Un velo di silenzio
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Trenta capolavori visti dafth grande storico dell’arte a cura di Marco Dolcetta I Rizzoli

“Oltre all’opera d’arte a Zeri interessava tutto ciò che riguardava l’attualità e la storia del mondo dell’arte. Erano interessanti le sue barzellette, le gag, le canzoni, le telefonate: tutte situazioni in cui il suo humour si rivelava al meglio esprimendo al tempo stesso anche i contenuti culturali che spesso erano all’origine delle sue battute. Ironizzare su personaggi, credenze religiose e politiche, criticare le mode e le istituzioni, sempre con il gusto del paradosso che sottendeva una implacabile etica nel considerare le persone partendo dai particolari estetici del vestire, dei modi, dello sguardo e del linguaggio. Questo rigore senza moralismi Zeri lo applicava anche al suo guardare l’arte. Ogni personaggio, ogni avvenimento, non avevano per lui segreti e tantomeno

interrogativi. Il suo punto di vista era comunque lucido, sempre chiarissimo nel suo smontare personaggi

e atteggiamenti che considerava non autentici.” Marco Dolcetta

Questo libro raccoglie una serie di conversazioni tra Federico Zeri e Marco Dolcetta su trenta capolavori della pittura di tutti i tempi. Il tono colloquiale e lo stile vivace del discorso ci restituiscono in tutta la sua immediatezza la personalità viva e ‘parlante’, le divagazioni, la vis polemica del grande critico d’arte.

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a cosa più divertente nel corso del mio lungo rapporto con Zeri, rigidamente scadenzato dalla periodicità dovuta ai progetti comuni di lavoro sull'arte: fascicoli, libri, videointerviste,

era prevedere ogni volta di che umore lo avrei trovato. Arrabbiato con il mondo intero, con solo una parte del mondo, oppure placato. Comunque interessatissimo, dal suo ritiro dorato di Mentana, a che cosa succedesse nella capitale. Oltre all'opera d’arte gli interessava tutto ciò che riguardava l'attualità e la storia del mondo dell’arte. Erano interessanti le barzellette, le gag, le canzoni e le telefonate di Federico Zeri: tutte situazioni in cui il suo humour si rivelava al meglio esprimendo al tempo stesso anche i contenuti culturali che spesso erano all'origine delle sue battute. Ironizzare su personaggi, credenze religiose e politiche, criticare le mode e le istituzioni, sempre con il gusto del paradosso che sottendeva una implacabile etica nel considerare le persone partendo dai particolari estetici del vestire, dei modi, dello sguardo e del linguaggio. Questo rigore senza moralismi Zeri lo applicava anche al suo guardare l’arte. Ogni personaggio, ogni avvenimento, non avevano per lui segreti e tantomeno interrogativi. Il suo punto di

vista era comunque lucido, sempre chiarissimo nel suo smontare personaggi e atteggiamenti che considerava non autentici. Zeri era autentico nel vivere, nel pensare la vita, e anche nello studio della storia dell’arte, così come era autentico il suo

intuito sulla creatività dell'artista e sulla storia che aveva fatto l’opera. Bastava che ricevesse una telefonata, gli veniva descritto un quadro e in pochi secondi aveva già capito: il tempo di chiamare burberamente i suoi assistenti per farsi portare una foto dal suo archivio, che ne conteneva milioni, ed ecco che l’opera, anche minore, veniva identificata e valutata all'istante per telefono. Marco Dolcetta

Questo volume è tratto da una serie di conversazioni registrate da Federico Zeri nel corso del 1998. L'editore ringrazia Eugenio Malgeri per la preziosa collaborazione.

ISBN 88-17-86352-1 © 1999 RCS Libri S.p.A. © 1999 by S.LA.E. per le opere di Salvador Dalî, Réné Magritte e Joan Mirò Libri Illustrati Rizzoli Editor: Luisa Sacchi Coordinamento redazionale: Cristina Sartori Progetto grafico e copertina: Elena Pozzi Consulenza redazionale: Gianfranco Malafarina Realizzazione: Confusione s.r.l. Redazione: Isabella Pompei Ricerca iconografica: Marco Zuccari Impaginazione: Katharina Gasterstadt

Le biografie degli artisti alla fine del volume sono a cura dello studio Confusione.

Referenze fotografiche: Agenzia Luisa Ricciarini: p. 10, 11, 18, 19, 20, 22, 23, 24, 25, 39, 40, 54, 55, 56s-d, 92, 108, 114, 126, 127, 129, 130, 142, 143, 144, 145, 148, 149, 158, 163, 175, 224, 225.

Archivi Alinari: p. 26, 27, 59, 84. Archivi dei Musei Vaticani: p. 94, 95, 97, 98, 99. Bridgemann/Archivi Alinari: p. 2, 48, 49, 52, 60, 61, 62, 64, 65, 124, 191, 21522201

192, 193, 194, 197, 198, 200,

Archivio RCS Libri: p. 6, 21, 30, 31, 44, 47, 86, 87, 88, 89, 104, 105, 107, 109, 118, 119, 120, 121, 131, 132, 154155; 168, 189; 190, 199}‘201,7207,:210;‘211} 213, 219,227; 229) 235. D.R.: 15, 28, 29, 34, 35, 63, 74, 100, 101, 103, 117, 133, 146, 147, 152, 173, 204, 231, 237.

Giraudon/Archivi Alinari: p. 13, 43, 66, 67, 68, 69, 71, 72, 73, 90, 110, 111, 112s-d, 123, 134, 135, 139, 150, 151, 164, 165, 167, 169, 170, 171, 172, 174, 176, 177, 178, 179, 183, 186, 187, 188, 205, 206, 208, 216, 217,228.

Museum of Modern Art, New York: p. 232, 233.

Philadelphia Museum of Art: p. 202, 203. Scala: p. 32, 33, 36, 37, 38, 102, 106, 156, 157, 160, 161, 162.

Soprintendenza Beni Artistici e Storici, Milano: p. 76, 77, 80.

A pagina 2: Antonello da Messina, Sar Gerolamo nello studio, particolare A pagina 6: Gustav Klimt, Giuditta I, particolare Finito di stampare nel mese di novembre presso Litoterrazzi, Firenze

Sommario - Introduzione

7

- CIMABUE Maestà

11

- MASACCIO La Trinità

IS

- BEATO ANGELICO Nascita di san Nicola - PAOLO UCCELLO Battaglia di San Romano

33

41

49

- PIERO DELLA FRANCESCA Resurrezione

55

- ANTONELLO DA MESSINA San Gerolamo nello studio

61

- BOTTICELLI Primavera

69

- LEONARDO Ultima cena

Uni

- GIORGIONE La Tempesta

87

- RAFFAELLO Scuola di Atene - CORREGGIO Assunzione della Vergine

95

151

- CANALETTO Il ritorno del Bucintoro nel giorno dell’ Ascensione

157

- GOYA Fucilazioni del 3 maggio 1808

165

- DELACROIX La Libertà che guida il popolo

(7/0

- MANET Le déjeuner sur l’herbe

ITS

- DEGAS - MUNCH Il grido

187

195

- KLIMT Giuditta I

203

Monte Sainte-Victoire

209

DALL 103

Persistenza della memoria

ZI

- MAGRITTE

111

La condizione umana

225

- MIRÒ 119

- BRUEGEL

Danza di contadini

143

- CEZANNE

- BRONZINO

Allegoria del trionfo di Venere

Astronomo

Lezione di danza

- PONTORMO

Trasporto di Cristo al sepolcro

Cena in Emmaus

- VERMEER 27

- PISANELLO San Giorgio e la principessa

39

- REMBRANDT

- DUCCIO Maestà

- EL GRECO Seppellimento del conte di Orgaz

127

Il bell’uccello rivela l'ignoto a una coppia di amanti

- Biografie degli artisti

233 240

Introduzione Prima di tutto, certo, dobbiamo ricordare la sua dottrina. Zeri conosceva la storia dell’arte come pochi, come pochissimi. E in tutta la sua ampiezza. Basta vedere i nomi che compaiono in questa raccolta — dal Beato Angelico a Munch. La storia dell’arte non consisteva, per Zeri, in un elenco, fosse pure immenso, di nomi e di fatti. Zeri dominava, letteralmente, la storia dell’arte proprio perché era in grado di attivarla, ogni volta, mediante un formidabile sistema di relazioni.

Zeri aveva colto l'essenziale. Aveva capito quanto siano importanti, addirittura determinanti, quelle che potremmo chiamare le infinite genealogie — più 0 meno manifeste — che, nello spazio e nel tempo, legano un pittore ad altri pittori, un dipinto ad altri dipinti. E Zeri sapeva percorrerle, quelle genealogie, in tutti i sensi e in tutte le direzioni, con precisione e leggerezza.

Zeri sapeva che queste che abbiamo chiamato “genealogie” non si danno soltanto nel rapporto diretto fra maestri e allievi, fra una scuola e un’altra, fra una maniera e l’altra. Sentiva, intuiva, in un dipinto, anche il darsi di qualche eco

lontana, di qualche suggestione, di qualche ricordo... Potremmo dire che, grazie alla sua sensibilità e alla sua cultura, Zeri era în grado di considerare e di trattare “come un tesoro” non solo ogni singolo dipinto ma anche tutta la pittura. (E forse vale la pena di ricordare che la parola “testo” viene dalla parola “tessuto” che indica una stoffa costituita dall’intreccio di molti fili). In questo senso, parlare di “storia dell’arte” può sembrare, nel suo caso, persino limitativo.

E come se, per Zeri, la parola “cronologia” funzionasse in accordo con il senso profondo della sua etimologia. Cronologia, dunque, per lui, come “conoscenza del tempo”. Una conoscenza, questa, che evidentemente non si rag-

giunge ricorrendo soltanto a un qualsiasi schema di misurazione del tempo. La filologia non era, per Zeri, qualcosa di simile a una operazione autoptica tendente per sua natura prima di tutto

a isolare, a separare le singole parti di un organismo necessariamente inerte. La filologia, per lui, era piuttosto un modo per arrivare a conoscere un corpo vivente.

Il bello è (l’espressione mi sembra che vada benissimo, in questo caso), il bello è che alla fine di tutto quel lavoro, Zeri è in grado di condurci davanti a un dipinto riconsegnato, potremmo dire, al valore della sua individualità, della sua singolarità.

Forse potremmo dire che la storia dell'esperienza di Zeri è anche una storia di affetti. Lo mostrano, paradossalmente, proprio quelle parole semplici, del tutto comuni, che lui usa così spesso — magari subito dopo una analisi folgorante, geniale — per giudicare un’opera 0 un artista: “importante”, “straordinario”, “eccezionale” ... attraverso queste parole comuni è come se il tono stesso della sua voce si facesse sentire, ancora, attraverso la scrittura.

Zeri sapeva mettere in relazione un dipinto, quale che fosse, con la particolare situazione storica în cui quel dipinto era stato prodotto. Basta citare, da questo libro, la descrizione della classe al potere nella Firenze di Cosimo I dei Medici — accennata în poche righe illuminanti allo scopo di farci cogliere il senso di certi ritratti del Bronzino.

Zeri sapeva mettere in relazione un dipinto con la cultura del suo tempo. Guardate come, a proposito della pittura di Klimt, sa citare al momento giusto, e in modo del tutto sorprendente, rivelatorio, la musica di Mahler

Ci conquista, in Zeri, la sua capacità di cogliere con lo stesso sguardo, in una qualsiasi opera, l’articolarsi dell’iconografia e l’articolarsi della tecnica pittorica — la sua capacità di cogliere con lo stesso sguardo il valore che si dà nelle complesse ragioni del racconto e il valore che si dà nel puro mostrarsi di una forma. Ci conquista, in Zeri, la sua capacità di farci partecipi di questo sguardo doppio — di questo sguardo capace di contemplare la superficie di un dipinto senza farsi accecare dalla sua luce smagliante, e, nello stesso tempo, capace di scen-

dere nel profondo. Per i dipinti di Vermeer, Zeri scrive di un “velo di silenzio dato dalla luce”. Forse potremmo usarla, questa splendida espressione, per alludere al silenzio cui ci riconsegnano le parole illuminanti di Zeri, dopo averci condotto davvero davanti all’opera, davanti all'immagine. In fondo, abbiamo ogni volta l'impressione che tutto quello che abbiamo imparato da lui abbia a che fare non tanto con la nostra mente quanto con il nostro occhio, con la nostra capacità di guardare. Emilio Tadini

CIMABUE Maestà

1280-1285 circa Tempera e oro su tavola, 385 x 223 cm Firenze, Galleria degli Uffizi

Il soggetto di questa nostra breve conversazione è uno dei dipinti più noti del secolo XIII, non solo in Italia, ed è la grande tavola dipinta a tempera e oro che misura quasi 4 metri di altezza (3,85 m) x 2,23 metri di larghezza ed è oggi nella Galleria degli Uffizi a Firenze. Innanzitutto il quadro, per essere di quell’epoca, è in condizioni molto buone; non ha lacune gravi, non ha mancanze che abbiano imposto

ampie ridipinture, e in secondo luogo ha una storia, perché venne dipinto per l’altar maggiore della chiesa di Santa Trinita a Firenze e fu commissionato dai monaci di Vallombrosa. Ma già dal secolo XV fu trasferito in altro luogo della stessa chiesa, perché l’immagine dell’altar maggiore venne rinnovata e sostituita con una Trinità del pittore

fiorentino Alessio Baldovinetti. Il quadro poi già nell’inizio del secolo XIX fu trasportato all’Accademia di Firenze, dove poteva essere visto e studiato, e infine nella Galleria degli Uffizi, di cui è oggi una delle opere più preziose. La tavola può considerarsi come l’opera più importante che resta di Cimabue, pittore piuttosto disgraziato perché il suo grande ciclo di affreschi nella Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi ha subito una irreversibile alterazione cromatica, per cui è come se lo del

vedessimo in negativo. Anzi, i negativi delle fotografie di quegli affreschi ci consentono di leggerli meglio che non l’esame diretto. Inoltre un altro quadro che era molto ben conservato di Cimabue, il grande Crocefisso proveniente dalla chiesa di Santa Croce, è stato gravemente menomato dall’alluvione dell'Arno il 4 novembre 1966 e oggi è un lacerto, perché gran parte del volto è andata persa. L'affresco nella Basilica Inferiore di Assisi, la Maestà, non è così ben conservato come questo degli Uffizi. Il quadro rappresenta la Vergine seduta in trono che regge il Bambino sulle sue ginocchia. Il bambino è in atto di benedire con la destra, mentre con la sinistra regge il rotolo della sapienza divina, ed è circondato da otto angeli, mentre in basso, sotto il trono ci sono quattro profeti. Ed è da notare che mentre due profeti, quelli centrali, stanno meditando, i due laterali si sono accorti dell'apparizione della Vergine e sono entrati come in uno stato di estasi. Notiamo anche un fatto molto preciso: cioè che la Madonna è vestita di rosso con un manto azzurro coperto di striature, evidentemente di origine orientale, costantinopolitana, di quell’arte che noi oggi impropriamente chiamiamo bizantina e che è stata l’arte del mondo ortodosso. Il Cimabue, come gran parte della pittura italiana del secolo XIII, è stato violentemente e direi essenzialmente toccato da questa cultura di origine costantinopolitana, perché dopo il sacco di Costantinopoli, effettuato dai crociati nel 1204, l’Italia diventò la sede di

moltissimi prodotti artistici che vanno dai quadri alle miniature, dagli smalti alle pietre dure, rubati o saccheggiati nelle chiese di Costantinopoli. Questo massiccio afflusso doveva necessariamente influenzare la pittura italiana, tanto è vero che le opere più bizantineggianti, ad esempio della scuola di Pisa, appartengono proprio ai primi decenni del secolo XIII, appena giunta questa enorme quantità di opere. Cimabue era nato, si pensa, attorno al 1240/1245, il suo vero no-

me era Cenni di Pepo e morì poi nel 1285/1286. Abbiamo pochissime notizie sulla sua vita, però il quadro degli Uffizi già in Santa Trinita è fra quelli citati ab antiguo, per quanto alcuni studiosi abbiano negato la paternità di Cimabue per questo quadro così come del resto per tutti quanti quelli citati dalle fonti antiche. Mi sembra che uno di questi negatori sia stato Robert Langton Douglas, che fra l’altro poi è stato molto benemerito nello studio della pittura senese del ‘400. 42

Che cosa ci indica questo quadro? Ci indica da una parte un pittore radicato nella tradizione bizantina, nella tradizione di origine costantinopolitana, che tuttavia dall’altra è animato da un nuovo im-

pulso a umanizzare le figure divine. È impossibile trovare nella pittura di Costantinopoli o nei suoi derivati più diretti figure come questa della Vergine, con la sua espressione che guarda fisso verso l'osservatore come nei quadri bizantini, ma che ha una sorta di dolcezza, di affettuosità. Oppure gli otto angeli. Generalmente gli angeli delle tavole o delle miniature o dei piccoli quadri che vengono dall'Oriente hanno un aspetto molto severo, sono veramente degli attoCimabue, Madonna col bambino in trono, quattro angeli e san Francesco, 1278-80, Assisi, Basilica Inferiore di San Francesco

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ri che partecipano a una cerimonia imperiale, quindi sono presi da una sorta di spirito non dico aggressivo, ma molto duro, molto severo. Una cosa poi anch'essa molto indicativa è che, nonostante l’estrema stilizzazione del trono, c’è una sorta di latente impulso a costruirlo su tre dimensioni, cioè a creare una sorta di prospettiva, non

certo la prospettiva scientifica, che sarebbe un’assurdità, ma una

prospettiva intuitiva, quella che noi diciamo “sognata”. Esistono tentativi del genere anche nella pittura dell'Europa Orientale ma mai fino a questo punto. Notiamo poi un’altra cosa, e sono le quattro figure dei profeti. Anche qui l’origine costantinopolitana è evidente, ma c’è anche in essi una individualizzazione di sentimenti che manca alla pittura costantinopolitana che potevano vedere gli italiani. Il fatto è che con Cimabue e con altri pittori minori a lui contemporanei incomincia una sorta di percorso che poi porterà alla grande rivoluzione di Giotto, come ci si manifesta nella Cappella dell'Arena di Padova. Secondo la tradizione Giotto sarebbe stato allievo di Cimabue il quale avrebbe incontrato il giovane pastorello per caso in campagna mentre disegnava una “O”, la famosa “O” di Giotto; ma al di là del

mito, esiste davvero un rapporto fra i due, anche se non si tratta di un rapporto così diretto come si vuol far credere. Cimabue deve aver visto Giotto e deve essersi strofinato, come si dice, deve essersi sentito

leggermente attratto. A meno che, e io sono di questo secondo parere, ambedue i pittori non si fossero formati su quella che era la “scuola romana” della fine del secolo XIII, perché io nego che Giotto sia l’autore del ciclo francescano di Assisi. Secondo me quelle che passano per giottesche sono cose romane, e sia Giotto che Cimabue sono stati nella capitale della cristianità che era anche il centro culturale, artistico, politico del momento. Questa scuola romana ha dei grandi pittori: Filippo Rusuti, Torriti innanzitutto. Le poche cose rimaste in buono stato, come per esempio i mosaici dell’abside di Santa Maria Maggiore, sono di qualità eccelsa. Poi alcuni erano noti anche all’estero (Rusuti fu chiamato dal re di Francia). Ma un altro grandissimo pittore che è stato depresso ingiustamente e assurdamente è Pietro Cavallini che ha lavorato per decenni. Non si può giudicare il Cavallini dagli affreschi di bottega in

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Cavallini, Giudizio finale, particolare, 1293 circa, Roma, Santa Cecilia in Trastevere

Santa Maria Donnaregina a Napoli, o basarsi per la sua conoscenza unicamente su un’opera più matura come il Giudizio Universale di Santa Cecilia a Roma. Questa scuola è stata molto importante, ha eseguito chilometri quadrati di mosaici e di affreschi, il suo grande torto è di essere quasi completamente sparita. Io credo che il grande momento di rottura con la Chiesa orientale, con l’arte della Chiesa orientale, e l’inizio di

una scoperta di quello che è l’individuo, di quello che è lo spazio dentro cui l'individuo si muove, di quello che è l’unicità della fisionomia umana, sia proprio incominciato a Roma e non a Firenze.

Ma naturalmente dire una cosa del genere in Italia è dire un’eresia, perché innanzitutto s’infrange quello che chiamerei razzismo storico-artistico fiorentino, per cui tutto ciò che vale è nato a Firenze; e

in secondo luogo è molto difficile, se non impossibile, distruggere delle idee radicate nella maggioranza da molti secoli. Anche se venissero fuori documenti che attribuiscono a un pittore romano la Vita di san Francesco ad Assisi, non sarebbero accettati perché è quasi impossibile far cambiare razionalmente idea a chi da secoli crede in un modo diverso. È come l’attribuzione della Venere di Dresda a Tiziano: è sicuramente un Tiziano, non ha niente a che fare con Giorgio15

ne, ma se lo si dice si rimane sotto l’anatema, perché quella è un’idea fondamentale e quando le idee, le attribuzioni sono considerate fondamentali, è quasi impossibile smuoverle. Il quadro di Santa Trinita che oggi è agli Uffizi è stato eseguito attorno al 1280-85. A quell’epoca la scuola romana era già estremamente nota e doveva avere dei monumenti e dei quadri dei quali noi non ci sogniamo nemmeno né l’importanza né l’estensione: doveva averli, ma purtroppo sono perduti. La mia opinione è che Giotto e Cimabue siano stati ambedue attirati dalla scuola romana della fine del Duecento. Cimabue ha avuto una grande fortuna a cominciare dai versi di Dante, nel Purgatorio, nel primo canto, scritti probabilmente intorno al 1310/1315, versi che dicono “credette Cimabue nella pittura / tener lo campo ed ora ha Giotto il grido / si che la fama di colui n’oscura”. Questi versi del sommo poeta italiano conosciuto e letto in tutto il paese hanno certamente contribuito a tener viva la fama di Cimabue almeno come maestro di Giotto; tuttavia egli doveva essere però anche molto famoso in vita. Innanzitutto lo possiamo vedere dalla quantità dei pittori fiorentini che sono stati influenzati dal suo stile. Ce ne sono di anonimi come il Maestro della Maddalena; ce ne sono altri che lo hanno modificato come Corso di Buono, eccetera; ma ce ne sono alcuni molto

notevoli. D'altra parte lo stesso Cimabue era stato chiamato a partecipare alla decorazione musiva della volta del Battistero di Firenze, il che significa che era un pittore molto noto. Poi era stato chiamato dai francescani ad eseguire gli affreschi prima nella Basilica Inferiore, in gran parte distrutta, poi nella Basilica Superiore: e anche questo dimostra che era molto noto. La sua fama però a un certo momento è stata obliterata da quella del suo presunto allievo Giotto; allievo presunto, perché non abbiamo nessuna prova che Giotto sia stato a scuola da Cimabue. D'altronde anche le origini di Giotto sono estremamente oscure. Riguardo ai suoi primi anni non c’è assolutamente niente che ci imponga di attribuirgli questa o quella cosa; ogni tanto viene fuori qualche tentativo. Cimabue è molto importante secondo me proprio perché rappresenta l’agonia di quello stile orientaleggiante, costantinopolizzante, che ha tenuto campo nella pittura, non solo italiana, durante tutto il Medioevo. D'altronde la pittura di Constantinopoli non è altro che pittura classica essiccata, liofilizzata, è 16

stato detto giustamente, e l’unica isola in Italia nella quale questa pittura costantinopolitana continuerà a tenere il campo fino al 1350 è Venezia, che culturalmente era una sorta di appendice di Costantinopoli. Non dimentichiamo un fatto fondamentale (che generalmente non si dice): la chiesa di San Marco a Venezia è la copia precisa della Basilica dei Santi Apostoli di Costantinopoli. Tornando a Cimabue, e alla sua scuola, è certamente esistita un'eredità. Se Giotto è suo allievo, sarebbe venuta da lui, tutto di-

pende dal punto di vista. Ma comunque ci sono moltissimi altri pittori fiorentini che sia durante la sua vita, che dopo la sua morte, hanno risentito di Cimabue. Il fatto è che l’avvento del verbo giottesco ha completamente sconvolto la tradizione fiorentina, e d’altronde gli stessi committenti non volevano più avere niente a che fare con una pittura bizantineggiante. Tutto dipende dal modo con cui è concepita la storia dell’arte; se le cose dipendono dall’inventività dei pittori, io non ci voglio mettere becco, come si dice; ma credo che questa

grande rivoluzione sia in funzione di altri eventi, come la diffusione in Italia Centrale di certe eresie, come il tramonto di certe ideologie dei secoli oscuri medioevali, come la crisi della Chiesa, eccetera. Tut-

to dipende dal modo con cui si giudicano i fatti artistici. Io non credo che gli artisti girino in un aereo o in un pallone sopra la terra senza nessun rapporto con la società, il rapporto c’è sempre. Chi era la committenza al tempo di Cimabue? Potevano essere degli ordini religiosi, potevano essere dei podestà, potevano essere dei privati i quali volevano dei dipinti per le loro cappelle private, degli aristocratici, potevano essere delle confraternite. Il giro dei committenti è sempre quello: ordini religiosi, chiese, confraternite, autorità civili e anche dei privati molto abbienti. Oppure erano dei gruppi di persone che, per ringraziare a mo’ di ex voto la divinità o il santo protettore che presumevano li avesse aiutati, volevano esternare il fatto in un dipinto. Comunque la committenza era molto legata alla pittura, e per questo lo studio della committenza è uno studio importantissimo. Non si può seriamente analizzare la pittura, per lo meno fino al secolo XV, senza avere un’idea molto precisa delle committenze, che spesso influenzano anche lo stile. Si tratta naturalmente di committenze di tipo ecclesiastico, perché tutto a quell'epoca avviene nel seno della Chiesa. 17

DUCCIO DI BUONINSEGNA Maestà

1308-1311 Tempera su tavola, 370 x 450 cm circa

Siena, Museo dell’Opera del Duomo

La cosiddetta Maestà, uno dei quadri più importanti dell’arte europea, che oggi si conserva in gran parte nel Museo dell’Opera del Duomo di Siena, venne eseguita tra il 1308 e il 1311 da un pittore locale,

Duccio di Buoninsegna. Non sappiamo esattamente quando sia nato Duccio, ma generalmente gli studiosi pongono la sua nascita tra il 1250 e il 1260. Anche la data della morte non è nota, però abbiamo un termine ante quer che è il mese di agosto del 1319. Il pittore doveva essere famosissimo se nel 1308 l'Opera del Duomo di Siena gli affidò l'esecuzione di un gigantesco complesso pittorico destinato all’altare maggiore della cattedrale, la Maestà. La tavola, come molti altri dipinti dei secoli XIII, XIV e XV, passò di moda nei secoli XVI e XVII,

e quindi fu sloggiata dalla sua sede, relegata in ambienti secondari e anche manomessa. Il quadro era stato accolto dalla popolazione come un fatto eccezionale e fu portato in Duomo dallo studio del pittore con una grande festa. Noi abbiamo tutti i contratti di allogazione del dipinto e persino i pagamenti ai musici (pifferi, tamburini, nacchere) che accompagnarono il quadro alla sua nuova sede. La realizzazione di questo dipinto e la sua traslazione alla sede definitiva furono quindi un avveni19

mento civico, nonché reli-

gioso di primissimo ordine. In origine il quadro era dipinto su due facce, una principale con la Maestà vera e propria, cioè la Vergine col Bambino in trono circondata da angeli e da santi, e una posteriore con delle storiette. La composizione

della parte anteriore e della parte posteriore era stata

_

studiata molto bene.

Duccio, Nozze di Cana, 1311,

Nella parte anteriore

Siena, Museo dell'Opera del Duomo

abbiamo la figura della Vergine circondata da un coro di angeli, disposti in parte intorno al trono, in parte in alto nelle due ali. In primo piano, i quattro santi protettori della città, Ansano, Savino, Crescenzio e Vittore, e in secondo

piano i santi principali dell'Olimpo cattolico, Pietro, Giovanni Battista, Paolo e Giovanni Evangelista, Caterina d’Alessandria e Agnese. In

alto ci sono mezze figure che rappresentano i dodici apostoli. La parte principale aveva poi in basso una predella la quale rappresentava le storie dell’infanzia di Gesù, alternate con piccole figure verticali di profeti. Le storie cominciavano con l Annunciazione e finivano con la

Disputa con i dottori. Il verso era composto da tutta una serie di storiette che rappresentavano la Passione di Cristo, la quale poi era completata nella predella da storie della vita pubblica del Redentore (Tentazione sul monte, Vocazione di Pietro e Andrea, Nozze di Cana, eccetera).

Il recto del coronamento aveva le storie della Vergine dopo la morte di Cristo, e il verso del coronamento aveva le storie di Cristo do-

po la Resurrezione. A questo poi bisogna aggiungere una serie di cuspidi e di pinnacoli che sono quasi completamente persi. Purtroppo il quadro era dipinto su un’unica tavola da ambedue le parti. Nel secolo XVIII si decise di separare il davanti dal dietro e venne effettuato un taglio verticale spezzando il quadro in vari frammenti ma soprattutto danneggiando la parte anteriore con dei tagli: il 20

più vistoso è quello del viso e del manto della Vergine. Più tardi cuspidi, pinnacoli e parecchie storie furono o rubati o alienati e si trovano oggi in vari musei

stranieri (Londra, Washington, eccetera). L'insieme più importante è però ancora conservato nel Museo dell'Opera del Duomo. Il pittore veniva consi-



derato dalle fonti antiche co-

Duccio, Tertazione sul monte, 1311,

me un seguace della maniera

New York, Frick Collection

greca, fedele cioè a quel modo di dipingere che noi oggi chiamiamo impropriamente bizantino. In effetti l’arte prodotta dall'Impero Romano d’Oriente viene oggi definita bizantina con un termine improprio, perché i bizantini come popolo non sono mai esistiti. L’Impero Romano d’Oriente era la parte sopravvissuta dell’Impero Romano dopo il crollo dell'Impero Romano d’Occidente, ma era ancora Impero Romano, era un impero che era romano di legge, greco di lingua (e non più latino) e soprattutto di religione cristiana e non più pagana. Questo impero ha prodotto un'arte, la quale è divenuta poi l’arte ufficiale della chiesa ortodossa e ancora oggi esiste nella pittura di icone, prodotta non solo in tutte le aree di religione ortodossa, ma spesso collezionata e molto stimata anche da una quantità di raffinati conoscitori di pittura antica. È un’arte comunque che nelle sue espressioni più pure non ha assolutamente nulla a che fare con quella che è la pittura del mondo occidentale. Ma possiamo noi definire Duccio come un pittore “greco”? Nel 1450 circa, nei Commentari di Lorenzo Ghiberti, Duccio è chiamato “nobilissimo [che] tenne la maniera greca”. Una forte formazione di carattere greco, cioè costantinopolitano o bizantino, è innegabile in Duccio e appare soprattutto in certe sue opere che vengono oggi considerate tra le più antiche. C'è per esempio una tavoletta con la Madonna col Bambino, tre francescani e angeli (Siena, Pinacoteca Nazio-

nale), che certamente mostra una forte dipendenza dalla maniera gre21

ca, così come la mostra la Madonna Rucellai, cioè la Maestà proveniente dalla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze e oggi conservata agli Uffizi, per non parlare di altre opere secondarie. La cosa che più sorprende, e che non è stata ancora investigata,

è che le opere più antiche, soprattutto la Madonna Rucellai, mostrano una forte connessione con la scuola fiorentina dell’epoca. Un chiaro legame con schemi derivati da Cimabue è evidente, però accanto a questo legame con l’arte fiorentina e italiana in Duccio, particolare dalla Maestà, 1308-11, genere, c'è innegabilSiena, Museo dell'Opera del Duomo mente una fortissima radice di origine costantinopolitana. Questo rapporto tra Duccio giovane e i mosaicisti di Costantinopoli della seconda metà del Duecento non è stato ancora investigato,

ma esistono nella città di Istanbul delle opere in mosaico,

alcune

delle

quali pochissimo studiate perché in monumenti secondari, che mostrano

una sorprendente somiglianza con le opere di Duccio.

Bisogna poi dire che in un secondo tempo Duccio deve essere stato ad Assisi, ed è molto probabile che lo si possa identificare nella navata principale della Basilica Superiore, nella parte più alta, dove esistono storie della Passione di Cristo. 22.

Lì effettivamente parrebbe che Duccio avesse collaborato. Ma la sua conoscenza delle grandi novità che si andavano agitando a Firenze, a Roma soprattutto, e ad Assisi, è dimo-

strata proprio dalle storie della Maestà. Queste storie mo-

strano un'eccezionale varietà di impianti, un’eccezionale connessione con quella che era la prima, incerta talvolta, ma ben decisa rappresentazione della terza dimensione. Ci

sono nelle tavolette della Maestà delle sorprendenti raffigurazioni di spazio, le quali non possono essere comprese, senza lo studio di ciò che il pittore pote-

si

va avere visto ad Assisi, a

È

i

Duccio, Cristo davanti ad Anna e

Firenze e probabilmente

Diniego di san Pietro, 1308-11, Siena,

anche a Roma. Tra que-

Museo dell’Opera del Duomo

ste, voglio indicare le due storiette con il Cristo davanti ad Anna e il Diniego di san Pietro, le quali sono rappresentate una sopra l’altra in uno stesso edificio e in cui abbiamo un tentativo di rappresentare per via empirica e non scientifica lo spazio dell’edificio con una complessità di tipologie e di elementi che lascia molto sorpresi. Il pittore, probabilmente, ha visto degli esempi di questi tentativi di rappresentare la terza dimensione e poi li ha rielaborati e proseguiti per suo conto. Duccio quindi è un personaggio di primissimo piano nel panorama della pittura italiana del primo Trecento. Non è assolutamente possibile capire l'insieme di quello che avveniva in Italia, senza tener 25

presenti soprattutto le storie della Maestà. Talvolta poi, come per esempio nella scena della Disputa con i dottori, la parte superiore mostra un’elaborazione e una complessità di temi prospettici che ritorneranno poi in pittura soltanto dopo cento anni. È impressionante il modo con cui questo pittore assorbe e rielabora elementi delle grandi novità della pittura italiana dell’epoca, pur mantenendo certi elementi di pittura greca che sono quelli che devono aver molto impressionato i quattrocentisti. Ad esempio, le striature dorate nei manti della Vergine e del Cristo, un elemento questo estremamente caratteristico della “maniera greca”, come veniva chiamata. Ma ancora più sorprendente, in questo complesso, è il modo con cui vari elementi della narrazione sono rappresentati proprio in funzione della loro posizione spaziale. In questo senso lo scomparto più sorprenDuccio, Disputa con i dottori, 1311, Siena, Museo dell’Operadel Duomo di Siena

dente è quello di altezza doppia, che rappresenta l’Ingresso di Cristo in Gerusalemme, dove abbiamo un primo piano con le mura e una porta semiaperta, poi la strada con Cristo che avanza e la folla che gli stende tappeti ai piedi e gli porta rami fioriti, quindi un muro, al di là del quale vi è non solo un albero con un ragazzo, ma altre mura e, in fondo, ancora un edifico poliedrico e torri. Tutto rappresentato con la precisa intenzione di superare la bidimensionalità della pittura cosiddetta greca, bizantina o costantinopolitana che dir si voglia, e per dare un’impressione di spazialità. In molti altri dettagli di questo ciclo, si sente sempre una enorme spinta verso la raffigurazione tridimensionale e nello stesso tempo si osserva anche uno scioglimento dagli strettissimi vincoli iconografici e tematici imposti dalla pittura costantinopolitana. Una pittura che non conosce libertà di interpretazione delle scene sacre, che sono tutte vincolate

da norme e da leggi severissime, così come l’immagine della Madonna si rapporta ad alcuni tipi fissi. L’impressione prodotta da quest’opera sugli artisti locali fu immensa e fino alla fine del Trecento, seppure con modifiche e apporti esterni, la Maestà di Duccio è stata una grande scuola per i pittori senesi. Una pietra miliare incrollabile che viene prima diluita e poi superata quando a Siena, intorno al 1420,

cominciano ad arrivare le prime novità del Rinascimento fiorentino. Duccio, Ingresso di Cristo a Gerusalemme, 1308-11, Siena,

Museo dell’Opera del Duomo 25

MASACCIO La Trinità

1425-1428 Affresco, 317 x 667 cm Firenze, Santa Maria Novella

Figlio di gente umile, Masaccio, che ebbe un fratello soprannominato lo Scheggia, si stabilì molto presto a Firenze, già nel 1417, per lavorare come apprendista forse nella bottega del pittore fiorentino Bicci di Lorenzo. Le opere giovanili di Masaccio sono note soltanto in parte. La più antica è un trittico scoperto non molti anni

fa in località San Giovenale di Cascia, un’opera perfettamente conservata che reca la data 1422. Il dipinto, la cui autografia non è accettata da tutta la critica, si accorda perfettamente con alcune cose, come un dipinto ad Altenburg, in Germania, già attribuite al maestro, per cui credo che sia opera di Masaccio. Ben presto, dopo il 1422 dovette avere inizio la società tra Masaccio e un pittore molto più noto di lui, Masolino da Panicale, già attivo in Lombardia e in seguito in Ungheria, con il quale Masaccio eseguì quello che è considerato giustamente il suo capolavoro, cioè gli affreschi della Cappella Brancacci nella chiesa del Carmine a Firenze. Questi affreschi mostrano una partizione di lavoro in cui da una parte è facilmente riconoscibile lo stile goticheggiante, dolce e ritmato, di Masolino da Panicale, e dall’altra invece lo stile di Masaccio, che appare al confronto quasi brutale. ZI

Chi abbia influenzato Masaccio, da quale fonte abbia preso il suo modo di condurre il chiaroscuro e la sua essenzialità, non è an-

cora noto. È molto probabile però che dietro questo stile di Masaccio vi sia lo studio della scultura contemporanea fiorentina, soprattutto di Donatello. Impressionanti, negli affreschi della Cappella Brancacci, l’essenzialità e l'immediatezza, che sono qualcosa di assolutamente nuovo nella pittura italiana ed europea. C'è da dire che in taluni dettagli viene il forte sospetto che Masaccio abbia studiato le opere di Giotto, soprattutto gli affreschi nella chiesa di Santal@rocelalPirenze:

Le figure di Masaccio sono essenziali, senza alcun ornato, con una intensità morale unica, e soprattutto vi è in Masaccio una totale soppressione

di quella ricerca del bello, del grazioso, del ritmato, che è caratteristica dello stile gotico allora imperante. Ancora più sorprendente è il fatto che Masaccio abbia lavorato insieme a Masolino, anche se le parti dei due pittori si riconoscono immediatamente. In taluni casi la tecnica di Masaccio raggiunge esiti imprevisti, come ad esempio, nell’arcone della cappella, nella scena della Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre, dove il modo con cui

Masaccio, Cacciata di Adamo ed Eva,

è dipinta Eva annulla tutti quei principi di decoro e di disegno

1425-28, Firenze, Chiesa del Carmine,

Cappella Brancacci

che predominavano nella pittura dell’epoca. Masaccio è veramente uno di quei grandissimi geni, i quali scavalcano il tempo e si esprimono con una libertà e una potenza personale che non hanno confronti. Straordinaria è la sua intuizione dell’integrità morale,

la sua

descrizione

senza orpelli dei poveri, dei malati e, nei fondi, la rappresentazione dello squallore degli edifici, tipico delle città molto affollate. L'artista ha lavorato ancora nella chiesa del Carmine, eseguendo un affresco con una grande processione di cittadini, la cosid-

detta Sagra, che purtroppo è stata demolita. Poi ha lavorato a Roma, dove, sempre

insieme a Masolino e ad alMasolino da Panicale, Peccato originale,

tri pittori, ha collaborato al-

1423-25, Firenze, Chiesa del Carmine,

la pala d’altare della chiesa

Cappella Brancacci

di Santa

Maria

Maggiore,

poi finita a Napoli e in seguito smembrata. Uno dei pannelli laterali, oggi a Londra, è certamente di Masaccio, e qui il suo stile è ancora di una potenza eccezionale, con un chiaroscuro che costruisce le figure, le quali però vivono di una intensità interiore straordinaria, nonostante il fondo oro ancora arcaizzante. Masaccio muore nel 1428 a Roma - si dice per avvelenamento — dopo aver lavorato ancora con Masolino, a quanto sembra, in una cappella nella chiesa di San Clemente. Sappiamo che queste morti per veleno venivano provocate dagli artisti delle varie città 29

in cui si recavano dei pittori stranieri. Famosa in questo senso era

Napoli nel Seicento. In genere, in tutte le grandi città, i pittori locali detestavano i pittori importati, soprattutto se si trattava di grandi personalità che potevano togliere loro il lavoro. Di Masaccio esiste poi un’altra opera, eseguita per la chiesa del Carmine a Pisa. Un grande polittico cuspidato, che fu smembrato e di cui si conoscono la tavola centrale, a Londra, la predella e i santi dei pilastri, a Berlino, e le tre cuspidi, una rimasta a Pi-

sa, una a Napoli e una al Getty Museum di Malibu, in California. Databile intorno al 1426, anche il polittico di Pisa è di potenza straordinaria. Masaccio infatti è un pittore che non scade mai, ma si mantiene sempre a un livello qualitativo costante. E, nei pilastri del quadro di Pisa, si notano accenti ritratti-

stici di straordinaria efficacia, forse ritratti dei carmelitani che avevano ordinato questa grande opera. Il catalogo di Masaccio comprende anche l’affresco con La Trinità qui illustrata e un desco da parto ora al museo di Berlino, certo il più bello di questi oggetti circolari con i quali veniva offerto il primo brodo alla puerpera, subito dopo il parto. In esso appare tra l’altro uno studio della prospettiva ragionata che certamente si rifà agli insegnamenti di Brunelleschi, Masaccio, San Girolamo e san

Giovanni Battista, pannello del

Polittico di Santa Maria Maggiore, 1427-28, Londra, National Gallery

30

Masaccio, Crocifissione di Pietro e decollazione del Battista, 1426, Berlino, Staatliche Museen

accanto al quale, con Donatello, Masaccio è riconosciuto giustamente come uno dei padri del Rinascimento. Oltre che sul fratello, autore di frontali di cassoni nuziali e di

pale d’altare di livello artigianale, Masaccio ha avuto una grande importanza nella formazione del Beato Angelico, le cui opere, con la loro essenzialità (per quanto cromaticamente e formalmente modificata), non si spiegano senza l’insegnamento di Masaccio. Ma l’artista che comincia fortemente e quasi esclusivamente al seguito di Masaccio è il giovane Fra’ Filippo Lippi, partito da una definizione dei volumi e delle masse di tipo masaccesco e convertitosi poi a una definizione formale basata sulla linea e sul disegno. Il Rinascimento fiorentino dura dunque pochissimo in pittura e ha inizio un nuovo stile linearistico, disegnativo, di con-

torno, di cui le espressioni più tarde e più mature saranno Sandro Botticelli e Filippino Lippi. Ma la grande potenza espressiva di Masaccio, la sua definizione del volume, e soprattutto la straor-

dinaria penetrazione psicologica presente negli affreschi del Carmine non appaiono più nella Firenze caduta sotto la signoria “mascherata” dei Medici. A Masaccio, una volta caduti i Medici, si

rifarà invece un pittore del primo Cinquecento fiorentino, Ridolfo del Ghirlandaio. 31

PISANELLO

San Giorgio e la principessa

sii

1436-1438

circa

Affresco, 223 x 620 cm Verona, Chiesa di Sant'Anastasia

ni eno

Il grande affresco con San Giorgio che si accinge a liberare la principessa dal drago, che si trova a Verona, nella chiesa di Sant’ Anastasia, sulla facciata della Cappella Giusti, è considerato giustamente uno dei capolavori di un sommo artista della prima metà del Quattrocento, Antonio Pisano, soprannominato Pisanello. Era nato nel 1395 non si sa bene se a Verona oppure a Pisa. Il padre comunque era pisano e se Pisanello nacque a Verona vuol dire che la famiglia faceva parte di quella trasmigrazione tra Pisa e Verona che era avvenuta alla fine del secolo XIV quando le due città per un certo periodo furono sotto il dominio visconteo. Pisanello è noto sia come pittore, sia come medaglista. Si può anzi dire che come medaglista, almeno a giudizio di molti conoscitori e storici dell’arte, egli sia il più grande di tutti i tempi. La potenza sintetica che mostra sia nell’effigiare di profilo alcuni potenti della sua epoca, sia nella scelta del verso delle medaglie, con motti, simboli e attributi va-

ri, e il modo stesso con cui sono eseguite queste medaglie, fanno di ogni esemplare un vero e proprio capolavoro. Come pittore Pisanello è sopravvissuto in poche opere perché la maggior parte di ciò che egli aveva eseguito, soprattutto ad affre35

Pisanello, particolare dal Torneo cavalleresco, 1439-42, Mantova, Palazzo Ducale

sco, è andata distrutta. Alcuni suoi lavori sono riapparsi di recente,

ad esempio una sala importantissima con la rappresentazione di un torneo riscoperta soltanto nel secondo dopoguerra nel Palazzo Ducale di Mantova, dove era stata imbiancata. Però sono persi completamente gli affreschi da lui eseguiti in altre città. Uno dei casi più gravi avvenne a Venezia in Palazzo Ducale, dove egli aveva eseguito una grande scena nella Sala del Maggior Consiglio, una scena iniziata da Gentile da Fabriano e che rappresentava un episodio della guerra fra Federico Barbarossa e papa Alessando III. Quindi vi fu una collaborazione con Gentile, ma l’affresco andò completamente distrutto nell’incendio che nella seconda metà del secolo XVI devastò il piano superiore di Palazzo Ducale. Un altro caso, forse ancora più grave, è quello che riguarda la cattedrale di Roma, cioè la basilica di San Giovanni in Laterano. L'intera navata centrale era stata affrescata da Gentile da Fabriano, il quale però morì nel 1427 e quindi venne chiamato Pisanello che continuò l’opera di Gentile. In questo caso c’è da 34

pensare che non di una continuazione si trattasse, ma di

una collaborazione già avviata in precedenza, perché Gentile lasciò a Pisanello i propri strumenti di lavoro. Quest'opera durò fino al 1433. Non bisogna dimenticare che della sua produzione si deve essere salvato non più del 58%. Abbiamo anche quadri su tavola, alcuni splendidi come l'Apparizione della Madonna ai santi Antonio Abate e Giorgio

della National Gallery di Londra. Ma in generale Pisanello è uno di quegli artisti i quali hanno subito una falcidia spaventosa per il mutare del gusto nelle varie epoche. Quando il

Pisanello, Apparizione della Madonna ai

gusto gotico a cui‘ appartene-

santi Antonio Abate e Giorgio,

vano è stato considerato obso-

Li

NASA

leto, vecchio, noioso, ad esempio nel secondo Rinascimento, le sue opere sono state distrutte senza

pietà. Una seconda ondata di distruzione c’è stata con il Barocco. Quando il grande Barocco controriformato restaura molte chiese, mol-

ti palazzi, le opere gotiche vengono considerate assolutamente insignificanti. E infine questi artisti hanno sofferto per l’incuria in cui sono state tenute le loro opere. L’affresco qui considerato è praticamente sopravvissuto solo a metà perché la parte superstite venne distaccata dal muro nel secolo scorso in quanto una terribile infiltrazione di umidità e di acqua piovana dal tetto aveva già distrutto la parte sinistra, dove è rappresentato il drago. Una piccola riparazione avrebbe potuto condurre fino a noi questo splendido capolavoro nella sua integrità. La negligenza nella manutenzione ha provocato la catastrofe, ma la parte che ci resta è di straordinaria importanza. 59)

Pisanello, particolare da Sar Giorgio e la principessa

La data generalmente viene posta intorno al 1436-38. Nel 1433 il pittore era tornato da Roma e nel 1438 era già altrove. Alcuni studiosi però spostano la datazione più in avanti, intorno al 1444-46. La scena rappresenta il santo vestito da cavaliere il quale, all’esterno di una città che alcuni identificano con l’antica Trapezunte, cioè Trebi-

sonda, sta per montare a cavallo per andare ad affrontare il drago mostruoso che è raffigurato nella parte sinistra e di cui rimangono pochissimi avanzi. La città è rappresentata con estrema minuzia: è circondata da mura, da torri di cui si vede solo la sommità, è ricchissima di edifici gotici e ha un aspetto quasi fiabesco. Ma nonostante questo aspetto fiabesco, accentuato anche dalla rupe a sinistra che incombe sul mare,

completamente percorsa da siepi, il pittore si sofferma su un dato naturalistico, cioè la porta con i due impiccati che penzolano al di fuori delle mura. Tutte le città, fino al secolo XVIII avanzato, mostravano questo orrendo spettacolo all’esterno delle mura e lungo le strade di accesso. Cioè persone condannate a morte per impiccagione o me36

Podi:

ca

Pisanello, particolare da San Giorgio e la principessa

diante il supplizio della ruota venivano lasciate dopo morte appese alle forche, in putrefazione. L'odore terribile veniva avvertito da grande distanza. I cadaveri venivano lasciati per ammonimento, e questo accadeva in paesi come l’Inghilterra, per non parlare poi delle città italiane, dove questa usanza è durata fino all’arrivo delle truppe napoleoniche nel 1797. Nonostante l’aspetto fiabesco e irreale, inoltre, ha un aspetto naturalistico anche qualche passaggio della scena con il santo che sale a cavallo. Notiamo innanzi tutto che in questo affresco lo strappo, e in precedenza l’umidità, hanno gravemente compromesso taluni dettagli, ad esempio l’armatura del santo. Prima di leggere un

affresco di questo tipo è necessario rendersi conto dello stato di conservazione dell’opera. Lo stesso cavallo, nelle sue bardature, nei suoi finimenti, era dorato, mentre il santo quasi certamente aveva delle finiture d’argento. Tutte cose che sono andate perse durante lo strappo e che probabilmente erano già perse in precedenza a causa della cattiva manutenzione della chiesa. DI

Il santo sale a cavallo, con un

piede su una staffa, con un atteggiamento estremamente naturalistico,

nonostante l’aspetto irreale, fiabesco, quasi da “racconto delle meraviglie”. Aspetto che è accentuato anche dalla figura della principessa, la quale è vista perfettamente di profilo, come fosse una medaglia, ha i ca-

pelli avvolti in una acconciatura assai elaborata, con delle fasce che

trattengono l’enorme massa dei capelli, e ha la caratteristica fronte stempiata che è tipica di certe mode del Gotico dei primi decenni del Quattrocento (ma in voga, come ap-

pare in certi dettagli di affresco, anche negli anni Sessanta e Settanta), per cui la fronte della donna veniva depilata con una candela accesa. Se si guarda la figura della principessa, il modo con cui i capelli sono attaccati a metà cranio è assolutamente

innaturale perché le donne si sottoponevano

a questo supplizio per

avere una fronte più alta. La principessa è vista di profi-

Pisanello, particolare da San Giorgio

lo, indossa un abito sontuosissimo

e la principessa

di stoffa e di pelliccia, e la cosa più curiosa è lo strano abbigliamento sia del santo, sia del gruppo di guerrieri visibili in alto a sinistra. Il primo di essi, in particolare, ha un aspetto tipicamente orientale, con baffi arricciati e un’aria quasi mongola. Non bisogna dimenticare che nella seconda metà del Trecento giunsero fino a Firenze delle descrizioni di coloro che avevano invaso la parte orientale dell'Europa, la Russia: l’Orda d’Oro, Timur, cioè Tamerlano. E molto spesso nelle pitture fiorentine, senesi e dell’Italia settentrionale si trovano dei tipi fisici come questo, con dei costumi 383

che sono appunto quelli degli invasori che avevano in parte assoggettato il territorio russo. Comunque l'impressione fatta dalle descrizioni dei viaggiatori, dai disegni arrivati e probabilmente anche da alcuni prigionieri o fuggiaschi era stata enorme. Non dimentichiamo che l'Europa occidentale viveva sotto l’incubo delle invasioni fin dal IV o V secolo. Le ultime poi, quelle degli Ungari, quelle degli Avari, avevano terrorizzato l'Europa, la quale vedeva minacciato il cammino di ricostruzione percorso dopo la caduta dell'Impero Romano per qualche nuovo arrivo di “mostri” provenienti da Est. È tutto il mondo fiabesco e irreale dell’arte gotica. Notiamo infine un particolare straordinario. È la piccola barca la quale si sta avvicinando con la vela gonfia per il vento che la sta spingendo. Tutto l’assieme manca completamente di qualsiasi accenno a una prospettiva razionale. Ciò che conta sono soltanto i dati del racconto, che vengono enfatizzati con un ricchissimo apparato decorativo (le fogge, le armature, gli elementi esotici) e con descrizioni molto precise dei cani, per cui troviamo un cane da caccia con la museruola accanto a un cagnolino da grembo. Anche questo è un altro dato tipico di questa civiltà “cortese”, per cui il fatto tragico viene mescolato ad elementi decorativi, narrativi, esornativi. E

il cane mostra Pisanello in un’altra delle sue specialità: la rappresentazione degli animali. Egli infatti è un grandissimo osservatore degli animali, come molti altri artisti del Gotico, ad esempio in Lom-

bardia Giovannino de’ Grassi. Sono tutti aspetti di quel naturalismo il quale molto spesso è innestato in un tessuto irreale di pura fantasia. I cani d’altronde erano un elemento molto curato nella rappresentazione dovuta ad artisti di questa fase culturale. Molto spesso noi sappiamo che cani appartenenti ai duchi di Milano, ad esempio i Visconti, o ad altri signori della Valle Padana, erano particolarmente raccomandati agli artisti affinché fossero rappresentati in modo vero, fossero cioè dei veri e propri ritratti. Nell’affresco di Sant'Anastasia un altro esempio di questa straordinaria acutezza di Pisanello nel rappresentare animali si trova nella parte più guasta, quella di sinistra, dove nell’angolo inferiore abbiamo una grossa lucertola la quale si sta muovendo attraverso degli ossami di animali o di esseri umani divorati, accanto a una testa d’ariete e al cranio

probabilmente di un bovino. Tutto è osservato con estrema lucidità. 30

e Pirri)

BEATO ANGELICO

Nascita di san Nicola

1447-1449 Tempera su tavola, 34 x 60 cm Roma, Pinacoteca Vaticana

La tavoletta che esamineremo qui fa parte della predella di un trittico, opera di un grandissimo pittore del primo Rinascimento fiorentino, il Beato Angelico. Il trittico è stato eseguito nel 1447-49 per la Cappella di San Nicola nella chiesa di San Domenico a Perugia, la chiesa dell’ordine domenicano: al centro la Vergine col Bambino in trono con angeli, e ai lati due tavole, ciascuna con due santi. Alla sinistra della Madonna, san Giovanni Battista e santa Caterina di Alessandria (opera probabilmente di aiuti, anche se molto dotati), mentre sulla destra, nel posto

più importante, san Domenico, il santo a cui è dedicata la chiesa, e quello a cui è dedicata la cappella, san Nicola. Quest'ultimo è un santo originario di Mira, in Asia Minore, il cui corpo, già considerato miracoloso da secoli, venne poi sottratto e portato a Bari, per cui san Nicola di Mira è diventato san Nicola da Bari. Un santo molto popolare in tutta l'Europa e poi anche in America, dal quale deriva anche Santa Claus, il Natale dei paesi nordici. È invocato dai marinai durante le tempeste, ma anche da coloro cui sono stati rapiti i bambini e dalle persone in punto di morte. Il dipinto non è in cattivo stato, anzi è in condizioni abbastanza buone. Per fortuna, perché molte delle opere principali dell’ Angelico

41

si sono conservate nello scalino (cioè nella predella) e nelle parti della cornice, mentre la parte principale, essendo stata lavata con sostanze troppo forti, è praticamente ridotta a una larva. È questo il caso della grande pala che forse era il capolavoro dell’Angelico, la Pala di San Marco a Firenze, di cui gli elementi secondari sono sparsi in musei di tutto il mondo e sono in ottime condizioni, mentre la pala principale parrebbe essere stata lavata con la cenere, una sostanza a base di soda che in un primo momento fa brillare i colori e poi in un secondo momento li annienta, li divora, continuando a lavorare per

secoli. I quadri lavati con la soda sono pressoché irriconoscibili, e tutte le mezze tinte e le ombre sono sparite. La data di nascita dell’Angelico, il cui vero nome era Guido di Pietro, entrato a un certo momento nell’ordine domenicano, non è

perfettamente nota. Viene generalmente collocata tra il 1386/90 e il 1400. È probabile però che la data del 1400 sia troppo tarda, perché già nel 1418 noi sappiamo che l’Angelico era operoso per una chiesa di Firenze, quindi era già abbastanza noto. La sua fama si diffuse subito e non solo perché appoggiato dall’ordine domenicano, ma anche per la stima di cui godeva presso molti contemporanei. Venne infatti chiamato a lavorare per altre città, tra cui Cortona e Perugia, e so-

prattutto ebbe il grande onore di decorare ad affresco due cappelle del Palazzo Pontificio a Roma, una delle quali fu demolita nel secolo XVIII, mentre l’altra è ancora in buono stato.

L’Angelico poi aveva avuto una commissione eccezionale, quella di affrescare la grande Cappella di San Brizio, la Cappella Nova del Duomo di Orvieto, dove lui si era già recato, per eseguire una parte del soffitto insieme a un suo grande allievo, Benozzo Gozzoli. Quando morì, lasciando l’opera interrotta, furono interpellati vari artisti e la scelta cadde su Luca Signorelli. La cappella che oggi è legata al nome di Luca Signorelli doveva essere dipinta dall’ Angelico. Il soprannome “Angelico” gli venne dato già verso la fine del secolo XV perché si pensava che i suoi dipinti fossero stati ispirati dagli angeli. La parola “beato” viene comunque adoperata a sproposito perché non c’è mai stato un processo di canonizzazione di questo pittore, “beato” semmai per la purezza religiosa dei suoi dipinti. L’Angelico fu sepolto a Roma e la sua pietra tombale esiste ancora nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva. 42

Beato Angelico, Trittico di san Nicola, 1447-49, Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria

La formazione dell’Angelico non è ben nota, cioè noi non sappiamo esattamente quali siano stati i suoi esordi, perché i biografi non ne parlano. Però possiamo vedere quale sia la formazione dello stile maturo del pittore e in quale ambiente egli si sia poi tuffato, proprio esaminando questo scomparto di predella. Innanzi tutto il pittore ha unito in una stessa composizione tre episodi diversi della vita di san Nicola: da una parte la nascita, al centro una sua predica, a destra il miracolo delle tre ragazze. Sono tre episodi distinti che vengono però fusi insieme da un elemento fondamentale, la prospettiva lineare, la prospettiva ragionata. È praticamente la prospettiva (la quale mostra due edifici ai lati, aperti in modo da vedere cosa accade

all’interno), insieme a una strada centrale dove il santo predica, a unire questi tre episodi che altrimenti rimarrebbero scollegati tra di loro. Interessante è analizzare il tipo degli edifici. Notiamo subito che nel fondo a sinistra c'è una costruzione rotonda con una sorta di copertura a cono tronco e una guglia la quale rammenta inevitabilmente alcune architetture eseguite o progettate dal Brunelleschi, anche nella decorazione a ghir43

lande, a festoni. Ma la stessa cosa si può dire dei due edifici laterali e della facciata di chiesa che si vede in fondo. La prospettiva ragionata è disegnata basandosi su leggi scientifiche molto precise, mentre la prospettiva dei quadri e degli affreschi del Trecento è intuitiva. Sebbene io abbia il sospetto che certi elementi fossero in atto già dal Duecento e già forse dall’antichità, perché ci sono spesso dei fenomeni molto curiosi. Mentre alcune pareti di Pompei hanno la parte inferiore in cui la prospettiva è fatta “a naso”, nella metà superiore la prospettiva ha tutta l’aria di essere ragionata perché probabilmente le due parti venivano fatte separatamente e generalmente la parte superiore, dedicata solo alla prospettiva senza figure, era studiata in un certo modo. Altrove, come per esempio nella villa recentemente scoperta a Oplonti, non lontano da Napoli, ci sono delle vedute prospettiche dove si sente la presenza di un ragionamento. Della pittura antica noi oggi abbiamo soltanto elementi decorativi di piccole città o anche di edifici importanti ma non delle sale principali (la più importante sarebbe quella di Oplonti, che pare fosse la villa di Poppea, l'imperatrice moglie di Nerone), ma è probabile che nella grande pittura, nell'alta pittura che oggi non esiste più, la prospettiva scientifica di questo genere ci fosse. Comunque nell’arte gotica italiana la prospettiva è intuita, è fatta “a naso”, dipinta per tentativi, sebbene certe volte — stranamente — nei soffitti, nelle parti alte delle rappresentazioni, già in Giotto sembrerebbe che sia in azione un ragionamento scientifico. Invece in Beato Angelico è stato fissato un punto focale verso il quale convergono tutte le linee. Viene adottata una prospettiva scientifica, la stessa che era stata studiata, codificata e messa in atto da colui che certamente è

il padre del Rinascimento italiano, Filippo Brunelleschi. L’Angelico, Masaccio, Adorazione dei Magi, 1426, Berlino, Staatliche Museen

44

che io penso fosse caratterizzato da un esordio nell’ambito di Lorenzo Monaco di cui fu uno certo momento deve essere stato colpito dalla Brunelleschi e soprattutto poi dalla massa ben scuri che appare nei dipinti di Masaccio.

gotico, probabilmente dei tanti seguaci, a un prospettiva di Filippo delimitata dai chiaro-

La cosa più interessante è che Beato Angelico porta avanti gli insegnamenti del primo Rinascimento quando ormai agonizzava.

L’Angelico è morto nel 1455. A quell’epoca la fusione fra massa, luce, chiaroscuro, tipica di Masaccio, era già entrata in una fase, non dico di agonia, ma spesso di superamento, perché già negli anni Trenta noi assistiamo a Firenze a una sorta di involuzione, cioè si ri-

torna alla linea di contorno e all’importanza basilare del disegno, mentre in Masaccio è tutto fuso insieme, non esiste una predominan-

za del disegno sulla luce, sul chiaroscuro. Questa sorta di involuzione è quella che poi ha tenuto il campo, perché comincia con Filippo Lippi (che ha un esordio masaccesco negli affreschi del chiostro del Carmine, poi passa alla linea di contorno), attraversa i due Pollaiolo,

per i quali addirittura la linea di contorno, la cosiddetta linea energetica, suggerisce persino l'anatomia interna delle figure, dell’ossatura, e poi da lì arriva a Botticelli e a Filippino Lippi. Questo grande mutamento va messo in rapporto anche con il mutamento politico di Firenze, perché negli anni Trenta si impone la dittatura “mascherata” della famiglia Medici, dei grandi banchieri. Quella che era la libertà fiorentina nominalmente rimane, ma in realtà c'è una dinastia che governa la città, dinastia che attraverso Cosimo de’ Medici passa al figlio Piero il Gottoso e poi arriva a Lorenzo e a Giuliano de’ Medici. Questo momento della vita fiorentina è generalmente descritto come un’oasi di serenità, di pace, con tutta

la popolazione dedita al bello con la “B” maiuscola, all’arte. In realtà i Medici erano persone completamente prive di qualsiasi scrupolo morale. Erano i tipici tiranni, senza dubbio più abili di altri loro con-

fratelli, del primo Rinascimento italiano. Non hanno assolutamente nulla di così abietto come Sigismondo Pandolfo Malatesta, lo stesso Federico da Montefeltro — più o meno degli avventurieri - ma sono persone senza scrupoli. La torbida situazione di Firenze è dimostrata poi dalla congiura dei Pazzi, negli anni Settanta, quando un gruppo di congiurati, guidati dalla famiglia Pazzi, cercarono di uccidere Lo45

renzo il Magnifico e Giuliano durante una messa in Santa Maria del Fiore, e riuscirono ad assassinare Giuliano mentre Lorenzo, che per caso si trovava in sagrestia, sfuggì all’attentato. Questa congiura, che poi Lorenzo, sopravvissuto, si legherà al dito vendicandosi in modo terribile, era stata organizzata dalla corte pontificia, dalla famiglia di Sisto IV Della Rovere, tant'è vero che Lorenzo si vendicherà poi con un nipote del papa, Girolamo Riario, signore di Forlì e di Imola, facendolo pugnalare in modo veramente indegno. Ma la cosa straordinaria è che in questo momento di chiusura libertaria e di involuzione, in cui il ritorno alla linea va perfettamente d’accordo con un ritorno al neoplatonismo, in altre parole all’irrazionalismo, Beato Angelico rimane al contrario fedele a princìpi di purezza, di razionalità. È una sorta di cristiano razionale e veramente rinascimentale. La tecnica dell’ Angelico è sensazionale, per chi conosca la tecnica dei fiorentini. I suoi quadri sono eseguiti con una qualità addirittura delirante, direi, quando sono in buone condizioni. La sua bottega aveva dei battiloro e degli aiuti fenomenali. Io mi diverto molto, come altra gente, a guardare con la lente i nimbi incisi nei quadri dell’ Angelico. Sono eseguiti con una perfezione addirittura maniacale. E poi da lui è uscito un grande pittore misconosciuto che è Benozzo Gozzoli. Nella predella che noi stiamo esaminando, cosa significano le tre scene? A sinistra abbiamo la nascita del santo, al centro una sua predica e a destra un miracolo molto curioso. C’era un vecchio padre che aveva tre figlie ed era vedovo. Essendosi trovato in condizioni finanziarie precarie, aveva deciso di avviare le tre figlie alla prostituzione. Avendolo san Nicola saputo, si recò di notte vicino alla casa e attraverso una finestra gettò all’interno, sul letto delle tre fanciulle, tre palle d’oro massiccio in modo da far loro una dote e impedire che si degradassero. Qui il pittore ha costruito l’edificio in modo da lasciare la porta aperta e mostrare il padre che dorme seduto su una panca e le tre fanciulle a letto. Cioè tutto è mostrato, nulla è nascosto. Questo

è un artifizio che deriva anche dall’antichità classica. Notate anche la luce della parte di destra che allude appunto nell’interno all’oscurità della notte, mentre all’esterno la luce diurna è un po’ abbassata. La cosa splendida è poi la gamma cromatica. A sinistra invece l’episodio della nascita del santo è caratterizzato dal fatto che, appena nato, egli si alza in piedi sulla vaschetta

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Beato Angelico, Guarigione del diacono Giustiniano, particolare dalla predella della Pala di San Marco, 1483-40, Firenze, Museo di San Marco

nella quale lo stanno lavando. E al centro c’è un episodio, anch’esso tipico della leggenda. Cioè, essendo morto il vescovo di Mira, era stato profetizzato che il primo che fosse entrato nella chiesa sarebbe poi diventato vescovo a sua volta. E qui vediamo il santo, giovane ancora, con una tunica rosa, il quale, dopo avere ascoltato la predica, si sta avviando verso la chiesa dove entrerà, essendo la porta

aperta. Quindi abbiamo la Nascita, la Vocazione, e poi il Primo grande miracolo che è quello delle tre borse o tre palle d’oro. A differenza di altre parti del Polittico di Perugia, la predella non sembra mostrare l’intervento di aiuti. Qui tutto sembra autografo. Ed è un quadro straordinario per la cura dell’esecuzione. Io

vorrei che si notasse ad esempio come la profondità spaziale sia sottolineata dal piccolo tetto che copre la porta della casa dove dormono le tre fanciulle, e sopra ancora dalla canna la quale è sostenuta da appoggi in ferro, canna che serviva ad asciugare i panni messi a stendere. In sintesi, tutto quanto è visto in funzione della profondità spaziale e della tridimensionalità, cioè della prospettiva, che è la grande invenzione del Rinascimento fiorentino.

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PAOLO UCCELLO

Battaglia di San Romano

liboicirca tempera su tavola, 182 x 317 cm Londra, National Gallery

Il soggetto del dipinto è la battaglia combattuta a San Romano dai senesi, condotti da Bernardino della Ciarda, contro i fiorentini, guidati

da Nicolò da Tolentino. Il quadro fa parte di una serie di tre grandi tavole unite in origine in un’unica storia continua, collocata in una stan-

za al pianterreno di Palazzo Medici, a Firenze. Quando il palazzo venne dapprima saccheggiato, poi rimodernato alla fine del secolo XVII, i tre quadri furono trasferiti alla Galleria degli Uffizi, ma in seguito due vennero venduti come doppioni inutili e trovarono la loro strada, uno verso il Louvre, dove entrò con la collezione Campana acquistata da Napoleone III, mentre l’altro, il più bello e meglio conservato, passò all’antiquario Lombardi Baldi di Firenze e con tutta la sua raccolta alla National Gallery di Londra. I tre quadri però formano un'unità e quello di Londra era con ogni probabilità quello centrale. Le tavole sono sempre citate come opera di un pittore celeberrimo, Paolo di Dono, soprannominato Paolo Uccello, nato nel 1397 da un barbiere fiorentino, Dono di Paolo, e morto nel 1475. Ricostruire la storia di Paolo Uccello è una questione estremamente complessa. Esiste un’opera ad affresco del 1416, firmata, che è

un tabernacolo stradale oggi nei depositi della Soprintendenza di Fi-

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renze, il cosiddetto Tabernacolo dei santi Lippi e Mattia, in cui noi vediamo un artista strettamente legato alla pittura del tardo Trecento e del primo Quattrocento fiorentino, soprattutto alla cerchia di Lorenzo di Nicolò Gerini e di Spinello Aretino. Non dobbiamo dimenticare che la data della Battaglia di San Romano, opera di uno dei pretesi padri del Rinascimento, è il 1456, cioè quasi trent'anni dopo la morte di Masaccio. Si tratta cioè di quadri eseguiti quando il grande capitolo del Primo Rinascimento, quello di Brunelleschi, che ne è il padre, di Donatello e di Masaccio, si era già esaurito.

La cosa ancora più grave è che tra il Tabernacolo dei santi Lippi e Mattia del 1416 e le opere più mature c’è un lungo intervallo completamente vuoto. Esiste tuttavia un gruppo di opere di grande bellezza e di altissima qualità che alcuni critici attribuiscono, credo con ragione, al primo periodo dell’arte rinascimentale di Paolo Uccello, dopo l’abbandono della maniera trecentesca del Taberracolo. Queste opere giovanili, che spesso sono attribuite al Maestro di Karlsruhe o al Maestro della Cappella Bocchineri o ad altri artisti anonimi, presentano spesso dei veri e propri tour de force prospettici. I più interessanti sono gli affreschi della Cappella Bocchineri nel Duomo di Prato, con Storze della vita della Vergine, nei quali, accanto a Paolo Uccello, alcuni scomparti sono dovuti ad Andrea di Giusto, un mediocre seguace di Masaccio. Ma le parti che vengono attribuite a Paolo Uccello sono di una potenza straordinaria e indicano una ricerca prospettica estremamente acuta

e profonda. E così tra i quadri su tavola spesso anonimi, molti dei quali riapparsi negli ultimi decenni, ve ne sono alcuni, come per esempio la Natività del museo di Karlsruhe in Germania, che sono dei veri e

propri capolavori. Sono del parere che tutto il gruppo che viene spesso negato a Paolo Uccello sia invece autografo, perché, se non fosse suo,

l’autore sarebbe citato da qualche parte, mentre non abbiamo notizie di altri pittori così profondi nella prospettiva, e anche perché la qualità esecutiva e inventiva è proprio degna di un grande artista come lui. Grande non significa però che egli sia uno dei padri del Rinascimento. Molto spesso i quadri dei gruppi anonimi attribuiti a Paolo Uccello sono dei veri e propri divertissements. Si sente un artista il quale giocherella con la prospettiva ma creando dei veri e propri gioielli, non certo cose da buttar via. 50

Le altre opere sicure di Paolo Uccello sono gli affreschi nel Chiostro Verde nel Convento di Santa Maria Novella a Firenze e alcuni affreschi rovinatissimi nella basilica di San Miniato al Monte, oltre alle

vetrate del Duomo di Firenze, che vennero eseguite da vari artisti tra cui Ghiberti, Donatello, Paolo Uccello e Andrea del Castagno. L’opera

di Paolo Uccello è del 1443: un tondo con la Resurrezione e uno con la Natività. Paolo Uccello eseguì anche quattro grandi teste ai quattro lati dell’orologio affrescato all’interno di Santa Maria del Fiore, la cattedrale di Firenze, e anche queste sono databili intorno al 1443. Nella stessa sede si trova la grande rappresentazione di un condottiere inglese, un soldato di ventura, sir John Hawkwood, soprannominato da noi Giovanni Acuto, che fu eseguita nel 1436: un affresco strappato e riportato su tela, oggi in condizioni non molto buone. Nella Battaglia di San Romano notiamo innanzi tutto una cosa: dei tre dipinti il meglio conservato è quello di Londra, in cui la pelle, la superficie pittorica non è stata devastata come negli altri due elementi, e mostra che molte armature metalliche sono state eseguite con una foglia sottilissima di vero argento applicata e brunita con accorti procedimenti, cioè scurita in talune parti per dare il rilievo del metallo. Coprendo talune parti dell’argento e lasciando le altre esposte a un fumo di zolfo bruciato, si brunivano alcune parti, così invece di avere una superficie lucida e uniforme si aveva un certo modellato. Sia nella tavola degli Uffizi che in quella del Louvre questi particolari tecnici sono spariti, perché pulire incautamente una superficie eseguita in argento significa distruggerla del tutto scoprendo quello che è il bolo sottostante. Quindi gran parte della luminosità di queste due tavole è sparita. Esaminiamo ora il dipinto degli Uffizi, il quale mostra Bernardino della Ciarda, il condottiero dei senesi che, disarcionato, cade da caval-

lo. Il quadro è molto interessante per il modo in cui è impostata la scena. Innanzi tutto ai due lati abbiamo una sorta di coppia di quinte equivalenti, come in una scena teatrale, formate dalle lance bianche e

rosse dei soldati. Quindi c’è una sorta di inquadratura, mentre nel fondo c’è un paesaggio, composto da una collina divisa in piccoli appezzamenti di terra, circondati ciascuno da una siepe. In questo fondo, oltre ad alcuni soldati, notiamo anche un levriero il quale insegue delle lepri: quindi abbiamo una visione naturalistica. Ma il fatto più interessante è in primo piano ed è il modo con cui 51

Paolo Uccello, particolare da Battaglia di San Romano

il pittore ha tentato di stabilire la profondità della scena, ottenuta so‘prattutto a sinistra con le lance distese sul terreno, disposte in modo da formare le linee di una prospettiva sfuggente. E due cavalli caduti a terra, uno quasi al centro, uno a destra, sono posti in modo da suggerire la profondità. Questo spiega come mai Paolo Uccello fosse definito da Vasari “pazzo per la prospettiva”: in tutti i suoi dipinti c'è una ricerca prospettica estremamente spinta. È da notare poi che questa ricerca

prospettica coinvolge quasi tutti gli elementi del dipinto. Si veda per esempio lo scudo verso l'angolo di sinistra in basso, mostrato in modo da rivolgere verso di noi soltanto una metà della sua parte esterna, dove c’è un cartiglio con un motto, ma poi si vede anche la zona interna.

Altro elemento molto curioso è il cavallo che a destra scalcia. Anche qui tutto è fatto in modo da accrescere l’effetto prospettico. E si osser52

vino pure le balestre, gli archi (ne vediamo quattro), che sono tutti disposti secondo una prospettiva estremamente audace, sia nella loro intelaiatura lignea che nelle loro corde, in modo appunto da aumentare questo senso di profondità. È da osservare che in questa ricerca, che si perfeziona poi con le piume sugli elmi dei guerrieri, anch'esse viste in prospettiva, non mancano gli accenni a una sorta di decorativismo gotico-internazionale, ad esempio negli alberi o nei pomi che si vedono a sinistra. Quindi siamo di fronte a un artista di radice gotica il quale sente in modo profondissimo la ricerca prospettica e non riesce assolutamente a svincolarsi da un mondo fiabesco e di narrazione divertita. Se si osserva il quadro della National Gallery, dove notiamo gli stessi accorgimenti prospettici, ci si avvede che l'argento aveva una grande importanza nella definizione delle forme. Paolo Uccello ha anche altre opere documentate. Egli fu operoso a Urbino per Federigo da Montefeltro ed eseguì intorno al 146569 un “gradino” che serviva da predella, cioè da base, a una pala del fiammingo Giusto di Gand con l'Istituzione dell'Eucaristia e la comunione degli apostoli. Pala purtroppo giunta a noi in cattivo stato a causa di una eccessiva pulitura, credo con la soda caustica, eseguita

agli inizi del nostro secolo. Nella predella, in sei scomparti, abbiamo la storia dell’ostia profanata, cioè l'episodio dell’usuraio ebreo il quale accetta in pegno da una donna un’ostia consacrata e la porta in casa, dove l’ostia viene profanata mettendola in cucina e facendola cuocere in padella. Però il sangue che comincia a sgorgare dall’ostia richiama i soldati, i quali afferrano gli ebrei, riconsacrano l’ostia portandola all’altare e bruciano l’ebreo e la sua famiglia. La serie costituisce uno dei tipici monumenti della cultura antisemita che era estremamente diffusa nell’Italia rinascimentale e postrinascimentale. Un altro quadro splendido di Paolo Uccello è la cosiddetta Caccia al cervo dell’Ashmolean Museum di Oxford. Una cosa straordinaria in cui vediamo un gruppo di cavalieri che con una muta di cani e alcuni valletti stanno cacciando degli animali selvatici di notte in una boscaglia. Altri due capolavori sono i quadri con Sar Giorgio e la principessa nella National Gallery di Londra e nel museo Jacquemart-André di Parigi. 53

PIERO DELLA FRANCESCA Resurrezione

1460 circa Affresco, 200 x 225 cm Sansepolcro, Museo Civico

La Resurrezione, che Aldous Huxley, il grande saggista inglese, considerava il più bel dipinto del mondo, e che già Vasari definiva l’opera più importante e più bella dipinta da Piero della Francesca nella sua città, è un affresco non molto grande conservato nel Museo Civico di Sansepolcro. Rappresenta Cristo che esce dalla tomba marmorea poggiando il piede sinistro e reggendo in mano il vessillo della Resurrezione, mentre in primo piano si vedono quattro soldati. Anzitutto va notato un aspetto di questo dettaglio. Non sono quattro soldati addormentati, due soli dormono, mentre quello di destra guarda sdraiato e come estatico l’immagine del Cristo risorto e un altro a sinistra, evidentemente abbagliato, si copre gli occhi con le mani. Quindi anche i soldati in primo piano sono coinvolti nell’evento. Il Cristo guarda davanti a sé e il suo volto ha una potenza magnetica. È interessante notare che, come è

stato osservato, nella prospettiva di questo quadro uno dei punti focali si trova all’altezza della cornice superiore del sepolcro, però si direbbe che vi siano altri punti disposti verticalmente proprio per impedire che la testa del Cristo sia vista di sottinsù. Un fatto molto interessante, in questo dipinto, è poi che il paesaggio non è omogeneo. Infatti, mentre la parte sinistra presenta al55

Piero della Francesca, particolari dalla Resurrezione

beri spogli, in riposo invernale, nella parte destra sono tutti coperti da fogliame verde. Questo ha un valore simbolico, significa cioè che la Resurrezione di Cristo ridà vita a un mondo addormentato. Un simbolismo del genere non è infrequente nella pittura del secolo XV. Ad esempio lo osserviamo più volte nei fondi delle piccole Madonne col Bambino di Carlo Crivelli, opere in cui questa dualità del mondo secco o morto e del mondo vivo è accentuata dalla presenza — nelle ghirlande di fiori e di frutti — di vegetali che alludono sia al Peccato originale, come la mela, sia alla Resurrezione, come il cetriolo.

La straordinaria efficacia e la suprema bellezza dell’affresco di Piero sono proprio dovute a questa immobilità iconica in cui tutto sembra immobile, ma nello stesso tempo cela un profondo movimento, sia nelle figure — Cristo che sale, l’uomo che si copre gli occhi ab56

bagliato — sia nella natura che sta rinverdendo per la Resurrezione del figlio di Dio. Piero della Francesca era nato a Borgo San Sepolcro (l'odierna Sansepolcro) tra il 1415 e il 1420 da un conciapelli e si era subito dedicato fin da giovane alla pittura. Recatosi a Firenze ebbe come maestro e collaboratore un grandissimo pittore, noto attraverso poche opere, Domenico Veneziano. Il grande ciclo eseguito da Domenico Veneziano, Piero della Francesca e altri artisti nel coro della chiesa di

Sant'Egidio è stato demolito nel Seicento e ne rimangono solo avanzi insignificanti. La fama di Piero della Francesca come pittore e come trattatista si diffuse immediatamente in tutta Italia. Già nel 1450 egli eseguiva infatti alcune opere nel castello degli Estensi e nella chiesa di Sant'Agostino a Ferrara, anch'esse distrutte. La stessa sorte toccò poi a una delle cosiddette “stanze” dell’Appartamento pontificio in Vaticano. L’Appartamento, dove oggi sono le Stanze dette di Raffaello, era stato edificato da Nicolò V che aveva chiamato per decorarlo una serie di pittori, soprattutto dell’Italia centrale. La prima Stanza, oggi detta della Segnatura, che contiene i celebri capolavori di Raffaello (la Scuola di Atene, la Disputa del Sacramento, le Tre Virtù, il Parnaso, ecc.), era stata dipinta da Piero della Francesca.

Quando Giulio II, intorno al 1508, decise di rinnovare l’Appartamento, ordinò la distruzione di tutte le pitture delle pareti, e dice il Vasari che Raffaello fu terribilmente addolorato nel veder distruggere le opere di Piero, che ammirava moltissimo come si intuisce anche osservando la struttura delle sue composizioni, derivata da Piero. Pare, secondo il Vasari, che Raffaello facesse anche delle copie

degli affreschi distrutti, ma si ignora dove siano finite. Ma altre opere di Piero sono andate distrutte, e personalmente penso che della

sua produzione non esista più del 10-12%. L’opera più importante che resta di lui è ad Arezzo, nel coro della chiesa di San Francesco. È il ciclo che rappresenta la Storia della Vera Croce, ordinato in origine a un pittore di serie B, Bicci di Lorenzo, l'esponente più nobile di una operosissima dinastia di pittori fiorentini. A noi sembra quasi impossibile che alla morte di un pittore modesto, divulgativo e passatista come Bicci, il quale aveva eseguito le quattro vele della volta, venisse chiamato poco dopo un pittore 57

come Piero della Francesca. Il quale comunque aveva già eseguito altre opere nella sua terra d’origine, tra cui gli affreschi con gli Uorzini illustri dipinti nella casa natale e oggi noti attraverso l’unica figura superstite, l’Ercole, sciaguratamente strappato nel secolo XIX e oggi visibile nel Gardner Museum di Boston Per tornare alla figura sublime della Resurrezione, notiamo un fatto. Secondo una vecchia tradizione, naturalmente non accertata, dei quattro soldati, quello al centro, addormentato e frontale, sarebbe un

autoritratto dello stesso Piero della Francesca. La straordinaria potenza figurativa di quest’affresco è dovuta essenzialmente all’uso sapientissimo della prospettiva, il cui uso in Piero della Francesca ha effetti quasi magici. Piero è un grandissimo teorico della prospettiva e i suoi manoscritti sono stati recentemente riediti e commentati in modo molto acuto da vari studiosi. Ma questa prospettiva è sottolineata dalla luce e dal colore, nel senso che luce e colore vengono rappresentati con la più assoluta immobilità. Tutto è come raggelato nelle figurazioni di Piero. Non esiste assolutamente alcun sentimento nelle figure (salvo nell’uomo che si copre gli occhi e in quello abbacinato dalla figura). Ma come il Cristo si leva dalla tomba eretto e imperturbabile — vi è in questa figura una atarassia assoluta — così anche il mondo circostante è come sospeso in una immobilità assoluta di forme, di colori e di luce. La grande magia di Piero della Francesca è proprio quella di avere innestato sulla prospettiva, la luce e il colore. Per quanto riguarda lo stato di conservazione, va aggiunto che Piero è un grande pittore ad affresco, ma talvolta — come è stato scoperto ad Arezzo — usa tecniche sperimentali e ha ultimato anche ad olio certi dettagli dei suoi dipinti ad affresco. Questo non deve meravigliare, perché Piero è uno dei grandi artisti italiani che hanno visto la pittura fiamminga, restando impressionato da certi effetti di trasparenza e di luminosità che i fiamminghi — soprattutto Jan van Eyck e i suoi seguaci immediati — riuscivano a ottenere dalla pittura a olio. Vi sono dipinti su tavola di Piero della Francesca, nei quali il rapporto con la pittura fiamminga è evidente dal punto di vista strutturale e compositivo. Ad esempio nella Madonna di Senigallia il motivo della finestra con l’impannata di vetri attraverso cui passa la luce è sicuramente ispirato a un prototipo fiammingo. Ma vi sono quadri in cui si può dimostrare come la tecnica fiamminga della pittura a olio fosse 58

stata sì appresa da Piero, ma male usata. Ad esempio nel grande pannello della Frick Collection di New York, proveniente da un polittico eseguito per la chiesa degli agostiniani di Borgo San Sepolcro, il santo, probabilmente san Giovanni Evangelista, mostra in basso, nell’angolo inferiore a sinistra, uno strano cretto del

colore, un cretto largo, che generalmente viene considerato come sinonimo di falsità. Qui la cosa è diversa, e si

può osservare anche in altri pittori italiani (per esempio Giovanni Bellini). Il fatto è che Piero ha eseguito il suo dipinto a tempera e in quel dettaglio lo ha poi rifinito a olio, senza però tener conto

Piero della Francesca, Sogno di Costantino,

che per rifinirlo a olio la tem-

1452-66, Arezzo, San Francesco

pera doveva essere perfettamente secca. Ha applicato cioè l'olio troppo presto, e allora la trazione dell’essiccamento dell’olio non si è sposata alla trazione dell’essiccamento della tempera, provocando quel cretto che lascia perplessi. L’unico pittore in rapporto stretto con i pittori fiamminghi, il quale non sgarra, non sbaglia nell’imitarli, è Antonello da Messina, che fu probabilmente in rapporto con Petrus Christus. Piero invece non ha ben capito certe cose della pittura fiamminga e in un affresco come la Resurrezione, molti dettagli, soprattutto del fondo, sono andati per-

duti. Ciò nonostante, il quadro si presenta a noi come uno straordinario, impressionante capolavoro, una di quelle opere d’arte che vanno viste più volte per essere comprese appieno. Non esistono né precedenti, né successori di una simile immagine della Resurrezione, l’e-

vento più importante del Cristianesimo. 59

ANTONELLO

DA MESSINA

San Gerolamo nello studio

14/4 Olio su tavola, 46 x 36,5 cm

Londra, National Gallery

Esistono molte opere firmate o documentate di Antonello da Messina, però non esiste un documento preciso sulla sua data di nascita. Si presume che egli sia nato a Messina intorno al 1430, città dove morì nel 1479. La sua formazione, secondo uno scrittore del 1524,

il Summonte, sarebbe avvenuta a Napoli, nella bottega del grande quattrocentista napoletano Colantonio. L'ambiente napoletano e soprattutto la personalità di Colantonio erano profondamente condizionati dalla conoscenza della pittura fiamminga. Però in Antonello da Messina c’è qualcosa di più. Tecnicamente, compositivamente e anche psicologicamente, si avverte nei ritratti un fortissimo aggancio con un grande pittore fiammingo, il più grande allievo di Jan e Hubert van Eyck: Petrus Christus. La cosa più strana è che molti anni fa venne scoperto un documento milanese del 1456 relativo alla Camera Ducale degli Sforza dove sono citati due personaggi, uno chiamato “Antonellus sicilianus”, l’altro “Petrus de Burges”. Due

nomi che il Malaguzzi Valeri, il grande studioso che rinvenne il documento, interpretò nel 1902 come Antonello da Messina e Pietro da Bruges (il cui nome in antico era appunto Burges). Quindi i due artisti si sarebbero incontrati a Milano e questa ipotesi è stata presa 61

per buona da parecchi studiosi. Io sono tra questi e credo che Petrus Christus e Antonello da Messina si siano incontrati a Milano. Altri però hanno fatto notare che questi pagamenti non si riferiscono a pittori, bensì a dei “provvisionati”, cioè soldati e balestrieri. Ma

è anche possibile che i due pittori fossero stati infilati per i pagamenti in un ruolo che non era il loro. In certi casi la somiglianza tra Antonello da Messina e Petrus Christus è tale da potere persino generare uno scambio di paternità. È questo il caso di un bellissimo Ritratto maschile già nella collezione Holford di Londra e che oggi si trova nel Los Angeles County Museum. Tecnicamente Antonello è fiammingo al cento per cento e ha una tecnica di estrema complessità e sottigliezza che spiega anche la rovina di molti suoi quadri. Opere delicatissime dal punto di vista della corposità della materia pittorica, ma soprattutto esposte a una distruzione pressoché immediata se la pulitura è leggermente forzata. Ci sono parecchi quadri di Antonello i quali sono passati sotto le mani di incauti pulitori che hanno usato probabilmente sostanze Antonello da Messina, Ritratto d'uomo,

caustiche

distruggendoli

1474-75, Roma, Galleria Borghese

quasi completamente.

Oltre a essere stato in Sicilia, dove la sua fama fu

grande, Antonello è stato anche nel Nord Italia, so-

prattutto a Venezia, dove eseguì una pala molto importante per la chiesa di San Cassiano. Questa pala rappresentava una Madonna in trono col Bambino circondata da molti santi,

ed è citata dalle fonti quattrocentesche. Era stata eseguita tra il 1475 e il 1476 e fu un capolavoro che impressionò fortemente i pittori veneziani. Fino al 62

1945, per esempio, esiste-

va al museo di Berlino una grande pala firmata da Alvise Vivarini che era sicuramente modellata sulla Pala di San Cassiano. Tracce dell’importanza di quest’opera si ritrovano persi-

no nella Madonna di Castelfranco di Giorgione, per non parlare di Bellini e di una quantità di artisti minori. Purtroppo, già nel 1648 il Ridolfi nelle Meraviglie dell’arte deplora che la pala sia stata .itirata dalla chiesa per passare poi, non si sa come, nella colle-

Petrus Christus, Ritratto di giovinetta,

zione gigantesca dell’arci-

1460-70, Berlino, Staatliche Museen

duca asburgico Leopoldo Guglielmo, a Bruxelles. Ma quando vi arrivò, il quadro era stato fatto a pezzi ed è stato soltanto nel nostro secolo che nella pinacoteca di Vienna, dove è confluita gran parte della raccolta di Leopoldo Guglielmo, sono stati ritrovati tre grandi frammenti, cioè il gruppo della Madonna col Bambino, due santi di sinistra e due di destra. Ben

poco rispetto a quello che doveva essere la pala, che comprendeva un’enorme inquadratura architettonica con un arco cassettonato e per lo meno quattro santi a sinistra e altrettanti a destra. Dove siano finiti gli altri pezzi è un mistero, probabilmente un giorno riappariranno, sicuramente non si trovano più nelle raccolte statali austriache. Appartengono quasi certamente a una serie di quadri che furono alienati, perché molti quadri di Leopoldo Guglielmo furono venduti nel secolo scorso. Il San Gerolamo nello studio è conservato oggi alla National Gallery di Londra ed è un’opera di sottilissima esecuzione sposata a una conservazione quasi perfetta. Il quadro è documentato già nel secolo XVI ma già allora aveva sollecitato dei dubbi circa il suo 63

Antonello da Messina, particolare da San Gerolamo nello studio

autore. Ed è molto curioso perché ne parla Marcantonio Michiel nel 1529, dicendo che in una casa privata c’era: “El quadretto del S. Jeronimo che nel studio legge, in abito cardinalesco: alcuni credono che el sii stato de mano de Antonello da Messina; ma li più, e più verisimilmente, l’attribuiscono a Gianes, ovvero al Memelin,

pittore antico ponentino [...] par de mano de Jacometto”. Il quale sarebbe Jacometto Veneziano, un finissimo seguace veneziano di Antonello e di Giovanni Bellini del quale esistono due minuscoli quadri — un busto d’uomo e un busto di donna — già nella collezione dei principi Liechtenstein e oggi nel Metropolitan Museum di New York con la collezione di Robert Lehman. Due quadri splendidi, piccolissimi ma di qualità suprema, intorno ai quali è possibile riunire un gruppo di altre opere, soprattutto ritratti. Il nome di Memling sarebbe assolutamente da eliminare e non so poi chi sia il pittore chiamato Gianes, ma oggi il quadro viene generalmente considerato di Antonello. 64

Il quadro rappresenta una grande arcata di stile gotico spagnoleggiante e all’interno, su una curiosa pedana munita di scalini, san Gerolamo nel suo studio, con del-

le prospettive aperte a sinistra e a destra, una volta ar-

chiacuta e una bifora al centro. Ma la cosa straordinaria è l'impianto prospettico di questo quadro, che è ineccepibile. Un impianto complicato, ma perfetto. Nel dipinto si legge un fortissimo rapporto con la pittura fiamminga. Praticamente Antonello è il più grande “creato” della pittura fiamminga in Italia, la quale ha avuto tre momenti molto importanti. Il primo è quello di Petrus Christus, che sicura-

mente Antonello ha visto. Il secondo è quello che si produce alla fine del Quattro-

cento quando la famiglia Portinari di Firenze importa dalle Fiandre un enorme trittico per l'Ospedale di Santa Maria Nova a Firenze, che oggi si trova nella Galleria degli Uffizi: il Trittico Portinari che è

dovuto a un altro sommo arAntonello da Messina, particolare da San Gerolamo nello studio

65

tista del Nord, Hugo van der Goes, il quale è stato fondamentale per i pittori fiorentini. Tracce del suo rapporto con Firenze si trovano in Piero di Cosimo, in Lorenzo

di Credi, e persino in Leonardo da Vinci. Il quadro è stato una specie di folgorazione che l’ambiente artistico fiorentino ha ricevuto. La terza grande presenza fiamminga in Italia avviene molto più tardi, ed è quella, ai

primi anni del XVII secolo, del grandissimo genio della pittura

fiamminga,

Pieter

Antonello da Messina, Vergine annunciata, 1475,

Paul Rubens, il quale ha la-

Palermo, Galleria Nazionale

della Sicilia

vorato in tre città, lasciando

una traccia soprattutto a Roma e a Genova ma passando anche da Mantova, pittore che è il vero inventore dello stile barocco. Questi tre artisti hanno condizionato profondamente la pittura italiana. Ciò però non vuol dire che l’Italia non avesse presenze fiamminghe di altro genere, per esempio in dittici a due valve con la Madonna con il Bambino da una parte e il donatore dall’altra. Questi pittori erano noti anche a Venezia, che è stata un grande centro di trasmissione della pittura mediterranea verso il Nord e viceversa (si pensi a Bosch e a Quentin Matsys). Antonello è il frutto più importante di tutta questa trasmigrazione e il quadro di Londra è il più minuzioso, il più sottile, il più complesso come impostazione, il che spiega le ragioni per cui lo prendiamo in esame. Impostazione complessa, dicevo, che dimostra anche la formazione italiana di Antonello, il quale sicuramente ha visto Piero della Francesca (la struttura architettonica, soprattutto nel fondo di destra con il portico e la finestra, deriva da Piero); e lo stesso Piero della Francesca mostra di aver visto e studiato la pittura fiamminga, restando anche affascinato dalla tecnica a olio di questi artisti, ma 66

senza comprenderla bene. Antonello eseguì anche altre opere molto importanti per la Sicilia, dove si conserva uno dei suoi capolavori, la Vergine Annunciata della Galleria Nazionale della Sicilia. Opere importanti erano state fatte per altre città siciliane tra cui Messina, dove è rimasto un grande Trittico che, come altre

cose fatte per la Sicilia, è in mediocre stato di conservazione a causa di varie traversie come il terremoto del 1908 e alcuni incauti restau-

Antonello da Messina, Crocifissione, 1475,

ri. Un’altra opera importan-

Anversa, Musée Royal des Beaux-Arts

tissima è la splendida Axnunciazione eseguita per Palazzolo Acreide e oggi nel museo di Siracusa, devastata da innumerevoli cadute di colore. Molto belli so-

no i ritratti, tra cui vanno ricordati quello della Galleria Borghese di Roma e quello del Museo Civico di Torino, e anche gli Ecce Homo a mezzo busto. Peccato che molte volte i ritratti siano manomessi da puliture sconsiderate, che non hanno tenuto conto dell’estrema fragilità della tecnica pittorica del maestro. Le opere più antiche di Antonello sono ancora in discussione, ma il quadro più importante è senza dubbio la Crocifissione del museo di Bucarest, proveniente da Sibiu, in Transilvania; è sicu-

ramente una delle opere più antiche di Antonello, in cui si legge da una parte il rapporto con Colantonio e dall’altro lo studio diretto dei fiamminghi. Resta da dire che i modelli di Antonello da Messina hanno avuto un’enorme importanza sia al Sud che al Nord. Antonello infatti ha avuto una quantità di seguaci, tra cui il figlio Jacobello, che spesso hanno rifatto le sue immagini, ma senza raggiungerne il livello qualitativo. 67

SANDRO BOTTICELLI Primavera

iS?

circa

Tempera grassa su tavola, 203 x 314 cm

Firenze, Galleria degli Uffizi

La Primavera è forse il quadro più noto e più illustre di tutto il Rinascimento italiano, è uno dei dieci quadri europei da salvare. Il suo stato di conservazione è molto buono. Una recente pulitura ha rimosso vernici alterate, polvere e qualche piccolo ritocco, e ha dimostrato che l'epidermide del dipinto è molto ben conservata e i danni sono minimi. Il quadro è pervenuto agli Uffizi attraverso le grandi raccolte della famiglia Medici, ma non è stato dipinto per Lorenzo de’ Medici, come generalmente si crede, bensì per un altro ramo della famiglia, che abitava nella villa di Castello. Il committente fu Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, il

quale non era in buoni rapporti con il Magnifico e con l’altro ramo della famiglia per ragioni di affari e per vecchie ostilità. Dopo la morte del committente, il quadro rimase nella villa di Castello,

la quale passò a Giovanni dalle Bande Nere, il padre di Cosimo I, divenuto duca nel 1539. Con lui il dipinto fu tolto dalla villa e immesso nelle grandi collezioni di famiglia, da cui passò agli Uffizi. Va anche aggiunto che Lorenzo di Pierfrancesco fu uno dei grandi committenti di Botticelli, al quale tra l’altro fece eseguire lo splendido Pallade Atena con il centauro. 69

Il quadro è citato dalle fonti, ma fino a tempi recenti non si è mai trovata una spiegazione convincente del soggetto molto

complicato. Solo nel 1997 è stata presentata un'ipotesi che mi sembra la più attendibile. Nel quadro si vede una sorta di bosco molto denso con frutti, e in basso un prato fiorito con una quantità di vegetali descritti minutamente. Al di là del bosco c’è un paesaggio, praticamente invisibile fino alla recente pulitura, di cui in basso a sinistra si vede soltanto l’orizzonte. A destra si vede Eolo, il dio dei venti, che sta soffiando e cerca di ghermire una donna coperta soltanto di veli, la quale tenta di sfuggirgli e dalla cui bocca escono dei fiori. Segue una figura femminile bionda, alta,

che indossa un vestito con motivi floreali ed è in atto di spargere dei fiori che porta in grembo. Al centro vi è, in piedi e in atteggiamento benevolente, una figura quasi di dea, la quale guarda verso l’osservatore con il capo inclinato ed è sormontata da un cupido che vola bendato e sta per scoccare una freccia. Più a sinistra ci sono tre donne nude, coperte soltanto di veli, che danzano ritmicamente, e sono certamente le tre Grazie, mentre in fondo a

sinistra abbiamo una figura identificabile con Mercurio, il quale alza il caduceo verso la sommità degli alberi. Questo singolare tema, unico in tutta la pittura italiana ed europea, ha dato molto da pensare agli iconologi. Vi sono infiniti tentativi di interpretazione del dipinto che generalmente viene interpretato come la “primavera”. Si dice cioè che il vento a destra è Zefiro, il quale provoca l’uscita di fiori dalla bocca della primavera. La dea al centro sarebbe Venere, le tre Grazie danzano perché la primavera sollecita la ripresa della vita animale e floreale, e a sinistra Mercurio farebbe un gesto come per scacciare il maltempo. Tuttavia le interpretazioni, di cui questa è la più rozza e sommaria, sono infinite, ma nessuna di esse è del tutto convincente.

Sandro Botticelli è il grande pittore del periodo di Lorenzo il Magnifico, che è l’ultimo grande rappresentante della prima dinastia dei Medici, quella che comincia con Cosimo il Vecchio, il

pater patriae, che prosegue con suo figlio Piero il Gottoso, e che

continua con i due fratelli Lorenzo e Giuliano. Il capitolo fiorentino di Lorenzo de’ Medici è segnato in pittura da un fatto molto 70

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importante. Come già nelle prime opere di Filippo Lippi della fine degli anni Trenta e degli inizi degli anni Quaranta, noi assistiamo al declino dei modi formali del primo Rinascimento fiorentino (cioè la definizione della massa corporea attraverso la luce e il chiaroscuro, e soprattutto la assoluta mancanza di tentativi di abbellimento, di retorica estetizzante), così questa tendenza è portata al culmine e direi quasi all’esasperazione da Sandro BotBotticelli, Mercurio e le tre Grazie, particolare da Prizavera

72

ticelli. Esaminando la Prizzavera si vedrà che ogni dettaglio segue questo motivo della linea di contorno, di una linea ritmica, motivo che tocca il suo diapason nel gruppo delle tre Grazie. Questo abbandono della razionalità del primo Rinascimento fiorentino impersonata da Filippo Brunelleschi, da Donatello e da Masaccio, va d'accordo con una involuzione culturale, perché al

razionalismo del primo Rinascimento subentrano a Firenze le accademie neoplatoniche, Marsilio Ficino, e così via,

Botticelli, Venere, particolare da Prizzavera

e soprattutto viene a man-

care quella forte spinta in senso democratico che si era già fatta notare alla fine del secolo XIV. Firenze era una città dilaniata dai contrasti

sociali, con

una

ricca borghesia imprenditoriale che possedeva soprattutto fabbriche di tessuti, e una massa di operai che viveva ai limiti dell’indigenza. Questo strato sociale

di scarsissimo reddito aveva tentato di ribellarsi e vi era stato un episodio che aveva molto spaventato la borghesia, il tumulto dei Ciompi del 1378, cui avevano fatto seguito un colpo di stato e la dittatura “mascherata” della ricchissima famiglia dei Medici. Lorenzo il Magnifico è l’esemplare più puro del signore rinascimentale, allo stesso modo di Sigismondo VE)

Pandolfo Malatesta e di Federico da Montefeltro. Gente il cui altissimo livello culturale, la cui magnificenza, il cui splendore erano accompagnati da un’arte politica assolutamente dura, spietata

e aliena dal compromesso. L’altro ramo dei Medici bolliva di sdegno e non a caso una delle infinite interpretazioni del quadro, apparsa non molti anni fa, vorrebbe vedere nella Primzavera una sorta di allegoria delle condizioni politiche di Firenze e di quello che sarebbe avvenuto se fosse andato via l’altro ramo della famiglia. L’interpretazione a

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vasi

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Hugo van der Goes, Trittico Portinari, 1475-77, Firenze, Galleria degli Uffizi,

tavola centrale, particolare

mio avviso più convincente, anche perché il testo è aderente alla rappresentazione, ritiene che questo dipinto non sarebbe altro che la versione pittorica di un poema della tarda antichità che ebbe enorme successo durante il Medioevo ed era molto noto nel Rinascimento: il poema di Marziano Capella dal titolo De nuptiis Mercurii et Philologiae, un testo oggi pressoché sconosciuto che

nel Rinascimento faceva parte della formazione scolastica, pet esempio nelle scuole di retorica. 74

Ciò che più sorprende, nella Prizzavera, è la perfezione formale del dipinto, la sua coerenza formale addirittura stupefacente. Non esiste il benché minimo dettaglio che esca dalla formula stilistica del Botticelli. Questo perché il dipinto indica in molti particolari una conoscenza e uno studio non superficiale della pittura fiamminga presente a Firenze in quegli anni. Noi general-

mente sottovalutiamo l’apporto fiammingo alla pittura italiana, che è pari, se non superiore, a quello della pittura italiana in terra fiamminga. Firenze aveva avuto molti mercanti, come i Porti-

nari e i Baroncelli, i quali recandosi in Fiandra per ragioni di affari avevano immediatamente apprezzato la pittura locale. Il capolavoro che lasciò attoniti i pittori fiorentini fu il grande Tritt:co Portinari di Hugo van der Goes, un’opera fondamentale che Botticelli, in molti passaggi della Prizzavera, dimostra di aver conosciuto, come del resto lo conobbe Leonardo da Vinci.

Stupefacenti sono dunque la coerenza stilistica e il vibrare incessante della linea di contorno, soprattutto nelle tre Grazie. Esaminandole, ci accorgiamo infatti che esiste una sorta di continuità ritmica fra le tre figure, legate intimamente l’una all’altra. Anche nella donna chiamata Flora, che avanza spargendo fiori, il ritmo, più che dall’atteggiamento fisico della figura, è dato dalla linea di contorno e soprattutto dall’orlo inferiore della veste. È un’arte irreale, estremamente cerebrale e capziosa, la quale non ha più nulla a che fare con l’essenzialità di Masaccio o di Donatello. Lo stile di Botticelli venne raccolto da Filippino Lippi, il figlio di Filippo Lippi, il primo capitolo del quale è talmente botticelliano che per molto tempo la sua prima produzione è stata considerata opera di un anonimo vicinissimo a Sandro Botticelli: Bernard Berenson lo chiamava l’“amico di Sandro”. Oggi sappiamo che tali opere sono l’inizio di Filippino, nel quale la linea di contorno diventa esasperata, le figure esagitate. Quest’arte ebbe un colpo mortale con la caduta dei Medici e l’ascesa di Girolamo Savonarola. Il Botticelli, come altri artisti fio-

rentini, rimase profondamente colpito dalle prediche del Savonarola e subì una sorta di conversione, al punto che i quadri degli ultimi anni sono marcati da soggetti savonaroliani oppure presentano soggetti sacri portati al pathos drammatico più spinto e più intenso. T3

LEONARDO DA VINCI Ultima cena

1495-1497 Tempera su intonaco, 460 x 880 cm Milano, Santa Maria delle Grazie

Perché è stato prescelto questo dipinto di Leonardo? Perché assieme alla Gioconda è la sua opera più famosa. È un’opera riprodotta infinite volte, tradotta nei linguaggi più strani, persino in vetrate a colori come nel grande cimitero di Forest Lawn a Los Angeles; e perché effettivamente è un grandissimo capolavoro. Che cosa rappresenta questo grande dipinto murale (non dico: affresco)? Rappresenta l’istante dell'ultima cena di Cristo con i suoi apostoli, in cui viene istituita l’eucaristia, immediatamente dopo aver detto “Uno di voi mi tradirà”. Perché Leonardo ha dipinto questa enorme Ultima cena? Perché molto spesso il soggetto dell’U/tizza cena veniva scelto come decorazione dei refettori, e questa infatti è situata sulla parete terminale del refettorio del Convento di Santa Maria delle Grazie a Milano. Il dipinto è in pessime condizioni”, per vari motivi, sia casuali sia interni. Cominciamo dai motivi interni. Leonardo è stato un

grande sperimentatore. La curiosità infinita di Leonardo si rivolgeva anche alle tecniche pittoriche. Non credeva evidentemente che la tecnica ad affresco, la quale esige un tempo di esecuzione estremamente rapido, cioè il tempo in cui l’intonaco disteso sul muro è 77

ancora umido, potesse rendere appieno il suo mondo formale, e soprattutto quel chiaroscuro tenuissimo e delicatissimo nel quale le figure di Leonardo si fondono con l’atmosfera circostante. Quindi Leonardo ha tentato in questo grande dipinto altre tecniche, con degli olî, con delle sostanze che noi non conosciamo. Tecniche le quali poi, come spesso è accaduto in Leonardo, non si sono rivelate durature, non hanno resistito né al tempo, né alle vicende gravissime che sono avvenute presto.

Il dipinto è stato eseguito da Leonardo intorno al 1495-1497, cioè dopo il suo arrivo a Milano nel 1482, ma già nel ’97, con l’oc-

cupazione francese della città, ha subito dei gravissimi danni. Fu aperta una porta in questo muro, il refettorio era stato trasformato in stalla, in luogo di occupazione militare, senza tener conto di questo capolavoro. Quindi le tecniche errate, le vibrazioni subite dal muro hanno provocato una serie di degradi che prima hanno coinvolto l’ultima superficie, quella che noi chiamiamo la “pelle” del dipinto e poi sono penetrate anche in profondità. Il dipinto ha sempre avuto una grande rinomanza. Nel secolo XVI ne venivano tratte copie anche da parte di grandi pittori. Inoltre, come io ho scoperto, era noto anche alla scuola veneta: esi-

ste una copia di un allievo di Giovanni Bellini. Quindi era un dipinto molto celebre. Ma fu nel secolo scorso che, col nascere degli studi storico-artistici, l U/tizza cena ha cominciato a occupare quel posto di preminenza che occupa tuttora. E cominciarono anche allora purtroppo i restauri. Dico “purtroppo” perché se fossero stati restauri conservativi sarebbero lodevoli, ma sono anche cominciati dei restauri di pulitura e restauri integrativi. Restauri che hanno cominciato a sovrapporsi l’uno all’altro fino a trasformare il Cenacolo, l'U/tizza cena in una sorta di dipinto anodino,

anonimo. E poi sono incominciate le puliture, le quali hanno avuto varie fasi. In un primo tempo sono stati tolti soltanto i ritocchi superficiali, lasciando la vera epidermide del dipinto, o almeno quello che ne restava, al coperto. È stato soltanto di recente che un'eccellente pulitura condotta da Pinin Brambilla ha rimosso anche i ritocchi negli strati più profondi, rivelando una cosa stupefacente: innanzi tutto dettagli che non si riuscivano a vedere, per esempio i lustri sui piatti metallici, per esempio la grana della to78

vaglia. E ha anche rivelato in taluni rari punti l’estrema qualità, veramente suprema, della pittura di Leonardo.

Il dipinto poi era studiato in modo molto curioso. Oggi l’attenzione è attratta soltanto dal rettangolo con l'Ultima cena, ma in realtà la grande scatola prospettica in cui si svolge la scena continuava anche in alto, dove i tre archi contengono gli stemmi degli Sforza e altre divise araldiche. Anche la parte superiore era parte integrante del dipinto, perché la prospettiva scientifica rigorosissima di Leonardo coinvolgeva l’intera parete e non sappiamo come finisse nella parte inferiore. Chi entrava dalla porta vera si trovava di fronte a un ambiente reale il quale illusivamente continuava nell’ambiente artificiale con l’U/tiza cena. Inoltre la padronanza somma della prospettiva ragionata giocava anche sopra alcuni elementi ai quali oggi non si fa più caso, come per esempio i tessuti laterali che sono diposti sulle pareti dell'ambiente in cui si svolge la sacra scena. Tutto era studiato in questa scena per coinvolgere lo spetta-

tore. E anche c’era un fatto straordinario. Se si osserva bene 1’U/tma cena vive di due sorgenti luminose. Una è quella della stanza reale, in cui il visitatore entra (oggi non entra più dalla porta originaria) e l’altra è la luce che viene dal fondo, dalle finestre del fondo.

Quindi c'è uno studio eccezionale delle varie possibilità che dava questa luce. Non bisogna dimenticare che Leonardo da Vinci deve avere studiato con estrema attenzione e con estrema cura le opere di arte fiamminga esistenti allora sia a Venezia sia a Milano. Lo scambio fra Italia e Fiandra era molto frequente, anche artisti fiamminghi si recavano in Italia e studiavano, anche perché nelle Fiandre c’erano i rappresentanti di molte ditte fiorentine, per esempio i Portinari, ditte commerciali, e di banchieri, i quali acquistavano quadri

fiamminghi. Il grande Trittico Portinari di Hugo van der Goes, che oggi si trova agli Uffizi, è una delle fonti più importanti per un intero capitolo della pittura fiorentina. Grandi artisti come Piero di Cosimo, Filippino Lippi, lo stesso Ghirlandaio, l'hanno sicuramente visto, e ne sono rimasti influenzati. Però la persona la quale ha più sviscerato il significato formale e i segreti tecnici della pittura fiamminga è senza dubbio Leonardo da Vinci. Ci sono dei quadri i quali non possono essere concepiti senza la conoscenza della grande pittura fiamminga. 79

Leonardo da Vinci, particolare da Ultirza cena

All’Ultima cena è stato spesso rimproverato un certo qual schematismo nella composizione suddivisa in cinque gruppi. Quello centrale, triangolare, con la sola figura del Redentore, e i quattro gruppi laterali, due a sinistra e due a destra, comprendenti ciascuno tre apostoli, fra i quali è ben distinguibile a sinistra la figura di Giuda che tiene con il braccio destro sul tavolo il sacchetto dei trenta denari ricevuti. Questa composizione è parsa molto schematica, come anche è stato rimproverato a Leonardo un certo quale eccesso nella gestualità delle figure, una certa quale — di80

ciamo — ovvietà nei vari sentimenti dei singoli apostoli mentre discutono le parole del Redentore o si rivolgono a lui, come san Giovanni Evangelista, il quale porta le mani al petto in atto di affetto e di amore. Questo può essere anche vero, ma non bisogna dimenticare che tale cosiddetta gestualità convenzionale conferisce all’insieme — e doveva conferirlo molto di più quando le figure erano nitidamente rifinite — una forte potenza scenica, una sorta di scena movimentata che è del tutto nuova nella pittura italiana, direi nella pittura europea, e soprattutto nella pittura ad affresco. Si doveva assistere proprio a una sorta di dialogo multiplo fra i vari apostoli, e fra loro e il Cristo, ma l’effetto oggi è in gran parte vanificato perché la pittura, oltre a essere devastata nella superficie, ha i colori estremamente dilavati. Perché Leonardo si trovava a Milano? Era nato a Vinci nel

1452 e molto giovane si era recato a Firenze dove aveva studiato soprattutto nell’azelier di Andrea del Verrocchio, allo stesso tempo pittore e scultore. Leonardo dovette ben presto farsi una grande reputazione, tant'è vero che già all’età di trent'anni andò a Milano. Perché andò a Milano nel 1482? Sono state fatte varie ipotesi. Una è che Leonardo, che era omosessuale, fosse coinvolto in uno scan-

dalo a Firenze, e questo è ben possibile. Ma la ragione del suo invio a Milano probabilmente è un’altra. È che Lorenzo il Magnifico si serviva dell’arte e della cultura fiorentina come ambasciatrici di Firenze e del suo potere sull’intera Italia. Cioè il Magnifico, che politicamente dopo la Pace di Lodi era l’ago della bilancia della pace italiana, che viene rotta poi soltanto con l’arrivo dei francesi, considerava come messaggera della superiorità culturale fiorentina l’arte figurativa. Perché è molto singolare, molto indicativo il fatto che Leonardo va a Milano, il Verrocchio va a Venezia a fare il monumento a Bartolomeo Colleoni, la corte dei Manfredi, a Faenza, che

era uno stato ai confini della Repubblica fiorentina, riceve un altro fiorentino, Biagio di Antonio. È anche singolare che nel 1481-1482 la grande impresa di Sisto IV Della Rovere, che è la nuova cappella pontificia, la Cappella Sistina, in un primo tempo venga affidata ad un impresario umbro, Pietro Vannucci, detto Pietro Perugino — il quale chiama a sé una équipe di artisti umbri, da Pier Matteo d’Amelia, che ha fatto la volta, agli allievi stessi del Perugino, cioè il 81

Pinturicchio, Andrea d'Assisi, Rocco Zoppo, Bartolomeo della Gatta insieme al Signorelli — ma poi l'impresa venga cambiata, evidentemente, non sappiamo bene come, e vengono anche qui chiamati

dei pittori fiorentini, cioè arrivano il Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Biagio d’Antonio di nuovo, che era considerato moltissi-

mo mentre oggi è poco conosciuto, e il giovane Piero di Cosimo, probabilmente al seguito di Cosimo Rosselli. Quindi cambia completamente l’équipe, perché? Perché anche qui ci deve essere stata la pittura, l’arte fiorentina come, non dico merce di scambio, ma

come elemento di trattative con la Santa Sede e soprattutto con la famiglia Della Rovere. Non bisogna dimenticare la congiura dei Pazzi durante la quale venne assassinato il fratello di Lorenzo il Magnifico, Giuliano, nel duomo di Firenze, mentre il Magnifico si

salvò a stento rifugiandosi in sagrestia. La congiura era stata ordita anche dalla famiglia Riario, parenti dei Della Rovere, e il Magnifico si vendicò atrocemente quando gli capitò a tiro qualcuno di questa congiura. Ma poi evidentemente ci furono dei tentativi da una parte e dall’altra di arrivare a una pacificazione e uno dei mezzi di questa pacificazione fu l’abbandono dell'impresa perugina di Pietro Vannucci e la chiamata di grandi artisti fiorentini, appunto il Ghirlandaio, il Botticelli, Cosimo Rosselli, Piero di Cosimo, eccetera, che oggi sono notissimi. Quindi Leonardo deve essersi recato a Milano anche per ragioni di politica, e a Milano entrò subito al servizio del signore, del duca di Milano Ludovico il Moro e di sua moglie Beatrice d'Este. In quale veste Leonardo andò da Ludovico il Moro? Non soltanto come pittore ma con funzioni multiple. Un pittore era considerato come un artigiano. Il grande mito dell’artista che è al di sopra dell’uomo comune nascerà tra qualche anno con Michelangelo Buonarroti. Leonardo a Milano è ancora un artigiano, quindi veniva adoperato per i fini più singolari. Per esempio, una gran parte dell’attività di Leonardo venne coinvolta in feste, in costumi teatrali, in mascherate, in decorazioni anche di stanze. Per esempio nel

Castello Sforzesco la Sala delle Asse che ha quel bellissimo soffitto con delle fronde d’albero e con dei nodi complicatissimi che derivano quasi certamente dalla conoscenza di qualche cosa di nordico, dimostra come Leonardo fosse considerato un uomo dalle molte fac82

ce, dalle molte attività. Poi venne impiegato come urbanista, come architetto: progetti per nuove strade, progetti per la sistemazione della città, progetti per i canali. La Lombardia prima degli Sforza e prima dei Visconti era nota per la meravigliosa rete di canali i quali potevano collegare le varie città senza grande fatica. Questi canali ancora in gran parte esistono, ma quello Grande che entrava dentro Milano e che da via San Marco arrivava fino al Tumbun di San Marco è stato chiuso soltanto alla fine degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta. Questi canali permettevano al ducato di avere un fittissimo scambio di merci varie e poi finivano tutti nei grandi corsi d’acqua e nel Po che collegava il ducato con altre regioni d’Italia. Leonardo ha studiato anche questo, ma i suoi interessi sono sempre

stati multipli. Si è interessato alla forma delle nuvole, alla veduta dall’alto dei paesaggi e soprattutto poi all’anatomia. Uno studio questo in cui è stato veramente un anticipatore e che da lui veniva effettuato di nascosto perché per motivi religiosi lo studio dei cadaveri era severamente proibito. A Milano, e già da prima a Firenze probabilmente, Leonardo aveva cominciato a disegnare. Esistono di Leonardo degli stupefacenti disegni. Io considero quelli delle piante, dei fiori, come dei veri e propri miracoli. Aveva studiato gli animali, per esempio le varie posizioni dei gatti durante la lotta, le risse, il gatto che ronfa, il gatto che si avvicina. Ci sono delle osservazioni di una acutezza incredibile. Ma io considero soprattutto i disegni sulle piante, sulle erbe, come dei veri e propri miracoli in cui si sente il vegetale che vive nell’atmosfera. Il tutto descritto con un segno che da una parte è estremamente sicuro, estremamente certo di se stesso, dall’altro è deli-

catissimo. È uno dei miracoli di Leonardo. E poi Leonardo è stato un grandissimo ritrattista. Due ritratti eseguiti a Milano, e forse anche tre, esistono ancora. Dico forse per-

ché io considero di Leonardo anche il terzo ritratto, che è quello di un musico, quasi certamente Franchino Gaffurio, che si trova oggi alla Pinacoteca Ambrosiana e ha tutta l’aria di essere un Leonardo da Vinci nelle parti che non sono state rovinate col tempo, perché la mano che regge il foglio di carta era stata ridipinta ed è stata poi estratta dalla ridipintura in malo modo, con un grattino. Se fosse stata tirata fuori al microscopio, frammentino per frammentino, oggi 83

quella mano sarebbe intatta. Ma i due ritratti supremi, veramente incredibili, in cui si vede anche la conoscenza di Leonardo dell’arte

fiamminga, sono uno al Louvre — la cosiddetta Belle Ferronière — e l’altro al Museo Czartorisky di Cracovia. Sono due capolavori assoluti in cui la figura vive della luce e soprattutto ne La Belle Ferronière si sente la conoscenza di Leonardo della pittura di Hans Memling, di Rogier van der Weyden prima, ma soprattutto di Hans Memling e di Hugo van der Goes. Chi sono queste due donne? Sono con ogni probabilità due amanti di Ludovico il Moro. La Belle Ferronière è quasi certamente Leonardo da Vinci, La Belle Ferronnière, 1495 circa, Parigi, Louvre

84

Lucrezia Crivelli e la stupenda Darza con l’ermellino è quasi certamente Cecilia Gallerani, perché c’è un gioco di parole. In greco l’ermellino si chiama “galere”, quindi galere-Gallerani: è probabilmente una di quelle sciarade delle quali Leonardo era un grande appassionato. Esistono molti disegni di Leonardo che sono dei rebus, del-

le sciarade, alcune volte molto intelligenti. Si sente la curiosità assoluta di Leonardo per qualsiasi forma dell’attività umana, per qualsiasi aspetto dell’ambiente in cui si vive, per qualsiasi forma naturale. È un genio insaziabile, ma l’insaziabilità poi l’ha portato a dei disastri perché sia l’U/tirza cena, che ha incominciato a deperirsi anche per la tecnica con la quale era eseguita, sia soprattutto la grande impresa fiorentina della Battaglia di Anghiari, che gli era stata ordinata dalla Repubblica fiorentina nel Salone dei Cinquecento a Firenze, si sono rovinate proprio per la tecnica.

Nella Battaglia di Anghiari, della quale esistono solo delle copie parziali, per giunta tratte da disegni, probabilmente, noi sappiamo che il colore incominciò a colare sul muro perché evidentemente Leonardo aveva usato degli olî, dei solventi che non hanno resistito al caldo delle stufe per essiccare la pittura e si sono sciolti. La sua sperimentazione lo ha portato a dei veri e propri fallimenti tecnici. E la sua molteplice attività lo ha portato anche a dei quadri non finiti. Quando era ancora a Firenze, prima del 1482,

aveva eseguito un piccolo intervento, bellissimo, nel Battesizzo di Cristo dovuto al Verrocchio, oggi nella Galleria degli Uffizi, ma soprattutto aveva cominciato una grande tavola di chiesa con lAdorazione dei Magi, che ancora oggi è agli Uffizi. Questa tavola con l’adorazione dei Magi conserva soltanto lo schizzo a penna di Leonardo, stupefacente, ma il colore non è mai stato steso, perché evidentemente o è stato interrotto per la sua andata a Milano, o è stato interrotto perché aveva altre idee per la testa. Fatto si è che Leonardo ha lasciato molte opere incompiute, e molte volte purtroppo queste opere incompiute sono state finite dagli allievi che hanno tradito le sue intenzioni. Leonardo è veramente il grande genio del Rinascimento in cui la razionalità rinascimentale viene portata alle sue ultime forme. * N.d.C. Il restauro è appena terminato, con grande clamore dei media. 85

GIORGIONE La Tempesta

1505-1510 Olio su tela, 82 x 73 cm Venezia, Gallerie dell’Accademia

L'ultimo tempo di Giorgione rimane un grande enigma in due sensi. I biografi e gli scrittori del secolo XVII, quando parlano del pittore Pietro Muttoni, alias Pietro della Vecchia, indicando certe mezze fi-

gure da lui dipinte in abbondanza con bravi e ceffi dai grandi cappelloni rossi, dicono che egli imitava Giorgione. Ma queste figure non hanno nulla a che fare con il Giorgione che noi conosciamo. È probabile dunque che l’ultimo Giorgione fosse completamente cambiato rispetto al Giorgione più noto. E una indicazione in questo senso ci giunge da un’opera giunta fino a noi in condizioni terribili, cioè il grande affresco della facciata del Fondaco dei Tedeschi a Venezia, oggi alle Gallerie dell’Accademia. La grande figura femminile torreggiante ha un piglio che male si addice alle piccole, minute figure de La Tempesta, della Prova del fuoco e di altri quadri più antichi. Esistono poi alcuni storici dell’arte i quali riferiscono a Giorgione talune mezze figure grandi più del naturale, tra cui una con un grande cappello rosso alla Galleria Borghese di Roma e un Sarsone in collezione privata a Milano, che personalmente credo siano di Giorgione. E ho la vaga impressione che l’artista, poco prima di morire, nel 1510, fosse venuto a Roma e avesse visto gli inizi della volta 87

Giorgione, Adorazione dei pastori (Natività Allendale), 1504 circa, Washington, National Gallery

della Cappella Sistina di Michelangelo, la cui esecuzione va dal 1508 al 1512. Se Giorgione fosse arrivato a Roma già nel 1509 avrebbe visto per lo meno le figure vicine all’ingresso, e in tal caso ne dovette rimanere sconvolto. Questo spiegherebbe la produzione di grandi figure, le quali poi tornano nella pittura veneta o in ambiente veneto in artisti che a Giorgione debbono molto. Per esempio le figure grandiose, torreggianti, di Sebastiano Florigerio o del Pordenone. Vi deve essere stato un periodo del Giorgione che non è sopravvissuto se non in opere che vengono lentamente recuperate. Se così fosse, il pittore avrebbe cambiato completamente il suo stile. Un altro problema che riguarda Giorgione, sotto l’aspetto filologico, è l’esatta separazione tra lui e il suo più grande allievo, Tiziano Vecellio. Vi sono casi in cui il nome di Giorgione, riconosciuto quasi universalmente per certi quadri, è stato poi violentemente rifiutato da autorità molto importanti. Uno di questi quadri è la cosiddetta Natività Allendale, un tempo presso il visconte Allendale e oggi a 88

Washington nella collezione Kress. Il quadro, per il quale personalmente sottoscrivo il nome di Giorgione, era considerato uno dei capolavori dell’artista e fu causa di una rottura clamorosa tra il massimo conoscitore di pittura italiana del suo tempo, Bernard Berenson,

e l’antiquario per il quale lavorava, Sir Joseph Duveen, perché Berenson si oppose radicalmente all’attribuzione a Giorgione dando il quadro a Tiziano, salvo poi ravvedersi negli ultimi tempi. Un altro quadro, molto più noto, su cui si è accesa la stessa diatriba, è la cosiddetta “Verere di Dresda” della Gemaldegalerie di

quella città, la splendida figura di donna nuda dormiente riprodotta ovunque come opera di Giorgione. Ma se si esamina bene l’opera di Giorgione, la sua tecnica, il suo mondo, facendo nel contempo lo

stesso esame sull’opera di Tiziano Vecellio prima del 1520, ci si rende conto che la “Verere di Dresda” è di Tiziano. Il fondo del quadro, sulla destra, è completamente rifatto e i raggi X hanno rivelato che da quella parte, su un muricciolo, c'è una piccola figura di Cupido che evidentemente è stata eliminata per isolare e dare un’aura misteriosa alla figura della donna dormiente. Della figura di Cupido esiste una versione — forse copia, originale o opera di bottega — nei depositi del museo di Vienna. Questo Cupido è di Tiziano, o della sua bottega, oppure una copia, ma non può essere in alcun modo opera di GiorGiorgione, Verere dormiente, 1510 circa, Dresda, Gemaldegalerie

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Giorgione, Concerto campestre, 1510 circa, Parigi, Louvre

gione. Credo dunque che il quadro di Dresda sia di Tiziano. Fenomeni di scambio del genere sono avvenuti anche con il cosiddetto Concerto campestre del Louvre, che è stato a lungo considerato un capolavoro di Giorgione. Il quadro in esame è uno dei più misteriosi e dei più noti della pittura mondiale. Sul dipinto sono state dette le cose più strane ed è curioso che la popolarità del quadro, che prima era noto soltanto a pochi specialisti, sia esplosa nel momento in cui, acquistato dallo Stato italiano nel 1932 quando era in una collezione privata veneziana, divenne di proprietà pubblica e fu destinato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Il quadro rappresenta un paesaggio vicino a un corso d’acqua nel quale si trovano un uomo con una lancia, a sinistra, in piedi, e a destra una donna nuda che sta allattando un bambino. Nel fondo si vedono le rovine di un edificio classico, una sorta di podio con delle colonne spezzate, e in fondo il profilo di una città sulla quale grava un cielo cupo, minaccioso, addirittura squarciato da un fulmine. Il

dipinto è stato interpretato in mille modi diversi. Ogni interpretazione sembra quella giusta e ognuna viene poi annullata da quella suc90

cessiva. È uno di quei casi in cui il valore artistico supera quella che può essere stata l’intenzione dell’artista nel dipingerlo o lo stesso significato del soggetto rappresentato. Ma la cosa più curiosa è questa.

Quando tempo fa fu fatto un esame radiologico della superficie pittorica, ci si accorse che sulla superficie attuale erano state introdotte profondissime varianti rispetto all’intenzione primitiva del pittore. Ad esempio, nell’angolo inferiore sinistro si distingue una figura di donna nuda, la quale sta bagnando le gambe nel corso d’acqua. Prima di pervenire allo Stato italiano, il quadro era nella collezione del principe Giovannelli di Venezia, che lo possedeva da molto tempo. Ma esso era già noto in antico, perché è descritto nel 1530 da un’antica fonte, quando si trovava in casa di Gabriele Vendramin,

come “El paesetto in tela cum la tempesta cum la cingana (la zingara) et soldato fo de man de Zorzi da Castelfranco”. È stato interpretato in molti modi. Si è detto che non rappresenta alcun soggetto definito, il che è assurdo. Che rappresenta il Paradiso terrestre, con Adamo ed Eva, eccetera. Tutte interpretazioni di grande interesse, ma che dimostrano come in certi casi il valore d’arte e la for-

za dell’artista scavalcano il soggetto, l'etichetta del quadro stesso. Ciò che interessa vedere è la formazione del pittore che solo con quest’opera meriterebbe un posto di primo piano nella storia dell’arte. Giorgione, nato a Castelfranco, si recò a Venezia, dove deve es-

sere stato alla scuola di Giovanni Bellini o forse fu un apprendista vicino a un grande allievo del Bellini, Vincenzo Catena. Le opere più antiche di Giorgione indicano un forte appiglio a questo mondo belliniano e, intorno al 1505 circa, opere come Prova del fuoco e Giudizio di Salomone degli Uffizi di Firenze hanno tutta l’aria, a un esame molto scrupoloso, di essere di più di una mano. Anzitutto indicano una dipendenza certa dalla grafica e dalla pittura del Nord Europa. Il modo con cui è dipinto il paesaggio nei due quadri non si spiega senza una conoscenza di quella che è la pittura fiamminga, e soprattutto tedesca. In secondo luogo, il rapporto col Catena è molto evidente in certi volti, ma nello stesso tempo è un rapporto già superato perché accanto a questi accenti veneziani si notano modi tipicamente ferra-

resi, per cui è stato persino ipotizzato che uno dei pittori che hanno collaborato a questi quadri sia di origine proprio ferrarese, cioè Ludovico Mazzolino. Cosa improbabile ma non impossibile. 91

Altri quadri abbastanza giovanili sono la Giuditta dell’ Ermitage di San Pietroburgo; una scoperta della critica ottocentesca, un quadro che è stato mutilato a sinistra e che deve risalire anch'esso al 1505 circa, e un fregio in Casa Pellizzari a Castelfranco Veneto, di ec-

cezionale bellezza, che rappresenta utensili e strumenti musicali, astronomici e astrologici. La cosa più curiosa è che fin da queste prime opere Giorgione mostra in primo luogo una tecnica pittorica che

evade dalla maniera quattrocentesca e in secondo luogo che già nei suoi esordi presenta sempre una curiosa atmosfera, si direbbe misteriosa, magica, strana. Un’atmosfera che, nelle figure dei quadri più avanzati, si esprime in personaggi che raramente guardano negli oc-

chi lo spettatore, molto spesso guardano in terra o molte volte di lato. Non si stabilisce quasi mai un rapporto diretto tra chi legge il quadro e le cose ivi rappresentate. Ci sono quadri che sicuramente sono giovanili, ad esempio la cosiddetta Sacra Famiglia Benson nella National Gallery di WashingGiorgione, I tre filosofi, 1508-09, Vienna, Kunsthistorisches Museum A Er

INI de

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sg

ton, la citata Nazività Allendale, fino ad arrivare a uno dei capolavori,

la Madonna in trono tra i santi Liberale e Francesco nel Duomo della città natale. Un quadro molto significativo perché anche qui torna quella strana posizione delle figure. La Madonna non guarda l’osservatore ma guarda verso il basso, san Francesco guarda da un lato, e l’unico che guardi in fronte è san Liberale. È un quadro che dovrebbe risalire intorno alla metà del primo decennio del Cinquecento ed è molto importante perché qui si riafferma un legame di Giorgione con la pittura emiliana. La figura di san Francesco, ‘infatti, è ricalcata senza il minimo dubbio su qualcosa di bolognese, o di Francesco Francia, o di Lorenzo Costa. E nello stesso tempo il quadro è avvolto da una luce non ancora crepuscolare ma quasi di tramonto, di meriggio avanzato, che conferisce all’insieme una tonalità dorata estremamente suggestiva. Un altro quadro datato al 1506 è il ritratto di una donna che doveva chiamarsi Laura, una mezza figura con un seno scoperto, il che fa pensare che fosse una cortigiana, dietro alla quale vi è un cespo di alloro. Il quadro si trova al museo di Vienna ed è firmato da Giorgione e da Vincenzo Catena. Un altro quadro di Giorgione noto fin dall’antichità è I tre filosoft di Vienna, altro dipinto misterioso in cui si vedono un giovane seduto in abito greco, un uomo in piedi in abito orientale e un altro uomo a destra che parrebbe vestito da ebreo, forse in relazione a un significato occulto allusivo alla filosofia greca, alla filosofia araba e a un’altra scuola filosofica. Giorgione evidentemente frequentava ambienti letterari molto colti. Abbiamo poi una quantità di opere le quali vagano tra Bellini tardo, Tiziano giovane e Giorgione. Una di queste è al museo del Prado, la Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Rocco, per la quale propendo per Tiziano giovane; abbiamo poi la cosiddetta Terzpesta campestre; abbiamo già parlato delle figure del Giorgione tardo (Galleria Borghese e collezione privata di Milano); e poi vi è una quantità di quadri i quali spesso sono citati come di Giorgione anche in antico, e sicuramente suoi sono il cosiddetto, bellissimo Gattamzelata con un paggio degli Uffizi di Firenze, e il meraviglioso Doppio ritratto del Museo di Palazzo Venezia a Roma: quadri eseguiti entrambi intorno al 1509. Dello stesso periodo, intorno al 1509-10, dovrebbe essere anche il Ritratto Terris di San Diego, in California. 93

RAFFAELLO

SANZIO

Scuola di Atene

15.09-1511 Affresco, base 770 cm

Roma, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura

Raffaello nacque a Urbino da Giovanni Santi, pittore e letterato, dal quale apprese i primi rudimenti del mestiere. Morto il padre nel 1494, Raffaello continuò al lavorare come indipendente e anche al fianco di Evangelista di Pian di Meleto, artista di cui sappiamo pochissimo. Nel 1501 Raffaello è a Perugia e il suo stile è fortemente toccato da quello del Perugino, tanto che alcune composizioni vengono addirittura prestate da Perugino a Raffaello. Ciò che immediatamente stupisce in Raffaello è in primo luogo la qualità del ductus pittorico, del tutto inimitabile, la prodigiosa abilità tecnica, quindi l’uso del colore: esaminando da vicino con una lente o chimicamente i colori di Raffaello si scoprono molti segreti inventati dall’artista per dare uniformità ai suoi dipinti. Non vi è mai il colore puro, assoluto, ma vi è sempre un altro colore mescolato ad esso. Straordinari poi in Raffaello sono la misura e il senso dello spazio. Dopo varie opere eseguite a Perugia, la fama di Raffaello cominciò a crescere, finché egli si trasferì a Firenze, dove rimase po-

co tempo, ma influenzò fortemente l’ambiente locale. Vi studiò opere di pittori come Fra’ Bartolomeo e l’Albertinelli e dovette anche guardare alle opere di Leonardo da Vinci. Si sente in Raffael95

lo una apertura che deriva dallo studio di questi artisti, ma l’ambiente fiorentino venne fortemente toccato dal giovane pittore e moltissimi ritratti non si spiegano senza il suo insegnamento. Egli

fu una sorta di recettore universale e di rielaboratore profondissimo di ciò che vedeva. Tra il 1508 e il 1509 il suo nome comincia a brillare a Roma,

dove era stato chiamato da papa Giulio II, il quale voleva riattare un gruppo di stanze degli Appartamenti Vaticani già decorate qualche decennio prima, all’epoca di Niccolò V. Il papa non voleva abitare nell’appartamento inferiore, che era stato dei Borgia, famiglia odiosa e da lui profondamente disprezzata. Volle quindi decorare le stanze superiori ed ebbe, non si sa da chi, il suggerimento di chiamare Raffaello. Il trasferimento di Raffaello a Roma fa parte di quel grande interrogativo, non ancora risolto, che è il mutamento di gusto di Giulio II. Che il pontefice cominci col privilegiare la chiesa di Santa Maria del Popolo per farne il mausoleo della sua famiglia, i Della Rovere, e termini poi passando da Pinturicchio a Michelangelo e a Raffaello, è un fatto che lascia un po’ sconcertati e sbalorditi. Deve esservi stato un grande conoscitore, per esem-

pio il monaco agostiniano Egidio da Viterbo o il cardinal Bibiena, a fare questi nomi. La grande fama di Raffaello comincia soprattutto dopo la pubblicazione della prima stanza, la Stanza della Segnatura, che avrebbe dovuto essere la biblioteca di Giulio II. Da questo momento ha origine però anche la schiera degli allievi e degli aiuti, fra i quali uno diventerà famosissimo, Giulio Romano. Nella seconda Stanza, det-

ta di Eliodoro, ha inizio dunque l’intervento della bottega, non tanto nei grandi affreschi, quanto negli accessori decorativi. Morto Giulio II, il nuovo papa Leone X continua a impiegare Raffaello nelle stanze e nasce così la Stanza dell’Incendio di Borgo, mentre l’ultima doveva essere la Stanza di Costantino, ma nel 1520 sopravvenne la morte dell’artista. L'attività romana di Raffaello è stata prodigiosa perché, oltre alle Stanze, abbiamo anche l’impresa colossale delle Logge, in cui l’esecuzione è in gran parte dovuta ad allievi e aiuti, ma in cui tutti i cartoni e i disegni sono di Raffaello. Abbiamo poi i sublimi affreschi della chiesa di Santa Maria della Pace con le Sibi/le. Abbiamo l’atti96

Raffaello, Platone e Aristotele, particolare da Scuola di Atene

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vità di archeologo: Raffaello aveva disegnato una pianta di Roma antica, oggi perduta, descrivendone i monumenti, perché si interessava molto al salvataggio di queste antichità. Abbiamo poi una serie di ritratti straordinari e l’impresa della Farnesina, la villa del grande banchiere senese Agostino Chigi, dove fornì i cartoni ed eseguì gran parte degli affreschi, soprattutto nella Loggia di Psiche. Diede anche cartoni per mosaici, per esempio nella cappella Chigi a Santa Maria del Popolo, e cartoni per arazzi, oggi conservati al Victoria and Albert Museum di Londra. Psicologicamente Raffaello era un uomo in cui si sente in tutte le sue manifestazioni il piacere di vivere. Amava la bella società, amava le belle donne, ha avuto un’amante, la Fornarina, e pare sia morto per eccessi erotici. Non ha quel tormento intimo, quasi in-

solubile, che per esempio appare nella produzione di MichelangeRaffaello, Michelangelo come Eraclito, Pitagora e Averroé, particolare da Scuola di Atene e: =— «x

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lo, suo grande rivale a Roma. Né ha quei problemi di sgomento e di paura che spesso si colgono in Leonardo da Vinci, il quale sembra spesso impaurito dalle sue stesse scoperte. In lui c’è la gioia di vivere in piena armonia con il mondo che lo circonda. I suoi interessi inoltre sono enormi e, oltre a una grandissima ricettività alla pittura, mostra un grande interesse per le antichità, per l’architettura, per la musica. È un personaggio davvero universale, e doveva essere anche una persona mite, come sembra leggersi nei suoi dipinti. Ma ciò che è impressionante in lui è la rapidissima evoluzione per cui da uno stile arcaico, quattrocentesco, passa a uno stile

peruginesco, diventa poi in un certo modo fiorentino e quindi inizia quel grande momento classico, soprattutto nella Stanza della Segnatura, che costituirà il punto di riferimento del classicismo europeo fino agli inizi del nostro secolo. Raffaello, Bramante come Euclide, Zoroastro e Tolomeo,

particolare da Scuola di Atene

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TRE

Raffaello, Messa di Bolsena, 1512, Roma, Musei Vaticani, Stanza di Eliodoro

Altro elemento che desta impressione, nell’arte di Raffaello, è per esempio, nella seconda Stanza vaticana, quella di Eliodoro, l’u-

so della luce e dello studio della pittura veneziana. Scene come la Messa di Bolsena o la Liberazione di san Pietro dal carcere denota-

no senza dubbio lo studio della pittura veneziana, ma Raffaello reinterpreta tutto, tutto fonde in uno stile personalissimo con una tecnica unica.

Tra i seguaci di Raffaello si distingueranno soprattutto Giulio Romano, anch'egli pittore e architetto, autore dei cicli straordinari di Palazzo Te a Mantova, e Giovanni da Udine, notevole stuccatore, attivo nella Villa Madama a Roma, i cui modi influenzeranno non solo il natìo Friuli, ma anche l’arte nordica.

È curioso inoltre notare come negli ultimi anni Raffaello sia il 100

primo creatore di due generi che cessano dopo la sua morte per essere ripresi tra la fine del Cinquecento e i primi del Seicento: la natura morta e la battaglia. I festoni raffaelleschi con grandi nature morte nelle Logge vaticane denotano che la natura morta stava acquistando autonomia di genere, secondo un processo che dopo la sua scomparsa si interrompe e viene riscoperto in Lombardia, e so-

prattutto a Roma, intorno al 1590. Lo stesso avviene per le battaglie. La grande Battaglia di Ponte Milvio rappresenta un tipo di pittura che alla fine del Cinquecento e agli inizi del Seicento, soprattutto con il Cavalier d’Arpino, diventerà un archetipo da cui nascerà un genere destinato a immenso successo in Italia e in tutta Europa. Il suo seguito quindi non va tanto ricercato nei suoi seguaci immediati — Penni, Giulio Ro-

mano, Perin del Vaga e altri — né nel fortissimo riflesso esercitato sui fiamminghi venuti in Italia (i cosiddetti “romanisti”), ma proprio in questa sua inventiva, sia in campo archeologico, sia in ge-

neri come la battaglia e la natura morta. Cosa che fino ad ora non è stata bene studiata.

Giulio Romano, Battaglia di Ponte Milvio, 1520-24, Roma, Musei Vaticani, Stanza di Costantino

101

CORREGGIO Assunzione della Vergine

1025-1526

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Affresco, 1093 x 1195 cm Parma, Duomo

Il gigantesco affresco con l’Assunzione della Vergine nella cupola del Duomo di Parma è una delle opere fondamentali di un grande, singolare pittore, Antonio Allegri, detto il Correggio, nato nella città di Correggio, nel Parmense, nel 1489 e ivi morto nel 1534. Il pittore è uno di quegli artisti dalla carriera estremamente singolare. La prima notizia incerta è che frequentasse la bottega di un pittore modenese, Francesco Bianchi Ferrari, ma nel 1510-12 lo tro-

viamo a Mantova, dove eseguì le decorazioni ad affresco nella chiesa di Sant'Andrea, nella cappella funeraria del Mantegna. Qui vediamo un pittore strettamente aderente ai modi dello stesso Mantegna. L'evoluzione è stata poi rapidissima, verso uno stile quanto mai singolare, soprattutto rispetto all’epoca in cui è stato espresso. Se noi osserviamo le opere del pittore, che culminano appunto nell’Assunzione della Vergine nel Duomo di Parma, ci rendiamo conto

che il Correggio ha avuto delle intuizioni spaziali e stilistiche che stranamente contrastano con quello che era il generale panorama della pittura italiana nell’epoca in questione. Gli affreschi dell’Assunzione sono del 1525-26, quelli precedenti nella chiesa di San Giovanni Evangelista a Parma sono del 1520-23. Ora si stenta a crede103

re che opere del genere possano essere state prodotte quando era ancora in vita Michelangelo Buonarroti, che sarebbe vissuto ancora per vari decenni, e quando era appena morto Raffaello Sanzio. Vale a dire che in questi affreschi c’è una concezione visiva e spazialeche difficilmente si accorda con la nostra immagine dell’ Alto Rinascimento, il “Rinascimento maturo italiano”. Abbiamo qui in Correggio una percezione dello spazio infinito. Mentre lo spazio rinascimentale è perfettamente finito, delimitato, e perfettamente misu-

rabile, qui abbiamo a che fare con delle composizioni nelle quali si esprime uno spazio incommensurabile, infinito, e che va al dilà della nostra immediata percezione. Come ha potuto il Correggio raggiungere una visione del genere? Anzitutto è un fatto personale, di genio individuale. Evidentemente aveva meditato su talune immagini ed è molto probabile che egli si sia recato anche a Roma e che abbia visto le opere di Raffaello e di Michelangelo, così come è molto probabile che conoscesse molto bene le opere di vari artisti dell’ Alta Italia. Ma il fatto più sinCorreggio, Parete est, 1519, Parma, Camera della Badessa

104

Correggio, Visione di san Giovanni, 1520-21, Parma, San Giovanni

golare è che questa concezione spaziale è un elemento del tutto individuale. Il primo accenno a una concezione del genere gli viene nella cosiddetta Carzera della Badessa, cioè la sala di un convento di

suore a Parma, nell’appartamento della superiora, nella quale il soffitto è completamente coperto da una sorta di traliccio vegetale diviso in molte sezioni, ognuna delle quali mostra un ovale al di là del quale si muovono dei puttini. Già qui abbiamo una concezione la quale sarà poi ripresa molto più tardi in età barocca, ma che è an105

(TINA

Bize dii

Correggio, Gli apostoli, particolare dall’ Assunzione della Vergine

cora perfettamente in armonia, nonostante la sua “profetica” precocità, con quella che è l’immagine corrente del Rinascimento. Ma immediatamente dopo, in San Giovanni Evangelista, esplode una composizione la quale non ha assolutamente nulla a che vedere con i canoni della pittura dell’epoca. È un fatto di genio individuale, ma è un fatto di estrema importanza, perché il Correggio è uno di quegli artisti i quali provano che nello svolgimento della cultura artistica italiana, intorno al 1530, vi è stata una vera e propria frattura che ha interrotto le tendenze stilistiche degli ultimi anni di Raffaello, fino al 1520, e in particolare a Roma e a Firenze. Sono gli anni in cui vengono prodotti dei modelli che saranno poi abbandonati durante il corso del secolo XVI. Si ha insomma la conferma di quella teoria la quale vuole che il cosiddetto Manierismo — uno stile astratto, intellettualistico, il quale più che la natura copia altri modelli di alta cultura — sia stato una sorta di frattura nello svolgimento dell’arte italiana. Non dimentichiamo a questo proposito che taluni generi, come per esempio la natura morta, vengono espressi, inventati e scoperti già alla fine del Quattrocento e nella prima metà del Cinquecento, e vengono portati per la 106

prima volta a esatto compimento nella bottega di Raffaello (da Giovanni da Udine nelle Logge vaticane), ma vengono poi abbandonati completamente. Lo stesso avviene anche per il genere della battaglia (avviato nella Stanza di Costantino in Vaticano con la

Battaglia di Ponte Milvio e ripreso soltanto cinquanta o sessant'anni dopo). E la stessa cosa avviene anche con il Correggio. Lo spa-

zio

inventato,

scoperto

dal

Correggio, non esiste più nel Cinquecento. Se noi osservia-

Correggio, Notte, 1529-30, Dresda,

mo la struttura delle due cupoGemiildegalerie le di Parma, quella di San Giovanni e quella del Duomo, ci rendiamo conto che lo spazio inventato dal Correggio è quello che poi sarà ripreso dal cosiddetto Barocco. È non tanto perché un pittore dell’area parmense come il Lanfranco lo conoscesse e lo abbia studiato, ma proprio perché c’è una visione, un concetto dello spazio infinito che sarà riscoperto soltanto alla fine del Cinquecento e nei primi anni del Seicento da altri artisti, il principale dei quali è Pieter Paul Rubens, che conobbe e studiò senz'altro il Correggio. I primi accenni a uno spazio infinito, che va poi perfettamente d’accordo con le ricerche scientifiche dell’epoca (per esempio di Galileo) avvengono nel Seicento. Quindi il Correggio anticipa di molti decenni quella che poi sarà la grande immagine del Barocco, cioè lo spazio in cui non esiste un limite definito,

in cui non c’è la possibilità di una percezione esatta. Il Bernini stesso, che poi a sua volta si è formato sugli esemplari romani di Rubens, riprende questo spazio, e lo riprendono poi in modo addirittura palese alcuni suoi seguaci, come il Baciccio. Quindi il Correggio rappresenta quel momento del Rinascimento italiano maturo che poi gli avvenimenti politici ed economici interromperanno definitivamente. 107

Non dimentichiamo che in questi anni l’Italia sta subendo una terribile involuzione a causa di eventi drammatici: i contrasti con l’Impero che porteranno al Sacco di Roma del 1527; l’interruzione del ruolo di Roma come sede di una grande scuola legata al potere pontificio; la fine della Repubblica fiorentina e l'assedio di Firenze, momento in cui si interrompe quel fenomenale vivaio di idee, di tendenze, di stili, di suggerimenti politici e sociali che è la Firenze intorno al 1515-25. Nel 1530, con il congresso di Bologna, la situazione italiana muta radicalmente. La Chiesa riconosce alla Spagna e all’Impero il predominio. Il ducato di Milano e quello di Firenze vengono messi sotto tutela, e per entrambi vale la norma che se il duca nominato con il beneplacito della Spagna morirà Correggio, Ganimede, 1531, senza successori legittimi, il ducato Vienna, Kunsthistorisches Museum —passerà alla corona spagnola (il che n accadrà a Milano nel 1535, ma non a Firenze). Vengono così a crearsi de-

gli Stati i quali non vivono per forza propria, ma sotto tutela, e lo stesso fenomeno si svolge parallelamente in Francia, con il ducato di Lorena, e

anche a Ferrara. Tutto questo poi avviene in un momento in cui si va in-

contro a una grave crisi economica, poiché la scoperta dell'America toglie al Mediterraneo la sua funzione egemonica di via commerciale per eccellenza. In questo frangente, lo sviluppo artistico dell’Italia cambia e assistiamo alla nascita di quello stile intellettualistico estremamente complicato e seducente che noi oggi chiamiamo Manierismo. Il Correggio, visto in questa pro-

spettiva, risulta uno dei più grandi geni di tutti i tempi. Il pittore fu molto apprezzato da conoscitori come Isa108

bella d’Este, che gli commissionò dipinti per il suo appartamento, ma la reazione suscitata dai suoi grandi affreschi fu negativa ed egli non fu capito. È un artista che scavalca il tempo in cui vive, che anticipa di decenni quello che sarà il gusto corrente. È questa la ragione per la quale oggi i suoi dipinti ci appaiono sotto una luce straordinaria. Nel Duomo di Parma la parte centrale è proprio basata sul coro di angeli e, in basso, di santi disposti circolarmente intorno alla Madonna che sale in cielo. I quattro peducci non rappresentano i quattro evangelisti, come talvolta si è detto, sibbene i quattro protettori di Parma. Il complesso è stato eseguito con una tecnica ad affresco di straordinaria bravura. È molto interessante poi osservare il partito luministico del pittore, il quale talvolta ha degli acCorreggio, Io, 1531, Vienna,

centi di una luminosità

molto viva,

Kunsthistorisches Museum

per cui la forma viene definita at-

traverso la luce, ma non come farà poi Caravaggio. È una luce, come

accade nel capolavoro assoluto che è la cosiddetta Notte della Galleria di Dresda, la quale accompagna le figure, ma non crea le forme, non è mai estremamente violenta. Bisogna

anche dire che molte volte i quadri del Correggio, soprattutto le tele, non sono in buono stato di conservazione, a causa di forzature nella

pulitura. I chiaroscuri del Correggio, nella loro incredibile sottigliezza e modulazione, vanno visti so-

prattutto nelle due tele del museo di Vienna con Ganimede e Io, due ca-

polavori compositivi e stilistici eccezionali. Per concludere, i modi del

Correggio anticipano il Rinascimento maturo, portandosi direttamente nel Barocco attraverso il Lanfranco e soprattutto Rubens. 109

PONTORMO Trasporto di Cristo al sepolcro

[lo 0-1528 Olio su tavola, 313 x 192 cm Firenze, Chiesa di Santa Felicita,

Cappella Capponi

Il Trasporto di Cristo al sepolcro (0 Deposizione) è l’opera più nota di un pittore fiorentino della prima metà del Cinquecento, Jacopo Carucci detto il Pontormo, nato a Pontorme, un villaggio toscano non lontano da Firenze, nel 1494 e morto a Firenze nel 1556. Il Trasporto di Cristo al Sepolcro è dipinto su tavola ed è la pala d’altare di una cappella che si trova entrando subito a destra nella chiesa di Santa Felicita a Firenze. La cappella, già Barbadori, venne poi acquistata nel 1525 da Ludovico Capponi il quale la fece decorare da Pontormo aiutato dal giovane Agnolo Bronzino. La cappella era stata dedicata alla Santissima Annunciata, infatti nella parete d’ingresso due affreschi rappresentano l'Angelo annunciante e VAnnunciata. C'erano poi questa grande pala d’altare e quattro tondi con i quattro evangelisti in alto sulla volta. La piccola volta era poi completata da un Dio padre con i patriarchi che andò purtroppo distrutto nel secolo XVIII per lavori all’organo della chiesa. La Deposizione è di misure cospicue perché è alta più di 3 metri e larga circa 1,92 metri; lo stato di conservazione è abbastanza buono. L’opera, che è stata variamente giudicata a seconda del gusto dei vari periodi successivi, è stata eseguita attorno al 1527-28 o meglio 152628, e di essa restano numerosi disegni preparatori. Un fatto che ha semIRIS

Pontormo, Autoritratto e Vergine, particolari da Trasporto di Cristo al sepolcro

pre incuriosito e che viene già citato dalle fonti antiche è che l’uomo sul fondo a destra, isolato, è un autoritratto dello stesso Pontormo.

Chi è Pontormo? È uno dei pittori che oggi vengono definiti dalla storia dell’arte “protomanieristi”, cioè quei pittori i quali rompono la storia lineare della tradizione figurativa fiorentina ed esprimono con le loro opere uno stile quanto mai personale, anticlassico, che non ha più nulla a che fare con quello dei loro maestri. Chi era stato il maestro di Pontormo? Certamente Andrea del Sarto, questo lo sappiamo. Cosa si svolge poi nella pittura di Pontormo durante la sua lunga vicenda? Innanzi tutto notiamo che i canoni di proporzionalità, di simmetria, di equilibrio, di origine classica, vengono completamente abbandonati; si immette nella cultura del pittore una forte dose di elementi nordici, | soprattutto grazie alle stampe di Albrecht Diirer e di altri che vengono studiati e sviscerati e reinterpretati in modo talvolta molto originale. del?

Infatti alcune opere di Pontormo come gli affreschi della Certosa, che sono eseguiti prima della decorazione della cappella Capponi di Santa Felicita, mostrano il rapporto con Albrecht Diirer in modo assai evidente. Lentamente le proporzioni — le quali trasformano del tutto la fonte classica e soprattutto l’insegnamento di un Andrea del Sarto, per non parlare di Fra Bartolomeo — queste figure allungate e contorte vengono portate a esprimere fisicamente una sorta di tormento e di ango-

scia interiore. Ma c'è di più: il chiaroscuro, che era stato uno degli elementi portanti della pittura fiorentina, viene quasi ad annientarsi, mentre le campiture dei colori sono chiare, squillanti e talvolta anche con giustapposizioni cromatiche che non hanno più assolutamente nulla a che fare con la tradizione e con il realismo che era cercato dalla pittura fiorentina. | Innanzitutto osserviamo una cosa: il corpo di Cristo, esangue, vie-

ne portato da due giovani e sembra non pesare per il modo con cui quei due giovani camminano. Quello a sinistra si appoggia per terra

per rialzarsi, quello a destra fa pensare che non ci sia assolutamente alcun ingombro sulle loro spalle o perlomeno che si tratti di cosa molto lieve. Le figure si scalano l'una dietro all’altra in modo del tutto antirealistico e i colori poi sono dei colori quasi appiattiti, talvolta con le ombre ridotte al minimo, come sono ridotte al minimo le ombre di

certe figure. Tutto l'insieme poi si svolge con una successione quasi, diciamo, fantomatica che fa pensare più a delle idee che a dei fatti veri e propri, fa pensare più allo svolgersi di un sogno che alla rappresentazione di un evento. Tutto questo è molto interessante e riflette

due aspetti del Pontormo, la persona del pittore e il momento in cui egli lavora. La persona del pittore è quanto mai tormentata. Abbiamo del Pontormo un avanzo, un frammento di un Diario suo personale corredato anche di piccoli disegni, piccoli schizzi, ed è un’opera che incuriosisce sempre di più perché è veramente una testimonianza di un carattere non solo introverso, non solo misogino (perché Pontormo era omoses-

suale), non solo chiuso nei suoi problemi, nelle sue fobie, nelle sue an-

gosce. Ci sono delle descrizioni minute dei propri escrementi, si sente la persona la quale vive in un modo angosciato, delirante, ma è una sorta

di documento psicopatologico che spiega molto delle sue pitture. D'altra parte Pontormo opera in un periodo quanto mai difficiIls

le e quanto mai problematico per la stessa città di Firenze. Dopo la cacciata di Piero de’ Medici nel 1494, dopo l’episodio savonaroliano con una sorta di teocrazia rigidissima voluta dal frate, dopo la morte

sul rogo del Savonarola e dopo la prima restaurazione dei Medici, nel 15.12 circa, Firenze

passa un periodo quanto mai singo-

lare, quello della Repubblica Fiorentina. È un pe-

riodo in cui la città esprime tutta la rosa delle ideologie immaginabili. In pittura noi

abbiamo da una parte il purismo sacro della scuola di

San Marco

e

=

Rosso Fiorentino, Deposizione, 1521, Volterra,

— Fra

Pinacoteca Civica

Bartolomeo e Albertinelli —, dall’altro Andrea del Sarto, “Andrea senza errori”, una sor-

ta di accademia sublime. Abbiamo dei pittori curiosamente neoquattrocenteschi come il Bachiacca, Francesco Ubertini; abbiamo poi addirit-

tura dei tentativi di spezzare con la tradizione come il Pontormo e come il suo alter-ego col quale all’inizio il Pontormo iniziò a collaborare, Rosso Fiorentino. Quindi una enorme varietà di stili, a cui se ne potrebbero aggiungere anche altri: pittori anch'essi ribelli alla tradizione, come il 114

Maestro dei paesaggi Kress; artisti iquali non sono neoquattrocenteschi ma in alcuni casi neomasacceschi, come accade a Ridolfo del Ghirlan-

daio. Alcune opere di Ridolfo, soprattutto le due tavole di San Zanobi oggi alla Galleria degli Uffizi di Firenze, hanno una evidente ripresa del chiaroscuro e del realismo di Masaccio. Quindi è un periodo di crisi che si riflette nella crisi politica, perché in questi anni Firenze è il teatro delle fazioni più opposte, che vanno da quella dei Palleschi (dallo stemma dei Medici con le palle) che rivogliono la restaurazione della signoria medicea, ai Piagnoni che piangono il Savonarola. Poi ci sono degli estremisti, tutta una rosa politica estremamente interessante, di estrema varietà e violenza, in

qualche caso. Sono gli anni in cui ci sono anche Machiavelli e Guicciardini. Quindi intellettualmente Firenze è un vivaio, in questi anni, senza precedenti. Ma tutto questo terminerà con l’assedio di Firenze

da parte delle truppe imperiali, con la caduta della città e poi con il sinistro Congresso di Bologna del 1530, con Carlo V e Clemente VII. Durante questo Congresso la città viene condannata, cioè costretta a

riprendere la signoria dei Medici con un personaggio molto discutibile, il duca Alessandro che si diceva fosse figlio di Clemente VII e di una negra. Il quale Alessandro viene dato come marito alla figlia di Carlo V, Margherita (matrimonio mai consumato), e reggerà il ducato fino al 1537, quando viene assassinato da un altro Medici. La clausola del Congresso di Bologna era che se Firenze non avesse continuato la stirpe medicea, e cioè la stirpe si fosse esaurita, Firenze sarebbe diventata un possesso della Spagna. Era la stessa clausola che era stata adoperata per Milano quando alla morte del duca Francesco II Sforza, sempre negli anni Trenta, il ducato di Milano diventa un ducato spagnolo e passa sotto la corona spagnola. Nel 1539 un altro Medici, di un ramo diverso da quello di Cosimo il Vecchio, di Lorenzo il Magnifico, giovane di 19 anni, Cosimo, fi-

glio di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria Salviati, s'impone perché vince i suoi nemici a Montemurlo e si appropria del ducato fiorentino per poi trasformarlo in granducato; la famiglia de” Medici continuerà così fino al secolo XVIII, il che significa che Firenze ha avuto la fortuna di sfuggire al dominio spagnolo. Ma, con Alessandro prima, e soprattutto con Cosimo poi, la pittura e la cultura fiorentina vengono ad essere sottoposte a un dirottaDb

mento preciso. Innanzitutto la sperimentalità degli anni passati viene ad essere troncata e viene instaurato un tipo di pittura che è caratteristicamente cortigiano, è pittura di corte. I due grandi creatori di questa pittura di corte sono da una parte Francesco Salviati, dall'altra l'allievo del Pontormo, cioè Angelo Bronzino, a cui poi bisognerà aggiungere come pittore propagandista e celebrativo Giorgio Vasari. Ma la città intera viene sottoposta a una revisione, e una volta eliminati i nemici personali di Cosimo, tutta la popolazione, atterrita perché gli inizi del ducato di Cosimo furono estremamente repressivi, cambia completamente; e non c’è più quella varietà, quella fermentazione, quella straordinaria proliferazione di idee, di arte, di sperimentazioni che aveva caratterizzato Firenze tra il 1515 e il 1530. Finisce tutto. Lo stesso Michelangelo Buonarroti, che aveva contribuito a erigere le fortificazioni a San Miniato contro le truppe che assediavano Firenze, poi capitola e si rimette al servizio della famiglia dominante; non c’è più nessuna speranza.

La grande Deposizione, che è un capolavoro e che è anche abbastanza ben conservata, io direi che è il grido supremo del Pontormo stesso, perché nelle opere più tarde la sua linea inquieta continua ma mai con questa intensità. È un’opera molto grande. I quattro evangelisti sopra la chiesa sono in gran parte eseguiti da Angelo Bronzino. È interessante il suo abbandono della prospettiva razionale, del colore razionale e della filologia razionale. Non c’è più nulla che ricordi il primo Rinascimento fiorentino. Questa partecipazione intensa al dramma della città si sposa con il dramma intenso del pittore il quale era un personaggio non dico infrequentabile ma comunque molto bizzarro. La forza più straordinaria del Pontormo, il cui capolavoro purtroppo è perso, cioè i grandi affreschi del coro di San Lorenzo a Firenze che furono distrutti nel secolo XVIII, è la assoluta, totale dedizione alle opere che sta dipingendo. Anche nei ritratti si sente sempre che egli partecipa alla definizione, alla esecuzione, ma partecipa in modo sofferto; il pittore non è un artista di mestiere, è un pittore che soffre per quello che dipinge e trasmette alla sue figure la propria sofferenza intima. Caso più unico che raro nella pittura fiorentina, non c’è in lui quella aggressività quasi blasfema di un altro comprimario del Pontormo, che è Rosso Fiorentino, che talvolta raggiunge l’empietà anti116

cristiana; ma invece è una persona la quale partecipa dolorosamente alle cose che sta dipingendo. Io direi che è quasi un caso patologico, il Pontormo, che ha molto incuriosito gli psicanalisti, naturalmente, ma che non può lasciare altro che una grande ammirazione.

Pontormo, Ritratto di Cosimo I in divisa d'alabardiere, 1537, Malibu,

John Paul Getty Museum Tk

BRONZINO Allegoria del trionfo di Venere

1540-1545 circa Olio su tavola, 146 x 116 cm

Londra, National Gallery

La tavola è uno dei gioielli della National Gallery di Londra e anche uno dei quadri più importanti del primo Manierismo italiano. Innanzi tutto notiamo che il dipinto è ben conservato. Fino a qualche decennio fa mostrava dei ritocchi a scopo per così dire “moralistico”, uno dei quali copriva il sesso della dea. È stato rimosso e la superficie pittorica si è rivelata in ottime condizioni. Il quadro proviene da una collezione francese ma ha una storia complessa, perché fu fatto fare per essere inviato in dono da Cosimo I de’ Medici al re di Francia Francesco I. Si è supposto che potesse trattarsi di un cartone per arazzo e che avesse un perdant, ma il Vasari ne parla come di un dono per il re di Francia e quali siano state in seguito le sue vicissitudini è questione an-

cora da chiarire. Si tratta di una elaboratissima allegoria, molto cerebrale, dell’Amore, delle sue bellezze, dei suoi pericoli e della sua fine. Ab-

biamo come figura principale, atteggiata in una posa di quelle che nel secolo XVI venivano chiamate “serpentinate”, la dea Venere nuda. Nella mano sinistra regge il pomo d’oro ricevuto da Paride durante la gara con Giunone e con Minerva, ed è toccata e baciaIHS

Bronzino, Venere e Cupido, particolare da A//egoria del trionfo di Venere

ta in modo voluttuoso da Amore, che appare in una posa chiaramente erotica, una tipica posa evocatrice, in cui la mano destra tocca la mammella di Venere, anzi il capezzolo, con un gesto erotico,

mentre la mano sinistra le sostiene il capo. Vedremo poi che dietro il gesto di Venere e di Amore c’è anche un altro significato. I due sono in atto di baciarsi, e di farlo in modo estrema-

mente lascivo perché avvicinandoci con una lente al dipinto notiamo che in questo bacio entra anche la lingua dei personaggi. Siamo dunque di fronte a uno dei baci più erotici della pittura italiana. Vediamo qui i pregi dell'amore, i momenti del godimento. Però notiamo subito che accanto a questi pregi ci sono angosce e 120

fatti inconfessati. Osserviamo bene le mani, quella destra di Venere e quella sinistra di Amore. I due, mentre godono del bacio e delle carezze, si ingannano a vicenda. Venere sta sottraendo ad Amore la freccia, mentre Amore sta sottraendo a Venere uno dei

suoi ornamenti più belli, il diadema. Quindi in questo stesso abbraccio vi è già un inganno. Poi guardiamo le figure che accompagnano questa stranissima composizione. A destra un putto nudo avanza con dei sonagli alla caviglia di una gamba e sta per lanciare sui due dei petali di rosa. Avanza ridendo, quindi è la gioia, l'allegria, ma subito dopo appare un essere mostruoso il quale offre con una mano un favo di miele dolcissimo. Però osserviamolo bene. Innanzi tutto questo essere, al posto delle gambe, ha una coda di serpente. E poi, se osserviamo le mani, notiamo che esse sono invertite, cioè la ma-

no destra è al posto della sinistra e viceversa. È la Frode, che avanza con qualcosa di dolce, recata però in modo innaturale, e poi pungerà con questa coda di serpente, coda che finisce accanto a due maschere, le maschere che ingannano, le maschere della fin-

zione. Quindi il piacere, il godimento sono intrecciati alla finzione, all’inganno. E la stessa cosa accade lungo il margine sinistro di questa elaboratissima composizione, nella quale abbiamo, in basso, urlante e quasi in atto di lacerarsi i capelli, la Gelosia, e in alto la Follia. Infine il bacio dei due personaggi principali è riecheggiato in tono minore dal bacio di due colombe bianche visiBronzino, Il Tempo svela la Verità, particolare da Allegoria del trionfo di Venere

124

bili nell'angolo inferiore sinistro. Il mosaico di allegorie continua anche nei minimi particolari. L'azione però sta per concludersi perché dal fondo a destra appare un uomo provvisto di ali, un vecchio, il quale sta per coprire tutto con una cappa azzurra, ed è il Tempo. Il Tempo pone termine alla commedia

dell’amore, ai suoi inganni, ai suoi tor-

menti, ai suoi deliri. Sarebbe interessante sapere chi abbia ideato un’allegoria di così grande impegno concettuale — non certo il Bronzino, bensì un letterato che ha dettato i vari spunti — e conoscere poi il modo con cui il Bronzino stesso l’ha elaborata, perché la composizione è di quelle che non nascono di getto ma è il frutto di una lunghissima, interminabile elaborazione. Si sente che il pittore deve aver fatto molti tentativi, deve aver saggiato molte possibilità compositive fino a che si è fermato su questa che contiene tutti quanti gli elementi di un’allegoria ma sempre lasciando in primo piano Venere e Cupido. Quindi è, ripeto, un quadro di estrema elaborazione intellettuale. Chi è Angelo Bronzino? Il suo vero nome è Angelo di Cosimo di Mariano, nasce in un sobborgo di Firenze nel 1503 e muore nel 1572. Già a quindici anni è nell’atelier di Jacopo Carucci detto il Pontormo ma aveva avuto in precedenza un zra/rirg con Raffaellino del Garbo e prima ancora con un pittore di cui ignoriamo il nome. Entrato nella scuola del Pontormo, collabora con lui nel-

la Cappella Capponi in Santa Felicita, dove esegue almeno due tondi con gli evangelisti (siamo nel 1526-28). Poi, dopo l’assedio di Firenze (1527-30), lavora a Urbino alla corte di Francesco Maria

della Rovere ed esegue opere nella villa dell’Imperiale e probabilmente anche nel Palazzo Ducale di Pesaro. Un capolavoro di questo periodo è il ritratto di Guidobaldo della Rovere, passato alla Galleria degli Uffizi con il lascito della granduchessa Vittoria. In seguito il Bronzino è diventato uno dei pittori più aulici e più ricercati dell'ambiente fiorentino. Ha lavorato molto per il duca (poi granduca) Cosimo I, ha eseguito i ritratti della moglie Eleonora di Toledo e dei figli in varie età ed è stato quindi ricercatissimo dall’aristocrazia fiorentina per la quale ha eseguito una quantità di ritratti che sono uno specchio fedele di questa classe altera, arrogante, in un certo senso intoccabile. Una classe che dopo 122

la riforma della società fiorentina voluta dal granduca Cosimo praticamente era al di sopra dei comuni mortali. I ritratti fatti dal Bronzino sono degli autentici capolavori e il piglio aristocratico degli effigiati è sottolineato da una tecnica impeccabile (le carnagioni dei personaggi sono come d’avorio) e da un idealismo plastico freddo, gelido, senza ombra di commozione o di inteneri-

mento. Nessuno meglio del Bronzino ha rappresentato quella clasBronzino, Eleonora da Toledo colfiglio, 1545 circa, Firenze, Galleria degli Uffizi

I25





Bronzino, Soffitto della cappella di Eleonora da Toledo, 1540-41, Firenze, Palazzo Vecchio

se aristocratica la quale riemerge vittoriosa dopo che la sua posizione, in molte città e anche a Firenze, era stata minacciata ed

eclissata dal crescere della borghesia mercantile. Come è noto Cosimo I proibisce l'investimento di capitali all’estero e ritrasforma i suoi cortigiani, molti dei quali sono stati rappresentati dal Bron124

zino, in proprietari agricoli. La città così ritorna al passato e mentre in Europa (soprattutto nei Paesi Bassi e in Inghilterra, ma anche in Svizzera e in parte della Germania), l'affermarsi della borghesia porta alla riforma e, nel contempo la pittura, in molti casi, non è più quella araldica, glaciale, marmorea che abbiamo visto molte volte nel secolo XIV, a Firenze invece si fa un passo indietro. La società è in mano ai nuovi proprietari terrieri, ognuno dei

quali ha il palazzo a Firenze, è cortigiano dei granduchi, ha una galleria o una pinacoteca d’arte, non viaggia molto all’estero (perché i viaggi all’estero erano sempre visti con grande sospetto) e si fa ritrarre in atteggiamenti che molte volte sono di un’arroganza altera, quasi insopportabile. Si sente in essi la sicurezza di chi ha potere e sa che questo potere non potrà essere scalfito da nessuno. Bronzino è stato anche un pittore sacro, ha eseguito pale d’altare per le chiese di Firenze, ed è stato anche un eccellente pittore ad affresco, il cui capolavoro, in Palazzo Vecchio, è la Cappella detta “di Eleonora da Toledo”. Anche questi affreschi sono di un’impeccabile elaborazione compositiva e formale ed eseguiti in modo incredibilmente perfetto. Il Bronzino ha anche eseguito molti quadri di privata devozione, soprattutto Sacre famiglie, Madonne col Bambino, Madonne col Bambino e santi, che evidente-

mente erano destinati all’aristocrazia fiorentina. Aristocrazia il cui nome, legato ai ritratti, qualche volta è noto, ma molte volte ri-

mane nell’incertezza. È da notare poi una cosa molto interessante. Accanto a questo idealismo classico, gelido, glaciale, il Bronzino esegue cartoni per una tecnica neomedioevale, l’arazzo. Gli arazzi con la Storia di Giuseppe ebreo, destinati a Palazzo Vecchio,

sono in gran parte del Pontormo, ma alcuni sono completamente di mano del Bronzino. In certi quadri poi egli, che era un uomo molto colto, mostra di avere studiato anche la scultura, e un arti-

sta che dovette certamente conoscere e studiare, e del quale risentì moltissimo l’influsso, fu Benvenuto Cellini, anche lui attivo

per Cosimo I de’ Medici, con cui c’è una sorta di affinità spirituale. Il capolavoro dell’artista resta comunque l’A/legoria di Londra, che stranamente non esercitò alcun influsso sulla pittura francese, probabilmente a causa del soggetto, ritenuto lubrico. 125

PIETER BRUEGEL IL VECCHIO

Danza di contadini

1568 circa Olio su tavola, 114 x 164 cm Vienna, Kunsthistorisches Museum

La Danza di contadini, che appartiene al Kunsthistorisches Museum di Vienna, è uno dei capolavori di Pieter Bruegel il Vecchio, detto anche “Bruegel dei contadini”. Pittore che ha firmato il quadro e lo ha datato 1568, cioè un anno prima della morte, perché Bruegel morì nel 1569. Quando sia nato Pieter Bruegel il Vecchio, il più noto e il più grande della dinastia dei Bruegel che è durata molto a lungo, fino al Seicento inoltrato, è incerto. Si pensa che sia nato intorno al 1525, ma anche il luogo è incerto perché pare sia nato a Breda, ma non si sa bene se quella del Brabante o quella del Limbourg. Anche l’alunnato di Bruegel è molto incerto: si pensa però già dal secolo XVI che il suo vero maestro sia stato un pittore fiammingo molto colto e molto prolifico, capo di una grande bottega, Pieter Coecke Van Aelst, pittore che è stato anche in Italia e a Costantinopoli e ha lasciato una grande quantità di quadri, soprattutto di soggetto sacro. È stato uno dei primi e più importanti manieristi, i cosiddetti “manieristi di Anversa”, soprattutto attivi negli anni venti del secolo XVI e dalla cui

scuola sono usciti moltissimi altri pittori. Comunque il mondo di Bruegel è un mondo molto singolare. Infatti non affonda le radici nell’antichità classica, e tanto meno — a 127

parte pochi quadri di soggetto sacro — nella religione cristiana. È un mondo che ha una sua precisa definizione mentale e ideale, che è il mondo dei contadini, che il Bruegel ha studiato nei loro costumi, nella loro vita. E infatti si chiama “Bruegel dei contadini”. C'è un fatto che è molto significativo: Bruegel è stato in Italia intorno al 1552-53, è stato a Roma. L’unica traccia che noi abbiamo di

questo suo soggiorno è un disegno molto importante in una collezione privata inglese che non rappresenta né il Colosseo, né le colonne dei templi, né le grandi chiese, sibbene rappresenta il Porto di Ripa Grande. Soggetto quanto mai insolito per un artista del Cinquecento.

Evidentemente Bruegel era incuriosito dal modo di vivere della gente, soprattutto della più umile, dagli spazi in cui si muovevano, e dalle cose che vedevano, ma non gli interessava minimamente né l’antichità classica, né tanto meno Raffaello o Michelangelo, dei quali non c’è traccia nei suoi quadri. È da notare in proposito che Bruegel vive in un'epoca in cui la pittura fiamminga è in gran parte dominata dai cosiddetti “romanisti”, cioè pittori della corrente manierista i cui quadri sono spesso formicolanti di citazioni dalla Cappella Sistina, dalle Stanze di Raffaello, da altri insigni monumenti di Roma, sia la Roma classica che la Roma pittorica del Rinascimento. E sono citazioni talvolta prese dallo studio dal vero, dai testi originali italiani, molte volte anche dalle stampe. In Bruegel tutto questo non c’è. Il quadro, che si trova come ho detto al Kunsthistorisches Museum di Vienna, è di 164 cm di larghezza per 114 cm di altezza, è firmato e datato 1568 e probabilmente faceva pendant con quello che è il Banchetto nuziale di cui tra poco parleremo. Intanto notiamo la composizione di questo quadro. È estremamente originale perché c’è una coppia di contadini nel loro costume, in primo piano a destra, che sta ballando al suono di una cornamusa suonata da un uomo sulla sinistra, verso il quale si tende un giovane meglio vestito degli altri, con una penna di pavone sul cappello. Sulla panca c'è un grande boccale di vino; in basso c'è una ragazza con un bambino, entrambi del cibo in mano; a sinistra una tavola di contadini e in fondo a sinistra una ca-

sa di contadini con una bandiera. Nel fondo a destra c’è in lontananza una chiesa e più vicino, sempre sulla destra, un vecchio albero sul cui tronco è affissa un'immagine sacra. Tutto il quadro è minutamente studiato sia nei costumi dei contadini, che sono resi con estrema fe128

Bruegel, particolare da Danza di contadini

deltà, sia nel paesaggio, negli edifici. Non c’è assolutamente nulla di idealizzato. È una sorta di perfetto reportage di quella che poteva essere una danza di contadini. Altre coppie accanto alla prima stanno danzando più in là, ma si vedono appena. Si tratta evidentemente di una festa, probabilmente in onore del santo o della Madonna o di qualche altra figura della religione che è rappresentata nella bandiera rossa che pende vicino a una delle finestre della casa nel fondo a sinistra. La stessa fedeltà con cui sono resi i mobili, la tavola per esempio, con i boccali, è una specie di simbolo e segno del grande amore che Bruegel aveva per la sua terra e per i suoi abitanti. Non c’è assolutamente nessun tentativo di abbellire questa vita, di mostrarla secondo una luce idealizzata, né tanto meno di tradurla in quel linguaggio classico che allora andava di moda. Sotto un’apparente semplicità, il quadro invece è densissimo di particolari. Ad esempio, guardandolo accuratamente ci si accorge che la pelle e soprattutto il naso di molti dei partecipanti sono abbronzati, la tipica abbronzatura che viene dal lavoro nei campi aperti. Poi ci sono dei particolari di costume molto curiosi. Sfugge quasi a tutti il fatto che il danzatore di destra ha nel cappello infilato un cucchiaio. Questo era un uso che si osservava quando si doveva partecipare a un grande pranzo. Il cucchiaio veniva tenuto nel cappello e il coltello era quello che si portava al fianco. La forchetta non era nota. La forchetta viene 129

introdotta in Europa piuttosto in epoca tarda, comincia a diventare molto di moda nel Quattrocento, ma soprattutto in ambienti di corte, in ambienti molto raffinati. Non dimentichiamo che l’uso della forchetta è stato combattuto

anche dalla Chiesa quando fu introdotto. Ci sono delle prediche di san Pier Damiani

contro la forchetta. Ma poi, una

volta

introdotta

nelle

classi alte, è passata nelle sfere medie e poi nelle classi più i

Î

umili. E il contadino che bal-

Bruegel, particolare da Danza di contadini

la porta il coltello al fianco,

dentro la sua guaina, e il cuc-

chiaio nel cappello; se ne deduce che ci doveva essere un pranzo. Ma questo pranzo non ha altri riscontri nel quadro: non può identificarsi con la tavolata che si vede alla sinistra, che è semplicemente una riunione di bevitori di vino. Il pranzo è invece probabilmente quello che è rappresentato nell’altro quadro, denominato Banchetto nuziale, che è all'incirca delle stesse misure della Darza e che è stato sempre insieme alla Danza. Sono stati sempre dei quadri compagni. Io direi che i due quadri sono complementari e per capire quello che è la Danza occorre guardarlo insieme al Banchetto nuziale. Come si svolge il pranzo dei contadini? Si svolge in un granaio dalle pareti di paglia. Il giallo della paglia delle pareti dà il tono a tutto il quadro. La composizione è estremamente intelligente, in diagonale e in fondo a destra nell’angolo inferiore c'è una sedia la cui struttura di linee diagonali e di linee verticali sembra che dia la chiave per la struttura di tutto il resto del quadro. Qual è il soggetto? È questa grande tavolata al termine della quale, sulla parete di fondo, troneggia la sposa: una donna piuttosto grassoccia, frastornata dal rumore, che siede contro una tenda verda-

stra alla quale è applicata una corona posticcia. Accanto a lei c'è sua 130

Bruegel, Barchetto nuziale, 1568 circa, Vienna, Kunsthistorisches Museum

madre con la cuffia bianca e il vecchio padre in un seggiolone. La cosa più curiosa è che in questa scena nuziale manca lo sposo. Ma lo sposo è quasi certamente quello che a sinistra in basso sta riempendo di vino dei boccali, perché era uso che qualora il pranzo si facesse in casa o in altra proprietà della sposa, fosse lo sposo a servire a tavola. Quindi troviamo anche qui un’osservazione precisa sulla vita dei contadini, i loro usi e le loro credenze.

Ma ci sono dei significati simbolici in questo quadro? Si direbbe di sì e ne sono stati proposti parecchi. Io ne cito soltanto un paio. Il primo è un parallelo tra questo pranzo di nozze, nel quale tutti quanti mangiano sfrenatamente — si direbbe che il simbolo del quadro è dato dal bambino il quale in primo piano si sta leccando le dita, — e le nozze di Cana, quando il vino venne travasato dai grandi ai piccoli boccali. Si direbbe appunto che il quadro stia a significare l’assoluta indifferenza verso l’aspetto mistico e religioso della cerimonia nuziale e del pranzo che ne segue perché tutti sono dediti soltanto a mangiare. Tuttavia, anche se questo significato è plausibile, va però piuttosto malamente d’accordo con la danza. Allora non si capisce quale sia il rapporto. Potrebbe anche essere che questo quadro sia una allegoria di 131

uno dei sette peccati capitali, la gola. Infatti, se si nota, il quadro è dominato dalla gran quantità di ciotole con cibo, dal vino e dallo sfrenato mangiare di tutti quanti icommensali. Ma quali che siano i significati di questo quadro, che va preso soltanto come una festa nuziale, è bellissimo e ammirevole il modo con cui il Bruegel ha anche qui osservato la tipologia contadina, il costume. Basterebbe vedere per esempio l’espressione del suonatore di cornamusa. Vedete che sono due i suonatori di cornamusa, perché era uso durante le nozze che i due suonatori guidassero il corteo, uno degli uomini che andavano in chiesa per le nozze, l’altro delle donne. Uno degli invitati, l’altro delle invitate, compresi lo sposo e la sposa. L’espressione è attonita e anche qui alcuni dei personaggi, come per

esempio uno degli uomini che portano i piatti in tavola, quello sulla destra con la camicia rossa, ha il cucchiaio infilato nel cappello. Era proprio un costume osservato molto scrupolosamente. Il quadro con ogni probabilità aveva in basso la firma e la data, ma fu tagliato e il pezzo tagliato in basso è stato aggiunto in alto, insieme ad un nuovo legno con un nuovo colore. Non si sa il perché. Bisogna tenere presente che molte volte questi quadri — anche capolavori insigni — non venivano conservati nelle loro misure originali, qualora fosse stato necessario collocare su una stessa parete due quadri o di identiche misure o di composizioni Bruegel, particolare da Banchetto nuziale

corrispondenti.

i

Non

dimenti-

chiamo che un quadro che ha subìto gravissime mutilazioni è il capolavoro di Leonardo da Vinci la Gioconda. Questo perché il quadro veniva considerato non per se stesso, ma come parte di tutto un più vasto tessuto figurativo del quale le singole opere, anche di grandissimi maestri

costituivano

solo

una parte. Un destino analogo, non si sa perché, ha subìto il quadro di Bruegel. È stato anche osservato un fatto 52

molto curioso, che ci sono delle corrispondenze fra la composizione di queste nozze e un grande capolavoro di Jacopo Tintoretto che rappresenta l’U/tiza cena, nella chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia. Come spiegare questa corrispondenza? C'è un’affinità. Io credo che questa affinità non dipenda da una conoscenza diretta. Probabilmente c'era una stampa alla quale si sono ispirati i due artisti. Sono state fatte molte ipotesi sulle opinioni di Bruegel e sul suo atteggiamento politico, ma non c’è nulla di certo. Sappiamo soltanto che poco prima di morire fece bruciare dalla moglie una quantità di disegni considerati troppo audaci e troppo mordaci. Probabilmente si trattava di caricature politiche, ed è plausibile che Bruegel non fosse rimasto indifferente agli orrori commessi nella repressione spagnola guidata dal duca d'Alba a partire dal 1566, quando infinite case di contadini vennero bruciate, gliabitanti torturati, scannati e i ribelli trucidati in massa. Comunque il Bruegel dal punto di vista politico poteva stare molto tranquillo, perché era molto apprezzato dal cardinale Granvelle, uno dei grandi potenti dell’epoca, ed era anche amico di personaggi della corte di Filippo II, fra cui Abraham Ortelius, grande geografo. Bruegel però era considerato un seguace di Erasmo da Rotterdam e di Tommaso Moro, quindi doveva avere delle sue opinioni molto precise. Su questo non c'è il minimo dubbio. Tintoretto, U/tizza cena, 1592-94, Venezia, San Giorgio Maggiore y

se,

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EL GRECO

Seppellimento del conte di Orgaz

1586-1588 Olio su tela, 460 x 360 cm

Toledo, Chiesa di San Tomé

Questa conversazione è dedicata a uno dei più famosi capolavori della pittura spagnola, la grande tela di 4,6 x 3,6 metri nella chiesa di San Tomé a Toledo soprannominata e ribattezzata I/ seppellimento del conte di Orgaz. Il quadro, che è divenuto celeberrimo nel nostro secolo, fu dipinto molto tempo dopo la morte di Orgaz, il quale era stato il signore della città di Orgaz ed era morto nel 1323. Alla sua morte egli aveva lasciato per testamento delle elemosine e delle offerte in natura alla chiesa parrocchiale di San Tomé; il testamento però non fu rispettato dalla burocrazia della città di Orgaz e così il prete Andrés Nufiez di Madrid alla fine del 1500 fece una causa e commissionò questo quadro nel quale era presentata una cosa molto curiosa, a cui non si fa mai caso: il cadavere del con-

te è sorretto non da due sacerdoti bensì da santo Stefano e da sant’ Agostino, i quali sono vestiti con paramenti eccezionalmente ricchi perché secondo una leggenda che è anche scritta in latino e castigliano sulla tomba di Orgaz, “nel momento in cui egli stava per essere seppellito dai sacerdoti, intervennero santo Stefano e sant Agostino che scesero dal cielo e misero il corpo con le loro stesse ma-

ni nel luogo dell’eterno riposo”. 135

Il quadro, che fa una grandissima impressione e che è ben conservato, fra le altre cose, è considerato uno dei capolavori di questo singolare pittore, El Greco, il quale, come vedremo più tardi, è

diventato celebre negli ultimi cento anni a partire dal 1880, perché per secoli è rimasto o completamente ignorato o profondamente disprezzato. Chi era El Greco? Fra un nativo dell’Isola di Creta (o Candia),

dominio veneziano in un Mediterraneo orientale che ormai era diventato proprietà dell’Impero Ottomano. Moltissimi abitanti di Candia si recavano a Venezia dove c’era una vera e propria colonia; questa colonia comprendeva soprattutto uomini d’affari, ma comprendeva anche intellettuali e pittori. Abbiamo dei documenti con gli elenchi dei pittori che venivano da Candia e che a Venezia apprendevano l’arte del dipingere. Bisogna però notare una cosa, che Candia non è un'isola di religione cattolica, bensì di religione ortodossa. Ora dopo la caduta dell'Impero Romano d’Oriente, con la presa di Costantinopoli da parte di Maometto II nel 1453, la Chiesa ortodossa — la quale non aveva mai avuto un capo assoluto come per i cattolici il vescovo di Roma, il Papa — aveva continuato a vivere una vita umbratile, un po’ sotterranea, ma senza quelle persecuzioni che vengono spesso imputate agli Ottomani. Comunque il fatto importante è che non avevano cambiato il loro modo di dipingere le immagini sacre, modo che è completamente diverso da quello cattolico; le icone hanno un sottofondo ideologico del tutto diverso da quelle dei quadri che vediamo nelle nostre chiese. L’icona è un fatto sacro unicamente perché rappresenta figure sacre, c'è un diretto rapporto tra l’immagine e la divinità. Non solo, ma la composizione, i modelli, l'iconografia, in una parola l'ideologia delle icone, tutto segue regole molto fisse. Ora a Creta si dipingeva ancora con quello stile tardo-bizantino che noi oggi diciamo “cretese”, applicando la denominazione “cretese” o “dalmata” alle icone fatte nelle isole del Mediterraneo orientale o anche sulla terraferma, per esempio sul Monte Athos (che non è mai stato occupato dai turchi) in Grecia, in Albania, in Serbia. Lo studio dei centri

di produzione è ancora un grande mistero; sappiamo di grandi pittori cretesi, dei quali esistono opere anche mirabili, ma non sappiamo molto di più. 136

Il giovane El Greco, il quale era nato a Candia, la capitale di Creta, nel 1541, venne a Venezia, dove è accertato che fosse già presente nel 1560, e dove venne a contatto con la grande pittura veneta del Cinquecento. Ora, mentre molti artisti legati alla Chiesa ortodossa rimanevano immuni da qualsiasi influsso stilistico, il giovane El Greco rimase profondamente colpito dal modo di dipingere, dalla tecnica e dallo stile dei pittori veneziani. Non quelli “classici” del Rinascimento, come Giovanni Bellini o Giorgione, ma quelli “manieristi” come il Tiziano maturo e soprattutto Tintoretto o Andrea Schiavone, nei quali la tecnica veneziana di dipingere a pennellate fluide senza fondarsi sul disegno di contorno (come era in uso presso i fiorentini in modo da far prevalere il disegno sul colore), si era sposata con gli influssi dello stile nato a Roma e a Firenze negli anni Trenta e Quaranta; che oggi noi definiamo appunto “manierismo”. Del resto uno dei fondatori del “manierismo”,

Francesco Salviati, aveva lavorato a Venezia, dove aveva eseguito una grande opera, oggi alla pinacoteca di Milano. Non bisogna dimenticare che uno dei grandi pittori del Cinquecento è un grande pittore dalmata, Andrea Schiavone, il quale appunto mostra da una parte di avere studiato Tiziano in modo superlativo, ma dall’altra di essere in rapporto con la pittura dell’Italia centrale. Non solo, ma un altro artista molto importante del manierismo italiano, che è Giorgio Vasari, era stato a Venezia, dove

aveva eseguito un grande soffitto di cui oggi purtroppo si conoscono soltanto i frammenti delle figure allegoriche, e che è disperso un po’ ovunque. El Greco rimase influenzato da questo stile e dopo qualche anno si recò a Roma, come noi sappiamo da una lettera del 1570 del celeberrimo miniatore croato Giulio Clovic (alias Giulio Clovio) che lavorava a Palazzo Farnese. Egli dice che nel 1560 un giovane allievo di Tiziano nato a Creta è giunto a Roma e raccomanda il giovane pittore al cardinale Alessandro Farnese, che era il grande patrono delle arti di quel momento a Roma. Il Clovio ebbe con El Greco un’amicizia molto profonda e di lui infatti resta un ritratto nella collezione Farnese passata alla Galleria Nazionale di Napoli; era un miniatore di stile manierista, come si vede dal breviario per il Farnese che si trova oggi a New York alla Pierpont Morgan Library. 157

El Greco, arrivando a Roma, deve essere passato anche da Parma e da Firenze, e aveva visto le opere del Correggio e del Parmigianino a Firenze. A Roma vede poi Michelangelo ed essendo una persona molto ricettiva, prende da tutti questi pittori qualche cosa, sempre mantenendosi fedele alla tecnica della pennellata veneziana. Quindi nel Greco abbiamo un pittore il quale ha visto i veneti ed ha appreso da loro il modo di dipingere, ha visto anche i modi intellettuali e cerebrali, distillati, della pittura manierista dell’Italia Centrale, ma tuttavia mantiene sempre un fondo che ci ricorda le icone. C’è nel Greco un modo di concepire l’esperienza visiva come una realtà sacra, qualcosa che ricorda comunque una reliquia ortodossa: questo è il grande segreto del Greco. In Italia El Greco dipinse varie opere: un trittico firmato che si trova alla Galleria di Modena, un’opera che si trova a Parma, alcuni ritratti, uno dei quali, che viene da Perugia, si trova nella collezione Frick di New York. Attraverso queste opere si può cogliere proprio l'evoluzione di un pittore di estrazione ortodossa bizantina il quale diventa poi un pittore italianeggiante; si può chiamare un pittore italiano El Greco, pittore comunque di cultura italianizzante. Questo periodo del Greco giovane ha portato nel nostro secolo a dei gravissimi abusi, perché centinaia e centinaia di quadri dalmati di modestissima levatura, anche se molto interessanti dal

punto di vista culturale, sono stati attribuiti al Greco giovane. Negli anni Cinquanta-Sessanta c’è stata una sorta di inflazione di questi El Greco giovani, molti dei quali sono quelli che io chiamerei “spurghi” e non valgono assolutamente niente. C’è stato anche un collezionista truffato che poi si è suicidato per questa ragione. El Greco comunque è, anche nelle opere italianeggianti, un pittore di straordinaria qualità e soprattutto di straordinaria sensibilità cromatica e tecnica; non è facile trovare nella pittura un tipo analogo, è qualche cosa che rimane molto a sé. Naturalmente vi sono altri quadri di El Greco di questo periodo, in cui c'è sempre una radice molto intensa con il mondo formale in cui si è formato. Alcuni di questi quadri sono addirittura firmati: ad esempio ce n’è uno a Washington alla Galleria Nazionale, che è firmato, ma molta di questa produzione viene ancora negata. C'è addirittura un quadro nell’Art 138

Institute di Minneapolis, nel Minnesota, in cui in basso ci sono i ri-

tratti di Giulio Clovio, Michelangelo, Tiziano, quindi sponde perfettamente. Ma uno dei capolavori è quello Cristo che risana il cieco, è veramente un quadro molto Altrove El Greco mostra poi un fatto molto strano.

tutto corridi Parma, il notevole. C'è un qua-

dro a Philadelphia, nella collezione Johnson, la Pietà, in cui si nota

la composizione che viene da Albrecht Durer. Qui noi abbiamo un giovane candiota il quale arriva nella capitale delle arti, che era VItalia, assetato di cultura. Altro quadro per esempio che sta a Napoli, un Giovane che soffia su un tizzone, è inconcepibile senza lo stu-

dio molto intelligente delle opere di Jacopo e Francesco Bassano, quindi questo è un pittore di quelli che noi chiameremmo pittori eclettici ma che trasforma tutto in uno stile unico e irripetibile. El Greco deve essersi recato in Spagna piuttosto presto; è pro-

babile, ma non certo, che nel 1576 El Greco fosse già in Spagna, dove — fatto curiosissimo — ebbe immediatamente un grande successo. Una delle prime opere (1576-79) è l'Adorazione del nome di Gesù, oggi nella Galleria Nazionale di Londra, con il ritratto di Filippo II, ma la cosa più straordinaria è la quantità di committenti che trovò immediatamente, perché per esempio il Sar Sebastiano della cattedrale di Valencia è anch’esso del 1576-79. Abbiamo visto che il quadro del conte di Orgaz, oggi ancora nella chiesa di San Tomé a Toledo, venne eseguito su committenza dell’arcivescovo Quiroga, e il contratto, che esiste, è firmato dal Io

Greco nel marzo del 1586; per Natale dello stesso anno l’opera era già finita. Il quadro mostra alla somma potenza la componente stilistica di El Greco, che è unica, irripetibile. Coloro che hanno cercato di imitarla, a cominciare dai suoi familiari, hanno eseguito dei

quadri modestissimi, perché El Greco ha un impasto, una trasparenza e un modo di dipingere che sono inimitabili: è come Tiziano, dal punto di vista tecnico, siamo su quel piano lì. E poi c'è quello straordinario colpo d’occhio sulla società controriformata spagnola che si vede soprattutto nei grandi, meravigliosi ritratti dei nobili che assistono a questo funerale: è veramente uno spettacolo impressionante, tutti vestiti di nero con il collare. È la Spagna di Filippo II, è la Spagna che ha imposto il nero come colore ufficiale nei vestiti, la Spagna che sopprime negli abiti maschili i colori variopinti che solo oggi stanno riprendendo. E un’altra cosa straordinaria è la composizione con quell’apertura quasi a “V” rovesciata delle nuvole sopra le quali abbiamo il gruppo della Vergine, di Cristo, di san Giovanni Battista, che stanno per accogliere l’anima del conte di Orgaz. Di fronte a quadri del genere il gusto barocco e soprattutto neoclassico non poteva fare altro che esprimere parole di condanna; infatti El Greco è stato giudicato pittore sciocco, mediocre, ecc. ed è tornato in auge solo nel 1881 per merito di un critico d’arte tedesco, lo Justi. Un altro che ha fatto studi importanti su El Greco agli inizi del secolo è uno scrittore che ha aiutato la sua conoscenza in modo indiretto, uno scrittore francese che oggi non legge più nessuno, Maurice Barrès, il quale scrisse un libro su El Greco, Il m21-

stero di Toledo, un libro che a leggerlo oggi fa ridere. Barres è uno scrittore in cui c’è da una parte il sesso, dall’altra il sangue; sono tut-

te cose ormai superate, che hanno influenzato il cinema degli anni Venti ma che oggi sono semplicemente penose, però il libro ha aiutato moltissimo a far conoscere El Greco fuori dalla Spagna. Bisogna però dire un’altra cosa: che tutta la pittura spagnola è rimasta praticamente sconosciuta fino agli anni 1830. A parte il caso del ritratto di Innocenzo X di Velazquez a Roma, dove Velazquez era odiato dai pittori locali (che in realtà lo amavano, ma ne erano gelosi), la grande pittura spagnola di Velazquez, di Murillo, la natura morta —- io parlo anche di Goya — è rimasta completa140

mente sconosciuta fino al 1830. Cosa è accaduto in quegli anni? È accaduto che l'occupazione francese della Spagna durante le terribili guerre napoleoniche aveva portato in Francia un colossale bottino di quadri. Uno dei più grandi rapinatori è stato un maresciallo francese il quale mise su una grande collezione di quadri che poi fu venduta; moltissimi dei capolavori spagnoli che oggi si trovano in genere nei musei, nelle grandi collezioni, vengono da lì, e lo stesso Luigi Filippo aveva fatto una galleria spagnola. È interessante però notare che ambedue le raccolte non contenevano opere di El Greco molto importanti. Il primo a scrivere la storia della pittura spagnola è uno scozzese, ed è grazie soprattutto alle opere dei missionari protestanti in Spagna che la pittura spagnola comincia ad essere conosciuta in Europa. El Greco però è l’ultimo, proprio per il suo estremo intenso alone intellettuale, per il suo irrealismo, per le sue figure allungate. Addirittura ci sono delle spiegazioni positiviste su El Greco che dicono che aveva un difetto nella retina; è come dire che l'Impero Romano è caduto perché i Romani avevano dei condotti dell’acqua potabile che portavano del piombo, quindi hanno perso i denti, quindi la popolazione è morta. Bisogna soltanto avvicinare El Greco con umiltà, cominciare a leggerlo lentamente, particolare per particolare. Alla fine si rivelerà come uno dei più grandi, straordinari visionari di tutti i tempi. Non ci sono seguaci veri e propri. C'è Jorge Manuel che è il figlio, un parente dunque molto stretto, il quale dipinge dei quadri di qualità bassissima. Ciò che manca ai quadri di Jorge Manuel e agli altri seguaci è la tecnica, perché El Greco aveva studiato direttamente Tiziano, probabilmente era stato anche alla sua bottega, e

dunque aveva acquisito una tecnica impossibile da eguagliare per chi non avesse avuto la sua storia. Poi c’è stata nel nostro secolo una quantità di falsari: ci sono moltissimi El Greco dell’epoca matura che si rivelano subito come dei falsi. La cosa più curiosa è stato lo scandalo degli El Greco giovani di cui alcuni sono veri, ma si riconoscono subito quelli veri: anche quando El Greco è soprattutto un pittore bizantino o costantinopolitano o diciamo pure cretese del Mediterraneo orientale e fa delle cose italianeggianti, la qualità, l'impasto, sono di una persona di rara abilità. 141

REMBRANDT VAN RIJN Cena in Emmaus

1629 Olio su carta applicata su tavola, 42 x374 cm

Parigi, Musée Jacquemart-André

L’opera, eseguita su carta e di esigue dimensioni, presenta una straor-

dinaria originalità nell’impostazione tematica. La scena raffigura Cristo che dopo la resurrezione ha incontrato sulla strada per Emmaus due suoi discepoli, i quali, recatisi con lui a tavola, dapprima non lo riconoscono, ma lo identificano all'improvviso dal suo modo di spezzare e benedire il pane. Un passo del Vangelo di Luca descrive il tema, che è stato trattato ripetutamente nel secolo XVII e in epoche precedenti, per esempio da Caravaggio e dai suoi seguaci. Ma quella di Rembrandt è certamente l’interpretazione più singolare. Il dipinto a prima vista sconcerta, anzitutto perché è di difficile lettura. Subito si rimane abbagliati dalla presentazione della figura del Redentore. In genere infatti la luce viene messa in rapporto alla divinità come nimbo, come aureola, come alone luminoso. Qui

invece la luce parte da una porta situata dietro la figura del Cristo, visto come una sz/bouette nera in controluce. E già questo è un fatto straordinario, unico, che conferisce al quadro una straordinaria

potenza semantica. Quanti sono poi i compagni di Gesù? A tavola se ne vede solo uno, mentre in fondo a sinistra abbiamo una fante-

sca o una cuoca la quale sta preparando da mangiare. Solo un’accu143

Rembrandt, Un apostolo, particolare da Cena in Emmaus

rata lettura del dipinto ci fa scoprire che il secondo pellegrino esiste, ma è inginocchiato a terra nel buio perché probabilmente è stato il primo ad avere riconosciuto l’identità del Cristo. Quindi questo secondo pellegrino è nell’oscurità più totale e soltanto una leggerissima variazione di tono indica il suo profilo. E questo è un altro indizio della straordinaria genialità del pittore. L’opera non appartiene alla maturità di Rembrandt, cioè non è una di quelle opere per le quali è diventato famoso. Viene datata abitualmente alla fine degli anni Venti, al 1628, e rappresenta forse il passaggio dalla produzione giovanile a quella più matura. Nato a Leida nel 1606, Rembrandt era figlio di gente molto umile (il padre era un mugnaio), e morì ad Amsterdam nel 1669.

È molto difficile parlare del “personaggio” Rembrandt, dell’uomo, perché la sua è stata una vita estremamente complicata e ca-

ratterizzata da varie attività. Oltre che pittore e incisore, Rembrandt era anche un mercante d’arte: ha posseduto opere di Rubens, di Diirer, di Raffaello (o almeno a lui attribuite). Inoltre è stato uno spirito profondamente religioso e ha avuto vicissitudini poco piacevoli a causa delle sue convinzioni religiose, poiché apparteneva alla setta

144

Rembrandt, Cristo, particolare da Cena in Emmaus

degli anabattisti. Ha avuto poi gravi problemi familiari, perché dopo la morte della moglie Saskia van Uylenburgh, la governante del figlio Tito, Geertje Dircks, lo accusò di averle promesso il matrimonio, di averle regalato un anello, e poi di non avere mantenuto la promessa. Vi furono cause e processi, e la sgradevole vicenda si concluse quando il pittore trovò la sua nuova compagna in Hendrickje Stoffels. Lo stile dell’artista si formò alla scuola di Pieter Lastman, uno

di quegli artisti oggi definiti prerembrandtiani, i quali derivavano moltissimo dall’arte italiana (molti di loro erano stati a Roma) e soprattutto erano stati influenzati da un grandissimo pittore tedesco, oggi quasi ignorato: Adam Elsheimer. Lastman fu attivo a Roma e sulla sua esperienza romana formò una vera e propria scuola. I primi quadri di Rembrandt sono infatti proprio dipinti d la maniere di Lastman. Ma già nel 1628, nel dipinto in esame e in altre opere di questo momento, si sente che Rembrandt è attirato dal problema della luce.

Che questa sua inclinazione sia spontanea oppure che sia stata suscitata dallo studio di opere dei seguaci di Caravaggio in Olanda e nelle Fiandre, o anche che derivi da tendenze dei primitivi fiamminghi, come per esempio Aertgen van Leyden, figlio di Lucas, rimane in145

certo. Il fatto è che Rem-

brand maturo è il più gramstiici mali esistito, e la sua sem sibilità come grafico, siamel

no Ì disegni

Rembrandt, Azonizratto; 1661, Lomdha,

ulabeni

Einglist Hesitage; Kemwoodi House

le uniek

î

limit

indicate com pochi tratti. È per risolvere illproblema dellla luce che Rembrandt ogni volta inventa una muora soluzione, muovi modi per

far vibrare il quadro. Si vede bene amclhe mei ritratti. Rembrandt rie sce a modulare, a studiare, a interpretare la luce. I ritratti sono dei veri tour de fonce e hanno sempre dei particolari im cui la materia pit tonica è fosforescente, vilbira, si anima, si agita, scimtillia. Il dipinto dell museo Jacquemart-André già dimostra la straot dimaria inventività dell giovame artista. È um quadiro geniale, perché l'idea dii mettere la figuira del Redentore im assoluto primo piamo, di profilo, contro quella sorta di bagliore quasi di fiamma, è già una trovata otigimale. Ma amcora più origimale è che questa vampatadi Ice si accemda im um ambiente completamente oscuta. Solo un gior

vane di; grandissima intelliizenza poteva inventare qualcosa del genere, un’opeta che mom ha mullla a che fare con la luce del caravaggismo,, ma che secondo la mia personale opinione si rifà a certi pit tori; fiamminghi e olandesi che Imi dere avere a lungo meditato. De o SR e A opera, è la assola-

indifferen per illparticolare. za I quaditi che rappresentano il rema della cena diEumeneus sono ia genere deipretesti peiuneSg 146,

gio di abilità nel campo della natura morta. Pani, frutti, carni vengono esibiti sul tavolo oppure vengono utilizzati per la descrizione della cucina, quella cucina qui appena visibile nel fondo con la donna a lume di candela. Qui invece gli oggetti sulla tavola sono ridotti al minimo indispensabile, anzi sono addirittura trasandati, perché il tovagliolo è gettato sul tavolo con estrema rorchalance. Ho scelto questo quadro proprio perché anticipa il Rembrandt luministico nei suoi aspetti più originali e singolari. Al Louvre di Parigi, per esempio, esiste un quadro dello stesso tema, di alto livello, nel quale però tutto è radicalmente cambiato e la composizione è frontale. Viceversa, qui troviamo gli esordi di una vocazione, la concentrazione dell’interesse esclusivamente sulla luce: il colpo di genio di un pittore che inizia la sua grande carriera. Inoltre, questa Cena in Emmaus è singolare anche come espressione religiosa. Da

una parte abbiamo il Cristo luminosissimo e dall’altra uno degli astanti che scompare nell’oscurità. C'è da pensare che questa interpretazione potente ed efficace del passo evangelico sia da mettere in rapporto con le credenze religiose dello stesso Rembrandt. Caravaggio, Cera in Emmaus, 1596-98, Londra, National Gallery

147

Rembrandt, Cera in Emmaus, 1648, Parigi, Louvre

È un quadro in cui il tema religioso non è un pretesto, ma è profondamente sentito, cosa che raramente avviene, per esempio,

nei pittori italiani del Seicento. Il contrasto tra il Cristo, presentato come una si/houette contro un fondo di bragia, quasi accecante, e il resto della composizione immerso nell’oscurità, con un discepolo che lo guarda quasi atterrito mentre l’altro scompare, fa pensare a una profonda meditazione sul soggetto evangelico da parte di un uomo di saldissima fede. Tornando al “personaggio” Rembrandt, egli è stato anche un grande uomo d’affari. A un certo punto aveva una notevole quantità di allievi che dipingevano sotto la sua sorveglianza. Li metteva 148

in alcune camerette, dava loro dei disegni, degli abbozzi, delle idee per quadri che questi ragazzi portavano avanti e che alla fine il pittore stesso ritoccava e firmava. È per questo che il catalogo di Rembrandt ha dato luogo a infinite controversie e in anni recenti persino a una commissione la quale giudicò i quadri buoni e quelli da respingere. In certi casi però la questione dell’autenticità resta estremamente dubbia perché il disegno, l'invenzione e anche il ritocco finale sono di Rembrandt ed è quasi impossibile definire i margini di ciò che è autografo. Rembrandt ha avuto un'importanza enorme, ma mentre in Italia è sempre stato considerato una curiosità, la Francia, la Germa-

nia, i paesi anglosassoni gli hanno dato il tributo che merita. Il catalogo di Rembrandt, anche nei termini ristretti voluti dalla commissione, sarà sempre il catalogo di un genio grandissimo, unico, uno dei sommi dell’arte europea, perché pittore di prodigiosa abilità e soprattutto di prodigiosa inventiva. Rembrandt, Ronda di notte, 1642, Amsterdam, Rijksmuseum

JAN VERMEER Astronomo

1668-1673 Olozu tela 308x463 cm Pari Maida Lore

II dipinto ha avuto una storia piuttosto movimentata, della quale sarebbe imutille accennare ii primi capitoli, ma che diventa drammatica quando, sendo il quadro proprietà della famiglia Rothschild di Parigii, venne confiscato dali naziai durante la seconda guerra mondiale per essere immesso nel grande museo di Linz voluto dia Hitler. Re stituito dopo la queta ali propriatati, sso venne poi venduto al Leuve. Il dipinto, di modeste dimensioni, è molo probabilmente il compagno di un quadio analego come composizione e come impat10 della luce, conservato alllo Stidelches Kunsrinstitut di Prancofortee denominato il Geanrafo, perché llafigura sta lavorando su alcune carte goograifiche. Vanneer non è canto un pittore di favile lettura, tant'è vero che la sua personalità, Che aggii èconsiderata di sommo livello, è stata per molo tempo obliteratà, Il pittore è stato iizcoperto solo nel secolo sorso © im seguito ha avuto appazgi appassionati dla parte dii alcuni letterati, ura qui soprattuto Marcel Proust, il quale nitoneva addinittura Che la Veda di Delli dl museo dell'Aia fosse illpiù bel quadio del imondo. Vi sono pol parole di dlagiio di Vermeer da ipattte diipram-

Si

Ciò che maggiormente impressiona in Vermeer è la luce. Nei suoi quadri vi è una linfa vitale dovuta soprattutto alla luce, la quale circola in composizioni di straordinario rigore e di sorprendente intellisenza. Lo stesso dipinto in esame si basa sulla vetrata della finestra sulla sinistra, attraverso la quale passa una luce che diventa sempre meno intensa verso destra, ma che vibra in modo quasi magico in cer-

ti piccoli dettagli i quali poi finiscono con l’essere le basi portanti dell’intera composizione. A prima vista non ci accorgiamo di quella sorta di piccole fiammelle luminose che vibrano sul tessuto sopra il tavolo o, per esempio, nel sostegno del mappamondo o anche nella capigliatura del personaggio che sta muovendo il globo terrestre. C’è una sorta di luce viva, non inerte, e qui si sente senza dubbio la discendenza

da quei pittori che nella prima metà del secolo XV avevano scoperto in Fiandra la luce, e cioè i due fratelli Jan e Hubert van Eyck. Non per niente alcuni capolavori di van Eyck come il ritratto dei Conzugi Arnolfini, oggi alla National Gallery di Londra, sono impiantati con un'incidenza della luce molto simile a questa, con una luminosità che filtra dalla vetrata. Quindi esiste sicuramente un rapporto diretto con l’antica pittura fiamminga, ma esiste anche qualcos'altro. Vi è

in Vermeer l’ultima discenden-

za dal caravaggismo nordico. Infatti, mentre la pittura di Michelangelo da Caravaggio non ebbe in Italia, almeno presso le prime due generazioni, seguaci

di grido (perché il seguace più intenso è Bartolomeo Manfredi, che non è certo un grande pittore), il caravaggismo sortì inaspettatamente dei grandi interpreti sia in Francia,

con

quello che forse è il più grande dei caravaggeschi, Valentin de Boulogne, sia nei pittori fiamminghi, per esempio Baburen e Honthorst,

detto “Gherardo

Jan van Eyck, Conzugi Arnolfini,

1434, Londra, National Gallery

delle Notti”. In questi artisti vi è un’interpretazione del caravaggismo viva, originale, non accademica, e soprattutto capace di segnare un ca-

pitolo autonomo e decisivo del linguaggio della luce caravaggesca. La portata del caravaggismo nordico resta un fenomeno ancora da spiegare, perché se in Italia il caravaggismo è piuttosto debole e spesso si chiamano caravaggeschi pittori che con Caravaggio hanno ben poco a che fare, come Orazio Borgianni, negli stati nordici, soprattutto nelle Fiandre e in Olanda, il caravaggismo è una pianta dai molti frutti e dalle molte interpretazioni. Basti pensare a un pittore straordinario come Terbrugghen, in cui si sente che la luce ha un effetto molto importante. È probabile che questo allignare del caravaggismo in terra di Fiandra dipenda proprio dal fatto che il Rinascimento fiammingo si basa sulla scoperta della luce in pittura, così come il Rinascimento italiano si basa sulla scoperta della prospettiva. Lo stesso Caravaggio del resto era lombardo, proveniva cioè da una regione d’Italia in cui la pittura fiamminga aveva avuto un suo impatto, cosa che invece non era accaduta

nella Firenze del Rinascimento e in altre aree. In Lombardia il problema della luce era già stato avvertito, nella prima metà del Quattrocento, da Vincenzo Foppa e in seguito da certi pittori bresciani come il Savoldo, e sempre nel Quattrocento vi era stato un rapporto con le Fiandre nella figura di Zanetto Bugatto, di cui non sappiamo nulla, che era stato allievo di Rogier van der Weyden, o con Donato dei Bardi in Liguria, che sicuramente aveva visto opere fiamminghe. Nella pittura di Vermeer manca completamente l’aspetto chiassoso e ridanciano di certo caravaggismo, come avviene per esempio

nella pittura di Gherardo delle Notti. Vi è una sorta di atmosfera vellutata, sottesa, nascosta, in cui i sentimenti vengono quasi sempre rivelati in sordina, è anche, quella di Vermeer, una pittura in cui solo

una lunga frequenza con le immagini può rivelarne l’intensità psicologica. Non è un pittore da colpo d’occhio. È uno dei pittori più arcani e più introversi che abbia mai prodotto la pittura europea. Questo spiega per esempio il grande amore che per Vermeer aveva Marcel Proust. Vi è un’affinità tra i due. Le immagini di Vermeer sono come immagini della memoria che risorgono attraverso la luce. Ed è curioso il fatto che nel secolo XVII, con l’avanzare in Italia del classicismo e del Barocco, le pitture 195

di Vermeer vennero completamente ignorate. L'Italia purtroppo non possiede un’opera di Venmeer perché ill suo è un genere di pittura che è stato sempre ignorato dal gusto italiano e anche dai grandi col Altre volte le figure di Vermeer hanno un’immobilità e una vita silenziosa che fanno pensare a nature morte di figure. Non dimentichiamo che la natura morta in inglese si chiama 3127 Ze, ‘vita silemte”, e ci sono immagini come la Merdettaza © altre figure ipolate che danno proprio questa impressione. Anche la matura morta del resto trova la sua strada dopo una lunga frequenza, dopo una contimua imtrospezione da parte del lettore sia verso se stesso che verso le imma-

154

Vermeer, Lattaza, 1658-60, Amsterdam, Rijksmusem

gini. È uno dei grandi miracoli della pittura occidentale, uno dei grandi prodigi dell’arte del pennello quando quest'arte capita nelle mani di un personaggio straordinario come Vermeer. Per concludere, Vermeer è un pittore tra i più ermetici, tra i più chiusi, tra i più sublimi della pittura occidentale. La sua è una forma di intimismo che coinvolge anche l’osservatore, che riguarda non solo le immagini, ma anche la nostra capacità di lettura. È un pittore misterioso che presenta sempre qualcosa di estremamente silenzioso, una sorta di velo di silenzio dato dalla luce. Un pittore nel quale ogni generazione scoprirà sempre qualcosa di nuovo. 155

CANALETTO Il ritorno del Bucintoro nel giorno dell’ Ascensione

Ia, Olio su tela, 182 x 259 cm

Milano, Collezione Aldo Crespi

Il quadro, pendant del Ricevimento dell’ambasciatore imperiale a Palazzo Ducale nella stessa collezione, è in ottimo stato e deve essere consi-

derato assolutamente autografo sebbene ne esista un’altra versione nelle collezioni reali inglesi. Bisogna però insistere sull’autografia perché essendo opera di Antonio Canal, detto il Canaletto, come sovente ac-

cade potrebbe essere una versione di bottega o una copia dell’epoca. L'artista è il più grande dei vedutisti veneziani. Era nato nel 1697 da Bernardo Canal, un pittore che in realtà era uno scenografo, cioè dipingeva dei fondali con prospettive. Anche il figlio incominciò con lavori teatrali e questo spiega il suo ammaestramento nel campo della prospettiva. Talvolta infatti le prospettive eseguite per balletti, opere liriche e altro non erano pure fantasie a mano libera, come abitualmente si crede, ma rispettavano proiezioni geometriche estremamente precise. L'educazione del Canaletto poi si svolse anche accanto ad altri pittori, tra cui il Cimaroli. Egli comunque appare sulla scena prima veneziana, poi internazionale, come uno straordi-

nario autore di vedute. Straordinario perché la sua profondità spaziale, la sua lucidità, la sua precisione ottica sono ineguagliabili. 157

Canaletto, Ricevimento dell'ambasciatore imperiale a Palazzo Ducale, 1729, Milano, Collezione Crespi

La fama da lui ben presto acquisita con le vedute della città lagunare non rimase un fatto locale, anche grazie alla gran quantità dî visitatori che nell secolo XVIII si recavano a Venezia sia in occasione del carnevale, sia perché attirati dalla città come insuperabile centro momumentalle, d’arte e anche di vita allegra. Quantità ingenti di turisti molto qualificati accorrevano a Venezia da molti stati europei, non tanto dalla Germania o dalla Russia, quanto dalla Francia e soprattutto dall'Inghilterra. Molti volevano conservare, una volta tornati a casa, un ricordo dell'aspetto dellla città, e questo spiega la grande fortuna che hanno avuto i vedutisti veneziani del Settecento: Canaletto, Bellotto e anche Guardi. Inoltre la presentazione nelle proprie dimore di vedute veneziane era quasi diventata un obbligo sociale per l’alta aristocrazia inglese e questo spiega la grandissima quantità di vedute veneziane autografe del Canaletto che è stata ritrovata e che si conserva ancora in Inghilterra. Immediatamente, intorno al Canaletto, sorse un'industria, perché i quadiri venivano copiati molto accuratamente sia nella botte-

ga stessa del maestro, sia da altri pittori. L'esistenza di tale”industria” del Canaletto è fonte diirischi sul mercato, perché molto spesso le imi158

tazioni dell’epoca e le copie nom sono diialtissima qualità, ma possono facilimente trarne im inganno, e da questo deriva il commercio di qua diri mediocti © infimi, ai limiti del verosimile.

percorsa. È evidente che illCanaletto per queste vedute si serviva di mez| eresie hiimoegimo in grado diaiutare lasua mano a percorrere inmodo preRI RR la strada da seguire. Ma questo segrete

co si perde com lui, per cui i quadri dell’Ottocento, a parte il fatto che la preparazione bianca è sempie um indizio preciso dell’epoca, non reggono il confronto. Mioliti “Camaletto” ottocenteschi sono cit colati e contimuamo a circolare sull mercato, in collezioni private e anche presso musci americani, come opere sicure. Il soggetto dii questo capolavoro è una festa annuale la quale si ee dt ere dipresta nd viaggio né mercantile, che veniva costiuita ap ositamen i RATA ri pa và Cern Sol. DI iti ee

sprimendo quindi ilmatrimoniodi I Ge ili Bacioni chei vedequiè probabilmente quello fatto nell 1728 e corredato da ricchissime sculture dorate del Cortadimi, per qui il quadro dovette essere eseguito poco dopo ill maggio dell 1729 (la cerimonia si scolgeva infatti nell me se dimaggio). Questa splendida mare, che si era conservata bemissi mo, venne poi distrutta dagli invasori francesi nell 1797, quando, ocqupata la Repubblica veneta non senza spargimento di sangue, si ac— Se rtarate aivenanifimage

istrug endo I

gran parte del Tesoro di Sam Marco (la Pala d'Oro si LR eo ago prcru glisud) 159

Canaletto, particolare da I/ ritorno del Bucintoro nel giorno dell'Ascensione

Una quantità enorme di importantissimi reperti medioevali, bizantini e rinascimentali andò distrutta e tra le vittime vi fu anche il Bucintoro, che fu devastato e dato alle fiamme. Qui invece lo ve-

diamo in tutto il suo splendore mentre spinto dai rematori rientra al molo di San Marco con il vessillo della Repubblica al vento, rosso con il leone di San Marco in oro, con l'enorme padiglione coperto anch'esso di rosso e con le grandi sculture dorate che lo ornano a prua. Intorno ci sono le gondole dei veneziani in festa, tra cui alcune di gran lusso come quella sulla sinistra anch’essa ornata di sculture e di forma piuttosto insolita. È da notare anzitutto l'impostazione del quadro che inquadra la scena non dal centro della piazzetta di San Marco, bensì spostandosi a sinistra. Il punto di vista del pittore è esattamente al fianco della Libreria Marciana del Sansovino, così da consentire un ta-

glio prospettico sia al fianco del Palazzo Ducale, sia alla Basilica di San Marco. Da notare inoltre in questo dipinto, che è un autentico capolavoro, la perfetta messa a fuoco di tutti gli elementi della composizione, siano essi umani o architettonici. Per esempio ac-

canto alla Libreria vediamo i Granai, che furono poi demoliti in epoca napoleonica per fare luogo al giardino del cosiddetto Palazzo Reale. Tutto viene messo a fuoco con una lucidità impres160

Canaletto, particolare da I/ ritorno del Bucintoro nel giorno dell'Ascensione

sionante e da questo quadro si potrebbero ricavare una quantità di dettagli, tali da ricavarne un intero volume, perché non c’è nessun

elemento che sia trascurato o trattato come un accessorio di fondo. Tutto è disposto con puntuale e scrupolosissima lucidità, le distanze, i colori, lo stesso cielo. Il quadro poi è ammirevolmente leggibile grazie proprio alla tecnica del Canaletto, il quale evita quelle preparazioni bituminose, scure, che hanno devastato gran parte della pittura veneziana del Settecento. Non dimentichiamo che la preparazione scura, la quale veniva distesa con grande rapidità sulla tela, è responsabile della perdita di grandissima parte della pittura del Sei e Settecento, perché sia nei pittori napoletani, sia in gran parte dei pittori veneziani (come per esempio il Piazzetta), la preparazione sottostante è risalita in superficie alterando completamente i colori. Più è scuro oggi il quadro, più era chiaro in origine. I cieli soprattutto si sono persi perché le velature azzurre sono state completamente divorate dalle reazioni chimiche di ossidazione. Quando noi vediamo un Piazzetta in cui emergono soltanto le parti in luce, mentre il resto è affogato in un mare scuro, vuol dire che il quadro era chiarissimo. Le parti trattate a biacca non si sono ossidate, le altre sono completamente perdute. Ci sono pittori che hanno completamente perso la loro espres161

Canaletto, particolare da I/ ritorno del Bucintoro nel giorno dell'Ascensione

sività, come il mantovano Bazzani, che ora vediamo tutto scuro ma

che era chiarissimo, o come Giovan Battista Castiglione, detto il Grechetto, pittore genovese che generalmente si presenta fumoso, torbido, marrone, scuro, ma del quale invece alcuni quadri, tra cui uno al museo di Lione, appaiono dipinti su preparazione chiara e lasciano stupiti. Lo stesso Mattia Preti, il Cavalier calabrese, che noi vediamo solitamente scuro, per esempio negli affreschi bellissimi della chiesa dei Cavalieri a Malta, ha dei colori rutilanti. Non ha cioè quei toni tenebrosi che molti prendono per un dato di stile e che è dovuto invece al fatto che la tecnica di preparazione ha completamente alterato il colore. Nel Canaletto c’è un forte scrupolo tecnico, quindi il quadro non ha subito alterazioni cromatiche proprio perché deve esserci stato uno studio accuratissimo sulla composizione dei colori. 162

Oltre alle vedute di Venezia, per le quali è giustamente famoso, il Canaletto ha eseguito anche dei capricci, cioè delle vedute fantastiche di rovine, di edifici, di paesaggi, un genere molto noto e molto applaudito nel secolo XVIII. Ancora più interessante è il periodo che il Canaletto trascorse a Londra tra il 1746 e il 1756, quando il pittore, oltre a eseguire splendidi capricci, fu l’autore di alcune spettacolose vedute sia di Londra, sia di altri luoghi dell’Inghilterra, vedute che oltre ad essere di ammirevole valore artistico, sono

anche molto importanti britannica. L’arte del Canaletto bili, dal nipote Bernardo quale fu uno degli artisti tro, per le sue vedute di

per la storia della topografia della capitale fu ripresa, ma con caratteri ben individuaBellotto, figlio di una sorella del pittore, il del re di Polonia e divenne famoso, tra l’alVarsavia.

Canaletto, Processione dei cavalieri dell'Ordine del Bagno, 1749, Abbazia di Westminew

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FRANCISCO GOYA SC ILUGIENANIS

Fucilazioni del 3 maggio 1808

1814 Olio su tela, 345 x 266 cm Madrid, Museo Nacional del Prado

Nato a Fuendetodos, vicino a Saragozza, nel 1746, Francisco Goya passò nella città natale la sua giovinezza ed ebbe un’educazione religiosa. È l'epoca, questa, in cui in Spagna cominciano ad arrivare, soprattutto dalla Francia, le idee illuministe, un particolare questo da tenere presente per capire il Goya maturo, che sarà profondamente coinvolto dall’arrivo dell'Illuminismo nel proprio Paese. Nel 1760 il giovane Goya passa nello studio del pittore José Luzan Martinez, dove inizia una intensa attività di copista di stampe, soprattutto italiane e francesi. Quattro anni dopo partecipa a un concorso di disegno nella Reale Accademia di San Fernando a Madrid e nel 1766 si presenta a un altro concorso della stessa accademia. Nel 1770 si reca a Roma, dove

prende contatto con la pittura italiana, e nel 1771-72 partecipa a una gara dell’Accademia di Parma, ottenendo una menzione speciale. Fa quindi ritorno a Saragozza, dove riceve i primi incarichi importanti.

Nel 1773 a Madrid conosce Josefa Bayeu, sorella del pittore Francisco, e la sposa, trasferendosi nella capitale due anni dopo. Qui Goya riceve subito l’incarico di lavorare per l’Arazzeria Reale e dà avvio alla stupefacente serie di cartoni per la Real Fabbrica di Santa Barbara (0g165

gi quasi tutti conservati al Prado), eseguendo nello stesso tempo molte incisioni, soprattutto da opere di Velizquez. Il successo dovette essere straordinario perché nel 1780 entra nell'Accademia di San Fernando, occupando il posto che era stato di Anton Raphael Mengs. Nello stesso periodo si accende in Spagna una grande lotta tra gli illuministi e la Reazione. Già nel 1777 erano stati cacciati i gesuiti, l’anno dopo le università erano passate sotto la giurisdizione reale, e nell’alta società spagnola si andava creando una sorta di spaccatura tra i due partiti. Nel 1786 Goya, già noto come ritrattista, diventa pittore del re e ricomincia a lavorare ai cartoni per arazzi. Morto Carlo II nel 1788, Goya diventa pittore di camera del suo successore, Carlo IV, realiz-

zando una quantità di ritratti e cartoni. Nel 1791 il pittore soffre di una grave malattia, di origine ignota (probabilmente venerea), e si ritira a Cadice, dove diventa quasi completamente sordo. Frattanto era scoppiata la Rivoluzione francese e le notizie che giungono in Spagna cominciano a impressionare la società e l’ambiente vicino al re. Nel 1795 Goya comincia a dipingere per la famiglia del duca d'Alba ed è in questo periodo che si dice sia nato il grande amore tra il pittore e la duchessa d'Alba, del quale sono testimonianza alcuni stupendi ritratti. Nel 1800 è attivo ancora per il re e nel 1802 muore la duchessa d'Alba. Sono gli anni in cui comincia a sorgere il grande astro di Napoleone Bonaparte. Ed è questo il periodo di alcuni tra i più grandi ritratti di Goya, dove egli sfoggia notevoli doti di intuizione psicologica, mostrando di essere uno dei più grandi ritrattisti di ogni epoca. Frattanto la situazione politica comincia a oscurarsi. Nel 1808 Carlo IV abdica e Goya dovrebbe dipingere un grande ritratto equestre del successore, Ferdinando VII. Ma in Francia Napoleone nomina re di Spagna il fratello Giuseppe e Goya, insieme ad altri trentamila capi di famiglie spagnole, giura amore e fedeltà al nuovo sovrano. Ha inizio allora l'occupazione del territorio spagnolo da parte dei francesi e subito divampa una guerriglia terribile, senza precedenti nella storia europea. Goya si trova così ad assistere agli orrori più incredibili, alle tragedie più spaventose, mentre alcune città spagnole vengono saccheggiate e completamente distrutte. Nel 1810 il pittore comincia la straordinaria serie di incisioni denominata I disastri della guerra, opere che, con i Capricci eseguiti intorno al 1797-99, sono tra i capolavori assoluti della grafica di tutti i tempi. 166

Goya, L'Autunno (La Vendemmia), 1786 -87, Madr id , Prado

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La reazione antifrancese è estrema, anche perché i francesi vengono visti come portatori di ateismo da una popolazione profondamente religiosa. Nel 1813 essi si ritirano dunque dalla Spagna, ma Ferdinando VII firma un trattato di alleanza con la Francia contro l'Inghilterra e l’anno dopo ritorna sul trono. Goya finisce nelle liste degli epurati e, pur continuando a lavorare — per esempio alle incisioni della Tauromachia — la sua attività diventa sempre più privata ed egli si ritira nella casa detta la Quinta del sordo, che dipingerà con le cosiddette Pinturas negras, le pitture nere. La situazione comincia a diventare pericolosa. La restaura-

zione assolutista guidata da Ferdinando VII dà avvio a una vera e propria persecuzione contro i liberali e Goya, allarmato, parte per la Francia e si ritira a Bordeaux, dove muore nel 1828. I dipinti eseguiti in Francia, soprattutto gli ultimi, hanno avuto un’importanza straordinaria per la pittura francese e, dopo essere stati ignorati per lungo tempo, sono stati riscoperti dai primi impressionisti, soprattutto Manet.

In Goya abbiamo un pittore assolutamente nuovo, anzitutto perché coinvolto nelle vicende politiche del suo tempo, cosa mai accaEdouard Manet, Esecuzione dell’imperatore Massimiliano in Messico, 1867, Mannheim, Kunsthalle

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Goya, Visione fantastica, 1820-21, Madrid, Prado

duta prima. Poi perché è stato un uomo violentemente passionale, come dimostra il suo rapporto con la duchessa d'Alba (nel ritratto della quale il suo nome figura scritto nella sabbia che l’effigiata cancella con un piede). Infine perché c’è in lui una straordinaria intuizione umana dei personaggi più disparati: giovani, vecchi, laici, clericali, generali, elegantoni della corte. Il suo è un campionario quasi unico. Questa pittura poi è sorretta da una tecnica straordinaria e da un senso del colore ancora più straordinario. Goya è un pittore vero, talvolta “acre” nella rappresentazione del genere umano, un pittore che ha capito la pittura del passato e ha studiato Tiziano e Velàzquez, eccellendo nei ritratti e soprattutto nelle incisioni, che sono tra le più spettacolose invenzioni compositive dell’arte europea e, nel caso dei Capricci, tra le più spettacolose scoperte di taluni aspetti della mente umana. In Goya si avverte sempre una grande sofferenza. Per la malattia che lo ha afflitto, per la situazione del suo Paese, per la reazione antiliberale che accompagna la restaurazione e soprattutto per il declino degli ideali ai quali aveva creduto. Con l’occupazione francese la Spagna perde l’occasione di rinnovarsi, giungendo così fino al pieno secolo XX con una stratificazione sociale ancora arcaica, il che

spiega la grande tragedia degli anni Trenta. Goya segna uno spartiacque nella pittura mondiale. Bernard Berenson soleva dire che con lui comincia il disordine e di fatto Goya è un rivoluzionario, sia dal punto di vista formale sia da quello psicologico e ideologico. È, in sintesi, qualcosa di assolutamente nuovo. 169

EUGENE DELACROIX La Libertà che guida il popolo

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1550 Olio su tela, 260 x 325 cm

Parigi, Musée du Louvre

La Libertà che guida il popolo è il grande dipinto di soggetto rivoluzionario che Eugène Delacroix dipinse nel 1830 ed è oggi esposto al museo del Louvre. Quale fu l’antefatto che ispirò il pittore per questo soggetto in cui si vede la Libertà armata di fucile e di bandiera tricolore che guida sulle barricate, a sinistra i rivoluzionari, cioè de-

gli operai e un borghese, e sulla destra un giovane armato, mentre a terra si vedono i morti delle due parti, a sinistra i rivoluzionari e a

destra coloro che erano dalla parte del governo? Il soggetto del quadro è ispirato alla rivoluzione francese del 1830 che fu scatenata da alcuni provvedimenti legislativi di re Carlo X, il vecchio conte d’Artois, fratello di re Luigi XVI, che era

stato decapitato durante la Rivoluzione francese. Il re voleva sciogliere la Camera appena eletta in base a regolari elezioni e sopprimere la libertà di stampa. La rivolta provocò la fine del regno di Carlo X, e l’instaurazione della monarchia di luglio, quella di Luigi Filippo d'Orléans: una monarchia borghese e non più a sfondo aristocratico. Il quadro fu accolto molto male. Noi troviamo nei giornali dell’epoca critiche molto violente, soprattutto a causa della figura del171

Delacroix, La Libertà, particolare da La Libertà che guida il popolo

la Libertà, della quale si rimproveravano le mammelle troppo grandi e di cui molti critici citavano addirittura le ascelle con i peli ben visibili. Questo è un particolare molto curioso. I peli, salvo la barba

e i capelli, non vengono mai riprodotti nella pittura accademica, in genere il nudo è depilato, come nelle sculture, e quindi il dettaglio indignò molte persone. Il quadro poi ebbe una stranissima storia perché fu acquistato immediatamente dallo Stato per il museo del Lussemburgo, ma già nel 1832 veniva ritirato per fare una timida riapparizione nel 1848, durante la rivoluzione; nel 1849-50 sparì di nuovo e riapparve solo a un'esposizione del 1855, per essere poi dato al museo del Louvre dove è ancora esposto. Quindi è un quadro che ha profondamente impressionato l'opinione pubblica e che può essere esaminato sotto vari aspetti.

Anzitutto l'aspetto compositivo: c'è una sorta di movimento che dalla sinistra va verso la destra, cioè “vince” sulla destra. E questo fatto ha sicuramente un riferimento alla sinistra rivoluzionaria e alla 172

Pieter Paul Rubens, La sconfitta di Sennacherib, 1614-15, Monaco, Alte Pinakothek

destra conservatrice. È inoltre molto interessante osservare la figura della Libertà, nella quale si notano ancora dei ricordi classici, tutta-

via completamente trasfigurati. E poi c'è un fatto molto curioso, il fatto tecnico, che è caratteristico di tutta l’opera di Delacroix. Se esaminiamo il quadro, e se esaminiamo le opere mature di Delacroix, il

quale al momento di dipingere questo quadro aveva 32 anni, se esaminiamo il pigmento cromatico, ci accorgiamo che esso non è più

quel pigmento liscio, sottile, privo di corposità che era caratteristico dei quadri “rivoluzionari” di pittori come David, ma è una pittura che si rifà alla grande tradizione pittorica del colore corposo, rappresentata soprattutto da Pieter Paul Rubens. In effetti noi sappiamo che il giovane Delacroix, il quale era nato vicino a Parigi, ma già del 1806-7 si era trasferito con la famiglia nella capitale, nel 1815 era nello studio del pittore Guérin, dove ebbe modo di incontrare Géricault e anche Ary Scheffer, artista di ispirazione accademica. Però quello che è caratteristico in Delacroix è questa sorta di ritorno a quel tipo di impasto cromatico, di pennellata e di costruzione pittorica 173

che durante la Rivoluzione veniva identificata con l’ancien régime aristocratico. Questo è molto

interessante perché dal recupero della vecchia pittura tradizionale, che rimarrà poi vivo durante tutto l’Ottocento, deriva quello che è considerato l’aspetto rivoluzionario e più aggiornato della pittura francese, l’Impressionismo,

mentre stranamente la pittura dei pompiers, oggi erroneamente di-

sprezzata nonostante includa alcuni grandi artisti, è una pittura liscia, priva di spessore o di spessore minimo, che talvolta si rifà

proprio a quegli esemplari di DaDelacroix, Tamburino, particolare da

vid che erano considerati rivolu-

La Libertà che guida il popolo

zionari. Quindi vi è stato una sor-

ta di scambio, di incrocio. Delacroix in questo quadro mostra di aprire nuove prospettive

alla pittura. Innanzi tutto è una pittura la quale partecipa a quella che è la vita della nazione, alla vita sociale, alla vita storica. Non è una

pittura accademica. Per celebrare la rivoluzione egli mostra proprio i tipi rivoluzionari: l'operaio, il borghese e soprattutto il ragazzo, che impressionò fortemente e che è stato poi la fonte di un personaggio letterario molto noto, il Gavroche di Victor Hugo, che sicuramente

è stato ispirato da questo dipinto. Ma soprattutto è una pittura la quale nell’esaltazione del moto rivoluzionario che ha abbattuto re Carlo X, presenta un’intonazione moderna, in cui la parte classica è sol-

tanto limitata alla figura della Libertà. La quale ha un’intonazione da statua classica, per quanto certi aspetti, tra cui gli attributi fisici e le

ascelle, denotino che le regole del classicismo sono state superate. Tutto Delacroix, a ben considerare, apre nuove prospettive alla pittura. Innanzi tutto, Delacroix è importantissimo come pittore di luoghi e di personaggi esotici. Il suo viaggio in Algeria, la sua conoscenza del Medio Oriente, hanno prodotto quadri — talvolta dei 174

capolavori assoluti — nei quali l’apertura verso paesi estranei agli interessi della pittura vera e propria, è enorme, piena, totale. Di Delacroix restano moltissimi studi di berberi, di beduini, di cammel-

lieri, di gente del popolo, che sono dei veri e propri capolavori. Con lui la pittura esotica, che già esisteva anche nei secoli XVII e XVIII, ma soprattutto come pittura di genere, artificiosa (i quadri turcheschi dipinti a Venezia o a Firenze nel Settecento sono quadri di maniera in cui tutto è visto in chiave fiabesca, così come le “cineserie”

settecentesche, spesso ispirate da importazioni dalla Cina destinate al mercato occidentale), il Medio Oriente e l'Africa del Nord si

aprono alla vera pittura. In questo bisogna dire che Delacroix segna un passo in avanti anche rispetto a certi artisti inglesi i quali avevano già visto l’area mediterranea come fonte di ispirazione (parlo di Bonington e dello stesso Turner). Delacroix è un pittore in cui entrano moltissimi aspetti della realtà che fino allora non erano stati considerati degni di far parte della grande pittura. Delacroix, Ingresso dei Crociati a Costantinopoli, 1840, Parigi, Louvre

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Delacroix, Esercitazioni militari di marocchini, 1832, Montpellier, Musée Fabre

Delacroix poi è molto importante come pittore storico. La cri-

tica degli ultimi decenni ha individuato un genere di pittura e di arte definito style troubadour, uno stile neogotico, neomedioevale, che

ha avuto una grande fioritura, negli anni Venti e Trenta del XIX secolo, in Francia, in Italia, in Germania, in Inghilterra, in Spagna.

Questo stile, che stranamente non era stato ravvisato nelle sue componenti (talvolta invece molto forti, molto solide), ha come obiettivo un ritorno a certi modi di vedere e di sentire del Medioevo. Un

periodo che in questi anni, dopo la terribile scossa della Rivoluzione francese e dell'Impero napoleonico, viene mitizzato e viene presentato, soprattutto dagli ambienti cattolici e reazionari, come un’epoca serena, di pace, di stabilità sociale, di gentilezza, di cortesia.

Una ideologia in chiave neomedioevale presente in architettura e in pittura, una falsa ricostruzione in cui assistiamo a un Medioevo che segue gli usi e costumi del primo Ottocento. In Delacroix esistono moltissimi quadri e disegni di soggetto storico, ma tutto è trattato con un linguaggio libero, moderno, con 176

Delacroix, Donne di Algeri nelle loro stanze, 1834, Parigi, Louvre

un modo di esprimersi che in certi casi fa pensare a una ripresa dell’antichità alla Rubens, del tutto priva di intenti archeologizzanti. Così come Delacroix rimane se stesso, rimane moderno quando, specie nei disegni, descrive gli ambienti del Nord Africa. Delacroix è stato anche un grande decoratore, per esempio nei dipinti murali del Salone del Re a Palais Bourbon e nella Biblioteca del Palais du Luxembourg, a Parigi, eseguiti tra il 1830 e il 1850. Anche qui c'erano dei temi obbligati, di storia antica, ma Delacroix dimostra di essere se stesso, non vi è mai alcun tentativo di travisa-

re il proprio stile cercando di mettere in piedi una sorta di Medioevo o di antichità di cartapesta. Tuttavia resta un pittore generalmente travisato dalla critica, anche perché rimane per così dire incerta la sua posizione ideologica e politica. Delacroix muore nel 1863 e questo è interessante perché egli vive tutta l'epopea della Francia, che passa dalla restaurazione monarchica alla monarchia di Luigi Filippo, dalla rivoluzione del ’48 a Luigi Napoleone e al Secondo Impero, crollato sette anni dopo la sua morte, con la sconfitta di Sedan. I7/7)

EDOUARD

MANET

Le déjeuner sur l’herbe

1862-1863 Olio su tela, 208 x 264,5 cm Parigi, Musée d’Orsay

Le déjeuner sur l’herbe è uno dei quadri più noti di Edouard Manet e si conserva al Musée d’Orsay a Parigi. Quadro famosissimo, riprodotto infinite volte, è nato nel 1862-63. L’inizio della storia del quadro, che è firmato e datato 1863, è negativo nel senso che il dipinto fu proposto per il Salon annuale, dove i pittori esponevano, e fu rifiutato perché considerato di livello troppo basso, indegno della manifestazione. Però quell’anno, accanto al Salone vero e proprio, si decise di fare un “Salone dei rifiutati”, dei respinti, dove fu inserito questo quadro con altre due tele del Manet. Il dipinto esposto al Salone dei rifiutati divenne l’oggetto di critiche beffarde, di sghignazzi, di sberleffi da parte della stampa e anche da parte di alcuni letterati. L’opera poi è diventata famosa soltanto negli ultimi decenni, diciamo a partire dal 1930, con la rivalutazione dell’Impressionismo. Il quadro è molto curioso perché è strettamente appoggiato, nella composizione, al dettaglio di una incisione di Marcantonio Raimondi, celebre incisore che trasse molte delle sue inci-

sioni classiche da opere di Raffaello e della sua bottega. In effetti, se noi prendiamo l’incisione e guardiamo la parte di destra, 179

vediamo che le tre figure sono proprio le stesse di Marcantonio. Perché Manet ha fatto questo? Innanzi tutto l’incisione di Marcantonio era servita, seppure in altro modo, ad un grandissimo pittore che precede Manet, e che è Gustave Courbet. C'è un quadro di Courbet in cui alcune figure dipendono da quelle della parte sinistra e del fondo dell’incisione romana. Quindi la composizione era già nota, e non bisogna dimenticare che Manet fu profondamente influenzato, agli esordi, da Courbet. Courbet che,

come diceva Giorgio de Chirico, è l’ultimo dei grandi pittori del passato e il primo dei pittori moderni. Il grande mutamento è però che nella tela di Manet la scena si svolge all’aperto. Innanzitutto con una grande natura morta nell’angolo di sinistra, di ammirevole esecuzione e di ammirevole lucidità, e poi con un fondo boschereccio nel quale si vede un’altra figura, la quale sta immersa con le gambe in un corso d’acqua. La prima impressione che fa questo quadro è di totale slegamento tra il gruppo delle figure e il fondo. Si ha l'impressione che il fondo sia completamente fuori dalla visione che ha sorretto le tre figure. Cioè, fa l’impressione di un fondale, o di qualche cosa che è stata vista da Manet con un altro occhio e con un’altra prospettiva. Questo è però un dato, non chiamiamolo difetto, è un dato che

si riscontra in molte opere di Manet, soprattutto quelle del primo periodo. La figura non è perfettamente fusa con il fondo, anche quando il fondo è lasciato neutro. Dà sempre l’impressione come di una tela, di un fondale di fotografo o qualche cosa di non perfettamente realizzato. È curioso, perché del Déjeuner sur l’herbe, nella galleria del

Courtauld Institute della London University, c'è un bozzetto in cui tale “difetto” è completamente superato. Evidentemente, nella trasposizione dal bozzetto alla tela finale è andata perso, comunque è mutato qualche cosa. Il bozzetto mostra una unità di visione che nella tela non esiste più. Che cosa si evince dal quadro del Déjeuner sur l’herbe? Innanzi tutto una grande disinvoltura del pittore nell’approccio all’arte classica del Rinascimento. Il tema mitologico è trasposto in un ambiente del tutto laico, demitizzato, e le stesse tre figure si mostrano in tono e con un aspetto completamente profano. 180

Si sente però in questo quadro un dato molto preciso, e lo si sente soprattutto nella figura della donna nuda. Cioè che Manet aveva incominciato a guardare le fotografie, i dagherrotipi. Quello che noi talvolta non consideriamo o respingiamo, cioè il rapporto tra fotografia e pittura, c’è stato invece, e molto impor-

tante. C’è stato perché, in un primo momento, quello a cui appartiene Manet, la pittura — cosa che poi diventerà più chiara con gli altri impressionisti — cerca con il pennello di eguagliare ciò che è impresso sulla lastra fotografica. Ma in un secondo momento, quando la fotografia accresce la potenzialità dei suoi mezzi, e diventa uno degli strumenti più diffusi della nostra vita, ab-

biamo in pittura una violenta reazione, la quale o si esprime con un ritorno alla geometria rinascimentale tipo Seurat, o cerca di combattere la luce della fotografia con il Divisionismo, o addirittura rompe con gli schemi figurativi soliti, e questo accade all’inizio del nostro secolo, con le Avanguardie storiche. Non si possono capire le Avanguardie storiche senza comprendere i rapporti tra pittura e fotografia. La cosa più interessante è che, quando la fotografia evolve nel cinema (perché il cinema è fotografia movimentata, un ulte-

riore passo), noi assistiamo a una pittura la quale a sua volta è influenzata dal cinema. È impossibile capire l’Espressionismo tedesco degli anni Venti, soprattutto nelle sue forme più esasperate, se non si tiene conto del cinema tedesco di quegli anni, che è stato molto importante. Io non parlo soltanto del Gabinetto del dottor Caligari e di altri film del genere (molti dei quali sono andati persi perché con l’avvento del nazismo le pellicole di quegli anni sono state tutte bruciate; qualche cosa si è salvato, ma ben poco,

ce ne sono molte che non si conoscono). E non si può capire la pittura degli espressionisti senza tener presente lo shock che ebbe il pubblico quando vide quei film. Ma dirò di più: che quando il cinema a sua volta, negli anni Quaranta, cede al nuovo fenomeno della televisione, e quando ciò che era uno spettacolo collettivo (perché il cinema si andava a vedere nelle sale cinematografiche), diventa uno spettacolo privato (perché ciascuno di noi può stare solo in una camera con lo schermo televisivo), allora assi-

stiamo al trionfo di una pittura non figurativa, astratta, in cui ad181

dirittura la figuratività dipinta respinge decisamente ogni rapporto con quello che è l’ambiente naturale. I grandi pittori di New York degli anni Quaranta-Cinquanta, e poi tutta la pittura non figurativa dei nostri giorni, non si spiegano senza questo dilagare della televisione. Che il cinema sia morto in seguito a questo dilagare della televisione, o che per lo meno sia entrato in grave crisi, lo avevano già capito nel 1941 alcuni grandi produttori hollywoodiani. Quando Sam Goldwyn e Louis Mayer videro i primi saggi di televisione commerciale, e videro soltanto dei provini, capirono subito che il cinema avrebbe avuto un nemico decisivo. E fu in seguito a quelle visioni private che Goldwyn e Mayer decisero subito di ristrutturare la produzione della Metro Goldwyn Mayer. Capirono ad esempio che le grandi scuderie di divi e di dive erano finite, e nello stesso giorno furono licenziate con grande indennizzo, tra gli altri, Greta Garbo e Norma Shearer, perché essi capirono che il

cinema aveva trovato un nemico micidiale che era lo spettacolo televisivo nella casa privata. Non dimentichiamo che tutte le più grandi invenzioni cominciano per un pubblico collettivo e poi diventano cose personali, private. La stessa cosa è avvenuta con i

viaggi in treno. Il treno comincia col vagone nel quale entrano molte persone, e poi evolve nell’automobile in cui entra soltanto una persona o un piccolo gruppo. Cioè, tutto da collettivo diventa un fatto privato. La stessa cosa è avvenuta con il cinema. In Manet c’è sicuramente questo rapporto con la fotografia, accanto a una prodigiosa formazione culturale. Conosceva molto bene il Rinascimento italiano, era stato a Firenze dove aveva ese-

guito una quantità di copie da quadri famosi della Galleria Pitti, per esempio. L’O/ypia, che è il suo quadro più noto, non si spiega senza la conoscenza della Verere di Urbino di Tiziano, che Manet aveva copiato a Firenze. Accanto a questa prodigiosa cono-

scenza del Rinascimento, c’è una altrettanto profonda conoscenza di quella che è la pittura spagnola dell’epoca di Filippo IV: Velazquez, Coello, Murillo. E poi c'è un rapporto, quasi fra padre e figlio, con l’estrema produzione di Francisco Goya. Goya, come sappiamo, era morto a Bordeaux. Gli ultimi quadri di Goya, per esempio La lattaia, sono già dei quadri alla Manet. 182

È stata esagerata, secondo me, la portata del verbo impressionista di Manet. Gli ultimi quadri, verso la fine, mostrano in ef-

fetti un approccio impressionista soprattutto per quello che riguarda la scelta dei temi. Cioè, anche in Manet la pittura viene completamente demitizzata, viene portata alla vita quotidiana e viene soprattutto portata all'atmosfera della vita quotidiana. Non dimentichiamo che l’anno in cui Le déjeuner sur l’herbe venne rifiutato dalla commissione, trionfò al Salon un quadro accademico e porpier che è la Nascita di Venere di Cabanel, un quadro che mandò in delirio i visitatori. E quando nel 1865 l’Olyrpia fu accettata al Salon, l'imperatrice Eugenia passò davanti con un’aria Manet, O/yrpia, 1863, Parigi, Musée d’Orsay

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sdegnosa e percosse la tela con il suo ventaglio come per dire “Via. Pfui. Orrore”. Non solo per il nudo, ma per tutto l’insieme, perché il nudo veniva trattato con un realismo che coinvol-

geva anche la stessa espressione del viso. Il nudo è stato sempre accettato quando è stato trasposto in una atmosfera mitologicoclassica. Ma qui il nudo è incominciato a diventare, più che nudo, “spogliato” — c’è una grande differenza tra “nudo e “spogliato”: nude sono le figure idealizzate, il corpo umano idealizzato; lo “spogliato” sono invece le persone vere che si sono tolte i vestiti e la biancheria. Il quadro di O/yrpia fa in un certo senso, sebbene non ancora completamente, quell’effetto. Ciò che disturbava era il realismo e quell’aria sprezzante, narguant della cortigiana che sta per ricevere dalla negra un mazzo di fiori inviatole da un ammiratore. Le déjeuner sur l’herbe è stato rifiutato al Salon perché è stato considerato una cosa quasi blasfema — riprendere un tema classico in questo modo! — e poi perché la commissione trovò anche qualche cosa di indecente moralmente — questi uomini vestiti che andavano in campagna con una donna che si era completamente spogliata! Faceva subito pensare alla partouze, alla cosa illecita, all'amore fatto nei boschi, all'aperto. Una cosa oltraggiosa. Non dimentichiamo che durante il Secondo Impero, prima del 1870, anno in cui cade Napoleone III, la pittura che più era apprezzata era quella dei grandi ritrattisti che ripetevano, spesso con una tecnica ammirevole, i moduli iconografici della grande ritrattistica del passato (soprattutto quella fiamminga di Van Dyck, di Rubens e di altri pittori anche del Settecento, ma soprattutto quella ritrattistica solenne, regale, maestosa che passava dalle Fiandre alla Spagna; per esempio ci sono dei quadri dell’epoca Napoleone III il cui modulo è ripreso dalla grande ritrattistica spagnola: Alonso Sanchez Coello, Velazquez). Oppure andavano di moda i pittori che noi chiamiamo impropriamente pompiers, pompieri, cioè pittori dalla tecnica accademica, meticolosa, i quali ripetevano una quantità di soggetti classici, tratti dalla mitologia, dalla storia greca e dalla storia romana; oppure ripetevano con grande precisione, con una meticolosità estrema, delle visioni di storia e di vita contemporanea, in un arco che si estendeva 184

dall'Europa fino all’Asia. Un grande successo, in questo periodo, è dato ai pittori orientalisti. La innovazione tecnica, cioè la rottura con i modi tradizio-

nali del dipingere basati sul disegno di contorno, era guardata come qualche cosa di pericoloso. In realtà questi grandi pittori di successo come per esempio il Cabanel della Nascita di Venere, erano pittori che vivevano in una torre d’avorio, completamente avulsi dagli sviluppi della vita e della cultura contemporanea. È difficile trovare, in un pittore detto porzpier, un rapporto con la fotografia e con gli esperimenti della fotografia che andavano moltiplicandosi in quell’epoca. Ciò non toglie però che alcuni di questi pittori, come Géronme, siano dei grandi pittori. Non si può fare di tutta l’erba un fascio, come è stato fatto ad esempio, stupidamente, con la pittura italiana. La pittura italiana dell’epoca ha una quantità di pittori accademici, noiosi, ripetitori monotoni di formule e di schemi ormai desueti. Però la pittura italiana ha avuto anche dei grandissimi artisti che sono stati vilipesi molto ingiustamente anche da parte di certa critica che si pensa fosse illuminata. Non dimentichiamo poi che il realismo italiano della seconda metà dell’Ottocento ha dei veri e propri artisti che hanno prodotto dei capolavori, ma anche questi sono stati buttati tutti in un solo fascio come se l’Italia dopo Tiepolo non avesse avuto più nulla. Manet non può essere considerato un pittore popolare. È popolare qualche volta con i temi, soprattutto nell’ultimo periodo. Ad esempio il bellissimo quadro della pinacoteca di Monaco di Baviera, con la donna dietro il bancone, è un quadro di argomento

popolare, ma in questo senso ce ne sono molti altri. E soprattutto bisogna vedere, di Manet, le nature morte, che spesso sono prodigiose: pesci nel piatto, mazzi di asparagi. O anche certi temi bellissimi come la donna che serve i bock di birra nella birreria al Musée d’Orsay. Sono temi popolari che poi saranno ripresi con una felicità suprema dal giovane Renoir. Però come artista non si può certamente considerare Manet un artista popolare. Nessuno di que-

sti artisti è popolare, anche perché la pittura era un genere di produzione che era riservata a una classe alto-borghese. Non c’era una diffusione di pittura a buon mercato come poi è accaduto dopo. 185

EDGAR DEGAS Lezione di danza

1873-1876 Olio su tela, 85 x 75 cm

Parigi, Musée d’Orsay

Degas non era figlio di gente qualunque, ma era il rampollo di una famiglia nobile, una parte della quale si era allontanata dalla Francia al momento della Rivoluzione e si era rifugiata a Napoli. Il vero nome della famiglia era De Gas, ma lo stesso pittore volle poi democratizzare questo cognome in Degas. Ben presto mostrò di esse-

re molto portato per la pittura: fu allievo di Lamothe, il quale a sua volta era stato alla scuola di Ingres e aveva inculcato nel giovane un vero e proprio culto per questo pittore. Caratteristica dei quadri di Degas, come delle sue opere in pastello e anche delle acqueforti, è infatti una straordinaria disciplina pittorica che gli deriva proprio dall’ammirazione giovanile per le opere di Ingres. Nel 1856 il giovane Degas fece un viaggio in Italia, soggiornando a Roma e poi recandosi a Napoli a trovare dei parenti che ancora si trovavano là, ed ebbe modo di eseguire alcuni ritratti molto importanti. Degas rientrò a Parigi nel 1857, per poi tornare a

Roma: qui, all'Accademia di Villa Medici, entrò in rapporto di amicizia con una quantità di figure intellettuali anche di primo piano, come Léon Bonnat, il musicista Bizet, Delaunay e altri. Nel 1872-

73 fece un viaggio negli Stati Uniti e quindi si ritirò a Parigi, dove 187

Degas, Mercato del cotone a New Orléans, 1873, Pau, Musée des Beaux-Arts

condusse una vita d’artista molto intensa lasciando, oltre a quadri, pastelli, incisioni, anche delle sculture di grande interesse per capire la sua arte. Aveva casa e studio a Montmartre, in una strada che per un certo periodo è stata consacrata alla pittura e in genere alla cultura visiva e musicale, rue Victor-Massé. La strada in cui

più tardi si tenne la prima mostra di Amedeo Modigliani, dove c’era un famoso cabaret, lo Chat Noir, il cuore insomma di un am-

biente artistico molto vivace come quello di Montmartre. Purtroppo, pochi anni prima di morire fu sfrattato e dovette cambiare casa, e per lui fu un gravissimo colpo, perché si era abituato all’ambiente e soprattutto alla luce di quella strada. L'artista infatti fu sempre molto sensibile alla luce. Il quadro che qui illustriamo è Lezione di danza, un dipinto famosissimo che rappresenta una serie di ballerine le quali stanno prendendo lezione da un vecchio maestro appoggiato a un bastone, in una stanza ornata di lesene di marmo verde con capitelli dorati. 188

Stanza che forse rappresenta il ridotto di un teatro che andò a fuoco. Il quadro appartiene al museo d’Orsay. Osserviamo intanto che il pittore, nell’eseguire questo quadro, è stato molto attento, molto scrupoloso e lo ha continuamente rielaborato. Da indagini eseguite appare che, nella parte sinistra, la figura della ballerina seduta sul pianoforte chiuso è stata aggiunta più tardi per aumentare il senso di profondità del dipinto e anche per dargli una sorta di equilibro compositivo, con il gruppo che emerge all’estrema destra. Quindi i quadri di Degas vengono completamente rielaborati durante la loro stessa nascita. Egli non è un pittore che esegue tutto di getto, ma ritorna sulle sue opere ed è estremamente scrupoloso nel licenziarle e nel farle conoscere al pubblico in modo conforme alla propria volontà. Degas era attirato dall’ambiente del teatro, sia dal balletto, sia dai cantanti dei caffè concerto e dell’opera, soprattutto perché ciò gli permetteva di studiare il movimento umano. È molto interessante, nell’opera di Degas, questa continua ricerca di temi che rappreDegas, Cavalli da corsa davanti alle tribune, 1879 circa, Parigi, Musée d’Orsay er

sentino il movimento, anche di tipo non abituale nelle rappresentazioni figurative.Degas studiava il corpo umano, e soprattutto il corpo femminile, in movimenti che appartengono alla quotidianità del tutto estranei fino allora alla tematica pittorica, per esempio nel modo di pettinarsi delle donne, oppure nel bagno, con la donna spogliata che entra nel bagno o fa delle spugnature. Tutti soggetti che impongono lo studio del corpo umano e soprattutto del movimento in situazioni poco accademiche. Il tema del teatro e della ballerina ritorna poi anche nella scultura e, stranamente, molto spesso la ballerina è vista immobile, men-

tre sta ascoltando, oppure nuda in atteggiamenti di danza. Talvolta le sculture di Degas, eseguite generalmente in cera bruna o rossa, sono accompagnate da vesti realistiche, cioè la ballerina è vestita con un busto, un corpetto o una veste di stoffa vera: innovazione questa davvero strana per quell’epoca. Ma Degas ha rivolto la sua attenzione anche ad altri temi molto interessanti legati al movimento, come per esempio le corse, i fanDegas, Farziglia Belelli, 1867, Boston, Museum of Fine Arts

190

Degas, Su una spiaggia in riva al mare, 1869 circa, Parigi, Louvre, Cabinet des Dessins

tini, e soprattu..o ha trattato anche i momenti della vita quotidiana o le attività quotidiane in aspetti del tutto imprevisti. E qui c’è da fare un’osservazione. Degas comincia la sua grande parabola con una quantità di copie da artisti antichi. Egli ha copiato tanto Michelangelo quanto il veronese Giovan Francesco Caroto e molti artisti, soprattutto italiani del Rinascimento, anche minori, perché importante per lui era apprendere non solo da Raffaello o da Filippino Lippi, ma anche da pittori assolutamente secondari, come Domenico Puligo. Gli inizi di Degas sono proprio caratterizzati da questa sua voracità onnivora: accanto a Giovanni Bellini troviamo Hans Holbein, accanto ad artisti italiani, come Sebastiano del Piombo e il Mantegna, troviamo Poussin.

I primi quadri veramente autonomi di Degas sono i bellissimi ritratti eseguiti tra il 1853 e il 1865. Sono dipinti che rappresentano molto spesso persone di famiglia o parenti incontrati a Napoli. Già si sente in questi ritratti l’unghia del leone, ma presto noi vediamo Degas, già dal 1860, dedicarsi alle corse dei cavalli, con il fantino caduto sull’erba e calpestato dal cavallo, lo vediamo studiare accuratamente i gesti, imovimenti, le posizioni del fantino, e

soprattutto vediamo che, accanto a una serie poderosa di ritratti — alcuni veri e propri capolavori — egli comincia a interessarsi allo spettacolo, il suo filone più noto. 191

“TRE

Degas, Caffè-concerto agli Ambasciatori, 1876-77, Lione, Musée des Beaux-Arts

Però oltre a questi quadri, che sono soprattutto interessati al movimento, abbiamo un Degas meno noto, che è il Degas del paesaggio. C’è una grossa serie di paesaggi, soprattutto del 1869-70, in cui il pittore esegue bellissime vedute, sia campestri sia marine. È un pittore quindi che non pone limiti alla sua tematica. Il fatto poi 192

più curioso è che accanto ai fantini delle corse, alle danzatrici, al balletto e alle tematiche legate alla donna al bagno, a lavori umili come le stiratrici o a certi ambienti popolari, Degas ha eseguito anche dei quadri di soggetto storico.

Qui c’è da fare una considerazione. Senza dubbio Degas è rimasto fortemente toccato dall’arte della fotografia. Nei suoi quadri si percepisce lo studio della fotografia, la quale viene investigata e in un primo tempo imitata, mentre in un secondo tempo viene su-

perata perché la sua attenzione, oltre che alla linea di contorno e al movimento, è portata su quella che è la materia pittorica. Non è possibile comprendere Degas senza conoscere a fondo i suoi pastelli, in cui la forma viene completamente frammentata, sbriciolata, distrut-

ta, proprio in opposizione a quella che appariva essere l’arte fotografica e alla sua superficie, di un realismo che allora si credeva privo di valori formali. La cosa più curiosa è il modo con cui i contemporanei hanno percepito Degas. Per esempio nel famoso Journal dei fratelli Goncourt, Degas è chiamato “pittore bizzarro, innamorato del moderno”. Vi è stata da parte dei contemporanei un’incomprensione totale, mentre invece chi lo ha capito subito è stato l'italiano Diego Martelli e anche uno scrittore come Huysmans, così come alcuni collezionisti. Il fatto poi che egli abbia cercato di superare la fotografia, attraverso l’espressione del movimento, fa sì che Degas preluda all’arte dei fratelli Lumière, cioè il cinematografo. Tutte le invenzioni che hanno riprodotto la realtà attraverso un mezzo meccanico, come la fotografia e il cinema, in un primo momento sono state snobbate, evitate, addirittura ridicolizzate dagli artisti. In un secondo mo-

mento li hanno influenzati, per essere poi spesso superate dagli artisti stessi, dando luogo a un continuo gioco di rapporti tra cinema (e oggi televisione) e produzione artistica. Tutta la storia dell’arte, dal 1840 circa ai nostri giorni, è basata, in pittura e anche in scultura, su questo rapporto tra fotografia, cinema e televisione da un lato, e dall’altro la produzione figurativa. La quale a un certo momento, con l’astrazione, finisce per distaccarsi completamente da quelli che erano i soggetti tradizionali della pittura, proprio per creare un mondo a sé. Ma in un primo tempo — e Degas lo dimostra molto bene — il rapporto con la fotografia è esistito ed è stato molto profondo. 193

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EDVARD MUNCH

Il srido

1595 Olio, tempera e pastello su cartone, Dili.

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Oslo, Nasjonalgalleriet

I/ grido è stato dipinto da Edvard Munch, il più noto pittore norvegese. Nell’accezione comune la Norvegia non viene presa in considerazione come luogo d’arte. Eppure è un paese che nel Medioevo ha dato straordinari capolavori: basti pensare a quanto è stato rinvenuto vicino ad Oslo nelle navi dei vichinghi o alle architetture medioevali delle stavkirker, le chiese di legno. Vi è poi un capitolo della pittura norvegese che viene ignorato da tutte le storie dell’arte — non capisco perché — ed è quello del naturalismo ottocentesco della seconda metà del secolo. Un naturalismo molto intelligente che talvolta mostra una dipendenza da impressionisti come Eduoard Manet o da altri maestri di quella corrente, e che colpisce non meno dei quadri che altri artisti norvegesi eseguivano sul continente e anche in Italia. Quadri memorabili che si trovano nella Nasjonalgalleriet di Oslo. Munch era nato a Lòten nel 1863, però l’anno dopo la famiglia si trasferì nella città di Christiania (nome dato all’odierna Oslo prima dell’indipendenza del paese) e il giovane Munch nel 1881 si iscrisse alla Scuola Reale di Disegno sotto il pittore naturalista Christian Krohg, per trasferirsi poi nel 1889 a Parigi. I/ grido, divenuto famoso anche a causa del furto subito in anni recenti, è del 1893 e venne in 195

seguito inciso e replicato dall’artista in altre versioni che però non raggiunsero mai l'intensità della prima. Il quadro rappresenta una figura molto stilizzata la quale sta passando per una strada o piuttosto un ponte con una ringhiera. Il cielo è color tramonto, a strisce, e questa figura isolata stringe il proprio volto tra le mani emettendo un urlo che allarga in modo sconvolto la bocca. Chi non ha visto il quadro non può comprendere l’impatto fortissimo prodotto da questa immagine, grazie anche ai suoi colori: il cielo al tramonto con strisce sanguigne e il volto della figura di un giallo pallido (il pallore del terrore). All’incirca la stessa tonalità dell’insenatura di mare visibile in secondo piano, solcata da due piccole navi. Osserviamo anzitutto che si tratta di un quadro tipicamente espressionistico. Questa è una delle opere di Munch che ebbero una grande importanza nello sviluppo dell’Espressionismo, soprattutto quello nordico e tedesco degli anni Venti. Munch è uno dei pilastri di questa corrente. In secondo luogo, è interessante rilevare che la definizione delle forme, e soprattutto della figura terrorizzata e urlante, è senza dubbio in contatto con i moduli figurativi e con le scritture di quella corrente che da noi venne chiamata Liberty e in Francia Art Nouveau, cioè quella ondata di stilismo estremo e caricato che si diffuse attraverso l'Europa e le cui origini sono variamente radicate in Inghilterra e in Francia. Andando a Parigi, Munch evidentemente non guardò tanto alla pittura degli impressionisti e dei naturalisti di fine Ottocento — correnti molto variegate e ancora ben rappresentate a Parigi con una quantità enorme di opere in seguito emigrate — né alle correnti postimpressioniste o al simbolismo, quanto alle deformazioni e alla stilizzazione estrema dell'Art Nouveau. In effetti, a guardar bene il quadro di Munch, notiamo che

esso si basa soprattutto sull’andamento delle linee, anche quando non esiste disegno, come per esempio nel cielo. È un quadro che traspone in cromatismo quelli che sono i dettami dell’Art Nouveau, e la stessa figura che urla è stilizzata con quella ondulazione che è tipica delle figure Art Nouveau. È curioso poi che dia quest'impressione di curvatura e di ritmo nonostante non sia una figura completa bensì poco più di una mezza figura. L’Art Nouveau infatti si basa essenzialmente su due elementi: la linea di contor196

Munch, particolare da I/ grido

no, che qui parrebbe abolita, ma è ripresa dal colore, e il ritmo. Qual è il significato del dipinto? Ho sempre visto I/ grido come una sorta di disperata, angosciosa protesta contro la solitudine umana. I/ grido nasce non perché il personaggio abbia di fronte a sé uno spettacolo orribile o raccapricciante, non perché si senta male (l’atteggiamento delle mani dimostra che è un fatto intimo che lo spinge ad urlare), ma nasce proprio dal senso della propria solitudine, della solitudine in cui vive ciascuno di noi. Un senso che viene accentuato dall’ora del tramonto, il senso disperato della incomunicabilità, del-

l'essere soli in questo mondo che ripete il proprio ciclo di giorni e di notti, di albe e di tramonti, dentro cui c'è un’umanità che si chiede il

perché di tutto questo. Una domanda che si presenta in vari artisti tra cui il Gauguin del dipinto Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?, e che qui invece è riassunta in questo urlo agghiacciante della persona che non trova risposta alle sue angosce. Secondo me il pregio straordinario di questo quadro è la perfetta stesura della pennellata. Nella mia vita ho visto pochi quadri in cui la pennellata sia uno strumento così docile e così stringato, perché — se si esamina l’originale — ci si accorge che l’autore è un uomo di una consumatissima abilità tecnica, in quanto è riuscito a ottenere Paul Gauguin, Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?, 1897, Boston, Museum of Fine Arts

198

4

Munch, Separazione, 1896, Oslo, Munch Museet

il massimo con il minimo sforzo. Cosa che non si può dire di tutti quanti gli espressionisti posteriori. Mentre nel mondo classico l’urlo è l’espressione del dolore fisico, in Munch è espressione dell’angoscia morale. Ed è curioso che su una delle strisce rosse del cielo al tramonto il pittore avesse scritto a lapis le seguenti parole: “Soltanto un pazzo può avere dipinto questo”. C’era in Munch una sorta di angoscia esistenziale. D'altronde l’idea di un quadro del genere può anche essere stata spinta o per lo meno perfezionata da certe opere della pittura tedesca che Munch deve avere visto perché era una persona molto colta. Pensiamo a certi quadri di Caspar David Friedrich, con figure sole o contro il mare o un cielo al tramonto, o certi ruderi contro un cielo cupo o stellato che trasmettono al lettore del dipinto la stessa angoscia e lo stesso turbamento che ritroviamo in Munch. Ma in Friedrich la cosa è esteriorizzata e messa in rapporto con il soggetto del quadro. Molto curioso è poi il fatto che nella Norvegia dell’epoca dovevano circolare sicuramente delle stampe della scuola tedesca che senza dubbio hanno influenzato Munch. Vi sono incisioni di artisti te199

Caspar David Friedrich, Paesaggio serale con due uomini, 1830-35, San Pietroburgo, Ermitage

deschi come Max Klinger in cui si intravedono certi motivi di questa disperazione e soprattutto di questa denuncia della solitudine. Per quanto riguarda la composizione del quadro, poi, l’idea della balaustra che taglia trasversalmente il dipinto e che è in rapporto con una figura isolata, è presente in Munch già nel 1891, in un quadro del periodo parigino, intitolato Rue Lafayette, in cui la strada di Parigi è vista dall’alto, da una balaustra in ferro battuto, da cui si affaccia un signore in cilindro. Lo stesso Munch, tornato a casa, riprese questa composizione, che era già stata adottata a Parigi nel 1880

da Gustave Caillebotte. La gestazione de I/ Grido incomincia con una serie di opere nelle quali è già presente la stessa composizione; per esempio nel quadro Urzore inquieto al tramonto in cui si vede il cielo al tramonto, lo stesso fondo con l’insenatura in cui sono accennate delle barche, la

diagonale della balaustra e le due persone che si allontanano. Ma questa composizione dovette essere poi perfezionata in una quantità di studi. Abbiamo disegni in cui il tema è ripreso, ma mai rielaborato

con il viso angosciato che urla, visibile nella versione definitiva. 200

Il dipinto ha avuto una fortuna piuttosto dubbia perché Munch, molto ammirato soprattutto tra gli artisti e nel continente, nonché in Norvegia, dal punto di vista dell’apprezzamento di massa è rimasto un isolato. Ha avuto cioè la stessa sorte che capiterà in seguito agli espressionisti tedeschi. Resta il fatto che I/ grido, oltre ad essere uno dei pilastri della nascita dell’Espressionismo, è anche il documento umano di un terribile travaglio mentale e nervoso. Munch, Rue Lafayette, 4891, Oslo, Nasjonalgalleriet

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GUSTAV KLIMT Giuditta I

Olio su tela, 84 x 42 cm

Vienna, Osterreichische Galerie

Il dipinto è una delle opere più note e riprodotte di Gustav Klimt, un singolare pittore che ebbe degli esordi estremamente accademici. Le opere più antiche dell’artista — quadri e decorazione murarie — mostrano infatti un forte attaccamento a certi artisti della scuola di Monaco e una profonda conoscenza dell’archeologismo con cui l’olandese Alma-Tadema moltiplicava a Londra, con perfetta conoscenza archeologica, la vita dei Greci e dei Romani. Va detto anzitutto che in taluni di questi prodotti giovanili Klimt possiede ai nostri occhi uno strano sapore perché, quasi senza volerlo, quasi casualmente egli riesce a fissare sulla tela delle immagini che ricordano straordinariamente certe realizzazioni italiane della fine dell'Ottocento e degli inizi del Novecento. Il caso più singolare è un dipinto che si trova in un edificio decorato da Klimt nel 1896-98, il Burgtheater di Vienna, che possiede tra l’altro una immensa figurazione di 7,50 x 4 metri con una ricostruzione archeologica del teatro di Taormina. In esso, ad eccezione delle figure, si notano impressionanti somiglianze con l’architettura e la decorazione del monumento a Vittorio Emanuele II a Roma, il Vittoriano. Cosa che in certi punti pone la questione se l’architetto del Vittoriano, Giuseppe Sacconi, o i 203

suoi decoratori, non siano debitori al ciclo klimtiano, soprattutto nel-

la quadriga visibile in basso a sinistra. Il fatto è che questo stile archeologizzante è diffuso in tutta Europa e l’Italia, così come la Francia, la Germania, l’Austria e l'Inghilterra e altri paesi (tra cui gli Stati Uniti), non si è sottratta a questa formula. Ho l’impressione che gli architetti del Vittoriano abbiano visto i dipinti del Burgtheater e vi sia stato una sorta di odio-amore nei confronti di questo artista austriaco. La monarchia austro-ungarica era violentemente odiata dagli italiani, talvolta anche a torto, ma nello stesso tempo essi subivano il

suo influsso. Klimt ha dipinto numerose opere di questo tipo, alcune delle quali però mostrano, soprattutto nelle cornici, una progressiva, profonda stilizzazione formale. Un caso molto interessante è il ritratto di un pianista, Joseph Perzbauer, oggi nel Tiroler Landesmuseum di Innsbruck, un quadro in cui da un lato sentiamo una forte linfa che àncora l'ideazione alla scuola di Monaco, e soprattutto a Bòcklin (ram-

mentando in certo modo certi prodotti del giovane de Chirico), e dall’altra parte, nella cornice, vediamo una singolare decorazione che già preannuncia il Klimt futuro. Realizzare una cornice disegnata dallo stesso autore del dipinto che racchiude, è un’idea scrupolosamente osservata ad esempio da Alma-Tadema, e spesso, tolti dalle loro cornici, i

quadri del pittore olandese di Londra vengono a perdere qualsiasi fascino, in quanto le cornici sono parte della stessa sostanza figurativa dell'immagine dipinta. Bisogna dire poi che questa tendenza alla stilizzazione aumenta in Klimt sempre più vivacemente, fino a raggiungere la predominanza assoluta, perché l’artista risente anche dei grandi movimenti viennesi degli stessi anni, e in particolare della Secessione. Non posso parlare qui di questo movimento che include grandi architetti e alcuni scultori molto notevoli, ma senza dubbio in campo pittorico il predominio spetta a Gustav Klimt. Lentamente assistiamo così a una trasfigurazione per cui, mentre i volti delle figure mantengono — seppure con espressioni trasognate, quasi ipnotiche — delle parvenze naturalistiche, la sostanza in cui sono immerse è del tutto astratta e im-

prontata a uno strano decorativismo, che è una sorta di superamento di uno stile internazionale molto in voga alla fine del secolo XIX, l’Art Nouveau. La Secessione ha un suo modo di esprimersi che è 204

quello proprio di Klimt e di molte arti minori, perché in questo momento in Europa vengono molto coltivati i vetri, le argenterie, i mobili. Basti ricordare i vetri di Gallé e Daum in Francia e gli arredi di molte fabbriche inglesi, o ancora alcune architetture estremamente significative, molte delle quali perdute per negligenza, per incuria o a causa della seconda guerra mondiale. Uno dei casi più eclatanti era l’Atelier Elvira di Monaco di Baviera, la cui facciata oggi sarebbe stata considerata un capolavoro assoluto, ma che venne demolito.

In Klimt noi assistiamo a questa trasfigurazione dell’immagine per cui la sostanza figurativa è costituita di motivi astratti ma composti in modo da rammentare prati fioriti, tralci di mosaici tardoantichi o stoffe orientali. Non per niente due dei quadri più lirici di Klimt sono il Campo di papaveri, sempre nell’Osterreichische Galerie di Klimt, Campo di papaveri, 1907, Vienna, Osterreichische Galerie SI,

Vienna e il Giardino con girasoli nella stessa sede. Due autentici capolavori di un naturalismo trasfigurato. Ma la vena di Klimt si rivela in pieno in una impresa molto riuscita e cioè la decorazione del palazzo Stoclet di Bruxelles. Adolphe Stoclet era un magnate belga del carbone il quale commissionò al grande architetto Josef Hoffmann la propria dimora privata. Lasciato completamente libero, l'architetto austriaco chiamò Klimt a decorare la grande sala da pranzo del palazzo. Della decorazione a mosaico posta nella parte alta della sala, memore di un recente viaggio dell’artista a Ravenna, esistono i cartoni nella citata galleria di Vienna. Autentici capolavori di un’arte che non è più figurativa e non è ancora astratta. Grandi girali, derivanti alla lontana dalla base dell'Ara Pacis di Roma, in cui sono inseriti elementi figurativi — la testa di un’aquila, una figura di fanciulla — anch’essi completamente stemperati in questa sorta di linguaggio personalissimo. Anteriore di qualche anno rispetto ai pannelli di Casa Stoclet, conclusi nel 1911, è I/ bacio del 1907-8, in cui si nota come le due figure — quella dell’uomo e soprattutto il volto della donna — sono trasfigurate, fuse in questo linguaggio astratto-simbolico e decorativo. La cosa più curiosa è il naturalismo del volto della donna, naturalismo che si ritrova in molti ritratti eseguiti dal pittore a partire da questo momento, alcuni dei quali di eccezionale potenza. Già in precedenza Klimt aveva prodotto una serie di ritratti dell’alta borghesia, soprattutto viennese, alcuni dei quali sono impressionanti proprio nella resa dello spirito di quella sorta di allegra decadenza che caratterizza la Vienna di quegli anni. Alcuni quadri poi sono dissacranti. Un dipinto alla National Gallery of Canada di Ottawa, che rappresenta la Speranza, mostra ad esempio una donna nuda, in condizioni

di avanzata gravidanza, che guarda verso l’esterno. Si tratta di un dipinto esposto con grande cautela, accessibile solo agli iniziati e ricordo che, ancora negli anni Cinquanta, quando era in vendita a Roma presso un gallerista colto e illuminato, la gente lo trovava ripugnante, anzi ridicolo, tant'è vero che non trovò nessun acquirente. In Klimt c’è sempre qualcosa di sottilmente morboso, elegiaco, nostalgico. Un elemento che trovo soprattutto nei quadri dove è più spinta la decorazione astratta. Non è possibile concepire o conoscere questo genere di pittura se non si conosce bene la musica 206

contemporanea di Gustav Mahler. Klimt eseguì poi molti altri ritratti, alcuni dei quali sono andati distrutti negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale. Distruzioni in certi casi attuate volutamente, sia da parte nazista,

perché l’artista era odiato dai nazisti, sia da parte sovietica, quan-

do in uno dei più grandi roghi di fine guerra, nel 1945, le truppe russe di occupazione diedero alle fiamme il castello di Immendorf e con esso disegni e dipinti con alcuni dei nudi più significativi di Gustav Klimt. Un altro rogo di parte nazista fu quello di casa Lederer, un ebreo fuggito dall’ Austria — che ho conosciuto personalmente - il quale sulle pareti di un salone teneva tutti i ritratti delle donne di famiglia. La collezione si conservò fino all’ultimo giorno dell’occupazione nazista, Klimt, Erzilie Flòge, 1902, Vienna, ma prima di lasciare la casa, che Historisches Museum der Stadt Wien avevano occupato, le SS bruciarono tutti i quadri. Se ne salvò solo uno, raffigurante una persona cara a Lederer, che aveva portato il quadro con sé a Ginevra. Visto in retrospettiva Klimt oggi rappresenta un fatto molto importante, perché costituisce il trapasso dall’estremo decorativismo dell’Art Nouveau verso il linguaggio nuovo della pittura astratta. Non è mai stato effettuato uno studio puntuale su questo passaggio che è comune anche ai paesi extraeuropei e che troviamo in un pittore come Kandinskij. Per questo possiamo apprezzare oggi Klimt anche se negli anni della sua riscoperta, gli anni Sessanta, la cultura accademica e ufficiale italiana lo ha praticamente ignorato. 207

PAUL CEZANNE Monte Sainte-Victoire

1904-1906 Olio su tela, 73 x 91 cm Philadelphia, Museum of Art

Paul Cézanne è una delle glorie della Provenza. Nacque infatti ad Aix-en-Provence nel 1839 e vi morì nel 1906. Vissuto lungamente a Parigi, grande appassionato dell’arte della pittura, praticamente autodidatta, ha avuto un primo periodo — il periodo “nero” — completamente diverso da quello che poi seguirà, sotto l’aspetto stilistico, dopo avere conosciuto gli impressionisti. La sua conversione è uno

fenomeni più straordinari e più sinceri di tutta quanta la pittura del secolo XIX. La frequentazione con gli impressionisti indipendenti fu subito chiara quando rifiutò di partecipare al Salon. In un primo tempo la sua pittura aveva tentato di penetrare i segreti di Veronese, di Tiziano, del Tintoretto, e Cézanne aveva studiato molto Dela-

croix, Daumier e Courbet. Ma poi si lega agli indipendenti, nel 1876 rifiuta di partecipare al Salon e diventa molto amico di Manet, Degas, Pissarro, Sisley e Renoir. La conversione di Cézanne comincia da questo momento, ma

è anche molto singolare, perché egli ha immediatamente percepito che l’Impressionismo — parlo soprattutto di figure come Pissarro — era arrivato quasi a un punto morto. Era diventato cioè un fatto di pura sensazione, evanescente, quasi impalpabile, mentre Cézanne ha 209

Cézanne, Orologio nero, 1870 circa, Parigi, Collezione privata

voluto riportare la pittura al ragionamento, senza perdere però nulla di ciò che era il plein aîr, la vistosità, la luminosità dei colori che

l’Impressionismo vedeva dipingendo all’aria aperta, alla luce del sole. La conversione di Cézanne si effettua soprattutto con la pennellata. Direi che deve essere stato un processo lungo, doloroso, ma Cé-

zanne raggiunge a un certo momento un tipo di pennellata estremamente controllato, e questa pennellata, senza ripudiare nulla dell’Impressionismo, cerca di creare delle immagini solide, costruite,

prive di quella evanescenza degli ultimi impressionisti, e ci riesce. Così le sue figurazioni raggiungono una solidità e una potenza che si esplicano non solo nelle grandi vedute, tra cui il Monte Sainte-Victoire qui riprodotta (paesaggio più volte replicato sotto vari punti di vista), ma anche, e sempre con lo stesso approccio, nei ritratti e nelle celeberrime nature morte. Abbiamo sempre a che fare con una prospettiva, la quale però lentamente abbandona la prospettiva naturalistica degli impressionisti, e con una costruzione delle masse, le quali nascono grazie a una azione controllatissima. Non esiste pittore più controllato di Cézanne. Ogni pennellata applicata alla tela è frutto di una lunga me210

ditazione. Si sente immediatamente che questi quadri devono essere costati uno sforzo terribile al loro autore. Non c’è la gioia di lavorare, in Cézanne. C'è un piacere intellettuale. La cosa più fenomenale poi sono i paesaggi, in cui la luminosità solare dell'ambiente ritorna in altra chiave rispetto agli impressionisti. E un’altra cosa straordinaria è che le figure sono anch'esse immobili come montagne, non vivono di una vita effimera come quelle degli impressionisti, ma stanno solenni, immobili, grandiose come se fossero anch'esse una pera delle nature morte, “comme une poire”. Naturalmente una pittura del genere non era molto facile da digerire nell'ambiente parigino e francese dove l’Impressionismo era riuscito a sfondare grazie a pittori come Monet o a temi urbani come quelli di Caillebotte. In Cézanne abbiamo qualcosa di totalmente diverso, perché mentre l’Impressionismo si deteriora poi nel genere di vedute “impressioniste” (tradizione che esiste ancora oggi, soprattutto in pitCézanne, Una moderna Olympia, 1873-74, Parigi, Musée d’Orsay

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tori di serie “B” e “C”, per esempio di scuola italiana o spagnola), la sua pittura — la quale nelle opere mature giunge all’estremo addirittura economizzando le pennellate, risparmiandole, secondo

una vera e propria critica della rappresentazione — è invece alle origini della grande crisi figurativa del secolo XX. È impossibile capire Picasso, per esempio Les derzoiselles d’Avignon, o certa scultura, o Modigliani (nel quale Cézanne filtrato da Picasso si sposa con Brancusi), o l'avanguardia storica più importante, senza l’esempio di Cézanne. È veramente una chiave di volta della pittura contemporanea. Dovunque la sua opera sia stata conosciuta, ha provocato delle grandi rivoluzioni. Era noto anche in Russia, perché i grandi collezionisti, soprattutto Schukin a Mosca, erano informatissimi su ciò

che accadeva nella capitale francese. E anche in Russia si notano degli echi molto profondi di Cézanne nella pittura dell’Avanguardia russa degli anni Dieci. Cézanne, Casa dell’impiccato a Auvers-sur-Oise, 1873, Parigi, Musée d’Orsay

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Cézanne, Tenda, caraffa e piatti con frutta, 1899 circa, San Pietroburgo, Ermitage

In Italia Cézanne fu immediatamente boicottato e vilipeso da certa critica e da certi punti di vista i quali poi trovarono il loro ambiente più adatto nelle concezioni artistiche del ventennio fascista. Parlo di coloro che dicevano che in Italia l’arte ha da essere italiana, che il mercante Vollard (che aveva lanciato Cézanne e gli impressionisti) era un negroide e quindi non capiva niente di pittura occidentale. Quando a Venezia, all’inizio degli anni Dieci, venne fatta una grande mostra di Cézanne, dove furono esposti alcuni dei più suoi grandi capolavori, alcuni critici lo ignorarono completamente, dedicando invece lunghe pagine a un altro pittore che esponeva in quel momento in città, lo spagnolo Zuloaga. Per cui si diceva che questa critica amava più gli impressionanti che gli impressionisti. E lo Stato italiano ha lasciato uscire dal paese i quadri di vari collezionisti, perché, nonostante tutto, non mancava da noi

anche chi lo apprezzava. Siamo di fronte a un tipico esempio della frattura fra vera cultura e burocrazia, di stampa servile e di intellettuali bene ingaggiati nel regime politico-sociale italiano. Un fatto esemplare che si è ripetuto parecchie volte. 213

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Picasso, Les demoiselles d’Avignon, 1907, New York, Museum of Modern Art

La pittura di Picasso è fondamentale e il cubismo viene da Cézanne, soprattutto dai suoi quadri più tardi. Che poi il Cubismo abbia tra le sue componenti anche altri elementi, tra cui la scultura dell'Africa nera, non esclude che la struttura essenziale del Cubismo, che

è un fatto di lucidissimo ragionamento, un ragionamento portato agli estremi, una sorta di razionalità ipernutrita, venga dalla pittura di Cézanne. Ciò spiega i violenti attacchi subiti in Francia, in Italia, in Germania, dove fu una delle bestie nere del regime nazista, che vedeva in esso la fine della tradizione classica, il che è completamente falso. Nel Monte Sainte-Victoire del Museum of Art di Filadelfia,

uno degli ultimi della serie, l’effetto prospettico è ottenuto per 214

una sorta di sintesi tra colore e pennellata in funzione della profondità. E la cosa più straordinaria è che il cielo di questo quadro è condotto in modo da indicare addirittura il tempo atmosferico, con mezzi apparentemente limitati ma in realtà di estre-

ma complicazione e partecipazione mentale. È questo lo spirito di Cézanne. A parte i cubisti, l'insegnamento di Cézanne in chiave antiimpressionista si trova in artisti come Dunoyer de Segonzac (18841974). La sua importanza aumenta a mano a mano che si conosce

meglio quel periodo, che è estremamente elaborato e confuso. Ma è interessante notare come egli respinga da una parte l’Impressionismo senza rinunciare a nessuna delle grandi conquiste che noi dobbiamo all’Impressionismo: il plein ar, la luminosità, il colore.

In Cézanne tutto ritorna ma trasfigurato da un’altra concezione della forma e dello spazio. È da notare poi, nel primo piano del quadro in esame, come le strutture architettoniche di alcune case sono veramente cubizzate, e ci sono dei quadri del giovane Picasso, non ancora cubisti, che è impossibile capire senza tener conto dell’insegnamento di Cézanne. Penso per esempio al ritratto della scrittrice americana Gertrude Stein, al Metropolitan Museum di New York, in cui si

sente lo studio del grande maestro di Aix. Un maestro severo che non è più ottocentesco, ma non è ancora perfettamente novecen-

tesco. È una di quelle persone che stanno a metà di una evoluzione e che hanno poi davanti a loro una enorme strada percorsa da loro allievi. Per capire Cézanne, oltre che i quadri, è necessario poi vedere anche i suoi acquerelli, che spesso sono come degli studi, delle prove di quello che lui poi faceva con il pennello e con i colori. Ci sono varie collezioni di acquerelli di Cézanne, soprattutto negli Stati Uniti e in Francia, e sono spesso rivelatrici per la sua pittura. Anche lì si sente che il pennello, prima di essere deposto con la sua carica di colore sulla carta bianca, è passato attraverso una quantità di ripensamenti e di meditazioni. È la mente che guida la mano come mai era accaduto, è la pennellata stessa che crea la struttura. È dif-

ficile esprimere questo concetto, che si può però capire soltanto davanti alle opere stesse. 215

SALVADOR DALÎ Persistenza della memoria

LOS; Olio su tela, 25 x 35 cm

New York, Museum of Modern Art

Il dipinto di Salvador Dalî del quale si tratta in questa conversazione è intitolato Persistenza della memoria, e talvolta anche Alti e bas-

si della memoria. È un piccolo dipinto di 25 x 35 centimetri, quindi non è un’opera monumentale. Appartiene al Museum of Modern Art di New York, è stato eseguito nel 1931 ed è uno dei pezzi più noti e significativi di Salvador Dali, il pittore surrealista spagnolo. Che cosa raffigura questo dipinto? Un paesaggio deserto con montagne sulla destra e il mare alla sinistra e all'angolo inferiore di sinistra una sorta di cubo (non si capisce bene se di pietra o di legno) dal quale sbuca un albero secco. Sul ramo di quest’albero pende un orologio floscio, come se fosse un panno bagnato; mentre un altro orologio, anch'esso privo di solidità, è appoggiato a uno degli angoli di questo parallelepipedo, sul quale però, verso l’angolo di sinistra c’è un orologio metallico, d’oro si direbbe, in perfetto stato, lucido,

sul quale si muovono delle formiche. A destra, sul piano deserto c’è una sorta di testa umana con un profilo con le ciglia abbassate, come se dormisse, come se fosse addirittura inerte; su questa testa che

finisce in un collo che si perde nel nulla è appoggiato un altro orologio privo di consistenza tattile, un altro “orologio-straccio”. 217

Il quadro è di grande potenza suggestiva, indubbiamente uno dei capolavori di Dalî, e in modo allusivo e simbolico sta a significare gli alti e i bassi della memoria, cioè la memoria quando funziona (l’orologio meccanico che segna l’ora precisa e le formiche che lavorano su di esso, che si agitano come è tipico delle formiche quando sono in molte), e invece la memoria quando non funziona più, che è una sorta di ricordo di orologio che ancora segna l’ora, anche se si tratta di un’ora imprecisa; infatti i vari orologi che si vedono in questo quadro segnano tutti un’ora diversa. Durante il sonno la memoria serba soltanto una traccia della sua funzione, ed è per questo che la testa umana, o paraumana, disposta per terra, ha le ciglia chiu-

se ad indicare che dorme: cioè, sono qui rappresentate le due immagini della memoria, quella da svegli e quella da addormentati, che non funziona più o confonde le cose. Il quadro appartiene alla stagione più felice di Salvador Dalî, il quale era nato in Catalogna, a Figueras, nel 1904 e come pittore iniziò con una serie di esperienze molto diverse l’una dall’altra. Abbiamo alcuni quadri —- io penso che molti quadri giovanili siano stati distrutti dallo stesso Dalî — in cui c’è, in ritardo, un’esperienza alla Picasso degli anni 1907-10; ma non sono i primi, perché sono preceduti da esperienze addirittura da divisionista, alla Seurat, alla rea-

lista; altri ancora da pittore classicheggiante. C’è tutta una serie di indirizzi che poi sono stati abbandonati, fino a che non ha trovato la sua strada, nel 1929.

La varietà di tentativi da giovane va messa anche in rapporto con l’incertezza esistenziale della sua persona. Dalîf trovò una sua strada quando, intorno al 1920 (non si sa bene la data) incontrò il poeta Federico Garcia Lorca, diventarono molto amici, anzi intimi. Il sospetto di omosessualità di Dalf non è più un sospetto, perché si sa benissimo che ci fu un rapporto approfondito fra di loro, e Lorca dedicò a Dali anche un poema, La oda a Salvador Dali, che comincia “O Salvador Dalî a la voz aceitunada...” (non ulivastra, co-

me fu tradotta da un cialtrone italiano all’inizio degli anni Quaranta, sibbene “aceitunada”, ulivata, che scende come scende l’olio dall’oliera, pura, fluente, come l’olio d’oliva) che è un’immagine bellis-

sima. Fu tradotta “ulivastra” come se la voce di Salvador Dalî fosse stata cachettica o avesse qualche malattia. Io credo che la strada ver218

so il surrealismo gliela abbia suggerita proprio Federico Garcia Lorca, poeta molto noto, molto radicato nella cultura francese, una sor-

ta di ibrido franco-spagnolo, il quale poi fece una orribile fine durante la guerra civile spagnola, perché fu fucilato dai franchisti non si sa bene per quale motivo. Intorno al ’29 Salvador Dalf comincia la sua attività di pittore surrealista ed è una attività basata su una grande cultura. Conosceva infatti molto bene la pittura antica e soprattutto quella del secolo XVI che oggi noi chiamiamo “manierismo”, e la pittura fiamminga e francese di quell’epoca; oltre, naturalmente, ad avere una profondissima — capillare, certe volte — dimestichezza con la pittura spagnola del secolo d’oro, del Seicento. Dalî era una persona molto colta anche se poi verso la fine questa cultura fu pervertita, come vedremo. Dalî fu molto impressionato da questi esperimenti manieristi, soprattutto da un pittore verso il quale egli talvolta ha espresso la sua riconoscenza, ma non quanto egli avrebbe dovuto: Arcimboldo, cioè Giuseppe Arcimboldo, il pittore italiano che fu a Praga alla corte di Rodolfo II. Ma guardò anche a certi strani artifizi, come quelDalî, Mercato degli schiavi con il busto invisibile di Voltaire, 1940,

St. Petersburg, Florida Salvador Dali Museum

205.

Dalî, I/ sonno, 1937, collezione privata

li in cui un apparente paesaggio si rivela, a ben guardare, una forma umana: pittura che noi chiamiamo “arcimboldesca”, ma la cui origine, poco chiara, è probabilmente da rintracciare in ambiente franco-fiammingo. Sono paesaggi che rappresentano colline, città e che poi, spostando il punto di vista, diventano figure umane; oppure addirittura sono delle figure di uomo le quali però voltate, girate, guardate in un altro modo diventano dei mosaici di altri elementi. I quadri di Dalî dal ’29 in poi sono dei capolavori in questo senso, talvolta sono dei grandi paesaggi misteriosi nei quali emerge a una seconda lettura un volto umano, a volte sono delle membra umane allungate a dismisura, sorrette da stampelle, e talvolta sono dei veri e

propri rompicapi i quali a ogni nuova lettura rivelano dei nuovi dettagli di grande potenza, di grande — talvolta — efficacia. Dalî diventò immediatamente noto nell'ambiente surrealista di Parigi, fece amicizia con Paul Eluard, Breton, il fotografo Man Ray e fino a un certo punto anche con Giorgio de Chirico. Tracce delle prime cose di de Chirico, soprattutto dei paesaggi italiani, si trovano in alcune opere di Dalî intorno al 1930 per poi sparire. Dopo questa fase Dalî ebbe un'esperienza che è stata fondamentale per la sua vita: l’incontro con una donna russa diventata poi sua moglie, Gala, il 220

cui vero nome era Elèna Deluina Diaconova, nata a Kazan intorno al 1890; Dalî era nato nel 1904, quindi la donna era più anziana di lui.

Io ho conosciuto personalmente sia Dalî che Gala, e devo dire la verità non sono rimasto entusiasta, come individui, né dell’uno né dell’al-

tra; li ho conosciuti nella fase finale, quella della decadenza del pittore. La signora Gala divenne per Salvador Dalî sposa, madre, amica, consigliera, angelo custode: è uno di quei casi in cui un individuo di personalità debole, (perché Dalf in fondo era una personalità debole e insicura), trova in una donna il compenso a tutte le sue défaillances. Lentamente Gala è diventata per lui una sorta di divoratrice. Alla fine egli dipendeva completamente da lei ed è stata lei a trasformare l’arte sottile e talvolta inquietante di Dalî in una sorta di fabbrica di immagini, nelle quali vennero riprese e ripetute le invenzioni che lui aveva avuto fino a circa il 1935-37. Io credo che l’ultimo quadro veramente valido di Dalî sia un quadro che oggi si trova nel Museo ui Filadelfia e che è intitolato Costruzione morbida con fagioli o con fave bollite e ha anche un altro titolo Premonizioni di una guerra civile. Quello è l’ultimo quadro in cui Dalî si esprime con un linguaggio assolutamente nuovo. Io ricordo l'impressione enorme che mi fece da ragazzo questo quadro quando lo vidi riprodotto, mi sembra, su un numero della rivista “Minotaure” a cui Dalî collaborava e di cui io ero avido lettore; è stata davvero una delle fon-

ti della mia formazione. Dopo quell’epoca Dalfî è diventato non solo una vera e propria fabbrica di ripetute rielaborazioni del suo capitolo aureo (dal 1929 al °35-36), ma per di più, direi, si è catapultato in una sempre più convulsa frenesia di esibizionismo, di stranezze, di 72ses, di fogge strane, di fisionomie continuamente adulterate da invenzioni, baffi, capigliature, maschere, e poi di creazione di oggetti: strani letti, strani mobili, palazzi, ricevimenti. Io mi ricordo Dalî che saltava fuori da un grosso cubo di legno, che lui chiamava il cubo di Herrera, con esibizioni

a cui si mescolavano riferimenti alla cultura spagnola del Seicento, e che faceva una grande impressione alle masse. Nello stesso tempo il Dalî diventò un frenetico illustratore di libri; fra l’altro ha illustrato

anche la Divina Commedia. Ma tutto questo capitolo, che è durato decenni, mostra un inequivocabile decadimento rispetto a quella che era stata la sua produzione giovanile, cioè un inizio ammirevole. 2240

Naturalmente il Dalî trovò subito un pubblico entusiasta. Ci sono stati degli americani, per lo meno un paio, che hanno comprato freneticamente le sue opere, mettendo su collezioni di decine di suoi quadri. Ma nel complesso, una volta assistito ad uno di questi spettacoli e visto uno dei suoi quadri finali senza conoscere quelli giovanili, quando cioè l’incanto del primo momento si rompeva, Dalî appare inesorabilmente come un povero vecchio, debole, malato, manovrato da una moglie implacabile: una di quelle russe venute in Europa occidentale che hanno avuto un immenso ruolo culturale e che sono state molto dure a morire, perché hanno continuato per decenni... Le abbiamo avute in Italia, le abbiamo avute in Francia,

ce ne sono anche alcune nel mondo anglosassone e ce n’erano state parecchie in Germania prima dell'avvento del nazismo. È un capitolo della cultura europea, quello delle russe emigrate, soprattutto di religione israelita, che è difficile ancora individuare nella sua portata. È un capitolo molto importante, decisivo, direi basilare, perché moltissime delle idee, nella pittura, nel teatro, nella musica, nel-

la fotografia, nella scultura anche, vengono da queste signore le quali, oscure nella loro patria, hanno poi avuto una fioritura eccezionale una volta inserite nell'ambiente italiano, francese, tedesco.

Il surrealismo di Dalîf ha avuto una quantità di imitatori, talvolta geniali. Una persona per esempio che ammirava molto Dalî e che riconosceva apertamente il proprio debito era Fabrizio Clerici, persona non apprezzata in Italia per quello che valeva; non lo dico perché era un mio grande amico, ma perché Clerici è stato veramente una persona di grandissima cultura e un grande pittore surrealista. Moltissimi dei quadri di Clerici derivano da Dalî, però con una conoscenza dell’arte antica più ampia di quella che Salvador Dalî non avesse. Clerici è stato geniale, anche se incomincia ad essere apprezzato per quello che era solo ora in Germania. Qui in Italia siamo ancora abituati a una certa pittura casereccia: l’orto che nonna coltiva dietro la casetta, il ritratto di zia Angelina mentre cucina la frittata con le cipolle... quadri di questo genere, del tipo che ha afflitto anche molto del nostro cinema sotto l’insegna del neorealismo. È una cosa tipicamente provinciale. Clerici non era un pittore provinciale, così come non lo era Dalî, che ha avuto seguaci molto im-

portanti ad esempio nel teatro; molte messe in scena di balletti de222:

gli ultimi anni in Europa, soprattutto in Francia, o in America, vengono da Dalî. Poi ha avuto anche una grande influenza nella grafica: ci sono delle impaginazioni di Dalî riprese e rielaborate dai grafici più intelligenti, tanto che talvolta è perfino difficile scoprirne la dipendenza. Comunque Dalî è stato un fenomeno da mettere in rapporto al grande surrealismo. Non è un genio come è stato Max Ernst (perché il più grande pittore surrealista a mio avviso è stato Max Ernst, non de Chirico); non è — diciamo — un antesignano come de Chirico (i primi quadri di de Chirico degli anni Dieci sono le cose più importanti che l’Italia abbia prodotto dopo Tiepolo); però Dalîf ha un suo posto soprattutto se si considera la storia dell'ambiente francese. C'è stato infatti uno scambio culturale molto importante tra Dalî e l’ambiente parigino, con cineasti, poeti, e anche pittori come Tanguy, ma soprattutto nel campo della cinematografia. Spesso si vedono alcuni fotogrammi in cui l’esempio di Dalî non è stato lettera morta. Ripeto, il quadro Persistenza della memoria o Gli alti e bassi della memoria per me è uno dei capolavori di questo pittore. Dalf ha avuto delle intuizioni molto importanti per quello che riguarda l’inconscio, già dal ’29 al’35. Doveva conoscere le opere di Freud, probabilmente aveva avuto anche dei trattamenti psicoanalitici, però nell'ultima sua produzione, dopo il ’37, l’inconscio diventa qualche cosa di fittizio, di ripetuto, una specie di luogo comune e dunque senza più nessuna efficacia. Non dimentichiamo poi che Dalîf a un certo momento divenne alla moda a Hollywood. C’è per lo meno un film di Alfred Hitchcock, Io ti salverò, che si chiama in lingua originale Spe//bound, cioè “ossessionato”, in cui alcune scene sono state eseguite su indicazione di

Dalî. Egli collaborò anche con Walt Disney, sempre negli anni Quaranta, eseguendo gli schizzi e i modelli per alcuni sfondi di cartoni animati. Ma il rapporto più interessante di Dalî con il cinema è molto più antico, e risale proprio all’inizio del suo periodo aureo: la collaborazione con Louis Bufiuel, per il quale sceneggiò due capolavori surrealisti per esempio, Le chien andalou e L’àge d'or, il primo del 29, il secondo del ’31. Molte delle idee che poi sono passate alla pittura vengono da questa collaborazione. Due piccoli gioielli che ancora oggi possono essere guardati senza cadere nel ridicolo. 223

RENÉ MAGRITTE La condizione umana

155 Olio su tela, 100 x 81 cm

Washington, National Gallery of Art

René Magritte è uno dei pochi artisti della corrente surrealista che sia sempre vissuto nella propria patria, e che comunque, salvo brevi viaggi, abbia svolto la maggior parte della sua attività in Belgio. La sua storia è semplice: nel 1916, a diciott’anni, si iscrive all’Ac-

cademia di Belle Arti di Bruxelles e dopo la guerra comincia a lavorare come disegnatore per un’industria di carta da parati. Fa poi un salto qualitativo, cominciando a lavorare per la pubblicità, con manifesti e disegni pubblicitari, e in questi anni conosce un certo Mesens, maestro di pianoforte di suo fratello, il quale lo introduce presso Marcel Lecomte, dandogli modo di lavorare a varie riviste. Lecomte gli fa conoscere soprattutto de Chirico e la pittura surrealista, e Magritte già nel 1926 entra a far parte del gruppo dei surrealisti belgi che si ritrovano insieme nella cosiddetta Société des Mystères. L'esperienza di Parigi, tra il 1927 e il 1930, gli fa scoprire Mirò, Eluard, Arp, e fino al 1936 è fortissimo in

Magritte l'ascendente di de Chirico. Ma presto la sua vena surrealista trova un modo di esprimersi molto particolare, molto personale, che lo ha reso uno dei più celebri surrealisti, presente 0ggi in moltissimi musei. 225

Il quadro di cui parliamo è la cosiddetta Condizione umana della National Gallery di Washington, che presenta un tema più volte ripetuto da Magritte, o nella stessa composizione, con lievi varianti, oppure in composizioni diverse, ma con lo stesso significato. La sce-

na è vista dall’interno di una stanza, davanti a una grande finestra la quale ha ai due lati una tenda ad anelli aperta e attraverso il vetro mostra un paesaggio; sennonché la parte centrale di questo paesaggio è coperta da una tela dipinta poggiata su un cavalletto. Il cavalletto è perfettamente visibile ma la tela dipinta è identica a ciò che appare nel paesaggio, per cui non esiste praticamente soluzione di continuità, se non nell’orlo ripiegato della tela lungo il battente, tra ciò che appare fuori della finestra e ciò che esprime il quadro. Una tipica invenzione di Magritte è quella di proporre immagini che a prima vista sembrano del tutto incongrue o del tutto bizzarre, ma che poi fanno riflettere. Sono una sorta di giochi di parole molto intelligenti, ma più che di parole sono giochi di immagini le quali fanno riflettere. In questo caso però, come vedremo, l’immagine visiva proposta da Magritte deriva da un'immagine concettuale, espressa a parole, che aveva visto la luce alla fine dell'Ottocento. Che cosa significa questo quadro? Può significare anzitutto che l’artista che ha dipinto la tela ha riprodotto fedelmente la realtà esterna al punto che la superficie dipinta può essere confusa con l’aspetto stesso del paesaggio. Questa è l’interpretazione più ovvia e più banale. C’è poi un’altra interpretazione secondo cui la natura, il paesaggio soprattutto visto nella tela è quello stesso che crea a sua volta il paesaggio vero. E qui bisogna rifarsi a una nota sentenza paradossale di Oscar Wilde, il celebre scrittore, autore di testi teatrali e dandy londinese dell’ultimo quarto dell'Ottocento. Egli disse infatti ripetutamente che la natura che noi vediamo, il modo con cui noi percepiamo la natura non è già esistente nella natura stessa, ma deriva da ciò che ci rivela l’arte, cioè il modo con cui noi percepiamo i tramonti, i paesaggi urbani, insomma soprat-

tutto i paesaggi campestri e forestali e le montagne, è il frutto di un'educazione che il nostro occhio e la nostra mente hanno ricevuto da parte delle opere d’arte. Cosa peraltro molto giusta, molto ovvia, perché non potremmo mai “vedere” i tramonti senza l’esperienza di taluni pittori che hanno rappresentato i tramonti. La 226

fn

Magritte, Le passeggiate di Euclide, 1955, Minneapolis, Institute of Arts

percezione visiva della natura che esisteva nel mondo antico, durante il Medioevo e il Rinascimento, fino al secolo XVII, è estre-

mamente diversa dalla nostra, non solo perché noi siamo maturati, abbiamo più esperienza, o perché il nostro occhio cambia continuamente nella percezione dei colori e delle forme, ma soprattutto perché certi aspetti drammatici, lirici, cromatici, formali ci

sono stati rivelati dalle opere d’arte. 227

Questa credo sia la spiegazione più valida di questo quadro che è tra l’altro una delle opere più piacevoli di Magritte. Altre volte l’artista ha ripetuto questo tema dal titolo piuttosto significativo. È la condizione dell’uomo il quale vede il mondo circostante soltanto attraverso la propria esperienza umana, in un modo condizionato di vedere il mondo esterno, perché ciò che è in realtà il mondo esterno ci sfuggirà sempre senza la nostra interpretazione, a sua volta con-

dizionata dalle opere d’arte. Ci sono delle varianti di questo tema, come per esempio una tela in cui appaiono delle finestre nei cui vetri è rappresentato un cielo nuvoloso, mentre al di là della finestra non vi è nulla, c’è solo oscurità, il che vuol dire che noi riusciamo a

vedere soltanto attraverso l’intervento umano (appunto la finestra). C'è sempre questo legame con il concetto di Oscar Wilde. Altre volte Magritte ha dipinto lo stesso tema sempre con il quadro che si confonde con la realtà dietro la finestra, una volta la riva di fiume o

una spiaggia, un’altra volta una veduta che potrebbe essere Parigi. La versatilità di Magritte è immensa. I suoi quadri sono semMagritte, I/ capolavoro (I misteri dell’orizzonte), 1955, Los Angeles, Frederick Weisman Collection

228

pre delle acutissime sentenze, talvolta stupefacenti e molto difficili, sulla realtà umana e sul modo di vedere o di considerare le cose.

Non esiste altro pittore nel quale la vena surrealista, il modo di esprimersi surrealista sia poi così fortemente legato a delle idee razionali. Il fascino di Magritte consiste proprio in questo suo oscillare tra ragione e irrazionalità. C'è sempre un legame intimo che molte volte sfugge a un esame superficiale, e molte volte viene semplicemente preso come una sorta di divertissement, di divertimento, di passatempo. Cosa falsissima perché in realtà René Magritte ha meditato e assorbito molto bene le sue immagini: le ha prima create mentalmente e poi le ha volute rielaborare dando ad esse un significato del tutto nuovo. A questo proposito è molto interessante il caso di un tema ripetuto almeno tre volte, dal titolo L'impero delle luci, tre versioni oggi rispettivamente in una collezione privata di Milano (la prima, del 1949), nella collezione Peggy Guggenheim di Venezia e in una collocazione ignota negli Stati Uniti (l’ultima, del 1954). Le tre tele mostrano l’ascendente di un poco noto pittore inglese di epoca vittoriana, Atkinson Greemshaw, un Magritte, Go/conda, 1953, Houston, Menil Collection

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nome oggi pressoché sconosciuto fuori dell'Inghilterra. Greemshaw è colui che ha scoperto, non dico il fascino, ma l'aspetto un po’ misterioso, un po’ tenebroso di certe luci, talvolta molto fioche, che filtrano di notte attraverso vetrine di negozi o finestre di appartamenti, o che illuminano scarsamente luoghi circondati da una vegetazione talvolta rigogliosa, talvolta spessa, ma comunque sempre avvolta dall’oscurità. Ed è talvolta, Greemshaw, il vero descrittore di

certi aspetti urbani al calar del sole, quando le luci si accendono. La fama del pittore è rimasta circoscritta all'ambiente vittoriano, ma di lui si è accorto Magritte perché le tre tele dal titolo L'impero delle luci, in cui c’è la suggestione del lampione che si è acceso, delle finestre che si stanno illuminando al momento vespertino, sono proprio un caso di rielaborazione molto intelligente di un tipo di immagine creata molto tempo prima. Fra l’altro, nell’ultima versione, il fascino viene accresciuto anche dal riflesso di una lampada nell’acqua stagnante dopo la pioggia, ai piedi di un immenso albero che copre una casa. C’è una sorta di atmosfera, ed è anche questo un elemento molto curioso, che è stata poi percepita da certi registi cinematografici. Molte immagini di Magritte, oltre ad avere un’enorme importanza per la pubblicità e la cartellonistica (campo in cui il pittore è uno dei maestri più studiati da tutti i grandi creativi), ritornano in certo cinema, specie in quello a sfondo misterioso, drammatico o tragico. Non parlo soltanto di Hitchcock, che era un grande ammiratore di Magritte, ma anche di altre produzioni cinematografiche soprattutto anglosassoni in cui il pensiero di Magritte, soprattutto per ciò che riguarda il paesaggio e la veduta urbana, è presente e molto efficace, molto pungente. Naturalmente Magritte non è molto ben visto, come tutta la pittura surrealista. Ma mentre questa, fino al 1937-38, ha talvolta degli accenti veramente rivoluzionari, veramente dissacranti ed esplosivi, il suo caso mi sembra completamente differente. Non c’è in lui una volontà di destabilizzare, bensì di affinare la nostra men-

talità, la nostra percezione visiva. È molto curioso il fatto che il tema da cui abbiamo preso le mosse era stato già affrontato nel 1931 in una tela intitolata La bella prigioniera, in cui si vede il cavalletto non più in una stanza, ma all’aperto. E il cavalletto rappresenta un gruppo di case che continuano perfettamente ai due lati. È intito230

lato così perché appunto la natura diventa prigioniera dell’immagine rivelata dall’artista. Questo è il significato di Magritte. Ma di lui si potrebbe parlare per mesi perché ogni sua composizione, ogni suo quadro, ogni suo prodotto è una spinta verso una lunga rifles-

sione che talvolta è veramente rivelatrice, è uno stimolo per il pensiero e l’intelligenza umana. Magritte, L'impero delle luci, 1954, USA, collezione privata

2531

JOAN MIRO Il bell’uccello rivela l'ignoto a una coppia di amanti

1941 Gouache e olio su carta, 45,8 x 38 cm

New York, Museum of Modern Art

Joan Mirò è pittore spagnolo, o meglio catalano, nato a Barcellona nel 1893 e morto a Palma di Maiorca a novant'anni nel 1983. È considerato giustamente uno dei padri dell’astrattismo moderno. La sua educazione è avvenuta in Spagna, a Barcellona, ed è lì che la sua pittura, la quale incomincia con forti accenti espressionistici, si evolve

rapidamente verso forme che denotano una grande avversione al naturalismo. Sono forme molto singolari, molto personali, molto disegnate, nelle quali il pittore si allontana sempre di più dalla rappresentazione veristica per avvicinarsi lentamente a una sorta di mondo non ancora astratto ma in cui si sentono tutte quante le tendenze verso la non figuratività. Questa tendenza giunge a una pittura la quale è stata molto spesso condannata dai benpensanti, considerata ridicola, in-

fantile, priva di qualsiasi significato, assurda, tutta una montatura dei galleristi. Si sono riversate su Mirò tutte le contumelie che sono toccate ai grandi artisti di questo secolo, come ad esempio Picasso, Klee e molti altri. Ma lui in modo particolare è stato il bersaglio. Questo quadro ne è una espressione molto significativa, appartiene al Museum of Modern Art di New York e ha un titolo poetico, I/ bell’uccel255

lo rivela l'ignoto a una coppia di amanti, e fa parte di una serie intitolata Costellazioni. Guardando questo quadro, il significato sfugge completamente e il titolo può sembrare un pretesto per accontentare coloro che a qualsiasi costo vogliono un'etichetta a ciascun quadro. In realtà la pittura di Miré è una pittura di simboli, molte volte personali, è una sorta di logogrifo ad uso e consumo del pittore. Personale sì, ma poi gradualmente, con la frequentazione di Mirò ci si accorge che molti di questi segni, che sembrano insignificanti o gettati a caso, hanno una loro logica. E ci si accorge anche che nella sua ripulsa, nella sua avversione verso l’arte figurativa dell'Occidente europeo così come si presentava alla fine del secolo XIX — l’avversione verso il realismo, verso forme di arte impegnata socialmente, verso forme di arte religiosa — Mirò risale un cammino che tocca la sua destinazione finale nell’arte preistorica. Bisogna guardare i quadri di Miré così come si guardano gli affreschi delle grotte preistoriche, per esempio a Lascaux. Ma mentre nelle grotte preistoriche molte volte il tema, per quanto misterioso, si basa su delle rappresentazioni realistiche di animali, di cervi, di bisonti, o di feste religiose o propiziatorie, in Miré non c’è più la benché minima traccia di una possibile rappresentazione della realtà 0ggettiva, ma le sue opere vanno guardate nella loro assoluta singolarità spaziale e figurativa. Perché la famosa freddura del pittore moderno il quale non sa del proprio quadro qual è l’alto e qual è il basso, nel caso di Miré ha un alto indice di verosimiglianza, perché molto spesso nelle opere principali le immagini di Miré non sono polarizzate. Fatto molto importante. Non esiste un alto, un basso, una sinistra o

una destra. E sono delle immagini le quali vengono menomate, almeno a mio avviso, dall’essere riquadrate e messe in una cornice. Sarebbero perfette se fossero eseguite sulle pareti di una caverna e comprendessero non soltanto le pareti laterali e il soffitto, ma anche il pavimento. Cioè prive completamente di ogni riferimento a uno spazio ben definito. Allora Miré si rivela per quello che è, cioè un ritorno alle origini più antiche di quella che è stata la figuratività dell’uomo. E in questa strada egli è veramente grande. Innanzi tutto quello che c'è in Mirò è uno straordinario senso del colore. Nonostante sia un colore piatto, senza sfumature, privo completamente di passaggi, molte volte si può stabilire una sorta di grammatica 234

cromatica in Miré, molto interes-

sante. Alcune forme, che a prima vista appaiono prive di senso, messe poi in relazione ad altre analoghe in altri suoi quadri, si capisce che hanno un significato loro. Per esempio le allusioni al corpo umano, al corpo femminile soprattutto. Altre volte ci sono delle allusioni al percorso nello spazio di insetti, di uccelli in volo,

una geometria del volo. Altre volte ci sono delle curiose sintesi di simbolo

e

di

narrazione.

Ma

Mirò, Personaggi ritmici, 1934, Dusseldorf,

quello che è interessante è che il

Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen

Miré ha tentato questo stesso esperimento non soltanto nella pittura, dove ha esplorato una enorme quantità di possibilità, di campi (si è dedicato alle acquaragie su carta, alle incisioni nelle più varie tecniche, veramente è stato uno sperimentatore), ma ha fatto poi una quantità di ceramiche di grandissimo interesse insieme ad Artigas. L’eredità di Miré esiste ed è stata molto viva negli ultimi anni. Io credo che la persona che più lo ha capito e che più ha elaborato i suoi principi è stata Niki de Saint-Phalle. Ci sono delle immagini di Niki, e soprattutto delle immagini plastiche, in cui i principi di Mirò sono sviluppati con risultati estremamente singolari, anche se in Niki de Saint-Phalle l’utilizzazione diciamo pratica del prodotto non persuade completamente. Sembra quasi che l’immagine e il suo principio siano stati degradati. Ciò non toglie però che alcune delle figure torreggianti di Niki de Saint-Phalle e soprattutto l’uso che fa delle

superfici cromatiche abbiano un grandissimo valore che si pone al seguito di quello di Mirò. To trovo che l’arte di Miré ha una nobiltà e una dignità che mancano però completamente a quella dei suoi seguaci. Bisogna anche dire che è molto difficile portare avanti l’arte di Mirò, soprattutto per quello che riguarda il suo uso di un non colore, cioè il nero. Ci sono moltissime immagini di Miré nelle quali il colore nero ha una forza 255)

espressiva eccezionale e dà l'impressione di una forza cosmica primigenia, primordiale, senza alcuna necessità logica, ma assoluta. Questo

accade sia nelle stampe sia nei quadri. Ci sono anzi moltissime immagini di Mirò nelle quali il nero ha proprio una funzione di pilastro della rappresentazione. Curioso è anche il modo con cui Miré adopera talvolta le lettere dell’alfabeto: estratte, avulse dal contesto della parola scritta, diven-

tano come dei simboli carichi di mistero, di un significato che noi non riusciamo a cogliere ma di cui percepiamo perfettamente l’impatto. È un pittore molto colto, molto sofisticato sotto l’aspetto di questo modo primordiale di esprimersi. Il rapporto tra Mirò e i suoi seguaci, soprattutto Niki de SaintPhalle si coglie nelle sculture, soprattutto quelle molto grandi. Debbo anche dire che a mio avviso una persona che ha studiato Mirò e ne ha compreso certi aspetti è stato Pablo Picasso, perché ci sono talune immagini di Picasso della fine degli anni Venti, soprattutto certe figure quasi di ossa contro dei cieli azzurri, che fanno pensare a una conoscenza profonda di Miré e a una rielaborazione dei suoi insegnamenti. Ma qui bisognerebbe vedere le date esatte di questa possibile filiazione. In Miré poi, talvolta, il colore, per quanto applicato senza alcuna ragione apparentemente logica, viene di per se stesso a creare

una logica figurativa. Per esempio, certe zone di verde, le quali non hanno nulla a che fare con la veduta di un paesaggio — un prato per esempio — vengono poi a creare automaticamente un universo paral-

lelo, direi. Mirò ècomunque un pittore non popolare. Non si può chiamare Mirò un pittore per le masse. È un pittore estremamente sottile, di cultura molto elaborata e di grande meditazione sotto

l'apparente sciatteria. Ed è questo che lo rende particolarmente antipatico a coloro che pretenderebbero che ogni opera d’arte si esprimesse a colpo d’occhio. Mirò è più grande come pittore o come scultore? Io trovo che Mirò è grande e come pittore e come scultore. Le sculture sono talvolta prodigiose, ce ne sono alcune intelligentissime. Fra l’altro Miré riesce a ricreare, ma senza nessuna intenzione di imitarli, i totem. Anche

lì c'è una sorta di ritorno al mondo primitivo, primigenio, che viene

raggiunto talvolta senza una vera e propria volontà. C'è molto dei 236

Mirò, Blu II, 1961, Parigi, Centre Georges Pompidou

processi automatici dell’inconscio in Mirò, che infatti è sempre considerato come un pittore dell’inconscio, definizione sulla quale io però ho molti dubbi. I surrealisti hanno molto attinto a Miré. Certi giochi dei surrealisti, come per esempio i “cadaveri squisiti”, devono molto a Mirò. Ci sono poi degli artisti dell’ultima fase surrealista, come Victor Brauner, che sicuramente hanno visto Miré e lo hanno studiato. Mirò poi è uno dei maestri della grafica contemporanea, perché il modo con cui egli spalma certi neri sulla tela o il modo con cui applica certi colori, sono dei veri e propri archetipi per una grossa fetta del mondo pubblicitario e anche per il mondo dei grafici e degli stampatori. Da Mirò si sente esattamente l’origine di certi fatti di grafica, di pubblicità e di costruzione delle immagini contemporanee. È un iniziatore, per quanto — ripeto — molte volte venga rifiutato proprio per una sua apparente sciatteria. È un pittore meditatissimo. La

cosa che dispiace di Mirò è che egli non abbia mai avuto l'occasione di esprimersi in opere di grande formato, come ad esempio la pittura di una grotta, perché, ripeto, lo spazio definito del quadro contrasta con il suo senso spaziale illimitato. 200

Un altro pittore che forse — dico forse — ha visto Mirò è Piet Mondrian. Ci sono in Miré dei fatti di colore che ritornano sotto aspetti diversi in Mondrian, ma che fanno pensare proprio a una discendenza diretta. C'è sicuramente nella conversione iniziale di Mirò dal figurativo al non figurativo un rapporto con un altro grande catalano, che è l’architetto Antoni Gaudî. Molte decorazioni applicate da Gaudi alle sue costruzioni assolutamente staccate dalla tradizione occidentale,

fanno già pensare a Miré. Ci sono delle decorazioni di terrazze, di giardini, certi muri di cinta con delle applicazioni policrome di ceramica, che non seguono nessun ordine logico, che già anticipano quello che sarà il mondo di Miré. Miré resta uno spagnolo, e soprattutto, più che spagnolo, un catalano. La fortuna di Miré è rimasta limitata, fino a tutta la seconda

guerra mondiale, all'ambiente francese e in piccola parte spagnolo, per quanto egli fosse stato già apprezzato da molti artisti americani. Durante la guerra Miré, a causa dell’occupazione tedesca di Parigi — perché fino ad allora egli era vissuto a Parigi e in Spagna — per sfuggire all'ambiente cupo della Parigi occupata dai nazisti si rifugiò a Palma di Maiorca, facendo molte visite nella città di Barcellona.

Non è che il regime di Franco fosse l’ideale per un artista come Mirò. Comunque egli si trovava a casa sua ed era già un risultato. Il grande successo di Mirò avviene dopo il 1944-45, quando è stato veramente scoperto dalla cultura europea, o per lo meno è stato scoperto da quei Paesi che erano aggiornati alla cultura europea più viva. E Miré ha avuto un immenso pubblico di collezionisti e di estimatori negli Stati Uniti. Il caso Mirò andrebbe però rivisto dentro un tessuto critico molto più ampio, che è quello del passaggio dall’arte figurativa all’arte non figurativa, di Kandinskij, di Mondrian e di quegli altri artisti che hanno creato un mondo più valido, più attuale, più vivo, perché oggi la pittura realistica resta sempre col fiato grosso, una pittura da fanalino di coda. E nello stesso tempo andrebbe anche studiato il rapporto preciso di Miré con l’ambiente surrealista di Parigi, soprattutto con Max Ernst. Miré ha avuto una grande fortuna presso i surrealisti, per esempio Breton, mentre altri lo hanno profondamente detestato. C’è stata una posizione ambivalente ri238

spetto a Mirò. Ma sono tutte cose che andranno un giorno studiate

per vedere poi quello che di vivo c'è in Miré e quello che è ancora vivo oggi attraverso la grafica internazionale, attraverso la pubblicità, e direi anche attraverso l’architettura perché molta architettura contemporanea, nel colore esterno, nelle decorazioni di certe facciate, di certi atri, di certe scale, dipende da Miré. Miré è stato un crea-

tore del XX secolo. Il dipinto in esame è un guazzo, è pittura a benzina su carta — quindi c'è anche una sperimentazione molto interessante — e si chiama Il bell’uccello rivela l'ignoto a una coppia di amanti. Innanzi tutto notiamo che qui la polarizzazione è data dalla firma, che è in basso, altrimenti il quadro sarebbe assolutamente privo di qualsiasi polarizzazione. In secondo luogo il tessuto figurativo del dipinto è percorso da una quantità di riferimenti che da un lato possono far capo alle linee curve, nelle quali intuiamo a sinistra una sorta di volto umano dall’occhio verdastro circondato di azzurro, in basso a destra un

enorme volto con due occhi e dei baffi che potrebbe essere il volto di una tigre o di altro animale, altro felino molto feroce, poi abbiamo

più in alto una sorta di volto, con un occhio, un corpo ondulato, e sopra l'occhio come due antenne, che potrebbe essere una sorta di lumaca. Ma tutto questo però cede di fronte alla quantità di - possiamo chiamarli - segni e di morfemi, i quali fanno del quadro una vera e propria enigmatica sciarada. È una sorta di sciarada di cui solo il pittore conosce la soluzione. D'altra parte la sensazione che dà questo quadro è la stessa che noi proviamo di fronte a certi geroglifici egizi, nei quali noi sappiamo che c’è un significato ma un significato che ci sfugge perché non sappiamo interpretarlo. La cosa più straordinaria di questa immagine è che l'enorme quantità di segni, alcuni quasi clessidre schematizzate, altri punti rotondi, altri come chiodi, viene a creare una profondità ondulata. Si viene a stabilire una sorta di rapporto tridimensionale tra i vari segni, cosa anche questa che è stata sfruttata abilmente dalla pubblicità murale e dalla pubblicità grafica. Ogni quadro di Mirò, ogni opera di Mirò risulta essere l’archetipo per una quantità di sviluppi accaduti nel mondo contemporaneo. È questo che fa la grandezza dell’artista. E lo fa grande anche la ripulsa violenta che contro di lui ha sentito la classe media benpensante. 259

Biografie degli artisti Venezia ha luogo intorno al 1470 in cui ha modo di confrontarsi con l’arte di Giovanni Bellini; in patria realizza il Polittico di san Gregorio e lAnnunciazione

Antonello da Messina Stando alle indicazioni vasariane Antonello, considerato il più alto rappresentante della pittura meridionale e il più attivo diffusore della pittura fiamminga in Italia, nasce

in cui sono ancora presenti suggestioni

fiamminghe. Di nuovo a Venezia dipinge alcuni capolavori come la Pala di san Cassiano e il San Sebastiano, opere caratterizzate da un colore splendente e lu-

a Messina intorno al 1430

dal marmoraio Giovanni d’Antonio e dalla moglie Margherita; la sua formazione artistica si svolge a Napoli intorno al 1450 nella bottega di Colantonio che lo pone a contatto con l’arte fiamminga, spagnola e provenzale. Nel 1456 Antonello è nuovamente a Messina dove apre una propria bottega in cui accoglie come garzone Paolo di Ciacio ed entra in contatto con alcuni centri della Calabria dipingendo nel 1457 un gonfalone per la Confraternita dei Gerbini a Reggio Calabria; torna probabilmente in due occasioni a Messina dove la sua presenza è documentata dal 1460 al 1465 mentre negli anni seguenti effettua alcuni viaggi recandosi anche a Roma dove ebbe modo di vedere l’opera di Piero della Francesca. Di nuovo a Messina nel 1473 e 74 parte alla volta di Venezia dove la sua presenza è ricordata nel 1475 fino al marzo dell’anno seguente; tornato

a Messina,

minoso ma soffuso e morbido, influen-

zato da Giovanni Bellini; in questo periodo esegue anche alcuni ritratti tra cui i più celebri sono il Condotziero e un Autoritratto considerato uno dei più alti capolavori di questo genere in cui Antonello raggiunge un sorprendente equilibrio compositivo e una accentuata plasticità in virtù di una illuminazione che definisce il volto sul fondo scuro. Dopo il ritorno in Sicilia dipinge il suo capolavoro, la Vergine anunciata del Museo di Palermo, che nel viso assorto tra-

disce una intensa umanità all’interno di una immagine nitida e volumetricamen-

te compatta. Beato Angelico Guido di Piero detto il Beato Angelico nacque a Vicchio nel Mugello intorno al 1400, come confermato da recenti studi che contraddicono la tradizionale e dibattuta datazione vasariana al 1387 o

il 14 febbraio

1479, gravemente malato detta il proprio testamento; muore entro il 25 dello stesso mese. Nelle sue prime opere quali la Madonna Salting alla National Gallery di Londra e la Crocifissione a Bucarest è evidente una

1388, e muore a Roma il 18 febbraio 1455. Nel 1417, ancora laico, l’artista è citato

potente saldezza spaziale congiunta a un'analisi lenticolare dei dettagli di ascendenza fiamminga. Nel 1465 Antonello data la tavola del Salvator Mundi apponendo la propria firma su un finto cartellino come era in uso tra gli artisti fiamminghi e impone alla figura del Redentore una ieraticità animata dal colore caldo e luminoso. Un primo soggiorno a

come “dipintore” nella Compagnia di San Nicola al Carmine; solo qualche anno dopo, tra il 1418 e il 1420 il giovane ma già noto pittore entra a far parte dell'ordine dei Domenicani Predicatori e la sua ordinazione sacerdotale si colloca intorno agli anni 1423-25; il suo nome da religioso andrà mutando nel tempo da frate Giovanni “di Mugello”, “da Fieso240

le” e “da Firenze”; l’appellativo di Angelico gli venne attribuito nel 1469 da

il suo ideale di una moderna arte sacra,

dai contenuti sentitamente religiosi immersi in una forma rinascimentale. Nello stesso anno in cui inizia la sua attività a San Marco il pittore si reca a Cortona

fra’ Domenico da Corella nel Theotocon, mentre più tardo è l’attributo di Beato che non ha alcun fondamento ecclesiastico. L'esordio artistico del pittore avviene con opere legate alla tradizione tardogo-

per dipingere un Trittico per il convento di San Domenico; tornato a Firenze, nel

1443 viene nominato “sindicho” del con-

tica nella declinazione proposta da Lorenzo Monaco e in particolare da Gentile da Fabriano sebbene, già prima del 1430 la sua attenzione si rivolga verso la nuova concezione plastico-spaziale di Masaccio che Beato Angelico rielabora in termini luministici. Il primo documento relativo alla sua attività di pittore è datato al 1418 anno in cui viene pagato per una tavola nella chiesa di Santo Stefano dei Capitani di Orsanmichele; un altro documento recante la data del 30 marzo 1429 testimonia l'esecuzione del Trittico di San Pietro

martire per imonaci del convento di San Domenico a Fiesole in cui, dal dicembre

1432 al gennaio 1433, ricopre la carica di vicario che gli verrà rinnovata tre volte. Del 1433 è la commissione della parte pittorica del Tabernacolo dei Linatoli, opera che testimonia lo scambio intellettuale e la collaborazione artistica con Ghiberti; è la prima commissione laica di Beato Angelico che a quest'epoca è ormai uno dei più importanti pittori fio-

vento di San Marco, cioè procuratore e rappresentante dei confratelli. Dal 1445 al 1447 Beato Angelico è testimoniato a Roma dove lavora in Vaticano nella cappella detta del Sacramento (in seguito distrutta) e da cui stringe contatti con i monaci del Duomo di Orvieto per i qua-

li dipingerà nell’estate del 1447 due vele con Cristo Giudice e Sedici profeti. Dal 1448 al 1450 Beato Angelico è occupato nell’esecuzione del ciclo con Scene della vita di san Lorenzo e santo Stefano in Vaticano nella Cappella Niccolina, suo ultimo capolavoro; nel 1450 rientra Firenze dove è nominato priore del convento di San Domenico. Qualche anno dopo, nel 1453-54 il pittore torna a Roma dove lavora nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra Minerva, chiesa in cui nel 1455, alla sua morte, viene sepolto. Rite-

nuto a lungo dalla critica un pittore attardato e primitivo Beato Angelico rivela nelle sue opere una cultura aggiornata ed elaborata in una personale declinazione: una ricerca autonoma in cui il co-

rentini.

lore domina la spazialità dell'immagine e

Tra il 1438 e il 1445 l’Angelico realizza la sua maggiore impresa pittorica: la decorazione della chiesa e del convento di San Marco restaurato nell’anno precedente da Michelozzo che continua a lavorarvi fino al primo soggiorno romano di Beato Angelico, nel 1445. Del ciclo di affreschi realizzati con l’aiuto di allievi sono certamente autografi il Noli ye tan-

trasforma l’astrattezza geometrica in evidenza visiva portatrice di un significato

religioso.

Sandro Botticelli Alessandro di Mariano Filipepi nacque a Firenze nel 1445; suo padre era un con-

ciatore di cuoio mentre dal fratello maggiore, detto per la sua pinguedine, il Botticello, gli venne l’appellativo con cui è noto. Secondo il Vasari tale attributo gli verrebbe invece da un altro fratello di professione battiloro e battiargento e cioè “battigello”. Il giovane, stando ai documenti, di salute cagionevole, entra

gere, lAnnunciazione, la Trasfigurazione, il Cristo Deriso, l’Incoronazione della Vergine, la Presentazione di Gesù, l Adorazione dei Magi, la Madonna col Bambino in trono e l'Annunciazione. In questa

fondamentale impresa, il pittore esprime 241

intorno al 1464 nella bottega di fra’ Filippo Lippi, di cui forse; alla partenza di questi per Spoleto nel 1467 ne continua la bottega sebbene in base a evidenze stilistiche si possa supporre che intorno al 1468 Sandro frequenti lo studio di Verrocchio. Dal 1470 Botticelli ha una propria bottega in cui ha come apprendista Filippino Lippi. Il suo esordio ha luogo con alcuni dipinti di Madonna caratterizzate da un fluido plasticismo. Nel 1470 grazie all'intervento di Tommaso Soderini, uomo di fiducia di Lorenzo il

Magnifico, dipinge la Fortezza nel Tribunale dell’ Arte di Mercanzia, suscitando le ire di Piero del Pollaiolo a cui era stata affidata l’intera serie delle Virtù: da questo momento inizia la frequentazione e la protezione dei Medici. Nel decennio dal 1470 al 1480 realizza alcuni dei suoi più grandi capolavori: la Pala delle Convertite, il Dittico di Giuditta, VlAdorazione dei Magi e la celebre Primavera. Nel 1472, il 18 ottobre, Botticelli si iscrive alla Compagnia degli artisti di San Luca. Nel 1474 Sandro si reca a Pisa per decorare insieme a Benozzo Gozzoli il Camposanto, impresa che non fu mai realiz-

Marco e nei disegni realizzati tra il 149097 per illustrare la Divina Commedia ; la crisi mistica che lo attanaglia lo porta a realizzare cosiddetti “quadri di pietà”: la Madonna di Dresda, la Madonna del padiglione, la Natività mistica e a illustrare complessi soggetti mitologici quali la Calunnia di Apelle e le Storie di donne illustri. Il 25 gennaio 1504 viene chiamato a partecipare alla seduta della commissione incaricata di stabilire la collocazione del David di Michelangelo. Il 17 maggio 1510 viene sepolto nel cimitero della chiesa di Ognissanti. Bronzino

Agnolo Torri di Cosimo di Mariano, detto il Bronzino, raffinato interprete del Manierismo, uomo colto e letterato, nasce il 17 novembre 1503, a Monticelli, presso Firenze. La sua formazione inizia con un breve apprendistato presso Raffaellino del Garbo e successivamente, verso il 1518-19 presso Jacopo Carrucci detto il Pontormo di cui diventa intimo

amico e collaboratore dapprima nei lavori alla Certosa del Galluzzo e in seguito nella decorazione della Cappella Capponi in Santa Felicita a Firenze. Di questa impresa sono ascrivibili a Bronzino i tondi di San Matteo, San Marco e probabilmente quello di Sar Luca. Il suo stile si differenzia da quello del celebre maestro per l’austera eleganza e una diversa elaborazione dell’antico. Nel 1530 Bronzino lavora al servizio di Guidobaldo, futuro duca di Urbino per il quale dipinge alcuni ritratti e realizza la decorazione della Villa Imperiale di Pesaro. In seguito a un progetto di affreschi per la villa medicea di Poggio a

zata e, per la commissione della quale deve sottostare a una prova di capacità ese-

guendo nel Duomo una Assunzione della Vergine, opera mai terminata e distrutta nel 1583. Nell’estate del 1481 su invito del papa Sisto IV Sandro si reca a Roma dove, entro l’estate del 1482 dipinge tre storie (Mosé e le figlie di Jetro, la Punizione di Core e le Prove di Cristo) e alcune figure di papi nella Cappella Sistina che rappresentano il momento più “classico” e di maggior equilibrio della sua produzione. Nello stesso anno riceve un’im-

Caiano da compiersi insieme a Pontormo Bronzino rientra a Firenze ma l’impresa non ha luogo. I due amici si ritrovano ancora una volta nella decorazione

portante commissione, mai eseguita, per

la decorazione della sala dei Gigli nel palazzo della Signoria a Firenze e dipinge la Nascita di Venere. Un nuovo fervore religioso suscitato dalle predicazione di

della Villa di Alessandro de’ Medici a Careggi, ma l’opera rimane incompiuta a Girolamo Savonarola entra nelle sue . causa dell’assassinio del committente. Di opere come è evidente nella Pala di San una ulteriore decorazione condotta in242

sieme tra il 1537 e il 1541 non rimane alcuna traccia. Intanto, nel 1539 Bronzino si dedica agli

addobbi per le nozze di Cosimo I con Eleonora di Toledo. Per Eleonora Bronzino dipinge tra il 1541 e il 1545 la cappella di Palazzo Vecchio; nello stesso periodo esegue una serie di ritratti dei membri della famiglia Medici e nel 1543,

anno di fondazione della celebre Arazzeria Bronzino, viene nominato respon-

sabile dell’opificio per il quale realizza sedici arazzi con le Storie di Giuseppe. Nel 1541, il pittore che si dilettava anche di poesia è tra i fondatori dell’Accademia degli Umidi; nel 1548 ha luogo un breve viaggio a Roma. Tornato a Firenze continua a lavorare per i Medici, di cui in qualità di artista di corte interpreta lo spirito di aristocratica eleganza, e per i quali esegue anche alcune opere di soggetto religioso. Nel 1555 muore l’amico Cristoforo Allori e Bronzino viene nominato capofamiglia in vece dell’amico presso la cui casa si stabilisce. Nel 1557 muore anche l’antico amico Pontormo di cui Bronzino continua gli affreschi incompiuti in San Lorenzo. Nel 1563 è tra i fondatori dell’Accademia del Disegno, mentre l’anno successivo, alla morte di Miche-

langelo partecipa con Giorgio Vasari e Benvenuto Cellini all’organizzazione delle esequie. Nell’ultimo periodo della sua attività Bronzino, toccato dai contemporanei fermenti religiosi rinuncia all’esuberanza della precedente produzione, per dipingere opere di soggetto sacro, vicine ai dettami di decoro richiesti dalla Controriforma. Al termine di una breve malattia Bronzino, uno degli artisti più rappresentativi del Cinquecento muore il 23 novembre in casa Allori. Bruegel Il primo documento relativo al pittore fiammingo è l’iscrizione alla Gilda di San Luca ad Anversa, nel 1551. L’età richie-

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sta per l'iscrizione a questa confraternita di artisti era di venticinque anni: di conseguenza la data di nascita di Bruegel viene generalmente collocata intorno al 1525. Sconosciuto è anche il luogo esatto di nascita, che, in relazione al nome dell’artista e ai paesaggi presenti nelle sue opere, si può identificare con il centro di Brògel nel Limbourg Campine, una zona del Brabante. Nel 1552 Bruegel si reca in viaggio in Francia e in Italia spingendosi fino in Sicilia ma il contatto diretto con l’arte antica e rinascimentale non sembra influenzare la sua opera che resta legata a moduli nordici. Maggior impatto ha su di lui il paesaggio italiano come rivelano alcuni disegni quali Veduta di Reggio Calabria e Veduta del golfo di Napoli. Nel 1553 soggiorna a Roma dove conosce il miniaturista Giulio Clovio insieme al quale esegue due miniature. Tornato ad Anversa collabora con l’editore Hieronymus Cock alla raccolta di incisioni dei Grandi paesaggi e realizza alcuni disegni satirici che mostrano l’influenza di Bosch, artista a cui Bruegel deve l’interesse per la figura umana come è evidente nella Caduta degli angeli ribelli o nel Trionfo della morte. Trasferitosi a Bruxelles studia presso il pittore “italianizzante” Pieter I Coecke Van Aelst e nel 1556 ha inizio la sua produzione pittorica. Nel 1562 si reca ad Amsterdam e un anno dopo sposa Mayken Coecke, figlia del suo maestro da cui ha due figli: Pieter il Giovane e Jan, entrambi divenuti pittori. Del 1565 è la splendida serie dei Mes: dipinti per Nicolas Jonghelinck, suo principale committente insieme al cardinale di Granvelle. In questa ed altre opere Bruegel rivela la sua attenzione per la natura e per il paesaggio e nello stesso tempo dipinti come Dodici proverbi fiamminghi o Dulle Griet svelano il suo universo fantastico, che rivolgendosi al mondo popolare rielabora immagini di Bosch.

Tra il 1562 e 1567 si intensifica la produzione di soggetti religiosi caratterizzati da una forte saldezza compositiva. Le ultime opere che rappresentano i capolavori della sua produzione esprimono una forte originalità stilistica nell’uso di un ductus pittorico largo e piatto, di colori intensi, di sorprendenti effetti prospettici unitamente a una minore densità

di particolari: in questo stile, definito naturalismo anti-aulico il pittore realizza opere ispirate al mondo popolare e quotidiano a cui deve l'appellativo di “Bruegel dei contadini”. Ancor giovane, il pittore muore il nove settembre 1569 e viene seppellito nella chiesa di Notre Dame de la Chapelle a Bruxelles. Canaletto Giovan Antonio Canal nasce a Venezia il 28 ottobre 1697 da Bernardo, scenografo e Artemisia Barbieri: insieme al fratello Cristoforo compie il proprio apprendistato presso il padre, cimentandosi con la tecnica della prospettiva e della composizione. Insieme al padre e al fratello realizza alcune scenografie per il teatro Sant'Angelo e per il teatro San Cassiano di Venezia. Nel 1719, recatosi insieme al padre a Roma per lavorare al teatro Capranica, Antonio viene a contatto con il locale ambiente artistico dominato nel campo della veduta da Gaspard van Wittel e in cui cominciava a farsi spazio anche Giovanni Paolo Panini. Canaletto comincia a disegnare schizzi di rovine e antichità che al suo ritorno a Venezia rielaborerà in “capricci” e vedute nello stile di Marco

dio l’artista indica i punti di maggiori luminosità, di ombra e i riflessi dell’acqua. Nell’impianto prospettico e nella composizione delle prime opere è ancora presente un certo gusto scenografico di cui l’artista saprà ben presto liberarsi grazie all’osservazione attenta della natura e alla propria sensibilità per la resa dei valori atmosferici. Le sue prime vedute documentate sono quelle eseguite intorno al 1725-26 per il collezionista lucchese Stefano Conti. Già in contatto fin dal 1722 con alcuni amatori inglesi che saranno i più grandi estimatori della sua opera, nel 1727 Canaletto, grazie all’impresario teatrale Owen McSwiney, realizza alcune opere per il duca di Richmond. Nel 1735 una serie di dipinti che hanno per soggetto scorci del Canal Grande vengono incisi da Antonio Visentini in una raccolta intitolata Prospectus Magni Canalis Venetiarum raccolta che procura al pittore una grande notorietà e una quantità enorme di ordinazioni da parte dei committenti inglesi. Nel 1740 Canaletto insieme al nipote Bernardo Bellotto visita Padova e la riviera del Brenta: da questo soggiorno nascerà una raccolta di trenta acqueforti realizzate per il collezionista Joseph Smith, dal 1744 console britannico a Venezia, che diventerà l’agente esclusivo del pittore e che Canaletto aveva conosciuto intorno agli anni Trenta quando era terminata la sua collaborazione con McSwiney. Nel maggio 1746, Canaletto, che a causa della guerra di successione austriaca aveva visto diminuire drasticamente le com-

Ricci. Dopo il fondamentale soggiorno

mittenze dei viaggiatori, suoi maggiori aquirenti, accetta di recarsi a Londra,

romano, al ritorno a Venezia Canaletto

dove era stato più volte invitato. A Lon-

abbandona la scenografia per dedicarsi al vedutismo e si iscrive nel 1720 alla Fraglia dei Pittori. Per ritrarre la realtà dei luoghi il pittore esegue studi a matita condotti a volte con l’ausilio della camera ottica. Nei suoi disegni, rielaborati successivamente nel chiuso del suo stu-

dra Canaletto rimarrà, salvo alcune interruzioni fino al 1755 per rientrare definitivamente a Venezia dove nel 1763 entra, come “prospettico” nell’ Accademia veneziana di Pittura e Scultura a cui dona un Capriccio con colonnato. La sua ultima commissione fu una serie di dise-

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gni delle Feste Dogali incisi da Giambattista Brustolon. Dopo una lunga malattia l’artista muore il 18 aprile 1768 e viene sepolto nella chiesa di San Lio. Cézanne Paul Cézanne nasce a Aix-en-Provence il 19 gennaio 1839; il padre è un agiato banchiere e fondatore di una banca. La florida situazione economica della famiglia Cézanne permette al pittore di non avere mai problemi di ordine economico e di potersi dedicare con tranquillità alla sua arte. Nel 1852 il giovane si iscrive al collegio Bourbon di Aix dove diventa amico di Emile Zola, a cui lo legherà un’amicizia interrotta solo nel 1886, quando lo scrittore pubblica il romanzo L’Oeuvre il cui personaggio principale, un artista fallito, si ispira a suo modo a Cézanne di cui non aveva approvato la svolta impressionista. Dopo aver frequentato i corsi di disegno di Joseph Gibert a Aix, per assolvere ai desideri del padre che contrasta la sua vocazione, Cézanne si iscrive alla Facoltà

di Diritto dell’Università di Aix ma nel 1861 si trasferisce a Parigi dove raggiunge l’amico Zola e inizia a frequentare l’Académie Suisse dove incontra Pissarro. Dopo un breve soggiorno nel paese natale dove lavora nella banca del padre Cézanne torna a Parigi e al Café Guerbois conosce Monet, Renoir, Sisley e altri pittori del futuro gruppo impressionista che lì solevano incontrarsi. Continua a frequentare l’Académie Suisse e a visitare sistematicamente il Louvre dove studia in particolare le opere di Caravaggio e Velizquez. Nel 1863 Cézanne partecipa al famoso Salon des Réfusés voluto da Napoleone III per gli artisti non ammessi al Salon ufficiale. In questo periodo l’artista si divide tra soggiorni nella tenuta paterna di Jas de Bouffan, in Provenza, a Pontoise dove si reca a dipingere er plein-air insieme a Pissarro e Parigi dove nel 1869

incontra Hortence Fiquet, la modella da cui nel 1872 avrà un figlio dopo averla sposata nel 1866. Il 1874 è l’anno della prima mostra impressionista nello studio del fotografo Nadar. Cézanne espone La casa dell’impiccato ad Auvers-sur-Oîse, un paesaggio che rivela il nuovo stile, più luminoso, privo di contrasti drammatici in cui attua una sintesi di volume e spazio che lascia presagire la futura evoluzione della sua opera. Espone di nuovo insieme agli impressionisti nel 1877 presso la galleria Durand-Ruel ma il suo stile va lentamente distaccandosi da quello dei suoi compagni distinguendosi per la ricerca di una maggiore solidità strutturale. Nel 1882 le sue opere vengono accettate per

l’unica volta al Salon ufficiale. Continua 1 soggiorni insieme a Pissarro, a Renoir all’Estaque e nel 1888 a Aix incontra van Gogh e Gauguin. Con van Gogh Cézanne partecipa a Bruxelles alla mostra del gruppo dei Virgt.

Negli anni seguenti l’artista con la sua famiglia si divide tra Aix e Parigi dove nel 1895 ha luogo la sua prima mostra personale. Negli ultimi anni della sua vita, gravati dal diabete che lo aveva colpito fin dal 1890, Cézanne vive quasi isolato dedicandosi alla serie del Monte Sainte-Victoire e delle Grandi Bagnanti. Nel 1906 colto da un temporale mentre era intento a dipingere en plein-atîr in

campagna si ammala di polmonite e muore il 22 ottobre nella sua città natale. Nello stesso anno Picasso inizia a dipingere Les demoiselles d’Avignon, con cui si inaugura la nuova stagione del Cubismo che prende le mosse dalla sintesi plastica di Cézanne. Cimabue La data di nascita di Cenni to Cimabue viene collocata tra il 1240 e il 1250, notizie hanno dal 1272 al 1302. Il primo documento risale

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di Pepo detdalla critica dell’artista si

al 18 giugno

Maestà degli Uffizi da alcuni dettagli quali le proporzioni più grandi riservate alle figure divine, l’uso della foglia d’oro e la collocazione simmetrica degli angeli intorno alla figura della Vergine. Su que-

1272: il pittore viene citato come testimone di un atto notarile a Roma riguardante l’assunzione da parte del cardinale Ottobono Fieschi del patronato di un monastero di proprietà delle monache di San Damiano. La prima opera di Cimabue, l’artista che inaugura la scuola fiorentina di pittura e che viene citato da Dante nell’XI canto del Purgatorio come maestro di Giotto, è la Croce dipinta in San Domenico ad Arezzo datata intorno al 1270, seguita dalla Croce in Santa Maria Novella a Firenze: in queste opere la tradizionale iconografia del Cristo triumphans viene sostituita da quella del Christus patiens già introdotta da Giunta Pisano nel Croczfisso di San Domenico a Bologna ma che l'artista riprende con effetti di drammatica intensità. Intorno a quegli anni Cimabue esegue la celebre Maestà per la chiesa di Santa Trinita, ora agli Uffizi che fu già al suo tempo oggetto di ammira-

sti presupposti Cimabue innesta un ele-

mento nuovo: la volontà di creare tra l’immagine, meno aulica e ieratica rispetto alla tradizione, e l’osservatore un rapporto più intimo e affettivo. Successivamente influenzato dalla nuova ricerca gotica l’artista attraverso l’uso della linea di contorno che sarà sempre alla base della scuola fiorentina ricerca effetti più dinamici e naturalistici come evidente nell’animata scena di Giuseppe venduto dai fratelli nel mosaico del Battistero di Firenze, realizzato prima del 272,

Correggio

Scarse sono le notizie relative alla vita di Antonio Allegri che visse appartato e solitario: la sua data di nascita viene collocata dalla critica tra il 1489 e il 1494; suo padre è un agiato mercante di stoffe di Correggio, città natale del pittore. La sua formazione avviene presso un modesto pittore modenese, Francesco Bianchi Ferrari ma influenza maggiore ebbe sul giovane artista l’arte di Andrea Mantegna Proprio nella chiesa di Sant'Andrea a Mantova dove si trovano alcune opere del pittore padovano è probabile si compia l'esordio artistico di Correggio: collabora alla decorazione della cappella funebre del pittore dipingendo alcune immagini di Evangelisti. Non documentati ma dedotti da elementi stilistici sono anche due soggiorni di Correggio a Roma da collocarsi intorno al 1513 e successivamente nel 151819; il primo documento noto è relativo

zione e devozione; tra il 1277 e il 1280 la-

vora con la collaborazione di alcuni aiuti al cantiere della basilica superiore di Assisi; l’importante ciclo di affreschi è stato danneggiati nel tempo dall’alterazione delle biacche che ha causato un’inversione dei valori cromatici. Il terremoto del settembre 1997 ha distrutto inoltre il Sar Matteo dipinto dall’artista in una vela all’incrocio del transetto della chiesa insieme agli altre tre evangelisti. Altre fondamentali opere dipinte da Cimabue sono il Sar Francesco in Santa Maria degli Angeli ad Assisi, la Maestà di Bologna e quella del Louvre. Nel 1301-02 risultano alcuni pagamenti a suo favore per il Sar Giovanni nel mosaico absidale del Duomo di Pisa, unica

opera documentata dell’artista, e per una perduta Maestà nell’ospedale di Santa Chiara. Un documento del 19 marzo 1302 cita gli eredi di Cimabue per cui entro questa data va collocata la morte del pittore. La formazione romanico-bizantina di Cimabue è rivelata in alcune opere come la

alla commissione nel 1514 della Madonna di san Francesco per i francescani di Correggio; altri documenti riguardano contratti di lavoro o presenze a atti notarili in cui compare come testimone, il primo dei quali è datato 1511. 246

Nel 1519 Correggio realizza un’opera importante: la decorazione della camera della Badessa Giovanna Piacenza nel convento di San Paolo a Parma: la sua cultura pittorica, dopo aver maturato l'insegnamento dell’illusionismo prospettico di Mantegna e del classicismo del Costa si arricchisce nell’elaborazione del linguaggio di Giorgione, Leonardo e Raffaello. Nel 1520, l’anno in cui sposa Gerolama

gueras l’11 maggio 1904; il nome Salvador gli viene dato in memoria del fratellino morto qualche anno prima. Il suo primo maestro fu nel 1918 il pittore Pitchot che lo introduce alla pittura impressionista; in seguito, attraverso riviste

specializzate si interessa al Futurismo ita-

liano. Nel 1921 si iscrive all’Accademia di Madrid in cui rimane fino al 1926, an-

Merlini, la madre dei suoi tre figli, Cor-

reggio firma il contratto per una delle sue opere più importanti: la decorazione della cupola di San Giovanni Battista a Parma in cui trasforma lo spazio concluso della Camera della Badessa in uno spazio illusionisticamente aperto verso l’infinito senza alcun supporto architettonico. La novità dello spazio libero svincolato da ogni prospettiva viene ulteriormente

elaborato nell’opera più celebre di Correggio: l’Assurzione della Vergine nella cupola del Duomo di Parma dipinta negli anni tra il 1526 e il 1530 in cui le figure si muovono con inusitato dinamismo in uno spazio vorticoso che tenta di coinvolgere lo spettatore in un rapporto simpatetico ricercato anche in successivi dipinti come la Pala di san Sebastiano al Louvre o la Pala di sar Giorgio a Dresda. Quest’impresa pittorica suscita molte polemiche che spingono Correggio a ritornare nella sua città natale; ben presto riceve un’altra importante commissione dal duca Federico Gonzaga e da Isabella d’Este per i quali dipinge otto tele di soggetto mitologico tra cui la celeberrima Danae nella galleria Borghese di Roma. Il pittore che, incompreso dai suoi contemporanei venne in seguito osannato dai pittori barocchi morì il 5 marzo 1534 a Correggio a causa di un improvviso malore.

no in cui viene espulso per il suo attivismo politico. Nella capitale conosce il regista Luis Bufiuel e il poeta Federico Garcia Lorca; a quest’ultimo l’artista si legherà sentimentalmente. Dopo aver eseguito alcune opere in stile cubista come Autoritratto con “Publicitat” Dalì si interessa alla pittura metafisica di de Chirico. Nel 1925 inizia a leggere i testi di Freud da cui rimane profondamente suggestionato. Nello stesso anno ha luogo a Barcellona la sua prima mostra personale e si reca in viaggio a Parigi dove conosce Picasso. Assolve il servizio militare nel 1927 e esegue il primo dipinto surrealista I/ yziele è più dolce del sangue. Si trasferisce a Parigi e realizza insieme a Bufiuel il film Un chien andalou. Conosce Gala Eluard che nel 1934 diventerà sua moglie e a cui resterà legato per tutta la vita. Sempre insieme a Bufiuel Dalî realizza il film L'àge d’or che suscita grande scandalo; alla prima proiezione il pubblico distrugge tutte le opere esposte nel foyer tra cui compaiono oltre alle tele di Dalì, dipinti di Max Ernst, Juan Mirò e Man Ray. Nei primi anni del terzo decennio il pittore dipinge alcune opere che hanno per soggetto Guglielmo Tell, Hitler e l’Angelus di Millet. Nel 1934 formula il metodo paranoico critico che illustra nel testo La conquista dell’irrazionale metodo che si configura come una particolare interpretazione del surrealismo mescolando suggestioni freudiane con l’opera degli artisti che lo hanno maggiormente coinvolto: de Chirico, Magritte, Ernst e Tanguy; alla teorizzazione corrisponde una pittura visio-

Dalî Salvador Felipe Jacinto Dalî nasce a Fi-

naria in cui realtà e sogno si fondono. 247

Abbandonati gli studi accademici Degas parte per frequenti soggiorni di studio in Italia dove vivono alcuni parenti, fermandosi a Napoli e a Roma dove cono-

Nel 1937 ha luogo un viaggio in Italia insieme a Gala; durante il soggiorno in Sicilia dipinge Impressioni d’Africa. L'anno seguente grazie al suo collezionista Edward Jalmes e a Stefan Zweig Dalî ha finalmente modo di conoscere Freud. Tra il 1940 e il 1948 Dalî vive in America realizzando sceneggiature teatrali e cinematografiche e dedicandosi anche alla progettazione di gioielli e abiti. In questo periodo scrive la sua autobiografia, La vita segreta di Salvador Dali. Negli anni seguenti dipinge alcune tele di soggetto religioso e nel 1951 realizza le illustrazioni per la Divina Commedia. In seguito si dedica soprattutto alla scultura. Nel 1964 riceve la Gran croce della Regina Isabella di Spagna e redige la seconda biografia Diario di un genio. Nel 1973 viene inaugurato a Figueras in un vecchio teatro danneggiato durante la guerra civile il Teatro-Museo Dalî. Nel 1982 muore la moglie Gala e il pittore smette

di dipingere;

viene

sce Gustave Moreau, insieme al quale compie un viaggio a Siena e Pisa.

Nel 1859, tornato a Parigi si dedica al ritratto e alla pittura storica e scopre l’arte giapponese attraverso le stampe; fondamentale per il suo stile fu anche l’interesse per la fotografia. Nel 1862, anno in cui dipinge il suo primo quadro moderno, La famiglia Belelli ha luogo l’importante incontro con Manet e inizia a frequentare il gruppo che si riuniva intorno a lui al Café Guerbois, abbandonando il suo ambiente borghese per appassionarsi alla vita del tempo, dei caffé, del teatro, delle corse di cavalli che di-

venteranno i soggetti caratteristici del suo repertorio.

Nel 1865 partecipa per la prima volta al Salon. Nel 1870 viene arruolato artiglie-

nominato

re e ritrova il suo antico amico Henry

Marchese di Pubol. Il 23 gennaio 1989 Salvador Dalî muore e viene sepolto nel suo teatro-museo. Degas

Edgar-Hilaire-Germain de Gas nasce a Parigi il 19 luglio 1834, primogenito di un banchiere di origine italiana. Compie i suoi studi al Liceo Louis-le-Grand dove conosce Henry Rouart; il padre, appassionato d’arte e di musica dischiude al figlio le porte dell’arte conducendolo al Louvre e presentandogli i primi collezionisti di Parigi fra cui Soutzo che gli insegna la tecnica dell’acquaforte. Nel 1852 il giovane Degas lavora in un proprio atelier; l’anno seguente studia al Gabinetto delle stampe le incisioni di Diirer, Mantegna, Goya e Rembrandt; nel 1854 lavora nell’atelier di Lamothe, un discepolo di Ingres che lo spinge ad

iscriversi all’Ecole des Beaux-Arts e che gli trasmette il proprio amore per l’opera di Ingres a cui Degas aggiungerà l’ammirazione per Delacroix.

Rouart, appassionato d’arte; comincia a perdere progressivamente la vista. Nel 1872 si reca in Lousiana, paese d’origine della madre; da questa esperienza nasce l’opera L'ufficio dei cotoni a New Orleans. Al ritorno, nel 1873, si stabilisce nel quartiere di Montmartre; sebbene lontano dalla pittura impressionista egli segue solidale le vicende del gruppo e stringe amicizia con Pissarro. Nel 1883 la morte di Manet lo colpisce profondamente. I suoi problemi di vista continuano ad aggravarsi: rinuncia ad esporre e inizia a realizzare opere con la tecnica del pastello; pratica inoltre l’incisione e la scultura con cui reitera i suoi temi classici: bagnanti e danzatrici in cui si concentrano la sua ricerca sul movimento. Viaggia ancora in Spagna, in Svizzera e nel sud della Francia; gli ultimi anni della sua vita la sua cecità è quasi totale; provato dalla morte dell'amico Rouart nel 1912, riceve un altro colpo quando

viene sfrattato dall’antica abitazione in 248

rue Massé dove abitava da circa venti anni. La guerra non fa che alimentare la sua angoscia e solitudine. Muore il 27 settembre 1917 a ottantatré anni, comple-

getto è tratto da Byron di cui Delacroix fu grande ammiratore; vedendola, Rochefoucauld, incaricato di assegnare commissioni per lo Stato, invita il pittore a “cambiar maniera”. Il periodo seguente non fu molto sereno per l’artista

tamente cieco.

Delacroix Il grande pittore romantico francese la cui vita è ben documentata dal suo epistolario e dal Journal che redasse per lunghi periodi della sua vita, nacque a Charenton-Saint-Maurice (Seine) il 25 aprile 1798 da una agiata famiglia. La sua vocazione per la pittura si mani-

festò fin da giovane quando Eugène iniziò a frequentare lo studio del pittore neoclassico Pierre Narcisse Guérin presso il cui atelier conobbe Géricault, pittore romantico che Delacroix considerò sempre suo maestro e modello. A ventiquattro anni Delacroix esordisce sulla scena artistica con un dipinto di ispirazione dantesca, la Barca di Dante,

che riscosse grandissimo successo negli ambiente artistici, e che fu esposto al Salon del 1822. Ancora vicino a Géricault inizia a studiare i cavalli mentre il suo stile si nutre degli studi condotti sull’opera di Veronese, Rubens e Velazquez. Intorno al 1924 esegue il Massacro di Scio, la sua prima opera di soggetto storico che su-

scitò critiche contrastanti e scandalizzò i critici del Salon del 1824. Nel maggio 1825 Delacroix si reca in In-

a causa dell’ostracismo dello Stato; seb-

bene lavori molto non riceve critiche lusinghiere e si trova in difficoltà economiche. Spinto da Victor Hugo e da Bonington si dedica ai dipinti di genere storico, in particolare modo al Medioevo. Nel 1830 la rivoluzione porta al potere il Duca d’Orleans che già in passato aveva ammirato l’opera di Delacroix; il pittore celebra il fausto evento dipingendo la sua opera più nota La Libertà che guida il popolo. L’anno seguente riceve la Légion d'Onore. Nel 1832 Delacroix viene chiamato a prendere parte a una missione diplomatica in Marocco e Algeria, paesi in cui scopre un mondo affascinante, che lo entusiasma per la luce e il colore, per la vita che si svolge e che ritrae in alcune opere quali Donne di Algeri e Via di Meknès esposte al Salon del 1834. In occasione di questo viaggio Delacroix visita anche la Tunisia e la Spagna. A partire dal 1833 il ministro Adolphe Thiers gli affida importanti commissioni tra cui la decorazione della Camera dei deputati; ha inizio il periodo più fecondo della sua attività: decora la sala de Re, la biblioteca di Palazzo Borbone, la cu-

pola della Biblioteca del Lussemburgo, il soffitto della galleria di Apollo al Louvre, una cappella nella chiesa parigina di Saint-Sulpice; dipinge inoltre opere tratte dal repertorio shakespeariano, dal-

ghilterra dove conosce Turner, Constable e Bonington e si avvicina alla letteratura nordica e all'opera di Shakespeare. Tornato in patria insieme al pittore Bonington comincia a sperimentare la tec-

nica dell’acquerello e allo stesso tempo gli giungono numerose commissioni ufficiali fra cui la decorazione per il palazzo del Consiglio di Stato, un’opera purtroppo andata distrutta. I suoi disegni e schizzi del periodo 182728 testimoniano il suo crescente interesse per l'Oriente; al Salon del 1827 espone Morte di Sardanapalo, tela il cui sog-

l’antichità medievale e classica, dall’o-

riente. Divenuto pittore ufficiale della Monarchia di Luglio venne definito da Théophile Gautier il “capo dei romantici”. Nel 1846 viene promosso ufficiale della legion d’onore, nel 1854 è nominato membro dell’Accademia di Belle Arti di Amsterdam e nel 1857 diventa membro dell’Institut. 249

tore senese si dimostra a conoscenza del nuovo senso plastico e della forma indi-

Negli ultimi anni della sua vita l’anziano maestro continua a lavorare instancabilmente dedicandosi anche alla sua attività

cato da Cimabue a Firenze, ma vi sono

letteraria e di saggista. Muore a a Parigi 13 agosto 1863.

Duccio di Buoninsegna Duccio di Buoninsegna, il caposcuola della pittura senese tra il Duecento e il Trecento, nasce a Siena intorno al 1255;

la prima notizia che si ha dell’artista è un pagamento per dodici casse per il Comune di Siena datato 1278 in cui viene definito “pittore”. Una sostanziosa messe di documenti riguarda altri lavori dello stesso genere eseguiti per il Comune di Siena e alcune pesanti multe tra cui una inflittagli per stregoneria e una per

essersi rifiutato di andare a far guerra in Maremma. Realativi a opere ancora esi-

stenti sono due importanti testimoni: uno datato 15 aprile 1285 per la commissione della “magna tavola” della Madonna per la compagnia dei Laudesi, in Santa Maria Novella e l’altro del 9 ottobre 1308 con cui l'Opera del Duomo di Siena commissiona a Duccio la tavola per l’altare maggiore, la celebre Maestà. Nessun documento fornisce la data di morte dell’artista che deve considerarsi morto prima del 3 agosto 1319, data di una carta in cui i suoi figli rinunciano all’eredità paterna. La sua attività si svolge in un lungo arco di tempo in cui si passa dalla civiltà del Medioevo a un momento nuovo della

presenti anche elementi senesi. Dopo aver eseguito una tavola per la cappella del Palazzo dei Nove a Siena, ora perduta, Duccio realizza negli anni dal 1308 al 1311 la sua opera più famosa: la pala d’altare a doppia faccia rappresentante la Maestà per l’altare maggiore del Duomo, definita da un cronista del tempo “la più bella tavola che mai si vedesse e facesse” e il cui trasporto al Duomo fu accompagnato da una sontuosa cerimonia che attraversò tutta la città il 9 giugno 1311. L’opera venne pagata all'artista un prezzo esorbitante. Nel corpus delle opere eseguite da Duccio tra il 1285 e il 1311 fanno parte inoltre i disegni per tre vetrate per il Duomo di Siena, la Madonna in trono del Kunstmuseum di Berna, la Madonna dei Fran-

cescani, il polittico n. 28 della Pinacoteca di Siena e la Madonna Stoclet a Bruxelles: opere in cui Duccio va progressivamente rinunciando a moduli bizantini per aprirsi a una più sentita na-

turalezza. Tra le sue opere va inoltre annoverato l’affresco riscoperto nel 197980 nella sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena. EI Greco Domenico Theotokòpulos, detto “El Greco” dalla sua patria di origine, nasce a Candia, nell’isola di Creta nel 1541 da una famiglia cattolica. Compie studi

storia, contraddistinto da valori diversi;

momento che si rispecchia nell’arte di Duccio in cui si attua il passaggio dai moduli e stilemi bizantini per giungere a composizioni più liriche e attente ai dati naturali e quotidiani. Degli anni giovanili è la piccola Madonna di Crevole dopo la quale si colloca la già citata Madonna per la Compagnia dei laudesi general-

umanistici e ben presto diviene maestro

in una bottega di “madonneri bizantini”; nel 1560 arriva probabilmente in Italia, a Venezia dove risulta di nuovo nel 1567 quando Tiziano in una lettera inviata a Filippo II di Spagna, scrive di un “valente giovine” suo discepolo che alcuni storici identificano con El Greco. Raccomandato al cardinale Alessandro Farnese dal miniatore Giulio Clovio a cui dedica uno splendido ritratto, entra a far parte del fervido circolo culturale

mente indicata come Madonna Ruccellai,

in passato attribuita a Cimabue, artista a lungo ritenuto da una parte della critica maestro di Duccio. In quest'opera il pit250

animato dal cardinale in cui ha modo di conoscere Girolamo Muziano e Taddeo Zuccari. Nel 1572 risulta membro dell'Accademia di San Luca a Roma. L’an-

dere il colore; a Roma, a contatto con i manieristi accentua la componente fantastica delle sue composizioni. In Spagna si distacca progressivamente da quanto

no seguente torna a Venezia e intorno al 1756 si reca per qualche tempo a Ma-

elaborato in passato e si afferma la sua tendenza a una rappresentazione sogget-

drid dove ha modo di incontrare Filippo II che gli commissiona il Martirio di san Maurizio per l’Escorial. La prima opera che documenta la sua attività spagnola è l’Espolio dipinto per la cattedra-

tiva e visionaria.

le di Toledo, città che diventerà la sua

Veneto nel 1477; il Vasari stesso nella se-

seconda patria; dello stesso periodo è la commissione delle opere per Santo Dominguo el Antiguo che comprende otto opere tra cui la Trinità e l Assunzione. Nel 1586 firma il contratto per il Seppellimento del conte di Orgaz per la par-

conda edizione delle sue biografie indica la data del 1478: scarsissimi sono del resto i documenti certi relativi al pittore la cui figura fu per lungo tempo ricoperta di elementi fantasiosi tanto che si giunse al punto di metterne in dubbio l’esistenza stessa.

rocchia di San Tomé a Toledo, uno dei

suoi massimi capolavori. Nel 1578 nasce il figlio Jorge Manuel avuto da Dofia Jéronima de Las Cuevas che non risulta abbia mai sposato. Nel 1600 si reca probabilmente a Madrid; nascono in questo periodo alcune tele caratterizzate da una struttura verticale in cui uno stile antinaturalistico si esprime nell’inverosimile allungamento delle figure come dimostrano opere come Battesimo di Cristo, la Re-

Giorgione Stando alla prima redazione delle Vite di

Vasari Giorgione nacque a Castelfranco

Uno dei rari documenti è un’iscrizione

sul retro della cosiddetta Laura del Kunsthistorisches Museum di Vienna in cui oltre alla data del 1506 il pittore si firma “Zorzi de Castelfr...” e si dichiara “cholega di Vincenzo Catena”. Altre importanti testimonianze sono la

commissione del 14 agosto 1507 da parte del Senato veneto per un telero ora scomparso, e un documento che attesta il suo operato fra il marzo e il novembre 1508 nel Fondaco dei Tedeschi, opera giudicata da Vasari l’avvio della “maniera moderna” nel Veneto. La notizia della sua morte è contenuta in due lettere: una di Isabella d’Este a Taddeo Albano del 25 ottobre 1510 e la successiva risposta del 7 novembre in cui viene detto che il pittore era morto di peste nell'ottobre 1510. Secondo il Vasari l’appellativo di Giorgione fu ispirato “dalle fattezze della persona e da la grandezza dell’animo”; venne usato per la prima volta da Paolo Pino nel suo Dialogo della pittura nel 1548; in precedenza l’artista era noto come Zorzi o Zorzo di Castelfranco. Problematica è inoltre anche la ricostruzione del suo corpus pittorico la cui produzione si concentra nell’arco di un so-

surrezione, la Pentecoste. Nelle sue ul-

time opere El Greco giunge a un’inedita astrazione sconosciuta sia ai suoi contemporanei che nella tradizione: Veduta di Toledo, Laocoonte e Quinto sigillo dell'Apocalisse.

Nel 1612 provvede ad affittare una cappella per la propria sepoltura a Santo Domingo el Antiguo. Nel 1614, sette giorni prima della sua morte detta al figlio il proprio testamento. Muore il 7 aprile e viene sepolto in Santo Dominguo el Antiguo. La prima formazione dell’artista che stabilitosi in Spagna vi trascorse tutta la vita, si svolge a Creta dove l’artista assimila i modi tipici degli artisti locali; a Venezia, dalle opere di Tiziano e Tintoretto impara un modo più dinamico di sten251

lo decennio. Alcune fonti lo vogliono allievo di Giovanni Bellini, ma la sua opera rivela anche lo studio dell’arte di Antonello da Messina, di Diirer e di Leo-

nardo che nel 1500 aveva soggiornato in laguna. Fu certamente in contatto con i

circoli umanistici di Venezia e con i filosofi padovani; si interessò inoltre di musica e poesia. Sue prime opere vengono considerate

l'Adorazione dei pastori, la Madonna leggente e la Pala di Castelfranco opere in cui si nota un originale sentimento nella resa del paesaggio e dei valori luministici e cromatici. Cardini della “maniera moderna” sono i Tre filosofi e l’opera più celebre di Giorgione, la Tempesta in cui si afferma quel modo descritto da Vasari che consiste nel “dipingere solo con i colori stessi senz’altro studio di disegnare in carta”. Immergendo le figure nella luce naturale dello spazio aperto Giorgione modula l’intensità del colore in funzione della qualità luminosa dell'ambiente dando vita al cosiddetto toraliszo in cui si attua una sintesi della tradizione veneta del colore e quella fiorentina del disegno. Negli ultimi anni della sua breve attività gli è accanto nella decorazione ad affresco del Fondaco dei Tedeschi il giovane Tiziano la cui partecipazione è certa anche nella Venere dormiente. Goya Il pittore e incisore spagnolo Francisco Goya y Lucientes nasce a Fuendetodos presso Saragozza il 30 marzo 1746 da José Goya mastro doratore e Gracia Lucientes.

le è la Gloria in una cappella della cattedrale di Saragozza terminata entro il maggio 1772. L'anno seguente Goya sposa Josefa, sorella di Francisco Bayeu, con cui si trasferisce a Madrid nel 1775; nella capitale spagnola, aiutato dal cognato già introdotto nel locale ambiente artistico, inizia per l’artista un periodo assai fecondo: esegue cartoni per arazzi con scene di caccia per l’Escorial, altri cartoni per arazzi per il palazzo del Pardo, lavora nell’Eremo di Nuestra Sefiora di Muel, nella parrocchiale di Remolinos,

esegue undici affreschi nella Cartuja de Aula Dei. Del 1770 è la sua prima incisione conosciuta, la Fuga in Egitto e del 1774 il primo ritratto datato del conte di Miranda. Nel 1778, in virtù di una commissione

del segretario di stato Floribanda Goya ha libero accesso nelle collezioni reali, importante occasione per studiare l’arte

di maestri quali Raffaello, Van Dyck, Rubens, Tintoretto e Velàzquez dalle cui opere realizzerà una serie di incisioni. Nel 1780 Goya viene eletto all'unanimità “académico de merito”; nello stesso an-

no realizza la decorazione della cupola del Pilar a Saragozza; nei decenni successivi si dedica alla pittura religiosa e ai numerosi ritratti che l’alta società spagnola non manca di commissionargli. Nel 1792 una grave malattia lo lascia infermo, rendendolo quasi completamente sordo: la sua produzione continua da un lato con ritratti e scene di genere, dall’altro l’artista inizia a dipingere scene di follia, tortura, stregoneria. Realizza i Capricci in cui esprime la propria rivolta

contro l'oppressione e la superstizione che opprimono il suo tempo.

Il suo apprendistato artistico si svolse a Saragozza nella bottega di J. Luzan y Martinez un pittore della corte di Filippo V; nel 163 e nel 1766 concorre

Nominato nel 1799 pittore di corte ritrae

in una celebre tela la Farziglia di Carlo V, dipinge alcuni ritratti e nel 1805 la Maja vestida e la Maja desnuda che lo trascinano di fronte al tribunale dell’Inquisi-

senza successo ai concorsi per ottenere

la borsa di studio dell’Accademia di San Fernando a Madrid. Nel 1771 si reca in Italia. La sua prima opera sicuramente databi-

zione.

La situazione politica della Spagna precipita con l’invasione delle truppe napo292

leoniche nel 1808; Goya, che frequenta

circoli liberali, rappresenta la brutalità del momento nella serie di incisioni dei Disastri della guerra e nella tela delle Fycilazioni del 3 maggio 1808. In seguito alla restaurazione l’artista si isola sempre più nella sua casa di campagna, la Quinta del sordo, di cui copre le pareti con le terribili “pitture nere” in cui esprime tutta la sua angoscia. Nel 1824 Goya si trasferisce a Bordeaux raggiunto in seguito dalla seconda moglie e dalla figlia. Durante questa parentesi di serenità Goya torna a temi giovanili, a

una pittura più chiara e dipinge la Lat taia di Bordeaux, un’opera quasi impres-

ser, gli architetti Joseph Olbrich, Joseph Hoffmann e Otto Wagner. Nello stesso anno inizia a lavorare agli studi preparatori per la decorazione dell'Aula Magna dell’Università di Vienna che prevede l'illustrazione allegorica delle facoltà di Giurisprudenza, Filosofia e Medicina; le decorazioni non verranno mai esposte perché il pubblico e le autorità non le trovano di proprio gusto; da questa momento Klimt lavorerà solo per una committenza privata e non più ufficiale. Partecipa alle varie esposizioni del gruppo secessionista; durante la sesta esposizione la sua opera incompiuta Filosofia su-

scita un enorme scandalo mentre all’Esposizione Universale di Parigi la stessa

sionista.

Il 16 aprile 1828 Francisco Goya muore a Bordeaux a 82 anni.

opera viene premiata come miglio lavo-

Klimt Gustav Klimt nasce a Baumgarten, nei

perido più fecondo; per la XIV mostra della Secessione Klimt realizza un complesso fregio allegorico della Musica. che adorna l’apposito padiglione progettato da Hoffmann per esporre un monumentale gruppo scultoreo realizzato da Max Klinger per celebrare Beethoven L’anno seguente si reca per due volte a Ravenna per studiare i mosaici bizantini mentre va allontanandosi dalla Secessione. Lavora per la decorazione della casa Stoclet a Bruxelles, diventa amico di Egon Schiele. I due artisti insieme a Kokoshka partecipano nel 1916 alla Secessione di Berlino. L’anno seguente viene nominato socio onorario dell’Accademia delle Belle Arti di Vienna e di Monaco. Dopo un viaggio in Romania, il 6 gennaio 1918, Gustav Klimt viene colto da un ictus cerebrale, muore in ospedale il 6 febbraio a soli 56 anni.

ro straniero. Nella capitale francese, nel 1902 Klimt conosce Rodin; inizia il suo

pressi di Vienna, il 14 luglio 1862; suo

padre è un orafo, sua madre una cantante lirica. A quattordici anni il giovane artista si iscrive alla Scuola di Arti e Mestieri di Vienna e fin dal 1879 insieme al fratello Ernst e Franz Matsch realizza alcune decorazioni quali il soffitto nelle terme di Karlsbad. Dieci anni più tardi inizia a decorare i saloni del Burgtheater, opera che lo impegna fino al 1888. Successivamente intraprende un’altra importante impresa: la decorazione del Kunsthistorisches Museum

terminata nel 1891. In

questi primi lavori il suo stile è ancora accademico, legato al gusto corrente. Nel 1895, anno in cui dipinge l'Amore e la Musica si avvicina allo stile simbolista. Nel 1897 fonda la Secessione viennese e la rivista Ver sacrum con l’intento di restituire un ruolo di primo piano alla pittura soppiantata nella Vienna fin de siècle dalla musica e dal teatro e al tempo stesso di portare un accento più cosmopolita e moderno nell’arte austriaca. Del gruppo di cui è il più attivo organizzatore fanno parte Carl Moll, Koloman Mo-

Leonardo Leonardo nasce a Vinci, presso Firenze il 15 aprile 1452, figlio naturale del notaio Piero di Antonio; verso i diciassette

anni entra nella bottega di Andrea del Verrocchio, suo primo maestro presso il

quale ha modo di apprendere e speri253

no de’ Medici che lo ospita in Vaticano, nel Belvedere: in questo periodo Leonardo si occupa soprattutto di studi matematici e scientifici. Al termine del soggiorno romano Leonardo nel 1517 si trasferisce ad Amboise ospite della splendida corte di Francesco I di Francia che lo copre di ogni onore lasciandogli assoluta libertà nelle sue ricerche. Due anni dopo il suo arrivo in Francia, il 2 maggio 1519 Leonardo muore all’età di 67 anni. Sebbene l’attività di pittorica di Leonardo sia stata esigua, amplissimo fu il campo d’azione della sua attività speculativa che si incentrò soprattutto sul rapporto tra le diverse arti e sull’indagine della causa dei fenomeni naturali, indagine perseguita attraverso innumerevoli studi e disegni ora raccolti in cosiddetti Codici fra cui il Codice atlantico alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, il codice Arundel al British Museum di Londra e il codice sul volo degli uccelli a Torino, nella Biblioteca reale.

mentate diverse tecniche artistiche e di cui fu ben presto attivo collaboratore. Nel 1472 si iscrive alla Compagnia di San Luca e realizza le sue prime opere; del 1478 è l’importante commissione per la pala d’altare per la cappella di San Bernardo nel Palazzo della Signoria e qualche anno dopo inizia a lavorare per Lorenzo de’ Medici. Nel 1482 l’artista si trasferisce a Milano lasciando incompiuta l’Adorazione dei Magi che gli era stata commessa l’anno precedente dai monaci di San Domenico a Scopeto, opera giovanile in cui già si rivela la complessità e originalità dai modelli della tradizione della sua arte. A Milano dove trascorre quasi un ventennio al servizio di Ludovico il Moro la sua attività procede alacremente: si impegna a eseguire la Vergine delle Rocce

per la Confraternita della Concezione, esegue alcuni progetti per il Duomo di Milano, realizza gli apparati provvisori per le nozze di Giangaleazzo Sforza e Isabella d’Aragona, inizia nel 1495 il Cenacolo che termina entro il 1497, la decorazione dei camerini e della Sala d’As-

Magritte

René Frangois Ghislain Magritte nasce il

se nel Castello Sforzesco; in qualità di ingegnere ducale progetta lavori di idraulica, di architettura e di urbanistica.. Nel 1499 alla caduta dello Sforza l’artista, in compagnia di Luca Pacioli si reca a Venezia passando per Mantova dove esegue due ritratti di Isabella d’Este. In seguito torna a Firenze ed entra al servizio di Cesare Borgia come architetto e ingegnere militare. Nel 1503 dipinge a Firenze la celeberrima Gioconda e la Leda e riceve dalla Signoria l’incarico di dipingere la Battaglia di Anghiari dipinto che rovinò ancor prima di essere condotto a termine ma che fu considerato da una generazione di artisti, insieme con la Battaglia di Cascina di Michelangelo, la “scuola del mondo”, secondo le parole di Cellini. Tra il 1506 e il 1508 si alternano i soggiorni dell’artista a Firenze e

21 novembre a Lessines, una piccola cit-

tadina belga in cui trascorre la sua infanzia. Nel 1912 la madre si suicida gettandosi nella Sambre. La studiosa Martha Wolfestein analizzando l’immaginario visivo di Magritte riconduce parte del carattere magico ed enigmatico delle sue opere al tragico lutto subito a soli tredici anni e ai successivi e frequenti cam-

biamenti di città e abitazione che lo privano di un ambiente stabile e sicuro. Nel 1913 Magritte si trasferisce con la famiglia a Charleroi dove per tre anni frequenta l’Athenée e prende lezioni di disegno e pittura; nel 1916 si iscrive all’Académie des Beaux-Arts di Bruxelles. Intorno al 1920 Magritte fa il suo esordio pubblico con alcune tele in stile postcubista e realizza i primi progetti grafici per manifesti e pubblicità; durante il servizio militare gli viene permesso di

Milano; nel 1513 da Milano si reca per tre anni a Roma dove lo attende Giulia254

continuare

a frequentare alcuni corsi

Ischia e visita Roma: due anni dopo il 15

dell'Académie. Nel 1922 Magritte sposa Georgette Ber-

agosto 1967 Magritte muore improvvisa-

mente a Bruxelles.

ger a cui rimarrà legato per tutta la vita

e che sarà modella di molte sue opere; nel 1923 conosce l’opera di de Chirico e ne rimane fortemente colpito: dipinge I/ fantino perduto, dipinto in cui l’artista si propone di elaborare ed esaltare l’emozione provocata dalla pittura metafisica: partendo dalla riflessione sull’opera di de Chirico Magritte elabora una personale poetica dello stranziamzento. Nel 1927 ha luogo la sua prima mostra personale di sessanta opere presso la galleria Le Centaure che viene accolta negativamente; l’artista si trasferisce con la moglie nei pressi di Parigi dove espone alla Exposition surréaliste. Dopo una va-

Manet Il pittore francese Edouard Manet nasce a Parigi il 23 gennaio 1832 da una agiata famiglia borghese. Durante i primi studi al Collegio Rollin mostra una notevole abilità nel disegno ma nel 1847

entra nell’École Navale e l’anno successivo si imbarca come allievo pilota e compie una traversata dei mari del sud sostando per due mesi a Rio de Janeiro e realizzando numerosi schizzi dei luoghi visitati. Nel giugno del 1849 Manet rientra in Francia e ormai conscio della propria vocazione artistica inizia a frequentare in-

canza a Cadaqués con Dalî, Mirò, Bufiuel, Eduard € Coemans, nel 1930 torna a Bruxelles e prende contatto con gli artisti surrealisti belgi e qualche anno dopo insieme a Mesers, Nougé e Scutenaire scrive il manifesto L’action immédiate, un progetto rivoluzionario organizzato in rapporto a quello del partito comunista.

sieme all’amico Antonin Proust lo studio del pittore Thomas Couture presso cui compirà il proprio apprendistato artistico perfezionato con frequenti visite al Louvre, ripetuti soggiorni in Italia (18531856), un viaggio in Olanda, Austria e Germania nel 1856 e più tardi, nel 1865 in Spagna. In campo artistico le sue preferenze so-

Durante la guerra lo stile di Magritte ha una breve svolta nel cosiddetto periodo Renotr o plein soleil caratterizzato da una pittura luminosa e vibrante; più tardi, nel 1948 per alcune settimane Magritte dipinge le sue tele del periodo vache, in cui l’artista adotta una tecnica violenta e sregolata per rappresentare soggetti erotici o paradossali come l’uomo che fuma sette pipe nell’Estropiat. Nel 1953 termina la decorazione del casino di Knokke-le-Zoute dal titolo I/ Regno incantato, qualche anno dopo esegue La fata ignorante per il Palais des BeauxArts di Charleroi: due decorazioni in cui l’artista riprende, rappresentandoli uno accanto all’altro tutti i soggetti delle sue tele. Nel 1965 al Museum of Modern Art di New York viene allestita una grande retrospettiva delle sue opere; nello stesso anno Magritte si reca in vacanza a

no per i pittori che maggiormente ave-

vano esaltato il tonalismo cromatico: Giorgione, Tiziano, gli olandesi del Seicento, Goya e Velazquez; fra i moderni la sua attenzione è catturata da Daumier,

Delacroix e Courbet; importante nella formazione del suo stile furono anche le stampe giapponesi. Le sue prime opere importanti furono Bevitore d’assenzio del 1858, Musica alle

Tuileries del 1860. Nel 1861 una sua opera, Chitarrista spagnolo, ottiene un grande successo al Salon ma in seguito la sua pittura ispirata alla vita contemporanea come andava proclamando il suo amico

Charles Baudelaire suscita nel pubblico grande scandalo costringendo l’artista a rinunciare alle esposizioni universali per esporre in mostre personali. Nel 1863 Manet dipinge due capolavori

che aprono le porte alla maniera moder7519)

pittura a pastello e continua a dipingere nonostante l’aggravarsi della paralisi che lo ha colpito; nel 1882 riscuote un gran successo al Salon con la Primavera; l’an-

na: Le déjeuner sur l’herbe, esposto al Sa-

lon des Refusés del 1863 e l’O/yrzpia in mostra al Salon del 1865 che fecero urlare allo scandalo per i soggetti trattati e per il nuovo codice formale utilizzando dall’artista. Seguono altre celebri opere influenzate anche dall’esperienza del

no seguente muore il 30 aprile a a cinquantuno anni.

soggiorno in Spagna dove si era appas-

sionato alle corride e scoperto il genio di Velazquez che ritiene il “pittore dei pittori”: L'uccisione del toro, Piffero di regimento e l’Esecuzione di Massimiliano del Messico. A partire dal 1863 Manet frequenta il gruppo dei futuri pittori impressionisti che si riunivano al Café Guerbois e alla Nouvelle Athènes ma le sue prime opere in questo stile che egli non adottò mai del tutto continuando ad usare il nero e a non rispettare le leggi della complementarità dei colori nascono dopo il 1873: Coppia in tenuta da canottaggio, Coppia in barca a vela, entrambe del 1874.

Intanto, nel 1867, escluso dai pittori partecipanti all'Esposizione Universale di Parigi Manet allestisce una sua mostra personale in Place dell’Alma, in un padiglione posto di fronte a quello pure indipendente di Courbet. L’anno seguen-

Masaccio Tommaso di Ser Giovanni nasce il 21 dicembre 1401 a Castel San Giovanni, l’o-

dierna San Giovanni Valdarno da monna Jacopa e Ser Giovanni Cassai. L'appellativo Masaccio gli viene probabilmente dal suo carattere scontroso, dai modi un po’ bruschi dovuti alla sua origine contadina, alla concentrazione esclusiva nella sua pittura. Dopo la morte del padre e del secondo

marito della madre la famiglia si trasferisce nel 1417 a Firenze dove l’anno seguente Masaccio è menzionato in un documento come “dipintore”. Non si hanno notizie precise circa la sua formazione sebbene i suoi esordi appaiano legati alla cultura tardo-gotica di Gentile da Fabriano e di Arcangelo di Cola da Camerino; alcuni studiosi ritengono che la sua arte si innesti e si sviluppi direttamente sui risultati già raggiunti da Brunelleschi e Donatello. Nel 1421 Masaccio lavora nella bottega di Bicci di Lorenzo; il 7 gennaio 1422 si iscrive all’ Arte dei Medici e Speziali e dipinge il Trittico di San Giovenale opera datata 23 aprile 1422 che attesta una conoscenza profonda della tradizione fiorentina. Nel 1423 gli studiosi ipotizzano un suo primo viaggio a Roma in occasione del giubileo, anticipato di due anni. Si iscrive alla Compagnia di san Luca nel 1424 e inizia a lavorare insieme al più anziano e famoso Masolino da Panicale con il quale realizza la Sant'Anna Metterza e la decorazione della Cappella Brancacci con Storie di san Pietro al Carmine dove lavora anche dopo la partenza di Masolino per l'Ungheria nel 1425. Dopo un soggiorno a Pisa nello stesso

te, dopo un soggiorno a Boulogne inizia la Colazione nello studio che viene accettata insieme al Balcone al Salon del 1868. Nello stesso tempo Manet si interessa a tematiche naturaliste da cui nascono opere quali Narà, Cameriera di birreria, Il bar delle Folies-Bergères e dipinge con varie tecniche numerosi ritratti dei suoi

amici tra cui il ritratto di Erzile Zola (1867-68) di Berthe Morisot (1872) Stéphane Mallarmé (1876). Dopo aver partecipato come ufficiale della Guardia Nazionale alla guerra del 1870, raggiunge la famiglia rifugiatasi nei Pirenei e torna a Parigi dedicandosi alla pittura ex plein air anche nei dipinti con figure. Negli ultimi anni della sua vita, gravemente ammalato, Manet si dedica alla 256

anno in cui vi è presente Donatello per realizzare un polittico per il Carmine ora disperso in vari musei Masaccio esegue

il celebre affresco della Trizzità in Santa Maria Novella a Firenze, opera che unisce pittura scultura e architettura in un

ambiente definito da chiare leggi prospettiche. Nel 1428, interrotti i lavori al Carmine, si

reca a Roma per lavorare in San Clemente nella cappella Branda Castiglione e in Santa Maria Maggiore per cui dipinge i Santi Girolamo e Giovanni Battista nel polittico della Madonna della Neve. Stando al Vasari nella città papale Masaccio aveva acquisito una “fama grandissima”; ma proprio a Roma l’artista muore improvvisamente ancor giovane in circostanze misteriose, forse avvelenato, nell'autunno 1428. Le novità della sua pittura, ammirata anche da Michelangelo, sono il nuovo senso dello spazio regolato dalle moderne leggi della prospettiva scientifica, la luce incidente che attraverso l’ombra dà rilievo plastico ai corpi, il nuovo senso del sacro dominato da una forte partecipazione emotiva, l’essenzialità del linguaggio narrativo.

Mirò

Figlio di un orefice, Joan Mirò nasce a Barcellona nel 1893. Spinto dal padre intraprende ben presto studi commerciali ma dal 1907 inizia a seguire all’Escuela de la Lonja i corsi di arte applicata di José Pasco Merisa che gli permette di conoscere l’arte popolare catalana. La sua formazione continua presso il pittore francesco Galì di cui frequenta fino al 1915 la scuola d’arte dove conosce il ceramista Joseph Llorens Artigas a cui lo legherà per tutta la vita una profonda amicizia e con il quale realizzerà negli anni Trenta ceramiche e murales. Nel 1913 Mirò segue inoltre un corso di disegno presso il Cercle Artistic de SaintLluc di cui fa parte anche l’architetto catalano Gaudî. Dopo aver assolto al servizio militare, nel 1917 Mirò conosce a

DI]

Barcellona il dadaista Francis Picabia; l’anno seguente ha luogo la sua prima mostra personale presso la galleria Dalmau, la stessa che attraverso alcune esposizioni gli aveva dato modo di conoscere l’impressionismo e la contemporanea arte francese di cui ammira in particolare Matisse e i Fauves. La sua produzione di questi anni viene definita dall’artista stesso “particolarista”: si tratta di paesaggi colmi di dettagli con cui l’artista esprime l’amore per la sua terra. Nel 1920 si reca per la prima volta a Parigi dove conosce Picasso e dove si trasferisce l’anno seguente. Conosce Paul Eluard, Louis d’Aragon e André Breton. Le sue opere di questo periodo sono ancora legate a forme realiste che dal 1922 lasceranno definitivamente il posto a un linguaggio liricamente astratto. Entrato nella compagine surrealista grazie all'amico André Masson nel 1926 Mirò realizza insieme a Max Ernst la scenografia per Rozzeo e Giulietta messo in scena da Diaghilev. Nel 1928 ha luogo un importante viaggio in Belgio e Olanda: le opere di questo periodo rielaborano in stile surrealista tele del Seicento fiammingo. L’anno seguente si sposa e nel 1930 nasce Dolores, l’unica figlia dell’artista, che intorno a questi anni inizia la serie dei papiers-collés. Poco prima della guerra civile spagnola Miré crea un gruppo di opere definite peintures-sauvages, caratterizzate da figure grottesche e dall’uso di materiali scabri come la sabbia e la ghiaia. Nel tragico momento della guerra civile Miré ripara a Londra e Parigi, dove nel 1937 crea per l’Esposizione Universale il murale intitolato Mzezitore, collocato nello stesso padiglione in cui Picasso espone Guernica. Per circa due anni, dal 1938

al ‘40, Miré vive in Normandia per tornare poi in Spagna dividendosi tra Barcellona e Palma di Mallorca; in questo periodo crea le Constellations. Per la prima volta, nel 1947 si reca in America, dove conosce Jackson Pollock

alla Mostra d’autunno del 1886 la Faxciulla malata suscita accese polemiche. Nel 1889 ha luogo la prima mostra personale di Munch a Christiania in cui vengono esposte 110 opere. Nell’estate dello stesso anno si reca a Asgaard dove in seguito soggiornerà abitualmente durante la stagione estiva. A ottobre torna a Parigi dove si scrive alla scuola d’arte di

e dove realizza un murale per il Cincinnati Terrasse Hotel. Tornato in patria si

intensifica la produzione di ceramiche e murales. Riceve importanti premi: nel 1954 il premio per la grafica della Biennale di Venezia e nel 1958 il premio Guggenheim a New York; nel 1968 durante il suo ultimo viaggio in America riceve dall’Università di Harvard la laurea ad honorem. Nel 1976, dopo la morte del dittatore

Franco,

viene

Léon Bonnat; in questo stesso anno muore il padre. Si trasferisce a SaintCloud dove scrive il Manifesto-di SaintCloud che sancisce il suo abbandono del naturalismo. L’anno seguente torna a Christiania dove vince una seconda borsa di studio che lo spinge a Le Havre dove si ammala di febbri reumatiche e trascorre due mesi in ospedale. Ancora una borsa di studio gli permette di recarsi a Nizza nel 1891 dove inizia a lavorare al Fregio della vita. Nel 1892 viene invitato all'Esposizione degli artisti berlinesi a cui partecipa con 55 dipinti; la mostra, sopesa a causa dello scandalo e delle contestazioni suscitate, contribuisce a renderlo noto in Germania, dove entra a contatto con il gruppo della rivista Par. Nel 1893 Munch dipinge il celebre Grydo, replicata in seguito in 50 versioni: un’opera ancora simbolista ma che preannuncia già la futura svolta espressionista. Dopo un soggiorno di due anni a Parigi durante il quale conosce Strindberg che lo introduce negli ambienti letterari francesi e alcuni viaggi in Europa nel 1899 Munch torna in Norvegia nel 1899 dove è costretto a trascorrere alcu-

ufficialmente

inaugurata la fondazione Mirò a Barcellona; l’anziano artista continua a lavora-

re; a Madrid realizza una parete in ceramica per il Palacio de Congreso y Esposiciones, alcune monumentali statue per Barcellona, Madrid e Chicago.

Nel 1983, il giorno di Natale, Mir6é muore a Palma di Mallorca; viene sepolto a Barcellona. Munch Il pittore norvegese Edvard Munch nasce a Loten il 12 dicembre 1863, figlio del medico militare Christian Munch e di Laura Bjòlstad con cui nel 1864 si trasferisce a Christiania, l’odierna Oslo. Quando l’artista ha solo cinque anni la madre muore di tisi: un evento che sconvolge il giovane artista e che avrà ripercussioni importanti sulla sua psiche e nella sua pittura. Sebbene nel 1879 Munch intraprenda studi d’ingegneria ben presto scopre la propria vocazione e nel 1881 si iscrive alla Scuola Reale di Disegno dove ha come maestro il pittore naturalista Christian Krogh. Nel 1883 partecipa alla mostra d'Autunno a Christiania a cui continuerà a partecipare regolarmente negli anni successivi. In questo periodo l’artista frequenta la Bohème di Christiania. Nel 1885 grazie a una borsa di studio Munch si reca a Parigi dove si interessa in particolare all'opera di Manet e al suo ritorno inizia tre opere fondamentali in cui descrive temi e atmosfere che saranno tipici della sua produzione: Fanciulla malata, Il giorno dopo e Pubertà. Esposta

ni mesi in sanatorio; l’anno seguente è in

Italia insieme a Tulla Larsen con cui ha una burrascosa relazione e nel 1902 espone alla Secessione di Berlino l’ultimata serie di 22 opere detta il Fregio della Vita, concepita come un “poema dell’amore, della vita e della morte” Con il

dipinto Muratore e operaio d'officina inizia nel 1908 una serie di opere dedicate al mondo del lavoro. Le sue condizioni fisiche aggravate dal258

l’abuso di alcool continuano a peggiorare: una crisi nervosa più grave delle abituali lo coglie a Copenhagen costringendolo al ricovero in clinica dove continua a lavorare realizzando 18 litografie per un suo testo A/fa e Orzega. Tornato in Norvegia riceve l’importante commissio-

ne per la decorazione dell'Aula Magna dell’Università di Oslo dove nel 1927 viene organizzata una sua grande retrospettiva.

Nel 1930 la rottura di un vaso sanguigno all’occhio lo rende in parte cieco e gli impedisce di lavorare. Nel 1937 alla mostra di Arte Degenerata organizzata dal regime fascista compaiono 82 sue tele tolte dai musei; nel 1940 Munch dona alla città di Oslo molte sue opere; muore il

23 gennaio 1944 a Ekely nella sua casa.

un altro soggiorno dal 1434 al 1436 a Prato, impegnato nella decorazione della cappella dell’Assunta nel Duomo dove dipinge Storie della Vergine e di santo Stefano. A Firenze, dove è ancora poco noto, in Santa Maria del Fiore esegue il monumento a Giovanni Acuto, suo pri-

mo grande capolavoro che reca nella firma l’appellativo di Uccello e nel 1443 nella Cattedrale dipinge la “sfera dell’ore”; qualche anno dopo sempre per la Cattedrale fornisce i cartoni per due vetrate rotonde; lavora a Bologna e nel 1445-46 è a Padova chiamato da Donatello per dipingere ad affresco colossali fisure monocrome di personaggi famosi detti i Giganti in casa Vitaliani, opera ormai perduta. Nel 1452 sposa Tommasa Malifici da cui ebbe due figli, Donato e Antonia, entrambi pittori; qualche anno

Paolo Uccello Paolo di Dono, detto Paolo Uccello per la frequenza e la passione nel ritrarre gli animali e in particolar modo i volatili, nasce a Firenze nel 1397 da una famiglia modesta; dal 1404 al 1407, a soli sette an-

ni compie il suo apprendistato artistico presso Lorenzo Ghiberti, con cui collabora all'esecuzione dei rilievi della porta nord del Battistero di Firenze, dove conosce Donatello di cui diventa intimo amico. Divenuto membro della Compagnia dei Pittori di san Luca, nel 1415 si iscrive all’arte dei Medici e dei Speziali; l’anno seguente dipinge per la famiglia Bartoli il Tabernacolo dei santi Lippi e Macia, la sua prima opera nota. Il 5 agosto 1425, dopo aver redatto il

proprio testamento parte per Venezia dove rimane fino al 1430, lavorando ai

mosaici della basilica di San Marco per la cui facciata esegui una figura di Sar Pietro. Dopo il ritorno a Firenze lavora al chiostro verde di Santa Maria Novella con un lunettone rappresentante la Creazione, opera di forte ascendenza ghibertiana; nel chiostro tornerà a lavorare nel 1450 realizzando il Diluvio universale, il

Sacrifico di Noé e Ebbrezza di Noé. Segue 295

dopo realizza il ciclo della Battaglia di San Romano, commissionatagli con ogni

probabilità da Cosimo de’ Medici; l’opera rappresenta una sintesi della formazione tardogotica dell’artista e al tempo stesso presenta il suo stile fondato su una “prospettiva naturale”, in cui ogni forma si colloca in uno spazio prospettico autonomo che rende astratta e fantastica la narrazione. Un altro importante soggiorno è del 1465: l’artista è a Urbino per eseguire una pala nella chiesa del Corpus Domini di cui rimane la predella con la Storia della profanazione dell’ostia consacrata. L’11 novembre 1475 l'artista, che duran-

te tutta la vita aveva studiato con alacrità e cavillosità la trattastica relativa ai problemi prospettici dall’antichità fino alle opere dei suoi contemporanei, redige il suo secondo testamento e muore il 10 dicembre dello stesso anno; viene sepolto, come era sua volontà, nella tomba paterna in Santo Spirito. Piero della Francesca Piero della Francesca nasce a Borgo San Sepolcro, l'odierna Sansepolcro, tra il 1416 e il 1420, dal calzolaio e conciapel-

per eseguire affreschi in Santa Maria Maggiore, di cui rimangono alcuni lacerti e in Vaticano per le stanze di Pio II, in seguito distrutti. Tornato a Sansepolcro nel 1460 un documento lo cita tra i dodici probiviri del collegio istituito per la riforma della pubblica istruzione. Dipinge nel Palazzo

li Benedetto de’ Franceschi e da Romana di Perino da Monterchi. Il nome paterno viene presto mutato in della Francesca. È noto che il pittore fu allievo di Domenico Veneziano ma ben poco si sa del suo periodo fiorentino avendo egli lavorato spesso fuori da Firenze contribuendo a diffondere la riforma prospettica nella Toscana orientale, a Ferrara e

dei Conservatori la Resurrezione, esegue

nelle Marche.

il Polittico degli Agostiniani e lavora nel

Insieme a Domenico Veneziano, Piero è

territorio aretino e urbinate intensifican-

do i rapporti con Federico II da Monte-

documentato a Firenze nel 1439 per i lavori al perduto ciclo delle Storze della Vergine in Sant'Egidio. In questa occasione l’artista ha modo di conoscere e confrontarsi con l’opera dei maggiori ar-

feltro, a cui dedica nel 1474-75 De pro-

spectiva pingendi, un trattato ad uso dei pittori corredato di illustrazioni. Più tardi scriverà De quinque corporibus regularibus, dedicato al figlio di Federico, Gui-

tisti contemporanei: Masaccio, Masolino,

dobaldo. Nel 1482 l’artista è di nuovo a Rimini dove affitta un casa prevedendo un lungo soggiorno. Nel 1487 Piero redige il proprio testa-

Ghiberti, Brunelleschi, Gentile da Fa-

briano Pisanello e Paolo Uccello. Nel 1442 i documenti lo dicono di ritorno a Sansepolcro dove figura nell’elenco delle persone eleggibili al consiglio del Popolo; sempre a Sansepolcro l 11 gennaio 1445 riceve la commissione da parte dei confratelli della Misericordia di dipingere un grande polittico. Qualche tempo dopo, nel 1449, è a Ferrara dove realizza affreschi ormai perduti per Lionello d’Este presso la cui corte ha modo di conoscere la pittura fiamminga. Tra il 1450 e il 1451 incontra Leon Battista Alberti e lavora in varie città: Ancona, Pesaro e Bologna; in questo periodo soggiorna inoltre a Rimini dove dipinge nel Tempio malatestiano l'affresco rappresentante San Sigismondo e Sigismondo Pandolfo Malatesta. Nel 1452 alla morte di Bicci di Lorenzo Piero ne prosegue con l’affresco della Leggenda della Vera Croce il ciclo decorativo del coro di San Francesco ad Arezzo commissionato dai mercanti Bacci nel 1447 e concluso con l’aiuto di un collaboratore nel 1466. La serie di affreschi, l’opera più complessa di Piero, rappresenta articolandolo su tre registri narrativi un soggetto tratto dalla Legenda aurea di Jacopo da Varagine. Tra il 1458 e il 1459 Piero della Francesca è a Roma

mento

dichiarandosi

“sano

di mente,

d’intelletto e di corpo” a differenza di quanto afferma Vasari nelle sue Vize. Il pittore ormai cieco muore intorno al 12 ottobre 1492 giorno in cui risulta effettuata la sua sepoltura in Sansepolcro. Pisanello Il pittore e medaglista Antonio Puccio Pisano detto il Pisanello nasce a Pisa prima del 1395; dopo la morte del padre avvenuta nel 1395 il pittore è a Verona dove compie la propria formazione probabilmente presso Stefano da Verona come confermato anche dalle prime opere dell'artista. In seguito fu allievo di Gentile da Fabriano a Venezia dove tra il 1415 e il 1422 continua il ciclo che questi aveva iniziato nella sala Grande del Palazzo Ducale, in seguito ridipinto. L’influsso dell’arte del maestro Gentile da Fabriano permane nella prima attività di Pisanello come attestano opere quali le quattro tavole con Storie di san Benedetto e gli affreschi con la Leggenda di sant Eligio in Santa Caterina a Treviso. Nel 1422 Pisanello abita a Mantova ma già l’anno seguente è a Firenze presso 260

Gentile da Fabriano con il quale probabilmente collabora all’Adorazione dei Magi; nel 1426 conclude a Verona la decorazione pittorica del monumento a Niccolò Brenzoni in San Fermo; degli

nello d’Este. Nel 1442 l’artista è condannato al confino per essersi espresso con parole vergognose in presenza di Ludovico Gonzaga; gli viene comunque accordato il permesso di andare a Ferrara

anni successivi si conoscono pagamenti

presso gli Este senza però poter recarsi a Mantova o Verona.

effettuati dai Gonzaga per opere ormai perdute. Dal 1426 l’artista è a Roma dove lavora insieme a Gentile da Fabriano al ciclo di affreschi con Storie di san Giovanni, nella Basilica lateranense continuando l’opera da solo dopo la morte del maestro nel 1427. Prima di tornare in patria

alcuni disegni di scultura e pittura contemporanea testimoniano un soggiorno in Toscana mentre certo è il soggiorno

a Ferrara del gennaio 1433 per offrire a Lionello d’Este un dipinto della Madonna. Nello stesso periodo conosce l’imperatore Sigismondo per cui esegue alcuni ritratti; dopo il 1435 si fanno più intensi i contatti con la casa d’Este. In questi anni l’artista risiede a Verona insieme alla madre e alla figlia Camilla, sebbene non si abbiano notizie di un suo matrimonio; nella chiesa di Sant’Anastasia esegue i celebri affreschi della cappella Pellegrini con Sar Giorgio e la principessa, espressione matura dell’estetica cortese. Del 1439 è la celebre medaglia di Giovanni VIII Paleologo che costituisce il primo esempio di medaglia rinascimentale, datata in base alla presenza dell’im-

peratore di Costantinopoli a Ferrara per il Concilio del 1438; dopo l’assedio di Verona Pisanello si reca a Milano a deporre come testimone dei fatti avvenuti durante il breve dominio dell’anno precedente dei Gonzaga; nello stesso anno il consiglio dei Dieci della Repubblica di Venezia lo dichiara ribelle per essersi schierato fra i seguaci dei Gonzaga ed è

A causa della perdita di molti dipinti l’attività di Pisanello è più facilmente ricostruibile grazie alle medaglie che realizzò per gli Este, i Visconti, i Malatesta; nel 1448 una medaglia realizzata per Alfonso d'Aragona lo documenta a Napoli, presso quella corte di cui diventa famigliare privilegiato. La sua attività dopo il 1450 non è di facile ricostruzione; anche la sua data di morte è imprecisata e si colloca tra il 14 luglio e il 31 ottobre 1455. Pontormo Jacopo Carrucci nasce il 26 maggio 1494

a Pontorme presso Empoli da Bartolomeo, un pittore che aveva lavorato con Ghirlandaio, e Alessandra di Pasquale. Ancora bambino perde dapprima il padre nel 1499 e la madre, morta nel 1504

quando Jacopo ha solo otto anni. Nel 1508 lo si sa a Firenze dove la nonna lo affida all’assistenza pubblica ma il suo arrivo nella città toscana risale probabilmente al 1506 quando inizia a frequentare la bottega di Leonardo da cui passa in seguito a quella di Piero di Cosimo e poi dell’ Albertinelli. Negli anni 1512-13 è allievo di Andrea del Sarto, vero maestro

di Pontormo

presso la cui bottega ha modo di conoscere Rosso Fiorentino. In occasione della trionfale entrata in Firenze di Leone X nel 1515 Pontormo esegue alcuni apparati di festa, dipinge la cappella papale in Santa Maria Novella e l’Arzze di Leone X sul portico della Santissima Annunziata, opera ammirata da Michelangelo che fu sempre per Pontormo il modello più alto; in questo stesso anno si colloca probabilmente un breve soggiorno romano.

costretto a muoversi da città a città; nel 1441 lo si sa a Ferrara per partecipare a una gara con Jacopo Bellini per un ri-

tratto eseguito poi dal Bellini, per Lio261

anche dopo la morte di Giovanni nel

La sua opera d’esordio è la Pala Pucci per la chiesa di San Michele Visdomini del 1518; l’anno seguente partecipa all’impresa decorativa per la villa medicea di Poggio a Caiano dove lavora fino al 1521 alla lunetta con Vertumno e Pomzona. Per sfuggire alla peste si rifugia nella Certosa del Galluzzo insieme all'amico Agnolo Bronzino. Per i monaci della Certosa dipinge un ciclo di affreschi con le Storie della Passione di Cristo che secondo il giudizio di Vasari rappresentano l’inizio della sua decadenza artistica. Tornato a Firenze nel 1526 inizia a decorare insieme a Bronzino la cappella Capponi in Santa Felicita a cui si dedica fino al 1528 e in cui dipinge la splendida Pietà, capolavoro dell’arte manierista. Nel 1531 riceve una commisssione mai eseguita da Clemente VII de’ Medici per la conclusione degli affreschi a Poggio a Caiano; nel 1535 lavora per Alessandro de’ Medici dipingendo un ritratto ed eseguendo insieme a Bronzino la decorazione della villa di Careggi. In seguito lavora per Cosimo I per il quale decora la villa di Castello terminata nel 1541 e sempre per Cosimo I qualche anno dopo inizia a decorare il coro della

1494, a contatto con il clima raffinato e

vivace della cittadina dominata dalla corte dei Montefeltro. Stando a Vasari fu proprio il padre a cercargli un maestro migliore di se stesso indirizzandolo alla bottega del Perugino da cui il giovane artista assimilò la grazia, la capacità di esprimere i sentimenti, l’adesione ai principi della prospettiva centrale: prova indiscussa della collaborazione tra i due è la Pala di Fano di cui Raffaello realizzò la predella con la Natività della Vergine. Nel 1500 Raffaello è citato come “magister” a Città di Castello, dove ancor 0ggi si conserva nella locale Pinacoteca lo Stendardo della Trinità; nella cittadina

umbra Raffaello lavorò dopo la partenza di Luca Signorelli per Orvieto e fino al 1504 con importanti commissioni per pale d’altare come l’Incoronazione della Vergine (Pinacoteca Vaticana) la Crocz-

fissione Mond (Londra, National Gallery) e il celebre Sposalizio della Vergine (Milano, Pinacoteca di Brera) che conclude il periodo umbro. Nel 1503 si colloca un probabile soggiorno romano e la collaborazione con il Pinturicchio a cui Raffaello fornì i disegni per gli affreschi nella Libreria Piccolomini a Siena. Spinto dall’esigenza di aggiornare il suo linguaggio pittorico Raffaello si reca per quattro anni a Firenze dividendosi anche tra Perugia e Urbino. In questo periodo l’artista dipinge alcune piccole tavole quali la cosiddetta Piccola Madonna Cowper e va elaborando la suggestione dell’ambiente toscano, di Leonardo e Michelangelo come è evidente nel Trasporto di Cristo morto alla Galleria Borghese di Roma. Verso la fine del 1508, non ancora terminata la tavola della Madonna del baldacchino, Raffaello si trasferisce a Roma insieme ad altri artisti chiamati da papa Giulio II ad affrescare i suoi nuovi appartamenti in Vaticano, le cosiddette Stanze di Raffaello, terminate dai suoi al-

chiesa di San Lorenzo, ciclo completato

alla sua morte da Bronzino e distrutto nel 1738 in seguito a un restauro della chiesa. Il 2 gennaio 1557 Pontormo, che fu un uomo solitario, tormentato e nevrotico

come confermato dal Diario che l’artista stesso redasse negli anni tra il 1554 al 1557, muore e viene sepolto nella chiesa di San Lorenzo.

Raffaello Raffaello nasce a Urbino il 6 aprile 1483 da Magia di Battista Ciarla, che muore quando il giovane ha solo otto anni, e dal pittore Giovanni Santi, da cui prenderà il nome latinizzandolo in Santius o Sanzio. Incoraggiato dal padre, Raffaello compie le sue prime esperienze nella bottega paterna di cui proseguì l’attività 262

lievi. Nella Stanza della Segnatura Raffaello dispiega una summa della cultura

finisce uno stile vicino agli insegnamenti del Lastman nella composizione e nel colore e agli effetti dei caravaggisti di Utrecht. Con Llevens Rembrandt crea una sorta di associazione in cui si dedica anche all’insegnamento, attività di cui si occuperà spesso durante la sua vita. Ben presto però, già verso il 1627-28 la

umanistica, in uno stile monumentale in

cui colpisce l’armonia della composizione di scene molto affollate di personaggi antichi e contemporanei.

Tra il 1513 e il 1514 Raffaello esegue per Agostino Chigi il Trionfo di Galatea nella loggia della Farnesina e le Sibz//e nella cappella Chigi in Santa Maria della Pace. Di questo periodo sono anche alcuni splendidi ritratti come il Ritratto di donna detta “La velata”, il ritratto di Giulio II e alcune pale d’altare: la celeberrima Madonna Sistina (Dresda, Gemaldegalerie) e la Madonna di Foligno (Roma, Pinacoteca Vaticana). Dopo la morte di Bramante viene nominato Architetto della fabbrica di San Pietro impresa a cui attese fino alla sua mor-

sua arte va acquistando caratteri più ori-

ginali in opere come il Pesatore d’oro con forti effetti di chiaroscuro, Sar Paolo in

prigione in cui l’attenzione è posta nella rappresentazione dei sentimenti, i Due

te; come architetto Raffaello lavorò inol-

profeti: lentamente le sue tele si riempiono di materia pittorica in cui la forma sembra provenire e farsi strada attraverso l'ombra, processo evidente soprattutto nella produzione ritrattistica in cui Rembrandt ottiene un grande successo ad Amsterdam dove si trasferisce intorno al 1631: l’anno seguente Rembrandt

tre nella cappella Chigi in Santa Maria

realizza la celebre Lezione di anatomia,

del Popolo, a Villa Madama e si occupò

opera in cui l’artista rielabora lo schema tradizionale del ritratto olandese di grup-

della ristrutturazione di molti edifici tra

Venerdì Santo, Raffaello, ancora giova-

po in una rappresentazione in cui tutti i protagonisti sono coinvolti allo stesso modo. Negli anni Trenta Rembrandt è il più im-

ne muore e viene sepolto a Roma, nel Pantheon.

merose commissioni di opere religiose e

cui palazzo Branconio, ora distrutto. Dopo una breve malattia, il 6 aprile 1520, lo stesso giorno in cui era nato, di

portante ritrattista olandese, riceve nuvive agiatamente con la moglie Saskia,

sposata il 22 giugno 1634; le opere di questo periodo vengono definite barocche per i vivaci effetti luministici che nelle tele di soggetto mitologico risentono

Rembrandt Il pittore, incisore e disegnatore olandese Rembrandt Harmenszoon van Rijn nasce a Leida, probabilmente il 15 luglio del 1606; quinto di sei figli di un mugnaio benestante frequenta dapprima la scuola latina di Leida e poi per qualche tempo la locale Università che abbandona per dedicarsi alla pittura sotto la guida di Jacob Jsaacsz van Swanenburgh presso cui rimane circa tre anni per proseguire i suoi studi con i maestri italianizzanti Jan Pynas e Pieter Lastman, ad Amsterdam. Nel 1625 insieme al collega Jan Lievens Rembrandt inizia l’attività di pittore indipendente realizzando i primi dipinti e incisioni di soggetto religioso in cui si de-

anche dell’influenza di Rubens: le ac-

queforti che illustrano temi religiosi quali Deposizione dalla croce e Apparizione dell'angelo ai pastori sono invece ricche di pathos e movimento. Nel 1636 l’arte di Rembrandt ha una svolta in direzione di una composizione più calma e di un colore più caldo, soffuso. Dalla moglie Saskia, che muore nel 1642, Rembrandt ha intanto avuto cin-

que figli di cui quattro morti prima della madre; questo triste momento precede di poco lo scemare della fama di Rembrandt presso i suoi contemporanei. In-

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ha luogo nel 1654 con dipinti di soggetto religioso o mitologico; la sua prima opera datata, l’unica insieme all’Astronomo del 1668, è Dalla mezzana del 1656. Nonostante l’artista prosegua nella sua attività di locandiere è sempre più attivo all’interno della corporazione dei pittori; nel 1662 e 72 è eletto vice-decano della ghilda di san Luca e sempre nel 1672 è chiamato all’Aia, alla corte degli Orange, per effettuare una perizia su alcuni dipinti italiani che egli giudica falsi. A soli 43 anni, il 13 dicembre 1675 Ver-

tanto l’artista si interessa a un soggetto

nuovo, la pittura di paesaggio a cui egli dà un’accentuazione fantastica e drammatica; dipinge tra l’altro Paesaggio con ponte dipietra, e Paesaggio con ponte levatolo.

Nel 1642 Rembrandt esegue uno dei suoi capolavori, la Ronda di notte in cui rinnova completamente un soggetto già codificato dalla tradizione. Negli anni seguenti l’artista andrà sempre più allontanandosi dai suoi contemporanei puntando ad una essenzialità narrativa, a un

colore caldo e una pennellata leggera: mezzi formali con cui egli cerca di rap-

meer muore improvvisamente lasciando

presentare il mondo interiore, intimo e segreto dei suoi personaggi.

condizioni economiche; suo esecutore testamentario è lo scienziato Antonie van

La sua vita privata è irta di difficoltà: dal 1649 conduce una vita modesta con la compagna Hendrickje Stoffels nel quartiere popolare di Jordaan; è costretto a vendere tutti gli oggetti preziosi che aveva accumulato in passato:

Leeuwenhoek, a cui il pittore era legato da profonda amicizia e con cui condivideva interessi scientifici.

strumenti

musicali,

marmi,

la moglie e gli undici figli in desolate

La critica attribuisce a Vermeer

circa

quaranta opere di cui solo sedici recano la sua firma. La sua formazione e il suo esordio artistico, il suo eventuale apprendistato non sono noti; alcune opere quali Cristo in casa di Marta e Maria (Edimburgo, National Gallery of Scotland), la più grande tela di Vermeer, appartenente all’esiguo gruppo di opere dette “a grandi figure”, Fanciulla assopita (New York, Metropolitan Museum) rivelano l’interesse per i caravaggisti attivi a Utrecht e in particolare a Terbrugghen e a Rembrandt. In seguito la sua arte si rivolge a una pittura che solo convenzionalmente può essere definita di genere scarnificata di elementi narrativi e concentrata su pochi elementi essenziali e sulle figure umane a cui la luce, filtrata o riflessa, dona una misteriosa immanenza. Vertici della sua arte e del genere della

incisioni.

Negli ultimi anni conduce una vita solitaria continuando ancora a dipingere grandi opere: la Negazione di san Pietro, il Giuramento dei Batavi ed altre ancora. Il 4 ottobre 1669 Rembrandt, il pittore più importante d'Olanda, muore ad Amsterdam. Vermeer Johannes Vermeer, nato a Delft nel 1632,

era figlio di Reyner Janszoon, un locandiere e mercante d’arte iscritto alla corporazione dei pittori di Delft, di cui alla sua morte il figlio proseguirà la professione. È il padre nel 1640 a firmare un documento con il con il nome di van der Meer, che il figlio in seguito riprese come proprio nome d’arte trasformandolo in Vermeer. Nonostante i contrasti con la ricca e cattolica madre della fidanzata, Vermeer sposa nel 1653 Catharina Bolnes e nello stesso anno si iscrive come “maestro pittore” alla ghilda dei pittori, condizione essenziale per poter esercitare la professione. Il suo esordio artistico

pittura di interni sono Lezione di musica, la Lattaia, la Merlettaia. e inoltre la cele-

bre Veduta di Delft. Nelle tele più tarde i contrasti luministici e l’impianto prospettico sembrano farsi più complessi e fra i suoi soggetti compaiono anche complessi temi allegorici. 264

Federico Zeri (Roma 1921-1998), storico dell’arte,

dal 1993 è stato vice-presidente del Consiglio Nazionale per i Beni Culturali e Ambientali e membro dell'Académie des Beaux-Arts di Parigi. Autore di numerose pubblicazioni, è intervenuto in varie trasmissioni televisive. Fra le sue opere più note: Dentro la pittura, Pittura e controriforma, i Cataloghi dei dipinti italiani del Metropolitan Museum di New York e della Walters Art Gallery di Baltimora e il libro Confesso che ho sbagliato.

In copertina:

Jan Vermeer, L'astronomo, 1668-1673 (particolare) Parigi, Musée du Louvre

ISBN 88-17-86352-1

CN

« Per i dipinti di Vermeer, Zeri scrive di “un velo di silenzio dato dalla luce”. Forse potremmo usar-

la, questa splendida espressione, per alludere al silenzio cui ci riconsegnano le sue parole illuminanti, dopo averci condotto davanti all’opera.»