Portatori di silenzio 8857513181, 9788857513188

Mettersi in ascolto è già presidiare il luogo del silenzio; è già presenziare davanti al suo inizio con la propria postu

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Portatori di silenzio
 8857513181, 9788857513188

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MIMESIS

ACCADEMIA DEL SILENZIO n.6

Collana diretta da Duccio Demetrio e Nicoletta Polla­ Mattiot

Il gruppo promotore dell'Accademia del Silenzio è composto da: Angelo Andreotti, Angelo Barreca, Giampiero Comol li, Duccio Demetrio, Valentina D'Urso, Marco Ermentini, Emanuele Ferrari, Daniela Finocchi, Gianni Gasparini, Giorgio leranò, Emanuela Mancino, FrancescoMarchioro, Giampaolo Nuvolati, Antonella Parigi, Luigi Perissinotto, Nicoletta Polla­ Mattiot, Gian Piero Quaglino, Stefano Raimondi, Antonio Ria, Francesca Rigotti, Luigi Spina, Manuela Trinci

STEFANO RAIMONDI PORTATORI DI SILENZIO

MIMESIS Accademia del Silenzio

© 20 12- MlMESIS EDIZIONI (Milano- Udine) Collana:

Accademia del Silenzio n. 6

www.mimesisedizioni. it Via Risorgimen to, 3 3 - 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Telefono e fax: +3 9 02 8 940 3 9 3 5 E-mail: [email protected]

INDICE

l. IL SILENZIO DI UN FOGLIO GIRATO

p.

7

p. p. p.

15 18 22

p. p. p.

25 27 29

2. LA DETONAZIONE DEL SILENZIO I II III

3. PENSARE IL SILENZIO Premessa Radure del silenzio Passi del silenzio

l

IL SILENZIO DI UN FOGLIO GIRATO La poesia e il suo silenzio d'ombra: una lettura 1

Esistono parole che "fanno passare" e altre che "portano" in qualche luogo senza farcene conoscere la meta. Esistono parole di passo e parole d'ombra. Queste ultime awengono scaturendo dalla luce- la sorgente reale delle ombre e del si­ lenzio- dimorando nei loro contrari: nel chiarore e nel brusio, imboccando entrambi una strada nuova. L'ombra e il silenzio gettano un ponte, creano un passaggio verso il visibile come verso l'invisibile, divenendo confine di una possibile nascita, di un possibile mutamento. Da questa linea sottile della perce­ zione del mondo, sia la luce che il rumore fanno breccia nelle loro stesse sostanze, dalle loro stesse evidenze, modificandosi, patendosi, impregnandosi, dandosi senso. Proprio come scrive Paul Celan nella poesia: Parla anche tu [Sprich auch du] Parla anche tu parla per ultimo, dì cosa pensi. Parlama non dividere il sì dal no Dà senso anche al tuo pensiero:

1

Questo testo è nato come discorso in occasione della " Mara­ tona del silenzio" , avvenu ta a Milano, p resso la C asa dell a Cultura di Milano il 7 marz o del20 1 1 . 7

dagli ombra. Dagli ombra che basti, tanta quanta tu sai attorno a te divisa fra mezzanotte e mezzodì e mezzanotte. Guardati intorno: vedi come in giro si rivive Per la morte! Si rivive! Dice il vero, chi parla di ombre. Ma ora si stringe il luogo dove stai: Adesso dove andrai, spogliato delle ombre, dove? Sali. A tasto innalzati. Più sottile divieni, quasi altro, più fine! Più fine: un filo, lungo il quale Vuole scendere, la stella: per giù nuotare, giù, dove essa si vede brillare: nel mareggiate di errabonde parole. 2

Infatti l'ombra si fa più scura, più netta, più sottile se la sua luce/sorgente è più intensa e la richiesta del silenzio si fa più energica, se il rumore è dawero lancinante. Essi si palesano come delle necessità, delle urgenze e delle salvezze, apparentemente "irrazionali" , che occorrono per calmarci, placarci, renderei ancora più vicini alla grazia della tran­ quillità e della pacatezza. E lo fanno senza nessun interesse, senza determinismi. Qui la logica delle contraddizioni resta a volte la più valida e la più corroborata. Ma è nel silenzio delle parole poetiche - inteso proprio come "rappresentazione fenomenica e metaforica dell'om-

2

P aul Celan, "P arla anche tu " in Poesie, Mondadori, Mil ano 1 998, p.232, [traduzione di Giu seppe B evilacqu a], 8

bra" necessaria per la luce - che l'attenzione si fa decisiva. Un'attenzione che alla luce e alla sua estensione espressiva, si fa P.Ortatrice di un senso "Altro" da percorrere e incontrare. È a questo punto che il silenzio è citato in giudizio, por­ tato in udienza. Lo si scorge salire sul banco degli imputati, essere posto sotto giuramento. È oramai un testimone. È nel valore della testimonianza che il silenzio acquista la sua determinatezza e il suo statuto più alto. Esso si trasforma da silenzio passivo, presente solo come "assenza" o tutto al più, come uno sfondo inerte e inespressivo, in un silenzio parlant� capace di essere agente e concreto nella sua essenza-presenza, nel suo dire a chi sa, che lo spazio intercorso tra il silenzio del balbettio e quello del rantolo, è lo spazio essenziale e avaro delle necessità e della vita. A questo silenzio non si addice lo spreco e neppure la superficialità dell'uso. Questo tipo di silenzio ha lo statuto della verità e della fondatezza, a lui non s'adatta l'abito del brusio, ma del tacere pieno. Come il silenzio non ama il vocio così l'ombra non ama la penombra: essi dicono il vero per chiarezza, accettando di sé solo la nettezza della linea, la potenza del contrasto, il coraggio della resistenza dal margi­ ne, combaciante al pericolo. Anche il silenzio si fa reattivo al rumore come l'ombra all'abbaglio ed entrambi lo fanno per esemplarità e nettezza, ammutolendoli. Entrambi non amano le mezze misure, il tentennare, la prolungata convalescenza. Al silenzio si addice un "occhio muto" - proprio come in questa poesia di Paul Celan intitolata Fatica- che sa come dire "no", alla vista/rumore impossibile di un disagio o di un dolore, capace di scavare "gallerie", sentieri di "palpebre rovesciate" che sappiano, faticosamente, accedere ad Altro} incontrando Altri.

Ancora vi sarà un occhio, pur estraneo, accanto al nostro: muto 9

sotto palpebra di sasso. Venite, forate le vostre gallerie! Vi sarà un ciglio rivoltato all'indietro, fatto acciaio dal pianto abolito, la più aguzza delle punte. Esso avanti a voi compie l'opera, come vi fossero ancora fratelli , poiché vi è pietra. 3

È a questo silenzio intransigente e aguzzo che bisogna dare parola, concedere verbo, farlo divenire intenzione non di ciò che si deve cercare, ma trovare. Forare le nostre galle­ rie è dawero trovare l'uscita, scovare la possibilità di un mu­ tamento, individuare un "ciglio'' sul quale sporgersi, come si è sporto da tempo, l'angelo benjaminiano. Non sarà un "ciglid' qualunque, cercato a caso, ma un "ciglio/rivoltato altindietrd' e trovato a seguito di un'interrogazione, di una domanda. Ma quale? [ . . ] quella domanda - la domanda del senso, della ragione, della presa di coscienza: Warum - perché? [ . . ] La domanda che fa la differenza tra l'animale razionale e l'animale non razionale, la domanda che muove il pensiero verso i confini del non-ancora-conosciuto, verso il mondo del possibile e dell'ipotetico, verso quel di-più che rende così unica e affascinante l'esperienza umana. 4 .

.

Il silenzio lo si trova solo se lo si interroga e non se lo si cerca soltanto. Il silenzio ha una dimestichezza particola­ re con le cose da trovare: le perdute. Il silenzio lo si trova,

3 4

P aul Celan, " Fatica" in Poesie, op. cit., p. 25 7 Massimo Giuliani, Auschwitz nel pensiero ebraico. Frammenti dalle ((teologie dell'Olocausto)}, Brescia, Morcelliana, 1 998, p.15. lO

perché trovare è sapere già cosa si va ad incontrare, perché saputo, perché voluto da prima. Infatti al silenzio non im­ porta di essere cercato ma trovato, perché cercare è sempre dirigersi verso qualcosa che ancora non si conosce, che an­ cora non ci appartiene, mentre è dal silenzio che noi sorgia­ mo, è da un grembo filtrante che noi vediamo la luce e che una volta perduti, bisognerà trovare/ritrovare. Da lì i rumori sono come fossero già dentro di noi: materni, nostri. Sentire il silenzio come prossimo a venire; è questo l'orizzonte di chi vuole incontrarlo, di chi vuole condividerne lo spazio e la possibilità. Al silenzio interessano le interrogazioni. Anche i tesori si trovano, interrogando le mappe. Qualcu­ no sapeva già come dare indicazioni, dare indizi. Qualcuno aveva già tentato la via: si era già posto domande. Chi sa come riappropriarsi della mappa sa dunque dove poter trovare, dove andare per sognare "altro" , come "deli' altro " . L a sua partenza conduce da qualche parte, in qualche posto: in un luogo al quale dare vantaggio e orizzonte, dare possibili­ tà. Così è il silenzio e il suo destino colti nella loro prossimità e nella loro lontananza: destinanza. Bisogna fare spazio al silenzio, dargli luogo, essendo il silenzio anche un "posto" col quale e nel quale crescere per intensità e desiderio, proprio come quel bianco "dicente" e silente che Giuseppe Ungaretti sottolineò essere il suo bian­ co poetico: quello che, tra i suoi versi appuntiti, grida per un esistere pieno, rivelando un "mistero" dato/donato "in

forma di parole''.

Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde

11

Di questa poesia mi resta quel nulla d'inesauribile segreto

Mariano il29 giug no 1 91 65

Il silenzio che Ungaretti innesta tra i suoi versi, nella tra­ matura del suo bianco awolgente, è un silenzio/bianco (o silenzioso biancore), che circonda e sostiene, ma è anche un luogo d'immersione, nel quale gettarsi per trovare la forza di un "inesauribile segreto)). È un bianco nel quale il silenzio è posto per implosione e senso, è leggibile per significato e racconto. Questo bianco/silenzio è un tratto speciale che i poeti pongono tra loro e le parole. Siamo dunque di fronte ad un ricettacolo che ha dawero "luogo" in un silenzio disposto a rimarcare un'attesa e una possibilità epifanica. Bisogna concedere spazio e volontà al silenzio: dargli cor­ po e parola. Il silenzio concrezionato dalla parola poetica dunque, è quell'esatto angolo d'incidenza posto tra la tensione deltat­ tesa e la pazienza della veglia: quel preciso e nel contempo labile punto, nel quale il battito della palpebra interrompe la visione del mondo, la percezione della vita, immettendoci in un buio impercettibile, ma esistente, che ci avvicina al sogno e al possibile dell'indistinto, proprio come la leggerezza di un foglio girato nel mondo, che ci fa essere creduti, perché letti e capiti. Tutto ciò accade perché siamo fatti anche di silenzio e silenzi da leggere, scrutare, ascoltare, capire. Silenzi che sanno come sostenere/affrontare il rumore e la sua violenta

5

Giu seppe Ung aretti, Il Porto Sepolto, a cu ra di C arl o O ssol a, Milano, il Saggiatore 1 981 , p.26. 12

prossimità; che sanno come esserne la controparte o la loro inaudibile contraddizione: l'ordito per la trama. È in quell'istante di apparente im-percezione del mondo e di silenzio trovato, che le parole della poesia si installano come antenne di ricezione del finito come dell'infinito. È in quest'istante di massima concentrazione e compressione del rumore, che tutto può divenire/essere detto, che tutto può risultare credibile come incredibile. Una compressio­ ne che fa spazio al silenzio e alla sua natalità, proprio come nello Tzimtzum ebraico. Un concetto questo formulato da Isaak Luria (1534-1572), dove il termine Tzimtzum in ebraico significa "contrazione" e dice dell'originario atto di Dio il quale, per far esistere le cose nel mondo, si ritira scomparendo. E' da tale riduzione del divino che scaturirà la luce dell'universo. Ed è da tale riduzione del rumore che il silenzio creante può avere spazio d'azione, può diventare "luogo" di rivelazione. La luce per l'ombra, il rumore per il silenzio dunque. Attimi di lontananza che si congiungo­ no per concedersi vita, concedersi morte, permettendosi a vicenda. Come rendere probabile/fattibile questo attimo/ durata se non accordandogli qualcosa di altrettanto grande? Se non concedendolo come un dono? Un silenzio concesso infatti è un silenzio devoluto, lascia­ to andare come una necessità, un bisogno, una carità. E qual'è per il poeta la possibilità di dare/concedere spazio a questa particolarità dell'esistenza, se non partendo dalle parole scelte e trascelte, che in poesia si accordano nel bianco di un ritmo, come dighe che tengono, e si intratten­ gono con il loro silenzio, con il loro mistero? La poesia dunque diventa pellegrina del silenzio; il bian­ co è il suo sentiero verso Compostela: un cammino. Il suo "andare in avanti" è un procedere per mancanze, che sa come dare corpo/voce al proprio silenzio, diventando il suo gesto di parola estremo, grato. 13

Sarà questa una poesia speciale, unica, capace di fare "luogo" al silenzio e in grado di abitare per silenzio il mondo ammutolito e afasico dei rumori, dalla celaniana "chiacchiera comune" che violenta, stupra e offende chiunque, mediante i suoi carichi di disattenzione, indifferenza coatta e berciante. In questa prospettiva il silenzio è anche una forma concreta d ell'attenzione. Un attenzione che porta alla luce, che sa come rendere il vuoto pieno e l'assenza presenza. Un'attenzione fenomenologica, intenzionale capace di rendere nuovamen­ te i contorni delle cose e senza pregiudizi definirli, proporli, donarli, dirigendoli nel verso di una coscienza intenzionale pronta e riflessiva. Ma questa attenzione del e al silenzio, è anche quella che il filosofo Malebranche definiva essere: "la preghiera del cuore". Ma questo silenzio è un silenzio specia­ le: sa dire sz'! Dicendo "Eccomi sono qui", che tradotto nella lingua delle sacre scritture diventa un accondiscendente e convinto "Amen". È dunque questo un silenzio di presenza, concreto e tan­ gibile, invocato e detto proprio come una preghiera, una convocazione, un'adesione; un silenzio chiamata, capace di trasportare il proprio donatore in una solitudine di grazia che, progressivamente, si allontana dall'essere un isolamento. Un silenzio dunque conclamato, capace di essere di tutti, perché accettato, voluto e condiviso, che, poeticamente, sappia dire e sappia rendere sonora la sua "lingua maternale" , carica d'af­ fetto e di effetti. A questo silenzio vorrei dare il nome proprio di: silenzio di lettura. Una lettura di matrice agostiniana col tempo e non nel tempo, che faccia di ognuno di noi, una parola cardine della sua storia e della sua comprensione. Una Lettura che al silen­ zio concede lo statuto della sua speciale lingua interiore, della sua linea d'ombra che porta, concede e, soprattutto, cambia. Un atteggiamento questo dello spirito e della grazia che si attualizza nella poesia, come lettura del nostro "passaggio nel mondo" , del nostro passare. 14

2

LA DETONAZIONE DEL SILENZI01

«È bello camminare in silenzio e sen­ tire i cani che abbaiano e gli uccelli e gli huuu... degli alberi» Giacomo Raimondi

I Molte cose si possono dire, studiare, indagare e proporre sul tema del silenzio; quante se ne potrebbero dire dell'aria e del sole, come anche cercare una parola magica/unica nel pagliaio di un quotidiano ancora tutto da impaginare. Parlare del silenzio è dawero entrare nei paraggi degli ossimori incuneati nel suo stesso DNA espressivo e signifi­ cativo che si dimostra all'evidenza e al paradosso tanto per semplicità, quanto per intellettualismo. Al silenzio sembra spetti solo il silenzio e nulla più, ma anche questo potrebbe far parte di un artificiosa operatività intellettuale. Molto si può spiegare col suo contrario e mediante una dialettica negativa che si accontenta di sé stessa, mostrando quello strano "qualcosa" che, con il silenzio, centra poco o quas1. VladimirJ anckélévitch lo farebbe rientrare in quell'espres­ sione strabiliante che è "il non so che e quasi niente ", che tutto spiega e tutto convalida nella vaghezza puntuale del rarefatto estetico.

l

D iscorso p ronu nciato ad A nghiari durante la Scu ola estiva dell'Accademia del silenzio il 2 7 agosto 2012. 15

Al silenzio, dunque, spetta rigorosamente "il silenzio" e niente si governa da questo principio primo della logicità e della saviezza. Al silenzio occorre dunque silenzio per farsi largo, per farsi spazio e luogo, per decifrare e farsi decifrare e, non in ultimo, per dire e farsi dire. Ma come rendere tutto ciò con l'assenza di tutto questo? La tautologia intrinseca nella sua stessa natura, s'inerpica nella sfera del "pensare" come una tèrmite che fora e non si vede, che rode e non si nota- se non dai residui incolumi della sua tana - capace di far crollare improwisamente le travi portanti e secolari di una struttura, senza nessun pre­ avviso, proprio come un'improvvisazione "silenziosa" , che compare dal nulla e nel nulla ritorna, lasciando la catastrofe per terra, mutilata, inservibile oramai. Al silenzio non servono parole, né suoni per dirlo/ descriverlo. Non occorrono congetture linguistiche per evidenziarlo e la sua esistenza resta premuta nel nostro coro, come un pensiero mancato che parla ma non si potrà mai far udire. Il linguaggio del silenzio si potrebbe rendere evidente at­ traverso ciò che qui definirei un atteggiamento: una propen­ sione dell'animo e non dell'anima, che imbastisce il suo rap­ porto con il mondo degli affetti, delle cose e delle persone. Al silenzio si arriva per atteggiamento e propensione dunque ! Si giunge concedendogli spazio e dignità: afferrandolo quasi per commozione ! Si giunge anche come per malia della mente, lasciando tutto il resto all'indistinto chiacchiericcio, che riempie e si raccoglie nello spazio umano e dell'inumano. Ma che cos'è un atteggiamento? È la pastura di un pensiero, è la deambulazione di un'in­ sistenza incastonata nel proprio stile di vita, è un'intenzione 16

che si direziona "verso" un volere: è una modalità compor­ tamentale di sé conosciuta e forse accettata. Dunque è proprio in questa volitiva direzione del proprio "stare al mondo" che il silenzio potrebbe non richiedere al­ tro che questo, che questa possibilità d'inveramento. Un possibilità tra tante che non richiede espressamente l'eliminazione del rumore, o il termine della sua attività, ma una sua angolazione d'incidenza: un atteggiamento silenzio­ so appunto. Già questo piccolo gesto/atto di scelta, porta in sé un ger­ me possibile di fioritura, un inizio che potrebbe sostanziarsi da solo, tra il combattere alienante del caos e il restare nel trambusto insignificante del quotidiano che assale. È un gesto/propensione/pastura che si rilega nella di­ mensione del piccolo, dell'inerme. Ma è da questo infinitamente piccolo e nel contempo immensamente possibile, che il silenzio potrebbe prendere corpo, o meglio prendere il corpo sotto il suo governo emo­ tivo, capace di espandersi e inverarsi in quello che immedia­ tamente potrebbe accadergli: entrare nello stadio più certo della quiete. Una quiete che si fa rivelatrice d'Altro, capace di portare alla luce una "prossimità" evidente e concreta. Una quiete che è già "quietudine" : stato nel quale sentirsi parte della somiglianza del reale, gesto cosciente di chi sa di far parte di una concretezza plasmante. Il silenzio come atteggiamento esteriore oltre che inte­ riore, ha la "quietudine" dalla sua parte, avendo posto sot­ to controllo l'inquietudine del tacere e la trepidazione del parlare. È proprio la "quiete" ad essere il baluardo posturale di chi, non potendo interpretare e vivere il silenzio in modo diretto ed evidente, lo ha reso possibile almeno come atteg­ giamento: una sorta di Samizdat dello spirito e del corpo. Ma la "quiete" non è né la calma, né rilassatezza, ma una sorta di pace. Uno stato d'animo più che una propensione 17

della volontà. Alla "quiete" non si chiede nulla: o c'è intera­ mente o non esiste. Mentre sia la calma, che la rilassatezza possono essere vivibili e visibili anche per gradi di intensità e porzioni di tempo. La "quiete" vuole tutto dalla sua stabilità e dalla sua in­ tensità, gestendo un tempo che lei stessa concede.

II Il silenzio dunque, se è un atteggiamento, è anche immo­ bilità, rallentamento, inversione di marcia, pastura destabi­ lizzante, imbarazzo della statica. È quell'atteggiamento da assumere per la "quiete" che sa diventare anche il suo viceversa. Si è quieti per silenzio come si è silenziosi per quiete ! È anche un passaggio nella tempesta, un attraversamento improvviso dell'incrocio. Da qui il silenzioso e il quieto diventano pellegrini del proprio "restare al mondo" , intelaiando con il reale un cammino dawero originale e singolare: la conoscenza di sé verso sé, owero quell'impercettibile spazio che ci salva e ci fa incontrare. Da qui, da questo punto di coincidenza di sé con sé, si riparte per iniziare altro, per diventare Altri. E questo perché il silenzio fa cambiare: mette in metamorfosi. Ma il silenzio è anche una forma particolare dell'Atten­ zione, che la quietudine innesca dalla sua stessa pacatezza. Col suo cinetico immobilismo, con la sua potenziale passività attiva e reattiva, il silenzio è come se portasse alla sorgente di un movimento unico e definitivo: la disposizione all'attenzione. Un'attenzione da intendere come quella capacità senso­ riale di proferire senso al percepire adamitico delle cose, 18

che nasce ancor prima della concordanza con il mondo del reale che ci circonda: una collimazione connettiva tra il den­ tro e il fuori che s'impone e reimposta lo spazio delle cose, delle emozioni, riorientando i nostri pensieri tra i sensi, silenziosamente. L'attenzione infatti toglie gli oggetti dagli sfondi, elimina i dintorni inoperanti, inverando prospettive uniche e fissanti, direzionando, puntando e inquadrando. Una sorta di barthesiano punctum fotografico che rende il particolare unico e importante, portando la realtà alla sua più alta intensità. Solo nell'attenzione/silenzio il possibile delle epifanie viene alla luce, mostrando di sé una fenomenologia che la coscienza intenzionale realizza, rendendosi residuo e parte unica di un'indagine emotiva, in grado di giustificare i con­ torni e i confini di una chiarezza e di una chiarità. L'attenzione dunque è come se creasse silenzio intorno a sé e il silenzio porta sempre alla fissità di una percettività agente e fautrice di pensiero e spazio emotivo. Infatti nell'attenzione e con l'attenzione anche il silenzio/ atteggiamento si fa pastura attiva e dicente, facendo abita­ re poeticamente l'uomo in un reale, che dal silenzio stesso viene irradiato, rendendolo visibile e percettibile nella sua scelta, nella sua natura. Si è silenziosi per scelta e mai per imposizione. Un silenzio imposto è un silenzio coatto, è coercizione, è carcerazione: dolore. È dunque in questa condizione volitiva che il silenzio "detona" , facendosi eco, spazio e tempo. La sua deflagrazione si attua così nella scelta stessa della sua esistenza, rivelando direzioni di orientamento e orienta­ zioni che conducono al suo estremo opposto: la perdita. Ci si perde nel silenzio per troppo silenzio, ma non per questo significa dis-perdersi, anzi. Al silenzio appartiene la contraddittorietà. 19

Nel silenzio si nascondono tutti i rumori possibili, come nel bianco si rifrangono tutti i colori del nostro spettro cromatico. Il silenzio vive di contraddittorietà che la logicità delle proposizioni spesso non sanno gestire. Ma sono proprio le illogicità della sua creatività a de­ streggiarsi qui, amabilmente. È nel silenzio come atteggiamento dunque, che anche la poesia si concretizza, inverando in sé quel bianco che tra i versi sosta per concessione e valore: per presa parola. Un bianco che evidenzia e soprattutto "pone in attenzione" il proprio lettore, portandolo in uno "stato di allerta" continuo. È dal silenzio che la parola poetica prende corpo, chie­ de corpo, cerca la fisicità dell'apparire, del "farsi udire" . Da questo ondeggiare quieto del silenzio la parola, posta e disposta in forma di poesia, si fa "richiedente" , ponendosi "in udienza" come fosse una figura/carattere testimoniale, necessaria non tanto a sé stessa, quanto al suo desistere. Essa richiede un "luogo" possibile di rivelazione e dal silenzio progetta la sua "visibilità acustica" ed emozionale: corporale. Qui il corpo diventa parte di una pastura scelta, e vibrante. Un corpo che diventa parola, che si fa parola per esposizione e voce, che si fa flatus per esposizione e visione. È il corpo a diventare fautore del silenzio come fosse por­ tatore di un "luogo" , di un "posto/veduta" dove innescare il timore del vuoto, come del pieno, dell'inspirazione come dell'espirazione. Da questa territorialità acustica la parola abiterà tale spazio, che pare si getti sempre "in avanti" come una disponibilità, come una stretta di mano. Qui il corpo diventa varco che genera e trattiene, che sposta e riforma, rimanendo un'orma donata al tempo. È da qui che la parola poetica porta e strappa tempo al tem­ po, come il silenzio che le soggiace fa con il rumore, facendo del proprio bianco circondante un luogo abitabile: una località dove il silenzio detonerà appieno il suo significante, conducen20

dolo dentro ad ogni parola che lo saprà sostenere/contenere. Da qui si procede per la seconda nascita: quella della visibilità. Come dice Maria Zambrano, dal silenzio la parola poe­ tica spesso vive l'ansia di "assumere un corpo" . Un corpo che con il silenzio non spartisce null'altro che un'origine, nient'altro che un "incominciamento" e da qui la sua esi­ stenza cambierà forma e destino. Esso abbisogna dunque della corporalità e della sua memoria originaria e nascente. Sarà proprio dall'ultimo "residuo" che le è rimasto, che il bianco con il suo silenzio faranno eco alla sua storia, alla sua narrazione. La parola poetica dunque abbisogna di un bianco ungarettiano, assoluto, rarefatto. Quel bianco della decifrazione, dell'ermeticità, del fraintendimento. Un bian­ co che rammemora silenziosamente, in grado di diventare traccia rivelatrice di un pensiero poetante attivo e vivace. L'atto scrittoreo è l'ultimo accadimento del poeta, è l'ul­ timo gesto dopo il silenzio generatore che lo "stato poetico" prepara. È infatti da qui in poi che il bianco/silenzio dona corporalità al testo poetico: concede alle parole lo spazio per posizionarsi e concretizzarsi nella loro singolarità espressiva, determinandone la taratura ritmica e linguistica. Esso fornisce la determinazione che occorre per perse­ guido fino alla fine, fino all'attimo esatto della comprensio­ ne e dell'intesa. Esso diventa scrittura e corpo della parola, proprio là dove la scrittura si fa voce e lettura, si fa pastura e atteggiamento, si fa respiro e rantolo finale. Un poetare inverato in un blanchotiano "spazio letterario" - o spazio "per la morte"- dove gestire e saper orientare il suo destino mondano, il suo orizzonte perduto. Non tutte le storie diventano parola e non tutte le paro­ le sono cariche di storie. La poesia autenticata dal "vero" sa come sceglie de e trasceglierle tra quelle che hanno sa­ puto patire la loro stessa resistenza al silenzio, il loro stesso deambulare tra la quiete e il trambusto di un interminabi­ le e irrefutabile incominciamento dell'umano e da qui, le 21

parole-madri partono per restare fedeli al proprio buio e al proprio silenzio originante.

III Dopo il silenzio come atteggiamento che è attenzione, che è bianco di parola, si potrebbe pensare ad un altro ca­ rattere del silenzio: il silenzio come aspetto. Esso è un silenzio pudico che vuole eliminare le osten­ tazioni del corpo, l'assordante imposizione dell'apparenza che, regolarmente, installa le coordinate del rumore. Il silenzio come aspetto dunque non vuole eliminare quel quid particolare di un individuo, non vuole essere l'appiatti­ mento dell'eros, ma concentrarsi maggiormente sull'elegan­ za e la grazia del proprio portarsi nella vita e nel proprio irrefutabile passare nel mondo della vita. Un aspetto silenzioso dunque invoglia alla scoperta, allo svelamento: innesca curiosità, contagia. Ed è per questo che l'abitatore del silenzio deve "infet­ tarsi" di silenzio. Infettarsi significa esserne preso/pregno, esserne portatori. Al silenzio si deve silenzio: un dove re che S0ren Kierkega­ ard tramuterebbe in compito. Esso seduce con la quietudine. Ecco dunque che il silenzio sia come atteggiamento che come aspetto può qui diventare una reale pastura interio­ re, dove la sua rivelazione è il risultato di una detonazione dell'animo, di un'irradiante chiarità che sa cogliere colui che la pensatrice spagnola Maria Zambrano definirebbe essere un "beato" . Un "beato" che sa che il suo aspetto e la sua sostanza in tutto coincidono e in ogni parte collimano con un unico e agente punto d'incidenza: l'angolo acuto dove il silenzio e la quiete raggiungono la loro massima intensità e, perché no, passione. 22

Un luogo/stato d'essere, dunque, dove il silenzio va ad inverarsi con la conoscenza di sé, con ciò che si potrebbe definire un reale "cammino" . La detonazione del silenzio dunque, nella sua ossimorica dignità, va ad operare tra chi sa diventare portatore di silen­ zio e chi sa concedere al silenzio un atteggiamento possibile come probabile, facendo e irradiando dal proprio aspetto attimi di quietudine che sappiano contagiare e sedurre i ru­ mori volgari e inutili del mondo. Da questa detonazione in poi il silenzio deve diventare contagioso per empatia, coin­ volgendo, affascinando, incuriosendo chi ne è distante. Anche da qui, da questo spazio detonante, il "pellegrino di sé" -il silente- saprà come innescare la carica del suo silenzio. Silenzio come scelta dunque e non come conquista. Scelta nella quiete, fede nel cammino, fede nei passi del silenzio. È dunque il camminare silente un altro degli aspetti/ca­ ratteri possibili che il silenzio escogita per restarci accanto. Esso potrebbe diventare ed essere il calco/deposito di una realizzazione possibile e auspicabile per chiunque. Il camminare in silenzio è quel proiettarsi fuori da sé, è quello sporgersi in avanti dello spazio, è l'inveramento costante di quel biblico «Lekh lekhà», quel "vattene" , che porta al proprio destino. Sono queste infatti le prime parole «Lekh lekhà» che Dio rivolge all'uomo- ad Abramo- nella storia: Vattene dalla tua terra, dalla tua famiglia e dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti indicherò. [Genesi; 12, l]

E sarà dunque questo andare da sé stessi verso altri sé stessi, ad essere il più silenzioso e arduo camminamento che ci è stato concesso: un silenzioso procedere colmo di un quieto silenzio.

23

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PENSARE IL SILENZIO Per un'estetica dell'ascolto

Premessa ((La parola parla in nome del silenzio cui aspira", scrive il poeta Edmond Jabès in un suo passo poetico dal titolo La perennità delle tavole1• Il silenzio dunque come aspirazione, il silenzio come luogo, come corpo, come riflessione; il silen­ zio come vicenda quotidiana del pensiero, ma anche come realtà alla quale porgere "ascolto" per diventare ed essere altrimenti. Esiste un aspetto del silenzio? Esiste un'estetica del silenzio? Sono queste le interrogazioni che diventeranno percorso e vie per rimpatriare dentro un aspetto che si potrà vivere come un momento di conoscenza di sé, come dell'Al­ tro. Il corpo del silenzio ha diversi nomi: ascolto, pausa, pace, parola, pastura, amore. Sarà il nostro procedere a dare voce alla nostra quiete, a quello "strano" modo di stare di fronte a sé stessi e al mondo. Ma cosa sappiamo del silenzio come fisicità, come località, come pensiero? Ha un pensiero il silenzio? Ecco dunque presentifìcarsi al silenzio un cam­ mino nuovo, una forma altra di flanerie, un'immagine nuova del flaneur che, procedendo si dimentica, che passeggiando si raggiunge, che cercando si perde. Qui l'instancabile so­ gnatore della città saprà come farsi spazio, come lottare per diventare egli stesso nicchia di un silenzio rubato al frastuo­ no, di una quiete estorta al trambusto.

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Edmond Jabès, Il libro delle somiglianze. Moretti B ergamo 201 1 , p., 85 25

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Vitali,

Le tracce partono da noi come una falda freatica dell'ac­ qua, come una vena carica di linfa, sangue, come un polmo­ ne che vive del suo respiro, del suo respirare. Le tracce sono orme, calchi dove rimettere il piede per proseguire, per esse­ re guidati. Da questi fossati d'argilla, da queste idee scavate dall'esperienza, noi procediamo, lasciando altre tracce, altre pozzanghere, altre orme possibili ed innegabili: momenti che da noi a noi hanno lasciato aprire una via nuova, dove incontrare e riportare nuovi nomi alla casa della conoscen­ za. La loro presenza è reale quanto la loro immaginazione è fedele alla nostra forza di desiderare qualcosa di possibile, qualcosa di tangibile che ci faccia ripartire, ci faccia nuo­ vamente rincontrare: rimpatriare. Da qui la via si apre tra le radure che fanno chiaro, che rubano al buio la sua forza, coprendolo di luce. Parole che disvelano poeticamente l'il­ logicità della costrizione, aprendo il tracciato verso improv­ visi, verso incontri che fanno mutare, che sanno trasformare il certo nell'incerto, l'impossibile nel suo desiderio. Parole­ radure che fanno dei chiari nei boschi, proprio come quelli che Maria Zambrano raccontava essere beatitudini, svolte: incontri. E da qui i passi si fanno altri, diversi, differenti, ca­ paci di ascoltarsi per silenzio e muoversi per attese. Luoghi deputati al pensare e al raccontare un altro nostro stare al mondo, quell'altra nostra affezione alla vita che, dall'ordina­ rio procede e nello straordinario si stupisce, continuando ad essere compagnia prima del silenzio, innestandolo. Il silenzio ha uno spessore e una forma e da queste misure e coordinate la sua comprensibilità inizia nell'innescarsi del­ le interrogazioni, nell'immettersi dentro ciò che si domanda e si attende. Bisogna dunque prestare "ascolto" al silenzio per renderlo concreto, per far sì che faccia "rumore" dal­ la sua paradossalità, dal suo parossismo. Fare di esso una presenza e con esso diventare presenti al mondo e alla sua inesorabile acusticità. 26

Scrive il poeta svedese Tomas Transtromer (Premio No­ bel 20 1 1) "Il silenzio suona come una sveglia" e da questa istanza si potrebbe partire per comprendere quanta mate­ ria sappia contenere il silenzio che spesso è rappresentato come lieve, incorporeo, immateriale. Esso è invece presenza e territorio e da questo luogo dell'incanto e dello stupore le orme diventano radure e poi passi capaci di restare evidenti: chiari. Essi fanno partire, incamminare !

Radure del silenzio I

Lascia che il silenzio dica di te l'aspetto, la pastura, il tuo deambulare dentro le cose che ancora hanno una voce per raccontarti da lontano: quella distanza della prossimità e dell'abbraccio che ha un paese, una via, una stanza abitata dal mondo e dal tuo stesso tacere per loro. Si ritorna a volte per trovare orme di luce, proprio da dove si era partitt� come per silenzio, come dal silenzio. Ho visto uno spazio che diceva di not� un posto dove il nostro nome è davvero quello che ascolti: una traccia che vedo dai bordz� schiarire. Il tuo nome ora aspira al bianco, lo stesso che taciuto dice il dove.

II

Ci sono pagine bianche che fanno restare e altre che porta­ no a perdersi. Parole che ancorano, altre che tolgono l'orma dalla sabbia. {{Resta vicino all'ascolto: fallo diventare di pie­ tra". Me lo dicevi stendendoti con le labbra rivolte ai bordi, alle fessure, agli spifferi. Me lo dicevi restando davanti al si­ lenzio di un vetro appannato. Era inverno da poco anche da lz� Era il perdono ora, la sua stagione 27

III

Raccontami di te, di come la neve ti parla quando scende, di come il bianco accade quando la luce si spegne e tu non sai dove tenertz� dove !asciarti abbracciare. Il silenzio che resta a guardia delle porte trattiene. Dimmi da che parte restare ora che sei passato, ora che ti volti e senti la luce pesarti sulle spalle?

N

Mi hanno parlato di te dal resto, dall'avanzo che è rima­ sto, dalle briciole raccolte in un cortile. Le ombre facevano radure. Era da lì che ti ho conosciuto, da H che ho ascoltato il tuo nome farsi trama, ordito e poi tappeto, prima che la tua sembianza facesse luce, come quando le tende sbattono e nella stanza svuotata, s'intonano vite. Sono i luoghi degli at­ tenti ora a cantare cori anche dai tombini: patrie come tane.

v

Ecco le parole acute: quelle levate, quelle tenute in piedi dagli stenti, quelle vestite dai fossati. Le ho viste radunarsi quz� nella quiete degli ortz� dei corpi serrati tra le nascite, tra il frinire scalmanato delle cicale e un balbettio di nuvole. Avevano fame per nulla e dentro a poca acqua, hanno ini­ ziato a ripetere battesimi.

VI

Ci sono acque che fanno passare, altre che tengono come dighe e non ci sono rimandz: sponde che sappiano resistere

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ai perdoni che le onde fanno dai fondali. I silenzi raccontano come le paure la loro quiete.

VII

Scrivi mi da lz: da dove la mano ha lasciato la presa: dalF occhio che ha saputo. Ci sono giornate appese a un filo come preghiere, altre vicino alle lame. Lascia che passino da quz: i silenzi: da que­ sta calma incisa tra le vene. E che il sangue dica la sua promessa: il suo tratto che da Emmaus sa tacere.

VIII

Persuadimi con il bianco, con il vuoto, con il niente quello della ciotola, quello che resta a cerchio, che prende luci fuori­ bordo, sabbie dalle dune, dagli incant� dagli incontri. Dimmi da che parte restano le ombre, su quali murz: stipitz: tra quali sogni e non chiedermi da che parte vengano le resurrezioni, se dai respiri o dalla grazia dell'attesa. Ho di te un pegno da rendere piano, tra szlenzio e silenzio.

Passi del silenzio I. La parola rasenta il silenzio come la colpa costeggia il perdono. Nella sua natura sonora, la parola trattiene il senso nell'oscurità del silenzio fino a farla esplodere nella lentezza del suo suono, della sua fonesi che la conduce alla luce, che la fa incominciare, innescandola nel cammino di significanza e di senso. Ma la medesima parola- immediatamente dopo 29

essere stata resa corpo e voce, dopo essere stata pronunciata come da una prima volta nella prossimità del mondo- ritor­ nerà ad essere puro nulla, oblio di un suono, ricordo di una sensazione: di un nome, forse di una cosa. Da questo istante di silenzio ripristinato, la parola che tace, che si fa muta, sarà il calco di questa "esposizione" , il passaggio di questa sua "più che presenza" , mantenendo viva la sua annunciazione, il suo pre-awiso. A tale proposito il pensatore svizzero Max Picard scrive nel suo testo, Il silenzio del mondo: Lo sprofondare delle parole nell'oblio è come il segno che le cose ci appartengono solo provvisoriamente, in modo irrevocabile. Una parola sprofonda nel silenzio, viene dimenticata: l'oblio prepara anche il perdono." 1

Da questa sparizione il silenzio s'innesca, mostrandosi come un luogo nuovo del possibile e dell'impossibile, por­ tando con sé tutto il "terribile" e lo "stupore" , che il silenzio stesso confeziona per mostrarsi e forse difendersi.

IL Mettersi in ascolto è già presidiare il luogo del silenzio; è già presenziare davanti al suo inizio con la propria pastura, la propria condizione, la propria storia, stabilendo con esso, una sorta di patto d'attenzione. Da questo momento in poi il silenzio non sarà più un vuoto nulla, un niente che inquieta e perturba, una situazione posta semplicemente in assenza di rumore ma, al contrario, un luogo nel quale e con il quale

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Max Picard, Il silenzio del mondo, Servitiu m, Berg amo 200 7 , p. 41 30

incominciare a realizzare un contesto nuovo: un'originaria narrazione di sé.

III. Per abitare il silenzio non basta stare in silenzio o rimanere nel silenzio. Imparare a vivere il e nel silenzio è un passaggio decisamente più complesso. Non basta dire "ti perdono" per perdonare: bisogna essere quel perdono per realizzarlo. Essere in e nel silenzio è dunque un movimento molto più profondo e a tratti difficoltoso. È un paesaggio che si deve realmente tro­ vare, attraversare per poterlo abitare. Infatti è decisamente im­ portante comprendere che non si sta mai nel silenzio, ma con il silenzio e questo esserci appresso è ciò che fa la differenza. Stare nel silenzio significa, conoscerlo, sentirlo, approvarlo; ma anche patirlo, sfuggirlo, condividerlo con il resto del rumore. Il silenzio è "quello stare con" che lo rende agente, evi­ dente, espressivo proprio là dove il rumore viene sconfitto o liberato dalla sua costrizione silenziosa. Sì, perché anche il rumore diventerà tale quando non è inserito all'interno di un contesto in cui il silenzio è davvero silenzioso, originante:

primario. Il silenzio è dunque una scelta e non l'effetto di un'as­ senza di rumore. Nel silenzio originario si prende posto se e solo se la scelta è stata compiuta, se il luogo è stato ricono­ sciuto, se ci si è intesi quali portatori di silenzio ma soprat­ tutto perdonati dal rumore. Nel silenzio siamo un sé portato all'eccesso di sé, siamo la condizione per la quale e con la quale sappiamo permetterei di ascoltarci, sappiamo essere la nostra più autentica prossimità dove la parola e la sua orma saprà farsi traccia e slargo, sentiero e radura insieme. Solo in tale silenzio il rumore riacquista la sua importan­ za: diventare frontiera oltre la quale chiedere le generalità, oltre la quale dover dichiarare tutto per passare. Il silenzio 31

vive nell'eco dell'autentico, ristabilendo una sostanzialità equilibrante. Infatti solo con il silenzio autentico l'uomo abita il silenzio condividendone gli spazi.

IV. Vivere un silenzio vivente) un silenzio che sappia fare corpo, istituire un'ulteriore sfida al proprio corpo, alla pro­ pria corporalità, è il passo che il giorno nascente dovrebbe innescare. Il silenzio vivente immette in una dinamica nuova del sentire, del percepire il proprio immediato sé nei din­ torni della sua presenza, lasciando che il tempo e lo spazio diventino parte attiva di questa presentificante e vivificante trasformazione: una metamorfosi dell'esserci.

v.

L'intesa del silenzio, la compartecipazione attiva alla sua condivisione sono le azioni decisionali adatte al suo avvi­ cinamento. Il vero silenzio elimina infatti la domanda e le domande sul silenzio (quelle che nell'assenza del rumore affiorano per riempire e consolare), conducendo il silente ad una quietudine intensa e irradiante. Nel silenzio vivo la domanda si trasforma in risposta, attuando così un'en­ nesima metamorfosi, un'ulteriore acquisizione parlante del proprio sé.

VI. Esistono diversi tipi di silenzio come esistono differenti modi per conoscerlo e recepirlo: molteplici condizioni/si­ tuazioni per inverarlo. Esiste il silenzio del tuomo che si attua 32

come scelta individuale e precisa per raggiungere una situa­ zione di alta concentrazione o come modo per rendere il pro­ prio quotidiano " differente" dall'ordinario stato delle cose. n silenzio del mistico da intendere come una condizione chiara ed evidente per innescare una comunicazione con ciò che ci trascende, con ciò che tace e resta raccolto nell'ineffabile. n silenzio del filoso/o come momento riflessivo colto e coltivato per allontanare da sé il momento della caotica dispersione del pensiero e ripristinare una concentrazione che si attua per in­ ferenza e sistematicità. n silenzio del poeta inteso come luogo della creatività e dell'attenzione verso la parola che di-svela per dire e cerca per domandare. n silenzio di Dio come suo altro modo di presenziare davanti all'essere che lo ascolta, che lo attende. n silenzio dell'epoché da intendere come momen­ to di sospensione, come istante fenomenologico nel quale il giudizio del "perché" si tramuta nella domanda del "come è". Tutte queste tipologie del silenzio (anche se il catalogo potrebbe essere più vasto), abitano il luogo della domanda, il posto dell'attesa, proprio come chi voglia sapere di sé ancora qualcosa in più che lo trascenda e nel medesimo tempo lo ri­ mandi/tramandi sempre più accanto a sé stesso, verso quella forma necessaria della "somiglianza" , ripetendoci. Non è un caso che proprio la ripetizione sia una ripresa kierkegaardia­ na del sé, dove è il tentativo della somiglianza a farci restare fedeli. Solo in questa ripresa- da intendere anche come una sorta di ritorno- il silenzio si fa prossimo e luogo dell'attua­ zione. Scrive Jabès: "La ripetizione è potere di somiglianza"2 ed è proprio questa prossimità di sé ad assumere i connotati della propria fortezza.

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Edmond Jabès, Il libro delle somiglianze, op.cit., p.,75. 33

VII. Il silenzio accade per persuasione, awiene per coin­ volgimento sensoriale ed emotivo, succede per volontà e determinazione. Scrivere nel silenzio non è come scrivere col silenzio. Se nel primo caso l'allenamento alla sua abi­ tabilità si fa concreta e ritualistica, nel secondo caso è solo una disposizione effettiva ad esserne la causa e il motore primo. Scrivere col silenzio è sapersi disporre all'ascolto e all'attenzione dell'inafferrabile, dell'indeterminato, come dell'impossibile e dell'improbabile che invece possono accadere, stravolgendo le più ardue previsioni. Nella scrit­ tura è l'attesa a fare da richiamo agli eventi. Si attende per diventare e si diventa per attendere. Il poeta resta nell'at­ tesa della presentificazione della parola che gli giunge per grazia e intenzione. La poesia crea silenzio per commozio­ ne e creatività. Con lui ha un'intesa speciale: una fratel­ lanza. Alla poesia infatti occorrono tempo e silenzio per realizzare la sua decantazione, il suo distillato di senso e realtà, il suo progetto di respiro e di vita. N ella poesia il silenzio si fa traccia di un ascolto che si fa parola, si fa carne e respiro, lasciando che proprio quel prestare attenzione diventi significativo e dicente per un'esperienza radicata nell'essere che lo abita. Il silenzio diventa così segno e disegno di un destinarsi del senso, che nel verso saprà come farsi metafora, immagine, suono e rit­ mo. La poesia porta in udienza il silenzio primario, quello che prioritariamente si è esposto nella responsabilità della sua libertà. Il silenzio poetico è difatti un silenzio libertario, un silenzio capace di portarsi oltre il semplice creare attimi silenziosi, che si attiva oltre ogni imposizione, costrizione, spingendosi nell'oltre noi stessi per orientarci in un luogo capace di radunare sia un prima che un poi di noi. 34

Esso perimetra la nostra storia e la nostra esperienza trasportandoci nelle parole scelte e trascelte del poetico, per metterei in condizione di gestirle con empatia e tra­ sporto, verso una loro precisa e accogliente patria (lingua­ madre o maternale) o come direbbe Paul Celan: "una sorta

di rimpatrio". È da qui, da questo e con questo silenzio rimpatriante che il "fare" della poesia diventa concreto ed evidente, che il suo operare, attraverso parole tolte dalla chiacchiera comune, diventa autentico e vero, sapendo come farsi cre­ dere. Sì, perché una poesia deve anzi tutto e nonostante il tutto, sempre /arsi credere possibile, come impossibile, in­ tagliando nel reale quella porzione di utopia che la sa ppia sostenere in ogni modo e in ogni tempo. n silenzio della poesia è dunque un silenzio che sa come rimanere inattuale e per questo proiettato sempre verso il suo sperare d)esse­ re e cioè verso quel poi che l'attualizzerà per necessità e somiglianza.

VIII. Il valore del silenzio è sempre comparativo; deve restare evidente in un substrato che continuamente esiste. Non ci può essere silenzio sul silenzio, come non c'è solo rumore sul frastuono. Il suo valore espressivo è tale solo se il suo contrario è soggiacente, è "in potenza" , pronto per essere vissuto, preso, esperito. n silenzio presentifica sempre una conquista. Esso determina una sostanziazione del luogo de­ tonante, capace di sorreggerlo per pienezza e mai per pover­ tà, per mancanza. Il silenzio resta per fare udienza sempre, e proprio in questa epifania straordinaria, risiede il suo stupore più com­ pleto, pieno come una natalità.

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IX. Noi facciamo uso del silenzio proprio per rimarcare la sua prossimità, la sua esistenza. Ci sono diversi modi di attuare questa presentificazione. Per permettere, concedere o fare spazio ad una rifles­ sione, ad un pensiero. Per imporre o amplificare un momento d'attenzione. Per interrompere o sospendere una controversia, un dialogo senza ascolto. Per accentuare uno stato di grazia. Per definire e rimarcare un male subito/patito ingiustamente. Qui il silenzio diventa linguaggio tra i linguaggi, diven­ ta discorso tra i discorsi, imponendo la sua struttura, la sua grammatica e le sue pasture, rimarcando, a volte, la sua stessa natura nel tentativo di suturare una perdita di senso e di energia. Sì, perché il silenzio sutura il rumore che ferisce, frapponendosi tra esso, rendendolo oblio, operando una sorta di interruzione. Il silenzio non è mai un tacere, al contrario, se inteso nella sua accezione naturale, esso è sempre e comunque un parlare. Maieuticamente il silenzio fa emergere la banalità, il non necessario delle parole sperse nel chiacchiericcio della lingua, quella gettata fuori di noi per mistificare la nostra reale posizione, il nostro autentico posto nel mon­ do. Egli smaschera la falsità delle parole e delle promesse impossibili. In questa sana rivelazione il silenzio pone in soggezione la parola inautentica, non necessaria, facen­ dola rivelare per quello che è: non somigliante a nessuna e a nessuna cosa, che realmente dica di noi il vero, colto nella sua origine.

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X. Il silenzio deve detonare dalla quietudine di uno spazio che sappia occupare il posto della paura. Ci sono infatti molti modi di vivere un silenzio e spesso uno tra i tanti e, forse il più ricorrente, è quello di paragonarlo al vuoto. Non un vuoto della distanza, dell'assenza, ma un vuoto della mancanza, della pecunia. Intendere in questo modo il silenzio significa averne paura: temerlo. Significa al contempo assumere e intendere il linguaggio come suo mero riempimento e non come una vera e propria comunicazione. Spesso si parla per riempire quegli spazi terrificanti d'imbarazzo tra sé e sé o tra sé e l'Altro, quasi fosse - quel parlare - un modo immediato di interrompere una comunicazione e non produrla. In questo caso il silenzio non è pienezza ma ingombro; non è completamento ma un mero intervallo tra suoni, inerte e deprivativo. È come se si autocensurasse, svalutandosi come del resto ha già fatto gran parte della nostra cultura massificatoria, puntando sul clamo­ re piuttosto che sul valore, disperdendo energie reali e prezio­ se tra un'ondata di rumoreggiare e l'altra. Georg Steiner nel suo testo Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la lettera­ tura e tinumano, a proposito della crisi del linguaggio (e non solo), rivela il suo evidente ritirarsi dal discorso'. Sarà proprio questo suo ritirarsi a determinare lo stato di crisi dell'umano e della persona. Il silenzio non può assentarsi dal discorrere, dal parlare, ciò significherebbe togliere sia il discorrere che il parlare stesso, ponendoci nell'area inerte dell'afasia che accade non per mutismo ma per insipienza. Di fronte a ciò è chiaro che al silenzio bisogna tendere per necessaria soprav­ vivenza, aiutandolo ad essere prossimo a sé e al suo rumore.

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Georg Steiner, Linguaggio e silenzio. Saggi sul linguaggio, la letteratu ra e finumano, Milano, Mondadori, 1 972 , p. 2 8. 37

XI. Le parole che dicono realmente in un discorso sono quelle che sanno anche come rivelare le loro nicchie di silenzio, quelle che in sostanza le hanno generate, concre­ tizzate. Sono le parole autentiche, quelle che sanno come farlo/ attualizzarlo - non come paradosso ma come dono - lasciando che il calco, appunto di silenzio, le determini trasformandole in cifre disponibili ad essere allertate del nulla che le circonda. Questo tipo di silenzio- che si po­ trebbe definire archeologico - è composto dalla sedimen­ tazione/stratificazione dei significati, che le parole auten­ tiche e portatrici sane di senso sapranno come diffondere.

XII. Noi siamo anche, involontariamente, portatori/uditori del silenzio, anche quando pensiamo o crediamo di esserne immuni. Questo perché anche il suono è pregno di silenzio, come il silenzio è colmo di suono. Questa strana condizione è come una frase già esistita, un pensiero già computato, un ascolto già udito, un detto già espresso. Il silenzio non scom­ pare mai nonostante noi. Egli persiste come orizzonte/calco delle attese e delle domande, come proiezione/sfondo degli incontri e delle risposte. Come dice John Cage: "non esiste silenzio che non sia pregno di suono"} confermando ciò che di rimando sostiene Susan Sontag: "Il silenzio [. .. ] rimane

inevitabilmente una forma di parola}}. XIII. Il silenzio è anche un puro elemento della parola stessa, diventando - in una prospettiva dialettica negativa - una 38

determinazione della sua stessa esistenza. È dal "non" che conferisce "l'esserci",· è dall'assenza che egli testimonia la sua presenza. È dunque questo un silenzio che, nella sua intenzio­ ne e ieraticità, sa come condurre l'ascoltatore/recettore, ver­ so una sua più metaforica esperienza vissuta. Gli aspetti del silenzio sono molti e fanno riflettere, ponendoci nella parte giusta per accoglierli, farli nostri proprio dalla loro scompar­ sa. Come ad esempio il silenzio dell'ascolto, il silenzio della pausa, il silenzio dell'assenza, il silenzio della morte e degli abbandoni. n silenzio della solitudine, il silenzio dell'attenzio­ ne, il silenzio dell'immagine, il silenzio dell'am ore. E ancora potrei aggiungerne altri, come il silenzio del buio, il silenzio dei paesaggi, il silenzio del volto o il silenzio di una panchina. Ma ciò che li sorpassa tutti è il silenzio ieratico e ineffabile delle icone o quello impregnato di inafferrabilità, da cogliere/ recuperare nei ritratti delle madonne cinquecentesche, dove la loro immobilità!silenziosità, produce una reale e palpabile attesa, sia in senso emozionale, che spirituale. Qui ci troviamo di fronte ad una visionarietà del szlenzio che si fa domanda e nel medesimo tempo ascolto.

XIV Al silenzio- nel suo aspetto di assenza (e cioè presenza implicita)- appartiene un elemento metafisica-mistico-spiri­ tuale. Questa sua possibilità gli conferisce un 'onnipresenza derivatagli proprio dal suo essere connaturalmente "non visibile" . La sua natura acustica è primordiale, accade prima della rivelazione. n silenzio è come se precedesse la parola nella sua prossimità ventura. Da qui impartisce lo spazio e il tempo della realizzazione di suoni, da qui predispone all'a­ scolto l'ascolto stesso.

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xv

Si resta nel silenzio a volte come degli esiliati, incapaci di ve­ dere realmente il luogo della nostra effettiva permanenza, il po­ sto nel quale si va svolgendo la nostra vita quotidiana, lo spazio in cui le nostre azioni si radicano, diventando atti e decisioni. li silenzio è fatto anche d'esilio, dunque, ma non sempre è negati­ va la sua accezione. Neli'esilio si resta coatti, si resta senza patria, senza lingua, senza parole e spesso, per molti, l'esilio è dawero l'unica soluzione di sopravvivenza e di continuità che gli resta da inverare, da vivere. A volte si sceglie l'esilio per fuggire, per non condividere una scelta obbligata e oppressiva d'altri, per restare fedeli alla propria natura, alla propria lingua di partenza: lingua maternale. La stessa che parla in presa diretta col vero, la stessa che tiene e trattiene in sé tutte le nostre e altrui memorie. Una lingua capace di conservare e sostanziare tutti gli oblii come fos­ sero provviste necessarie alla crescita e alla dimenticanza. Vanno spossessandosi gli esiliati tra il silenzio che li attraversa e il tacere che li attrae. Perché il vero esilio- come sostiene Maria Zam­ brano che di questa condizione né ha fatto la sua cifra scritturale e filosofica- è di chi "va morendo} spossessandosz: sradicandosz: e

ogni volta che riprende ad andare., riparte dal suo luogo d} origine., dalla sua patria} da ogni possibile patria"4 Si resta a volte nell'esilio della propria memoria per guarire o per continuare a sperare e nel silenzio che ci accompagna compare il ritrovamento di una speranza. All'esilio come con­ dizione d'animo, oltre che come effetto di un dato controverti­ bile, appartiene la parola del silenzio}· quella che dice per tacere, che sostiene per restare sempre dalla parte di chi sa come capi­ re. Si giunge a capire sempre per intesa e mai per imposizione, si capisce per intuizione e mai per coercizione, dimostrando quanto l'interpretazione del senso dell'Altro, del testo, spesso

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Maria Zamb rano, I beati, Feltrin elli, Mil ano 1 992 , p., 3 8. 40

ci giunga come un atto di grazia, inverando quella condivisone non sospetta di chi agisce nella fedeltà della somiglianza e della fiducia. Qui il silenzio, pur essendo d'esilio, si fa portatore di libertà e di liberazione, diventando il confine e non più il limite di un possibile oltrepassamento. L'esilio fa silenzio e all'esiliato è dato il silenzio quale luogo di scambio per la comprensione e l'accettazione di una realtà tutta da comprendere e accettare. È dal silenzio che l'esiliato incomincia a creare le sue nuove parole-ancore, quelle capaci di radicarsi nell'inizio di una nuova territorialità esistenziale ed umana. n silenzio dell'esilio circonda e isola, benedice e condanna, proprio come fanno i poeti quando restano esiliati dalla loro pa­ rola, dal loro linguaggio: padroni della distanza e maestri della lontananza. Pensiamo a Dante che proprio dal silenzio coatto dell'esilio, ha saputo cantare/sopravvivere con parole capaci di narrare/segnare la Storia di un popolo e di un mondo, sapendo come fare del proprio tempo, un tempo specchio per i tempi a venire. Pensiamo a quanto la sua Commedia abbia saputo incidere il solco della classicità in nome della vita e non solo della letteratura. Dante Alighieri ha saputo, dal suo esilio e dalla visone inattuale della propria temporalità, disporsi all'ascolto del silenzio dettante poesia, con un animo posto in presa diretta alla parola, al mistero e alla logica del proprio tempo, perpetuante e presente. Egli ha incarnato il silenzio di chi si è disposto a sapere: per sapere. Ma anche a Paul Celan dall'esilio ha testimoniato il suo silenzio. n silenzio di un popolo sottratto alla propria paro­ la, incuneato in un silenzio incapace di farsi perdonare, gettato dalla bocca di Dio davanti ad Auschwitz. Celan infatti, dalla sua culla di morte- la Senna- ha spartito la sua ebraicità con l'os­ sessione della persecuzione e la sua parola poetica con la grata bruciante di un linguaggio sempre messo alla prova dalla lingua dei suoi aguzzini. Egli rumeno di Cernowitz, ebreo della deca­ dente Mitteleuropa, esiliato in una Parigi dalla lingua armoniosa ha fatto la sua scelta irrefutabile, adottando per la scrittura della sua poesia proprio quell'unica lingua usata dai suoi stermina41

tori: il tedesco. Una lingua che per lui e per molti altri ebrei tedeschi, sapeva di silenzio e di morte. Ma per Paul Celan quella lingua fu l'unica possibile per infrangere il muro dell'inumano silenzio. E con lui anche il poeta e filosofo Benjamin Fondan& ha sopportato lo straniamento della propria linguamadre, per gettarsi nella sostanzialità di una parola poetica capace di farsi carico della morte e dell'esilio, facendosi condurre alla sparizio­ ne dello sterminio nel 1 944. Entrambi hanno saputo come ri­ scattare il silenzio dopo Auschwitz, imponendo una poesia fatta di cristalli di parole, capace di sostenere la nuova grammatica dell'inumano. All'esilio appartengono molti e molti sono i poeti dell'esilio che, da quella condizione di silenziosa lontananza, scrivono messaggi in una bottiglia, sperando di essere ascoltati. In quella bottiglia tappata il silenzio diventa esplosivo, diventando richie­ sta d'aiuto. Proprio come in un altro grande poeta, il russo Iosif Brodskij, nato nell'unico paese «al mondo dove si ucczde per una poesia» aveva sentenziato Nadezda Mandel'stam (moglie del grande poeta Osip Mandel'stam, anch'egli confinato e ucciso nella propria terra, per la propria poesia). Brodskij fu un poeta che dalle sue fondamenta "straniere" ha saputo tracciare mappe di silenzio e parola, tracciati di visoni e paesaggi in cui l'esilio6 è riuscito sempre a dettargli parole e poi versi in forma d'imm a­ gini e pensieri, capaci di riportarlo nella propria madrepatria, come una sorta di linguistico rimpatrio. Ma i rimpatri si fanno spesso di nascosto, come quelli dei fuggitivi che tornano a casa per sentirsi almeno e ancora una volta, salutare col proprio vero nome, col proprio suono esatto, con il proprio alfabeto, per poi ripartire carichi di rinnovata memoria. -

5 6

B enj amin Fondane (Jasi, 1 98 9 Au schwitz 1 944) , p oeta e filosofo ru meno, esiliato a Parigi nel 1 923 e amico di Leon Sestov. losif Brodskij , Dall'esilio, Adelphi, Milano 1 98 8 . -

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XVI. Anche il pensiero vive a volte d'esilio, come di silenzio. Maria Zambrano dal suo silenzio e dal suo "esiliamento", ad esempio, ha saputo come trasformarsi in pensiero poetico: in un cuore pensante. Essa ha saputo mutare il proprio luogo d'espatrio in spazio d'accettazione, in antro protetto da un pensiero sempre posto in silenzio dall'ascolto della carità e della pazienza. Un pensiero colmo di coraggio nel quale il delirio della lontananza e della mancanza ha saputo come incarnare il proprio destino. Un destino fatto di aurore e di chiari del bosco, dove il silenzio diventa parola-arnia che raduna: coltiva. Sono così le parole plu­ rali del vero: vengono dal silenzio. Dovevano circolare queste parole senza incontrare ostaco­ li, come senza parere. E poiché tutto l'umano, anche se nella pienezza, ha da essere plurale, non doveva essercene una sola di parola, dovevano essercene varie, uno sciame di parole che andranno a riposarsi insieme nell'arnia del silenzio, o in un nido solo, non lontano dal silenzio dell'uomo e alla sua portata?

Maria Zambrano, dall'esilio e dal silenzio, ha saputo come abitare tutti i luoghi del possibile come del probabile, inne­ scando per sé e per chi con lei sapeva condividerne le sorti, una fierezza della povertà capace di riscattare il poco per il molto, la miseria per l'abbondanza. È questa la condivisione per comu­ nanza, per spartizione tra beati e cioè tra chi sa discendere nella profondità oscura di sé: [. . ] nella profondità oscura dell'abisso del proprio origi­ nario essere-gettato, e nel funesto deserto dell'interrogazio.

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Maria Zambrano ,

Chiari del bosco,

pp . , 87- 8 9 . 43

Feltrinelli, Milano 19 9 1,

ne - disvelazione, incontrano la luce della notte nella quale appare il chiaro8

Ecco qui che l'esilio si fa immensità e beatitudine, si fa silenzio beato, chiaro. n silenzio di chi è cittadino di questo mondo e d 'altro, di chi è abitatore della presenza e dell'as­ senza dell'essere e dirimpettaio del sogno.

XVII. Fanno passi da ciechi gli esiliati, vedono e sanno dal silen­ zio il rumore del mondo. Procedono a tentoni, sbaragliando ostacoli e prevedendo soglie/ostacoli a colpi di bastone rive­ stito di bianco, che dal suo ticchettio avvisa del proprio pas­ sare: segnandolo, dicendolo. Dal silenzio, a volte, si passa per ostinazione e per volontà e mai per remissione.

XVIII. I silenzi osanti parlano senza farsi udire, gridano senza farsi sentire. Dicono parole-madri tre sé e sé, sapendo che nessuno o pochi- forse troppo pochi- potranno raggiungerli nelle loro vie, tra le loro contrade di memoria che raccolgono abbandoni. Qui il silenzio crea una nuova patria che li sa accogliere, che li sa sostenere proprio come i venditori ciechi di cartoline colora­ te- descritti nella parabola di Edmond Jabès- che offrono la certezza di una memoria che non tradisce: che orienta. Davanti a Notre-Dame, un cieco vende cartoline ai tu­ risti che vengono a visitare la cattedrale: vedute colorate di

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Massimo C acciari, Para u na investigaci6n sobre la relaci6n entre Zambrano y Heidegger, in " Archipiel ag o" , 5 9, p. 51 44

Parigi. Credo che ogni esiliato sia fratello di quel venditore ambulante. Il luogo che non vediamo più, cessa di essere il nostro luogo. L'esiliato è un cieco senza territorio. Rivolto verso, confinato nel fondo della sua anima, la sua pelle è la sua frontiera; [. . . ] Segue due sentieri paralleli: quello della sua memoria e quello dei suoi passi. Capita che i passi lo tradiscano; mai la memoria. 9

È da queste mutazioni, da questi paradossi silenziosi che cambiano e fanno cambiare che il silenzio, come l'esilio, co­ struiscono case salde come fortezze e cortili ancora pieni di bambini, capaci di fare spazio al loro coro fino a sera . . . e proprio da qui si ritorna a casa, si ritrova la via. È dal silenzio che l'esiliato crea silenzio; è da questo trac­ ciato- che non termina mai di farsi parola per qualcuno e per qualcosa - che il restare in ascolto porta sempre una compagnia, uno strano modo per restare "non soli" .

XIX. Si deve coltivare il silenzio come si coltiva un orto. La cura con il quale ci si dedica viene contraccambiata con la nascita e la crescita delle proprie sementi, delle proprie radici interrare per bene. Il silenzio va imparato come si impara la scrittura, a piccoli passi, a piccole grafie, tra una cancellatura e l'altra, tra uno stropicciamento del foglio e l'altro. La scrittura si fa chiara dopo che la scrittura si chiarisce in noi, passando da immagine a senso, da segno a lettera. Così il silenzio ! Da que­ sto angolo imparato piano si colgono gli eventi che il silenzio stesso innesca per riprodursi, per interrompersi, per mettersi in pausa. Quell'esatto momento nel quale il mondo converge come un acuto dentro di noi per dirci tutto il suo vero e la sua

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Edmond Jabès, Il libro delle somiglianze. op. cit., pp, 94- 95. 45

improvvisazione passionale: vitale. E in quest'istante di verità patita, il silenzio porta con sé la carica detonante della parola che, da straniera, si fa poetica. Una parola che l'esiliato incar­ na per povertà e pienezza e il poeta trasforma in abbondanza. Sarà questo il silenzio che si fa parlante e parlerà proprio a chi ha scelto di farsi portatore d)ascolto più che di parole, proprio come l'idiota, il paria, l'emarginato che l'esiliato contempla in sé perché, come dice Maria Zambrano: L'esiliato finisce per avere solo un orizzonte senza re­ altà, l'illimitato deserto, un oceano senza nessuna isola in vista, senza reale orientamento, punto d'arrivo o meta da raggiungere. 10

Ma proprio da questo illimitato che appare, il silenzio diventa orizzonte, realtà, deserto, oceano isola e meta dove spartire il possibile, dove credere all'incredibile, con la stes­ sa forza propulsiva dei bambini che con la poesia e il silenzio sanno come vendicarsi dall'invadenza ossessiva e propulsiva di un rumore (il linguaggio imposto dagli adulti), che ha pa­ role roboanti e incredule: definitive. La forza del silenzio resta il silenzio stesso, quell'impertur­ babile sommovimento dell'aria che trattiene i respiri di tutti. Al silenzio si riconduce il silenzio, come alla parola una parola unica e potente come una data, come un battesimo capace di essere traccia ed evidenza, per chi sceglierà il pro­ prio modo di essere un silenzio nuovo. Dal silenzio si parte per raggiungerlo ed in questo cer­ chio, da questo andare dei ritornz: ciò che resta da fare è imparare a diventare portatori di silenzio.

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M . Zamb rano, I beati, op. cit., p. 4 0

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ACCADEMIA DEL SILENZIO www. lu a.it/ accademiasilenzio da u n' idea di Duccio Demetrio e Nicoletta P oll a-Mattiot Scu ol a, l aboratorio, occasione di incontro e confronto, vacanz a dal ru more. L' Accademia del silenzio è -u n lu ogo dove incontrarsi per condividere esperienze di riflessio­ ne e creatività legate al silenzio -u no spazio didattico dove seguire corsi e seminari p ratici per app rendere le p otenzialità comunicative, ideative, relazionali, terapeutiche del silenzio. -u n g rupp o di studiosi convi nti che "fare silenzio" è u n' arte, con delle regole che si p ossono imp arare, trasmettere, condividere ed esercitare. -u na comu nità virtuale e reale di persone impeg nate a p romu overe il valore, l' insegnamento e l'esperienz a del silenzio. PERCHÉ -Per diffondere u na cultu ra e u n'ecologia del silenzio, del rispetto dei lu oghi e delle persone, del piacere di re-imp arare ad ascol­ tare: suoni, voci, natura... -Per p romu overe u na " nu ova militanz a del silenzio" nei consueti lu oghi di vita, contro l'inutile rumore. -Per favorire u n app rofondimento delle occasioni e delle ri sor­ se intellettu ali che h anno la necessità del silenzio, per creare, comp orre, scrivere, camminare, leggere, pensare, dipingere, meditare ... -Per sperimentare u n " linguaggio del silenzio" , delle p au se, del giu sto tono, dell' alternanz a di ascolto e comu nicazione, come strumento dialettico, di reale integrazione e comp rensione, e come percorso di relazione. PER CHI -Per tutti coloro che già amano il silenzio, lo cercano anche in se stessi e cercano persone con le qu ali condividere questa p ass1 one.

-Per tutti col oro che h anno bisog no di nedu carsi al silenziO e di cu rarsi con esperienze intensive di vita silenziosa: anche in re­ lazione a stress emotivi, a disagi esistenziali, a momenti critici. -Per tutti coloro che in tendano iniziarsi a p ratiche che si avvalg ano del silenzio come condizione ideale; qu ali ad esempio: la scrit­ tu ra personale ed autobiografica, l a composizione e la lettu ra p oetica, l'ascolto mu sicale, l a pittura, il dialogo filosofico, la ricerca religiosa, il camminare non competitivo. -Per qu anti vogliano app rendere strumenti di teoria e p ratica del silenzio a scopo "professionale" , le cu i applicazioni sp aziano dall'u so comu nicativo a quello pedagogico, a quello creativo.