La resistenza del silenzio
 9788857558325

Table of contents :
INDICE......Page 5
Frontespizio......Page 3
Epigrafe......Page 6
La parola e il silenzio......Page 7
La rottura fra parola e “cosa”......Page 8
Il silenzio della rabbia......Page 9
La ricerca del pensare......Page 11
I germi del totalitarismo......Page 12
Atmosfere ambigue......Page 14
Il silenzio dell’educazione......Page 16
Il ritiro nel silenzio......Page 18
Storia e memorie......Page 20
Il silenzio dell’inenarrabile......Page 21
Il silenzio della tortura......Page 22
Il silenzio del dolore......Page 23
La resistenza “privata”......Page 25
Le rivoluzioni con il silenzio......Page 26
I resistenti del silenzio......Page 27
Il silenzio della cittadinanza interiore......Page 28
Il silenzio come forza politica di resistenza......Page 29
Il silenzio come disobbedienza civile non violenta......Page 30

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MIMESIS/ ACCADEMIA DEL SILENZIO Taccuino n. 40 Collana diretta da Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot Il gruppo promotore dell’Accademia del Silenzio è composto da: Angelo Andreotti, Paolo Anselmi, Luana Brilli, Marina Canova, Giampiero Comolli, Duccio Demetrio, Marco Ermentini, Emanuele Ferrari, Daniela Finocchi, Giovanna Garuti, Gianni Gasparini, Giorgio Ieranò, Emanuela Mancino, Raffaele Milani, Giampaolo Nuvolati, Nicoletta Polla-Mattiot, Gian Piero Quaglino, Stefano Raimondi, Francesca Rigotti, Luigi Spina, Manuela Trinci

BRUNA PEYROT

LA RESISTENZA DEL SILENZIO Per una proposta politica e democratica

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Accademia del Silenzio, n. 40 eISBN: 9788857558325 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383

INDICE IL SILENZIO PERDUTO La parola e il silenzio La rottura fra parola e “cosa” Il silenzio della rabbia La ricerca del pensare I germi del totalitarismo Atmosfere ambigue Il silenzio dell’educazione Il ritiro nel silenzio IL SILENZIO RITROVATO Storia e memorie Il silenzio del negazionismo Il silenzio dell’inenarrabile Il silenzio della tortura Il silenzio del dolore La resistenza “privata” Le rivoluzioni con il silenzio I resistenti del silenzio Il silenzio della cittadinanza interiore Il silenzio come forza politica di resistenza Il silenzio come disobbedienza civile non violenta

Le parole si riversano a migliaia dai dizionari appena li apri come formiche nere, rosse, bianche quando calpesti un formicaio. Come trovare, come scegliere in quell’affollamento di parole l’unica che serve, come salvarsi dalla moltitudine delle altre che ti si appiccicano addosso cercando di sopravvivere. Ma sotto la lingua le parole impronunciate, le solitarie, che non escono dalla bocca, quelle ti rodono dentro lasciando carcasse rinsecchite di uomini che tentarono di parlare quand’era ormai troppo tardi. Finché posso combinare anche solo due parole esisto. (Titos Patrikios, La Resistenza dei fatti, 2007)

IL SILENZIO PERDUTO La parola e il silenzio La parola e il silenzio sono indispensabili l’una all’altro, perché da questo contrasto nasce la ragione del loro valore. La parola è un modo di articolare i suoni di una lingua. Il silenzio sospende ogni voce, lasciando ad altri indicatori il compito di comunicare. La parola cambia con le culture del mondo, esprimendo una babele di significati (I Dogon del Mali, ad esempio, pensano che parlare sia partorire). Il silenzio apre un passaggio fra le parole oppure è un ponte verso qualcosa che non ne ha bisogno. La parola si fa narrazione in chi trasmette memorie antiche. Il silenzio fa tacere il proprio io per ascoltare l’altrui. La parola si fa scrittura per lasciare un segno duraturo all’umanità. Il silenzio allarga la percezione di sé a molte temporalità. La parola si fa storia per fissare gli eventi. Il silenzio rompe i loro confini per riportare tutto all’indistinto del cosmo originario. La parola disegna il futuro. Il silenzio restituisce la pace dopo una lunga corsa. La parola incita a uscire da noi stessi per spiegare e inventare. Il silenzio sospende i giudizi, lascia fare e andare. La parola sbalza nel “fuori”. Il silenzio volge lo sguardo al “dentro”. La parola ha tante vesti: dolce, amara, conciliante, distruttiva … Può essere usata come maschera, per nascondere la realtà oppure come lente d’ingrandimento per capirla meglio. Il silenzio può essere abitato, come nei monasteri permeati dalle sue regole, oppure parlare senza far muovere le labbra come nelle fotografie che immobilizzano ritagli di tempo. La parola è potente, il silenzio dà forza. Insieme, parola e silenzio possono curare, la parola con una favola, un incitamento, una lode, un canto, anche una terapia che legga le nostre biografie in modi diversi. Il silenzio può curare il dolore ed entrare dove la parola si ferma. Tuttavia, questi poli possono capovolgersi. La parola quando è troppa diventa rumore, come una superficie di latta che risuona senza musica, incapace a trattenere i significati delle cose. Il silenzio, quando è imposto, fa perdere le identità umane, fino a diventare tortura. Un giusto e sano equilibrio, dunque, fra parola e silenzio ridona armonia a questa facoltà umana di cui la Bibbia è uno dei testi ispiratori. Nell’Antico Testamento, infatti, la parola di Dio crea nell’istante in cui è detta: “Sia luce! E luce fu” (Genesi1.3). Nel Nuovo Testamento la parola si fa parabola per lasciarsi comprendere, mentre il suo compimento passa per Gesù di Nazareth. Questo potere, di accendere e spegnere le cose, è ancora dentro le parole, anche se oggi non ne riconosciamo più neanche l’eco lontana. Ripetiamo slogan, frasi fatte, formule di cortesia e ragionamenti che paiono istruzioni

per l’uso dei prodotti da supermercato. Le culture linguistiche utilizzano il loro potere a una frequenza bassissima, polverosa e pallida. Accanto alle parole che inducono a una nuova vita, nelle Scritture troviamo anche il silenzio di Dio che sembra farsi aspettare, affinché i credenti si pongano al suo ascolto: “Sta in silenzio davanti al Signore, e aspettalo” (Salmo 37.7). Il silenzio profondo prelude sempre a qualche rivelazione, a qualche evento, a qualcosa che sta per cambiare, come se le cose facessero un lungo respiro prima di rimettersi in movimento. In linguaggio popolare si dice: il silenzio prima della tempesta. Le parole e i silenzi indicano la via alle nostre esistenze. Dobbiamo impararne un uso consapevole e misurato, ed educare le nuove generazioni a praticare soprattutto il silenzio perché soltanto in questa dimensione possono scoprire chi sono. La rottura fra parola e “cosa” Se è vero che, come dice Benjamin, “l’uomo comunica la sua propria essenza spirituale nella sua lingua”1, ogni parola usata ne diventa sintomo ed espressione. La consapevolezza del dire, tuttavia, non caratterizza la nostra epoca, in cui parole e “cose” sembrano animarsi soltanto nei loro rispettivi universi, in una ghettizzazione che estromette lo stesso individuo che le pratica. Il legame fra ciò che si afferma e l’oggetto designato si è spezzato. Si dice mela per dire pera e buongiorno per buonasera. Più che un legame spezzato si tratta di uno svincolamento paradossale. Mentre le “cose” dominano nel definire le nostre identità poco fondate sull’“essere” e molto sull’“avere”, nello stesso tempo, non sono più interpretate dalla lingua che le nomina. Anche se “l’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi”(Genesi 2.20), ha dimenticato il potere che gli è stato dato di creare nuove realtà con le parole. La realtà stessa è diventata una “cosa”, dentro la quale aprire strategie di accaparramento. Ben l’ha narrato George Perec nel suo romanzo Le cose2, in cui una coppia degli anni sessanta del Novecento, Jérôme e Sylvie, trasformano la loro soggettività in continuo desiderio di nuovi oggetti, fino a che tale profusione li anestetizza in un mondo senza memorie. Si è creata una distanza siderale fra il collezionismo dell’odierno consumatore incallito e i mondi evocati da Proust che, nel suo andare Alla ricerca del tempo perduto3, riceve lo sguardo che s’irradia dalle “cose”, evocatrici di affetti, proprio come quelle madeleines, biscotti soffici e burrosi a forma di conchiglia, che in una sera d’inverno, intorno a una tazza di tè, portano il ricordo della zia Leonia. La modernità ha certo portato benessere in molti strati di popolazione, specie

dell’Occidente, ma ha anche ridotto, estraniandole, le persone a “oggetti quasi”4. Soprattutto dopo l’ultima guerra mondiale, siamo stati invasi da “persuasori occulti”5 che, identificato un bisogno, subito lo appagano. Per esempio, il frigorifero, ha coperto la paura di soffrire la fame dei tempi bellici. La sua presenza in casa ha rappresentato una riserva di sicurezza, concreta e metaforica allo stesso tempo. L’invasione delle “cose” entra anche nei popoli non europei, come, fra gli altri, quello egiziano di cui scrive Montasser al-Qaffash. Egli narra la storia di Ibrahim6 che vede il moltiplicarsi delle sue fotografie oltre la sua volontà, invadendo spazi interiori ed esteriori. L’occhio della macchina fotografica, metafora e inganno della realtà, evidenzia “disagi e malesseri comuni all’intera famiglia umana alle prese con la modernità”7. La “cecità”, come non visione di un futuro collettivo, descritta da Saramago e il “vedere adesso” iperbolico di Montasser, in fondo, non sono che due facce di una stessa medaglia: la perdita della “commensalità delle cose”8. In questa frattura, fra parole e significati s’insinua il flusso del rumore che irrora le fasce del dire, dove zone di troppo poco detto, o detto frettoloso, legato a funzioni (commesse, bigliettai, impiegati degli uffici….), si alternano a zone di logorrea diffusa dai media e di detto “abbreviato” dei vari social come twitter, o al non detto, quella verità negata scomoda da rivelare, legata a eventi mai giunti a una spiegazione certa, come l’assassinio a Mogadiscio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin (1994) o a stragi dimenticate come l’abbattimento dell’aereo dell’Itavia, sopra i cieli di Ustica (1980). La crisi della parola, in realtà, è la crisi della persona. Fino a pochi decenni fa, questa frattura era una fenditura che segnalava la distanza fra la nostra vita e un progetto di futuro, individuale e collettivo, al quale aspirare. Era una fenditura che la creazione politica, bene o male, riempiva con la speranza di un cambiamento profondo, ispirato da libertà e giustizia. Il suo sfaldarsi ha avariato molte idealità, lasciando smarrita la consapevolezza di “essere”. La crisi dell’idea di persona è anche crisi della coscienza storica, perché la pratica della parola è una pratica politica, nel senso che si apre al movimento della polis e perché esiste sempre l’interdipendenza di una “soggettività accumulata”9 tra storia individuale e collettiva. Il silenzio della rabbia La convivenza non si basa più su regole condivise. L’educazione civica sembra una lingua antica. Le Costituzioni degli stati sono carte non

interiorizzate dai cittadini che badano solo al proprio particulare. Il trionfo dell’io singolo impedisce il riconoscimento fra simili che accumulano rabbia da riversare su un nemico esterno. Ogni epoca ha il suo: ieri l’ebreo, oggi il migrante. La rabbia è alimentata da insofferenze e maleducazioni patite nella quotidianità: vicini rumorosi, code agli sportelli, parcheggi per disabili occupati da automobilisti spocchiosi, cani nei bar dove si vorrebbe sorseggiare un caffè in pace, baby gang che imbrattano muri, ciclisti irruenti, movide indesiderate, turisti che consumano paesaggi con apparecchi simili a voraci mandibole. Le case, luogo privato in cui rifugiarsi, sono assediate da rumori di ogni genere (sale per feste, musica ad alto volume, liti condominiali, cani rinchiusi negli appartamenti…). Se qualcuno ambisce al silenzio, altri cade nel panico se se ne sente troppo circondato: è il tipo in continuo transito che considera il rumore un effetto ineliminabile della modernità. Una lunga scia storica ha prodotto quest’idea, teorizzata dal Manifesto del Futurismo (20.02.1909). Scritto dal poeta Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), raccoglie lo spirito aggressivo di un secolo che portò due guerre mondiali e il genocidio della Shoah: Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, e le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta (art.11).

L’esposizione al rumore abitua alla sua presenza tanto da renderla un fatto naturale, persino un irrinunciabile sintomo di vita. A chi ne denuncia il danno, al contrario, capita di essere accusato d’intolleranza: una rottura fra parola e “cosa” che trasforma gli assuefatti timorosi del silenzio in premiati con il bollino della tolleranza! In questa convivenza, senza chiari punti di riferimento, cresce, dunque, un humus culturale oscuro, che nessuno aiuta a decifrare, in cui la parola diritto è la più rivendicata ma solo per sé. Norberto Bobbio definì il secolo passato “l’età dei diritti”10, indicatori del progresso di una società. La loro proclamazione presuppone il consensum omnium gentium come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948), approvata da 48 stati, che aprì la lunga stagione prima dei diritti individuali, poi di quelli politici e sociali. Questo assetto giuridico era nutrito anche da una morale di convivenza non scritta ma osservata, un corpo di diritti e

doveri che ognuno era tenuto a rispettare come morale personale, insegnata a scuola e in famiglia, due agenzie non più così robuste per svolgere questo compito. Obbedire a una regola, infatti, oggi sembra un sopruso verso il quale il singolo deve ribellarsi; quasi nessuno pensa più che rispettarla faciliti la convivenza. Ma cosa significa pensare? La ricerca del pensare Sono due donne che hanno vissuto intensamente il Novecento a ispirarci in merito. L’una, María Zambrano (1904-1991), costretta dalla dittatura franchista a lasciare la Spagna, elaborò l’esilio come essenza della condizione umana, che sin dalla nascita è separazione da qualcosa e da qualcuno, capovolgendo il silenzio imposto a chi è cacciato dalla propria terra per ragioni in particolare politiche in un silenzio complesso aperto a “un sapere dell’anima”11. L’altra, Hannah Arendt (1906-1975), ebbe come disciplina, personale e politica, il “pensare”, considerato presupposto per una Vita activa12. Entrambe pensano e scrivono con tutto il loro essere, perché chi vive sulla propria pelle il totalitarismo non coltiva idee slegate dal corpo che ne subisce violenza fisica e psicologica. L’autoriflessione, nel loro caso, è stata una forte barriera all’omologazione dominante e un atto politico che ha cercato, e trovato, nuovi significati, non solo alle loro singole esistenze, ma alla condizione umana in generale. Il pensare, infatti, non può essere autentico se in esso non è presente tutto il nostro essere. E il nostro essere non può essere totalmente presente se siamo lacerati da ferite inspiegate, proprio come il biblico Giobbe, che non chiedeva di non soffrire più, ma di capire il perché. Scrive Zambrano: Quando un pensiero si formula in modo cristallino, incontra subito il sangue che deve rispondere della sua trasparenza, come se ciò che di più ‘puro’, libero, disinteressato compie l’uomo debba essere pagato, o quantomeno legittimato, da questa ‘materia’ preziosa, che è essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta… Una delle funzioni vitali del pensiero è di rendere respirabile l’ambiente, di liberare gli esseri umani dall’asfissia, derivante dalla mancanza di spazio interiore, quando cioè la coscienza si riempie di ombre, di incertezza, quando l’ombra degli altri e la nostra hanno reso eccessivamente opaca la nostra interiorità, primo spazio in cui ci muoviamo e siamo. E quando, in questa predisposizione, ci mettiamo in relazione col prossimo che si trova in una condizione analoga, allora convivere, come del resto vivere, è semplicemente impossibile.13

Pensare è, dunque, decifrare ciò che si sente, che scorre nel sangue. È quel “sentire originario” che scaturisce in silenziosa solitudine per dare cura, per ritrovare una nuova alba, per ritrovare la passione di essere dentro la società che “è il luogo dell’uomo”14. Il pensare, dunque, nato nel silenzio dell’interiorità, quando è “cristallino” non può fare a meno di farsi storia, perché “l’uomo è egli stesso strada”15.

Arendt, a sua volta, interrogandosi sulla “vita della mente”, dedica un’ampia sezione a cos’è il pensare: “un’attività spirituale che attualizza quei prodotti della mente che sono inerenti alla parola”16. Il pensiero richiede un tirarsi indietro dalla storia, per poterla penetrare con lo stupore di chi scopre una verità in filigrana, invisibile come il Dio ebraico che si lascia udire ma non vedere, anzi non vuole che di lui sia fatta immagine alcuna. Dice Arendt: Nell’atto di pensare io non sono dove sono in realtà… È come se mi fossi ritirato in una sorta di terra di nessuno, la terra dell’invisibile… Il pensare annulla le distanze, quelle temporali non meno che quelle spaziali. Posso anticipare il futuro e pensarlo come se fosse già presente, posso ricordare il passato come se non fosse scomparso.17

La distanza, dunque, per Arendt, come l’esilio per Zambrano, sono condizioni necessarie allo scaturire di un pensiero interpretativo. Il pensare, quando davvero è radicato in tutta l’integrità dell’essere umano, produce conoscenza, nuove connessioni fra i fatti del reale, trasporta il soggetto pensante oltre il suo limite, in una forma di contemplazione che lascia liberi dal dolore delle separazioni per iniziare una nuova nascita (Zambrano), oppure immerge nello stupore che rende conto della perfezione del creato (Arendt). I germi del totalitarismo Cosa succede ai meccanismi del pensare in una società totalitaria o tendenzialmente inglobante? Come si può ancora esercitare un pensiero critico che conduca sulla via più prossima alle verità del vivere? Molte chiavi di lettura delle dittature si possono applicare anche all’oggi: doppia verità fra vita vissuta e racconto ufficiale, distacco fra narrazioni di propaganda e realtà quotidiana, parole sganciate dal loro significato, uso di linguaggi “obliqui”, non essenziali a capire il mondo. Il clima della polis influenza sempre il pensare comune. La relazione fra individuo e gruppo, fra storia individuale e collettiva è inscindibile e reciprocamente influenzabile. Per osmosi si assimilano frasi comuni, modi di dire, parole belle o brutte tratte da un “tumultuoso serbatoio” che fonda le nostre “figure acustiche”18, voci che ripetiamo dentro di noi e lentamente costruiscono il senso delle cose. Sono “innervazioni inconsce, che, al di là dei processi intellettivi coscienti, accordano l’esistenza individuale al ritmo della storia”19. Il linguaggio è una posta in gioco centrale perché è per suo tramite che forze egemoni s’impadroniscono dell’immaginazione collettiva. Dove si compie questo processo di manipolazione antropologica nel caso italiano? Certo non possiamo dire che in Italia esista un governo totalitario. Queste sono, per quanto riguarda l’Europa, esperienze che il Novecento ha – si spera –

sigillato. Tuttavia, i loro germi, seppur sconfitti, sono sempre in agguato, pronti a rivelarsi sotto altre forme. Dobbiamo individuarne le tracce, proprio come provetti investigatori, oppure lasciarci guidare, come ha insegnato Carlo Ginzburg per la ricerca storica, da un “paradigma indiziario”. Infatti, “se la realtà è opaca, esistono zone privilegiate – spie, indizi – che consentono di decifrarla”20. Cercheremo di elencarne alcuni. Il più insinuante passa nei programmi d’intrattenimento della tv che unifica il “vedere adesso” degli italiani. Dall’ “Isola dei famosi” alle notizie di cronaca, le storie di vita sono oggetto di voyeurismo indiscriminato. Eppure, negli anni sessanta del passato secolo, proprio le storie di vita erano assurte al valore di fonti storiche, con la ricerca di Luisa Passerini, Alessandro Portelli e tanti altri gruppi di “storici orali”, i quali, in una vasta rete internazionale, avevano messo in crisi i tradizionali statuti delle discipline storiche, allargandole a un’intensa collaborazione con tutte le scienze umane. Spostando l’attenzione sulla vita quotidiana e sulla complessità delle strategie individuali di vita, avevano rotto con la storia scritta solo dalle grandi istituzioni, come reami ed eserciti, valorizzando, fra le altre, anche le innumeri tradizioni orali, portatrici di miti, visioni del mondo e culture “altre”. Oggi si assiste al trionfo del frammento biografico, spacciato per attenzione alla persona, pressata invece da domande inopportune, mentre scompare la frontiera di una necessaria intimità. L’esposizione totale di sentimenti o corpi è scambiata per verità: un altro caso di inversione di significato. La verità è ricerca inafferrabile del senso dell’esistere, non cancellazione di confini fra l’esposizione e la nudità, fra il silenzio e la parola. Un secondo indizio, fra i molti che potremmo recuperare, riguarda la stampa quotidiana e anche la letteratura. Lo afferma Abraham B. Yehoshua: Nei romanzi di oggi il cattivo non c’è più21. E quando c’è, il giudizio morale è sostituito dalle spiegazioni psicologiche. Non si classificano più i soggetti in buoni e cattivi, si descrivono con carenze affettive. La psicologia sostituisce il giudizio morale, così come il mondo s’interpreta attraverso i parametri della legge piuttosto che dell’etica della responsabilità. I regimi democratici hanno certo rafforzato la fiducia nella soluzione concertata garantita dalla legge. Tuttavia, anche in questo caso, la sua banalizzazione mette in azione una pratica del diritto che capovolge le cose. È vero anche che aleggia la paura che attraverso l’etica si riproducano forme di censura politica o religiosa di tipo integralista, troppo invasive dei cittadini. Questo clima opaco, incapace di dire i pensieri in modo diretto, non

è portato a riflessione nemmeno dalla classe politica dirigente, percepita sempre di più non come rappresentanza dei cittadini, ma una rappresentazione cerimoniale di uno stato spodestato da altri poteri: banche, istituzioni internazionali, equilibri fra grandi potenze ecc. Un altro indizio potrebbe, infatti, essere proprio il mondo politico, fino a ieri diviso fra destra e sinistra, aree già definite da Norberto Bobbio22 che si sono scontrate spesso con un linguaggio virulento e aggressivo su temi che scatenano la “pancia” degli italiani, come l’accoglienza ai migranti o la sicurezza sociale, senza curarsi di riportare le questioni alla loro indubbia complessità. Il dissenso non fa parte della pratica inter-relazionale. Nei partiti, quasi subito, diventa scissione, nei dibattiti scandalo comunicativo, nelle chiacchiere da bar un cordone di diffidenza. Nello stesso tempo però si lasciano circolare liberamente affermazioni gravi, specie da parte di alcune forze politiche, contro le istituzioni dove esse stesse sono insediate. È un urlo di antipolitica che nell’ultimo decennio si è fatto sentire sempre più forte, acclamato da una società italiana che desidera un cambiamento immediato. Tuttavia le democrazie sono tali proprio perché hanno tempi lunghi di realizzazione perché il cambiamento passa attraverso riforme senza violenza e l’uso della ragione politica. I princípi della democrazia garantiscono novità istituzionali senza ricorrere a maniere forti e rispondono a una “ingegneria sociale gradualistica”23, tesa alla progressiva emancipazione dei soggetti. Chi non vuole questa “società aperta”, mette in atto forme di osteggiamento, consapevoli o meno, che portano all’annichilimento del pensiero critico, riducendo il lungo cammino della cittadinanza all’annullamento anonimo dell’individuo nella massa. A questo proposito, Popper sostiene che il totalitarismo appartiene non solo a un periodo storico preciso. La sua è una lunga tradizione, proprio come se nel mondo agissero sempre due forze contrapposte o in dialettica: il primato del contratto e la volontà morale dell’individuo da un lato e il principio dell’indiscussa obbedienza gerarchica dall’altro. Prendere una strada o l’altra non è indifferente ai fini della libertà e della giustizia individuale e collettiva. Atmosfere ambigue Il totalitarismo può assumere varie forme istituzionali, ma non nasce mai dal nulla. È preparato da atmosfere ambigue con climi sociali in cui il linguaggio aggressivo prevale: fra forze politiche, verso un “nemico” particolare, con l’invocazione di un leaderismo spacciato per operatività, contro la burocrazia e il malcostume politico. La parola pubblica perde valore

perché non aiuta a capire la società. Già lo aveva spiegato Arendt, delineando la tipologia funzionale al totalitarismo: un individuo disaggregato della società di massa, alieno alla partecipazione civile, sicuro solo nella sua nicchia. È il tipo che, ubbidendo all’autorità che lo comanda, svolge meticolosamente il suo dovere, anche quando si tratta di mandare allo sterminio sei milioni di ebrei. Lo fece, fra gli altri, Otto Adolf Eichmann che smistava i destinati ai campi di concentramento della Germania nazista. Arendt segue il suo processo per crimini contro l’umanità a Gerusalemme nell’aprile 1961. Nella gabbia di vetro costruita per difenderlo dalla rabbia degli offesi, Eichmann, per tutto il processo, resta in silenzio finché si dichiara non colpevole perché in base al sistema giuridico del suo paese crede di non aver fatto nulla di male, di essere con la coscienza a posto. Compiere il proprio lavoro da “persona comune, ‘normale’, non svanita né dottrinata né cinica”,24 spesso porta a praticare la “banalità del male” che è nutrita da gesti automatici, dall’indifferenza verso l’obiettivo dei propri atti, dalla mancanza di consapevolezza di un “io” dignitoso che distingue fra bene e male. L’“io” spersonalizzato non si sente né comunità, né classe sociale, né cittadino, si sente vivo solo nella rabbia verso tutto e non “vede” ciò che accade intorno a sé, predisponendosi a essere orientato da forze, anche politiche, che invece hanno chiari i loro obiettivi. La depersonalizzazione dei soggetti è un fertile humus che alimenta un clima sociale predisposto a tradursi in istituzioni che lo rispecchiano, con il consenso della maggioranza. Tutti i totalitarismi sono preceduti da una fase di preparazione in cui il linguaggio costruisce accanimenti nazionalistici, difese dell’“io” contro il “loro” e così via. La solitudine anomica diventa facile preda di identificazioni collettive agite per creare contrapposizioni fino al conflitto armato. La storia della ex Iugoslavia è un esempio vicino a noi molto recente. Questo paese, com’è noto, è oggi composto da tanti piccoli stati: Bosnia Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Kossovo. Crollato il Muro di Berlino (1989) fra Est e Ovest, dall’estate 1991 la Iugoslavia, mosaico unico di convivenze geografiche, disegnato da Tito alla fine della seconda guerra mondiale, si rompe. La guerra ha reso di nuovo ‘vitali’ le particolarità che un processo, lungo un decennio, aveva trasformato in identità. Per tutti gli anni ottanta, lentamente, ma inesorabilmente, il passato si politicizza e il presente si storicizza: il futuro radioso viene sostituito da un passato radioso.25

Molti testimoni di quella guerra, e di altre, spesso non ne ricordano più i motivi specifici. È così: le guerre sono l’esito finale di una lunga incubazione. Un po’ per volta le intonazioni di un linguaggio etnico o religioso o

“identitario” si trasferiscono dal sottofondo di bar e cucine ai reportage televisivi, diventano gli occhiali con i quali guardare anche il vicino di casa. Poi, scatta il movimento inverso, dal pubblico si lanciano parole d’ordine che penetrano il privato. Dal pubblico al privato, dal privato al pubblico: l’uno permea di sé l’altro fino a predisporre gli animi individuali all’inevitabilità della guerra. Questa è una dinamica sempre in agguato intorno a noi che solo una profonda convinzione democratica può arginare. Come si è visto, sono i mondi della comunicazione, dove si costruiscono le narrazioni di un paese, a essere i maggiori portatori di “germi” totalitari che, proprio come in biologia, attecchiscono se trovano un ambiente favorevole. Senza contare il fatto che periodi di crisi, specie economica, ma anche culturale (crisi dei valori, di senso del futuro ecc.), provocano un desiderio di comunità chiusa, dalla quale siano espulsi i possibili “diversi”, in una spasmodica ricerca di uniformità rassicuranti che conducono a soluzioni autoritarie. Come creare allora un terreno sfavorevole al proliferare di questi germi di totalitarismo? L’unico humus per far crescere sane piante democratiche è l’educazione, di cui si è perso, tuttavia, il significato più profondo. Il silenzio dell’educazione Educazione è una parola quasi abusata nei discorsi di oggi. Tutto può educare. Tuttavia, paradossalmente, questa estensione è la causa del suo fallimento, perché perdendo la specificità di un progetto legato all’emancipazione umana e sociale, se ne perde anche la verificabilità e l’efficacia. L’educazione è assorbita dalla formazione, un cappello semantico sotto il quale si accumulano le figure che ruotano intorno a un bambino o un adolescente in crescita: tutta la serie di maestri (da quelli di scuola a quelli di sci), accompagnati da “animatori” (dai giochi alle feste fino alla lettura “guidata”), oltre ai vari membri della famiglia. Decine di figure rimbalzano, senza mai confrontarsi in una strategia comune, un’immagine del soggetto da accompagnare all’età adulta. A quest’ultimo, in realtà, nemmeno si concede un attimo di silenzio affinché possa imparare, nell’inabissarsi in solitudine, ad auto organizzarsi e a pensarsi senza fare continuamente qualcosa. L’ipercinesia e il rumore sostituiscono così la fantasia e l’invenzione autonoma del gioco, tutto il contrario dunque, dell’autentico compito dell’educazione – che deriva dal latino ex-ducere, condurre fuori. Ciò imporrebbe, di conseguenza, la necessità di creare una distanza fra sé e la realtà, da riempire con pensieri che aiutino a capirla, interpretarla, classificarla e anche trasformarla. Invece, adulti, giovani e infanti sono

lasciati allo stadio dell’“enuresi delle emozioni”: Basta che ci si emozioni, che si tocchi la dimensione affettiva (e solo quella) dei partecipanti a un corso, a un seminario, a una lezione; basta che tutti piangano o ridano, che si sentano gratificati e turbati, che ricordino l’imago materna o proiettino Edipi sul formatore, che stiano bene o male: tutto fa brodo, purché si evitino la disciplina e la noia della riflessione, la durezza del lavoro culturale e riflessivo.26

A ben vedere, l“enuresi delle emozioni” permea anche molti reportages televisivi di denuncia sociale. È diventata la chiave di lettura di cronaca e storia, senza concentrare l’attenzione sui nodi problematici, limitandosi a creare, appunto, emozioni. Si alimentano, in altre parole, specie di fronte a calamità naturali, guerre o catastrofi annunciate (come il crollo di ponti e viadotti), una serie di politiche di soccorso ispirate da una vicinanza umanitaristica che tuttavia non risolve la diseguaglianza, né sa stabilire responsabilità possibili. Se la società resta “emotiva” significa che è preda di un’altalena di alti e bassi comportamentali basati sulla confusione e l’immediatezza, sull’istintualità del momento: l’esatto contrario della pratica non solo dell’educazione all’adultità democratica, bensì dell’educazione civica. Non è la persona a dover essere preda delle emozioni, ma le emozioni a dover entrare in una disciplina educativa, per non offrire un terreno favorevole a “germi totalitari”. È l’“enuresi delle emozioni” che predispone ad acclamare un capo popolo, a invocare un governo forte, a vedere nemici ovunque, a considerare l’ “altro” sempre un pericolo e non un’occasione d’incontro. L’“enuresi delle emozioni” è il contrario dello spirito democratico, cioè il saper stare insieme agli altri che, poiché non è mai stato agevole, non richiede buoni sentimenti, ma una sana abitudine, appresa con gioia, di seguire la legge, proprio per facilitare la convivenza. Non si tratta di negare le emozioni, quanto piuttosto di portarle “a concetto”27, accompagnare l’emozione dentro un quadro di ragionamento. Un’altra dimensione, inoltre, si aggiunge a queste considerazioni: un clima sociale solo emotivo asseconda la personalità autoritaria. È ancora Adorno a sostenere la predisposizione di ogni singolo individuo al fascismo. Ne fa fede, fra le altre, una ricerca dello psicologo sociale Adriano Zamperini28 con la sua équipe in tre luoghi: nelle prigioni vere di Guantanamo (Cuba), a Stanford (California) dove l’esperimento dovrà essere sospeso per la troppa immedesimazione in ruoli crudeli e a Londra, negli studi della Bbc. Situazioni reali e costruite, in ogni caso, hanno dimostrato la stessa cosa: quando si è, o si gioca a fare la guardia, quando si è o si gioca a fare il prigioniero, le reazioni sono le stesse. Il ruolo addestra a essere vittime o aguzzini. Una potente forza psicologica si

riversa in comportamenti violenti, se esiste la corrispondente legittimazione comunitaria. In altre parole, la “personalità autoritaria”, presente come un germe dentro ognuno di noi, si rafforza se trova un contesto accattivante. A questa personalità fanno appello coloro i quali indirizzano l’aggressività, specie verbale (purtroppo presupposto per la degenerazione in quella fisica), sugli out-group del periodo storico: ebrei ieri, migranti oggi. Il ritiro nel silenzio La società italiana non si può definire una forma di totalitarismo. Sarebbe un’esagerazione storica. Non siamo in presenza di un regime autoritario. Le democrazie, in Europa, sono il contenitore di una vita pubblica che attraverso i suoi esecutivi (governi e parlamenti) emana leggi che influenzano la nostra quotidianità (dalle tasse alle pensioni). Spesso, tuttavia, la “sentiamo” totalitaria, orientata da un pensiero unico, schierato sulle polarizzazioni: pro o contro i migranti, pro o contro la sicurezza, pro o contro la famiglia e così via. Boaventura de Sousa Santos definisce questo “sentire” come “fascismo sociale”29. Tipico di questo clima, in cui bene o male siamo tutti immersi, è il tenere i soggetti nell’incertezza di aspettative apparentemente democratiche, senza mai produrre risposte concrete alla domanda di emancipazione individuale e collettiva. È un’atmosfera che si sperimenta anche in Italia, oltre al fatto che chi nutre dubbi, ama la complessità, semplicemente chiede di capire, non solo non ha sedi dove trovare un equilibrio informativo di competenza, ma spesso ha paura di parlare, di dissentire, di essere giudicato anche negli ambiti ritenuti più aperti. Sono quelli che scelgono il silenzio. Non si tratta della classica “maggioranza silenziosa” che invoca svolte autoritarie, né quella avviluppata nella “banalità del male” descritta da Arendt. Al contrario, è un’anima silenziosa che vive una sorta di solitudine intellettuale e affettiva, in un mondo in cui “la bugia ha il suono della verità, e la verità della bugia”30. Attraversa tutti gli strati sociali che nutre di gesti fondati sulla pratica vera di una cittadinanza democratica: un medico scrupoloso, un funzionario gentile, un impiegato efficiente, un artigiano che gode del suo manufatto… persone che svolgono con responsabilità il proprio lavoro e, nello stesso tempo, a differenza dei tempi della Arendt, si interrogano anche sulla società che abitano: una vera e propria riserva silenziosa di resistenza democratica dentro la convivenza civile. Il silenzio, in questo caso, implica scrupoli etici. Sceglierlo significa dissentire contro il corso degli eventi che caratterizzano la propria attualità. Come trasformarlo in atto politico efficace? Come metterlo in rete? Come usarlo per creare

nuove solidarietà e nuove alleanze? Come proclamarlo per rigenerare le coscienze? 1 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1981, p.56. 2 G. Perec, Le cose, Rizzoli, Milano 1986 3 M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Einaudi, Torino 1978, vol.I, p.52. 4 J. Saramago, Oggetto quasi, Einaudi, Torino 1997. 5 V.Packard, Ipersuasori occulti, Il Saggiatore, Milano 1969. 6 Montasser al Qaffash, Vedere adesso, Claudiana, Torino 2010. 7 E. Ferrero, Nota della traduttrice, in Montasser al Qaffash, cit., p.130. 8 R. Panikkar, Pace e disarmo culturale, Rizzoli, Milano 2003, p.28. 9 L. Passerini, Memoria e utopia. Il primato della intersoggettività, Bollati & Boringhieri, Torino 2003, p.12. 10 N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990. 11 M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996. 12 H.Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989. 13 M. Zambrano, Delirio e destino, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, pp.49-50. 14 M. Zambrano, Persona e Democrazia. La storia sacrificale, Mondadori, Milano 2000, p.109. 15 Ivi, p.31. 16 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1978, p.195. 17 Ivi, p.169. 18 E. Canetti, La coscienza delle parole, Adelphi, Milano 1984, p.71. 19 T. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p. 162. 20 C.Ginzburg, Miti. Emblemi. Spie, Einaudi, Torino 1986, p. 191. 21 A. B. Yehoshua, Nei romanzi di oggi il cattivo non c’è più, “La Stampa” 10.11.2017. 22 N. Bobbio, Destra e Sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Donzelli, Roma 2004. 23 K. R. Popper, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 1996, vol.1., p.20. 24 H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 34. 25 N. Janigro, L’esplosione delle nazioni. Il caso iugoslavo, Feltrinelli, Milano 1993, p.26. 26 R. Mantegazza, La fine dell’educazione. Un’utopia (anti)pedagogica, Città Aperta, Troina (En) 2005, p. 29. 27 Ivi, p. 28 A. Zamperini, Prigioni della mente, Einaudi, Torino 2004. 29 B. de Sousa Santos, A caída del Angelus Novus. Ensajos para una nueva teoría social y una nueva práctica política, ILSA, Universidad Nacional de Colombia, Bogotá 2003, p.82. 30 T. W. Adorno, cit., p.121.

IL SILENZIO RITROVATO La poesia si fa senza suoni melodiosi senza colori solo con segni bianchi e neri con bianchi e neri silenzi con fonemi bianchi e neri La poesia si fa senza parossismi del corpo questi sono per il prima e il dopo. (Titos Patrikios, La Resistenza dei fatti, 2007) Storia e memorie Le domande prima formulate non possono che trovare risposte sotto forma di tracce e indizi. Le esperienze, le occasioni, i gesti che nella Storia hanno invertito l’omologazione collettiva, restituendo senso, gioia e umanità alle persone, sono molti. Poiché, tuttavia, non hanno una lettura concatenata restano episodi sottovalutati. Proveremo a capovolgere questo silenzio, identificato spesso come ritiro dalla polis e come non coinvolgimento nella storia, la quale, scritta per lo più dai vincitori, ha tralasciato il racconto dei vinti, un annullamento che colpisce intere parti dell’umanità. Cosa narra questo silenzio? Sono domande che negli anni sessanta del passato secolo molti storici si sono posti. Le conseguenze più importanti furono la valorizzazione dell’oralità e la trasformazione di testimoni contemporanei in fonti che ruppero l’egemonia di una disciplina storica basata esclusivamente su memorie legate alla tradizione scritta e a personaggi celebri, nelle quali era legittimata solo la versione del passato collettivo di un determinato gruppo umano, presentata come unica e oggettiva. I ricercatori antesignani, in Italia, furono Rocco Scotellaro con le biografie contadine, Gianni Bosio con il pensiero operaio, Danilo Montaldi con la “leggera”, storia di emarginati sociali, dalle prostitute ai senza casa, Ernesto de Martino, con studi sul folclore e le apocalissi culturali. Le categorie di analisi che leggevano queste realtà erano aperte a intersezioni disciplinari. Antropologia, psicanalisi, etnologia, linguistica… tutto ciò che aiutava a capire il comportamento umano era applicato, senza barriere di statuti disciplinari imprigionanti. Ciò che legittimava il processo di ricerca, oltre alla metodologia, era il profilo del soggetto là dove storicamente si collocava. Contesto collettivo e agire del singolo, uomo e donna nella quotidianità, presero lo stesso valore dell’azione politica di statisti, papi e regine. Fu un paradosso: dando valore alle loro testimonianze, voci prima silenziate lanciavano segni di presenza. E lo stesso accadeva, in contemporanea, nelle piazze di tutto il mondo, con la nascita di molti “movimenti”. Studenti, operai e, ancora, minoranze linguistiche, donne e popoli colonizzati reclamavano una diversa visione dei loro passati, fino a quel momento rimossi o assorbiti in storie ufficiali che li avevano distorti.

L’incontro fra nuove realtà sociali e discipline storiche produsse effetti che dimostrano come, quando nella Storia grandi serbatoi di memorie silenziose deflagrano, proprio come da un antico scrigno, escono ori e argenti. Il silenzio le ha custodite per consegnarle a epoche più vicine alla loro sensibilità. Il silenzio del negazionismo Esistono dei silenzi nocivi anche nella storia. Uno dei principali è il negazionismo. Questa corrente pseudostorica del revisionismo si basa su una serie di tecniche manipolatorie (uso di documenti falsi, opinioni estrapolate dal loro contesto, traduzioni non verificate, dati statistici omessi ecc.) per negare, contro ogni evidenza e attraverso suggestioni psicologiche, fatti della storia, documentati anche da testimoni diretti: Olocausto, purghe staliniane, genocidio armeno, massacri nella ex Jugoslavia, foibe (eccidio di italiani della Venezia Giulia e della Dalmazia nella II guerra mondiale da parte di partigiani iugoslavi). Il negazionismo (fra i protagonisti dei quali ricordiamo David Irving, Robert Faurisson, Piero Sella e in parte anche Ernst Nolte che equiparò il nazionalsocialismo al bolscevismo, ridimensionando i crimini nazisti) fu anche oggetto di regolamentazione giudiziaria, specie nei riguardi della Shoah (in Austria, Belgio e Germania). In Italia, nel 2007 e nel 2013, furono presentati due disegni di legge per considerare il negazionismo un reato di apologia di delitto che suscitò un notevole dibattito sui mass media nazionali. A suo sfavore però si pronunciarono storici, accademici e penalisti in nome della libertà intellettuale. Le tesi storiche, anche le più aberranti, non possono, si disse, essere abolite per legge. Solo uno strenuo dibattito culturale e una formazione assidua delle giovani generazioni alla ricerca della verità possono contrastarle1. Invocare la negazione di qualcosa impone un silenzio forzato su eventi che si vuol fare scomparire, di cui non si vuol trasmettere il ricordo alle generazioni che vengono dopo. In questo caso, il silenzio, voluto dai negazionisti, e la parola di denuncia, voluta da chi, in particolare, ha subito l’oppressione, è un confronto serrato, dagli esiti non sempre definiti una volta per sempre. Il silenzio dell’inenarrabile Jorge Semprún (1923–2011), scrittore e sceneggiatore, arrestato dalla Gestapo nel settembre 1943, fu internato nel campo di concentramento di Buchenwald per aver militato nell’organizzazione comunista clandestina dei Francs Tireurs et Partisans. Quando in Spagna tornò la democrazia svolse l’incarico di ministro della cultura nel governo di Felipe Gonzales. Passarono

vent’anni da quando fu liberato dalla prigionia prima che riuscisse a darne testimonianza. Il suo fu un silenzio scelto e, nello stesso tempo, obbligato. Scelto perché, come tanti altri prigionieri dei campi, temeva di non essere creduto. Obbligato, perché parlare di quel periodo lo riportava a vivere in uno stato di morte. Egli scrive: Dovrei raccontar loro il fumo: talvolta denso e d’un nero di fuliggine cangiante nel cielo. Oppure leggero e grigio, quasi vaporoso, che avanza, sospinto dal vento, come un presagio o un saluto sui vivi assembrati. Fumo in luogo di un sudario grande quanto il cielo, ultimo segno del passaggio dell’anima e del corpo dei compagni. Occorrerebbero ore, stagioni intere, l’eternità del racconto, per renderne un’idea approssimativa… Ma si può raccontare tutto ciò? Si può? Il dubbio mi sorge fin da questo primo istante.2

Il dramma dell’impossibilità di narrare il dolore per chi è andato oltre il dolore stesso, in quello spazio fisico e psichico di annichilimento proiettato in un’immagine di male assoluto, il lasciare le esperienze dei lager all’indicibile, accompagnò molti sopravvissuti, diversi dei quali, compreso Primo Levi, non ressero il dono della vita. Il dolore, specie quello provocato da violenze di tutti i tipi, richiede una lunga elaborazione, deve essere inserito in una “grammatica del patire”3 che impedisca la perdita di sé, offrendo scenari di senso. Chi ha vissuto il lager è andato anche oltre l’anticipazione della morte che il dolore prelude, perché ha vissuto la chiusura del futuro. Se questo dramma non si elabora, si trasmette alle generazioni future, “candele della memoria”4 di un trauma indissolubile. La tragedia ha sempre bisogno di una redenzione per permettere alla vita di affermarsi sulla morte. Il silenzio può covare lutti mostruosi per chi ha vissuto la violenza e per chi l’ha praticata. Solo dandogli la parola, decifrandone gli ingredienti e i radicamenti, è possibile far invertire la rotta al “mostruoso”5 della Storia che ritorna, come abbiamo visto, nei germi totalitari di oggi, attivando una dimensione dell’esistere che aleggia, sempre in agguato, pronta a realizzarsi quando trova un terreno favorevole, come se l’umanità dovesse sfogare il suo fondo maligno. Il silenzio della tortura Potremmo anche invertire le parole: la tortura del silenzio, strumento privilegiato dei regimi totalitari di ogni epoca. Un film ambientato nella Parigi degli anni trenta del passato secolo ben ne illustra la psicologia. Narra la storia vera di Henri Charrière, detto “Papillon”6 (dall’omonimo libro autografo), condannato all’ergastolo per un omicidio mai commesso. Spedito ai lavori forzati nell’Isola del Diavolo della Guyana francese, dopo numerose rocambolesche fughe riesce a riconquistare la libertà, grazie anche all’amico

Dega che, in cambio della sua protezione, lo finanzia. Papillon, in una scena del film, è rinchiuso, a pane e acqua, in una buia e desonorizzata piccola cella, dove gli è anche impedito di profferire parola. Gli effetti di un simile isolamento portano alla prostrazione assoluta dell’essere umano che, nel caso, si salverà grazie a un piccolo pezzo di cocco che ogni giorno gli giunge inaspettato da Dega. Scoperto, si rifiuterà di fare il suo nome, invertendo il senso del silenzio prima impostogli: prima obbligato al silenzio, dopo il silenzio come scelta. Il silenzio del dolore Scrivere la memoria di tempi efferati, come nel caso delle dittature latinoamericane, è un atto difficile e doloroso, ma necessario. La riconciliazione di una società che ha vissuto la guerra civile o un’epoca di totalitarismo ricomincia spesso proprio dalle storie di vita, quelle stesse che sono state spezzate da molti lutti e dall’esperienza della detenzione carceraria: cesure e silenzi profondi che precisano di un racconto, perché narrare cura, può, se non guarire, almeno ammorbidire il ricordo di violenze e ingiustizie, specie se si è ancora vivi e si possono avere interlocutori attenti e coinvolti in questi passati dolorosi che, purtroppo, non finiscono mai, perché si ripetono anche se in luoghi diversi del mondo. Il trauma ha bisogno cioè di una nuova trama nel racconto di una biografia spezzata. Così le vite narrate da Norma Victoria Berti,7 restituiscono la storia della dittatura argentina (1976 -1983), penetrata in nove donne che hanno condiviso il carcere, la tortura e la speranza di “uscire”: dalla prigione, dall’invasione della propria coscienza da parte di un devastatore totale, dal bruciore di sentirsi solo corpo dolorante e anche dalla chiusura di una società alla convivenza solidale. Norma Victoria aveva ventuno anni nel 1976, quando, sequestrata, fu condotta in un centro clandestino di detenzione, dove sparirono più di 2500 persone. Entrò poi al penitenziario di Cordoba e in quello, famigerato, di Villa Devoto a Buenos Aires. Uscì tre anni dopo per emigrare in Italia. Tuttavia, come spesso succede a chi vive esperienze estreme di oppressione, il testimoniarle ha richiesto tempo e presa di distanza. Un periodo di silenzio si è imposto per elaborare il lutto e imparare a raccontare l’indicibile. Norma Victoria, infatti, incontrerà le compagne soltanto quindici anni dopo. Con loro riannoderà quei tempi di oscurità, scendendovi a poco a poco dentro, proprio come lo speleologo scende in una grotta. Lo sfondo delle loro vicende è l’Argentina degli anni settanta e ottanta, erede di una polarizzazione sociale particolarmente aspra e tale da portare al collasso il

sistema democratico, con il trionfo di una logica di sterminio delle opposizioni, nella quale il corpo femminile, investito di simboli, divenne luogo di contesa e di controllo. Contro le donne, infatti, non si riversò solo l’odio riservato ai ribelli rivoluzionari, bensì la rabbia di chi le considerava sovvertitrici dell’atavico ordine costituito attraverso le loro richieste di parità e protagonismo. La figura che esprime l’orrore della dittatura argentina è certo il desaparecido, lo scomparso strappato alla quotidianità di parenti e amici, sul quale è calato il silenzio anche sul luogo del trapasso. Sono oltre trentamila quelli che non fecero più ritorno alle loro case. Molti dimenticano (altra forma di silenzio che sottrae umani alla storia) però che furono dodicimila i ricomparsi, una parte di società che è transitata nelle carceri argentine e ha vissuto la cesura del “dentro” e poi un nuovo “fuori”, ha dovuto ricomporre la propria mappa di spazio, tempo, valori e in molti casi di equilibrio psichico. Chi riappare conserva la memoria del terrore che spesso è così abnorme da non essere creduta, come già successo in Europa a chi era tornato dai lager nazisti. Per questo, al ritorno, segue sempre il silenzio del colpito, immerso nell’incommensurabilità di un male inenarrabile. La storia politica argentina entra come punta aguzza nei racconti delle nove donne che, tuttavia, hanno saputo trasformare il loro isolamento silenzioso in forme condivise di resistenza. Non si trattò solo di atti collettivi organizzati, come la ferma opposizione alle perquisizioni invasive, fu una “resistenza mentale” e si potrebbe aggiungere: affettiva. In quella cella di due metri per uno, solo lo spioncino era un’apertura sul mondo, ma da quella breccia passava la voce dell’incitarsi l’una con l’altra a organizzare “cose”, come lezioni di storia e scambi di ricette, per occupare un tempo che sarebbe caduto nel vuoto di quelle mura costrittive. Il silenzio della solitudine carceraria fu invertito in atteggiamenti di resistenza, come ricordare – a voce forte – il proprio passato famigliare e politico e anche ridere dei propri aguzzini: un disperato atto della coscienza che proclama la propria identità. Anche le “cose”, in quello spazio minimo, erano recuperate per ritrovare dignità: un osso trovato nella minestra si trasformava in un ago o in un frammento di materia da lavorare fino a essere trasformata in un ciondolo, un rametto di scopa o i denti d’un pettine potevano servire quali aghi di un primitivissimo telaio, un pezzo di sapone era un oggetto sul quale scrivere o che poteva essere trasformato in gesso, per scrivere sulla lamiera della porta trasformata in lavagna. Esploravamo in continuazione il deserto che ci circondava per scoprirvi un pezzo di filo che ci permettesse di lavorare o una qualunque fessura che ci permettesse di ampliare le nostre comunicazioni.8

Il silenzio, in chi ha vissuto la violenza delle dittature, non porta mai all’oblio. È una fase di recupero di sé, per capire cosa è successo in tempi di

oscurità. Come il buio desidera la luce, così il silenzio desidera la narrazione per un rimosso collettivo che ha scritto invece pagine di storia indelebili nel corpo e nello spirito di migliaia di persone. Potremmo citare altri mille silenzi che attendono di essere compiuti in un racconto risolutivo, come nel caso delle stragi – a Milano, Bologna, Brescia, Gioia Tauro, Ustica ecc. – che colpirono l’Italia negli “anni di piombo”, sulle quali i silenzi si rincorrono, mentre la verità ultima non si trova mai, oppure casi come l’assassinio della giornalista Ilaria Alpi (1994) a Mogadiscio. Forse, per rompere i silenzi della storia occorrono congiunture di eventi, consapevolezze su più fronti, da quelli culturali a quelli politici e la resistenza di piccoli gruppi che nel silenzio del loro lavoro quotidiano di ricerca attendono l’occasione per romperlo e capovolgerne uno più grande, fatto di omertà, questa volta da fendere con le parole. La resistenza “privata” Tutti i totalitarismi impongono un ripiego dentro l’interiorità. Da questo spazio dell’“io”, tuttavia, si può risorgere e trovare nel silenzio forza ed energia per resistere e preparare azioni per cambiare. La devotio privata ugonotta del XVIII secolo francese ne è un interessante esempio. Quando Luigi XIV revocò, nel 1685, l’editto di Nantes (1598) che permetteva ai protestanti il diritto di esistenza, chi non poteva emigrare verso la Svizzera e i Paesi Bassi, per forza dovette accettare di rientrare nei ranghi del cattolicesimo, mandando i figli al catechismo papista. Tuttavia, nonostante le persecuzioni (le donne erano imprigionate nel grande maniero della Torre di Costanza ad Aigues Mortes, presso le malsane foci del Rodano, gli uomini mandati sulle galere a vita o, se ministri di culto, subito eliminati), soprattutto le donne coltivarono ancora la fede di Calvino nelle loro case, confutando la notte ciò che il prete aveva inculcato di giorno alle giovani menti. La lettura della Bibbia, inoltre, quotidiana e continuativa, era praticata, in segreto e in silenzio, da tutte le famiglie della Religione Pretesa Riformata. Fu nel silenzio del Désert, come fu detto questo periodo difficile, che risorse la chiesa protestante francese. La devotio privata scatenò dapprima il profetismo che incitava alla resistenza contro i vescovi e il re, poi la guerriglia dei Camisards a inizio Settecento, infine, le Assemblee clandestine che lentamente riportarono i protestanti francesi alla luce del sole, fino alla loro emancipazione nel 1787. Fu una modalità di resistenza che privata, nel senso di vietata, si trasformò in privata nel senso di opposta a ciò che il potere pubblico reclamava.

Le rivoluzioni con il silenzio Altre rivoluzioni sono iniziate con il silenzio, non ultima la “Primavera araba” che coinvolse quasi tutti i paesi della sponda del Mediterraneo non europeo. Tutto cominciò con la protesta del fruttivendolo tunisino Mohamed Bovazizi che si diede fuoco per protestare contro il sequestro della propria merce da parte della polizia: un gesto drammatico, covato chissà quante volte nel silenzio fino al momento in cui la rabbia per un sopruso continuativo non poté più essere trattenuta. Come un fiammifero può bastare per incendiare un intero bosco, il suo urlo nel silenzio, da quel 17 dicembre 2010, si propagò per tutto il bordo sud del Mediterraneo. Nel giro di un anno, caddero capi di stato come Gheddafi, Ben Ali, Mubarak… È in Egitto, tuttavia, che prese forma “una nuova società in miniatura, seme di quella che s’intendeva affermare nell’intero paese” su una piazza che diventerà il simbolo della primavera egiziana: “il piccolo stato di Tahrir”9. Su quella piazza furono più i gesti che le parole a cambiare le cose. Fu un silenzio animato da un nuovo stile di vita a parlare. Fu l’organizzazione di una diversa quotidianità, accompagnata da parole nuove, che si ergeva contro la dittatura. Ben descrive questo muoversi della “gente di Tahrir”, Elisa Ferrero in filo diretto ogni giorno: Negli spazi verdi della piazza si sono piantate tende, dove poter riposare o immagazzinare viveri, coperte e medicine. Si sono installati ospedali da campo, gestiti da medici volontari. Sono stati allestiti punti internet… si sono eretti palchi per i discorsi e gli spettacoli di musica, con un grande schermo sul quale proiettare i notiziari televisivi. Si sono costruite toilettes e si sono riservati spazi appositi per i bidoni della spazzatura, effettuando persino la raccolta differenziata. Esisteva addirittura la tenda di un barbiere, dove era possibile farsi tagliare i capelli…10 Se al Cairo prendeva forma “il piccolo stato di Tharir”, da Alessandria d’Egitto partì un altro modo di far sentire la propria presenza. Erano in molti, vestiti di nero, uno accanto all’altro, muti, con un cartello in mano con scritto: siamo tutti Kaled Said, torturato e ucciso da due poliziotti grazie alle leggi d’emergenza (7.06.2010). Composero una fila lunghissima che fece tutt’uno, come scogli improvvisamente emersi dalle acque, con la passeggiata a mare della città, imponendo un silenzio dissenziente fortissimo, presto imitato da altre città egiziane e del Medio Oriente. Queste “catene del silenzio” diventarono un’arma affilata di denuncia, specie dopo aver perso la fiducia in un dialogo ormai divenuto impossibile con il potere costituito che aveva

violato i diritti umani. È sempre così, quando l’avversario è sordo a ogni mediazione. Di conseguenza, si tace. Solo s’impone la propria presenza fisica che ingombra, ma non può essere ignorata. L’offerta al pubblico spazio del proprio corpo silente e accusatore fu anche un’opzione vincente per le Madres de Plaza deMayo11. Il 30 aprile 1977, quattordici donne si ritrovarono sulla piazza principale di Buenos Aires (Argentina). Da mesi, molte di loro pellegrinavano fra commissariati e uffici alla ricerca di informazioni sui propri figli desaparecidos. Per salvarsi dalle menzognere parole che erano loro rivolte, Azucena Villaflor de Vincenti, incitando le compagne di sventura, disse: “Basta, andiamo a Plaza de Mayo”. E così, in cerchio, nel silenzio più assoluto – sul cuore le foto di figli e figlie –, il movimento, diventato simbolo della lotta non violenta alla dittatura argentina, crebbe di giorno in giorno, quando, ogni giovedì, altre donne si univano alla protesta silenziosa. Quando ci si astiene dalla parola, quando si sceglie solo lo sguardo per dire, quando non si perde la speranza per un futuro di verità e si tocca il fondo dell’incomunicabilità umana con l’avversario politico, solo il silenzio ridiventa azione che impone la presa in considerazione dell’essere umano. I resistenti del silenzio Il silenzio presuppone sempre momenti o stati di resistenza. Non si tratta, o meglio, non solo, di resistenza intesa in chiave psicanalitica (resilienza). Le rivoluzioni sono state sempre precedute e intercalate da fasi, o momenti di silenzio individuale e collettivo. Il cambiamento per cui si lotta va pensato, ruminato, consolidato anche nelle soggettività individuali, almeno nelle più consapevoli, per ritrovare motivazioni all’agire. Nella storia, tuttavia, non ritroviamo solo rivoluzioni, bensì molti atti di resistenza individuali, mossi nel silenzio, che testimoniano la piena opposizione del soggetto alle condizioni di vita che sta vivendo o alle accuse di cui è oggetto, o, infine, all’impossibilità, come abbiamo visto, di instaurare un dialogo con il proprio accusatore. Da Margherita Porète12, che rifiutò, nel 1309, di rispondere ai giudici che l’accusano di eresia perché capisce di essere entrata in un gioco di potere più grande di lei, a Nicola Sacco13 che preferì lasciar parlare il compagno di sventura, Bartolomeo Vanzetti, bruciato con lui come anarchico il 23 agosto 1927 per un delitto che non avevano commesso, possiamo recuperare una densa tradizione di resistenti del e in silenzio. Anche Todorov la racconta, attraverso otto biografie che hanno coltivato nel silenzio la loro resistenza all’oppressore e, nello stesso tempo, non sono cadute preda della

vendetta e dell’odio: Etty Hillesum, che preferì la deportazione all’esilio, l’irriducibile antinazista Germaine Tillion, gli scrittori russi Pasternak e Solzenicyn, i difensori dei neri Nelson Mandela e Malcom X, infine, il pacifista israeliano David Shulman e l’informatico Edward Snowden che svelò lo spionaggio degli Usa. Ognuno di loro ha cercato di ristabilire il legame profondo fra ricerca della verità e democrazia, per ricomporlo attraverso “atti morali individuali che diventano elementi della vita politica”14. Il loro silenzio a un certo punto irrompe sulla scena pubblica come pratica politica di una reazione che si oppone alle modalità oppressive radicate in una società. Molti altri esempi si potrebbero fare. La Storia contiene tanti piccoli gesti di resistenza silenziosa con un significato di profonda alterità rispetto a quell’ambiente esterno che preme dolorosamente sulle coscienze. Quando intorno a sé si respira aria d’illibertà solo il silenzio mantiene alta la dignità personale. E spesso, proprio da questo serbatoio di silenzio, apparentemente remissivo, e che a occhi esterni appare una sconfitta, nasce la forza per cambiare le cose. Il silenzio della cittadinanza interiore È necessario, in altre parole, nelle situazioni più difficili, sia per gli individui che per le collettività, un momento di pausa, un movimento di sguardo interiore, quel momento di silenzio che fa riconoscere in noi stessi la forza di voler essere cittadino, cioè protagonista del piccolo tempo storico che ci è dato, a partire di “lì”, nel grande o piccolo spazio relazionale che ognuno abita. È la cittadinanza interiore15, uno stretto legame fra diritto e consapevolezze profonde dentro la propria interiorità, dove permangono frontiere aperte al cambiamento fra sé e gli altri: La Cittadinanza interiore è la capacità di vivere il proprio valore su due piani, quello della Storia e quello dell’individuo (uomo e donna): sul piano pubblico, nel quale la democrazia è un diritto sancito istituzionalmente e sul piano soggettivo, in cui la democrazia diventa una modalità relazionale. Soltanto nella reciproca interdipendenza le due dimensioni assumono un armonico sviluppo, ai fini di una democrazia sostanziale.16

Per scoprire e alimentare la propria cittadinanza interiore è necessario il silenzio, attraverso il quale contenere se stessi e scendere nella consapevolezza della propria originalità, affinché i propri atti acquisiscano autorevolezza e autenticità. Il silenzio è discrezione, il cui significato indica il mettersi a lato, separarsi da, restare in un piccolo luogo d’intimità. Entrare nella discrezione non implica uscire dal mondo, quanto piuttosto lasciarsi ispirare dall’incitamento biblico a esserci senza aderirvi: “se foste del mondo, il mondo amerebbe quello che è suo: siccome non siete del mondo, ma io ho

scelto voi in mezzo al mondo, per questo il mondo vi odia” (Giov.15, v.19). Scegliere la discrezione significa “amare una solitudine popolata, aperta, rivolta verso l’altro, vuol dire già resistere all’ordine totalitario. Forse è perfino l’esperienza inaugurale di ogni resistenza al totalitarismo”17. Essere centrati in se stessi nel silenzio permette di aprire sconnessure nel muro di parole vuote di oggi e ritrovare una concatenazione di significati negli eventi intorno a noi, la consapevolezza cioè che sussiste una relazione fra le singole possibili esperienze. Un tempo si attingeva a riserve storiche di senso, elaborate da istituzioni come chiesa e stato, che sgravavano così l’individuo dalla responsabilità di capire. Oggi ognuno fa da sé. Tuttavia, chi non parla con se stesso, non s’interroga, chi non ha interiorizzato lo stile democratico nella relazionalità ha perso l’abitudine a riconoscere il bene dal male e il lecito dall’illecito. Tutto diventa possibile in nome del proprio bisogno. Il silenzio come forza politica di resistenza Dove trovare oggi una pratica del silenzio che non sia segregante? Quali sono i momenti di un silenzio pensante? Come evitare che ridiventi uno spazio sacro separato dalla quotidianità? Il silenzio si pratica oggi in luoghi particolari (studio psicanalitico, ritiro spirituale…) che rievocano l’antica separazione fra sacro e profano dove il sacro lascia il posto al silenzio. Perché non introdurlo nella vita quotidiana per un suo percorso sulla via della secolarizzazione? Se il silenzio si trasforma in un nuovo spazio di santità non dà fastidio a nessuno, si autoemargina, non trasforma la quotidianità che ha bisogno di gesti minimi ma continuativi per produrre cambiamenti anche radicali, proprio come la goccia d’acqua che scava la roccia. Dove, dunque, insinuarlo o pretenderlo? Che alleanze stabilire fra isole di silenzio? Come far entrare il silenzio in una nuova morale della convivenza? Come proporre una calligrafia del silenzio? Il silenzio, come abbiamo visto, può essere positivo o negativo. Bisogna decifrare molto bene il contesto in cui si propone, la fase storica e l’obiettivo, il silenzio necessita delle consapevolezze contenute nella cittadinanza interiore. Quando finisce il silenzio? Quando interromperlo? Dove manifestarlo? È possibile nelle società occidentali? L’utopia del silenzio porta a proiettarsi verso un futuro nuovamente immaginato e dentro un cambiamento sperato. Da dove cominciare per attuare il silenzio come forza politica di resistenza? Queste domande non conducono a risposte definitive. Fra i percorsi possibili (anche la creatività individuale e collettiva ne lascia suggerire diversi!), cercheremo pertanto di indicarne alcuni, nella

quotidianità di ognuno di noi, affinché il silenzio ne diventi parte integrante, come una vera e propria dimensione di vita. Il gesto di ogni giorno, infatti, crea abitudini alla psiche che, nell’esperire le emozioni, non sa oltrepassare i confini della nostra prossimità. Un primo percorso potrebbe essere proporre agli ambiti educativi, dalla scuola alle varie occasioni in cui si pratica “formazione”, occasioni di scoperta del silenzio, per adulti e bambini. Per esempio, perché non introdurre nelle scuole dell’obbligo, sotto forma di gioco18, alcune posizioni yoga o tecniche di respirazione per iniziare la giornata e aiutare a concentrarsi? Diffondere la “pedagogia del silenzio” è un obiettivo anche dell’Accademia del silenzio che ha dato luogo, fra le altre iniziative, anche alla collana di taccuini di cui questo piccolo scritto è parte. A tutti i suoi testi, dunque, rimandiamo per un approfondimento in merito. Un secondo percorso riguarda l’ascolto della poesia. L’opera di Titos Patrikios, per esempio, testimonia come “in certi frangenti storici la poesia sia un’urgenza non dilazionabile, una necessità espressiva di cui una società non può fare a meno”19. Questo poeta greco, nato nel 1928 ad Atene, oggi novantenne, ha vissuto la resistenza antitedesca, la guerra civile greca (1945–49) e il confino (1951-54) in alcune isole del suo paese. La sua poesia riavvia i linguaggi dimenticati dell’anima per recuperare brandelli di verità e coerenza fra parola e realtà. La stessa ricerca appartiene anche a quattro poetesse egiziane, che con il gruppo “Un sé per le poetesse”20, con le loro liriche, in arabo classico e dialetto, mentre nel Medio Oriente ribolle il conflitto armato, lanciano il loro messaggio di pace con la poesia, parlando dei silenzi nel mondo, delle voci dimenticate, anche quelle dentro di noi, della privazione della libertà e del dolore per tutte le guerre. Lo spirito poetico, momento di riconciliazione, cura la bulimia di parole che non spiegano più nulla. I neretti delle strofe poetiche sono zampilli di silenzi che irrompono nella ritrovata pregnanza del dire. Un terzo percorso, infine, è “l’andare per silenzi”21, dando loro voce in un cammino, anche fisico, che imponga il ritiro dal suono per scoprire cosa la natura ha da dire. Così l’acqua delle cascate e dei piccoli rivi, i canti dei volatili, gli alberi (che ricordano l’albero genealogico), le rocce lasciano cadere le loro note dentro di noi, evocano cioè ex vocano, “chiamano da”. Basta sedersi e guardare lontano, magari attraverso quel foliage autunnale, evocato da Duccio Demetrio22. Il silenzio come disobbedienza civile non violenta

Nel nostro ragionare siamo partiti dalla relazione fra silenzio e parola, fra silenzio della rabbia (accumulata nella quotidianità a causa di tanti piccoli atti che negano la cittadinanza democratica) e ricerca del pensare, sempre più difficile perché soffocata da un clima generalizzato di rumore che impedisce la consapevolezza di essere. Abbiamo proseguito cercando un varco nelle nebbie delle atmosfere confuse della convivenza di oggi per mettere a fuoco i germi del totalitarismo, ispirati da Zambrano e Arendt. Ci siamo inoltrati nella storia per individuare tradizioni del silenzio, l’una legata al dolore dell’inenarrabile, l’altra alla resistenza di chi ha creduto in un cambiamento possibile sulla via delle libertà. Infine, abbiamo proposto il silenzio come alimento per la costruzione di una cittadinanza interiore che ambisca a ristabilire un nesso inscindibile fra verità e democrazia. Infatti, il silenzio è già cambiamento, presupposto indispensabile per ridare fiato primigenio alle parole sconnesse dal loro significato in vista di un’emancipazione personale e collettiva. Il silenzio è mutamento invisibile che prepara il visibile, perché: “la sensibilità per tutto ciò che è discosto e appartato, l’odio per la banalità, la ricerca di ciò che non è ancora consunto, di ciò che non è stato ancora assorbito dallo schema generale, è ancora l’ultima chance del pensiero”23. Per attivare l’energia del silenzio come forza politica di resistenza e come modalità non violenta di lotta civile perché non proporre, per esempio, campagne di massa di “astensione da”: dalla tv, dal turismo invasivo, dal vociare ad alta voce, dall’esposi in prima fila…? Perché non reintrodurre nelle scuole l’educazione civica come disciplina fondante? Perché invece di corsi di autostima non optare per corsi di pensiero critico di lettura di “sintomi” storici? Tuttavia c’è ancora un’altra dimensione che il silenzio svela e che, se resa abitudine, aiuta, proprio come fecero, nel deserto, i padri e le madri del primo cristianesimo, a essere dove si è, a parlare con se stessi per scoprire dimensioni spirituali profonde. La vita di oggi è simile a quel deserto antico, certo non simile per il silenzio qui perduto e là ritrovato, tuttavia simile perché là come qua s’ingaggia una lotta per la comprensione della radice umana, fatta di limite e precarietà, caratteristiche che non si possono nascondere, neanche con il rumore delle parole. 1 A. Prosperi, Se una legge vuol punire chi cancella la Shoah, “Micromega”, 30.10.2013; S. Levi Della Torre, 6 ragioni per non punire il negazionismo, “kolòt.it”, 21.01.2011. 2 J. Semprún, La scrittura o la vita, Guanda, Parma 1994, p. 19. 3 S. Natoli, L’esperienza del dolore, Feltrinelli, Milano 1999, p. 7. 4 D. Wardi, Le “candele della memoria”. I figli dei sopravvissuti dell’Olocausto: traumi, angosce, terapia, Sansoni, Milano 1994. 5 B.Peyrot, Il Matto della Resistenza. Trasmissione intergenerazionale di un’idea, Claudiana,

Torino 2012, p. 103. 6 Il fim del 1973, diretto da Franklin Schaffner, è in remake nel corso del 2017 diretto da Michael Noer, con Charlie Hunnam e Rami Malek al posto di Steve McQueen e Dustin Hoffman. 7 N.V. Berti, Donne ai tempi dell’oscurità. Voci di detenute politiche nell’Argentina della dittatura militare, SEB Edizioni, Torino 2009. 8 Ivi, p.117. 9 E. Ferrero, Cristiani e musulmani, una sola mano, Emi, Bologna 2012, p.12. 10 Ibidem. 11 M. Carlotto, Le irregolari, E/O, Roma 1999. 12 M. Benedetti, Condannate al silenzio. Le eretiche medievali, Mimesis, Milano 2017, p.35. 13 L. Tibaldo, Sotto un cielo stellato. Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Claudiana, Torino 2008. 14 Tz. Todorov, Resistenti, Garzanti, Milano 2015, p.31. 15 B. Peyrot, La cittadinanza interiore, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2006. 16 Ivi, pp. 147-148. 17 P. Zaoui, L’arte di scomparire, Il Saggiatore, Milano 2015, p.101. 18 E. Furlan, Giochiamo con lo yoga, Edizioni Mediterranee, Roma 1991. 19 F. Pontani, Introduzione in T. Patrikios, La Resistenza dei fatti, Crocetti, Milano, 2007, p.11. 20 E. Ferrero, Kushari, cit., p.151. 21 F. Michieli, Andare per silenzi, Sperling & Kupfer, Milano 2018. 22 D. Demetrio, Foliage. Vagabondare in autunno, Cortina, Milano 2018. 23 Th.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi, Torino 1979, p.70.

ACCADEMIA DEL SILENZIO Collana diretta da Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot 1 Duccio Demetrio, I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa silenzio 2 Polla-Mattiot, Pause. Sette oasi di sosta, sull’orizzonte del silenzio 3 Franco Loi, Il silenzio 4 Giovanni Gasparini, C’è silenzio e silenzio. Forme e significati del tacere 5 Giampiero Comolli, Una luminosa quiete. La ricerca del silenzio nelle pratiche di meditazione 6 Stefano Raimondi, Portatori di Silenzio 7 Carlo Sini, Il gioco del silenzio 8 Marco Ermentini, La piuma blu. Abecedario dei luoghi silenti 9 Emanuele Ferrari, Ascoltare il silenzio. Viaggio nel silenzio in musica 10 Marcello Cesa-Bianchi, Una tacita cura. Il silenzio nel rapporto medico-paziente 11 Emanuela Mancino, Il segreto all’opera. Pratiche di riguardo per un’educazione del silenzio 12 Francesca Rigotti, Metafore del silenzio 13 Angelo Andreotti, Il silenzio non è detto. Frammenti da una poetica 14 Daniela Finocchi, Geo-grafie del silenzio 15 Raffaele Milani, I paesaggi del silenzio 16 Alberto Fabio Ambrosio, Silenzio profetico. In ascolto mistico dell’Islam 17 Antonio Ria, Lalla Romano: «Solo il silenzio vive» 18 Gian Piero Quaglino, Sul buon uso del silenzio 19 Duccio Demetrio, Silenzi d’amore. Scrivere i sentimenti taciuti 20 Barbara Rossi (a cura di), Sognare tra le mura. Silenzi che si fanno parole 21 Luca Serenthà, Silenzi in montagna 22 Paolo Biscottini, L’immagine diario del silenzio 23 Giorgio Ieranò, Luigi Spina, Antichi silenzi 24 Gigliola Foschi, Le fotografie del silenzio. Forme inquiete del vedere 25 Marilia Albanese, Tacita-mente 26 Gianni Gasparini, Silenzi e colori della natura 27 David Le Breton, Sovranità del silenzio 28 Laura Falqui, La sostanza nascosta. Il silenzio nella pittura 29 Giuliano Boccali, Il silenzio in India. Un’antologia 30 Paolo Anselmi, Cercatori di silenzio. Le motivazioni, le esperienze, le emozioni di chi ama e pratica il silenzio 31 Clara Rota, Carta bianca. Il silenzio di una passione 32 Marina Benedetti, Condannate al silenzio. Le eretiche medievali 33 Maria Giovanna Garuti, Parole, silenzi e non-detti nelle organizzazioni 34 Antonio Piva, Il silenzio e lo spazio 35 Nicolò Terminio, Tradurre dal silenzio. La psicoanalisi come esperienza assoluta 36 Gian Luca Barbieri, Silenzio e musica rock 37 Clara Piacentini, Una farfalla con le stampelle. Correre nel silenzio 38 Sergio Daniele Donati, “E mi coprii i volti al soffio del silenzio” 39 Vincenzo Vitale, L’esperienza giuridica del silenzio