendenza alla diffusione a poco a poco, ma senza nulla in comune con la diffusione meccanica di cui il manuale è il veicolo. Ritorno al socratismo. Le Peuch, 1 aprile 1943. Stanotte ho pensato che farò dell’esigenza di immortalità il fulcro del mio studio: – la categoria del derisorio; – la morte come simulacro; – idea di un contrappeso ontologico alla morte; – il noi come costellazione. Questa ricerca potrà ricollegarsi alle mie riflessioni sull’indubitabile esistenziale. Infatti l’immortalità non deve essere dimostrata come fatto oggettivo, nonostante qualcosa ci spinga, invincibilmente e malgrado tutto, ad aspirare a una tale dimostrazione. Nello stesso tempo, però, siamo capaci di trascendere questa aspirazione: si ritorna sempre all’ultima scena de L’Iconoclaste*, che rimane uno dei cardini della mia opera. Riuscirò a mettere in luce le articolazioni di una tale ricerca, mi sembra. È in relazione all’essere amato che possiamo capire come, trattando la morte come dato ultimo, siamo irresistibilmente condotti a proclamare il carattere derisorio della vita. Precisare il senso di queste due parole. Il contrappeso ontologico della morte è la presenza in me di coloro che sono parte di me, che mi hanno fatto diventare ciò che sono, e non smettono di farlo. Il culto dei

plique sans doute nécessairement une présence analogue. Quand on parle ici du souvenir, c’est faute de l’équipement métaphysique qui permettrait de rendre compte de l’expérience qu’on veut, non seulement traduire, mais consacrer. Le Peuch, 3 avril. Je ne sais ce qu’il faut penser de ce qui précède; j’ai l’impression que c’est bien vague. Le Peuch, 7 avril. Nouveau point de départ envisagé (à la suite de la lettre que j’ai écrite hier à Louis A... au sujet du rôle parfois obstructeur joué par le détail de la vie). Cela s’appellerait: «Du quotidien au métaphysique», ou plutôt: «La teneur métaphysique de l’expérience humaine». Il faudra faire observer tout de suite que c’est à dessein que j’aurai pris ce titre heideggerien, pour marquer la parenté entre nous; les différences irréductibles ressortiront par la suite. La description phénoménologique de la vie quotidienne présentée par Heidegger a un caractère tendancieux, il ne semble pas qu’elle puisse être acceptée telle quelle. Partir des deux répliques des «Cœurs avides»: «De quoi vis-tu? – Je suis comme les autres, je n’existe qu’à condition de ne pas me le demander.» De quoi vis-tu? Quelles sont tes ressources? Que signifie ici ce mot de ressources? La question signifie aussi: ces ressources indispensables, qui te les procure? Ne vis-tu pas comme si tu possédais des ressources qui te font, en réalité, défaut? Mais, si tu vis à crédit, qui donc te fait crédit? Devant qui risques-tu un jour de te trouver insolvable?

morti implica necessariamente, non c’è dubbio, una presenza analoga. Quando in questo caso si parla di ricordo, lo si fa in mancanza del bagaglio metafisico che consentirebbe di rendere conto dell’esperienza che si intende non soltanto tradurre, ma anche consacrare. Le Peuch, 3 aprile 1943. Che cosa si deve pensare di quello che ho detto prima? Non lo so. Mi sembra che sia alquanto vago. Le Peuch, 7 aprile 1943. Ho in mente un nuovo punto di partenza (in seguito alla lettera che ho scritto ieri a Louis A. sull’otturamento provocato talvolta dal dettaglio della vita). Si potrebbe intitolare: “Dal quotidiano al metafisico”. O, meglio, “Il tenore metafisico dell’esperienza umana”. Questo titolo heideggeriano non è stato scelto a caso, ma per sottolineare l’affinità che ci unisce: le differenze irriducibili emergeranno in un secondo momento. La descrizione fenomenologica della vita quotidiana presentata da Heidegger ha un carattere tendenzioso, non sembra possibile accettarla così com’è. Prendere il via da due battute della pièce Les Cœurs avides*: “Tu di che cosa vivi?” “Io sono come gli altri, esisto soltanto a condizione di non chiedermelo”. Tu di che cosa vivi? Quali sono le tue risorse? Cosa significa il termine risorse in questo caso? La domanda vuol dire anche: chi ti procura queste risorse indispensabili? Non vivi come se possedessi risorse che in realtà ti mancano? Se vivi a credito, però, chi ti concede tale credito? Davanti a chi rischi di trovarti un giorno insolvente?

Toutes ces questions ne se posent que si l’on admet que la vie – en un sens qui reste lui-même à définir – nécessite un effort qui est perpétuellement à recommencer: qui est «ce qui me permet» de faire cet effort? Mais ici, une confusion est possible. Ma vie organique demande à être alimentée, je ne puis l’entretenir qu’à condition de me nourrir, de dormir, etc... Par là, est-ce que je réponds à la question posée? Non. D’une part, il peut se faire que, bien que je sois nourri, je ne trouve pas en moi le courage de continuer à vivre; d’autre part, on peut dire encore que ces fonctions organiques ne peuvent s’exercer elles-mêmes sans mon consentement: je puis me laisser mourir. Ici encore, ce qui fait défaut c’est un certain courage fondamental. Le sens du mot courage est ici très proche de celui du mot cœur: «Je n’ai pas le cœur à...» Le problème des ressources consiste dès lors à se demander ce qui me donne le courage de... On serait sûrement tenté de faire appel à l’idée d’une certaine vitalité qui se déploierait en-deçà de toute réflexion, ou même de toute pensée: je peux constater que je continue à manger, à dormir, mais je ne sais vraiment pas pourquoi; la machine s’obstine à fonctionner, mais c’est comme si je la désavouais: elle et moi, nous sommes comme dissociés. Dualité insupportable: «Ce n’est plus une vie!». Mon existence est comme dégénérée. Sans exagération je pourrais dire que je ne vis plus; c’est la phrase qui vient aux lèvres quand on est au dernier degré de l’angoisse: «je ne vis plus depuis que Pierre est à la guerre»... Passage à la notion d’ennui. L’ennui pris au sens fort, non pluralisable par conséquent. Se consumer.

Tutte queste domande si pongono soltanto se si ammette che la vita – in un senso che deve anch’esso essere definito – richiede necessariamente uno sforzo che deve essere continuamente ricominciato: chi “mi mette nelle condizioni” di fare questo sforzo? A questo punto, però, può crearsi confusione. La mia vita organica deve essere alimentata, io posso conservarla soltanto a condizione di nutrirmi, di dormire, ecc. Con ciò rispondo alla domanda che è stata posta? No. Da una parte può accadere che, benché io sia nutrito, non trovi in me il coraggio di continuare a vivere; dall’altra si può dire anche che queste funzioni organiche non possono avere un loro sviluppo senza il mio consenso: io posso lasciarmi morire. A mancare, anche in questo caso, è un certo coraggio fondamentale. Il significato del termine coraggio è molto vicino a quello di cuore: “non ho cuore di…”. Il problema delle risorse consiste dunque nel chiedersi che cosa mi dia il coraggio di … Si ha sicuramente la tentazione di fare appello all’idea di una certa vitalità che troverebbe la sua realizzazione al di qua di qualunque riflessione, o anche di un pensiero qualsiasi: posso costatare che continuo a mangiare, a dormire, ma non so veramente perché. La macchina si ostina a funzionare, ma è come se la rinnegassi: siamo come dissociati, io e la macchina. Dualità insopportabile: “Non è più una vita!” La mia esistenza è come degenerata. Potrei affermare, senza esagerare, che non vivo più. Proprio la frase che compare sulle labbra quando ci si trova al culmine dell’angoscia: “Da quando Pierre è andato in guerra non vivo più”. Passaggio al concetto di noia. La noia considerata in senso forte, quindi non pensabile al plurale. Consumarsi.

Dans l’Orient désert quel devint mon ennui! (Bérénice.) Quand je me consume je ne vis plus : Un seul être vous manque et tout est dépeuplé. Pourquoi? Parce que vous-même êtes lésé au point de perdre toute possibilité d’animer le monde où vous êtes jeté. Toutefois, il ne faudrait pas interpréter en un sens strictement subjectiviste ce pouvoir d’animation dont vous vous trouvez à présent dépourvu. Et je dirai aussi que le pouvoir de saisir est avant tout un pouvoir de se prêter, c’est-à-dire de se laisser saisir (rôle des Kairoi). Durcissement. Tétanisation, qui fait que je ne peux plus me prêter; c’est parce que je ne dispose plus de moi-même que je ne suis plus disponible pour les autres. Il faudrait maintenant rechercher quel est le rapport entre tout cela et la valeur: reprendre la notion de la valeur comme appel, à laquelle j’ai consacré ma lettre d’hier à Louis A... Ne plus s’intéresser à rien: «depuis que j’ai perdu M..., je ne peux plus m’intéresser à rien». Oscillation entre le vide, un vide douloureux – et l’obsession; la valeur, ici, disparaît, car ce qui se concentre dans l’image obsédante n’est pas la valeur. C’est-à-dire que je suis sourd à tout appel, je n’existe plus. Mais cette façon négative d’exprimer une telle situation est en réalité impropre. Le quotidien subsiste; mais uniquement comme chaîne impossible à secouer: il y a des charges, des obligations dont je ne peux pas me délivrer, je ne sais d’ailleurs même pas moi-même au juste pourquoi. Comment la valeur peut se réintroduire: analogie avec l’air ou la lumière. Tout n’est pas mort.

Che cosa è diventata la mia noia nell’Oriente deserto! (Bérénice) Quando mi consumo non vivo più: Un solo essere le manca, eppure ogni luogo è spopolato. Per quale motivo? Perché lei stesso è così tanto ferito da essere privo di ogni possibilità di vivificare il mondo in cui è gettato. Tuttavia non bisognerebbe interpretare in un significato strettamente soggettivista il potere di vivificare di cui al momento si trova sprovvisto. E aggiungerò anche che il potere di cogliere è prima di tutto un potere di prestarsi, cioè di lasciarsi cogliere (ruolo dei Kairoi). Irrigidimento. Tetanizzazione, che fa sì che io non possa più prestarmi. Proprio perché non dispongo più di me stesso non sono più disponibile per gli altri. Qual è il rapporto tra tutto ciò e il valore? Riprendere in considerazione il concetto di valore come appello, al quale ho dedicato la mia lettera di ieri a Louis A. Non interessarsi più a nulla: “Da quando ho perso M. non riesco più a provare interesse per niente”. Oscillazione nel vuoto, un vuoto doloroso – e l’ossessione; qui il valore scompare, poiché non è certo il valore che si addensa nell’immagine ossessiva. Significa che io sono sordo a ogni appello, che non esisto più. Questo modo negativo di esprimere tale situazione è in realtà improprio, però. Il quotidiano sussiste, anche se soltanto come catena da cui è impossibile liberarsi. Esistono doveri, obblighi da cui non posso esimermi, senza che d’altronde io sappia esattamente perché. Come può essere reintrodotto il valore? Analogia con l’aria o la luce. Non tutto è morto.

Le quotidien dégradé. Le quotidien consacré et régénéré. La journée: unité réelle entre deux nuits réelles. La journée: maillon d’une chaîne abstraite traitée comme homogène; c’est en fonction de cette notion que le quotidien se dégrade (morne perspective, jeu de glaces). Le Peuch, 8 avril. Point de vue déontologique sur le quotidien. Le quotidien comme base de régulation (il faut faire sa prière chaque jour, mais aussi se brosser les dents, etc...). Mais c’est précisément contre cette régulation que je suis tenté de m’insurger. Uniformité. Le quotidien éprouvé comme prison. Tentative d’évasion: je ne me laverai plus, je ne me raserai plus, je ne participerai plus activement à cette routine universelle qui m’excède. Je ne sortirai pas non plus – car je ne veux pas m’exposer à rencontrer tous les jours les mêmes personnes aux mêmes endroits. Je me soustrairai ainsi à l’outrage que m’inflige la réalité quotidienne, qu’elle m’inflige à moi qui ne suis pas d’ici, mais dont la vraie patrie est ailleurs! – Mais comment ne pas voir qu’ainsi je m’enfonce dans l’inexistant, je ne me rapproche pas de cette patrie lointaine et qui n’est pour moi qu’à l’état de nostalgie. Je dérive dans l’infra-quotidien, c’est-à-dire dans l’infra-humain. Pour transcender le quotidien, n’est-ce pas aux ressources illimitées de l’abstraction que je devrais faire appel? Ici il faut introduire une définition du métaphysique: le métaphysique n’est pas le métempirique, ce qui transcende toute expérience possible. Peut-on dire – ou faut-il dire – qu’il existe une expérience métaphysique? Mais l’expression est équivoque. Peut-on dire qu’il y a des objets qui seraient accessibles à une certaine espèce d’expérience? Ou plutôt ne

Il quotidiano degradato. Il quotidiano consacrato e rigenerato. La giornata: unità reale tra due notti reali. La giornata: anello di una catena astratta considerata nella sua omogeneità. È proprio in funzione di questo concetto che il quotidiano si degrada (prospettiva tetra, gioco di specchi). Le Peuch, 8 aprile 1943. Punto di vista deontologico sul quotidiano. Il quotidiano come base di un’azione regolatrice (ogni giorno bisogna pregare ma anche lavarsi i denti, ecc.). È proprio contro questa regolazione che ho la tentazione di ribellarmi. Uniformità. Il quotidiano vissuto come prigione. Tentativo di evasione: non mi laverò più, non mi raserò più, non parteciperò più attivamente a questa routine universale che mi esaspera. E neanche uscirò – infatti non voglio correre il rischio di incontrare tutti i giorni le stesse persone negli stessi luoghi. Così facendo mi sottrarrò all’oltraggio che mi viene inflitto dalla realtà quotidiana: lo infligge a me che non sono di questo mondo, poiché la mia vera patria è altrove! – Non è possibile non accorgersi che così sprofondo nell’inesistente, che non mi avvicino a questa patria lontana, che per me esiste soltanto come nostalgia. Vado alla deriva nell’infra-quotidiano, cioè nell’infra-umano. Per trascendere il quotidiano non dovrei forse fare appello alle risorse illimitate dell’astrazione? A questo punto è necessario introdurre una definizione del metafisico: il metafisico non è il metempirico, ciò che trascende ogni possibile esperienza. Si può affermare – o bisogna affermare – che esiste un’esperienza metafisica? L’espressione è equivoca, però. Si può dire che esistono degli oggetti accessibili a un certo tipo di esperienza? O non

faudrait-il pas dire que ce n’est pas par son objet que l’expérience ici se spécifie? Sera-ce donc par une certaine qualité subjective? Non. Mais bien plutôt par un certain mode de tension à l’intérieur de ce qui, analysé, se dissocie arbitrairement en subjectif et en objectif. Ne pourrait-on pas dire, en ce sens, que toute expérience comporte une teneur extrêmement variable de ce que nous appelons, d’ailleurs improprement, l’élément métaphysique? Trouver ici des exemples qui illustrent ce qu’on veut dire. Une expérience sensible pourra ici être évoquée: mais faudra-t-il dire que c’est dans la mesure où elle se présente comme illustrant symboliquement une certaine idée? Certainement non. Plutôt en ce qu’elle éveille en nous un certain retentissement. Le Peuch, 9 avril. Le métaphysique n’est pas le règne des entités, il est le contraire même de cela. Il faudrait seulement comprendre par quelle erreur fatale il y est parfois réduit. Cette teneur métaphysique de l’expérience, c’est au contraire en partant du quotidien que nous pouvons apercevoir en quoi elle consiste. Le quotidien pur et simple ignore le métaphysique; le quotidien dévalué ou déprécié le nie; le quotidien consacré ou régénéré l’affirme. Est-ce là une façon vicieuse de s’exprimer? Non: car le quotidien est expérience, et toute expérience humaine en tant que telle s’exprime et devient langage. On peut dire que ce qui est en-deçà du langage est, en un certain sens, en-deçà même de l’expérience9.

9 Disons plus précisément que l’expérience ne devient expérience qu’autant qu’elle se formule, car ce n’est qu’à cette condition qu’elle se communique à elle-même et devient, par là, transmissible.

bisognerebbe sostenere piuttosto che in questo caso l’esperienza non è specificata dal suo oggetto? Lo sarà dunque da una certa qualità soggettiva? No. Lo è invece da un certo tipo di tensione all’interno di ciò che, analizzato, viene dissociato arbitrariamente in soggettivo e oggettivo. In questo senso non si potrebbe forse affermare che ogni esperienza comporta un tenore estremamente variabile di ciò che chiamiamo, sia pure arbitrariamente, l’elemento metafisico? Trovare degli esempi esemplificativi. Si potrà richiamare un’esperienza sensibile, specificando però che vale nella misura in cui chiarisce simbolicamente una certa idea? Sicuramente no. Piuttosto per il fatto che risveglia in noi una certa risonanza. Le Peuch, 9 aprile 1943. Il metafisico non è il regno delle entità, anzi, ne è l’opposto. Bisognerebbe soltanto capire per quale fatale errore talvolta sia stato ridotto a ciò. Al contrario: è proprio partendo dal quotidiano che possiamo comprendere in che cosa consista il tenore metafisico dell’esperienza. Il quotidiano puro e semplice ignora la dimensione metafisica; il quotidiano svalutato o deprezzato la nega; il quotidiano consacrato o rigenerato l’afferma. Si tratta di un modo vizioso di esprimersi? No: infatti il quotidiano è esperienza, e ogni esperienza umana in quanto tale si esprime e diventa linguaggio. Si può affermare che ciò che è al di qua del linguaggio è anche, in un certo senso, al di qua dell’esperienza9.

9 A essere più precisi, l’esperienza diventa esperienza soltanto nella misura in cui viene espressa, poiché soltanto a questa condizione si comunica a se stessa e diventa quindi trasmissibile.

Le quotidien pur et simple, c’est l’expérience de celui qui, à tout moment, est «à son affaire»: à chaque heure suffit sa peine. Il serait inexact de dire que c’est la vie dans l’instantané, il se présente comme une succession de tâches à accomplir, dont chacune occupe une certaine durée; cette succession n’exclut pas un certain chevauchement des tâches les unes par rapport aux autres (par exemple, dans la vie d’une ménagère qui balaie la chambre pendant que la soupe cuit dans la marmite, etc...). Plus le quotidien se distribue ainsi en des tâches délimitées qui s’enchaînent les unes aux autres, plus la teneur métaphysique de l’expérience humaine semble se réduire. Pourtant, nous sentons bien qu’il n’en est pas purement et simplement ainsi; n’y a-t-il pas à distinguer l’esprit dans lequel ces tâches s’accomplissent? Mais que faut-il entendre par cet «esprit»? N’est-ce pas une disposition toute subjective, une sorte de colorant? Et nous serions portés à croire en principe que, s’il y a un élément métaphysique au cœur de l’expérience humaine, il doit être immanent à sa structure ou à sa contexture. Mais il faut se méfier beaucoup de ces métaphores qui sont toutes trompeuses. L’expérience n’est pas assimilable à un objet fabriqué et ultérieurement revêtu d’un enduit. Rien n’est plus important que de reconnaître combien il est difficile de la penser. Nous ne pouvons nous empêcher de l’imaginer en usant de métaphores que nous lui empruntons, mais que, par définition, elle déborde de toutes parts. C’est ainsi que, lorsque nous parlons de sa teneur métaphysique, nous nous la figurons comme retenant quelque parcelle d’une certaine substance inaltérable à laquelle nous n’aurions accès qu’indirectement ou secrètement par quelque voie détournée, ou encore réservée à une catégorie restreinte de privilégiés ou d’initiés. Mais il est clair que nous avons à nous libérer de ces images matérialisantes. L’expérience n’est pas un bain; la réalité me-

Il quotidiano puro e semplice è l’esperienza di colui che in ogni momento è impegnato nel “suo compito”: a ogni ora basta la sua pena. Non sarebbe esatto dire che si tratta della vita nell’istante. Il quotidiano si presenta come una successione di doveri da portare a termine, ciascuno dei quali ha una certa durata, ma tale successione non esclude un accavallamento tra questi doveri (ad esempio, la massaia può spazzare la camera mentre fa cuocere la zuppa, ecc.). Più il quotidiano è strutturato in questo modo, in compiti delimitati incatenati tra di loro, più sembra ridursi il tenore metafisico dell’esperienza umana. Noi ci rendiamo conto però che le cose non stanno semplicemente così. Non bisogna forse fare una distinzione a proposito dello spirito con il quale questi compiti vengono compiuti? Ma che cosa si deve intendere con “spirito”? Non si tratta forse di un atteggiamento del tutto soggettivo, di una sorta di colorante? In linea generale saremmo portati a credere che, se esiste un elemento metafisico nel cuore dell’esperienza umana, deve essere immanente alla sua struttura o al suo intreccio. Bisogna però diffidare molto di queste metafore che sono tutte ingannevoli. L’esperienza non può affatto essere assimilata a un oggetto che viene verniciato dopo essere stato prodotto. Riconoscere quanto sia difficile pensarla è di un’importanza capitale. Non possiamo fare a meno di immaginarla usando metafore che essa stessa ci fornisce, ma da cui sporge da ogni parte, per definizione. È per questo che quando parliamo del suo tenore metafisico ce la rappresentiamo come se trattenesse qualche particella di una certa sostanza inalterabile alla quale avremmo accesso soltanto indirettamente o segretamente per qualche via secondaria, oppure di una certa sostanza riservata a una cerchia ristretta di privilegiati o di iniziati. È chiaro: dobbiamo liberarci da queste immagini materializzanti. L’esperienza non è un luogo in cui immergersi; la

taphysique n’est pas un corps. Il faudrait ici nous demander ce qui nous incite à nous poser la question. C’est manifestement parce que nous constatons des différences de niveau entre nos expériences, disons plus exactement de saturation (mais ici encore le langage matérialise). Ici apparaîtra la notion de valeur: le mémorable est tel parce qu’il présente une signification, une valeur. Différence à repérer: un déjeuner peut être mémorable; il peut l’être, bien sûr, sur le plan gastronomique, il peut l’être aussi, malgré la médiocrité de la chère, à cause d’une certaine qualité de l’ambiance. Il y a là deux systèmes de valeurs. Peut-on se borner à dire que ces systèmes sont différents sans qu’il y ait entre eux de hiérarchie? Mais nous devons reconnaître qu’une vie personnelle implique une hiérarchie, et même n’est personnelle qu’à cette condition. Peut-être faut-il introduire ici l’idée de l’extraordinaire. S’interroger sur les rapports entre l’ordre et l’extraordinaire. Le quotidien dénaturé semble exclure l’extraordinaire; c’est en s’évadant du quotidien que nous chercherons à le joindre. Mais il peut y avoir aussi un extraordinaire immanent à l’ordre lui-même; que veut dire ici extraordinaire? Il ne s’agit plus d’une dérogation à un ordre légal qui est par luimême ennuyeux ou décevant. Puissance d’irradiation variable immanente à l’expérience personnelle; l’art n’est pas intelligible autrement, et c’est en cela qu’il est «le document éternel de la métaphysique» (Schelling). Un être vaut dans la mesure précise où, par son exemple et son œuvre, il aura développé et renouvelé nos raisons d’aimer. Mais cette puissance peut se retourner contre l’être, contre l’amour.

realtà metafisica non è un corpo. Cosa ci spinge a porci tali domande? Non c’è dubbio: il fatto che costatiamo che le nostre esperienze si pongono a livelli differenti, a essere più precisi, a differenti livelli di saturazione (ma in questo modo il linguaggio materializza). A questo punto apparirà il concetto di valore: il memorabile è tale perché presenta un significato, un valore. Differenza da notare: un pranzo può essere memorabile. Può esserlo, non c’è dubbio, sul piano gastronomico, può esserlo anche, nonostante la mediocrità del cibo, per certe caratteristiche del clima che si crea. Si tratta di due sistemi di valori. Ci si può limitare a dire che tali sistemi sono differenti senza individuare nessuna gerarchia? Dobbiamo riconoscere però che una vita personale implica una gerarchia, e anche che è personale soltanto a questa condizione. Forse a questo punto bisogna introdurre l’idea dello straordinario. Interrogarsi sui rapporti tra l’ordine e lo straordinario. Il quotidiano snaturato sembra escludere lo straordinario, che cerchiamo allora di raggiungere evadendo dal quotidiano. Tuttavia può esserci anche uno straordinario immanente all’ordine stesso. Cosa significa allora straordinario? Non si tratta più di una deroga rispetto a un ordine legale per sua stessa natura noioso o deludente. Potere di irradiazione variabile, immanente all’esperienza personale. Solo così si può comprendere l’arte, che proprio per questo è “il documento eterno della metafisica” (Schelling). Un essere vale esattamente nella misura in cui, con il suo esempio e la sua opera, avrà sviluppato e rinnovato le nostre ragioni d’amare. Questo potere, però, può ritorcersi contro l’essere, contro l’amore.

Conques, 12 avril. Hier, j’ai pris une note dans le carnet bleu sur la propriété qu’a la privation d’aiguiser le souvenir de ce dont nous sommes privés. Mais ceci ne me semble pas avoir de rapport saisissable avec ce que j’ai écrit au Peuch avant de partir. Il faudrait cependant s’interroger sur le rôle que joue la privation dans l’expérience quotidienne. La privation, disais-je, est toujours un certain être du non-être; la non-possession pure et simple n’est pas une privation: je ne suis privé que de ce que j’ai eu et qui, en quelque manière, demeure encore en moi. Aborder de front le problème des rapports entre moi – ou la personne – et l’expérience; problème très difficile à poser en termes intelligibles, car on ne gagne rien – au contraire – à traiter la personne comme sujet d’expérience. Conques, 13 avril. Faire une expérience. Là où l’expérience est délibérée ou préméditée, là où elle est assimilable à un ensemble d’opérations, le moi est effectivement sujet; mais il faut bien voir que notre vie dans son ensemble ne se laisse pas assimiler à une expérience conçue de cette manière. Ne puis-je pas, à bon droit, concevoir que je suis comme le lieu où s’effectue une expérience dont je ne possède pas toutes les données et dont j’ignore le sens ultime? (au lieu que, là où je fais une expérience, où je procède à une expérience, je sais où je vais, du moins approximativement.) Mais il faut bien se garder de mettre hâtivement un nom sur la puissance active qui est le sujet véritable de cette expérience dont je serais le lieu, en parlant par exemple du génie de l’espèce, du Zeitgeist, etc...

Conques, 12 aprile 1943. Ieri nel mio quaderno blu ho preso nota di una riflessione sul potere della privazione di acuire il ricordo di ciò di cui veniamo privati. Non mi sembra però che si possa cogliere la relazione con ciò che ho scritto a Le Peuch prima di partire. Tuttavia sarebbe necessario interrogarsi sul ruolo della privazione nell’esperienza quotidiana. La privazione, dicevo, è sempre un certo essere del non-essere; il non-possedere puro e semplice non è una privazione: sono privato soltanto di ciò che ho avuto e che, in qualche modo, rimane ancora in me. Affrontare di petto il problema dei rapporti tra me – o la persona – e l’esperienza; problema molto difficile da porre in termini intelligibili, poiché non si guadagna nulla – al contrario – a trattare la persona come soggetto d’esperienza. Conques, 13 aprile 1943. Fare un’esperienza. L’io è effettivamente soggetto quando l’esperienza è deliberata o premeditata, quando è paragonabile a un insieme di operazioni. Tuttavia la nostra vita nel suo insieme non si lascia assimilare a un’esperienza concepita in questo modo, non c’è dubbio. Non posso pensare forse, a buon diritto, di essere come il luogo in cui avviene un’esperienza di cui non possiedo tutti i dati e di cui ignoro il senso ultimo? (quando invece io faccio un’esperienza, realizzo un’esperienza, so dove vado, almeno approssimativamente). Bisogna guardarsi però dall’affibbiare frettolosamente un nome alla forza attiva che è il vero soggetto di questa esperienza di cui sarei il luogo, come quando si parla dell’indole della specie, dello Zeitgeist, ecc.

Je me demande ce matin si je ne devrais pas reprendre les choses de bien plus haut encore, c’est-à-dire partir des notions même d’être, de non-être, de devenir. Il faudrait alors se demander dans quelles conditions le mot être prend pour moi un sens (pour moi: n’est-ce pas du subjectivisme? Non, car ce qui peut se communiquer à moi-même c’est ce qui peut se communiquer à autrui). Il faudrait procéder à une recherche analogue pour le mot valoir et rapprocher les résultats. Peut-être partir de la page si importante de «Etre et Avoir» sur l’affirmation. Me demander si je suis, est-ce me contredire dans les termes – puisque je ne puis me poser cette question si je ne suis pas? Mais on pourra répondre: il n’y a pas nécessairement contradiction; car cette question, celui qui la pose est-il ce moi dont l’être est mis en question? Ici la langue allemande est infiniment éclairante: Es wird gefragt ob Ich bin. On pourrait encore dire que le mode d’existence tout idéal qui appartient à une condition en tant que telle est tout différent de la réalité qui est ici posée comme problématique; on pourrait distinguer entre être idéal et être substantiel. Il y aurait donc lieu d’admettre une distinction de degré dans l’être; mais qu’est-ce qui me permet d’affirmer l’insuffisance de ce que j’ai appelé l’être idéal? Ne faut-il pas qu’il y ait là référence à un être différent qui serait donc ou aurait été, au préalable, expérimenté? Mais expérimenté par qui, sinon par moi? Réfuter ensuite la position qui consiste à insulariser le moi. L’être gage ou semence d’éternité. – Et pourtant, ne pourrait-il pas n’être que fulguration instantanée? Exaltation dans le déploiement de soi (l’arbre en fleurs).

Stamattina mi chiedo se non sarebbe opportuno considerare le cose ancora più dall’alto, cioè partendo dai concetti stessi di essere, di non-essere, di divenire. Bisognerebbe chiedersi allora in quali condizioni il termine essere acquisti per me un senso (per me: si tratta di soggettivismo? La risposta è negativa, poiché ciò che può essere comunicato a me può essere comunicato all’altro). Sarebbe necessario fare una ricerca analoga per il termine valere, e confrontare poi i risultati. Prendere come punto di partenza, forse, l’importante pagina di Etre et Avoir* sull’affermazione. Chiedermi se io sono rappresenta una contraddizione nei termini – dato che non posso pormi questa domanda se non sono? Si potrà rispondere tuttavia che non si tratta necessariamente di contraddizione. Colui che pone questa domanda, infatti, è l’io di cui si mette in dubbio l’essere? In questo caso la lingua tedesca è infinitamente chiarificatrice: Es wird gefragt ob Ich bin. Si potrebbe aggiungere anche che il modo di esistere completamente ideale che appartiene a una condizione in quanto tale è completamente diverso dalla realtà qui considerata come problematica. Si potrebbe fare una distinzione tra essere ideale e essere sostanziale. Sarebbe dunque il caso di riconoscere gradi differenti nell’essere. Che cosa mi permette però di affermare l’insufficienza di ciò che ho chiamato l’essere ideale? Non bisognerebbe riferirsi a un essere diverso, che dunque sarebbe, o sarebbe stato, preliminarmente sperimentato? Ma sperimentato da chi, se non da me? Come passo successivo confutare la posizione che consiste nell’insularizzare l’io. L’essere pegno o seme di eternità. – E tuttavia non potrebbe trattarsi, forse, di nient’altro che di folgorazione istantanea? Esaltazione nella manifestazione di sé (l’albero in fiore).

Midi. – La note prise ce matin me paraît utilisable, mais à condition que soient mieux marqués le sens et la portée de la question posée. Il faudra mettre en relief le fait qu’ici la question n’est pas réellement séparable de l’exigence. Partir de l’expérience quotidienne: c’est par là que s’effectue le raccord avec mes notes du Peuch du début d’avril. Je me considère à travers mon expérience quotidienne. Je n’ai pas la plus faible raison de mettre en doute l’existence des êtres et des choses avec lesquels j’ai commerce; je suis en proie à ces êtres, à ces choses; mais ce commerce tend à m’absorber complètement; je m’immerge en lui. Mon corps à nourrir, à exercer, à reposer; mon corps qui n’est en rien privilégié par rapport aux autres choses. Le quotidien se traduit avant tout par le cycle des fonctions organiques; c’est par rapport à cette récurrence que j’ai à prendre position. Elle peut se présenter à moi de telle manière que je sois violemment tenté de l’interrompre; et le fait que je ne cède pas à cette tentation peut n’avoir aucun sens, ou n’être qu’une lâcheté. Conques, 15 avril. Au fond, tout cela tend vers cette conclusion que le problème de l’être et du non-être n’a de sens que là où il se convertit dans le dilemme: plénitude ou mort; et il se pose à partir de cette existence ambiguë qui est la mienne et qui se poursuit jour après jour à travers le cycle des fonctions et des tâches. C’est donc que ce problème est un problème d’évaluation; mais ici encore il faut se demander si nous sommes dans le pur subjectif. Phénoménologiquement, il est certain que la valeur être – si c’est vraiment une valeur – ne se

Mezzogiorno. – Mi sembra di poter utilizzare l’annotazione di stamattina, ma a condizione che il senso e la portata della questione posta siano specificati meglio. Bisognerà mettere in rilievo il fatto che qui la domanda non è realmente separabile dall’esigenza. Partire dall’esperienza quotidiana: emerge così il nesso con le mie riflessioni di Le Peuch dei primi di aprile. Io mi considero attraverso la mia esperienza quotidiana. Non ho nessuna ragione di mettere in dubbio l’esistenza degli esseri e delle cose con le quali ho a che fare: sono in balia di questi esseri, di queste cose, ma queste relazioni tendono ad assorbirmi completamente. Mi immergo in esse. Il mio corpo da nutrire, da tenere in esercizio, da far riposare; il mio corpo niente affatto privilegiato rispetto alle altre cose. Il quotidiano si estrinseca innanzitutto nel ripetersi delle funzioni organiche, ed è su questa ripetizione che io devo prendere posizione. Mi si può presentare in maniera tale da essere violentemente tentato di interromperla, e il fatto di non cedere a questa tentazione può non avere nessun senso, oppure non essere altro che una forma di vigliaccheria. Conques, 15 aprile 1943. In fondo tutto ciò che conduce alla conclusione che il problema dell’essere e del non-essere acquista un senso soltanto quando si traduce in questo dilemma: pienezza o morte. E tale dilemma si pone a partire da quell’esistenza ambigua che è la mia, e che viene portata avanti giorno dopo giorno attraverso il ciclo delle funzioni e dei doveri. Si tratta dunque di un problema di valutazione. A questo punto, però, bisogna chiedersi nuovamente se non ci troviamo nel soggettivo puro. Fenomenologicamente è certo che il valore essere – se si tratta veramente di un valore – non mi si

présente pas à moi comme étant conférée par moi à quelque chose qui, de soi, ne la comporterait pas ou ne pourrait pas la comporter. Ici, le terme de plénitude est instructif. Mais on pourrait aussi utiliser la distinction du clos et de l’ouvert, ou encore la notion de captivité à laquelle j’ai fait appel à propos de l’espérance. Se demander ce que signifie être captif, ou s’apparaître comme captif du cycle des fonctions et des tâches. Reprendre ici mes notes antérieures sur le taedium. Lien entre taedium et foetor; décomposition; la captivité tend à me défaire. Il y a ici un nœud des pensées que j’ai exprimées ici et là. La captivité c’est déjà la mort – la mort dans la vie; mais n’est-ce pas là la mort par excellence? On pourrait dire que la mort purement et simplement ou n’est rien, ou est chance de libération. Mais peut-être ne sera-t-elle que ce que nous l’aurons faite: la mort, après la vie, ne sera-t-elle pas celle que nous aurons méritée suivant que nous aurons succombé à la mort dans la vie ou que nous en aurons au contraire triomphé? C’est à condition de prendre dans un sens non biologique les catégories de vie et de mort que nous sommes en droit de les substituer à celles d’être et de non-être. Mais cette substitution – délicate, périlleuse – est indispensable. En finir avec tout solipsisme intégral ou larvé. Il n’y a aucun sens à dire que je ne connais que mes états de conscience; pour autant qu’ils sont miens je les vis, je ne les connais pas. Si je les convertis en objets, je les assimile aux objets extérieurs. Donc, pas de prérogative ontologique appartenant à ce qui privilégié dont je dirais qu’il est moi. Je ne puis même parler de proximité absolue, car je peux quelquefois me sentir plus proche de tel autre que de moi-même. La notion de proximité est en elle-même intéressante, c’est bien cela qui est en question. L’idéaliste part de l’idée d’une proximité absolue, mais proximité de qui? Evaluée par qui?

presenta come se fosse da me conferito a qualcosa che, da sé, non lo implicherebbe o potrebbe non implicarlo. Qui il termine pienezza è istruttivo. Si potrebbe utilizzare anche la distinzione tra chiuso e aperto, oppure il concetto di cattività al quale ho fatto ricorso a proposito della speranza. Chiedersi che cosa significhi essere prigioniero, o sembrare prigioniero del ciclo delle funzioni e dei doveri. A questo punto riprendere in mano le mie precedenti annotazioni sul taedium. Legame tra taedium e foetor; decomposizione; la cattività tende a decompormi. Si tratta di uno snodo di riflessioni che ho espresso qua e là. La cattività è già la morte – la morte nella vita. Non si tratta forse della morte per eccellenza? Si potrebbe dire che la morte, semplicemente, o non è nulla o è possibilità di liberazione. Ma probabilmente sarà come noi l’avremo preparata: la morte, dopo la vita, non sarà quella che avremo meritato, a seconda se avremo o meno trionfato sulla morte nella vita? Soltanto considerando in senso non biologico le categorie di vita e di morte abbiamo il diritto di sostituirle a quelle di essere e di non-essere. Tuttavia questa sostituzione – delicata, pericolosa – è indispensabile. Porre fine a qualsiasi solipsismo integrale o larvato. Non ha alcun senso affermare che conosco soltanto i miei stati di coscienza. Nella misura in cui sono miei, non li conosco: li vivo. Se li trasformo in oggetti, li rendo simili agli oggetti esterni. Dunque non c’è nessuna prerogativa ontologica che appartenga a questo chi privilegiato che in realtà sono io. Non posso parlare neppure di prossimità assoluta, poiché talvolta posso sentirmi più vicino a un altro che a me stesso. Il concetto di prossimità è interessante in se stesso, ed è proprio questo a essere in questione. L’idealista parte dall’idea di una prossimità assoluta, ma quale prossimità? Valutata da chi?

Il est important de se demander comment il peut se faire que je me sente éloigné de moi-même, aliéné. Ma structure doit permettre ce sentiment d’aliénation, et il n’y a pas de sens à dire que ce sentiment ne répond à rien. Il faudrait du reste creuser la notion de prérogative; une prérogative ne peut être en principe qu’accordée ou octroyée; ici il faudrait dire que le moi se l’octroie à lui-même. Mais en réalité, ce n’est pas de cela qu’il s’agit, on prétend plutôt reconnaître que le moi jouit par rapport à lui-même d’une situation privilégiée. L’autre n’interviendrait qu’à titre d’eidôlon dans le cercle magique qu’il forme avec lui-même. Mais ceci supposerait que le moi soit donné à lui-même avant toute autre réalité, or cette priorité est illusoire. Le Peuch, 16 avril. Il me semble que toutes mes notes de ces derniers jours commencent à s’organiser. Que signifie pour moi la distinction ou l’opposition entre être et non-être? Ne soyons pas dupes de l’apparence subjectiviste qu’offre la question. Ce qui m’importe, c’est de savoir à quelle condition cette opposition peut être pour moi rendue vivante, et par là communicable. Je ne nie d’ailleurs pas qu’il puisse y avoir pour moi un incommunicable et que celui-ci puisse, en tant que tel, présenter une valeur, mais ce n’est pas de cela que je m’occupe ici; à supposer que je parle de l’incommunicable, ce sera dans l’intention de communiquer quelque chose à son sujet et, par conséquent, d’inciter l’autre à se tourner vers cet incommunicable qui doit être en lui comme en moi. Je me demande par exemple à quelle condition je peux attribuer un certain être au non-être ou à un certain non-être.

È importante chiedersi come possa accadere che io mi senta lontano da me stesso, alienato. La mia struttura deve rendere possibile questo sentimento di alienazione, e non ha senso affermare che questo sentimento non corrisponde a nulla. Il concetto di prerogativa andrebbe d’altronde approfondito. In linea generale una prerogativa può soltanto essere accordata o concessa, e qui bisognerebbe affermare che l’io la concede a se stesso. In realtà, però, non è di questo che si tratta. Si ritiene piuttosto di poter riconoscere che l’io gode di una situazione privilegiata rispetto a se stesso. L’altro interverrebbe nel cerchio magico che forma con se stesso soltanto a titolo di eidôlon. Questa priorità è però illusoria se non si presuppone che l’io è dato a se stesso prima di ogni altra realtà. Le Peuch, 16 aprile 1943. Mi sembra che tutte le mie annotazioni di questi ultimi giorni comincino a prendere forma. Cosa significa per me la distinzione o la contrapposizione tra essere e non-essere? Non facciamoci trarre in inganno dall’apparenza soggettivista della domanda. Quello che mi interessa è sapere a quale condizione questa contrapposizione può acquistare vita per me, e divenire quindi comunicabile. Non nego d’altronde che per me possa esistere un incomunicabile, e che quest’ultimo possa avere, in quanto tale, un valore. Ma non è di questo che mi sto occupando ora. Supponiamo che io parli dell’incomunicabile: sarà con l’intenzione di comunicare qualcosa al suo riguardo, e quindi di sollecitare l’altro a rivolgersi verso questo incomunicabile che deve essere in lui come in me. Mi chiedo ad esempio a quale condizione io possa attribuire un certo essere al non-essere, oppure a un determinato non-essere.

Il s’agira pour moi de plonger assez avant dans mon expérience, pour voir à quoi peut se référer une telle assertion. N’est-il pas de l’essence de mon expérience de pouvoir, tantôt se canoniser elle-même, tantôt au contraire proclamer son propre néant? Il faudrait se demander pourtant si nous ne sommes pas ici dupes des mots; comment serait-il au pouvoir d’une expérience quelconque de prononcer sur elle-même un jugement? Ne faut-il pas penser plutôt qu’elle est donnée à un sujet qui l’apprécie ou éventuellement la condamne? Mais je me demande si cette façon, d’ailleurs courante, de concevoir les choses, ne repose pas sur une illusion. Qu’estce que ce serait que ce sujet? N’y a-t-il pas là la transposition pure et simple, sous une forme squelettique, de l’idée d’un juge qui instruit une affaire ou formule un verdict? On dira: c’est l’inverse qui est vrai, le juge en question c’est essentiellement une fonction qui s’exerce. On accordera que cette fonction ne s’exerce pas dans l’absolu, mais on verra là la marque de l’imperfection de la créature, incapable de s’identifier pleinement à sa fonction. Or, ce peut être là une erreur, car juger, c’est juger in concreto et avec tout soi-même. Mais il me semble que je me fourvoie, bien que ces remarques aient l’avantage de faire ressortir ce que peut avoir de fallacieux l’idée d’un sujet pur, d’un sujet-fonction (Kant). Je voudrais si possible arriver maintenant à établir la maquette de l’étude projetée. Se proposer d’évoquer quelques catégories métaphysiques essentielles, sans aucune référence explicite aux doctrines philosophiques, même les plus récentes; s’efforcer de discerner ce que signifient, ce que valent pour moi ces catégories. La notion même du métaphysique. Il paraît également faux: 1° de concevoir le métaphysique comme métempirique, comme transcendant à toute expérience possible;

Per comprendere il vero significato di tale asserzione dovrò immergermi abbastanza a fondo nella mia esperienza. Non è forse vero che per la sua stessa natura la mia esperienza può canonizzare sé stessa oppure, al contrario, proclamare il suo proprio nulla? Bisognerebbe chiedersi tuttavia se le parole non ci ingannino. Come può un’esperienza qualsiasi dare un giudizio su se stessa? Non bisogna pensare piuttosto che è data a un soggetto che l’apprezza o che eventualmente la condanna? Mi chiedo però se questo modo, d’altronde abituale, di concepire le cose non riposi su un’illusione. Cosa sarebbe questo soggetto? Non si tratta forse della trasposizione pura e semplice, ridotta all’osso, dell’idea di un giudice che istruisce un processo o formula un verdetto? È vero il contrario, si affermerà. Il giudice in questione è essenzialmente una funzione che viene esercitata, ma non nell’assoluto. In ciò si coglierà il segno dell’imperfezione della creatura, incapace di identificarsi completamente con la sua funzione. Ora, può trattarsi di un errore, poiché giudicare significa giudicare in concreto e con tutto se stesso. Mi sembra di andare fuori strada, tuttavia, benché queste osservazioni abbiano il vantaggio di far emergere ciò che può esserci di ingannevole nell’idea di un soggetto puro, di un soggetto-funzione (Kant). Se possibile, vorrei riuscire a stendere la bozza dello studio progettato. Proporsi di richiamare alcune categorie metafisiche essenziali, senza nessun riferimento esplicito alle dottrine filosofiche, anche le più recenti. Cercare di comprendere il senso e il valore di queste categorie per me. Il concetto stesso del metafisico. Sembra ugualmente falso: 1° concepire il metafisico come metempirico, come trascendente rispetto a ogni possibile esperienza;

2° d’imaginer qu’il puisse constituer une sphère privilégiée à laquelle nous donnerait accès une expérience d’un type spécial. Mais de ce que le métaphysique n’est pas le réservé, fautil conclure qu’il consiste en somme dans l’armature d’une expérience, quelle qu’elle soit? Avant de répondre, il faut nous demander ce qui nous guide dans cette discussion; ce ne peut être que la conscience d’une certaine exigence, la perception d’un certain appel auquel nous nous efforçons de répondre aussi exactement que possible. L’exigence métaphysique rapprochée de l’exigence de création. Aspiration à être initié à un certain secret, de moins en moins conçu d’ailleurs comme équivalent à la possession d’une puissance portant sur les choses; et du même coup, il apparaît que c’est de moins en moins des choses qu’il s’agit. Le cas des choses apparaît de plus en plus désespéré10. Nous ne pourrons jamais accéder qu’à des techniques de plus en plus perfectionnées dont elles sont le lieu. Considérées sur un plan étranger à toute technique possible, elles cessent d’être les choses; et c’est de ce point de vue – mais de ce point de vue seulement – que nous pouvons nous demander si elles sont vraiment hors de nous. Elles se rapprochent de moi à mesure que je prends conscience de ma propre étrangeté, elles se confondent avec moi à la limite, au point où je disparais à mes propres regards. Le Peuch, 17 avril. Ce qui est essentiel, c’est cette fluctuation possible de l’expérience; elle n’est en rien assimilable à une donnée opa10 Je veux dire par là que nous croyons de moins en moins à un secret des choses, il nous semble, à tort ou à raison, qu’elles n’ont pas de dedans.

2° immaginare che possa costituire una sfera privilegiata alla quale si avrebbe accesso grazie a una speciale esperienza. Dal fatto che il metafisico non è una sfera riservata, però, bisogna dedurre che consiste nell’armatura di un’esperienza, qualunque essa sia? Prima di rispondere bisogna chiedersi che cosa ci guidi in questa discussione. Non può essere altro che la consapevolezza di una certa esigenza, la percezione di un certo appello al quale ci sforziamo di rispondere nel modo migliore possibile. L’esigenza metafisica accostata all’esigenza di creazione. Aspirazione a essere iniziato a un certo segreto, pensato d’altra parte sempre meno come equivalente al possesso di un potere sulle cose. Diventa evidente nello stesso tempo che si tratta sempre meno delle cose. Il caso delle cose sembra man mano più disperato10. Potremo avere accesso soltanto a delle tecniche sempre più perfezionate, che agiscono sulle cose stesse. Considerate su un piano estraneo a ogni tecnica possibile, smettono di essere le cose. Ed è da questo punto di vista – ma soltanto da questo punto di vista – che possiamo chiederci se siano veramente fuori di noi. Esse mi diventano più vicine nella misura in cui prendo coscienza della mia propria estraneità, e al limite si confondono con me nel momento in cui sparisco ai miei occhi. Le Peuch, 17 aprile 1943. Essenziale è questa possibile fluttuazione dell’esperienza, che non è affatto assimilabile a un dato opaco e costante.

10 Con ciò intendo affermare che crediamo sempre meno a un segreto delle cose. Ci sembra, a torto o a ragione, che non abbiano una dimensione interna.

que et constante, et c’est pour cela qu’il est si difficile de la penser. C’est en fonction de cette variation que le métaphysique peut et doit être posé (variation qui se poursuit entre l’usuel et l’étrange). Le métaphysique n’est imaginé comme étant en dehors de l’expérience que là où celle-ci est arbitrairement stabilisée; plus au contraire elle apparaît comme instable et multiforme, plus le métaphysique est saisi comme lui étant immanent. Ne pourrait-on, cependant, s’en tenir à un pluralisme relativiste? Cela voudrait dire qu’entre les modalités diverses que peut affecter l’expérience, on ne saurait établir une hiérarchie reposant sur un principe indépendant des préférences de l’un ou l’autre. Pour autant que je considère, par pure abstraction, les choses indépendamment de moi-même, de leur rapport à moi-même, il en est probablement ainsi; mais c’est justement cette abstraction qui est intenable; il faudrait prendre ici un exemple: l’expérience des champs telle qu’elle se présente pour le paysan qui les cultive et pour le poète qui écrit les Géorgiques. Je sens cependant que la question est mal posée, il y a un travail de mise au point qui reste à effectuer. Tout ce que je viens d’écrire et qui ne s’achève pas n’est peut-être qu’une parenthèse aboutissant à des points de suspension. Je reviens à ce que j’écrivais à la fin de mes notes d’hier et qui était insuffisamment explicité. Les choses ne sont pas séparables des techniques qui nous permettent de les manipuler; or cette manipulation elle-même n’est concevable que dans un monde de pure extériorité, un monde où des éléments agissent les uns sur les autres. Il y a un côté par où je peux dire qu’il existe, non seulement une similitude, mais une identité de nature entre mon corps et les choses; mon corps est une chose, et il est condamné à suivre le destin des choses, particulièrement des instruments; comme eux il sert, il a besoin d’être entretenu, parfois même réparé. Il finit

Proprio per questo è così difficile pensarla. Il metafisico può e deve essere posto proprio in funzione di questa variazione (variazione che si realizza tra il consueto e l’insolito). Il metafisico viene immaginato fuori dell’esperienza solo quando l’esperienza viene arbitrariamente consolidata. Più l’esperienza appare instabile e multiforme, invece, più il metafisico è colto come a essa immanente. Ma non ci si potrebbe limitare a un pluralismo relativistico? Significherebbe che tra i diversi modi in cui l’esperienza può presentarsi è impossibile stabilire una gerarchia sulla base di un principio indipendente dalle preferenze dell’uno o dell’altro. È così, probabilmente, nella misura in cui considero le cose, per pura astrazione, indipendentemente da me stesso, dal loro rapporto con me stesso. Si tratta però di un’astrazione impossibile da difendere. Servirebbe un esempio: l’esperienza dei campi agli occhi del contadino che li coltiva e del poeta che scrive le Georgiche. Mi rendo conto però che il problema è mal posto, ed è necessario perciò un lavoro di messa a punto. Tutto quello che ho scritto, e che non ha una conclusione, è forse soltanto una parentesi che conduce a dei puntini di sospensione. Ritorno su ciò che ho scritto alla fine delle mie riflessioni di ieri, e che non è stato esplicitato a sufficienza. Le cose non possono essere separate dalle tecniche che ci permettono di manipolarle. Ora, una tale manipolazione può essere concepita soltanto in un mondo di pura esteriorità, un mondo in cui gli elementi agiscono gli uni sugli altri. Da un certo punto di vista io posso parlare non soltanto di similitudine, ma di un’identica natura del mio corpo e delle cose. Il mio corpo è una cosa, ed è condannato a seguire il destino delle cose, in particolare degli strumenti. Serve, ha bisogno di manutenzione, talvolta anche di riparazioni, proprio come gli

par être jeté au rebut. Il est soumis à des vicissitudes tout à fait comparables à celles que subissent les outils. Il peut aussi être comparé à l’œuvre d’art, pour autant qu’il est lieu de jouissance et, à cet égard aussi, il est condamné; l’œuvre d’art ne pourra pas supporter un nombre illimité de restaurations, etc... Tout cela est vrai, mais insuffisant; on dira que ce corps n’est que pour un sujet qui s’identifie à lui tout en s’opposant à lui. Brisons ici les abstractions: mon corps ne se présente pas comme un outil dont je pourrais me passer parce que je peux en trouver un autre, ou parce que je peux exercer d’autres activités pour lesquelles je n’ai pas besoin de lui. Il s’offre à moi comme condition absolue de toute instrumentante possible – et aussi de toute jouissance possible–; et en ce sens, il se donne à moi comme étant mon tout, avec cependant cette réserve qu’il garde – ou plutôt que je garde, mais par son intermédiaire il est vrai – la possibilité de me sacrifier. Oui certes, même ici son entremise reste indispensable: c’est ma main qui presse la gachette du revolver ou qui ouvre le robinet du gaz. Mais cela suffit pour montrer qu’il reste un moyen – donc qu’il n’est pas le tout; car le tout ne saurait être exclusivement moyen. Certes, on ne contestera pas que ce moyen tende à se prendre lui-même pour fin. La vie matérielle tend, là où elle n’est pas rigoureusement contrôlée, à devenir un système clos; mais le fait que ce contrôle est possible suffit à montrer que le corps n’est pas tout, que le matérialisme n’est pas vrai, et même qu’il est absurde. Tout ce que nous pouvons dire, c’est qu’il est de ma condition que l’instrument absolu par lequel je m’affirme, pour les autres et peut-être pour moi-même, puisse tendre à se comporter comme une entité subsistant non certes par soi, mais pour soi. Inutile de marquer que ceci n’est concevable que par abstraction; ma subsistance ne peut être assu-

attrezzi, ed è destinato a essere gettato tra i rifiuti. Subisce vicissitudini del tutto simili a quelle degli utensili. Può essere paragonato anche a un’opera d’arte, nella misura in cui è luogo di godimento. Ma anche da questo punto di vista è condannato: l’opera d’arte non potrà essere sottoposta a un numero illimitato di restauri, ecc. Tutto ciò è vero ma insufficiente. Si affermerà che questo corpo esiste soltanto per un soggetto che si identifica con lui, pur contrapponendoglisi. Mandiamo quindi in pezzi le astrazioni: il mio corpo non si presenta come un utensile di cui potrei fare a meno perché posso sostituirlo con un altro, o perché posso dedicarmi ad altre attività per le quali non mi serve. Si dà a me come condizione assoluta di ogni possibile strumentalità – e anche di ogni possibile godimento. In questo senso si dà a me come il mio tutto, con una riserva, però: conserva – o, meglio, io conservo, ma tramite il corpo stesso – la possibilità di sacrificarmi. Certo, anche in questo caso non si può prescindere dalla sua intermediazione: è la mia mano che preme il grilletto della pistola oppure che apre il rubinetto del gas. Ma questo basta per dimostrare che rimane un mezzo – dunque che non è il tutto. Infatti il tutto non potrebbe essere esclusivamente mezzo. Certo, questo mezzo tende a considerare se stesso come fine. Quando non è rigorosamente controllata, la vita materiale tende a diventare uno schema chiuso. Il fatto che questo controllo possa essere esercitato è sufficiente per dimostrare che il corpo non è tutto, che il materialismo non è vero, anzi, che è assurdo. Ecco tutto ciò che possiamo affermare: è proprio della mia condizione che lo strumento assoluto con il quale mi affermo, per gli altri e forse per me stesso, possa avere la tendenza a comportarsi come un’entità che sussiste non certo da sé, ma per sé. Inutile sottolineare che tutto ciò si può pensare soltanto in astratto: il mio sussistere può essere assicurato

rée qu’à la faveur d’un ensemble extraordinairement complexe de médiations d’ordre social, mais il est concevable que je finisse par me prendre pour centre de l’organisme social tout entier; les autres ne m’intéressent alors que dans la mesure où ils contribuent à la satisfaction de mes besoins, quels qu’ils soient. De ce point de vue, on accède très directement et très facilement à la notion de transcendance. Peut-être d’ailleurs ne convient-il pas de parler ici de notion. Il faudrait se demander si ce n’est pas la réalité d’un transcendant qui est impliquée dans le fait du sacrifice ou même du suicide. (Je note aujourd’hui, en janvier 1959, qu’on rejoint ici le Kirilov de Dostoevskij.) L’opposition à établir entre le sacrifice et le suicide ne saurait encore être intelligible ici. La vérité est qu’il ne semble pas y avoir de sens à opposer ici idée et réalité. La réalité du transcendant consiste en ce qu’il est idée et opère comme idée; par exemple, la réalité de la patrie n’est en aucune façon discernable de l’idée de la patrie qui anime le patriote. De même sans doute pour le croyant. Notons ici le rôle de l’éristique intérieure, au cours de laquelle le corps trouve un truchement dans une pensée qui le représente et qui s’attaque à l’idée: «tu n’es qu’une idée, dit-il par exemple à la patrie, et moi j’ai derrière moi la seule réalité indiscutable.» II ne faut cependant pas être dupe des mots ; qu’est-ce que cette pensée déléguée par le corps? Comment cette délégation serait-elle concevable? Quels sont les titres réels de cette pensée qui prétend invalider toute affirmation portant sur un transcendant?

soltanto grazie a un insieme straordinariamente complesso di mediazioni di ordine sociale. È possibile tuttavia che io finisca per considerarmi il centro dell’intero organismo sociale. Gli altri mi interessano allora soltanto nella misura in cui contribuiscono alla soddisfazione dei miei bisogni, quali che siano. È possibile passare da questo punto di vista al concetto di trascendenza senza alcuna mediazione, e molto facilmente. D’altronde non è forse il caso di parlare di concetto in questo contesto. Bisognerebbe chiedersi se nel sacrificio, o anche nel suicidio, non sia la realtà di un trascendente a essere implicata. (Oggi, nel gennaio 1959, aggiungo che su questo ci si ricollega al Kirilov di Dostoevskij). La contrapposizione tra il sacrificio e il suicidio, però, non è ancora intelligibile. La verità è che non sembra avere senso opporre idea e realtà. La realtà del trascendente consiste nel fatto che è idea e agisce come tale. Per fare un esempio, la realtà della patria non si può affatto separare dall’idea di patria che anima il patriota. Per il credente le cose non vanno diversamente, non c’è dubbio. In questo caso bisogna evidenziare il ruolo dell’eristica interiore: il corpo trova un intermediario in un pensiero che lo rappresenta e che attacca l’idea: “Tu sei soltanto un’idea, dice alla patria, ad esempio, e io ho alle mie spalle l’unica realtà indiscutibile”. Non bisogna farsi ingannare dalle parole, però. Cos’è questo pensiero delegato dal corpo? Com’è possibile questa delega? A quale titolo questo pensiero ha la pretesa di invalidare ogni affermazione che si riferisce a un trascendente?

Le Peuch, 18 avril. Cette délégation est inventée; c’est la justification que se donne à elle-même une pensée qui prétend, au nom du réel, déprécier ce qui n’est qu’en idée. Il ressort de ce que j’ai écrit hier qu’il est de l’essence de mon corps de pouvoir – de devoir – être considéré alternativement comme moi et comme non-moi. C’est aussi dans cette perspective qu’on pourrait considérer le dépouillement. Noter que, du moment où je me sacrifie comme corps, je sacrifie mon avenir: le corps comme réserve d’avenir; donner ma vie, c’est précisément renoncer à cet avenir. Mais à quelle condition ce sacrifice est-il possible? Il suppose un dégagement; c’est de l’ornière du quotidien que j’ai à me dégager. Qu’entendre par là, sinon que je me suis creusé à moi-même ce que je pourrai indifféremment regarder comme un abri ou comme un cachot: on retrouve ici le cycle des fonctions et des tâches que j’ai évoqué ces jours derniers. Je suis dans cette vie au sens même où je suis dans mon corps, car il est sûrement tout à fait arbitraire de réduire le corps à la figure qu’il présente à un instant donné; le corps est une certaine façon de durer: de ce point de vue, me désincarner ce n’est pas essentiellement me transporter ou me manifester ailleurs, c’est échapper à cette façon de durer qui m’est devenue naturelle, ce qui se produit dans l’extase. Il peut se faire que ma vie, à mes propres yeux, ne m’exprime pas, et même qu’elle me fasse horreur (Cf. Christiane à l’acte IV du Monde cassé). Qu’entendre par là? Faut-il dire qu’il y a là une pure illusion?

Le Peuch, 18 aprile 1943. Questa delega è inventata. Si tratta del modo di giustificarsi di fronte a se stesso da parte di un pensiero che, in nome del reale, ha la pretesa di sminuire ciò che è soltanto come idea. Da ciò che ho scritto ieri emerge che per essenza il mio corpo può – deve – essere considerato alternativamente come io e come non-io. Anche la rinuncia potrebbe essere considerata da questa prospettiva. Dal momento in cui mi sacrifico come corpo sacrifico il mio avvenire: il corpo come riserva di avvenire. Donare la mia vita significa proprio rinunciare a questo avvenire. Ma a quale condizione è possibile questo sacrificio? Presuppone una liberazione. È alla routine del quotidiano che devo sfuggire. Come intendere ciò se non come il fatto che ho preparato per me stesso quello che potrò considerare indifferentemente un rifugio oppure una cella? Il discorso ritorna sul ciclo delle funzioni e dei compiti di cui ho parlato negli ultimi giorni. Io sono in questa vita così come sono nel mio corpo, poiché è del tutto arbitrario, non c’è dubbio, ridurre il corpo all’immagine che ci offre in un istante determinato. Il corpo è un certo modo di durare. Da questo punto di vista disincarnarmi non significa essenzialmente trasportare me stesso o manifestarmi altrove: significa sfuggire al modo di durare che mi è divenuto naturale, cosa che avviene nell’estasi. Può accadere che ai miei occhi la mia vita non mi esprima, anzi, che mi faccia addirittura orrore. (Si veda Christiane nel quarto atto de Le Monde Cassé*). Che cosa si deve intendere con ciò? Bisogna forse affermare che si tratta di pura illusione?

Le Peuch, 19 avril. Tout cela me paraît assez confus. Je ne cesse pas d’être dans ma vie parce que ma vie me déplaît. Tout ce que je peux dire c’est que j’y suis mal, que je m’y trouve mal, mais ce n’est sûrement pas assez pour que je m’en libère; au contraire: on peut penser qu’il y a une façon de protester contre elle qui contribue à la refermer sur moi. On pourrait même se demander si l’accepter n’est pas la condition préalable qui s’impose à celui qui entend s’en libérer. Seulement, c’est ce mot là dont le sens n’est pas tout à fait clair. Je n’ai pas le sentiment qu’on puisse tirer parti des notes de ces derniers jours. Le Peuch, 22 avril. J’aspire à la certitude, et il faudra se demander ce que cela signifie: j’aspire à me trouver dans une situation telle que je puisse me déclarer certain. Mais est-ce que j’aspire à une certitude quelle qu’elle soit – serait-ce même celle qui consisterait à reconnaître que la vie, que le monde ne présentent aucun sens? Le fait d’avoir à m’établir dans cette certitude-là mettrait-il fin à mon tourment? Il l’éterniserait au contraire: cette certitude négative ne comporterait qu’un avantage, elle me permettrait de triompher de ceux qui persistent à croire à un ordre intelligible ou providentiel, elle satisferait ce qui en moi est prétention, volonté de m’affirmer contre autrui, de dominer. Orgueil aussi de n’être pas dupe, de savoir qu’on n’est pas dupe. Il est important de se demander si, en aspirant à une certitude, c’est essentiellement cette satisfaction d’orgueil qu’on recherche. Noter en passant, peut-être, la contradiction qu’il

Le Peuch, 19 aprile 1943. Tutto ciò mi sembra alquanto confuso. Se la mia vita mi disgusta, non per questo smetto di essere nella mia vita. Sto male nella mia vita, mi ci trovo male: è l’unica cosa che posso affermare. Sicuramente non basta perché io me ne liberi, però. Al contrario: si può pensare che esista un modo di protestare contro di essa che contribuisce a richiuderla su di me. Ci si potrebbe chiedere anche se accettarla non sia la condizione preliminare che si impone a colui che ha intenzione di liberarsene. Il significato di questo termine non è però del tutto chiaro. Non mi sembra che le annotazioni di questi ultimi giorni siano di grande utilità. Le Peuch, 22 aprile 1943. Io aspiro a essere certo. Qual è il significato di queste parole, però? Aspiro a trovarmi in una condizione che mi permetta di dichiararmi certo. Ma aspiro forse a una certezza qualsiasi – fosse pure quella di riconoscere che la vita, il mondo non hanno nessun senso? Trovarmi in quella certezza metterebbe fine al mio tormento? Al contrario, lo renderebbe eterno. Questa certezza negativa comporterebbe un solo vantaggio: mi metterebbe nelle condizioni di trionfare su coloro che continuano a credere a un ordine intelligibile o provvidenziale, e soddisferebbe ciò che in me si presenta come pretesa, volontà di affermarmi sull’altro, di dominare. Inoltre orgoglio di non farsi ingannare, di sapere che non ci si lascia ingannare. È importante chiedersi se aspirando a una certezza non si ricerchi essenzialmente proprio l’appagamento dell’orgoglio. En passant sottolineare tra l’altro la contraddizione in-

y a à ce que, dans un monde qui ne serait que néant, puisse être porté le jugement par lequel ce monde serait condamné. Au fond, moi qui déclare le néant universel, je prétends exister; et si, à la réflexion, je m’enveloppe moi-même dans cette condamnation, ou bien je ne sais ce que je dis, ou bien je m’abîme dans la non-pensée: dès lors je renonce à ma certitude. Il y a un sens où il est sûrement vrai de dire que le mode d’existence qui est le mien consiste avant tout à être en quête d’une certitude: comparaison avec un corps qui se meut tant qu’il n’est pas parvenu à l’équilibre. Etre certain de... Réfléchir plus profondément sur le sens de ces mots. Il y a là un abîme... Est-ce l’expérience, toute négative, du fait que je n’ai pas de doute? Mais c’est là un trompe-l’œil; pourquoi n’ai-je pas de doute? Cette négation elle-même repose sur quelque chose de positif: sur quoi? Sur le fait que quelque chose s’est révélé à moi (à la façon dont l’amour se révèle). Le Peuch, 26 avril. Dans la lettre que j’ai écrite à Louis D..., j’ai indiqué qu’il n’y a aucun sens à porter un jugement de valeur ou de non-valeur intrinsèque sur le quotidien en tant que tel: le quotidien en tant que tel n’existe pas, il peut, ou bien se dépersonnaliser et par là se dégrader, ou bien au contraire se régénérer lui-même par un esprit d’amour qui l’aimante. De quoi est-il fait, ce quotidien? Ou plutôt, en quoi consiste-t-il? En des fonctions, en des tâches: mes jours se passent à... Je note aussi que le désespoir me prend aussitôt que j’ai le sentiment que mes jours tombent les uns après les autres comme des unités homogènes au fond d’un abîme, et qu’il ne m’en reste plus qu’un nombre inconnu mais fini à dépen-

sita, forse, nel fatto di poter, in un mondo che non sarebbe altro che nulla, dare un giudizio che condannerebbe questo mondo. In fondo io che dichiaro il nulla universale ho la pretesa di esistere; e se, riflettendo, rimango io stesso coinvolto in questa condanna, vuol dire o che non so quello che dico oppure che sprofondo nel non-pensiero: rinuncio quindi alla mia certezza. Da un certo punto di vista è sicuramente vero che il mio modo di esistere consiste innanzitutto nell’essere alla ricerca di una certezza: confronto con un corpo che si muove fino a quando ha raggiunto l’equilibrio. Essere certo di… Riflettere più in profondità sul senso di queste parole. Ci troviamo di fronte a un abisso… È l’esperienza, del tutto negativa, del non avere dubbi? Si tratta però di un inganno: perché non ho dubbi? Anche questa stessa negazione si fonda su qualcosa di positivo: su che cosa? Sul fatto che qualcosa mi si è rivelato (così come mi si rivela l’amore). Le Peuch, 26 aprile 1943. Nella lettera che ho scritto a Louis D. ho rilevato che non ha affatto senso esprimere un giudizio di valore o di nonvalore intrinseco sul quotidiano in quanto tale. Il quotidiano in quanto tale, infatti, non esiste: o si spersonalizza, e quindi si degrada, oppure al contrario si rigenera grazie a uno spirito d’amore che lo magnetizza. Di che cosa è fatto questo quotidiano? O, piuttosto, in che cosa consiste? In determinate funzioni, in determinati compiti: passo i miei giorni a… Sono inoltre preda della disperazione non appena mi rendo conto che i miei giorni si succedono l’uno dopo l’altro come unità omogenee e vanno a finire in un abisso. Me ne rimane quindi soltanto un numero sconosciuto ma finito da dispen-

ser jusqu’au moment où il ne me restera plus rien: je serai au bout de mon rouleau. Par là, je suis comparable à celui qui mange son capital. Il n’en est pas ainsi dans la mesure où j’accomplis une œuvre, quelle qu’elle soit. Et cependant, en présence de l’œuvre accomplie je peux me sentir indifférent et presque hostile – comme d’ailleurs en face de ma postérité. Il peut se faire que cette œuvre m’apparaisse à tel point détachée de moi que ce qui lui arrivera ne m’intéresse plus; j’irai alors jusqu’à prétendre que c’est par suite d’une illusion d’optique que je me suis soucié d’elle et de ce qu’elle deviendrait. Il me semble que ce moi séparé s’affirme comme mortel précisément par la façon dont il se sépare de ce qui n’est pas lui. La perpétuation de l’existence nue à laquelle il aspire n’est pas concevable sans contradiction. On répondra peutêtre: ce à quoi j’aspire, ce n’est pas simplement continuer à exister, mais continuer à participer, par exemple à la vie de ma famille ou de mon pays, c’est rester associé à... On ne voit pas que ce vœu ait rien d’absurde ou d’impie, mais il semble qu’il ne puisse se réaliser que si cette association a lieu suivant des modalités nouvelles que je ne peux me représenter qu’imparfaitement, car il se peut fort bien qu’elles soient irréductibles à un avoir conscience de... Le Peuch, 28 avril. Le propre de l’existant est d’être engagé ou inséré, c’està-dire d’être en situation, ou en communication. Dès lors faire abstraction lorsqu’on prétend le poser, non seulement de telle situation particulière, mais de toute situation quelle qu’elle soit, c’est lui substituer, sinon une pure fiction, tout au moins une idée.

sare, fino al momento in cui non mi resterà più nulla: mi troverò alla fine del mio ciclo. Da questo punto di vista posso essere paragonato a chi consuma il suo capitale. Le cose stanno diversamente nella misura in cui realizzo un’opera, qualunque essa sia. E tuttavia di fronte all’opera realizzata posso sentirmi indifferente e quasi ostile – come, d’altra parte, di fronte ai miei posteri. Può accadere che quest’opera mi sembri talmente dotata di vita autonoma rispetto a me da non nutrire nessun interesse per il suo destino. Arriverò fino al punto di sostenere che mi sono preso cura dell’opera stessa, del suo avvenire, solo per una serie di illusioni ottiche. Questo io separato si afferma come mortale, mi sembra, proprio per il modo in cui si separa da ciò che è altro da lui. La perpetuazione dell’esistenza nuda, alla quale aspira, non si può concepire senza contraddizione. Si potrà rispondere: ciò a cui aspiro non è semplicemente continuare a esistere, ma continuare a partecipare, ad esempio alla vita della mia famiglia o del mio paese, è restare legato a… Non c’è nulla di assurdo o di empio in questo desiderio, ma forse può realizzarsi soltanto se questa unione avviene in modi nuovi che posso rappresentarmi solo imperfettamente, poiché è possibile che non siano riducibili a un avere coscienza di… Le Peuch, 28 aprile 1943. La caratteristica di chi esiste è essere impegnato o inserito, cioè trovarsi in situazione, o essere in comunicazione. Quando si afferma di porre l’esistente, quindi, fare astrazione non soltanto da tale situazione particolare ma da ogni situazione significa sostituirle se non una pura finzione, almeno un’idea.

Il n’y a pas de sens à contester l’existence du monde extérieur, disons des choses, si l’on ne conteste en même temps mon existence à moi qui, non seulement les perçoit, mais suis en communication avec elles. Mais mon existence, puisje la contester? Qu’ai-je dans l’esprit lorsque je la conteste? Le Peuch, 30 avril. Filière à partir de la présence de l’autre à moi-même: elle est mystérieuse. Mais c’est qu’on l’oppose en tant qu’idée problématique au fait de la présence de soi-même à soi-même considérée comme donnée solide, comme invariant. Or, précisément, c’est ce postulat qui doit être récusé. La présence à soi-même n’est pas un invariant. On s’en forme une notion intellectuelle et, par là, on en méconnaît l’essence. Je ne suis pas du tout invariablement présent à moi-même, je suis au contraire le plus souvent aliéné, ou décentré. Et quand, du fond de cette aliénation, je cherche à saisir ce qu’est la présence à moi-même, j’en viens à ne plus l’imaginer, à ne plus y croire. Mais, pour autant que je cesse de «réaliser» ce que peut être ma propre présence à moi-même, à fortiori je me mets hors d’état de croire à la présence d’autrui à moimême. En réalité, tout s’éclaire à partir du moment où l’on a compris que présence à soi-même se confond avec créativité. Encore faut-il marquer tout de suite que créativité ne signifie pas productivité, créer n’est pas produire. Obscurité: en quel sens suis-je fondé à dire que c’est moi qui suis présent à moi-même? Ne vaudrait-il pas mieux parler de l’être ou de la réalité? Il faut, en effet, remarquer que le moi peut ne désigner qu’une absence, qu’une carence plus exactement – et en même temps que cette carence est

Non ha senso mettere in discussione l’esistenza del mondo esterno, diciamo delle cose, se non si mette in discussione nello stesso tempo anche la mia propria esistenza, che non soltanto le percepisce ma entra in comunicazione con esse. Posso però contestare la mia esistenza? Che cosa ho in mente quando la contesto? Le Peuch, 30 aprile 1943. Seguire il cammino partendo dalla presenza dell’altro a me stesso: è misteriosa. La difficoltà nasce dal fatto che viene contrapposta in quanto idea problematica alla presenza di sé a se stessi considerata un dato certo, un’invariante. Ora, è proprio questo postulato che deve essere ricusato. La presenza a se stessi non è un’invariante. Così facendo ci si forma un concetto intellettualistico, e se ne misconosce quindi l’essenza. Io non sono affatto sempre presente a me stesso, al contrario, la maggior parte delle volte sono alienato, o decentrato. E quando, dal fondo di questa alienazione, cerco di cogliere cosa sia la presenza a me stesso, arrivo al punto di non riuscire più a immaginarla, di non crederci più. Nella misura in cui non “realizzo” più che cosa possa essere la mia presenza a me stesso, a maggior ragione mi metto nelle condizioni di non credere alla presenza dell’altro a me stesso. In realtà tutto diventa chiaro a partire dal momento in cui si è capito che presenza a se stessi fa tutt’uno con creatività. Ma subito bisogna sottolineare anche che creatività non significa produttività: creare non vuol dire produrre. Oscurità: in che senso posso affermare fondatamente che sono io a essere presente a me stesso? Non sarebbe meglio parlare dell’essere o della realtà? In effetti bisogna sottolineare che l’io può indicare solo un’assenza, una carenza, a essere più precisi – e nello stesso tempo che questa carenza

presque invariablement portée à se traiter elle-même comme étant du positif; l’illusion du moi n’est pas autre chose. Mais ceci ne fait que renforcer le doute. N’en vient-on pas à placer, avec Lavelle, la présence de l’être à la racine de- la conscience de soi? C’est ici, je crois, qu’il faut faire appel à une phénoménologie de l’expérience quotidienne. Mais ce n’est pas encore assez précis. Peut-être partir pour la critiquer de l’idée que nous nous formons de notre rapport avec autrui, et de préférence avec autrui absent, disparu. C’est le point de départ de ma note de ce matin. C’est là qu’il m’a semblé avoir avant de me lever une sorte d’illumination. J’évoque en ce moment Emile M... qui a été tué en mai 1940. On me dira: «lui ne peut pas vous être présent, vous gardez seulement un petit film réduit à sa plus simple expression; ce film, ou ce disque, vous pouvez le faire tourner – et c’est tout; pourtant il n’y a aucun sens à dire que ce film ou ce disque, c’est lui.» Cependant, une protestation jaillit du fond de moi-même contre cette réduction. Protestation issue de l’amour, protestation qui est l’amour même. Affirmation qui porte sur l’ipséité liée à la critique de l’idée de simulacre. Je dirai: rien de ce qui a été humain ne peut tomber à l’état de simple simulacre, – ou, ce qui revient au même, ne peut disparaître en déléguant simplement après soi une imitation dévitalisée de soi-même. S’interroger sur la nature de cette affirmation: c’est un défi. Ce n’est aucunement une constatation, c’en est même le contraire, comme l’espérance; le propre de la constatation est de pouvoir être homologuée, ce qui ici est impensable. Mais ceci n’éclaire pas l’essentiel, et on ne peut tout de même pas se contenter de dire que la présence est mystère. Qu’est-ce que je veux dire lorsque je déclare: «Ce n’est pas seulement l’image d’Emile M... que je porte en moi, c’est lui-

è quasi sempre portata a considerare se stessa come qualcosa di positivo. L’illusione dell’io non è altro che questo. Ma così si rafforza il dubbio. Non si finisce, come fa Lavelle, per porre la presenza dell’essere alla base della coscienza di sé? A questo punto bisogna ricorrere a una fenomenologia dell’esperienza quotidiana. Non è ancora abbastanza preciso, però. Per criticarla sarebbe forse opportuno partire dall’idea che ci facciamo del nostro rapporto con l’altro, meglio se con l’altro assente, scomparso. È il punto di partenza della mia riflessione di stamattina. È su questo che, prima di alzarmi, mi è sembrato di avere una sorta di illuminazione. In questo momento ricordo Emile M., che è stato ucciso nel maggio 1940. Mi si dirà: “Lui non può esserle presente, lei conserva soltanto una breve pellicola, ridotta alla sua espressione più semplice. Può far girare questa pellicola, o questo disco – ma è tutto. Non ha affatto senso, però, affermare che questa pellicola o questo disco è lui”. Ma dalle parte più profonda di me stesso scaturisce una protesta contro questa riduzione: protesta generata dall’amore, protesta che è l’amore stesso. Affermazione che si basa sull’ipseità legata alla critica dell’idea di simulacro. Affermerò: nulla di ciò che è stato umano può ridursi allo stato di semplice simulacro – oppure, ed è la stessa cosa, non può scomparire lasciando dietro di sé semplicemente un’imitazione di se stesso priva di vita. Interrogarsi sulla natura di questa affermazione: si tratta di una sfida. Non siamo affatto di fronte a una constatazione, anzi, si tratta del contrario, come la speranza. La constatazione può essere omologata, è questo che la caratterizza, fatto impensabile in questo caso. Tutto ciò non chiarisce però l’essenziale, e nonostante tutto non ci si può neppure accontentare di affermare che la presenza è mistero. Cosa intendo dire quando dichiaro che “non è soltanto l’immagine di Emile M. che io porto in me,

même»? L’image n’est qu’un moyen par lequel une réalité continue à se communiquer à moi, acte de transcendance qui est à la racine de l’invocation et du culte. Mais il faudrait arriver à éclairer ceci en partant de la présence à soi-même. Il me semble que l’expérience du ressassement est utilisable a contrario. Je ne redeviens présent à moi-même que dans l’expérience d’un certain renouvellement et à la faveur d’un sommeil préalable. Toutefois, la question subsiste: de quel droit dire que c’est moi qui suis présent à moi-même? Conscience d’une liberté. Mais rien ne dit que cette liberté ne soit pas au fond une grâce. Il y a là quelque chose qui ne m’est que donné, ou concédé, et dont les conditions ne sont ni dénombrables, ni susceptibles d’être reproduites à volonté. Dire que je suis en quête d’une certitude, c’est, semblet-il, exprimer correctement le mode d’existence qui est le mien en tant que je suis, non pas un simple vivant, non pas un citoyen ou un auteur dramatique – mais un philosophe. A la réflexion, cette formule se révèle pourtant ambiguë. Le propre d’une certitude est de se déclarer; il ne semble pas qu’elle puisse être réellement dissociée de l’acte par lequel elle se communique. Mais alors, dire que je suis en quête d’une certitude, n’est-ce pas dire simplement que je cherche des mots pour traduire un certain état, une certaine expérience qui était peut-être déjà la mienne avant que j’entreprisse cette recherche? Ou bien est-ce dire – ce qui serait bien différent – que je suis en quête d’une façon d’être qui se prête au mode de formulation par lequel une certitude se traduit? Une façon d’être ou une façon de connaître? S’il est question pour moi d’accéder à une connaissance d’un type nouveau, il s’agit du même coup de me trouver placé dans une relation nouvelle par rapport à ce que j’aurai à connaître; ce changement de position porte essentiellement sur la manière d’être.

è lui stesso”? L’immagine è soltanto un mezzo grazie al quale una realtà continua a comunicarsi a me, atto di trascendenza alla base dell’invocazione e del culto. Bisognerebbe però riuscire a chiarire tutto ciò partendo dalla presenza a se stessi. Mi sembra che l’esperienza del riprendere il controllo di sé possa essere utilizzata a contrario. Ritorno presente a me stesso soltanto facendo esperienza di un certo rinnovamento, e grazie a una fase preliminare di sonno. Il problema tuttavia permane: con quale diritto affermo che sono io a essere presente a me stesso? Coscienza di una libertà. Ma non c’è motivo per non affermare che in fondo questa libertà è una grazia. Si tratta di qualcosa che non mi è soltanto dato, o concesso, e le cui condizioni non si possono né enumerare né riprodurre a volontà. Affermare che io sono alla ricerca di una certezza significa, almeno credo, esprimere correttamente il mio modo di esistere in quanto sono non un semplice vivente, un cittadino o un drammaturgo – ma un filosofo. Se si riflette questa massima rivela però la sua ambiguità. La caratteristica di una certezza è di dichiararsi, e non sembra che possa essere realmente dissociata dall’atto con il quale si comunica. Ma allora affermare che sono alla ricerca di una certezza non significa dire semplicemente che cerco delle parole per tradurre un certo stato, una certa esperienza che forse faceva parte di me già prima che io intraprendessi questa ricerca? Oppure vuol dire affermare – cosa del tutto diversa – che sono alla ricerca di un modo d’essere che si presta alla formulazione con la quale viene espressa una certezza? Un modo d’essere o un modo di conoscere? Se per me il problema è giungere a un nuovo tipo di conoscenza, si tratta però, nello stesso tempo, di instaurare un nuovo rapporto rispetto a ciò che dovrò conoscere. Questo cambiamento di posizione si basa essenzialmente sul modo di essere.

L’alternative ainsi présentée paraît en vérité très simple; il est malheureusement douteux que la réalité au sein de laquelle se développe mon effort se prête à une option d’un caractère aussi élémentaire. En supposant même une invariance foncière dans l’expérience originelle qui est la mienne, on devra reconnaître que, pour donner lieu aux formules que je m’applique à découvrir, il faut qu’elle s’organise, qu’elle prenne corps; il faut aussi bien certainement qu’elle se distribue, qu’elle s’articule; autrement elle ne pourrait devenir intelligible, je ne pourrais que me borner à plaquer sur elle des épithètes indéterminées qui n’éclaireraient pas sur ce qu’elle est. Dans ces conditions, le premier terme de l’alternative tend à se rapprocher beaucoup du second. Il faudra noter, en outre, que mon expérience, si elle parvient à se formuler, et par conséquent à se communiquer, tend par là même à changer de nature; en effet, je n’y suis plus enfermé; je cesse d’éprouver l’espèce de détresse qui s’attache pour moi à ce dont je ne peux pas rendre compte; c’est dire qu’elle change de coloration affective. Ce n’est pas tout: si, par expérience on entend un certain état immédiatement éprouvé par moi, il ne faut pas hésiter à dire que ce n’est pas sur l’expérience entendue de cette façon restrictive que porte la certitude à laquelle j’aspire. Le Peuch, 1er mai. Je suis en mauvais état aujourd’hui: est-ce pour cela que ces dernières notes me paraissent ne mener à rien? Il faudrait cependant se demander sur quoi porte la certitude que je cherche. Il s’agit, si l’on veut, de trouver un sens à ma vie; mais il faudra ajouter que ce sens ne peut me satisfaire, que je ne peux le reconnaître qu’à condition que ce sens

Presentata in questo modo l’alternativa sembra molto semplice, ma purtroppo dubito che la realtà in seno alla quale si sviluppa il mio sforzo si presti a una scelta con caratteri così elementari. Anche supponendo una invarianza sostanziale nella mia propria esperienza originale, si dovrà riconoscere che per elaborare le formule che mi sforzo di scoprire bisogna che l’esperienza si organizzi, che prenda corpo, così come è necessario, non c’è dubbio, che assuma un certo ordine, che si articoli. Diversamente non potrebbe diventare intelligibile, potrei soltanto limitarmi ad affibbiarle degli epiteti indeterminati che non chiarirebbero affatto la sua natura. In queste condizioni il primo termine dell’alternativa tende ad avvicinarsi molto al secondo. Se riesco nell’intento di formulare, e quindi di comunicare, la mia esperienza, essa per ciò stesso tende a cambiare di natura. Infatti io non sono più chiuso in tale esperienza, non provo più la sorta di sconforto provocato da ciò di cui non posso rendere conto. Significa affermare che cambia di tonalità affettiva. Non è tutto, però. Se con esperienza si intende un certo stato provato da me in modo immediato, non bisogna esitare ad affermare che la certezza alla quale aspiro non si fonda sull’esperienza intesa in un modo restrittivo come questo. Le Peuch, 1 maggio 1943. Oggi non sto bene: è forse per questo che ho l’impressione che le ultime riflessioni non conducano da nessuna parte? Bisognerebbe chiedersi però su che cosa si fondi la certezza che cerco. Si tratta di trovare un senso alla mia vita. Bisognerà aggiungere però che questo significato può soddisfarmi, posso riconoscerlo soltanto a condizione che non sia

ne soit pas exclusivement mien: par exemple, je ne pourrais me satisfaire de la certitude qui consisterait à témoigner de l’incohérence et de l’absurdité générale du morrde et de la vie. Ici, toutefois, une difficulté: si je cherche la vérité et si le dernier mot de la réalité est précisément de n’avoir pas de sens, ne serai-je pas tenu de me contenter de cette assurance négative? Autrement ne devrai-je pas avouer que ce que je cherche n’est pas la vérité, mais une vérité à ma mesure, une vérité stimulante ou consolante? Et cet aveu, n’est-ce pas ma condamnation? C’est là une difficulté qu’il faut prendre à bras le corps. Ai-je à contester l’existence en moi d’un parti pris, ou ne dois-je pas au contraire la proclamer? De toute manière, il faudrait faire éclater une fois pour toutes aux regards l’absurdité intrinsèque qu’il y a à s’imaginer qu’une enquête quelconque puisse aboutir à une conclusion sur la question de savoir si la vie a ou non un sens. Il faut d’ailleurs poser en principe que chacun de nous pourra trouver autant d’arguments empiriques qu’il le voudra pour se convaincre – ou pour renforcer en lui-même la conviction – que la vie n’a pas de sens. Mais il y a une pesée à opérer, c’est-à-dire en somme un jugement à prononcer. Pour ce jugement intervient quelque chose qui est sans commune mesure avec une pensée qui se contenterait d’accumuler des charges, des griefs. L’acquittement, l’absolution. (Note de janvier 1959: Je reproduis ces deux mots sans être sûr de la valeur précise que je leur accordais et sans être certain non plus qu’ils soient ici à leur place.) D’ailleurs il reste à se demander comment ce jugement est possible, à partir de quel type de structure du réel il peut s’exercer. Il faudra d’ailleurs se demander beaucoup plus précisément ce qu’il faut entendre par: avoir un sens. Il s’agit en somme d’expliciter d’abord l’exigence qui est en nous: puisje dire, par exemple, comme je l’ai fait plus haut, que cette

soltanto mio. Non potrò, per fare un esempio, accontentarmi della certezza che deriva dal testimoniare l’incoerenza e l’assurdità generale del mondo e della vita. A questo punto emerge però una difficoltà: se cerco la verità e se l’ultima parola della realtà è proprio di non avere senso, non avrò il dovere di accontentarmi di questa garanzia negativa? Altrimenti non dovrei confessare che cerco non la verità, ma una verità a mio uso e consumo, una verità stimolante o consolante? E questa confessione non è forse la mia condanna? Si tratta di una difficoltà che bisogna prendere di petto. Devo negare, oppure al contrario devo proclamare, l’esistenza in me di un partito preso? In ogni modo bisognerebbe sgomberare il campo una volta per tutte dall’assurdità rappresentata dall’immaginare che una qualsiasi inchiesta possa giungere a una conclusione relativamente alla ricerca del senso o della mancanza di senso della vita. D’altronde in linea generale bisognerà rendersi conto che ciascuno di noi potrà trovare nell’esperienza argomenti in abbondanza per convincersi – o per rafforzare la sua convinzione – che la vita non ha senso. Bisogna però fare un bilancio, cioè emettere un giudizio, per il quale interviene qualcosa che non ha nulla in comune con un pensiero che si limita ad accumulare prove a carico e accuse. Il proscioglimento, l’assoluzione. (Annotazione del gennaio 1959: riporto questi due termini senza essere certo del valore preciso che attribuivo loro, e senza essere certo neppure che qui siano appropriate). Del resto c’è da chiedersi anche come sia possibile questo giudizio, a partire da quale tipo di struttura del reale possa essere formulato. Bisognerà domandarsi inoltre con molta maggiore precisione che cosa si debba intendere con “avere un senso”. Si tratta insomma di esplicitare innanzitutto l’esigenza che è in noi: ad esempio, posso affermare, come ho fatto prima,

exigence est satisfaite là où je suis en présence d’une œuvre où une vie trouve à la fois son expression et sa justification? Y a-t-il là un exemple, ou une illustration, d’un certain rapport universel, d’une signification absolue que, précisément, je cherche à découvrir? En admettant que l’œuvre suffise à conférer un sens à la vie, il semble bien que ceci ne soit que la symbolisation de quelque chose de bien plus essentiel. Mais j’avoue que ce n’est pas clair dans mon esprit. Une difficulté que j’aperçois en ce moment est la suivante: par expérience entendra-t-on mon expérience telle qu’elle m’est donnée, d’une façon fatalement imparfaite et tronquée, à moi qui la vis? Ou bien, au contraire, l’expérience humaine en général? Mais il semble que, dès le moment où nous parlons de l’expérience humaine en général, nous l’amputions de ce qui la fait expérience. Il est à peu près évident qu’elle ne peut être donnée que hic et nunc et présente un certain caractère d’intransmissibilité. Sans doute, il y a bien l’Erfahrung au sens de Kant, qui est en voie de constitution et qui tend au fond à s’inscrire dans un immense répertoire forcément inachevé, comme le Larousse mensuel, mais l’expérience ainsi conçue tend, non seulement à exclure toute signification métaphysique, mais même, semble-t-il, à mettre celui qui s’y absorbe ou s’y consacre dans l’impossibilité de se poser la question. Le Peuch, 2 mai. Je vois de nouveau plus clair, après l’éclipse d’hier. J’ai compris très clairement que c’est sur l’indubitable existentiel que tout doit être axé. Montrer que cet indubitable ne peut avoir que le caractère d’une présence qui peut être interceptée (on peut aussi parler de lumière). A mettre en relation avec ce que j’ai écrit avant-hier sur la présence à

che questa esigenza è appagata quando mi trovo di fronte a un’opera in cui una vita trova la sua espressione e nello stesso tempo la sua giustificazione? Si tratta di un esempio, o di una rappresentazione, di un rapporto universale, di un significato assoluto che io cerco di scoprire? Ammettendo che l’opera basti a conferire un senso alla vita, sembra proprio che si tratti soltanto del simbolo di qualcosa di ben più essenziale. Riconosco però che non mi è ben chiaro. In questo momento incontro una difficoltà: con esperienza ci si riferisce alla mia esperienza così come è data a me che la vivo, in un modo fatalmente imperfetto e limitato, oppure, al contrario, all’esperienza umana in generale? Sembra però che parlando di esperienza umana in generale la si amputi di ciò che la rende esperienza. Può essere data soltanto hic et nunc, è evidente, e presenta un carattere di intrasmissibilità. Esiste l’Erfahrung nel senso di Kant, non c’è dubbio, che è in via di costituzione e che in fondo tende a iscriversi in un immenso repertorio necessariamente incompiuto, come il Larousse mensile. Così concepita, però, l’esperienza pare non soltanto escludere ogni significato metafisico ma anche mettere colui che si lascia assorbire da essa o vi si consacra nell’impossibilità di porsi il problema. Le Peuch, 2 maggio 1943. Dopo l’eclissi di ieri vedo di nuovo la luce. Ho capito molto chiaramente che ogni cosa va vista nella prospettiva dell’indubitabile esistenziale. Mostrare che questo indubitabile può presentare soltanto il carattere di una presenza da intercettare (si può parlare anche di luce). Da mettere in relazione con ciò che ho scritto l’altro giorno sulla presenza

moi-même. Ma grande faute a été, alors que j’avais trouvé un centre, de ne pas m’y tenir mais de continuer des investigations désordonnées. Complément sur: être en quête de... Ne soyons pas dupes d’une forme grammaticale: on ne cherche pas quelque chose purement et simplement, on cherche quelque chose à manger, ou à utiliser d’une façon déterminée. Dire que je suis en quête d’une certitude ne suffit pas. Qu’est-ce que je prétends faire de cette certitude? Peutêtre, avant tout, la proclamer. Mais ceci encore est insuffisant; car j’ai en vue quelqu’un devant qui je la proclamerai. Serait-ce moi-même? Quelqu’un pour qui il est intéressant que cette certitude soit proclamée; mais intéressant en quoi? S’agit-il simplement de combler une lacune? Sûrement non. Faudra-t-il faire intervenir ici la notion de puissance? Si j’ai la certitude que tel événement se produira, je puis agir en conséquence. Cette certitude me confère une certaine puissance par rapport à cet événement. Je peux m’y préparer, prendre des précautions, etc... Une telle certitude peut donc être possédée, au sens où on possède un moyen de... Ceci s’applique aussi à tout ce qui permet de résoudre une catégorie déterminée de problèmes. Mais ici, il en va autrement. Une confusion reste cependant toujours possible; je risque perpétuellement de perdre de vue cette différence d’essence entre une certitude possédée et la certitude existentielle dont je cherche ici à définir le caractère: la certitude possédée est, par essence, consignable et transmissible, elle n’est pas adhérente à celui qui l’a obtenue. Idée d’une certitude dont on se nourrit. N’est-ce là qu’un mot? Une certitude qui commanderait une certaine expansion intérieure. Mais ce n’est pas encore assez clair. Ne faudrait-il pas s’interroger sur le rapport de chacun de ces types de certitude, avec celui qui les formule d’une

a me stesso. Il mio grande errore è stato continuare ricerche disordinate anziché fondarmi sul punto essenziale, dopo averlo trovato. Aggiunta su “essere alla ricerca di…”. Non facciamoci ingannare da una struttura grammaticale. Non si cerca qualcosa tanto per cercare: si cerca qualcosa da mangiare, oppure da utilizzare in un modo ben preciso. Affermare che sono alla ricerca di una certezza non basta. Che cosa intendo fare di questa certezza? Innanzitutto, forse, proclamarla. Non basta ancora, però. Infatti ho in mente qualcuno di fronte al quale dichiararla. Si tratta forse di me stesso? Qualcuno per il quale è interessante che questa certezza venga proclamata. Interessante rispetto a che cosa, però? Si tratta semplicemente di colmare una lacuna? Sicuramente no. In questo caso bisognerà fare ricorso al concetto di potere? Se ho la certezza che un certo evento avrà luogo, posso agire di conseguenza. Questa certezza mi conferisce un certo potere rispetto a questo avvenimento. Posso tenermi pronto, prendere delle precauzioni, ecc. Una certezza di questo tipo può dunque essere posseduta come si possiede un mezzo per… Ciò si applica anche a tutto quello che permette di risolvere una determinata categoria di problemi. In questo caso le cose vanno diversamente, però. Si corre sempre il pericolo di confondersi: rischio continuamente di perdere di vista la differenza, a livello di essenza, tra certezza posseduta e certezza esistenziale, di cui sto tentando di definire le caratteristiche. Per la sua stessa natura la certezza posseduta può essere consegnata e trasmessa, e non fa tutt’uno con colui che l’ha ottenuta. Idea di una certezza di cui ci si nutre. Si tratta soltanto di parole? Una certezza che imporrebbe una certa espansione interiore. Non è ancora abbastanza chiaro, però. Non sarebbe necessario interrogarsi sul rapporto di ognuna di queste differenti certezze con colui che le formula

part, avec cela sur quoi elles portent d’autre part? La certitude objective tend à se dépersonnaliser; je ne suis satisfait qu’à condition de pouvoir dire: il est certain que. Référence à une structure dont je peux dire indifféremment qu’elle est celle des choses ou qu’elle est celle des idées. Le cas de la certitude existentielle est tout différent. Il n’est pas question ici d’évacuer le sujet, mais de le transmuer. Ceci encore est trop peu clair. Il faudrait concrétiser davantage, au besoin en partant d’une illustration imparfaite, par exemple de la certitude qui porte sur l’amour que j’éprouve pour un autre ou que cet autre éprouve pour moi. Nuées qui m’empêchent d’apercevoir une certaine constellation; mais la comparaison est trompeuse, en ce sens que les nuées dont il s’agit ici, en s’épaississant, peuvent sans doute affecter l’existence même de la constellation. Si je dis que la certitude existentielle porte sur le sens de la vie, ce sera à condition de prendre le mot sens dans une acception non intellectualiste; je me réfère à une expérience qu’on traduirait assez exactement en rappelant que la vie rend tantôt un son creux, tantôt un son plein. J’écris ceci un dimanche après-midi, dans un moment d’extrême fatigue, de dessèchement total, de décoloration absolue. Je suis au point mort. Le Peuch, 3 mai. J’ai l’impression que je tends à m’égarer. Peut-être n’y at-il rien à retenir de la dernière page. Il y a cependant à tirer parti des notes du 30 avril et du 2 mai sur la certitude. Les problèmes posés sont essentiels. De quel type est la satisfaction que visent à me procurer les formules que je cherche à inventer? Il n’y a pas de différence réelle entre la relation de

da una parte, con ciò cui si riferiscono dall’altra? La certezza oggettiva tende a spersonalizzarsi. Sono soddisfatto soltanto se posso dire: è certo che. Riferimento a una struttura di cui posso affermare indifferentemente che è quella delle cose oppure quella delle idee. Il caso della certezza esistenziale è affatto diverso. Qui non si tratta di svuotare il soggetto, ma di trasformarlo. Non è ancora abbastanza chiaro, tuttavia. Bisognerebbe concretizzare maggiormente, se necessario partendo da una esemplificazione imperfetta, ad esempio dalla certezza che ha il suo fondamento nell’amore che provo per un altro o che l’altro prova per me. Nuvole che mi tolgono la vista su una certa costellazione. Il confronto inganna, però, in quanto queste nuvole, diventando più spesse, possono raggiungere l’esistenza stessa della costellazione, non c’è ombra di dubbio. Posso affermare che la certezza esistenziale si riferisce al senso della vita a condizione di assumere il termine in un’accezione non intellettualistica. Mi riferisco a un’esperienza che potrebbe essere tradotta in modo alquanto preciso ricordando che la vita restituisce ora un suono vuoto ora un suono pieno. Sto scrivendo in una domenica pomeriggio, e in un momento di estrema stanchezza, di totale inaridimento, di grigiore assoluto. Sono arrivato a un punto morto. Le Peuch, 3 maggio 1943. Rischio di perdermi: ho questa impressione. Forse nell’ultima pagina non c’è nulla che meriti di essere conservato, ma si può ricavare qualcosa dalle annotazioni sulla certezza del 30 aprile e del 2 maggio. I problemi posti sono essenziali. Che tipo di soddisfazione possono procurarmi le massime che cerco di inventare? Non esiste nessuna reale differenza

moi-même à moi-même que suppose cette formulation et la relation de moi-même à autrui. J’essaie sur moi-même ce qui est destiné à autrui, comme un médecin qui commence par expérimenter des remèdes sur lui-même. Cette comparaison est excellente. Le médecin ne peut expérimenter sur soi que s’il est atteint à quelque degré du mal qu’il cherche à guérir chez les autres. Il faudra préciser ce que c’est que ce mal. Mais le médecin peut se trouver dans un état qui rende cette expérimentation impossible et stérile: de même je peux être dans un état qui me mette dans l’impossibilité de penser pour autrui. Je vise surtout une sorte de hérissement intérieur que je connais bien. Il a pour résultat de supprimer toute communion, toute intimité avec moi-même – et c’est là où je suis ouvert, à moi-même qu’il m’est donné, non par surcroît mais ipso facto, d’être ouvert à autrui, disponible pour autrui. On voit ici l’articulation de mes réflexions sur la certitude et de mes réflexions sur la présence. Il faut toutefois parvenir à mieux dégager la nature de la certitude ainsi recherchée. Je note que, par définition, je ne puis savoir exactement ce que je cherche, je ne puis m’en former une idée à priori: autrement ma recherche serait sans objet. Une certaine spécification est cependant possible. Je peux procéder par illustration: par exemple l’immortalité personnelle. Je cherche à exprimer pour moi-même, et par conséquent pour autrui, comment elle peut être pensée. A la base de cette recherche, y a-t-il un simple vœu? Sans doute, quand je souhaite que tel événement se produise, je sais que mon souhait ne change rien aux choses: en est-il de même ici? On serait d’abord tenté de le penser. Idée d’une structure objective de mon être qui exclut peut-être la possibilité d’une survie personnelle: comparaison avec tel exercice que je voudrais être capable de faire, mais auquel mon corps ne

tra la mia relazione con me stesso presupposta da questa formulazione e la mia relazione con l’altro. Sperimento su me stesso ciò che è destinato all’altro, proprio come un medico che in un primo momento prova dei farmaci su di sé. Eccellente confronto: il medico può sperimentare su se stesso soltanto se in qualche misura è colpito dallo stesso male che cerca di guarire negli altri. Bisognerà precisare di che male si tratti. Così come il medico può trovarsi in una condizione che rende impossibile e sterile questo esperimento, anche la mia situazione può essere tale da rendere impossibile pensare per l’altro. Ho in mente soprattutto una sorta di irrigidimento interiore che conosco bene, e che comporta il venir meno di ogni comunione, di ogni intimità con me stesso – mentre quando sono aperto a me stesso sono nelle condizioni ipso facto, non come sovrappiù, di essere aperto all’altro, disponibile per l’altro. Emerge qui l’articolazione delle mie riflessioni sulla certezza e sulla presenza. La natura della certezza oggetto di questa ricerca deve essere analizzata però con maggiore chiarezza. Per definizione io non posso sapere esattamente ciò che cerco, non posso formarmene un’idea a priori, altrimenti la mia ricerca non avrebbe oggetto. Si può tuttavia essere più precisi, e procedere attraverso un’esemplificazione, ad esempio l’immortalità personale. Cerco di esprimere per me stesso, e quindi per l’altro, come possa essere pensata. Alla base di questa ricerca vi è un semplice desiderio? Quando mi auguro che un certo avvenimento si verifichi so che il mio desiderio non cambia affatto la realtà delle cose, su questo non c’è dubbio. Si può dire la stessa cosa anche in questo caso? In un primo momento si avrebbe la tentazione di pensarlo. Idea di una struttura oggettiva del mio essere che esclude forse la possibilità di una sopravvivenza personale: confronto con un certo esercizio che vorrei essere capace di fare, ma per il quale il

se prête pas. Faut-il admettre, au contraire, qu’ici le besoin d’affirmer atteste la réalité de ce qui est affirmé? Spécifions qu’il s’agit beaucoup moins au départ de mon immortalité à moi que de celle des êtres que j’aime. Ceci rejoint ce que j’ai dit du défi le 30 avril. Etre en quête de, ici, c’est s’appliquer à faire prendre corps à ce qui avait d’abord été jeté, ou projeté. Ceci implique la lutte contre un élément comparable à l’eau pour celui qui travaille à la construction d’un pont. L’espérance, principe de projection: il doit être vrai que... Anticipation par rapport, non à l’événement, mais à ce qui peut être élaboré par une réflexion authentique. L’anticipation comme aiguillage transcendant de la réflexion. Prendre conscience en même temps des forces que l’anticipation mobilise contre elle-même: (cristallisation a contrario.) Note rédigée au retour de Carennac: la présence est intersubjective, elle ne peut pas ne pas s’interpréter comme expression d’une volonté qui cherche à se révéler à moi; mais cette révélation suppose que je ne lui fasse pas obstacle; bref, le sujet est traité non comme objet, mais comme foyer d’aimantation de la présence. A la racine de la présence, il y a un être qui tient compte de moi – qui est pensé par moi comme tenant compte de moi: or, par définition, l’objet ne tient pas compte de moi, je ne suis pas pour lui. Le Peuch, 4 mai. La présence comme réponse à l’acte par lequel le sujet s’ouvre pour l’accueil; elle est, en ce sens, don de soi. Il n’y a présence que de ce qui est susceptible de se donner.

mio corpo non è preparato. Si deve riconoscere al contrario che in questo caso il bisogno di affermare attesta la realtà di ciò che è affermato? Va precisato che all’inizio si tratta molto meno della mia propria immortalità che di quella degli esseri che amo. Ci si ricollega così a ciò che ho detto il 30 aprile a proposito della sfida. In questo caso essere alla ricerca di significa darsi da fare per concretizzare ciò che in un primo momento era stato posto, o progettato. Questo implica la lotta contro un elemento paragonabile all’acqua per colui che costruisce un ponte. La speranza, principio di previsione: deve essere vero che… Anticipazione non rispetto all’avvenimento ma a ciò che può essere elaborato da una riflessione autentica. L’anticipazione come orientamento trascendente della riflessione. Prendere coscienza nello stesso tempo delle forze che l’anticipazione mette in moto contro se stessa: (cristallizzazione a contrario). Annotazione elaborata al ritorno da Carennac: la presenza è intersoggettiva, non può non essere interpretata come espressione di una volontà che cerca di rivelarsi a me. Questa rivelazione presuppone però che io non le faccia da ostacolo. In breve, il soggetto è trattato non come oggetto ma come centro di attrazione della presenza. Alla base della presenza si trova un essere che tiene conto di me – che è da me pensato come qualcuno che tiene conto di me. Per definizione l’oggetto non tiene invece conto di me, io non sono per lui. Le Peuch, 4 maggio 1943. La presenza come risposta all’atto con il quale il soggetto si apre per accogliere. In questo senso è dono di sé. Si dà presenza soltanto di ciò che è suscettibile di donarsi.

On manque probablement l’essentiel en disant simplement que le sujet a à se faire reconnaître par le sujet: non que ce soit faux, mais c’est insuffisant, car ce qui compte ici c’est l’initiative qui n’émane pas du sujet initial; c’est au fond la grâce, ou quelque chose qui s’en rapproche beaucoup. (Il faudrait s’interroger sur le rapport entre présence et valeur: ceci est beaucoup plus difficile. Je crois qu’il peut y avoir une présence maléfique; je peux l’accueillir en moi, cette présence-là, comme l’autre.) Il est donc tout à fait juste de dire avec B... qu’il n’y a pas de sens à parler de présence en soi. Se demander ce que ce serait qu’une présence éternelle, indéfectible. Mais tout ceci doit être relié à ce que j’ai écrit le 30 avril sur la présence à moi-même. Il y a en moi de l’intersubjectif – c’est-à-dire des possibilités d’intimité avec moi-même, mais aussi une déficience possible par rapport à cette intimité qui peut tomber à peu près à zéro. Je peux me refermer sur moi, au point de ne plus du tout communiquer avec moi-même, et à fortiori avec les autres. L’introspection vient – ou risque de venir – brouiller toutes ces notions si délicates; elle n’a rien à voir avec l’intimité que j’évoque. Ce n’est pas du tout être intime avec moi-même que prendre une conscience transperçante de tel ou tel mouvement ténu de mon amour-propre par exemple. Peut-être conviendrait-il de partir d’un examen beaucoup plus précis de l’intersubjectif en général: j’observe, par exemple, un des miens qui est en train de manger, je m’irrite de sa lenteur ou de sa voracité: «il n’en finira donc jamais!» L’autre est absorbé et ne fait pas attention à moi. Nous sommes aussi séparés que possible. Il n’y a pas de lien intersubjectif entre nous. L’autre n’est pas présent pour moi, il est simplement «cette tortue» ou «ce glouton»... il ne s’occupe pas de moi; cela lui est bien égal de me faire attendre; que

Probabilmente si perde di vista l’essenziale affermando semplicemente che il soggetto deve farsi riconoscere dal soggetto: non è falso, ma è insufficiente. Infatti ciò che conta in questo caso è l’iniziativa, che non proviene dal soggetto iniziale: in fondo si tratta della grazia, o di qualcosa che le assomiglia molto. (Bisognerebbe interrogarsi sul rapporto tra presenza e valore, ma è molto più difficile. Può esserci una presenza malefica, che posso accogliere in me proprio come l’altra). È dunque corretto affermare con B. che non ha senso parlare di presenza in sé e per sé. Chiedersi cosa sarebbe una presenza eterna, indefettibile. Tutto ciò deve essere messo in relazione con ciò che ho scritto il 30 aprile sulla presenza a me stesso. In me esiste dell’intersoggettivo – cioè delle possibilità di intimità con me stesso, ma anche una possibile deficienza rispetto a questa intimità, che può quasi azzerarsi. Posso chiudermi in me al punto da non comunicare più per niente con me stesso, e quindi, a maggior ragione, con gli altri. L’introspezione confonde – o rischia di confondere – tutti questi concetti così delicati: non ha niente in comune con l’intimità alla quale mi riferisco. Avere una coscienza che penetra dentro questo e quel movimento del mio amor proprio, ad esempio, non significa affatto essere in intimità con me stesso. Forse sarebbe meglio partire da un’analisi molto più precisa dell’intersoggettivo in generale. Osservo uno dei miei mentre mangia, ad esempio, e mi irrito per la sua lentezza o per la sua voracità: “Non finirà mai!”. L’altro è completamente preso e non mi presta attenzione. Non potremmo essere più separati di così. Tra di noi non c’è nessun legame intersoggettivo. L’altro non è presente per me, è semplicemente “questa tartaruga” oppure “questo ingordo”… Non si occupa di me. Farmi aspettare gli è assolutamente indiffe-

lui importe s’il ne reste rien pour moi au fond du plat! bon exemple de ce que j’appelais hier le hérissement; c’est le «et moi là-dedans?» que j’évoque dans la conférence sur moi et autrui. L’unité possible du nous est brisée, à la fois par le fait que l’autre est trop absorbé pour prendre garde à moi, et par le fait que moi je le considère avec agacement et du dehors. La situation se modifie légèrement si l’autre s’aperçoit que j’ai fini depuis longtemps et que j’attends, et s’il s’en excuse. Dès le moment où il tient compte de moi, il cesse d’être pour moi-même objet pur. Encore faut-il que j’aie l’impression qu’il ne s’est pas borné à m’adresser là quelques mots de simple politesse. Je copie le post-scriptum de ma lettre à B...: «II faudrait insister sur le fait que la présence à moi-même est la condition nécessaire faute de laquelle la valeur cesse d’être éprouvée, et même reconnue. Ici il faut se référer à ces états de secheresse absolue, qui sont d’ailleurs tout à fait compatibles avec la conscience que le moi éprouve d’être à vif, de n’être plus que plaie – une plaie brûlante, on ne peut supporter l’idée qu’un autre pourrait la toucher. Ce noli me tangere peut d’ailleurs subsister alors même que la douleur initiale est endormie.» Il y aurait une étude à faire de la conscience ombrageuse qui éclairerait bien des témoignages contemporains. Plus on est centré sur soi – comme on l’est sur un organe souffrant, sur une dent malade – plus la valeur est récusée. C’est qu’au fond le désespoir se confond avec la solitude, et il n’y a pas de valeur sans communion. Seulement, ces mots peuvent tromper: il y a une solitude, celle des grands contemplatifs, qui est une communion; et il y a aussi de fausses communions qui ne sont qu’aliénation. Il faudrait avoir en français une gamme de mots comme celle qui existe en anglais entre solitary, lonely, forlorn. Le terme d’isolement n’est guère uti-

rente. Cosa gli importa se per me non resta niente in fondo al piatto! Bell’esempio di ciò che ieri ho chiamato irrigidimento. Si tratta del “e io cosa c’entro?” che richiamo nella conferenza sull’io e l’altro. La possibile unità del noi va in frantumi, da una parte perché l’altro è troppo preso per prendersi cura di me, dall’altra perché io lo considero con irritazione e dall’esterno. La situazione cambia leggermente se l’altro si rende conto che ho finito da un bel po’ e che sto aspettando, e quindi si scusa. Dal momento in cui tiene conto di me non mi si presenta più come puro oggetto. Bisogna inoltre che io abbia la sensazione che non si è limitato a rivolgermi alcune parole di cortesia, semplicemente. Riporto il post scriptum della mia lettera a B.: “Sarebbe necessario insistere sul fatto che la presenza a me stesso è la condizione necessaria in mancanza della quale il valore cessa di essere sentito, e anche riconosciuto. Ci si deve riferire agli stati di aridità assoluta, che sono comunque del tutto compatibili con la coscienza dell’io di essere messo a nudo, di non essere che piaga – una piaga che brucia. L’idea che un altro possa toccarla è insopportabile. Questo noli me tangere può d’altronde continuare anche quando il dolore iniziale si è attenuato.” Bisognerebbe fare uno studio sulla coscienza diffidente: chiarirebbe molte testimonianze contemporanee. Più si è centrati su se stessi – come lo si è su un organo sofferente, su un dente malato – più il valore viene ricusato. In fondo la disperazione si confonde con la solitudine, e non c’è valore senza comunione. Queste parole possono però ingannare: esiste una solitudine, quella dei grandi contemplativi, che è una comunione. Ed esistono anche delle false comunioni che non sono altro che alienazione. Nella lingua francese servirebbero dei termini come quelli che esistono in inglese: solitary, lonely, forlorn. Il termine isolamento non si può af-

lisable, car il implique une certaine nostalgie – et la solitude négative est au contraire répulsive, elle est à base de refus. C’est à la lumière de ces indications qu’on pourrait aborder la question de savoir si la vérité est subjective. La vérité est une valeur, et c’est pour cela que l’on peut aimer la vérité, souffrir ou mourir pour elle. Il y aurait lieu de se référer ici aux situations tragiques où nous la voyons foulée aux pieds, par exemple au cours d’un procès, ou encore par des charlatans qui tronquent leurs expériences afin de séduire une clientèle – et où nous nous consacrons, quoi qu’il puisse nous en coûter, à rétablir dans ses droits cette vérité piétinée. Il est clair que la vérité n’est aucunement une présence, mate aussi que nous ne pouvons adopter cette attitude de témoin militant qu’à condition de communier avec nousmême et avec une infinité d’êtres que symbolise sans doute pour nous telle figure exemplaire de maître ou d’ami. Ceci par opposition à l’ironie du cynique qui assiste aux abus comme à autant de spectacles propres à le confirmer dans son nihilisme préalable. Transcendance et inconditionnalité de la valeur: c’est la valeur qui pose les conditions. Le propre de la valeur est d’assumer une certaine fonction par rapport à la vie à laquelle elle confère un certain sceau. Mais qu’entendre au juste par là? Ne pas être dupe d’une métaphore. La notion de consécration intervient ici de deux façons: si je consacre ma vie à une valeur, cette valeur, en retour, la consacre. Mais ceci est encore bien vague. Supposons que j’assigne comme but à ma vie l’accumulation des richesses – je pourrais poser en principe que chacun devrait en faire autant: ou bien il s’agit pour moi de mettre à ma disposition des moyens aussi puissants que possible pour m’assurer un jour certaines jouissances – ou bien (même si

fatto utilizzare, poiché implica una certa nostalgia – mentre la solitudine negativa è al contrario repulsiva, si fonda sul rifiuto. Proprio alla luce di queste indicazioni, ci si potrebbe chiedere se la verità sia soggettiva. La verità è un valore, e proprio per questo si può amarla, soffrire o morire per essa. Sarebbe il caso di riferirsi alle situazioni tragiche in cui la vediamo calpestata, ad esempio durante un processo, oppure da ciarlatani che storpiano le loro esperienze per ingannare la clientela – e a quelle in cui noi ci consacriamo, costi quel che costi, a ristabilirla nei suoi diritti. È evidente che la verità non è affatto una presenza, così come è evidente anche che noi possiamo fare nostro l’atteggiamento del testimone militante solo a condizione di comunicare con noi stessi e con un’infinità di esseri rappresentati senza dubbio per noi da una certa figura esemplare di maestro o di amico. E tutto ciò in contrapposizione all’ironia del cinico, che si pone di fronte ai soprusi come se fossero altrettanti spettacoli che confermano il suo preesistente nichilismo. Trascendenza e incondizionalità del valore: è il valore che pone le condizioni. Proprio del valore è assumere una determinata funzione rispetto alla vita alla quale conferisce un certo sigillo. Ma che cosa si deve intendere esattamente con ciò? Non farsi ingannare da una metafora. Il concetto di consacrazione interviene qui in due modi: se io consacro la mia vita a un valore, di riflesso questo valore la consacra. Tutto ciò è ancora piuttosto vago, però. Supponiamo che io abbia individuato come scopo della mia vita accumulare ricchezze – potrei porre come principio che ognuno deve fare la stessa cosa: o devo mettere a mia disposizione mezzi tanto potenti da garantirmi un giorno il godimento di certi piaceri – oppure (ma l’idea di que-

l’idée de ces jouissances subsiste à l’arrière-plan) je trouve mon plaisir dans cette accumulation même, ma vie trouve son sens dans l’acte même de m’enrichir. Dira-t-on que l’acte par lequel on jugera une existence ainsi orientée inférieure à une vie placée sous le signe de l’art ou de la science n’a lui-même qu’une portée toute subjective? Mais la question est mal posée: on peut douter que ce soit mieux de passer sa vie à barbouiller des toiles que de travailler à s’enrichir. Malgré l’intervention du mot art, il n’est pas sûr que la valeur, au sens ultime de ce mot, soit présente ici plutôt que là. On peut aussi débiter de la peinture comme de la confiserie sans qu’il y ait aucune différence intrinsèque entre ces deux commerces. La valeur n’intervient qu’avec une certaine rigueur dans l’exigence qu’on formule vis-à-vis de soi-même. Mais ce n’est pas encore là une solution: prenons l’artiste manqué qui a un idéal mais n’arrive pas à le réaliser; ce n’est guère que du point de vue éthique qu’on pourra l’estimer, et encore sera-t-il permis de penser qu’il a gâché ses forces, qu’il aurait mieux fait de reconnaître son impuissance et de viser moins haut: j’entends par là de renoncer à l’art et de prendre un métier ordinaire. Il suit de là qu’il peut être tout à fait faux d’attribuer à la valeur la faculté de justifier et d’ennoblir la vie de celui qui croit s’y consacrer; et précisément, l’exemple du faux artiste ne saurait être trop profondément médité. La valeur peut devenir le prétexte dont je me sers pour tenter de justifier mon existence à mes propres yeux. Rôle de la complaisance à soi-même. C’est la parodie de la présence à soi-même. Je note que la complaisance à soi-même, et l’attendrissement sur soi-même auquel j’ai souvent songé sans en déceler la nature, sont voisins. Je me demande s’il n’y a pas toujours de la prétention à penser qu’on se consacre à la valeur. Personne n’ose, ou ne

sti piaceri continua a rimanere sullo sfondo) provo piacere nell’atto stesso di accumulare, la mia vita trova il suo senso nell’atto stesso di arricchirmi. Si dirà forse che l’atto con il quale si giudica un’esistenza così orientata inferiore a una vita posta all’insegna dell’arte o della scienza ha una portata del tutto soggettiva? Il problema è mal posto, però: si può avere il dubbio se sia meglio passare la propria vita a imbrattare tele piuttosto che a lavorare per arricchirsi. Nonostante intervenga il termine arte, non è certo che il valore, nel significato ultimo della parola, sia presente più in un caso che nell’altro. Si può anche vendere la pittura come si vendono dolciumi, senza nessuna differenza intrinseca tra questi due tipi di commercio. Il valore interviene soltanto con una certa durezza nell’esigenza che si formula di fronte a se stessi. Non è ancora una soluzione, però. Prendiamo in considerazione il caso di un artista mancato che ha un ideale ma non riesce a realizzarlo. Lo si potrà valutare solo dal punto di vista etico, e inoltre si avrà il diritto di pensare che ha sprecato le sue energie, che avrebbe fatto meglio a riconoscere la sua impotenza e a mirare meno in alto. Intendo dire: rinunciare all’arte e fare un mestiere qualsiasi. Ne deriva che può essere del tutto falso attribuire al valore il potere di giustificare e di nobilitare la vita di colui che crede di consacrarsi a esso. Per la precisione, non si rifletterà mai abbastanza in profondità sull’esempio del finto artista. Il valore può diventare il pretesto di cui mi servo per tentare di giustificare ai miei occhi la mia esistenza. Ruolo della compiacenza nei confronti di se stessi. Si tratta della parodia della presenza a se stessi. Rilevo che la compiacenza verso se stessi, e l’intenerirsi con se stessi, sui quali ho spesso riflettuto senza svelarne però la natura, si assomigliano. Mi chiedo se pensare di consacrarsi al valore non presupponga sempre della presunzione. Nessuno osa, o dovrebbe

devrait oser, dire de soi-même: «je suis au service de la beauté ou de la vérité»; ceci ne pourrait être dit que par autrui et sentirait d’ailleurs terriblement l’oraison funèbre. Celui qui est engagé dans une certaine tâche, quelle qu’elle soit, si c’est une tâche authentique à laquelle il se donne, n’aura même pas l’idée de la définir ainsi, et cela qu’il travaille dans la peine ou dans la joie. Décalage redoutable entre le témoignage direct et le commentaire du philosophe. Le philosophe, parlant du véritable artiste ou du vrai savant, doit se garder d’en parler comme parlerait de lui-même le faux artiste ou le faux savant. Le Peuch, 5 mai. Décidément, je trouve l’expression: présence à soi-même «misleading». Elle est propre à nous égarer. Il faudrait trouver un autre mot, je renonce à le chercher pour le moment. Mais il y aurait lieu d’opposer le mot: œuvrant, au mot: désœuvré: la complaisance à soi-même est toujours liée au désœuvrement. Réfléchir sur les conditions de possibilité de la conscience œuvrante. Ce qui risque de tout fausser, c’est l’image d’un outil attaquant une certaine matière pour la façonner. La conscience œuvrante n’est aucunement assimilable à un outil. Son action est immanente: reprendre de ce point de vue le problème de l’attention. On pourrait prendre comme exemple la lecture, l’acte qui consiste à s’absorber dans ce qu’on lit: il y aurait ici une hiérarchie à instituer. L’exemple de la lecture est assez bon parce qu’elle se trouve à la limite de l’œuvrant et du désœuvré. Il y a une lecture qu’on ne fait que pour tuer le temps, on lit comme on se rongerait les ongles. Il y aurait à faire intervenir ici la notion, si difficile

osare, dire di se stesso: “io sono al servizio della bellezza o della verità”. Una tale affermazione potrebbe essere fatta solo dall’altro, e avrebbe d’altronde un terribile sapore di discorso funebre. Chi è impegnato in un certo compito, qualunque esso sia, non sarà minimamente attraversato dall’idea, se si tratta di un compito autentico al quale si dà con tutto se stesso, di definirlo in questo modo, sia che lavori soffrendo sia che lavori nella gioia. Terribile sfasatura tra la testimonianza diretta e il commento del filosofo. Il filosofo, riferendosi al vero artista o al vero sapiente, deve guardarsi dal parlarne come parlerebbe di sé stesso il falso artista o il falso sapiente. Le Peuch, 5 maggio 1943. Trovo decisamente “misleading” l’espressione “presenza a se stesso”: è fatta proprio per portarci fuori strada. Bisognerebbe individuare un altro termine, ma per il momento vi rinuncio. Sarebbe il caso di contrapporre l’espressione “che si dà da fare” a “sfaccendato”. La compiacenza verso se stessi è sempre legata all’inoperosità. Riflettere sulle condizioni di possibilità della coscienza all’opera. L’immagine di un attrezzo che aggredisce una certa materia per modellarla rischia di falsare tutto. La coscienza di chi si dà da fare non si può affatto assimilare a un attrezzo. La sua azione è immanente: riprendere il problema dell’attenzione da questo punto di vista. Un utile esempio potrebbe essere quello della lettura, atto che consiste nell’immergersi in ciò che si legge, ma bisognerebbe stabilire una gerarchia. L’esempio della lettura funziona perché si trova al limite tra il darsi da fare e l’essere sfaccendati. Esiste un tipo di lettura che serve soltanto a ingannare il tempo: leggere è come mangiarsi le unghie. Qui tornerebbe utile il concetto,

à préciser, d’un sérieux par opposition au passe-temps. Dans un cas on se met tout entier, dans l’autre on se réserve et on distrait une faible partie de ses forces, c’est-à-dire avant tout de son attention. Il est évident que le jeu pour l’enfant n’est pas un passe-temps. Il faudrait se demander ce que signifie au juste: se passionner pour..., être captivé par... On rejoint peut-être ici la single-mindedness de Charles Morgan. Le Peuch, 6 mai. Je crains qu’il n’y ait dans tout ceci une certaine confusion. L’idée de sérieux est importante, la conscience œuvrante prend au sérieux ce qu’elle fait, mais ce n’est pas nécessairement là se passionner. Je ne sais pas si la distinction proposée hier peut rendre les services que j’attendais d’elle. Il peut y avoir là au contraire une source de confusion: la conscience contemplative n’est sûrement pas une modalité de la conscience désœuvrée, mais peut-on la rapporter à la conscience œuvrante? Ceci obligerait, en tout cas, à élargir, à assouplir considérablement la notion. Je me demandais cette nuit si on ne pourrait pas dire que l’idée de valeur a le grand inconvénient de transposer sur le plan de la conscience désœuvrée une implication de la conscience œuvrante, mais je ne sais si cette remarque doit être retenue. La distinction est valable à tout le moins pour autant qu’elle oppose engagement et gratuité, mais cette opposition n’a pas un caractère absolu, il y a là toute une gamme, discernable par exemple pour la lecture, comme je l’ai dit. Mais dans l’idée de conscience œuvrante, il y a quelque chose de plus: la transformation d’un certain contenu, j’irai jusqu’à dire qu’observer c’est déjà œuvrer.

così difficile da precisare, di atto serio in contrapposizione a passatempo. In un caso la dedizione è totale, nell’altro ci si risparmia e si volge altrove una piccola parte delle proprie forze, prima di tutto della propria attenzione. È evidente che per il bambino il gioco non è un passatempo. Bisognerebbe chiedersi che cosa significhi esattamente “appassionarsi a…”, “essere affascinato da…”. Su questo ci si ricollega forse alla single-mindedness di Charles Morgan. Le Peuch, 6 maggio 1943. Temo che tutto ciò sia un po’ confuso. L’idea di serietà è importante, la coscienza che si impegna prende sul serio ciò che fa, ma ciò non significa necessariamente appassionarsi. Non so se la distinzione proposta ieri possa avere l’utilità che speravo, può al contrario creare confusione. La coscienza contemplativa non è sicuramente un modo di essere della coscienza sfaccendata. Si può ricollegarla però alla coscienza impegnata? Per farlo si dovrebbe in ogni caso estendere e attenuare notevolmente il concetto. Durante la notte mi chiedevo se si possa affermare che l’idea di valore ha il grande inconveniente di trasporre sul piano della coscienza sfaccendata un’implicazione della coscienza impegnata. Questa osservazione va conservata? Non lo so. La distinzione è valida, almeno nella misura in cui contrappone impegno e gratuità, ma senza avere un carattere assoluto. Esiste una vasta gamma, evidente ad esempio nel caso della lettura, come ho già messo in rilievo. Nell’idea di coscienza impegnata, però, c’è qualcosa di più: la trasformazione di un certo contenuto. Mi spingerò fino ad affermare che osservare è già essere all’opera.

Le Peuch, 7 mai. Je suis arrivé à un point mort et retourne à mes recherches sur la paternité. La paternité, aspect essentiel de l’ordre naturel: mais rien de plus difficile que de penser l’ordre naturel parce que c’est, d’une façon générale, à partir de lui que nous pensons: il est pris pour accordé. Nous ne sommes placés dans la nécessité de le penser que dès le moment où cet ordre se trouve mis en question. D’ailleurs, ce qui déclenche la réflexion, c’est un certain désarroi. Qu’entendre exactement par là? J’éprouve un désarroi quand je me trouve brusquement placé en face d’une situation sur laquelle il me semble que je n’ai pas de prise; disons encore que cette situation implique qu’un certain appel me semble bien m’être lancé; mais je n’ai pas en moi de quoi y répondre correctement; c’est comme si je n’étais pas muni de l’équipement nécessaire. Dans ces conditions, je ne puis que me livrer à une sorte de gesticulation incoordonnée et inefficace, à laquelle je renonce bien vite parce qu’elle me paraît vaine et ridicule. J’en suis réduit à espérer que les choses s’arrangeront d’elles-mêmes mais, en même temps, la conscience de l’appel subsiste comme un malaise; je ne parviens pas à me persuader moi-même que tout cela ne me regarde pas. En sorte que je reste troublé, mécontent de moi – et c’est en vain que je tenterai peut-être de rejeter la responsabilité de cet état de choses sur une puissance extérieure, la chance, le destin ou Dieu. Mais dans ces conditions, je serai du moins tenu de procéder à un examen réfléchi de la situation et de reconnaître si vraiment un appel m’a été lancé, si j’ai une responsabilité ou si j’ai été victime d’une erreur. Appliquons ceci à la crise de l’autorité paternelle qui va en se généralisant. Ses causes sont multiples. Elle corre-

Le Peuch, 7 maggio 1943. Ritorno alle mie ricerche sulla paternità perché sono arrivato a un punto morto. La paternità, aspetto essenziale dell’ordine naturale. Nulla di più difficile, però, che pensare l’ordine naturale. Infatti, in generale, è a partire da esso che noi riflettiamo: è considerato come già dato. Soltanto nel momento in cui questo ordine viene messo in discussione abbiamo bisogno di pensarlo. D’altronde ciò che scatena la riflessione è un certo smarrimento. Che cosa si deve intendere con ciò? Mi sento smarrito quando improvvisamente mi trovo di fronte a una situazione sulla quale mi sembra di non avere presa. Questa situazione comporta inoltre – almeno così mi sembra – che mi viene lanciato un certo appello, per rispondere adeguatamente al quale non ho però le risorse: è come se mi mancasse l’equipaggiamento necessario. In queste condizioni non posso che affidarmi a una specie di gesticolazione priva di coordinamento e di efficacia, alla quale rinuncio assai velocemente perché mi sembra vana e ridicola. Mi riduco così a sperare che le cose si sistemino da sole, ma nello stesso tempo la consapevolezza dell’appello continua a mettermi a disagio. Non riesco a convincere me stesso che tutto ciò non mi riguarda, e rimango dunque turbato, scontento di me – ed è invano che proverò forse a far ricadere la responsabilità di questo stato di cose su una forza esterna: la fortuna, il destino o Dio. Se le condizioni sono queste, però, sarò tenuto almeno a fare un attento esame della situazione e a riflettere su di essa, e a capire se veramente mi sia stato lanciato un appello, se io abbia una responsabilità oppure se sia stato vittima di un errore. Applichiamo queste considerazioni alla crisi dell’autorità paterna che sta diventando sempre più generale, e le cui cau-

spond sans doute au développement d’une sorte d’individualisme anarchique à base de faiblesse. Mais on ne peut en rendre compte, je crois, qu’à partir d’une donnée beaucoup plus centrale qui a le caractère d’une perte de conscience; une conscience qui porte sur le lien spécifique entre père et enfant. Observons tout de suite que le mot lien est ici insuffisant, et même impropre. En vérité, ce qui est en cause ici n’est pas une relation. La relation n’est qu’une traduction logique, infiniment appauvrie et desséchée de quelque chose qui répugne à se laisser conceptualiser. C’est justement sur les assises concrètes de la relation que l’investigation doit porter; comme toujours en pareil cas, on ne peut procéder que par approches concentriques, et souvent en faisant appel à la méthode négative qui s’impose partout où nous nous appliquons à saisir du transcendant. Nécessité de se référer à des situations concrètes. L’invariance est infiniment plus marquée en ce qui concerne le rapport entre la mère et l’enfant. Ici le lien charnel ne peut pas ne pas être profondément senti. Ce qui peut arriver, mais dans des cas relativement rares, c’est que la mère éprouve envers l’enfant un ressentiment et comme une rancune persistante; il est probable que les conditions qui tendent à prévaloir dans les pays en partie dévitalisés contribuent à rendre ces anomalies plus fréquentes. Le cas du père est tout à fait différent. Son attitude en face de l’enfant est bien moins directement commandée par les réalités organiques immédiatement vécues. Si l’on s’en tient à l’ordre biologique – par opposition à un ordre social défini – il est strictement possible pour l’homme d’ignorer les suites de l’acte sexuel et de s’en désintéresser complètement. Cette remarque est capitale si l’on veut mesurer l’abîme qui sépare procréation et paternité. Passons tout de suite à la limite. Imaginons un homme qui se trouve mis en présence d’un enfant inconnu et amené, par suite des circonstances,

se sono molteplici. Corrisponde sicuramente allo sviluppo di una sorta di individualismo anarchico impastato di debolezza. Si può renderne conto, però, solo a partire da un dato molto più centrale, che si presenta come una perdita di coscienza, la quale si riferisce allo specifico legame tra padre e figlio. In questo caso, bisogna precisarlo subito, il termine legame è però insufficiente, e anche improprio. In verità a essere qui in causa non è una relazione. La relazione non è altro che una traduzione logica, infinitamente impoverita e inaridita, di qualcosa che non si lascia concettualizzare. L’analisi deve basarsi invece proprio sui fondamenti concreti della relazione. Come sempre in questi casi, si può procedere soltanto per accostamenti concentrici, e richiamandosi spesso al metodo negativo che si impone sempre quando cerchiamo di cogliere qualcosa di trascendente. Necessità di riferirsi a situazioni concrete. L’invarianza è molto più accentuata nel rapporto tra madre e figlio: in questo caso il legame carnale non può non essere profondamente sentito. Può succedere però, ma in casi relativamente rari, che la madre provi nei confronti del figlio risentimento e una sorta di rancore persistente. È probabile che le condizioni che tendono a diffondersi nei paesi in parte devitalizzati contribuiscano a rendere più frequenti tali anomalie. Il caso del padre è completamente differente. Il suo atteggiamento di fronte al bambino è imposto meno direttamente dalle realtà organiche vissute in modo immediato. Se si rimane sul piano biologico – contrapposto a un piano sociale definito –, è possibile che l’uomo ignori rigorosamente le conseguenze dell’atto sessuale, e se ne disinteressi completamente. Questa osservazione è fondamentale se si vuole misurare l’abisso che separa procreazione e paternità. Concentriamoci subito su una situazione limite. Immaginiamo il caso di un uomo che viene a trovarsi di fronte a un figlio sconosciuto, e viene convinto, tenendo conto delle circostanze,

à se convaincre que cet enfant est le sien, c’est-à-dire que la naissance de cet enfant a été la suite d’une rencontre sans lendemain dont il garde à peine le souvenir; il pourra se faire assurément qu’un travail intérieur, à la suite de cette découverte, s’opère dans l’imagination de cet homme, et même que son affectivité entre en jeu; il pourra se faire aussi que, pour des motifs assez peu avouables, cet homme se garde activement de laisser ce travail s’opérer en lui. Ce qui joue au fond ici, c’est la conviction, si informulée soit-elle, qu’on n’est père que si on le veut bien et, d’autre part, qu’être père entraîne des responsabilités qu’il vaut mieux ne pas assumer si on n’y est pas prêt. Je n’ai envisagé ici qu’un cas extrême et qui pourrait paraître relever plutôt du mélodrame que de la réflexion philosophique. Rapprochons-nous maintenant des données de l’expérience commune. Evoquons le cas d’un couple marié qui ne s’est jamais soucié devoir des enfants et qui, d’autre part, peut-être par négligence, n’a pris aucune précaution anticonceptionnelle. Un enfant vient au monde sans avoir été souhaité, au moins par le père qui se préoccupe surtout des charges pécuniaires que comportera pour lui la présence de cet indésirable; qui, d’autre part, ne croyant pas à la vie, s’attriste peut-être confusément de la venue au monde d’un petit être qu’attendent sans doute tant de déconvenues et qui, peut-être, à vingt ans, mourra sur quelque champ de bataille. Efforçons-nous de faire affleurer à la conscience l’idée que le père se forme du lieu qui l’unit à son enfant: admettons que nous ayons affaire à un être moyen, non point inhumain ou dénaturé. Ce qui commande tout, c’est le type de relations qui existe entre les époux; sans doute sont-ils unis par un solide égoïsme à deux, celui que symbolisaient si bien les tandems ouvriers de 1936. L’enfant se présente au père d’abord comme un gêneur; à sa mère, à condition qu’elle ne soit pas dénaturée, il donnera d’autant plus qu’el-

che il bambino è suo, cioè che la sua nascita è il frutto di un incontro senza futuro di cui ha a malapena conservato il ricordo. Potrà succedere sicuramente che questa scoperta provochi un lavorio interiore nell’immaginazione di questo uomo, e anche che entri in gioco la sua affettività. Potrà accadere anche che, per motivi ben poco confessabili, questo uomo si dia da fare perché in lui questo lavorio non avvenga. In questo caso a fare gioco, in fondo, è la convinzione, anche se non espressa, che si è padre soltanto se lo si desidera, e che, d’altra parte, essere padre comporta responsabilità che è meglio non assumersi se non si è pronti. Mi sono riferito a un caso limite, che potrebbe sembrare uscito più dal melodramma che dalla riflessione filosofica. Ritorniamo ora ai dati della comune esperienza. Ci si può riferire al caso di una coppia sposata che non si è mai posta il problema di avere dei bambini e che comunque, forse per negligenza, non ha mai preso nessuna precauzione anticoncezionale. Viene al mondo un bambino non voluto, almeno da parte del padre, che si preoccupa soprattutto del carico finanziario che comporterà per lui la presenza di questo indesiderato. Lo stesso padre, d’altra parte, non credendo alla vita, si rattrista, forse confusamente, per la venuta al mondo di un piccolo essere che dovrà affrontare tante delusioni e che forse a vent’anni morirà su qualche campo di battaglia. Proviamo a considerare l’idea che il padre si forma del legame che lo unisce al suo bambino: ammettiamo di avere a che fare con un essere normale, né inumano né snaturato. A condizionare tutto è il tipo di relazione che esiste tra gli sposi. Sono sicuramente uniti da un solido egoismo a due, così ben simbolizzato dai tandem operai del 1936. Il figlio si presenta al padre prima di tutto come uno scocciatore; a sua madre, purché non sia snaturata, darà tanto più

le-même donnera davantage. Bien entendu, si le père n’est pas complètement dépourvu de sensibilité, la présence de l’enfant suscitera chez lui des sentiments positifs qui lutteront contre l’agacement ou l’exaspération initiale: sentiments nuancés d’affection, de curiosité, parfois de commisération, parfois aussi de fierté. Mais tant que cette présence n’aura pas contribué à éveiller, en quelque sorte rétroactivement, le vœu que normalement elle devrait combler, on peut dire que l’existence du sentiment paternel continuera à faire défaut.

*** Evoquant les affreuses heures passées rue Meissonnier pendant les premiers mois de 1940, je pensais à l’insondable tristesse qui s’attache aux choes abandonnées par celui qui n’est plus là, aux dépouilles; il y aurait à s’interroger sur leur statut ontologique. C’est vraiment comme si les choses abandonnées se lamentaient et, cette tristesse, c’est comme une contagion qu’elle exerce sur nous, les survivants. Qu’il y ait une tristesse dans les choses (rappelons-nous Virgile), c’est ce qu’on aurait tort de nier. On admet communément que nous la mettons dans les choses, mais ici ma conception de la présence comme intersubjective se révèle tout à fait éclairante. Sans doute, cette tristesse est pour nous, on ne peut pas tout à fait dire qu’elle vient de nous: notre gaieté peut tomber brusquement à la vue d’un paysage ou d’un assemblage de choses d’où se dégage une impression de désolation; une explication associationniste serait ici bien insuffisante.

quanto più lei darà. Nel padre, a meno che non sia completamente privo di sensibilità, la presenza del bambino susciterà sentimenti positivi che cozzeranno con l’irritazione o l’esasperazione iniziale: sentimenti con sfumature di affetto, di curiosità, talvolta di commiserazione, talvolta anche di fierezza. Ma finché questa presenza non avrà contribuito a risvegliare, in qualche modo retroattivamente, il desiderio che di solito tale presenza realizza, il sentimento paterno continuerà a essere carente.

*** Ricordando le ore terribili trascorse in rue Meissonnier durante i primi mesi del 1940, pensavo all’insondabile tristezza delle cose abbandonate da chi non è più presente, alle spoglie. Bisognerebbe interrogarsi sul loro statuto ontologico. È veramente come se le cose abbandonate si lamentassero, e questa tristezza è come un contagio che si propaga su di noi, i sopravvissuti. Non è possibile negare che esista una tristezza nelle cose (ricordiamo Virgilio). Di solito si sostiene che siamo noi a infonderla nelle cose, ma in questo caso la mia concezione della presenza come intersoggettiva si rivela veramente chiarificatrice. Questa tristezza è per noi, non c’è dubbio, non si può affatto affermare che derivi da noi: la nostra allegria può scemare bruscamente alla vista di un paesaggio o di un insieme di cose da cui si sprigiona un senso di desolazione. In questo caso una spiegazione associazionista sarebbe del tutto insufficiente.

Je songeais aussi, méditant sur tout ce qui ne cesse de m’accabler, que les conditions de la vie, lorsque nous les pensons à fond, ne peuvent pas ne pas apparaître inacceptables; la vie semble nous demander d’oublier ses conditions. Il faudrait aller plus loin dans cette direction. Evoquer l’être qui ne laisse pas de dépouille; l’être consumé par la charité; la mort du religieux prend ici toute sa valeur et on comprendra à quoi correspond l’idée d’un corps incorruptible. A..., l’autre jour en revenant de Sarrazac, me disait des choses intéressantes sur l’image comme simulacre; «Il est naturel, disait-il, que l’on ne puisse pas regarder l’image en face, la placer devant soi comme une chose, car aussitôt elle disparaît parce qu’elle est un artifice permettant à la conscience de se duper. Or, on ne peut, disait-il, être à la fois dupant et dupé.» Il y a là quelque chose de vrai, mais qui n’est pas encore tout à fait dégagé. Je ne suis pas sûr que l’image soit un artifice. Noter qu’elle est en soi incommunicable, il faut qu’elle devienne chose pour être transmise à autrui; elle est donc liée à la solitude, elle est le fruit de la conscience solitaire. Ceci n’est qu’un amorçage. Il y a cependant un sens, ou ce que je viens d’écrire est faux; l’image, c’est une façon de rester habité par ce qui n’est plus là. Peut-être faudrait-il partir de la maison hantée pour comprendre. Je veux dire qu’il n’y a peut-être pas de différence essentielle entre le lieu hanté et l’homme obsédé par une image; dans les deux cas, on est en présence d’une connivence au fond inintelligible. Mais ce n’est pas encore au point. Note du 3 mai dernier éclairée par celle du Ier juin 1942. Pourquoi nous paraît-il au premier abord absurde de croire que notre attitude intérieure par rapport à un être disparu puisse influer sur lui? Ce mot, influer, est d’ailleurs mauvais;

Meditando su tutto ciò che continua a opprimermi, pensavo anche che le condizioni della vita, quando le pensiamo a fondo, non possono non apparire inaccettabili. La vita sembra chiederci di dimenticare le sue condizioni. Bisognerebbe procedere oltre in questa direzione. Evocare l’essere che non lascia spoglie; l’essere consumato dalla carità. La morte del religioso acquista qui tutto il suo valore, e si comprenderà quindi a che cosa corrisponda l’idea di un corpo incorruttibile. L’altro giorno, ritornando da Sarrazac, A. mi diceva cose interessanti sull’immagine come simulacro. “È naturale – affermava – che non si possa guardare l’immagine di fronte, collocarla davanti a sé come una cosa, poiché scompare subito, trattandosi di un artificio che fa sì che la coscienza si inganni. Ora, non si può essere nello stesso tempo ingannatore e ingannato.” C’è qualcosa di vero in tutto ciò, ma non è ancora del tutto chiaro. Non sono sicuro che l’immagine sia un artificio. In quanto immagine è incomunicabile, va evidenziato: deve diventare cosa per essere trasmessa all’altro. È dunque legata alla solitudine, è il frutto della coscienza solitaria. Si tratta però solo di un punto di partenza. Tutto ciò ha un senso, altrimenti quello che ho scritto è falso. L’immagine è un modo di continuare a essere abitato da ciò che non esiste più. Forse per capire bisognerebbe partire dalla casa abitata dagli spiriti. Probabilmente non c’è nessuna differenza di fondo tra la casa occupata dagli spettri e l’uomo ossessionato da un’immagine. In entrambi i casi, probabilmente, si ha a che fare con una complicità in fondo inintelligibile. Queste idee non sono ancora in ordine, però. Annotazione del 3 maggio scorso chiarita da quella del primo giugno 1942. Perché in prima battuta ci sembra assurdo credere che il nostro atteggiamento interiore nei confronti di un essere scomparso possa influire su di lui? Il

il faudra en trouver un autre – parce qu’on demeure hypnotisé sur l’idée que l’autre est essentiellement une chose hors de notre portée et qui ne relève que de techniques applicables au monde des choses (exhumations, analyses, etc...). Quant à l’être vivant, pensant, il n’est plus du tout: j’en garde un choix de photographies mentales, et c’est tout; il m’est donné de les regarder et d’éprouver en les regardant tel ou tel sentiment de regret, de tendresse, etc... Mais, à la lumière de la présence, tout se transforme: la présence de l’être disparu n’était pas une présence dans l’instant, elle n’était pas celle d’un spectacle mais celle d’un être, c’est-à-dire qu’elle impliquait de ma part un engagement; cet engagement était lié d’ailleurs au fait que je m’ouvrais à cet être pour l’accueillir. Ici cependant, en ce moment, le fil se casse, il faudra voir plus tard si j’arrive à le renouer. Peut-être est-il plus instructif de se demander à quelle condition il resterait concevable que cette action sur le disparu pût s’exercer. Il faudrait admettre non pas seulement, ou même essentiellement, qu’il est encore là – car on ne sait pas bien ce que cela veut dire – mais que nous restons unis au-delà de ce qu’il est donné à ma conscience de saisir. Il faudrait arriver à comprendre de quel type pourrait être une telle unité et en même temps pourquoi elle n’est pas immédiatement appréhendée. Considérer la paternité en fonction de l’amour de soi; il y a un bon et un mauvais amour de soi; celui-ci tend à prévaloir. L’amour de soi n’est pas nécessairement l’égoïsme, il y a même un égoïsme qui est dégoût de soi-même. L’amour de soi peut être l’amour d’une lignée dont on se reconnaît le représentant transitoire et imparfait. Il ne s’agit pas, de ce point de vue, de se reproduire, mais de continuer un élan. L’égoïsme, au contraire, est absolument limité: on n’est plus qu’un atome qui cherche à jouir le plus possible, à souffrir le moins possible. De ce point de vue, que devient la

termine influire è comunque inadeguato, bisognerà trovarne un altro. Si rimane infatti ipnotizzati dall’idea che l’altro sia essenzialmente una cosa al di fuori della nostra portata e che appartiene soltanto all’ambito delle tecniche che si applicano al mondo delle cose (esumazioni, analisi, ecc.). In quanto essere vivente, pensante, non esiste più per niente: ne conservo una scelta di fotografie mentali, nulla di più. Mi è possibile guardarle e, proprio nell’osservarle, provare un sentimento di rammarico, oppure di tenerezza, ecc. Alla luce della presenza tutto cambia, però: la presenza dell’essere scomparso non era una presenza passeggera, non era la presenza di uno spettacolo ma di un essere, cioè implicava da parte mia un impegno, legato d’altra parte al fatto che mi aprivo a lui per accoglierlo. Qui, però, in questo momento, il filo si spezza. Più tardi riuscirò forse a riannodarlo. Probabilmente è più istruttivo chiedersi a quale condizione potrebbe essere esercitata questa azione sullo scomparso. Bisognerebbe ammettere non soltanto, o anche essenzialmente, che è ancora là – non si sa che cosa significhi esattamente, però –, ma anche che restiamo uniti al di là di ciò che la mia coscienza è in grado di cogliere. Bisognerebbe riuscire a comprendere la natura di tale unità, e nello stesso tempo perché non venga afferrata immediatamente. Considerare la paternità in funzione dell’amore di sé, che può essere buono oppure cattivo. Quest’ultimo tende a prevalere, però. L’amore di sé non è necessariamente l’egoismo, esiste anche un egoismo che è disgusto di se stessi. L’amore di sé può essere l’amore di una casata di cui ci si considera il rappresentante provvisorio e imperfetto. Da questo punto di vista non si tratta di riprodursi ma di continuare uno slancio. L’egoismo, al contrario, è assolutamente limitato: si è soltanto un atomo che cerca di godere il più possibile, di soffrire il meno possibile. Cosa diventa la paternità in questa prospettiva? Non bisogna tuttavia dare troppa

paternité? Mais il ne faut pas trop s’arrêter à l’idée nobiliaire de la lignée. Chacun de nous, si modestes que soient ses origines, peut avoir conscience d’une délégation infinie dont il est l’objet. L’individu-atome les ignore et ne se connaît pas comme voulu. Le Peuch, 9 mai. Partir du fait que, du point de vue organo-psychique, la paternité n’a que de faibles assises. C’est du point de vue sociologique qu’elle peut se constituer fortement; et il faut ajouter qu’ici le sociologique n’est pas séparable d’une certaine prise de conscience métaphysique. Si celle-ci faiblit, automatiquement l’expérience de la paternité tend à devenir problématique. Le Peuch, 10 mai 1943. Je voudrais mettre en forme les notes prises au cours de ces dernières semaines en vue de l’espèce de profession de foi que Jean Grenier m’a demandée pour l’ouvrage collectif sur l’existence à paraître chez Gallimard11. Je ne suis pas seulement en quête d’une certitude hic et nunc en ce moment précis où j’écris; ceci a toujours été vrai depuis que j’ai accédé à un certain plan de conscience. Il m’est d’ailleurs difficile de dire exactement comment cette accession a eu lieu. Je me rappelle cependant de la façon la plus précise le rôle qu’a joué dans cet éveil, non l’idée de ma mort à moi, mais le fait de la mort d’un être infiniment

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Cet ouvrage collectif a paru, mais j’ai renoncé à donner mes textes qui sont demeurés inédits jusqu’à ce jour.

importanza all’idea nobiliare della casata. Ciascuno di noi, per quanto modeste siano le sue origini, può essere consapevole di essere l’oggetto di una delega infinita. L’individuoatomo ignora invece le sue origini e non si riconosce come voluto. Le Peuch, 9 maggio 1943. Partire dal fatto che dal punto di vista organico-psichico la paternità ha soltanto deboli basi. È dal punto di vista sociologico, invece, che può costituirsi solidamente. E in questo caso l’aspetto sociologico non può essere separato da una certa presa di coscienza metafisica. Se quest’ultima si indebolisce, automaticamente l’esperienza della paternità tende a diventare problematica. Le Peuch, 10 maggio 1943. Vorrei dare forma agli appunti delle ultime settimane, presi in vista di quella specie di professione di fede che Jean Grenier mi ha chiesto per l’opera collettiva sull’esistenza che verrà pubblicata da Gallimard11. Non sono però alla ricerca soltanto di una certezza hic et nunc, in questo preciso momento in cui scrivo. Questo è sempre stato vero da quando ho raggiunto un certo livello di consapevolezza, ma mi risulta difficile dire esattamente in che modo questa conquista sia stata possibile. Mi ricordo con grande precisione, però, il ruolo svolto in questo risveglio non dall’idea della mia propria morte, ma dal fatto della

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L’opera collettiva alla quale mi riferisco è stata pubblicata, ma io ho rinunciato a consegnare i miei testi, che fino a oggi sono rimasti inediti.

proche, car ce fait en un certain sens a commandé ma vie jusqu’à son tréfonds. Le mythe d’Orphée et d’Eurydice, est en ce sens au cœur même de mon existence. Le problème essentiel a toujours été et est encore pour moi de savoir comment on peut retrouver – serait-ce en espérance: qu’est-ce alors que cette espérance? Comment peut-elle non seulement prendre corps, mais se justifier, mais rendre compte d’elle-même? Je suis tenu cependant de réfléchir sur ce que c’est que cette recherche inlassable à laquelle je me livre depuis un tiers de siècle. Puis-je dire en toute conscience que je sais ce que je cherche? Si je le sais, il semble que je ne le cherche plus; si je ne le sais pas, comment puis-je chercher? Il y a là une antinomie qui ne surgit que pour un certain type de recherche; si je cherche un objet égaré, il est évident que la question ne se pose pas. Je connais la chose cherchée, je peux en donner le signalement et je saurai la reconnaître. L’antinomie n’existe pas là où la recherche porte sur une chose – ou sur un être assimilable à une chose – qu’il s’agit de recouvrer. Je suis fondé à poser en principe que cet être ou cette chose est quelque part, il s’agit de trouver où. Il y a cependant une nuance à introduire. Ne peut-il pas se faire qu’il existe une chose à tel point identique à celle que je cherche qu’elle n’en soit pas discernable? Dans ces conditions, il peut se faire que je me trompe et que croyant retrouver la chose perdue, je mette la main sur celle qui ne s’en laisse pas distinguer. Le bon sens fera observer que cela revient au même et que cette autre chose fera aussi bien l’affaire. Il n’est pas sûr que je me montre aussi accommodant. Si une certaine valeur irréductible s’attache pour moi à l’existence singulière de ce que je cherche, je repousserai avec mépris l’idée d’une équivalence possible. L’idée de cette confusion m’est intolérable, j’y vois comme une trahison ou un sacrilège à l’endroit de ce qui est justement en question, c’est-à-dire l’ipséité. (Ceci s’éclairera

morte di un essere infinitamente vicino. In un certo senso questo fatto ha condizionato la mia vita fin nel profondo. Il mito di Orfeo e di Euridice si pone in un certo senso proprio al cuore della mia esistenza. Il problema essenziale per me è sempre stato, ed è ancora, sapere in che modo ci si possa ritrovare – fosse anche soltanto in speranza. Cos’è allora questa speranza? Come può non solo prendere forma, ma giustificarsi, rendere conto di se stessa? Devo tuttavia riflettere sulla natura dell’instancabile ricerca alla quale mi dedico da un terzo di secolo. Posso affermare in tutta coscienza di sapere cosa cerco? Se lo so, sembra che io non lo cerchi più; se non lo so, come è possibile cercare? Si tratta di un’antinomia che emerge soltanto per un certo tipo di ricerca. È evidente: quando cerco un oggetto smarrito il problema non si pone. Conosco la cosa cercata, posso descriverla e saprò riconoscerla. L’antinomia non sussiste quando si tratta di recuperare una cosa – oppure di un essere assimilabile a una cosa –. Ho buoni motivi per stabilire il principio che questo essere o questa cosa si trova da qualche parte: si tratta di sapere dove. Il discorso va però un po’ sfumato. Non può forse esistere una cosa talmente identica a quella che cerco da non poter distinguerle? Date queste premesse può succedere quindi che io mi sbagli, e che credendo di ritrovare la cosa perduta io metta le mani su quella che sembra identica. Il buon senso farà rilevare che non cambia nulla, e che l’altra cosa svolgerà la stessa funzione. Non è certo però che io sia così accomodante. Se la cosa particolare che cerco ha per me un valore irriducibile, respingerò con disprezzo l’idea di qualcosa di equivalente. L’idea di una tale confusione è per me intollerabile. Vi vedo un tradimento o un sacrilegio proprio nei confronti di ciò che è in questione, cioè l’ipseità. (Tutto ciò risulterà chiaro

si l’on prend comme exemple un objet qui m’a été donné par un être cher.) Toutefois cette remarque, si importante soit-elle, n’éclaire pas directement la recherche à laquelle je procède en tant que métaphysicien. Celle-ci ne porte sûrement ni sur une chose, ni sur quoi que ce soit qui puisse être traité comme une chose. Mais demandera-t-on, cette recherche-ci n’est-elle pas de l’ordre de l’invention? Cependant la notion d’invention est équivoque. Elle n’est relativement claire que là où il s’agit d’imaginer un procédé pour obtenir tel résultat précis et objectivement déterminable. L’artiste n’est pas un inventeur. J’évoque ici l’art dont j’ai la pratique, l’art dramatique. L’invention n’intervient que secondairement là où il s’agit de trouver un moyen pour réaliser une certaine fin, par exemple pour que deux personnages se rencontrent, ou pour que l’un d’eux apprenne ou au contraire ignore tel fait, ainsi de suite... L’invention se place dans le cadre de ce qui n’est pas en soi invention, mais création. Mais on peut se demander si cette création pure n’est pas du même ordre que la recherche que je m’efforce ici de penser. Lorsque je crée, je ne puis dire ni que je sais ni que j’ignore purement et simplement où je vais. Ma création ne peut s’effectuer sur la base d’un pur et simple désir de créer. Le désir est en lui-même stérile, ce n’est qu’un je voudrais bien. Mais il faut que quelque chose me soit présent: un personnage, une situation, une relation, rien d’ailleurs qui puisse se réduire à une idée abstraite. L’idée abstraite, si ingénieuse soit-elle, est stérile. La création est essentiellement germination, et il est très difficile non seulement de savoir jusqu’à quel point je peux contribuer au développement du germe initial, mais même ce que signifie au juste cette question; il ne semble pas en effet que je puisse préciser le rapport qui lie je à ce germe qui m’est présent.

se si prende come esempio un oggetto che mi è stato donato da un essere caro). Per quanto importante, questa osservazione non getta però una luce diretta sulla ricerca alla quale mi dedico in quanto metafisico: non c’è dubbio, essa non si riferisce né a una cosa, né a ciò che si può considerare un oggetto. Ma questa ricerca, ci si chiederà, non si colloca forse sul piano dell’invenzione? Il concetto di invenzione è però equivoco, e diventa relativamente chiaro solo quando si pensa a un procedimento per ottenere un certo risultato preciso e oggettivamente determinabile. L’artista non è un inventore. Mi riferisco al genere di arte che conosco, cioè l’arte drammatica. L’invenzione vi svolge un ruolo secondario, e solo nel momento in cui si tratta di trovare un mezzo per realizzare un certo fine, ad esempio fare in modo che due personaggi si incontrino, oppure che uno di loro venga a conoscenza o ignori un certo fatto, e così via… L’invenzione si pone nel quadro di ciò che in sé non è invenzione ma creazione. Ci si può chiedere tuttavia se questa creazione pura non si collochi sullo stesso piano della ricerca sulla quale sto tentando di riflettere. Quando creo non posso affermare né di sapere né semplicemente di ignorare dove sto andando. La mia creazione non può essere realizzata sulla base di un puro e semplice desiderio di creare. Il desiderio in se stesso è sterile, non è altro che un vorrei proprio. È necessario però che qualcosa mi sia presente: un personaggio, una situazione, una relazione. Niente che possa ridursi a un’idea astratta, comunque, dato che essa, per quanto ingegnosa, è sterile. La creazione è per essenza germinazione, ed è difficilissimo sapere non soltanto fino a che punto io possa contribuire alla crescita del germoglio iniziale, ma anche cosa significhi esattamente questo problema. Infatti non sembra che io possa precisare il rapporto che lega me a questo germoglio che mi è presen-

Tout ce processus s’ordonne par rapport à une œuvre qui devra avoir une certaine forme; ce qui compte, c’est de produire cette œuvre qui devra exister par elle-même et s’imposer non seulement à moi, mais à d’autres. En est-il de même ici? Ne perdons pas de vue qu’il s’agit pour moi de parvenir à une certitude; sans doute celle-ci devra prendre corps dans un écrit et pouvoir se communiquer. Mais ce qui importe, c’est cette certitude elle-même, elle est ici le point d’arrivée, au lieu que pour le dramaturge, elle est un départ (il faut que je sois sûr de mon personnage, de ses rapports, etc...), en tant que telle, cette certitude est déjà distincte de ce que j’ai appelé le germe. Mais dans le cas présent, celui de la recherche philosophique, qu’entendre par certitude? Il semble aussi nécessaire de distinguer entre la certitude et une certitude qu’entre la vérité et une vérité. Mais ici, c’est de la certitude qu’il s’agit. Comment puis-je la chercher? Demandons-nous d’abord ce que c’est que chercher une certitude déterminée. C’est mettre en jeu certaines méthodes éprouvées, afin d’atteindre un point optimum d’où je verrai ce qui m’est actuellement caché. Ne soyons d’ailleurs pas dupe du mot voir, ou plutôt sachons ne pas le prendre dans son acception littérale. Il n’en reste pas moins que lorsque je serai placé à ce point, ce que je cherche devra m’apparaître. Une telle recherche comporte une part d’invention. Il me faudra presque sûrement imaginer des procédés qui me permettent d’accéder à cette position optima, ou encore construire l’observatoire où je compte me placer. Il est de l’essence d’une certitude de porter sur un certain contenu problématisable, c’est-à-dire donnant lieu à des questions qui se posent pour quiconque se trouve placé dans une certaine situation déterminée: par exemple une certitude astronomique portera sur telle constellation contemplée par un

te. Questo processo nel suo insieme avviene avendo in vista un’opera che dovrà avere una certa forma. Ciò che conta è produrre quest’opera che dovrà esistere per se stessa e imporsi anche ad altri, non soltanto a me stesso. Qui vale lo stesso tipo di discorso? Non perdiamo di vista il fatto che per me si tratta di giungere a una certezza che dovrà sicuramente prendere corpo in uno scritto e poter essere comunicata. Ciò che interessa, però, è questa certezza per se stessa: in questo caso è il punto di arrivo, mentre per il drammaturgo è un punto di partenza (bisogna che io sia sicuro del mio personaggio, dei suoi rapporti, ecc.). In quanto tale questa certezza è già distinta da ciò che io ho chiamato il germoglio. Nel nostro caso, quello della certezza filosofica, che cosa si deve intendere per certezza? Sembra indispensabile distinguere tra la certezza e una certezza così come tra la verità e una verità. In questo caso è della certezza che si tratta. Come posso cercarla? Chiediamoci innanzitutto che cosa significhi cercare una certezza determinata. Significa fare ricorso ad alcuni metodi già sperimentati che consentono di raggiungere un punto optimum da cui potrò vedere ciò che attualmente mi rimane celato. Non facciamoci però trarre in inganno dal termine vedere o, meglio, cerchiamo di non assumerlo nella sua accezione letterale. Rimane il fatto, comunque, che quando sarò posto in un certo punto ciò che cerco dovrà apparirmi. Una tale ricerca comporta una parte di invenzione. Quasi sicuramente dovrò immaginare dei procedimenti che mi permettano di raggiungere questa posizione optima, o anche di costruire l’osservatorio in cui conto di collocarmi. Per essenza una certezza riguarda un certo contenuto problematizzabile, cioè che si presta a domande che si pongono per chiunque si trovi collocato in una situazione ben precisa. Una certezza astronomica, ad esempio, riguarderà una certa costellazione

habitant de la terre qui est amené à se demander à quelle distance cette constellation se trouve de lui. La certitude à laquelle j’aspire présente-t-elle ce caractère? Il semble qu’elle soit globale, mais qu’entendre par là? Veut-on dire que les certitudes particulières sont à cette certitude-là ce que seraient des monnaies par rapport au lingot d’où on peut les tirer? Non, car à la réflexion, il apparaît qu’il n’y a pas d’homogénéité entre la certitude et les certitudes particulières. Lorsque je me demande sur quoi porte la certitude, je ne peux pas répondre à coup sûr. Si par exemple, je dis qu’elle porte sur l’être, cette réponse éveille en moi des doutes. Bien plus, je ne suis même pas certain qu’il soit légitime de poser la question. Car à la limite, il semble que la certitude se confonde avec son objet. Mais l’antinomie initiale reparaît ici. Cette certitude, comment puis-je la chercher? Une réflexion plus profonde devra intervenir. Cette certitude que je cherche, n’est-ce pas seulement le moyen d’exprimer, c’est-à-dire de rendre communicable à moi-même et à autrui une certaine assurance qui est au fond de moi? Ou bien est-ce cette assurance elle-même que je vise à obtenir? Dans ce second cas il s’agirait d’abord pour moi de réaliser un changement dans ma façon de me situer par rapport... disons à la réalité elle-même. Dans le premier cas au contraire, ce changement ne serait ni nécessaire ni peutêtre possible... L’examen de cette alternative nous contraint d’approfondir la nature de cette distinction éventuelle entre une assurance fondamentale et l’acte par lequel elle se ferait connaître et se justifierait. Auparavant, une autre possibilité doit être évoquée. Ne peut-on pas dire, avec les adversaires de toute métaphysique consolante, que je vise à me prouver à moi-même ce que je souhaite? Il faudrait ici s’interroger sur la nature et sur les

osservata da un abitante della terra per il quale è naturale chiedersi a quale distanza da lui essa si trovi. La certezza alla quale aspiro presenta queste caratteristiche? Sembra che sia globale, ma che cosa si deve intendere con ciò? Si vuole forse affermare che le certezze particolari stanno a quella globale come le monete al lingotto da cui si ricavano? No, poiché riflettendo emerge che non c’è omogeneità tra la certezza e le certezze particolari. Quando mi chiedo su cosa si fondi la certezza, non posso rispondere a colpo sicuro. Ad esempio, affermare che tale certezza si fonda sull’essere risveglia in me dei dubbi. Anzi, non sono neppure certo che sia legittimo porre la domanda poiché al limite sembra che la certezza si confonda con il suo oggetto. Si ripresenta qui l’antinomia iniziale. Come posso cercare questa certezza? Si dovrà fare ricorso a una riflessione più profonda. La certezza che cerco non è soltanto il modo di esprimere, cioè di rendere comunicabile a me stesso e all’altro, una certa sicurezza che si trova in fondo a me stesso? Oppure è proprio questa stessa sicurezza che miro a ottenere? In questo secondo caso dovrò cercare innanzitutto di realizzare un cambiamento nel mio modo di pormi rispetto a… diciamo alla realtà stessa in quanto tale. Nel primo caso, al contrario, questo cambiamento non sarebbe né necessario né possibile, forse… L’esame di questa alternativa ci costringe ad approfondire la natura dell’eventuale distinzione tra una sicurezza fondamentale e l’atto con il quale sarebbe possibile conoscerla e giustificarla. Prima, però, bisogna prendere in considerazione un’altra possibilità. Non si può forse affermare, insieme a tutti gli avversari di ogni metafisica consolante, che miro a provare a me stesso ciò che desidero? Qui sarebbe necessario interrogarsi sulla natura e sulle condizioni di possibilità di

conditions de possibilité de ce vœu fondamental. Dans quel cas est-il certainement illégitime de prendre ses désirs pour des réalités et surtout de les traiter comme tels? Le désir porte sur quelque chose d’extérieur à moi que je voudrais posséder, il peut d’ailleurs s’appliquer à toutes les modalités de l’avoir. Je suis tenu de ne pas me leurrer et de faire le compte de ce que j’ai et de ce que je n’ai pas. Reste à savoir si l’aspiration qui en moi vise à la certitude peut être assimilée à un désir. Il semble qu’elle soit bien plutôt de l’ordre de l’espérance. Le Peuch, 12 mai 1943. Quand on reproche à la pensée de préjuger du résultat de la recherche, on postule qu’elle devrait observer par rapport à l’être et au non-être une neutralité comparable à celle du savant qui, lorsqu’il procède à une expérience, s’interdit de spéculer à l’avance sur ce qu’elle donnera. Mais il y a tout lieu de croire que cette assimilation est illégitime, et que la neutralité par rapport à l’être et au non-être est précisément impossible. Ceci veut-il dire simplement qu’une option s’impose, qu’il faut préférer l’un ou l’autre? Cela veut dire qu’il faut toujours s’engager et qu’il faut prendre parti. Je n’ai aucune raison de nier qu’à la base de ma recherche, il y ait toujours eu option pour l’être. Il pourrait d’ailleurs y avoir à concrétiser et à préciser ce que j’ai refusé. Mais il faudrait en même temps attaquer de front l’idée d’après laquelle ce que j’ai refusé est peut-être la vérité. Observons que ce qui permet ici l’appréciation, c’est le fait que chacun a connu des moments où il a été tenté de poser l’universel non-sens.

questo desiderio fondamentale. In quale caso è sicuramente illegittimo considerare realtà i propri desideri, e soprattutto trattarli come tali? Il desiderio si riferisce a qualcosa di esterno a me che io vorrei possedere, e può essere applicato all’avere in tutte le sue forme. Ho il dovere di non illudermi, e di fare il bilancio di ciò che ho e di ciò che non ho. Rimane da capire se la mia aspirazione alla certezza possa essere assimilata a un desiderio. Sembra piuttosto che si collochi sullo stesso piano della speranza. Le Peuch, 12 maggio 1943. Quando si rimprovera al pensiero di pregiudicare il risultato della ricerca si presuppone che in rapporto all’essere e al non essere dovrebbe mantenere una neutralità paragonabile a quella dello scienziato che, nel momento in cui dà inizio a un esperimento, vieta a se stesso di speculare in anticipo sui risultati che otterrà. Tutto lascia ritenere però che questo paragone sia illegittimo, e che non sia possibile rimanere neutrali nei confronti dell’essere e del non-essere. Significa semplicemente che si impone una scelta, che bisogna preferire l’uno o l’altro? Vuol dire che bisogna sempre impegnarsi, e che bisogna prendere posizione. Non ho motivo per negare che alla base della mia ricerca c’è sempre stata la scelta per l’essere. Potrebbe d’altronde essere necessario rendere concreto e precisare ciò che ho rifiutato, ma nello stesso tempo si dovrebbe attaccare frontalmente l’idea per cui ciò che ho respinto è forse la verità. E ciò che rende qui possibile il giudizio è il fatto che ognuno ha conosciuto dei momenti in cui ha avuto la tentazione di porre l’universale non-senso.

Dès lors, quelle réponse donner à la question initiale, quant à ce qu’il faut entendre par être certain? Il paraît également faux de dire que c’est seulement exprimer ce que l’on a toujours su – et que c’est parvenir à une façon d’être entièrement nouvelle. Mieux vaudrait dire que la recherche ici suppose un engagement à partir d’un pressentiment. Il est d’ailleurs très douteux que ce pressentiment puisse être regardé comme une modalité du savoir. On ne peut d’autre part faire abstraction de la question de savoir ce que nous entendons faire avec cette certitude. Il ne suffit pas de dire que nous nous proposons essentiellement de la proclamer; car si nous la proclamons, c’est pour d’autres qu’elle est censée devoir intéresser, et c’est la nature de cet intérêt que nous devons chercher à élucider. Suffit-il de dire qu’elle viendra dissiper des doutes, des angoisses? Mais c’est là une interprétation toute négative. On peut penser que c’est le doute (ou l’angoisse) qui est négation, ou plus exactement qu’il vient s’interposer entre nous et un bien positif auquel nous aspirons, un bien dont on ne définit pas la nature en le concevant comme pur repos. Notons que la notion de repos est une des plus équivoques qui soient. Dans certains cas, on conçoit le repos comme pure cessation de la fatigue et de la peine; dans d’autres, et plus profondément, on pressent en lui une récupération, grâce à laquelle nous retrouvons notre intégrité. Mieux vaudrait à coup sûr parler ici de béatitude. Le Peuch, 13 mai 1943. Par là cependant une confusion funeste ne risque-t-elle pas de s’établir entre métaphysique et religion? Il semble que nous nous trouvions en présence d’un dilemme, ou bien la certitude se confond avec le salut, au sens religieux de ce mot, et dans ce cas la métaphysique perd toute autonomie

Partendo da ciò, quale risposta dare alla domanda iniziale relativa a ciò che bisogna intendere per essere certo? Sembra ugualmente falso affermare che significa soltanto esprimere ciò che si è sempre saputo – e giungere a un modo di essere completamente nuovo. Sarebbe meglio dire che in questo caso la ricerca presuppone un impegno a partire da un presentimento. Ho molti dubbi, d’altronde, che questo presentimento possa essere considerato come una modalità del sapere. D’altra parte non si può fare a meno di valutare quello che intendiamo fare con questa certezza. Non è sufficiente affermare che ci proponiamo essenzialmente di dichiararla. Infatti la dichiariamo ad altri che possono provare interesse, ma è proprio la natura di tale interesse che bisogna cercare di chiarire. È sufficiente affermare che servirà a dissipare dubbi e angosce? Si tratta di un’interpretazione soltanto negativa. Si può considerare il dubbio (o l’angoscia) come negazione, oppure, a essere più precisi, si può pensare che si interponga tra noi e un bene positivo al quale aspiriamo, un bene di cui non si definisce la natura pensandolo come pura quiete. Va rilevato che tale concetto è uno dei più equivoci in assoluto. In alcuni casi la quiete viene pensata come pura cessazione della fatica e dei travagli, in altri invece, e più profondamente, vi si avverte un recupero, grazie al quale ritroviamo la nostra integrità. In questo caso sarebbe meglio parlare a colpo sicuro di beatitudine. Le Peuch, 13 maggio 1943. Queste riflessioni non rischiano però di creare una confusione funesta tra metafisica e religione? Sembra che ci troviamo di fronte a un dilemma: o la certezza fa tutt’uno con la salvezza, nel significato religioso di questo termine, con la conseguenza che la metafisica perde ogni autonomia e, in

et en fin de compte toute réalité. Ou bien c’est au contraire le salut qui se réduit à la certitude – et on verse dans un intellectualisme dont la doctrine de Spinoza ou celle de Hegel constitue les expressions les plus accomplies. Mais un Spinoza comme un Hegel ne fait-il pas bon marché de la condition humaine dans ce qu’elle a de spécifique? Le Peuch, 14 mai 1943. Je ne sais s’il ne faudra pas supprimer cette sorte de parenthèse. Il faut reprendre le rapport entre moi et certitude ou peut-être plus exactement entre exister et être certain. Sans doute faut-il opposer ici certitude et conviction. Je ne cherche pas ici à proprement parler à me faire une conviction. Notons que la conviction vient toujours clore une enquête; il n’y a pas de conviction là où aucune enquête n’est concevable. La révélation, comme opposé de l’enquête, et je ne prends pas ici le mot dans son sens spécifiquement religieux. Cependant, si je n’ai pas cherché à me former une conviction, ne faudra-t-il pas dire simplement comme plus haut, que je me suis borné à mettre en forme un ensemble de préjugés? Ici encore, il semble qu’il y ait dilemme. On n’en pourrait sortir qu’à condition de procéder à une critique de l’idée de préjugé – de marquer en particulier clairement la différence entre préjugé et hypothèse. Supposons que je nourrisse un préjugé au sujet d’une personne dont je vais faire la connaissance. Ce préjugé est une idée préconçue que je me suis peut-être formée par esprit de contradiction, pour prendre le contrepied de l’opinion que j’ai entendu émettre sur cette personne. Ce préjugé se révélera tel par le fait qu’il ne se soumettra pas à la critique de l’expérience. Il faudra que ce soit en quelque sorte l’expérience qui s’y accommode,

fin dei conti, ogni autorità, oppure, al contrario, è la salvezza che si riduce alla certezza. In questo modo non si finisce tuttavia per cadere in un intellettualismo di cui il pensiero di Spinoza o di Hegel costituisce l’espressione più compiuta? Uno Spinoza ma anche uno Hegel, però, non avviliscono forse la condizione umana in ciò che ha di specifico? Le Peuch, 14 maggio 1943. Sarà forse necessario chiudere questa specie di parentesi. Bisogna riprendere in considerazione il rapporto tra me e la certezza o, a essere più precisi, tra esistere ed essere certo. Non c’è dubbio: certezza e convinzione vanno contrapposte. In questo caso non cerco, propriamente parlando, di formarmi una convinzione. La convinzione è sempre l’esito di un’inchiesta portata a termine: dove non è concepibile nessuna inchiesta non esiste convinzione. La rivelazione come il contrario dell’inchiesta, dove il termine rivelazione non è assunto nel suo senso specificamente religioso. Se però non ho cercato di formarmi una convinzione, bisognerà forse affermare semplicemente, come è stato fatto prima, che mi sono limitato a dare forma a un insieme di pregiudizi? Anche in questo caso sembra che ci si trovi di fronte a un dilemma da cui si potrebbe uscire soltanto con una critica dell’idea di pregiudizio – in particolare sottolineando chiaramente la differenza tra pregiudizio e ipotesi. Supponiamo che io nutra un pregiudizio nei confronti di una persona che sto per conoscere. Si tratta di un’idea preconcetta che mi sono formato forse per spirito di contraddizione, per contrappormi all’opinione degli altri. Questo pregiudizio si rivelerà tale per il fatto che non verrà sottoposto alla critica dell’esperienza, mentre sarà quest’ultima ad adattarsi in qualche modo al pregiudizio, lasciandosi modellare o rita-

celle-ci se laissant tailler ou découper arbitrairement; bref, le préjugé est par essence tyrannique, ce que l’hypothèse en principe n’est pas. Mais n’est-ce pas précisément ainsi que je me suis comporté en face de la réalité dans son ensemble, ou du monde? Ne pourrai-je pas me reprocher d’avoir systématiquement révoqué en doute tout ce qui était susceptible de contrarier une idée d’ensemble? Le préjugé s’exerce tyranniquement dans une sphère où il ne devrait y avoir place que pour des hypothèses et où il appartient à l’expérience de décider. Mais dès le moment où nous sommes en présence de la transcendance, de quelque façon qu’elle nous apparaisse, il cesse d’en être ainsi. N’y a-t-il pas d’autre part entre présence et transcendance une intime corrélation? Ne pourrait-on pas dire qu’il n’y a présence (ou que la présence ne se révèle) que dans l’absence ou à travers l’absence, et que c’est précisément en cela que consiste la transcendance? Il faudrait donc dire que la présence n’est pas immédiate, mais ajouter aussitôt qu’on risque, si on l’a dit médiate, de la croire inférée, ce qui reviendrait à dire qu’elle ne se révèle pas et qu’elle n’est donc pas présence. Au fond, c’est sur le «se révéler à» que doit porter la réflexion; ce n’est, pourrait-on dire, que si je me creuse, que si je me rends creux – que cette révélation peut s’accomplir: ceci n’est pas nécessaire pour l’enfant qui semble bénéficier ici d’une grâce. Dans cette perspective, on sera tenté de dire que l’existence est peut-être obstacle à la révélation (je serai tenté de dire que celle-ci ne se produit qu’à la faveur des trous d’air de l’existence. Mais est-ce vrai?). Car l’existence est avant tout opacité. Je dirai qu’exister, c’est obturer. Notons d’ailleurs que l’opacité ne fond pas en devenant conscience de soi. La conscience qui se centre sur elle-même est au contraire

gliare arbitrariamente. In breve, il pregiudizio è per natura tirannico, mentre l’ipotesi non lo è per principio. Non è proprio questo, però, l’atteggiamento che ho assunto nei confronti della realtà nel suo complesso, o nei confronti del mondo? Non potrei muovere a me stesso il rimprovero di avere sistematicamente messo in dubbio tutto ciò che avrebbe messo in discussione un’idea d’insieme? Il pregiudizio si esercita tirannicamente in un ambito in cui dovrebbe esserci posto soltanto per delle ipotesi, e in cui la discriminante dovrebbe essere l’esperienza. Dal momento in cui siamo in presenza della trascendenza, però, in qualsiasi modo ci appaia, le cose non stanno più così. Non esiste d’altra parte un’intima correlazione tra presenza e trascendenza? Non si potrebbe affermare che vi è presenza (o che la presenza si rivela) soltanto nell’assenza o attraverso l’assenza, e che è proprio in questo che consiste la trascendenza? Bisognerebbe affermare perciò che la presenza non è immediata, ma precisando subito che considerandola mediata si rischia di pensare che sia l’esito di un’inferenza: significherebbe che non si rivela e che dunque non è presenza. In fondo è sul “rivelarsi a” che deve concentrarsi la riflessione. Soltanto se scavo in me stesso, si potrebbe dire, se mi rendo vuoto – può compiersi questa rivelazione. Al bambino tutto ciò non serve, dato che in questo sembra beneficiare di una grazia. In questa prospettiva si avrà la tentazione di affermare che forse l’esistenza rappresenta un ostacolo per la rivelazione (direi quasi che quest’ultima si realizza grazie ai vuoti d’aria dell’esistenza. Ma è vero?). L’esistenza è infatti prima di tutto opacità. Esistere è otturare. D’altra parte l’opacità non scompare diventando coscienza di sé: al contrario, la

opacité à la plus haute puissance. Opacité à quoi, sinon à la présence. Ceci cependant ne me satisfait pas encore. C’est à serrer de beaucoup plus près. Le Peuch, 15 mai 1943. Ce que j’ai écrit hier me paraît sujet à caution. Est-il légitime de dire qu’exister, c’est obturer? Obturer quoi et pour qui? Le Peuch, 17 mai 1943. Il me semble que ce qui est obturé, c’est une puissance de fluidification et de transmutation universelle. Pour qui maintenant se produit cette obturation? Mais je sens bien que la question est mal posée et qu’on ne sort pas de la pire confusion. M’appréhender comme existant, c’est en quelque manière m’appréhender comme captif; mon existence, c’est à cet égard l’ensemble de mes servitudes. Je suis bien forcé de reconnaître, il est vrai, qu’en un certain sens, sans ces servitudes, je ne serais rien, je perdrais mon identité. Mais en un autre sens, cette identité m’excède, je l’ai en horreur. D’où une contradiction que je’n’élimine pas complètement lorsque je songe que c’est encore la base de cette identité que je répudie; par là s’accentue seulement une sorte de torsion sur moi-même qui est un aspect essentiel de ma condition. Tout ceci ne me satisfait guère, mais il y a quelque chose à retenir des notes du 14 mai – quelque chose que je voudrais réussir à mettre au point. Ce qui se révèle à moi traverse en

coscienza centrata su se stessa è opacità al massimo grado. Opacità rispetto a che cosa, se non rispetto alla presenza? Tutto ciò non mi soddisfa ancora, però. Bisogna stringerlo molto più da vicino. Le Peuch, 15 maggio 1943. Quello che ho scritto ieri mi sembra poco attendibile. È legittimo affermare che esistere significa otturare? Otturare che cosa e per chi? Le Peuch, 17 maggio 1943. A essere otturato, mi sembra, è un potere di fluidificazione e di trasmutazione universale. Per chi avviene ora questa otturazione? Mi rendo conto però che la domanda è veramente mal posta, e che non si sfugge alla peggiore confusione. Cogliermi come esistente significa in qualche modo cogliermi come prigioniero. Da questo punto di vista la mia esistenza è l’insieme delle mie schiavitù, ma devo ammettere necessariamente che in un certo senso senza queste schiavitù non sarei nulla, perderei la mia identità. Da un altro punto di vista, però, questa identità mi esaspera, mi provoca orrore. Ne deriva una contraddizione che non elimino completamente quando penso che ripudio proprio la base di questa identità: in questo modo non si fa altro che accentuare una sorta di contrazione su me stesso che è un aspetto essenziale della mia condizione. Queste riflessioni non mi soddisfano affatto, ma alcune delle annotazioni del 14 maggio vanno conservate – qualcosa che vorrei riuscire a definire. Ciò che si rivela a me attraversa

quelque façon tout ce dont je serai obligé de m’abstraire et de m’affranchir pour l’atteindre. Je deviens immédiat pour l’autre qui dans ces conditions cesse d’être pur autre; l’opposition du même et de l’autre est dépassée ou réduite. C’est à la lueur de ces indications qu’il faudrait comprendre ce que j’ai dit de la présence dans l’absence. Pour mieux saisir, il faudrait se référer à l’expérience courante de l’aveuglement par familiarité. Je cesse de voir ceux avec qui je vis, pour autant que cette vie en commun consiste en une routine d’actions et de réactions dues à la cohabitation. Les miens à cet égard ne me sont pas présents. Et j’évoque ici certaines phrases de Daniel dans le Cœur des Autres, lorsqu’il dit à Rosé qu’elle n’est pas quelqu’un d’autre. Il faudra pour que je voie l’autre que quelque chose vienne l’éloigner de moi: phénomène de presbytie morale. Rôle que peut jouer ici la mort; en donnant du recul à l’autre, elle l’écarte de moi, elle le place à la distance où je peux enfin le voir, où il peut se révéler à moi. Mais la difficulté, c’est que pour nous ce qui est présent, c’est ce qui agit. Or, ici, la mort ne fait-il pas pour moi de l’autre une image, que sans doute je peux contempler, mais qui, si elle n’est plus qu’une image, ne peut plus rien pour moi? On retombe par là dans les difficultés examinées il y a quelques semaines. Il faut certainement prendre garde à l’ambiguïté qui s’attache à l’idée d’action. Il y a en effet une sorte d’action qui n’est possible que là où il y a contact, c’est-à-dire au niveau où on ne se voit pas, l’un l’autre. On peut poser en principe que ce n’est pas sur ce plan que l’autre, lorsqu’il s’est éloigné de moi, est susceptible d’agir sur moi ou en moi. Mais ce serait une pétition de principe que de poser qu’il n’y a d’action qu’au plan du contact. Ne faut-il pas bien plutôt penser que l’autre en se révélant à moi, me tire en quelque sorte à lui, et qu’il m’arrache – à condition que j’y consente – à ce monde où je tendais à n’être qu’une chose parmi d’autres choses.

in qualche modo tutto ciò da cui dovrò isolarmi e liberarmi per raggiungerlo. Io divento immediato per l’altro, che in queste condizioni cessa di essere puro altro: la contrapposizione tra me stesso e l’altro viene superata o limitata. Le mie affermazioni sulla presenza nell’assenza andrebbero comprese alla luce di queste indicazioni. Per capire meglio bisognerebbe riferirsi alla comune esperienza dell’accecamento dovuto alla lunga consuetudine: nella misura in cui la vita in comune consiste in una routine di azioni e di reazioni legate alla coabitazione, finisco per non vedere più le persone con cui vivo. Da questo punto di vista non mi sono presenti neppure i miei familiari. Su questo ricordo alcune parole di Daniel nel Cœur des Autres quando dice a Rose che non è qualcun altro. Affinché io veda l’altro sarà necessario che qualcosa lo allontani da me: fenomeno di presbiopia morale. Qui può entrare in gioco la morte. Distaccando l’altro, lo allontana da me, lo pone alla distanza da cui io posso finalmente vederlo, da cui può rivelarsi a me. Ma ecco qual è la difficoltà: per noi agisce ciò che è presente. In questo caso la morte fa sì che l’altro diventi per me un’immagine che posso sicuramente contemplare ma che, essendo soltanto un’immagine, non può più nulla per me? Riemergono così le stesse difficoltà di alcune settimane fa. Non c’è dubbio, bisogna fare attenzione all’ambiguità dell’idea di azione. Esiste infatti un tipo di azione possibile soltanto dove c’è contatto, cioè quando non ci si vede l’un l’altro. In linea di principio si può riconoscere che non è su questo piano che l’altro, quando si è allontanato da me, può agire su di me o in me. Sarebbe una petizione di principio, però, ritenere che esista azione soltanto sul piano del contatto. Non bisogna pensare piuttosto che l’altro rivelandosi a me mi attira in qualche modo a sé, e mi strappa – purché io acconsenta – a questo mondo in cui ero portato a essere

Il est difficile de voir comment l’autre, s’il était réduit à son simulacre, pourrait réaliser cette ascension ou cette conversion de moi-même. Quand je dis: ce n’est qu’un simulacre, je juge au nom de l’affirmation par laquelle je décrète que seules les choses sont réelles en tant qu’elles existent: nous nous comportons comme des choses, les miens et moi-même, pour autant que nous nous accommodons simplement les uns aux autres ou que nous cherchons à nous utiliser réciproquement pour notre profit personnel. Tout cela rejaillit-il sur mon obscure formule: exister, c’est obturer? Il me semble encore confusément qu’il faudrait parler de la bi-polarité de l’existence. Mettre en rapport ce que je viens d’indiquer quant à l’existence-chose et ce que j’ai dit précédemment sur le quotidien dégradé. Le recoupement me paraît aussi net que possible. Il me semble que le 14 et aujourd’hui, j’ai progressé. C’est une sorte de découverte que j’ai faite en comprenant qu’il ne peut y avoir de révélation tant que nous vivons dans un monde où il y a des frottements auxquels nous n’échappons que par l’automatisation. Or, il est à peine exagéré de dire que c’est bien là le monde de la vie courante – ou tout au moins que l’existence journalière tend presque inévitablement à constituer autour d’elle un monde semblable – par opposition au «paradis»: ce qui est intercepté dans l’existence à ce niveau, c’est la lumière dans laquelle baigne le paradis. Ne pourrait-on pas dire que cette même puissance de révélation intervient lorsque je suis mis en demeure de me voir et par conséquent de me dépasser – de me rejeter tel que je suis, ou encore de reconnaître comme obstacle ce qui semblait être l’élément même que je ne cessais d’inhaler?

soltanto una cosa tra le cose? È difficile comprendere come l’altro, se ridotto al suo simulacro, possa realizzare questa attrazione o questa conversione di me stesso. Quando affermo che si tratta soltanto di un simulacro, giudico in nome dell’idea secondo la quale, in quanto esistono, solo le cose sono reali: io e i miei ci comportiamo come cose, nella misura in cui ci adattiamo semplicemente gli uni agli altri, oppure in cui cerchiamo di usarci a vicenda per il nostro interesse personale. Tutto ciò si riflette sulla mia oscura formula: esistere significa otturare? Ancora confusamente ma mi sembra che bisognerebbe parlare di bi-polarità dell’esistenza. Mettere in relazione ciò che ho appena rilevato sull’esistenza-cosa e ciò che ho affermato in precedenza sul quotidiano degradato. L’accostamento mi sembra quanto mai chiaro. Oggi e il 14 ho fatto dei progressi, mi sembra: comprendere che non può esserci rivelazione finché viviamo in un mondo in cui esistono attriti ai quali ci sottraiamo soltanto con l’automatizzazione ha costituito una sorta di scoperta. Ora, c’è solo un piccola parte di esagerazione nell’affermare che è proprio questo il mondo della vita quotidiana – o almeno che l’esistenza di tutti i giorni tende quasi inevitabilmente a dar vita attorno a sé a un mondo simile – in contrapposizione al “paradiso”: a questo livello nell’esistenza viene intercettata la luce nella quale è immerso il paradiso. Non si potrebbe affermare che entra in gioco proprio questo potere di rivelazione quando mi viene intimato di considerare me stesso, e quindi di oltrepassare me stesso – di rifiutarmi così come sono, o anche di riconoscere che ciò che sembrava essere l’elemento stesso da me sempre inalato è soltanto un ostacolo?

Le Peuch, 19 mai 1943. Reprendre l’idée d’après laquelle il y aurait un devoir préalable de neutralité pour une pensée qui affronte le réel: car c’est au nom de ce devoir qu’on peut m’accuser de tricher. C’est ici que la comparaison avec ce que j’ai dit du vœu dans la paternité est instructif. Se comporter en père, c’est prendre passionnément parti pour la vie, ce n’est pas se réserver et compter que l’expérience nous apprendra si l’être nouveau est viable ou non. Il dépend d’ailleurs de nous dans une mesure que nous ne pouvons apprécier exactement que cet être soit effectivement viable. On dira: ici, il en va autrement parce qu’il s’agit pour la pensée de reconnaître quels sont les caractères qui appartiennent à la réalité. Mais par là on instaure une dualité entre la pensée qui reconnaît et la réalité qui est à reconnaître. La réflexion est tenue de chercher dans quelle zone et à quelle condition cette dualité peut être vraiment maintenue. Cas type: celui du savant qui poursuit une expérience, qui met par exemple deux corps en présence pour voir ce qui en résultera. On peut aussi penser à la neutralité préjudicielle, à l’impartialité de base que sauvegarde celui qui veut se former une opinion sur quelqu’un en étudiant sa conduite. Mais il faut bien voir que ce n’est pas au cours de cet examen qu’il découvrira ou inventera les valeurs d’après lesquelles il jugera cette conduite, ces valeurs ne peuvent être que présupposées. Ou bien on peut concevoir le cas inverse, celui où ayant une confiance absolue et préalable en quelqu’un je me formerai un système de valeurs d’après sa conduite, posant à priori que ce qu’il fait est bien. Mais ce qu’il est essentiel de voir, c’est que ces deux possibilités sont non seulement distinctes, mais incompatibles. On doit tirer de là cette conclu-

Le Peuch, 19 maggio 1943. Riprendere in considerazione l’idea per cui esisterebbe un dovere di neutralità preliminare per il pensiero che affronta il reale: è proprio in nome di questo dovere, infatti, che mi si può accusare di barare. È qui molto istruttivo il confronto con ciò che ho detto sul desiderio nella paternità. Comportarsi da padre significa difendere appassionatamente la vita, significa non tirarsi indietro contando sul fatto che l’esperienza ci insegnerà se il nuovo essere sia più o meno vitale. D’altra parte l’effettiva vitalità di tale essere dipende da noi in una misura che non possiamo valutare con esattezza. Si affermerà: in questo caso le cose vanno diversamente perché il pensiero deve individuare quali caratteristiche appartengano alla realtà. Così facendo, però, si instaura un dualismo tra il pensiero che identifica e la realtà da identificare. È compito della riflessione cercare su che piano e a quale condizione tale dualismo possa essere veramente conservato. Caso tipico: quello dello scienziato che realizza un esperimento, ad esempio mettendo due corpi uno di fronte all’altro per vedere ciò che ne risulterà. Si può pensare anche alla neutralità pregiudiziale, all’imparzialità di base di cui si fa garante colui che vuole formarsi un’opinione su qualcuno studiando il suo comportamento. Non è affatto durante questa analisi che scoprirà o inventerà i valori sulla base dei quali giudicherà tale comportamento: questi valori possono essere soltanto pre-supposti. Ci si può riferire anche al caso inverso, tuttavia: nutrendo una fiducia assoluta e preliminare in qualcuno, mi formerò un sistema di valori sulla base del suo modo di agire, dando per scontato che le sue azioni siano buone. È essenziale rendersi conto però che queste due possibilità sono non solo distinte, ma anche incompatibili, e quindi se ne deve con-

sion qu’il est absurde de prétendre concilier un agnosticisme métaphysique et un agnosticisme moral. Je voudrais arriver à exprimer ceci plus distinctement. Admettons que, me mettant en présence de l’univers, ou plutôt, si absurde que ce soit, tentant de le faire comparaître devant moi, j’instruise en quelque sorte son procès, c’est-à-dire que je tente de porter sur lui un jugement, de discerner si c’est le bien ou le mal qui y détient la prépondérance; je ne peux procéder à cette instruction qu’à condition de me juger en possession de catégories au nom desquelles je prétends prendre sa mesure: ceci est aussi vrai chez Schopenhauer que chez Leibniz. Si au contraire, je m’abandonne à l’univers (ou au principe suprême qui s’y incarne) dans un mouvement d’adoration confiante, je compterai sur lui pour orienter mon jugement. Mais si je prétends mettre en question toutes les valeurs et en même temps la réalité même de l’univers – réalité se confondant ici avec intelligibilité au sens plein – bref, si, proclamant ma propre infirmité, je déclare en même temps que le monde est peut-être absurde, je m’établis en-deçà de tout jugement et de toute pensée possible, et il n’existe pas de tour de passepasse qui me permette de sortir de cette situation désespérée. C’est même trop peu dire: car le propre d’une situation quelle qu’elle soit est de pouvoir être exposée ou définie, et il semble bien que ma situation ici ne puisse l’être, car tous les repères font défaut, il n’y a plus d’axe de référence.

cludere che è assurdo pretendere di conciliare agnosticismo metafisico e agnosticismo morale. Vorrei riuscire a esprimere più chiaramente tutto ciò. Ammettiamo che, ponendomi di fronte all’universo, o, piuttosto, per quanto possa sembrare assurdo, tentando di farlo comparire davanti a me, io istruisca una sorta di processo contro di lui, cioè che io tenti di emettere un giudizio su di esso, di capire se prevale il bene oppure il male. Posso fare ciò soltanto se giudico di essere in possesso di categorie in nome delle quali ho la pretesa di prendere su di esso la giusta misura: questo è vero sia per Schopenhauer che per Leibniz. Se al contrario mi abbandono all’universo (o al principio supremo che vi si incarna) in uno slancio di adorazione confidente, è su di esso che farò assegnamento per orientare il mio giudizio. Se però ho la pretesa di mettere in discussione tutti i valori e nello stesso tempo anche la realtà dell’universo – realtà che in questo caso fa tutt’uno con l’intelligibilità nel suo significato più pieno –; in breve, se ammettendo la mia infermità dichiaro nello stesso tempo che il mondo forse è assurdo, mi colloco al di qua di ogni giudizio e di ogni possibile pensiero. E non esistono giochi di destrezza che mi consentano di uscire da questa situazione disperata. È perfino dire troppo poco: infatti caratteristico di una situazione, qualunque essa sia, è di poter essere esposta o definita, e sembra proprio che in questo caso la mia situazione non possa esserlo, poiché mancano tutti i punti di riferimento, non esiste un asse che faccia da guida.

Le Peuch, 20 mai 1943. En somme, je peux me condamner moi-même au nom du monde ou je peux à la rigueur condamner le monde au nom de ce que j’exige, c’est-à-dire de moi-même. Mais prononcer ces deux condamnations à la fois, c’est ne plus rien penser du tout. Plus exactement je me présente à moi-même comme incarnant certaines valeurs, ou tout au moins comme nourrissant certaines exigences; je peux reconnaître qu’à ces exigences de justice ou même de vérité, ce que j’appelle le monde paraît incapable de faire droit: de ce point de vue, je condamne le monde, mais je ne peux pas déclarer en même temps ces exigences elles-mêmes vides de sens. Les deux condamnations s’annuleraient. Je ne suis d’ailleurs pas sûr que tout ceci nous mène bien loin. Il vaudrait mieux arriver à définir quelle est l’attitude qui s’oppose à ce que j’ai appelé la neutralité préjudicielle de la pensée. Le Peuch, 21 mai 1943. J’ai l’impression de rôder à travers des broussailles, autour d’une évidence qu’il faudrait atteindre directement. Evidence aveuglée comme une fontaine recouverte par des feuilles mortes. Le Peuch, 22 mai 1943. Revenant sur la neutralité préjudicielle, je voudrais remarquer qu’elle est concevable seulement dans une situation qui exclut l’engagement. Je ne pense pas qu’elle soit concevable ou plutôt justifiable dans le mariage par exemple, où chacun

Le Peuch, 20 maggio 1943. Io stesso posso condannarmi in nome del mondo o, a rigore, posso condannare il mondo in nome di ciò che esigo, cioè di me stesso. Ma emettere questi due giudizi di condanna contemporaneamente significa non pensare più affatto. A essere più preciso, mi presento a me stesso come se incarnassi certi valori, o almeno come se nutrissi certe esigenze. Ciò che chiamo il mondo sembra incapace di soddisfare queste esigenze di giustizia o anche di verità: questo posso riconoscerlo. Da questo punto di vista io condanno il mondo, ma nello stesso tempo non posso ritenere queste stesse esigenze prive di senso. Le due condanne si annullerebbero a vicenda. Non sono certo d’altronde che tutto ciò ci porti lontano. Vorrei riuscire a definire meglio qual è l’atteggiamento che si contrappone a quella che ho chiamato la neutralità pregiudiziale del pensiero. Le Peuch, 21 maggio 1943. È come se mi muovessi tra le sterpaglie, intorno a un’evidenza che bisognerebbe raggiungere direttamente. Evidenza nascosta come una fontana ricoperta da foglie morte. Le Peuch, 22 maggio 1943. Prendendo nuovamente in considerazione la neutralità pregiudiziale, la si può concepire soltanto in una situazione che escluda l’impegno, lo si deve sottolineare. Non penso che si possa concepire, o piuttosto giustificare, nel matrimonio, ad esempio, in cui ciascuno dei coniugi deve sentirsi in

des conjoints a à se sentir en quelque façon responsable de l’autre, et non pas seulement du bonheur de l’autre. Or, le lien qui nous unit au monde où nous avons à vivre, est en quelque façon nuptial. Le Peuch, 23 mai 1943. Me référant à la fin des notes du 10 mai, je dirai que presque inévitablement cette recherche tend à se dégrader et à se traduire pour elle-même en langage de convoitise et de possession. La référence au transcendant a précisément pour fonction essentielle de rectifier cette image déformée. Ceci est très important. En relisant mes Notes de ces dernières semaines, j’ai de nouveau reconnu distinctement que la question de la présence à soi-même ou de l’intimité avec soi est une questionclé. Il n’est pas admissible qu’on ne puisse pas arriver à y voir clair. Mais je suis convaincu que je ne suis pas encore parvenu à la poser en termes adéquats. Il faut en réalité repartir de l’idée que j’ai exprimée autrefois d’après laquelle je me fais ombre à moi-même: c’est en cela que consiste mon opacité. Paris, 31 mai 1943. A la suite de la conversation que j’ai eue hier à Fontenay avec Jean Grenier, je continue mes notes sur la teneur métaphysique de l’expérience. Noter qu’elle ne peut être qu’appréciée mais non pas évaluée. (Elle a cela de commun avec la qualité esthétique; encore faut-il ajouter que celle-ci s’attache à une chose à laquelle, au moins en droit, elle donne un prix sur un certain marché. Rien de semblable ici.)

qualche modo responsabile dell’altro, e non soltanto della felicità dell’altro. Ora, per certi versi è un legame nuziale quello che ci unisce al mondo in cui dobbiamo vivere. Le Peuch, 23 maggio 1943. Riferendomi alle ultime annotazioni del 10 maggio, posso affermare che questa ricerca tende, quasi inevitabilmente, a degradarsi e a tradursi da se stessa in linguaggio di brama e di possesso. La funzione fondamentale del riferimento al trascendente è proprio quella di rettificare questa immagine deformata: è molto importante. Rileggendo i miei appunti di queste ultime settimane mi sono reso conto nuovamente in modo molto deciso che il problema della presenza a se stesso o dell’intimità con sé è una questione chiave. Non è ammissibile che non si possa vedervi chiaro. Sono convinto però che non sono ancora riuscito a porlo in termini adeguati. In realtà bisogna ripartire dall’idea già espressa altre volte secondo la quale io faccio ombra a me stesso: la mia opacità consiste in questo. Le Peuch, 31 maggio 1943. Dopo la conversazione di ieri a Fontenay con Jean Grenier, continuo le mie annotazioni sulla portata metafisica dell’esperienza. Notare che può essere soltanto oggetto di apprezzamento, ma non di valutazione. (In questo si può fare un parallelismo con la qualità estetica. Bisogna aggiungere però che quest’ultima viene riferita a una cosa alla quale, almeno di diritto, attribuisce un valore su un certo mercato, cosa che non ha riscontro in questo caso).

Dans quelle mesure peut-elle être appréciée par celui qui vit lui-même son expérience? Elle le peut très difficilement, car l’acte par lequel elle tend à s’apprécier elle-même risque de la réduire à zéro, dans la mesure où il tend à la convertir en prétention; ici toute prétention est vaine, et se condamne aussitôt qu’elle se formule. Une vie habitée par l’espérance. Mais l’espérance peut elle aussi se dégrader (j’aurai ma place – une place qui ne sera pas médiocre)? Une vie qui ouvre sur le ciel: mais justement la vie du bigot prétentieux n’ouvre pas sur le ciel, celui-ci est confondu avec le théâtre de préfecture où on ambitionne l’avant-scène. (Il ne nous appartient pas de dire jusqu’à quel point la porte est ouverte, puisque nous sommes nous-mêmes de la terre.) Prisonniers du quotidien: mais nous ne le sommes que si nous n’avons pas conscience de l’être, si nous y sommes confortablement installés. Il faut ajouter que ce qui s’oppose à cette installation, ce n’est aucunement l’évasion hors du quotidien ou même l’irritation contre le quotidien, mais c’est l’aptitude à le traverser, les yeux fixés ailleurs. Mais qu’est-ce que cet ailleurs? qu’est-ce que le ciel? Il y a une ritualisation possible du quotidien, mais celle-ci peut elle-même se dégrader lorsqu’elle n’est pas ordonnée au transcendant. Cette référence n’est aucunement assimilable à une disposition subjective qui ne serait qu’un colorant. La disposition subjective, là où elle existe, est interprétée comme signe d’une âme habitée par l’espérance. Des attaches qui ne sont pas des poids, mais qui laissent intacte une certaine liberté de la vie. Lien étroit avec la disponibilité. L’être indisponible est avant tout celui qui n’a pas le temps, qui est trop occupé...

In che misura può essere oggetto di apprezzamento da parte di colui che vive in prima persona la sua esperienza? Con grande difficoltà, poiché l’atto con il quale essa tende a stimare se stessa rischia di ridurla a zero, nella misura in cui può trasformarla in pretesa. Ma qui ogni pretesa è vana, e viene condannata nel momento stesso in cui viene formulata. Una vita abitata dalla speranza, ma anche la speranza può degradarsi (avrò il mio posto – un posto non mediocre)? Una vita rivolta verso il cielo. La vita del bigotto pieno di pretese, però, non è rivolta verso il cielo: esso viene confuso con il teatro del capoluogo in cui si ambisce ad occupare le prime file. (Non sta a noi dire fino a che punto la porta sia aperta, poiché apparteniamo noi stessi alla terra). Prigionieri del quotidiano: lo siamo soltanto se non abbiamo la consapevolezza di esserlo, se siamo comodamente insediati in esso. Non è affatto l’evasione dal quotidiano o l’irritazione per il quotidiano che vi si contrappone. È l’atteggiamento di chi lo vive attraversandolo, gli occhi fissi altrove. Ma cos’è questo altrove? Cos’è il cielo? È possibile una ritualizzazione del quotidiano, che può anch’essa degradarsi se non ha in vista il trascendente. Questo riferimento non si può affatto paragonare a una disposizione soggettiva che non sarebbe nient’altro che un colorante. La disposizione soggettiva, quando è presente, è interpretata come segno di un’anima abitata dalla speranza. Legami che non sono dei pesi, e che lasciano integra una certa libertà della vita. Connessione stretta con la disponibilità. L’essere indisponibile è prima di tutto colui che non ha tempo, che è troppo occupato…

J’espère pour vous, il ne suffit pas de dire que vous me demeurez présents; je ne vous sépare pas de moi, et ce qui n’est pas pour vous ne peut pas être non plus pour moi. L’agapé à la racine de l’espérance. Il est peut-être plus faux de considérer le ciel comme un état que de le regarder comme un lieu: cette opposition est peut-être d’ailleurs fictive. Paris, 1er juin 1943. Comprendre ce que c’est que le poids de l’existence – comment celle-ci se sépare de la vie et tend à s’opposer à elle. Idée d’une armature défensive qui se constitue autour de quelques jouissances auxquelles on tient (pour rien au monde je ne manquerais mon bridge du mardi, ou ma séance hebdomadaire de musique de chambre, etc... Pilotis sur du néant). Réfléchir à ce que sont les vies où ces pilotis font défaut. Coagulation qui est le signe ou la marque d’une désaffectation. Cette désaffectation correspondant à une dévalorisation générale de la vie. C’est par là que la vie dégénère en existence. Peut-être peut-on partir de là pour comprendre ce qu’est la valeur. L’existence telle que je viens de l’évoquer tend à se constituer en-deçà de toute valeur authentique pour autant que la valeur est liée à la créativité. La valeur comparée au souffle et à la lumière: opposition au stagnant et au blafard. La désaffectation se traduit par l’inaptitude croissante à l’admiration. Montrer comment l’admiration dégénère dans un monde soumis à l’hégémonie de la technique. La nature assimilée à une bête domptée. Tout ce qui est bon se fait malgré elle et en un certain sens contre elle.

Non basta dire che mi siete presenti: spero per voi. Io non vi separo da me, e ciò che non è per voi non può essere neppure per me. L’agape alla radice della speranza. Forse è più falso considerare il cielo come una condizione che come un luogo: del resto probabilmente questa contrapposizione è fittizia. Le Peuch, 1 giugno 1943. Comprendere cosa sia il peso dell’esistenza – e come quest’ultima si separi dalla vita e tenda a contrapporvisi. Idea di un’armatura difensiva che viene posta attorno ad alcuni godimenti ai quali si è particolarmente legati (per niente al mondo mancherei al mio bridge del martedì, oppure al mio concerto settimanale di musica da camera, ecc… Impalcature sul nulla). Riflettere su che cosa siano le vite in cui mancano tali impalcature. Coagulazione che è il segno o il marchio di un cambio d’uso, che corrisponde a una svalorizzazione generale della vita. È per questo che la vita degenera in esistenza. Forse è da questo che si può partire per comprendere cosa sia il valore. L’esistenza, come ho già detto, tende a porsi al di qua di ogni autentico valore nella misura in cui il valore è legato alla creatività. Il valore paragonato al soffio e alla luce: contrapposizione rispetto a ciò che è stagnante e livido. Il cambiamento d’uso si traduce nella crescente incapacità di ammirare. Mostrare come in un mondo sottomesso all’egemonia della tecnica l’ammirazione degeneri. La natura paragonata a una belva domata. Tutto ciò che è buono viene fatto suo malgrado, e in un certo senso contro di essa.

Il s’agit d’arracher à la vie le moyen de la rendre vivable, on ne songe plus à lui prêter rien qui ressemble à une complicité bienveillante. Outre ce que j’ai dit de la coagulation, marquer le rôle de la convoitise, on vit à crédit et comme au conditionnel, en attendant. Tout au plus compte-t-on sur sa chance. Notes du 17 janvier 1959. En relisant ces notes du printemps 1943 et celles de l’été suivant, comment ne serais-je pas frappé de l’opposition des perspectives! Dans tout ce qui précède l’accent est mis avant tout sur le caractère obturant de l’existence, celle-ci étant considérée dans son épaississement. Dans les Journaux qui vont suivre au contraire, l’attention se centre bien davantage sur ce qui précède cet épaississement et qui est au contraire jaillissement, ou en un autre langage, exclamation. Il est intéressant de ce point de vue de noter la différence de résonance entre existentiel et existant. L’existant, comme la sonorité même du mot l’indique, c’est l’amorti, c’est déjà presque le mortifié. Au lieu que le son clair d’existentiel correspond au moment de la découverte, on pourrait presque dire au moment où l’existence est atteinte ou appréhendée comme toi. Cette remarque, que je crois extrêmement importante, doit permettre de comprendre comment les réflexions qui vont suivre sont en réalité complémentaires des précédentes.

Si tratta di strappare alla vita il mezzo per renderla vivibile, e non si pensa più di donarle nulla che assomigli a una compiacente complicità. Oltre a ciò che ho detto sulla coagulazione, mettere in rilievo il ruolo della cupidigia: si vive a credito e come al condizionale, aspettando. Tutt’al più ci si affida alla fortuna. Annotazioni del 17 gennaio 1959. Rileggendo le annotazioni della primavera 1943 e quelle dell’estate seguente non avrei potuto non essere colpito dalla contrapposizione tra le prospettive! In tutto ciò che precede l’accento è messo prima di tutto sull’esistenza, considerata nel suo appesantirsi, nel suo caratterizzarsi come otturante. Nei diari che vengono dopo, invece, l’attenzione è posta molto di più su ciò che precede questo appesantimento, e che è al contrario zampillare o, detto diversamente, esclamazione. Da questo punto di vista è interessante rilevare la diversa risonanza di esistenziale e di esistente. L’esistente, come si coglie anche dal suono della parola, è ciò che è smorzato, già quasi mortificato. Il suono chiaro di esistenziale, invece, corrisponde al momento della scoperta, si potrebbe forse dire al momento in cui l’esistenza è colta o compresa come tu. Questa osservazione, che mi sembra estremamente importante, deve creare le condizioni per capire come le riflessioni che seguono in realtà siano complementari rispetto alle precedenti.

Le Peuch, 2 août 1943. L’existant se présente à moi comme ce qui résiste pour un temps à la destruction. Dès lors, l’existant, c’est ce qui existe encore, mais un jour n’existera plus. Ceci est particulièrement net pour les produits de l’art humain. La maison où naquit L... existe encore ou n’existe plus. La destruction se présente d’ailleurs comme à quelque degré immanente à l’existant. Ce qui existe se détruit insensiblement sous nos yeux. Ici l’existant est traité comme objet. Il est repérable, mais ce repérage est relatif à l’existence et ne la définit pas, l’existence se présentant comme une sorte d’épreuve subie ou vécue (idée d’une résistance opposée du dedans à cette destruction). Cette épreuve se conçoit comme extrapolation d’une lutte intérieure engagée au sein même de l’agent qui s’incarne dans la chose existante (comme si cette lutte se poursuivait, mais amortie, mais assourdie au sein de la chose elle-même). Bien entendu, telle réalité naturelle (une montagne, un rocher, etc...) pourra facilement être assimilée à un produit de l’art humain. De ce point de vue l’existence ne peut en aucune façon être détemporalisée. Exister, c’est poursuivre dans le temps une lutte désespérée. D’autre part, que devient ici l’opposition traditionnelle de l’essence et de l’existence? La lutte a pour enjeu le maintien ou la disparition d’une certaine forme; lorsque la forme n’est plus aucunement discernable, la chose n’existe plus, c’est-à-dire que la liaison n’est plus assurée entre le nom et ce qu’il prétend désigner, la désignation survit à la chose désignée. (Mais ceci n’est que l’existence vue et appréciée du dehors: notes du 14 août 1943.)

Le Peuch, 2 agosto 1943. L’esistente mi si presenta come ciò che resiste per un certo periodo alla distruzione, quindi l’esistente è ciò che esiste ancora ma che un giorno non esisterà più. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle produzioni dell’arte umana. La casa in cui nacque L. esiste ancora oppure non esiste più. D’altra parte la distruzione si presenta in una certa misura come immanente all’esistente. Ciò che esiste si distrugge impercettibilmente sotto i nostri occhi. Qui l’esistente è trattato come oggetto. Lo si può individuare, ma questa individuazione è relativa all’esistenza e non la può definire, dato che l’esistenza si presenta come una sorta di prova subita o vissuta (idea di una resistenza opposta dal di dentro a questa distruzione). Questa prova è concepita come l’estrapolazione di una lotta interiore nell’agente stesso che si incarna nella cosa esistente (come se questa lotta proseguisse ma attutita, smorzata in seno alla cosa stessa). È chiaro: questa realtà naturale (una montagna, una roccia, ecc.) potrà facilmente essere paragonata a un prodotto dell’arte umana. Da questo punto di vista l’esistenza non può in nessun modo essere sottratta al tempo. Esistere significa portare avanti nel tempo una lotta disperata. D’altra parte che cosa diventa in questo caso la tradizionale contrapposizione tra essenza ed esistenza? La posta in gioco della lotta è la conservazione o la distruzione di una certa forma. Quando la forma non si può più individuare in nessun modo, la cosa non esiste più, cioè viene meno il legame tra il nome e ciò che ha la pretesa di indicare, la designazione sopravvive alla cosa designata. (Questa, però, non è altro che l’esistenza vista e considerata dall’esterno: annotazione del 14 agosto 1943.)

On sera tenté de dire que plus un existant est complexe, plus il est vulnérable, plus il donne prise à la destruction; plus il est rudimentaire, moins il est destructible: c’est qu’il est déjà ce que la destruction pourrait faire de lui; dès lors il l’exclut comme possible. Mais un tel existant est comme s’il n’existait pas. Il ne se signale par rien: or exister, c’est se signaler, c’est faire appel à l’acte de discrimination. Se demander quel est le fondement de cette complexité dans l’agent lui-même, et ultérieurement, si cet agent peut être dit exister sans une dangereuse ambiguïté: problème de l’existence de l’autre et de moi-même. Mais indépendamment de la différence de complexité, n’y a-t-il pas lieu de faire intervenir une différence qui porte sur ce qu’on pourrait appeler le degré d’appartenance au monde? Il se peut d’ailleurs, en fin de compte, que ces deux distinctions coïncident approximativement. Disons qu’un être doué d’intelligence et de cœur présente une multiplicité extrême de points d’insertion dans le monde; son appartenance au monde est infiniment plus riche que celle d’un être dénué d’intelligence et dont la sensibilité est tout à fait indigente. Quel est le rapport entre existence et appartenance au monde? Peut-être conviendrait-il au préalable de se demander en quel sens il est légitime de dire que des déterminations telles que encore, ou ne plus, affectent véritablement l’existence ou l’existant. Quand je dis: tel tableau n’existe plus, je veux dire qu’il ne fait plus partie du monde actuellement donné. Par conséquent, je dois renoncer à l’espoir de le voir, et il ne faudra pas non plus songer à le faire figurer dans une exposition des œuvres de son auteur. S’il en existe des photographies ou des copies, à travers les unes ou les autres, on peut encore s’en «faire une idée», bien que lui-même n’existe plus. Ou s’il y a encore des gens qui l’ont vu avant sa destruction, on peut encore s’en former

Si avrà la tentazione di affermare che quanto più un esistente è complesso tanto più è vulnerabile, tanto più è soggetto alla distruzione; quanto più è rudimentale, invece, meno è soggetto alla distruzione. Le cose stanno così: è già ciò che la distruzione potrebbe fare di lui, e l’esclude quindi come possibile. Tuttavia è come se un tale esistente non esistesse. Non c’è nulla che lo distingua: ora, esistere significa distinguersi, significa fare appello all’atto di discriminare. Chiedersi quale sia nell’agente stesso il fondamento di questa complessità, e inoltre se si possa affermare anche, senza cadere in una pericolosa ambiguità, che questo agente esiste: problema dell’esistenza dell’altro e di me stesso. Indipendentemente dalla diversa complessità, però, non è forse il caso di chiamare in causa una differenza che si fonda su ciò che si potrebbe chiamare il grado di appartenenza al mondo? È possibile d’altronde che queste due distinzioni alla fin fine coincidano, sia pure approssimativamente. Un essere dotato di intelligenza e di sensibilità presenta una vastissima molteplicità di punti di inserzione nel mondo. La sua appartenenza al mondo è infinitamente più ricca di quella di un essere privo di intelligenza e che manca completamente di sensibilità. Qual è il rapporto tra esistenza e appartenenza al mondo? Preliminarmente converrebbe forse chiedersi in che senso sia legittimo affermare che determinazioni come ancora o non più valgano veramente per l’esistenza o l’esistente. Con l’affermazione “quel quadro non esiste più” intendo dire che non fa più parte del mondo attualmente dato. Devo quindi rinunciare alla speranza di vederlo, e non si potrà neppure pensare che venga esposto con le altre opere del suo autore. Si potrà “farsene un’idea”, benché non esista più come quadro, attraverso fotografie o copie, ammesso che siano a disposizione. Oppure se qualcuno l’ha visto prima che venisse distrutto, ed è ancora tra noi, si può formarsene

une vague idée à travers leur description. Dirons-nous que dans ces conditions il existe encore, bien qu’à un moindre degré? Je ne le crois pas. Il n’existe plus (ceci marquerait la solidarité entre existence et ipséité), il a existé, il a appartenu à ce monde, mais n’en fait plus partie. Pourronsnous dire qu’il mène encore une vie posthume, astrale dans la mémoire de ceux qui l’ont vu et qui s’en souviennent? Ici apparaissent les difficultés centrales. Qu’est-ce que ce il? Faut-il admettre que ce il, c’est l’essence du tableau, que cette essence a d’abord existé, mais que, n’existant plus, elle se survit en quelque sorte dans la mémoire de ces amateurs? Le processus de destruction n’aurait pu s’exercer que sur l’existant, non sur l’essence elle-même. Mais n’y a-t-il pas un processus de destruction secondaire qui s’attaque aux cellules du cerveau de ces amateurs qui elles-mêmes bientôt n’existeront plus (de même que les photographies ou les copies sont elles aussi vouées à disparaître à la longue)? Mais on peut se demander si tout cela n’est pas artificiel, si on ne se donne pas arbitrairement l’idée d’une essence qui aurait précédé sa propre incarnation, et qui en quelque manière pourrait lui survivre d’une survie d’ailleurs bien précaire. Or tout permet de penser que ce tableau ne s’est constitué qu’en se réalisant, et ce n’est que d’une façon grossièrement approximative que nous pouvons prétendre qu’il s’est pré-existé à lui-même – et de même l’image qu’en garde celui qui l’a contemplé autrefois, n’est ni le tableau ni l’essence du tableau, ce n’est qu’une certaine manière imparfaite de s’y référer.

una vaga idea grazie alla sua descrizione. In queste condizioni è possibile affermare che esiste ancora, benché a un livello inferiore? Non penso proprio. Non esiste più (ciò fa risaltare lo stretto legame tra esistenza e ipseità), è esistito, ha fatto parte di questo mondo, ma non ne fa più parte. Potremo dire che conduce ancora una vita postuma, astrale, nella memoria di coloro che l’hanno visto e se ne ricordano? Ecco emergere le maggiori difficoltà. Cos’è questo “esso”? Bisogna ammettere che questo “esso” è l’essenza del quadro, che questa essenza è esistita in un primo momento ma che, non esistendo più, sopravvive in qualche modo nella memoria di questi estimatori? Il processo di distruzione avrebbe potuto coinvolgere soltanto l’esistente, non la sua essenza. Non esiste inoltre un processo di distruzione secondaria che colpisce le cellule del cervello di questi estimatori, così che un giorno non lontano anche queste cellule non esisteranno più (non diversamente dalle fotografie o dalle copie che a lungo andare spariranno anch’esse)? Ci si può chiedere però se tutto ciò non sia artificioso, se non ci si formi arbitrariamente l’idea di un’essenza che sarebbe esistita prima della sua incarnazione, e che in qualche modo potrebbe sopravviverle, anche se di una sopravvivenza alquanto precaria. Ora, tutto porta a pensare che questo quadro ha preso forma solo realizzandosi, e soltanto con un’approssimazione molto grossolana possiamo sostenere che è pre-esistito a se stesso. Anche l’immagine conservata da chi l’ha contemplato in passato non è né il quadro né l’essenza del quadro: è soltanto un modo alquanto imperfetto di riferirsi a esso.

Le Peuch, 3 août 1943. Il me semble qu’il y aurait ici à distinguer le cas des êtres et celui des choses, et à considérer d’abord celui des êtres. L’être dont je pleure la disparition, même si en un sens il n’existe plus, existe encore pour moi – faut-il dire: du fait qu’il a existé? Il ne peut plus se faire qu’il n’existe pas. Il y a donc là une contradiction torturante dont il faut explorer les termes. Il n’existe plus, il n’est plus de ce monde, il n’y a plus part; on n’aura plus à le consulter (mais ceci qui est vrai du «on», ne l’est peut-être pas de moi: possibilité d’un appel personnel, d’une imploration). On ne tiendra donc plus compte de lui. Il s’est exclu de la comptabilité universelle (ceci d’ailleurs n’est même pas vrai juridiquement, dans la mesure où on tient compte de sa volonté, mais celle-ci est de l’encore existant, si elle est consignée dans un écrit). S’il est permis de parler de promotion dans l’existence – et il faudra se demander ce que cela signifie au juste – tout montre que cette promotion ne peut s’accomplir qu’à la faveur d’une conspiration. Rien ne peut donc être plus faux qu’imaginer une sorte de transposition de l’essence dans l’existence qui s’opérerait de soi par l’efficace pure et simple de vertus immanentes à l’essence. Et on devra se demander corrélativement si une autre forme de conspiration n’est pas requise pour le maintien dans l’existence de l’être que nous croyons de prime abord retiré du monde ou de l’existence (contradiction signalée plus haut). Cette conspiration originelle s’organise autour d’un être dont on ne sait encore rien, dont il n’y a encore rien à savoir, mais qui concentre sur lui la sollicitude aimante de ceux qui espèrent en lui. L’essence de cet être consiste dans l’espoir prophétique qu’il éveille.

Le Peuch, 3 agosto 1943. Su questo bisognerebbe fare una distinzione tra il caso degli esseri e quello delle cose, e prendere in considerazione innanzitutto quello degli esseri. Anche se da un certo punto di vista non esiste più, l’essere di cui piango la scomparsa esiste ancora per me. Bisogna aggiungere: per il fatto che è esistito? Non può più succedere che non esista. Si tratta di una torturante contraddizione i cui termini vanno analizzati. Non esiste più, non è più di questo mondo, non vi fa più parte. Non si dovrà più consultarlo (quello che vale per il “si” impersonale non vale forse per me: possibilità di un appello personale, di un’implorazione). Dunque non si terrà più conto di lui. Si è escluso dalla contabilità universale (questo non è vero d’altronde neppure giuridicamente, nella misura in cui si tiene conto della sua volontà che, se affidata a uno scritto, è qualcosa che esiste ancora). Se si può parlare di promozione nell’esistenza – ma bisognerà chiedersi che cosa ciò significhi esattamente –, tutto dimostra che questa promozione può realizzarsi soltanto grazie a una cospirazione. Niente di più falso che immaginare una sorta di trasposizione dell’essenza nell’esistenza che avverrebbe da sé per la pura e semplice efficacia di virtù immanenti all’essenza. E correlativamente bisognerà chiedersi se non sia richiesta un’altra forma di cospirazione per conservare nell’esistenza l’essere che di primo acchito crediamo sottratto al mondo o all’esistenza (di questa contraddizione ho già parlato prima). Questa cospirazione originaria viene organizzata attorno a un essere di cui non si sa ancora nulla, di cui non c’è ancora nulla da sapere, ma che concentra su di sé la sollecitudine portatrice d’amore di coloro che sperano in lui. L’essenza di questo essere consiste nella speranza profetica che risveglia.

Peut-on penser que cet être qui a été tout avenir, ne sera plus un jour que tout passé? Qu’est-ce que ceci impliquerait métaphysiquement? Cela reviendrait à affirmer le caractère méta-phénoménal de cette existence pour moi ou pour nous, qui à nous en croire, subsiste alors que l’existence pure et simple a cessé. A nous en croire, dis-je: car le propre de cette existence est de n’être pas manifeste, elle est un secret, et nous répugnons à livrer ce secret à un étranger, c’est-à-dire à le profaner. Nous qui sommes les détenteurs de ce secret, peut-être traduirions-nous assez exactement notre expérience, si nous disions que nous veillons sur un sommeil; ce qui revient à dire que nous espérons en un réveil. Veiller sur un sommeil: c’est faire en sorte que ce sommeil ne soit pas troublé ou interrompu par des intrus. Mais de quelle intrusion avons-nous à garder ici ceux que nous aimons? Cette intrusion ne peut être que l’infidélité sous tous ses aspects, dont l’oubli ou la négligence est le plus commun, ou encore l’indiscrétion. Je ne crois pas avoir rien écrit qui traduise plus directement une expérience plus intime et plus constante. Mais ce n’est encore qu’un amorçage. Il faut noter qu’une divergence d’interprétation peut se produire entre nous, les détenteurs du secret, lorsque l’un de nous ne voit qu’une infidélité à une mémoire, alors que l’autre a l’intime conviction que ce qui est trahi c’est la réalité même, c’est l’existant. Comment cette divergence d’interprétation peut-elle se produire et quelle en est la portée? Si cela est possible, c’est que nous ne sommes plus dans le domaine de l’existence telle quelle, où une investigation vérificatrice demeure toujours possible, au moins en droit. Pour reprendre et prolonger la métaphore évoquée plus haut, tout se passe comme si ce sommeil était contemplé à travers une cloison transparente. Nous ne sommes pas en

Si può forse pensare che questo essere che è stato soltanto futuro un giorno sarà nient’altro che passato? Quale sarebbe l’implicazione di tutto ciò dal punto di vista metafisico? Ne deriverebbe il carattere metafenomenico, per me o per noi, di questa esistenza, che continua a esistere, se si presta fede alle nostre parole, anche quando ha avuto fine l’esistenza pura e semplice. Se si presta fede alle nostre parole, ho detto: infatti questa esistenza si caratterizza per il fatto di non essere manifesta. È un segreto, e ci ripugna rivelarlo a un estraneo, vale a dire profanarlo. Noi che custodiamo questo segreto potremmo forse esprimere in modo abbastanza fedele la nostra esperienza dicendo che vegliamo su qualcuno che dorme, cioè speriamo che si risvegli. Vegliare su qualcuno che dorme: significa fare in modo che questo sonno non sia turbato o interrotto da intrusi. Ma in questo caso da che tipo di intrusione dobbiamo difendere coloro che amiamo? Questa intrusione non può essere altro che l’infedeltà in tutte le sue forme: la dimenticanza o la negligenza o anche l’indiscrezione sono le più comuni. Non penso di aver scritto nulla che esprima in modo più diretto un’esperienza così intima e costante. Si tratta però soltanto di un tentativo. Tra noi detentori del segreto possono però nascere interpretazioni divergenti: uno vi scorge soltanto un’infedeltà alla memoria mentre l’altro è profondamente convinto che a essere tradita sia la realtà stessa, l’esistente. Perché possono esserci interpretazioni divergenti e che cosa significa tutto ciò? È possibile perché non ci troviamo più a livello dell’esistenza come tale, in cui un’indagine per verificare è sempre possibile, almeno di diritto. Per riprendere e approfondire la metafora ricordata prima, tutto avviene come se il sonno fosse contemplato attraverso una parete divisoria trasparente. Noi non siamo quindi nelle condizioni di assicurarci se il

état de nous assurer si ce dormeur respire encore. Il a été soustrait à nos prises, il ne nous est plus permis en aucune façon de nous livrer sur lui à on ne sait quelle manipulation détectrice qui nous donnerait le moyen de nous prononcer sur son état réel, ou plus exactement cette manipulation ne peut plus s’exercer que sur un simulacre en voie de disparition (exhumation d’un corps). Ce simulacre s’impose à nous d’ailleurs, et ce n’est qu’à condition de triompher de l’obsession qui émane de lui que nous pouvons garder notre secret et respecter le vœu qui ne s’en laisse point séparer. Mais celui qui se borne à respecter une mémoire, cède en dernière analyse à la puissance d’intimidation que dégage le simulacre, puisqu’il en vient à considérer celui-ci comme la réalité dont il ne nous est donné que d’entretenir en nous la copie chaque jour plus pâle, – comme on époussette une photographie sur une cheminée. Ceci n’est toutefois que la représentation bien décevante qu’on se donne à soi-même d’un acte d’essence cultuelle qu’on éprouve le besoin d’accomplir et de renouveler, mais qu’on se sent en même temps hors d’état de penser. En fin de compte, rien ne peut s’expliquer ici du seul point de vue de l’image; si même c’est l’image, matérielle ou intérieure, que je soigne, que j’entretiens, c’est par amour pour l’être lui-même – ce qui revient à dire que celui-ci n’est pas traité comme image. Autrement, nous nous enfoncerions dans l’absurde. Notre fidélité ne peut se fonder que sur une adhésion ou une application maintenue à une existence qui ne peut en aucune façon être reléguée dans le monde des images. Tout ce que l’on peut dire, c’est qu’une image, si rudimentaire soit-elle, m’est nécessaire pour que je puisse prendre conscience de cette adhésion ou de cette application; c’est la modalité suivant laquelle elle se signifie elle-même pour moi. Disons provisoirement que le souvenir se détaille en images, se débite sous forme d’images, sans être lui-même image.

dormiente respiri ancora. È stato sottratto alla nostra presa, non ci è più possibile in nessun modo dedicarci a lui con un insieme di operazioni che ci darebbero la possibilità di pronunciarci sul suo reale stato. O, più esattamente, questa manipolazione può essere effettuata soltanto su un simulacro in via di sparizione (esumazione di un corpo). D’altronde questo simulacro si impone a noi, e solo trionfando sull’ossessione di cui è all’origine possiamo conservare il nostro segreto e rispettare il voto che non può affatto esserne separato. In ultima analisi, però, chi si limita a rispettare un ricordo cede al potere di intimidazione che proviene dal simulacro: lo considera la realtà di cui possiamo soltanto conservare in noi la copia ogni giorno più smorta – come si toglie la polvere da una fotografia sul caminetto. Tutto ciò non è altro, tuttavia, che la rappresentazione molto deludente che viene offerta a se stessi di un atto simile per essenza al culto che si sente il bisogno di compiere e di rinnovare. Nello stesso tempo, però, non ci si sente in grado di pensarlo. Nulla in tutto ciò può essere spiegato soltanto dal punto di vista dell’immagine. Anche se mi prendo cura, se conservo l’immagine materiale o interiore, lo faccio per amore per l’essere stesso – vale a dire che l’essere non è trattato come immagine. Diversamente sprofonderemmo nell’assurdo. La nostra fedeltà può fondarsi soltanto su un’adesione o un impegno mantenuto nei confronti di un’esistenza che non può assolutamente essere relegata nel mondo delle immagini. Tutto ciò che si può dire è che un’immagine, per quanto sia rudimentale, mi è necessaria per prendere coscienza di questa adesione o di questo impegno. È il modo in cui essa stessa acquista un significato per me. Provvisoriamente si può dire che il ricordo si particolarizza in immagini, si presenta sotto forma di immagini, pur non essendo esso stesso immagine.

Ce dernier point ne paraît pas pouvoir être sérieusement contesté. Une équivoque subsiste cependant. Cette existence à laquelle je continue à adhérer ne doit-elle pas être affirmée comme simple existence passée (un exister encore de ce qui n’existe plus)? Mais cette formule est ambiguë. Il semble bien qu’il y ait ici à distinguer très strictement: 1° la persistance du passé en tant que passé, en tant qu’évoqué; 2° un indéfectible par attachement auquel nous entretenons ces souvenirs. Il y a tout à perdre à s’imaginer que cet indéfectible est lui-même image ou souvenir; il est une présence maintenue. L’être que j’aime est toujours là. Il est là comme moi-même et au même titre; je ne suis qu’en liaison maintenue avec lui; et si cette liaison se rompait, je ne serais plus. Mais chose étrange, infiniment paradoxale, il peut se faire que cet indéfectible soit recouvert et comme étouffé par ces souvenirs, et que ceux-ci se substituant à lui deviennent idoles. Il n’y aurait de ce point de vue aucun sens à prétendre que l’indéfectible appartient au passé, une telle appartenance ruinerait cette indéfectibilité. Indéfectibilité conditionnelle, diront certains: non, mais donnée (ascertainable)* seulement pour qui, je ne dirai pas s’en est rendu digne, mais la réclame au plus profond de lui-même. L’indéfectible, c’est ce qui ne peut pas faire défaut là où une fidélité radicale est maintenue; ceci revient à dire qu’il est une réponse. Mais en même temps cette réponse ne peut pas être automatique, sans que la fidélité soit altérée et même détruite en son principe. Ceci revient à dire que l’âme fidèle doit faire l’expérience de la nuit, et même qu’elle doit connaître la tentation de se laisser aveugler intérieurement par cette nuit qu’il lui faut traverser. Cette épreuve est liée au journalier comme tel, au «jour après jour». L’indéfectible

Una seria confutazione di quest’ultimo punto non sembra possibile. Tuttavia permane un equivoco. L’esistenza alla quale continuo ad aderire non deve essere affermata come semplice esistenza passata (un esistere ancora di ciò che non esiste più)? Questa formula, però, è ambigua e sembra quindi opportuno distinguere in modo rigoroso: 1° la persistenza del passato in quanto passato, in quanto evocato; 2° un indefettibile per attaccamento al quale conserviamo questi ricordi. Vi è tutto da perdere nell’immaginare che questo indefettibile sia esso stesso immagine o ricordo: è una presenza conservata. L’essere che amo è sempre là. È là come lo sono io e allo stesso titolo. Io sono in quanto conservo un legame con lui, e se questo legame venisse meno io non sarei più. Cosa strana, infinitamente paradossale, può succedere però che questo indefettibile venga nascosto e come soffocato da questi ricordi, i quali sostituendosi a lui diventano idoli. Da questo punto di vista non ha alcun senso pretendere che l’indefettibile appartenga al passato: l’appartenenza al passato distruggerebbe l’indefettibilità. Indefettibilità condizionale, dirà qualcuno: le cose non stanno così. Data però soltanto a chi la reclama dal più profondo di se stesso, direi, non a chi se ne è reso degno. L’indefettibile è ciò che non può venire meno quando è conservata una fedeltà radicale, vale a dire che è una risposta. Nello stesso tempo, però, tale risposta non può essere automatica senza che la fedeltà venga alterata e perfino distrutta nella sua essenza. Ne consegue che l’anima fedele deve fare l’esperienza della notte, e anche conoscere la tentazione di lasciarsi accecare interiormente dal buio che deve attraversare. Questa prova è legata al quotidiano in quanto tale, al “giorno dopo giorno”. L’indefettibile non è affatto, quindi,

n’est donc aucunement la permanence d’une essence, ou du moins ce n’est pas selon le mode d’une telle permanence qu’il peut nous être donné; car l’essence quelle qu’elle soit se révèle infailliblement à une pensée qui progresse suivant une certaine loi objectivement formulable. Ici il n’y a rien de tel; il ne peut rien y avoir de tel là où c’est un rapport d’être à être qui est en question. Et c’est pour cela qu’il ne peut y avoir de technique de l’amour ou de la charité. Mais d’autre part, du côté du sujet, là où aucune technique n’est concevable, il y a place pour toutes les lacunes, pour tous les faux mouvements, pour tous les abus et pour toutes les contre-façons. C’est à travers ces erreurs et ces vicissitudes sans nombre qu’il nous est donné de voir luire les feux intermittents de l’indéfectible. Je ne me dissimule pas ce qu’il y a apparemment de contradictoire à joindre intermittence et indéfectibilité. Mais c’est justement cette jonction paradoxale qu’il faut savoir maintenir. Faut-il comprendre que la fidélité crée l’indéfectible? Ici on ne saurait récuser trop formellement les interprétations idéalistes. Le rôle de la fidélité consiste non à créer quoi que ce soit, mais à dissiper sans relâche les nuées qui menacent de recouvrir – quoi? – une image? Sûrement non: une présence que des images manifestent ou concrétisent de façon très variable. Celui qui souffre de ne plus revoir distinctement qui il pleure, n’aime pas moins pour cela. Dira-t-on que je reprends l’argument ontologique en le pulvérisant? Et que d’autre part, je prends pour point d’appui, non point une idée, mais une donnée affective? La vérité est que ma réflexion s’exerce sur une expérience où le souvenir affecte le caractère de la piété; c’est à la racine de cette expérience que la réflexion discerne la présence d’un indéfectible, en même temps qu’elle reconnaît le caractère inévitablement intermittent de ces manifestations.

il permanere di un’essenza, o almeno non può esserci dato nel modo in cui si presenta tale permanenza. Infatti l’essenza, qualunque essa sia, si rivela infallibilmente a un pensiero che procede seguendo una legge formulabile oggettivamente. Nulla di simile in questo caso: non può esserci qualcosa di questo tipo quando si tratta di un rapporto da essere a essere. E proprio per questo non può esistere una tecnica dell’amore o della carità. D’altra parte, però, quando non si può fare ricorso a nessuna tecnica, per il soggetto c’è posto per tutte le mancanze, per tutte le mosse false, per tutti gli abusi, per tutte le contraffazioni. Proprio attraverso questi innumerevoli errori e vicissitudini diventa possibile per noi veder risplendere i fuochi intermittenti dell’indefettibile. Nell’unire intermittenza e indefettibilità c’è una contraddizione, apparentemente: non lo nascondo a me stesso. Ma è proprio questa unione paradossale che bisogna saper conservare. Bisogna pensare che la fedeltà crea l’indefettibile? In questo caso non si possono rifiutare in modo troppo formale le interpretazioni idealistiche. Il ruolo della fedeltà consiste non nel creare una cosa qualsiasi, ma nel dissipare senza sosta le nubi che minacciano di oscurare – che cosa? Un’immagine? Sicuramente no: una presenza resa manifesta o concreta in modo molto vario da alcune immagini. Non vuol dire che chi soffre per il fatto di non rivedere in modo distinto colui per il quale piange ami meno. Riprendo forse l’argomento ontologico polverizzandolo? E si potrà pensare d’altronde che come punto d’appoggio non assuma affatto un’idea ma un dato della sfera affettiva. La verità è che la mia riflessione riguarda un’esperienza in cui il ricordo assume i caratteri della pietà. È proprio alla radice di questa esperienza che la riflessione individua la presenza di un indefettibile, e nello stesso tempo riconosce il carattere inevitabilmente intermittente di queste manifestazioni.

On m’a demandé si une expérience de cet ordre présentait à mes yeux un caractère universel. Je ne puis répondre. Je ne peux que proférer et proposer ce que livre ma réflexion s’exerçant sur mon expérience. Peut-être convient-il d’ajouter que je trouve en moi-même le sceptique ou le profane que je ne puis espérer convaincre entièrement, mais seulement ébranler. Et ceci montre assez clairement qu’il ne s’agit pas d’une démonstration de l’immortalité de l’âme au sens classique, et qu’il ne peut même être question de rien de semblable. Il serait intéressant de me reporter à mes notes d’hier qui portaient sur l’objet, par exemple sur la maison de campagne qui n’existe plus. Sous certains rapports, elle est manifestement comparable au corps qui n’est plus que poussière. Mais y a-t-il un sens où cette maison est âme et survit? Sans aucun doute, dirai-je, pour autant qu’elle a fait centre pour un certain nous auquel elle s’est incorporée. Elle a contribué à fonder une intimité, mais en retour cette intimité l’exhausse en quelque sorte au-dessus du monde des choses, simplement périssables, et la consacre. Mais ceci ne revient pas à dire que lui est ainsi assurée l’immutabilité d’une essence, mais bien une vie que scandent en quelque sorte les pulsations de la mémoire. Au fond, il s’agit pour comprendre une telle position, d’exorciser la notion de l’objet qui existe toujours lors même qu’il n’y a personne pour le percevoir. On reviendra cependant à la charge pour me dire: cette présence indéfectible est-elle fonction de l’acte par lequel elle est évoquée? Je dirai ici: sûrement non. On pourrait dire que le rapport impliqué dans l’image d’un sommeil sur lequel je veille, tend à s’inverser – et que cette présence peut à son tour être regardée comme tutélaire.

Un’esperienza di questo tipo si presenta ai miei occhi con il carattere dell’universalità? È una domanda che mi è stata posta, ma che rimane senza risposta. Posso soltanto presentare e proporre ciò che può risultare dalla mia riflessione sulla mia propria esperienza. È opportuno aggiungere, forse, che in me stesso sono presenti lo scettico o il profano che posso sperare almeno di scuotere, ma non di convincere completamente. E questo dimostra assai chiaramente che non si tratta di una dimostrazione dell’immortalità dell’anima in senso classico, e che comunque non ha a che fare con nulla di simile. Ritornare sulle annotazioni di ieri sarebbe interessante, su quelle che riguardavano l’oggetto, ad esempio la casa di campagna che non esiste più. Da un certo punto di vista si può fare un evidente parallelismo con il corpo che è soltanto polvere. Esiste però un significato rispetto al quale questa casa è anima e sopravvive? Senza ombra di dubbio, direi, nella misura in cui ha costituito il centro per un certo noi nel quale si è incorporata. Ha contribuito a fondare un’intimità, ma di rimando questa intimità la eleva in qualche modo al di sopra del mondo delle cose, delle cose semplicemente periture, consacrandola. Non le viene così assicurata l’immutabilità di un’essenza, non è questo che intendo dire, ma piuttosto una vita scandita in qualche modo dalle pulsazioni della memoria. Per comprendere questa posizione bisogna in sostanza esorcizzare il concetto di oggetto che esiste sempre, anche quando non viene percepito da nessuno. Si ritornerà alla carica per dire: questa presenza indefettibile è in funzione dell’atto con il quale è evocata? La mia risposta è negativa, non c’è dubbio. Si potrebbe affermare che il rapporto implicato nell’immagine di un sonno sul quale veglio tende a invertirsi – e che questa presenza può a sua volta essere considerata come tutelare.

Passage au j’existe. L’affirmation d’un je suis, est enveloppée dans la question que perpétuellement je m’adresse à moi-même: qui suis-je? Qui suis-je, moi qui m’interroge sur ce que je suis? Mais dire: j’existe, c’est dire: je suis au monde, j’appartiens à un certain concert, je suis engagé dans un consensus. On m’assure que je sais n’avoir pas toujours existé. Le sais-je vraiment? Que signifie ici savoir? Montrer que ceci est déjà obscur, mais est encore bien plus obscur, plus incertain, s’il s’agit d’un avenir auquel je n’aurai aucune part. Le Peuch, 4 août 1943. Plus j’y réfléchis, plus il me semble faux de dire: je sais que je n’ai pas toujours existé. Il y a ici et il ne peut y avoir qu’un non-savoir. Je ne sais pas si j’ai participé au monde qui a précédé «ma naissance», et suivant quelles modalités. Il pourrait d’ailleurs se faire que j’obtienne un jour d’une façon fortuite ou non quelques clartés sur ce point. Mon être même participe peut-être de cette indéfectibilité dans l’intermittence à laquelle j’ai accès quand ma ferveur se concentre sur un mort aimé. Ma naissance ou même ce qui l’a précédée ou suivie n’est que l’objet d’une connaissance par ouï-dire. Il y a un sens où j’ai le droit d’affirmer qu’elle m’est étrangère. Quand je dis, je suis, je puis simplement traduire par là l’assurance qui porte sur l’être, et qu’on formulerait presque aussi exactement en disant: il y a de l’être. Ce sont là deux versants qui à la cime se confondent.

Passaggio all’io esisto. L’affermazione di un io sono è implicata nella domanda che rivolgo continuamente a me stesso: chi sono io? Chi sono io che mi interrogo su ciò che sono? Affermare “io esisto” significa dire “io sono al mondo”, io faccio parte di un certo insieme, io sono impegnato in un’intesa. Mi viene assicurato che io so di non essere sempre esistito. Lo so veramente? In questo caso cosa significa sapere? Evidenziare che già questo è oscuro, ma è ancora molto più oscuro, più incerto se si tratta di un avvenire al quale non prenderò parte in nessun modo. Le Peuch, 4 agosto 1943. So di non essere sempre esistito: più rifletto su questa affermazione più mi sembra falsa. Si tratta soltanto, e non può essere diversamente, di un non-sapere. Non so se e in che modo io abbia partecipato al mondo che ha preceduto “la mia nascita”. Potrebbe succedere d’altronde che su questo un giorno, in un modo più o meno fortuito, io ottenga dei chiarimenti. Il mio stesso essere partecipa forse di questo indefettibile nell’intermittenza alla quale posso accedere quando il mio fervore si concentra sulla persona amata che è morta. La mia nascita o anche ciò che l’ha preceduta o seguita è soltanto l’oggetto di una conoscenza per sentito dire. E in un certo senso posso affermare che mi è estranea. Affermando “io sono” posso esprimere semplicemente la garanzia relativa all’essere, e che potrebbe essere formulata quasi altrettanto precisamente dicendo: vi è dell’essere. Si tratta di due versanti che sulla cima diventano una cosa sola.

Arriver à mieux saisir en quoi consiste la différence de niveau existentiel (ceci à relier à ce que j’ai dit de la teneur métaphysique de l’expérience humaine). Peut-être peut-on utiliser ici ce que j’ai écrit sur le quotidien. Le quotidien pur et simple: situation d’un être qui sait exactement où trouver ce dont il a besoin; les cuillers et les fourchettes sont dans ce tiroir-ci et pour les occasions exceptionnelles on cherchera les couverts chiffrés qui sont dans tel autre tiroir. Il y a là une expérience qui peut se présenter tantôt comme celle d’une maîtrise, tantôt comme celle d’une sujétion. Considérer l’ivresse de la découverte par opposition à cette maîtrise-sujétion. Les certitudes sont assimilables à des ressources que j’ai à ma disposition. Mais elles peuvent se déprécier à mes yeux, justement parce que je les ai à ma disposition. FONCTION ESSENTIELLE DE L’INSATISFACTION

Notes sur l’indubitable à éclipses Ce qui me paraît intéressant ici, c’est l’effort pour comprendre dans une notion supérieure les éclipses de l’assurance existentielle, symbolisées par l’acte qui nous permet de comprendre l’alternative nécessaire du jour et de la nuit. Je dois arriver à me rendre compte, même quand la présence m’échappe, que je n’ai pas pour cela à la mettre en doute, qu’elle ne me fait pas réellement défaut, non plus que le soleil caché. L’absence ne doit pas être pour moi un motif qui me pousse à remettre en question (de même que la nuit, je ne doute pas de l’existence du soleil, je connais les raisons pour lesquelles je ne peux pas le voir tout le temps). Il y a ici quelque chose d’analogue mutatis mutandis; c’est-à-dire

Riuscire a cogliere meglio in che cosa consista la differenza di livello esistenziale (da collegare a ciò che ho affermato sul contenuto metafisico dell’esperienza umana). Forse a questo punto può essere utile ciò che ho scritto sul quotidiano. Il quotidiano puro e semplice: situazione di un essere che sa esattamente dove trovare ciò che gli serve. I cucchiai e le forchette sono in questo cassetto, mentre per le occasioni particolari bisognerà cercare le posate con le iniziali che si trovano in un altro cassetto. Si tratta di un’esperienza che può presentarsi sia come un’esperienza di dominio sia di sudditanza. Considerare l’ebbrezza della scoperta in contrapposizione a tale dominio-sudditanza. Le certezze sono assimilabili a risorse a mia disposizione. Ma ai miei occhi possono perdere valore, proprio perché le ho a mia disposizione. FUNZIONE ESSENZIALE DELL’INSODDISFAZIONE

Annotazioni sull’indubitabile che si eclissa Interessante è lo sforzo per integrare in un concetto superiore le eclissi della certezza esistenziale, simboleggiate dall’atto che ci consente di comprendere la necessaria alternanza del giorno e della notte. Devo riuscire a rendermi conto che non devo mettere in dubbio la presenza nemmeno quando mi sfugge: non viene realmente meno per me, non diversamente dal sole nascosto. L’assenza non deve costituire per me un motivo per metterla in discussione (così come di notte non dubito dell’esistenza del sole, essendomi noti i motivi per i quali non posso vederlo ininterrottamente). In questo caso, mutatis mutandis, si tratta di qualcosa di simile:

que je comprends pourquoi il est de l’essence de la présence de ne pas être toujours manifesté – sans que je puisse dire d’ailleurs que c’est invariablement ma faute si elle s’éclipse. La réalité est beaucoup plus compliquée. Et il ne peut naturellement y avoir de lois objectivement formulables dans l’existentiel qui permettent de rendre compte chaque fois de ces alternances et de les prévoir. Ceci lié au caractère intersubjectif de la présence. Question latérale, mais importante: puis-je repérer à un moment donné mon propre niveau existentiel? A première vue, il me paraît presque certain que je ne le puis pas12. Ce niveau doit correspondre à la façon dont se spécifie l’affirmation personnelle d’existence qui sous-tend mon expérience à un moment donné. Mais ceci ne dépend-il pas de la façon dont mon attention fondamentale se focalise à ce moment-là? Prenons garde: ce qui compte ici, c’est peutêtre moins l’objet sur lequel cette attention se concentre que la perspective suivant laquelle le champ d’attention se dispose. Ceci est encore trop peu clair, il faudra concrétiser. Dans le cas d’un livre, par exemple, distinguer les modalités différentes que peut affecter l’intérêt pour ce livre. (Il va de la curiosité à la passion.)

12 La vérité ne serait-elle pas que je suis à la fois à des niveaux distincts sans que je puisse toujours discerner moi-même auquel de ces niveaux je suis davantage moi. Les expressions dont on use ici sont d’ailleurs toutes sujettes à caution. La difficulté principale vient de ce que nous pouvons difficilement nous débarrasser de l’image spatiale d’un noyau.

capisco perché per essenza la presenza non può essere sempre manifesta – senza che io possa affermare d’altronde che il suo eclissarsi è invariabilmente colpa mia. La realtà è molto più complessa. E naturalmente nell’esistenziale non si possono individuare leggi oggettivamente formulabili che di volta in volta permettano di rendere conto di queste alternanze, e di prevederle. C’è un legame con il carattere intersoggettivo della presenza. Problema laterale ma importante: in un certo momento ben preciso posso individuare il mio livello esistenziale? A prima vista mi sembra quasi sicuramente di no12. Questo livello deve corrispondere al modo in cui viene a specificarsi l’affermazione personale d’esistenza che sottende la mia esperienza in un momento preciso. Ma questo non dipende dal modo in cui in quel momento la mia attenzione fondamentale si concentra? Facciamo attenzione: in questo caso ciò che conta non è tanto l’oggetto sul quale l’attenzione si concentra quanto la prospettiva in cui si dispone il campo di attenzione. Tutto ciò è ancora troppo poco chiaro, bisognerà concretizzare. Nel caso di un libro, ad esempio, distinguere i vari tipi di interesse che esso può suscitare. (Si va dalla curiosità alla passione).

12

Io sono contemporaneamente a livelli differenti: è questa, forse, la verità, senza che io stesso sia sempre in grado di riconoscere a quale di questi livelli io sia maggiormente me stesso. D’altronde le espressioni di cui mi servo qui sono tutte discutibili. La difficoltà principale deriva dal fatto che noi difficilmente possiamo liberarci dall’immagine spaziale di un nucleo.

Le Peuch, 5 août 1943. Je songeais hier soir que c’est peut-être en partant des notions de disponibilité, de perméabilité, de consécration, qu’on peut le mieux saisir ce qu’est le niveau existentiel. Peut-être dira-t-on; «il n’y a là que des différences portant sur des états» – mais ceci suppose qu’on prend le mot état dans une acception très vague; d’autant que pour penser la disponibilité, on ne peut éliminer l’idée d’une «référence à», d’un être accordé avec. Faut-il dire que la différence de niveau existentiel coïncide avec celle du clos et de l’ouvert? Il me semble qu’il faut aller plus au fond, et, ainsi que je l’indiquais hier, se demander comment l’affirmation du j’existe se spécifie. Se demander aussi jusqu’à quel point il est licite de prétendre que le sujet n’est pas le même dans les divers cas. Le mieux serait sans doute de dire non qu’il n’est pas le même, mais qu’il ne porte pas le même indice. Mais il y a là encore un terme à définir avec précision. Au fond, le mieux serait de se reporter aux premières notes où j’ai fait état de cette distinction en mars-avril derniers. J’écrivais le 25 mars: «ce qui peut compter pour moi, c’est un indubitable qui ne puisse être mis en question quand je suis à un certain niveau de moi-même. S’il ne peut jamais être mis en question, c’est qu’il est insignifiant.» Voici une illustration précise de ce que je voulais dire: il y a des moments où je trouve un sens à ma vie, il me semble que je peux même accepter alors les déceptions qui ont été les plus cruelles, que je vois pourquoi il a fallu qu’elles me fussent infligées. Il y a d’autres moments au contraire où je suis incapable de m’élever à ce niveau, où je me confonds avec les blessures, avec les altérations que la vie m’a prodiguées, et il me semble alors que j’ai été dupe de constructions édifiées par mon imagination.

Le Peuch, 5 agosto 1943. Cosa sia il livello esistenziale si può cogliere meglio partendo dai concetti di disponibilità, di permeabilità, di consacrazione, pensavo ieri sera. Forse si dirà: “si tratta soltanto di differenze che riguardano alcuni stati”, dove il termine “stato” è assunto con un significato molto vago, mentre per pensare la disponibilità non si può eliminare l’idea di un “riferimento a”, di un “essere in accordo con”. Si deve affermare che la differenza di livello esistenziale coincide con quella tra il chiuso e l’aperto? Mi sembra necessario andare più a fondo e, come dicevo ieri, chiedersi in che modo si specifichi l’affermazione io esisto. Fino a che punto è lecito sostenere che il soggetto non è lo stesso nei diversi casi? Senza dubbio la cosa migliore sarebbe affermare non che non è lo stesso, ma che lo è secondo un diverso indice. Ecco però che si ripresenta ancora un termine da definire in modo preciso. In fondo la cosa migliore sarebbe richiamarsi alle prime annotazioni di marzo e aprile scorsi in cui ho precisato questa distinzione. Il 25 marzo scrivevo: “ciò che può contare per me è un indubitabile che non possa essere messo in dubbio quando sono a un certo livello di me stesso. Se non può mai essere messo in questione vuol dire che è insignificante”. Ecco un’esemplificazione precisa di ciò che intendevo dire: in alcuni momenti riesco a dare un senso alla mia vita, mi sembra quindi di poter accettare anche le delusioni più crudeli, e di capire perché mi siano state inflitte. In altri momenti, invece, sono incapace di elevarmi a questo livello, mi identifico con le ferite, con le disgrazie di cui la vita è stata prodiga, e mi sembra perciò di essermi fatto ingannare dalle costruzioni edificate dalla mia immaginazione.

Autre exemple: ma façon d’apprécier mes proches, mes plus proches; il peut se faire que je sois comme livré à telle impression immédiate de frottement, de froissement, de grincements. Il peut se faire au contraire que je me dégage tout à fait de ces impressions immédiates et que j’accède à une appréciation beaucoup plus ample et plus pure de ce qu’ils sont en eux-mêmes et aussi pour moi: cf. mes notes du 3 mai dernier, et la lettre à Berteloot où j’insistais sur le fait de se centrer sur soi-même comme sur un organe souffrant; c’est-à-dire en somme la complaisance à soi-même ou l’attendrissement sur soi (cf. l’Egoïste de Meredith). Ici cependant une confusion possible est à signaler. On pourra être tenté de dire que ce qui importe c’est de parvenir à l’objectivité. Mais ce mot est trompeur. Objectivement parlant, il est douteux que je puisse conférer un sens à ma vie. Je crois que j’ai eu tout à fait raison de faire intervenir la valeur. Tout ce que j’ai écrit là-dessus à la fin de mes notes du 3 mai dernier me paraît exact, mais est encore insuffisant: trop négatif. C’est le lien entre existence et valeur qu’il faudrait parvenir à dégager. Noter que la valeur, plus manifestement encore que la présence, est intersubjective. Je regardais tout à l’heure dans le Traité de Morale de Le Senne, ce qu’il dit de la valeur. Cela ne me satisfait qu’en partie; il a su remarquablement déceler la jonction de quelque chose qui vient de moi, qui est une aspiration, et de quelque chose qui est un don et vient comme à la rencontre. Ceci est capital et nous libère de ce qu’il y a de plus stérilisant dans l’idéalisme. Mais la notion même de valeur n’est pas claire. Je reverrai tout à l’heure ce qu’il dit dans Obstacle et Valeur. En parcourant les pages 175 et suivantes, j’ai l’impression qu’il y a là des indications importantes, mais que la pensée reste au fond malgré tout assez floue. Dans sa dédicace

Un altro esempio: il mio modo di considerare chi mi è vicino, chi mi è particolarmente vicino. Può accadere che io sia in balia di una certa impressione immediata di attrito, di offesa e di stridore. Ma può succedere anche, al contrario, che io mi liberi completamente da queste impressioni immediate e che riesca a formulare un giudizio molto più ampio e più sereno su ciò che sono in se stessi e anche per me. Si vedano le annotazioni del 3 maggio scorso, e la lettera a Berteloot in cui insistevo sul fatto di prendere come centro se stessi, esattamente come si fa con un organo sofferente. Vale a dire, compiacersi o intenerirsi con se stessi (cfr. l’Egoïste di Meredith). A questo punto bisogna però mettere in guardia su una possibile confusione. Ciò che interessa è giungere all’oggettività, si potrà avere la tentazione di dire, ma il termine oggettività può trarre in inganno. Ho dei dubbi di poter conferire un senso alla mia vita, parlando in modo oggettivo. Credo di avere avuto ragione nel far intervenire il valore. Tutto ciò che ho scritto al proposito alla fine delle mie annotazioni del 3 maggio scorso mi sembra esatto, ma ancora insufficiente: troppo negativo. Bisognerebbe riuscire a chiarire il legame tra esistenza e valore. Notare che il valore, ancora più chiaramente della presenza, è intersoggettivo. Poco fa leggevo ciò che dice Le Senne a proposito del valore nel Traité de morale*. Mi soddisfa solo in parte: ha saputo individuare mirabilmente l’unione di qualcosa che proviene da me, che è un’aspirazione, e di qualcosa che è un dono, e che ci viene incontro, per così dire. Ciò è fondamentale, e ci libera dalla parte più sterile dell’idealismo. Il concetto stesso di valore, però, non è chiaro. Rivedrò tra poco ciò che afferma in Obstacle et Valeur*. Ho l’impressione, scorrendo le pagine da 175 in avanti, che ci siano delle indicazioni importanti, ma che in fondo il pensiero rimanga, malgrado tutto, alquanto vago. Nella

manuscrite, Le Senne m’écrivait: c’est la valeur qui donne l’existence aux âmes. Belle formule, vraie je crois, mais qui demanderait elle aussi à être précisée. Je constate toujours la difficulté de trouver ici des prises effectives. Je suis convaincu que je n’arriverai à voir clair que simultanément dans la question de l’existence et dans celle de la valeur. Je suis tenté aujourd’hui de reprendre mes notes initiales de ces jours-ci (2 août). Il faudrait se demander si je peux penser un indestructible. Pour autant que la pensée qui pose cette question est tournée vers les choses en tant qu’elles sont repérables et répertoriables, il paraît certain qu’à cette question elle ne peut répondre que négativement. L’indestructible, ce n’est ici que l’informe, que ce qui est endeçà de toutes les destructions. Si l’interminable nécrologe que chacun de nous est amené à dérouler pour son propre compte au cours d’une existence pourtant si brève, ne vient qu’illustrer imparfaitement cette affirmation qui gouverne l’objet, il reste, semble-t-il, certain que tout ce qui est, est voué à périr. Dès lors, quelle que soit la valeur intrinsèque de l’exigence d’immortalité qui est en nous et la justification métaphysique qu’elle est susceptible de recevoir, nous devons constater que si elle cherche à se traduire dans le monde des objets, du même coup elle se condamne ou se réfute elle-même. Ceci, nous le voyons clairement, et nous ne sommes d’ailleurs nullement sûrs qu’elle puisse se dispenser de donner d’elle-même cette ruineuse traduction. Mais de ce point de vue l’épreuve en tant que telle s’annule, ou s’annulerait, puisque l’échec est certain, – à moins qu’elle ne se réduise à une épreuve de longueur, ce qui paraît absurde. On ne peut rien comprendre à la vie humaine, si on n’admet pas que la durée ne fait rien à l’affaire. Ici il semble bien que la valeur intervienne, précisément comme indépendante de la longueur.

dedica scritta di suo pugno da Le Senne leggo: è il valore che dà l’esistenza alle anime. Bel concetto, vero, ritengo, ma anch’esso da precisare. In questi casi mi scontro sempre con la difficoltà di trovare dei reali appigli. Sono convinto che non riuscirò a vedere chiaro in entrambe le questioni se non contemporaneamente: quella dell’esistenza e quella del valore. Oggi sono tentato di riprendere le mie annotazioni iniziali di questi giorni (2 agosto). Bisognerebbe chiedersi se io possa pensare un indistruttibile. La risposta sarà sicuramente negativa finché la domanda è posta nella prospettiva del pensiero rivolto alle cose in quanto individuabili e repertoriabili. L’indistruttibile può essere solo l’informe, ciò che è al di qua di tutte le distruzioni. Se l’interminabile necrologio che ognuno di noi, dal suo punto di vista, deve passare in rassegna durante un’esistenza comunque così breve esemplifica solo in modo incompleto questa affermazione che si riferisce all’oggetto, è certo, sembra, che tutto ciò che esiste è destinato a perire. Qualunque sia il valore intrinseco dell’esigenza di immortalità presente in noi e la giustificazione metafisica sulla quale può fondarsi, dobbiamo costatare che nel momento stesso in cui cerca di trovare un riscontro nel mondo degli oggetti si condanna o si confuta immediatamente da se stessa. Tutto ciò è evidente, e non siamo affatto sicuri che l’esigenza di immortalità possa fare a meno di dare questa rovinosa traduzione di se stessa. Da questo punto di vista, però, la prova in quanto tale si annulla, o si annullerebbe, poiché il fallimento è certo – a meno che non si riduca a una prova di durata, cosa assurda. Non si può capire nulla della vita umana se non si riconosce che la durata non ha nulla a che fare con tutto ciò. In questo caso sembra proprio che entri in gioco il valore, per la precisione in quanto indipendente dalla lunghezza del tempo.

La valeur comme enjeu de l’existant, ou plutôt comme sceau. Toutefois, nous, en restons ici à une détermination très vague, très superficielle, très équivoque surtout. La valeur est-elle conférée du dehors? Sûrement non, elle ne peut être que reconnue imparfaitement. Est-elle donc avant tout éprouvée? Il me semble qu’elle ne peut être qu’incarnée d’abord pour rayonner ensuite; et ceci est important parce que cette façon de la penser nous libère immédiatement du psychologique. On dira cependant encore: incarnée pour qui? Cette question est cependant suspecte. On semble en la posant instituer une dualité radicale entre celui qui incarne, et l’autre pour qui il incarne. Mais tout change, si on pose en principe une certaine unité d’un nous, un non-isolement radical du sujet, et jusqu’au primat de l’intersubjectif. Car de ce point de vue, il n’est plus question de poser quelque chose qui serait d’abord incarné purement et simplement – et un autre sujet qui viendrait ensuite comme du dehors prendre conscience de cette incarnation. Ceci est encore plus clair, si l’on comprend que l’intersubjectif est en réalité intérieur au sujet lui-même, que chacun est pour lui-même un nous, qu’il ne peut être soi qu’en étant plusieurs, et que la valeur n’est possible qu’à cette condition. Mais peut-être faut-il poser en principe que cette pluralité intérieure ou intra-subjective entretient les relations les plus intimes et les moins aisément explorables avec la pluralité extra-subjective. Les miens ne sont pas seulement représentés en moi, ils sont en moi, ils font parti de moi-même (double fausseté du monadisme: je ne suis ni solus, ni unus).

Il valore come posta in gioco dell’esistente, o piuttosto come sigillo. Tuttavia non andiamo oltre una determinazione molto vaga, molto superficiale, soprattutto molto equivoca. Il valore è attribuito dall’esterno? Sicuramente no, può essere soltanto riconosciuto in modo imperfetto. È dunque innanzitutto sperimentato? Mi sembra che il valore possa soltanto essere prima incarnato, e diventare poi irradiante. Tutto ciò è importante, perché questo modo di pensare ci libera subito dallo psicologico. Ma si aggiungerà: incarnato per chi? Questa domanda è però sospetta. Ponendola sembra di porre una dualità radicale tra colui che incarna, e l’altro per il quale è incarnato. Cambia tutto, però, se si pone come principio una certa unità di un noi, un non-isolamento radicale del soggetto, fino al primato dell’intersoggettivo. Da questo punto di vista, infatti, non si tratta più di porre qualcosa che dapprima sarebbe incarnato in modo puro e semplice – e di porre poi un altro soggetto che in un secondo momento prenderebbe coscienza, come dal di fuori, di questa incarnazione. Tutto ciò è ancora più chiaro se si tiene presente che l’intersoggettivo è interno al soggetto stesso, ciascuno è per se stesso un noi, può essere sé stesso soltanto essendo una pluralità, e soltanto a questa condizione il valore è possibile. Bisogna porre come principio, però, che questa pluralità interiore o intra-soggettiva mantiene le relazioni più intime e meno facilmente esplorabili con la pluralità extra-soggettiva. I miei cari non sono soltanto rappresentati in me: sono in me, fanno parte di me (monadismo doppiamente falso: io non sono né solus né unus).

Le Peuch, 6 août 1943. Le nous se révèle sans doute bien plus profond que le moi. Sans doute, malgré les apparences, est-il plus stable (retour de l’enfant prodigue); et ce qui importe pour moi, c’est l’indestructibilité du nous. Mais ce vœu paraît d’abord bien déraisonnable. Quoi de plus fragile que le nous s’il est assimilé à une structure objective? Les brouilles, les ruptures de tous ordres ne suffisent-elles pas à nous le montrer? Mais il serait instructif de rechercher ici comment ces brouilles et ces ruptures se produisent, à quoi elles sont dues. Toujours elles s’expliquent par la prétention du moi qui s’affirme contre le nous (rôle des intérêts, des susceptibilités, des préjugés, etc...). La véritable promotion existentielle ne serait-elle pas toujours accession à un nous, ou à un nôtre, à condition que ce nous devienne principe d’intimité et non de contrainte. On retrouverait ainsi ce que j’écrivais ce matin à propos de la disponibilité. Il va de soi d’ailleurs que nul plus que le saint qui prie dans la solitude n’accède au nous; interpréter sociologiquement ce que j’ai dit plus haut, serait déformer ma pensée de façon grotesque. Les remarques précédentes permettent de comprendre pourquoi l’indéfectible ne peut nous être présent que de façon intermittente – peut-être parce que ce nous intérieur est lui-même inévitablement intermittent. Je ne communique pas toujours avec moi-même. Demander qu’il soit là tout le temps, c’est tenter de lui conférer un mode d’existence qui est celui de l’objet le plus rudimentaire, le plus proche qui soit de l’inexistence. Ici toutefois une question surgit: cette intermittence peut-elle être considérée comme un caractère intrinsèque de l’existence à son apogée? Je crois que cette question repose sur une confusion très analogue à celle que j’ai dénoncée un peu plus haut. L’exis-

Le Peuch, 6 agosto 1943. Non c’è ombra di dubbio: il noi si rivela molto più profondo dell’io. Nonostante le apparenze, è sicuramente più stabile (ritorno del figliol prodigo). E ciò che conta per me è l’indistruttibilità del noi. Questo auspicio di primo acchito sembra proprio irragionevole. Cos’è c’è di più fragile del noi se viene assimilato a una struttura oggettiva? Per dimostrarcelo non sono sufficienti i dissensi, le rotture di ogni genere? Ma come sorgono questi dissapori e queste rotture? A cosa sono dovuti? Sarebbe interessante capirlo. Trovano sempre una spiegazione nella pretesa dell’io di affermarsi contro il noi (ruolo degli interessi, della suscettibilità, dei pregiudizi, ecc.). La vera realizzazione esistenziale non consiste forse sempre nell’aderire a un noi, o a un nostro, purché questo noi diventi principio di intimità e non di costrizione? Ci si ricollegherebbe così a ciò che ho scritto stamattina sulla disponibilità. D’altronde nessuno più del santo che prega in solitudine aderisce al noi, è ovvio. Interpretare dal punto di vista sociologico quello che ho detto prima significherebbe deformare grottescamente il mio pensiero. Le precedenti osservazioni consentono di comprendere come mai l’indefettibile può esserci presente soltanto in modo intermittente – forse perché questo noi interiore è esso stesso inevitabilmente intermittente: io non comunico sempre con me stesso. Chiedere che sia presente ininterrottamente significa voler conferirgli un modo di esistenza proprio dell’oggetto più rudimentale, vicinissimo all’inesistenza. A questo punto sorge però un problema: questa intermittenza può essere considerata un carattere intrinseco dell’esistenza al suo apogeo? Questo problema nasce da una confusione molto simile a quella da me denunciata nelle precedenti riflessioni. Nelle

tence en ses modalités supérieures, n’est pas séparable de l’intersubjectivité, cela veut dire que nous ne pouvons pas – et que nous ne pouvons ni ne devons vouloir – nous hausser en quelque sorte au-dessus de l’intersubjectif pour penser la présence: car en fait nous risquons de tomber au-dessous. Il me semble que j’ai sensiblement progressé aujourdhui. Cependant je voudrais arriver à répondre plus directement aux questions posées hier, et définir ce que j’ai appelé l’indice existentiel. Quand je me demande si j’existe, je peux sous-entendre la question: est-ce que quelque chose existe? Je peux me demander, en fonction d’une existence supposée absolue (Dieu) si moi j’existe. Mais je peux aussi me demander ce que je veux dire quand j’affirme que j’existe ou quand je me pose la question. Ma conscience d’exister peut se présenter de façon tellement diffuse, qu’elle est bien moins celle de mon exister propre que celle de l’exister en général (états végétatifs). Seule la réflexion peut venir qualifier de façon quelconque cet état indistinct qui n’a en rien, puisque c’est un simple état, les caractères d’une affirmation. Seule la réflexion peut m’amener, une certaine existence étant donnée ou conçue, à me demander si mon existence est du même ordre, du même degré – si j’existe plus ou moins –; distinction certainement très tardive et qui ne sera jamais acceptée complètement, parce qu’il y a quelque chose en nous qui ne peut admettre d’intermédiaire entre existence et non-existence. Si par exemple, je prends conscience de mon caractère éphémère, en conclurai-je que j’existe moins qu’un être perdurable? Pas nécessairement; peut-être dirai-je que tant que j’existe, j’existe absolument. Cependant mon existence m’apparaît comme sapée ou rongée par quelque chose qui la détruit, ce qui revient à dire que je n’existe pas purement et simplement. On aurait donc ici

sue modalità superiori l’esistenza non è separabile dall’intersoggettività: non possiamo – e non possiamo né dobbiamo volere – sollevarci in qualche modo al di sopra dell’intersoggettivo per pensare la presenza. Rischiamo infatti di cadere al di sotto. Mi sembra di aver fatto dei notevoli passi avanti oggi, tuttavia vorrei riuscire a rispondere più direttamente alle domande poste ieri, e definire quello che ho chiamato l’indice esistenziale. Quando mi chiedo se esisto, posso sottintendere la domanda: qualcosa esiste? Posso domandarmi, in funzione di un’esistenza supposta assoluta (Dio), se io esista. Ma posso interrogarmi anche su cosa io intenda dire quando affermo che esisto oppure quando mi pongo la questione. La mia coscienza di esistere può presentarsi in modo così vago da essere molto più coscienza dell’esistere in generale (stati vegetativi) che del mio proprio esistere. Soltanto riflettendo si può qualificare, in una qualche maniera, questo stato indistinto che, essendo un semplice stato, non presenta da nessun punto di vista i caratteri di un’affermazione. Soltanto riflettendo, data o immaginata una certa esistenza, posso chiedermi se la mia esistenza sia dello stesso ordine, dello stesso livello – se io esista più o meno. Distinzione che giunge sicuramente troppo tardi, e che non sarà mai accettata completamente: infatti vi è in noi qualcosa che non ammette nessuna intermediazione tra esistenza e non-esistenza. Ad esempio, essendo consapevole del mio carattere effimero, ne trarrò la conclusione che esisto meno di un essere eterno? Non necessariamente. Affermerò forse che, in quanto esisto, esisto in modo assoluto. Tuttavia la mia esistenza mi appare come minata o corrosa da qualcosa che la distrugge: significa che non esisto semplicemente e basta. Ci si troverebbe qui di

l’opposition d’une existence pure et d’une existence impure. Reste à savoir si cette opposition a un fondement. L’existence pure n’est pas et ne peut pas être donnée. Et l’existence impure ne l’est par conséquent pas non plus au sens que je viens de préciser. Il sera important de noter qu’il n’y a pas de raison pour qu’une philosophie existentielle gravite autour de l’angoisse; je songe à l’ivresse de découvrir, d’explorer (un pays, une partition) – et qui est peut-être la joie la plus pure que j’aie éprouvée. Il est évident que l’idée d’un pur exister ne peut trouver aucune garantie dans l’expérience. Reste à savoir si une argumentation comme celle de saint Thomas, qui prétend remonter de l’existence finie à l’existence absolue, est recevable. Mais il faudrait commencer par reconnaître beaucoup plus distinctement peut-être que ne l’a fait saint Thomas, ce que nous voulons dire quand nous parlons d’existence, de tel existant. J’ai l’impression aujourd’hui d’être environné encore par un brouillard épais. Je reprends cependant la question formulée le 2: quel est le rapport entre existence et appartenance au monde? L’être qui appartient le plus au monde, est en un certain sens le plus fragile, mais c’est aussi le plus doué de ressources; peut-être est-ce celui dont la fragilité est la plus compensée. Peut-être pourrait-on concevoir ainsi un être qui serait à la fois sujet à d’innombrables lésions, mais doué en même temps et par là même d’une puissance de récupération infinie. Ce double caractère est déjà manifeste chez l’homme, ou du moins celui-ci en présente comme l’ébauche.

fronte alla contrapposizione tra un’esistenza pura e un’esistenza impura. Resta da sapere se questa contrapposizione abbia un fondamento. L’esistenza pura non è data, e non può esserlo. E quindi, nel senso che ho appena precisato, non lo è neppure l’esistenza impura. Non esistono vere e proprie ragioni per le quali una filosofia esistenziale debba gravitare intorno all’angoscia: è importante evidenziarlo. Penso all’ebbrezza di scoprire, di esplorare (un paese, uno spartito) – e si tratta forse della gioia più pura che io abbia mai provato. È evidente che l’idea di un puro esistere non può trovare nessuna garanzia nell’esperienza. Un’argomentazione come quella di san Tommaso, che pretende di risalire dall’esistenza finita all’esistenza assoluta, è allora ammissibile? Bisognerebbe cominciare chiarendo, in modo molto più preciso di quanto forse abbia fatto san Tommaso, a che cosa ci riferiamo quando parliamo di esistenza, di un certo esistente. Oggi ho l’impressione di essere ancora immerso in una fitta nebbia. Riprendo tuttavia il problema posto il giorno 2: qual è il rapporto tra esistenza e appartenenza al mondo? L’essere che appartiene di più al mondo è in un certo senso il più fragile, ma è anche il più dotato di risorse. Forse è quello la cui fragilità è la più compensata. Si potrebbe quindi immaginare un essere soggetto a innumerevoli lesioni e dotato contemporaneamente, e proprio per questa ragione, di un potere di recupero infinito. Questa doppia caratteristica è già evidente nell’uomo, o almeno l’uomo ne presenta l’abbozzo.

Le Peuch, 7 août 1943. Je ne pense pas qu’on puisse tirer grand parti de cette dernière remarque, au moins pas directement. Je crois d’autre part qu’il ne faut tenir aucun compte de ce que j’ai dit de l’existence pure ou impure; en imaginant ici la possibilité d’une mixis, je convertis l’existence en détermination essentielle. Les notes du 2 août semblent au contraire garder leur intérêt. Toutefois, une difficulté subsiste: exister, ai-je dit, c’est se signaler; mais se signaler, c’est se signaler à... Or, peut-on dire que lorsque nous pensons l’existence, nous la pensons comme en quelque façon tributaire de qui la reconnaît? Mais il faudrait d’abord se demander une fois de plus si nous pensons vraiment l’existence – ce qui la convertit en détermination essentielle: et d’autre part si nous ne la pensons pas, comment pouvons-nous en parler? C’est bien là la difficulté centrale, l’espèce d’aporie autour de laquelle on ne cesse de tourner. Il semble qu’il faille ici comme si souvent opérer une distinction entre une certaine expérience initiale qui est à restaurer dans sa candeur, et les expressions stéréotypées et de plus en plus dévaluées de cette même expérience. A la racine de l’existence, il y a d’abord la reconnaissance d’une eccéité: l’exclamation comme âme de l’existentiel; passage à cette idée que l’enfant est bien plus enfoncé que l’adulte dans l’existence comme telle. Mais cette eccéité est traitée comme manifestation d’un pour-soi qui peut d’ailleurs être presque complètement aveuglé. Le poursoi ne peut être entendu que comme participation: exister, c’est co-exister. Je me réfère à la phrase ci-dessus sur l’exclamation, elle est équivoque. Tout ce que j’aurais le droit de dire, c’est que l’exclamation est l’âme de ce que j’appelle peut-être improprement le jugement d’existence. Je dirais volontiers que l’existant, c’est de l’exclamatif refroidi (l’inexistant d’ailleurs

Le Peuch, 7 agosto 1943. Da quest’ultima osservazione non si può trarre grande vantaggio, almeno non direttamente. Penso d’altra parte che non si debba affatto prendere in considerazione ciò che ho affermato sull’esistenza pura o impura. Immaginando la possibilità di una mixis, converto l’esistenza in determinazione essenziale. Le annotazioni del 2 agosto sembrano conservare invece un certo interesse. Permane tuttavia una difficoltà: esistere, ho detto, significa mettersi in evidenza. Ma mettersi in evidenza significa farlo agli occhi di… Ora, si può affermare che quando pensiamo l’esistenza la pensiamo come in qualche modo tributaria di chi la riconosce? Ma innanzitutto bisognerebbe chiedersi una volta di più se pensiamo veramente l’esistenza – cosa che la rende una determinazione essenziale. E d’altra parte se non la pensiamo come possiamo parlarne? È proprio questa la difficoltà principale, l’aporia attorno alla quale si continua a girare. Come succede spesso, anche in questo caso bisogna procedere distinguendo tra una certa esperienza iniziale, che deve essere ripristinata nel suo originario candore, e le espressioni stereotipate e sempre più prive di valore di questa stessa esperienza. Alla radice dell’esistenza c’è innanzitutto il riconoscimento di un’ecceità: l’esclamazione come anima dell’esistenziale. Passaggio all’idea che il bambino è immerso nell’esistenza come tale molto più dell’adulto. Questa ecceità è considerata come manifestazione di un per-sé che può però essere quasi completamente accecato. Il per-sé può essere inteso soltanto come partecipazione: esistere è co-esistere. L’affermazione sull’esclamazione appena formulata è ambigua. Ho il diritto di dire soltanto che l’esclamazione è l’anima di ciò che chiamo, forse impropriamente, il giudizio d’esistenza. L’esistente è un esclamativo placato, è questo

aussi, mais dans un cas il y a exclamation en présence de ce qui est ressenti comme un plein, dans l’autre en présence de ce qui est ressenti comme un vide). On m’objectera que je tends à négliger la visée, l’intentionnalité. Mais elle est au cœur de l’exclamation. Celle-ci comporte comme l’affirmation d’un toi aussi. C’est ce que j’ai traduit plus haut par le mot co-participation, on pourrait parler aussi de co-implication. Ma référence à l’enfant est, je crois, très opportune: «Maman, regarde ce petit oiseau ou cette petite fleur.» Le besoin de montrer, de prendre à témoin, est ici tout à fait manifeste, comme pour donner plus de volume, de poids, d’écho à l’expérience initiale. Le contemplatif n’aura plus besoin de cette attestation, venue de l’autre; il trouve en lui-même l’écho dont il a besoin. Je sens que ces dernières remarques ont une véritable portée, mais je n’arrive pas en ce moment à la dégager complètement. Si je ne me trompe pas, on peut dire que la chose obtient de nous – d’un certain fond de nous-même qui sera peu à peu recouvert ou obturé par l’expérience – l’acte par lequel nous proclamons qu’elle existe; le besoin de dénomination est intimement lié à cet acte: savoir comment cela s’appelle. Sans doute, on peut avoir du plaisir à donner soi-même un nom, mais celui-ci est combattu par une sorte de scrupule, sauf là où on sait vraiment qu’on a découvert, et dans ce cas, je dirai volontiers que nommer, c’est en quelque sorte baptiser et même recréer. L’existence telle que nous la concevons ou croyons la concevoir communément, est en quelque sorte scorie ou résidu par rapport à cette existence découverte. Et on retrouve ici ce que je notais hier matin au-dessus du Chastang sur l’ivresse d’explorer. Différence radicale entre cette ivresse et la joie de comprendre et d’expliquer qui ne

che mi sentirei di dire (lo si può affermare d’altronde anche dell’inesistente, ma in un caso si tratta di esclamazione in presenza di ciò che è vissuto come un pieno, nell’altro in presenza di ciò che è vissuto come un vuoto). Si obietterà che ho la tendenza a trascurare l’aver di mira, l’intenzionalità, tuttavia essa si trova al cuore dell’esclamazione. Questa comporta una sorta di affermazione di un anche tu, che prima ho tradotto con il termine co-partecipazione. Si potrebbe parlare anche di co-implicazione. Il mio riferimento al bambino è, credo, molto opportuno: “Mamma, guarda questo uccellino o questo fiorellino”. Qui è pienamente evidente l’esigenza di mostrare, di prendere a testimone, come per dare più volume, più peso, maggiore eco all’esperienza iniziale. Il contemplativo non ha più bisogno di questa attestazione proveniente dall’altro: trova in se stesso la eco di cui sente la necessità. Queste ultime osservazioni hanno un notevole significato, me ne rendo conto, ma in questo momento non riesco a coglierlo completamente. Se non mi sbaglio, si può affermare che la cosa ottiene da noi – dalla parte più profonda di noi stessi che a poco a poco sarà ricoperta o otturata dall’esperienza – l’atto con il quale affermiamo che essa esiste. Il bisogno di dare un nome è intimamente legato a questo atto: sapere come si chiama questa cosa. Non c’è dubbio: si può provare piacere nel dare noi stessi un nome, anche se si è combattuti da una sorta di scrupolo, fatta eccezione per il caso in cui si sa veramente di avere scoperto. E in questo caso posso affermare che dare un nome significa in qualche modo battezzare e anche ricreare. Rispetto a questa esistenza scoperta, l’esistenza come la intendiamo o crediamo di intenderla comunemente è scoria o residuo. Qui ci si ricollega a ciò che osservavo ieri mattina sopra lo Chastang a proposito dell’ebbrezza dell’esplorazione. Diversità radicale tra questa ebbrezza e la gioia di com-

peut venir qu’ensuite (comme celle de saisir la topographie d’un pays où on a d’abord circulé à l’aventure; et dans ce cas quelque chose se perd et se détruit comme lorsqu’on commence à dresser la carte). Le propre de l’existence serait donc de se découvrir, de révéler à soi-même (c’est ce que marquait insuffisamment le mot discrimination). Valeur inhérente à ce qui se dévoile; mais c’est si peu pour moi au sens exclusif – que j’éprouve le besoin de prendre à témoin, ou peut-être dans certains cas de garder le secret, mais à condition que les autres connaissent l’existence de ce secret; je les intrigue alors. Cas différent: celui où j’ai découvert un être avec lequel je peux entrer directement en communication. Le secret peut alors être gardé complètement sans perdre sa valeur. Je me demande si dans le cas de la chose, la prise à témoin n’est pas destinée à suppléer à l’imperfection du lien qui s’établit entre celui qui découvre et la chose découverte. Par là s’explique l’importance – sur le plan affectif et personnel – de la question: est-ce que cela existe? Référence à une exploration possible – passionnante. Ce qui n’existe pas n’a aucun intérêt, c’est ce qui ne peut pas faire battre le cœur. Marquer aussi fortement que possible ce qu’il y a de passionnément non subjectif dans cette découverte: la chose se découvre à moi; ce qui n’empêche pas qu’un accent de fierté, d’orgueil, de domination puisse être mis sur ce «à moi»; c’est à moi et non pas à toi que cette chose s’est découverte (peut-être grâce à ma persévérance, à mon audace, à mon astuce: tout cela n’est que médiateur). Différence radicale avec ce qui se passe dans l’invention, c’est elle qui est à l’origine de la conception idéaliste. Mais de ce point de vue, ce qui n’existe plus, c’est ce qui ne me répond plus.

prendere e di spiegare, che può sopraggiungere soltanto in un secondo momento (esattamente come quando si coglie la topografia di un paese in cui in un primo momento si è andati all’avventura. E in questo caso qualcosa si perde e si distrugge come quando si comincia a spiegare la carta). Proprio dell’esistenza sarebbe dunque scoprirsi, rivelarsi a se stessi (è proprio ciò che viene sottolineato, ma non a sufficienza, dal termine discriminazione). Valore inerente a ciò che si svela. È così poco per me in senso esclusivo, però, che sento il bisogno di avere dei testimoni o forse, in certi casi, di conservare il segreto, ma a condizione che gli altri sappiano dell’esistenza di questo segreto: così facendo li intrigo. Caso differente: ho scoperto un essere con il quale posso entrare in comunicazione direttamente. Il segreto può allora essere conservato completamente senza perdere il suo valore. Mi chiedo se nel caso della cosa il prendere a testimone non sia destinato a supplire l’imperfezione del legame che si stabilisce tra chi scopre e la cosa scoperta. Si spiega così l’importanza – sul piano affettivo e personale – della domanda: ciò esiste? Riferimento a una possibile esplorazione – appassionante. Ciò che non esiste non suscita alcun interesse, non può far battere il cuore. Far risaltare il più possibile cosa ci sia di appassionatamente non soggettivo in questa scoperta: la cosa si rivela a me. Ma questo non impedisce di poter porre un accento di fierezza, di orgoglio, di predominio su questo “a me”. È a me, non a te, che questa cosa si è rivelata (grazie alla mia perseveranza, alla mia audacia, alla mia astuzia, forse: ha soltanto un ruolo di mediazione). Differenza radicale rispetto a ciò che accade nel caso dell’invenzione, che è all’origine della concezione idealista. Da questo punto di vista, però, ciò che non esiste più è ciò che non mi risponde più.

Peut-on dire que l’existence même ainsi conçue ait une valeur? J’hésite à l’affirmer, il faudra y revenir. J’ai de plus en plus le sentiment d’avoir fait là une découverte. Ce qui est mis en pleine lumière, c’est l’aspect phénoménologique de l’existence. L’attitude du sujet n’est en aucune façon dissociable du fait que quelque chose se révèle à lui. On pourrait parler de fulguration existentielle. Mais ce qui vient tout compliquer, c’est que j’ai à me familiariser avec ce qui s’est d’abord révélé à moi. Cette accoutumance à la chose lui confère sa valeur d’objet. Elle se trouve dès lors figurer dans un certain registre de l’expérience – jusqu’au moment où je suis dans l’obligation de la rayer, parce qu’il n’y a plus à en tenir compte. Mais l’éclat existentiel initial se ternit à partir du moment où la chose est ainsi incorporée ou registrée. (Ne pourrait-on dire que la valeur réside dans la persistance de l’éclat existentiel; ou bien celle-ci est-elle le signe de la valeur?). Il est très intéressant de remarquer que de ce point de vue l’idée d’un pur exister reprend un sens positif, c’est ce à quoi il est impossible de s’accoutumer, ce qui transcende toute registration possible: encore faut-il remarquer que nous pouvons toujours, hélas, employer les mots, si éminente que soit leur portée théologique ou métaphysique, sans prendre garde à ce qu’ils signifient; de sorte que nous pouvons être assez blasés sur le détail de la création pour ne plus être capables de nous émerveiller de quoi que ce soit. Il y a là une simple analogie: dans un cas, nous ne pensons plus rien, dans l’autre nous ne voyons plus rien. Je voudrais maintenant mettre tout cela plus directement en relation avec ce que j’ai écrit le 2 août. J’allais écrire – et je crois avoir écrit autrefois – le propre de l’existence est d’être originellement salué, mais ce qui est salué n’est pas l’existence, c’est l’existant en tant que se révélant.

L’esistenza stessa così concepita ha un valore? Ho delle esitazioni ad affermarlo, bisognerà riconsiderarlo. Ho sempre più la sensazione di aver fatto una scoperta. A essere messo in piena luce è l’aspetto fenomenologico dell’esistenza. L’atteggiamento del soggetto non si può separare in alcun modo dal fatto che qualcosa gli si rivela. Si potrebbe parlare di folgorazione esistenziale. Io devo però acquistare familiarità con ciò che in un primo momento mi si è rivelato: questo complica tutto. L’assuefazione alla cosa le conferisce il suo valore di oggetto, ed essa si trova così a far parte di un certo registro dell’esperienza – fino al momento in cui si rende necessario metterla da parte perché non devo più tenerne conto. Tuttavia lo splendore esistenziale iniziale si offusca a partire dal momento in cui la cosa è incorporata o registrata in questo modo. (Si potrebbe affermare forse che il valore si trova nella persistenza dello splendore esistenziale? Oppure quest’ultima è il segno del valore?). Da questo punto di vista riacquista un senso positivo l’idea di un puro esistere, sottolinearlo risulta interessante: è ciò a cui è impossibile abituarsi, ciò che trascende ogni possibilità di registrazione. Per quanto grande sia la loro portata teologica o metafisica, possiamo sempre utilizzare i termini senza prestare attenzione al loro significato, purtroppo, in maniera tale da essere così disillusi sui singoli aspetti della creazione da non essere più capaci di meravigliarci di nulla. Si tratta di una semplice analogia: in un caso non pensiamo più niente, nell’altro non vediamo più niente. Adesso vorrei individuare una relazione più diretta tra tutto ciò e le riflessioni del 2 agosto. Stavo per scrivere – e credo di aver scritto in passato – che è proprio dell’esistenza, originariamente, essere salutata. Il saluto non è rivolto all’esistenza ma all’esistente in quanto si viene rivelando.

Le Peuch, 8 août 1943. J’aurais sans doute dû marquer plus clairement que l’exclamation dont il s’agit est essentiellement admirative, et il faut ajouter que ce qui se révèle à moi et m’arrache un cri d’admiration a toujours une forme, disons plus exactement une individualité, qui peut d’ailleurs être évanescente, comme un bouquet dans un feu d’artifice. Ce que j’aperçois très mal en ce moment, c’est la connexion entre tout ceci et ce que j’ai dit précédemment de l’existence comme résistance aux forces de destruction. Cette résistance est-elle inhérente à l’existence comme telle, ou à l’existant? Le Peuch, 9 août 1943. Je me suis demandé si je n’intitulerais pas le travail destiné à Jean Grenier et dont toutes ces notes sont la préparation: Les Prémices existentielles de l’Immortalité. Il me semble qu’il faudrait concentrer mes réflexions sur l’acte par lequel je pose l’existence de l’être que j’ai connu ou aimé. Ce qui importe ici c’est la dilection pour l’être qui a été associé à ma vie. Cet être qui n’est plus là et qui cependant me demeure présent. En quel sens? Qu’est-ce que cette présence? Il n’est plus, c’est-à-dire «qu’il n’est plus de ce monde», tout au plus pourrais-je savoir où reposent ses restes, mais ce renseignement – que je le possède ou non – se présente à moi comme totalement indifférent quant à l’essentiel (Irrelevant). Faut-il dire dans ces conditions que ce qui demeure en moi c’est le souvenir d’une apparition qui s’est dissipée? Apparition qui fut liée à cette chose jetée au rébus, comme le refrain qui me poursuit encore fut lié à la boîte à musique

Le Peuch, 8 agosto 1943. Non c’è dubbio: avrei dovuto evidenziare con maggiore chiarezza che l’esclamazione qui in questione è per essenza ammirativa. Inoltre ciò che mi si rivela e mi strappa un grido di ammirazione ha sempre una forma, un’individualità, a essere più precisi, che può d’altronde essere evanescente, come una girandola in un fuoco d’artificio. In questo momento non riesco affatto a cogliere la relazione tra tutto ciò e le mie precedenti annotazioni sull’esistenza come resistenza alle forze distruttive. Questa resistenza inerisce all’esistenza come tale, oppure all’esistente? Le Peuch, 9 agosto 1943. Mi sono chiesto se il lavoro per Jean Grenier, di cui queste note sono la fase preparatoria, potrebbe avere come titolo Les Prémices existentielles de l’Immortalité. Dovrei forse concentrare le mie riflessioni sull’atto con il quale pongo l’esistenza dell’essere che ho conosciuto o amato. A contare qui è la dilezione dell’essere unito alla mia vita, essere che non è più là, e che continua tuttavia a rimanermi presente. In che senso? Cos’è questa presenza? Non è più, cioè “non è più di questo mondo”, tutt’al più potrei sapere dove riposano i suoi resti, ma questa informazione – che sia in mio possesso oppure no – mi si presenta come totalmente indifferente rispetto all’essenziale (Irrilevante). In queste condizioni in me rimane il ricordo di un’apparizione che si è dissolta: è questo che bisogna affermare? Apparizione che è stata legata a questa cosa gettata tra gli scarti, così come il ritornello che mi perseguita ancora fa tutt’uno con il carillon rotto ritrovato in un ripostiglio.

cassée que j’ai retrouvée dans quelque débarras. Ne puis-je penser que, de même que ce refrain s’est survécu en moi qu’il obsède, et qui le sifflotte, cette apparition continue à me hanter? Il est de la plus grande importance de remarquer d’une part que cette assimilation est possible, mais en meme temps que tout ce qui est en moi piété la refuse. Et c’est l’essence de cette piété que j’ai maintenant à définir ou du moins à discerner. D’un point de vue objectif, elle vient seulement se surajouter comme une sorte de revêtement à une situation de fait qu’elle ne saurait modifier en elle-même. Mais c’est justement la validité de cette appréciation objective qu’il s’agit de contrôler. D’où vient que j’ai conscience de trahir en quelque façon celui qui n’est plus là – comme on abuse par exemple d’une absence ou d’une défaillance – en le considérant ainsi? «Il me semble quelquefois que la mort est comme une immense faiblesse», dit, je crois, Raymond Chavière dans le Fanal. Que serait-ce qu’une telle infraction? Qu’est-ce au juste qui serait enfreint? Ce ne peut être un ordre émanant de l’autre, qui par hypothèse n’est plus, ni, semble-t-il, un ordre émanant de moi-même purement et simplement, car on ne comprend pas ce qu’il pourrait avoir de sacré, mais bien un ordre émanant d’un nous qui se survit en moi. On pourrait encore dire qu’une partie de moi-même reste en quelque manière affectée ou consacrée à celui qui n’est plus là en personne; c’est ce moi affecté qui s’insurge contre ce qui se présente à lui comme un sacrilège. C’est ici qu’il faudrait faire intervenir directement mes réflexions du 3 août. Mais il me semble qu’un approfondissement s’impose encore.

Non posso forse pensare che l’apparizione continui ad assillarmi non diversamente dal ritornello sopravvissuto in me? Ne sono ossessionato, e continuo a fischiettarlo. Questo paragone è possibile, ma nello stesso tempo tutto ciò che in me è pietà lo rifiuta. E ora devo definire, o almeno individuare, l’essenza di questa pietà. Da un punto di vista oggettivo viene soltanto ad aggiungersi come una sorta di rivestimento a una situazione di fatto che non è in grado di modificare in se stessa. Ma è proprio la validità di questa valutazione oggettiva che si tratta di analizzare. Come si può spiegare che, considerandolo in questo modo, sento di tradire in qualche modo colui che non è più – come si abusa ad esempio di un’assenza o di un cedimento? “Qualche volta mi sembra che la morte sia un’immensa debolezza”, afferma Raymond Chavière ne Le Fanal*, se non mi sbaglio. Cosa sarebbe una simile violazione? Quale sarebbe esattamente l’oggetto di tale violazione? Non può trattarsi né di un ordine che proviene dall’altro, che per ipotesi non c’è più, né, così pare, di un ordine che deriva semplicemente da me: non si capisce infatti cosa potrebbe esserci di sacro. Si tratta invece di un ordine che ha la sua origine in un noi che sopravvive in me. Si potrebbe affermare anche che una parte di me stesso resta in qualche modo destinata o consacrata a colui che non c’è più come persona, ed è proprio questo io che protesta contro ciò che gli si presenta come un sacrilegio. A questo punto bisognerebbe fare ricorso direttamente alle mie riflessioni del 3 agosto. Un ulteriore approfondimento è necessario.

En écrivant ces lignes, et tout de suite après les avoir écrites, j’ai été saisi d’un sentiment insoutenable de lassitude et d’inanité. Quelle prétention dans cette recherche perpétuellement recommencée! Pourquoi ne pas reconnaître que cette présence maintenue n’est que le prolongement dans l’imaginaire d’une expérience en réalité consommée, révolue? Dans l’imaginaire ou dans l’incontrôlable, cela ne revient-il pas au même? J’ai tout dit dans la scène finale de l’Iconoclaste. Je n’ai jamais été plus loin. Sentiment de déréliction. Mais alors comment ai-je pu parler d’un indéfectible? Bien entendu, en parlant d’éclipse, ce sont précisément des moments comme celui-ci que je visais. Mais comment au cours de l’éclipse se sentir encore la force et le droit d’affirmer la réalité éclipsée? Le mot prétention est essentiel. A partir du moment où je me fais fort d’établir, je m’expose comme à un juste châtiment à passer ensuite par une phase de découragement total. Il est même juste, dirais-je, qu’il en soit ainsi. Mais dans ces conditions, comment oser encore penser? après tout c’est bien moi qui pense, qui réfléchis? Le Peuch, 10 août 1943. Je reviens sur mes notes du 2 août en précisant: si je considère l’usage réel des mots, je constate que l’accent n’est mis sur le mot exister que lorsque je dis: telle chose ou telle personne existe encore ou n’existe plus – ou dans le cas où exister signifie avoir une valeur. Cet accent disparaît ou s’affaiblit considérablement lorsque je dis: il existe un pays, ou il existe des gens pour... Exister n’équivaut à se signaler que dans les deux premiers cas. Exister ne signifie certes pas jeter des feux; et cependant il est légitime de parler ici d’éclat

Scrivendo queste righe, e subito dopo averle scritte, sono stato colto da un insostenibile sentimento di stanchezza e di inutilità. Che pretesa in questa ricerca continuamente ricominciata! Perché non riconoscere che questa presenza conservata è solo il prolungamento nell’immaginario di un’esperienza in realtà consumata, compiuta? Nell’immaginario o nell’incontrollabile, non è forse lo stesso? Ho detto tutto nella scena finale dell’Iconoclaste*. Non sono mai stato più lontano. Sentimento di sconforto. Come ho potuto parlare di un indefettibile, allora? Ben inteso, parlando di eclissi mi riferivo proprio a momenti come questi. Ma durante l’eclissi come è possibile avere ancora la forza e il diritto di affermare la realtà eclissata? Il termine pretesa è essenziale. A partire dal momento in cui io mi dico sicuro di affermare, mi espongo a una sorta di giusta punizione nel vivere successivamente una fase di scoraggiamento totale. È anche giusto che sia così, direi. In queste condizioni, però, come si può osare ancora pensare? Dopotutto sono proprio io che penso, che rifletto? Le Peuch, 10 agosto 1943. Prendo nuovamente in considerazione le mie annotazioni del 2 agosto per una precisazione. Se mi baso sull’uso reale delle parole, costato che l’accento è messo sul termine esistere solo quando affermo: una certa cosa o una certa persona esiste ancora o non esiste più – oppure nel caso in cui esistere significa avere un valore. Tale accento scompare o si indebolisce considerevolmente quando dico: esiste un paese, oppure esistono delle persone per… Soltanto nei primi due casi esistere equivale a porsi in evidenza. Esistere non significa certo sprizzare scintille, e tuttavia qui si può parlare

existentiel, comme je l’ai fait. Ces feux s’amortissent là où l’existence est mise en question. On observerait des inégalités d’accent très semblables en s’attachant au mot existence. Il peut signifier simplement façon de passer sa vie: une existence remplie. Quand on dit au contraire, ce n’est pas une existence de vivre dans de telles conditions, on marque implicitement qu’une certaine valeur est impliquée dans l’existence. Sur un plan strictement philosophique, s’interroger sur l’existence du monde extérieur, c’est se demander s’il a une existence propre; peut-être pourrait-on préciser davantage et dire une existence pour soi et non pas simplement celle d’un spectacle pour moi spectateur. Il est bien certain que le spectacle a une existence même en tant que spectacle, mais cette existence apparaît comme précaire et dérivée. Il n’y aurait de sens à se demander si les choses existent que si nous étions munis d’une assurance existentielle préalable portant sur nous-mêmes ou sur Dieu. En fait c’est la conscience qui se juge la plus démunie qui se pose cette question. Il faudrait mettre au point ce que j’ai écrit sur la prétention, sur le: je me fais fort d’établir. Pourquoi cette prétention est-elle si choquante précisément là où il s’agit d’existence? Elle ne l’est pas du tout là où ce qui est en question, c’est un certain enchaînement ou un certain repérage objectif. (Je me charge de vous mener à tel endroit, un autre d’ailleurs à la rigueur pourrait aussi bien vous y conduire.) Est-ce que l’existentiel au sens plein ne se révèle vraiment qu’au sujet? Se confond-il donc avec l’invérifiable? Ce que j’ai dit plus haut de l’intermittence est ici éclairant. Une révélation ne se reproduit pas à volonté. Ceci est vrai dans

di scintillio esistenziale, come ho già fatto. Queste scintille si smorzano quando l’esistenza è messa in dubbio. Diversità di accento molto simili potrebbero essere riscontrate riferendosi al termine esistenza. Può significare semplicemente modo di trascorrere la propria vita: un’esistenza saturata. Quando invece si dice “non è un’esistenza vivere in queste condizioni” si fa risaltare implicitamente che l’esistenza comporta un certo valore. Su un piano strettamente filosofico, interrogarsi sull’esistenza del mondo esterno significa chiedersi se abbia un’esistenza propria. Forse si potrebbe essere ancora più precisi e riferirsi a un’esistenza per sé e non semplicemente a quella di uno spettacolo per me spettatore. Non c’è dubbio: anche lo spettacolo esiste in quanto spettacolo, ma in modo precario e dipendente. Avrebbe senso chiedersi se le cose esistano soltanto se fossimo muniti di una certezza esistenziale preliminare relativa a noi stessi o a Dio, mentre di fatto si pone questo problema proprio la coscienza che si considera più disarmata. Bisognerebbe mettere a punto ciò che ho scritto sulla pretesa, sul: io mi dico sicuro di affermare. Perché questa pretesa è così irritante proprio quando si tratta di esistenza, mentre non lo è affatto, invece, quando è in questione una certa successione o una certa individuazione oggettiva? (Mi assumo il compito di condurla in un certo posto, ma a voler essere rigorosi potrebbe farlo benissimo un altro al posto mio). L’esistenziale nel senso pieno si rivela veramente soltanto al soggetto? Si confonde dunque con l’inverificabile? Qui è illuminante quello che ho detto prima sull’intermittenza. Una rivelazione non si ripete a volontà, ed è vero in tutti i campi. Non sono sicuro di ritrovare il mio sentimento iniziale

tous les domaines: en ré-entendant telle oeuvre musicale qui m’a d’abord bouleversé, je ne suis pas sûr de retrouver mon émotion initiale. On pourrait résumer en disant qu’il est scandaleux de ma part d’émettre une prétention là où j’ai bénéficié d’un don, d’une grâce. Mais si l’existence est telle que je l’ai conçue, c’est bien le cas ici (cf. Notes du 7 août). Le Peuch, 11 août 1943. Peut-être justement est-ce sur le lien entre existence et don qu’il conviendrait d’insister. Toute existence est peutêtre au sens précis du mot, ne disons pas donnée, mais offerte. (Expression banale: le spectacle qui s’offre à moi.) On retrouve ici l’opposition que je signalais il y a quelques jours entre le point de vue de l’invention et de la construction – et celui de la découverte. Ce qui introduit ici quelque confusion, c’est probablement l’idée qu’un don est destiné à telle personne en particulier, au lieu qu’il semble s’agir ici d’une offrande dans l’indéterminé (offrande à qui saura en profiter). Le Peuch, 13 août 1943. Je n’ai pas pris de notes hier. Ce matin, je. songeais qu’on pourrait procéder à une sorte de classement: le problème de l’existence ne se pose pas du tout dans les mêmes termes pour: les choses, les êtres, les valeurs, le monde, Dieu.

riascoltando una certa opera musicale che una prima volta mi ha emozionato. Si potrebbe riassumere affermando che nel caso in cui abbia beneficiato di un dono, di una grazia, da parte mia è scandaloso nutrire delle pretese. Ma è proprio di questo che si tratta, se l’esistenza è così come l’ho concepita (si vedano le riflessioni del 7 agosto). Le Peuch, 11 agosto 1943. È proprio sul legame tra esistenza e dono che bisognerebbe insistere. Forse ogni esistenza è non donata, diciamo, ma offerta, nel significato specifico del termine. (Espressione banale: lo spettacolo che mi viene offerto.) Si ritrova qui la contrapposizione da me individuata alcuni giorni fa tra il punto di vista dell’invenzione e della costruzione e quello della scoperta. Probabilmente può ingenerare un po’ di confusione l’idea che un presente è destinato a una certa persona in particolare, mentre in questo caso sembra che si tratti di un dono nell’indeterminato (dono per chi saprà approfittarne). Le Peuch, 13 agosto 1943. Ieri non ho scritto nulla. Stamattina pensavo che si potrebbe procedere a una specie di classificazione. Il problema dell’esistenza non si pone affatto negli stessi termini per: le cose gli esseri i valori il mondo Dio.

C’est pour les choses qu’il se pose, si l’on peut dire, le moins, en ce sens que nous ne doutons pas et que nous ne pouvons pas douter sérieusement de leur existence. Mais c’est aussi pour elles que nous savons le moins ce que ce peut être qu’exister. Leur existence nous est offerte ou proposée: mais n’est-ce que celle d’un spectacle? Non, puisqu’elle nous résiste. Les êtres en tant que tels, en tant qu’intériorités ne peuvent être qu’à reconnaître et à aimer; car en tant que maîtres qui doivent être obéis ou qu’instruments à utiliser, ils ne sont pas à proprement parler des êtres. D’autre part, contrairement à ceux qui invoquent le raisonnement par analogie pour rendre compte de la croyance à l’existence d’autrui, il faut dire que je ne me constitue moi-même comme intériorité que pour autant que je prends conscience de la réalité des autres. L’existence des choses étant posée comme irréfutable, voire comme existence-type, que dire de l’existence des êtres? D’une part, je peux me comporter comme si je la niais, et d’autre part, je peux déployer au service de cette négation les ressources d’une sophistique idéaliste. Ceci sera encore plus vrai pour Dieu. Je peux me comporter en athée, je songe en ce moment au héros de Bel-Ami, que je viens de relire, on ne peut imaginer d’athée plus radical, quelles que soient les opinions du personnage – et on aura toujours la possibilité de justifier théoriquement cet athéisme pratique. Le Peuch, 14 août 1943. Je songeais ce matin que le culte semble devoir se réduire nécessairement pour celui qui le considère du dehors à une activité qui consiste à entretenir ou à renouveler des images,

Questo problema si pone meno per le cose, se così si può dire, perché non dubitiamo e non possiamo dubitare seriamente della loro esistenza. Ma neppure in riferimento alle cose sappiamo con precisione cosa possa essere l’esistere. La loro esistenza ci è offerta o proposta: è soltanto quella di uno spettacolo, però? No, poiché ci oppone resistenza. Gli esseri in quanto tali, in quanto interiorità, possono essere soltanto riconosciuti e amati. In quanto padroni ai quali si deve obbedire o in quanto strumenti da utilizzare, infatti, non sono degli esseri, propriamente parlando. D’altra parte, contrariamente a coloro che invocano il ragionamento per analogia per rendere conto della fede nell’esistenza dell’altro, bisogna dire che io stesso mi costituisco come interiorità solo nella misura in cui prendo coscienza della realtà degli altri. Posta come inconfutabile l’esistenza delle cose, vale a dire come esistenza-tipo, cosa dire dell’esistenza degli esseri? Da una parte posso comportarmi come se la negassi, dall’altra posso porre al servizio di questa negazione le risorse di una sofistica idealista. Ciò varrà a maggior ragione per Dio. Posso comportarmi da ateo: in questo momento sto pensando all’eroe di Bel-Ami*, che ho appena riletto. Non si può proprio immaginare un ateo più radicale, di qualunque tipo siano le opinioni del personaggio – e si avrà sempre la possibilità di giustificare teoricamente questo ateismo pratico. Le Peuch, 14 agosto 1943. Stamattina pensavo che per chi lo considera dall’esterno il culto sembra dover ridursi necessariamente a un’attività che consiste nel conservare o nel rinnovare delle immagini,

en somme à une commémoration. Caractère radicalement inintelligible de la Communion pour qui ne communie pas. Je me demande si la distinction entre l’exister personnel et l’exister impersonnel ne fournirait pas un assez bon point de départ. «Il existe», se dit à propos de quelque chose dont on entend proposer une définition ou une amorce de définition: il existe un pays où... L’accent n’est pas mis sur l’unicité, c’est plutôt l’inverse. Au contraire, existence au sens personnel implique ipséité, référence à l’actualité vécue, incluse dans les deux opposés: encore, ne plus. Une certaine lumière brille encore, ou au contraire s’est éteinte. De ce point de vue il semble que je n’octroie en fait l’existence qu’à ce dont on peut dire, cela existe encore ou n’existe plus: ce qui exclurait radicalement les valeurs, les essences mathématiques, etc... J’ai été à la rencontre de J..., qui venait de La Roche, et je lui ai lu les notes sur l’indéfectible. Elle croit que c’est bien, mais je suis hésitant. N’est-ce pas par attachement au souvenir que j’entretiens les images? Il me semble cependant qu’on ne peut le prétendre qu’en donnant au souvenir une sorte de valeur ontologique, et alors on rejoint exactement ma position. A la racine de la commémoration, il y a une affirmation qui la plupart du temps ne parvient aucunement à s’articuler, elle s’articule même d’autant moins que la commémoration s’adresse davantage à un indéterminé, comme «les morts de la grande guerre». C’est bien moins vrai dans une commune comme celle-ci où on évoque quelques êtres précis que la plupart des gens ont connus individuellement. Ce qui est curieux, c’est qu’on admette si facilement que le culte des morts n’est qu’une religion du souvenir, ou si l’on veut qu’elle a pour point d’application du n’existant plus, c’est-à-dire, si on n’admet pas ma position – de l’inexistant.

insomma a una commemorazione. Assoluta incomprensibilità della Comunione per chi non si comunica. Mi chiedo: la distinzione tra l’esistere personale e l’esistere impersonale può costituire un buon punto di partenza? “Esiste”, si dice di qualcosa di cui si vuole fornire una definizione o un abbozzo di definizione: esiste un paese in cui… L’accento non è messo sull’unicità, è piuttosto esattamente il contrario. Esistenza in senso personale, invece, implica ipseità, riferimento all’attualità vissuta, posta tra i due opposti: ancora, non più. Una certa luce brilla ancora, oppure si è invece spenta. Da questo punto di vista può sembrare che di fatto io conceda l’esistenza solo a ciò di cui si può dire: esiste ancora oppure non esiste più. Verrebbero così assolutamente esclusi i valori, le essenze matematiche, ecc. Sono andato incontro a J., che arrivava da La Roche, e le ho letto le annotazioni sull’indefettibile. Le trova buone, ma io ho delle esitazioni. Non è forse vero che conservo le immagini per attaccamento al ricordo? Lo si può affermare, mi sembra, solo attribuendo al ricordo una specie di valore ontologico. È proprio questo il mio pensiero. Alla base della commemorazione vi è un’affermazione che la maggior parte del tempo non riesce affatto ad articolarsi, anzi, si articola tanto meno quanto più la commemorazione è rivolta a un indeterminato, ad esempio “i morti della grande guerra”. È molto meno vero in un comune come questo in cui si ricordano alcuni individui particolari che la maggior parte delle persone ha conosciuto singolarmente. È curioso: si è portati ad accettare così facilmente che il culto dei morti sia soltanto una religione del ricordo o, se si vuole, che si riferisca a qualcosa che non esiste più, cioè, se non si condivide il mio pensiero, a qualcosa di inesistente.

Le Peuch, 15 août 1943. Je sens très fortement que ce que j’ai écrit sur le fondement métaphysique de la commémoration n’est pas au point. Tout cela est pensé sans rigueur. Je note en ce moment que je ne puis penser à un des êtres que j’ai connus et qui ne sont plus de ce monde, sans que s’éveille une émotion commune – comme si c’étaient là des canaux qui se rejoignent dans un réservoir central; et j’en viens à me demander si cette émotion ne serait pas tout simplement liée à la pensée du révolu de la vie en si grande partie dépensée. On retrouverait cet attendrissement sur soi auquel je suis si enclin et qui me paraît en même temps tellement suspect. Cependant, en toute bonne foi, ce serait déformer ce que j’éprouve. Ce qui est pour moi une plaie toujours saignante, c’est cette présence-absence de l’autre: pourquoi si c’était la hantise de ma vie enfuie, se camouflerait-elle de la sorte?... Eh bien non, décidément ce que j’ai écrit là est injuste. Ce que je ne peux pas supporter c’est l’idée qu’ils auront été pris en traître (Edith, le petit Menés, et tant d’autres...) par «la vie». Se demander ce que cela signifie: être pris en traître par la vie – je n’ai pas le droit d’affirmer que cela n’est pas, que cela ne peut pas être: mais où est-ce que je prends ce droit, sur quoi se fonde-t-il? C’est la question vitale qui est au cœur de ma hantise. En allant à la gare à l’instant, il m’est venu cette idée que peut-être leur assistance se marque à la façon dont ils nous aident à les évoquer et à les voir dans une autre lumière. Je songeais aussi que les hommes se sont habitués de nos jours à vivre dans un monde où l’injustice métaphysique triompherait, où on serait vraiment pris en traître – et à incarner dans leur vie cette injustice supposée.

Le Peuch, 15 agosto 1943. Ciò che ho scritto sul fondamento metafisico della commemorazione non è ancora messo a fuoco, ed è pensato senza rigore, me ne rendo conto molto chiaramente. Non posso pensare a uno degli esseri di cui ho fatto la conoscenza e che non sono più di questo mondo senza che si risvegli un’emozione comune – come se si trattasse di canali che confluiscono in un serbatoio centrale: è un’idea di cui prendo nota in questo momento. E mi chiedo perciò se questa emozione non sia legata semplicemente al pensiero della mia vita passata, in gran parte già spesa. Si tratterebbe di nuovo dell’intenerimento nei confronti di se stessi al quale sono particolarmente incline, pur sembrandomi alquanto sospetto. In totale buona fede, significherebbe tuttavia deformare ciò che provo. È per me una piaga sempre aperta la presenza-assenza dell’altro: se si trattasse del pensiero assillante della mia vita ormai fuggita, perché si camufferebbe in questo modo?... Ebbene no, quello che ho appena scritto è decisamente ingiusto. Ciò che non posso sopportare è l’idea che siano stati traditi (Edith, il piccolo Ménès, e tanti altri…) dalla “vita”. Chiedersi cosa significhi essere traditi dalla vita – non ho il diritto di affermare che le cose non stanno così, che non possono essere così: ma da dove mi proviene questo diritto, su che cosa si fonda? È la questione vitale che è al cuore della mia ossessione. Mentre andavo alla stazione mi è venuta questa idea: forse la loro protezione si distingue dal modo in cui ci aiutano a evocarli e a vederli in una luce diversa. Pensavo anche che attualmente gli uomini si sono abituati a vivere in un mondo in cui dovrebbe trionfare l’ingiustizia metafisica, in cui si verrebbe veramente presi a tradimento – e si sono abituati a incarnare nella loro vita questa supposta ingiustizia.

Le Peuch, 16 août 1943. Si j’avais la certitude qu’ils sont dans la paix et dans la lumière, je ne dis pas que ma nostalgie disparaîtrait, mais elle perdrait son caractère «consumant». Etre pris en traître, qu’est-ce à dire? Voilà des êtres qui ont vécu aimantés par un certain espoir diffus; on ne peut supporter l’idée qu’ils ont été menés simplement là où ils auraient eu horreur de se savoir entraînés. Oui, menés. Il s’agit en réalité de savoir si ce mot a un sens. On ne peut lui attribuer une signification que là où il est possible de penser un vouloir ou une puissance assimilée à un vouloir. Mais sommes-nous tenus – ou simplement avons-nous le droit – de penser la suite d’événements qui forment la contexture d’une vie individuelle comme étant voulue par quelqu’un ou quelque chose? Voie à suivre: distinguer plusieurs cas. Si je dois me penser moi-même comme voulu, comme appelé à être par une puissance spirituelle, puis-je croire que ce qui m’arrive n’est pas en soi voulu? Mais suis-je tenu de me penser comme voulu? Est-il d’autre part possible que je sois là par hasard? C’est la question qui commande toutes les autres, elle rejoint le problème de l’individuation et de son fondement. Le Peuch, 19 août 1943. A quelles conditions puis-je me penser comme voulu? Un personnage de roman pourrait-il arriver à se concevoir comme voulu par le romancier qui l’a imaginé? Cette question est absurde, précisément parce que le personnage n’est qu’un personnage. La question ne peut se poser pour moi que pour autant que je suis moi-même autre chose et plus qu’un simple personnage. Celui-ci – le personnage de ro-

Le Peuch, 16 agosto 1943. La mia nostalgia non scomparirebbe, non affermo questo, ma perderebbe il suo carattere “divorante” se avessi la certezza che si trovano nella pace e nella luce. Essere preso a tradimento: che cosa significa? Ecco degli esseri che hanno vissuto calamitati da una vaga speranza. Non si può accettare l’idea che essi siano stati condotti semplicemente là dove avrebbero avuto orrore di sapersi portati. Sì, condotti. Questo termine ha un senso, però? Si può attribuirgliene uno soltanto nel caso in cui sia possibile pensare un volere o un potere paragonabile a un volere. Ma siamo tenuti – o abbiamo semplicemente il diritto – di pensare la serie di eventi che formano la trama di una vita individuale come se fosse voluta da qualcuno o da qualcosa? Cammino da seguire: distinguere vari casi. Se devo pensare a me stesso come voluto, come chiamato a essere da una potenza spirituale, posso credere che ciò che mi capita non è voluto in sé? Ma sono tenuto a pensarmi come voluto? D’altronde è possibile che io sia là per caso? È il problema che si impone su tutti gli altri, che si ricollega a quello dell’individuazione e del suo fondamento. Le Peuch, 19 agosto 1943. A quali condizioni posso pensarmi come voluto? Il personaggio di un romanzo potrebbe concepirsi come voluto dal romanziere che lo ha immaginato? Questa domanda è assurda, proprio perché il personaggio non è nient’altro che un personaggio. La domanda può porsi per me solo nella misura in cui io stesso sono qualcosa di diverso, e più di un semplice personaggio. Quest’ultimo – il personaggio di romanzo – è per sé, ma si tratta di un per sé rappresentato, di

man – est pour soi, mais c’est du pour soi représenté, du pour soi pour autrui, si l’on peut dire. Il ne peut échapper à ce système de perspective dans lequel il est comme enfermé, qu’à condition de se nier comme personnage et de se muer ou de se résorber dans le romancier lui-même, comme c’est le cas dans certaines œuvres contemporaines: les Faux Monnayeurs, Contrepoint, etc... Le Peuch, 20 août 1943. Ce qui est parfaitement clair, c’est que lorsque je me dis voulu par Dieu, je ne sais ce que signifie ce me, s’agit-il de celui que je suis Hic et nunc? mais il n’a aucune existence indépendante. S’agit-il de ce que je dois devenir? Mais que signifie ici le mot dois? Est-ce un Je devrais? ou un Je suis destiné à? Cette indétermination suffit à rendre le sens de la question si obscure qu’on ne sait comment on pourrait y répondre. Cette nuit, longue conversation métaphysique et théologique avec J... Quelle confusion dans mes pensées! Que d’incertitudes! Je vois trop les difficultés, par moment, je ne vois plus clair. Il faudra absolument reprendre la question immortalité-éternité. La solution du Père Laberthonnière, bien que conforme à toute une tradition, me paraît confuse et équivoque. Il a trop peur de paraître justifier les critiques et les sarcasmes de Brunschvicg. Le Peuch, 22 août 1943. Étienne Borne m’a demandé de lui envoyer des notes sur le Mal. Il faudrait partir de la question posée le 26 juin 1942: qu’attendons-nous en fait et que pouvons-nous attendre en

un per sé per l’altro, se così si può dire. Egli può sfuggire a questo gioco di prospettive nel quale è come rinchiuso solo a condizione di negarsi come personaggio, e di trasformarsi o lasciarsi riassorbire nello stesso romanziere, come accade in certe opere contemporanee: Les faux monnayeurs, Contrepoint, ecc. Le Peuch, 20 agosto 1943. Quando dico di me, del mio io, che è voluto da Dio, non so cosa significhi questo io. Si tratta di colui che sono hic et nunc? Non ha nessuna esistenza indipendente, però. Si tratta di ciò che devo diventare? Ma in questo caso cosa significa il termine devo? È un “Io dovrei”? O un “Io sono destinato a?” Questa indeterminatezza basta per rendere oscuro il senso della domanda al punto che non si sa quale potrebbe essere la possibile risposta. Stanotte lunga conversazione metafisica e teologica con J. Che pensieri confusi! Che incertezze! Per il momento scorgo troppe difficoltà, non vedo più chiaro. Bisognerà assolutamente riprendere il problema immortalità-eternità. Benché coerente con una tradizione ben precisa, la soluzione del Padre Laberthonnière mi sembra confusa ed equivoca. Ecco ciò di cui ha troppa paura: che gli altri pensino che giustifica le critiche e i sarcasmi di Brunschvicg. Le Peuch, 22 agosto 1943. Étienne Borne mi ha chiesto di inviargli alcune riflessioni sul Male. Il punto di partenza dovrebbe essere il problema posto il 26 giugno 1942: cosa ci aspettiamo di fatto e cosa

droit d’une théorie philosophique du mal? Peut-elle être au sens précis du terme explicative? Il s’agit ici de la présence du mal dans la réalité. Elle ne peut être explicative que si le mal est assimilé à la défectuosité d’un certain fonctionnement. Il pourra s’agir: a) soit d’un fonctionnement des «choses» elles-mêmes; b) soit d’un fonctionnement de la pensée qui porte sur les choses, la pensée étant elle-même ici plus ou moins assimilée à un sens tel que la vue ou l’ouïe, un sens sujet à des troubles nettement définissables, mais non pas nécessairement curables. Un oculiste pourra dire à quelqu’un: votre vue est défectueuse, parce que votre rétine est malade; sans garantir qu’il trouvera moyen de guérir cette rétine. La distinction entre a et b est importante, au moins à première vue: dans un cas, je repère dans le monde tel qu’il est constitué l’existence soit d’un défaut, soit d’une cause perturbatrice: dans l’autre cas, je dis: le monde tel qu’il est ne peut encourir aucun reproche, mais il n’en va pas de même pour la connaissance dont il est l’objet. Prenons garde cependant, la connaissance est ici assimilée à un appareil qui serait distinct du spectacle sur lequel il porte. Mais il s’agit de savoir si ce n’est pas un simple non-sens de traiter la connaissance de cette manière. De deux choses l’une, en effet: ou par monde, j’entends un spectacle, et dans ce cas la question du Bien et du Mal ne peut sans doute même pas se poser; pour un pur spectateur, à supposer que ces mots offrent un sens quelconque, il n’y a ni Bien ni Mal, ou bien, j’entends par monde quelque chose de plus qu’un pur spectacle, et dans ce cas la distinction entre spectacle et spectateur doit être transformée. Si je ne suis pas devant le monde comme un spectateur devant un spectacle, c’est que je participe au monde en quelque façon; c’est donc aussi que toute défectuosité en moi est en quelque façon une défectuosité du

possiamo aspettarci di diritto da una teoria filosofica sul male? Può essere esplicativa nel senso specifico del termine? Si tratta della presenza del male nella realtà. Una teoria può essere esplicativa soltanto se il male è assimilato alla difettosità di un certo funzionamento. Potrà trattarsi: a) o di un funzionamento delle “cose” stesse; b) o di un funzionamento del pensiero riguardante le cose. In questo caso il pensiero è esso stesso assimilato, più o meno, a un senso come la vista o l’udito: un senso soggetto a disturbi definibili con precisione, ma non necessariamente curabili. Un oculista potrebbe dire a un paziente: poiché la sua retina è malata la sua vista è difettosa. Non per questo, però, potrà assicurare la guarigione. La distinzione tra a e b è importante, almeno a prima vista. In un caso individuo nel mondo così come è strutturato l’esistenza sia di un difetto sia di una causa perturbatrice; nel secondo caso, invece, affermo: al mondo così com’è non può essere mosso nessun rimprovero, mentre la stessa cosa non si può dire della conoscenza di cui costituisce l’oggetto. Facciamo attenzione, però: qui la conoscenza è considerata alla stregua di un apparecchio distinto dallo spettacolo per il quale viene usato. Si tratta tuttavia di capire se considerare la conoscenza in questo modo non sia un semplice non-senso. Delle due cose l’una, in effetti: o per mondo intendo uno spettacolo, e in questo caso la questione del Bene e del Male non si può neppure porre, senza ombra di dubbio. Infatti per uno spettatore in quanto tale, supponendo che queste parole abbiano un senso, non esiste né Bene né Male. Oppure per mondo intendo qualcosa di più di un puro spettacolo, e in questo caso la distinzione tra spettacolo e spettatore deve essere rivista. Non mi trovo di fronte al mondo come uno spettatore di fronte a uno spettacolo perché in qualche modo partecipo al mondo: ogni mia difettosità è anche, in

monde lui-même. Il suit de là que le cas b se réduit en réalité au cas a; reste à savoir cependant si, dans ces conditions, il peut encore être question d’expliquer au sens précis de ce mot. Une pensée explicative ne peut que se poser comme exempt des défauts dont elle entend rendre compte. C’est au nom d’un certain ordre qu’elle conçoit et avec lequel elle s’identifie qu’elle est susceptible de penser le désordre, de reconnaître en quoi il consiste. Ceci est tout à fait manifeste dans le domaine nosologique. Le mal peut-il être assimilé à une maladie du réel? Ceci supposerait la possibilité pour la pensée de concevoir un monde sain. Mais ceci est trop peu dire, et le mot concevoir risque de nous égarer. La nosographie sous tous ses aspects n’est possible qu’à partir d’une expérience portant sur l’organisme à l’état normal. Ici, l’idée d’une semblable expérience est absurde. Ce qui en tient lieu, c’est exclusivement une aspiration, une exigence, dont nous ne savons si elle peut être effectivement satisfaite, ni même tout à fait exactement à quoi elle tend. En d’autres termes, à l’être tel qu’il doit ou devrait être, nous opposons l’être tel qu’il est. Mais cette opposition ne se précise que pour la conscience. Je sais (ou je sens) que je devrais agir de telle manière, et cependant je ne puis m’empêcher d’agir tout autrement. Dans ce cas privilégié, l’explication peut-elle intervenir au sens spécifié plus haut? Cela paraît fort douteux. Il faudrait d’ailleurs approfondir davantage. En dernière analyse le problème porte moins sur ce que je fais, que sur ce que je suis. Dire, «je devrais agir autrement», n’est-ce pas dire au fond «je devais être autre que je ne suis»? Mais ceci a-t-il un sens? Peut-être, si j’affirme par là d’ailleurs d’une façon indistincte qu’au fond de moi, je ne suis pas tel que je me manifeste. Il faut donc que ce «je devrais être» repose sur un «je suis». Autrement, nous sommes dans l’irréel, peutêtre dans les mots. Ceci serait à creuser.

qualche modo, una difettosità del mondo stesso. Ne consegue che in realtà il caso b può essere ricondotto al caso a. Tuttavia rimane da sapere se in queste condizioni sia ancora possibile una spiegazione nel senso proprio del termine. Un pensiero esplicativo non può non porsi come esente dai difetti di cui vuole rendere conto: può pensare il disordine, stabilire in che cosa consista in nome di un certo ordine concepito dal pensiero stesso, e con il quale si identifica. In campo nosologico tutto ciò è affatto evidente. Il male può essere assimilato a una malattia del reale? Questo presupporrebbe che il pensiero possa concepire un mondo sano. Ma così si dice troppo poco, e il termine concepire rischia di fuorviarci. La nosografia in tutti i suoi aspetti è possibile solo a partire da un’esperienza dell’organismo in condizioni normali, ma qui l’idea di una esperienza simile è assurda. Al suo posto vi è soltanto un’aspirazione, un’esigenza, che non sappiamo se possa venire veramente soddisfatta, e neppure a che cosa tenda esattamente. In altri termini, all’essere come deve o dovrebbe essere contrapponiamo l’essere così com’è. Questa contrapposizione assume però dei contorni precisi soltanto per la coscienza. Io so (o sento) che dovrei agire in un certo modo, e tuttavia non posso trattenermi dall’agire in modo del tutto diverso. In questo caso privilegiato può essere avanzata una spiegazione nel senso precisato in precedenza? Ci sono molti dubbi al proposito. D’altronde sarebbe necessario un ulteriore approfondimento. In ultima analisi il problema riguarda meno ciò che faccio rispetto a ciò che sono. Affermare “dovrei agire diversamente” non significa in fondo “dovevo essere diverso da quello che sono”? Ma questo ha un senso? Forse, se con ciò intendo dire, in un modo d’altronde vago, che in fondo a me stesso sono diverso da come mi mostro. È dunque necessario che questo “io dovrei essere” si fondi su un “io sono”. Diversamente, siamo nell’irreale, forse in un mondo di pure parole. Bisognerebbe approfondire.

Le Peuch, 23 août 1943. Il m’est venu hier soir une idée qui n’est peut-être pas à retenir, mais que je voudrais essayer d’élucider. Le mal ne peut peut-être trouver aucune place dans le monde considéré comme Ground, c’est-à-dire comme terrain d’action ou de jeu commun à tous, ou encore comme lieu d’une pensée objective. En sorte que toute nosographie du réel serait absurde. Il ne pourrait apparaître que dans la perspective d’un sujet en tant que sujet, dans mon univers en tant que mien; ou plus exactement, le mal serait toujours une atteinte ressentie de mon point de vue de sujet, quelque chose comme une lésion. Ceci n’impliquerait d’ailleurs aucunement son idéalité, car il pourrait se faire que cette perspective même fût plus réelle que celle d’une pensée dépersonnalisante et dépersonnalisée. Ceci n’est pas exprimé d’une façon qui me satisfasse, et je ne suis pas encore en mesure de voir clairement si c’est là un paradoxe, un truisme ou un non-sens. Il faudrait illustrer en prenant comme exemple telle iniquité, tel acte de cruauté, dont je n’ai pas été moi-même victime, mais auquel je ne réagis pas moins vivement que si j’en avais souffert directement. Certes, j’affirme qu’il y a là du mal, une expression du mal au sens le plus réel. Reste à savoir si ce mal réel peut être assimilé à une malformation, à un vice de structure ou de fonctionnement susceptible d’être décelé ou repéré... Je n’arrive pas à retrouver mon intuition d’hier soir. Il faudrait me rappeler comme elle m’est venue13 – donc 13

J’ai voulu dire simplement qu’une théorie explicative se développe selon une perspective dans laquelle précisément le mal ne peut être saisi comme mal. En sorte qu’elle fait évanouir son objet à partir du moment où elle se déploie. La pensée explicative qui est par essence dépersonnalisante, ne peut pas répondre à une expérience avec laquelle elle n’a rien de commun.

Le Peuch, 23 agosto 1943. Ieri sera mi è venuta un’idea che vorrei tentare di chiarire nonostante non sia degna di essere ricordata, probabilmente. Nel mondo considerato come Ground, cioè come terreno d’azione o di gioco comune a tutti, oppure anche come luogo di un pensiero oggettivo, forse non c’è assolutamente posto per il male, e quindi qualsiasi nosografia del reale sarebbe assurda. Potrebbe diventare evidente soltanto nella prospettiva di un soggetto in quanto soggetto, nel mio universo in quanto mio. O, a essere più precisi, il male sarebbe sempre un attacco subito dal mio punto di vista di soggetto, una sorta di lesione. Ciò non implicherebbe affatto, però, la sua idealità: potrebbe accadere infatti che questa stessa prospettiva fosse più reale di quella di un pensiero spersonalizzante e spersonalizzato. Il modo in cui mi sono espresso non mi soddisfa, e non sono ancora in grado di capire chiaramente se si tratti di un paradosso, di un truismo o di un non-senso. Bisognerebbe chiarire prendendo come esempio una certa azione iniqua, una certa azione crudele di cui non sono stato io stesso vittima ma alla quale reagisco con non minore vigore che se l’avessi subita in prima persona. Non c’è dubbio, affermo che si tratta di male, un’espressione del male nel significato più reale. Rimane da chiarire se questo male reale possa essere assimilato a una malformazione, a un vizio di struttura o di funzionamento che può essere scoperto o individuato… Non riesco a ritrovare la mia intuizione di ieri sera. Dovrei ricordarmi come l’ho avuta13 – dunque risalire più in là e 13 Ho inteso affermare soltanto che una teoria esplicativa si sviluppa in una prospettiva nella quale il male non può proprio essere colto come male, così da far svanire il suo oggetto nel momento in cui prende forma. Il pensiero esplicativo, di per sé spersonalizzante, non può rispondere a un’esperienza con la quale non ha niente in comune.

remonter plus haut et en particulier s’interroger sur ce que j’ai écrit hier à la fin et qui me paraît également douteux. «Dire: je devrais agir autrement, c’est dire «je devrais être autre que je ne suis», ai-je noté hier, et ceci me semble exact. Mais la suite est douteuse. Quel sens y a-t-il à dire: «je devrais être autre que je suis»? Il est évident que cela n’a de sens que dans d’assez étroites limites. Il serait absurde de dire que je devrais être une fille – même si j’ai la conviction que ce serait un bonheur pour ma famille – ou que je devrais être intelligent, etc... Il y a en somme un fond de ma nature que je dois prendre pour accordé. Etant tel que je suis, ayant par exemple certaines facultés intellectuelles, je devrais être travailleur. Mais ne revient-on pas simplement au «je devrais agir autrement»? Peut-être pas, Le sens est: ayant telle et telle qualité, je devrais avoir aussi telle autre qualité, mais cette autre qualité ne me fait pas simplement défaut comme un don qui m’aurait été refusé. Ce serait là, à cette articulation précise, que s’insérerait la responsabilité, mais en même temps j’aurais toujours la ressource de nier celle-ci, en traitant cette qualité déficiente comme don refusé. Mais précisément, j’abuse en traitant comme constatation ce qui est au fond un refus. Il faudrait voir maintenant quel retentissement cette remarque peut avoir sur la philosophie du mal. J’explique pourquoi je ne travaille pas: je suis trop préoccupé, ou bien il fait trop beau temps, etc... Mais je produis ces motifs pour me dispenser de vouloir. L’explication apparaît comme alibi de la volonté. Il se produit ici le malentendu que je dénonçais dans la note ci-dessus. Je ne reconnais le mal qui est en moi qu’à partir du moment où je renonce à expliquer, à ergoter. Ceci est-il applicable au mal qui se situe hors de moi? Mais il faudrait commencer par se demander si la localisation est ici vraiment praticable. On me raconte un acte de cruauté qui a été commis à des milliers de kilomètres. Je n’hésite pas à

interrogarmi in particolare su ciò che ho scritto ieri alla fine, e che mi sembra altrettanto dubbioso. Affermare “io dovrei agire diversamente” significa dire “dovrei essere diverso da quello che sono”, ho scritto ieri: mi sembra esatto. Ciò che segue, invece, è incerto. Che senso ha dire “dovrei essere diverso da quello che sono”? È evidente che il suo significato è molto limitato. Dire che dovrei essere una ragazza – anche se sono convinto che sarebbe una gioia per la mia famiglia – oppure che dovrei essere intelligente, ecc. sarebbe assurdo. Vi è insomma un nocciolo della mia natura che devo accettare come dato. Essendo così come sono, ad esempio con alcune qualità intellettuali, dovrei essere un lavoratore. Non si ritorna però semplicemente al “dovrei agire diversamente”? Forse no. Il senso è questo: avendo questa e quella qualità dovrei averne anche un’altra ancora, che non mi manca tuttavia semplicemente come un dono che mi è stato negato. Proprio qui, in questo snodo ben preciso, si inserisce la responsabilità, che però ho sempre la possibilità di far venir meno, considerando questa qualità che mi manca come un dono rifiutato. Esagero, però, considerando come costatazione ciò che in fondo è un rifiuto. Bisognerebbe valutare ora quali ripercussioni possa avere questa osservazione sulla filosofia del male. Perché non lavoro? Fornisco una spiegazione: sono troppo preoccupato, oppure il tempo è particolarmente bello, ecc. Accampo queste motivazioni, però, per esimermi dal volere. La spiegazione si presenta come alibi della volontà. Si verifica qui il malinteso da me segnalato nella precedente annotazione. Riconosco il male che è in me solo dal momento in cui rinuncio a spiegare, a cavillare. Questo discorso vale per il male al di fuori di me? Tuttavia bisognerebbe chiedersi innanzitutto se in questo caso si possa veramente procedere alla localizzazione. Nel momento in cui vengo informato di un atto crudele commesso a migliaia di chilometri di distanza non esito ad

déclarer que l’agent est le siège du mal que je dénonce avec le narrateur. Mais que penser de ce repérage? Mon jugement ne peut porter légitimement que sur l’acte lui-même: mais celui qui l’a accompli peut avoir agi dans une inconscience totale et provoquée. Ici localisation et imputation coïncident ou se confondent. Complément aux notes d’hier. Il est évident que tel mal particulier peut comporter une explication et être assimilé à un fonctionnement défectueux. C’est pour le mal dans son ensemble que joue l’argument exposé hier. Noter d’autre part qu’en-deçà de l’explication on procède déjà à une manipulation quand on parle du mal comme d’un principe qui aurait une unité intrinsèque. Le Peuch, 25 août 1943. Pour illustrer ce que j’ai écrit hier (complément). On m’apprend la mort prématurée d’un être aimé des siens et merveilleusement doué. Si je me refuse à opposer à cette réalité quelques clichés édifiants, je reconnais bien que c’est là un mal; par cet événement, en effet, tous sont frustrés. Cet événement pris en lui-même, dans ce que j’appellerai aujourd’hui sa facticité, comporte des explications: une maladie dont on peut – peut-être – discerner les causes. Mais l’explicable se double ici d’inexplicable. L’inexplicable, c’est que le réel comporte la possibilité d’un déterminisme qui s’exerce au détriment de la valeur. (J’emploie ici un langage qui ne me satisfait pas absolument.) Puis-je m’expliquer l’existence de cette faille dans le réel, par où s’introduit un semblable déterminisme? Puis-je l’assimiler à un vice de construction dans une machine? Mais il faut

affermare che l’autore è la vera sede del male da me denunciato insieme al narratore. Che cosa pensare però di questa individuazione? Sono legittimato a esprimere un giudizio soltanto sull’atto stesso: colui che l’ha compiuto, infatti, può aver agito in uno stato di incoscienza totale e provocata. Qui localizzazione e imputazione coincidono o si confondono. Complemento agli appunti di ieri. È evidente che un certo male particolare può essere oggetto di una spiegazione, ed essere assimilato a un funzionamento difettoso. L’argomento esposto ieri vale per il male considerato nel suo insieme. D’altra parte quando si parla del male come di un principio che avrebbe un’unità intrinseca si procede già a una manipolazione, pur rimanendo al di qua della spiegazione. Le Peuch, 25 agosto 1943. Alcuni chiarimenti su quello che ho scritto ieri (complemento). Vengo informato della morte prematura di un essere meravigliosamente dotato, amato dai suoi. Se non accetto di pormi di fronte a questa realtà ricorrendo a qualche luogo comune edificante, riesco certamente a riconoscere che si tratta di male. Infatti tutti si sentono traditi da questo evento che, preso in se stesso, rispetto a ciò che oggi chiamerei la sua fatticità, comporta delle spiegazioni: una malattia di cui – forse – si possono individuare le cause. In questo caso, però, ciò che si può spiegare sa di inspiegabile. L’inspiegabile deriva dal fatto che il reale comporta la possibilità di un determinismo che si realizza a danno del valore. (Sto utilizzando un linguaggio che non mi soddisfa affatto.) Sono in grado di darmi una spiegazione dell’esistenza della crepa nel reale attraverso la quale si introduce un tale determinismo? Posso equipararla a un vizio di costruzione in

remonter plus haut. Puis-je me former l’idée d’un monde intact comparable à celle d’une machine fonctionnant normalement? Je remarque que dans le cas de la machine, deux cas sont à distinguer: celui où ce qui est défectueux, c’est tel spécimen, par rapport à un certain type qui ne le serait pas – et celui où le type lui-même présente des imperfections. Il faut évidemment laisser de côté le premier cas, puisque le monde n’est pas assimilable à un spécimen parmi d’autres. Examinons donc le second: sur quoi porte l’imperfection du type? La machine est destinée à rendre tel service, à fournir tel rendement, et l’imperfection constatée diminue ce rendement. Il faudrait donc en partant de l’idée de la fin réalisée, trouver moyen d’éviter le défaut en question. Le jugement ne se laisse sans doute nullement séparer ici de l’exercice d’une pensée technicienne, même si on ne peut pas dire à la rigueur que c’est cette pensée technicienne ou fabricatrice qui porte le jugement. (Je note en 1959 que ceci serait à reprendre dans la perspective de la cybernétique.) Mais précisément, dans un exemple comme celui d’où je suis parti dans ma note de ce jour, rien ne peut être imaginé qui comporte l’exercice d’une semblable pensée. Alors que je sais parfaitement pourquoi et en vue de quoi la machine est là, il n’y a pas de sens à dire: pourquoi l’être dont je pleure la perte est-il apparu? et je ne puis en aucune façon déterminer les conditions qui ont rendu cette apparition possible.

una macchina? Bisogna risalire più a monte, però. Posso formami l’idea di un mondo integro, simile a una macchina che funziona perfettamente? Riferendosi a quest’ultima bisogna distinguere due casi. Nel primo sarebbe difettoso un determinato esemplare di un certo modello, che invece non lo sarebbe; nel secondo, invece, è il modello stesso che presenta delle imperfezioni. È evidente che bisogna lasciare da parte il primo caso poiché il mondo non può essere considerato un esemplare tra altri. Prendiamo dunque in considerazione il secondo: quale aspetto riguarda l’imperfezione del modello? La macchina è finalizzata a rendere un certo servizio e a garantire un certo rendimento, ed è proprio il rendimento che viene diminuito dall’imperfezione accertata. Quindi, partendo dal fine che si deve raggiungere, sarebbe necessario trovare il modo di evitare il difetto in questione. In questo caso il giudizio non può affatto essere separato dal ricorso a un pensiero di natura tecnica, è fuori di dubbio, anche se a rigore non è possibile affermare che sia il pensiero tecnico o produttivo che formula il giudizio. (Riflessione del 1959: tutto ciò dovrebbe essere riconsiderato nella prospettiva della cibernetica). In un esempio come quello dal quale sono partito nei miei appunti di oggi non si può immaginare nulla che si presti all’esercizio di un pensiero di questo tipo. Mentre so con precisione perché e in vista di che cosa la macchina è là, non ha affatto senso chiedere: “perché l’essere di cui piango la perdita è venuto al mondo?”. E non posso in nessun modo determinare le condizioni che hanno reso possibile questa apparizione.

Le Peuch, 26 août 1943. Ce que j’ai écrit hier me paraît très faible. Phénoménologiquement, je ne vois pas que nous soyons portés à imaginer ce que nous appelons le réel comme une machine imparfaite. L’existence d’un être aimé ne se présente pas à nous comme un effet résultant d’un certain fonctionnement. Notre imagination est plutôt dualiste et tend à se figurer le réel comme indifférent ou hostile par rapport à cet être apparu, puis disparu. Le Peuch, 27 août 1943. Je pense que j’ai eu tort de choisir un exemple trop particulier. Il n’y en a cependant pas, je crois, de plus significatif. Le réel se présente à nous comme le milieu où cet être a pris naissance et s’est développé, où il a puisé les éléments de sa propre réalité. Peut-on concevoir que ce milieu l’ait voulu, même confusément, ou qu’il soit au contraire pure indifférence par rapport à lui? Question étrangement difficile à poser en termes clairs. Il ne me semble cependant pas que nous puissions attribuer à un milieu quoi que ce soit qui ressemble à un vouloir, car il n’a par lui-même aucune unité, en tant qu’il est simplement un milieu.

Le Peuch, 26 agosto 1943. Quello che ho scritto ieri mi sembra molto fragile. Fenomenologicamente, non mi sembra che siamo portati a immaginare ciò che chiamiamo il reale come una macchina imperfetta. L’esistenza di un essere amato non si presenta a noi come l’effetto di un certo funzionamento. La nostra immaginazione è piuttosto dualista e tende a immaginarsi il reale come indifferente o ostile rispetto a questo essere prima apparso, poi scomparso. Le Peuch, 27 agosto 1943. Ritengo di aver avuto torto nello scegliere un esempio troppo particolare, ma non ne esistono di più significativi, penso. Il reale si presenta a noi come l’ambiente in cui questo essere è venuto alla luce ed è cresciuto, in cui ha attinto gli elementi della sua propria realtà. Si può pensare che questo ambiente lo abbia voluto, sia pure confusamente, oppure dobbiamo riconoscere che è del tutto indifferente nei suoi confronti? Domanda particolarmente difficile da porre in termini chiari. Non mi sembra però che possiamo attribuire a un qualunque ambiente qualcosa che assomigli a un volere, poiché, essendo semplicemente un ambiente, di per sé non ha nessuna unità.

PRÉSENCE ET IMMORTALITÉ

(1951)

PRESENZA E IMMORTALITÀ

(1951)

Chacun de nous peut avoir à certaines heures le sentiment que le monde est agencé de telle manière qu’il ne peut que fomenter en nous la tentation du désespoir, et à partir du moment où cette tentation s’est présentée, il semble véritablement que se lèvent de partout des incitations propres à la renforcer. C’est ce que j’ai voulu dire lorsque j’ai écrit autrefois que nous sommes cernés par le désespoir. Mais il ne faudrait pas répondre que ces heures sont celles de la lassitude ou du découragement; elles se présentent hélas parfois comme celles de la plus impitoyable lucidité. Dans les moments que j’évoque, il m’apparaît que j’ai brusquement rejeté ou déchiré le voile d’illusions encourageantes qui recouvrait pour moi la vie, et à la faveur duquel je m’efforçais de me ménager une existence supportable. On dirait que brusquement la vie me présente un visage pétrifiant de méduse, et cette puissance fascinatrice semble mettre à son service ma volonté de rectitude, ma volonté de ne pas m’en laisser accroire. C’est l’heure du pessimisme tragique. Bien sûr, il peut à la rigueur déboucher dans une philosophie de l’héroïsme, mais il peut aussi mener soit au suicide, soit à l’abdication d’un être qui se défait en présence d’un monde scandaleux. On peut dire tout à fait en gros que je me suis proposé dans mon oeuvre de chercher s’il est possible sans retomber dans le mensonge de résister à cette fascination, de décapiter la méduse. Je dirai assez volontiers dans ce sens que si le héros mythologique type pour Sartre est Oreste, pour moi il me semble que c’est Persée. Je dis ceci en gros et sans me demander ce que c’est qu’Andromède. Mais il importe de préciser ce qu’est pour moi la figure authentique du désespoir. Je n’entends pas ici l’analyser psychologiquement, mais me demander ce qui est essentiellement désespérant. Peut-être n’est-ce ni tout à fait une pensée, ni tout à fait une représentation. C’est un hybride: c’est une

In certi momenti ciascuno di noi può avere la sensazione che il mondo sia congegnato in modo tale da fomentare in noi soltanto la tentazione di disperare. E dal momento in cui si è presentata questa tentazione sembra proprio che da tutte le parti si levino incitamenti atti a rafforzarla: è quello che intendevo affermare quando in passato ho scritto che siamo circondati dalla disperazione. La risposta adeguata non è però che si tratta di momenti di stanchezza o di scoraggiamento: sono talvolta, ahimé, quelli della più impietosa lucidità. Proprio in quei momenti mi sembra di aver bruscamente tolto o strappato il velo di illusioni incoraggianti che ricopriva la mia vita, e grazie al quale mi sforzavo di assicurarmi un’esistenza sopportabile. All’improvviso la vita mi presenta un volto pietrificante di medusa, e questo potere di fascinazione sembra mettere al suo servizio la mia volontà di non abbandonare la retta via, la mia volontà di non lasciare che mi venga data a bere. È l’ora del pessimismo tragico. A rigore può sfociare in una filosofia dell’eroismo, non c’è dubbio, ma può condurre anche sia al suicidio sia all’abdicazione da parte di un essere che si distrugge nel trovarsi di fronte a un mondo scandaloso. Nella mia opera mi sono proposto, lo si può affermare molto a grandi linee, di cercare di capire se sia possibile resistere a questa fascinazione, decapitare la medusa senza ricadere nella menzogna. E in questa prospettiva mentre per Sartre l’eroe mitologico per eccellenza è Oreste, per me credo sia Perseo. Lo dico in generale, e senza chiedermi cosa sia Andromeda. Bisogna precisare però che cosa rappresenta per me la figura autentica della disperazione. Non intendo analizzarla dal punto di vista psicologico, ma chiedermi che cosa sia disperante per essenza. Forse non è affatto né un pensiero né una rappresentazione. È un ibrido: un pensiero che sta

pensée qui est en voie de devenir représentation, ou peutêtre est-ce l’inverse. L’image de la succession des générations, avec les idées connexes de place et de fonction, est ici déterminante. Je concrétiserai volontiers ceci en évoquant la tristesse sans nom qui se dégage pour moi des études de notaire, elle est pire à mon sens que celle des cimetières, peut-être parce que les dossiers accumulés nous présentent comme un substitut dérisoire et grimaçant de la pérennité. Il est bien possible en ce qui me concerne que ces images ne détiennent pour moi cette valeur proprement désespérante que parce qu’elles affectent en ma personne un être traumatisé dès l’enfance par la mort d’autrui, par la disparition de ma mère survenue lorsque j’allais avoir quatre ans. Je n’hésite pas à dire que ma vie tout court – et la vie même de mon esprit – se sont développées sous le signe de la mort d’autrui, et là est la lointaine origine de la controverse qui devait me mettre aux prises avec Léon Brunschvicg, au Congrès Descartes en 1937: lorsqu’il me reprocha d’accorder plus d’importance à ma propre mort que lui n’en attribuait à la sienne, je lui répondis sans hésiter: «ce qui compte, ce n’est ni ma mort, ni la vôtre, c’est celle de qui nous aimons.» En d’autres termes, le problème, le seul problème essentiel, est posé par le conflit de l’amour et de la mort. S’il y a en moi une certitude inébranlable, c’est qu’un monde déserté par l’amour ne peut que s’engloutir dans la mort, mais c’est aussi que là où l’amour persiste, là où il triomphe de tout ce qui tend à le dégrader, la mort ne peut pas ne pas être en définitive vaincue. C’est dans cette perspective essentiellement que doivent être envisagées les réflexions que j’ai proposées naguère sur l’espérance et qui sont en réalité au cœur de toute mon œuvre. Ce n’est certes pas un hasard, si c’est pendant la guerre, dans une conférence faite à Lyon, à Fourvière, au début de

per diventare rappresentazione, o forse l’inverso. Qui è determinante l’immagine del susseguirsi delle generazioni, con le idee ad essa connesse di posto e di funzione. Renderò concreto tutto ciò richiamando l’innominabile tristezza che si sprigiona dagli studi di notaio: secondo me è peggiore di quella dei cimiteri, forse perché gli incartamenti accumulati ci si presentano come un surrogato derisorio e contratto della perennità. È possibile che queste immagini abbiano per me un vero e proprio valore disperante perché nel mio caso trovano una persona traumatizzata fin dall’infanzia dalla morte dell’altro: dalla scomparsa di mia madre avvenuta quando non avevo ancora quattro anni. Non ho esitazioni nell’affermare che la mia vita, semplicemente, così come anche la vita intellettuale, si è svolta sotto il segno della morte dell’altro. Ed è questa la lontana origine della controversia che mi avrebbe messo a confronto con Léon Brunschvicg in occasione del Congresso Descartes del 1937. Mi rimproverò infatti di attribuire alla mia morte più importanza di quanta lui ne attribuisse alla sua. La mia risposta, senza esitazioni, fu: “ciò che conta non è né la mia morte né la sua: è quella di chi amiamo”. Detto diversamente, il problema, l’unico problema essenziale, è costituito dal conflitto tra l’amore e la morte. Se ho una certezza incrollabile è che un mondo disertato dall’amore non può che essere inghiottito dalla morte, ma nello stesso tempo che là dove l’amore resiste, là dove trionfa su tutto ciò che tende a degradarlo, la morte in definitiva non può non essere vinta. Le mie recenti riflessioni sulla speranza, che in realtà costituiscono il cuore di tutta la mia opera, devono essere considerate essenzialmente proprio in questa prospettiva. Sicuramente non a caso, è durante la guerra che ho sviluppato questa fenomenologia della speranza, in una conferenza tenuta a Lione, a Fourvière, all’inizio del 1942, se non mi sba-

1942, si je ne me trompe, que j’ai développé cette phénoménologie de l’espérance. Le Père de Lubac, auquel j’avais rendu visite quelques mois plus tôt, m’ayant demandé de venir faire une conférence devant tout le Scholasticat, de Fourvière, je répondis sans hésiter: soit, je parlerai de l’Espérance. L’Espérance, bien sûr, cela voulait dire avant tout celle de la libération, et ma pensée se tournait d’abord vers les innombrables prisonniers dans les camps d’Allemagne. Mais il va de soi que je ne pouvais faire abstraction une seconde des résonances métaphysiques d’un tel problème et qu’il fallait trouver l’articulation entre l’espoir de la libération et l’espérance en l’Immortalité. Toute cette recherche ne put s’articuler qu’à partir de ce qui m’apparut comme une découverte: celle de la différence souvent ignorée, même chez les très grands, entre le désir, et l’espérance. Le désir est par définition égocentrique et tend vers la possession. L’autre n’est alors considéré que par rapport à moi, aux jouissances qu’il est susceptible de me procurer si je suis concupiscent, ou simplement par rapport aux services qu’il pourra me rendre. L’espérance au contraire n’est pas égocentrique: espérer, ai-je écrit dans Homo Viator, c’est toujours espérer pour nous. Disons que l’espérance n’est jamais l’état velléitaire qui peut s’exprimer par un «je voudrais bien que». Elle implique une assurance prophétique qui est réellement son armature et qui empêche l’être de se défaire: d’abord de se défaire intérieurement, mais aussi de se démettre, c’est-à-dire d’abdiquer ou de se dégrader. Comment ne pas rappeler ici les admirables accents qu’a trouvés Péguy pour célébrer l’espérance dans le Porche de la Deuxième vertu. Mais le rôle du philosophe est de faire passer au plan de la pensée élaborée ce qui n’est ici que prescience et chant. Dans la préface, parue sous le titre, la Parole est aux Saints, que j’ai écrite pour le beau drame de Madeleine De-

glio. Il Padre de Lubac, che ero andato a trovare alcuni mesi prima, mi aveva chiesto di fare, appunto, una conferenza per tutto il collegio dei novizi di Fourvière. La mia risposta, senza esitazioni, fu: “E va bene, parlerò della Speranza”. La Speranza della liberazione prima di tutto, non c’è dubbio, e il mio pensiero andò subito agli innumerevoli prigionieri nei campi tedeschi. Ma inevitabilmente non potevo prescindere nemmeno per un attimo dalle risonanze metafisiche di un tale problema: era necessario trovare lo snodo tra la speranza della liberazione e la speranza nell’Immortalità. Questa ricerca ha potuto articolarsi in tutti i suoi aspetti soltanto a partire da ciò che mi si presentò come una scoperta: la differenza, spesso ignorata, anche dai pensatori più grandi, tra il desiderio e la speranza. Il desiderio è per definizione egocentrico e tende al possesso. L’altro è considerato quindi soltanto in rapporto a me, ai godimenti che è in grado di procurarmi, se io sono concupiscente, oppure semplicemente in rapporto ai servizi che potrà rendermi. La speranza, invece, non è egocentrica: sperare, ho scritto in Homo viator*, significa sempre sperare per noi. La speranza non è mai un momento di velleità espresso da un “io vorrei proprio che”. Implica una certezza profetica che costituisce realmente la sua armatura, e che impedisce all’essere di sfaldarsi: di sfaldarsi innanzitutto interiormente, ma anche di abbandonare il proprio posto, cioè di abdicare oppure di degradarsi. Come non ricordare a questo punto i mirabili accenti fatti propri da Péguy per esaltare la speranza ne Le Porche de la deuxième vertu*? Il compito del filosofo è proprio quello di ricondurre sul piano del pensiero elaborato ciò che in quel contesto è soltanto prescienza e canto. Nella prefazione dal titolo “La parole est aux saints”, scritto per il bel dramma di Madeleine Deguy Les condamnés*,

guy, Les Condamnés, j’ai fait observer que le fait pour les hommes de pouvoir affronter la mort pour une idée, sans qu’un espoir personnel les soutienne, peut sans doute seul mettre hors de contestation cette vocation, cette ordination à l’absolu par laquelle l’homme transcende la nature et manifeste son irréductible singularité. De ce point, ajoutai-je, ne pourrait-on pas dire que si le croyant est en avant du noncroyant, sur le chemin de la connaissance et de l’amour, le non-croyant pourrait bien réaliser par rapport à son émule une avance dans l’ordre du vouloir pur et du risque. Il va de soi d’ailleurs que cette opposition du croyant et du noncroyant correspond à une vue schématique qui n’est pas et ne peut pas être tout à fait adéquate à la réalité. Le croyant n’est jamais tout à fait croyant, il est impossible qu’il ne connaisse pas des heures d’incertitude et d’angoisse, où il rejoint l’incroyant, et inversement, celui-ci peut être animé par une croyance qu’il porte en lui, qui le soutient, mais dont il est incapable de prendre pleinement conscience. C’est un thème constant dans mes écrits philosophiques, comme dans mon théâtre, que l’impossibilité où est chacun de nous de savoir exactement ce qu’il croit et de quoi il vit. Mais dans ces conditions, la fonction du philosophe consiste, par une sorte de nouvelle maieutique, à faire émerger à la lumière de la réflexion, les implications de la vie pensante, je dirai plus volontiers de la vie croyante, qui ordinairement restent dans une pénombre d’où la conscience ne parvient pas à nous tirer. C’est à dessein que j’ai usé du terme de maieutique, il répond bien à l’aspect socratique de ma pensée sur lequel j’ai mis l’accent dans l’avant-propos du Mystère de l’Etre. Un philosophe russe de mes amis, qui me semble étrangement accordé à ma pensée et à qui je parlais de cette nouvelle maieutique, me disait: «Oui, c’est un enfant de l’éternité qu’il s’agit de faire venir au monde.» L’expression qui au premier

ho messo in rilievo che il fatto che gli uomini possano affrontare la morte per un’idea, senza essere sostenuti da una speranza personale, basta, senza ombra di dubbio, per rendere indiscutibile la vocazione, la consacrazione all’assoluto con la quale l’uomo trascende la natura e manifesta la sua irriducibile originalità. Da questo punto di vista, aggiungevo, se il credente precede il non-credente sul cammino della conoscenza e dell’amore, è possibile che il non-credente si trovi in una posizione di vantaggio rispetto al suo rivale rispetto al puro volere e al rischio. Va da sé d’altronde che la contrapposizione tra il credente e il non-credente corrisponde a un punto di vista schematico che non è, e non può essere affatto, adeguato alla realtà. Il credente non è mai completamente tale: non è possibile che non conosca momenti di incertezza e di angoscia che lo riavvicinano al miscredente, mentre quest’ultimo, viceversa, può essere animato da una fede che porta in sé, che lo sostiene, ma di cui non riesce a essere pienamente cosciente. È un tema che ritorna costantemente nei miei scritti filosofici e nel mio teatro: l’impossibilità per ognuno di noi di sapere esattamente che cosa creda e di che cosa viva. Secondo questa prospettiva, il compito del filosofo è portare alla luce della riflessione, con una sorta di nuova maieutica, le implicazioni della vita pensante, anzi, della vita credente, che di solito rimangono in una penombra dalla quale la coscienza non riesce a farci uscire. Ho fatto ricorso di proposito al termine maieutica: risponde bene all’aspetto socratico del mio pensiero, sul quale ho messo l’accento nella prefazione a Le mystère de l’être*. Uno dei miei amici, un filosofo russo, che mi sembra stranamente in sintonia con il mio pensiero, e al quale avevo parlato di questa nuova maieutica, si espresse così: “Sì, si tratta proprio di dare alla luce un figlio dell’eternità”. In un primo

abord me surprit un peu, me paraît à la réflexion convenir exactement à ce qui est ici en question. Mais qu’est-ce donc que cet enfant de l’éternité? C’est en dernière analyse l’être en moi, qui, sans pouvoir y parvenir tout à fait sur la terre, vise à se libérer des catégories référées à l’Avoir – catégories du désir, de l’amour-propre, de la crainte. Mais on reconnaîtra facilement combien ceci se rapporte à notre propos lorsque on aura vu que ces catégories sont en dernière analyse centrées sur mon corps. Ceux qui sont tant soit peu familiers avec mon Journal Métaphysique savent que dans le développement de pensée qui fut le mien depuis la fin de la première guerre, mon corps s’est présenté à moi comme le repère de l’Avoir, ce repère étant lui-même caractérisé par une ambiguïté essentielle, ou si l’on veut une tension interne. Ceci s’applique à tout avoir: ce que je possède fait en un certain sens, partie de moi, et ceci se traduit par le déchirement que je ressens, lorsque ce que je possédais m’est enlevé d’une façon quelconque. Mais en un autre sens, ce que je possède ne fait réellement pas partie de moi, puisque je peux le perdre sans cesser d’exister ou d’être moi. Cette contradiction n’est cependant que l’expression trop schématisée d’une situation vitale très complexe, dont ces catégories ne permettent pas de rendre compte exactement. Mais, comme je l’indiquais, mon rapport à mon corps présente déjà au maximum cette singularité et cette duplicité: d’une part, je suis porté à traiter mon corps comme quelque chose que je possède, et dont je peux disposer d’une façon ou d’une autre; mais d’autre part et plus profondément, mon corps répugne à être traité de la sorte, et cette répugnance s’exprime par cette affirmation philosophiquement très obscure, mais qui est comme une protestation venue du fond de moi-même: mon corps n’est pas quelque chose que j’ai, je suis mon corps. Le sens

momento l’espressione mi sorprese un po’, ma riflettendo mi sembra attagliarsi alla questione. Cos’è dunque questo figlio dell’eternità? In ultima analisi è l’essere in me che mira a liberarsi, senza poter riuscirci affatto su questa terra, dalle categorie proprie dell’Avere – categorie del desiderio, dell’amor proprio, del timore. Ci si renderà conto facilmente però di quanto questo abbia a che fare con la mia riflessione quando si sarà compreso che in ultima analisi queste categorie sono centrate sul mio corpo. Coloro che hanno un minimo di familiarità con il mio Journal Métaphysique sanno che a partire dalla fine della prima guerra mondiale nello sviluppo del mio pensiero il mio corpo ha rappresentato per me il punto di riferimento dell’Avere, punto di riferimento caratterizzato di per sé da un’essenziale ambiguità o, meglio, da una tensione interna. Di ogni tipo di avere si può affermare: ciò che possiedo in un certo senso fa parte di me, e questo trova espressione nello strazio che provo quando ciò che possedevo mi viene sottratto, in qualunque modo ciò avvenga. Da un altro punto di vista, però, ciò che possiedo non fa realmente parte di me poiché io posso perderlo senza per questo smettere di esistere o di essere me stesso. Questa contraddizione, tuttavia, non è altro che l’espressione fin troppo schematizzata di una situazione vitale molto complessa, di cui non si può rendere conto in modo preciso con queste categorie. Come ho già detto, il rapporto che intrattengo con il mio corpo presenta già al massimo questa particolarità e questa duplicità: da una parte sono portato a trattare il mio corpo come qualcosa che possiedo, e di cui posso disporre in un modo o nell’altro; dall’altra, però, e più profondamente, il mio corpo non si presta a essere considerato in questo modo. E un tale rifiuto trova espressione in questa affermazione filosoficamente molto oscura, ma che costituisce una sorta di protesta della parte più profonda di me stesso: il mio corpo non è qualcosa che io ho, io sono il mio corpo. Il senso

de cette phrase ne peut être élucidé que négativement. Dire je suis mon corps, cela signifie avant tout: je ne suis pas en mesure de définir un type de relation quelconque qui unirait ces deux termes, moi d’une part, mon corps de l’autre. Par exemple je ne peux pas dire: mon corps est mon instrument, ou plutôt: il peut m’être commode de me le représenter ainsi, mais une réflexion plus profonde me montre qu’en dernière analyse cette réflexion est fausse: car la notion d’instrument me renvoie au corps, puisque tout instrument est un certain prolongement des pouvoirs du corps, et que par conséquent, si je traite ceux-ci comme instrumentaux, je m’engage dans une régression infinie. Je suis mon corps est en réalité une affirmation-centre, une affirmation-pivot qui ne peut être que partiellement éclairée selon des perspectives que je puis avoir à adopter tour à tour, mais sans qu’aucune d’elles puisse être admise exclusivement au définitivement. C’est là ce que j’ai en vue lorsque je parle d’un mystère de l’incarnation en un sens qui n’a absolument rien de théologique. Cherchons maintenant à établir une connexion entre ces vues générales et l’analyse phénoménologique du survivre. On peut poser en principe, semble-t-il, que plus le rapport qui m’a uni à un autre être a été strictement possessif, plus sa disparition devra être assimilée à la perte d’un objet. L’objet perdu peut à vrai dire dans certaines conditions exceptionnelles être retrouvé, mais on ne peut lui attribuer aucun caractère présentiel; il y aura d’ailleurs lieu d’approfondir tout à l’heure ce que signifie au juste présence. Mais la situation se transforme si, pour reprendre une distinction excellente du psychiatre genevois, le Docteur Stocker, mon amour n’est pas possessif, mais oblatif. Arrêtons-nous un instant sur cette distinction. Il conviendra de

di questa frase può essere chiarito solo negativamente. Dire “io sono il mio corpo” significa innanzitutto: non posso definire in nessun modo la relazione che intercorre tra questi due termini, io da una parte, il mio corpo dall’altra. Ad esempio, non posso affermare che il mio corpo è il mio strumento. O, meglio, può essere comodo per me rappresentarmelo così, ma una riflessione più profonda fa emergere che in ultima analisi tale pensiero non corrisponde alla verità dato che il concetto di strumento mi rinvia al corpo. Ogni strumento costituisce infatti un prolungamento dei poteri del corpo, e se considero tali poteri come se fossero essi stessi degli strumenti ricado in una regressione all’infinito. Io sono il mio corpo è in realtà un’affermazione-centro, un’affermazione-perno che può essere chiarita solo parzialmente, a partire da prospettive diverse in cui mi porrò di volta in volta, senza che nessuna di esse, però, possa essere considerata in modo esclusivo o definitivo. Mi riferisco proprio a questo quando parlo di un mistero dell’incarnazione secondo un significato che non ha assolutamente nulla di teologico. È giunto il momento di stabilire un collegamento tra queste considerazioni generali e l’analisi fenomenologica del sopravvivere. In linea di principio più il rapporto che mi ha unito a un essere è stato interamente possessivo più la sua scomparsa, almeno così sembra, dovrà essere considerata alla stregua della perdita di un oggetto. A dire il vero, in certe condizioni eccezionali l’oggetto perso può essere ritrovato, ma non gli si può attribuire nessuna forma di presenza. Bisognerà d’altronde chiarire subito cosa significhi esattamente presenza. La situazione cambia completamente, però, se il mio amore non è possessivo ma, riprendendo una eccellente distinzione del dottor Stocker, psichiatra di Ginevra, oblativo. Questa distinzione merita un po’ di attenzione. L’amore pos-

dire que l’amour possessif est héautocentrique, au lieu que l’amour oblatif est hétérocentrique. On rejoint d’ailleurs ici en quelque façon la distinction fameuse du théologien suédois Nygren, entre l’éros et l’agapé. Mais dans la ligne de recherche qui est la mienne, il faudrait peut-être ajouter ceci: l’amour humain – et ce mot doit être pris dans une acception assez large pour s’appliquer aussi à l’amitié, à la philia – comporte une réciprocité assez profonde pour que l’hétérocentrisme soit double, pour que chacune devienne centre pour l’autre. Ainsi se crée une unité qui n’est pas moins mystérieuse que celle dont j’ai parlé à propos de l’incarnation. C’est d’ailleurs à l’articulation de ces deux mystères que se situe celui de la génération. «Mais, demandera-t-on, l’idée de présence n’est-elle pas dangereusement ambiguë? De quelle présence s’agit-il? En intitulant votre texte Présence et Immortalité, vous semblez évoquer une présence trans-subjective, une présence réelle de l’être aimé par-delà la mort. Mais d’autre part, en faisant intervenir la distinction entre l’amour possessif et l’amour oblatif, ne demeurez-vous pas dans un domaine intérieur à la conscience du sujet? Ce que vous parvenez peut-être à montrer, c’est que l’être que j’ai perdu me demeurera intérieurement présent de façon beaucoup plus intime si je lui ai voué cet amour oblatif, que si je ne l’ai aimé que pour moi et de façon possessive. Mais est-il possible d’aller plus loin et de prétendre que cette présence n’est pas seulement de l’ordre du souvenir, qu’elle est réelle?» Là est en effet la question cruciale dont on ne saurait sousestimer la difficulté. Il me semble qu’il convient de faire intervenir ici ce que j’ai appelé la réflexion seconde, c’est-à-dire de contraindre celui qui formule l’objection à dégager le postulat qu’elle suppose. Il consiste à appliquer au domaine de la présence des catégories afférentes au monde de la perception et de

sessivo è autocentrico, mentre l’amore oblativo è eterocentrico. Si ritrova qui, in un certo senso, la famosa distinzione tra eros e agape del teologo svedese Nygren, ma ponendosi nella mia prospettiva di ricerca sarebbe necessario aggiungere questo: l’amore umano – e questo termine deve essere assunto in un’accezione assai ampia in modo da riferirsi anche all’amicizia, alla philia – comporta una reciprocità abbastanza profonda perché l’eterocentrismo sia biunivoco, perché ciascuno divenga centro per l’altro. Prende così forma un’unità non meno misteriosa di quella di cui ho parlato in riferimento all’incarnazione. E proprio nell’articolazione tra questi due misteri si pone quello della generazione. Potranno emergere delle domande. “L’idea di presenza non è forse pericolosamente ambigua? Di che presenza si tratta? Intitolando il suo volume Presenza e immortalità lei sembra richiamare una presenza trans-soggettiva, una presenza reale dell’essere amato oltre la morte. D’altra parte, però, introducendo la distinzione tra l’amore possessivo e l’amore oblativo non rimane all’interno della coscienza del soggetto? Lei riesce a dimostrare, forse, che l’essere che ho perso rimarrà presente nella mia interiorità in modo molto più intimo se gli avrò consacrato questo amore oblativo anziché averlo amato soltanto in funzione di me stesso e in modo possessivo. È possibile andare oltre, però, e pretendere che questa presenza non appartenga soltanto alla dimensione del ricordo ma sia reale?”. Si tratta in effetti della questione cruciale, la cui difficoltà non può essere sottovalutata. A questo punto è opportuno fare ricorso a ciò che ho chiamato riflessione seconda, cioè costringere colui che formula l’obiezione a esplicitare il postulato che presuppone: tale presupposto consiste nell’applicare all’ambito della presenza categorie proprie del mondo della percezione e

l’objectivité. C’est justement de ces catégories que j’ai entendu montrer qu’il faut se dégager. Le philosophe italien Pietro Prini, dans l’étude profonde qu’il a consacrée à ma pensée, l’a qualifiée de méthodologie de l’invérifiable. Il est très exact que dès mes premiers écrits – je vise ici des textes inédits de 1912 et 1913 – mon souci a été de définir un invérifiable positif et concret et de montrer qu’il était le ressort de l’amour et de la foi. Sans doute n’userais-je plus aujourd’hui très volontiers du terme d’invérifiable, pour autant que celui-ci, dans mes conceptions d’alors, avait pour contrepartie une vérité entendue au sens très étroit qui est donné à ce mot dans les sciences de la nature. Mais ce qui est demeuré à travers les changements intervenus dans la terminologie, c’est cette idée que nous avons à surmonter, pour approcher la présence, la notion que nous nous formons d’un objet quelconque et de ses conditions structurales. «Pour dégager la différence de registre spirituel qui sépare l’objet de la présence, ai-je dit dans le Mystère de l’être, il convient de prendre pour point de départ certaines expériences très simples et immédiates, mais que le philosophe jusqu’à notre époque a toujours eu tendance à négliger. Nous pouvons par exemple avoir le sentiment très fort que quelqu’un qui est là dans la pièce, tout près de nous, quelqu’un que nous voyons et entendons et que nous pouvons toucher, n’est cependant pas présent, il est infiniment plus loin de nous que tel être aimé qui est à des milliers de lieux ou qui même n’appartient plus à notre monde. Qu’estce donc que cette présence qui fait ici défaut? Il ne serait pas exact de dire que nous ne pouvons pas communiquer avec cet individu qui est là tout près de nous, car il n’est ni sourd, ni aveugle, ni imbécile. Entre nous une certaine communication matérielle est assurée, mais rien que matérielle, et tout à fait comparable à celle qui peut s’établir entre deux postes

dell’oggettività. Ciò che ho inteso fare è mostrare che bisogna liberarsi proprio da queste categorie. Nello studio approfondito da lui dedicato al mio pensiero il filosofo italiano Pietro Prini lo ha qualificato come metodologia dell’inverificabile. In effetti fin dai miei primi scritti – mi riferisco a testi inediti del 1912 e del 1913 – la mia preoccupazione è stata definire un inverificabile positivo e concreto, e mostrare che costituisce la molla dell’amore e della fede. Oggi non userei più di buon grado il termine inverificabile, non c’è dubbio, nella misura in cui nelle mie riflessioni di allora aveva come contropartita una verità intesa nel senso specifico attribuito a questo termine nelle scienze naturali. Nonostante i cambiamenti nell’uso della terminologia, però, qualcosa è rimasto: l’idea che per accostare la presenza dobbiamo andare oltre il concetto che ci formiamo di un oggetto qualsiasi e delle sue condizioni strutturali. “Per individuare la differenza di registro spirituale che separa l’oggetto dalla presenza, ho affermato ne Le mystère de l’être, è opportuno prendere come punto di partenza alcune esperienze molto semplici e immediate, che fino a oggi il filosofo è stato portato a tracurare. Ad esempio, possiamo avere la netta sensazione che qualcuno che si trova nella stanza, proprio vicino a noi, qualcuno che vediamo e ascoltiamo, e che possiamo anche toccare, non sia tuttavia presente, sia infinitamente più lontano da noi di un certo essere amato a migliaia di chilometri, o che addirittura non fa più parte di questo mondo. Cos’è dunque la presenza che viene a mancare in questa situazione? Non sarebbe esatto affermare che non possiamo comunicare con questo individuo che si trova proprio vicino a noi: non è infatti né sordo, né cieco, né imbecille. Tra di noi è garantita una certa comunicazione a livello materiale, ma nient’altro che materiale, e assimilabile in tutto e per tutto a quella che si può stabilire tra due postazioni

distincts, l’un émetteur, l’autre récepteur. Cependant l’essentiel fait défaut. On pourrait dire que c’est une communication sans communion, et que par là même, c’est une communication irréelle. L’autre entend les mots que je dis, mais moi, il ne m’entend pas et je peux même avoir l’impression pénible que ces mots, tels qu’il me les renvoie, tels qu’il les réfléchit, deviennent pour moi-même méconnaissables. Par un phénomène singulier, l’autre s’interpose ainsi entre moi et ma propre réalité, il me rend en quelque façon étranger à moi-même, je cesse en quelque sorte de me comprendre et en fin de compte, je n’adhère plus à mes propres paroles. Mais, par un phénomène inverse, il peut arriver au contraire que l’autre, si je le sens présent, me renouvelle en quelque sorte intérieurement: cette présence est alors révélatrice, c’est-à-dire qu’elle me fait être plus pleinement moimême que je ne le serais sans elle» (loc. cit., I, p. 220-221). Cette expérience que j’ai faite cent fois, est une des plus mystérieuses qui soient, et elle me paraît être de celles auxquelles le philosophe n’a jamais prêté attention. On pourrait dire qu’elle est au meilleur sens existentielle. Car ce n’est pas tellement ce que dit l’autre, le contenu de ses paroles qui exerce sur moi cette action stimulante: c’est lui-même les disant, lui-même en tant qu’il soutient ses propres paroles par tout ce qu’il est. Mais il faut remarquer en outre que ces expériences présentent un caractère essentiellement gratuit: et bien entendu je ne prends pas ici ce mot dans l’acception dévaluée qu’on entend lui conférer quand on parle par exemple d’acte gratuit: ici, gratuité implique grâce, c’est-à-dire au moins négativement quelque chose qui est par-delà les savoir-faire, par-delà toute technique enseignable. Il serait de toute évidence chimérique d’espérer apprendre à quelqu’un l’art de se rendre présent à autrui : on ne peut enseigner que des gestes et des grimaces. Cet art en réalité est une grâce; et inversement, c’est une disgrâce de ne point le posséder.

distinte, una emittente, l’altra ricevente. Manca l’essenziale, però. Si tratta di una comunicazione senza comunione, e quindi di una comunicazione irreale. L’altro sente le parole che dico, ma non ascolta me, e posso perfino avere la penosa impressione che queste parole mi divengano irriconoscibili per il modo in cui ritornano a me, in cui le riverbera. Per un particolare fenomeno l’altro si interpone così tra me e la mia propria realtà, mi rende in qualche modo estraneo a me stesso. In qualche modo non mi comprendo più, e in fin dei conti non mi riconosco più nelle mie proprie parole. Per un fenomeno inverso, però, può succedere al contrario che l’altro, se lo sento presente, mi rinnovi in un certo qual modo interiormente: la sua presenza è allora rivelatrice, cioè mi fa essere me stesso più pienamente di quanto lo sarei senza di essa.” (cit., I, pp. 220-221) Questa esperienza fatta mille volte è una delle più misteriose, e mi sembra tra quelle alle quali il filosofo non ha mai prestato attenzione. Si potrebbe dire che è esistenziale nel senso più elevato. Infatti non è tanto ciò che dice l’altro, il contenuto delle sue parole a esercitare su di me questa azione di stimolo: è lui stesso che le dice, lui stesso in quanto fonda le sue parole su tutto ciò che è. Bisogna sottolineare inoltre come queste esperienze si presentino come gratuite per essenza. E, sia chiaro, non assumo il termine gratuito nell’accezione svalutata che si intende attribuirgli quando si parla ad esempio di atto gratuito. Qui gratuità implica grazia, cioè, almeno negativamente, qualcosa che va al di là del saper-fare, al di là di ogni tecnica che si può insegnare. Con tutta evidenza sarebbe una pura chimera sperare di insegnare a qualcuno l’arte di rendersi presente all’altro: si possono insegnare soltanto gesti o smorfie. In realtà il possedere quest’arte è una grazia, mentre viceversa è una dis-grazia non possederla affatto.

Mais insister sur le caractère non objectif de la présence ne revient aucunement à dire qu’elle n’est que subjective. C’est en réalité d’intersubjectivité qu’il faut parler ici. Seulement la signification de ce terme risque toujours d’être méconnue parce que le monde de l’action commune est celui des objets, et qu’on est dès lors exposé à interpréter l’intersubjectivité comme une transmission portant sur un certain contenu objectif et indépendant de ceux qui le transmettent. Mais ce n’est là qu’une interprétation déformante de quelque chose qui ne se laisse nullement exprimer en un tel langage. L’intersubjectivité est essentiellement ouverture. J’ai dit souvent que la distinction introduite par Bergson entre l’ouvert et le clos dans les Deux sources de la Morale et de la Religion, présente sans doute une importance plus grande qu’il ne l’a cru. Mais il’importerait de la creuser et d’en faire affleurer les implications. Celles-ci, me semble-t-il, ne se dégagent que dans une philosophie de la lumière. Je prends ici ce mot dans une acception très voisine de celle qui lui est donnée dans l’Evangile selon saint Jean, mais en spécifiant cependant dans les perspectives qui sont aujourd’hui les miennes, qu’il est non seulement possible, mais nécessaire de rester d’abord en-deçà de la Révélation proprement dite, ou plus exactement de s’en tenir à des zones, qui à la clarté de la théologie apparaissent sans aucun doute comme irradiées par Elle, mais sans qu’on soit nécessairement tenu de prendre une conscience explicite du foyer central de cette Révélation. On peut par exemple très bien parler de la lumière de la connaissance, et je dirai même qu’on est tenu de la faire: faute de quoi l’épistémologie elle-même se dessèche et se dénature. Mais évoquer cette lumière à un certain palier de la réflexion, ce n’est pas nécessairement remonter jusqu’à sa source.

Insistere sul carattere non oggettivo della presenza non significa affatto affermarne il carattere soggettivo. In realtà in questo caso bisogna parlare di intersoggettività, anche se il significato di questo termine rischia sempre di essere misconosciuto perché il mondo dell’azione comune è quello degli oggetti, e quindi si corre il rischio di interpretare l’intersoggettività come se fosse la trasmissione di un certo contenuto oggettivo e indipendente da coloro che lo trasmettono. Si tratta però di una interpretazione deformante di qualcosa che non può affatto essere espresso con questo linguaggio. L’intersoggettività è essenzialmente apertura. La distinzione tra l’aperto e il chiuso introdotta da Bergson nel Les deux sources de la morale et de la religion*, l’ho sostenuto spesso, ha un’importanza più grande di quanto abbia pensato, non c’è dubbio. Sarebbe interessante approfondirla, e farne emergere le implicazioni, che si chiariscono solo in una filosofia della luce. Assumo questo termine in un’accezione molto vicina a quella che acquisisce nel Vangelo di Giovanni, ma con una precisazione che si riferisce alla mia prospettiva attuale. In un primo momento è non solo possibile ma necessario restare al di qua della Rivelazione propriamente detta o, a essere più precisi, rimanere in ambiti che alla luce della teologia appaiono sicuramente irradiati dalla Rivelazione stessa, senza però che si sia tenuti necessariamente a essere chiaramente consapevoli della sorgente principale di tale Rivelazione. Ad esempio si può benissimo parlare della luce della conoscenza, e aggiungerei anche che si è tenuti a farlo: in mancanza di ciò la stessa epistemologia inaridisce e si snatura. Evocare questa luce a un certo livello della conoscenza, però, non significa necessariamente risalire fino alla sua origine.

L’intersubjectivité, on pourrait dire que c’est le fait d’être ensemble dans la lumière; et ici comme toujours c’est peutêtre en procédant négativement qu’on peut approcher l’essence positive vers laquelle il s’agit d’orienter la réflexion. Si en présence de l’autre, je suis encombré d’arrière-pensées à son sujet, ou si, ce qui revient exactement au même, je lui prête à lui des arrière-pensées à mon endroit, il est de toute évidence que nous ne sommes pas ensemble dans la lumière. Je me fais ombre à moi-même. Du coup, il cesse de m’être présent, et réciproquement, je ne puis pas non plus être présent pour lui. Ces remarques me paraissent susceptibles d’éclairer ce que j’ai voulu dire lorsque j’ai posé la nécessité de transcender les catégories qui sont celles de l’objectivité. Par exemple celles qui entrent en jeu là où un médecin examine un malade. Je laisse bien entendu de côté le cas du psychiatre qui soulève des difficultés particulières. Il ne faut cependant pas se dissimuler que le passage de telles observations à la question qui nous occupe ne peut pas s’opérer facilement: ici encore une objection massive est à prévoir. «Dans les cas dont vous avez parlé, me dira-t-on, le sentiment de présence et de non-présence est malgré tout sous-tendu par une relation proprement objective. L’être qui m’est présent est là, il est objectivement là, n’est-il pas arbitraire et même illégitime d’oser pratiquer une radicale dissociation entre présence et objectivité? Et n’est-on pas fondé à dire que puisque objectivement le trépassé n’est plus là – ou, ce qui revient au même, se réduit à des ossements ou à une poignée de cendre, – cette base indispensable faisant défaut, la présence se réduit à un sentiment purement subjectif.» Mais l’expérience interrogée sans parti pris, nous montre clairement qu’il est impossible de s’en tenir à des affirmations ou à des constatations aussi sommaires. Un fait aussi rigoureusement établi que la télépathie suffit à nous montrer

L’intersoggettività: è il fatto di essere insieme nella luce. Come sempre, anche in questo caso è forse con un processo negativo che si può giungere all’essenza positiva verso la quale bisogna dirigere la riflessione. Se in presenza dell’altro sono ostruito da retropensieri nei suoi confronti, oppure se, ma è esattamente lo stesso, gliene attribuisco nei miei confronti, è evidente che non siamo insieme nella luce. Io faccio ombra a me stesso. Improvvisamente egli cessa di essermi presente, e reciprocamente neppure io posso più essergli presente. Mi sembra che queste osservazioni possano chiarire ciò che ho inteso affermare quando ho posto la necessità di trascendere le categorie che caratterizzano l’oggettività, ad esempio quelle che entrano in gioco quando un medico visita un malato. Sia ben chiaro: non prendo in considerazione il caso dello psichiatra, che comporta difficoltà particolari. Non bisogna però nasconderselo: non è facile passare da tali osservazioni al problema che ci interessa poiché anche in questo caso bisogna prevedere una solida obiezione. “Nel caso al quale lei ha fatto riferimento il sentimento di presenza e di non-presenza è sotteso malgrado tutto da una relazione propriamente oggettiva. L’essere che mi è presente è là, è oggettivamente là: non è dunque arbitrario, e anche illegittimo, osare dissociare in modo radicale presenza e oggettività? E poiché oggettivamente il defunto non è più là – oppure, ma è la stessa cosa, si riduce a delle ossa o a un pugno di cenere -, mancando questa base indispensabile non si ha motivo di affermare che la presenza si riduce a un sentimento puramente soggettivo?”. Interrogando l’esperienza senza pregiudizi, però, emerge chiaramente che è impossibile limitarsi ad affermazioni oppure a constatazioni così sommarie. Un fatto appurato in modo così rigoroso come la telepatia basta per mostrarci

qu’il existe des modes de co-présence qui sont irréductibles au type de juxtaposition impliquée dans notre commerce quotidien avec les autres hommes. Ceux qui ont le plus sérieusement réfléchi sur la télépathie – je pense par exemple à Carrington, mais aussi à Price – ont reconnu que de tels phénomènes supposent entre les êtres un type d’unité spécifique. Mais ce n’est pas tout: une réflexion plus profonde nous conduit à mettre en question le lien même entre présence et objectivité. Il faudrait faire état ici d’autres expériences qui se situent dans des dimensions bien différentes de la vie spirituelle. Je songe en particulier à la création, et très spécialement à la création dramatique ou musicale. Il suffit de rappeler de la façon dont surgit une idée mélodique par exemple: elle survient, elle s’empare de nous, d’où vient-elle? Vient-elle de moi-même ou d’ailleurs? Il appartient à la réflexion de reconnaître que cette distinction est ici dénuée de toute signification. Elle suppose en effet une topographie illusoire; car il n’y a en réalité aucun sens à admettre que je constitue un territoire délimité et à me demander si cette idée a pris naissance ou non sur ce territoire, – comme on le ferait pour un cours d’eau qui prend sa source en-deçà ou au-delà de telle frontière. En réalité l’idée d’un moi-territoire est une idée fictive à laquelle on n’apporte aucune rectification appréciable quand on introduit la notion d’un subconscient qui serait comme le complément souterrain ou le soubassement de ce territoire. L’idéalisme, tout au moins dans ses formes subjectives, a malheureusement trop souvent fait appel à un mythe de cette sorte sans lequel le monadisme ne peut se constituer. Et j’ajouterai que l’étonnante mauvaise volonté dont tant de philosophes, authentiques ou non, ont fait preuve en face des phénomènes métapsychiques, tient au fait qu’ils se cramponnent à cette fiction et que ces phénomènes présentent justement cet intérêt capital de

che la co-presenza assume modalità irriducibili al tipo di giustapposizione implicata nei nostri scambi quotidiani con gli altri uomini. Chi ha riflettuto più seriamente sulla telepatia – penso ad esempio a Carrington ma anche a Price – ha riconosciuto che simili fenomeni presuppongono un’unità specifica tra gli esseri. Non è tutto, però: riflettendo più profondamente si è condotti a mettere in discussione il legame stesso tra presenza e oggettività. Bisognerebbe riferirsi ad altre esperienze che appartengono a dimensioni ben diverse della vita spirituale: penso in particolare alla creazione, e soprattutto alla creazione drammatica o musicale. Basta ricordare come nasce l’idea per una melodia, ad esempio: sopraggiunge, si impossessa di noi. Da dove viene? Proviene da me stesso oppure da un altro luogo? Spetta alla riflessione riconoscere che in questo caso tale distinzione è completamente priva di significato. Presuppone infatti una topografia illusoria, poiché in realtà non ha affatto senso sostenere che io formo un territorio delimitato, né chiedermi se questa idea sia nata oppure no in questo territorio – come si farebbe per un corso d’acqua le cui sorgenti si trovano al di qua o al di là di una certa frontiera. In realtà l’idea di un io-territorio è un’idea fittizia che non subisce nessuna variazione apprezzabile introducendo il concetto di un subcosciente come il complemento sotterraneo o lo zoccolo di questo territorio. Sfortunatamente l’idealismo, almeno nelle sue forme soggettive, ha fatto ricorso troppo spesso a un simile mito, senza il quale il monadismo non può costituirsi. E la stupefacente cattiva volontà di cui tanti filosofi, autentici o no, hanno dato prova di fronte ai fenomeni metapsichici, è legata al fatto che si aggrappano a questa finzione. Ma questi fenomeni presentano un effettivo

contraindre qui les considère honnêtement à faire craquer ses cadres. Ici se réalise comme un confluent entre l’expérience métapsychique d’une part et une réflexion autonome d’autre part qui est de nature à mettre en question sur le plan spéculatif la philosophie post-cartésienne pour autant qu’elle est centrée sur le cogito pris sous sa forme restrictive – alors que la critique du moi, je... peut seule nous ouvrir les portes d’une métaphysique libératrice. Une question délicate surgit ici cependant: de quelle utilité peuvent être les recherches métapsychiques là où il s’agit, ne disons pas encore de l’immortalité, mais de la survie? Du point de vue même auquel je me suis placé, cette question prend ici une acuité extrême, car si on estime que l’expérience peut ici nous instruire, ne risque-t-on pas de rétablir du même coup une certaine objectivité dans le domaine même où on avait voulu la dépasser? Il me semble que je répondrais à peu près ceci. Tout d’abord je ne pense pas qu’on puisse contester l’importance de ces recherches pour le problème de la survie. Un certain nombre de faits précis sont difficilement explicables en dehors de l’hypothèse d’une entéléchie survivant à ce que nous appelons la mort. Cette hypothèse est à tout prendre la plus simple, la plus économique. Il se peut qu’on puisse espérer parvenir ici à un rudiment de vérification. Il ne s’agira cependant que d’hypothèse. Or, la présence telle que je l’ai évoquée est supra-hypothétique, elle donne lieu à une assurance invincible qui est liée à l’amour oblatif, elle s’exprime par des affirmations telles que: «je suis assuré que tu me demeures présent et cette assurance est liée au fait que tu ne cesses de m’assister, que tu m’assistes peut-être plus directement que tu ne pouvais le faire sur la terre. Nous sommes ensemble dans la lumière, ou plus exactement j’accède, dans les moments où je me détache de moi-même, où je cesse de me faire ombre, à une lumière qui est ta lumière:

interesse fondamentale: costringere chi li prende in considerazione onestamente a mandare in frantumi i propri schemi. Qui si realizza una sorta di confluenza tra l’esperienza metapsichica da una parte e una riflessione autonoma dall’altra, che per natura mette in discussione sul piano speculativo la filosofia post-cartesiana in quanto centrata sul cogito considerato nella sua versione riduttiva – mentre solo la critica dell’io… può aprirci le porte di una metafisica liberatrice. A questo punto si pone però un problema delicato: quale può essere l’utilità delle ricerche metafisiche quando si tratta, non diciamo ancora dell’immortalità, ma della sopravvivenza? È una questione estremamente penetrante, considerata dal mio punto di vista. Se si pensa infatti che l’esperienza può insegnarci qualcosa, non si rischia di ristabilire nello stesso tempo una certa oggettività sul piano stesso in cui si era voluto trascenderla? Risponderei più o meno così, mi sembra. Innanzitutto, non penso che l’importanza di queste ricerche per il problema della sopravvivenza possa essere contestata. Un certo numero di fatti precisi si spiega difficilmente all’infuori dell’ipotesi di una entelechia che sopravvive a ciò che noi chiamiamo la morte. Questa ipotesi, considerando ogni aspetto, è la più semplice, la più vantaggiosa. Si può sperare forse di giungere a una verifica, sia pure rudimentale, ma si tratterà soltanto di un’ipotesi. Ora, la presenza così come l’ho richiamata è al di là dell’ipotesi, dà origine a una certezza inconfutabile legata all’amore oblativo. Si esprime con affermazioni come: “sono sicuro che tu rimani presente, e questa certezza è legata al fatto che tu non cessi di vegliare su di me, che tu mi vegli forse in modo più diretto di quanto potessi fare quando ti trovavi sulla terra. Noi siamo insieme nella luce o, a essere più precisi, nei momenti in cui mi distacco da me stesso, in cui non mi faccio più ombra, ho accesso a una luce che è la tua luce.

je ne veux certes pas dire celle dont tu es la source, mais celle où toi-même tu t’épanouis, celle que tu contribues à réfléchir ou à rayonner sur moi.» J’ajouterai que cette assurance invincible, pour l’être encore non délivré que je suis, est renforcée indirectement, par des faits qui sont des témoignages ou plus exactement des brèches: des brèches dans la prison où je m’enferme aussitôt que je m’hypnotise sur le donné objectif. J’ai dit renforcé, je n’ai pas dit fondé. Ici comme ailleurs, nous butons contre l’ambiguïté de notre condition qui est celle d’un être engagé dans le monde des choses et qui y participe, mais qui par un autre côté, transcende ce monde et sait qu’il le transcende. D’autre part, nous rencontrons ici l’articulation de la liberté et de la grâce qui, dans une pensée comme la mienne, se présente comme le pivot de l’activité spirituelle. Ce monde qui est le nôtre est structuré de telle manière que je peux trouver autour de moi toutes les raisons de désespérer, de voir dans la mort l’anéantissement et le misérable mot-clé de l’existence incompréhensible dans laquelle j’ai été incompréhensiblement précipité. Mais à une réflexion plus profonde, ce monde apparaît en même temps comme constitué de telle manière que je puisse y prendre conscience du pouvoir qui m’est laissé de refuser ces apparences, de dénier à la mort cette réalité ultime. Là est d’ailleurs le sens de ce mot d’invérifiable auquel j’ai eu recours. La réalité ou la portée de la mort n’est pas indépendante de la façon dont je la juge, il faudrait dire plutôt dont je la jauge. Mais j’ajouterai, en me maintenant toujours en-deçà de la Révélation et des promesses de l’Ecriture, que la réflexion métaphysique, et dans une certaine mesure l’expérience métapsychique me permettent de recueillir des indices susceptibles de conférer à cet acte libre un minimum de garantie dont j’ai besoin, parce que je reste malgré tout le siège d’une réflexion critique et polémique, qui si elle ne se surmonte pas elle-même, est secrète-

Con ciò non intendo riferirmi alla luce di cui tu sei la sorgente, ma quella in cui tu stesso sbocci, quella che con il tuo contributo si riflette o si diffonde su di me”. Per l’essere non ancora liberato che io sono questa certezza inconfutabile è rafforzata indirettamente da fatti che sono delle testimonianze o, meglio, delle brecce: delle brecce nella prigione in cui mi rinchiudo non appena mi ipnotizzo sul dato oggettivo. Ho detto rafforzata, non ho detto fondata. In questo come in altri casi andiamo a sbattere contro l’ambiguità della nostra condizione: quella di un essere impegnato nel mondo delle cose, e che vi partecipa, ma che da un altro punto di vista trascende questo mondo, e sa di trascenderlo. D’altronde è qui che si articolano libertà e grazia, perno, in un pensiero come il mio, dell’attività spirituale. Il nostro mondo è strutturato in modo tale che intorno a me posso trovare tutti i motivi per disperare, per vedere nella morte l’annientamento e la miserabile parola-chiave dell’esistenza incomprensibile nella quale sono stato precipitato in modo incomprensibile. A una riflessione più profonda, però, questo mondo appare nello stesso tempo come costituito in modo tale che io posso diventare consapevole del mio potere di rifiutare queste apparenze, di negare che la morte sia la realtà ultima. È proprio questo d’altronde il significato del termine inverificabile al quale ho fatto ricorso. La realtà o la portata della morte non è indipendente dal modo in cui la giudico, meglio, dal modo in cui la valuto. Rimanendo sempre al di qua della Rivelazione e delle promesse della Scrittura, la riflessione metafisica, e anche l’esperienza metapsichica, in una certa misura, mi permettono di raccogliere indizi in grado di conferire a questo atto libero il minimo di garanzia di cui ho bisogno. Infatti continuo a rimanere il centro di una riflessione critica e polemica segretamente calamitata dalla disperazione e dal nulla, se non riesce ad

ment aimantée par le désespoir et le néant. Ces indices ont une consistance juste suffisante pour remplir leur office; s’ils étaient des preuves, ma liberté devant la mort serait comme annulée et ainsi qu’il arrive chez certains spirites naïfs, la vie en même temps que la mort se trouverait dépouillée de son sérieux, le sacrifice destitué de sa grandeur tragique et ultime. On rejoint ici le thème admirablement développé par Peter Wust, la valeur métaphysique du risque comme condition de l’existence humaine atteinte dans sa mystérieuse spécificité. Il convient d’ailleurs d’aller plus loin et de remarquer que l’idée d’immortalité dépassant infiniment celle de survie, il est impossible de ne pas déboucher ici dans la théologie proprement dite, c’est-à-dire de ne pas remonter à la source même de toute lumière, c’est-à-dire à Dieu et à son amour pour les créatures. On s’engage par là bien au-delà d’une philosophie de la présence proprement dite, et il devient impossible de ne pas faire appel au dogme éclairé par les révélations des Saints. Mais c’est de façon délibérée que je me suis maintenu ici en-deçà d’une enceinte que le philosophe en tant que tel ne peut que difficilement franchir. Je ne doute pas à vrai dire que certains ne protestent contre une tentative comme celle-ci et ne contestent la valeur et le bien-fondé d’une pensée qui s’efforce par-delà l’objectivité de présenter certaines approches concrètes de la Révélation. Déclarons d’ailleurs catégoriquement que l’image du pont, si elle se présente inévitablement à l’esprit, doit être refusée, puisqu’il ne peut être question pour la pensée philosophique proprement dite d’empiéter en rien sur le domaine de la Révélation. Je persiste cependant à penser qu’il est important de montrer comment la réflexion, là où elle se déploie selon toutes ses dimensions et devient récupératrice, se porte d’un mouvement irrésistible au devant d’une affirmation qui la dépasse, mais en fin de compte l’éclaire sur elle-même et sur sa propre nature.

andare oltre se stessa. Questi indizi hanno la consistenza minima necessaria per adempiere al loro compito: se fossero delle prove, la mia libertà di fronte alla morte risulterebbe annullata e, come succede a certi spiritisti ingenui, la vita e la morte verrebbero private della loro serietà, il sacrificio verrebbe destituito della sua grandezza tragica e suprema. Ci si ricollega qui al tema mirabilmente sviluppato da Peter Wust, cioè il valore metafisico del rischio come condizione dell’esistenza umana colta nella sua misteriosa specificità. È opportuno spingersi più in là, d’altronde, e sottolineare che, poiché l’idea di immortalità va infinitamente oltre quella di sopravvivenza, qui è impossibile non sfociare nella teologia propriamente detta, cioè non risalire alla sorgente stessa di ogni luce, cioè a Dio e al suo amore per le creature. Così facendo ci si impegna molto al di là di una filosofia della presenza propriamente detta, e diventa impossibile non fare appello al dogma svelato dalle rivelazioni dei Santi. Perciò qui sono deliberatamente rimasto al di qua di un limite che il filosofo in quanto tale può oltrepassare solo con difficoltà. Di una cosa sono certo: qualcuno protesterà contro un simile tentativo, e contesterà il valore e la fondatezza di un pensiero che cerca di presentare, al di là dell’oggettività, alcuni approcci concreti alla Rivelazione. D’altra parte bisogna affermare in modo categorico che nonostante l’immagine del ponte si presenti inevitabilmente al pensiero deve essere rifiutata: il pensiero filosofico in quanto tale non deve affatto sconfinare nell’ambito della Rivelazione. Continuo a pensare tuttavia che è importante mostrare che quando la riflessione si dispiega in tutte le sue dimensioni e diventa ricuperatrice, con un movimento irresistibile si porta incontro a un’affermazione che la trascende, ma che in fin dei conti diventa chiarificatrice rispetto a essa stessa e alla sua natura.

APPARATI

NOTE INTEGRATIVE AL TESTO

P. 61 * G. MARCEL, Journal Métaphysique, Gallimard, Parigi 1927, Association Présence de Gabriel Marcel, Parigi 1997; trad. it. Giornale metafisico, a cura di P. PRINI, trad. di F. SPIRITO, Abete, Roma 1966 (comprende Journal Métaphysique 1916-1925; Être et avoir, parte I; Présence et immortalité, escluse le “Premesse” e L’Insondable); Giornale metafisico. I: Esistenza e oggettività, trad. e note di M. COZZOLI, Abete, Roma 1980. P. 61 * G. MARCEL, Être et avoir, Aubier, Parigi 1935; nuova edizione in 2 voll., Aubier, Parigi 1968; Éditions Universitaires, Association Présence de Gabriel Marcel, Parigi 1991; trad. it. Giornale metafisico, cit.; Essere e avere, trad. di I. POMA, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999. P. 62 * Nell’edizione originale di Présence et immortalité si può leggere, in questo punto del testo, il passo qui riportato, soppresso nella presente traduzione per le motivazioni evidenziate nella “Nota editoriale”. “Mais ce qui pourra légitimement surprendre, c’est que j’ai tenu à faire figurer dans ce volume un fragment théâtral écrit en 1919 et qui n’avait jamais été publié jusqu’à présent. Je dirai tout d’abord qu’on ne marquera jamais trop fortement le lien intime qui unit la philosophie et le théâtre dans mon œuvre. D’autre part, ce premier acte d’une pièce qui n’a jamais été terminée présente à mes yeux une importance particulière; en le realisant à la fin de décembre 1958, j’ai estimé qu’il venait enrichir et comme étoffer les pages du Journal que j’avais décidé de publier. On le verra, cet acte se situe immédiatement après lafin de la première guerre, au moment même où je l’ai écrit. Il constitue un témoignage qui porte à la fois sur la mentalité des Français de ce temps-là, mais qui marque aussi et plus profondément le retentissement très profond que la guerre a eu sur ma sensibilità et dans ma pensée. Retentissement indéfini et qui s’est sans doute propagé dans les couches profondes de mon être jusqu’à l’époque actuelle. Mais il y a beaucoup plus. La scène entre Edith et l’abbé Séveilhac est à mes yeux une des plus significatives que j’aie écrites. Je ne devais

me convertir à la religion catholique qu’environ dix ans plus tard; mais je tiens à dire que l’interrogation anxieuse formulée par la jeune femme et, il faut bien le dire, si mal comprise par le prêtre, garde pour moi aujourd’hui toute sa valeur. Ce qui est singulier, c’est qu’apparaît déjà en 1919, avant les deuils qui devaient assombrir mon existence, le problème au sujet duquel, quelque trente ans plus tard, je devais m’opposer à certains Docteurs de l’Eglise à propos du livre de Marcelle de Jouvenel, le Diapason du Ciel, dont j’écrivis l’introduction. A vrai dire, dans L’Insondable, il n’est pas question de messages par l’écriture automatique. Mais la question de la communication entre la vie et l’outre-vie, est posée dans son essence comme elle devait l’être un peu plus tard dans l’Iconoclaste, dont la première version, Le Porte-Glaive, avait été écrite pendant la guerre, en 1917 si je ne me trompe. Certains seront peut- être enclins à penser que j’aurais pu me contenter de reproduire la scène entre Edith et l’abbé Séveilhac, en omettant celles qui précèdent. Il m’a semblé que ce serait là une mutilation qui ne permettrait pas aux lecteurs de situer la scène et ne lui donnerait pas tout son poids. Convient-il de regretter que la pièce n’ait pas été terminée? A la reflexion, je ne le crois pas. Comme le disait un ami, après avoir entendu cet acte, il mène littéralement au bord d’un à-pic, c’est d’ailleurs ce qui m’a amené à l’intituler L’Insondable. Les titres envisagés en 1919 ne me satisfont plus. En continuant la pièce comme j’avais d’abord voulu le faire, j’aurais risqué d’affaiblir ce sentiment d’abîme qui, me semble-t-il, se dégage de la scène, plus exactement des deux scènes finales. Ce mot d’abîme doit prendre ici toute sa valeur.” “Sorprenderà invece, e a ragione, che in questo volume io abbia voluto collocare un frammento teatrale scritto nel 1919 e rimasto finora inedito. Innanzitutto, non si sottolineerà mai a sufficienza l’intimo legame che nella mia opera unisce la filosofia e il teatro. Inoltre il primo atto di quest’opera teatrale mai conclusa assume per me un’importanza particolare. Rileggendola alla fine di dicembre del 1958 mi sono reso conto che poteva arricchire e in qualche modo ampliare le pagine del Diario che avevo deciso di pubblicare. Come si potrà vedere, questo atto si svolge subito dopo la fine della prima guerra mondiale, proprio nel momento in cui è stato scritto. Se da una parte costituisce una testimonianza sulla mentalità dei francesi in quel periodo, dall’altra sottolinea anche e in modo più profondo le fortissime ripercussioni della guerra sulla mia sensibilità e sul mio pensiero. Ripercussioni indefinite, e che si sono sicuramente fatte sentire fino a oggi negli strati profondi del mio essere.

C’è molto di più, però. La scena tra Edith e l’abate Séveilhac rappresenta ai miei occhi una delle più significative tra quelle da me scritte. Mi sarei convertito alla religione cattolica soltanto dopo circa dieci anni, però l’ansiosa domanda della giovane, così mal compresa dal prete – bisogna dirlo –, conserva ancora oggi per me tutto il suo valore. Già nel 1919, prima dei lutti che avrebbero rattristato la mia esistenza, era presente, cosa singolare, il problema sul quale, trent’anni dopo, mi sarei scontrato con alcuni Dottori della Chiesa a proposito del libro di Marcelle de Jouvenel Au Diapason du Ciel1, di cui ho scritto l’introduzione. A essere preciso, ne L’Insondable2 non si parla di messaggi attraverso la scrittura automatica, ma la questione della comunicazione tra la vita e l’al di là della vita è posto comunque nella sua essenza come lo sarà successivamente nell’Iconoclaste3, la cui prima versione, Le Porte-Glaive, risale al periodo della guerra, se non mi sbaglio al 1917. Avrei potuto limitarmi a riportare la scena tra Edith e l’abate Séveilhac, tralasciando le altre, penserà qualcuno. Si sarebbe trattato di una mutilazione, mi è sembrato, la quale non avrebbe permesso ai lettori di collocare la scena, e le avrebbe fatto perdere tutta la sua importanza. Ci si deve forse rammaricare per il fatto che l’opera non è stata portata a termine? Alla luce della riflessione risponderei negativamente. Come sosteneva un amico dopo aver ascoltato questo atto, conduce sul bordo di un baratro, letteralmente, cosa che d’altronde mi ha spinto a dargli il titolo di L’Insondable. I titoli ipotizzati nel 1919 non mi soddisfano più. Se avessi continuato la pièce, come pensavo di fare inizialmente, avrei rischiato di indebolire il sentimento di abisso che, mi sembra, si sprigiona dalla scena, in particolare dalle due scene finali. Il termine abisso deve essere assunto qui in tutto il suo valore”.

1 M. DE JOUVENEL, Au diapason du Ciel, Editions La Colombe, Parigi 1948. 2 G. MARCEL, L’Insondable, in Présence et immortalité, Flammarion, Parigi 1959 (scritto nel 1919). 3 G. MARCEL, L’Iconoclaste, Stock 1923; poi in G. Marcel, Percées vers un Ailleurs, Fayard, Parigi 1973. L’opera, la cui prima idea risale al 1914, è stata elaborata una prima volta con il titolo Le Porte-Glaive. È stata poi riscritta nel 1919-1920.

P. 67 * G. MARCEL, Le Quatuor en fa dièse, Plon, Parigi 1925. P. 67 * G. MARCEL, L’Iconoclaste, cit. P. 67 * G. MARCEL, Le Chemin de Crête, Grasset, Parigi 1936; poi in G. MARCEL, Cinq Pièces Majeures, Plon, Parigi 1973. Trad. it. Il crinale, in G. MARCEL, Teatro, a cura di V. PASSERI PIGNONI, trad. di G. ZANOBETTI, Edizioni Abete, Roma 1975, pp. 229-354. P. 67 * G. MARCEL, Les Cœurs avides, Table Ronde, Parigi 1962 (prima edizione La Soif, Desclée de Brouwer, Parigi 1938); poi in G. MARCEL, Cinq Pièces Majeures, cit. Trad. it. La sete, in G. MARCEL, Teatro, cit., pp. 355435. P. 91 * W.E. HOCKING, The meaning of God in Human experience: a philosophical study of religion, Yale University Press, Londra 1934. P. 146 * L’espressione tra parentesi non è stata resa in italiano per l’impossibilità di sciogliere il termine four. P. 147 * G. MARCEL, Le Monde Cassé, Desclée de Brouwer, Parigi 1933; poi in Cinq Pièces Majeures, cit. Trad. it. Il mondo in frantumi, in G. MARCEL, Teatro, cit., pp. 121-227. P. 151 * G. MARCEL, “Appartenenza e disponibilità”, in Du refus à l’invocation, Gallimard, Parigi 1940 (saggio del 1939); con il titolo Essai de philosophie concrète, Gallimard, Parigi 1967, 1999; trad. it. Dal rifiuto

all’invocazione, introduzione di P. PRINI, trad. di L. PAOLETTI, Città Nuova Editrice, Roma 1976, pp. 67-88. P. 155 * F. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle und Keinen, 1883-1885; trad. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, a cura di G. COLLI e M. MONTINARI, vol. VI, tomo I, Adelphi, Milano 1973. P. 165 * R.M. RILKE, Les Cahiers de Malte Laurids Brigge, Editions EmilePaul Frères, Parigi 1939; trad. it. I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. JESI, Garzanti, Milano 2002. P. 165 * J.-P. SARTRE, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Parigi 1943; trad. it. L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, trad. di G. DEL BO, Il Saggiatore, Milano 2008. P. 189 * G. MARCEL, Journal métaphysique, cit. P. 203 * R. DE TRAZ, L’Ombre et le Soleil, Editions du Milieu du Monde, Ginevra 1942. P. 247 * AGOSTINO, Soliloqui, a cura di O. GRASSI, Bompiani, Milano 2002. P. 261 * G. MARCEL, L’Iconoclaste, cit. P. 263 * G. MARCEL, Les Cœurs avides, cit.

P. 279 * G. MARCEL, Être et Avoir, cit. P. 297 * G. MARCEL, Le Monde Cassé, cit. P. 398 * L’espressione tra parentesi non è stata resa in italiano per l’impossibilità di sciogliere il termine ascertainable. P. 413 * R. LE SENNE, Traité de morale générale, PUF, Parigi 1942. P. 413 * R. LE SENNE, Obstacle et valeur. La description de la conscience, Fernand Aubier, Parigi 1934; trad. it. Ostacolo e valore, Morcelliana, Brescia 1950. P. 435 * G. MARCEL, Le Fanal, Stock, Parigi 1936. P. 437 * G. MARCEL, L’Iconoclaste, cit. P. 443 * G. DE MAUPASSANT, Bel-Ami, trad. it. di G. Collina Peca, Giunti, Firenze 2008. P. 473 * G. MARCEL, Homo viator, Aubier, Parigi 1945; Aubier Éditions Montaigne, Parigi 1963; Association Présence de Gabriel Marcel, Parigi 1998; trad. it. Homo viator, trad. di L. CASTIGLIONE e M. RETTORI, Borla, Torino 1967.

P. 473 * C. PÉGUY, Le Porche de la deuxième vertu, in Œuvres poétiques complètes, Gallimard, Parigi 1948; trad. it. in I Misteri, prefazione di G. BOGLIOLO, trad. di M. CASSOLA, Jaka Book, Milano 1984. P. 473 * M. DEGUY, Les condamnés, Plon, Parigi 1945. P. 475 * G. MARCEL, Le mystère de l’être, vol. I, Réflexion et mystère, Aubier, Parigi 1951. Le mystère de l’être, vol. II, Foi et réalité, Aubier, Parigi 1951; Aubier Éditions Montaigne 1967. In volume unico, Association Présence de Gabriel Marcel, Parigi 1997. Trad. it. Il mistero dell’essere, 2 voll., trad. di G. BISSACA, Borla, Torino 1970. P. 487 * H. BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religion, PUF, Parigi 1932; trad. it. Le due fonti della morale e della religione, a cura di PESSINA, Laterza, Roma-Bari 1998.

BIBLIOGRAFIA

RAGIONATA E ANALITICA

A cura di Andrea Serra e Maria Pastrello

BIBLIOGRAFIA

I. Fonti bibliografiche II. Opere di Gabriel Marcel III. Traduzioni italiane IV. Studi critici La bibliografia comprende quattro voci. Nella prima (Fonti bibliografiche) si indicano i principali repertori bibliografici. Nella seconda (Opere di Gabriel Marcel) le opere filosofiche, di critica, gli articoli e le diverse collaborazioni a volumi e riviste da parte di Marcel. Nella terza voce (Traduzioni italiane) vengono raccolte tutte le traduzioni italiane di Marcel. La quarta voce (Studi critici) è una rassegna della letteratura su Marcel. I. Fonti bibliografiche R. TROISFONTAINES, De l’existence à l’être. La philosophie de Gabriel Marcel, Lettre-Préface de G.MARCEL, 2 voll., Louvain-Paris 1953 (1968). F. LAPOINTE, Bibliography on Gabriel Marcel, in “The Modern School-man”, 49 (1971), pp. 23-49. F. BLÁSQUEZ, Gabriel Marcel. Ensayo bibliográfico (19141972), in “Crisis”, 22 (1975), pp. 29-76.

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