Politica economica. Le politiche nel nuovo scenario europeo e globale. Ediz. ampliata 8892119370, 9788892119376

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Politica economica. Le politiche nel nuovo scenario europeo e globale. Ediz. ampliata
 8892119370, 9788892119376

Table of contents :
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Quartino
Indice
Introduzione
Introduzione alla prima Edizione (2015)
Parte prima - Modelli, teorie e politiche
Capitolo 1 - Economia politica e politica economica.
I modelli macroeconomici
Capitolo 2 - Teoria della politica economica
Capitolo 3 - Tipologia delle politiche economiche
Capitolo 4 - Le politiche economiche keynesiane
Capitolo 5 - L’intervento pubblico in economia:
teorie ed evidenze empiriche
Parte seconda - Patologie e ruolo delle politiche economiche
Capitolo 6 - Disoccupazione e mercato del lavoro
Capitolo 7 - I monetaristi ed il dibattito sulle politiche di stabilizzazione
Capitolo 8 - Inflazione e politiche disinflazionistiche
Capitolo 9 - Le aspettative razionali e la credibilità
delle politiche economiche
Parte terza - Politica monetaria e politica fiscale
Capitolo 10 - La politica monetaria: obiettivi, strategie e teorie sul central banking
Capitolo 11 - La politica fiscale, la sostenibilità del debito
pubblico e le politiche di rientro
Capitolo 12 - Politiche macroeconomiche in economia aperta
Parte quarta - L’economia mondiale: crescita e globalizzazione
Capitolo 13 - Crescita e sviluppo nel mondo
Capitolo 14 - Globalizzazione e politiche commerciali
in economia aperta
Parte quinta - L’integrazione economica europea
Capitolo 15 - Il processo d’integrazione nell’UE: dall’unione doganale al mercato unico. Il bilancio dell’UE
Capitolo 16 - Il Trattato di Maastricht
e la “Unione economica e monetaria” europea
Parte sesta - Le politiche economiche nell’Eurozona
Capitolo 17 - La Bce e la politica monetaria europea
Capitolo 18 - Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact
Capitolo 19 - La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona
e le risposte dell’UE
Parte settima - I problemi dell’economia italiana
Capitolo 20 - La lenta crescita e i problemi strutturali
dell’economia italiana
Capitolo 21 - Politiche per l’occupazione e la crescita
in Europa ed in Italia
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Politica economica Le politiche nel nuovo scenario europeo e globale

ENRICO MARELLI MARCELLO SIGNORELLI

Politica economica

Le politiche nel nuovo scenario europeo e globale Seconda edizione

G. Giappichelli Editore

© Copyright 2019 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-1937-6

ISBN/EAN 9788892181199 (ebook)

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

Indice

pag. Introduzione Introduzione alla prima Edizione (2015)

XI XIII

Parte Prima

Modelli, teorie e politiche 1.

Economia Politica e politica economica. I modelli macroeconomici

1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. 1.6.

La Politica economica ed i modelli dell’economia politica La croce keynesiana Il modello IS-LM Il modello AD-AS Le aspettative e l’equilibrio di medio periodo Gli shock e le risposte di politica economica

2.

Teoria della politica economica

2.1. 2.2. 2.3. 2.4. 2.5. 2.6.

Obiettivi e strumenti della politica economica Modelli economici positivi e normativi Soluzione dei modelli di politica economica con obiettivi fissi Obiettivi ottimi e funzione di perdita Soluzione dei problemi con obiettivi ottimi e preferenze del policymaker Aspetti teorici e pratici inerenti le scelte di politica economica

3.

Tipologia delle politiche economiche

3.1. 3.2. 3.3. 3.4.

I fini di politica economica e le principali politiche Le politiche redistributive Le politiche strutturali L’intervento pubblico in economia ed i rapporti tra Stato e mercato

4.

Le politiche economiche keynesiane

4.1.

La scuola classica e quella neoclassica

3 5 6 8 11 14

19 22 23 25 27 29

33 35 38 40

45

VI

Indice

pag. 4.2. 4.3. 4.4. 4.5. 4.6.

La “rivoluzione” keynesiana La Grande Depressione ed il pensiero keynesiano Implicazioni della teoria keynesiana per la politica economica Caratteristiche delle politiche economiche keynesiane Le diverse scuole keynesiane

5.

L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

5.1. 5.2. 5.3. 5.4. 5.5.

Fallimenti del mercato ed intervento pubblico Teorie sull’espansione secolare del settore pubblico La scuola di “public choice” e la “supply-side economics” L’arresto dell’espansione del settore pubblico Il peso del settore pubblico: evoluzione e confronti

47 50 53 54 58

63 65 67 74 76

Parte Seconda

Patologie e ruolo delle politiche economiche 6.

Disoccupazione e mercato del lavoro

6.1. 6.2. 6.3. 6.4. 6.5. 6.6. 6.7. 6.8.

Disoccupazione, ciclo e crescita Indicatori del mercato del lavoro La legge di Okun: il legame tra disoccupazione e reddito Disoccupazione frizionale e strutturale Disoccupazione, rigidità nel mercato del lavoro ed eurosclerosi I modelli insider-outsider, i salari d’efficienza e la teoria dell’isteresi Costo del lavoro, salari e produttività L’evoluzione delle istituzioni del mercato del lavoro

7.

I monetaristi ed il dibattito sulle politiche di stabilizzazione

7.1. 7.2. 7.3. 7.4. 7.5. 7.6. 7.7. 7.8.

La scuola monetarista ed il dibattito con i keynesiani I casi keynesiani estremi Il caso monetarista estremo e la teoria quantitativa della moneta La politica monetaria, secondo keynesiani e monetaristi La politica fiscale, secondo keynesiani e monetaristi Moneta, titoli e ricchezza I ritardi di politica economica e la permanenza degli effetti nel tempo Le politiche di stabilizzazione: efficacia, obiettivi, regole e discrezionalità

8.

Inflazione e politiche disinflazionistiche

8.1. 8.2. 8.3. 8.4.

Inflazione: costi e benefici La curva di Phillips ed i tipi di inflazione La visione monetarista e l’assenza di trade-off nel lungo periodo Le politiche disinflazionistiche: il ruolo della moneta

85 89 94 96 98 100 103 105

109 112 115 117 121 124 126 130

135 137 140 145

Indice

VII pag.

8.5. 8.6. 8.7.

La politica dei redditi e la contrattazione salariale Effetti delle rigidità di prezzo: la Nuova Economia Keynesiana Le iperinflazioni ed il fiscal drag

9.

Le aspettative razionali e la credibilità delle politiche economiche

9.1. 9.2. 9.3. 9.4. 9.5. 9.6. 9.7. 9.8.

La Nuova Macroeconomia Classica Le aspettative razionali L’offerta à la Lucas ed effetti reali degli errori previsivi Implicazioni di politica economica e la “critica di Lucas” L’equivalenza ricardiana Il ruolo dell'interdipendenza strategica La time inconsistency della politica economica Credibilità, regole ed istituzioni

147 150 153

159 162 165 171 175 178 180 184

Parte Terza

Politica monetaria e politica fiscale 10.

La politica monetaria: obiettivi, strategie e teorie sul central banking

10.1. 10.2. 10.3. 10.4.

L’indipendenza delle banche centrali Obiettivi finali di politica monetaria Obiettivi intermedi, strategie di politica monetaria e signoraggio Strumenti di politica monetaria e la regola di Taylor

11.

La politica fiscale, la sostenibilità del debito pubblico e le politiche di rientro

11.1. 11.2. 11.3. 11.4. 11.5. 11.6. 11.7.

Politica fiscale e disavanzi pubblici Disavanzo, debito e “premi al rischio” La sostenibilità del debito pubblico Debito pubblico e politiche di rientro: il caso italiano Finanziamento monetario, tassi d’interesse e politica di gestione del debito Avanzi primari, crescita reale e gradualità dei consolidamenti fiscali Normativa sul bilancio pubblico in Italia e documenti programmatici

12.

Politiche macroeconomiche in economia aperta

12.1. 12.2. 12.3. 12.4. 12.5.

Bilancia dei pagamenti e regimi di cambio Il Gold standard, il regime di Bretton Woods e le sue istituzioni Politiche macroeconomiche in economia aperta Politica fiscale e politica monetaria in economia aperta (Mundell-Fleming) Politica monetaria e relazioni finanziarie internazionali

189 193 196 200

203 207 211 213 215 218 221

225 229 232 236 241

VIII

Indice

pag.

Parte Quarta

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione 13.

Crescita e sviluppo nel mondo

13.1. 13.2. 13.3. 13.4.

Crescita e sviluppo secondo una prospettiva storica Problemi e politiche per lo sviluppo Indicatori dello sviluppo e delle disuguaglianze I Bric: crescita, struttura e politiche di quattro economie emergenti

14.

Globalizzazione e politiche commerciali in economia aperta

14.1. La globalizzazione: fasi storiche e driver 14.2. Liberalizzazioni, finanziarizzazione e “global imbalances” 14.3. L’internazionalizzazione delle imprese e gli effetti della globalizzazione sui paesi maturi 14.4. Evoluzione del commercio mondiale 14.5. Teorie degli scambi internazionali e politiche commerciali 14.6. Politiche commerciali: strumenti ed evidenze 14.7. Gli organismi internazionali (Gatt e Wto) e gli accordi su scala regionale

249 254 259 265

269 274 277 282 285 288 290

Parte Quinta

L’integrazione economica europea 15.

Il processo d’integrazione nell’UE: dall’unione doganale al mercato unico. Il bilancio dell’UE

15.1. 15.2. 15.3. 15.4. 15.5.

La Cee e gli allargamenti successivi (fino alla Brexit) Le istituzioni dell’UE ed i successivi Trattati L’unione doganale, la politica della concorrenza e la politica di coesione Il Mercato Unico e le quattro liberalizzazioni Struttura ed evoluzione del bilancio UE

16.

Il Trattato di Maastricht e la “Unione economica e monetaria” europea

16.1. 16.2. 16.3. 16.4. 16.5. 16.6. 16.7.

Il Sistema Monetario Europeo Il Trattato di Maastricht ed i criteri di convergenza L’avvio dell’Unione monetaria europea Teoria delle aree valutarie ottimali: benefici e costi delle unioni monetarie Shock asimmetrici e possibili risposte di politica economica L’UE è un’AVO? Quale futuro per l’euro?

297 301 303 308 310

315 319 321 323 325 328 331

Indice

IX pag.

Parte Sesta

Le politiche economiche nell’Eurozona 17.

La Bce e la politica monetaria europea

17.1. 17.2. 17.3. 17.4. 17.5. 17.6. 17.7.

La Bce: organi e caratteristiche Il target d’inflazione ed i due pilastri della strategia monetaria Strumenti di politica monetaria ed il grado di attivismo della Bce Una valutazione basata sulla performance macroeconomica La dispersione dell’inflazione ed il tasso di cambio La crisi e le operazioni non convenzionali I nuovi organismi di vigilanza e l’unione bancaria europea

18.

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

18.1. 18.2. 18.3. 18.4.

Rischio di default e regole sui bilanci pubblici in un’unione monetaria Il “Patto di Stabilità e Crescita” prima della crisi La crisi e le nuove regole per l’Eurozona (Fiscal Compact) Politiche d’austerità e stagnazione: come uscirne?

19.

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

19.1. 19.2. 19.3. 19.4. 19.5. 19.6. 19.7.

La crisi negli Usa: i mutui subprime e lo scoppio della bolla La propagazione della crisi e la Grande Recessione Le risposte di politica economica nei vari paesi del mondo L’inizio della crisi dell’Eurozona e le caratteristiche dei “Piigs” L’evolvere della crisi e le incerte risposte dell’UE L’impatto economico-sociale della doppia crisi Riforme istituzionali e nuove politiche necessarie per superare la crisi e rendere sostenibile l’euro

337 341 343 347 349 353 359

363 366 368 372

377 379 382 384 387 390 395

Parte Settima

I problemi dell’economia italiana 20.

La lenta crescita e i problemi strutturali dell’economia italiana

20.1. 20.2. 20.3. 20.4. 20.5.

La crescita economica italiana: dal “miracolo economico” al progressivo declino L’impatto della lunga crisi nell’ultimo decennio Le principali determinanti: produttività, capitale umano ed innovazioni Modello di specializzazione, competitività e questione dimensionale Gli squilibri regionali ed i ritardi economici del Mezzogiorno

21.

Politiche per l’occupazione e la crescita in Europa ed in Italia

21.1. Riforme istituzionali e politiche per l’occupazione

403 408 411 416 421

425

X

Indice

pag. 21.2. L’Agenda di Lisbona e la strategia Europa 2020 21.3. Verso il 2020: i risultati conseguiti nell’UE ed i ritardi dell’Italia 21.4. Evoluzione della normativa sul lavoro in Italia

430 434 437

Bibliografia

443

Introduzione

La “Politica Economica” – tanto nell’impostazione teorico-metodologica quanto nelle sue applicazioni concrete – è più che mai al centro del dibattito accademico e politico, a causa di persistenti e nuovi problemi economici che, in un contesto internazionale mutevole e interdipendente, appaiono difficili da affrontare efficacemente e avviare a soddisfacente soluzione. È ormai passato oltre un decennio dallo scoppio della crisi finanziaria globale, seguita dalla Grande Recessione e poi dalla crisi dell’Eurozona. Le conseguenze economico-sociali di queste crisi sono tuttora gravi in alcuni paesi, anche a causa di errori di policy e inadeguatezze di governance; perfino nella fase di ripresa economica dell’ultimo quinquennio, si è riscontrata una eccessiva divergenza di performance fra i paesi europei. Il declino dell’economia italiana è antecedente e più preoccupante di quello medio europeo, ma la sua condizione attuale non si può comprendere senza approfondire attentamente il contesto di regole e istituzioni europee. A sua volta, il declino relativo del vecchio continente va valutato nel nuovo scenario globale caratterizzato da un ruolo crescente delle economie emergenti (la Cina in primis); in tale contesto la stessa globalizzazione è peraltro oggetto di ripensamenti – per come si è realizzata finora – in molti paesi. Questa seconda edizione, aggiornata ed ampliata, del libro, pur prendendo le mosse (come la precedente edizione) dai modelli economici di base e dalle teorie macroeconomiche sviluppate dalle principali scuole di pensiero, mantiene al minimo necessario la formalizzazione matematica (in genere limitata all’analisi grafica). Essa dedica invece la maggior parte dei capitoli all’illustrazione e discussione dei problemi economici concreti, afferenti all’economia mondiale, a quella europea ed infine a quella italiana; anche con l’ausilio di tabelle e grafici per presentare evidenze empiriche aggiornate. Le politiche economiche, nel “nuovo scenario europeo e globale”, sono presentate e discusse, anche con riferimento alle decisioni più recenti (fino ad includere, ad esempio, la fine del “quantitative easing” della Banca centrale europea, la fase tormentata della trattativa sulla Brexit, lo sviluppo delle politiche protezionistiche del Presidente Trump). Nel caso delle politiche europee non poteva mancare una valutazione dei limiti dell’attuale assetto istituzionale e delle politiche d’austerità, nonché una discussione delle prospettive di riforma necessarie per completare l’unione monetaria ed evitare così il rischio di un’eventuale disgregazione dell’Eurozona. Alla prima edizione di questo libro era stato attribuito – nel 2016 dalla Associazione Italiana del Libro – il “Primo Premio Nazionale di Editoria Universitaria” per l’area economicostatistica. Inoltre, tale edizione ha riscosso il favore di numerosi colleghi che la hanno adottata per i loro insegnamenti in diversi Atenei italiani. Auspichiamo che questa nuova edizione possa ancor meglio costituire un reale aiuto agli studenti universitari, per conseguire una adeguata conoscenza e capacità critica attorno alle tematiche di politica economica. Saremo grati ai colleghi che vorranno adottare questo libro

XII

Introduzione

come testo per i propri insegnamenti e, in particolare, rivolgiamo un ringraziamento anticipato a coloro che vorranno inviarci suggerimenti e critiche, contribuendo così a migliorare la prossima edizione. Per tutti i lettori che vorranno contattarci, ecco i nostri indirizzi email: [email protected] e [email protected]. ENRICO MARELLI MARCELLO SIGNORELLI Brescia e Perugia, 7 gennaio 2019

Indice

XIII

Introduzione alla prima Edizione (2015)

Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno messo gli economisti e, in particolare, la “politica economica” sul banco degli imputati: fatte salve alcune eccezioni, i primi non sono stati in grado di prevedere lo scoppio della crisi (compito di per sé arduo) mentre la politica economica non è parsa in grado, soprattutto nel contesto europeo, di prevenirne le manifestazioni più dirompenti (tramite un’adeguata regolamentazione e “governance”). Ancor peggio, è opinione diffusa che gli economisti non siano stati in grado di delineare persuasive risposte di politica economica che i “policymaker” potessero adottare per contrastare il persistere e gli effetti più dolorosi della crisi. Infatti, la lunga recessione che ha colpito l’Italia ed altri paesi europei dal 2008 in poi – con la crisi finanziaria, la Grande Recessione, la crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona e le politiche d’austerità – sta avendo tuttora pesanti conseguenze sul tessuto economico, occupazionale e sociale. La caduta del prodotto nazionale di circa un decimo, della produzione industriale di un quarto, il raddoppio del tasso di disoccupazione – con l’esplosione di quello giovanile – sono segni evidenti della grave e prolungata “stagnazione” che sta affliggendo l’Italia e diversi altri paesi europei. A quasi otto anni dall’avvio della crisi, con tali pessimi risultati macroeconomici nel nostro paese e non solo 1, appare evidente che le “politiche economiche” dei diversi livelli di governo (europeo, nazionale e regionale) e delle banche centrali sono state in qualche modo sbagliate o perlomeno inadeguate (come illustriamo in modo approfondito in questo volume). Oltre ai singoli economisti e “policymaker”, anche la “politica economica” intesa come disciplina è chiamata a “render conto” agli studiosi ed al pubblico più vasto (studenti in primis). Infatti, questa branca della scienza economica serve davvero se riesce a far comprendere quello che è successo (a cominciare dalle patologie sopra richiamate) ed a suggerire ai “policymaker” delle soluzioni ragionevoli e percorribili per migliorare significativamente lo stato del sistema. Naturalmente tali suggerimenti di policy non possono trascurare l’apporto di una solida base teorica, tanto più essenziale proprio al giorno d’oggi, quando la realtà è sempre più complessa e dominata dall’incertezza (anche quella interpretativa dei fatti), i sistemi economici nazionali sono fortemente integrati nell’economia globale, i sistemi produttivi (cioè l’economia reale) sono interconnessi con l’economia finanziaria, le stesse autorità di politica economica esercitano la propria azione a molteplici livelli che comunicano tra di loro in modo sovente farraginoso e lento rispetto alle dinamiche accelerate (soprattutto in tempo di crisi) delle forze del mercato su scala globale. Questo libro prende le mosse da una precedente opera dei due autori 2. Per quanto appe1 Il “caso Grecia” è tornato drammaticamente d’attualità proprio in questi giorni (mentre stiamo completando la scrittura del libro). 2 MARELLI-SIGNORELLI (2010b), Politica economica: teorie, scuole ed evidenze empiriche, Giappichelli, Torino, che a sua volta discendeva da un precedente lavoro di uno dei due autori: MARELLI E., Scuole macroeconomiche ed il dibattito di politica economica, Giappichelli, Torino (1a ed. 1992 e 2a ed. 1997).

XIV

Introduzione

na osservato, i modelli economici di base, la teoria della politica economica, le teorie dell’intervento pubblico e l’illustrazione delle principali scuole macroeconomiche (dalle scuole keynesiane a quella monetarista, a quella della Nuova Macroeconomia Classica) costituiscono l’imprescindibile pilastro concettuale di partenza. La contrapposizione tra scuole di pensiero è qui focalizzata sugli aspetti più rilevanti per le implicazioni di politica economica 3. Già nella parte iniziale del libro l’attenzione è prevalentemente rivolta alle principali patologie – disoccupazione, inflazione, debito pubblico – nonché alle precipue classificazioni delle diverse politiche economiche, da quelle macroeconomiche a quelle strutturali. La politica monetaria e quella fiscale sono presentate prima in modelli di economia chiusa poi in un contesto di economia aperta. La seconda parte del libro – completamente originale ed innovativa come approccio – è dedicata all’illustrazione e spiegazione dei problemi economici concreti afferenti all’economia mondiale, a quella europea ed infine a quella italiana. La globalizzazione, la crescita economica nel mondo e la dinamica dei paesi emergenti sono i primi temi trattati, accanto al ruolo giocato dalle politiche commerciali in economia aperta e dagli organismi internazionali. Diversi capitoli sono dedicati al processo d’integrazione economica europea, nei suoi diversi aspetti: unione doganale, politica della concorrenza, fondi strutturali, mercato unico, fino ad arrivare all’unione monetaria, di cui si esaminano le caratteristiche peculiari e si forniscono criteri di valutazione per giudicare la sua “ottimalità”, sostenibilità e prospettiva. Le attuali e recenti politiche economiche europee – quella monetaria della Bce e le regole europee riguardanti le politiche di bilancio (Patto di stabilità e crescita, Fiscal compact) – sono quindi presentate e discusse, anche con riferimento alle scelte di politica economica degli ultimi mesi (fino ad includere, ad esempio, il “Quantitative Easing” europeo definito ed avviato dalla Bce ad inizio 2015). Ovviamente, non poteva mancare una valutazione, anche critica, delle politiche conseguenti alla crisi finanziaria, alla Grande Recessione, alla crisi dei debiti sovrani nei paesi periferici dell’Eurozona, con particolare riferimento alle politiche d’austerità ed alla mancanza di una “visione lungimirante”, indispensabile affinché l’unione economica e monetaria possa rimanere vitale. In prospettiva, in attesa di un’evoluzione che possa condurre l’Europa (o almeno l’Eurozona) ad un’unione anche politica, una vera unione economica richiede una migliore “governance” in grado di favorire uno “sviluppo sostenibile” – sia sul piano economico-finanziario sia quello occupazionale e sociale – tale da contrastare (e possibilmente invertire) il grave rischio di un progressivo declino del continente europeo nel nuovo contesto globale. Infine, due sono gli argomenti principali che abbiamo investigato in relazione all’economia italiana: cause e caratteristiche del declino economico di lungo periodo (già ben evidente nel decennio precedente l’avvio della crisi); le politiche del lavoro italiane, esaminate nel contesto della strategia europea per l’occupazione e la crescita (Agenda di Lisbona, Europa 2020). In aggiunta all’enfasi posta sulla prospettiva storica, ritenuta essenziale anche per una migliore comprensione del funzionamento degli odierni sistemi economici, una caratteristica distintiva del volume è la considerazione esplicita dei legami esistenti tra teorie macroeconomiche ed implicazioni di politica economica. Inoltre, è esaltata la coniugazione delle basi teoriche e metodologiche con le analisi delle evidenze empiriche, condotte sulla base dei dati il più aggiornati possibile. 3 Molto materiale (in parte incluso nel volume precedente) è stato spostato sugli Approfondimenti on-line. Comunque anche questa prima parte del libro, oltre che aggiornata e semplificata, è stata interamente ristrutturata.

Indice

XV

La nostra speranza è che quest’opera possa fornire ai responsabili delle politiche economiche, agli studiosi ed in particolare agli studenti universitari (soprattutto dei corsi di laurea di Economia e Scienze Politiche) strumenti non solo validi per la comprensione di una realtà economica multiforme ed in continua evoluzione, ma che aiutino – almeno in prospettiva per quanto riguarda gli studenti – a suggerire e formulare delle politiche adeguate al “nuovo scenario europeo e globale”. ENRICO MARELLI MARCELLO SIGNORELLI Brescia e Perugia, marzo 2015

XVI

Introduzione

Parte Prima

Modelli, teorie e politiche

2

Modelli, teorie e politiche

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

1

3

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

1.1. La Politica economica ed i modelli dell’economia politica La scienza economica è tradizionalmente distinta in due rami: – l’economia politica, o ramo positivo della scienza economica, studia ciò che è, ossia il funzionamento di un sistema economico così come si presenta allo studioso, che cerca di proporre delle teorie; – la politica economica, o ramo normativo, studia ciò che dovrebbe essere, ossia cosa dovrebbero fare le autorità di politica economica (essenzialmente, governo 1 e banca centrale 2) per migliorare lo stato del sistema se ritenuto insoddisfacente in quanto affetto da patologie: recessione (o stagnazione), disoccupazione involontaria (soprattutto “disoccupazione di lunga durata”), povertà (assoluta e relativa) e iniqua distribuzione di reddito e ricchezza (e insufficiente mobilità sociale), inflazione (o deflazione), debito pubblico insostenibile, disavanzo persistente della bilancia commerciale (e/o dei pagamenti), etc. È questo approccio normativo quello prevalente nello studio della politica economica 3. La politica economica non può che trarre profitto dall'ancorarsi in modo stretto alle leggi (o teorie) dell’economia politica come pure alle investigazioni dei problemi economici del mondo reale. In realtà la stessa economia politica è definita come scienza empirica positiva, per cui, in aggiunta al necessario requisito della coerenza interna nel ragionamento logico-deduttivo (requisito enfatizzato nell'approccio “deduttivista”), è pure indispensabile che le teorie siano continuamente sottoposte al controllo empirico. Quest’ultimo implica non solo una valutazione ex-ante del grado di realismo delle ipotesi su cui si basano i modelli teorici, ma soprattutto 1 Anche se solitamente si usa il termine al singolare (con riferimento al “governo nazionale”), in molte economie coesistono diversi “livelli di governo” più o meno rilevanti; ad esempio, per l’Italia hanno rilevanza almeno i seguenti tre livelli di governo: nazionale, regionale ed europeo; pur in un contesto di rilevanti vincoli europei occorre tuttavia precisare che il livello di “governo nazionale” è nettamente quello quantitativamente più importante in termini di spesa pubblica e tassazione (rispettivamente, poco sopra e poco sotto il 50% del Pil). 2 Solitamente ogni paese ha la sua banca centrale, ma non è sempre così: ad esempio, per l’Italia e gli altri 18 paesi dell’Eurozona è la banca centrale europea ad essere il policymaker (per la politica monetaria). 3 Solo più avanti (cap. 5) faremo cenno anche all’approccio positivo alla politica economica, che studia il comportamento effettivo dell’autorità di politica economica (nel seguito identificata per semplicità come policymaker), soggetta a vincoli istituzionali, convinzioni teoriche e ideologiche, giudizi di valore, pressioni politiche e di lobbies, interessi particolari. È quest’ultimo approccio, sviluppatosi più di recente (a partire dagli anni ’70 del secolo scorso), che nella tradizione anglosassone è noto come political economy.

4

Modelli, teorie e politiche

una verifica empirica della capacità interpretativa e predittiva delle teorie economiche 4. È noto che l’economia politica si suddivide a sua volta in due filoni principali: – microeconomia, studio del comportamento e dell’equilibrio dei singoli agenti (consumatori, imprese, lavoratori) o di singoli mercati; quando si studiano le interazioni tra molti mercati si segue un approccio di equilibrio economico generale 5; – macroeconomia, studio degli aggregati (macrovariabili) e degli equilibri di interi sistemi economici 6. I modelli dell’economia politica cercano di rappresentare in modo semplificato gli aspetti fondamentali della realtà di un sistema economico: la rappresentazione è più coerente e precisa se effettuata attraverso relazioni matematico-quantitative. I modelli economici positivi cercano di rappresentare la realtà economica attraverso sistemi di equazioni, che contengono relazioni tra variabili. Altri criteri di scelta dei modelli teorici – oltre alla necessità di una loro validazione attraverso il controllo empirico – concernono la loro semplicità ed il loro grado di realismo, due requisiti in apparente contraddizione tra di loro. Ogni schema teorico procede infatti per astrazione e semplificazione, poiché mira a rappresentare (od “interpretare”), piuttosto che meramente descrivere, una data realtà: altrimenti si avrebbe in sostanza una fotografia su scala 1:1, in cui ad esempio per studiare le caratteristiche del sistema economico italiano si dovrebbe analizzare il comportamento di 60 milioni di persone, di migliaia di imprese, banche, etc. Nello stesso tempo, tuttavia, il modello non deve essere troppo semplice altrimenti rischia di non considerare aspetti rilevanti della realtà economica 7. Questo è il motivo per cui già in macroeconomia si procede attraverso un procedimento di “approssimazioni successive” partendo da modelli molto semplificati, per proseguire con modelli progressivamente più realistici, anche se più complessi. In questo capitolo ripasseremo sinteticamente tre modelli macroeconomici di base, generalmente derivati ed investigati nei corsi di macroeconomia 8: – il modello della “croce keynesiana”, che considera il solo equilibrio nel mercato dei beni; – il modello “IS-LM”, in cui si aggiunge il mercato finanziario; – il modello “AD-AS”, che sarà presentato dopo una breve analisi sull’equilibrio del mercato del lavoro e sul concetto di aspettativa. Nei restanti capitoli di questo libro (Parti I e II) vedremo alcuni approfondimenti di questi 4 FRIEDMAN (1953) riteneva sufficiente, nella sua impostazione di neopositivismo, la seconda condizione: ad esempio, una legge economica è da ritenere buona se consente previsioni affidabili, al di là del grado di realismo delle ipotesi di partenza, per cui ci si può comportare come se quella legge fosse vera. 5 Sviluppato da L. Walras e spesso contrapposto agli equilibri parziali di A. Marshall. 6 Mentre nel contesto accademico italiano la “politica economica” ha una lunga tradizione come disciplina autonoma, nel contesto internazionale la “macroeconomia” solitamente ricomprende anche le implicazioni di politica economica. 7 La scelta finale del modello più adeguato può essere largamente influenzata dai giudizi di valore dell’economista, che sono rilevanti non solo al momento della definizione delle soluzioni normative, ma anche sin dall’inizio nell’analisi positiva (MYRDAL, 1953). Inoltre, non va trascurato il fatto che la realtà economica ha una componente dinamica (non solo per gli eventuali effetti delle policy adottate) più o meno complessa, anche a seconda degli specifici contesti storici; ciò rende ancora più difficile una “modellizzazione in grado di cogliere gli elementi, anche evolutivi, fondamentali della realtà economica. 8 Per la loro costruzione, il loro significato ed il loro utilizzo si rinvia a qualunque testo di macroeconomia (per alcune analisi successive si veda preferibilmente BLANCHARD et al. 2014). Lo scopo di questo ripasso è mostrare l’utilità di questi modelli anche dal punto di vista della politica economica.

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

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modelli, come la curva di Phillips ed il modello IS-LM in economia aperta, dove si analizza l’interdipendenza tra più sistemi economici (con scambi di merci e servizi, flussi di capitale).

1.2. La croce keynesiana In questo primo modello (che potremmo chiamare “modello keynesiano semplice”) esiste un solo mercato, il mercato dei beni. Il prodotto reale (o reddito reale o produzione o output) 9 in equilibrio deve essere uguale alla spesa aggregata. Per semplicità ipotizziamo che la spesa sia costituita da tre componenti – consumi delle famiglie, investimenti e spesa pubblica – di cui solo i consumi sono endogeni (spiegati all’interno del modello) mentre le altre due sono per il momento considerate esogene (fissate all’esterno del modello). I consumi (C) dipendono dal reddito (Y) secondo la funzione “keynesiana” del consumo; I sono gli investimenti 10 e G la spesa pubblica. Il modello consta perciò di tre equazioni: [1.1] C = C° + c Y funzione del consumo (con C° i consumi autonomi) [1.2] A=C+I+G definizione di spesa aggregata [1.3] Y=A condizione di equilibrio macroeconomico Sostituendo le prime due equazioni nella terza, si ottiene: Y = C° + c Y + I + G da cui, risolvendo per Y: [1.4] Y = [1/(1 – c)] (C° + I + G) Nell’ultima equazione si nota che la spesa autonoma (le tre variabili in parentesi tonda) è collegata al reddito secondo il moltiplicatore (il termine in parentesi quadra). Posto che la propensione marginale al consumo sia minore dell’unità (c < 1), che è l’ipotesi normale, allora il moltiplicatore risulta superiore all’unità. Questo, ragionando in termini di variazioni, significa – ad esempio – che un aumento della spesa pubblica, ∆G (poniamo di 10 miliardi di euro), ha un effetto amplificato sul reddito: ipotizzando una propensione marginale al consumo c = 0,8 (cioè un incremento del reddito di 100 determina un aumento del consumo di 80) si avrebbe un moltiplicatore keynesiano pari a 5, e il reddito aumenterebbe addirittura di 50 miliardi (∆Y = 50). Si sottolinea che un valore del moltiplicatore pari a 5 è poco realistico in modelli macroeconomici più completi (alcune stime empiriche lo indicano vicino ad un valore di 2) 11. 9 Coincidente anche con il valore aggiunto di tutta l’economia. Per le definizioni precise di questi concetti, si consulti qualunque testo di macroeconomia o di contabilità nazionale. 10 Si noti che questi investimenti nel mercato dei beni riguardano aumenti dello stock fisico di capitale – fabbriche, impianti, macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto, edifici – e quindi non gli investimenti finanziari. 11 In effetti il moltiplicatore assume valori sicuramente inferiori a 5 nei modelli – diversi dal “modello keynesiano semplice” – in cui: (i) si introduce la tassazione sul reddito che determina una distinzione fra reddito lordo e reddito disponibile (ed è su questo ultimo che si basa la decisione di consumo); (ii) si rimuove l’ipotesi di economia chiusa (in economia aperta una parte dei maggiori consumi può indirizzarsi verso i beni importati); (iii) si rimuove l’ipotesi di tasso d’interesse fisso (ed investimenti esogeni); (iv) si rimuove l’ipotesi di prezzi fissi (in tal caso, almeno una parte dell’aumento di domanda aggregata effettiva potrebbe determinare un aumento del livello dei prezzi anziché tradursi in un esclusivo aumento della quantità prodotta e quindi del reddito reale); sugli ultimi due casi torneremo nei prossimi paragrafi. Inoltre, il valore del moltiplicatore cambia in base al contesto ciclico (è più elevato quando l’output gap è maggiore) e al tipo di intervento pubblico (è più elevato quello degli investimenti pubblici rispetto a quello relativo ai trasferimenti o alla spesa corrente).

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Modelli, teorie e politiche

Considerando il “modello keynesiano semplice”, l’equilibrio della keynesian cross è rappresentato dal seguente grafico (Fig. 1.1), in cui la retta a 45° che esce dall’origine garantisce che i valori in ascissa (Y nel nostro caso) sono uguali a quelli in ordinata (A), per cui è soddisfatta l’equazione [1.3]. Il punto E è il punto di equilibrio, in cui la spesa aggregata (C +I+ G) è uguale alla produzione.

Domanda, A

Figura 1.1. – La croce keynesiana

E

Domanda, AA

45° Y Produzione, Y

1.3. Il modello IS-LM Un modello più realistico di quello della croce keynesiana è il modello IS-LM 12, in cui si considera non solo l’equilibrio nel mercato dei beni ma anche in quello monetario (o finanziario) 13. Prima di rappresentare quest’ultimo equilibrio occorre però introdurre un’innovazione anche nel mercato dei beni: gli investimenti non sono più considerati esogeni ma sono funzione inversa del tasso d’interesse (i) 14. Per quanto riguarda il mercato monetario, si suppone che la domanda di moneta reale (L) sia funzione diretta del reddito (Y) ed inversa del tasso d’interesse (i), mentre l’offerta di moneta (M) è esogena, fissata a piacere dalla banca centrale. Se l’equilibrio monetario è rappresentato in termini reali, sia domanda che offerta di moneta nominali (Md e Ms) debbono essere divise per il livello dei prezzi (P), pure supposto esogeno. Il modello, nella sua forma strutturale 15, può essere così rappresentato: 12 Come è noto, il modello deriva da una intuizione originale di Hicks del 1937; poi è divenuto il modello standard dell’approccio keynesiano della “sintesi neoclassica” (per quest’ultima si vedano i cenni nel cap. 4). Da altre scuole macroeconomiche fu criticato perché troppo semplificato, aggregato e di natura statica. Più recentemente è però stato difeso da economisti come SOLOW (1984) e PATINKIN (1990). Si veda la discussione in MARELLI, SIGNORELLI (2010b), cap. 7. 13 Se le attività finanziarie constano soltanto di un’attività liquida senza rendimento, la moneta (M), e di un’attività meno liquida, i titoli (B), il cui rendimento è il tasso d’interesse (i), l’equilibrio monetario implica anche l’equilibrio nel mercato dei titoli. 14 In altre rappresentazioni, gli investimenti (I) sono posti funzione anche del reddito (Y): ipotesi non essenziale per il nostro discorso corrente. 15 Su questo concetto, come pure su quello di forma ridotta, torneremo nel cap. 2.

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

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[1.5] C = C° + c Y funzione del consumo [1.6] I = I° – d i funzione degli investimenti [1.7] Y=C+I+G condizione d'equilibrio nel mercato dei beni [1.8] Md/P = L = e Y – f i domanda di moneta reale [1.9] Ms/P = M/P offerta di moneta reale condizione d'equilibrio nel mercato della moneta [1.10] Md = Ms L’equazione della curva IS si può ricavare sostituendo la [1.5] e la [1.6] nella [1.7] e risolvendo per Y, si ottiene: [1.11] Y = (C° + I°)/(1 – c) + G/(1 – c) – [d/(1 – c)] i curva IS Le caratteristiche della curva IS sono le seguenti: (i) è negativamente inclinata; (ii) la sua posizione dipende dal livello della spesa pubblica (G) e dalle componenti autonome della domanda (C° + I°), per cui qualunque variazione della spesa autonoma fa spostare orizzontalmente la curva IS; (iii) quanto alla sua inclinazione, la curva è tanto più rigida (inclinata) quanto più d e/o il moltiplicatore 1/(1 – c) sono piccoli (e viceversa); (iv) il caso “keynesiano estremo” di IS verticale si ha quando d = 0 (ossia investimenti insensibili al tasso d’interesse). Sostituendo invece la [1.8] e la [1.9] nella [1.10] e risolvendo per il tasso d'interesse i, si ricava l’equazione della curva LM: [1.12] i = (e/f) Y – (1/f) M/P curva LM Le caratteristiche della curva LM sono: (i) è positivamente inclinata 16; (ii) la sua posizione dipende da M/P, per cui qualunque variazione della offerta nominale di moneta (ΔM), o eventualmente del livello generale dei prezzi (ΔP), fa spostare orizzontalmente la curva LM; (iii) quanto alla sua inclinazione, la curva è tanto più rigida (inclinata) quanto più è piccolo il rapporto (f/e); (iv) il caso “monetarista estremo” di LM verticale si verifica quando f = 0 (ossia la domanda di moneta non dipende dal tasso d’interesse). Come è noto, la curva IS mostra le combinazioni di reddito (Y) e tasso d'interesse (i) che mantengono in equilibrio il mercato dei beni, mentre la curva LM evidenzia le combinazioni delle stesse due variabili che tengono in equilibrio il mercato della moneta. Le equazioni [1.11] e [1.12] costituiscono un sistema di due equazioni in due incognite, appunto Y ed i. Risolvendo questo sistema si trova l’equilibrio generale macroeconomico, ossia sia nel mercato dei beni sia nel mercato finanziario. La rappresentazione grafica è la seguente (Fig. 1.2), in cui E è appunto l’equilibrio macroeconomico. Risolvendo il sistema delle due equazioni, ossia sostituendo la [1.12] nella [1.11], e risolvendo per Y si ottiene: [1.13] Y = (C° + I°) 1/[(1 – c) + ed/f] + G 1/[(1 – c) + ed/f] + (M/P) 1/[(1 – c)f/d + e]

16 Nei libri di macroeconomia più recenti (ad esempio B LANCHARD , 2017) si ipotizza che la curva LM sia normalmente orizzontale, in quanto la banca centrale fissa prima di tutto il tasso d’interesse – il tasso di policy – fornendo a quel tasso tutta la liquidità necessaria. Questa ipotesi è coerente con il comportamento attuale di molte banche centrali, specie allorché i tassi di interesse hanno raggiunto il limite inferiore del tasso nullo (lo zero lower bound). Nel cap. 7, vedremo che una curva LM orizzontale si ottiene in un altro caso keynesiano estremo: il caso della trappola della liquidità.

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Modelli, teorie e politiche

Tasso di interesse, i

Figura 1.2. – Il modello IS-LM LM

Equilibrio sul mercato dei beni

Equilibrio sui mercati finanziari i

E

IS Y Produzione (reddito), Y

Si noti che la [1.13] può essere scritta in modo più compatto, indicando la domanda autonoma come A° = C° + I°, e ponendo α = 1/[(1 – c) + ed/f] e β = 1/[(1 – c)f/d + e]: [1.14] Y = α (A° + G) + β (M/P) in cui i parametri 17 α e β rappresentano rispettivamente i moltiplicatori della politica fiscale 18 e della politica monetaria, del modello IS-LM. Essendo α < [1/(1 – c)], è evidente che il moltiplicatore fiscale del modello IS-LM è minore del “moltiplicatore keynesiano pieno”, valido quando si considera il solo mercato dei beni (“modello keynesiano semplice”) e si escludono le retroazioni monetarie sul tasso d’interesse e quindi sugli investimenti 19.

1.4. Il modello AD-AS A questo punto facciamo un ulteriore passo nella direzione del realismo, complicando un poco il modello IS-LM e considerando anche l’equilibrio su un terzo mercato: il mercato del lavoro. Come vedremo tra breve la considerazione di quest’altro mercato implica la costruzione di una nuova curva, la curva di offerta aggregata (AS). Intanto notiamo che la domanda aggregata è facilmente ricavabile dalla [1.14] lasciando variare il livello dei prezzi (P) 20. In ef17 Noti come parametri della forma ridotta (e sono, come si vede, combinazioni algebriche dei parametri della forma strutturale). Anche su questo torneremo nel cap. 2. 18 In un modello più realistico, come accennato in precedenza, i consumi dipenderebbero dal reddito disponibile (Y-T), per cui i consumi autonomi (e la stessa domanda autonoma A°) vengono a dipendere anche da T. 19 Il minor aumento di reddito causato dal rialzo del tasso d’interesse è chiamato effetto spiazzamento: sono gli investimenti privati ad essere spiazzati dalla maggior spesa pubblica. 20 L’endogenizzazione del livello dei prezzi conduce a quello che è stato talvolta definito modello ISLM generalizzato. Seguendo un’impostazione keynesiana, nei modelli a prezzi fissi è implicito il ruolo cruciale della “domanda aggregata effettiva” nel determinare il livello di produzione, reddito, (dis)occupazione (in altri termini le variazioni della domanda aggregata effettiva tendono a tradursi in variazioni “moltiplicate” del reddito e produzione (offerta aggregata).

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

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fetti, se i prezzi sono endogeni la [1.14] viene proprio a rappresentare la relazione inversa tra reddito reale (Y) e livello dei prezzi (P), sottostante alla curva di domanda aggregata (AD) 21. La curva di domanda aggregata subisce trasposizioni (come spiegheremo meglio nel par. 1.6) a causa di variazioni nella componente autonoma della domanda (consumi, investimenti, esportazioni, etc.) oppure a seguito di politiche monetarie e fiscali, denominate appunto come politiche di “controllo della domanda” (posto naturalmente che esse siano efficaci); queste trasposizioni sono verso l’esterno nel caso delle politiche espansive e verso l’interno in presenza di politiche restrittive. Ora, per “chiudere” il modello con la determinazione endogena dei prezzi occorre considerare il lato dell’offerta. In macroeconomia, di solito si procede aggiungendo l’analisi di un altro importante mercato – quello del lavoro – in questa versione più completa di “equilibrio generale”. Nelle rappresentazioni più recenti del mercato del lavoro 22 è ipotizzata una contrattazione (bilaterale o collettiva) dei salari. Si parte quindi dal presupposto che il salario reale risultante dalla contrattazione salariale deve essere compatibile con il salario reale derivante dalla fissazione dei prezzi da parte delle imprese. Il salario contrattato dai lavoratori dipende dalle aspettative sui prezzi (Pe), dallo stato del mercato del lavoro (con minori richieste salariali in caso di elevata disoccupazione u) e da alcuni fattori di “rinforzo” salariale z (quali esistenza e durata dei sussidi di disoccupazione, il tasso di cambiamento strutturale della economia, la regolamentazione del salario minimo e delle procedure di assunzione/licenziamento, etc.). Pertanto, scrivendo W = Pe f(u, z) ed ipotizzando che nel medio periodo le aspettative siano realizzate (Pe = P), si ottiene l’equazione dei salari, rappresentata dalla curva wage-setting (WS), che è una curva decrescente rispetto al tasso di disoccupazione u: [1.15] W/P = f(u, z) Inoltre, supponendo che le imprese fissino i prezzi secondo la regola del “mark-up pricing” ed indicando con h il margine sui costi (inclusi eventuali costi variabili di produzione diversi dal lavoro), dall’equazione: P = (1 + h) W, si ottiene l’equazione dei prezzi, rappresentata dalla curva price-setting (PS), che è indipendente da u (quindi nel grafico una retta orizzontale): [1.16] W/P = 1/(1 + h) Il tasso naturale di disoccupazione (un) 23 è quindi dato dal punto di intersezione tra le curve WS e PS, ovvero risolvendo per u l’equazione: [1.17] f(u, z) = 1/(1 + h)

21 La costruzione grafica della curva AD si ottiene di solito facendo spostare (in un grafico IS-LM) la curva LM, al variare di P (e quindi di M/P), e vedendo l’effetto su Y: riportando in un altro grafico le coppie di punti P, Y si ottiene la curva di domanda aggregata. 22 Invece in un mercato del lavoro competitivo, l’equilibrio è ricavato nell’intersezione tra una curva decrescente della domanda di lavoro (coincidente con la curva della produttività marginale del lavoro) e la curva crescente dell’offerta di lavoro, entrambe funzione del salario reale (W/P); allora si determinano congiuntamente: (i) il salario d’equilibrio (W/P)0; (ii) il livello occupazionale d’equilibrio (N0), a volte chiamato “piena occupazione walrasiana”. 23 Ricordiamo che in generale, se N sono gli occupati e L le forze di lavoro (occupati più disoccupati), allora il tasso di disoccupazione è definito come: u = (L – N)/L.

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Modelli, teorie e politiche

Salario reale, W/P

Figura 1.3. – L’equilibrio nel mercato del lavoro

1 1 h

E

Equazione dei prezzi

PS

WS Equazione dei salari un Tasso di disoccupazione, u

Nel grafico (Fig. 1.3) il tasso di disoccupazione naturale un è dato dall’intersezione tra la curva WS e quella PS. Il prodotto che si ottiene in corrispondenza di un è definito livello naturale di produzione (Yn). L’equazione della curva AS si ottiene invece sostituendo la WS nella PS ed ipotizzando che u = 1 – Y/L, in cui per semplicità si assume una funzione di produzione iper-semplificata (in cui N = Y) ed in questo caso le aspettative possono essere a qualunque livello (ossia P può essere diverso da Pe): [1.18] P = Pe (1 + h) f(1 – Y/L, z) È evidente dall’equazione [1.18] che la curva AS è inclinata positivamente 24: un aumento del reddito Y fa diminuire il tasso di disoccupazione (il primo argomento della funzione f), che a sua volta fa aumentare P. Ma qual è il significato economico? Per capirlo, bisogna tener conto della seguente catena di variazioni: Y  N  u  W  costi  P. Sempre nell’equazione [1.18], Pe figura invece come fattore di spostamento: la curva AS si sposta tutte le volte che variano le aspettative sul livello dei prezzi. A questo punto, l’equilibrio macroeconomico sarà dato dall’intersezione tra la curva AD decrescente e la curva AS inclinata positivamente, come il reddito Y sottostante al punto E nella Fig. 1.4:

24 In alcuni casi estremi la curva AS è orizzontale o verticale. È orizzontale nei modelli a prezzi fissi, quando il livello dei prezzi è esogeno (è tale quindi anche la curva AS corrispondente al modello IS-LM). È verticale quando vi sono vincoli assoluti alla produzione dal lato dell’offerta (ossia si è raggiunto il pieno utilizzo dei fattori produttivi) oppure negli equilibri di medio periodo in corrispondenza di Yn (vedi par. 1.5). Sono pure state ipotizzate curve spezzate o convesse; queste ultime rappresentano comportamenti asimmetrici, per cui le recessioni (al di sotto del livello di piena occupazione) si riflettono più in cadute del reddito reale che del livello dei prezzi, mentre espansioni della domanda (in vicinanza del reddito di piena occupazione) si ripercuotono principalmente sui prezzi con effetti quasi nulli sul reddito reale. Per questi approfondimenti, si veda MARELLI, SIGNORELLI (2010b), cap. 7.

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

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Livello dei prezzi, P

Figura 1.4. – L’equilibrio macroeconomico AD-AS

AS

E

P Pe

B AD Yn

Y Produzione, Y

Nel grafico, il reddito nel punto di equilibrio (E) rappresenta l’equilibrio su tre mercati: mercato dei beni, mercato della moneta e mercato del lavoro. Le equazioni finali sono due in quanto la curva AD ricompatta dentro di sé gli equilibri nei primi due mercati (beni e moneta), ossia è una sintesi sia della curva IS sia della curva LM. È però evidente che tale reddito non coincide con Yn, per cui non può essere un equilibrio definitivo, essendo le aspettative non realizzate (P  Pe), come vedremo nel prossimo paragrafo.

1.5. Le aspettative e l’equilibrio di medio periodo In macroeconomia si è soliti distinguere tra: 1. equilibri di breve periodo, quando i mercati considerati sono in equilibrio – nel senso che la domanda è uguale all’offerta – ma non si tratta di un equilibrio “pieno”, ad esempio perché le aspettative degli agenti non sono pienamente realizzate; 2. equilibri di medio periodo, quando i processi di aggiustamento – ad esempio connessi alla revisione delle aspettative – sono portati a termine ed il sistema economico raggiunge il suo equilibrio “naturale” 25; 3. equilibri di lungo periodo, quando si considerano anche i fattori di crescita di lungo periodo (come l’accumulazione di capitale, la crescita della popolazione, il progresso tecnico, etc.). Se si vuole passare dal “tempo logico” sottostante ai modelli teorici alla concreta definizione di cosa esso significhi in termini di “tempo storico”, ovvero considerando l’effettivo lasso temporale di riferimento, la quantificazione è piuttosto vaga 26. È evidente che una 25 Poiché in molti testi di macroeconomia ed anche in articoli scientifici questi sono spesso definiti equilibri di lungo periodo, nei prossimi capitoli useremo a volte il termine medio/lungo periodo (specialmente quando vorremo mantenere il collegamento con gli articoli originari). Riserveremo comunque l’aggettivo “lungo” (in senso stretto) ai modelli di crescita (ad esempio all’equilibrio di “stato stazionario” del modello di Solow). 26 Lo stesso BLANCHARD (2009, p. 51) indica: (i) nel “breve periodo” le variazioni che avvengono “nell’arco di qualche anno”, (ii) nel “medio periodo” quelle che avvengono “nell’arco di un decennio” e (iii) nel “lungo periodo” i cambiamenti che avvengono “nell’arco di un secolo o più”.

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Modelli, teorie e politiche

parte rilevante della contrapposizione sulla necessità/opportunità, oltreché efficacia, delle politiche di stabilizzazione si basa anche sui tempi in cui il sistema – colpito da shock – permane in “disequilibrio” (oltreché sui tempi e rilevanza degli effetti persistenti degli shock medesimi) 27. Considerato che il passaggio dal breve al medio periodo implica una discussione sul ruolo delle aspettative, pare opportuno approfondire ora il concetto di aspettativa. In termini generali, il problema era ben presente anche agli economisti keynesiani ed allo stesso Keynes, il quale ha posto le aspettative degli agenti economici al centro dell'analisi del loro comportamento, ad esempio a proposito degli investimenti o della domanda di moneta (cfr. cap. 4). Tuttavia, sono stati gli economisti monetaristi a riprendere e proporre specifiche formalizzazioni del concetto di aspettativa. Nei modelli, prima teorici poi anche econometrici, degli anni ’50 si è cominciato ad utilizzare il concetto di aspettativa adattiva 28, rappresentabile nel seguente modo, per quanto riguarda le aspettative sul livello dei prezzi: [1.19] Pet – Pet– 1 =  (Pt– 1 – Pet– 1) Il significato della formula indicata è che i prezzi attesi nel periodo precedente vengono aggiustati nel periodo corrente per un ammontare pari ad una frazione (uguale a ) dell’errore commesso nel periodo precedente (errore pari alla differenza tra prezzi effettivi e prezzi attesi). Il parametro  è positivo e minore dell'unità (0 <  < 1); esso rappresenta, in un certo senso, la “memoria” degli agenti in questo procedimento di apprendimento dagli errori. Quali casi particolari, si può notare che le aspettative estrapolative sono ottenute da una relazione simile ma più semplice rispetto alla [1.19], ossia Pet – Pet– 1 = (Pt– 1 – Pt– 2). Invece le aspettative statiche si ottengono dalla [1.19] ponendo  = 1, per cui Pet = Pt– 1, ossia i prezzi attesi coincidono con i prezzi effettivi del periodo precedente. È quindi evidente che le aspettative di tipo adattivo dipendono solamente dalla storia passata della variabile di riferimento 29. E ciò diversamente dalle aspettative razionali, che sono invece forward-looking (cfr. cap. 9). A questo punto possiamo caratterizzare meglio la posizione di equilibrio macroeconomico di medio periodo, che è lo stato di “quiete” raggiunto dal sistema – ad esempio successivamente ad uno shock – dopo che i disturbi non sistematici sono eliminati: ad esempio, quando le aspettative degli agenti sono pienamente realizzate 30. È proprio grazie alla 27 Il fatto che il tempo storico sia unidirezionale, solleva una serie di complesse questioni legate alla adeguata modellizzazione, ad esempio, dei fenomeni legati alla persistenza degli effetti e al grado di irreversibilità delle scelte di investimento (con i connessi “costi non recuperabili”). 28 Concetto formalizzato negli anni ’50 da P. Cagan e da M. Nerlove. 29 Applicando la cosiddetta “trasformazione di Koyck” alla relazione [1.19], ossia ritardandola di un periodo più volte e sostituendo a catena i valori ritardati, è possibile ottenere la seguente relazione derivata (in cui  è il simbolo di sommatoria): Pet = in(1 – )i Pt–i–1 + (1 – )n + 1 Pet–n–1. Tendendo conto che  < 1, l'ultimo addendo si può trascurare per n sufficientemente grande, per cui i prezzi attesi al tempo t vengono a dipendere solamente da una media geometrica dei prezzi effettivi di n periodi precedenti (con pesi declinanti nel tempo). 30 Si noti che lo stesso Keynes era d'accordo con l'opinione secondo cui l’equilibrio pieno può essere raggiunto solamente nel medio/lungo periodo, che è caratterizzato da uno stato di aspettative persistente per un periodo sufficientemente lungo. Ciononostante aveva manifestato un maggior interesse per il concetto più operativo di breve periodo, più adatto per spiegare il comportamento effettivo degli

Economia politica e politica economica. I modelli macroeconomici

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revisione delle aspettative che si verifica il passaggio dagli equilibri di breve a quelli di medio periodo. Ciò può essere rappresentato mediante l’utilizzo di una curva d’offerta aumentata con le aspettative, come appunto la curva AS dell’equazione [1.18] 31. Per capire meglio come avviene il passaggio dagli equilibri di breve a quelli di medio periodo, supponiamo che vi sia uno shock monetario, con un aumento dell’offerta di moneta (M > M). Nel grafico IS-LM avremmo uno spostamento della curva LM verso l’esterno. Questo equivale nel grafico AD-AS (Fig. 1.5) ad uno spostamento della curva AD verso destra, generando nel breve periodo un reddito (Y) maggiore di quello di partenza (supposto uguale a Yn).

Livello dei prezzi, P

Figura 1.5. – Il passaggio dall’equilibrio di breve all’equilibrio di medio periodo

AS

E E P P

E AD (per M > M) AD (per M) Yn Y Produzione, Y

Poiché la curva AS iniziale era stata costruita sulla base dell’ipotesi di prezzi attesi pari a P (quelli corrispondenti all’equilibrio E iniziale) e dopo lo shock i prezzi sono saliti a P, i prezzi effettivi divergono da quelli attesi (P ≠ Pe), causando disequilibri per molti agenti: ad esempio i lavoratori sono per un certo lasso di tempo “ingannati”, ossia continuano a percepire gli stessi salari monetari anche se i prezzi sono aumentati. Nel medio/lungo periodo, tuttavia, quando le aspettative dei lavoratori si sono completamente aggiustate (P = Pe), ed in assenza di altre frizioni o rigidità (che possono pur essere presenti nel breve) 32, la curva AS si sposta progressivamente in alto (come indicato dalle frecce nel grafico), fin quando si raggiunge il punto E, in corrispondenza del reddito naturale Yn. Si noti che unendo i punti E, E ed altri punti simili (ottenuti a seguito di ulteriori shock agenti e le necessità di intervento dei policymaker, anche perché – come ebbe a dire – “nel lungo periodo saremo tutti morti”. 31 È questo il metodo di derivazione della curva di offerta divenuto tipico nelle analisi macroeconomiche dell’ultimo mezzo secolo (a partire dai contributi di Friedman e Phelps del 1968). 32 Questa è l'ipotesi di lavoro esplicitamente avanzata nella Nuova Economia Keynesiana (cenni saranno fatti nel cap. 8), in cui l’offerta di breve periodo dipende dai salari temporaneamente fissati, ad esempio dal contratto di lavoro, ma che subisce trasposizioni al termine della validità del contratto.

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espansivi sulla domanda aggregata) potremmo tracciare una curva AS verticale rappresentante gli equilibri di medio periodo. Tale curva giace necessariamente sopra Yn ed è caratterizzata dal fatto che solo lungo tale curva le aspettative sono realizzate (P = Pe). La distinzione tra curva d’offerta di breve e di medio/lungo periodo si basa in modo cruciale sull'ipotesi di aspettative adattive 33. La politica monetaria espansiva non ha quindi, in questo modello, alcun effetto sul reddito reale nel medio periodo. Alla fine il livello dei prezzi varia proporzionalmente alla variazione dello stock di moneta, per cui M/P risulta inalterato (in effetti nel corrispondente grafico ISLM la curva LM, dopo essersi spostata verso l’esterno per lo shock monetario, torna indietro via via che aumentano i prezzi, fino a ritornare nella posizione di partenza). La mancanza di effetti reali, nota come neutralità della moneta, è in particolare sostenuta dalla scuola monetarista (cfr. cap. 7) 34. Il prodotto reale è perciò determinato, nel medio/lungo andare, dal lato dell'offerta e dalle sue determinanti (forze di lavoro, stock di capitale, risorse naturali, tecnologia, etc.), mentre l’unico effetto della domanda aggregata si ha sul livello dei prezzi. Ciò non significa che le politiche di stabilizzazione – o di controllo della domanda aggregata – siano inutili o inefficaci, poiché il “breve periodo” può protrarsi in realtà (come osservato poc’anzi) anche per molti anni.

1.6. Gli shock e le risposte di politica economica Gli shock macroeconomici sono disturbi o perturbazioni che alterano la posizione di equilibrio macroeconomico, distinguibili nelle due tipologie principali di shock di domanda e shock d’offerta. Gli effetti di tali shock dipendono dal modello teorico di riferimento. Nel caso ad esempio di uno shock sulla domanda aggregata, l’effetto sarà solo sulle variabili reali (Y) nel caso dei modelli a prezzi fissi (croce keynesiana e IS-LM). Sarà invece solo sui prezzi (P) se la produzione non può variare perché fissata al livello naturale (come negli equilibri di medio periodo del modello AD-AS). Più realisticamente sarà sia su Y che su P (casi normali di breve periodo). Per quanto riguarda le determinanti degli shock, gli shock da domanda sono causati da variazioni: – della domanda aggregata autonoma: consumi ed investimenti autonomi, esportazioni nette (e quindi dipendenti dall’evoluzione della domanda nei mercati di sbocco, del commercio mondiale, dei fattori di competitività, del tasso di cambio, etc.); – della domanda di moneta; – delle politiche macroeconomiche (monetarie e fiscali).

33 In effetti, vedremo che nella Nuova Macroeconomia Classica, con l’ipotesi di aspettative razionali, la curva di offerta risulta già verticale nel breve periodo (cfr. cap. 9). Seguendo una impostazione “walrasiana”, nei modelli a prezzi perfettamente flessibili, variazioni della domanda aggregata si traducono esclusivamente in aumenti del livello dei prezzi senza alcun effetto sul livello del reddito, produzione e (dis)occupazione. 34 Se lo shock, anziché monetario, fosse sulla politica fiscale, anche in quel caso nel medio periodo il reddito tornerebbe a Yn. Non si potrebbe però parlare di neutralità della politica fiscale in senso stretto, in quanto muterebbe la composizione del prodotto: si avrebbe un rialzo permanente del tasso d’interesse (nel caso di una politica espansiva), per cui la maggiore spesa pubblica spiazzerebbe gli investimenti privati per lo stesso ammontare.

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Considerando ora le conseguenze, sempre nel caso di perturbazioni dal lato della domanda, gli effetti di breve periodo sul reddito reale e sui prezzi sono pro-ciclici, ossia il segno delle loro variazioni coincide con quello della domanda aggregata (se nella Fig. 1.4 la curva AD si sposta in alto, P e Y variano nella stessa direzione). Gli shock d’offerta comprendono (a parte le variazioni nelle aspettative, di cui si è già trattato) mutamenti: – nel livello dei salari monetari e nelle altre caratteristiche dell’offerta di lavoro; – nei margini di profitto (inclusi i margini distributivi e commerciali); – nella capacità produttiva, ossia nella quantità e qualità dei principali fattori produttivi (stock di capitale, lavoro e capitale umano); – nei prezzi e nella disponibilità degli altri fattori produttivi (ad esempio delle materie prime, del petrolio, dei raccolti agricoli, del credito); – nell’efficienza produttiva e nella tecnologia (a seguito del progresso tecnico); – negli interventi di politica economica sull’offerta, che includono sia misure specifiche di politica fiscale, sia interventi di tipo “strutturale” (si rinvia al cap. 3). In presenza di perturbazioni dal lato dell'offerta, le conseguenti variazioni del reddito reale e del livello dei prezzi hanno segno opposto (se nella Fig. 1.4 la curva AS si sposta in alto, P e Y variano in direzione opposta); si pensi ad esempio agli shock petroliferi, che causano contemporaneamente recessione ed inflazione, ossia il fenomeno della stagflazione. Molti shock d’offerta, tra quelli sopra elencati, fanno spostare non solo la curva d’offerta di breve periodo, ma anche quella di lungo, ossia agiscono sul prodotto potenziale ovvero sul livello “naturale” del reddito 35. Riassumiamo quindi cause ed effetti dei quattro principali tipi di shock nel modello AD-AS, soffermandoci in particolare sulle manovre di politica economica: 1. shock positivi sulla domanda aggregata (consumi, investimenti, domanda estera) come pure politiche macroeconomiche espansive – monetarie (M) 36 e fiscali (G o T) – spostano in alto la curva AD: quindi P e, nel breve periodo, anche Y; infatti politiche espansive sono tipicamente usate per uscire da una recessione; 2. shock negativi sulla domanda aggregata come pure politiche macroeconomiche restrittive – monetarie (M) e fiscali (G o T) – spostano in basso la AD: quindi P e, nel breve periodo, anche Y; politiche restrittive sono tipicamente usate per tenere sotto controllo l’inflazione anche se al costo di ridurre il prodotto; 3. shock avversi sull’offerta aggregata, per esempio gli shock petroliferi, spostano verso l’interno (verso l’alto) la curva AS: quindi P e, contemporaneamente, anche Y (il già citato fenomeno della stagflazione); 4. shock positivi sull’offerta aggregata, per esempio derivanti dal progresso tecnico, come pure da appropriate politiche strutturali e per il mercato del lavoro, spostano verso l’esterno (verso il basso) la curva AS: quindi Y e P. Gli effetti del progresso tecnico si possono però meglio studiare nei modelli di crescita piuttosto che in quelli del ciclo economico: nei modelli di crescita il prodotto non è fissato al 35 Un’ulteriore distinzione cruciale è infatti quella tra shock temporanei e shock permanenti, anche se spesso è difficile per gli agenti distinguere la vera natura (temporanea o permanente) dello shock. 36 Si noti che un aumento dell’offerta di moneta è una politica di controllo della domanda aggregata (AD) e non dell’offerta (AS)!

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livello naturale (o di piena occupazione), come succede negli equilibri di medio periodo, ma può continuamente crescere nel lungo andare. Per concludere questo capitolo sui modelli macroeconomici ed avviarci verso analisi più prettamente di politica economica, notiamo che il ciclo economico dipende non solo dalle perturbazioni ma anche da altri elementi, per cui occorre tener conto almeno dai seguenti elementi: – la natura dello shock (sulla domanda o sull’offerta, monetario o fiscale, etc.) ossia la variabile esogena direttamente modificata; – i successivi meccanismi di propagazione, tenuto conto dell’interdipendenza (e dei ritardi temporali) tra tutte le equazioni del sistema macroeconomico; – la reazione degli agenti economici, in particolare dal punto di vista della revisione delle aspettative; – la reazione del policymaker, ossia le contromisure che vengono adottate per contrastare le conseguenze negative dello shock. Riguardo al primo punto, osserviamo che i due tipi di perturbazioni, dal lato dell’offerta e della domanda, possono manifestarsi contemporaneamente ed influenzarsi vicendevolmente. Inoltre le aspettative degli agenti possono attutire o più spesso amplificare la propagazione dello shock iniziale. L’endogenizzazione della politica economica può invece essere spiegata meglio con un’analisi grafica. Nella Fig. 1.6, uno shock d’offerta è raffigurato dallo spostamento della curva AS in AS. Una prima possibile risposta di policy è una politica monetaria accomodante, particolarmente attenta alle variabili reali e ad evitare una contrazione del prodotto; essa fa spostare la curva di domanda da AD a AD: l’equilibrio passa dal punto A al punto B, con il reddito che permane al livello naturale (Yn) ed una crescita nel livello dei prezzi (da P0 a P1). Figura 1.6. – Shock d’offerta e risposta di politica economica P AS B

P1

AS C

P2 P0

A

E

AD AD AD

Y3

Y2

Yn

Y

Alternativamente, una politica meno accomodante lascerebbe immutata la domanda aggregata (nella posizione iniziale AD), per cui il reddito potrebbe ridursi temporaneamente al di sotto del livello naturale (Y2 < Yn) e si avrebbe un più contenuto incremento nel livello dei

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prezzi (P2 < P1). Un terzo tipo di risposta consiste in una politica ancor più attenta nei confronti dell’inflazione; essa punta a mantenere inalterato il livello dei prezzi (a P0), tramite una contrazione ancora maggiore della domanda aggregata (da AD a AD), causando però una caduta ancora maggiore del prodotto (Y3 < Y2 < Yn). Questi tipi di risposta sono naturalmente connessi agli obiettivi del policymaker ed in particolare dipendono dal valore numerico dei parametri della “funzione di perdita” 37, come illustreremo nel prossimo capitolo 38.

I due casi estremi sopra illustrati si conseguirebbero per λπ = 0 oppure per λy = 0. Nel caso di uno shock sulla domanda aggregata, la risposta di politica economica potrebbe invece essere di tipo “compensativo” (con uno spostamento opposto e simmetrico della curva AD rispetto a quello conseguente alla perturbazione), annullando così gli effetti sia sui prezzi (P), sia sul reddito reale (Y). In questo senso, è stata suggerita una politica mirata alla stabilizzazione del Pil nominale, la quale avrebbe il risultato immediato di una compensazione completa degli effetti di uno shock sulla domanda aggregata nominale. 37 38

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Modelli, teorie e politiche

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Teoria della politica economica

2.1. Obiettivi e strumenti della politica economica Come viene decisa la politica economica? Innanzi tutto il policymaker deve decidere cosa vuole realizzare, ad esempio quali macrovariabili intende modificare per contrastare eventuali patologie (cfr. par. 1.1): è questo un problema di definizione degli obiettivi di politica economica. In secondo luogo deve capire quali mezzi ha a disposizione per modificare queste macrovariabili: ossia deve individuare – e poi manovrare in modo opportuno – gli strumenti di politica economica. Assumiamo per ora che le decisioni in tema di obiettivi e strumenti di politica economica siano assunte da un unico responsabile, denominato appunto policymaker, che è la “autorità di politica economica”. Nei casi concreti esso corrisponde al Governo 1, nel caso della politica fiscale o di quelle strutturali, ed alla banca centrale, tipicamente responsabile per la politica monetaria (sulla questione dell’autonomia della banca centrale ci soffermeremo nel cap. 10). La “teoria della politica economica” 2 studia proprio come vengono prese le decisioni di politica economica. Indaga innanzi tutto i legami tra modelli positivi e modelli normativi. Ancor prima occorre però dare una definizione più precisa di obiettivi e strumenti di politica economica: – gli obiettivi finali sono le macrovariabili che il policymaker intende modificare o influenzare; esempi dagli studi macroeconomici: la produzione o reddito (Y), il livello dei prezzi (P), il tasso di disoccupazione (u), il saldo della bilancia commerciale (NX), etc. – gli strumenti sono le macrovariabili che il policymaker può direttamente manovrare (ossia sono sotto il suo controllo) al fine di influenzare l’obiettivo finale; esempi: spesa pubblica (G), imposte (T), trasferimenti (Tr) 3, offerta di moneta (intesa come base monetaria H), tasso ufficiale di riferimento 4, etc.

1 Nel

par. 1.1. si è fatto cenno ai diversi “livelli di governo”. contributo più rilevante in questa area disciplinare è quello dell’economista olandese TINBERGEN (1956). 3 I trasferimenti, per esempio le pensioni, i sussidi di disoccupazione o gli assegni familiari, sono una componente positiva del reddito disponibile delle famiglie (mentre le imposte sono una componente negativa). Dal punto di vista del bilancio pubblico sono però una uscita, al pari della spesa pubblica. 4 Questo corrisponde al tasso di sconto applicato dalla banca centrale nelle operazioni di rifinanziamento delle aziende di credito richiedenti risorse liquide. Le relazioni tra base monetaria (H) e stock complessivo di moneta (M), che come vedremo tra breve può essere considerato un “obiettivo intermedio” della politica monetaria, riguardano invece l’agire del meccanismo del “moltiplicatore monetario”. 2 Il

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I legami tra le variabili-strumento e le variabili-obiettivo sono analizzabili grazie ai modelli economici. Gli effetti di una variazione della spesa pubblica (G) sul reddito (Y) sono per esempio accertabili attraverso diversi modelli economici, caratterizzati da un crescente grado di complessità (come illustrato nel cap. 1): quello della “croce keynesiana”, il modello IS-LM (considerando le retroazioni sul prodotto reale derivanti dai mercati finanziari), il modello ADAS (aggiungendo i vincoli dal lato dell’offerta ed endogeneizzando la dinamica dei prezzi), i modelli dell’economia aperta (introducendo le variabili relative a importazioni, esportazioni e movimenti di capitale), etc. La principale classificazione degli obiettivi, dal punto di vista metodologico, è tra: 1. obiettivi fissi, che sono predeterminati dal policymaker anche nel loro valore numerico e richiedono la manovra di strumenti appropriati (per esempio: far crescere il Pil del 3%, tenere l’inflazione sotto il 2%, creare 1 milione di posti di lavoro, etc.); 2. obiettivi flessibili (o ottimi), che sono derivati attraverso un procedimento di massimizzazione di una “funzione del benessere sociale”, sotto il vincolo del modello economico positivo (ad esempio: ridurre il più possibile la disoccupazione o l’inflazione, tenuto conto dei vincoli e delle interdipendenze tra le macrovariabili). Un’importante classificazione degli strumenti è invece quella proposta dall’economista olandese Tinbergen: i. gli strumenti quantitativi si riferiscono a variazioni quantitative delle variabili strumentali esistenti (ad esempio la variazione delle aliquote d’imposta o la manovra del tasso ufficiale di riferimento); ii. gli strumenti qualitativi riguardano invece l’introduzione di nuovi strumenti, modifiche nei processi decisionali o attuativi relativi agli strumenti esistenti (come l’introduzione di nuovi tipi d'imposta o la modifica del sistema di riserva obbligatoria); iii. le politiche di riforma, simili ai precedenti, implicano però rilevanti mutamenti nelle regole di funzionamento del sistema economico (per esempio la riforma del sistema pensionistico, della legislazione di tutela del lavoro e dell'assetto normativo relativo agli “ammortizzatori sociali”, dell’assetto istituzionale della banca centrale, etc.). Oggi il termine “riforme” è associato soprattutto alle politiche strutturali, mentre nel caso delle politiche macroeconomiche si utilizza spesso il concetto di “mutamento di regime di politica economica”. Un altro concetto importante è quello di obiettivo intermedio, che si riferisce a quelle macro-variabili che stanno a metà strada tra strumento ed obiettivo finale, al quale devono essere connesse con una relazione sufficientemente stabile. Gli obiettivi intermedi dovrebbero essere abbastanza ben controllabili dal policymaker, anche se non lo sono pienamente come si verifica nel caso degli strumenti. Gli obiettivi intermedi sono utilizzati soprattutto nel campo della politica monetaria; essi offrono il vantaggio di poter giudicare rapidamente ed in modo più certo l’efficacia della politica intrapresa. Infatti, se la variazione di un dato strumento (ad es. la base monetaria H) risulta aver modificato lo stock di moneta (M), del quale si possono avere dati statistici in tempi rapidi, allora ci si può aspettare che anche il prodotto Y sarà prima o poi influenzato (considerati i legami tra M ed Y ipotizzati nei modelli economici). Gli obiettivi intermedi tradizionali (proposti fin dagli anni ’60 del secolo scorso) sono: – il livello medio dei tassi d’interesse, proposto dagli economisti keynesiani; – lo stock complessivo di moneta, preferito nella scuola monetarista.

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Il primo tipo di obiettivo intermedio è preferito dagli economisti keynesiani, che considerano i tassi d’interesse di mercato così importanti dall’assumere la stabilizzazione dei tassi d’interesse come loro strategia di politica monetaria. Quest’ultima deve essere utilizzata in modo ausiliario o “accomodante” rispetto alla politica fiscale. Un esempio renderà più semplice capire questo punto di vista (si veda la Fig. 2.1). Se il governo attua una politica fiscale espansiva (G), allora la curva IS si sposta in alto (ad esempio in IS), facendo aumentare il tasso d’interesse (a i1), causando un effetto spiazzamento degli investimenti privati (I) e determinando quindi un minor aumento di reddito (Y aumenta a Y1). Se però la banca centrale attuasse contemporaneamente una politica monetaria espansiva (Ms) di tipo accomodante, allora anche la curva LM si sposta (in LM) stabilizzando i tassi d’interesse (mantenendoli al livello di partenza i0), eliminando l’effetto spiazzamento 5 della politica fiscale ed il reddito potrebbe aumentare di più (fino a Y2). Figura 2.1. – Politica fiscale espansiva e politica monetaria accomodante i LM LM  i1 i0

IS  IS Y0 Y1 Y 2

Y

Come vedremo nel cap. 7, i monetaristi hanno ribattuto che questa situazione, con una troppo forte espansione della moneta e della domanda aggregata, potrebbe alla fine sfociare in una maggiore inflazione piuttosto che in un incremento di reddito. Tenere sotto controllo la crescita dello stock di moneta è quindi, secondo loro, il modo più diretto per tenere a bada l’inflazione 6. Altri obiettivi intermedi – in aggiunta ai tassi d’interesse ed allo stock di moneta – proposti nei decenni passati si riferivano al credito totale interno (che comprendeva non solo il credito al settore privato ma anche il fabbisogno finanziario del settore pubblico), al tasso di cambio, all’inflation targeting. Come si vedrà più avanti (cap. 10), l’inflation targeting ed il monetary targeting, ossia rispettivamente il controllo del tasso d’inflazione e della crescita dello stock di moneta, sono rimasti i due più importanti obiettivi intermedi dagli anni ’90 ad oggi. 5 Rappresentato

proprio dal segmento Y2 – Y1. scelta tra i due obiettivi intermedi (tassi d’interesse o stock di moneta) può essere diversa in un contesto d’incertezza, ossia se vi sono shock che possono colpire alternativamente il mercato dei beni oppure quelli finanziari (come mostra il modello di Poole: cfr. cap. 10). 6 La

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2.2. Modelli economici positivi e normativi Si è detto che l’economia politica cerca di rappresentare in modo semplificato gli aspetti fondamentali della realtà di un sistema economico (cfr. par. 1.1): la rappresentazione è più coerente e precisa se effettuata attraverso relazioni matematico-quantitative. I modelli economici positivi cercano di rappresentare la realtà economica attraverso equazioni, che contengono relazioni tra variabili. Questi modelli costituiscono la base su cui costruire i successivi modelli normativi. Le variabili possono essere classificate in relazione al ruolo giocato all’interno del modello positivo, in primo luogo, e poi in quello normativo. Individuiamo pertanto variabili: 1. endogene, ossia determinate all’interno del modello, ulteriormente distinguibili (avendo in mente il modello normativo) in variabili: 1.a. obiettivo; 1.b irrilevanti, che sono quelle variabili endogene, ossia determinate all’interno del modello, che non assumono una particolare rilevanza ai fini della politica economica che si intende intraprendere; 2. esogene, il cui valore è fissato all’esterno del modello, ulteriormente distinguibili (sempre avendo in mente il modello normativo) in variabili: 2a. esogene strumentali, manovrate dal policymaker (esempi: G, T, M, etc.) 7; 2b. esogene date, ossia quelle variabili esogene, quindi determinate all’esterno del modello, che non possono essere manovrate dalle autorità di politica economica, come i prezzi P nel modello IS-LM, Yw, Pw, iw e tutte le variabili “estere” nei modelli di economia aperta (dove il suffisso w sta per world), etc. I tipi di equazioni che entrano in un modello economico positivo (ossia dell’economia politica) sono pure vari, includendo equazioni: 1. comportamentali: esempi possono essere la funzione del consumo: C = C° + c Y; quella degli investimenti: I = Î – d i; etc. 2. definitorie (che sono delle identità): esempi sono la definizione della spesa aggregata: A  C + I + G; del risparmio: S  YD – C ; del disavanzo pubblico: D  G – T; etc.; 3. di equilibrio: per esempio l’equilibrio nel mercato dei beni: A = Y; oppure nella versione alternativa: S = I; l’equilibrio nel mercato della moneta: M/P = e Y – f i; etc. 4. tecniche o istituzionali: ad esempio la funzione di produzione (che lega l’output all’occupazione): Y = a N; le modalità di finanziamento del disavanzo pubblico (con titoli oppure con moneta): D = B + M; etc. I modelli economici positivi possono presentarsi in due modi: i. nella forma strutturale, che comprende le precedenti equazioni così come vengono proposte dalle teorie economiche; ii. nella forma ridotta, nella quale in ciascuna equazione compare una sola variabile endogena, che risulta funzione solamente delle variabili esogene 8 (e dei parametri). 7 Nelle analisi macroeconomiche introduttive, spesso per semplicità si considera la moneta offerta M uno strumento, anche se abbiamo visto poco sopra che essa è invece un obiettivo intermedio, in quanto non pienamente controllabile dalla banca centrale (in effetti dipende anche dal comportamento delle banche commerciali e dal valore del moltiplicatore monetario); il corrispondente strumento è invece H, la base monetaria o moneta ad alto potenziale. 8 O, più precisamente, delle variabili “predeterminate”, che includono le variabili esogene ed eventualmente quelle endogene ritardate.

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Si perviene alla forma ridotta attraverso alcune trasformazioni algebriche delle equazioni della forma strutturale. La forma ridotta è utile in quanto consente di: – effettuare delle simulazioni, od anche delle previsioni utilizzando i modelli econometrici, assegnando dei valori alle variabili esogene 9 e tramite la stima econometrica dei parametri (per esempio G  Y); – passare al modello normativo (di politica economica).

2.3. Soluzione dei modelli di politica economica con obiettivi fissi Per risolvere il modello di politica economica con obiettivi fissi occorre innanzi tutto trovare la forma ridotta del modello economico positivo. Per esempio, nel modello della “croce keyensiana”, la forma ridotta coincide con l’equazione [1.4], ossia l’equazione del moltiplicatore. Ora, dato l’obiettivo del reddito (Y) è facile individuare la spesa pubblica (G) quale possibile strumento. La cosiddetta forma ridotta inversa si ottiene quindi risolvendo l’equazione [1.4] per G: [2.1] G^ = (1 – c) Y^ – I – C° Nella [2.1], i valori dello strumento (G) e dell’obiettivo (Y) sono stati posti con un accento circonflesso, perché l’equazione mostra quale valore specifico (G^) deve assumere la spesa pubblica, una volta fissato un valore desiderato per il reddito (Y^), naturalmente a parità di condizioni (ossia per dati valori di c, C°, I) Nel caso più generale, partendo dall’ipotesi che gli obiettivi siano fissi, ossia determinati dal policymaker nel loro valore numerico, attraverso la forma ridotta inversa si assegnano dei valori desiderati alle variabili obiettivo e, supponendo note le variabili date, si derivano i valori degli strumenti, che divengono quindi l’incognita del problema (matematicamente si tratta di risolvere un sistema di equazioni simultanee). Un altro semplice esempio è dato dal noto modello IS-LM (cfr. par. 1.3). Dalle equazioni della forma strutturale del modello positivo 10 – da [1.5] a [1.10] – avevamo prima ricavato l’equazione della curva IS e poi quella della curva LM, giungendo infine all’equazione della forma ridotta [1.13], che può essere scritta in modo equivalente come [1.14]. Se assumiamo per il momento che l’obiettivo di politica economica sia dato dal reddito, una volta assegnato un valore numerico alla variabile-obiettivo Y, la forma ridotta inversa ci fornisce il valore da assegnare allo strumento (ad esempio G). La Tab. 2.1 ci mostra le corrispondenze tra le variabili del modello positivo e quelle del modello normativo, come pure come si arriva concettualmente alla forma ridotta inversa: G^ = f (Y^, ...).

9 Nonché

assegnando dei valori iniziali alle variabili ritardate (se presenti). riferimento alla forma strutturale di partenza, mentre la [1.5], la [1.6] e la [1.8] sono equazioni comportamentali, la [1.7] e la [1.10] sono condizioni d'equilibrio, la [1.9] è un’equazione definita “istituzionale” o “legale”. Tra le variabili endogene, Y ed i possono essere considerate variabili obiettivo, mentre C, I, L, Md, Ms sono irrilevanti. Tra le variabili esogene, G ed M possono essere individuate quali strumenti, mentre P è una variabile data. 10 Con

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Modelli, teorie e politiche

Tabella 2.1. – Modelli economici positivi e normativi Modello

Variabili

Positivo (dell’economia politica)

Normativo (della politica economica)

1. endogene

1.a) obiettivo [es. Y]

[esempio: Y, i nel modello IS-LM]

1.b) irrilevanti [es. i]

2. esogene

2.a) strumentali [es. G, T, M]

[esempio: P, G, T, M nel modello IS-LM]

2.b) date [es. P]

Soluzione

endogene = f (esogene)

strumenti = f (obiettivi, date)

Esempi

Y = f (G, T, M) [nel modello IS-LM]

G^ = f (Y^, ...)

G, T, M sono fissate in modo esogeno ed Y Y^ è fissato dal policymaker al livello è il risultato della soluzione del modello desiderato e G^ è quindi il risultato della soluzione del modello

Per spiegare meglio, facciamo un esempio numerico. Il modello positivo ci consente di calcolare l’effetto di un aumento della spesa pubblica (G), ad esempio 10 md. di euro, sul reddito; dati i valori dei parametri, supponiamo che Y risulti uguale a 16 md. di euro. Tale impatto finale tiene conto anche degli effetti indiretti, inclusa la retroazione monetaria sui tassi d’interesse e sugli investimenti. È evidente che in questo caso il moltiplicatore fiscale α (dell’equazione [1.14]), detto appunto moltiplicatore della forma ridotta, è pari a 1,6. Ebbene, con il modello di politica economica si ribalta questo ragionamento. Supponiamo che il governo voglia aumentare il prodotto di 20 md. di euro (Y^ = 20, dove ^ sta a significare che il valore di Y è prefissato al livello desiderato); la domanda diventa ora: di quanto il governo deve aumentare la spesa pubblica? Così, l’incognita del problema è ora proprio G, che (dato α = 1,6) è pari a 12,5 md. di euro. Un analogo ragionamento sarebbe seguito nel caso in cui volessimo utilizzare quale strumento la quantità di moneta (M). Nel caso più generale del modello IS-LM e se si considerano sia Y che i quali obiettivi, essendo il n° di equazioni della forma ridotta 11 coincidente con il n° di obiettivi (Y ed i appunto) ed il n° di incognite coincidente con il n° di strumenti (G ed M), il sistema continua ad avere una soluzione. La soluzione di politica economica comporta, una volta fissati i valori desiderati per le variabili obiettivo (Y^ ed i^) e date le variabili esogene non strumentali (P, C° ed I° in questo caso), nonché i valori numerici dei parametri, l'ottenimento dei valori per le variabili strumentali (G^ e M^). Infatti, se considerassimo anche il tasso d’interesse (i) quale obiettivo, invece che variabile irrilevante come supposto nella Tab. 2.1, allora il sistema avrebbe soluzione utilizzando due strumenti: la politica fiscale (che fa spostare la curva IS) e quella monetaria (che determina la posizione della LM): manovrando entrambe, il policymaker è in grado di raggiungere la coppia desiderata di obiettivi (Y^, i^). Nel caso generale di molti obiettivi e molti strumenti, vale infatti il famoso teorema di Tin11 La seconda equazione della forma ridotta del modello IS-LM si ottiene facilmente sostituendo la [1.13] nell’equazione [1.12] e risolvendo per il tasso d’interesse i, ricavando: i = (C° + I°) 1/[(1 – c)f/e + d] + G 1/[(1 – c)f/e + d] – (M/P) 1/[f + ed/(1 – c)].

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bergen, detto anche “regola aurea di politica economica”. Esso afferma che – volendo conseguire n obiettivi e disponendo di m strumenti – condizione necessaria perché un problema di politica economica (con obiettivi fissi) abbia soluzione è che m  n, ossia che il numero di strumenti sia uguale o superiore a quello degli obiettivi. Matematicamente dovrebbe essere m = n, poiché (come già osservato) il numero di obiettivi coincide con il numero di equazioni della forma ridotta ed il numero di strumenti coincide con il numero di incognite 12. Tuttavia, se gli strumenti fossero in numero superiore a quello degli obiettivi, il problema di politica economica continuerebbe ad avere soluzione: basterebbe non utilizzare uno o più strumenti. Una situazione più difficile sorge invece quando il numero di strumenti è inferiore a quello degli obiettivi: dato che rinunciare a (uno o più) obiettivi può essere problematico, si consiglia allora di cambiare approccio, passando al metodo degli obiettivi flessibili 13.

2.4. Obiettivi ottimi e funzione di perdita Gli obiettivi ottimi non sono prefissati nel loro valore numerico dal policymaker, ma vengono derivati tramite un processo di ottimizzazione, ossia la massimizzazione di una funzione di benessere sociale; la massimizzazione avviene sotto il vincolo del modello economico positivo. Se nell’approccio più tradizionale ai problemi di politica economica, la definizione degli obiettivi era considerato un problema “esterno”, ipotizzando che gli obiettivi siano fissati dal “politico” o all'interno del processo di interazione politico-economista, nelle analisi successive si è posto il problema di individuare degli obiettivi ottimi, chiamati da Tinbergen obiettivi flessibili. Questo problema è particolarmente importante in presenza di conflitti (trade-off) tra obiettivi oppure di disponibilità di un numero limitato di strumenti (inferiore al numero di obiettivi). L’equilibrio cui perviene un sistema economico, sottoposto alle azioni dei policymaker, dipende da due elementi essenziali: 1. dalle preferenze degli stessi policymaker; 2. dai vincoli a cui essi sono sottoposti, rappresentati dal sistema di equazioni del modello economico positivo. Il primo passo in questo approccio è quindi vedere come si possono esprimere le preferenze del policymaker. L’approccio classico per la determinazione di obiettivi ottimi consisteva nella massimizzazione di una funzione del benessere sociale (come suggerito sin dagli anni ’30 da A. Bergson) 14. Il primo modo di costruire la funzione di preferenza sociale risale alle 12 In effetti la condizione necessaria perché il sistema abbia soluzione è che m = n; ma come si spiega nel testo anche il caso m > n non pone problemi. La condizione sufficiente è invece che gli strumenti siano linearmente indipendenti tra di loro (ossia che il determinante della matrice dei coefficienti sia non nullo). 13 In talune circostanze, potrebbe essere necessario modificare la regola di Tinbergen del caso più semplice (n° strumenti = n° obiettivi), a causa dell’esigenza di disporre di un numero di strumenti superiore al numero di obiettivi, ad esempio quando non si sia sicuri della loro indipendenza oppure quando potrebbero risultare violate le cosiddette “condizioni-limite”; queste sono vincoli di tipo economico, politico od anche semplicemente tecnico (le condizioni di non negatività costituiscono un buon esempio), i quali ostacolano la piena manovrabilità degli strumenti di politica economica. 14 Questo approccio è stato in seguito modificato dal norvegese R. Frisch e dall’olandese H. Theil. La mas-

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proposte dello stesso A. Bergson e di P.A. Samuelson, ossia di aggregare le funzioni di preferenza individuali, espresse in termini di utilità; i problemi in questo caso si riferiscono alla necessità di sommare le preferenze individuali o di predisporre delle procedure di votazione 15. Successivamente, R. Frisch, per superare tali problemi, ha proposto di aggregare le funzioni individuali espresse direttamente in termini di quantità (delle diverse macrovariabili); tuttavia, anche questo criterio di aggregazione indicato da Frisch evidenzia delle difficoltà operative insuperabili. Anche la modalità alternativa di costruzione proposta dallo stesso Frisch (in seguito accolta anche da Tinbergen), secondo cui la funzione di preferenza sociale potrebbe esprimere direttamente le aspirazioni del politico (per cui l’economista funge solamente da “intervistatore”), non pare adeguata, soprattutto in considerazione delle perplessità derivanti dalla coincidenza del benessere sociale con gli obiettivi del politico. Un approccio opposto è seguito nei più recenti modelli macroeconomici “microfondati” (cfr. cap. 9), nei quali si parte dalla funzione di utilità di un agente rappresentativo. Anche quest’ultimo approccio è peraltro soggetto a limitazioni: sul piano teorico, esso è ammissibile solamente quando tutti gli individui sono identici ed hanno orizzonti infiniti (o partendo comunque da condizioni abbastanza restrittive); sul piano empirico, occorre riconoscere non solo che l’economia di mercato deve tener necessariamente conto anche di alcuni aspetti istituzionali, ma anche che vi è in genere una notevole eterogeneità tra gli agenti privati 16. Per tutte le difficoltà, teoriche e pratiche, sopra esposte, si preferisce perciò prendere le mosse da una funzione di perdita (loss function), la cui minimizzazione corrisponde alla massimizzazione della funzione di preferenza sociale. Questa funzione, nel caso di due obiettivi, uno di tipo reale e l’altro di tipo monetario 17, per esempio reddito (yt) e inflazione (t), può essere scritta come segue: [2.2] Min L = y (yt – y^t)2 +  (t – ^t)2 Il significato è che vengono minimizzate, sotto il vincolo del modello economico positivo (matematicamente si tratta di risolvere un problema di ottimo vincolato), le deviazioni 18 del simizzazione della funzione di preferenza avviene sotto il vincolo del modello economico positivo (sufficientemente disaggregato nell'approccio di R. Frisch, sino a comprendere al suo interno una matrice input-output); i vincoli inclusi nel modello econometrico sono di tipo probabilistico nell'approccio di H. Theil, che considera un sistema in condizioni d'incertezza. 15 Tali problemi – studiati nel filone noto come teoria della scelta sociale – consistono nei raffronti interpersonali di utilità e nella derivazione di preferenze sociali, in una società democratica, attraverso la regola della maggioranza. Infatti, il teorema dell'impossibilità di ARROW (1951) mostra che non esiste alcuna regola di aggregazione che soddisfi contemporaneamente una serie di requisiti ritenuti irrinunciabili per una società democratica. Inoltre, come è possibile tener conto delle preferenze delle generazioni future? Quest’ultimo problema fu inizialmente studiato da F. Ramsey nei suoi modelli di massimizzazione intertemporale dell’utilità (al fine di ottenere sentieri di crescita ottimali per il consumo od il risparmio). 16 Inoltre, i costi ed i benefici delle politiche economiche interessano gruppi diversi di soggetti caratterizzati da conflitti d’interesse (oppure si manifestano in momenti diversi). Anche senza citare le “classi” degli approcci classici e post-keynesiani, basti pensare alle contrapposizioni tra lavoratori ed imprenditori, tra consumatori ed investitori, tra rentiers (o, in modo più ristretto, detentori di titoli pubblici) e tax-payers (contribuenti), e così via. 17 L’obiettivo reale può essere il reddito, il prodotto, occupazione o disoccupazione, etc.; quello monetario l’inflazione (in genere da tenere il più bassa possibile per garantire una sostanziale stabilità dei prezzi). 18 Si è ipotizzata una funzione di perdita di tipo quadratico, poiché si assume generalmente che il costo marginale della deviazione di una macrovariabile dal proprio valore-obiettivo aumenti al crescere della deviazione.

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reddito (yt) e dell’inflazione (t) dai valori desiderati (y^t e ^t rispettivamente), dove y e  sono i pesi assegnati ai due obiettivi. Se y   significa che si attribuisce maggiore importanza alla stabilizzazione del reddito (e delle altre variabili reali) che non a quella dell’inflazione (e viceversa). Si noti che se la funzione di perdita è semplicemente scritta come: [2.3] L = (yt – y^t)2 +  (t – ^t)2 allora basta ipotizzare   1 per attribuire più importanza all’obiettivo di y. Più avanti vedremo come diverse scuole suggeriscono alternativi valori desiderati per le variabili y^t e ^t (cfr. cap. 7) 19.

2.5. Soluzione dei problemi con obiettivi ottimi e preferenze del policymaker Ora proponiamo una rappresentazione grafica del problema di ottimo vincolato, considerando una funzione di perdita leggermente diversa da quella precedente (sostituendo il tasso di disoccupazione ut al reddito yt), più comprensibile dato che il vincolo del problema è ampiamente noto. Si tratta infatti della curva di Phillips di breve periodo (la cui discussione più completa sarà presentata nel cap. 8) 20, come quella rappresentata dalle curve Ph della Fig. 2.2. Il problema di scelta di politica economica riguarda il trade-off tra inflazione () e disoccupazione (u). La funzione di perdita, che esprime le preferenze del policymaker, può essere scritta come: [2.4] L = u (ut – u^t)2 +  (t – ^t)2 ed il suo significato è del tutto analogo a quello precedentemente indicato. Figura 2.2. – L’equilibrio macroeconomico secondo l’approccio degli obiettivi ottimi 

Ph′ Ph

E a

A

B ua

uN

u

19 Qui anticipiamo solo che in un mondo classico/monetarista, tipici valori-obiettivo potrebbero essere y^ = y* e t π^t = 0, ossia reddito coincidente con il reddito di piena occupazione (che implica una disoccupazione desiderata vicina al livello naturale) ed inflazione nulla; in un mondo keynesiano y^t > y* e π^t > 0, ossia un reddito il più elevato possibile (con un tasso di disoccupazione involontaria desiderato tendente a zero) ed un’inflazione piccola ma positiva. 20 Invece le curve di Phillips di lungo periodo sono raffigurate dalle rette verticali soprastanti u n.

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Supponiamo per semplicità che i valori desiderati siano 21 u^t = 0 e ^t = 0; allora le curve d’indifferenza del policymaker (chiamate anche policy frontier), che sono la rappresentazione grafica di tale funzione, sono le molteplici curve – che in realtà sono infinite (e si può parlare infatti di “mappa di curve d’indifferenza” anche se nella Fig. 2.2 sono rappresentate solo due) – con le seguenti caratteristiche: – sono concave verso l’origine; – quanto più sono spostate in alto, tanto maggiore è la perdita ad esse associate (ovvero minore il benessere); – una perdita nulla (L = 0) è associata all’origine degli assi, che coincide in questo caso con il bliss point (punto della massima felicità), ossia con tasso d’inflazione e tasso di disoccupazione desiderati entrambi nulli. Si noti che l’equilibrio viene determinato nel punto in cui la più bassa curva di indifferenza (che è quella che minimizza la funzione di perdita), compatibile con il vincolo, è tangente alla curva di Phillips data (Ph nel grafico): il punto di tangenza è B, che quindi rappresenta l’equilibrio, ovvero il punto di ottimo di breve periodo. (Per ora tralasciamo di discutere dell’equilibrio di medio periodo E, sul quale ci soffermeremo nei capp. 8 e 9). Occorre aggiungere che l’inclinazione delle curve d’indifferenza è pure importante, infatti (cfr. Fig. 2.3): – curve poco inclinate (parte a del grafico) sono associate a policymaker conservatori (detti anche “hard-nosed”) che attribuiscono un peso maggiore alla stabilizzazione dell’inflazione rispetto a quella della disoccupazione (  u); – curve molto ripide (parte b) designano policymaker accomodanti (ossia “wet”) che danno più importanza alla disoccupazione che non all’inflazione (  u). Figura 2.3. – Diversi equilibri macroeconomici con differenti preferenze dei policymaker 

Ph 



Ph 

E Ph

Ph

b

B

E a

B ua

A uN

(a) Conservatore

A u

ub

uN

uN

u

(b) Accomodante

21 Una posizione alternativa consisterebbe nell’ammettere che un certo ammontare di disoccupazione “frizionale” può contribuire all’efficienza aggregata, ma che il tasso naturale di disoccupazione (un) è comunque troppo elevato; quindi, un tipico valore-obiettivo per il tasso di disoccupazione potrebbe essere 0 < u^ < un che coincide con l’obiettivo di pervenire ad un limitato superamento del reddito naturale. Una situazione di questo tipo sarà ad esempio ipotizzata nel cap. 9.

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Così, se confrontassimo due paesi che hanno condizioni strutturali dell’economia identiche (stesse curve di Phillips Ph), ma differenti preferenze, potremmo osservare equilibri (ossia punti di ottimo di breve periodo) differenti: a  b e ua  ub 22. Osserviamo infine che, perfino all’interno di un dato paese, le preferenze si possono modificare nel tempo, anche a seguito dell’evoluzione del quadro politico. Se per esempio, per uno stesso paese, ad un governo conservatore dovesse succedere, probabilmente dopo le elezioni, un governo accomodante, gli equilibri economici in quel paese passerebbero dalla posizione (a) a quella (b), con un’inflazione in aumento (b > a) ed una disoccupazione in diminuzione (ub < ua). Mentre nel caso del governo vi può essere una rilevante discontinuità nel tempo nelle preferenze (nel nostro esempio, rispetto ai livelli di inflazione e disoccupazione), si ritiene di solito che l’altra autorità di politica economica, la banca centrale, mostri una maggiore continuità, con una prevalente preferenza per bassi e stabili tassi di inflazione, anche al costo di contribuire a determinare tassi di disoccupazione più elevati, specie quando la banca centrale è autonoma e conservatrice (come vedremo nei capp. 9 e 10). In definitiva, differenti equilibri macroeconomici possono dipendere sia da diverse condizioni strutturali, ovvero caratteristiche strutturali del sistema economico (nel nostro caso rappresentate dalla curva di Phillips) sia dalle preferenze del policymaker (rappresentate nel grafico dalle sue curve d’indifferenza).

2.6. Aspetti teorici e pratici inerenti le scelte di politica economica Così come in economia politica è studiato il comportamento di diversi “soggetti istituzionali” (famiglie, imprese, banche, etc.), l’ipotesi inizialmente avanzata in politica economica che vi sia un unico policymaker è una drastica semplificazione. Nella realtà troviamo infatti diversi responsabili della politica economica: legislatori, governi centrali regionali e locali, amministratori, funzionari e burocrati, banchieri centrali, esponenti di lobbies ed opinion leaders, etc. Riguardo alle scelte di policy dei governi, essi perseguono, oltre agli obiettivi di politica economica, diversi altri obiettivi “non economici”, fra i quali riveste particolare importanza la “gestione o massimizzazione del consenso” per favorire un esito favorevole alla successiva tornata elettorale (sono i temi della scuola di Public Choice che sarà discussa nel cap. 5). Nelle democrazie normalmente i cittadini delegano il potere ai politici, che sono poi “valutati” al momento delle elezioni; i politici possono a loro volta delegare il potere ad altre istituzioni (banca centrale ed authority varie) attraverso un contratto che specifica in modo chiaro obiettivi e mezzi. Si ritiene che tali istituzioni debbano essere: – indipendenti, ovvero non soggette ad interferenze da parte di governi od altri; – accountable (“sindacabili”), ossia soggette ad un controllo periodico del proprio operato (ad esempio una banca centrale accountable deve periodicamente render conto del proprio operato al Parlamento e più in generale alla pubblica opinione). Comunque, se è vero che in recenti approcci si sottolineano i vantaggi di un decentramento delle decisioni di politica economica ad autorità indipendenti ed autonome, sia nella manovra degli strumenti sia (in certi casi) nella stessa scelta degli obiettivi, in altri approcci (più vicini al tradizionale filone keynesiano) si ribadisce la necessità di un coordinamento tra i diversi policymaker. 22 Anche esaminando gli equilibri di medio periodo successivi all’aggiustamento delle aspettative (come sarà illustrato nel cap. 9), quando u = un in entrambi i paesi, notiamo nel confronto dei punti E che: a  b.

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Non meno rilevante, in un’economia aperta, può essere il coordinamento internazionale delle politiche economiche nazionali. L'interdipendenza internazionale derivante dalla globalizzazione concerne non solo le economie reali (a causa dei movimenti di beni, servizi, capitali, lavoro ed altri fattori produttivi) ma anche i sistemi finanziari (cfr. cap. 14). I processi di liberalizzazione commerciale e finanziaria hanno accentuato l’instabilità dei singoli sistemi nazionali, sia per l’accresciuta vulnerabilità rispetto ad eventi esogeni (shock d’offerta, evoluzione delle ragioni di scambio, bolle finanziarie, crisi di fiducia, etc.), sia per la perdita di autonomia delle politiche economiche nazionali, sempre più condizionate da variabili quali la fase ciclica nei principali partner commerciali, i tassi di cambio, il tasso d’interesse sui mercati internazionali, il differenziale nei tassi d'inflazione, etc. In questo contesto, si parla di coordinamento internazionale a diversi livelli: (i) dalla semplice considerazione da parte delle autorità di politica economica delle “funzioni di reazione” degli altri policymaker, che può ad esempio dissuadere (almeno nei paesi più piccoli e più esportatori) dall’intraprendere possibili “guerre dei dazi” oppure “guerre dei cambi”; (ii) alla cooperazione internazionale, che implica azioni quali lo scambio di informazioni o la consultazione preventiva rispetto a decisioni rilevanti: come avviene ad esempio nell’ambito del G-20 (cfr. cap. 12); (iii) sino a comprendere strutture di “coordinamento” più o meno vincolanti: si pensi al “sistema di Bretton Woods” in vigore dopo la Seconda Guerra Mondiale fino al 1971 (pure discusso nel cap. 12) oppure al Sistema Monetario Europeo (soprattutto nel ventennio 1979-1998) o addirittura alla creazione dell’Unione Economica e Monetaria (dal 1999) che attualmente coinvolge 19 paesi europei (di cui si tratterà nel cap. 16). Ritornando ora al caso più semplice dell’economia chiusa, il successo delle politiche economiche dipende sia dalle caratteristiche dell'operatore pubblico (incluse le sue modalità di decisione ed intervento), sia dal comportamento degli agenti privati e dalla loro reazione alle politiche intraprese 23. Riguardo al primo punto, non va sottaciuta la “qualità” dei politici: oltre ad essere onesti, essi devono interpretare al meglio le aspirazioni dei membri della collettività ed eventualmente mediare tra differenti gruppi d’interesse, manifestando una decisa “volontà politica” di condurre a termine le politiche adottate. Invece purtroppo i politici hanno spesso un orizzonte temporale breve, quando le scelte di politica economica richiedono al contrario “lungimiranza” per gli effetti di sostenibilità e persistenza ad esse connesse. Parimenti importante è l’efficienza dell’apparato burocratico e dei diversi livelli della pubblica amministrazione, che in molte situazioni (come quella italiana) è spesso oberata da controlli di tipo formale, piuttosto che stimolata attraverso controlli di merito e da meccanismi di incentivazione (risultando così complessivamente statica e poco ricettiva nei confronti di riforme ed innovazioni) 24. Relativamente agli aspetti più teorici, si è cercato, con la “teoria della politica economica” 25, di fornire indicazioni sistematiche al fine di guidare l’azione delle autorità di politica 23 Quanto all’atteggiamento più o meno cooperativo degli agenti privati (consumatori, sindacati dei lavoratori, imprese di produzione ed associazioni di categoria, istituti di credito, etc.) torneremo nel cap. 9. 24 Si veda su questi temi PREDETTI (1992). Si aggiunga che una maggiore efficienza complessiva potrebbe essere favorita da riforme della pubblica amministrazione che aumentino la trasparenza delle decisioni (oggi più agevole grazie alla possibilità di diffusione su internet delle informazioni) e utilizzino in modo più efficiente il pubblico impiego (accrescendo la mobilità interna e collegando maggiormente le retribuzioni alle performance/produttività). 25 Si rinvia a testi come ACOCELLA et al. (1994, 1999, 2003 e 2012), GRAZIANI, VINCI (1992), MARANI et al. (2008), VALLI et al. (2000, 2009 e 2010) e, ad un livello più avanzato (anche con riferimento alle interrelazioni con i modelli macroeconomici) BALDUCCI et al. (2001 e 2002), CELLINI (2004 e 2011), DELLI GATTI et al. (2005 e 2011).

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economica, il cui comportamento è supposto ottimale, così come è ottimale quello degli agenti privati. Un esempio di questo approccio è proprio dato dalla minimizzazione di una funzione di perdita, coincidente con la massimizzazione della funzione-obiettivo del policymaker. In altre parole, per la soluzione dei problemi di politica economica si ricorre ad una procedura analoga a quella della teoria del controllo ottimo utilizzata in campo ingegneristico. Data una certa funzione di perdita, riferita ad un definito “orizzonte di programmazione” (per cui si tratta di un problema di ottimizzazione intertemporale), le variabili di controllo (ossia gli strumenti) sono determinate in modo da minimizzare le deviazioni delle variabili di stato (ovvero gli obiettivi) dai loro valori desiderati. Il problema di minimizzazione vincolata, in cui il vincolo è rappresentato dalla forma ridotta del modello positivo, può essere affrontato con le tecniche di “programmazione dinamica”; la soluzione del problema può essere rappresentata da una regola di retroazione, che esprime le variazioni ottimali delle variabili di controllo in funzione delle deviazioni delle variabili di stato 26. Il riferimento alle “regole di retroazione” del policymaker coinvolge la considerazione del grado di automatismo ovvero di discrezionalità nella fissazione di strumenti ed obiettivi di politica economica. Questo è ad esempio il problema dell’opportunità di introdurre un sistema di regole di politica economica, le quali possono semplificare il processo decisionale ed amministrativo, specie in presenza di perturbazioni imprevedibili e ripetute, e limitare i comportamenti opportunistici dei policymaker (rafforzando così la credibilità delle politiche economiche); anche in questo caso, le regole possono essere comunque più o meno “flessibili”, come si vedrà a proposito del dibattito tra monetaristi e keynesiani (cfr. cap. 7). La considerazione dei vantaggi derivanti dall'introduzione di un certo grado di automatismo negli strumenti ha inoltre portato all'individuazione dei cosiddetti “stabilizzatori automatici” 27. Riconsiderando invece il primo approccio analizzato in questo capitolo, quello con obiettivi fissi, se il numero degli strumenti di politica economica è elevato e superiore a quello degli obiettivi (altrimenti gli strumenti disponibili andrebbero tutti utilizzati secondo la regola di Tinbergen) si pone un problema di scelta o selezione degli strumenti. La scelta è normalmente basata su considerazioni di efficacia (relativa). In generale, l’efficacia di un dato strumento rispetto ad un prefissato obiettivo dipende da elementi quali: (i) la sua efficienza, che può essere misurata come rapporto tra variazione dell'obiettivo e variazione dello strumento; (ii) il suo costo, che comprende sia il costo diretto sopportato dall’operatore pubblico (anche di tipo amministrativo), sia i costi indiretti sopportati dagli agenti economici privati (inclusa la necessità di adattamento alle politiche intraprese), sia e soprattutto i costi in termini di trade-off o conflitti rispetto ad altri obiettivi; (iii) i suoi ritardi, interni ed esterni (cfr. cap. 7). Inoltre, nel caso complesso di molteplici strumenti ed obiettivi, può sorgere un problema di assegnazione degli strumenti agli obiettivi, problema particolarmente rilevante quando le politiche economiche sono intraprese in modo decentrato e non coordinato da differenti policymaker. Nei modelli di economia aperta, il problema può essere ad esempio risolto assegnando la politica fiscale all’obiettivo interno (reddito) e quella monetaria all’obiettivo esterno (saldo della bilancia dei pagamenti) 28. 26 Una regola di retroazione è definita closed-loop, poiché è contingente rispetto allo stato del sistema in ogni periodo; in una regola di tipo open-loop, le variabili di controllo sarebbero invece determinate sin dall'inizio, indipendentemente dallo stato del sistema. La distinzione è tuttavia rilevante solamente in un ambiente stocastico, ossia in condizioni d’incertezza circa i valori che potrebbero essere assunti dalle variabili di stato. Cfr. CUTHBERTSON, TAYLOR (1987). 27 Sono particolari variabili strumentali in grado di ridurre o eliminare del tutto il cosiddetto “ritardo interno” della politica economica (cfr. cap. 7). 28 Il problema dell’assegnazione degli strumenti di politica economica (secondo il principio della “classifica-

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Modelli, teorie e politiche

Un esempio più specifico può essere fatto con riferimento all’economia chiusa. Infatti lo strumento monetario viene normalmente assegnato al controllo dei prezzi (ossia delle variabili nominali) e quello fiscale al sostegno del reddito (ovvero delle variabili reali). Semplificando, se con Y indichiamo il reddito reale, con P il livello dei prezzi, con M la quantità di moneta e con F un indice dell’intervento fiscale (ad esempio il “disavanzo pubblico di piena occupazione” 29), e se supponiamo che entrambi gli strumenti siano in una certa misura disponibili per il raggiungimento di entrambi gli obiettivi, possiamo scrivere le seguenti relazioni (in cui il simbolo Δ significa variazione): ΔY = αmy ΔM + αfy ΔF ΔP = αmp ΔM + αfp ΔF Ebbene, la politica fiscale deve essere assegnata al controllo del reddito reale e quella monetaria a quello dei prezzi, se è verificata la seguente condizione: (αfy/αmy) > (αfp/αmp); ovvero ciascuno strumento è assegnato all’obiettivo per cui ha l’effetto diretto maggiore. Il problema dell’assegnazione diviene naturalmente più complesso considerando anche il costo associato all’utilizzo dei due strumenti.

zione effettiva dei mercati”) ai due principali obiettivi, equilibrio interno (livello del reddito e dell’occupazione) ed equilibrio esterno (bilancia dei pagamenti), era affrontato da MUNDELL (1962) in relazione ad alternativi regimi di cambio (cambi fissi o flessibili) e diverse condizioni di mobilità internazionale dei capitali. 29 Di cui si tratterà nel cap. 11.

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3.1. I fini di politica economica e le principali politiche Nel precedente capitolo abbiamo presentato alcune classificazioni degli obiettivi di politica economica (fissi o flessibili, intermedi o finali). Al di là delle questioni tecniche relative ai modelli di politica economica, ora volgiamo l’attenzione ai fini ultimi per cui le politiche economiche sono adottate, ciò che è strettamente interrelato con la tipologia delle politiche economiche. Secondo la nota tripartizione di Musgrave, si ritiene che la politica economica abbia tre finalità principali: 1. allocare più efficientemente le risorse; 2. stabilizzare il sistema macroeconomico; 3. redistribuire il reddito e la ricchezza. Quali politiche possono essere impiegate per conseguire questi fini? Se consideriamo le principali politiche economiche utilizzate nei paesi occidentali dall’ultimo dopoguerra (ossia dalla rivoluzione keynesiana in poi), notiamo che esse possono essere raggruppate in tre categorie fondamentali, che grosso modo rispecchiano questa tripartizione: 1. politiche economiche strutturali, dette anche microeconomiche o politiche d’offerta: esse sono essenzialmente rivolte alle problematiche dell'allocazione delle risorse, ma anche a quelle della crescita economica nel lungo periodo; 2. politiche economiche di stabilizzazione di breve periodo, dette anche macroeconomiche, di controllo della domanda aggregata (a volte chiamate anti-cicliche); 3. politiche redistributive, volte a modificare la distribuzione del reddito e della ricchezza. Le politiche microeconomiche o strutturali (punto 1) mirano ad obiettivi di efficienza 1; di solito sono approfondite in aree disciplinari specifiche: economia e politica industriale, economia e politica regionale, economia e politica del lavoro, etc. Esse però hanno anche effetti sul sistema macroeconomico: infatti, sono dette politiche d’offerta in quanto riescono a far spostare la curva di offerta aggregata AS 2. Come spiegato nel cap. 1, esse corrispondono ad uno shock d’offerta positivo, ossia che sposta la curva di offerta verso l’esterno (aumentando Y e riducendo P). Adeguate politiche dell’offerta riescono perfino a far diminuire la disoccupazione naturale un 1 Intesa sia da un punto di vista statico (efficiente allocazione delle risorse) sia in termini dinamici (accumulazione e crescita). 2 In termini di curva di Phillips, appropriate politiche strutturali riescono (come vedremo nel cap. 8) a migliorare il trade-off inflazione/disoccupazione spostando la curva di Phillips di breve periodo verso l’interno.

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(ad esempio grazie a politiche specifiche per il mercato del lavoro), ad accrescere il livello del prodotto potenziale 3 Y* (è il caso delle politiche industriali ed a favore della concorrenza) e ad innalzare il tasso di crescita del prodotto di lungo periodo gy (agendo sul progresso tecnico, sulle innovazioni, sulla ricerca e sviluppo, sulla formazione del capitale umano). Venendo al secondo tipo di politiche (punto 2), le politiche di stabilizzazione o di controllo della domanda aggregata agiscono invece sulla curva AD (che si sposta verso l’esterno se espansive e verso l’interno se restrittive). Esse mirano ad obiettivi di stabilità macroeconomica; per esempio a stabilizzare il livello del prodotto attorno al livello di pieno impiego (Y*), pur non riuscendo a modificare quest’ultimo; servono quindi per facilitare l’uscita da una situazione di recessione o di fase ciclica negativa (ecco perché sono definite anche anticicliche), quando Y  Y*; in certi casi, riescono per un breve periodo ad innalzare il livello del prodotto al di sopra di Y*. Oltre al reddito (Y), un altro obiettivo è naturalmente la stabilità dei prezzi (P). Quanto al terzo tipo di politiche (punto 3), quelle redistributive, il fine ultimo è quello di perseguire l’equità e la giustizia sociale. Esse possono essere giustificate dall'esistenza di distribuzioni del reddito e della ricchezza ritenute intollerabili o indesiderabili poiché fortemente inique; più in particolare comprendono anche le politiche di contrasto alla povertà. Poiché i primi due capitoli di questo libro (come pure molti altri a seguire) sono rivolti allo studio dei problemi di stabilizzazione macroeconomica, in questo capitolo approfondiremo invece le finalità redistributive e allocative. Prima però proponiamo alcune ulteriori osservazioni su politica fiscale e politica monetaria. Esse sono le due principali politiche di stabilizzazione: – la politica fiscale controlla la domanda aggregata e quindi il reddito (Y) attraverso variazioni di G, T e del saldo D (= G – T) del bilancio pubblico (per questo è chiamata anche “politica di bilancio”); evidentemente essa influenza anche il livello dei prezzi (come si nota quando si sposta la curva AD); – la politica monetaria ha come obiettivo primario la stabilità monetaria, ossia la stabilità del valore interno (controllo del livello dei prezzi) ed esterno (controllo del tasso di cambio) della moneta nazionale; un altro obiettivo della stessa politica monetaria è la stabilizzazione del reddito; inoltre, con la crisi degli ultimi anni, è cresciuto il ruolo della banca centrale nel favorire o ripristinare la complessiva stabilità dei sistemi creditizi e dei mercati finanziari. Pare quindi esserci un’elevata simmetria tra le due politiche (nel modello IS-LM una sposta la curva IS e l’altra la curva LM), dato che entrambe influenzano sia il livello del reddito sia quello dei prezzi. Tuttavia mentre la politica monetaria è solamente una politica di stabilizzazione macroeconomica, la politica fiscale invece può essere vista come strumento: – sia delle politiche di stabilizzazione macroeconomica: le variazioni di G e T fanno spostare tanto la curva IS quanto la curva AD; – sia di quelle allocative, quando agisce dal lato dell’offerta, quindi sullo stesso livello di produzione potenziale (Y*), ad esempio incentivando o disincentivando specifici comportamenti degli agenti privati (come spiegheremo nel par. 3.3) oppure agendo sull’accumulazione di capitale (anche attraverso gli investimenti pubblici); – sia infine di quelle redistributive: in questo caso, la tassazione ed i trasferimenti a famiglie e imprese sono i principali strumenti di intervento (è questo l’argomento del prossimo paragrafo). 3 Come vedremo nel cap. 6, il prodotto potenziale (o di pieno impiego), Y*, è l’equivalente empirico del concetto teorico di prodotto naturale (Yn).

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3.2. Le politiche redistributive In relazione alle finalità redistributive, premettiamo innanzi tutto che vi sono numerose accezioni del concetto di distribuzione del reddito: – funzionale: ossia tra i fattori della produzione, ad esempio tra capitale e lavoro (qui vi è un richiamo evidente alla distribuzione tra classi sociali studiata dagli economisti classici); – personale: tra individui (spesso sintetizzata in indicatori di concentrazione dei redditi, come il noto indice di Gini); – familiare: tra famiglie (che può essere influenzata dall’incidenza delle persone inattive, bambini o anziani); – territoriale: riguarda ad esempio le disparità regionali (esistenti all’interno di singoli paesi o dell’UE); – sociale: riguarda soprattutto le fasce deboli della popolazione, i poveri, le minoranze, etc.; – intergenerazionale: concerne la distribuzione tra generazioni successive (vi influiscono gli interventi sulla spesa pensionistica piuttosto che quelli per l’istruzione, nonché gli effetti di un aumento corrente del debito pubblico che trasferisce l’onere alle generazioni future). Al fine di correggere una distribuzione – del reddito e della ricchezza – ritenuta iniqua, vi è l’azione redistributiva dello Stato, che agisce attraverso la politica fiscale, ed in particolare gli interventi connessi alla spesa per il Welfare state. Il Welfare state è nato in Inghilterra con il “piano Beveridge” del 1942 ed ha avuto in seguito una notevole diffusione in tutti i paesi nord-europei, in primo luogo nei paesi scandinavi. In precedenza, la maggior parte degli economisti riteneva opportuno limitare la propria attenzione e le proprie analisi agli obiettivi di stabilità e di efficienza, riservando le finalità equitative e distributive alla sfera più squisitamente politica 4. Tuttavia, una volta acquisiti livelli soddisfacenti di sviluppo, l’attenzione in molti paesi occidentali si è rivolta alle finalità redistributive, anche in conseguenza di persistenti e crescenti diseguaglianze (soprattutto in alcuni paesi). Sulla scia della rivoluzione keynesiana (cfr. cap. 4), a partire dagli anni ’60 del Novecento, si sono diffuse opinioni circa l’esistenza di un trade-off tra equità ed efficienza (OKUN, 1975), precedentemente negato 5. È vero che anche diversi economisti keynesiani avevano sottovalutato la necessità di politiche redistributive, sostenendo che la politica economica è in grado di perseguire contemporaneamente obiettivi di efficienza ed equità. Infatti, un’economia che è messa nelle condizioni di operare in condizioni di piena (o quasi) occupazione, evita non solo uno spreco di risorse nel breve periodo 6, ma anche l’ingiustizia di precludere ad alcuni l’accesso al lavoro. Una politica espansiva facilita la soluzione dei problemi distributivi, poiché consente di accrescere non solo i salari (quindi i consumi ed il benessere immediato della popolazione) ma anche i profitti (quindi l’accumulazione di capitale e la crescita economica); e si potrebbe proseguire con altri esempi. Si aggiunga che tutte le politiche – comprese quelle strutturali e di stabilizzazione – e non solo quelle esplicitamente redistributive possono avere effetti distributivi più o meno importanti. I campi d'intervento del welfare state (chiamato a volte Stato sociale, Stato del benessere 4 Economisti

pre-keynesiani come L. Robbins consideravano l’economia politica come “scienza neutrale”. in altri ambiti, come quello dell’economia del benessere, le finalità redistributive erano ben evidenti; si pensi alla “teoria della giustizia” di RAWLS (1971), secondo cui il benessere sociale aumenta quando si sceglie tra diversi stati della società quello che massimizza la soddisfazione dell'individuo più sfavorito. 6 Oltre a favorire la crescita economica di lungo periodo, grazie ai processi dinamici che agiscono attraverso l’innovatività, l’iniziativa imprenditoriale, la mobilità e la riqualificazione delle risorse umane, l’aggiustamento strutturale. 5 Anche

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o Stato assistenziale) sono stati molto vari, spaziando dai trasferimenti alle famiglie alla sicurezza sociale (previdenza ed assistenza), dalla sanità all'istruzione, dalla fornitura di servizi in natura (cibo, edilizia popolare, asili, assistenza agli anziani) ad altri ancora. Anche se le finalità sono essenzialmente redistributive, non mancano giustificazioni extra-economiche (quali la dignità della persona e la solidarietà sociale). Solo dai primi anni ’90, anche a causa dei limiti posti dalle risorse disponibili e dai vincoli del bilancio pubblico, è stata svolta un'analisi del “welfare state” in termini di efficienza 7. Le finalità redistributive (o equitative) possono riguardare: – la lotta alla povertà (il problema è in questo caso quello di definire empiricamente una “linea della povertà”); – la stabilizzazione dei redditi individuali, sia nei confronti di rischi quali malattia e disoccupazione, sia rispetto alle oscillazioni durante il ciclo vitale (da qui gli schemi pensionistici); – la riduzione delle ineguaglianze di reddito, sia di tipo verticale (rilevante è in questo caso la distribuzione dei redditi personali e familiari), sia di tipo orizzontale (in funzione dell’età, del sesso, delle dimensioni della famiglia, della sua localizzazione, etc.); – il miglioramento della distribuzione delle opportunità (di investimento in istruzione, di lavoro e di reddito) aumentando il grado di “mobilità sociale” 8. Gli strumenti d'intervento comprendono: sussidi di prezzo (ad esempio per contenere il prezzo dei farmaci o di generi alimentari di prima necessità); regolamentazione, di quantità (sicurezza sociale obbligatoria), di qualità (norme igieniche per i beni di consumo), o di prezzo (salari minimi); produzione pubblica diretta (scuole, ospedali, etc.). Uno strumento molto utilizzato, in aggiunta alle imposte progressive 9 ed alla spesa pubblica 10 in senso stretto, sono i trasferimenti di reddito (pensioni sociali e non, assegni familiari, sussidi di disoccupazione), cui possono aggiungersi in casi particolari i trasferimenti in natura. Mentre la produzione pubblica diretta di servizi di welfare è abbastanza diffusa in Europa, in altri casi (ad esempio per i servizi sanitari negli Stati Uniti) lo Stato opera dei trasferimenti di reddito affinché i servizi del welfare siano acquistati presso operatori privati oppure mantiene bassa la pressione fiscale (cosicché tali servizi possano essere acquistati sul mercato) 11. 7 Vedasi ad esempio la rassegna di BARR (1992); nella maggior parte dei casi la giustificazione del welfare state è fatta discendere dall’esistenza di problemi informativi. Da un altro punto di vista, la tassazione progressiva (o redistributiva) è stata analizzata nel suo ruolo di assicurazione e riduzione del rischio (ovvero di stabilizzazione dei redditi individuali, anche lungo il ciclo vitale); tutelati dalla sicurezza sociale, gli individui intraprendono attività rischiose, ma profittevoli, accrescendo il benessere del sistema (ovviamente se si riesce a far fronte alle situazioni di “azzardo morale”); cfr. SINN (1995). 8 Alcuni paesi (come gli Stati Uniti), che hanno una peggiore distribuzione del reddito e della ricchezza, presentano un più elevato grado di mobilità sociale (che, in un certo senso, rende socialmente meno intollerabile tale distribuzione) e, viceversa, taluni paesi con una migliore distribuzione del reddito tendono a presentare una minore mobilità sociale. Il caso italiano costituisce un’importante eccezione tra i paesi più avanzati (avvicinandosi a situazioni tipiche dei paesi in via di sviluppo) poiché ad una persistentemente bassa mobilità sociale si accompagna una distribuzione del reddito e della ricchezza piuttosto iniqua ed in ulteriore peggioramento. 9 Ossia con aliquote crescenti al crescere del reddito individuale o familiare (diversamente dai sistemi impositivi con aliquota unica o flat tax), oltre all’introduzione di limiti esenti, detrazioni o deduzioni d’imposta, etc. 10 Sia spese pubbliche correnti, in particolare per l’istruzione, la sanità, gli interventi sociali ed altri servizi pubblici; sia spese pubbliche in conto capitale (investimenti pubblici): infrastrutture e servizi di trasporto, edilizia popolare, scolastica ed ospedaliera. 11 Non a caso la “pressione fiscale” (entrate fiscali/Pil) è inferiore negli Stati Uniti (dove la gran parte della

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È proprio nei paesi europei che, dalla Gran Bretagna nel primo dopoguerra, alla Svezia, alla Germania e poi via via a tutti gli altri paesi, si era imposto un modello universale di welfare state, ossia esteso alla generalità dei cittadini, anche per rispondere a finalità più ampie, come quella della “solidarietà sociale”. Così, in molti paesi europei la spesa per il welfare state è venuta a superare frequentemente il 25% del Pil (rispetto ad un'incidenza attorno al 50% per la spesa pubblica complessiva) 12. Questa espansione del welfare state è stata una delle cause sottostanti alla continua espansione del settore pubblico in economia nei paesi europei (si veda anche il successivo par. 3.4). L’inversione di tendenza riscontrata in molti paesi a partire dagli anni ’80-’90 (su cui ci soffermeremo invece nel cap. 5) ha messo in crisi anche il modello di welfare. Da allora, sempre più interventi assistenziali sono resi non dallo Stato, ma da operatori che agiscono in quell'area compresa tra lo Stato ed il mercato, chiamata terzo settore o settore nonprofit. Questo settore spazia dalla famiglia, alle comunità di base (religiose e laiche), alle organizzazioni non governative (Ong), al volontariato, all'associazionismo, alle cooperative, agli enti senza fini di lucro 13. Esso ha risposto ai fallimenti del mercato con costi (generalmente) inferiori e qualità talvolta superiore rispetto all'intervento pubblico 14. Non è un caso, peraltro, che proprio dagli anni ’80 del Novecento si riscontra un progressivo peggioramento della distribuzione del reddito, sia per il restringimento del welfare pubblico sia per la sempre più accentuata competizione nel sistema capitalistico globale 15 e la finanziarizzazione dell’economia (si veda anche il cap. 14). Il peggioramento distributivo è evidente a diversi livelli. Riguardo ai fattori produttivi, la quota del prodotto distribuita al fattore lavoro si è progressivamente contratta rispetto a quella destinata al fattore capitale (PIKETTY, 2014); e sono soprattutto i lavoratori unskilled, poco qualificati, quelli che hanno visto peggiorare la propria condizione, relativa e in certi casi assoluta. In realtà, le disuguaglianze non riguardano più soltanto la contrapposizione classica tra “lavoratori” e “capitalisti”, sebbene questi ultimi si siano avvantaggiati dall’estrema finanziarizzazione dell’economia, sfruttando rendite finanziarie spesso ingiustificate, ossia derivanti da mere attività speculative. Infatti, anche tra i lavoratori, le distanze che separano i redditi dei top manager rispetto ai lavoratori spesa sanitaria è spesa privata) rispetto ai paesi europei. Tuttavia, il costo del sistema sanitario americano (il doppio in termini di Pil rispetto alla media europea) assieme alla mancata copertura assicurativa di decine di milioni di residenti hanno spinto il presidente Obama a far approvare al Congresso una riforma, in seguito parzialmente modificata sotto l’amministrazione Trump. 12 Naturalmente le implicazioni di una maggiore spesa per il Welfare state dipendono molto anche dalla “qualità” dei servizi pubblici connessi a una parte di tale spesa pubblica; in generale, i paesi con una maggiore (e migliore) spesa per il welfare state si caratterizzano per più bassi tassi di povertà e una minore diseguaglianza. 13 In proposito, si veda, ad esempio, TORTIA (2014); per riferimenti al caso italiano, cfr. BORZAGA, FIORENTINI, MATACENA (1996). 14 Secondo alcuni autori la presa d'atto dei limiti sia dello Stato sia del mercato deve indurre a riconsiderare il ruolo della società civile, intesa come insieme di corpi intermedi organizzati (associazioni di cittadini, imprese sociali, cooperative, associazioni professionali, fondazioni, etc.), applicare il principio di “sussidiarietà orizzontale” e, quindi, realizzare una simbiosi virtuosa tra la mano invisibile del mercato, la mano visibile dello Stato e la mano fraternizzante dei corpi intermedi della società; cfr. COZZI, ZAMAGNI (2002), p. 533 ss. La sussidiarietà orizzontale è il principio che indica la priorità delle iniziative che nascono “dal basso”, dalle persone e dalle comunità, per la realizzazione del bene comune ed impone ai livelli superiori di organizzazione sociale di non sostituirsi a quelli inferiori, ma di intervenire, se necessario, solo in loro aiuto. Non va tuttavia dimenticato che il “terzo settore” ha una elevata varianza di esiti in termini di performance (costi e qualità) e talvolta non è immune da episodi di illegalità e corruzione. 15 Che certamente ha avuto effetti anche positivi, come il rapido sviluppo delle economie emergenti (come vedremo nel cap. 13).

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meno qualificati (operai ed impiegati) sono divenute abissali (con un rapporto che può giungere fino a 1 a 1000) 16. L’impoverimento delle classi medie, anche nei paesi occidentali, ha causato un peggioramento generale nella distribuzione dei redditi, come evidenziato dall’indice di concentrazione di Gini, in aumento in diversi paesi (cfr. cap. 13). La percentuale di reddito e ricchezza detenuto dalle fasce più agiate della popolazione (il 20%, 10% o 1% più benestante) è in continua espansione 17. O ancora, nel 2017 il 20% più ricco degli italiani deteneva oltre il 66% della ricchezza nazionale netta, mentre il 50% più povero solo l’8,5% 18. L’equità distributiva ha subito un ulteriore deterioramento marcato durante la crisi iniziata nel 2007-08 (cfr. FADDA, TRIDICO, 2017). Questa evoluzione insoddisfacente sul piano distributivo ha già avuto un impatto non solo a livello economico e sociale ma anche in campo politico, portando all’affermazione di movimenti definiti populisti e/o “sovranisti” in molti paesi: dal successo della Brexit nel referendum inglese (2016) alla vittoria di Trump negli Usa (nello stesso anno), dai governi sovranisti e parzialmente anti-europei in diversi paesi dell’Est europeo al successo di Lega e Movimento 5 Stelle in Italia (nel 2018). Resta tutto da verificare se tali movimenti, una volta al governo, riusciranno davvero a migliorare non solo la distribuzione del reddito, ma anche la complessiva performance economico-sociale.

3.3. Le politiche strutturali Le politiche strutturali (o d’offerta) agiscono direttamente sulle “microfondamenta” economiche: per questo sono da taluni definite politiche microeconomiche. Esempi non esaustivi comprendono: – la politica industriale, con interventi mirati ai settori, ossia di tipo “verticale”, oppure ai fattori produttivi, quindi di tipo “orizzontale”; misure più specifiche a sostegno della ricerca e sviluppo (R&S) e dell’innovazione, degli investimenti e dell’iniziativa imprenditoriale; azioni per l’innalzamento della produttività; – le politiche commerciali in economia aperta: protezionismo, sostegno delle esportazioni (cfr. cap. 14); – le politiche del lavoro: politiche passive e/o attive per il mercato del lavoro (cfr. cap. 21); per l’istruzione (capitale umano) e la transizione scuola/università-lavoro, per la mobilità sociale e territoriale; – la politica regionale (di sviluppo o riequilibrio territoriale), per i trasporti e le comunicazioni (per lo sviluppo delle connessioni digitali, etc.); – le politiche energetiche e per la salvaguardia ambientale, e così via. Il fine è di realizzare un’allocazione più efficiente delle risorse quando si presentano situazioni di “market failure” (fallimento del mercato): queste situazioni saranno illustrate nel par. 5.1. Quando le inefficienze sono causate da agenti privati, che ad esempio sfruttano il proprio 16 Un altro mondo, quello odierno, rispetto a quello idealizzato mezzo secolo fa dall’imprenditore illuminato Adriano Olivetti, secondo il quale doveva valere una “regola morale” tale per cui il rapporto tra le retribuzioni più elevate dei dirigenti e quelle più basse nell’impresa non poteva essere superiore a dieci volte. 17 Per esempio, in Italia l’indice di disuguaglianza del reddito disponibile, ossia il rapporto tra il reddito equivalente totale ricevuto dal 20% più ricco della popolazione e quello del 20% più povero, è salito da 5,2 del 2007 al 6,4 del 2017 (cfr. Ministero dell’economia e finanza, Documento di economia e finanza, 2018). 18 Cfr. Oxfam, Rapporto 2018 (www.oxfamitalia.org).

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potere di mercato (posizioni monopolistiche, oligopolistiche o di rendita), o dall’operatore pubblico, attraverso vincoli non sempre necessari, si parla rispettivamente di liberalizzazione dei mercati e di deregolamentazione. Una riforma strutturale consiste in un complesso intervento pubblico che comprende numerosi strumenti quantitativi e qualitativi. Pur essendo politiche microeconomiche, possono avere un evidente impatto macroeconomico: come spiegato all’inizio di questo capitolo fanno spostare la curva di offerta aggregata (ed anche la curva di Phillips). Al di là della giustificazione teorica di questi interventi pubblici, può essere utile proporre una classificazione delle principali politiche strutturali, incentrata sugli strumenti specifici utilizzati e sulle modalità d’intervento dello Stato nell’economia. Consideriamo i seguenti quattro tipi. Tipo (i) – Politiche che fissano il quadro economico-istituzionale e le regole generali di funzionamento dei mercati 19. Al primo posto della nostra classificazione ci sono le disposizioni contenute nella Costituzione dello Stato e nelle norme generali “permanenti”, anche derivanti dai Trattati internazionali o da comunità sovranazionali come l’Unione europea. Vi sono poi le norme relative ai diritti di proprietà, ai contratti, al diritto societario, all'attività dei sindacati ed alla disciplina dei rapporti di lavoro, ai poteri di specifiche istituzioni e delle stesse autorità di politica economica, inclusa la banca centrale. Queste norme generali includono infine i provvedimenti a difesa della libera concorrenza: rimozione delle rigidità e delle imperfezioni di mercato, tutela della concorrenza, normativa antitrust, etc. Tipo (ii) – Regolamentazione dell’iniziativa privata, quando si vogliano vietare o contenere attività nocive (come le produzioni inquinanti); le azioni possono essere più o meno incisive quali: – norme e restrizioni amministrative: autorizzazioni, licenze, brevetti, controlli all’entrata e di prezzo, norme tecniche e standard qualitativi, tutela dei consumatori, dei lavoratori ed ambientale, vincoli localizzativi; – forme pervasive di disciplina della concorrenza o addirittura dell’organizzazione dei mercati, controlli generalizzati dei salari e dei prezzi; – schemi di tipo programmatorio (come quelli adottati anche in Italia negli anni ’60: cfr. par. 3.4). Tipo (iii) – Interventi correttivi nel caso di limitate “market failure”, attuati soprattutto tramite incentivi e disincentivi all’iniziativa privata: – monetari: imposte, sussidi, agevolazioni fiscali e creditizie (per esempio fiscalità di favore per le aree territoriali meno sviluppate), etc.; – reali diretti: commesse pubbliche 20, sostegno alle esportazioni, protezionismo tariffario e non tariffario; 19 Le due principali “istituzioni” che si ritrovano in qualunque economia monetaria di mercato sono appunto la moneta ed il mercato. Nei paesi occidentali si danno normalmente per acquisite le norme afferenti alle politiche del tipo (i). La transizione ad un’economia di mercato non è però un’operazione semplice, come mostra l’esperienza dei paesi dell’Est Europa negli anni ’90 (cfr. MARELLI, SIGNORELLI, 2010a). 20 Perfino nel paese che vede il mercato in posizioni di assoluta priorità, gli Usa, le commesse pubbliche – ad esempio all’industria militare ed aereo-spaziale – hanno favorito lo sviluppo di numerose industrie, inclusa l’elettronica, i sistemi informatici, internet, etc.

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– reali indiretti (che agiscono attraverso le esternalità ed il miglioramento dell’ambiente di mercato): ad esempio, aiuti alla R&S, alla formazione del capitale umano, predisposizione di infrastrutture, trasporti, comunicazioni, servizi avanzati. Tipo (iv) – Intervento pubblico diretto nella produzione (in aggiunta alla fornitura di beni e servizi pubblici), specie nei settori cosiddetti “strategici”, tramite: – le imprese pubbliche in senso stretto: statali, locali, aziende autonome, municipalizzate; – le imprese a partecipazione statale. Si noti che gli interventi pubblici al punto (i) non sono affatto in contrasto con un’economia “liberale” di mercato; anzi, definiscono le fondamentali “regole del gioco” che consentono alle forze del mercato di esprimersi, rafforzandole quando sono minacciate (ad esempio da comportamenti o situazioni anti-competitive). Essi includono quindi le azioni di liberalizzazione dei mercati, la rimozione delle rigidità (specie di prezzi e salari), delle frizioni (ad esempio alla mobilità di beni e fattori) e di ogni altra limitazione (incluse le carenze informative ed i problemi di coordinamento) al libero esplicarsi delle forze di mercato, in un contesto concorrenziale – giustificando così interventi di tutela della concorrenza – pur nel rispetto delle necessarie salvaguardie economico-sociali (ad esempio dei lavoratori). Riguardo alle norme per la tutela della concorrenza, ricordiamo che mentre negli Stati Uniti la legislazione antitrust, tendente a contrastare le intese strategiche delle imprese e lo sfruttamento illecito delle posizioni monopolistiche, risale allo Sherman Act approvato addirittura nel 1890, in Italia occorre aspettare il 1990, esattamente un secolo dopo gli Stati Uniti, per vedere la nascita di una “Autorità garante della concorrenza e del mercato” (la politica della concorrenza dell’UE sarà invece brevemente illustrata nel cap. 15) 21. Peraltro, la persistente minor concorrenza in singoli mercati italiani (alcuni servizi e libere professioni, le utilities, etc.), i bassi livelli di efficienza nell’industria e nelle attività terziarie, la scarsa produttività e qualità dei servizi pubblici sono tra i fattori che spiegano il declino economico italiano (cfr. cap. 20). Non c’è dubbio, comunque, che una politica economica si definisce interventista quando il policymaker ricorre all’ampio ventaglio di strumenti (sopra esposti) per determinare o modificare l’allocazione delle risorse. Un’economia mista si realizza quando tutte e quattro le tipologie di intervento vengono adottate. In realtà, la massima forma d‘interventismo nelle economie di mercato, cioè l’intervento pubblico diretto in economia, si è avuta essenzialmente in Europa occidentale, pur con rilevanti differenziazioni fra paesi, in particolare negli anni ’60 e ’70 22.

3.4. L’intervento pubblico in economia ed i rapporti tra Stato e mercato Quanto più fitto è il sistema d‘incentivazione, disincentivazione e controllo, quanto più diffusa è l’azione redistributiva dello Stato, quanto più pesante è l’intervento pubblico diretto, 21 Sul caso italiano ed europeo, anche con riferimenti ad altri sistemi economici (ad esempio quello americano), cfr. CAGLIOZZI (1994). 22 Come è ben noto, nella parte Est dell’Europa (incluse la ex-Unione Sovietica e la ex-Jugoslavia) si è realizzato per decenni un diverso sistema economico (di economia pianificata), caratterizzato da una pressoché generalizzata “produzione diretta e programmazione da parte dello stato” (inclusa la fissazione centralizzata dei prezzi); tale diverso “sistema” è collassato (simbolicamente) con il crollo del muro di Berlino (1989) ed i diversi paesi hanno avviato un complesso e variegato percorso di transizione verso forme di economie di mercato.

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tanto più il sistema di “libero mercato” perde tale connotato. Come già anticipato l’economia mista si riferisce a quei sistemi in cui, accanto ad una componente di libero mercato costituita da imprese private di produzione, si è affermata in modo massiccio la presenza dell'operatore pubblico, anche attraverso forme di intervento diretto nella produzione: lo Stato si faceva esso stesso imprenditore. Nell’Europa occidentale degli anni ’60 e ’70, quando le politiche keynesiane ebbero la massima espansione, troviamo due gruppi di paesi in cui l’intervento pubblico era particolarmente intenso, sebbene per motivi differenti (redistributivi in un caso e strutturali/allocativi nell’altro): – nei paesi Scandinavi, dove era rilevante l’azione redistributiva dello Stato ossia dove il Welfare state era ampiamente diffuso; in tali sistemi si notavano elevati valori in alcuni indicatori del peso del settore pubblico, ad esempio nei rapporti: G/Y, T/Y, dipendenti pubblici/occupazione totale; – in Italia, ed in modo meno intenso pure in Francia e Regno Unito, dove si era diffuso il “capitalismo di Stato”, con nazionalizzazione di imprese di produzione di beni e servizi (incluse le banche). In questo secondo gruppo di paesi, non solo vi erano numerose imprese statali o comunque pubbliche (ad esempio aziende autonome), ma anche formule originali come quella delle partecipazioni statali, particolarmente sviluppata in Italia: formula secondo cui molteplici imprese di svariati settori produttivi erano controllate, anche a livello azionario, da alcune grandi “holding” pubbliche (Iri ed Eni in particolare). Ad esempio l’Iri (Istituto per la Ricostruzione Industriale) 23 aveva partecipazioni, spesso con maggioranze di controllo, in svariati settori: Finsider (siderurgia), Finmeccanica (meccanica), Fincantieri (cantieristica), Finmare (trasporti via mare), Alitalia (trasporto aereo), Italstat (costruzioni), Autostrade, Stet (telecomunicazioni), Rai, Banca Commerciale Italiana – Banco di Roma – Credito Italiano (le cosiddette “banche di interesse nazionale”), Sme (alimentare). Nei Paesi in cui l’intervento pubblico era maggiore erano stati pure adottati, per quanto riguarda il medio-lungo periodo, schemi di programmazione economica. Esistono numerose varianti di piani economici (di solito quinquennali), sia per quanto riguarda il livello di intervento 24, sia in relazione al grado di coercizione. Mentre nella programmazione economica indicativa, attuata nei decenni scorsi in diversi paesi occidentali (Italia, Francia, Olanda ma anche Brasile, India), l’azione pubblica può intervenire in modo vincolante solo sugli investimenti pubblici e può indirizzare quelli privati al conseguimento delle finalità generali del piano tramite meccanismi di incentivazione (od agendo sulle aspettative degli agenti privati, ad esempio riducendone l’incertezza), i piani coercitivi erano impiegati solamente nelle economie cosiddette “pianificate dal centro” (come nei paesi comunisti e dell’ex blocco sovietico), dove le imprese di produzione erano quasi esclusivamente pubbliche ed il piano sostituiva il mercato 23 Questa “capogruppo”, costituita dopo la Grande Depressione del 1929, fu smantellata nei primi anni ’90. Da questi anni si intensificarono anche in Italia le azioni di privatizzazione di imprese pubbliche o a partecipazione statale (cfr. cap. 5). 24 Si è infatti distinto tra piani globali, settoriali, territoriali (regionali o urbanistici), individuali (ossia inerenti a singoli progetti d'investimento); tutti i livelli di piano dovrebbero essere interrelati tra di loro. Più precisamente, secondo J. Tinbergen uno schema programmatorio dovrebbe includere: (a) una macro-fase, che delinea il quadro macroeconomico dello sviluppo; (b) una fase intermedia, che prevede una disaggregazione settoriale o territoriale dei risultati della macro-fase (disaggregazione frequentemente compiuta con l'ausilio delle tecniche input-output); (c) una micro-fase, che costituisce l’anello di congiunzione con l'attuazione di specifici progetti d’investimento (spesso valutati per mezzo di tecniche come l’analisi costi-benefici) (cfr. VALLI, 1993).

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come meccanismo allocatore (a parte alcune attività minori lasciate all’iniziativa privata). A partire dagli anni ’80 del secolo scorso, il pendolo – nei rapporti tra Stato e mercato – ha però cominciato a girare nel verso opposto. È iniziata in molti paesi occidentali, seppure con intensità e ritmi differenziati, una contrazione dell’intervento pubblico in economia, misurabile anche attraverso l’andamento dei rapporti tra spesa pubblica e Pil (G/Y) oppure tra imposte e Pil (T/Y), la cosiddetta “pressione fiscale”. Come illustreremo nel cap. 5, le liberalizzazioni dei mercati sono state accompagnate da interventi di deregulation e di privatizzazione. Queste trasformazioni nel ruolo del settore pubblico erano dovute in primo luogo all’incapacità delle strategie più interventiste di far fronte alle nuove patologie emerse a partire dagli anni ’70: in particolare gli shock d’offerta, l’elevata inflazione, la difficoltà a tenere sotto controllo la dinamica del debito pubblico, inattesi “fallimenti dello Stato” nell’intervento pubblico diretto 25. Un altro fattore furono i nuovi movimenti politici, sociali ed ideologici che si andavano diffondendo, grazie anche al successo che le nuove scuole economiche – dal monetarismo alla nuova macroeconomia classica, dalla scuola di “public choice” alla “supply-side economics” – andavano conseguendo in quel periodo. Il progressivo restringimento dell’intervento pubblico in economia si è però arrestato dopo la crisi economico-finanziaria del 2007-09, secondo diversi osservatori in gran parte attribuibile proprio alle eccessive liberalizzazioni – specie in campo finanziario – attuate nel ventennio precedente, soprattutto negli Stati Uniti (si ricordi che l’innesco si è avuto in tale paese con la “crisi dei mutui subprime” del 2007). Si è così assistito ad una parziale re-regulation (riregolamentazione). I salvataggi delle banche (come il piano Paulson del 2008 negli Usa), in certi casi ri-nazionalizzate (come nel caso inglese), i pacchetti di stimolo fiscale successivi alla Grande Recessione hanno comportato quasi ovunque un massiccio intervento dello Stato 26. Ora, mentre alcuni paesi dell’Eurozona, tra cui l’Italia, ancora risentono degli effetti della crisi dei debiti sovrani e delle eccessive politiche d’austerità (cfr. cap. 19), il ritorno ad una situazione macroeconomica più soddisfacente in altre aree – Usa, Regno Unito, la stessa Germania – ha ricondotto a condizioni di normalità pure la presenza dello Stato in economia 27. Per quanto riguarda la regolamentazione dell’iniziativa privata, pur essendo auspicabile una semplificazione dell’apparato burocratico-amministrativo ed un allentamento delle regole minuziose che intralciano, spesso in modo non necessario e dannoso, l’iniziativa privata (il secondo tipo di politiche illustrate nel par. 3.3), è invece opportuno preservare e rafforzare le regole generali di funzionamento dei mercati (quelle indicate al primo punto dello stesso 25 Nel caso italiano, ad esempio, per lunghi anni le holding statali Iri, Eni ed Efim si caratterizzarono per bilanci persistentemente in perdita e ripianati ripetutamente (a piè di lista) con fondi pubblici. È ovvio che tali imprese pubbliche (non soggette di fatto a fallimento e con bilanci “soffici”) non avevano adeguati incentivi per massimizzare l’efficienza produttiva (mentre le tendenze a politiche di assunzioni di tipo clientelare risultavano forti). Si noti che il termine “bilancio soffice” veniva usato per gli stabilimenti (o unità produttive) delle economie pianificate dove era regola e prassi diffusa intervenire “centralmente” per garantire il pareggio di bilancio ed escludere il fallimento dal novero delle possibilità. 26 La “riscoperta di Keynes” è stato per molti mesi il tipico argomento di dibattito su molte riviste scientifiche e/o divulgative, anche quelle vicine ad un’impostazione nettamente liberista (come l’Economist); oppure, a livello nazionale, AA.VV. (2009). Si veda anche il dibattito, avviato subito dopo lo scoppio della crisi, su EICHENGREEN, BALDWIN (2008). 27 È interessante osservare che nei casi di intervento diretto di salvataggio delle banche si è avuta, di fatto, una “socializzazione delle perdite private” (coperte con fondi pubblici) giustificata con l’obiettivo di evitare una “crisi sistemica di fiducia”, con effetti a catena che avrebbero portato al collasso del sistema economico ed effetti reali ancor più drammatici. La ri-privatizzazione di banche ed imprese non dovrebbe quindi comportare oneri per il bilancio dello Stato (ovvero il valore di vendita dovrebbe incorporare i profitti futuri attesi dopo il loro risanamento).

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elenco). È questo il caso specifico della regolazione dei mercati finanziari, fronte sul quale vi sono state in passato numerose lacune nei singoli paesi ed anche a livello internazionale. Continua inoltre ad essere importante la politica degli incentivi, basata su un utilizzo accorto della leva fiscale. In definitiva, in relazione ai rapporti tra Stato e mercato, bisognerebbe arrivare ad un migliore equilibrio di lungo periodo in cui Stato e mercato non siano più in contrapposizione, ma lo Stato continui a svolgere un ruolo incisivo ed a sostenere, in modo auspicabilmente efficace, l’iniziativa privata (sia quella for profit sia le attività no-profit).

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Le politiche economiche keynesiane

4.1. La scuola classica e quella neoclassica Prima di illustrare le caratteristiche della teoria economica keynesiana e delle conseguenti politiche economiche, pare opportuno un breve richiamo alla scuola classica, sviluppatasi a cavallo tra Settecento e Ottocento, ed a quella neoclassica, dominante il pensiero economico da metà Ottocento fino a Keynes. Queste scuole avevano caratterizzato le epoche precedenti alla “rivoluzione keynesiana” 1. La scuola classica in senso stretto è quella scuola che si formò tra fine Settecento e prima metà dell’Ottocento grazie al contributo dei primi studiosi di economia: oltre ad Adam Smith, considerato il “padre” dell’economia politica (intesa come disciplina autonoma), economisti come D. Ricardo, T.R. Malthus, K. Marx, J.S. Mill, solo per citare i maggiori esponenti. Il suo interesse era rivolto essenzialmente ai problemi della determinazione del valore “sociale” della ricchezza, della formazione e distribuzione del sovrappiù, dell'accumulazione e dello sviluppo economico. Dal punto di vista metodologico, veniva fatto costante riferimento a determinati contesti storici e si prediligeva l’analisi degli aggregati o delle “classi” sociali. In effetti, fu proprio questo approccio “organicista” che andò perso nella scuola neoclassica 2, nella quale invece sopravvisse l'altro concetto smithiano di equilibrio concorrenziale individualistico (sottostante all'operare della famosa “mano invisibile” di A. Smith), come pure una filosofia generale favorevole al “liberismo economico”. Sebbene un programma “liberista” in politica economica possa essere fatto risalire alla scuola fisiocratica 3 (in contrapposizione al precedente interventismo dei mercantilisti 4), è indubbio che A. Smith è generalmente considerato – a torto o a ragione – l’ispiratore di questa filosofia. Dal punto di vista della politica economica, le indicazioni provenienti dalla scuola classica sono in genere favorevoli al libero mercato (certamente con l'eccezione di K. Marx ed in parte 1 La classificazione in tre principali “epoche” (classica, marginalista, keynesiana) da Smith a Keynes è largamente accettata dagli studiosi: cfr. ad esempio DASGUPTA (1985). 2 Come pure svanì la visione di alcuni classici, in particolare di K. Marx, del sistema capitalistico come fonte di instabilità, crisi, conflitti ed ingiustizie. 3 La scuola fisiocratica si sviluppò in Francia verso la metà del 18° secolo: il suo maggior esponente era F. Quesnay, che con il suo “Tableau économique” individuò i rapporti tra i principali settori produttivi (agricoltura, industria, commercio), ma solo l’agricoltura era considerata capace di creare un “surplus” nell’economia, e quindi nuova ricchezza. 4 Il mercantilismo era una corrente di pensiero prevalente in Europa dal 16° al 18° secolo e riteneva che la potenza di una nazione giacesse nel commercio (in particolare negli avanzi della bilancia commerciale) piuttosto che nella produzione: da qui una visione a favore di interventi di politica economica a protezione delle produzioni nazionali (protezionismo).

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di J. Mill): infatti, il laissez-faire consente all'egoismo ed al tornaconto dei singoli individui, attraverso la loro interazione sul mercato, di garantire il massimo benessere per l’intera collettività, come appunto preconizzato da A. Smith, con il suo concetto di “mano invisibile”. In altre parole, si sostiene che l’agire delle forze di mercato (in assenza di monopoli, sindacati, regolamentazioni e di altre imperfezioni o rigidità) è in grado di condurre al migliore risultato possibile. Volgiamo ora l’attenzione alla successiva scuola neoclassica, che poneva i singoli agenti economici al centro delle proprie analisi: si parla infatti di “individualismo metodologico”. L’interesse di questa scuola si orientò quindi verso i temi prevalentemente microeconomici dell'equilibrio degli agenti – supposti razionali e massimizzanti (da qui l’ampio uso delle tecniche d’analisi matematiche) – e dei mercati, della determinazione dei prezzi, dell’allocazione delle risorse, la quale doveva essere tale da soddisfare, in presenza di risorse scarse, i bisogni dei consumatori (considerati “sovrani”) nel modo economicamente più efficiente 5. La scuola neoclassica dell’Ottocento coincideva essenzialmente con quella che fu chiamata rivoluzione marginalista. Questa scuola si diffuse in molti paesi europei (ed in seguito negli Stati Uniti) ed a fine Ottocento comprendeva noti studiosi come il francese L. Walras; gli inglesi F.Y. Edgeworth, S.W. Jevons, P.H. Wicksteed; gli austriaci E. von Böhm-Bawerk, C.A. Menger, L. von Mises, F. von Wieser; l’americano J.B. Clark; l’italiano V. Pareto. Anche all'inizio del Novecento, la scuola neoclassica è stata fertile di contributi. I maggiori esponenti che si possono ricordare sono A. Marshall in primo luogo; altri economisti inglesi come L. Robbins, A.C. Pigou e D.H. Robertson; l’austriaco F. von Hayek, l’americano I. Fisher, gli svedesi K. Wicksell, G. Cassel, B. Ohlin. Gli enunciati della teoria neoclassica si possono sintetizzare, a livello microeconomico, nei due postulati base dello schema di equilibrio economico generale walrasiano (cosí chiamato dal nome del suo proponente): – razionalità degli agenti (tale per cui le imprese massimizzano i profitti, i consumatori massimizzano l'utilità, etc.); – equilibrio di mercato (ossia assenza, nella posizione di equilibrio, di eccessi di domanda e/o di offerta) di tipo concorrenziale; questo secondo postulato implica a sua volta la piena flessibilità di tutti i prezzi. A questo punto, possiamo chiederci, soprattutto dal punto di vista dei successivi sviluppi keynesiani, cos’hanno in comune scuola classica e scuola neoclassica. Ebbene, il postulato fondamentale caratterizzante le analisi degli economisti classici (con parziali eccezioni per quelle di T.R. Malthus e di K. Marx), sopravvissuto sino all’economia neoclassica, era la nota legge di Say: l’offerta crea la propria domanda, essendo la produzione offerta sempre coincidente con i redditi distribuiti ed ipotizzando che questi ultimi vengano subito spesi. Nella dicotomia classica (così definita da D. PATINKIN, 1956), il sistema economico è suddiviso in due sotto-sistemi. Il sotto-sistema reale è rappresentato dallo schema di equilibrio generale walrasiano e consente di determinare le variabili reali (prodotto, occupazione, prezzi relativi, tasso d’interesse reale, etc.) partendo dai principî primi (preferenze, tecnologia, risorse iniziali). Il sotto-sistema monetario determina invece le variabili nominali (livello dei prezzi, reddito nominale, salari monetari, tasso d’interesse nominale): è pertanto evidente che l’offerta di moneta influenza solamente le variabili nominali ma non quelle reali, ossia la moneta è neutrale 6. 5 La condizione di efficienza economica è ben sintetizzata dal principio dell’“ottimo paretiano”, che prende il nome dall’economista italiano V. Pareto. 6 Questa ripartizione analitica, tra settore reale e settore monetario, era addirittura riflessa nella disciplina economica, in cui si distingueva tra una “teoria del valore” (o dei prezzi relativi) ed una “teoria monetaria”.

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4.2. La “rivoluzione” keynesiana Negli anni ’30 del Novecento, mentre l’economia mondiale ancora soffriva per i postumi della Grande Depressione (cfr. par. 4.3), l’economista inglese J.M. Keynes venne a formulare un approccio “rivoluzionario” – prima nell’analisi economica e poi nelle ricette di politica economica – in successivi contributi scientifici (diversi articoli e saggi erano stati pubblicati già negli anni ’20). Questi sforzi sfociarono nella pubblicazione della famosa “Teoria Generale” (The General Theory of Employment, Interest and Money) del 1936. Il suo obiettivo era principalmente quello di costruire una teoria che spiegasse la determinazione del reddito nazionale e del livello di disoccupazione, piuttosto che soffermarsi semplicemente sulle caratteristiche degli equilibri di mercato e sulla teoria del valore, come nella tradizione classica pre-keynesiana. La portata della “rivoluzione keynesiana” non è generalmente messa in dubbio, anche se diversi economisti, subito dopo la pubblicazione della Teoria Generale, cercarono di ricondurre il pensiero di Keynes all’interno del filone dominante (mainstream economics), che allora si identificava con la scuola classica, così definita dallo stesso Keynes (ma riferita principalmente a quella neoclassica). Lo stesso Keynes, che aveva preso le mosse nei suoi primi scritti dall’impostazione classica (e neoclassica), ha in seguito attaccato l’ortodossia classica, senza tuttavia riferirsi ad un singolo autore o ad una precisa scuola 7. Inoltre, definire i connotati fondamentali della rivoluzione keynesiana non è semplice, in quanto tra gli stessi economisti keynesiani non vi è stato un accordo generale su ciò che Keynes volesse esattamente dire 8, anche perché il linguaggio e la forma espositiva della “Teoria Generale” non agevolano un'immediata interpretazione dei contenuti 9. Comunque, la validità di interpretazioni alternative è stata per lo più giudicata non soltanto basandosi in modo letterale sugli scritti (approccio caro a D. Patinkin) oppure in modo più sostanziale sulla visione complessiva (come suggerito da J.A. Schumpeter) di Keynes, ma anche in relazione alla rilevanza teorica ed empirica del modello interpretativo che viene proposto, ai fini di una migliore comprensione del funzionamento dei sistemi economici: è quest’ultimo metodo di analisi che in sostanza caratterizza l’approccio economico-politico rispetto ad un approccio puramente storico. Di certo, si può dire che Keynes ha innovato profondamente rispetto al pensiero economico dominante 10. E ciò non solo e non tanto per l’affermazione spesso ripetuta che con Keynes è nata la moderna macroeconomia; ma anche e soprattutto per il messaggio lanciato dall’economista inglese, in relazione sia ai contenuti della nuova teoria che si andava strutturando, sia alle notevoli implicazioni di politica economica. Possiamo comunque tentare di sintetizzare, seppure in modo incompleto ed alquanto approssimativo, le innovazioni teoriche fondamentali apportate dalla Teoria Generale di Keynes nei seguenti punti 11: 7 In generale, con il termine “ortodossia classica”, intendeva riferirsi non solo agli economisti classici in senso stretto (in primo luogo a Ricardo), ma soprattutto ai contributi degli economisti neoclassici di inizio Novecento, ovvero Marshall (che era stato anche suo maestro) e seguaci. 8 Si veda, tra gli altri, LEIJOHNFUVD (1968 e 1969), il quale contrappone l’economia keynesiana a quella di Keynes. Tra le opere interpretative di autori italiani, si veda VERCELLI (1978 e 1987) e VICARELLI (1989). 9 Per altre critiche, si veda MARELLI, SIGNORELLI (2010b), cap. 1. 10 Eccezion fatta per l’opera ingegnosa, e per certi versi anticipatrice del pensiero keynesiano, di M. Kalecki o di alcuni esponenti della scuola svedese; riguardo a questi ultimi, vedi KAHN (1984) e LUNDBERG (1996). 11 Una nota guida alla lettura di Keynes è fornita da HANSEN (1947); dello stesso periodo è il contributo di

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1. il reddito non è sempre fissato al livello di piena occupazione, per cui preoccupazione dell’economista (del macroeconomista, per essere più precisi) è quella di spiegare come e perché il reddito può aumentare e/o essere accresciuto, oppure perché si vengono a determinare equilibri di sotto-occupazione; 2. tra le principali determinanti del livello del reddito, posto che questo non è sempre fissato dall’offerta (non vale la “legge di Say”), vi è la domanda aggregata – e in particolare la domanda effettiva; eventuali carenze di quest’ultima possono generare situazioni di disoccupazione, anche per l’esistenza di limitate informazioni, di problemi di coordinamento e dell’incertezza, che domina tutte le decisioni economiche e il sistema economico nel suo complesso; 3. tra le componenti della domanda aggregata, è opportuno ricordare (in aggiunta alla spesa pubblica di cui si tratterà tra breve): – i consumi, che rivestono un ruolo importante poiché, pur essendo una funzione (ipotizzata stabile) del reddito disponibile corrente, l’ipotesi di propensione marginale al consumo minore dell’unità (considerata come “legge psicologica fondamentale”) consente, tramite il tipico meccanismo del moltiplicatore keynesiano, la determinazione di un livello stabile d’equilibrio del reddito; – gli investimenti, che sono tra le più importanti variabili esogene a determinare (attraverso il moltiplicatore e con il concorso della domanda endogena, ossia i consumi) il livello del reddito; tuttavia, gli investimenti, non sono connessi soltanto al tasso d’interesse 12 (attraverso l’efficienza marginale del capitale), ma dipendono anche dalle aspettative – riflesse negli animal spirits degli imprenditori (ossia nella loro più o meno elevata fiducia sullo stato e le prospettive dell’economia) – e quindi da fattori di tipo anche psicologico, risultando pertanto una componente oltremodo instabile; 4. la contrattazione nel mercato del lavoro concerne i salari monetari (piuttosto che quelli reali), i quali sono relativamente rigidi o vischiosi nel breve periodo: ossia, pur non essendo assolutamente fissi, non sono neanche completamente flessibili (come era ipotizzato nel meccanismo d’aggiustamento di tipo walrasiano), ma manifestano difficoltà, frizioni o comunque ritardi nell’aggiustamento, specie nell’eventualità di riduzioni; 5. la teoria della preferenza per la liquidità fa sì che, diversamente dalla precedente teoria quantitativa della moneta, la domanda di moneta viene a dipendere anche dal tasso d’interesse 13; 6. posto che, nel sistema keynesiano, l’offerta di moneta può influenzare non solo i prezzi ma anche il reddito reale, la dicotomia classica tra settore monetario e settore reale viene a cadere (anche in considerazione della contemporanea ipotesi di salari o prezzi rigidi): è rifiutata la precedente ipotesi di neutralità della moneta. Una rappresentazione sintetica delle peculiarità fondamentali del sistema keynesiano – in particolare le prime tre innovazioni sopra citate – è fornita dalla keynesian cross, introdotta da A. Hansen. La Fig. 4.1 è sostanzialmente analoga alla Fig. 1.1 del primo capitolo, ma qui vengono enfatizzate le differenze tra il sistema economico classico e quello keynesiano. KLEIN (1952). Questi economisti, assieme a R.F. Harrod e P.A. Samuelson (nonché J.R. Hicks e F. Modigliani), avevano iniziato sin dagli anni ’40 un’opera di interpretazione del pensiero keynesiano, lungo le linee di quella che sarà poi definita “sintesi neoclassica” (cfr. par. 4.6). 12 Comunque, la dipendenza degli investimenti dal tasso d’interesse e la domanda di lavoro coincidente con il prodotto marginale del lavoro sono i principali elementi neoclassici accolti da Keynes. 13 Quest’ultimo non è più visto come un fenomeno esclusivamente reale, ma diventa un fenomeno monetario (nel caso estremo, solo monetario: cfr. cap. 7).

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Nel sistema classico vale la “legge di Say”, per cui la domanda aggregata (A) è sempre determinata dall’offerta (rappresentata dal reddito reale, o prodotto nazionale, Y), per cui: Ac = Y. La domanda aggregata di tipo classico può quindi essere rappresentata dalla semiretta a 45°, coincidendo sempre con il reddito offerto Y. Come si determina, in questo caso, il reddito d’equilibrio? La risposta degli economisti classici è quella di riferirsi al reddito di piena occupazione 14 (Y*), che dipende esclusivamente dalle determinanti dal lato dell’offerta, ossia dalle caratteristiche quantitative e qualitative delle risorse produttive (forze di lavoro, stock di capitale, risorse naturali, tecnologia): è la domanda che viene ad eguagliarsi ad esso. Più precisamente, sono le forze del libero mercato che consentono al sistema economico di permanere in una situazione di piena occupazione (oltre che di stabilità dei prezzi) oppure di ritornarvi in breve tempo, se allontanato a causa di una qualche perturbazione. Figura 4.1. – L’equilibrio keynesiano di sottooccupazione A Ac = Y Ak

Ak

Â Â

45° Y0

Y*

Y

Al contrario, nel sistema keynesiano, la domanda aggregata è rappresentata, sempre nella Fig. 4.1, dalla retta Ak. La sua posizione dipende – come abbiamo visto nel cap. 1 – dalla domanda aggregata autonoma  (ad esempio investimenti fissi, spesa pubblica, esportazioni, oltre ai consumi autonomi); la sua inclinazione dipende invece dalla caratteristiche delle variabili endogene – in particolare dalla propensione marginale al consumo 15. Infatti, l’approccio keynesiano ribalta del tutto l’impostazione classica e la legge di Say: è il reddito offerto (produzione) che si adegua alla domanda aggregata, che peraltro non include solamente la domanda autonoma (Â), ma anche quella endogena (ovvero la “spesa indotta”), determinata dal meccanismo del moltiplicatore 16. In termini grafici, il reddito d’equilibrio (Y0) è determinato dall’intersezione tra la retta della domanda aggregata (Ak) e la semiretta a 45°. 14 Sui concetti simili di prodotto naturale, prodotto potenziale e prodotto tendenziale torneremo in seguito (cap. 6). 15 Da qui, l’importanza dell’ipotesi di una propensione marginale al consumo (o, più in generale, di propensione alla “spesa”) inferiore all’unità, al fine di determinare una posizione d’equilibrio stabile. 16 Il principio del moltiplicatore, divulgato nella “Teoria Generale”, era già stato introdotto nell’analisi economica da R.F. Kahn nel 1931 (a seguito di precedenti intuizioni di diversi autori, tra cui lo stesso Keynes).

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In questo modello semplificato i prezzi sono considerati fissi 17, per cui la convergenza verso l’equilibrio avviene interamente attraverso aggiustamenti di quantità, ossia dell’offerta verso il livello del reddito “demand-determined” 18. Tuttavia, il reddito, così determinato dal lato della domanda, può essere diverso dal reddito di piena occupazione: in particolare, può essere a qualunque livello al di sotto, come nella Fig. 4.1, ove: Y0 < Y*. In effetti, Keynes ha cercato di dimostrare che il livello di occupazione (e di disoccupazione) è determinato nel mercato dei beni, non in quello del lavoro (come ritenevano le teorie classiche precedenti); la domanda di lavoro è una domanda “derivata” ed è in parte indipendente dal livello salariale. La disoccupazione che ne consegue è definita “involontaria” poiché coincidente con la presenza di potenziali lavoratori disposti a offrire lavoro al salario corrente (o addirittura anche ad un salario inferiore), se si presentasse l’opportunità. In questo senso, la teoria di Keynes è veramente una teoria “generale”, che ricomprende al suo interno anche la piena occupazione come caso particolare, essendo comunque la situazione più comune quella rappresentata dai cosiddetti equilibri di sottoccupazione. La dizione equilibrio di sottoccupazione, rispetto a quella alternativa di disequilibrio, pone maggiormente enfasi sull’equilibrio nel mercato dei beni che non allo squilibrio nel mercato del lavoro. Essa rende comunque più evidente il carattere di permanenza dello stato di non piena utilizzazione delle risorse, a causa della carenza di forze in grado di condurre il sistema verso la piena occupazione: è questo il problema cruciale nella “Teoria Generale”, piuttosto che quello delle fluttuazioni cicliche (che costituiranno invece il principale tema di indagine scientifica nelle analisi macroeconomiche successive, da parte di economisti sia keynesiani sia appartenenti ad altre scuole). Per le possibili soluzioni al problema degli equilibri di sottooccupazione e per le più generali implicazioni del pensiero keynesiano, si rinvia al par. 4.4.

4.3. La Grande Depressione ed il pensiero keynesiano Non v’è dubbio che l’opera di Keynes trasse stimolo dalla considerazione dei problemi dell’epoca in cui visse ed in particolare degli effetti della Grande Depressione, che aveva colpito i paesi industrializzati dopo la crisi del 1929, con conseguente disoccupazione di massa. L’assenza di piena occupazione (o, in altri termini, la presenza di disoccupazione involontaria) e la distribuzione arbitraria ed iniqua di reddito e ricchezza erano considerati da Keynes come i due maggiori fallimenti dell’economia di mercato. L’inizio della Grande Depressione viene fatto coincidere con la precedente crisi finanziaria ed in particolare con i crolli delle quotazioni azionarie alla Borsa di Wall Street avvenuti il 24 ottobre 1929 (giovedì nero) e, soprattutto, il 29 ottobre 1929 (martedì nero). Le conseguenze economiche e sociali di tale intensa e prolungata crisi economica hanno significativamente influenzato i contenuti di analisi e di policy della “rivoluzione keynesiana”, nella quale viene fortemente sostenuto il possibile ruolo attivo della politica economica (fiscale e monetaria) 17 L'ipotesi di prezzi fissi è naturalmente una semplificazione della realtà (come risulta dal successivo modello AD-AS illustrato nel cap. 1) e perfino del pensiero di Keynes; il quale tuttavia riteneva che aggiustamenti di prezzo (attraverso i quali avviene normalmente il coordinamento degli agenti in un sistema di tipo classico) non sono sempre possibili, data la presenza di imperfezioni di mercato, e nemmeno sempre desiderabili, a causa dell’elevata instabilità che può essere provocata da una piena flessibilità di prezzi e salari. 18 L’ipotesi implicita è che la produzione (offerta) si adegua rapidamente rispetto al livello della spesa (domanda): in questo senso, il mercato dei beni è in equilibrio.

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nel contribuire a determinare migliori condizioni in termini di domanda effettiva, disoccupazione involontaria e aspettative. Anche se la Grande Depressione ha prodotto effetti rilevanti e differenziati in molti altri paesi, presentiamo qui alcune evidenze empiriche relative agli Stati Uniti 19, assieme a dei brevi cenni sulle principali spiegazioni fornite dagli economisti. Per quanto riguarda gli indicatori e le variabili reali (cfr. Tab. 4.1), tra il 1929 ed il 1933 il prodotto nazionale lordo si ridusse in termini reali del 30,5% (conseguentemente al crollo di investimenti e consumi), il numero dei disoccupati passò da 1,5 milioni ad oltre 12 milioni (con il tasso di disoccupazione vicino al 25% nel 1933 e tendenze alla persistenza), mentre il numero degli occupati si contrasse di oltre 8 milioni; infatti il crollo della domanda aggregata e della produzione si accompagnò ad un forte calo della domanda di lavoro da parte delle imprese. È anche da notare il fenomeno dei fallimenti bancari, particolarmente numerosi nel 1931 e, soprattutto, nel 1933 (4 mila fallimenti su circa 20 mila banche operanti). Tabella 4.1. – Stati Uniti: indicatori e variabili “reali” (1929-1935) Anno

PNL(1)

1929 1930 1931 1932 1933 1934 1935

100,0 190,1 183,2 170,8 169,5 175,8 183,3

Crescita economica % PNL(2) 1– 9,9 1– 7,7 – 14,8 1– 1,9 119,0 119,9

Tasso di Disoccupati Occupati % disoccupazione (in migliaia) (in migliaia) Occupazione (%) 11.550 14.340 18.020 12.060 12.830 11.340 10.610

13,2 18,7 15,9 23,6 24,9 21,7 20,1

46.207 44.183 41.305 38.038 38.052 40.810 41.673

– 4,4 – 6,5 – 7,9 1 0,0 1 7,2 1 2,1

Fallimenti bancari 1 659 1.350 2.293 1.453 4.000 57 34

Legenda: (1) PNL = livello del Prodotto Nazionale Lordo in termini reali (1929 = 100); (2) la crescita economica è misurata dalla variazione crescita economica è misurata dalla variazione % annua del prodotto nazionale lordo in termini reali. Fonte: Elaborazioni su dati tratti da Historical Statistics – US Department of Commerce, 1975 (PNL a prezzi 1958: serie F 3; Disoccupati: D 85; Tasso di disoccupazione: D 86, Occupazione: D 5; Tasso di inflazione per il calcolo del tasso di interesse reale: E 135). Board of Governors of the Federal Reserve System, Banking and Monetary Statistics, 1943, p. 283 (numero di banche sospese nella loro attività).

Considerando gli indicatori nominali e le variabili monetarie e finanziarie (cfr. Tab. 4.2), è da rilevare che il prodotto nazionale lordo a prezzi correnti crollò di quasi il 50% tra il 1929 ed il 1933 e la deflazione degli anni 1930-1933 ridusse di circa il 25% il livello dei prezzi al consumo. Nonostante gli incrementi della Base Monetaria negli anni 193133, l’aggregato monetario M1 (ma anche M2) subì rilevanti riduzioni fino al 1933, per effetto della marcata riduzione (dopo il 1930 e fino al minimo del 1933) del moltiplicatore monetario (M1/BM) conseguente ai fallimenti bancari, che indussero un maggior rapporto circolante/depositi.

19 Già allora paese leader ma colpito in modo devastante dalla crisi. Si pensi che il tasso di disoccupazione superò il 25% nel 1933 e rimase superiore al 10% per tutto il resto del decennio (nonostante la ripresa economica degli anni successivi).

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Tabella 4.2. – Stati Uniti: indicatori nominali e variabili monetarie e finanziarie Anno

PNL

1929 1930 1931 1932 1933 1934 1935

100,0 187,7 173,5 156,3 153,9 163,1 170,0

P 100,0 197,4 188,7 179,7 175,4 178,0 180,1

Tasso di inflazione

Tasso di interesse

Tasso di interesse reale

1 0,0 1– 2,6 1– 9,0 – 10,2 1– 5,3 11 3,4 112,6

4,4 2,2 1,2 0,8 0,3 0,3 0,1

1 4,4 1 4,8 10,2 11,0 1 5,6 – 3,1 – 2,5

BM %

M1 %

3.5 – 5.2 12.5 16.3 16.7 – 16.4 10.5

1,0 – 3,3 – 6,3 – 12,6 – 5,7 9,8 18,4

M1/ BM

M1/P

M2 %

4,0 4,1 3,4 2,8 2,5 3,3 3,9

26,6 26,4 27,2 26,5 26,4 28,0 32,3

0,4 – 1,9 – 6,6 – 15,6 – 10,6 16,6 13,7

Legenda: PNL = prodotto lordo a prezzi correnti (1929 = 100); P = livello dei prezzi al consumo (1929 = 100); Tasso di inflazione = variazione % dell’indice dei prezzi al consumo; Tasso di interesse nominale medio sui titoli pubblici a 3-6 mesi; BM = Base Monetaria; M1 = circolante + depositi; M1/BM = moltiplicatore monetario; M1/P = saldi monetari reali; M2 = M1 + depositi a tempo). Fonte: Elaborazioni su dati tratti da Historical Statistics – US Department of Commerce, 1975 (PNL a prezzi correnti: serie F 1; Livello dei prezzi P: serie E 113; BM: serie X 422 + X 423; M1: serie X 414; M2: serie X 415). Board of Governors of the Federal Reserve System, Banking and Monetary Statistics, 1943: Tasso di interesse nominale (su titoli pubblici a 3-6 mesi).

Fino al 1933 si ebbe una sostanziale stabilità dei saldi monetari reali (M1 ed il livello dei prezzi si ridussero pressoché nella stessa proporzione), segnalando la tardiva adozione di una politica monetaria espansiva da parte della Federal Reserve. È anche da notare come, in conseguenza della deflazione, si determinarono (inevitabilmente) tassi di interesse reali positivi (oltre il 10% nel 1931-1932) nonostante i tassi di interesse nominali molto bassi. Gli economisti hanno fornito molteplici e differenti interpretazioni sulle cause e caratteristiche della Grande Depressione 20, pur concordando che un ruolo importante nello spiegarne intensità e durata sia da attribuire all’adozione di politiche economiche errate 21 che hanno consentito e/o favorito il persistente crollo della domanda aggregata. Un primo filone di ricerca “keynesiano” si è concentrato su una spiegazione di tipo “reale”, ponendo l’attenzione sul ruolo cruciale svolto dalla riduzione ed instabilità della domanda per investimenti e consumi, soprattutto come conseguenza dell’incremento di incertezza sistemica (C. ROMER, 1990). FRIEDMAN, SCHWARTZ (1963), appartenenti alla scuola monetarista (cfr. cap. 7), sono tra i sostenitori della “ipotesi monetaria” e pongono al centro della loro analisi l’andamento degli aggregati monetari e la politica monetaria (restrittiva nel senso che non cercò di compensare la contrazione del moltiplicatore monetario con maggiori incrementi di base monetaria) adottata dalla Fed nel determinare l’intensità ed il persistere degli effetti sulle grandezze reali. BERNANKE (1983), all’interno di un filone che si può definire neokeynesiano, ha posto l’attenzione anche sul ruolo della deflazione inattesa nel determinare la caduta della domanda aggregata, soprattutto degli investimenti, in conseguenza della maggiore costosità e del razionamento dei finanziamenti esterni (“ipotesi finanziaria”). Un’ulteriore spiegazione (BERNANKE, 2000) è legata al fatto che la “Grande Depressione”, pur iniziata negli Stati Uniti, interessò 20 Non c’è completo accordo neanche sul fatto che l’innesco della Grande Depressione sia derivato dallo scoppio della “bolla speculativa” (sopravvalutazione dei titoli azionari). 21 Si nota che, mutando le condizioni cicliche e strutturali dell’economia, una certa misura di politica economica, se non modificata, può trasformarsi da “corretta” ad “errata”.

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quasi contemporaneamente molti paesi in regime di tassi di cambio fissi (Gold Standard), impedendo alle autorità di politica economica di utilizzare la politica monetaria per la stabilizzazione interna; la scelta della deflazione anziché della svalutazione divenne così il principale fattore di spiegazione e trasmissione internazionale della crisi economica (“spiegazione internazionale”). La ricerca delle possibili spiegazioni della Grande Depressione ha spinto Keynes e molti altri economisti a realizzare analisi teoriche ed empiriche sui complessi meccanismi di riequilibrio (risposta agli shock) in un’economia di mercato, nonchè sul possibile ruolo attivo della politica economica, fornendo preziosi strumenti conoscitivi alle autorità di politica economica e, forse, non è un caso che una crisi economica di tale intensità e durata non si sia più verificata, almeno fino alla Grande Recessione del 2008-09 (cfr. cap. 19).

4.4. Implicazioni della teoria keynesiana per la politica economica La “rivoluzione” keynesiana è stata di fondamentale importanza proprio per la politica economica. La moderna politica economica nasce, possiamo dire, proprio con Keynes. Già il nostro semplice modello della “croce keynesiana” (par. 4.2) pone due quesiti fondamentali alla macroeconomia ed uno alla politica economica (si consideri di nuovo la Fig. 4.1): 1. come si determina il reddito d’equilibrio (Y0), che può essere a qualunque livello (mentre come caso particolare può anche coincidere con il reddito di piena occupazione, Y*); 2. quando e perché si determinano gli equilibri di sottoccupazione, con un reddito inferiore al reddito di piena occupazione (Y0 < Y*), per cui non tutte le risorse produttive sono pienamente impiegate; e, in quest’ultima evenienza, perché non esistono forze endogene di riequilibrio; 3. cosa si può fare per uscire da questa situazione, ossia per colmare il gap rispetto al prodotto di pieno impiego (ossia Y* − Y0); ossia come spostare verso l’alto la retta Ak in Ak, ovvero che tipo di intervento di politica economica deve essere adottato. Anticipando quest’ultima risposta, è noto che una possibile soluzione prospettata da Keynes è quella di provocare un aumento di domanda autonoma (pari a Â) ovvero una “iniezione” di spesa, ad esempio attraverso un’espansione della spesa pubblica, tale da indurre un incremento del reddito (Y = Y* − Y0). È questa a volte definita politica di controllo della domanda aggregata. È pure noto che, come risulta anche dalla Fig. 4.1, Y > Â per via del moltiplicatore keynesiano del reddito (generalmente superiore all’unità). Esempi di politiche suggeriti dallo stesso Keynes si riferiscono ad opere pubbliche, interventi sulle infrastrutture e nell’edilizia, altri tipi di investimenti pubblici. Ovviamente, l’analisi di Keynes era molto più completa ed incisiva, anche dal punto di vista dei suggerimenti di politica economica, giungendo ad auspicare profonde “riforme istituzionali”. Keynes è stato spesso accusato di essere un sostenitore di una spesa pubblica “qualunque”. In realtà, Keynes era favorevole ad una politica di deficit spending – ossia un aumento di spesa pubblica che generasse disavanzi nel bilancio pubblico – in situazioni di recessione o depressione, non come situazione normale (come spiegheremo nel prossimo paragrafo); inoltre pensava ad un intervento correttivo o di sostegno, piuttosto che sostitutivo del libero mercato. Ad ogni modo, dalla Grande Depressione si cominciò ad uscire quando, nel 1933, il Presidente degli Stati Uniti F.D. Roosvelt attuò un grande piano di opere pubbliche. Anche oggi si possono combattere situazioni di grave recessione programmando e realizzando spese pubbliche “produttive”, ossia funzionali anche alla crescita di lungo periodo, oltre a eventuali finalità ridistributive (cfr. cap. 3).

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Comunque, anche volendo mantenere la discussione intorno ai tre quesiti precedenti (posti all’inizio di questo paragrafo), va notato che essi, solamente in quanto posti, sono di portata “rivoluzionaria”; d’altro canto, va pure aggiunto che le specifiche risposte analitiche non sono univocamente chiare in Keynes. È stato pertanto facile per successivi economisti “keynesiani” (o autodefinitisi tali) interpretare Keynes in modo difforme e dare pertanto ai suddetti quesiti risposte differenziate, originando diversi ed alternativi “programmi di ricerca” keynesiani. Così, se pure è vero che in tutte le scuole keynesiane la disoccupazione è essenzialmente involontaria (diversamente dalle teorie più recenti, come quella della Nuova Macroeconomica Classica) ed è ricondotta alla carenza della domanda aggregata (od anche, impiegando un linguaggio più “moderno”, ad uno shock di domanda negativo), i meccanismi specifici di causazione e di trasmissione, nonché la considerazione di altre con-cause, sono differenti nelle varie ed alternative interpretazioni, come pure differenziate sono le soluzioni normative suggerite 22. Queste situazioni di “fallimento del mercato” (market failure) possono determinare fenomeni più o meno persistenti di disequilibrio nel mercato del lavoro (o, comunque, la presenza di disoccupazione involontaria): è per questo che i modelli macroeconomici keynesiani sono sovente definiti modelli di disequilibrio 23. È inoltre evidente che le risposte ai tre quesiti precedenti non possono poggiare solamente su assunzioni inerenti al comportamento dei diversi agenti economici ed alle caratteristiche dei mercati, ma devono altrettanto basarsi su ipotesi circa la presenza ed il comportamento delle autorità di politica economica. In effetti, è con la rivoluzione keynesiana che si sviluppa per la prima volta un approccio rigoroso per l’analisi e per la soluzione dei problemi di politica economica.

4.5. Caratteristiche delle politiche economiche keynesiane Analizziamo ora come si è sviluppata la politica economica dopo la rivoluzione keynesiana, anche al di là dello stesso pensiero di Keynes e considerando le vaste applicazioni in numerosi paesi occidentali a partire dagli anni ’40 del secolo scorso fino ai nostri giorni. Per politiche economiche keynesiane si intendono generalmente le politiche discrezionali di breve periodo, miranti a stabilizzare il sistema macroeconomico – domanda, reddito, occupazione, produzione, prezzi, bilancia dei pagamenti – ed a facilitare la sua convergenza verso l’equilibrio di piena occupazione, posto che ne sia allontanato a causa di perturbazioni esogene. Il punto di partenza sta infatti nella constatazione che le economie di mercato sono normalmente soggette, nel breve periodo, a fluttuazioni cicliche reali, nel reddito e nell’occupazione. Si ritiene inoltre che gli shock esogeni siano abbastanza frequenti, a causa dell’ipotizzata instabilità della domanda privata; in particolare la funzione degli investimenti e la domanda di moneta sono considerate molto instabili. Gli effetti delle perturbazioni risultano amplificati per il meccanismo del moltiplicatore, sebbene il valore numerico di quest’ultimo possa essere ridotto nel breve periodo (soprattutto partendo da ipotesi di determinazione dei consumi co22 Esempi di tali con-cause, comprendono le rigidità salariali o di altri prezzi, le non istantanee e difformi velocità di aggiustamento delle macrovariabili, le imperfezioni di mercato, i fallimenti coordinativi, l’incertezza e le carenze informative (anche se queste ultime saranno soprattutto indagate dalle scuole macroeconomiche successive), ed altre ancora. 23 In contrapposizione ai modelli d’equilibrio della tradizione classica pre-keynesiana, successivamente rielaborati dalla Nuova Macroeconomia Classica e dall’approccio dei “cicli economici d’equilibrio”.

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me quella del “ciclo vitale”) 24, anche a causa delle dispersioni di reddito (effetti della tassazione endogena, delle importazioni, etc.). L’altra importante constatazione è che, al di là del significato che il concetto di “piena occupazione” può avere in un contesto keynesiano, le economie di mercato non sono sempre in grado di fornire uno sbocco occupazionale a tutte le persone capaci e desiderose di lavorare, venendo a giacere in uno stato di sottoccupazione (cfr. BLINDER, 1989). Il problema più grave è che questi squilibri possono risultare anche parecchio persistenti nel tempo. Secondo i keynesiani, le politiche di stabilizzazione devono quindi essere attuate in primo luogo mediante politiche di gestione della domanda aggregata implicanti la riduzione della varianza della domanda, al fine di contrastare o smorzare le fluttuazioni cicliche. In certe situazioni occorre puntare perfino all’innalzamento della sua media (nonché di quella del prodotto e dell’occupazione), in presenza di una sua deficienza cronica o quando il libero mercato non si mostri in grado di garantire il reddito di piena occupazione. In particolare, per affrontare i problemi di lungo periodo derivanti da una prolungata depressione, da una permanente sotto-utilizzazione delle risorse o addirittura dalla stagnazione dell’economia, non è sufficiente una mera azione di “controllo fine” del ciclo od anche di pump-priming (ossia di “messa in moto” della macchina dell’economia, attraverso un iniziale intervento pubblico) 25. In ogni caso, la stabilizzazione dovrebbe avvenire attorno ad un trend di reddito crescente nel tempo, anche per evitare l’accentuarsi dei conflitti tra gli obiettivi di breve e di lungo periodo della politica economica. Nonostante questa duplice finalità fosse ben evidente a Keynes (secondo cui gli equilibri di sottoccupazione potevano essere anche persistenti) ed ai primi keynesiani 26, le analisi successive hanno enfatizzato il problema della stabilizzazione del reddito attorno al livello di piena occupazione. Ben presto, anche la stabilità monetaria (o del livello dei prezzi) cominciò ad essere esplicitamente incorporata nella funzione-obiettivo del policymaker di molti modelli keynesiani (come abbiamo visto nel cap. 2 trattando di funzione di perdita). Se pur è vero che le politiche keynesiane tipiche sono quelle di controllo della domanda aggregata, nessun keynesiano ha mai negato l’utilità di interventi anche dal lato dell’offerta, ossia attraverso le politiche strutturali (inoltre sono i keynesiani che hanno proposto di stabilizzare i prezzi attraverso la politica dei redditi: cfr. cap. 8). Pertanto, quando si parla di politiche “keynesiane” l’aggettivo keynesiano può riferirsi a tutti e tre i tipi fondamentali di politiche economiche (cfr. par. 3.1): politiche di stabilizzazione di breve periodo, di tipo discrezionale; politiche strutturali, rivolte alle problematiche della crescita e dell'allocazione delle risorse; politiche economiche redistributive. La posizione keynesiana tradizionale consiste piuttosto nel garantire un elevato grado di discrezionalità alle autorità di politica economica, le quali possono e debbono aggiustare la propria azione, a seconda delle circostanze che si vengono a determinare di volta in volta. In sostanza, sebbene stabilizzazione non significhi necessariamente discrezionalità, le tipiche 24 La teoria del consumo del “ciclo vitale” fu formulata negli anni ’50 da F. Modigliani: l’ipotesi è che i consumatori prendono le decisioni di consumo in relazione non solo al reddito corrente ma anche in funzione del reddito (atteso) per l’intero ciclo di vita. 25 È per risolvere questi problemi, che superano quelli posti dalla semplice “stabilizzazione” dell’economia, che è stata proposta la cosiddetta finanza funzionale, da parte di economisti come LERNER (1943), secondo il quale la politica fiscale deve essere giudicata tenendo conto essenzialmente di come “funziona” nell’economia (ad esempio con riferimento ai suoi effetti sulla disoccupazione e sull’inflazione). 26 Giustificando così eventuali politiche di stabilizzazione “asimmetriche”, ossia politiche volte a contrastare le recessioni piuttosto che le espansioni (la discussione su questo punto è riassunta in MARELLI, SIGNORELLI (2010), alla fine del cap. 5).

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azioni stabilizzatrici prospettate dai keynesiani coincidono con interventi di tipo discrezionale (“regole rigide” di politica economica sono invece preferite dalla scuola monetarista: cfr. cap. 7). Alcuni keynesiani hanno pure proposto un “controllo fine” (fine-tuning) del ciclo, che implica un attento monitoraggio ed un preciso dosaggio degli strumenti di politica economica, anche in presenza di piccoli disturbi esogeni. A causa però delle limitazioni informative a cui è soggetto lo stesso policymaker, altri keynesiani hanno auspicato un intervento di stabilizzazione solo a fronte di gravi perturbazioni 27. Si noti che la finalità anti-ciclica può implicare improvvise inversioni nel segno della politica economica (espansiva o di sostegno del reddito, restrittiva o deflazionistica) al mutare del ciclo economico, causando le conseguenze negative delle cosiddette politiche stop-and-go. In tutti i casi, va ribadito che non viene messo in discussione il ruolo del mercato quale meccanismo allocatore delle risorse, ma si auspica – prendendo spunto dagli stessi suggerimenti di Keynes 28 – una sua “amministrazione” attraverso l’intervento pubblico. Quanto agli specifici strumenti di controllo della domanda, nonostante non fosse mai stata messa in dubbio l’importanza della politica monetaria, né da parte di Keynes (che anzi – come abbiamo visto – rigettò la tesi di neutralità della moneta) né da parte dei primi keynesiani, si è ben presto cominciato a identificare la posizione keynesiana come quella favorevole alla politica fiscale. Ciò, anche sulla base della considerazione delle situazioni “estreme”, così importanti nel dibattito iniziale tra monetaristi e keynesiani (cfr. cap. 7); del resto, almeno in un’economia di “profonda depressione”, la politica fiscale risulta essere l’unica efficace 29. Soprattutto in situazioni di depressione, lo stesso Keynes pensava ad una politica di lavori pubblici, per risolvere i problemi dell’eccessiva disoccupazione 30. Per ridurre le fluttuazioni economiche ed assicurare la piena occupazione era comunque preferita una politica di “socializzazione” degli investimenti. Sono altresí auspicate quelle spese pubbliche che comportano dei rendimenti futuri, di tipo diretto o indiretto (ad esempio imprese pubbliche o investimenti in istruzione). Questo suggerimento di Keynes, di fare ricorso alla spesa pubblica ed in particolare ad opere di lavori pubblici, era in un certo senso stato accolto in anticipo dal presidente americano F.D. Roosevelt, il quale all’interno del programma noto come New Deal iniziò sin dal 1933 azioni di questo tipo, per far uscire l’economia dalla Grande Depressione, sostenendo i 27 Ciononostante è stata proposta la possibilità di un intervento d’anticipazione, basato sulle capacità di previsione economica (modelli econometrici), anziché con un intervento correttivo ex-post dell’andamento ciclico. 28 La filosofia di Keynes, favorevole all’intervento pubblico nell’economia, si può già rintracciare in uno scritto del 1926 (The End of Laissez Faire) ed è stata ulteriormente chiarita nella “Teoria Generale”. Anzi, nella sua opera principale, scritta anche come risposta alla Grande Depressione, l’economista inglese auspica un ulteriore rafforzamento dell’intervento pubblico e la sua estensione alla gestione del credito, alla “socializzazione” degli investimenti ed al controllo della distribuzione del reddito. 29 Inoltre, già gli economisti keynesiani erano consapevoli che tra politica fiscale e politica monetaria vi è una sostanziale asimmetria, in quanto la prima può agire anche dal lato dell’offerta, sia attraverso gli investimenti pubblici, sia attraverso l’incentivazione degli agenti privati (ad esempio modificando la propensione al lavoro): in sostanza, la politica fiscale non è soltanto una politica di regolazione della domanda, ma è pure uno strumento delle politiche strutturali (cfr. cap. 3). 30 Perfino la spesa pubblica improduttiva – come la costruzione di piramidi, quella causata dai terremoti e dalle guerre, ed al limite lo scavo di buche nel terreno (magari riempite di biglietti di banca così da indurre l’iniziativa privata alla loro ricerca) – è vista paradossalmente da Keynes “meglio di niente”, allorché difficoltà politiche e pratiche (incluso quello che definiva “retaggio” dell'economia classica) impediscono attività più “sensate”.

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redditi e l’occupazione 31. L’orientamento keynesiano della politica economica statunitense, con interventi “attivi” soprattutto nel campo della politica fiscale, si fece più evidente nell’immediato dopoguerra, specie dopo l’approvazione, sempre negli Stati Uniti, dello Employment Act nel 1946. La politica della spesa pubblica è stata quindi, sia nel periodo della ricostruzione postbellica sia negli anni ’ 50 e ’60 del secolo scorso, un’arma fondamentale della politica economica in numerosi paesi occidentali. La crescita della spesa pubblica si è verificata in quasi tutti i comparti, interessando le spese correnti (in espansione persino nei paesi più “liberisti”: si pensi alla spesa militare o a quella aero-spaziale), quelle per investimenti (quali le grandi infrastrutture di trasporto), i trasferimenti sociali di reddito. Nonostante quest’enfasi iniziale posta dai primi keynesiani su una politica fiscale incentrata sulla spesa pubblica, vi sono numerosi esempi di manovre fiscali “keynesiane” che hanno operato su entrambi i fronti: su quello delle entrate e su quello delle uscite, ossia tasse e trasferimenti. Un esempio è dato dalle politiche keynesiane condotte ai tempi della New Economics negli Stati Uniti, con i tagli di imposte operati dalle amministrazioni Kennedy e Johnson nel periodo 1962-1965 32. I disavanzi pubblici che ne conseguivano non sembravano preoccupare economisti e politici, specie se corretti ricorrendo al concetto (introdotto proprio in quegli anni) di “disavanzo di pieno impiego” (cfr. cap. 11), a sua volta connesso all'altro concetto di “prodotto potenziale” (OKUN, 1962). Era questo il periodo in cui le politiche keynesiane di controllo della domanda acquisirono (non solo negli Stati Uniti) il massimo successo e la più vasta popolarità, tanto che si pensava allora di poter risolvere qualsiasi problema (o quasi) di tipo macroeconomico per mezzo di appropriate politiche di stabilizzazione. Quindi una politica fiscale espansiva può essere attuata sia tagliando le tasse sia aumentando la spesa pubblica: i keynesiani più liberisti propendono per la prima soluzione mentre quelli a favore di un maggior intervento pubblico per la seconda. Ma è vero che i keynesiani sono a favore del deficit-spending, ossia di una spesa pubblica in disavanzo (cioè che crea un deficit nel bilancio pubblico)? Ebbene già i primi keynesiani ammettevano che disavanzi del bilancio pubblico possono essere accettati ed anzi possono risultare benefici, solamente nel breve periodo, ad esempio per uscire da una recessione. Nessun economista keynesiano ha mai affermato che i disavanzi pubblici debbano essere sistematici e fors’anche crescenti nel tempo (in genere disavanzi più duraturi nel tempo sono giustificati solo al fine di finanziare gli investimenti pubblici, visto che gli effetti benefici di questi ultimi – dal lato dell’offerta – tendono a protrarsi per più anni). La “ricetta” suggerita per una politica anti-ciclica da parte degli economisti keynesiani è quella ampiamente nota: disavanzi ampi in caso di recessione, avanzi di bilancio (o comunque disavanzi decisamente minori) durante le fasi espansive. Si noti che, secondo Keynes ed i keynesiani è proprio l’effettuazione di spese pubbliche nei periodi di recessione che, attraverso l’espansione dell’attività produttiva e quindi del gettito fiscale, consente prima o poi di eliminare i disavanzi iniziali. Tra le numerose proposte, interessante è quella avanzata da G. Myrdal e dalla scuola sve31 Tali azioni avrebbero funzionato da “pump-priming”, come sostenuto dai primi keynesiani; KREGEL (1993) parla di politica economica “offensiva” per uscire dalla depressione. 32 In effetti, è con l'amministrazione del presidente J. Kennedy, grazie all’impulso del suo consigliere economico, HELLER (1967), che un sistematico e massiccio intervento di tipo keynesiano venne visto con crescente favore; intervento, che fu poi attuato nel 1964 dall’amministrazione Johnson. Considerata anche la difficoltà di un’azione dal lato della spesa (ad esempio sul fronte dell’impostazione di un vasto programma di spese sociali), si decise di attuare un importante pacchetto di riduzioni delle imposte.

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dese: il bilancio pubblico deve essere in equilibrio lungo il ciclo, sebbene siano ammessi squilibri nei singoli anni 33. Una regola fiscale meno rigorosa, come quella (spesso seguita in realtà) di conseguire limitati disavanzi o il pareggio di bilancio nelle fasi espansive e disavanzi più consistenti in quelle recessive, può invece condurre ad una crescita continua sia della spesa pubblica sia del debito pubblico. Questa regola può derivare dall’assenza di una piena reversibilità degli interventi fiscali, la quale dovrebbe al contrario caratterizzare l’utilizzo anti-ciclico della politica fiscale. In definitiva, se l’arma della spesa pubblica deve rispondere non solo alle finalità dello sviluppo, dell’efficiente allocazione delle risorse e dell’equità, ma anche all’obiettivo di stabilizzazione, allora il livello della spesa dovrebbe essere flessibile non solo verso l’alto, ma anche verso il basso. Di questo erano e sono ben consci gli economisti keynesiani, anche se non sempre i politici che hanno applicato politiche keynesiane (cfr. cap. 5). Alcune rigidità si riscontrano anche nel campo della tassazione, sia verso l’alto (non solo per gli effetti negativi sulla crescita economica ma anche per le resistenze che un progetto di incremento della pressione fiscale deve superare), sia verso il basso (non solo per i vincoli di bilancio ma anche per il timore del policymaker di non potere, dopo un taglio alle imposte, aumentarle nuovamente). Le politiche economiche keynesiane raggiunsero le più vaste applicazioni negli anni ’60 del Novecento. Poi, a causa di nuovi fenomeni quali gli shock d’offerta e la stagflazione degli anni ’70 ma ancor più la diffusione di nuove teorie e scuole (a cui faremo cenno alla fine del prossimo paragrafo ed alcune saranno approfondite nei successivi capitoli), si perse fiducia nella capacità dello Stato di stabilizzare l’economia con politiche discrezionali. Lo stesso intervento pubblico fu messo in discussione a favore di un approccio “neoliberista” (cfr. cap. 5). Più recentemente la Grande Recessione del 2008-09, la più forte dai tempi della Grande Depressione degli anni ’30, ha portato alla “riscoperta” di Keynes, non solo da parte dell’opinione pubblica e delle autorità di politica economica, ma anche di molti economisti (da cui era stato trascurato o combattuto nei precedenti tre o quattro decenni) 34.

4.6. Le diverse scuole keynesiane Finora, in questo capitolo, abbiamo rappresentato il pensiero keynesiano secondo un unico schema mentre, soprattutto a livello teorico, possiamo rintracciare diverse sotto-scuole e filoni; pur essendo praticamente tutti d’accordo sul ruolo della domanda aggregata e sull’importanza delle politiche di stabilizzazione. Differenze ci sono soprattutto nell’individuazione dei meccanismi specifici di causazione e di trasmissione degli shock sulla domanda, nonché nella considerazione di altre concause della disoccupazione. Secondo una prima visione conciliatrice si sostiene che Keynes, prendendo le mosse dall’apparato teorico neoclassico (sintetizzabile nei postulati della razionalità degli agenti e dell’equilibrio concorrenziale di mercato) intendesse mostrare le conseguenze sul sistema macroeconomico – equilibrio del reddito, piena occupazione, etc. – derivanti dall'abbandono di alcune ipotesi specifiche, come quella relativa alla piena flessibilità di prezzi e salari. È questa 33 Come vedremo nel cap. 18, questa regola di comportamento è in principio accolta dal Patto di stabilità e crescita (in vigore nell’UE): il bilancio pubblico deve essere sostanzialmente in pareggio nel medio periodo, ma sono ammessi limitati disavanzi, non superiori al 3% del Pil (a parte circostanze eccezionali), in caso di recessione. Vi è però discussione se questo margine sia sufficiente per uscire da una grave recessione. 34 Sull’attualità della Teoria Generale, si veda DIMAND et al. (2010). Il recupero delle politiche keynesiane è peraltro stato più deciso e continuativo negli Stati Uniti ed in Giappone, poiché nell’Eurozona – a causa della successiva crisi dei debiti sovrani – le politiche d’austerità hanno preso il sopravvento (cfr. cap. 19).

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la visione della cosiddetta sintesi neoclassica, che offre un compromesso tra la visione keynesiana, prevalente nel breve periodo (appunto caratterizzato da rigidità e frizioni) e la visione neoclassica pre-keynesiana prevalente nel medio-lungo periodo, allorché tutte le rigidità siano rimosse. Il modello AD-AS illustrato nel cap. 1 presenta una buona rappresentazione di questa visione: nel breve periodo il prodotto d’equilibrio può essere diverso da quello naturale – con presenza di disoccupazione – ma allorché gli aggiustamenti verso l’equilibrio di medio periodo sono completati (con la revisione delle aspettative ed in assenza di rigidità), si perviene all’equilibrio “naturale” di piena occupazione. In altre parole, il tentativo conciliatore è stato compiuto considerando le diverse situazioni individuate da Keynes (inclusa quella di sottoccupazione) come dei casi particolari, riconducibili al “caso generale” dello schema teorico classico, ponendo semplicemente delle ipotesi particolari e più restrittive (ribaltando così l'impostazione sopra illustrata) 35. Molti economisti keynesiani della sintesi neo-classica ribadiscono anche la coerenza tra comportamenti aggregati, a livello macroeconomico, che costituisce il nuovo livello di analisi introdotto da Keynes rispetto all’approccio neoclassico, e le fondamenta microeconomiche 36. È importante sottolineare che per questa corrente di pensiero, nonostante la fiducia nelle forze di riequilibrio di mercato, c’è comunque un ruolo importante che la politica di stabilizzazione può e deve giocare. Infatti, l’aggiustamento spontaneo di mercato verso l’equilibrio di medio periodo può essere troppo lento, comportando un lungo periodo di disoccupazione, per cui il policymaker può e deve accelerare l’aggiustamento. Inoltre la presenza di eventuali rigidità anche persistenti, che ostacolano gli aggiustamenti di mercato, rafforza l’opportunità di un intervento di stabilizzazione 37. La visione keynesiana della sintesi neoclassica è venuta a costituire la nuova ortodossia (mainstream economics), che ha dominato per molti anni la scena accademica ed anche l’azione politica. Essa ricomprendeva famosi economisti come J. Hicks, F. Modigliani, P.A. Samuelson, J. Tobin, R.M. Solow, D. Patinkin, A. Okun, L. Klein e, più in generale, la gran parte degli economisti keynesiani operanti negli Stati Uniti. In Europa hanno invece riscontrato un certo successo le interpretazioni keynesiane afferenti alla “scuola del disequilibrio” e, specialmente in Inghilterra (a Cambridge), le teorie “post-keynesiane”. Queste scuole tendevano ad assumere un atteggiamento teorico-metodologico finalizzato a preservare il messaggio “rivoluzionario” di Keynes e meno incline al compromesso con l'ortodossia teorica precedente. In queste ultime, più radicali, interpretazioni di Keynes è lo stesso apparato teorico neoclassico (in particolare l’analisi di equilibrio generale walrasiano) 38 sottoposto a critica. È que35 Subito dopo la Teoria Generale del 1936 comparvero le interpretazioni di HICKS (1937) e MODIGLIANI (1944), che consideravano l’equilibrio keynesiano di sottoccupazione come “caso particolare” derivato dal caso generale classico imponendo ipotesi specifiche: la “trappola della liquidità” nell'interpretazione di Hicks e quella dei salari monetari rigidi verso il basso, rispettivamente. 36 Esempi di queste interrelazioni comprendono l’niziale analisi microeconomica dei fenomeni macroeconomici condotta da HICKS (1939) e SAMUELSON (1947), la teoria del ciclo vitale dei consumi di F. Modigliani (simile a questa è la teoria del reddito permanente del monetarista M. Friedman), la funzione d’investimento elaborata da D. Jorgenson, la teoria delle scelte di portafoglio di J. Tobin, quella della domanda transattiva di moneta di W. Baumol, nonché il filone delle teorie (neoclassiche) di crescita avviato da R. Solow. 37 Questa è la visione proposta dal più recente filone della Nuova Economia Keynesiana, sviluppatasi a partire dagli anni ’80 (un breve cenno sarà fatto nel cap. 8). 38 Se in alcuni contributi si giunge addirittura ad attaccare il concetto di razionalità degli agenti e la necessità di basare ogni discorso macroeconomico sui “primi principî” microeconomici, in altre analisi keynesiane ci si

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sto il caso della scuola del disequilibrio e di quella post-keynesiana. Secondo queste visioni alternative del pensiero keynesiano, le implicazioni di politica economica sono estreme e vanno ben al di là della mera rimozione delle “rigidità” che ostacolano il libero funzionamento del mercato; esse invece prevedono un diverso e più consistente ruolo per l’intervento dello Stato, nel caso si verifichi nel sistema una carenza di “domanda effettiva”, con condizioni più o meno persistenti di depressione e di disoccupazione. Tra i maggiori esponenti della scuola del disequilibrio troviamo CLOWER (1965) e LEIJONHUFVUD (1969). Il primo, che definisce la sintesi neoclassica come “contro-rivoluzione keynesiana”, tenta di dimostrare che la teoria classica rappresenta un caso particolare (valido soltanto in condizioni di piena occupazione), mentre quella di Keynes è la vera teoria generale, poiché prescinde dalla condizione dell’equilibrio continuo di mercato ed è invece estesa alle situazioni di disequilibrio (non-market clearing). Anche Leijonhufvud mira ad interpretare il “vero” pensiero di Keynes, da lui contrapposto all’economia keynesiana ortodossa; egli analizza soprattutto le situazioni di fallimento coordinativo tra gli agenti operanti nel mercato, a causa di problemi informativi. La scuola del disequilibrio ha quindi dato origine ad una serie di modelli, talvolta definiti a prezzi fissi, oppure dei “mercati contingentati” o “con razionamento”, od ancora degli “equilibri vincolati” 39. Poiché la rigidità di prezzo causa eccessi di offerta o di domanda, solo gli agenti che si trovano sul lato corto del mercato – alternativamente i compratori o i venditori – sono nelle condizioni di poter realizzare i propri piani; gli altri risulteranno razionati. Il problema è che il razionamento di un agente su un dato mercato pone ad esso dei vincoli quantitativi in altri mercati. La situazione di disoccupazione è quindi spiegata considerando l’interdipendenza tra mercato dei beni e mercato del lavoro. In questo contesto, se la disoccupazione è di tipo keynesiano, ossia dovuta a carenza di domanda effettiva, allora una pura e semplice riduzione del salario – come suggerivano i classici pre-keynesiani – potrebbe essere controproducente 40, poiché comporta una riduzione della domanda effettiva; se invece la disoccupazione è di tipo classico (o neoclassico), con un salario reale superiore a quello di equilibrio 41, allora per accrescere l’occupazione occorre ridurre tale salario (o introdurre una maggiore flessibilità salariale). La scuola post-keynesiana recupera invece altri elementi di Keynes (ed anche di precursori di Keynes come Kalecki nonché degli economisti classici), quali l’incertezza, l’instabilità ed il ruolo giocato dalla domanda effettiva. Questa scuola ha alcuni tratti peculiari, quali l’analisi dei concreti processi storici, nonché l’enfasi posta sugli aspetti istituzionali (presenza di contratti, organizzazione dei mercati, caratteristiche dell’economia monetaria, etc.), sull’incertezza 42 e sull’instabilità del sistema capitalistico. Queste sono le caratteristiche, in particolare, limita ad enfatizzare i problemi connessi alla dimostrazione della stabilità, unicità e della stessa esistenza dell’equilibrio economico generale. 39 Tra le tante opere, si veda quella classica di MALINVAUD (1977). 40 Ecco perché Keynes auspicava politiche di stabilizzazione dei salari; infatti criticava la visione tradizionale secondo cui il salario è soltanto un costo per le imprese piuttosto che anche un reddito per i lavoratori (cfr. VICARELLI, 1977). Per gli stessi motivi, anche oggi, molte posizioni keynesiane sono contrarie ad una completa flessibilità salariale come “ricetta” per curare la disoccupazione. 41 In un grafico rappresentante il mercato del lavoro standard (con la curva di domanda di lavoro decrescente rispetto al salario e l’offerta di lavoro crescente), nel caso della disoccupazione (neo)classica ci troviamo sulla curva della domanda di lavoro con un salario superiore a quello d’equilibrio (quest’ultimo si trova dove domanda ed offerta di lavoro coincidono); la disoccupazione keynesiana è invece rappresentata dai punti interni alla domanda di lavoro. 42 L'incertezza è un elemento ineliminabile degli eventi economici e non può essere semplicemente ricon-

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della scuola post-keynesiana europea (che ha operato prevalentemente presso l'università di Cambridge in Inghilterra); i maggiori economisti sono R. Kahn, N. Kaldor, J. Meade, J.V. Robinson, L. Pasinetti e tra i temi d’indagine troviamo anche le teorie della crescita e della distribuzione del reddito 43. Tra le proposte di politica economica, auspicano un intervento pubblico che vada al di là della mera stabilizzazione del reddito (criticate soprattutto le politiche di “fine tuning”) ma comprenda profonde riforme sociali ed istituzionali (inclusa se necessario una “socializzazione” degli investimenti). Vi è poi una scuola post-keynesiana americana, che ha come punto di riferimento il “Journal of Post-Keynesian Economics”; i suoi maggiori esponenti sono P. Davidson, H.P. Minsky, S. Weintraub. L’interesse principale di questa componente è rivolto verso i temi dell’economia e della dinamica monetaria; una tesi rilevante è quella dell’offerta di moneta endogena. All’interno dell’analisi sulle crisi finanziarie 44, l’ipotesi di “fragilità finanziaria” di MINSKY (1982) mostra che durante le fasi espansive del ciclo aumenta tale fragilità (misurata dal rapporto tra indebitamento e reddito delle imprese), cosicché è sufficiente l’aspettativa di un’inversione di tendenza del ciclo, per portare prima o poi ad un crollo finanziario ed industriale. Per quanto riguarda l’inflazione, Weintraub ma anche Kaldor propongono una tax-based incomes policy; una politica dei redditi di tipo “incentivante” (cfr. cap. 8) è proposta in quanto l’inflazione è vista principalmente come l’esito del disaccordo tra le parti sociali – lavoratori e capitalisti – sulla distribuzione del reddito. Per concludere, notiamo che la visione di molti economisti keynesiani, in particolare post-keynesiani, si allontana più decisamente dalla scuola neoclassica e si avvicina ad alcune posizioni eterodosse, se non addirittura radicali. Si possono così individuare i filoni sraffiani (dal nome dell’economista italiano, PIERO SRAFFA, che si ricorda per l’importante contributo del 1960); ricardiani (i quali riguardo ai nessi tra crescita e distribuzione del reddito riprendono l’idea negativa di Ricardo sulle rendite come freno allo sviluppo); marxisti (che pongono le crisi ed i conflitti tra capitale e lavoro al centro dell’analisi); e numerose altre 45. Le interrelazioni tra Keynes e le varie scuole keynesiane, nonché tra queste e quelle precedenti come pure quelle successive, sono rappresentate nello schema grafico della Fig. 4.2. La parte cruciale del dibattito recente tra scuole macroeconomiche è stato tra i keynesiani, i monetaristi e gli esponenti della Nuova Macroeconomia Classica; ossia le scuole rappresentate sull’asse verticale principale del grafico (in neretto, discendente sotto Keynes) 46. Alla scuola dotta a rischio calcolabile (come già sostenuto molti anni addietro da KNIGHT, 1921). L’incertezza è fondamentale nel momento della formazione delle aspettative ed influisce sugli animal spirits. Una recente “riscoperta” di questo concetto, anche per comprendere la cause della crisi economico-finanziaria del 2007-09, è in AKERLOF, SHILLER (2009). 43 La distribuzione è stata indagata, soprattutto da Kaldor e Pasinetti, anche all’interno dei modelli di crescita, ad esempio integrando e sviluppando il precedente modello di crescita “keynesiano” di Harrod e Domar. 44 Per fronteggiare l’instabilità dei mercati finanziari internazionali, è proposta un’imposta sulle transazioni valutarie (la cosiddetta Tobin tax, inizialmente proposta dall’economista J. Tobin, che peraltro apparteneva al filone della sintesi neo-classica). 45 Questo è poco più che un elenco. Per integrazioni ed approfondimenti si rinvia a MARELLI, SIGNORELLI (2010b), cap. 3. 46 La Nuova Economia Keynesiana, sviluppata a partire dagli anni ’80, accetta l’innovazione delle aspettative razionali ma mantiene l’ipotesi di rigidità di prezzi o salari; i cicli reali d’equilibrio forniscono un’interpretazione del ciclo economico dal lato dell’offerta (cenni saranno fatti nel cap. 8 e nel cap. 6 rispettivamente).

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monetarista (contrapposta al pensiero keynesiano) ed a quella della Nuova Macroeconomia Classica (nota per la “rivoluzione delle aspettative razionali”) saranno dedicati il cap. 7 ed il cap. 9 rispettivamente. Figura 4.2. – Le principali scuole (macro)economiche CLASSICI

NEOCLASSICI Scuole ETERODOSSE: ricardiani, marxisti, sraffiani

Scuola AUSTRIACA

Teorie Neoclassiche di CRESCITA

Supply-side Economics

CICLI REALI di EQUILIBRIO

KEYNES

POSTKEYNESIANI

Keynesiani della SINTESI NEOCLASSICA

Scuola del DISEQUILIBRIO

MONETARISTI

NUOVA MACRO-ECONOMIA CLASSICA (aspettative razionali)

NUOVA ECONOMIA KEYNESIANA

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L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

5.1. Fallimenti del mercato ed intervento pubblico In questo capitolo analizziamo l’intervento pubblico in economia, concentrandoci sulle azioni esplicite volte a modificare l’allocazione delle risorse e la distribuzione del reddito esistente 1. Infatti, in aggiunta alle finalità stabilizzatrici della politica economica occorre tenere conto degli obiettivi distributivi ed allocativi (secondo la tripartizione di Musgrave già richiamata nel cap. 3). Per quanto riguarda questi ultimi, l’analisi tradizionale 2 dell’intervento pubblico nell’economia ha preso spunto dalle fondamenta microeconomiche, con il considerare le seguenti situazioni specifiche di fallimento del mercato (market failure): 1. imperfezioni ed incompletezze dei mercati (queste ultime presenti ad esempio nei settori finanziari ed assicurativi) 3; 2. esternalità nella produzione o nel consumo, che implicano equilibri di mercato subottimali, ad esempio perché la produzione privata risulta diversa da quella socialmente desiderabile data la divergenza tra costi privati e costi sociali (si pensi ai problemi dell'inquinamento e della salvaguardia ambientale) 4; 3. rendimenti di scala crescenti o presenza di elevate dimensioni minime produttive economicamente efficienti in taluni comparti (ad esempio trasporti e comunicazioni, nonché in genere le “public utilities”, ovvero i servizi di pubblica utilità), con conseguenti comportamenti monopolistici, collusivi o comunque lesivi della concorrenza 5; 1 Anche le politiche che non hanno finalità strettamente di tipo economico – come la politica delle infrastrutture e dei servizi pubblici, la politica sociale, la politica dell’istruzione ed altre ancora (comprese quelle per la difesa, sicurezza, giustizia e per la normale attività delle amministrazioni pubbliche) – possono avere profonde ripercussioni sulla sfera economica. Tuttavia noi ci limitiamo alle politiche economiche in senso stretto. 2 Cfr. R.A. MUSGRAVE, P.A. MUSGRAVE (1982). 3 L’incompletezza dei mercati, comportando degli equilibri non Pareto-efficienti, può giustificare l’intervento pubblico in attività come quelle del credito (dove ad esempio si presentano frequentemente “vincoli di liquidità”), delle assicurazioni, della formazione professionale. 4 A questo problema si potrebbe ovviare con imposte e sussidi (come già suggerito da A. Marshall, A.C. Pigou e da P.A. Samuelson). Più precisamente, con imposte e sussidi (oppure con interventi correttivi di regolamentazione), nel caso di esternalità tecnologiche (generatrici di inefficienze); ma con trasferimenti a somma fissa (lump sum) nel caso di esternalità pecuniarie (causa di effetti distributivi). Si veda ARTONI (1993), BROSIO (1993), PETRETTO (1989), STIGLITZ (1988 e 2003). 5 Particolarmente studiato è il caso dei “monopoli naturali”. È comunque importante considerare la concorrenza potenziale: se il mercato è comunque contendibile (come nel caso spesso citato dei trasporti aerei),

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4. presenza di incertezza, informazione incompleta (un caso frequentemente indagato è quello dell’informazione asimmetrica) o comunque di elevati costi di informazione o di transazione 6; 5. esistenza di beni pubblici puri (quali difesa, giustizia, ordine pubblico): questi beni, oltre ad essere spesso indivisibili, sono caratterizzati, diversamente dai beni privati, dai principî dell’assenza di rivalità nel consumo e di non escludibilità dai benefici; in questo campo, si possono manifestare comportamenti del tipo free rider, ossia i consumatori possono essere tentati di trarre beneficio dal bene pubblico senza sopportarne il costo (potendo nascondere le proprie vere preferenze). Prima di illustrare le possibili vie d’uscita, individuate a livello teorico per affrontare queste situazioni di “fallimento del mercato”, è forse opportuno richiamare brevemente l’enunciato dei due teoremi fondamentali 7 della “nuova economia del benessere”: – secondo il primo teorema, un equilibrio competitivo rappresenta sempre – in assenza di fallimenti – una situazione di first-best in senso paretiano, ossia non è dominato da nessun’altra allocazione fattibile; – per il secondo teorema, esiste una distribuzione delle risorse iniziali tra gli individui, tale che la corrispondente allocazione d’equilibrio walrasiano coincide con l’allocazione ottimale in senso paretiano 8. Essendo tutte le allocazioni efficienti anche socialmente indifferenti, è così confermata l’idea paretiana secondo cui la giustizia distributiva non è un problema dell’economia politica, ma è riservata alla sfera politica o richiede comunque l’esplicitazione di giudizi di valore. Tuttavia, le imperfezioni di mercato e la pratica impossibilità di raggiungere posizioni di “first best” nelle economie reali richiedono che il trade-off tra equità ed efficienza sia affrontato mediante appropriati interventi pubblici. L’analisi delle situazioni di fallimento del mercato ha portato ben presto alla ricerca di quelle istituzioni più appropriate, in primo luogo lo Stato, che possano sostituire mercati mancanti o tali da non consentire il raggiungimento di posizioni ottimali in senso paretiano. Questa visione, propugnata da Arrow, pone perciò il meccanismo allocativo del mercato ancora in una posizione dominante: l’intervento pubblico sostitutivo è giustificato solo dalle imperfezioni ed incompletezze dei mercati. In questo contesto, se all’interno dello stesso mercato non fosse possibile risolvere i fallimenti 9, soluzioni alternative sono state proposte nell’ambito del’intervento pubblico è meno giustificato. In altri casi, le barriere all’entrata possono derivare dall’irreversibilità degli investimenti, per la presenza di costi irrecuperabili (o sunk costs), spesso caratterizzanti i trasporti e le telecomunicazioni. Anche in questi casi, occorre che l’intervento pubblico “correttivo” non generi delle “government failures” superiori alle “market failures” iniziali (per riferimenti al contesto italiano, vedi KOSTORIS, 1990). 6 Ad esempio, l’incertezza riduce a livelli subottimali gli investimenti, i cui rendimenti sono spesso differiti nel tempo; l’informazione imperfetta può contribuire al mantenimento su livelli elevati (ed inefficienti) della disoccupazione. 7 Teoremi dovuti a K. Arrow e G. Debreu: vedi, tra gli altri, PETRETTO (1989). 8 Pertanto, anche l’allocazione delle risorse ritenuta equa può essere assicurata dal meccanismo competitivo del mercato, congiuntamente ad una redistribuzione delle risorse (ad esempio al fine di correggere la distribuzione iniziale che può essere influenzata dal meccanismo dell’eredità e da imperfezioni nei processi di mobilità sociale). 9 Secondo il “teorema di Coase” (1960) una soluzione potrebbe essere – sotto certe condizioni – quella di favorire una piena libertà di contrattazione, compresa quella sui diritti di proprietà; la contrattazione potrebbe riguardare per esempio eventuali “concessioni” a provocare esternalità negative, per cui un’allocazione otti-

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gli approcci neo-istituzionalisti e particolarmente all’interno della cosiddetta teoria delle scelte sociali. Mentre – come vedremo meglio in seguito – il ramo positivo di questa teoria studia essenzialmente il problema della scelta tra diverse alternative di impiego delle risorse, in base alle preferenze individuali, il ramo normativo cerca di fornire raccomandazioni di politica economica. Lo Stato è raffigurato come il tipico decisore pubblico nei confronti dei cittadini (contribuenti, beneficiari di spesa pubblica, utenti di servizi pubblici), oltre che come organismo regolatore di agenti e mercati privati 10. La regolamentazione pubblica della produzione potrebbe essere necessaria in certe evenienze (limitazioni alla concorrenza, avversione al rischio, etc.); ad esempio, particolari imperfezioni di mercato possono richiedere misure specifiche di regolamentazione, come quella in difesa dei consumatori nel caso di informazione imperfetta e di qualità eterogenea dei prodotti. La teoria tradizionale delle scelte sociali è stata peraltro criticata, specie in relazione alla sua ristretta visione utilitaristica 11 ed in quanto poco utile per la comprensione di fenomeni reali, quali l’esistenza dei cosiddetti beni di merito (o beni meritori). La definizione di bene di merito 12 non è rapportata, di solito, al principio della sovranità del consumatore (nonostante alcuni tentativi di ricondurla al principio utilitaristico individuale), essendo invece ipotizzata una sorta di incapacità nel perseguimento della propria utilità da parte dei singoli individui 13. Esempi specifici di beni di merito, riferiti a valori largamente condivisi dalla collettività – per cui si ritiene giusto l’intervento pubblico per la loro fornitura – includono gli interventi in campo educativo, dell’arte, della preservazione dei siti storici, della tutela dell’ambiente, delle manifestazioni culturali, e così via; al concetto di “paternalismo” possono invece essere ricondotti gran parte dei servizi sociali: sanità, casa, assistenza sociale, ed altri.

5.2. Teorie sull’espansione secolare del settore pubblico Il massimo sviluppo dell’intervento pubblico si è avuto a partire dal secondo dopoguerra 14, quando alla tradizionale fornitura di beni pubblici (in senso stretto) si sono sovrapposte male delle risorse può essere comunque raggiunta, pur in presenza di taluni fallimenti del mercato (come appunto quelli derivanti dalla presenza di esternalità). 10 Esso è un’organizzazione economica caratterizzata dall’universalità della partecipazione (dei cittadini) e per il suo potere di costrizione (ATKINSON, STIGLITZ, 1987). 11 Infatti, le preferenze individuali nella teoria di K.J. Arrow si riferiscono semplicemente agli ordinamenti delle alternative in gioco e non alle caratteristiche oggettive degli stati sociali possibili. Da qui, ha preso le mosse la critica di SEN (1982) all’utilitarismo: pur senza ledere il principio della “sovranità del consumatore”, bisogna riconoscere che la desiderabilità sociale di alcune alternative può divergere dalle preferenze manifestate dai singoli individui. In termini più generali, partendo dalla constatazione che la razionalità degli agenti può condurre a dei risultati subottimali, è stato riproposto il tema del comportamento etico in economia, con la considerazione – accanto al principio utilitaristico dell’interesse personale – di altri principi, come quello della benevolenza, proposto dallo stesso A. Sen e da A. Hirschman (si veda anche su questo punto SCREPANTI, ZAMAGNI, 1989). 12 Concetto che risale all’opera di R.A. Musgrave del 1959. 13 Essa viene piuttosto ricondotta in alcuni contributi alle meta-preferenze (preferenze non strettamente utilitaristiche o “valori più alti”), al concetto di paternalismo nella distribuzione (per cui i trasferenti interferiscono nelle decisioni dei riceventi) oppure a quello di preferenze di comunità, ossia valori largamente condivisi dalla collettività. Alcuni autori considerano i beni di merito come una soluzione a specifiche esternalità (nella produzione, nel consumo, o nel reddito). 14 Si consideri, come esempio, che nel caso italiano la spesa pubblica rispetto al Pil è più che raddoppiata: dal 24% del 1951 (passando per il 29,4% del 1960, il 33,2% del 1970 ed il 42,2% del 1980) fino al valore massimo del 57,6% del 1993, per poi ridursi e stabilizzarsi su valori attorno al 50% del Pil.

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non solo le azioni di stabilizzazione dell’economia di mercato, ma anche gli interventi nella produzione e quelli di tipo redistributivo. Come spiegato nel cap. 3, anche in diversi paesi occidentali si è sviluppato – soprattutto negli anni ’60 del secolo scorso – un sistema di economia mista, in cui accanto al libero mercato si è sviluppata una massiccia presenza dell’operatore pubblico, non solo quale “regolatore” dell’attività economica privata ma quale attore principale nella sfera produttiva. L’intervento pubblico diretto si è concentrato soprattutto nei settori ritenuti strategici, identificati sulla base dei legami intersettoriali, delle capacità innovative, dei vincoli strutturali (come quello dell’energia o più in generale il vincolo estero), oppure in considerazione del contributo dato al riequilibrio territoriale (come nel caso degli interventi a favore del Mezzogiorno) 15. Inoltre, abbiamo già illustrato le caratteristiche del welfare state, pure molto diffuso in diversi paesi europei, dove la spesa relativa è venuta a superare il 25% del Pil (cfr. par. 3.2). La tendenziale crescita di lungo periodo della spesa pubblica, sia in assoluto sia in relazione al Pil, è stata spiegata da taluni interpreti considerando il diffuso utilizzo di politiche di tipo “keynesiano”, conducendo, anche a causa di fenomeni di “illusione fiscale”, in certi casi a quella che è stata definita democrazia in deficit 16. Ci si riferisce al fatto che le politiche “keynesiane” concretamente realizzate dal secondo dopoguerra hanno privilegiato soprattutto gli aspetti redistributivi (spesa per trasferimenti), piuttosto che quelli legati all’efficienza (che avrebbe richiesto un maggior impegno sul fronte degli investimenti) od alle stesse finalità stabilizzatrici (i disavanzi pubblici hanno avuto connotati prevalentemente strutturali anziché una chiara dinamica anticiclica). Un tale risultato è comunque dovuto all’impiego distorto delle politiche keynesiane, in quanto quando queste ultime sono state attuate in un quadro di compatibilità macroeconomiche e di contabilità pubblica sostanzialmente equilibrata, esse hanno condotto tutt’al più alla crescita del settore pubblico, ma solo in casi eccezionali alla formazione di persistenti disavanzi di tipo strutturale 17. L’espansione del settore pubblico è tuttavia un fenomeno di lungo periodo e riflette tendenze secolari riscontrabili già dall’Ottocento. Tendenze analizzate anche sulla base di specifiche teorie interpretative, che adesso passiamo sinteticamente in rassegna: 1. secondo la legge di Wagner (risalente al 1877), i beni e servizi pubblici sono da considerare “beni superiori”, quindi caratterizzati da un’elasticità di domanda rispetto al reddito superiore all’unità; l’ipotesi afferisce in senso stretto ai beni di merito (sanità, assistenza, istruzione, etc.), ma Wagner riconosce che possono aumentare sia le spese burocraticoamministrative (per la crescente complessità dell’apparato dello Stato e della stessa organizzazione sociale: industrializzazione, urbanizzazione, mobilità, etc.), sia quelle di tipo economico (specie per ovviare alla formazione di monopoli naturali, sempre più probabile a causa delle nuove tecnologie); 2. il modello di Baumol (del 1967), che similmente alla legge di Wagner può spiegare il più generale fenomeno della terziarizzazione (non solo in relazione ai servizi pubblici, ma anche a quelli privati), concentra l’attenzione sulle determinanti dal lato dell’offerta e si sofferma in particolare sui differenziali di produttività, statici e dinamici, rispetto al settore privato dell’economia, a sfavore del settore pubblico (essenzialmente perché quest’ultimo 15 In molti casi si sono peraltro sovrapposte finalità di tipo redistribuivo (od anche in certi paesi di tipo “politico-clientelare”), generando talune perplessità circa la qualificazione di “strategici” riservata per molti settori concreti d'intervento. 16 Cfr. BUCHANAN, WAGNER (1977). 17 Cfr. ARTONI (1989). Si veda anche la discussione sul “deficit spending” nel par. 4.5.

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può incorporare meno facilmente il progresso tecnico); conseguentemente, anche con un’ipotesi restrittiva di costanza nel rapporto tra le produzioni dei due settori, la minor crescita della produttività nel settore pubblico implica un crescente fabbisogno di lavoro e quindi un’espansione relativa della sua base occupazionale 18; 3. la teoria del displacement effect 19 cerca invece di spiegare l’espansione “a salti” della spesa pubblica; infatti, dato un bilancio pubblico sostanzialmente in pareggio, gli incrementi di spesa pubblica trovano un limite nella massima pressione fiscale tollerabile in ogni periodo, ma quest’ultima può spostarsi verso l’alto in modo discontinuo, ad esempio a seguito di eventi esogeni (come le guerre), per restare poi fissata ai nuovi livelli raggiunti a causa di un processo di assuefazione 20; la teoria del bilancio incrementale è analoga alla precedente, ma concentra l’attenzione sulla crescita discontinua di singole componenti della spesa pubblica, che si rincorrono tra di loro (ad esempio per recuperare il valore reale eroso dall’inflazione), dando origine ad un’evoluzione più lineare, ma anche più sostenuta, dell’intero aggregato della spesa pubblica.

5.3. La scuola di “public choice” e la “supply-side economics” Le impostazioni tradizionali attribuivano in genere l’espansione della spesa pubblica alle scelte consapevoli ed illuminate di un policymaker benevolente (ovvero del “despota benevolo” spesso citato nella letteratura), anche se in certi casi era riconosciuto che lo Stato potesse essere incapace di mediare tra i conflitti ed essere tentato di cedere alle richieste corporative. Dagli anni ’70-’80 del secolo scorso si sono però diffuse impostazioni alternative, secondo cui una tale espansione è piuttosto ricondotta agli obiettivi particolari di politici, gruppi di pressione, burocrati ed al loro conseguente comportamento: gli interessi particolari vengono a sovrastare quello generale 21. Lo Stato viene quindi raffigurato come parte attiva nel gioco, dotato di propri specifici obiettivi (oppure rivolto alla tutela degli interessi particolari delle persone che lo rappresentano) e probabilmente soggetto a vincoli ed a carenze informative. In quegli anni, shock d’offerta, elevata inflazione, difficoltà a tenere sotto controllo la dinamica del debito pubblico, inefficienze di vario tipo hanno portato ad ipotizzare probabili fallimenti dello Stato nell’intervento pubblico. Le impostazioni teoriche si riferiscono sia ad aspetti di analisi positiva (come nel gruppo di “modelli politici o conflittuali”) 22, sia a più esplicite proposizioni normative (come nel caso 18 Inoltre, se la dinamica salariale non rispecchia i differenziali di produttività (come è probabile, considerati i processi “imitativi” che caratterizzano le richieste salariali), allora il maggior incremento dei costi unitari del lavoro nel settore pubblico comporta una più sostenuta dinamica del valore monetario della spesa pubblica (rispetto sia al settore privato sia al Pil nel suo complesso). Questo spiega il fatto che il rapporto G/Y è cresciuto generalmente di più in termini nominali che non in termini reali. 19 Empiricamente verificata da Peacock e Wiseman (nel 1961), con dati inglesi relativi al periodo 18901955, secondo i quali la spesa pubblica pare essere cresciuta appunto “a salti”. In parte diverse sono le teorie del ciclo economico-politico (a cui saranno fatti brevi cenni nel prossimo paragrafo). 20 In modo parallelo, gli approcci neoliberisti che si sono diffusi negli anni ’80 sostengono la necessità di contenere la pressione fiscale, anche al fine di porre un tetto massimo all’espansione della spesa pubblica. 21 Come riconosciuto sin dai primi anni ’60 da BUCHANAN, TULLOCK (1962). 22 In aggiunta alla scuola di “public choice” (comprendente anche le teorie più specifiche della burocrazia, dell’agenzia, dei gruppi d’interesse), questo gruppo di modelli comprende impostazioni molto varie, da quelle liberiste (risalenti addirittura ad A. de Tocqueville) a quelle istituzionaliste, keynesiane e post-keynesiane (ad esempio le idee di M. Kalecki sono state riprese nelle spiegazioni di tipo “conflittuale” della crescita della spesa pubblica in Italia negli anni ’70).

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delle proposte di limitazione della spesa pubblica) 23. Tra le prime, concentriamo qui l’attenzione sulla scuola di public choice: essa studia, in particolare, le determinanti della domanda e dell’offerta di trasferimenti. Questa teoria si concentra infatti sui meccanismi sottostanti all’attività redistributiva dell’operatore pubblico (trasferimenti), piuttosto che di altre componenti di spesa. Viene riconosciuto che interpretazioni come quella di Wagner ben si addicono all’analisi dello sviluppo di quelle componenti del settore pubblico connesse alla crescita economica ed all’industrializzazione (si tratta di quei beni e servizi per cui l’operatore pubblico presenta un vantaggio comparato nel fornirli). Circa la domanda, viene esaminato il ruolo non solo dello sviluppo economico, ma anche dei mutamenti istituzionali, ad esempio delle modificazioni nei sistemi elettorali 24; quanto all’offerta, l’assenza di fonti d’offerta alternative a quella governativa è causa di potere monopolistico e dell’insorgere di inefficienze. Più precisamente, la scuola di “public choice”, applicando la tradizionale strumentazione microeconomica (calcolo marginalistico, teoria dei giochi, modelli di agenzia, etc.) ai problemi delle scelte sociali, analizza i processi decisionali e di gruppo nello svolgimento delle transazioni cosiddette “non di mercato” 25. La fornitura di beni pubblici (trasferimenti in particolare) può essere analizzata all’interno di un mercato particolare, in cui la domanda afferisce ai cittadini/elettori, organizzati in gruppi di interesse o di pressione (costituiti da imprese, organizzazioni di categoria, associazioni di consumatori, sindacati dei lavoratori, etc.), e l’offerta a gruppi politici e burocratici (che massimizzano rispettivamente il proprio tornaconto elettorale ed il reddito/potere/prestigio personali). Si verifica pertanto uno scambio tra beni pubblici, voti elettorali e benessere dei burocrati 26. In un sistema siffatto vi è una tendenza per gli agenti privati a formare coalizioni o gruppi di pressione organizzati (le cosiddette lobby), al fine di catturare i benefici più elevati o di minimizzare le perdite (creazione di cartelli tra fornitori, sindacalizzazione dei dipendenti pubblici, pressioni per la richiesta di agevolazioni fiscali, etc.). Le coalizioni più forti sono quelle caratterizzate da un ridotto numero di membri con pochi obiettivi specifici, ad esempio gruppi di produttori rispetto a gruppi di consumatori. Si ritiene che i gruppi d’interesse 27 riescano nel loro intento di ampliare la spesa pubblica, anche perché i costi di quest’ultima (diversamente dai suoi benefici) sono sopportati da categorie eterogenee e non organizzate (i contribuenti in generale) ed inoltre non sono sempre evidenti, essendo in molti casi di tipo implicito ed occul23 Accanto al preponderante approccio positivista, vi è infatti nella scuola di “public choice” anche un ramo normativo, noto come constitutional political economy, il cui maggior esponente è BUCHANAN (1987). 24 In una società democratica l’interesse generale è rappresentato attraverso un sistema di votazioni, quindi un ruolo importante è giocato dall’elettore mediano (se vale la regola della maggioranza): in questo contesto, una distribuzione asimmetrica dei redditi individuali, come è probabile che sia in realtà, conduce presumibilmente ad un’espansione della spesa pubblica, essendo preferita dalla maggioranza della popolazione (il modello di A.H. Meltzer e S.F. Richard analizza in particolare gli effetti sulla domanda di spesa pubblica derivanti dai mutamenti nei sistemi elettorali). Modelli di tipo elettorale sono stati sviluppati all’interno del filone della new political economy. 25 Una definizione più precisa (come risulta anche dalla rivista “Public Choice”) è lo studio economico della politica, ossia l’analisi con il metodo delle scienze economiche delle istituzioni e dei processi politici. Metodi tipicamente impiegati in queste analisi sono il calcolo marginalistico per rappresentare le scelte ottimizzanti di agenti razionali, la teoria dei giochi per analizzare le interazioni tra individui, i modelli del tipo “principaleagente”, etc. 26 Il problema non è tanto quello di controllare l’onestà dei burocrati, quanto di frenare il loro desiderio di espandere continuamente le proprie attività. 27 La teoria dei gruppi d’interesse, a partire dai primi studi di G. Tullock, è stata arricchita negli anni ’80 da numerosi contributi di molti autori: H. Demsetz, D.C. Mueller, P. Murrel, S. Pelzmann sono i principali.

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to (imposta da inflazione, imposte sulle generazioni future connesse al debito pubblico, etc.). La formazione di eccessivi disavanzi pubblici nelle economie moderne sarebbe dovuta a fenomeni di illusione fiscale, tali per cui gli elettori sovrastimano i benefici delle spese correnti e sottostimano i costi delle imposte future o dell’inflazione. L’azione pubblica causa una propagazione nell’intero sistema di inefficienze ai vari livelli 28. Si è così originato e diffuso, soprattutto negli anni ’80, un nuovo dibattito sui cosiddetti government failure, anche perché gli stessi governi, di solito miopi, tendono a non considerare o a sottovalutare gli effetti di lungo periodo. Sottostante a questa visione vi è la constatazione che l’intervento pubblico – essendo anch’esso caratterizzato da imperfezioni, indivisibilità, carenze informative, costi di transazione, situazioni monopolistiche – può comportare dei costi sociali superiori a quelli implicati dai fallimenti di mercato. Il problema è che spesso i due tipi di fallimento si sovrappongono tra di loro, anziché elidersi 29. Prima di illustrare il filone noto come “economia dell’offerta”, facciamo un breve cenno alle teorie del ciclo economico-politico. Si ritiene che i governi tendano ad effettuare politiche espansive poco prima delle elezioni, al fine di stimolare la crescita e ridurre la disoccupazione; la scommessa è che elettori poco lungimiranti 30 saranno portati a rieleggere i governanti, non tenendo conto delle politiche restrittive che si renderanno necessarie dopo le elezioni (anche a causa dell’inflazione che nel frattempo sarà salita). A questi modelli, definiti opportunistici, si contrappongono i modelli “di partito” (partisan), in cui il mix di inflazione e disoccupazione prescelta dipende dal tipo di coalizione politica (progressista o conservatrice). L’evidenza empirica mostra comunque che disavanzi e debiti pubblici elevati e cronici non sono stati una regolarità della storia economica dei paesi occidentali; solo negli anni ’80 dell’ultimo secolo si sono diffusi alcuni comportamenti opportunistici. La supply-side economics (SSE), sviluppatasi pure in quel decennio negli Stati Uniti con l’intento di attaccare le dimensioni ritenute eccessive del settore pubblico, concentra l’attenzione, dal punto di vista teorico 31, sugli effetti di breve periodo e dal lato dell’offerta esercitati dall’operatore pubblico sul sistema economico: – la qualificazione “dal lato dell’offerta” distingue questo tipo di analisi da quello tradizionalmente condotto in passato con riferimento alla domanda (ad esempio analizzando gli effetti di un taglio di imposte sulla curva IS e su quella AD: cfr. cap. 1) 32; 28 L’operatore pubblico non può essere più considerato un’entità unitaria (il tradizionale policymaker), ma è un organismo complesso ed articolato, consapevole dei vincoli che derivano dal comportamento strategico degli agenti economici e partecipe nel complesso meccanismo di interazione tra gruppi d’interesse; in termini pratici, esso diventa sempre più un mero organo ridistributivo, anziché uno strumento di sostegno alla performance del sistema economico. 29 Nella scelta tra Stato e mercato, secondo HIRSCHMAN (1970) il mercato conferisce comunque una maggiore libertà (o potere contrattuale) all’individuo, dato che può sempre optare per “uscire”, ad esempio, da un rapporto di compravendita se le condizioni contrattuali non lo soddisfano, mentre nel caso dello Stato l’individuo ha solamente l’opzione “voce”, ovvero quella di manifestare le proprie preferenze tramite il voto (ma in seguito deve adeguarsi alle decisioni governative qualunque esse siano). 30 Sul piano teorico, l’ipotesi di un elettorato sostanzialmente miope, che può essere ingannato e che non impara dall’esperienza passata, è in evidente contrasto con l’ipotesi di aspettative razionali; ma più di recente sono stati proposti modelli “opportunistici razionali”. 31 Va peraltro precisato che sottostante alle azioni di politica economica suggerite dalla SSE, non vi era un solido apparato teorico (diversamente dalle “contro-rivoluzioni” monetarista e della NMC) ma piuttosto una cieca fede nel libero mercato. 32 Occorre peraltro ribadire ancora una volta che gli stessi economisti keynesiani hanno prestato notevole attenzione alle politiche strutturali o dell’offerta (cfr. par. 4.5). In effetti, il primo economista ad impiegare il

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– il secondo aspetto dell’economia dell’offerta, ossia l’analisi degli effetti di breve periodo, è ancor più caratterizzante (in effetti è noto che ad esempio le politiche strutturali agiscono sul sistema economico solo nel medio-lungo periodo); in realtà, secondo la SSE, già nel breve periodo si verificano effetti reali, dal lato dell’offerta, conseguenti all’intervento pubblico. L’attenzione, più in particolare, viene posta sugli effetti disincentivanti sull’offerta aggregata derivanti da un’eccessiva presenza del settore pubblico, nonché sulle corrispondenti inefficienze, statiche e dinamiche. Il problema può essere rappresentato sinteticamente, seppure in modo approssimativo, in forma grafica (vedi la Fig. 5.1). Data una certa curva di trasformazione, che rappresenta le possibilità produttive di un sistema economico, ed in presenza di un trade-off tra produzione pubblica (g) e produzione privata (q), un tentativo del governo di aumentare la quota del settore pubblico (ossia di spostarsi da un punto come A ad un punto come B) porta in realtà il sistema ad un punto subottimale (come C). Questo risultato è dovuto: 1. alle inefficienze che si vengono a creare, soprattutto in relazione al livello della spesa pubblica ed eventualmente agli interventi di regolamentazione, e che conducono il sistema verso un punto interno rispetto alla curva di trasformazione iniziale; 2. alla riduzione nella disponibilità di risorse nel sistema, a causa in questo caso degli effetti disincentivanti della tassazione, con uno spostamento della stessa curva di trasformazione verso l’interno. Figura 5.1. – Perdita di benessere dovuta al settore pubblico g

C

B

A

q

Riguardo all’eccessiva tassazione, la SSE va oltre l’enfatizzazione delle conseguenze negative per il settore privato e per il sistema economico nel suo complesso, in quanto mostra che termine di “supply-side economics” fu un economista keynesiano, KLEIN (1978), in relazione però alla necessità di integrare i tradizionali modelli economici ed econometrici incentrati su un’analisi più o meno disaggregata della domanda, con alcune caratteristiche dell’offerta (ad esempio mediante l’incorporazione di relazioni come quelle input-output).

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essa può essere controproducente per lo stesso bilancio pubblico. Infatti, A. Laffer 33 è l’ispiratore della curva che porta il suo nome (Fig. 5.2), secondo cui al crescere dell’aliquota impositiva () il gettito fiscale (T) prima cresce, raggiunge un massimo e quindi inizia a decrescere, poiché la base imponibile, Y(), è inversamente correlata a  (essendo 0 <  < 1) 34: T =   Y() Figura 5.2. – La curva di Laffer T

0

*

1



I motivi per cui la base imponibile può essere inversamente correlata a  sono diversi, ma riguardano essenzialmente: (i) gli effetti disincentivanti di un’eccessiva tassazione su lavoro, produzione ed attività private 35; (ii) l’incentivo ad un maggior utilizzo di lavoro nero e passaggio all’economia sommersa. Il problema critico è quello di individuare il valore * per cui T è massimo. Secondo Laffer, il punto di massimo era già stato superato, almeno per certe tipologie di attività imponibili, nell’esperienza storica di diversi paesi occidentali (tesi questa alquanto dibattuta e non sempre confermata dall’evidenza empirica): da qui, vi sarebbe una convenienza a ridurre l'aliquota impositiva, anche al fine di incrementare il gettito 36. 33 Il più noto esponente della SSE, all’interno di un filone caratterizzato da contributi diversificati, afferenti a diversi gruppi di economisti (cfr. ad esempio COZZI, 1984), da quelli che più si avvicinano alla scuola di “public choice” (J. Buchanan, F. von Hayek) e che vedono con avversione le inefficienze e gli sprechi che derivano da un’eccessiva presenza pubblica; ad un gruppo di economisti inglesi (tra cui R. Bacon e W. Eltis) che collegano l’improduttività della spesa pubblica ad una specie di “legge di Say” (per cui essa spiazzerebbe completamente gli investimenti privati); sino ad includere economisti americani più radicali (come A. Laffer, J. Wanniski, G. Gilder, P.C. Roberts), favorevoli ad una deregolamentazione e ad una decisa riduzione del carico fiscale. 34 In termini analitici, la relazione inversa si rappresenta con Y < 0; si noti che T = 0 sia quando  = 0 (ovvero l’imposta è nulla), sia con  = 1 (imposta del 100%), poiché in quest’ultimo caso si azzera il reddito (Y = 0). 35 Gli studi hanno analizzato l’effetto disincentivante sull’offerta aggregata (e quindi sulla produzione e sul reddito), tramite i seguenti canali: (i) contrazione dell’offerta di lavoro per la diminuzione dei salari al netto delle imposte, ed in certi casi anche della domanda di lavoro, per l’aumento dei salari al lordo delle imposte (nonché per il calo della produttività del lavoro); (ii) diminuzione della propensione al risparmio, soprattutto per la riduzione dei tassi d’interesse al netto delle imposte; (iii) riduzione degli investimenti produttivi e della nascita di nuove imprese. Anche un’elevata spesa pubblica per trasferimenti (come alcune tipologie di sussidi di disoccupazione) potrebbero frenare o ritardare la ricerca di lavoro, ad esempio da parte di disoccupati. 36 Negli Usa, le riduzione fiscali riguardarono in particolare le aliquote marginali (decurtate mediamente di

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Modelli, teorie e politiche

Gli effetti disincentivanti di un’eccessiva tassazione sarebbero aggravati da un’eccessiva regolamentazione, che irrigidisce l’attività economica nel libero mercato e frena l’iniziativa privata. La conclusione di politica economica 37 è quella di deregolamentare, diminuire il carico fiscale e ridurre il peso del settore pubblico (come sostenuto nella tesi dello “Stato minimale”). Gli effetti benefici si farebbero ben presto sentire (essi potrebbero essere rappresentati da uno spostamento inverso rispetto a quello illustrato nella Fig. 5.1); si noti che, aggiungendo l’ipotesi di aspettative razionali (cfr. cap. 9), gli agenti potrebbero anticipare subito gli effetti positivi conseguenti alla politica dell’offerta. I critici della SSE hanno fatto osservare che gli effetti disincentivanti non sono necessariamente significativi, né a livello teorico né sul piano empirico, con riferimento ad offerta di lavoro, risparmio ed investimenti 38. L’unico effetto permanente potrebbe essere quello sulla genesi di nuova imprenditorialità (start-up) e sul rafforzamento del tasso di crescita dell’economia. A livello più macroeconomico, gli effetti positivi della detassazione, non solo in termini di più elevata produttività del sistema ma anche ad esempio di minore inflazione, si farebbero sentire in presenza di una politica complessivamente attenta (ad esempio in tema di pareggio del bilancio pubblico) e di particolari ipotesi sulla reattività dell’offerta e della domanda aggregate 39. Inoltre, la SSE ha subito incontrato difficoltà operative nella sua pratica attuazione, specie perché si è trovata in conflitto, nell’esperienza americana, con l’altra anima della “reaganomics”, il monetarismo. In realtà, se all’inizio è risultata abbastanza fattibile una politica di deregolamentazione, alla riduzione delle aliquote fiscali (attuata soprattutto a favore dei redditi medio-alti) 40 ed alle agevolazioni fiscali introdotte (specie a favore degli investimenti), non ha fatto seguito l’auspicato incremento del gettito e della base imponibile 41; la pressione un terzo nel triennio 1981-1983), con un’attenuazione della progressività delle imposte dirette ed in presenza di un’auspicata espansione della base imponibile (derivante anche dalla programmata eliminazione di gran parte delle deduzioni ed agevolazioni fiscali precedentemente in vigore), congiuntamente ad una semplificazione del sistema fiscale. 37 Caldeggiata negli Stati Uniti da economisti come M. Boskin e M. Feldstein, quest’ultimo consigliere economico del presidente Reagan; la cosiddetta reaganomics cercò infatti di fornire un quadro concettuale all’operato economico dell’amministrazione Reagan, basandosi soprattutto sulla supply-side economics. 38 Una contrazione della tassazione può stimolare l’offerta di lavoro solo se l’effetto di sostituzione derivante dall’aumento del salario netto (quest’ultimo rappresenta, come è noto, il costo-opportunità del tempo libero) supera l’effetto di reddito, ciò che non sempre è confermato dall’evidenza empirica. Un ragionamento simile può essere condotto con riferimento all’incentivazione del risparmio, grazie all’aumento nell’interesse netto percepito: l’elasticità del risparmio rispetto al tasso d’interesse pare addirittura ambigua nel suo segno. Inoltre, per quanto riguarda gli investimenti, è stato pure rilevato che gli incentivi fiscali agli investimenti dovrebbero, per massimizzare l’efficacia, essere mirati (ad es. per investimenti ad elevato contenuto tecnologico e innovativo oppure per la sicurezza nei luoghi di lavoro e la salvaguardia ambientale oppure per la formazione “on-the-job”), anziché consistere in generiche misure di detassazione dei profitti (si rileva, tuttavia, come quest’ultima modalità abbia il non trascurabile vantaggio della semplicità di applicazione). 39 Infatti, la tesi della SSE risulta confermata solo se l’elasticità dell’offerta aggregata alla tassazione è maggiore della corrispondente elasticità della domanda aggregata (altrimenti si manifesterebbero i tradizionali effetti espansivi dal lato della domanda di tipo keynesiano). 40 Le aliquote marginali sui redditi personali furono tagliate del 25% nel periodo 1981-1983, conducendo peraltro ad una contrazione del gettito fiscale, smentendo l’ipotesi sottostante alla curva di Laffer (cfr. B. FRIEDMAN, 1992). 41 È proprio l’elevata probabilità che – almeno nel brevissimo periodo – ad una riduzione delle aliquote corrisponda una riduzione del gettito che costituisce il freno principale ad un allentamento della pressione fiscale anche nei paesi dove questa ha raggiunto livelli molto elevati, a meno che non si riesca a combinare una riduzione della tassazione con una analoga riduzione delle spese pubbliche meno produttive (“spending

L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

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fiscale è risultata grosso modo invariata. Tenuto poi conto della mancata limitazione indotta della spesa pubblica, che ha al contrario evidenziato invariati trend di crescita (specie in alcune componenti come quelle relative alla difesa), ciò ha comportato un aumento del disavanzo pubblico, con crescenti pressioni per un suo finanziamento monetario 42. Questo risultato non poteva non influenzare la condotta della politica monetaria, inizialmente caratterizzata da un’impostazione rigorosa. Fu proprio il mix tra politica monetaria restrittiva (con uno stretto controllo degli aggregati monetari nel periodo 1979-1982, che in effetti ebbero un subitaneo effetto sulla discesa del tasso d’inflazione) e politica fiscale espansiva, in assenza dell’auspicato incremento dei risparmi privati, che produsse conseguenze rilevanti, sia interne che internazionali 43. Il rialzo dei tassi d’interesse e la conseguente attrazione di capitali esteri risultava utile e necessaria per finanziare gli ingenti disavanzi commerciali degli Stati Uniti: questi ultimi erano divenuti negli anni ’80 il maggiore debitore sui mercati internazionali. Questa situazione è proseguita con alterne vicende fino ai giorni nostri: ad esempio i “disavanzi gemelli” (nei conti pubblici e nei conti con l’estero) si ridussero sotto l’amministrazione Clinton a fine anni ’90; poi tali deficit toccarono altri record nel nuovo secolo con l’amministrazione Bush, con gli squilibri mondiali conseguenti (e con la Cina nel ruolo di importante finanziatore del debito statunitense). In definitiva, il rilancio dell’economia americana, effettivamente verificatosi a seguito delle politiche intraprese negli anni ’80, pare attribuibile non solo alle misure dal lato dell’offerta, considerati pure gli scarsi risultati conseguiti in termini di incentivazione dell’attività privata 44, ma anche ai tradizionali meccanismi operanti dal lato della domanda. Infatti, è opportuno rammentare che un taglio delle tasse (T) può essere rappresentato, all’interno dei modelli macroeconomici standard (cfr. cap. 1), da due spostamenti alternativi (o complementari): (i) quello della curva AD verso l’esterno, a seguito dei tradizionali effetti keynesiani sul reddito disponibile e sui consumi (effetti che come è noto spostano anche la curva IS verso l’esterno); (ii) quello della curva AS verso l’esterno, se agiscono gli effetti incentivanti sull’offerta ipotizzati dalla SSE. Nel mondo reale, entrambi gli effetti possono manifestarsi, facendo comunque aumentare produzione e reddito (ma secondo talune interpretazioni negli Usa degli anni ’80 ha prevalso il primo tipo di effetti) 45. review”). Si noti, infine, che il Pil include solitamente una stima dell’economia sommersa e, pertanto, la pressione fiscale effettiva sull’economia regolare risulta maggiore di quanto emerge dal rapporto T/Y, tanto più quanto è più elevata l’incidenza dell’economia sommersa nel calcolo del Pil. 42 Occorre tuttavia aggiungere che alcuni esponenti della SSE, come W. Eltis, avevano esplicitamente auspicato un’espansione monetaria di accompagnamento delle misure fiscali, al fine di stimolare gli investimenti privati anche dal lato della domanda. 43 Un mix siffatto condusse, oltre al peggioramento del disavanzo pubblico e del debito pubblico (triplicato durante gli otto anni dell'amministrazione Reagan), al forte innalzamento dei tassi d’interesse reali (dai due ai quattro punti superiori ai livelli medi di lungo periodo), con conseguenze anche su scala internazionale. Inoltre, la discesa dell’inflazione può essere attribuita sia alla rigorosa politica monetaria (sotto la guida di P. Volker alla Riserva Federale), sia allo stesso apprezzamento del dollaro (conseguente al sopra citato afflusso di capitali). Si veda anche MUSGRAVE (1988) e, per una differente prospettiva, SARGENT (1986). 44 Per quanto riguarda il risparmio delle famiglie, si è infatti riscontrata una riduzione, anziché l’auspicato aumento, forse per la presenza di vincoli di liquidità o per il mancato verificarsi degli effetti connessi all’“equivalenza ricardiana” (cfr. cap. 9). Piuttosto incerto è stato anche il risultato relativo all'espansione degli investimenti privati, in quanto l’incremento di questi ultimi ha interessato non tanto i comparti industriali direttamente produttivi, quanto piuttosto il comparto immobiliare ed il terziario (servizi alle imprese, grande distribuzione, etc.). 45 Secondo queste interpretazioni, crescenti e persistenti disavanzi del bilancio federale condussero, in una maniera alquanto “keynesiana”, alla ripresa del biennio 1983-1984, al punto che il presidente Reagan è stato

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Modelli, teorie e politiche

5.4. L’arresto dell'espansione del settore pubblico Nel corso degli anni ’80 del Novecento, si è andata evidenziando una netta inversione rispetto alle precedenti tendenze quasi secolari in tema di espansione della spesa pubblica e di crescente ruolo dell’operatore pubblico nell’economia. L’inversione si è manifestata dapprima negli Stati Uniti, con riduzioni del carico fiscale e deregulation (inizialmente in settori come il credito ed i trasporti aerei); poi nel Regno Unito, dove si sono aggiunte operazioni di privatizzazione di imprese pubbliche (qui più diffuse, diversamente dagli Usa, a causa delle nazionalizzazioni dei decenni precedenti) e di dismissioni di beni di proprietà pubblica; poi ancora in Germania e nella stessa Francia; ed infine, via via, nei paesi europei restanti, nonostante non trascurabili differenziazioni nell’intensità dei mutamenti e nel loro profilo temporale. In Italia, privatizzazioni consistenti furono attuate negli anni ’90, quando fu in gran parte smantellato il precedente sistema delle partecipazioni statali 46 (cfr. par. 3.5). L’accennata inversione di tendenza nella crescita dell’intervento pubblico, o perlomeno il suo assestamento, possono essere fatti risalire soprattutto a mutamenti nell’orientamento dei governi e della pubblica opinione. Le principali spiegazioni di tali mutamenti possono essere così sintetizzate: 1. i pressanti problemi di finanziamento, anche in considerazione della crescente opposizione nei confronti della elevata pressione fiscale (sovente ritenuta iniqua, anche per diffusi fenomeni di evasione fiscale nonchè per i fenomeni di corruzione nella pubblica amministrazione ed il connesso utilizzo inefficiente delle risorse per la spesa pubblica) 47, in un contesto di vincoli crescenti al formarsi di disavanzi pubblici (soprattutto nell’UE, per i vincoli di Maastricht, quelli successivi del Patto di Stabilità e Crescita, quelli recenti del Fiscal Compact); inoltre, gli andamenti demografici hanno fatto crescere sensibilmente certi tipi di spesa, come quella pensionistica e quella sanitaria, tanto che in molti paesi le tendenze automatiche sono state giudicate insostenibili e sono stati adottati progetti di riforma 48; 2. i mutamenti negli atteggiamenti culturali, politici ed ideologici, nell’orientamento dell’opinione pubblica, nella scala di valori prevalente e, più concretamente, nelle composizioni e nelle politiche dei governi nazionali; il mutamento dell’opinione pubblica è ben sintetizzato dalla crescente richiesta di meno Stato e più mercato (dimenticando che frequentemenparadossalmente giudicato, ex post, il più grande keynesiano dell’epoca recente (almeno fino agli enormi interventi espansivi realizzati da Obama in risposta alla crisi finanziaria e Grande Recessione del 2008-2009). 46 Le privatizzazioni possono avvenire con molteplici modalità che possono limitare o accentuare i possibili rischi di “svendita dei gioielli di stato” (questa probabilità è maggiore nelle fasi cicliche più negative). Inoltre, da non sottovalutare sono gli effetti sistemici nel caso di privatizzazioni di imprese pubbliche monopolistiche (un monopolio privato può risultare anche peggiore di un monopolio pubblico, in mancanza di efficace regolamentazione). Infine, non vanno confusi i processi di privatizzazione (cioè di vendita di imprese pubbliche ai privati) con i processi di liberalizzazione dei mercati (che consistono in aumenti di concorrenza e contendibilità a vantaggio dei consumatori). 47 Si ricorda infatti che l’aggiustamento dei conti pubblici, in numerosi paesi, è stato realizzato soprattutto dal lato delle entrate (implicando talvolta un ulteriore limitato innalzamento della pressione fiscale), piuttosto che da quello della spesa (la quale soltanto in taluni paesi si è effettivamente ridotta, in rapporto al Pil, mentre nella generalità dei casi si è stabilizzata). 48 Per quanto riguarda le riforme pensionistiche, data la difficoltà di alzare ulteriormente i contributi sociali obbligatori (già molto elevati in diversi paesi), si è cercato di allungare l’età pensionabile (anche collegandola all’evoluzione nell’aspettativa di vita) e di ridurre in certi casi i benefici unitari, lasciando così spazio per l’eventuale sviluppo di schemi di pensioni integrative private; è peraltro evidente che un’espansione della base occupazionale ed una crescita più sostenuta del Pil faciliterebbero in modo decisivo l’aggiustamento e la sostenibilità nel medio-lungo periodo.

L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

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te il vero problema è quello del miglioramento della qualità e dell’efficienza sia dello Stato che del mercato); la crisi dello Stato assistenziale (il cui intervento si esplicava di frequente non solo attraverso trasferimenti e spesa pubblica improduttiva, ma anche per mezzo di forme di controllo tipicamente clientelari) è peraltro stata favorita anche dall'effettivo (ma talvolta solo presunto) divario quali-quantitativo 49 tra l’attività pubblica e quella privata; 3. non va nemmeno ignorato che, già negli anni ’80, le finalità fondamentali che si poneva il welfare state si potevano considerare mediamente acquisite in numerosi paesi, specie quelli più avanzati dell’area occidentale (incluse le sue finalità indirette consistenti nel favorire una maggiore coesione sociale o nell’alleviare le tensioni sociali). Riguardo al secondo punto, si può osservare che l’alterazione del quadro politico-ideologico ha da un lato riflesso e dall’altro stimolato i mutamenti nelle scuole di pensiero economico, in relazione sia allo sviluppo del dibattito tra le correnti principali (ad esempio tra keynesiani e monetaristi), sia alla comparsa di nuovi filoni. Ricordiamo ad esempio le posizioni liberiste di M. Friedman e del monetarismo politico, oppure le teorie liberiste neoaustriache (à la von Hayek), che riprendevano e generalizzavano la tesi secondo cui la “mano invisibile” del mercato promuove il progresso sociale. Tra i nuovi filoni (in aggiunta a quelli illustrati nel precedente par. 5.3), citiamo la teoria di R. Nozick sullo Stato minimale che si è sviluppata negli anni ’70, con un’enfasi particolare sulla libertà degli individui, per cui lo Stato dovrebbe limitarsi alla predisposizione di un’appropriata cornice istituzionale (ad esempio una normativa sui diritti di proprietà) ed alla fornitura dei servizi essenziali (difesa, ordine pubblico, giustizia); oppure si pensi alle proposizioni di costituzionalismo fiscale, come suggerito da BRENNAN, BUCHANAN (1980), al fine di limitare attraverso regole costituzionali la continua espansione di spesa e disavanzi pubblici. In relazione al terzo punto dell’elenco precedente, va precisato che, nonostante il successo acquisito dal welfare state nei paesi europei, almeno fino agli ’80, gli ultimi due o tre decenni di crescente globalizzazione dei mercati reali e finanziari hanno comportato, in mancanza di una adeguata regolamentazione sovranazionale, un rischio di una “corsa al ribasso” anche nei riguardi degli interventi dello “Stato sociale” 50. Inoltre vi sono problemi equitativi irrisolti e situazioni di povertà, aggravatisi in molti paesi dopo la lunga crisi iniziata nel 2008-09. Infatti negli ultimi tempi il welfare state si è progressivamente orientato, anche nei paesi europei, a tutelare la fascia più povera della popolazione, ridimensionando l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze di reddito (o di benessere) per la generalità della popolazione; disuguaglianze che in effetti sono aumentate (cfr. par. 3.2). In aggiunta all’impatto della crisi, il welfare ha dovuto far fronte anche a tendenze di più lungo periodo. I mutamenti demografici (invecchiamento della popolazione, con i già citati effetti sulla spesa pensionistica e sanitaria), i sempre più stringenti vincoli del bilancio pubblico (ed in alcuni paesi anche le gravi inefficienze nella fornitura di specifici servizi), hanno messo a repentaglio la sostenibilità del modello universale di welfare (detto anche modello tedesco), sospingendo verso un modello residuale 49 Divario misurabile, ad esempio, in termini di efficacia e funzionalità degli interventi, di qualità dei servizi resi, di tempestività delle decisioni, di flessibilità (o rigidità) delle azioni, di livello di concorrenzialità nei settori d’intervento, di produttività del lavoro, di efficienza organizzativa, di capacità manageriali (per non parlare delle ingerenze di carattere politico). Non è peraltro certo che le imprese privatizzate evidenzino sempre una migliore performance sotto questo profilo. 50 La necessità di competere con i paesi emergenti a basso costo del lavoro ha fatto sorgere anche nei paesi avanzati richieste di contenere le richieste salariali, le tutele a favore dei lavoratori, i livelli delle prestazioni sanitarie e previdenziali, e più in generale la “spesa sociale” (cfr. cap. 14).

76

Modelli, teorie e politiche

(del tipo di quello prevalente nei paesi anglosassoni), in cui l’intervento pubblico è limitato ai percettori di redditi bassi 51. La crisi globale e la Grande Recessione del 2008-09 hanno peraltro determinato una temporanea risalita del “peso dello Stato” nell’economia, dimostrata dalla dinamica – assoluta e rispetto al Pil – della spesa pubblica e delle imposte, con evidenti riflessi su disavanzo e debito pubblico (cfr. cap. 19). Le diverse strategie di “normalizzazione” in seguito attuate e, in particolare, le politiche d’austerità imposte ai Paesi dell’Eurozona (dopo la crisi dei debiti sovrani) hanno però fatto terminare presto questa inversione di tendenza, anche se il profondo impatto delle crisi e le incomplete risposte di politica economica – ad esempio riguardo all’esigenza di una più efficace regolamentazione della finanza internazionale – mostrano la necessità di una ricerca costante di un più soddisfacente equilibrio nei rapporti tra Stato e mercato, nel nuovo contesto europeo e globale (cfr. par. 3.4).

5.5. Il peso del settore pubblico: evoluzione e confronti La presenza del settore pubblico nelle diverse economie e la sua evoluzione nel tempo si possono cogliere sia considerando l’influenza esercitata sul settore privato dell’economia, sia in modo ancor più immediato attraverso l’analisi di indicatori quantitativi della sua attività; indicatori quali ad esempio il rapporto tra spesa pubblica e Pil (G/Y), o tra entrate fiscali e Pil (T/Y), oppure la quota dei dipendenti pubblici sul totale degli occupati 52. Riguardo al primo punto, occorre tener conto di altri aspetti – soprattutto di regolamentazione – che influiscono sul funzionamento delle economie di mercato (cfr. cap. 3). Tuttavia, un’analisi comparata di livelli e dinamiche di tali variabili può aiutare a cogliere alcuni aspetti quantitativi del settore pubblico. Considerando l’andamento delle entrate pubbliche totali 53 (in % del Pil) negli ultimi due decenni (cfr. Tab. 5.1), emergono rilevanti differenze e tendenze; ne segnaliamo alcune: i. il peso delle entrate pubbliche nei paesi europei risulta persistentemente maggiore rispetto a Stati Uniti e Giappone (nel 2017 questi due ultimi paesi hanno avuto valori, rispettivamente, del 33,7% e 35,6% rispetto al 46,1% dell'area euro) 54; ii. le differenze all’interno dei paesi europei sono considerevoli, con le maggiori difformità riscontrabili nel nord Europa, dove i paesi anglosassoni si contrappongono a quelli scandinavi (Irlanda e Regno Unito presentano, rispettivamente, valori intorno al 26% ed al 39%, mentre Finlandia, Svezia e Danimarca si caratterizzano per valori superiori al 50%, soglia peraltro superata anche da Francia e Belgio); iii. l’Italia si colloca poco sopra la media dell’area euro (con valori superiori al 46% del Pil, in lieve riduzione negli anni più recenti). 51 Si veda il par. 3.2, dove si è accennato che una parziale soluzione a questa crisi del welfare state è quella di fare maggior affidamento sul “terzo settore”. Anche in Italia, le iniziative intraprese dagli ultimi governi, quali il “reddito d’inclusione” ed il “reddito di cittadinanza” (la prima introdotta in modo parziale dal governo Gentiloni e la seconda proposta dal governo Conte) mirano a garantire un reddito minimo alle persone sprovviste di altri redditi, che spesso coincidono con le persone prive di lavoro. 52 Per ulteriori informazioni empiriche, nonché per un’analisi delle principali cause e conseguenze di queste tendenze, si veda GERELLI, MAJOCCHI (1984), MORCALDO (1988), ENTE EINAUDI (1992), ARTONI (2003). Per un approfondimento del caso italiano può essere utile consultare i Documenti di Finanza Pubblica disponibili sul sito del Ministero dell’Economia e delle Finanze: http://www.mef.gov.it/. 53 Includono tutte le voci di entrata (di tipo fiscale, contributivo, etc.) nel bilancio del settore pubblico. 54 In una prospettiva di lungo periodo, risulta che è soprattutto dagli anni ’70 che si accentua la distanza fra Stati Uniti e l’Europa (UE-15), con i primi che presentano un rapporto entrate/Pil di poco superiore al 30% ed i paesi europei che tendono a crescere fin verso il 45% del Pil.

L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

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Considerando gli anni della Grande Recessione e quelli successivi, in linea generale si può rilevare una lieve tendenza all’aumento nel rapporto tra entrate pubbliche totali e Pil; quindi, anche nei paesi e negli anni di riduzione del Pil si è determinato un andamento decrescente analogo o minore delle entrate pubbliche; in altri termini, sembra che – a parte il funzionamento degli stabilizzatori automatici (per cui a minore base imponibile ha corrisposto meno gettito) – si possa escludere che siano state adottate politiche attive (di riduzione) della tassazione a fini di stabilizzazione del ciclo economico. Tabella 5.1. – Entrate pubbliche totali (in % del Pil) 1992-2018 medie quinquennali

valori annuali*

1992-96 1997-01 2002-06

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018*

Austria

49,6

51,2

49,2

Belgio

47,5

49,3

49,6

48,1 48,3 48,8 48,3 48,2 48,7 49,5 49,7 50,1 48,7 48,4 48,3 47,6 48,3 47,7 48,4 49,3 50,7 51,5 52,2 51,3 50,6 51,3 51,0

Danimarca

56,5

56,1

56,1

54,6 53,7 54,0 54,3 54,8 54,9 55,8 56,4 53,3 53,2 53,0 52,1

Finlandia

54,0

54,0

52,6

51,9 52,4 52,2 52,1 53,3 54,2 55,4 54,9 54,4 54,2 53,3 52,2

Francia

48,4

50,4

49,8

49,7 49,8 49,6 49,6 50,8 51,8 53,0 53,3 53,2 53,2 53,8 53,6

Germania

44,8

45,9

43,9

43,1 43,5 44,4 43,1 43,7 44,3 44,5 44,5 44,5 44,8 45,0 45,3

Grecia

33,8

40,9

39,1

40,1 40,6 38,7 41,0 43,6 45,2 47,0 46,6 47,9 49,5 48,1 48,3

Irlanda

37,7

36,4

34,9

36,2 35,0 33,7 33,6 33,5 34,2 34,8 33,8 27,0 27,0 26,0 25,0

Italia

44,9

46,1

44,5

45,2 45,1 45,9 45,6 45,6 47,4 47,7 47,9 47,7 46,5 46,4 46,2



43,8

41,7

42,3 42,6 44,5 43,3 42,6 43,5 44,5 43,3 43,3 43,6 44,5 44,8

Olanda

48,7

46,0

44,6

42,9 44,0 42,7 43,2 42,7 43,5 44,5 43,6 42,6 43,6 47,7 43,4

Portogallo

36,7

40,0

42,2

41,5 41,6 40,4 40,6 42,6 43,0 45,2 44,6 43,8 42,8 42,7 43,3

Spagna

39,1

38,1

39,0

40,9 36,7 34,8 36,2 36,0 37,0 37,5 38,9 38,5 37,7 37,9 38,4

Svezia

56,7

59,1

56,2

53,0 52,3 52,4 52,0 52,7 53,0 53,3 49,5 49,8 50,8 50,9 50,2

Regno Unito

36,2

39,7

39,8

39,6 41,2 38,5 38,6 38,9 38,4 39,5 37,6 38,0 38,5 39,1 39,2

Stati Uniti

32,3

34,9

32,4

33,4 31,9 30,2 30,6 30,9 31,2 33,1 33,1 33,2 32,7 33,7 31,8

Giappone



31,6

31,7

33,7 35,1 33,1 32,4 33,1 33,3 33,8 34,8 35,7 35,7 35,6 35,7

Area Euro

45,1

46,0

44,9

45,4 44,8 44,0 44,3 44,8 45,8 46,5 46,7 46,2 46,0 46,1 46,0

Lussemburgo

Nota: * il dato 2018 è di previsione. Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018).

È ben noto che – soprattutto nel breve periodo – l’andamento delle entrate pubbliche non ha una relazione causale stretta con la possibile dinamica della spesa pubblica; tuttavia è indubbio che – in una prospettiva di medio-lungo periodo – tale legame risulta rafforzato (soprattutto per i vincoli legati alla sostenibilità del debito pubblico ed eventualmente ai costi inflazionistici del finanziamento dei disavanzi con “stampa di moneta”). Per avere conferma di tale semplice affermazione, si considerino congiuntamente i livelli e le dinamiche delle entrate pubbliche totali con quelli della spesa pubblica (cfr. Tab. 5.2), ad esempio confrontando Stati Uniti ed “Area Euro”. Le differenze discendono soprattutto dai differenti “modelli” di intervento pubblico nell’economia (ruolo del welfare state, esistenza di un sistema pubblico di pensioni di vecchiaia, servizi scolastici o sanitari forniti da enti pubblici piuttosto che da privati, diffusione di sistemi di ammortizzatori sociali, etc.), su cui ci siamo soffermati in questo capitolo (ed anche nel cap. 3). La comparazione delle incidenze della spesa pubblica sul Pil all’interno dell’Europa, per gli ultimi due decenni (cfr. Tab. 5.2), fa emergere alcune differenze e tendenze, sia pur in un quadro complessivo di sostanziale persistenza della spesa pubblica nell’Area Euro su valori intor-

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Modelli, teorie e politiche

no al 50% (o di poco inferiori) 55. Considerando gli anni della Grande Recessione (2008-09), si noti che soprattutto nel 2009 (ma in qualche caso a partire dal 2008) si manifestano gli effetti concomitanti derivanti dalla forte recessione e – soprattutto in alcuni paesi 56 – dall’adozione di politiche di intervento con aumento della spesa pubblica, con un considerevole salto nel peso percentuale della spesa pubblica sul Pil. Negli ultimi anni è prevalsa poi una tendenza alla riduzione. Tabella 5.2. – Spesa pubblica (in % del Pil) 1992-2018* medie quinquennali

valori annuali*

1992-96 1997-01 2002-06

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018*

Austria

53,7

52,9

51,1

49,1 49,8 54,1 52,8 50,9 51,0 50,9 52,4

51,1

50,3

49,2

48,7

Belgio

52,8

50,0

50,1

47,6 49,4 53,2 52,3 53,2 54,8 54,4 55,3

53,7

53,0

52,2

52,0

Danimarca

59,0

55,1

53,6

49,6 50,5 56,8 57,1 56,9 58,8 56,8 55,2

54,8

53,6

51,9

51,9

Finlandia

59,8

51,3

49,5

46,8 48,3 54,8 54,8 54,4 56,3 57,8 58,1

57,1

55,9

54,0

52,9

Francia

53,3

52,5

53,0

52,2 53,0 56,8 56,4 55,9 56,7 57,1 57,2

56,8

56,7

56,5

56,2

Germania

47,8

47,4

47,2

42,7 43,5 47,4 47,2 44,6 44,2 44,3 44,0

43,7

43,9

43,9

43,8

Grecia

43,4

45,1

44,3

46,8 50,5 54,0 52,1 53,7 53,8 59,2 50,2

53,5

48,9

47,3

47,6

Irlanda

39,4

34,0

33,6

36,0 42,0 47,6 66,1 46,1 42,2 40,5 37,4

28,9

27,5

26,3

25,1

Italia

53,2

48,3

48,0

46,8 47,8 51,1 49,9 49,1 50,4 50,5 50,9

50,3

49,1

48,7

48,1



39,3

41,1

38,1 39,4 45,0 43,9 42,3 43,4 43,8 42,0

42,0

41,9

43,1

43,5

52,0

45,9

45,9

42,8 43,8 48,2 48,2 47,0 47,5 46,8 45,7

44,6

43,6

42,5

42,4

Lussemburgo Olanda Portogallo

41,4

43,3

46,0

44,5 45,3 50,2 51,8 50,0 48,5 50,1 51,8

48,2

44,8

45,7

44,0

Spagna

44,6

40,0

38,6

38,9 41,1 45,8 45,6 45,4 47,3 44,3 44,8

43,7

42,2

41,0

41,1

Svezia

64,4

57,9

55,5

49,7 50,3 53,1 52,0 52,8 54,0 54,7 51,1

49,6

49,7

49,3

49,1

Regno Unito

42,2

39,1

42,8

42,6 46,2 49,3 48,3 46,5 46,7 45,3 43,0

42,2

41,4

40,9

40,5

Stati Uniti

36,5

34,6

36,1

36,9 39,0 42,9 42,6 41,5 40,1 38,7 37,9

37,4

37,7

37,7

37,6

Giappone



38,9

37,8

35,8 36,9 41,9 40,7 41,9 41,8 42,3 40,2

39,3

39,1

39,3

39,0

50,1

47,7

47,4

46,0 46,8 50,4 50,4 49,0 49,4 49,4 49,1

48,3

47,5

47,0

46,7

Area Euro

Nota: * il dato 2018 è di previsione. Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018).

Nel caso italiano – allungando l’orizzonte temporale di riferimento – la spesa pubblica (rispetto al Pil) ha avuto un andamento continuativamente crescente per quasi mezzo secolo (anche se con fasi di accelerazione e decelerazione), più che raddoppiando dal 1951 (24%) al 1993 (57,6%) – con valori intermedi di 29,4% nel 1960, 33,2% nel 1970 e 42,2% nel 1980 – per poi ridursi e infine stabilizzarsi su valori intorno al 50% del Pil, pur con una tendenza a ridursi negli ultimi anni. Anche se non v’è spazio in questa sede per confrontare la composizione interna della spe55 Francia, Belgio, Finlandia (come pure la Danimarca) hanno avuto i valori più elevati, superiori al 50%, mentre Germania, Irlanda, Spagna si collocano nella fascia bassa (sotto il 45%); particolarmente basso il valore dell’Irlanda, che oramai ha ripreso una crescita economica impetuosa; l’Italia si colloca poco sopra la media dell’area euro. 56 Il caso più eclatante è quello dell’Irlanda nel 2010 (soprattutto per effetto del salvataggio delle imprese bancarie), ma è da rilevare come gli incrementi maggiori dell’incidenza della spesa pubblica sul Pil (circa 6 punti percentuali fra il 2007 e il 2009) si siano avuti negli Stati Uniti, Regno Unito e Giappone (oltre alla citata Irlanda), tutti paesi caratterizzati da un livello iniziale (pre-crisi) significativamente inferiore rispetto agli altri paesi europei.

L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

79

sa pubblica tra i vari paesi 57, va aggiunta una notazione circa il caso italiano, ossia la notevole incidenza della spesa per interessi sul debito pubblico, che ha un peso considerevole di quasi il 4% del Pil, pur essendosi più che dimezzato rispetto alla prima metà degli anni ’90 grazie all’ingresso nell’Unione economica e monetaria (cfr. Tab. 5.3) 58. Tale maggior peso del servizio del debito determina che, mentre la spesa pubblica totale è leggermente superiore in Italia rispetto alla media europea (cfr. la precedente Tab. 5.2), la spesa primaria – ossia al netto dei pagamenti per interessi – è al di sotto di tale media. Le minori spese primarie (implicanti fra l’altro minori interventi per la scuola, la ricerca, a sostegno dell’economia, etc.) assieme alla maggiore “pressione fiscale” sono i costi che le generazioni attuali sopportano per i “vizi” e gli errori dei decenni passati che hanno portato al formarsi di un ingente debito pubblico. Tabella 5.3. – Spesa per interessi sul debito pubblico (in % del Pil) 1997-2018* medie quinquennali

valori annuali*

1992-96 1997-01 2002-06

2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018*

Austria

4,0

3,3

2,9

3,1

3,0

3,2

2,9

2,8

2,7

2,6

2,4

2,3

2,1

1,8

1,6

Belgio

9,5

7,0

4,8

3,8

3,8

3,6

3,4

3,4

3,4

3,2

3,3

3,0

2,8

2,5

2,4

Danimarca

6,4

4,1

2,3

1,6

1,4

1,9

1,9

2,0

1,8

1,7

1,5

1,6

1,4

1,1

1,0

Finlandia

4,0

3,2

1,7

1,4

1,4

1,3

1,3

1,4

1,4

1,3

1,2

1,2

1,1

1,0

0,9

Francia

3,4

3,1

2,7

2,6

2,8

2,4

2,4

2,6

2,5

2,3

2,0

2,0

1,9

1,9

1,9

Germania

3,3

3,2

2,9

2,7

2,7

2,6

2,5

2,5

2,3

2,0

1,6

1,4

1,2

1,0

0,9

Grecia

11,1

7,7

4,8

4,6

4,9

5,0

5,9

7,3

5,0

4,0

3,9

3,5

3,2

3,1

3,2

Irlanda

5,6

2,7

1,2

1,0

1,3

2,0

3,0

3,4

4,1

4,4

3,9

2,6

2,3

2,0

1,6

11,3

7,3

4,9

4,8

4,9

4,4

4,3

4,7

5,2

4,8

4,6

4,1

3,9

3,8

3,7

Lussemburgo

0,3

0,4

0,2

0,3

0,3

0,4

0,4

0,4

0,4

0,4

0,4

0,4

0,3

0,3

0,3

Olanda

5,7

4,1

2,5

2,0

2,0

2,0

1,8

1,8

1,7

1,5

1,5

1,3

1,2

1,0

0,8 3,5

Italia

Portogallo

5,8

3,2

2,7

2,9

3,1

3,0

2,9

4,3

4,9

5,0

4,9

4,6

4,2

3,8

Spagna

4,8

3,7

2,1

1,6

1,5

1,7

1,9

2,4

2,9

3,3

3,5

3,1

2,8

2,6

2,4

Svezia

5,5

4,0

2,0

1,7

1,6

1,2

1,0

1,1

0,9

0,8

0,7

0,4

0,4

0,4

0,3

Regno Unito

3,1

3,0

2,0

2,2

2,2

1,9

2,9

3,2

2,9

2,9

2,7

2,3

2,4

2,7

2,5

Stati Uniti

4,7

3,8

2,7

3,6

3,4

3,7

3,7

3,9

3,8

3,6

3,5

3,3

3,5

3,5

3,7

Giappone

3,6

3,4

2,6

1,9

2,0

2,0

2,0

2,1

2,1

2,1

1,9

1,8

1,8

1,9

1,9

Area Euro

5,6

4,3

3,1

2,9

3,0

3,0

2,7

3,0

3,0

2,8

2,6

2,3

2,1

2,0

1,9

Nota: * il dato 2018 è di previsione. Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018). 57 Qualche

dato per la sola Italia è presentato nella Tab. 5.4. crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona (cfr. cap. 19) ha comportato un rialzo dei tassi d’interesse sui titoli pubblici italiani; lo spread rispetto ai bund tedeschi, che negli anni 2000-08 non superava i 30 punti base, arrivò a toccare 575 punti nel novembre 2011, all’apice della crisi; quindi l’incidenza della spesa per interessi ha toccato un massimo (relativo) nel 2012. Si noti che shock negativi sui tassi d’interesse si scaricano lentamente sulla spesa per interessi, poiché ogni anno si rinnova soltanto un settimo (circa) del debito pubblico complessivo. Dopo il 2012, la politica accomodante della Bce (cfr. cap. 17) ha però fatto abbassare i tassi di riferimento, per cui – grazie anche alla discesa parziale degli spread nel 2013-17 (tornati intorno ai 150 punti) – i titoli italiani decennali pagavano, da inizio 2015, tassi nominali di poco superiori all’1,5% (un minimo storico), sospingendo la spesa per interessi sotto il 4% del Pil. Solo nel secondo semestre 2018, nella fase di avvio del nuovo Governo M5S-Lega, lo spread è tornato anche sopra i 300 punti base, salvo ridursi un poco a dicembre (grazie all’accordo con la Commissione Europea che, pur in forma condizionata, non ha aperto una procedura di infrazione contro l’Italia); si ricorda che, in prospettiva, anche la politica monetaria della Bce sarà meno accomodante. 58 La

80

Modelli, teorie e politiche

Sebbene gli indicatori G/Y e T/Y siano frequentemente utilizzati in modo indifferente, nel breve e medio periodo, l’espansione delle entrate non è sempre proporzionale a quella delle spese (un caso tipico è rappresentato proprio dall’Italia, soprattutto dagli anni ’60 alla fine degli anni ’80), causando i noti problemi di disavanzo e di accumulazione del debito pubblico (come discuteremo nel cap. 11). Oltre agli aspetti quantitativi legati ad entrate e spesa pubblica, sono rilevanti anche le composizioni quali-quantitative delle voci del bilancio pubblico. È evidente che il peso del settore pubblico, la sua evoluzione nel tempo ed il suo contributo all’economia nazionale vanno valutati sia con riferimento alle quantità (e saldi) dell’intervento complessivo che riguardo alla composizione quali-quantitativa della spesa e delle entrate pubbliche. Con riferimento al caso italiano, la Tab. 5.4 presenta la composizione delle spese ed entrate delle Amministrazioni pubbliche, per gli anni 2013 e 2017. Si evidenzia, oltre alla incidenza della spesa per interessi, il peso della spesa pensionistica 59. La tabella fornisce anche alcuni andamenti previsti per gli anni 2018-2019 60. Al fine di rafforzare la debole crescita economica italiana si auspica spesso una riduzione della pressione fiscale, in particolare delle imposte sul lavoro; infatti si chiede da più parti (anche da organismi internazionali) un ribilanciamento dell’imposizione fiscale dal lavoro e dalla produzione ai consumi ed al patrimonio. La riduzione delle imposte sarebbe un’azione certamente auspicabile 61, ma se si vogliono evitare spiacevoli conseguenze sui disavanzi e sulla dinamica del debito occorre individuare un percorso di alleggerimento della spesa pubblica, ove possibile accompagnato dal reperimento di nuove fonti di entrata (imposte locali sul patrimonio, riorganizzazione delle imposte sulle attività finanziarie) e soprattutto da una più efficace lotta ad evasione ed elusione fiscale. Ma come intervenire sulla spesa pubblica? Vengono spesso citati gli “sprechi” esistenti nell’apparato pubblico – e sicuramente ve ne sono – ma quando si tratta di individuare i capitoli di bilancio da contenere cominciano di solito i problemi e le resistenze 62.

59 Fonti internazionali evidenziano che le spese per l’istruzione (inclusa la spesa universitaria) e per la ricerca sono in Italia inferiori (sempre rispetto al Pil) alla media europea; all’incirca sullo stesso livello medio europeo è la spesa sanitaria. Dopo la riforma Monti-Fornero (2011) si prevedeva peraltro una sostanziale stabilizzazione della spesa pensionistica italiana rispetto al Pil (sul 16%) ed una convergenza sui livelli attesi nel contesto europeo, prima dei nuovi cambiamenti in attuazione della “quota 100” proposta dal Governo Conte (M5SLega). 60 Nell’ultima riga della Tab. 5.4 è riportato il dato relativo al Pil nominale (in miliardi di euro) al fine di consentire un agevole calcolo, per ciascuna voce di spesa e di entrata, del corrispondente valore in miliardi di euro. 61 Il governo Conte insediatosi nel 2018 ha nel programma una sostanziale riduzione delle imposte sui redditi delle persone fisiche (Irpef); peraltro, l’accordo di governo tra M5S-Lega non definisce i dettagli della transizione verso una qualche forma di “flat tax” o simili (per esempio un sistema imperniato su due aliquote). La sua eventuale introduzione potrebbe causare un impatto negativo (almeno nel breve periodo) sul gettito fiscale totale nonché effetti redistributivi a svantaggio dei redditi più bassi, che saranno comunque da valutare sulla base dell’effettiva applicazione (inclusa l’eventuale ridefinizione della “no-tax area”) della riforma fiscale. 62 In Italia, basti considerare i tentativi di spending review impostati dal commissario straordinario Cottarelli (governo Letta, 2013-14), tentativi in seguito ridimensionati o rinviati. Negli ultimi tempi molti sforzi sono stati orientati a limitare i “costi della politica”. Si noti peraltro che la pur giusta lotta contro i vitalizi o altri benefit dei parlamentari (o dei membri delle assemblee regionali o di altri organismi elettivi) ha una valenza più che altro simbolica, data la scarsa incidenza delle spese corrispondenti sul totale della spesa pubblica.

L’intervento pubblico in economia: teorie ed evidenze empiriche

81

Tabella 5.4. – Spese ed entrate delle Amministrazioni pubbliche in Italia (in % del Pil) SPESE Redditi da lavoro dipendente Consumi intermedi Prestazioni sociali di cui: – Pensioni – Altre prestazioni sociali Altre spese correnti Totale spese correnti al netto delle spese per interessi Interessi passivi Totale spese correnti di cui: spesa sanitaria Totale spese in conto capitale di cui: – Investimenti fissi lordi – Contributi in conto capitale – Altri trasferimenti Totale spese finali al netto degli interessi TOTALE SPESE FINALI ENTRATE Totale entrate tributarie di cui: – Imposte dirette – Imposte indirette – Imposte in conto capitale Contributi sociali di cui: – contributi effettivi – contributi figurativi Altre entrate correnti Totale entrate correnti Entrate in conto capitale non tributarie TOTALE ENTRATE FINALI Pressione fiscale [(Entrate tributarie + Contributi sociali) / Pil)] SALDI Saldo primario Saldo di parte corrente Indebitamento netto (disavanzo complessivo) Pil nominale (in miliardi di euro)

2013

2017

2018*

2019*

10,2 8,1 19,7

9,5 8,1 19,8

9,6 8,1 19,8

9,1 8,0 19,7

15,7 4,0 4,7 42,7 4,8 47,5 3,6

15,3 4,5 3,6 41,1 3,8 44,9 6,6 3,9

15,2 4,6 3,7 41,2 3,6 44,8 6,6 3,2

15,1 4,6 3,7 40,7 3,6 44,4 6,5 3,2

2,4 0,9 0,3 46,3 51,1

2,0 0,8 1,1 44,9 48,7

1,9 0,8 0,5 44,3 48,0

1,9 0,8 0,4 43,9 47,5

30,0

29,1

28,6

28,9

14,9 14,8 0,3 13,3

14,5 14,5 0,1 13,1

14,4 14,4 0,1 13,3

15,0 15,0 0,1 13,3

13,0 0,3 4,7 47,7 0,3 48,3 43,3

12,9 0,2 4,0 46,1 0,1 46,4 42,2

13,1 0,2 4,1 45,9 0,2 46,2 41,9

13,1 0,2 3,9 46,1 0,2 46,3 42,2

2,0 0,2 – 2,8

1,4 1,2 – 2,4

1,8 1,1 – 1,8

2,4 1,7 – 1,2

1.618,9

1.725,0

1.767,6

1.816,1

Note: * dati di previsione (quadro tendenziale) a legislazione vigente. Fonte: Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (30 settembre 2018).

82

Modelli, teorie e politiche

È comunque opportuno evitare di tagliare le spese più utili per la crescita economica (comprese quelle per gli investimenti, il capitale umano, la ricerca) o le spese sociali, che sono funzionali ad una crescita anche socialmente sostenibile. Appare semmai preferibile porre attenzione ai livelli di efficienza delle varie amministrazione pubbliche, anche decentrate 63.

63 Negli ultimi anni il numero di dipendenti pubblici è andato decrescendo (per via del blocco parziale del turnover) ed i loro salari sono stati pure bloccati in diversi anni. Si può però intervenire su sacche di inefficienza in alcuni comparti e sulle più evidenti sperequazioni retributive, esistenti sia nelle amministrazioni sia nelle aziende a controllo pubblico; inoltre si possono razionalizzare i trasferimenti alle imprese. Riguardo ai tagli dei trasferimenti agli enti locali (Regioni e Comuni) occorre stare attenti che questi non si traducano in aumenti dell’imposizione locale (addizionali Irpef, imposte locali sulla casa, ticket sanitari) o in aggravi indiretti per i cittadini (ad esempio spese per la sanità privata in sostituzione di quella pubblica). Sul taglio ingiustificato degli investimenti pubblici negli anni di crisi si veda la trattazione alla fine del cap. 19.

Parte Seconda

Patologie e ruolo delle politiche economiche

84

Patologie e ruolo delle politiche economiche

Disoccupazione e mercato del lavoro

6

85

Disoccupazione e mercato del lavoro

6.1. Disoccupazione, ciclo e crescita La disoccupazione è una delle più gravi patologie che affligge numerosi paesi, sia sviluppati che in via di sviluppo. In questi ultimi assume caratteri strutturali e di persistenza, contribuendo ai bassi livelli di benessere di quelle società; in diversi paesi sviluppati è però divenuta preoccupante, soprattutto dopo le crisi iniziate nel 2008-09, affliggendo in particolare certe categorie come i giovani. I costi della disoccupazione sono vari ed includono ad esempio: (i) uno spreco di risorse e perdita di prodotto potenziale; (ii) effetti negativi sulla crescita di lungo periodo (a causa del depauperamento del capitale umano conseguente ad una disoccupazione di lunga durata); (iii) costi distributivi a carico degli stessi disoccupati e delle loro famiglie (con danni alla salute ed anche di tipo psicologico). In questo capitolo, analizzeremo diverse tipologie di disoccupazione ed indicheremo per ciascun tipo quali politiche economiche sono suggerite per contrastarla o ridurla. Intanto, una prima distinzione fondamentale contrappone i seguenti due tipi: – disoccupazione ciclica, che è la disoccupazione che deriva da una produzione troppo bassa, come si verifica nelle recessioni od in presenza di un “output gap”; è questa la tipica disoccupazione involontaria keynesiana (che si presenta quando Y0 < Y*: cfr. Fig. 4.1); in termini dinamici, conta il tasso di crescita del prodotto (gy) e come vedremo trattando di “legge di Okun” se la crescita è troppo bassa (ad esempio minore di una crescita normale di medio periodo: gy < gy*) avremo una disoccupazione elevata e addirittura crescente; – disoccupazione naturale, che è quella che mantiene in equilibrio il mercato del lavoro (ossia un della Fig. 1.3) e corrisponde al prodotto naturale (Yn); tra poco vedremo che si possono utilizzare concetti più operativi (rispetto a quello di prodotto naturale) – quali prodotto potenziale o di pieno impiego – e nello stesso senso concetti empirici come quelli di disoccupazione frizionale o strutturale 1 sono più utili di quello teorico di disoccupazione naturale. Questa prima distinzione è di fondamentale importanza proprio per la politica economica, in quanto diverse politiche devono essere utilizzate per contrastare un’elevata disoccupazione (e se non si capisce la vera natura della disoccupazione si rischiano di adottare politiche del tutto inefficaci). È possibile quindi affermare che: – politiche di stabilizzazione, che agiscono dal lato della domanda aggregata, sono necessa1 Questi concetti di disoccupazione frizionale e strutturale sono a lungo stati utilizzati nella tradizione keynesiana prima dell’utilizzo del concetto teorico di disoccupazione naturale da parte delle scuole monetarista e della Nuova Macroeconomia Classica. Mentre sono queste ultime scuole che utilizzano il concetto di prodotto naturale (Yn), i keynesiani preferiscono parlare di prodotto di pieno impiego (Y*).

86

Patologie e ruolo delle politiche economiche

rie per ridurre e possibilmente eliminare la disoccupazione ciclica (quando ut > un); possono essere politiche fiscali o monetarie, essenziale è che siano politiche espansive (ossia che facciano spostare la curva AD verso l’esterno, facendo convergere Yt verso Yn); – politiche strutturali, che agiscono dal lato dell’offerta aggregata, servono invece per ridurre la disoccupazione naturale (un), frizionale o strutturale; tutte le politiche strutturali (ad esempio quelle illustrate nel cap. 2) possono essere utili, ma in questo capitolo approfondiremo politiche apposite, come le politiche attive per il mercato del lavoro. A questo punto pare opportuno introdurre alcune definizioni tecniche. Innanzi tutto, è opportuno distinguere fra trend (tendenza di fondo del sistema economico) e ciclo (fluttuazioni di breve periodo). Utilizzando la convenzione adottata nel cap. 1, secondo la visione tradizionale nel breve periodo il reddito può fluttuare (soprattutto per shock di domanda) attorno a Yn – livello che raggiunge solo nel medio periodo – mentre nel lungo periodo è lo stesso Yn che può modificarsi, grazie al trend di crescita. Consideriamo prima le caratteristiche dei cicli economici. La recessione è la fase ciclica che va dal picco o culmine del ciclo al punto di minimo (cfr. Fig. 6.1), mentre la fase espansiva va dal minimo al successivo picco. Secondo l’Istat (Istituto nazionale di statistica), si presenta una recessione – in senso tecnico – quando il prodotto (o Pil reale) subisce una contrazione per almeno due trimestri consecutivi. In letteratura si trovano anche definizioni meno precise ma molto diffuse, quali depressione, che è una recessione prolungata o profonda (con una diminuzione del Pil di circa un decimo); oppure stagnazione, che significa un Pil sostanzialmente stazionario (o anche talvolta decrescente) per diversi anni di seguito 2. Figura 6.1. – Ciclo economico e crescita

culmine

Prodotto

recessione Trend espansione punto minimo Tempo 1° ciclo economico

2° ciclo economico

2 Con riferimento al caso italiano, il termine stagnazione è stato talvolta anche usato per sottolineare la deludente dinamica economica degli ultimi due decenni: in particolare, dal 2008 al 2014 vi sono stati solo due anni di piccole variazioni positive del Pil (nel 2010 e 2011); le variazioni negative (recessioni) in tutti gli altri anni hanno comportato che il livello del prodotto a inizio 2015 fosse ancora di circa 1/10 inferiore a quello di inizio 2008. Ecco perché sono pure stati utilizzati i termini “depressione” e “stagnazione”, anche perché la successiva fase di ripresa economica non è stata particolarmente robusta; il Pil reale a fine 2018 è ancora circa 4 punti percentuali al disotto del livello massimo pre-crisi.

Disoccupazione e mercato del lavoro

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Normalmente il ciclo si sviluppa nel tempo attorno ad un livello normale o medio che non è costante, ma esso stesso crescente. È questo il trend di crescita di lungo periodo (la retta ascendente della Fig. 6.1), che significa che il prodotto può crescere ad un tasso (gy*) più o meno alto (ciò che determina l’inclinazione della retta). Vi sono specifiche teorie economiche che spiegano quali sono le principali determinanti della crescita di lungo periodo 3; qui notiamo solo che se non vi fosse crescita (gy* = 0, ossia trend piatto e retta nel grafico orizzontale), vi sarebbe ugualmente un ciclo economico. Oggetto della macroeconomia sono in gran parte proprio le fluttuazioni di breve periodo del prodotto; le teorie sui cicli economici 4 assumono di solito la crescita come esogena. Comunque la distinzione tra ciclo e crescita è netta solo se il trend ha un andamento regolare di tipo deterministico mentre il ciclo risulta da shock che colpiscono l’economia e determinano un allontanamento temporaneo dalla tendenza (di equilibrio) di medio/lungo periodo 5. Lo studio delle fluttuazioni cicliche ha un’importanza cruciale anche per la politica economica. Infatti, se fino alla Grande Depressione degli anni ’30, si pensava che i cicli economici (come pure la disoccupazione) fossero la conseguenza inevitabile, ma temporanea, del funzionamento dei sistemi capitalistici, con la rivoluzione keynesiana si è cercato di comprenderne le cause e le caratteristiche, anche al fine di predisporre adeguati interventi di politica economica: le politiche di stabilizzazione sono appunto definite “anticicliche”. Obiettivo delle teorie sui cicli 6 è quello di evidenziare le regolarità di comportamento (ad esempio in termini di ampiezza e frequenza delle oscillazioni), che devono essere distinte dalle oscillazioni puramente casuali, nonché di individuare le possibili cause ed i meccanismi di propagazione 7. SCHUMPETER (1939), oltre ad avere individuato per primo le principali fasi del ciclo economico – espansione (o boom), recessione, depressione, ripresa – introdusse nella letteratura economica la nota tipologia dei cicli, a seconda della loro periodicità 8. Vediamo ora di approfondire le differenze tra il concetto teorico di prodotto naturale e quelli empirici di prodotto potenziale e prodotto tendenziale: 3 Tra i modelli di crescita, quello di Solow è uno dei più noti. Nel cap. 13 faremo un breve cenno ai principali modelli di crescita, anche se l’enfasi in quel capitolo sarà soprattutto sui driver della crescita economica nel mondo (quindi seguendo un approccio prettamente empirico). 4 Le teorie principali sui cicli comprendono quelle keynesiane, il ciclo-sviluppo di Schumpeter e Goodwin, quelle monetariste, le teorie del ciclo economico-politico (già considerato per brevi cenni nel par. 5.3), le spiegazioni d’equilibrio della NMC, i “cicli economici reali”. 5 Viceversa, se gli shock che colpiscono l’economia hanno effetti permanenti, allora modificano anche l’evoluzione di lungo periodo (trend) e non consentono agevolmente di distinguere le fluttuazioni di breve periodo (ciclo). GOODWIN (1982) ha espresso in maniera netta la sua critica ad economisti e statistici per aver affrontato distintamente due fenomeni – crescita e ciclo – che, pur essendo differenti, non sono separati e quindi devono essere analizzati congiuntamente. 6 Una questione più empirica riguarda la scelta degli indicatori congiunturali. Si distingue di solito (cfr. CIPOLLETTA, 1992) tra indicatori quantitativi (per esempio l’indice della produzione industriale o delle costruzioni), qualitativi (come l’indice “Pmi” o gli indicatori di fiducia, di imprese e consumatori) ed indicatori anticipatori (come il “Cli”). Quasi tutti gli indici sono calcolati e pubblicati dall’Istat, tranne il Pmi, “purchasing mangers’ index” elaborato da Markit Group attraverso un sondaggio su numerose aziende (oltre 400 per il manifatturiero e per i servizi, 800 per l’indice composito); esso ricomprende variabili quali ordini o vendite, produzione, occupazione, giacenze; il Cli, “composite leading indicator”, elaborato dall’Ocse, è invece basato su molteplici variabili di produzione, consumi, prezzi, monetarie e finanziarie, etc. 7 Già un secolo fa FRISCH (1933) e SLUTSKY (1937) avevano proposto di esaminare in modo separato l’impulso iniziale ed i meccanismi di propagazione, che spiegano la persistenza delle oscillazioni. 8 Di breve periodo (fino a 3-4 anni) o di Kitchin, di medio periodo (fino a circa 10 anni) o di Juglar, di lungo periodo (50-80 anni) o di Kondratieff.

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– il prodotto naturale è il concetto teorico rappresentante l’equilibrio di medio periodo dei modelli della sintesi neoclassica (come Yn nel modello AD-AS del cap. 1); – il prodotto potenziale (Y*, detto anche di pieno impiego) può essere definito come la produzione massima che l’economia può sostenere senza generare tensioni inflazionistiche; esso può essere calcolato a partire dalla funzione di produzione; – il prodotto tendenziale è stimato partendo dai dati annui sul prodotto reale, applicando procedure statistico-econometriche per eliminare la componente ciclica; il “trend” di crescita rappresentato in Fig. 6.1 è appunto il prodotto tendenziale. La differenza tra prodotto effettivo al tempo t (Yt) e prodotto potenziale (Y*) è nota come output gap. Una questione delicata è come viene “stimato” il prodotto potenziale: esso non può essere “misurato”, dato che è il prodotto che si avrebbe quando tutte le risorse produttive – lavoro e capitale in primis – fossero pienamente impiegate senza generare tensioni inflazionistiche. Riguardo al lavoro, non si assume quindi un tasso di disoccupazione nullo, ma un tasso di disoccupazione ritenuto normale per il medio periodo (che coincide con il tasso di disoccupazione naturale un). Diversi organismi internazionali – quali Fondo monetario internazionale, Ocse o Commissione europea – possono quindi fornire stime differenti di un, di Y* e dell’output gap 9. Il modo più semplice di scrivere una funzione di produzione è quello di contemplare un solo fattore produttivo, il lavoro (considerando ad esempio gli altri fattori di produzione come fissi) 10. Quest’ultimo può essere misurato come numero di ore di lavoro oppure, in modo più semplice, come numero di lavoratori, ossia di occupati. Quindi possiamo scrivere: [6.1] Y=A•N dove Y è il prodotto ed N il numero di occupati; A è un parametro, che rappresenta l’effetto del progresso tecnico e degli altri fattori produttivi (supposti nel breve periodo costanti) 11. È evidente dalla [6.1] che A = Y/N, cosicché viene a rappresentare il prodotto medio per occupato ossia la produttività media del lavoro. Già questa semplice relazione è potente in quanto consente di analizzare i due modi fondamentali secondo cui un sistema economico può crescere dal lato dell’offerta: – aumentando il numero di occupati N: in questo caso si dice che l’economia sta seguendo un modello di crescita di tipo estensivo; – accrescendo il parametro A, ossia la produttività degli occupati: questo caso, che rappresenta una crescita di tipo intensivo, si verifica quando si utilizzano in modo più efficiente i 9 Recentemente sono stati criticati i valori stimati dalla Commissione europea, ad esempio per l’economia italiana (ma non solo); per esempio, la stima fornita per il 2015 è di un tasso di disoccupazione “strutturale” (più precisamente il Nawru, il tasso di disoccupazione compatibile con la stabilità dei salari) pari a 11%, che pare francamente eccessivo (si vedano gli articoli su lavoce.info di BOITANI e LANDI, 2014; COTTARELLI et al., 2014; FANTANCONE et al., 2014; sullo stesso sito si trovano le risposte dei funzionari della Commissione). In sostanza, la procedura seguita dalla Commissione conduce ad incorporare nel tasso di disoccupazione strutturale una parte consistente dell’aumento effettivo della disoccupazione, secondo l’ipotesi di “persistenza” del tasso di disoccupazione (cfr. par. 6.6). Questa sovrastima porta a sottostimare il prodotto potenziale ed a sovrastimare il “disavanzo strutturale” (cfr. cap. 11) cui sono parametrati i vincoli del Patto di stabilità (cfr. cap. 18). 10 Già per A. SMITH (1776) l’occupazione era considerata il fattore produttivo fondamentale per il ruolo del “lavoro produttivo” nel determinare la ricchezza delle nazioni; nelle successive teorie della crescita e dello sviluppo l’attenzione è stata posta non solo sulla quantità di lavoro ma anche sulla qualità del lavoro come fattore di produzione (il concetto di “capitale umano”). 11 Nel cap. 1, per ricavare la curva di offerta aggregata AS, si era addirittura supposto in modo semplicistico A = 1.

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lavoratori già occupati 12, per esempio introducendo nella produzione nuove tecniche produttive od organizzative, accumulando capitale fisico 13 o migliorando il capitale umano, od anche (considerando la produzione aggregata) attraverso una ricomposizione del prodotto a favore dei settori più produttivi, e così via; in tutti questi casi, con lo stesso numero di occupati si riesce ad ottenere un prodotto maggiore. Una funzione di produzione un poco più complessa della [6.1] è la nota funzione di produzione di Cobb-Douglas, in cui compare anche un secondo fattore produttivo, il capitale (K): [6.2] Y = A Kα N(1 - α) nella quale gli esponenti di K e N rappresentano rispettivamente l’elasticità del prodotto rispetto allo stock di capitale e rispetto all’occupazione 14; essendo la loro somma pari a 1, stiamo ipotizzando rendimenti di scala costanti. L’equazione [6.2] può essere riscritta in termini dinamici 15 come: [6.3] gY = gA + α gK + (1 - α) gN in cui gY, gK, gN sono rispettivamente i tassi di crescita del prodotto, del capitale e del lavoro; gA rappresenta la variazione della produttività totale dei fattori e dovrebbe cogliere gli effetti del progresso tecnico; senonché è stata definita “residuo di Solow”, in quanto viene a catturare pure gli effetti residuali dovuti al miglioramento qualitativo dei fattori produttivi, errori di misurazione, ed altro ancora. La relazione [6.3] è spesso utilizzata in lavori empirici 16 – nell’approccio noto come growth accounting – volti a misurare quantitativamente i principali fattori sottostanti alla crescita economica.

6.2. Indicatori del mercato del lavoro Per misurare lo stato del mercato del lavoro – nonché la sua dinamica, anche in analisi comparate tra paesi – si utilizzano alcuni indicatori; i più importanti sono: tasso di disoccupazione, tasso di occupazione e tasso di partecipazione al lavoro (a volte chiamato tasso di attività). Prima di illustrarli, facciamo notare che la popolazione in età lavorativa è un sotto-insieme della popolazione totale di un paese (escludendo bambini ed anziani): in Italia per convenzione riguarda la popolazione nella fascia d’età 15-64 anni; la indichiamo con P15-64. Quest’ultima contiene sia le forze di lavoro (FL) – ossia le persone che lavorano o che un lavoro stanno cercando – sia le non forze di lavoro (NFL), ossia la popolazione non attiva, che comprende tutti gli inoccupati che non cercano lavoro, cioè la gran parte degli studenti 17 e degli addetti a attività “casalinghe” 18, nonché i rentiers (cioè coloro che vivono beneficiando di redditi non 12 Non

necessariamente aumentando lo sforzo o le ore lavorate, ossia “sfruttando” la forza lavoro. noto dalla microeconomia che aumentando l’utilizzo del capitale (fattore produttivo ipotizzato fisso nel breve periodo) si incrementa la produttività del lavoro (fattore produttivo variabile). 14 In condizioni di concorrenza perfetta, essi rappresentano anche la quota distributiva del prodotto destinata al capitale ed al lavoro, rispettivamente. 15 Basta applicare alla [6.2] i logaritmi e differenziare rispetto al tempo. Si noti che g = dY/Y (equivalente in Y termini discreti a ΔY/Y) è il tasso di crescita del prodotto; similmente per le altre variabili. 16 Cfr. BARRO-SALA-i-MARTIN (1995), DAVERI (1996). 17 Tranne coloro che ricercano attivamente un’occupazione oppure che hanno già un’occupazione (anche se part-time o temporanea). 18 Si tratta in prevalenza (in passato era la norma) di donne; naturalmente anche qui ci si riferisce a chi non combina tale attività con una ricerca attiva di lavoro oppure con un’occupazione part-time o temporanea. Pe13 È

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da lavoro), etc. In sostanza, la presenza o meno di una “ricerca attiva di lavoro” consente di classificare coloro che non hanno una occupazione come: (i) disoccupati oppure (ii) appartenenti alle “non forze lavoro” 19. Infine, la forza di lavoro include sia gli occupati (OCC) sia i disoccupati (DIS); questi ultimi sono i disoccupati in senso lato e comprendono sia i disoccupati in senso stretto (persone che hanno perso un posto di lavoro) sia le persone in cerca di prima occupazione (ad esempio i giovani che hanno terminato un percorso di studi e si presentano nel mercato del lavoro). Riassumendo possiamo scrivere: P15-64 = FL + NFL; FL = OCC + DIS Da cui si ricavano i principali indicatori del mercato del lavoro: TP = FL/P15-64; TO = OCC/P15-64 ; TD = DIS/FL Il tasso di partecipazione (TP) è il rapporto tra forze di lavoro e popolazione in età lavorativa. Similmente, il tasso di occupazione (TO) è il rapporto tra occupati e popolazione in età lavorativa. Invece, per convenzione internazionale 20, il tasso di disoccupazione (TD) è calcolato come rapporto tra disoccupati e forze di lavoro 21. Gran parte della letteratura economica ha analizzato il mercato del lavoro soprattutto attraverso gli indicatori di disoccupazione. Come già evidenziato nel cap. 4, è con Keynes che si introduce la nozione di “disoccupazione involontaria”, principalmente al fine di sottolineare come la domanda effettiva (sul mercato dei beni) possa essere insufficiente a garantire la “piena occupazione”; tuttavia, in tale contesto la disoccupazione gioca un ruolo sostanzialmente passivo ed è la conseguenza di un certo livello di equilibrio del reddito e dell’occupazione (considerando esogena e data la forza lavoro). Recentemente, soprattutto negli studi empirici, è cresciuta tuttavia la consapevolezza dei limiti dell’indicatore tasso di disoccupazione, anche perché in certi paesi non è facile definire e misurare l’occupazione “regolare” 22, ed è aumentata la considerazione dedicata alla dinamica dell’occupazione 23. I limiti principali dell’utilizzo del solo tasso di disoccupazione sono: raltro esiste una letteratura economica significativa che analizza, anche in una prospettiva di genere, il ruolo e la rilevanza del cosiddetto “lavoro non pagato”. 19 In particolare l’Istat stabilisce che le persone in cerca di occupazione comprendono le persone non occupate tra 15 e 74 anni che: (i) hanno effettuato almeno un’azione attiva di ricerca di lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento e sono disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive; (ii) oppure, inizieranno un lavoro entro tre mesi dalla settimana di riferimento e sarebbero disponibili a lavorare (o ad avviare un’attività autonoma) entro le due settimane successive, qualora fosse possibile anticipare l’inizio del lavoro. 20 L’Istituto che definisce questi indicatori a livello mondiale (e pubblica statistiche aggiornate sull’andamento del mercato del lavoro nei diversi Paesi) è l’International Labour Office (ILO), un’organizzazione delle Nazioni Unite che ha sede a Ginevra. 21 Occorre quindi porre attenzione: quando si dice, ad esempio, che il tasso di disoccupazione in Italia è circa del 10% non significa che il 10% degli italiani sono disoccupati (altrimenti avremmo 6 milioni di disoccupati …) e nemmeno il 10% della popolazione in età lavorativa, ma solo il 10% della popolazione attiva ossia delle forze di lavoro (infatti i disoccupati sono 2,7 milioni a ottobre 2018). 22 In particolare, nelle economie meno sviluppate la regolamentazione del mercato del lavoro è solitamente meno completa ed effettiva favorendo una più incerta distinzione fra lavoro “regolare” ed occupazione nell’economia irregolare o sommersa; inoltre, in tali economie è maggiormente diffuso – rispetto alle economie sviluppate – il fenomeno dei “working poors” (per un approccio comparato al mercato del lavoro, si veda BRADA et al., 2014). Pertanto, l’indicatore “tasso di disoccupazione” può risultare poco rappresentativo della reale performance del mercato del lavoro. 23 Si vedano MARELLI (2004), RONCAGLIA (2004), RODANO (2004), PERUGINI, SIGNORELLI (2007); ma con intuizioni risalenti ad anni addietro (ad esempio VALLI, 1970).

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i. difficoltà di definizione oggettiva della condizione di “ricerca attiva di occupazione”; ii. è influenzato dal tasso di partecipazione che, a sua volta, dipende ed interagisce con il tasso di occupazione (effetto opportunità ed effetto scoraggiamento). Solitamente, l’esistenza di minori opportunità occupazionali (tasso di occupazione basso e/o decrescente), ad esempio durante le recessioni, induce ad una minore partecipazione al mercato del lavoro (effetto scoraggiamento), vista la maggiore difficoltà di successo nella ricerca di un’occupazione. Simmetricamente, la presenza di maggiori opportunità occupazionali, per esempio nelle fasi di ripresa ciclica, fa aumentare il tasso di partecipazione (effetto opportunità). Quindi è vero quanto si afferma di solito, ossia che il TP è influenzato soprattutto dalle dinamiche sottostanti all’offerta di lavoro 24, mentre il TD risente in particolare dell’andamento della domanda di lavoro; ma occorre tener conto delle complesse interdipendenze tra tutte le variabili. Inoltre, il tasso di occupazione può essere più facilmente integrato con altre informazioni relative all’occupazione per tipologia contrattuale (permanente o temporanea, “full-time” o “part-time”), qualità del lavoro (in termini di produttività, retribuzione, quota di lavoratori poveri o precari 25, etc.). È anche per questi motivi che sia l’Agenda di Lisbona del 2000 sia il programma Europa 2020 dell’UE (cfr. cap. 21) hanno definito obiettivi quantitativi da realizzare in termini di tassi di occupazione (ad esempio il 75% per la popolazione in età 20-64 anni entro il 2020). Naturalmente, anche il tasso di occupazione (calcolato sulla popolazione in età lavorativa) presenta alcuni limiti legati a: (i) differenze nell'orario medio di lavoro “full-time” e incidenza del lavoro “part-time”, con possibili rilevanti differenze fra occupazione e volume di lavoro (o fra posizioni lavorative e unità di lavoro standard o “ula”, ossia unità lavorative annue 26); (ii) peso dell’economia sommersa e dell’occupazione “irregolare” (sia in termini di persone coinvolte che di ore lavorate); (iii) esclusione dalla definizione di occupazione delle attività lavorative non retribuite nel mercato (lavoro casalingo, di cura di bambini e anziani). Al fine di evidenziare la diversità dei due indicatori (tasso di disoccupazione e tasso di occupazione) e la possibilità che possano determinarsi anche dinamiche congiunte complesse, si presentano delle semplici relazioni formali, considerando anche il tasso di partecipazione. Moltiplicando e dividendo il tasso di occupazione (TO) per la forza lavoro (FL) si ottiene che il tasso di occupazione è uguale al tasso di partecipazione moltiplicato per il complemento a uno del tasso di disoccupazione (quest’ultimo diviso per 100).

TO 

OCC  100 FL  100  FL  DIS  TD      TP   1    P1564 P1564  FL   100 

24 Infatti, il tasso di partecipazione al mercato del lavoro può aumentare anche per ragioni diverse dall’aumento del tasso di occupazione (si veda, ad esempio, la continua crescita nella partecipazione femminile), ma tale dinamica può indirettamente contribuire ad aumentare il tasso di occupazione: ad esempio, la maggiore partecipazione femminile spinge verso un aumento dell'occupazione per servizi di cura alle persone (bambini e anziani) attività che in passato erano prevalentemente svolte all’interno della famiglia come lavoro non retribuito. Pertanto, si ha una complessa interazione tra tasso di partecipazione e tasso di occupazione. 25 Per “lavoratori poveri” si intendono gli occupati con una retribuzione inferiore ad una certa soglia. I lavoratori precari sono invece gli occupati a tempo determinato (nella maggior parte dei casi non per loro scelta), spesso in lavori saltuari o discontinui. 26 Per esemplificare, due posizioni lavorative part-time (con orario dimezzato rispetto al full-time) corrispondono ad una unità ula.

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In termini dinamici, si noti che non è possibile derivare l’andamento del tasso di occupazione semplicemente sulla base dell’evoluzione del tasso di disoccupazione, visto il ruolo svolto dalla dinamica del tasso di partecipazione. In altri termini, ad esempio, un aumento del tasso di occupazione non necessariamente si accompagna con una riduzione del tasso di disoccupazione così come una riduzione del tasso di occupazione non necessariamente si accompagna con un aumento del tasso di disoccupazione 27. Dalla precedente relazione formale, dopo semplici passaggi, è possibile ottenere che il tasso di disoccupazione (TD) è: (i) il complemento a uno del rapporto tra tasso di occupazione e tasso di partecipazione (il tutto moltiplicato per 100) ed anche (ii) il complemento a uno del rapporto tra occupazione e forza lavoro 28 (il tutto moltiplicato per 100).

 TO   OCC  TD   1   100   1   100  TP  FL    In termini dinamici, si può avere una riduzione del tasso di disoccupazione quando aumenta il rapporto tra tasso di occupazione e tasso di partecipazione (o il rapporto tra occupati e forze lavoro) e, pertanto, è possibile che il tasso di disoccupazione si riduca anche in presenza di una riduzione del tasso di occupazione (o dell’occupazione) purché il tasso di partecipazione (o la forza lavoro) diminuisca in maniera più che proporzionale; e viceversa. Per esempio può darsi che nelle fasi di ripresa economica, nonostante l’aumento degli occupati (e del tasso TO), aumenti anche il tasso di disoccupazione se aumenta anche la partecipazione al lavoro (ad esempio perché i lavoratori “scoraggiati” nella precedente recessione si ripresentano sul mercato del lavoro). Un’ulteriore distinzione riguarda la disoccupazione, che può essere di breve durata o di lunga durata, a seconda che il tempo di ricerca attiva di un’occupazione sia inferiore o superiore all’anno. Il tasso di disoccupazione di lunga durata (TDL) evidenzia anche il grado di persistenza nello stato di disoccupazione; è dato dalla differenza fra il tasso di disoccupazione totale (TD) ed il tasso di disoccupazione di breve durata (TDB). TDL  TD  TDB Si noti che un medesimo tasso di disoccupazione totale può accompagnarsi a tassi di disoccupazione di lunga durata anche molto diversi. In altri termini, i flussi in ingresso ed in uscita dalla stato di disoccupazione possono essere quantitativamente anche molto diversi pur in presenza di un simile tasso di disoccupazione totale (se tali flussi sono minori si avrà un maggior tasso di disoccupazione di lunga durata 29). Infine, si sottolinea come la disoccupazione è normalmente distribuita diversamente per ambito territoriale (ad esempio in Italia esistono forti differenze regionali, con i tassi di disoccupazione nelle regioni meridionali pari al doppio o anche al triplo di quelli delle regioni del Centro-Nord), classi di età (in molti paesi il tasso di disoccupazione giovanile 30 è significativa27 È anche da notare come dinamiche apparentemente paradossali possono riguardare anche l’evoluzione del tasso di occupazione (ad esempio, il tasso di occupazione aumenta in presenza di una riduzione dell’occupazione purché la popolazione in età lavorativa si riduca in maniera più che proporzionale). 28 Quindi, usando i simboli delle variabili del cap. 1, possiamo scrivere: u = 1 – N/L. 29 È evidente che, a parità di tasso di disoccupazione totale, è peggiore la performance del paese che presenta un più elevato tasso di disoccupazione di lunga durata. 30 Il tasso di disoccupazione giovanile è riferito normalmente alla classe di età 15-24 ed è sempre calcolato sulla forza lavoro (della medesima classe di età). Si noti che, considerando il dato italiano nel 2013 (40%), tale valore corrisponde a circa il 12% se calcolato sulla popolazione 15-24 anni anziché sulla forza lavoro di tale classe di età.

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mente maggiore rispetto a quello totale) e genere (le donne mostrano tassi di partecipazione e di occupazione molto più bassi, perlomeno in Italia). Nella Tab. 6.1 si evidenzia come le graduatorie di performance del mercato del lavoro dipendano, per alcuni paesi, in maniera non trascurabile dall'indicatore utilizzato. Tabella 6.1. – Graduatorie di performance del mercato del lavoro (2018) Tasso di occupazione (% su popolazione 20-64 anni) Svizzera (82.1) Svezia (81.8) Germania (79.2) Estonia (78.7) Repubblica Ceca (78.5) Norvegia (78.3) Regno Unito (78.2) Olanda (78.0) Danimarca (76.9) Lituania (76.0) Austria (75.4) Lettonia (74.8) Finlandia (74.2) Portogallo (73.4) Slovenia (73.4) Ungheria (73.3) Irlanda (73.0) Malta (73.0) UE-28 (72.2) Lussemburgo (71.5) Bulgaria (71.3) Slovacchia (71.1) Eurozona-19 (71.0) Polonia (70.9) Cipro (70.8) Francia (70.6) Romania (68.8) Belgio (68.5) Spagna (65.5) Croazia (63.6) Italia (62.3) Montenegro (58.2) Grecia (57.8)

Tasso di disoccupazione totale (% su forza lavoro totale) Giappone (2.8) Repubblica Ceca (2.9) Germania (3.8) Malta (4.0) Ungheria (4.2) Norvegia (4.2) Regno Unito (4.4) Stati Uniti (4.4) Olanda (4.9) Polonia (4.9) Romania (4.9) Austria (5.5) Lussemburgo (5.6) Danimarca (5.7) Estonia (5.8) Bulgaria (6.2) Slovenia (6.6) Irlanda (6.7) Svezia (6.7) Belgio (7.1) Lituania (7.1) EU-28 (7.6) Slovacchia (8.1) Finlandia (8.6) Lettonia (8.7) Portogallo (9.0) Eurozona-19 (9.1) Francia (9.4) Croazia (11.1) Cipro (11.1) Italia (11.2) Spagna (17.2) Grecia (21.5)

Tasso di disoccupazione di lunga durata (% su forza lavoro totale) Repubblica Ceca (1.0) Regno Unito (1.1) Norvegia (1.1) Svezia (1.2) Danimarca (1.3) Polonia (1.5) Germania (1.6) Malta (1.6) Ungheria (1.7) Svizzera (1.7) Austria (1.8) Estonia (1.9) Olanda (1.9) Romania (2.0) Lussemburgo (2.1) Finlandia (2.1) Lituania (2.7) Irlanda (3.0) Slovenia (3.1) Lettonia (3.3) UE-28 (3.4) Bulgaria (3.4) Belgio (3.5) Francia (4.0) Francia (4.2) Eurozona-19 (4.4) Cipro (4.5) Portogallo (4.5) Croazia (4.6) Slovacchia (5.1) Italia (6.5) Spagna (7.7) Grecia (15.6)

Tasso di disoccupazione giovanile (% su forza lavoro 15-24 anni) Giappone (4.7) Germania (6.8) Repubblica Ceca (7.9) Olanda (8.9) Stati Uniti (9.2) Austria (9.8) Malta (10.6) Ungheria (10.7) Norvegia (10.7) Danimarca (11.0) Slovenia (11.2) Estonia (12.1) Regno Unito (12.1) Bulgaria (12.9) Lituania (13.3) Irlanda (14.4) Polonia (14.8) Lussemburgo (15.4) EU-28 (16.8) Lettonia (17.0) Svezia (17.8) Romania (18.3) Eurozona-19 (18.8) Slovacchia (18.9) Belgio (19.3) Finlandia (20.1) Francia (22.3) Portogallo (23.8) Cipro (24.7) Croazia (27.2) Italia (34.7) Spagna (38.6) Grecia (43.6)

Fonte: Eurostat (banca dati online).

L’Italia si posiziona sempre nella parte bassa delle graduatorie di performance (i dati sono

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riferiti al 2017): il tasso di occupazione totale 31 è di poco superiore al 62%, con quasi 20 punti percentuali di distanza dalla Svezia e altri paesi nordici); il tasso di disoccupazione totale (11,2%) colloca l’Italia al terzultimo posto nell’UE (solo Grecia e Spagna hanno tassi più alti mentre la Germania, ad esempio, mostra un tasso inferiore al 4%); il tasso di disoccupazione giovanile è quasi al 35%, con quasi 30 punti percentuali di distanza dalla Germania (fuori dall’UE il Giappone ha un tasso perfino inferiore); particolarmente elevato è per l’Italia il tasso di disoccupazione di lunga durata (6,5%). Si segnala, inoltre, che i dati distinti per classi di età evidenziano come il rilevante calo della domanda di lavoro – dopo la Grande Recessione e le successive crisi – ha avuto un impatto particolarmente negativo (ancorché diversificato fra i vari paesi) per i giovani (new entrants) che, oltre alle più o meno rilevanti difficoltà di transizione dalla scuola o università al lavoro, si trovano penalizzati dal fatto che i giovani con i contatti più flessibili sono stati i primi a perdere il posto di lavoro. Come emerge dalla Tab. 6.1, i tassi di disoccupazione dei giovani sono in diversi paesi il doppio od il triplo di quelli totali e sono fortemente aumentati dopo la crisi recente 32. A questo riguardo, un indicatore che negli ultimi tempi si è imposto all’attenzione dei ricercatori afferisce ai cosiddetti Neet, ossia i giovani not in employment, education or training. Il tasso Neet, calcolato sulla popolazione della classe d’età giovanile (15-24 o 15-34 anni), coglie le problematiche generali derivanti dall’assenza di lavoro per i giovani, a causa non solo della disoccupazione esplicita, ma anche dell’inattività dovuta ad esempio a fenomeni di scoraggiamento, sia rispetto al lavoro sia riguardo ai percorsi d’istruzione o formazione 33. Comunque, le brevi considerazioni presentate e le evidenze empiriche comparate inducono a preferire un uso congiunto di più indicatori di performance del mercato del lavoro.

6.3. La legge di Okun: il legame tra disoccupazione e reddito All’inizio del capitolo, abbiamo notato che un primo importante tipo di disoccupazione è quella ciclica, ossia quella che varia al fluttuare (ciclico) di produzione e reddito. La legge di Okun (1962) evidenzia una relazione sufficientemente stabile tra aumento del prodotto e diminuzione della disoccupazione. Una possibile rappresentazione, tra le varie rintracciabili in letteratura, di questa legge è fornita dalla seguente equazione: ut – ut - 1 = − θ (gyt – g*y) in cui si mostra che il tasso di disoccupazione aumenta (ut > ut - 1) o diminuisce (ut < ut - 1) nel tempo a seconda che la crescita del prodotto (gyt) ecceda o no un tasso di crescita “normale” (g*y). 31 Un

forte contributo negativo al basso tasso di occupazione totale italiano deriva dai bassissimi tassi di occupazione femminile e nella classi di età “anziana” (55-64) e giovanile (15-24). Per ragioni di spazio, non si presentano tali dati (che comunque sono agevolmente consultabili sul database online Eurostat: http://ec. europa.eu/eurostat/data/database). 32 Nel caso italiano, nel novembre 2014 si sono raggiunti picchi del 43,9% per il tasso di disoccupazione giovanile e del 13,4% per il tasso di disoccupazione totale. Più recentemente la disoccupazione giovanile si è ridotta, ma spesso i giovani si devono accontentare di posizioni lavorative precarie, mal retribuite e poco corrispondenti al percorso formativo realizzato. Sovente l’unica alternativa per i giovani più qualificati è stata quella di cercare lavoro all’estero. 33 Questo nuovo indicatore è ormai considerato da diverse istituzioni (cfr. ad esempio COMMISSIONE EUROPEA, 2010). Per recenti studi empirici sui Neet, anche in confronto con i tassi di disoccupazione, si vedano ad esempio EUROFOUND (2012); BRUNO et al. (2014).

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Quest’ultimo tasso è la crescita minima necessaria per mantenere costante il tasso di disoccupazione. Esso dipende da: (i) la crescita o riduzione della popolazione attiva (le forze di lavoro infatti aumentano o diminuiscono negli anni per motivi demografici e/o socio-culturali e/o per i fenomeni migratori) e (ii) la crescita della produttività del lavoro (generalmente positiva grazie al progresso tecnico) 34. Quindi, a prescindere dal valore del parametro θ, il tasso di disoccupazione aumenta non solo quando la produzione non cresce, ma anche quando cresce ad un tasso basso, inferiore a g*y 35. Comunque, anche un tasso di crescita superiore a g*y, pur avendo un impatto favorevole sulla disoccupazione (ut), esercita di solito un effetto meno che proporzionale (ossia coefficiente di Okun θ < 1) 36, essenzialmente per due motivi: – l’aumento della produzione e della domanda di lavoro si riflette in parte nell’assunzione di disoccupati, ma in parte anche nell’aumento della partecipazione al lavoro (effetto opportunità); – a causa dei costi di turnover (ricerca, selezione, addestramento, formazione del personale) spesso le imprese preferiscono tenere manodopera in eccesso (labour hoarding) o ridurre l’orario di lavoro nei periodi di crisi (contenendo i licenziamenti) 37; nelle riprese, le imprese utilizzano quindi tale serbatoio di manodopera e ricorrono anche al lavoro straordinario, prima di aumentare l’occupazione, con conseguenti effetti più deboli sul tasso di disoccupazione. La legge di Okun era considerata particolarmente utile per calibrare opportunamente gli interventi di politica economica dal lato della domanda: ad esempio, una volta noto anche il valore del moltiplicatore del reddito, attraverso la sequenza di effetti: G  Y  u. Tuttavia, oltre alla già richiamata distinzione tra tasso di crescita effettivo e “normale” (con le connesse difficoltà di individuare quest’ultimo), non va nemmeno dimenticato che non esiste necessariamente una relazione inversa stabile fra variazione dell'occupazione e variazione della disoccupazione. In particolare, le istituzioni del mercato del lavoro, ad esempio le norme e i vincoli legali o sociali ad assunzioni e licenziamenti 38, concorrono a determinare il valore di θ, che in passato era più elevato negli Usa (il paese “più flessibile”), più basso in Giappone (il paese che garantiva la maggiore stabilità del posto di lavoro), con i paesi europei in una posizione intermedia (pur con rilevanti differenze). Nel tempo, però, il valore di θ è aumentato ovunque, a causa delle riforme nei mercati del lavoro (minori restrizioni e più flessibilità) e della maggiore concorrenza nei mercati dei beni. Uno studio del Fondo monetario internazionale (IMF, 2010) ha collegato i coefficienti di Okun – ossia le elasticità della disoccupazione alle variazioni del pro34 Nell’economia Usa ai tempi di Okun, g* = 3% derivante da 1,7% di crescita delle forze di lavoro e da y 1,3% di aumento della loro produttività. 35 È evidente che in presenza – addirittura – di un declino della produzione (come con la Grande Recessione del 2008-2009), l’aumento della disoccupazione è sicuramente più marcato; pur con qualche ritardo tra la variazione del prodotto e quella della disoccupazione (si veda di seguito anche il richiamo al fenomeno del labour hoarding). 36 Valori tipici riscontrati negli studi empirici sono compresi tra 0,3 e 0,4. 37 L’aggiustamento dell’orario di lavoro può essere un’alternativa – almeno nel breve periodo – all’aggiustamento nel numero di occupati. È stata ad esempio una soluzione ampiamente usata in diversi paesi (soprattutto in Germania e Italia) come risposta alla riduzione di domanda di lavoro connessa alla Grande Recessione (in Germania attraverso accordi tra imprese e sindacati, in Italia soprattutto attraverso la “Cassa integrazione guadagni”, Cig). 38 La cosiddetta employment protection legislation (EPL): di questo si tratterà in modo esteso nel par. 21.1.

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dotto – ad alcune riforme principali del mercato del lavoro, quali: EPL, normativa sui sussidi di disoccupazione, incidenza dei contratti di lavoro temporanei, flessibilità salariale 39.

6.4. Disoccupazione frizionale e strutturale La disoccupazione che non dipende dalle fluttuazioni del ciclo economico è quella “naturale” (indicata con un nei modelli teorici). Un tipo di disoccupazione, che non è “di equilibrio” (come quest’ultima), ma che pure non è influenzata dalle fluttuazioni cicliche, afferisce ai concetti empirici di disoccupazione frizionale e disoccupazione strutturale. In entrambi i casi sono all’opera determinanti dal lato dell’offerta aggregata, per cui per ridurre questi tipi di disoccupazione servono politiche strutturali; le politiche macroeconomiche espansive non sono efficaci. La disoccupazione frizionale è connessa ai tempi (fisiologici) di occupazione: (i) dei nuovi entranti nel mercato del lavoro (per esempio i giovani al termine del percorso di studi); (ii) dei lavoratori temporaneamente disoccupati perché impegnati nella ricerca di un nuovo lavoro, eventualmente in altri comparti produttivi od in imprese localizzate in altre regioni 40. A causa dei processi di aggiustamento nel mercato del lavoro, la disoccupazione frizionale coesiste spesso con la presenza di posti vacanti presso le imprese, ossia di una domanda di lavoro non soddisfatta. In un mondo ideale, la presenza contemporanea di persone in cerca d’occupazione (disoccupati) e di posti vacanti nelle imprese non avrebbe senso. Tuttavia, eterogeneità dei lavoratori per qualifiche o residenza, segmentazioni del mercato del lavoro, imperfezioni di mercato, costi d’aggiustamento e transizione 41, carenze informative ed altri tipi di rigidità fanno sì che i due fenomeni tendono a coesistere. Nell'immediato dopoguerra, BEVERIDGE (1945) aveva definito la piena occupazione come quella situazione in cui la disoccupazione è inferiore ai posti vacanti 42. La curva di Beveridge mette in relazione il tasso di posti vacanti (v) con il tasso di disoccupazione (u). Essa è rappresentata nella Fig. 6.1 ed ha le seguenti proprietà: – vi è innanzi tutto una relazione inversa tra le due variabili: quando la situazione ciclica dell’economia migliora (shock di domanda espansivi) diminuisce u ed aumenta v; e viceversa quando l’economia entra in recessione; – la curva si sposta invece in presenza di shock d’offerta: così, una minore occupabilità dei lavoratori (ad esempio causata da una disoccupazione di lunga durata che rende obsoleto il capitale umano dei lavoratori) trasla la curva in alto, comportando un peggioramento del “matching of jobs”; – la disoccupazione da domanda si può pertanto facilmente distinguere da quella frizionale (che è quella corrispondente al punto sulla curva in cui u = v). 39 Inoltre, in quello studio si mostra che l’intensità di risposta può variare ciclicamente tra recessioni e fasi di ripresa, nonché essere influenzata da fattori quali presenza di shock settoriali, incertezza sistemica, compresenza di crisi finanziarie. Su questi aspetti si veda anche il lavoro empirico di BARTOLUCCI et al. (2018). 40 Un apposito filone di studi nell’economia del lavoro è proprio la “teoria della ricerca” (job search theory). 41 Includendo sia i tempi di ricerca e selezione “dei lavoratori migliori o più adatti” da parte delle imprese che i tempi di ricerca delle “posizioni lavorative disponibili” e di decisione circa l’accettazione di un “lavoro adeguato o almeno decente” da parte dei disoccupati. 42 Empiricamente, la piena occupazione era fatta coincidere dai keynesiani della sintesi neoclassica appartenenti alla new economics (cfr. cap. 4) con un tasso di disoccupazione (strutturale) pari al 4% delle forze di lavoro.

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Le politiche attive per il lavoro (che saranno approfondite nel cap. 21) sono quegli interventi pubblici, dal lato dell’offerta, implementati nel mercato del lavoro; essi mirano ad accrescere l’occupabilità dei lavoratori (anche tramite l’istruzione o la formazione), ad incentivare la domanda di lavoro, a rendere più agevole l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Queste ultime politiche favoriscono il job matching, riducendo contemporaneamente disoccupazione e posti vacanti (facendo traslare la curva di Beveridge verso l’interno). Efficienti servizi per l’impiego servono al medesimo scopo. Figura 6.2. – La curva di Beveridge v

Espansione

Recessione

Spostamenti della curva u

La disoccupazione strutturale si presenta invece quando le condizioni di squilibrio nel mercato del lavoro sono persistenti, ad esempio a causa di profondi mutamenti nella struttura produttiva dell’economia e di riallocazioni intersettoriali delle forze di lavoro. Essa è quindi simile alla disoccupazione frizionale, nel senso che non può essere affrontata con politiche espansive sulla domanda aggregata, ma richiede un intervento più complesso dal lato dell’offerta (ben al di là delle politiche di “job matching”). Esempi di profondi mutamenti strutturali comprendono: – il cambiamento strutturale dell’economia, ad esempio per la progressiva “terziarizzazione” che nei paesi avanzati sta soppiantando la precedente specializzazione industriale (cfr. cap. 13); – il progresso tecnico incessante, causa della cosiddetta “disoccupazione tecnologica” 43, i cui effetti si riscontrano non solo nell’industria ma sempre più anche nei servizi (si pensi alla ict revolution basata sulle nuove information and communication technologies); 43 L’impatto negativo di ondate di progresso tecnico sull’occupazione fu discusso fin dai tempi della prima Rivoluzione Industriale. Si tratta di un impatto soprattutto di breve periodo; infatti, innumerevoli studi hanno mostrato che nel lungo andare sono i paesi che riescono ad adottare più innovazioni quelli che, soprattutto nell’economia globale, riescono a mantenere o ad espandere la propria base occupazionale (nonché a consentire livelli salariali più elevati). Gli effetti delle nuove tecnologie sulle qualifiche, sulle mansioni, etc. possono però essere dirompenti: si pensi alle implicazioni della cosiddetta “economia digitale” o della “robotizzazione”, anche all’interno del settore industriale (si vedano nel cap. 20 i cenni a “Industria 4.0”).

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– gli effetti della globalizzazione dei mercati ed i mutamenti nella specializzazione internazionale dei singoli paesi (per cui posti di lavoro possono venire distrutti dalle importazioni o dalle delocalizzazioni produttive: cfr. cap. 14); – i flussi migratori, che possono comportare uno spiazzamento dei lavoratori autoctoni (sebbene spesso gli immigrati svolgano mansioni per le quali i lavoratori nazionali non sono disponibili 44); – i cambiamenti demografici, relativi ad esempio alla caduta dei tassi di natalità nei paesi occidentali ed al progressivo invecchiamento delle popolazioni, con conseguenti contrazioni della popolazione “attiva” 45; – i mutamenti istituzionali, ad esempio riguardo all’obbligo scolastico ed al diritto allo studio, da un lato, oppure alla configurazione dei sistemi pensionistici, dall’altro 46; – le modifiche nelle preferenze individuali, spesso causate dall’evoluzione del contesto socio-culturale, riguardo ad esempio alla propensione al lavoro: si pensi alla crescente partecipazione femminile al mercato del lavoro 47. È evidente da questi esempi che per contrastare la disoccupazione strutturale bisogna utilizzare un insieme complesso di politiche strutturali (che pure agiscono dal lato dell’offerta), che non si limitano alle politiche del lavoro, ma includono politiche industriali, politiche commerciali, politiche migratorie, politiche regionali, politiche per l’istruzione, politiche socio-assistenziali 48.

6.5. Disoccupazione, rigidità nel mercato del lavoro ed eurosclerosi In questo capitolo, abbiamo finora discusso la disoccupazione come conseguenza di carenze di domanda (la disoccupazione ciclica, detta anche keynesiana) oppure di problemi dal lato dell’offerta (disoccupazione frizionale o strutturale). Invece, la visione neoclassica tradizionale degli economisti pre-keynesiani era che vi è una relazione diretta tra livello salariale e disoccupazione; visione ripresa dalle teorie neoclassiche più recenti. Utilizzando il modello “standard” del mercato del lavoro (Fig. 1.3 del cap. 1), possiamo spiegare un’elevata disoccupazione in termini di fattori sottostanti alle due curve. Tra tutte le possibili determinanti, consideriamo qui, in particolare, il ruolo giocato dalle istituzioni o dalle politiche del lavoro. Infatti un’elevata disoccupazione naturale (un) può essere causata: i. dagli elementi che mantengono elevata la curva WS (wage-setting), a causa di elevati fattori di “rinforzo salariale” (ricompresi nella variabile z): per esempio, alti sussidi di 44 Si pensi, nel contesto italiano, alle “badanti” o ai lavoranti agricoli, che sono quasi esclusivamente immigrati (anche se la recente grave crisi occupazionale ha in parte spinto la popolazione autoctona ad “offrirsi” per questi tipi di lavori). 45 Anche se tale processo può risultare più che compensato dalla crescita del tasso di partecipazione femminile nonché dall’allungamento dell’età di partecipazione attiva al mercato del lavoro. 46 Le recenti riforme pensionistiche in molti paesi sono andate nella direzione di un allungamento dell’età pensionabile, a causa dei vincoli sempre più stringenti sui conti pubblici (cfr. cap. 5). Ciò può avere causato, soprattutto in un contesto di recessione o stagnazione economica, un aumento del tasso di disoccupazione (in particolare di quello giovanile). 47 La femminilizzazione del mercato del lavoro si è accompagnata alla terziarizzazione del sistema economico (favorendola ma anche essendone influenzata). 48 Incluse politiche di conciliazione fra tempi di vita e tempi di lavoro (inclusi i servizi per l’infanzia), politiche per la famiglia (e incentivi per favorire la natalità), interventi sulla spesa sociale (pensioni), e così via.

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disoccupazione (per la loro entità, durata o grado di automatismo), elevati minimi salariali obbligatori per legge, notevole grado di sindacalizzazione, norme rigide sui licenziamenti; ii. dai fattori che spingono in basso la curva PS (price-setting), come conseguenza di un alto livello di “mark-up” (alto h): eccessivi margini di profitto, alti costi diversi dal lavoro, elevati contributi e imposte sul lavoro (che a parità di salario fanno aumentare il costo del lavoro), bassa produttività del lavoro (anche per una scarsa flessibilità nell’organizzazione del lavoro). Circa il secondo canale, è interessante notare che, in aggiunta alle caratteristiche del mercato del lavoro, anche un mercato dei beni e servizi scarsamente competitivo (ad esempio, per il prevalere di forme di mercato monopolistiche, oligopoliste o, comunque, caratterizzate da scarsa “contendibilità”) o troppo regolamentato determina – attraverso una bassa produttività o troppo alti margini di profitto – un’elevata disoccupazione. Questo problema riguarda soprattutto il settore terziario: infatti, mentre l’industria è considerata un settore “aperto” ed esposto alla concorrenza internazionale, i servizi sono in gran parte un settore “protetto” 49. Quanto al primo canale, sono le rigidità del mercato del lavoro che vengono messe sotto accusa. Sul piano empirico, è proprio la flessibilità nel mercato del lavoro che viene spesso citata per spiegare la performance nettamente migliore che gli Stati Uniti hanno mostrato, soprattutto negli ultimi tre o quattro decenni, rispetto all'Europa, in termini di creazione di nuovi posti di lavoro e di tassi di disoccupazione. Fino ai primi anni ’80, il tasso di disoccupazione era più basso nei paesi dell’UE che non negli Usa (cfr. Fig. 6.2); da allora la “forbice” tra UE ed Usa si è allargata: si parlava di jobless growth (crescita economica senza creazione di posti di lavoro), diversamente dalla capacità dell'economia Usa di creare milioni di posti di lavoro. Figura 6.3. – Tasso di disoccupazione in Europa (UE-15), Stati Uniti e Giappone (1965-2018*)

Tasso di disoccupazione

12 10 8 6 4 2 0

UE-15

Stati Uniti

Giappone

Fonte: OECD (fino al 2013) e Eurostat (per gli anni 2014-18); i dati 2018 sono previsioni. 49 Le liberalizzazioni sono state avviate all’interno dell’UE; tuttavia, carenze si notano in diversi comparti (soprattutto in Italia): banche, assicurazioni, alcuni servizi di trasporto o di public utilities, ordini professionali, lavori autonomi, etc.

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Negli anni ’90 politica monetaria e politica fiscale furono restrittive nell’UE per la “strategia di Maastricht” (cfr. cap. 16) e fenomeni di persistenza spiegano la permanenza di tassi elevati di disoccupazione anche alla fine del secolo scorso; ridottisi poi negli anni 2000 senza peraltro raggiungere quelli statunitensi. La Grande Recessione del 2008-09 ha portato i tassi di disoccupazione su livelli simili nelle due aree negli anni 2009 e 2010, ma mentre quello Usa era già tornato nel 2014-15 ai livelli pre-crisi, la persistenza nell’UE è stata più prolungata e la successiva discesa più lenta (seppure con notevoli differenze tra i vari paesi: cfr. par. 6.2). Si noti come il Giappone presenti tassi di disoccupazione molto inferiori all’Europa e meno ampie oscillazioni nel tempo. La chiave di lettura standard di queste evidenze empiriche è basata sul concetto di “eurosclerosi”, che comprende due aspetti fondamentali: – le rigidità, salariali ed occupazionali (in entrata e in uscita), nel mercato del lavoro; – l’elevato costo del lavoro, dovuto non tanto ad alti salari quanto piuttosto ad un elevato “cuneo fiscale e contributivo” (cfr. par. 6.7 in seguito) 50. L’eurosclerosi ha afflitto l’economia europea per molti anni ed in alcuni paesi sta tuttora causando una troppo elevata disoccupazione. Tuttavia, come vedremo alla fine di questo capitolo, la realtà all’interno dell’Europa non è più così omogenea e possiamo individuare diversi “modelli” istituzionali prevalenti. In ogni caso, si è accresciuta la “flessibilità”, anche se talvolta si è trattato di “flessibilità al margine” che ha accentuato dualismi e segmentazioni nel mercato del lavoro (le diverse politiche per la flessibilità saranno illustrate nel cap. 21).

6.6. I modelli insider-outsider, i salari d’efficienza e la teoria dell’isteresi In letteratura economica si è spesso parlato di dualismo nel mercato del lavoro. Nell’Italia del boom economico (circa mezzo secolo fa) veniva ad esempio contrapposta l’occupazione stabile nei settori industriali o terziari più avanzati, non solo alla disoccupazione, ma anche al lavoro nero o irregolare, al lavoro autonomo (opposto al lavoro dipendente) o a forme saltuarie di lavoro (prevalenti nel cosiddetto “mercato secondario” del lavoro). Più recentemente, i lavoratori con contratto a tempo indeterminato 51, considerati i più tutelati o “protetti”, sono stati contrapposti ai lavoratori “precari” con contratti atipici (a tempo determinato o simili), generando una nuova forma di dualismo (BOERI, 2011). A livello teorico, circa trent’anni fa sono stati sviluppati i modelli insider-outsider 52. Si sostiene che il mercato del lavoro è in sostanza segmentato tra due categorie di lavoratori: – gli insider, che sono i lavoratori già occupati; – gli outsider, che sono quelli in cerca di occupazione, nonché i lavoratori appartenenti al “mercato secondario”. 50 In certe analisi, a ciò si aggiungono gli ostacoli all’iniziativa privata, la pervasiva regolamentazione, l’eccessivo peso dei sindacati e della contrattazione collettiva, gli alti livelli di spesa pubblica (specie di tipo assistenziale), etc. 51 Si noti comunque che in Italia, dopo la “riforma Renzi” (Jobs Act) del 2015, i nuovi lavoratori a tempo indeterminato sono assunti con contratto di lavoro “a tutele crescenti” (cfr. cap. 21). 52 Una serie di importanti contributi, a partire dal 1984, è dovuta agli economisti A. Lindbeck e D. Snower. Per un approfondimento anche della letteratura successiva, si veda ORDINE (2001).

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Soltanto gli insider hanno un qualche potere di contrattazione dei salari, oltre che di “controllo” sull'entrata nella fascia degli occupati (da parte dei disoccupati); ciò può spiegare come mai una disoccupazione anche massiccia può accompagnarsi ad una dinamica salariale sostenuta. L’esclusione dei disoccupati dal mercato primario può essere dovuta non solo al potere monopolistico degli “insider”, ma anche alla presenza di costi di transizione. Più precisamente, la disoccupazione involontaria può derivare dal fatto che il salario pagato dall’impresa agli insider (wi), pur essendo superiore a quello d'equilibrio walrasiano 53 (w*), è minore della somma tra salario di riserva (wo) degli outsider, potenziali nuovi entranti nel mercato del lavoro, e dei costi di turnover (co). Pertanto, l'impresa si comporta in modo razionale non assumendo nuovi lavoratori ad un salario inferiore, poiché wi < wo + co; d’altro canto, la disoccupazione è causata dal fatto che wi > w*. I costi di turnover, o di rotazione della manodopera, comprendono i costi di assunzione, di addestramento, d’integrazione nell’organizzazione produttiva, di licenziamento; essi includono anche i costi risultanti dagli effetti sul “morale”, sullo sforzo e sulla produttività dei lavoratori, causati da un elevato turnover (come si vedrà anche in relazione alla teoria dei salari d'efficienza) 54. Pur in assenza di un sindacato organizzato, gli insider tendono a sfruttare una posizione di rendita salariale ed occupazionale (ormai acquisita da parte dei lavoratori già occupati). Sempre negli anni ’80 si è sviluppata la teoria dei “salari d’efficienza” 55. Il termine efficiency wages risale però ad A. Marshall e fu poi ripreso da J.M. Keynes: è in sostanza il livello dei salari in rapporto alla produttività del lavoro. Salari elevati, anche superiori al livello d’equilibrio walrasiano, sono compatibili con un comportamento massimizzante dell’impresa, in quanto essi – inducendo un maggiore sforzo lavorativo da parte dei lavoratori – sono correlati in modo positivo con i livelli di produttività 56. Viene così spiegata la rigidità salariale e, anche in questo caso, la disoccupazione che ne risulta è di tipo involontario 57. Il fatto che la produttività del lavoro 58 venga fatta dipendere dal livello salariale (ribaltando il nesso causale della teoria neoclassica), fatto che origina pure una relazione positiva tra salari e profitti, è giustificato sulla base delle seguenti argomentazioni: (i) sono incentivati il 53 Ossia il salario che renderebbe domanda ed offerta di lavoro uguali tra di loro, eliminando la disoccupazione. Il salario di riserva è invece il salario minimo che induce un disoccupato ad accettare un lavoro. 54 Infine vanno pure inclusi i possibili costi di “persecuzione” o di mancata cooperazione da parte degli insider nei confronti dei neoassunti (i quali ricevono frequentemente un addestramento “sul campo” da parte dei lavoratori già occupati). 55 I più significativi contributi sono quelli di YELLEN (1984) ed in seguito di altri autori (come G.A. Akerlof, L.F. Katz e J.E. Stiglitz); per un approfondimento ed una rassegna anche degli sviluppi successivi, si veda CORNEO (2001). 56 In particolare, se l'input di lavoro è definito come il prodotto tra quantità di lavoro (l) e sforzo lavorativo (e), per cui L = l  e, e se si suppone che l’elasticità dello sforzo al salario reale è positiva ma decrescente rispetto a quest’ultimo, allora il salario ottimale per l’impresa è quello che corrisponde all’elasticità unitaria (e,w = 1). 57 La rigidità del salario reale è spiegata dal fatto che esso è l’unica determinante della variabile “efficienza lavorativa” (e), che invece non è ipotizzata dipendere da altre variabili quali i salari relativi, la disoccupazione, od altre (nel qual caso i salari potrebbero essere più flessibili). Si noti che la teoria degli “efficiency wages” spiega anche la segmentazione dei mercati del lavoro e, in particolare, la persistenza di differenziali salariali per lavoratori simili, in contrasto con la precedente teoria dei “differenziali compensativi”, ma con un discreto sostegno da parte dell'evidenza empirica (NICKELL, 1990). 58 Variabile ignota ai datori di lavoro in un contesto di informazione imperfetta.

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morale dei lavoratori, il loro impegno e la loro motivazione al lavoro, l’attaccamento all’azienda (prevenendo anche le possibili dimissioni dei lavoratori occupati più produttivi); (ii) sono ridotti i costi di turnover e di addestramento; (iii) è accresciuta la capacità di attrazione dei lavoratori più qualificati (questo è il meccanismo della selezione avversa); (iv) è migliorata l’efficienza lavorativa dei dipendenti (fenomeno inizialmente considerato nel contesto dei paesi in via di sviluppo in relazione a variabili quali nutrimento e salute); (v) il miglioramento dell’efficienza è legato sia all'intensificazione dello “sforzo” lavorativo che alla riduzione dei fenomeni di assenteismo 59. In definitiva, negli approcci dei “salari d’efficienza”, il salario è utilizzato dall’impresa come meccanismo di selezione della produttività (in modo coerente con le teorie della “selezione/segnalazione”). La conseguenza di questa scelta, razionale per l’impresa, è però che parte della forza lavoro è lasciata eventualmente inoccupata, in modo involontario. Le teorie insider-outsider e dei salari d’efficienza, fondamentalmente microeconomiche 60, sono pure state utilizzate per fornire una spiegazione del fenomeno macroeconomico dell’isteresi della disoccupazione (cfr. BLANCHARD, SUMMERS, 1987). Secondo la teoria dell'isteresi, non esiste un valore di equilibrio per il tasso naturale di disoccupazione che sia costante nel tempo, in quanto tale grandezza dipende anche dai valori passati del tasso di disoccupazione effettivo (infatti l’isteresi è pure definita path-dependence): così, se una recessione fa inizialmente aumentare la disoccupazione ciclica, ma quest’ultima permane per lungo tempo al di sopra del suo valore d’equilibrio, il tasso naturale comincia esso stesso ad aumentare nel tempo 61. Sono stati esaminati tre gruppi principali di determinanti dell'isteresi: (i) gli effetti duraturi sulla domanda di lavoro del calo degli investimenti in capitale fisso, conseguente alla fase recessiva che ha inizialmente generato i disoccupati; (ii) le rigidità salariali causate dal comportamento degli insider 62; (iii) la relazione esistente tra durata della disoccupazione 63 e probabilità di trovare una nuova occupazione, relazione influenzata soprattutto dall’impoverimento del capitale umano. Ulteriori fattori che sono stati analizzati comprendono gli effetti sull’intensità di ricerca (la disoccupazione aumenta sia perché si accrescono i flussi in entrata nel serbatoio di disoccupati, sia perché si riducono i flussi in uscita), l’obsolescenza delle capacità professionali e la minor attitudine al lavoro, l’attivazione di meccanismi di selezione avversa (le imprese assumono la lunga durata di disoccupazione come segnale di scarsa qualità dei lavoratori). I sopracitati meccanismi possono rafforzarsi nel corso del tempo, in una sorta di “causa59 Lo stesso assenteismo sul posto di lavoro, o shirking (atteggiamento “scansafatiche”), può essere così affrontato, senza ricorrere a forme di controllo diretto del rendimento del lavoratore, mediante l’incentivazione salariale e la considerazione, da parte del lavoratore, del più elevato costo-opportunità derivante dall’eventuale perdita del posto di lavoro (se sorpreso ad oziare dopo controlli di tipo casuale), con il correlato rischio di restare disoccupato e/o percepire in seguito salari inferiori. 60 È tutto l’approccio della Nuova Economia Keynesiana (NEK) che parte dalle fondamenta microeconomiche per arrivare alle implicazioni macro (altri cenni saranno svolti nel cap. 8). 61 In altre parole, il tasso di disoccupazione naturale (u ) viene a dipendere dalla storia passata della disocn cupazione effettiva (ut, ut - 1, ut – 2 …). 62 Durante la recessione, la caduta della domanda aggregata riduce i lavoratori occupati, ossia gli insider, che nella successiva fase di ripresa ciclica avranno maggior potere di contrattazione del salario, il quale potrà così aumentare, frenando però la domanda di lavoro e perpetuando la disoccupazione. 63 La presenza di disoccupati di lunga durata significa che l’offerta di lavoro effettiva è inferiore rispetto a quanto non risulta dal tasso medio di disoccupazione, ciò che attenua le pressioni al ribasso sui salari ed accresce il numero di posti vacanti (pur in presenza di un’elevata disoccupazione).

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zione cumulativa”, rendendo ancora più persistente la disoccupazione, nonché conducendo ad una più netta e definitiva segmentazione del mercato del lavoro (per età, sesso, livello d’istruzione, qualifica professionale, zone di residenza, etc.) 64. Sebbene isteresi non significhi irreversibilità degli andamenti, è pure stata sottolineata un’asimmetria ciclica: mentre nel corso delle fasi recessive si accresce rapidamente lo stock di disoccupati, in quelle espansive esso si riduce meno facilmente: infatti, il livello occupazionale rimane più o meno costante, anche a causa delle ristrutturazioni tecnologiche ed organizzative di tipo laboursaving. La persistenza di una disoccupazione elevata riscontrata in Europa (come rilevato a proposito dell’“eurosclerosi”) trova quindi in questa teoria un’altra spiegazione esauriente. Negli anni ’90, la recessione o lenta crescita erano anche causate dalle politiche macroeconomiche (fiscali e monetarie) restrittive conseguenti alla “strategia di Maastricht” (cfr. cap. 16); ma la disoccupazione restava elevata anche nelle fasi di ripresa per i fenomeni di persistenza. Tendenze analoghe si sono riscontrate in diversi paesi UE nell’ultimo decennio (dopo le lunghe crisi e ripetute recessioni). Le politiche economiche necessarie per contrastare l’isteresi della disoccupazione dovrebbero invece adottare un mix appropriato, ossia agire a due livelli: (i) politiche macroeconomiche espansive per evitare profonde e prolungate recessioni; ossia occorre contrastare gli aumenti della “disoccupazione ciclica” poiché una parte di essa si traduce prima o poi in maggiore “disoccupazione strutturale”; (ii) politiche attive del lavoro ed altre politiche strutturali, per evitare che la disoccupazione diventi di lunga durata ed accrescere l’occupabilità dei disoccupati.

6.7. Costo del lavoro, salari e produttività Secondo le teorie neoclassiche la disoccupazione può essere causata da livelli salariali eccessivi (cfr. par. 6.5). Pur essendo molte altre le cause della disoccupazione – come illustrato finora in questo capitolo – è indubbio che in un’economia globalizzata la competitività internazionale di un Paese dipende anche dai suoi costi di produzione, a cominciare dal costo del lavoro (nel cap. 12 vedremo quali altri elementi sono in gioco). A questo punto bisogna però essere più precisi circa le variabili in discussione, distinguendo tra: 1. il salario netto per il lavoratore (quanto riceve in busta paga); 2. il salario o retribuzione lorda 65 per il lavoratore, incluse le imposte ed i contributi sociali a suo carico; 3. il costo del lavoro per l’impresa, incluse le imposte ed i contributi sociali a carico della stessa. La differenza tra il terzo ed il primo elemento è il cosiddetto cuneo fiscale e contributivo (o più semplicemente “cuneo fiscale”). In certi paesi assume valori particolarmente alti: ad 64 In questo contesto, fenomeni perversi di tipo sociale (povertà, malattie, abbandoni dell’istruzione, analfabetismo, alienazione, diffusione delle attività sommerse, illegali e perfino criminali) possono escludere per sempre dal mercato del lavoro una parte non trascurabile della popolazione (i figli dei disoccupati hanno maggiori probabilità di diventare outsider essi stessi). 65 Negli scritti di economia si usa quasi sempre il termine “salario” (wage), sebbene il termine più corretto sarebbe “retribuzione” (anche perché per convenzione si usa chiamare salario la retribuzione degli operai e stipendio quella di impiegati e dirigenti).

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esempio, in Italia il suo valore medio è di poco inferiore al 50% del costo del lavoro. Gli effetti negativi sono vari: ad esempio un cuneo eccessivo costituisce un ostacolo alle assunzioni oppure un incentivo al ricorso al “lavoro irregolare” o all’economia sommersa. Inoltre, nei modelli di crescita si mostra che elevate imposte sul lavoro deprimono la crescita economica. Infine l’effetto sulla competitività internazionale delle produzioni nazionali è forse quello più rilevante; in effetti si parla di svalutazione fiscale quando un Paese fa concorrenza agli altri riducendo la pressione fiscale – in particolare quella sul lavoro e sulle imprese – soprattutto quando sono precluse altre vie per guadagnare competitività, ad esempio la svalutazione del tasso di cambio 66. Vi è però un altro elemento, ancor più importante, di cui tener conto: è il rapporto tra costo del lavoro e produttività. Se indichiamo con CL il costo del lavoro complessivo (ossia quello del punto 3 dell’elenco precedente) e con Q il prodotto – riferiti ad una singola impresa od anche ad un intero Paese – possiamo chiamare clup il rapporto tra le due variabili, ossia il costo del lavoro per unità di prodotto. Essendo questa una frazione, possiamo dividere numeratore e denominatore per N (occupati), ottenendo: clup = CL/Q = (CL/N)/(Q/N) = w/q dove w è il salario lordo (incluso il cuneo fiscale e contributivo) di ciascun lavoratore e q la sua produttività, ossia il prodotto medio del lavoro (dell’impresa o del Paese). Quindi il clup (definito in inglese unit labour cost) è il salario (lordo, cioè inteso come costo del lavoro) in rapporto alla produttività. È evidente che esso scende non solo quando diminuiscono i salari ma anche quando aumenta la produttività del lavoro; per avere un clup decrescente, nonostante una dinamica salariale positiva, basta che la produttività aumenti di più rispetto ai salari. Esso è un indicatore semplice ma estremamente importante del “grado di competitività”, tanto a livello microeconomico quanto a livello macro. Normalmente, la crescita salariale dovrebbe trovare un limite nella crescita della produttività del lavoro, non solo per evitare di perdere competitività ma anche per scongiurare conseguenze negative sui prezzi e sull’inflazione 67. In definitiva, un Paese che voglia mantenere o riguadagnare competitività deve seguire una o più delle seguenti strade, quando non può svalutare la moneta nazionale (per esempio all’interno dell’Eurozona): – comprimere la dinamica salariale, attuando una “svalutazione interna” (come verificatosi in alcuni paesi europei nell’ultima crisi: cfr. cap. 19); questa strada è però spesso considerata iniqua e può condurre a condizioni di deflazione, oltre a danneggiare i consumi aggravando la recessione o stagnazione 68; – contenere i costi non salariali, a cominciare dal cuneo fiscale e contributivo: è un percorso auspicabile (purché gli equilibri dei conti pubblici lo permettano); – rilanciare la dinamica della produttività: è la soluzione preferibile (per quanto difficile da realizzare in tempi brevi), da attuare attraverso il progresso tecnico, la ricerca e le innova66 Questo è il caso dei paesi dell’Eurozona. Il Paese più attivo per attrarre investimenti diretti esteri (IDE) con questi mezzi è stato l’Irlanda. In altri casi (come quello del Lussemburgo) si è invece cercato di attrarre capitali soprattutto finanziari. 67 È questa la ricetta della “politica dei redditi” (cfr. cap. 8). Tuttavia, occorre anche verificare fino a che punto la crescita dei salari possa essa stessa favorire la crescita della produttività, come sostenuto dalla teoria dei salari di efficienza (par. 6.6). 68 È quello che è successo in diversi paesi periferici dell’Eurozona a seguito delle politiche di austerità per far fronte alla crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 19).

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zioni, l’innalzamento del capitale umano, e così via; questa strada rappresenta la “via alta” alla competizione internazionale e coincide con quella che è stata definita “flessibilità innovativa” (cfr. capp. 14 e 21). L’Italia – come vedremo meglio nel cap. 20 – ha perso competitività dagli anni 2000 non per una forte dinamica salariale (anzi i salari sono aumentati nettamente meno che in Germania o in altri paesi), ma per una produttività del lavoro stagnante 69. Comunque, anche nella competizione globale l’Italia non può competere con i paesi emergenti in base al costo del lavoro, magari abbassando anche le condizioni lavorative e le tutele dei lavoratori nazionali, ma solo innovando, specializzandosi in produzioni alla frontiera tecnologia e sostenendo così la crescita della produttività.

6.8. L’evoluzione delle istituzioni del mercato del lavoro Il ruolo delle istituzioni del mercato del lavoro è fondamentale nel determinare la sua performance – in aggiunta ai diversi shock che possono colpire l’economia – se è vero che almeno due terzi delle variazioni della disoccupazione non ciclica sono spiegate da mutamenti nelle politiche e nelle istituzioni (OECD, 2006) 70. Le argomentazioni relative all’eurosclerosi (par. 6.5) sono certamente fondate, ma possono essere meglio precisate e completate, sulla base di altre considerazioni, che da un lato sottolineano la presenza di realtà diversificate e mutevoli nel tempo anche in Europa e dall’altro lato rigettano l’esistenza di un unico modello istituzionale “ottimale”. Grazie alle riforme del mercato del lavoro ed all’introduzione di una crescente flessibilità (cfr. cap. 21), i regimi istituzionali sono stati modificati anche in gran parte dell’Europa o stanno mutando molto velocemente: il grado di sindacalizzazione è diminuito; i sussidi di disoccupazione sono stati ritoccati, rendendo meno importanti gli automatismi; la EPL è stata allentata e si è molto sviluppata la flessibilità in entrata 71. La stessa performance complessiva del mercato del lavoro è ora alquanto diversificata e varia da paese a paese 72: non si può più contrapporre un modello “europeo” ad un modello statunitense. Riguardo ai modelli istituzionali, almeno cinque 73 gruppi di paesi possono essere identificati (con riferimento alle caratteristiche del mercato del lavoro ma più in generale anche della struttura economica, dei sistemi di welfare ed educativi): i. i paesi anglosassoni, che hanno seguito un approccio maggiormente liberista (più vicino 69 Fenomeno preoccupante perché all’interno dell’Eurozona l’Italia ha perso la sovranità monetaria e del tasso di cambio. Inoltre solo negli ultimi anni si è cominciato a ridurre il cuneo fiscale e contributivo (riduzione della tassazione Irap, decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, etc.). 70 Anche recenti ricerche empiriche hanno trovato che, in aggiunta alla crescita economica e ad una proxy generica della “economic freedom”, le riforme del mercato del lavoro, le politiche attive del lavoro e l’incidenza del lavoro part-time sono tra le variabili più significative nella spiegazione dei tassi di disoccupazione (cfr. CHOUDHRY et al., 2013). 71 Per esempio grazie alla diffusione dei lavori atipici, molto importanti in Spagna ed in Italia dagli anni 2000 (soprattutto nella forma di contratti a termine) e in Olanda (nella forma di contratti part-time). 72 In paesi come l’Italia è perfino molto disomogenea anche tra le diverse regioni, specie tra il Mezzogiorno e le altre aree del paese. 73 La classificazione originaria comprendeva tre o quattro gruppi (si veda ESPING, ANDERSEN, 1990 e 1999; BLAU, KAHN, 1999; EICHENGREEN, IVERSEN, 1999). L’ingresso dei “nuovi paesi membri” dell’Europa dell’Est, avvenuto nell’UE negli anni 2000, ha fatto estendere la classificazione iniziale. Si veda anche CAROLEO, PASTORE (2007).

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ii.

iii.

iv.

v.

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al modello statunitense), tale per cui si creano molte opportunità occupazionali ma durante le crisi la disoccupazione sale rapidamente (sebbene con un minor grado di persistenza); i paesi scandinavi (con l’aggiunta dell’Olanda), in cui i lavoratori sono garantiti soprattutto attraverso il welfare state e tramite il modello della flexicurity (discusso tra breve); l’Europa continentale 74, caratterizzata da industrie altamente efficienti e da un sostegno ai processi di transizione dei giovani dalla scuola (ove è presente un sistema d’istruzione di tipo “duale”) 75 al lavoro; l’Europa mediterranea, in cui prevale un mercato del lavoro dualistico, con robuste tutele del lavoro nel mercato primario (ossia per gli occupati a tempo indeterminato, di solito coincidenti con i capofamiglia) e tutele molto minori per i lavoratori con contratti atipici (di norma utilizzati per i giovani nuovi entranti nel mercato del lavoro); un welfare di tipo famigliare si sostituisce spesso a quello statale (anche per sostenere i giovani disoccupati o con lavori precari); i Nuovi Membri dell’Europa centro-orientale, in genere caratterizzati da economie abbastanza dinamiche (che stanno realizzando il catching-up), da ampia flessibilità del mercato del lavoro e da sistemi di welfare embrionali o in fase di sviluppo.

Si noti che ulteriori liberalizzazioni sono probabili nei paesi ancora un po’ rigidi, ma una completa flessibilità 76 potrebbe far crescere i posti di lavoro, ma al costo di una più iniqua distribuzione del reddito. Soprattutto dopo shock di notevole entità, una completa flessibilità potrebbe comportare aggiustamenti lunghi e dolorosi, in assenza di adeguate reti di protezione. Il dibattito si è anche incentrato sulla qualità (da molti ritenuta scarsa) dei nuovi posti di lavoro creati nei paesi più flessibili, come gli Usa, e sui corrispondenti livelli salariali. Dagli anni ’80, una contrazione dei salari reali si è in effetti verificata tra i lavoratori meno qualificati degli Usa. In Europa, invece, il “progresso tecnico distorto” (che comporta una minore domanda di lavoratori unskilled) e la globalizzazione (concorrenza dei paesi emergenti con basso costo del lavoro, delocalizzazioni, immigrazione, etc.) si sono riflessi meno sulla dinamica salariale (essendo i salari piuttosto rigidi) e più sui tassi di disoccupazione. In Europa, non mancano nemmeno eccezioni al trade-off tra elevata occupazione e soddisfacenti livelli di equità, sociale e distributiva. Già dagli anni ’50 si erano sottolineati i pregi del regime neocorporativo (peculiarità dei paesi scandinavi o della stessa Germania dove era importante la concertazione tra le parti sociali), in cui si ritrovava spesso bassa disoccupazione ed elevata eguaglianza contemporaneamente. Più recentemente è stato studiato il caso della Danimarca, poi estesosi ad altri paesi del Nord Europa, in cui si cerca di coniugare un’adegua74 La Germania, che all’inizio del nuovo secolo aveva ancora elevati tassi di disoccupazione, ha introdotto nel 2003-05 le riforme Hartz, riguardanti il costo del lavoro, i sussidi di disoccupazione, semplificazione delle regole (favorendo anche i cosiddetti “mini-job”), etc.; secondo i critici ribaltando il precedente modello neocorporativo di relazioni industriali. È un dato di fatto che nell’ultimo decennio la disoccupazione è continuamente diminuita, perfino negli anni di crisi. 75 Tale sistema (contrapposto al sistema “sequenziale” dell’Italia e di altri paesi) prevede un ruolo importante per la formazione all’interno delle imprese già durante i percorsi scolastici; inoltre l’apprendistato è molto sviluppato. 76 Alcune cautele nei confronti dell’efficacia delle misure di flessibilità, specie quella salariale, sono state espresse da alcuni economisti, come FREEMAN (1995). Gli effetti dipendono comunque dall’aggregato di riferimento: mentre i cambiamenti nella EPL hanno conseguenze ambigue sul tasso di disoccupazione totale, hanno un maggior effetto su quello dei giovani.

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ta flessibilità (anche “in uscita”) per le imprese con una sufficiente sicurezza per il lavoratore: è la cosiddetta flexicurity. In questi paesi, la tutela del lavoratore non è “sul posto di lavoro” (on the job), ma piuttosto è garantita “nel mercato” (in the market). Il lavoratore può essere licenziato, ma trova facilmente un nuovo impiego grazie ad efficaci politiche attive del lavoro ed efficienti servizi per l’impiego; inoltre adeguati ammortizzatori sociali (sussidi di disoccupazione) permettono una vita dignitosa durante la ricerca di un nuovo lavoro 77. È un regime possibilmente da imitare, sebbene i costi per le finanze pubbliche possano essere molto elevati. Le riforme più urgenti, soprattutto dopo la doppia crisi che ha colpito i paesi europei, con l’innalzamento dei tassi di disoccupazione – specie giovanili – a livelli mai visti prima, implicano un complesso insieme di interventi che comprendono non solo maggiori flessibilità (ove ancora necessario) ma soprattutto riforme dei servizi per l’impiego, dei sistemi d’istruzione e formazione, delle strutture che facilitano la transizione dalla scuola/università al mondo del lavoro 78. E senza dimenticare che si riescono davvero a creare molti posti di lavoro solo se l’economia nel suo complesso cresce a ritmi adeguati (come illustrato all’inizio di questo capitolo).

77 Nell’approccio del welfare-to-work, le garanzie del Welfare State devono essere mantenute, ma volte alla piena valorizzazione delle risorse umane (ossia all’occupabilità dei disoccupati). 78 In assenza dei quali c’è un rischio concreto di una “lost generation”, come ammonito da SCARPETTA (2010). Si veda anche CHOUDHRY et al. (2012), PASTORE (2014) e CAROLEO et al. (2018).

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7

I monetaristi ed il dibattito sulle politiche di stabilizzazione

7.1. La scuola monetarista ed il dibattito con i keynesiani L’economia keynesiana, già pochi anni dopo la pubblicazione della “Teoria Generale” di Keynes, venne a costituire la nuova ortodossia, perlomeno in campo macroeconomico ed almeno con riferimento al “compromesso” operato dalla sintesi neoclassica, come già precisato nel cap. 4. Ad un numero consistente e via via crescente di economisti, tale compromesso non parve tuttavia sufficiente a salvaguardare la sostanza della tradizione classica pre-keynesiana. Erano questi gli economisti della cosiddetta scuola “monetarista”, che portarono un attacco frontale alla nuova ortodossia keynesiana: si è anche parlato di controrivoluzione monetarista. Il maggior esponente indiscusso di questa nuova scuola è M. Friedman (dell’Università di Chicago) 1. Le prime opere importanti della scuola monetarista comparvero negli anni ’50, un deciso sviluppo delle sue teorie si ebbe negli anni ’60 (quando M. Friedman era peraltro considerato ancora un eretico), ma solo negli anni ’70 essa cominciò a porsi come vera e propria alternativa all’ormai consolidata tradizione keynesiana anche sul piano delle azioni di politica economica. Il fondamento reale sottostante al rafforzamento delle nuove teorie monetariste giaceva in realtà anche nella crescente ingovernabilità dei sistemi economici, in seguito a numerosi eventi esogeni, tra i quali i noti shock d’offerta degli anni ’70, che ponevano nuove ed apparentemente insuperabili difficoltà (come l’accrescersi dell’inflazione ed ancor più la comparsa della stagflazione) alle politiche economiche di stampo keynesiano. I monetaristi (in particolare FRIEDMAN, SCHWARTZ, 1963) vanno peraltro ben indietro nel corso della storia, nel tentativo di fornire una nuova spiegazione di accadimenti empirici precedenti anche consolidati, ad esempio fornendo una reinterpretazione della stessa Grande Depressione in cui viene posta un’enfasi particolare sul ruolo dei fattori monetari (cfr. par. 4.3). All’inizio, all'incirca negli anni ’50, non era però ancora ben evidente la meta finale del cammino appena intrapreso e buona parte del dibattito tra monetaristi e keynesiani verteva sul problema dell’efficacia relativa della politica monetaria e di quella fiscale, ammesso che il sistema economico si trovi in condizioni di non piena occupazione. La discussione attorno all’efficacia delle principali politiche di stabilizzazione si sovrapponeva, in parte, a quella relativa all’esistenza, nel sistema di mercato, di eventuali forze automatiche di riequilibrio, che consentissero la convergenza spontanea (ossia in assenza di qualsivoglia politica) verso l’equilibrio di piena occupazione. Le controversie nascevano soprattutto a causa dell’assunzione di ipotesi contrapposte, che identificavano alcuni casi estremi ben noti in letteratura, circa specifiche funzioni di comportamento e conseguentemente la forma delle curve rilevanti nella rappre1 Essa

annovera altri noti economisti come K. Brunner, A. Meltzer, A. Schwartz, D. Laidler.

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sentazione grafica del sistema macroeconomico (inizialmente il modello IS-LM) 2. Questo dibattito iniziale, basato sulle ipotesi “estreme” di completa inefficacia della politica monetaria piuttosto che di quella fiscale, ha in seguito lasciato il posto a problemi di specificazioni di funzioni di comportamento e di stima empirica di tali funzioni. Già negli anni ’60 si poteva notare una sostanziale convergenza tra le due scuole verso un modello “IS-LM” standard, in cui – rigettate le ipotesi estreme – il problema diveniva quello della maggiore o minore elasticità e stabilità delle suddette curve: un problema sostanzialmente empirico di stima econometrica dei parametri. Il risultato finale dell’analisi, teorica ed empirica, della “controrivoluzione monetarista” (soprattutto a seguito dell’attacco di Friedman alla curva di Phillips keynesiana: cfr. cap. 8) fu piuttosto quello di precisare e delimitare – coerentemente con la propria visione filosofica e la profonda fede nelle forze del mercato – la portata delle politiche economiche di tipo keynesiano, soprattutto sulla base di un’attenta considerazione delle caratteristiche dell’equilibrio macroeconomico di lungo periodo, derivate dalla teoria dell’equilibrio generale walrasiano. La distinzione tra equilibri temporanei di breve periodo (in cui prevalgono risultati di tipo keynesiano) ed equilibri di lungo periodo (di tipo classico), distinzione già abbozzata dagli autori della sintesi neoclassica, viene dai monetaristi portata alle estreme conseguenze. Inoltre, si tendeva – per quanto riguarda gli obiettivi delle politiche economiche – ad enfatizzare il problema del controllo dei prezzi, anche rispetto al reddito reale 3. Il dibattito tra monetaristi e keynesiani sulle politiche di stabilizzazione è stato ovviamente influenzato dalle differenti visioni teoriche circa il funzionamento dei sistemi macroeconomici, in gran parte derivanti dai difformi giudizi di valore. A questo riguardo, si afferma spesso che gli economisti del filone keynesiano manifestano una predisposizione a priori favorevole all’intervento dello Stato nell'economia, mentre i monetaristi partono da un'impostazione in principio liberista 4. Gli unici interventi ritenuti opportuni dai monetaristi sono quelli a favore dell’efficienza, della concorrenza dei mercati, di un miglioramento dei flussi informativi (pur essendo auspicati, nello stesso tempo, rigorosi controlli del credito). Tra keynesiani e monetaristi si possono riscontrare difformità anche sul piano metodologico e concettuale: in primo luogo, a proposito dell’orizzonte temporale di riferimento. Infatti, i monetaristi prediligono un’analisi di lungo periodo (mostrando un basso “tasso di preferenza temporale”); la stessa capacità predittiva di una teoria dovrebbe essere giudicata, secondo Friedman, nel lungo periodo. I keynesiani 5 preferiscono concentrare l’attenzione su un’analisi di breve periodo (“nel lungo periodo saremo tutti morti”, è la famosa frase di Keynes ricordata più volte). L’equilibrio di lungo periodo, essendo veramente “lungo” in termini di “tempo storico”, può al massimo rivestire un interesse teorico, ma è di scarsa rilevanza pratica 6. 2 In realtà, il modello hicksiano IS-LM era all’inizio considerato un buon punto di partenza per l’analisi macroeconomica; successivamente fu sottoposto a varie critiche da parte dei monetaristi. 3 Cfr. STEIN (1976) e LAIDLER (1981). 4 Le posizioni più nette a favore del laissez-faire si ritrovano nel cosiddetto “monetarismo politico”, pure ben rappresentato dalla posizione di M. Friedman, nonché nei filoni monetaristi più vicini alla “supply-side economics”. Altri filoni teorici che sono stati avvicinati a questa posizione dei monetaristi sono quelli di alcuni esponenti della scuola “neoaustriaca”, come VON HAYEK (1948) e, ancor più, Machlup, entrambi sostenitori di un’ideologia ultraliberale, partendo da un'impostazione che si rifà alle precedenti opere di von Mises. 5 Come pure i post-keynesiani (come esplicitamente riconosciuto dalla stessa J. Robinson). 6 Occorre peraltro aggiungere che gli aspetti principali del messaggio keynesiano, come le spiegazioni relative alla carenza di domanda effettiva oppure la non neutralità della moneta permangono anche nel lungo periodo (nel secondo caso citato anche attraverso l'impatto duraturo della moneta sull’accumulazione del capitale).

I monetaristi ed il dibattito sulle politiche di stabilizzazione

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Le difformità concernenti il rilevante orizzonte temporale si riflettono sul modo di considerare l’equilibrio macroeconomico 7. È noto che per i monetaristi, come già per gli economisti classici pre-keynesiani, l’equilibrio naturale (di piena occupazione) è la situazione normale. Gli stessi economisti keynesiani aderenti alla sintesi neoclassica si avvicinano ad una tale impostazione, considerando le deviazioni dall’equilibrio naturale dei fenomeni temporanei nella fase di aggiustamento verso il medio periodo (come nel tradizionale modello AD-AS) oppure dei “casi speciali”, dovuti ad esempio alla presenza di rigidità di prezzi o salari. I due aspetti precedenti, orizzonte temporale di riferimento e caratteristiche delle posizioni di equilibrio, sono connessi alle proprietà auto-equilibranti di un sistema economico di libero mercato. Infatti, per i monetaristi il sistema economico è in grado di autoregolarsi, ossia di convergere verso l’equilibrio anche in assenza di interventi pubblici di stabilizzazione (o, per essere più precisi, se il sistema economico privato non è intralciato da rigidità e dalle stesse politiche pubbliche). Anche nei confronti della stabilità del sistema di libero mercato, l’orientamento dei monetaristi è piuttosto ottimista: il sistema economico privato è considerato intrinsecamente stabile, pur in presenza di shock che possono temporaneamente allontanarlo dalla posizione di equilibrio (anche se shock molto ampi sono poco frequenti). La stabilità deriva anche dalle ipotesi specificamente adottate in relazione a numerose funzioni di comportamento 8. Secondo i keynesiani, invece, una tale possibilità può essere preclusa per uno o più dei seguenti motivi: (i) rigidità di prezzi o salari od altre frizioni all’aggiustamento; (ii) imperfezioni di mercato, incluso lo sfruttamento di potere monopolistico di mercato o di posizioni di rendita, da parte delle imprese o di altri agenti economici; (iii) assenza di forze riequilibranti (carenza di domanda effettiva), limitatezza delle informazioni e problemi di coordinamento. Inoltre, anche ammesso che il sistema economico di libero mercato sia in grado di autoregolarsi (“quando il temporale è passato l'oceano è di nuovo tranquillo” è un’altra frase famosa di Keynes), i tempi implicati dal processo di riequilibrio potrebbero essere troppo lunghi ed i corrispondenti costi d’aggiustamento troppo pesanti. Infine, molti economisti keynesiani, specialmente quelli appartenenti al filone post-keynesiano 9, ritengono il sistema economico privato altamente instabile, in particolare per l’incertezza che caratterizza il comportamento degli agenti e quindi diverse funzioni di comportamento, specie quelle degli investimenti e della domanda di moneta. I keynesiani della sintesi neoclassica assumono una posizione intermedia: l’economia è stabile nel medio/lungo periodo, ma i processi di aggiustamento possono essere lunghi e turbolenti. La relativa stabilità del sistema economico capitalistico riscontrata nell’ultimo dopoguerra 7 Secondo l’interpretazione di F.A. Lutz, è l'atteggiamento a priori degli economisti keynesiani, favorevole all’interventismo statale, che li orienta verso un’analisi di breve periodo (si veda PREDETTI, 1992); al contrario, gli economisti classici (ed in seguito i monetaristi), contrari in principio all’interventismo, si concentrano su un’analisi di lungo periodo. È così ribaltato il nesso di causalità tradizionale, che (come indicato nel testo) va dall’orizzonte temporale e dal metodo di analisi adottato alle conclusioni di politica economica. 8 Ad esempio, l’adozione del concetto di reddito permanente stabilizza i consumi (che al contrario sono caratterizzati da una propensione al consumo piuttosto bassa e molto instabile rispetto al reddito corrente) e la domanda di moneta; l’anelasticità di quest’ultima rispetto al tasso d’interesse è pure stabilizzante (in presenza di shock sulla domanda aggregata); l’annuncio delle politiche economiche riduce l’incertezza degli operatori, etc. 9 Secondo lo stesso Keynes, l’economia capitalistica non è caratterizzata da un notevole grado di instabilità: ma ciò solamente in quanto è esclusa la possibilità che essa giunga al collasso; tuttavia, non è affatto rigettata l’eventualità che essa mostri severe fluttuazioni cicliche e che possa restare anche a lungo in una situazione cronica di sotto-utilizzazione delle risorse (stagnazione).

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ed il fatto che si sia evitato il collasso (a parte alcuni dubbi sorti dopo la Grande Recessione del 2008-09) sono attribuiti dagli economisti keynesiani proprio agli effetti benefici delle politiche economiche keynesiane, miranti a mantenere il reddito attorno a livello di piena occupazione ed a stabilizzarlo nei confronti di ampie perturbazioni.

7.2. I casi keynesiani estremi Il primo dibattito tra keynesiani e monetaristi, risalente agli anni ’50 del Novecento, si riferiva a situazioni estreme in cui o la politica monetaria oppure quella fiscale fossero completamente inefficaci. I due casi di completa inefficacia della politica monetaria, individuati dagli economisti keynesiani, ipotizzano che il meccanismo keynesiano di trasmissione monetaria (Ms → i → I → Y) si interrompa o al primo stadio (Ms → i) oppure al secondo (i → I). Illustriamo prima la seconda eventualità. Caso (a): nel caso degli investimenti insensibili al tasso d'interesse (per cui non agisce i → I), evidenziato soprattutto dagli economisti post-keynesiani 10, la curva IS diviene verticale (come nella parte a della Fig. 7.1) 11 ed una politica monetaria espansiva (un aumento dell’offerta di moneta che fa spostare verso destra la curva LM, sino a LM) riduce sì il tasso d’interesse (da i0 a i1), ma non accresce il reddito d’equilibrio (fermo a Y0). Quest’evenienza può presentarsi quando le altre determinanti degli investimenti (livello dei profitti, domanda attesa, fiducia degli imprenditori e “animal spirit”, grado di utilizzo degli impianti, etc.) sono molto più importanti che non il tasso d'interesse. Caso (b): nell’eventualità in cui il tasso d’interesse sia insensibile all’offerta di moneta, il meccanismo di trasmissione monetaria si inceppa ad uno stadio ancora precedente rispetto a quello del caso (a) sopra considerato (ora non agisce Ms → i). Quest’evenienza può ad esempio manifestarsi nel noto caso della trappola della liquidità 12, per cui il tasso d’interesse nominale è nullo 13 o comunque ad un livello così basso (come i0 nella parte b della Fig. 7.1) che non può scendere ulteriormente 14, qualunque cosa accada all’offerta di moneta (essendo la domanda di moneta infinitamente elastica rispetto al tasso d’interesse) e la curva LM diviene orizzontale nel tratto rilevante. Situazioni di trappola della liquidità si sono presentate negli anni ’30 ai tempi della Grande Depressione, negli anni ’90 in Giappone (la “sindrome giapponese” è consistita in un lungo periodo di recessione e deflazione) e recentemente nell’Eurozo10 I quali minimizzano il ruolo dell’“efficienza marginale del capitale” nella determinazione degli investimenti ed enfatizzano l’altro concetto di Keynes attinente agli animal spirits (che inducono gli agenti a prendere decisioni – ad esempio di investimento – soprattutto sulla base delle loro aspettative). 11 Analiticamente il caso si presenta quando il parametro che lega gli investimenti al tasso d’interesse è nullo (d = 0) (cfr. par. 1.3). 12 Considerata da J. Hicks il “caso keynesiano” (e da allora così impropriamente definito nella letteratura). 13 Il caso più semplice da spiegare, in cui può sorgere la “trappola della liquidità”, è quello del tasso d’interesse nominale nullo. Tuttavia, come spiegato nel testo (e nella nota successiva), questo caso estremo può sorgere anche con un tasso d’interesse basso ma non nullo. 14 Infatti, il sistema privato preferisce già detenere, in una tale evenienza (ad esempio quando il tasso d’interesse è poco sopra lo zero), tutte le proprie attività in moneta, essendo il suo costo-opportunità comunque basso e poiché le generalizzate aspettative di un rialzo del tasso d’interesse, anche in base all’esperienza storica (essendo importante il suo livello normale o “convenzionale”), scoraggiano (per il rischio di probabili perdite in conto capitale) l’investimento in titoli nell’immediato. Pertanto tutte le scorte di moneta rimangono inattive, anche a seguito di espansioni dell’offerta di moneta, nessuno investe in titoli, il cui prezzo non sale e quindi il tasso d’interesse non scende.

I monetaristi ed il dibattito sulle politiche di stabilizzazione

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na, ove i tassi d’interesse hanno raggiunto praticamente lo zero e la Bce ha dovuto adottare misure “non convenzionali” anche per arginare i rischi di deflazione (cfr. cap. 17). Figura 7.1. – I casi keynesiani estremi (b)

(a) i

IS

LM

LM 

i LM

i0

LM 

IS  IS

i1

i0 Y0

Y

Y0

Y1



Y

In situazioni di depressione, la contemporanea comparsa di deflazione fa sì che i tassi d’interesse reali (r) possano essere positivi ed anche elevati, nonostante tassi d’interesse nominali vicini allo zero (vale la relazione di Fisher: r = i − e, con e < 0), per cui non fungono da stimolo alla ripresa, poiché gli investimenti e la spesa aggregata dipendono soprattutto dai tassi reali. Nei due casi estremi sopra considerati, in cui rispettivamente gli agenti non rispondono ai segnali di prezzo oppure gli stessi segnali sono assenti (poiché un prezzo particolare, il tasso d’interesse, è rigido) non solo la politica monetaria diviene completamente inefficace, ma nel sistema vengono meno meccanismi automatici di riequilibrio, che tenderebbero spontaneamente (anche in assenza di politiche) a riportarlo verso l’equilibrio di piena occupazione. Secondo la teoria neoclassica, quando vi è disoccupazione ed il reddito è più basso del livello di piena occupazione 15, in situazioni normali (quando le curva IS-LM hanno le solite inclinazioni come nella Fig. 1.2) la disoccupazione potrebbe far scendere i salari, ove questi siano pienamente flessibili, poi i prezzi e quindi far salire la quantità reale di moneta (M/P), riducendo così il tasso d’interesse grazie allo spostamento della curva LM verso l’esterno ed inducendo un aumento degli investimenti. Questo meccanismo di riequilibrio automatico è noto in letteratura come effetto Keynes: al diminuire del livello dei prezzi, aumenta la quantità reale di moneta – senza che la banca centrale aumenti l’offerta nominale di moneta (ecco perché si 15 Ad esempio, per una caduta dell’efficienza marginale del capitale (a causa di un’ondata di pessimismo tra gli imprenditori) oppure per una carenza di consumo autonomo, fenomeno noto in letteratura come “paradosso del risparmio” o “della parsimonia” (inizialmente individuato nella tradizione classica da R. Malthus e da J.A. Hobson), secondo cui il risparmio, che è riconosciuto essere una virtù privata, diviene un vizio pubblico, poiché mantiene bassa la domanda aggregata (nella componente principale che è la spesa in beni di consumo).

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parla di “meccanismo automatico”) – e quindi cresce automaticamente la domanda aggregata 16. Tuttavia, nel caso di “trappola della liquidità” l’aumento della quantità reale di moneta non ha alcun effetto sul tratto orizzontale della curva LM, ossia non fa variare il tasso d’interesse, e quindi il sistema rimane “intrappolato” ad un livello di reddito come Y0 della Fig. 7.1.b (ben al di sotto del reddito di piena occupazione come Y^) 17. L’unica via d’uscita è costituita dalla politica fiscale, secondo gli economisti keynesiani, che proprio per l’enfasi posta sull’efficacia di questa politica, prendendo anche spunto dall’opinione dello stesso Keynes 18, erano definiti in passato fiscalisti (o “non monetaristi”) 19. In particolare, una politica fiscale espansiva, ad esempio una politica di lavori pubblici, è in grado di far spostare la curva IS verso destra (ad esempio in IS nella Fig. 7.1.b), riportando il sistema verso la piena occupazione. Si aggiunga che è proprio quando la curva LM è orizzontale che la politica fiscale acquisisce la massima efficacia: in tal caso, agisce infatti il moltiplicatore keynesiano pieno, senza alcuna retroazione monetaria (ossia senza alcun rialzo del tasso d’interesse ed i conseguenti effetti negativi sulla domanda aggregata). Già su questo punto della “trappola della liquidità”, gli economisti monetaristi hanno prospettato soluzioni differenti e, rifacendosi alla tradizione classica (con prezzi e salari flessibili), hanno cercato di individuare altri meccanismi automatici di riequilibrio (alternativi all’“effetto Keynes” appena illustrato) anche in tale evenienza. La principale forza di riequilibrio è rintracciata nel noto effetto Pigou (od effetto delle scorte monetarie o dei saldi liquidi reali, ovvero real balance effect): la caduta del livello dei prezzi porta infatti ad un aumento del valore reale dei saldi liquidi (M/P) e, più in generale, della ricchezza finanziaria delle famiglie e, per questa via, dei consumi 20. Quindi vi sarà uno spostamento verso destra della curva IS (verso IS sempre nella Fig. 7.1.b); il riequilibrio sarebbe così spontaneo ed efficace (anche in situazioni di trappola della liquidità per cui né la curva LM né il tasso d’interesse possono modificarsi) e prescinde da interventi di politica economica. La controrisposta degli economisti keynesiani all’“effetto Pigou” si è concentrata non solo sul lungo periodo temporale plausibilmente richiesto per il suo compimento, ma anche su altri effetti, che possono agire in controtendenza ad esso, ad esempio: 16 In effetti esso è normalmente incorporato nella curva di domanda aggregata (AD) inclinata negativamente (cfr. cap. 1). 17 Pertanto, nel caso della trappola della liquidità, la deflazione non avrebbe conseguenze positive per ricondurre il sistema alla piena occupazione: è questa l’“economia della depressione”, secondo la terminologia di J. Hicks. 18 Ci si riferisce alle argomentazioni di Keynes rivolte contro la Treasury view del Governo inglese (sostenuta da economisti come R.G. Hawtrey), opinione secondo cui era importante mantenere una linea di laisserfaire, nonostante la crescente disoccupazione (soprattutto per il timore che un’espansione della spesa pubblica potesse provocare uno spiazzamento di quella privata). Va peraltro aggiunto che diversi economisti classici contemporanei a Keynes non escludevano, ben prima della pubblicazione della “Teoria Generale”, la possibilità di utilizzare la spesa pubblica per combattere la disoccupazione, purché nella salvaguardia del bilancio in pareggio: lo stesso A.C. Pigou considerava una politica di lavori pubblici una valida soluzione per i problemi della disoccupazione (in contrasto con la visione ortodossa che suggeriva tagli salariali). 19 L’appellativo di “fiscalisti” è stato però rigettato da economisti keynesiani come J. Tobin, sin dalla fine degli anni ’60. 20 L’effetto delle scorte monetarie reali è da tenere distinto rispetto al caso più generale degli “effetti ricchezza”: infatti il primo tipo di effetti agisce attraverso la deflazione. Più in dettaglio, se i consumi delle famiglie dipendono anche dalla ricchezza finanziaria (Ω), in termini reali (quindi da dividere per P), ossia sono rappresentabili come C(Ω/P, Y, ...), l’effetto ricchezza agisce attraverso variazioni del numeratore del rapporto esprimente la ricchezza reale (ossia ΔΩ), mentre l’effetto Pigou opera a causa delle variazioni nel livello dei prezzi (ΔP); in quest’ultimo tipo di effetto, inoltre, la ricchezza è generalmente fatta coincidere con la quantità di moneta (ossia Ω = M).

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– l’effetto aspettative, secondo cui la deflazione e le aspettative di ulteriore diminuzione del livello dei prezzi fanno rinviare gli acquisti, deprimendo così la domanda aggregata corrente; – l’effetto redistributivo: la deflazione favorisce i creditori (e quindi probabilmente quelle categorie di consumatori caratterizzate da una propensione al consumo più bassa) a scapito dei debitori e di gran parte dei consumatori. Per tutti questi motivi, i meccanismi automatici di riequilibrio sono considerati, dagli economisti keynesiani, perlomeno deboli e lenti nel loro operare: un aiuto che venga dalle autorità di politica economica, in particolare tramite una politica fiscale espansiva, è perciò visto con favore.

7.3. Il caso monetarista estremo e la teoria quantitativa della moneta Il caso estremo opposto (rispetto a quello di LM orizzontale) è considerato dai monetaristi al fine di minimizzare il ruolo della politica fiscale. Essi partono infatti dall’ipotesi “classica” di una domanda di moneta anelastica rispetto al tasso d'interesse 21. In questo caso, come mostra la Fig. 7.2, la curva LM diviene verticale ed una qualunque politica fiscale espansiva (che faccia ad esempio spostare la IS a IS) causa solamente un rialzo del tasso d’interesse, lasciando immutato il reddito al livello iniziale (Y0). Ciò che si verifica nel sistema è che l’innalzamento del tasso d’interesse riduce gli investimenti di un ammontare esattamente pari all’incremento della spesa pubblica: è questo il noto effetto di “spiazzamento” o crowding-out totale. A differenza del caso normale, in cui la LM è positivamente inclinata (cfr. par. 2.1), lo spiazzamento è completo e quindi la politica fiscale completamente inefficace. Figura 7.2. – Il caso monetarista estremo i

LM

i1 i0 IS  IS Y0

Y

Nella stessa situazione di LM verticale, la politica monetaria acquisisce, all'opposto, la massima efficacia (se aumenta MS, nel grafico la curva LM verticale si sposterebbe a destra, 21 Questo caso si verifica quando il parametro che lega la domanda di moneta al tasso d’interesse è nullo (f = 0) (cfr. cap. 1).

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facendo aumentare il reddito). Inoltre, una curva LM verticale (o quasi) stabilizza il reddito, a fronte di perturbazioni di tipo reale (che ad esempio inducano uno spostamento della curva IS): è anche partendo da queste considerazioni che si rafforza la conclusione monetarista secondo cui il sistema economico è intrinsecamente stabile. L’anelasticità della domanda di moneta al tasso d’interesse, ipotizzata dai monetaristi, discende dall’accettazione di una teoria monetaria differente da quella proposta da Keynes, il quale aveva innovato profondamente, introducendo il concetto di “preferenza per la liquidità” (cfr. par. 4.2). Secondo questa teoria keyenesiana, è opportuno distinguere tra i motivi fondamentali per detenere moneta: (i) motivo transattivo, (ii) motivo speculativo, (iii) motivo precauzionale. Ebbene la domanda di moneta (Md) per tutti e tre i motivi, ma soprattutto per il secondo, viene a dipendere dal tasso d’interesse. Ecco perché la domanda reale di moneta è fatta dipendere sia dal reddito sia dal tasso d’interesse (cfr. par. 1.3): [7.1] Md/P = f (Y, i) Da questo punto di vista, è opportuno ribadire che il tasso d'interesse è per Keynes un fenomeno monetario, essendo il prezzo che uguaglia in equilibrio domanda ed offerta di moneta (Md = Ms) 22. Nella sintesi neoclassica, peraltro, il tasso d’interesse diviene un fenomeno congiuntamente reale e monetario, essendo determinato da forze reali (sottostanti alla curva IS) e da forze monetarie (rappresentate dalla curva LM). Anche per questo motivo, pertanto, la “dicotomia classica” viene meno. Una domanda di moneta del tipo [7.1], accettata quindi dai keynesiani (cfr. cap. 1), è invece rigetta dai monetaristi. FRIEDMAN (1956, 1959), riprende infatti la tradizione classica prekeynesiana, in particolare la teoria quantitativa della moneta 23 basata sulla “equazione quantitativa degli scambi”, che esplicita il motivo transattivo per detenere moneta: [7.2] MV=PY in cui M è la quantità di moneta, V la sua velocità di circolazione (cioè il numero di volte in cui è scambiata ciascuna unità di moneta nell’unità di tempo, ad esempio in un anno) 24, P il livello medio dei prezzi, Y è il reddito reale 25. L’ipotesi cruciale della teoria quantitativa si riferisce alla velocità di circolazione della moneta (V), generalmente posta uguale ad una costante. Da quest’ipotesi discende immediatamente che ogni variazione dell’offerta di moneta (M) si riflette in modo diretto e proporzionale sul reddito monetario (PY). Posto inoltre che anche il reddito reale sia fissato al livello “normale” di piena occupazione, ossia anche Y sia una costante come è necessariamente vero per 22 Diversamente dalla visione classica pre-keynesiana (in seguito ripresa dai monetaristi), secondo cui il tasso d’interesse è un fenomeno reale, essendo determinato dall’uguaglianza tra risparmi ed investimenti (S = I), quindi dalle preferenze intertemporali dei risparmiatori e dalla produttività del capitale. 23 Per questo i monetaristi sono pure definiti neo-quantitativisti. Per l’equazione degli scambi, si veda I. FISHER (1911). 24 Un esempio numerico chiarirà meglio il significato dell’equazione. Se il reddito nominale (PY) è pari a 1.000 miliardi di euro, occorrerà uno stock di moneta (M) pari a 1.000 miliardi di euro (banconote, monete metalliche, etc.) quando la velocità di circolazione è unitaria (V = 1); se quest’ultima raddoppia (V = 2), basterà uno stock di moneta pari alla metà (M = 500) per effettuare le stesse transazioni; se aumenta ancora (V = 4), sarà sufficiente uno stock ancora inferiore (M = 250), e così via. 25 Per la precisione, in luogo di Y dovrebbe comparire nell’equazione [7.2] la variabile Q, ovvero il volume complessivo di transazioni nell’economia, anche di tipo indiretto (ossia comprendente non solo le vendite alla domanda finale, ma anche le vendite intermedie) ed incluse le transazioni finanziarie. Pertanto, Q è una grandezza sicuramente superiore ad Y; si può comunque sostituire con quest’ultima, ipotizzando una relazione stabile tra Q ed Y.

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i monetaristi almeno nel lungo periodo, allora ogni variazione di M influenza necessariamente e solamente P (che varia proporzionalmente). Da qui, la doppia conclusione monetarista che l’inflazione è causata essenzialmente da fattori monetari e che la stessa moneta non ha alcun effetto reale: la moneta è neutrale, almeno nel lungo periodo 26. Per FRIEDMAN (1968), comunque, la moneta è “tutto ciò che conta”, per i suoi effetti di breve sul reddito reale 27 e di lungo periodo sul livello dei prezzi. Infatti, in ogni caso, il reddito nominale risulta variato, sia nel breve sia nel lungo periodo: la considerazione della teoria quantitativa come teoria del reddito nominale è stata esplicitamente accolta dallo stesso FRIEDMAN (1970). Il problema cruciale sta nell’interpretazione di V come costante “tecnica” oppure come espressione della “propensione” a detenere moneta 28. I monetaristi ipotizzano una relazione stabile tra saldi reali (M/P) e reddito reale (la stabilità è stata anche attribuita ai lenti mutamenti nella tecnologia delle transazioni e nelle abitudini degli individui), mentre per i keynesiani, non solo la velocità di circolazione dovrebbe dipendere dal tasso d’interesse, ma in ogni caso la domanda di moneta è caratterizzata da una notevole instabilità, a causa dell'incertezza che sovrasta le decisioni economiche e della presenza di fattori anche psicologici.

7.4. La politica monetaria, secondo keynesiani e monetaristi Nel corso del tempo, monetaristi e keynesiani – perlomeno con riferimento alla teoria delle scelte di portafoglio proposta da questi ultimi (TOBIN, 1958) – hanno manifestato una convergenza verso una specificazione per la domanda di moneta del seguente tipo: [7.3] Md = f (Y, , , ib, il ...) in cui le determinanti della domanda di moneta (preferibilmente espressa in termini reali) sono molteplici: il reddito (Y); la ricchezza , inclusi i titoli e, per i monetaristi, anche la ricchezza reale; il tasso d'inflazione ; i tassi d'interesse, distinguendo i keynesiani tra tassi d’interesse a breve (ib) ed a lungo (il) termine. Anche i monetaristi hanno quindi riconosciuto, in un secondo tempo, un’elasticità positiva (anche se bassa) della domanda di moneta rispetto al tasso d’interesse, allontanandosi dalla versione estrema della teoria quantitativa. Inoltre, anche per loro, la teoria quantitativa implica una relazione veramente stabile solamente nel lungo termine (nel breve la velocità di circolazione può variare ciclicamente). È proprio l’imprevedibilità della relazione di breve periodo che sconsiglia l’uso discrezionale della politica monetaria. Tra monetaristi e keynesiani sono comunque rimaste notevoli differenze non solo riguardo ai valori numerici dei parametri stimati, ma anche riguardo alla maggiore o minore stabilità della velocità di circolazione della moneta; instabilità messa in relazione dai keynesiani con gli 26 Lo stesso I. Fisher si riferiva però agli “effetti ultimi e permanenti”, mentre riconosceva la possibilità di fluttuazioni economiche reali durante il processo di transizione verso l’equilibrio finale (anche a causa delle diverse velocità di aggiustamento di prezzi e salari nei vari mercati). 27 Si aggiunga che gli effetti reali di breve periodo possono derivare, in presenza di un’offerta di moneta costante, anche da uno shock sulla domanda aggregata, che altera contemporaneamente i valori di V e di Y. 28 Infatti, già molto prima di Friedman, alcuni economisti pre-keynesiani (tra cui A.C. Pigou e D.H. Robertson, con anticipazioni dello stesso A. Marshall) formularono la nota equazione di Cambridge, che può scriversi come segue: M/P = k Y; in essa però il reddito non necessariamente coincide con il reddito di piena occupazione ed il fattore di proporzionalità tra saldi monetari reali e reddito reale (k), sebbene corrisponda all’inverso della velocità di circolazione della moneta, rappresenta la frazione di reddito che gli individui “desiderano” detenere sotto forma di scorte liquide. Quest’ultima equazione rappresenta pertanto una funzione di domanda di moneta, piuttosto che una teoria dei prezzi, invertendo il nesso di causalità della teoria quantitativa.

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specifici aggregati monetari-finanziari (dalla base monetaria al credito) di riferimento. Una caduta nella velocità di circolazione pare ad esempio avere caratterizzato l’economia dei paesi avanzati nei primi anni ’80, anche a seguito dei processi di deregolamentazione (come l’autorizzazione al pagamento di interessi espliciti sui depositi) e dell’introduzione di numerose innovazioni tecniche (che hanno migliorato l’efficienza nel sistema dei pagamenti) ed istituzionali. Ciò ha indotto i ricercatori a prendere in considerazione nuovi aggregati monetari ritenuti più “stabili” rispetto ai precedenti. Comunque, l’instabilità era attribuita dai monetaristi all’erraticità dell’offerta di moneta: da qui, il suggerimento alle autorità di politica economica di attenersi a delle regole nell’espansione di tali aggregati. I keynesiani, al contrario, considerando l’instabilità generata dalla domanda di moneta, ritenevano che fosse il tasso d’interesse l’obiettivo monetario da sottoporre a controllo, al fine di stabilizzare il reddito reale. Riguardo all’efficacia della politica monetaria ai fini di stabilizzazione, gli economisti keynesiani, pur rigettando l’ipotesi di neutralità della moneta, si mostravano ancora scettici – anche senza considerare i casi estremi – circa la piena efficacia della politica monetaria, per uno o più dei seguenti motivi: 1. per i lunghi ritardi connessi al pieno svolgimento del meccanismo di trasmissione monetaria, che può essere rappresentato nel seguente modo: Ms  ib rb  rl  I  Y; si noti che l’offerta di moneta influenza direttamente i tassi d’interesse nominali a breve (ib) mentre gli investimenti dipendono dai tassi d’interesse reali a lungo (rl) e che questi ultimi sono correlati non solo ai tassi d’interesse reali a breve (rb, date le aspettative d’inflazione), ma anche ai tassi a breve futuri attesi; 2. per l’eventualità di inceppamenti dello stesso meccanismo: anche escludendo il caso limite della trappola della liquidità, è sempre plausibile ipotizzare una scarsa elasticità degli investimenti (o in genere della domanda aggregata) rispetto al tasso d’interesse; 3. per il manifestarsi di probabili asimmetrie di effetti; la medesima politica monetaria può infatti esercitare difformi effetti, a seconda: (i) della fase ciclica: mentre una politica restrittiva è generalmente in grado di ridurre il livello degli investimenti e frenare un boom eccessivo con effetti inflazionistici, una politica espansiva non necessariamente riesce a farli aumentare ed a rilanciare l’economia (quando le aspettative di domanda sono negative, il grado di utilizzo degli impianti piuttosto basso, etc.) 29; (ii) del settore di riferimento: ad esempio il comparto dell’edilizia è più sensibile di altri alle variazioni del tasso d’interesse; (iii) delle dimensioni d’impresa (con un effetto ritenuto maggiore sulle piccole imprese) 30; (iv) delle condizioni strutturali dei mercati reali e soprattutto finanziari, incluse le differenti propensioni degli agenti: ad esempio, la politica monetaria si ritiene tanto più efficace quanto maggiore è il grado di intermediazione bancaria (ossia minore il finanziamento diretto delle imprese, mediante l’emissioni di azioni ed obbligazioni) e quanto minore è il grado di autofinanziamento delle stesse imprese (ossia attraverso i profitti non distribuiti); 4. per la più o meno elevata capacità dell’autorità monetaria di controllare effettivamente 29 A volte la politica monetaria è paragonata ad una corda, che può stringere ed al limite “strozzare” (un’economia surriscaldata), ma non può “spingere” (ad esempio una ripresa). 30 E ciò, sia per problemi di asimmetria informativa, sia perché le piccole e medie imprese (PMI) più difficilmente possono autofinanziarsi o emettere prestiti obbligazionari, dovendo invece ricorrere al credito bancario (soprattutto per espandere in maniera rilevante la propria capacità produttiva con nuovi investimenti). Le PMI, che in Italia “pesano” molto più rispetto a tutti gli altri paesi sviluppati, sono quelle che hanno subito maggiormente il credit crunch dopo la crisi del 2008-09 (anche per le minori garanzie patrimoniali che possono solitamente fornire alle banche finanziatrici).

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l’offerta di moneta 31; inoltre, la disponibilità di credito assume, in aggiunta al tasso d’interesse, un ruolo importante nel meccanismo di trasmissione della politica monetaria; 5. per l’elevata instabilità della domanda di moneta: al riguardo, i keynesiani 32 hanno sempre rigettato l’ipotesi di una relazione stabile con il reddito, giudicando pertanto scarsamente prevedibile la risposta del settore privato a variazioni nell’offerta di moneta. Altre cautele nei confronti della politica monetaria sono state avanzate dai keynesiani a causa dei seguenti problemi: (i) quale aggregato monetario va tenuto sotto controllo? (dato che esistono diverse definizioni di moneta e nessuna definizione si è rivelata decisamente migliore rispetto alle altre); (ii) è davvero significativo il legame tra crescita monetaria ed inflazione? (nel cap. 10 illustreremo le principali evidenze empiriche); (iii) la velocità di circolazione della moneta è indubbiamente divenuta più instabile nel tempo (come osservato poc’anzi). Conseguentemente, la politica monetaria era considerata dai keynesiani all’inizio in modo “passivo” (ossia da adeguare all’evoluzione della domanda) e spesso ausiliaria rispetto alla politica fiscale. Una politica monetaria espansiva, utilizzata congiuntamente a quella fiscale al fine di stabilizzare i tassi d’interesse, elimina infatti l’effetto spiazzamento (cfr. par. 2.1 e Fig. 2.1). Una politica monetaria “accomodante” di questo tipo sarebbe, tra l’altro, il risultato automatico di un finanziamento monetario del disavanzo pubblico. I monetaristi preferiscono invece, come già anticipato, quali obiettivi intermedi della politica monetaria variabili di quantità (come la quantità di moneta) piuttosto che di prezzo 33. Questi obiettivi di quantità sono ritenuti preferibili soprattutto in un’ottica di lungo periodo, perché il rischio di un’elevata inflazione sarebbe maggiore se l’obiettivo intermedio fosse quello della stabilizzazione del tasso d’interesse nominale, che implica un accomodamento dell’offerta di moneta, rispetto ad ogni variazione della domanda di moneta ed anche del livello dei prezzi (FRIEDMAN, 1968). L’aumento dell’offerta di moneta causa maggior inflazione, riduce le scorte liquide reali e quindi fa salire (anziché scendere) i tassi d’interesse; questo effetto può essere rafforzato dall’agire delle aspettative: pertanto, è probabile che le autorità non riescano a stabilizzare il tasso d’interesse nemmeno se questo fosse il loro obiettivo. Il ruolo delle aspettative si evidenzia nella relazione di I. FISHER (1911), secondo cui il tasso d’interesse reale di medio/lungo periodo 34 è invariante rispetto a variazioni del tasso d’inflazione atteso (e), riflettendosi quest’ultimo in modo proporzionale sui tassi d’interesse nominali; ossia: i = rn + e È importante sottolineare gli opposti risultati di breve e medio/lungo periodo conseguenti ad una politica monetaria espansiva: (i) nel breve periodo essa fa scendere i tassi d’interesse 31 Frequentemente ipotizzata come endogena dagli economisti keynesiani (vedi ad esempio TOBIN, 1970) e post-keynesiani. 32 Già per Keynes la “preferenza per la liquidità” era una delle funzioni di comportamento più instabili, specie nella sua componente speculativa. 33 Dal punto di vista delle politiche economiche concrete, un primo cambiamento significativo in tal senso, ossia tendente all’adozione di obiettivi monetari di quantità, si ebbe nel 1979 sotto la presidenza di Volcker alla Federal Reserve; le conseguenze di una tale politica si ebbero già nei primi anni ’80, con forti aumenti nei tassi d’interesse nominali e reali (mentre questi ultimi erano stati addirittura negativi in alcuni paesi per buona parte degli anni ’70) e con un’accresciuta variabilità degli stessi tassi. 34 Determinato, secondo la visione classica, dalle forze reali della propensione al risparmio e della produttività del capitale. Un semplice modo di derivare questo tasso d’interesse naturale (rn) è quello di riferirsi all’equilibrio del mercato dei beni allorché il reddito è fissato al suo livello naturale (Yn), ossia, nel caso semplice di un’economia chiusa: C + I(rn) + G = Yn (dove rn è l’incognita).

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nominali (come risulta nel modello IS-LM standard, spostando all’esterno la curva LM); (ii) nel medio periodo tale politica espansiva, causando maggiore inflazione (anche attesa), fa salire i tassi d’interesse nominali. In definitiva, la moneta è importante oppure no per i monetaristi? Il dubbio viene per il fatto che sono proprio loro (e non Keynes: cfr. cap. 4) a sostenere la tesi di neutralità della moneta. Ebbene, il giudizio complessivo dei monetaristi circa l’efficacia della politica monetaria può essere così sintetizzato: – l’ipotesi di neutralità della moneta regge solo nel lungo periodo, essendo nulli i suoi effetti reali 35; – sempre nel lungo periodo, però, il controllo dell’offerta di moneta è importante proprio per la stabilità monetaria ed il controllo dell’inflazione; – infine, nel breve periodo i monetaristi assegnano alla politica monetaria un ruolo maggiore di quello riconosciuto dai keynesiani: money matters, secondo FRIEDMAN (1956 e 1969), con effetti reali anche prolungati nel tempo 36 e tuttavia con ritardi variabili. Diversità tra le due scuole riguardano comunque la natura degli effetti reali di breve termine di una politica monetaria espansiva. Per i keynesiani tali effetti derivano dal noto meccanismo di trasmissione di tipo indiretto, ossia agisce attraverso le modificazioni del tasso d'interesse (Ms  i  I) 37. Invece per i monetaristi discendevano da altri meccanismi: (i) inizialmente l’effetto delle scorte monetarie reali 38; (ii) nelle analisi successive i processi di sostituzione, sia tra moneta e titoli, sia direttamente tra moneta e beni. Decisioni di spesa, anche in beni di consumo, e scelte di portafoglio sono strettamente interrelate nella visione monetarista (se si riduce M gli individui cercano di procurarsi mezzi liquidi anche riducendo la spesa in beni di consumo C). È quindi importante vedere come la politica monetaria influenza tutti i prezzi relativi delle diverse attività (finanziarie e reali) 39 e come modifica il valore della ricchezza reale. Solo i monetaristi (FRIEDMAN, 1970) ammettono quindi una sostituibilità diretta tra moneta 40 e beni reali nel portafoglio dei consumatori (beni reali quali beni capitali e beni di consu35 La neutralità della moneta implica, a livello microeconomico, l’assenza di fenomeni di illusione monetaria e la non inclusione della stessa moneta nella funzione d’utilità degli agenti (JOHNSON, 1962). La moneta si definisce addirittura superneutrale, se il reddito reale è insensibile non solo ad una variazione della quantità di moneta, ma anche al tasso di crescita, continuo nel tempo, della stessa quantità (la quale provoca effetti solamente sul tasso d’inflazione nel lungo periodo). 36 Ritardi stimati pari ad almeno due anni, secondo gli studi di FRIEDMAN, SCHWARTZ (1963). L’efficacia della politica monetaria è accresciuta dall’ipotesi di costanza della velocità di circolazione della moneta, ovvero di stabilità della domanda di moneta e del moltiplicatore monetario (BRUNNER, MELTZER, 1964). 37 All’inizio si pensava che soltanto gli investimenti delle imprese fossero sensibili al tasso d’interesse, in un secondo tempo sono stati analizzati anche gli effetti sulle decisioni delle famiglie riguardo alle abitazioni ed agli acquisti di beni durevoli. 38 Si aggiunga che la scomparsa degli effetti reali nel lungo periodo, che pur sono presenti (anche per i monetaristi) nel breve a seguito di una politica monetaria espansiva o di uno shock sulla domanda aggregata, è dovuta al fatto che l’effetto delle scorte monetarie opera in senso inverso: al crescere dell’inflazione, si riducono i saldi liquidi reali, comprimendo i consumi e la domanda aggregata, sino a quando il reddito torna al livello “naturale”, pur con un livello di prezzi maggiore. 39 Un altro importante canale di trasmissione considerato dai monetaristi agisce attraverso le variazioni nel rapporto q (inizialmente considerato da J. Tobin nella sua teoria dell'investimento, del 1969): ossia il rapporto tra il valore di mercato azionario delle imprese ed il costo di rimpiazzo del capitale; quando questo rapporto è alto, gli investimenti risultano incentivati. Ebbene, i monetaristi sostengono che una riduzione nell’offerta di moneta fa diminuire la domanda di azioni (sempre al fine di procurarsi mezzi liquidi) e quindi, riducendo q, scoraggia gli investimenti. 40 Inoltre i monetaristi tendono generalmente a definire in modo preciso l’offerta di moneta (coincidente

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mo durevole), mentre i keynesiani ricorrono a meccanismi indiretti di trasmissione della politica monetaria sul sistema reale, quelli che agiscono attraverso il tasso d’interesse. Per questi ultimi, il tasso d’interesse è una variabile cruciale nel meccanismo di trasmissione monetaria, al contrario i primi ritengono che esso sia soltanto uno dei molti prezzi relativi che si vengono a modificare. I monetaristi inoltre non negano l’esistenza di tutti quei problemi ed asimmetrie evidenziate dai keynesiani circa l’efficacia della politica monetaria nel breve termine, ma ne sminuiscono la portata effettiva. Nell’analisi, sono altresì incorporati certi effetti inizialmente trascurati dai keynesiani, come gli effetti ricchezza (cfr. par. 7.6). È inoltre curioso che proprio i monetaristi evidenzino talune asimmetrie della politica monetaria, come quelle di natura ciclica: infatti, se è vero che un aumento della quantità di moneta esercita plausibilmente i suoi effetti più sui prezzi che sul reddito reale, mentre l’opposto si verifica nel caso di una riduzione della suddetta quantità, allora ne deriva che una politica monetaria espansiva adottata in presenza di una recessione può creare inflazione (senza eliminare la recessione o ridurre la disoccupazione) ed invece una politica monetaria restrittiva, ad esempio un'improvvisa “stretta” monetaria e creditizia, adottata in un contesto inflazionistico può nel breve termine ridurre il reddito piuttosto che i prezzi: in queste evenienze, sarebbe la stessa politica monetaria una causa della “stagflazione”. In definitiva, anche secondo i monetaristi occorrono molte precauzioni nelle manovre di politica monetaria, specie se utilizzate in modo discrezionale, poiché, pur essendo la domanda di moneta sufficientemente stabile, è l’instabilità ed erraticità dell’offerta di moneta la causa principale delle fluttuazioni cicliche.

7.5. La politica fiscale, secondo keynesiani e monetaristi La scuola keynesiana ha continuato a riservare un’attenzione particolare alla politica fiscale, sia perché è l’unica politica efficace in situazioni di profonda depressione (come sostenuto dallo stesso Keynes: cfr. cap. 2), sia per i casi estremi già discussi (all’inizio di questo capitolo). Ulteriori precisazioni sono però opportune. I keynesiani tendono generalmente a svolgere un’analisi disaggregata degli effetti sul reddito della spesa pubblica (come pure delle imposte), con il considerare ad esempio i moltiplicatori delle singole voci delle uscite correnti (quali consumi pubblici, stipendi, pensioni, altri trasferimenti), degli investimenti pubblici, e così via. Le evidenze empiriche mostrano ad esempio che il moltiplicatore della spesa per investimenti è significativamente maggiore di quello della spesa pubblica corrente. Da questo punto di vista, la politica fiscale può essere manovrata, a differenza di quella monetaria, in modo più selettivo, tenuto conto delle strozzature produttive, delle capacità inutilizzate, degli specifici squilibri sui singoli mercati (a livello settoriale, territoriale, etc.), nonché dei suoi effetti diretti ed indiretti. Gli effetti disaggregati della spesa riguardano non solo la struttura della produzione – e la sua ripartizione tra settore pubblico e settore privato – ma anche gli effetti sulla distribuzione del reddito (ancora più consistenti se si esaminano contemporaneamente le conseguenze della tassazione). Per quanto riguarda la posizione dei monetaristi, a parte la considerazione di cause specifiche di inefficacia della politica fiscale, come ad esempio gli effetti spiazzamento e ricchezza oppure l’ipotesi avanzata di un relativamente basso ed instabile moltiplicatore del reddito reale per lo più con la moneta legale e con i depositi bancari), mentre i keynesiani si riferiscono ad un concetto più generico ma più onnicomprensivo di liquidità (in cui la stessa offerta di moneta può endogenamente aggiustarsi in seguito a variazioni della domanda di moneta).

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(allorché sia keynesianamente riferito al reddito corrente piuttosto che al reddito permanente), l’impostazione generale è quella – pur tralasciando anche in questo caso i casi estremi – che accomuna la politica fiscale a tutte le altre politiche di stabilizzazione: ossia, gli unici eventuali effetti reali sono quelli di breve periodo, mentre nel medio/lungo periodo gli effetti concernono esclusivamente il livello dei prezzi. Per la precisione, occorrerebbe però aggiungere che, nel lungo andare, non si esplica nessun effetto “aggregato dal lato della domanda”. In primo luogo, nessun effetto reale “aggregato”, poiché – dato il reddito fissato al livello naturale (Yn) – non sono da escludere effetti disaggregati, in particolare effetti di ricomposizione della domanda aggregata, come risulta dalla seguente semplice relazione: Yn = C + I + G = 0 relazione da cui discende, partendo da un G > 0, considerato che Yn = 0 per definizione e che la variazione dei consumi è pure probabilmente nulla (essendo i consumi fissati in corrispondenza del reddito naturale), una compensazione tra aumento della spesa pubblica e diminuzione degli investimenti (G = − I), proprio a causa dell’effetto di spiazzamento 41. Questo tipo di spiazzamento di medio periodo, definito talvolta fisico (o “da offerta”), dipende da effetti diretti di sostituzione nella produzione di beni 42 ovvero dalla retroazione sul settore reale del mutamento dei prezzi 43. Questi effetti reali di ricomposizione della domanda sono, come è abbastanza chiaro, visti con sfavore dai monetaristi, anche per le loro interrelazioni con la composizione dell’offerta: e questa è la seconda importante qualificazione circa le conseguenze di lungo periodo della politica fiscale. È infatti probabile che il livello del reddito sia addirittura una funzione inversa della spesa pubblica (per cui Yn < 0 quando G > 0), in quanto verrebbe a ridursi lo stesso reddito naturale (si veda la discussione sulla “supply-side economics” nel cap. 5). Da questo punto di vista, l’espansione del bilancio pubblico può essere inflazionistica, anche se il bilancio viene mantenuto in pareggio (quindi non solo per l’eventuale finanziamento monetario dei disavanzi). La politica di bilancio può causare inflazione non solo attraverso i citati effetti dal lato dell’offerta, ma anche attraverso canali più diretti: dal lato della domanda a seguito di variazioni della spesa pubblica e dal lato dei costi in occasione di aumenti d’imposte 44. Inoltre, la stessa inflazione può retroagire sul livello del disavanzo: i meccanismi di feedback dall’inflazione al disavanzo pubblico sono alquanto vari e comprendono, ad esempio, l’indicizzazione di alcune voci di spesa (come le retribuzioni dei pubblici dipendenti o certi trasferimenti come le pensioni), la crescita dei tassi nominali d’interesse e quindi la spesa per gli interessi sul debito, ed altri ancora 45. 41 Questi effetti reali sulla composizione della spesa aggregata fanno sì che nel caso della politica fiscale non si possa sostenere una tesi analoga alla “neutralità della moneta”, che nel medio/lungo periodo ha effetti sui prezzi ma nessun effetto reale (cfr. cap. 1). 42 Inoltre, uno spiazzamento diretto della spesa privata si verifica quando questa è un “sostituto” di quella pubblica (come nel caso di molti servizi pubblici). 43 È infatti l’aumento dei prezzi, conseguente alla politica fiscale espansiva ed all’eccesso di domanda aggregata che si viene a creare, che – come precisato poc’anzi – riduce la quantità reale di moneta e spinge quindi la curva LM verso l’alto (sino ad incrociare la curva IS in corrispondenza del reddito di piena occupazione). 44 Mentre le imposte indirette (come l’IVA) ed i contributi sociali hanno un impatto diretto sui prezzi di vendita e sui costi di produzione (e quindi sui prezzi), nel caso delle imposte dirette sui redditi da lavoro è a volte ipotizzata (ed in certi casi verificata empiricamente) una traslazione delle imposte sui datori di lavoro (con conseguente aumento del costo del lavoro anche in questo caso). 45 Ad esempio, l’effetto Tanzi-Olivera, particolarmente rilevante nei casi di iperinflazione (cfr. cap. 8).

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Occorre tuttavia aggiungere che, per quanto riguarda gli effetti dal lato dell’offerta, non è escluso che la spesa pubblica possa esercitare, almeno in teoria, effetti positivi sull’offerta aggregata, se è rivolta a fini produttivi o comunque all’innalzamento del livello di efficienza dei mercati 46. Ad esempio, sia i monetaristi sia i keynesiani concordano sulla possibilità che una politica di investimenti pubblici, volta all’accumulazione di capitale infrastrutturale, sociale, umano od anche direttamente produttivo, accresca le potenzialità di offerta del sistema 47. In definitiva, il problema non riguarda solo il livello, più o meno elevato della spesa pubblica, con i conseguenti effetti sui disavanzi, ma anche la sua composizione. A questo proposito, si auspicano spesso azioni di riqualificazione della spesa pubblica, sia nel senso di una ricomposizione a favore delle componenti in conto capitale (rispetto a quelle correnti) ed in particolare degli investimenti pubblici, sia in termini di accresciuta qualità dell'intervento pubblico, di sua efficienza ed efficacia, etc. Si può aggiungere che taluni economisti keynesiani concordano con la visione, prevalentemente monetarista, circa la scarsa flessibilità della spesa pubblica, specialmente verso il basso, in molte situazioni reali. Essa infatti continua spesso ad aumentare, sia per esplicite decisioni di spesa, sia a causa di meccanismi inerziali di vario tipo, ad esempio derivanti da programmi pluriennali di spesa. Una volta introdotta una certa legislazione, è spesso difficile correggere gli automatismi 48 che causano un gonfiamento progressivo delle uscite. La scarsa controllabilità dei flussi di spesa può anche derivare dalle dimensioni dei trasferimenti agli enti decentrati del settore pubblico (enti locali, enti previdenziali ed assistenziali, aziende autonome, etc.). In certi casi, non è nemmeno garantita la piena e tempestiva flessibilità della spesa pubblica verso l’alto, a causa delle lungaggini del processo decisionale-burocratico e, più in generale, della presenza dei “ritardi interni” di politica economica (cfr. par. 7.7). Sono questi meccanismi automatici, congiuntamente a vincoli di tipo politico, sociale e burocratico, che determinano l’irreversibilità della spesa pubblica, irrigidendo l’intera politica di bilancio (soprattutto dal punto di vista della stabilizzazione). Un altro problema indagato, soprattutto nei filoni neoliberisti (cfr. cap. 5), è quello di ulteriori asimmetrie che possono verificarsi, con evidenti effetti sull’espansione del settore pubblico, ad esempio: – l’aumento della spesa pubblica (specie quella di trasferimento) è lo strumento più tipicamente impiegato nel caso delle politiche fiscali espansive; – l’incremento delle imposte (invece che la riduzione della spesa) è invece di solito l’intervento preferito in occasione di politiche fiscali restrittive 49. Un’ultima questione concerne le modalità di finanziamento. Gli effetti della politica fiscale, non solo sull’inflazione (come osservato poc’anzi) ma anche sul reddito, dipendono da come viene finanziata. Su questa questione ci soffermeremo in particolare nel cap. 11. Qui anti46 Il problema consiste quindi nell’accertare il livello di efficienza della spesa pubblica e, nel caso in cui quest’ultima sia produttiva, confrontare i suoi effetti con le conseguenze disincentivanti della tassazione. 47 La stessa affermazione può essere fatta, più in generale, per molti interventi sull’offerta e di tipo “strutturale”, specie se si limitano a rendere più efficiente il funzionamento del mercato, piuttosto che sostituirsi ad esso o vincolarlo inutilmente (cfr. cap. 5). 48 Per esempio, dopo aver stabilito un certo miglioramento, in termini di prestazioni e di benefici unitari, nell’ambito della spesa pensionistica o sanitaria o scolastica, l’evoluzione futura delle uscite dipende anche dalla crescita della popolazione “utente”, ovvero dei beneficiari. 49 È questo per esempio il risultato della rassegna empirica di ALESINA e PEROTTI (1995a), rivolta allo studio dell’andamento della politica fiscale nei paesi Ocse per il periodo 1965-1990. Secondo loro gli “aggiustamenti” fiscali hanno avuto successo solo quando sono coincisi con un taglio della spesa o dei trasferimenti (oltre che dei pubblici dipendenti), piuttosto che con aumenti di imposte (o riduzioni dei soli investimenti pubblici).

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cipiamo che nel breve periodo il finanziamento con titoli costituisce una facile alternativa al finanziamento con imposte: al beneficio immediato (spesa pubblica) non corrisponde un costo immediato (in termini di imposte) per la collettività; in certe situazioni può essere una soluzione efficiente ed inoltre, se la spesa pubblica è produttiva, come nel caso degli investimenti pubblici, essa stessa genera – attraverso l’espansione del reddito nazionale – le possibilità di finanziamento futuro. Ovviamente nel lungo periodo si pone un problema di sostenibilità del debito pubblico; ma già nel medio periodo la considerazione degli effetti ricchezza sulla domanda di moneta potrebbe rafforzare gli effetti spiazzamento.

7.6. Moneta, titoli e ricchezza La ricchezza è un concetto importante che può influenzare diversi tipi di comportamenti ed equilibri macroeconomici. Per esempio, nella teoria del consumo di F. Modigliani, detta del “ciclo vitale” (che ha dei punti di contatto con la teoria alternativa del “reddito permanente” di M. Friedman), i consumi delle famiglie vengono a dipendere dalla loro ricchezza oltre che dal loro reddito disponibile 50. Nel cap. 11 vedremo che la ricchezza di un paese può essere rilevante per giudicare la “sostenibilità finanziaria” del suo debito pubblico. Definiamo ora come ricchezza () la somma delle seguenti componenti: moneta (M), che in questo contesto funge da riserva di valore piuttosto che mezzo di scambio; altre attività finanziarie chiamate per semplicità “titoli” (B); attività reali (K), comprendenti diversi tipi di capitale fisico (fabbriche e stabilimenti, impianti produttivi, scorte di merci, immobili, abitazioni, terreni, etc.), ma che possono essere rappresentate dal valore delle “azioni”; altri tipi di ricchezza, come il capitale fisso sociale (infrastrutture di trasporto, scuole, ospedali, etc.), il capitale umano (stimabile attraverso il valore attuale dei redditi futuri da lavoro), le risorse naturali. Se ora tralasciamo per semplicità le ultime componenti (come le risorse naturali e il capitale umano, difficilmente misurabili) e concentriamo l’attenzione sul solo settore privato dell’economia, possiamo limitarci a considerare le prime tre componenti (al lordo di eventuali passività finanziarie): =M+B+K Ora è importante esaminare come si possano aggregare le diverse attività fra di loro. Ricordiamo che, empiricamente, la convenzione usuale considera mercati monetari quelli comprendenti gli aggregati più liquidi e mercati finanziari quelli attinenti ai titoli pubblici (per esempio in Italia i Bot, i Btp ed altri titoli) ed alle obbligazioni ed azioni private. Queste distinzioni sono importanti anche per la politica economica, ad esempio in tema di vigilanza, bisogna decidere se è opportuno limitare i controlli alle banche (aziende di credito) oppure estenderli all’intero sistema finanziario (inclusi gli altri intermediari finanziari) 51. In ogni caso, molti economisti 52 sono disposti a riconoscere le numerose sovrapposizioni esistenti tra economia monetaria ed economia finanziaria, anche per la comparsa di numerose attività finanziarie “sostitute” della moneta. 50 Si rammenta che mentre il reddito (Y) è analiticamente un concetto di flusso, la ricchezza () è uno stock (il primo è misurato in un intervallo di tempo, ad esempio un anno, il secondo in un istante di tempo, per esempio il 1° gennaio di ogni anno). Analogamente gli investimenti (I) sono una variabile flusso ed il capitale (K) lo stock corrispondente. 51 Ciò riguarda anche gli svariati strumenti finanziari, inclusi quelli che si sono sviluppati in modo dirompente negli anni 2000: si pensi ai “derivati”, incluse le “cartolarizzazioni” (che contenevano al loro interno titoli “tossici” come i subprime) o ad alcuni fondi che sfuggivano ad ogni attività di vigilanza, come gli hedge funds (cfr. cap. 19). 52 Si vedano i saggi raccolti in FRIEDMAN, HAHN (1990).

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A livello teorico, i monetaristi hanno in genere preferito distinguere il settore bancario dal resto dell’economia (aggregando titoli ed attività reali), mentre la maggior parte dei keynesiani (vedi ad esempio TOBIN, 1961) hanno optato per una distinzione fra settore finanziario (aggregando moneta e titoli) e settore reale 53. Il tipo di aggregazione della ricchezza può essere rilevante per esaminare gli effetti di una politica fiscale. Per esempio, nel caso di un disavanzo pubblico finanziato con titoli possono determinarsi nel medio periodo “effetti ricchezza” che si aggiungono ai tradizionali “effetti spiazzamento”. Infatti, innanzi tutto il rialzo del tasso d’interesse determina uno “spiazzamento” o crowdingout della domanda aggregata, in particolare degli investimenti privati, denominato spiazzamento finanziario 54: esso, a differenza di quello “reale” o “fisico” (considerato nel par. 7.5) è soltanto parziale, in quanto il reddito comunque aumenta anche al netto di questo effetto spiazzamento 55. I monetaristi, tuttavia, fecero per primi notare come un aumento del finanziamento con titoli corrisponde ad un aumento della ricchezza aggregata; per cui gli agenti desiderano allocare una quota maggiore della loro ricchezza alla moneta perché, con più titoli in portafoglio sono divenuti meno liquidi. C’è quindi un’espansione della domanda di moneta, un ulteriore aumento del tasso d’interesse ed un incremento netto di reddito ancora più piccolo: l'effetto ricchezza sulla domanda di moneta si aggiunge al tradizionale effetto spiazzamento e riduce ulteriormente l’incremento di reddito conseguente ad una politica fiscale espansiva finanziata con titoli 56. Si noti che il segno dell'effetto ricchezza è sempre negativo, per i monetaristi 57. I keynesiani, dal canto loro, hanno in un primo tempo confutato la stessa esistenza di un tale effetto ricchezza sulla domanda di moneta. Non si può infatti escludere che la domanda di moneta possa addirittura diminuire 58 e pertanto che il finanziamento con titoli possa generare, sotto certe condizioni, crowding in (piuttosto che “crowding out”), ossia un effetto espansivo sul reddito reale. Infine, alcuni economisti keynesiani hanno rammentato l’esistenza di un possibile effetto ricchezza anche sui consumi, ipotizzando che questi ultimi siano funzione della ricchezza (oltre che del reddito e di altre eventuali variabili, tra cui il livello dei prezzi ed il tasso d'interesse) e quindi dei titoli; effetto che contribuisce all’espansione del reddito 59. Esso può essere ulte53 Quale indicatore di liquidità della ricchezza, si può assumere M/(B + K) per l'aggregazione proposta dai monetaristi e (M + B)/K per quella proposta dai keynesiani. 54 Se inoltre lo spiazzamento è finanziario diretto, ossia implica una sostituzione delle obbligazioni private con i titoli pubblici, allora gli effetti si riscontrano più sul tasso d’interesse a medio-lungo termine che non su quello a breve, rendendo più immediata la contrazione degli investimenti privati. 55 Vedi il segmento (Y – Y > 0) nella Fig. 2.1; uno spiazzamento completo si otterrebbe solo in presenza di 1 0 una curva LM verticale, come nell’ipotesi estrema dei monetaristi (cfr. par. 7.3). 56 In termini grafici, l’aumentata domanda di moneta fa spostare in alto la curva LM, inducendo un ulteriore aumento del tasso d’interesse. Si vedano SILBER (1970) e CARLSON, SPENCER (1975), che considerano diversi altri casi di spiazzamento. 57 Inoltre tale effetto, oltre ad essere ripetuto nel tempo, può essere di entità tale che la curva LM si sposti così tanto verso sinistra da causare una variazione netta finale del reddito di segno negativo, eventualità questa nota come sovra spiazzamento. 58 Anche in conseguenza del tipo di aggregazione tra attività finanziarie sopra richiamato, secondo cui moneta e titoli si possono considerare attività abbastanza simili, gli agenti potrebbero sentirsi più liquidi e quindi diminuire la domanda di moneta. 59 Graficamente ci sarebbe quindi un ulteriore spostamento in alto della curva IS (aggiuntivo a quello derivante dall’iniziale politica fiscale espansiva) tale da rendere probabile un aumento finale del reddito reale (anche nel caso in cui dovesse esserci un effetto ricchezza sulla domanda di moneta).

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riormente rafforzato dall’effetto sui consumi derivante dal pagamento degli interessi sui titoli: questo effetto è tanto più rilevante quanto più elevata è la quota di titoli pubblici detenuta dalle famiglie, piuttosto che dagli intermediari finanziari 60. La controrisposta monetarista è stata, anche in questo caso, più empirica che concettuale, tesa a dimostrare che l’effetto ricchezza sui consumi potrebbe solo in parte compensare il prevalente effetto ricchezza sulla domanda di moneta. Di nuovo, si pone il problema di una corretta stima empirica delle relazioni coinvolte, problema particolarmente rilevante quando si tratta di comparare effetti di segno opposto.

7.7. I ritardi di politica economica e la permanenza degli effetti nel tempo Le diverse opinioni tra keynesiani e monetaristi sulle politiche di stabilizzazione (cfr. par. 7.1) in parte discendevano dalla preferenza mostrata dalla scuola keynesiana per l’analisi degli equilibri di breve periodo e da quella monetarista per quelli di medio/lungo periodo, corrispondenti alla nozione di “livello naturale del reddito”. Il problema è peraltro quello di capire quanto tempo occorra effettivamente per passare dal breve al medio/lungo periodo – ossia quando le politiche esauriscono i loro effetti – in aggiunta a verificare quando i primi effetti si manifestano. Infatti, l’elemento temporale può caratterizzare le politiche economiche di stabilizzazione in due modi, ovvero considerando: – il ritardo dello strumento di politica economica, – la permanenza nel tempo degli effetti delle politiche. La nota analisi di M. Friedman sui ritardi temporali delle politiche economiche 61 classifica questi ultimi in tre categorie: 1. l’intervallo intercorrente tra la variazione di una variabile economica rilevante (in genere un obiettivo finale della politica economica) ed il suo riconoscimento da parte delle autorità di politica economica; questo ritardo, detto di percezione, dipende dalla ritardata pubblicazione degli indicatori economici e dal processo di elaborazione statistica ed analisi dei dati quantitativi 62; 2. l’intervallo intercorrente tra il riconoscimento della situazione da parte del policymaker e l’adozione degli strumenti di politica economica più adeguati: è noto come ritardo di decisione ed intervento; esso dipende dal processo decisionale più o meno complesso (coinvolgendo decisioni di tipo amministrativo o legislativo, od anche la consultazione delle parti sociali, delle autorità di altri paesi o di organismi sovranazionali, come gli organi dell’Unione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, etc.), nonché dalle procedure burocratico-amministrative sottostanti all’attuazione dei provvedimenti; 60 Ovviamente, l’entità di tale effetto dipende anche dalla quota di titoli pubblici detenuta da “non residenti” (ad esempio circa 1/3 del debito pubblico italiano è in “mani estere”, mentre la restante parte è soprattutto negli attivi delle banche commerciali italiane). 61 Il primo lavoro di Friedman sui ritardi risale al 1948. L’ipotesi teorica è stata in seguito perfezionata e sottoposta a verifica empirica, con particolare riferimento all’utilizzo della politica monetaria nell’esperienza statunitense, indagata per oltre un secolo (FRIEDMAN, SCHWARTZ, 1963). 62 Questo ritardo può essere ridotto ed eventualmente annullato grazie alle moderne tecniche statistiche, informatiche e di rilevazione quantitativa, al limite divenendo negativo ove si possano effettuare previsioni affidabili. Tuttavia, nonostante il grado di sofisticazione dei moderni modelli econometrici, errori previsivi sono abbastanza frequenti (anche da parte di organismi e centri di ricerca internazionali).

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3. l’intervallo intercorrente tra l’attuazione del provvedimento di politica economica e l’iniziale manifestazione dei suoi effetti sulle variabili obiettivo: è questo il ritardo esterno della politica economica. Quanto al secondo ritardo, va rilevato che non solo le procedure istituzionali possono ritardare l’adozione di molte politiche, ma anche che ad esse si sovrappongono frequentemente le lungaggini di tipo burocratico (incluse quelle richieste per i decreti attuativi una volta che le leggi sono state approvate dal Parlamento), rallentando ad esempio l’erogazione di spese già approvate a livello legislativo o per cui è già stata data l’autorizzazione ministeriale di spesa 63. I primi due tipi di ritardi considerati nel loro insieme costituiscono il ritardo interno degli strumenti di politica economica. Il solo modo per eliminarlo è quello di predisporre degli strumenti molto particolari: si tratta dei cosiddetti stabilizzatori automatici (cfr. cap. 11). Il ritardo esterno, d’altro canto, oltre ad essere influenzato dalle peculiarità dei meccanismi di trasmissione delle singole politiche, dipende dalla struttura temporale dell’aggiustamento delle componenti della domanda aggregata 64 e, soprattutto, dalle specifiche modalità di formazione delle aspettative. Friedman e la scuola monetarista si sono proprio basati sul problema dell’esistenza dei ritardi, congiuntamente alla difficoltà per il policymaker di poter effettuare corrette previsioni economiche (in un contesto d’incertezza e di carenze informative), per portare un attacco a fondo alle politiche economiche di stabilizzazione. In realtà, una politica economica ideata come anti-ciclica da parte delle autorità di politica economica potrebbe, a causa della presenza dei ritardi, manifestare degli effetti perversi ed in particolare risultare ex-post pro-ciclica. In via esemplificativa, un’espansione monetaria, attuata quando il sistema economico si trova in recessione, potrebbe a causa dei lunghi ritardi coinvolti manifestare i suoi effetti solamente quando il sistema economico ha già spontaneamente avviato la fase di ripresa, accentuando così le pressioni inflazionistiche e gli squilibri ciclici. Più in generale, è probabile che le politiche di controllo della domanda risultino destabilizzanti, in quanto accrescono la varianza del prodotto e dell'occupazione. Il problema maggiore, secondo i monetaristi, non è però costituito dalla lunghezza dei ritardi di politica economica, ma piuttosto dalla loro variabilità e quindi dalla scarsa prevedibilità degli effetti, da parte del responsabile di politica economica 65. La logica conseguenza di questa impostazione è di minimizzare gli interventi discrezionali, di tipo stabilizzatore o anticiclico, e di affidarsi piuttosto ad un sistema di regole di politica economica. Per quanto riguarda i keynesiani, essi non hanno in genere escluso l’esistenza dei ritardi di politica economica. Sono proprio economisti keynesiani (o post-keynesiani) che frequentemente avanzano l’accusa secondo cui, a causa dei ritardi di percezione e di decisione, la politica economica interviene “troppo tardi e troppo pesantemente” per stabilizzare il ciclo, per esempio cercando di frenare una fase di surriscaldamento con una stretta creditizia; anziché graduare, come auspicato, tempi ed intensità dell’intervento in modo ottimale. La 63 Il fenomeno di somme già impegnate ma non ancora spese (richiamato con il termine residui passivi nella contabilità delle amministrazione pubbliche in Italia) è particolarmente diffuso nel comparto delle spese in conto capitale, con particolare riferimento agli investimenti in infrastrutture civili. 64 Anche in relazione all’adozione di specifiche funzioni di comportamento (come la funzione del consumo basata sulla teoria del reddito permanente piuttosto che su quella keynesiana, oppure la funzione degli investimenti basata sul principio dell’aggiustamento dello stock di capitale). 65 Il problema è aggravato per il fatto che l’erraticità e scarsa prevedibilità della politica economica (anche per le incertezze connesse alla selezione del “vero” modello ed all’agire dei disturbi stocastici) induce incertezza negli operatori privati e genera quindi inefficienze nel sistema.

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portata dei ritardi è peraltro circoscritta e gli interventi discrezionali sono comunque considerati utili. Inoltre, la struttura dei ritardi può variare a seconda della politica economica di riferimento: lunghi ritardi interni e più brevi ritardi esterni nel caso della politica fiscale si contrappongono a brevi ritardi interni e più lunghi ritardi esterni nel caso della politica monetaria. Infatti: – molte decisioni di politica monetaria possono essere prese in tempo quasi reale (come le operazioni di mercato aperto o la manovra dei tassi ufficiali), ma i loro effetti possono manifestarsi dopo un lungo intervallo, poiché il meccanismo di trasmissione monetaria di tipo keynesiano 66 è molto indiretto ed agisce nel lungo termine (schematicamente esso può essere così rappresentato: moneta  tasso d'interesse a breve  tasso d'interesse a lungo  investimenti  reddito); – numerose decisioni di politica fiscale implicano, al contrario, un lungo e complesso processo decisionale (essendo quasi sempre necessaria l’approvazione parlamentare) oppure un lungo iter nella realizzazione (come nel caso degli investimenti pubblici), sebbene una volta prese le decisioni ed avviati gli interventi gli effetti si possano manifestare piuttosto in fretta (come nel caso delle variazioni delle aliquote delle imposte indirette, dei trasferimenti sociali o delle assunzioni nel pubblico impiego). Riassumiamo per concludere, in modo schematico, i principali tipi di ritardi, considerando la seguente successione di eventi nei seguenti istanti temporali: t1 –vi è uno shock che colpisce il sistema (ad esempio C autonomi), t2 –vi è un primo riconoscimento dello shock da parte del policymaker, t3 –vengono adottati i provvedimenti legislativi, governativi, amministrativi, etc. da parte delle autorità competenti (ad esempio T), t4 –i provvedimenti cominciano a manifestare gli effetti sul sistema (ad esempio C, ma l’effetto massimo potrebbe essere ancor più ritardato). Ebbene, i principali tipi di ritardi di politica economica risultano dal seguente prospetto: Tipi

Fasi

Caratteristiche

Ritardo di percezione

da t1 a t2

Può essere ridotto grazie al miglioramento delle statistiche ed alle previsioni

Ritardo di decisione

da t2 a t3

È in genere più lungo per la politica fiscale (decisioni del Parlamento, consultazioni di parti sociali o organismi internazionali, ecc.)

Ritardo di impatto

da t3 a t4

È in genere più lungo per la politica monetaria (dipende dal meccanismo di trasmissione)

Ritardo interno

Ritardo esterno

Il secondo aspetto dell’elemento temporale delle politiche di stabilizzazione è quello della permanenza degli effetti nel tempo. Qui il problema è di distinguere gli effetti temporanei di breve periodo da quelli duraturi di lungo periodo 67. La permanenza degli effetti nel tempo 66 Altri meccanismi di trasmissione monetaria sono però più rapidi nell’agire. Oggi, quando viene modificato il tasso d’interesse di policy, gli agenti rispondono in modo rapido (in certi casi anticipando le mosse della stessa banca centrale: cfr. cap. 10). 67

L'intervallo in considerazione ricomprende pure una parte del “ritardo esterno”, perlomeno dal

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dipende innanzi tutto dalla variabile di riferimento, essendo opportuno distinguere tra effetti reali (ossia su reddito, produzione, occupazione, etc.) ed effetti monetari (ossia su variabili come livello dei prezzi, reddito monetario, tasso d’interesse nominale, salari monetari, etc.) 68. Si è soliti distinguere, inoltre, tra effetti d’impatto, con riferimento agli effetti che si manifestano già nel primo periodo di azione, ed effetti di medio e lungo termine (entro l’orizzonte temporale dell’analisi). La permanenza nel tempo degli effetti delle politiche dipende anche dalle modalità di esplicazione dell’intervento discrezionale: temporaneo (ossia una tantum) oppure permanente (ovvero ripetuto nel tempo). I principali modelli econometrici del passato (keynesiani e monetaristi) fornivano un’evidenza empirica abbastanza convergente su alcune questioni di fondo, relativamente alle manovre di politica economica 69. Tuttavia, nel caso degli effetti reali, i modelli keynesiani evidenziavano per lo più ritardi temporali brevi ed effetti duraturi nel tempo (con riferimento ad entrambe le politiche); al contrario, i modelli monetaristi mostravano ritardi piuttosto lunghi ed effetti transitori, che tendevano ad annullarsi nel lungo andare. La Fig. 7.3 mostra in modo sintetico questi differenti profili temporali, prendendo come esempio il moltiplicatore della politica fiscale (). Al tempo t1, il moltiplicatore keynesiano è già significativo (k > 0), mentre quello monetarista è ancora trascurabile (m ≈ 0) a causa dei più lunghi ritardi temporali. Al tempo t2, il moltiplicatore keynesiano raggiunge il massimo valore numerico, mentre quello monetarista è significativamente inferiore (m < k); quest’ultimo assume il massimo valore solamente in un periodo successivo, t3. Infine, al tempo t4 il moltiplicatore monetarista tende già ad annullarsi (m ≈ 0), quando quello keynesiano è ancora significativamente positivo (k > 0). Figura 7.3. – Profili temporali del moltiplicatore fiscale 

k

m t1

t2

t3

t4

t

momento del primo manifestarsi degli effetti a quello della loro massima intensità, essendo il ritardo esterno generalmente un ritardo distribuito nel tempo. 68 È ad esempio ovvio che, negli schemi monetaristi, gli effetti reali di medio/lungo periodo delle politiche economiche non possono che essere nulli. 69 Ad esempio le seguenti: l’anticipo temporale nella manifestazione degli effetti reali rispetto alle variazioni dei prezzi, la persistenza anche nel lungo andare di effetti reali positivi (in quanto difficilmente si annullano completamente), un’elevata elasticità dei prezzi all’offerta di moneta (ma comunque inferiore all’unità).

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7.8. Le politiche di stabilizzazione: efficacia, obiettivi, regole e discrezionalità Il dibattito finale tra keynesiani e monetaristi, ben al di là dei casi estremi esaminati all’inizio del capitolo, riguarda necessità ed efficacia delle politiche di stabilizzazione nel loro complesso. Gli economisti keynesiani – tenuto conto degli approcci metodologici e delle premesse ideologiche (cfr. par. 7.1) nonché degli aspetti tecnici discussi in questo capitolo – ritengono le politiche di stabilizzazione necessarie e proficue: il sistema economico ha bisogno di essere stabilizzato, efficaci politiche possono essere adottate e quindi l’operatore pubblico deve intervenire. Esse devono consistere in interventi, essenzialmente discrezionali dal lato della domanda (od anche dell’offerta), presi intenzionalmente dalle autorità di politica economica e variati a seconda delle necessità cicliche del sistema economico (ovvero politiche di tipo “anticongiunturale”) 70. Il ruolo del policymaker, al di là del grado di pervasività del suo intervento, deve essere di tipo attivo: in questo senso, gli economisti keynesiani sono pure stati definiti come attivisti 71. I monetaristi, dal canto loro, ritengono gli interventi discrezionali di stabilizzazione inutili, inefficaci e dannosi. Essi sono infatti: – inutili (non necessari), perché il sistema economico di libero mercato è sempre in grado di convergere spontaneamente verso l’equilibrio di piena occupazione; per la verità, la considerazione dell’economia di mercato come “perfetta” e di un sistema di laissez-faire come conducente a risultati ottimali è condivisa solamente da pochi monetaristi; tuttavia, quasi tutti condividono l’opinione secondo cui –- pur in presenza di imperfezioni, di rigidità e di “fallimenti di mercato” di vario tipo – l'intervento pubblico sarebbe solamente peggiorativo; – gli interventi discrezionali di politica economica sono anche in larga parte inefficaci, ossia incapaci di stabilizzare l’economia, per le carenze informative cui è soggetto lo stesso policymaker e per l’incertezza che sovrasta l’analisi delle cause e dei tempi delle perturbazioni, nonché dei vari tipi di effetti (diretti ed indiretti, di breve e lungo periodo, etc.) conseguenti alle politiche, effetti a volte ambigui nel loro segno 72; – infine, gli stessi interventi possono essere addirittura dannosi, se è vero che le politiche di stabilizzazione possono risultare paradossalmente destabilizzanti esse stesse, soprattutto per la presenza dei ritardi (lunghi, variabili ed imprevedibili) 73; oppure se le politiche non sono adottate in vista del perseguimento del benessere sociale. È infatti evidente che le politiche attive del governo potrebbero essere tanto più inutili (o perfino dannose), se esse fossero introdotte non per rispondere a finalità di benessere sociale, ma strettamente politiche, per cui le government failure prendono il posto delle market failure (cfr. cap. 5). In particolare, a causa dei ritardi, dell’incertezza, delle carenze informative cui è soggetto il policymaker, i monetaristi auspicano limiti alle azioni di politica economica. In particolare, considerato il rischio per le politiche di stabilizzazione di amplificare le fluttuazioni 70 Non necessariamente devono essere politiche di controllo (o “sintonizzazione”) fine della domanda aggregata (“fine-tuning”), ossia adottate in risposta a perturbazioni anche di lieve intensità e probabilmente temporanee (cfr. par. 4.5). 71 È questo il “punto” acquisito sin dagli anni ’70 e non più messo in discussione (MODIGLIANI, 1977 e 1986). 72 Si pensi ad esempio ai vari effetti spiazzamento e ricchezza. 73 Oltre che per errori nella calibrazione delle dimensioni degli interventi e più in generale per l’erraticità delle stesse politiche economiche (LAIDLER, 1981).

I monetaristi ed il dibattito sulle politiche di stabilizzazione

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cicliche e di allontanare il sistema dai valori-obiettivo, ritengono necessario che esse non siano gestite in modo discrezionale ma seguano delle regole di comportamento 74. Così, per quanto riguarda la politica monetaria, una regola appropriata per le autorità monetarie potrebbe essere quella di lasciar crescere la quantità di moneta secondo un tasso costante. Tale tasso (gm = ΔM/M) può essere posto uguale, partendo dalla teoria quantitativa della moneta (ed ipotizzando una costante velocità di circolazione), al tasso di crescita “normale” del reddito gy* (ossia un tasso di crescita compatibile con le potenzialità dell’offerta ovvero del prodotto potenziale), maggiorato eventualmente di un tasso d’inflazione, ma il più basso possibile π^: gm = gy* + π^ Al di là del suo valore numerico 75 (posto pari al 2-3% in taluni scritti ed al 3-5% in altri), è comunque essenziale che un tale tasso di crescita della quantità di moneta sia costante nel tempo ed annunciato. Costante, al fine di evitare che la politica monetaria aggiunga instabilità ciclica a quella propria del sistema privato, considerato pure che sono proprio le fluttuazioni nell’offerta di moneta ritenute una delle cause principali delle fluttuazioni di breve periodo del reddito; tutt’al più tale tasso può essere variato per correggere le più gravi perturbazioni, evitando comunque improvvise “inversioni di rotta”. Il tasso di espansione degli aggregati monetari dovrebbe essere altresì annunciato 76, al fine di influire sulle aspettative degli agenti e ridurne l’incertezza 77. Ricordato che, nonostante l’ipotesi di “neutralità” della moneta sulle variabili reali, è comunque riconosciuta alla politica monetaria la capacità di controllo del tasso d’inflazione, anche gli obiettivi di una politica di rientro dall’inflazione dovrebbero prevedere una decelerazione nel tasso di crescita dell’offerta di moneta ben pubblicizzata, anche se graduale (cfr. cap. 8). Quanto alla politica fiscale, la regola tendenziale (si veda anche il cap. 11) è quella del bilancio pubblico in pareggio, possibilmente in ogni singolo anno. Alcune regole specifiche sono pure state proposte anche per la politica fiscale, come quelle suggerite dai “monetaristi fiscali” 78. Inoltre, nell’eventualità del formarsi di un disavanzo, l’opinione monetarista prevalente riteneva in genere preferibile il finanziamento con titoli, in quanto un finanziamento monetario causerebbe nell’immediato una maggiore inflazione. A fronte di questo sistema di regole auspicato dai monetaristi, gli economisti keynesiani, da sempre favorevoli ad interventi discrezionali, fanno notare che il sistema economico è sog74 Ciò risulta già dalle prime opere di FRIEDMAN (1948, 1959a), con precisazioni in quelle successive (1968). Anche nei casi in cui il policymaker sia mosso dal perseguimento del benessere sociale, l’incertezza e l’indisponibilità di informazioni adeguate spesso limitano la sua azione. Lo Stato non è sempre quell’agente “onnisciente ed onnipotente” spesso idealizzato dai keynesiani. 75 Fatto coincidere con il valore del tasso di crescita secolare del Pil (corretto per le modificazioni nella velocità di circolazione della moneta). 76 Un keynesiano potrebbe argomentare che l’annuncio può ben riferirsi non solo alla politica monetaria ma anche a quella di sostegno all’occupazione: in effetti, l’annuncio del governo di voler mantenere il sistema vicino alla piena occupazione, se creduto, può facilitare l’intervento. Per inciso la Banca centrale Usa, la Fed, aveva recentemente posto un target esplicito in termini di tasso di disoccupazione alla stessa politica monetaria (cfr. cap.17). 77 Come si vedrà tra breve trattando della Nuova Macroeconomia Classica (cfr. cap. 9), l’annuncio può non essere sufficiente, se vi sono problemi di credibilità o di “incoerenza temporale” della politica economica. 78 Le regole proposte si possono sintetizzare nei seguenti punti: crescita delle entrate pubbliche proporzionale al tasso d’inflazione; variazioni della spesa pubblica fissate in termini nominali; dinamica dei salari nel settore pubblico indipendente dall'andamento dei salari nel settore privato; tasso di crescita dell’offerta di moneta costante (anche per porre limiti al finanziamento monetario del disavanzo).

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getto a continui shock e perturbazioni di vario segno ed intensità: esso quindi richiede un intervento flessibile che possa essere attuato – in modo appunto discrezionale – dal policymaker nei tempi e secondo le modalità che ritiene opportuno 79. Inoltre, è ben vero che in presenza di un determinato shock l’esistenza di regole potrebbe stabilizzare una macrovariabile (ad esempio l’inflazione), ma al costo di accentuare nel breve termine le fluttuazioni di altre macrovariabili (come il reddito e l’occupazione). Alcuni economisti keynesiani, tuttavia, hanno riconosciuto che una politica di stabilizzazione può essere effettuata anche senza ricorrere ad una completa discrezionalità. Comunque, rispetto alle regole fisse (o regole “semplici”, ovvero senza feedback, del tipo poc’anzi illustrato), è preferibile un sistema di regole flessibili (o regole “attive”, ovvero “con retroazione” o con feedback, dette anche “contingent rules”). Queste ultime sono caratterizzate per il fatto che il valore da assegnare ad una variabile strumentale in un certo periodo futuro t, anziché essere costante, dipende 80 dallo stato del sistema nello stesso periodo t oppure nel periodo precedente (t − 1) 81. Con questo tipo di regole, risulta in un certo senso endogenizzata la natura anticiclica della politica economica: il comportamento del policymaker viene esplicitato ed incorporato nella funzione di reazione delle autorità di politica economica. I monetaristi hanno prevalentemente ribattuto che un sistema di regole flessibili è meno comprensibile per gli agenti privati (rispetto alle regole semplici) ed anche troppo complesso da gestire: si dovrebbe infatti tener conto degli innumerevoli accadimenti possibili, in un contesto dominato dall’incertezza e dai costi di amministrazione della politica economica (inclusi quelli di formulazione delle regole e della loro applicazione) 82. In generale, possiamo concludere che in politica economica emerge un nuovo tipo di trade-off, tra credibilità della stessa politica economica – che come vedremo anche più avanti (cap. 9) è rafforzata da un sistema di regole – e la sua flessibilità di risposta alle situazioni contingenti ed agli shock che possono colpire il sistema. Il dibattito sulla preferibilità di un sistema di regole piuttosto che un sistema discrezionale (rules vs. discretion) ha in seguito coinvolto altri aspetti, come quello della maggiore o minore flessibilità nelle procedure di revisione delle regole oppure di corretta individuazione degli enti responsabili per la loro fissazione: banca centrale, governo, parlamento, o addirittura attraverso vincoli costituzionali. Vi è ormai consenso generale sul fatto che gli aspetti istituzionali 83 sono una componente sempre più importante nella teoria della politica economica, incluso il problema della definizione degli specifici “regimi” (dal regime monetario alle istituzioni politiche in senso stretto) entro cui può agire od essere amministrata la stessa politica economica. Diversità tra la visione monetarista e quella keynesiana si possono rintracciare anche in 79 La scarsa prevedibilità delle perturbazioni, in aggiunta alla probabilità che si manifestino nel lungo andare effetti collaterali sfavorevoli, sconsigliano il ricorso ad un sistema di regole; un margine adeguato di discrezionalità è pertanto ritenuto tanto più indispensabile, quanto più lungo è l’orizzonte temporale di riferimento. 80 Secondo una regola fissata al tempo t = 0 per tutti gli anni a venire (t = 1, 2, 3, …). 81 Esse sono per lo più derivate da un procedimento di minimizzazione di una funzione di perdita (cfr. cap. 2). Un esempio di regola flessibile è il seguente: gm = a + b (Yn – Yt - 1), in cui la crescita dello stock di moneta (gm) dipende, in aggiunta ad una costante di lungo periodo (a), dall’output gap del periodo precedente (Yn – Yt - 1). 82 Si aggiunga che per certi eventi poco frequenti non è nemmeno nota la corrispondente distribuzione di probabilità. D’altro canto, la superiorità delle “contingent rules” è stata mostrata, in certi casi, anche in presenza di aspettative razionali (BUITER, 1981). 83 Le istituzioni sono di solito considerate dall’economista una variabile esogena. È invece opportuno tener presente che, soprattutto in un’ottica di lungo periodo, le modifiche istituzionali potrebbero essere la conseguenza endogena di evoluzioni economiche insoddisfacenti (ad esempio periodi di inflazione molto elevata o di debito pubblico insostenibile).

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tema di obiettivi delle politiche di stabilizzazione. Riguardo agli obiettivi finali, alla tradizionale stabilizzazione keynesiana del reddito, i monetaristi hanno contrapposto l’obiettivo di stabilità del livello dei prezzi 84. I problemi non sono solo quelli della fissazione dei valori desiderati per le variabili-obiettivo 85, ma anche quelli della selezione degli obiettivi rilevanti, della fissazione delle loro priorità e, più precisamente, della determinazione dei pesi assegnati ad obiettivi alternativi (TOBIN, 1980). Con riferimento alla “funzione di perdita” (cfr. cap. 2), i keynesiani hanno enfatizzato, in termini relativi, il problema della stabilizzazione del reddito (e quindi dell'occupazione e della disoccupazione), rispetto a quella dei prezzi, per cui λy > λπ, e non escluso la possibilità di conseguire un obiettivo di reddito superiore al livello naturale (y^ > yn). In un contesto keynesiano, si ritiene infatti spesso che il livello di reddito naturale o di “piena occupazione” 86 (yn), non sia quello ottimale, a causa di imperfezioni di mercato, esternalità (con conseguenti deviazioni dei costi privati dai costi sociali), distorsioni arrecate dall’operatore pubblico (ad esempio attraverso la tassazione), ed altre cause ancora. Per questi motivi e considerato pure che un elevato grado di utilizzazione delle risorse favorisce la crescita, potrebbe ben essere giustificato porre y^t > yn. Tutto questo non significa che i keynesiani abbiano mediamente trascurato il problema della stabilità dei prezzi; tuttavia sono nettamente contrari ad un obiettivo di tasso d’inflazione nullo, a causa dei costi in termini di produzione persa sia temporanea che permanente, rispetto agli ambigui benefici che si potrebbero realizzare rispetto ad un tasso d'inflazione basso ma non nullo (ad esempio del 2-3%) 87. D’altro canto, per i monetaristi, non solo il peso attribuito alla stabilizzazione del reddito (λy) è piuttosto basso, anche per l’ipotizzata incapacità di perseguire una tale stabilizzazione da parte del policymaker, ma di solito una maggiore attenzione viene riservata al problema dell’inflazione (per cui λy < λπ). L’obiettivo per il reddito è naturalmente il livello naturale (y^ = yn) ed in talune specificazioni si pone un valore-obiettivo nullo per l’inflazione (π^ = 0). Sui costi dell’inflazione e sui benefici – di un’inflazione bassa ma non nulla – torneremo nel cap. 8. Considerando infine il dibattito sugli strumenti, nel corso del tempo, si è realizzata una certa convergenza di posizioni, tra keynesiani e monetaristi 88, sul ruolo specifico da assegnare alle due principali politiche di stabilizzazione: monetaria e fiscale. Per quanto riguarda la politica fiscale, infatti, il crescente automatismo delle principali componenti della spesa pubblica e dei trasferimenti (non solo gli interessi sul debito pubblico, ma in molti casi voci di spesa come quella pensionistica), il vincolo di bilancio sempre più stringente (con le connesse regole europee: cfr. cap. 18) e le considerazioni dal lato dell’offerta hanno reso crescentemente tale politica uno strumento delle politiche strutturali e redistributive, piuttosto che un mezzo di stabilizzazione macroeconomica di breve periodo. Ciononostante l’efficacia di appropriate misure di stimolo fiscale è stata dimostrata anche in occasione della Grande Recessione del 84 Non sono mancate proposte di compromesso, come quelle avanzate dall’economista neokeynesiano R.J. Gordon, di stabilizzare ad esempio il Pil nominale, sia come obiettivo intermedio, sia quale obiettivo finale. 85 O della fissazione della loro importanza intertemporale (nel caso di decisioni multi-periodali). 86 La piena occupazione è certamente un concetto ambiguo in un contesto keynesiano, ma ci si può riferire al tasso di disoccupazione di lungo periodo che emerge dalle analisi empiriche. Lo stesso Keynes sembra propendere per un valore obiettivo di lungo periodo del tasso di disoccupazione compreso tra il 3% ed il 5% (cfr. KREGEL, 1993). 87 AKERLOF, DICKENS, PERRY (1996) avevano stimato il costo della riduzione del tasso d’inflazione negli Stati Uniti dal livello normale (3% circa) al valore nullo, costo risultante pari ad una perdita di Pil permanente compresa tra il 2% ed il 2,5%. 88 Si vedano ad esempio FRIEDMAN (1970, 1977) e TOBIN (1980, 1981).

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2008-09 (cfr. cap. 19). Nello stesso tempo, l’importanza della politica monetaria è stata riconosciuta da molti economisti keynesiani 89. La divergenza più rilevante e persistente tra keynesiani e monetaristi concerne, in definitiva, la desiderabilità delle politiche di stabilizzazione nel loro complesso, che è messa in dubbio dai monetaristi: non solo per l’ipotizzata inesistenza di un trade-off di lungo periodo tra inflazione e disoccupazione (cfr. cap. 8), ma anche per i ritardi di politica economica e per l’incertezza che limita l’azione dello stesso policymaker. I keynesiani hanno invece costantemente sostenuto, fino ai giorni nostri, l’efficacia e necessità delle politiche di stabilizzazione 90.

89 Al punto che, già nel 1977, F. Modigliani fu disposto a concludere su questo punto: “ormai siamo tutti monetaristi”. 90 Alcuni keynesiani hanno peraltro individuato le condizioni che devono essere soddisfatte perché le suddette politiche siano veramente efficaci. Ad esempio, le condizioni che caratterizzano il paradiso attivista di A.M. Okun sono le seguenti: (i) il governo è in grado di prevedere l’andamento futuro della domanda e dell’offerta aggregate; (ii) il governo è nelle condizioni di prevedere gli effetti delle politiche monetarie e fiscali intraprese; (iii) il governo può utilizzare strumenti di stabilizzazione efficaci; (iv) non vi sono costi impliciti connessi alla variazione degli strumenti; (v) non vi sono vincoli politici alla variazione degli strumenti.

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Inflazione e politiche disinflazionistiche

8.1. Inflazione: costi e benefici L’inflazione è definita come un aumento continuo del livello generale dei prezzi. È ovvio che un’inflazione elevata è considerata una patologia, soprattutto quando si trasforma in iperinflazione (trattata più avanti in questo capitolo). Anche un’inflazione negativa, definita deflazione, è comunque vista con preoccupazione, come in parte già visto analizzando la Grande Depressione (par. 4.3) e studiando le forze automatiche di riequilibrio (par. 7.2). Inoltre, diversamente dalla tesi monetarista secondo cui un tasso d’inflazione nullo sarebbe il valore ottimale (par. 7.8), molti economisti ritengono che un’inflazione bassa ma non nulla sia preferibile. Vediamo quindi di analizzare i costi di un’inflazione elevata ed i benefici di un’inflazione contenuta ma positiva. Innanzi tutto facciamo però osservare che il tasso d’inflazione è di solito misurato dagli uffici di statistica o in modo diretto, attraverso apposite rilevazioni campionarie, oppure in modo indiretto. Quanto alla prima modalità, l’Istat (Istituto nazionale di statistica) rileva in Italia tre principali indici di prezzo: l’indice dei prezzi al consumo (Nic), l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai ed impiegati (Foi), l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca), quest’ultimo rilevato in modo omogeneo per tutti i paesi UE. La modalità indiretta si riferisce invece al fatto che tutte le macrovariabili possono essere misurate in termini nominali, ossia a prezzi correnti, oppure in termini reali, ossia a prezzi costanti; il rapporto tra queste due grandezze è chiamato deflatore 1. Abbiamo così il deflatore del Pil, dei consumi delle famiglie, degli investimenti, delle esportazioni, e così via. Riguardo alle cause dell’inflazione, vedremo più avanti che, in primo luogo, dobbiamo distinguere tra shock di domanda (inflazione demand pull) e d’offerta (inflazione cost push); altre cause includono quelle monetarie, il ruolo delle aspettative, ed altre. A seconda delle specifiche cause, si possono utilizzare diverse politiche disinflazionistiche. Infine un argomento centrale in questo capitolo sarà il trade-off tra inflazione e disoccupazione (sottostante alla “curva di Phillips”). Quale ultima premessa, va osservato che una conseguenza di un’inflazione elevata è che la moneta viene ad assolvere male a tutte le sue funzioni, di: – unità di conto, perché diventa più difficile valutare gli stessi prezzi relativi; – mezzo di scambio, perché le transazioni diventano più difficoltose (basti pensare alla quantità di banconote necessarie durante le iperinflazioni), più frequenti (per tenere meno moneta possibile) e spesso effettuate con il “baratto”; – riserva di valore, in quanto il valore reale della moneta detenuta si riduce in proporzione al tasso d’inflazione 2. 1 Poiché una variabile a prezzi correnti, ad esempio il reddito nominale (Y ) è data dalla variabile a prezzi € costanti, come il reddito reale (Y), moltiplicata per il suo deflatore (ossia il livello dei prezzi P), la sua variazione è all’incirca uguale alla somma delle variazioni delle altre due (ossia gy + π). 2 Se il valore reale della moneta (M) si riduce proporzionalmente all’aumentare del livello dei prezzi, per

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Venendo ora ad esaminare i costi dell’inflazione, in letteratura se ne ricordano fondamentalmente quattro: i. il costo delle suole: con un’inflazione elevata si accresce il “costo opportunità” 3 di tenere moneta e diviene più conveniente detenere titoli; ne consegue la necessità di andare più spesso in banca per prelevare (consumando le suole delle scarpe); in altri termini, aumentano i costi di transazione; ii. le distorsioni fiscali: i sistemi impositivi tassano spesso i redditi nominali invece che quelli reali, come nel caso delle imposte progressive sul reddito (come vedremo trattando di “fiscal drag”), della tassazione dei guadagni in conto capitale sulle attività finanziarie, etc.; quindi l’inflazione può introdurre delle distorsioni, se non vi è un adeguato meccanismo d’indicizzazione; ii. l’illusione monetaria: le persone tengono spesso conto, nelle loro decisioni, delle grandezze monetarie invece che di quelle reali; ad esempio se aumentano i salari monetari (↑W) i lavoratori sono convinti di guadagnare di più ed offrono più lavoro, anche quando probabilmente diminuiscono i salari reali (↓W/P), allorché i prezzi crescano più in fretta dei salari; perciò un’inflazione elevata induce le persone e le imprese a prendere decisioni sbagliate; iv. la volatilità dell’inflazione: generalmente quanto maggiore è il tasso d’inflazione tanto più variabile è la stessa inflazione, quindi difficilmente prevedibile e causa d’incertezza; ne risentono molte decisioni di lavoro, produzione, consumo, risparmio, investimento, etc. Sono soprattutto i monetaristi a sottolineare gli aspetti negativi dell'inflazione, che può causare perdite di produzione e di reddito. Inoltre, l'inflazione provoca una serie di altre conseguenze negative: (i) rischia di divenire variabile, accrescendo così l'incertezza (con i costi connessi ai più frequenti rinnovi contrattuali); (ii) distorce i segnali di prezzo (per la difficoltà di distinguere tra shock nominali e shock reali e per i fenomeni di illusione monetaria) ed altera la conseguente risposta degli agenti; (iii) riduce i servizi resi dalla liquidità (per l'incentivo a detenere minori scorte liquide) ed al tempo stesso devia risorse dalla produzione reale alle attività finanziarie; (iv) non puó essere sempre fronteggiata con le indicizzazioni, anche se in certi casi sono desiderabili. È opinione comune che un elevato ritmo di crescita dei prezzi causa incertezza ed inefficienze, ad esempio connesse all'accresciuta variabilità dei prezzi relativi 4. Questo risultato è tanto più probabile se l’inflazione è volatile e non perfettamente anticipata, oppure se nel sistema non sono diffuse clausole di indicizzazione oppure sono presenti rigidità istituzionali 5. Anche un’inflazione anticipata comporta inefficienze, ad esempio in relazione ai tentativi di economizzare sulle scorte di liquidità, a cui si possono aggiungere anche i costi inerenti al quanto riguarda il valore dei titoli (B), oltre a ricordare che il loro valore nominale è influenzato dalle fluttuazioni del tasso d’interesse (essendo il prezzo dei titoli inversamente correlato con quest’ultima variabile), il loro valore reale dipende inversamente dal livello generale dei prezzi, ma non necessariamente in modo proporzionale, allorché sia prevista un’indicizzazione reale degli stessi titoli. Infine, se K rappresenta il valore nominale delle attività reali (stock di capitale), esso normalmente aumenta al crescere del livello dei prezzi. 3 È vero che in tempi di moneta elettronica (bancomat, carte di credito, internet banking) questi costi si sono molto ridotti, ma non sono scomparsi (vi sono quasi sempre piccole commissioni bancarie nelle transazioni tra moneta e titoli). 4 A partire dagli anni ’70, economisti di diverse impostazioni teoriche hanno evidenziato tale relazione diretta tra livello dell’inflazione e variabilità dei prezzi relativi (si veda, ad esempio, CUKIERMAN, 1979 e FISHER, 1982). 5 Per esempio, l’indicizzazione è spesso assente nella determinazione delle spese pubbliche, dei trasferimenti, della tassazione; ciò che causa in quest’ultimo caso effetti perversi come quelli del “drenaggio fiscale” ed altre distorsioni fiscali (come la valutazione ai costi storici della base imponibile, la tassazione degli interessi nominali anziché di quelli reali, etc.).

Inflazione e politiche disinflazionistiche

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cambiamento dei prezzi di vendita (ad esempio i “menu costs”) e gli oneri derivanti dalla necessità di modificare abitudini e procedure consolidate (contabilità in termini nominali, valutazione dei progetti d’investimento, etc.). Inoltre, la presenza di contratti nominali a lungo termine implica degli effetti distributivi, con una redistribuzione di reddito e di ricchezza, specie dai creditori (inclusi i detentori di titoli pubblici) ai debitori, nonché trasferimenti intergenerazionali. Questi costi sociali connessi all’inflazione, derivanti dalle suddette abitudini e rigidità (inclusi i vincoli contrattuali ed istituzionali), non sono estranei al pensiero keynesiano 6. Altri economisti keynesiani hanno tuttavia sottolineato i benefici di un’inflazione bassa ma non nulla: i. il signoraggio: sono i ricavi derivanti dalla creazione di moneta (ΔM), ad esempio per finanziare i disavanzi pubblici; tali ricavi tuttavia possono essere rilevanti solo quando l’inflazione è molto elevata; nelle situazioni normali dei paesi occidentali, il signoraggio non supera lo 0,5% o l’1% del Pil; ii. tassi d’interesse reali negativi: mentre i tassi d’interesse nominali (i) normalmente non sono negativi, quelli reali (r = i − ) lo possono essere con un tasso d’inflazione positivo e con tassi nominali molto bassi, vicini allo zero (i < ); ciò può risultare utile per rilanciare gli investimenti in presenza di profonde depressioni; iii. più facili aggiustamenti in presenza di rigidità nominali: gli aggiustamenti successivi agli shock richiedono di solito una flessibilità di salari e prezzi, ma se vi sono rigidità nominali, un’inflazione positiva consente di ottenere in ogni caso una flessibilità reale. Per esempio flessibilità nei salari reali (W/P grazie a P, pur con W costante) o nei salari relativi (quando ad esempio lo shock è idiosincratico o settoriale); infatti, forse per fenomeni di illusione monetaria, forse per altri motivi (come i processi imitativi) pare che i lavoratori accettino più facilmente tagli nei salari reali piuttosto che in quelli nominali 7. Gli economisti keynesiani hanno in genere enfatizzato i costi di una disoccupazione persistente nel lungo periodo rispetto ai benefici connessi ad un’inflazione nulla o molto bassa; o, in altri casi, i costi derivanti da una disoccupazione crescente durante le azioni di disinflazione. Inoltre, un’inflazione moderata ma stabile potrebbe avere altri vantaggi 8, ad esempio consentire una produzione ed un reddito pro-capite più elevati nel lungo periodo (attraverso la sostituzione tra moneta e capitale reale nel portafoglio degli agenti).

8.2. La curva di Phillips ed i tipi di inflazione L’originaria curva di Phillips nacque in un contesto keynesiano. L’economista neozelandese A.W. Phillips pubblicò nel 1958 un lavoro empirico attinente alle interrelazioni tra crescita salariale e tasso di disoccupazione (con riferimento all’esperienza quasi secolare del Regno Unito). Il risultato dell’analisi empirica fu l’evidenziazione esplicita 9 per il periodo 1861-1957 di una relazione inversa non lineare (approssimata da un’iperbole) tra crescita dei salari monetari e tasso di disoccupazione. 6 Si veda ad esempio FISCHER, MODIGLIANI (1978) e MODIGLIANI (1986). Quest’ultimo fa riferimento ad una difficile scelta (un “dilemma crudele”), essendo sia inflazione che disoccupazione dei mali di uguale rilevanza. 7 Per esempio, in presenza di uno shock strutturale che implica uno spostamento della domanda di lavoro dal settore tessile a quello dell’elettronica, allora dovrebbero diminuire i salari monetari nel primo settore ed aumentare nel secondo; ma se i lavoratori del tessile si oppongono ad un taglio dei loro salari monetari, un po’ d’inflazione consente di ridurre comunque i loro salari reali (con i salari monetari dei lavoratori dell’elettronica che salgono di più rispetto all’inflazione). Questo è talvolta chiamato effetto lubrificante dell’inflazione. 8 Cfr. LIPSEY (1990) e SUMMERS (1991). 9 Diversamente da analisi indirette risalenti ad alcuni contributi precedenti, come quelli di I. Fisher del 1925-1926.

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La spiegazione di una tale relazione inversa era per lo più basata sulla constatazione delle pressioni sui salari che si verificano quando il mercato del lavoro si avvicina alla piena occupazione (ad esempio, ipotizzando che i salari siano fissati, anche attraverso l'azione sindacale e la contrattazione collettiva, tenendo conto del tasso di disoccupazione corrente): ossia, essa coglie la risposta dei salari al disequilibrio esistente nel mercato del lavoro. Pur essendo la variabile di riferimento il salario monetario, la curva di Phillips rappresenta le condizioni inflattive che si vengono a determinare dal lato della domanda, a seconda che il sistema si trovi in condizioni espansive oppure recessive, ossia in funzione della “pressione della domanda”. Altri economisti (tra cui LIPSEY, 1960 e SAMUELSON, SOLOW, 1960), ma poi lo stesso Phillips, fornirono in seguito più precise spiegazioni teoriche 10 di tale relazione empirica. Più interessante è tuttavia notare come dalla relazione tra crescita dei salari monetari (spesso denominata wage inflation, ovvero inflazione salariale) e tasso di disoccupazione è agevole passare ad una relazione corrispondente tra crescita dei prezzi e lo stesso tasso di disoccupazione 11. Una curva di Phillips del secondo tipo (ossia in termini di variazione dei prezzi), che è ormai quello più spesso richiamato in letteratura, è rappresentata nella Fig. 8.1. Figura 8.1. – Curve di Phillips di breve e di lungo periodo (a)

(b) π

π Ph Ph′

π1

π0

A

u1

A′

π1

B

π0

Ph *

Ph Ph′

u0

u

B′

B A

u0

un

u e Ph(πe = 0) Ph(π = π0)

10 Endogenizzando i salari ed introducendo nell’analisi un’equazione dei prezzi congiuntamente ad un’equazione dei salari (potendo mostrare gli effetti di retroazione o di feedback dai salari ai prezzi). 11 È infatti possibile ipotizzare in via di prima approssimazione che, a parità di tasso di disoccupazione, valga la seguente relazione: P/P = W/W – q/q in cui P si riferisce ai prezzi, W ai salari, q alla produttività del lavoro; il tasso di variazione nel tempo dei prezzi (P/P) coincide con il tasso d'inflazione (π). Tale relazione è alquanto semplificata, poiché ipotizza implicitamente che le variazioni dei prezzi siano poste uguali alle variazioni del “costo del lavoro per unità di prodotto”, e che quindi non vi siano variazioni nei costi degli altri fattori produttivi e nemmeno nei margini di profitto. In particolare, è cruciale il comportamento della produttività del lavoro, la cui crescita è ipotizzata costante (indipendente da u), mentre spesso è connessa al ciclo (anche con differenze da paese a paese; con riferimento alla Grande Recessione, si veda ad esempio MARELLI et al., 2012). Tuttavia rappresenta un procedimento di prima approssimazione ed è coerente con un metodo di fissazione dei prezzi del tipo “mark-up pricing”.

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Essa mostra la relazione inversa esistente tra tasso d’inflazione (π) e tasso di disoccupazione (u): al tendere a zero di quest’ultimo, l’inflazione è sempre più elevata. Nella tradizione keynesiana, questa relazione inversa (e non lineare) è divenuta nota come trade-off tra inflazione e disoccupazione 12. Una volta che le condizioni strutturali del sistema determinino la posizione 13 della curva di Phillips (Ph nella Fig. 8.1, grafico di sinistra), qualunque punto su di essa è fattibile e raggiungibile, anche perché la curva è supposta stabile nel tempo. Attraverso le politiche di stabilizzazione e di controllo della domanda aggregata, il governo è in grado di scegliere il punto “desiderato” lungo la data curva di Phillips, che viene così a rappresentare un possibile menu per le scelte di politica economica 14. La combinazione desiderata dipenderà, fra l’altro, dalle preferenze sociali, con un esame comparato dei costi sociali della disoccupazione e dell’inflazione; secondo l’approccio della funzione di perdita, si tratta di trovare il punto di tangenza tra la curva di Phillips data e la più bassa curva d’indifferenza del policymaker (cfr. cap. 2). Se ad esempio nel punto A il tasso di disoccupazione (u0) è considerato eccessivo, mediante una politica espansiva dal lato della domanda, il governo è in grado di raggiungere il punto B (equivalente al punto B della Fig. 2.2), caratterizzato da un tasso di disoccupazione inferiore (u1 < u0), anche se al costo di una maggiore inflazione (π1 > π0). Dagli spostamenti lungo la curva di Phillips, che sono appunto causati dalle politiche di controllo della domanda aggregata o comunque da shock di domanda – verso l’alto se espansivi e verso il basso se restrittivi – sono da tenere distinti gli spostamenti della curva di Phillips, conseguenti alle politiche d’offerta o agli shock d’offerta. Ad esempio, un aumento delle rivendicazioni salariali autonome od una qualunque perturbazione dal lato dell’offerta (come uno shock petrolifero) fanno spostare la curva di Phillips verso l’esterno (da Ph a Ph nella Fig. 8.1, sempre grafico di sinistra); al contrario, un innalzamento della produttività del lavoro od un funzionamento più efficiente del mercato del lavoro, od anche la politica dei redditi (cfr. par. 8.5), causano una traslazione della curva verso l’interno 15. Nel primo caso, si dice che il trade-off tra inflazione e disoccupazione peggiora; nel secondo, lo stesso trade-off migliora. Il concetto teorico di curva di Phillips è quindi utile, nell’analisi keynesiana tradizionale, per distinguere i due tipi principali d’inflazione a seconda delle loro cause: – l’inflazione “da domanda” (demand pull) è rappresentata da uno spostamento lungo una data curva di Phillips; – l’inflazione “da costi” (cost push) è invece rappresentabile da uno spostamento dell’intera curva (essendosi verificato in questo caso uno shock d’offerta); tipiche cause scatenanti l’inflazione da costi comprendono la crescita esogena dei salari, l’aumento dei prezzi delle materie prime (nel caso di quelle importate si parla di “inflazione importata”, che è sensibile anche all’andamento del tasso di cambio), la dinamica degli oneri finanziari (connessi al livello del tasso d’interesse) e dei margini di profitto delle imprese (in funzione anche del grado di concorrenza), ed anche l’evoluzione dell’imposizione fiscale (soprattutto le imposte indirette ed i contributi sociali possono avere un notevole impatto inflattivo). Come sappiamo (cap. 7), i monetaristi hanno enfatizzato una sotto-specie di inflazione, quel12 Cfr.

SAMUELSON, SOLOW (1960). risposta non data nei primi lavori keynesiani era invece il significato del tasso di disoccupazione in corrispondenza di un tasso d’inflazione nullo (ossia quando la curva interseca l’asse delle ascisse), situazione che si può verificare quando il tasso di crescita dei salari monetari coincide con il tasso di crescita della produttività del lavoro. Infatti, non necessariamente in un contesto keynesiano tale punto coincide con una situazione di piena occupazione. 14 Cfr. REES (1970). 15 In aggiunta alla politica dei redditi, anche le “politiche attive del lavoro”, l’allentamento di strozzature settoriali o la riduzione degli squilibri regionali possono migliorare il trade-off. 13 Una

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la causata da fattori monetari; infatti secondo FRIEDMAN (1970) l’inflazione è “sempre e ovunque un fenomeno monetario”. Inoltre, per quanto riguarda l’inflazione da costi, sebbene variazioni nei costi (inclusi gli effetti della forza sindacale) possano determinare modificazioni una tantum nei salari e nei prezzi, sono piuttosto politiche di tipo accomodante, sistemi di indicizzazione salariale e processi di aggiustamento delle aspettative che causano inflazione, traslando la curva di Phillips di breve periodo (come si vedrà tra breve) od alterandone l’inclinazione. In questo senso, si è soliti riferirsi alle aspettative come ad ulteriore causa d’inflazione. Per concludere l’illustrazione dell’impostazione keynesiana tradizionale, si può ribadire che lungo una data curva di Phillips non vi è, a priori, alcun punto di equilibrio 16: il sistema tende a giacere dove si trova o dove le autorità di politica economica vogliono collocarlo, grazie anche all’ipotizzata stabilità della relazione di Phillips. È proprio su questo fronte che è venuto l’attacco più consistente da parte della scuola monetarista, attacco che si è ben presto esteso dalla curva di Phillips all’intera costruzione teorica keynesiana, anche per le importanti implicazioni di politica economica. La critica monetarista è stata rinvigorita dall’evidenza empirica degli anni ’70, di una relazione di Phillips sempre più instabile. La contro-critica keynesiana si è basata su una specificazione più completa dell’equazione di Phillips; inoltre dagli anni ’80 la curva di Phillips pare aver recuperato nuovo vigore, nuove conferme empiriche ed una ritrovata stabilità 17.

8.3. La visione monetarista e l’assenza di trade-off nel lungo periodo I monetaristi, rifacendosi alla tradizione classica pre-keynesiana, hanno individuato, al contrario dei keynesiani, un sicuro punto d’equilibrio verso il quale il sistema economico tende a convergere: è l’equilibrio naturale, derivato dal modello di equilibrio economico generale walrasiano. Inoltre, i monetaristi (come in precedenza i classici) hanno tipicamente considerato le conseguenze reali (su reddito ed occupazione) delle deviazioni dei salari reali dai valori d’equilibrio; mentre i keynesiani preferivano ragionare in termini di salari monetari. Più specificamente, per i monetaristi la variabile fondamentale per l’equilibrio nel mercato del lavoro è il salario reale (e non quello monetario) 18. Se considerassimo la tradizionale rappresentazione grafica del mercato del lavoro – con una curva di domanda di lavoro decrescente rispetto al salario reale (W/P) ed una curva di offerta di lavoro crescente rispetto allo stesso salario – il salario reale d’equilibrio w0 = (W/P)0 è quello che renderebbe la domanda di lavoro uguale alla sua offerta, corrispondentemente ad un livello di occupazione pari a N0 che è la piena occupazione “walrasiana”. Pertanto, se le forze di lavoro sono esogenamente date (pari a L), il tasso naturale di disoccupazione risulta così definito: un = (L − N0)/L. Questa disoccupazione è compatibile con la “piena occupazione” in quanto i disoccupati corrispondenti sono “disoccupati volontari”. FRIEDMAN (1968) precisa che per “tasso naturale di disoccupazione” si deve iintendere quel tasso risultante dal sistema di equilibrio generale walrasiano, ma tenuto conto delle caratteri16 Cfr.

TOBIN (1972) e MODIGLIANI (1977). contributi successivi hanno mostrato l’esistenza di una discreta stabilità anche per gli anni ’70, posto che la curva di Phillips venga opportunamente modificata per tener conto degli shock d’offerta. Sul piano metodologico va inoltre sottolineata la crescente varietà di specificazioni adottate nelle verifiche empiriche, con numerose variabili esplicative aggiunte alla relazione base di Phillips. 18 Secondo M. Friedman, Phillips commise l’errore di considerare i salari monetari (anziché quelli reali) perché partiva dalla tradizionale ipotesi keynesiana di prezzi fissi (è ovvio che solo se è vera quest’ultima ipotesi le dinamiche dei salari monetari e reali coincidono). 17 Infatti

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stiche strutturali del mercato del lavoro e dei beni, della variabilità della domanda e dell’offerta, delle imperfezioni di mercato, dei costi informativi e di mobilità, e così via. Si noti, pertanto, che il tasso naturale disoccupazione non è un parametro immutabile, ma può variare esso stesso nel tempo 19, in funzione dell’evoluzione e della composizione delle forze di lavoro, delle preferenze dei lavoratori (effettivi e potenziali), della distribuzione della domanda di lavoro (territoriale, settoriale, per mansioni, etc.) e della sua variabilità, delle modifiche nella produttività del lavoro, della struttura del mercato del lavoro (inclusa la dispersione dei saggi salariali) e dell’intera struttura economica 20, del contesto istituzionale e delle stesse “politiche del lavoro” (inclusi i sussidi di disoccupazione). Il tasso naturale di disoccupazione è compatibile con un solo livello del salario reale d’equilibrio (w0), ma con un qualunque livello del salario monetario (W), posto che il livello dei prezzi vari in proporzione 21. Conseguentemente, anche qualunque tasso di crescita dei salari monetari è compatibile (data una proporzionale crescita dei prezzi) con il salario reale d’equilibrio e quindi con la piena occupazione. Pertanto, la curva di Phillips sarà rappresentata, grazie alla piena flessibilità di prezzi e salari, da una retta verticale in coincidenza del tasso naturale di disoccupazione, come la Ph* nella Fig. 8.2 (grafico di destra). La curva di Phillips verticale ottenuta dai monetaristi 22 si riferisce comunque all’equilibrio naturale di medio periodo 23 e solamente ad un tale equilibrio (diversamente dal risultato conseguito nell’ambito della Nuova Macroeconomia Classica: cfr. cap. 9). Solo nel medio periodo tende a scomparire, per i monetaristi, il trade-off tra inflazione e disoccupazione, essendo il tasso di disoccupazione fissato al livello del tasso naturale (un) e qualunque tasso d'inflazione – dipendente fra l’altro, come vedremo tra breve, dalle politiche perseguite dal governo – compatibile con esso. Nel breve periodo, tuttavia, anche per i monetaristi sussistono le tradizionali curve di Phillips inclinate negativamente, ossia con trade-off tra inflazione e disoccupazione (come la Ph e la Ph nella Fig. 8.2, parte (b)). Tuttavia queste curve di breve periodo sono, similmente alle curve di offerta aggregata, “aumentate” delle aspettative. Descriviamo ora come avviene l’aggiustamento dal breve al lungo periodo. Supponiamo di partire, con riferimento alla Fig. 8.2, da una posizione di equilibrio di medio periodo, con tasso d’inflazione nullo (per ipotesi) e tasso di disoccupazione uguale al tasso naturale un; ma supponiamo anche che il governo ritenga questa disoccupazione un eccessivamente elevata e si proponga di ridurla, diciamo a u0. Per conseguire questo fine, il policymaker può attuare una politica, ad esempio monetaria, espansiva e muovere il sistema verso il punto A. Il risultato è quello di far salire l’inflazione ad un valore positivo (π0 > 0), ma anche di ridurre, almeno temporaneamente, il tasso di disoccupazione (u0 < un). In effetti, anche i monetaristi riconoscono l’esistenza di un trade-off nel 19 Al di là di diversi mutamenti strutturali intervenuti nel mercato del lavoro (ad esempio la crescita dei tassi di attività femminili), alcune teorie, come quella dell’isteresi, spiegano non solo la persistenza della disoccupazione nel tempo, ma lo stesso aumento del tasso naturale di disoccupazione. Inoltre nel cap. 6 abbiamo evidenziato le aleatorietà delle stime empiriche del tasso di disoccupazione strutturale. 20 Come indagato in quella che PHELPS (1990), definisce scuola strutturalista, in cui sono enfatizzati gli shock reali ed il lato dell’offerta (si veda anche PHELPS, 1994). 21 Infatti w = W /P = (k W )/(k P ) per una qualunque costante k. 0 0 0 0 0 22 Si veda, in particolare, FRIEDMAN (1968, 1975), ma anche PHELPS (1967, 1970). In quest’ultimo lavoro, vengono per la prima volta esplicitate le microfondamenta della macroeconomia, con particolare riferimento all’inflazione ed alla disoccupazione. 23 Sebbene l’equilibrio corrispondente a u è in buona parte della letteratura noto come equilibrio di lungo n periodo, nel cap. 1 abbiamo spiegato perché è meglio definirlo equilibrio di medio periodo (riservando l’aggettivo “lungo” ai modelli di crescita).

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breve periodo; tuttavia, la disoccupazione può temporaneamente divergere dal tasso naturale, a causa di un particolare fenomeno 24: gli errori previsivi da parte degli agenti. Ad ogni modo, il punto A non può essere un punto di equilibrio di medio periodo, poiché la curva di Phillips passante per tale punto si riferisce ad un tasso d'inflazione atteso nullo, ossia Ph(πe = 0); in termini concreti, ciò significa che aspettative d’inflazione nulle sono ad esempio incorporate nel livello predeterminato dei salari (e degli altri contratti). Non appena gli agenti si rendono conto che l'inflazione è salita (π0 > 0), rispetto ai valori attesi (inizialmente nulli) e che quindi sono stati ingannati, allora modificheranno il proprio comportamento: ad esempio, i lavoratori avanzeranno richieste di aumento dei salari monetari. Una volta che le aspettative si saranno completamente aggiustate ed in assenza di altre frizioni o rigidità, il sistema sarà passato dal punto A al punto B, e la curva di Phillips si sarà spostata da Ph a Ph(πe = π0). Il punto B giace perpendicolarmente al di sopra del punto di partenza e quindi del tasso di disoccupazione un 25: la politica economica ha causato una maggiore inflazione, ma non è riuscita a ridurre il tasso di disoccupazione. In definitiva, nel medio periodo non esiste alcun trade-off che le autorità di politica economica possano tentare di sfruttare 26. Non appena il sistema sarà tornato nella posizione di equilibrio di medio periodo, il policymaker può ben ritentare l’esperimento, con una nuova politica economica espansiva, aumentando ancora un poco la crescita monetaria, al fine di ridurre la disoccupazione al di sotto di un. Temporaneamente può anche riuscire nel tentativo, portando il sistema nel punto A, con una disoccupazione u0 (ove u0 < un), ma con un’inflazione ancora maggiore (π1 > π0). Anche in questo caso, allorché le aspettative degli agenti si modificano, il sistema si riporta verso B, di nuovo in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione un. È pertanto evidente che la curva di Phillips di medio periodo coincide con la retta verticale (Ph*) soprastante un e congiungente i punti (come B, B, ...), che rappresentano le situazioni di aspettative realizzate: punti in cui il tasso d’inflazione effettivo coincide con quello atteso 27. La curva di Phillips aumentata con le aspettative può essere rappresentata nel seguente modo, in cui l’inflazione attesa viene esplicitata come determinante dell’inflazione effettiva: [8.1] πt = a πet − b (ut − un) e dove π t rappresenta l’aspettativa adattiva sul tasso d'inflazione, b è un parametro positivo 28, 24 D’altro canto le scuole keynesiane più recenti (cfr. par. 8.6) attribuiscono la causa delle deviazioni dal tasso naturale non solo agli errori previsivi degli agenti, ma anche a frizioni e rigidità di breve periodo (ad esempio nei salari). 25 Tralasciamo di soffermarci qui, per semplicità, sul percorso dinamico effettivamente seguito dal sistema per passare da un punto come A ad un punto come B. Sono ad esempio state ipotizzate, in alternativa a quella indicata nel testo, convergenze graduali, per cui il sistema passa inizialmente dal punto A ad un punto intermedio (tra A e B), sulla nuova curva Ph, con una successiva trasposizione di quest’ultima verso l’alto; oppure, ancora convergenze “a spirale” con andamenti ciclici, in cui il tasso di disoccupazione può temporaneamente eccedere quello naturale (si parla, in questo caso, di overshooting). 26 Nel caso in cui fosse stata attuata, anziché una politica monetaria, una politica fiscale espansiva, consistente in una variazione una tantum della spesa pubblica, il sistema, dopo aver raggiunto il punto A, tornerebbe al punto di partenza, con un’inflazione nulla. Nella nuova posizione di equilibrio, è solamente il livello dei prezzi che risulterebbe più elevato. D’altro canto, è poco realistico ipotizzare una crescita continua ed indefinita della spesa pubblica, diversamente da quanto può verificarsi a proposito dell’offerta di moneta (che anche per questo motivo è considerata la vera causa dell’inflazione). 27 Come ha giustamente fatto osservare Friedman, “non è possibile ingannare tutti gli individui per tutto il tempo”. Conseguentemente, il disequilibrio, inteso come allontanamento dalla posizione di equilibrio di piena occupazione, è un fenomeno temporaneo (in effetti è talvolta definito equilibrio temporaneo). 28 Il coefficiente b rappresenta la reattività dell’inflazione alle condizioni del sistema (stato della domanda e del mercato del lavoro): esso dipende da determinanti sia strutturali (quali la durata media e l’intensità dei cicli economici) sia istituzionali (inclusa la durata dei contratti di lavoro). Esso è, ad esempio, più elevato in

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ed a è il coefficiente d’aspettativa, generalmente posto dai monetaristi uguale all’unità (il termine a πet risulta quindi essere un fattore di spostamento della curva). Dall’equazione, risulta evidente la verticalità della curva di Phillips di medio periodo in corrispondenza del “tasso naturale” di disoccupazione, poiché πt = πet implica ut = un; al contrario, nel breve periodo, ut > un oppure ut < un, a seconda che πt < πet oppure πt > πet. In talune versioni, alla variabile πet è sostituita la variabile ritardata πt - 1 29. Effettuando questa sostituzione nella [8.1] e ponendo per semplicità a = 1, possiamo riscrivere l’equazione in questo modo: [8.2] πt − πt - 1 = − b (ut − un) in cui è palese che quando ut < un allora πt > πt – 1 (inflazione crescente), quando ut > un allora πt < πt – 1 (inflazione decrescente), e solo quando ut = un allora πt = πt – 1 (inflazione costante). Ecco perché il tasso di disoccupazione naturale un è anche chiamato – soprattutto nei modelli neokeynesiani – Nairu, ossia “non-accelerating inflation rate of unemployment” (cfr. par. 8.6). È pertanto evidente che una relazione come la [8.2] implica che nel medio periodo scompare il trade-off tra inflazione e disoccupazione, con un tasso di disoccupazione fissato al livello del tasso naturale (un). A ben vedere, il policymaker può tentare di mantenere la disoccupazione al di sotto di questo tasso naturale, mediante ripetuti esperimenti di politiche espansive ed incrementando continuamente il tasso di crescita monetaria, ma al costo però di un’inflazione non solo positiva, ma continuamente crescente nel tempo (0 < π0 < π1 < ...): è questa l’ipotesi accelerazionista avanzata dai monetaristi (FRIEDMAN, 1977). In effetti, data l’ipotesi di aspettative adattive, occorre “sorprendere” gli agenti con tassi d’inflazione sempre più elevati, per poter conseguire effetti reali; all’opposto il tasso naturale di disoccupazione è l’unico tasso compatibile con un’inflazione stabile. Sin dalla fine degli anni ’60, i monetaristi hanno addirittura avanzato l’ipotesi di una relazione positiva, almeno nel medio/lungo periodo, tra inflazione e disoccupazione, ossia di una curva di Phillips inclinata positivamente. Ipotesi questa non contraddetta dall’evidenza empirica corrispondente ai fenomeni di stagflazione, diffusi in molti paesi negli anni ’70, in cui crescita dell’inflazione e recessione, con conseguente aggravarsi della disoccupazione, si accompagnavano anche per periodi piuttosto lunghi. La spiegazione di Friedman parte dalla constatazione che, quando l’inflazione aumenta, si accresce pure la sua variabilità: ciò è ancor più dannoso dello stesso livello assoluto del tasso d’inflazione, in quanto un’inflazione alta e variabile causa incertezza negli operatori, inefficienze nei mercati (per le distorsioni provocate negli stessi prezzi relativi), instabilità nel sistema. In altre parole, al crescere dell’inflazione si può ridurre il livello di attività e quindi può crescere la disoccupazione 30. Gli economisti keynesiani privilegiano invece il modo di vedere secondo cui la stagflazione sarebbe causata dal comportamento delle autorità di politica economica, le quali in un contesto di elevata inflazione tentano di curare l’inflazione attraverso compressioni della domanda aggregata e quindi aumenti della disoccupazione. Queste politiche sono in gran parte destinate al fallimento, specie se l’inflazione non è “da domanda” ma “spinta dai costi”: in tal caso sarebbero più appropriate le politiche dei redditi (cfr. par. 8.5). A questo punto può essere interessante esaminare empiricamente l’andamento nel tempo delle due variabili – inflazione e disoccupazione – in relazione ad uno specifico sistema economipresenza di clausole di indicizzazione salariale, che possono innescare la cosiddetta spirale salari-prezzi, essendo i salari indicizzati ai prezzi e questi ultimi connessi ai salari tramite il “mark-up pricing”. 29 Con la tacita intesa che le aspettative sono di tipo statico (ovvero πe = π t t - 1). 30 Nell’interpretazione di Phelps si ipotizza invece che è il comportamento razionale dei lavoratori che li induce, a seguito dell’inflazione e dell’aspettativa di un’erosione dei loro salari reali, a ridurre l’offerta di lavoro, facendo così aumentare la disoccupazione (seppure “volontaria”).

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co, ad esempio quello italiano. Nella Fig. 8.2 è sintetizzata l’evoluzione congiunta di inflazione e disoccupazione dell’Italia nell’ultimo mezzo secolo 31. In sintesi, si segnalano le seguenti fasi principali: (i) una prima fase (fino al ciclo 1975-1977) di rilevante accelerazione inflazionistica che, a causa di prevalenti shock d’offerta, si accompagna ad un moderato aumento del tasso di disoccupazione (raggiungendo, rispettivamente, 16,9% e 6,6% nel ciclo finale); (ii) segue una seconda fase (fino al ciclo 1981-1982) di persistenza inflazionistica su livelli elevati ed incremento del tasso di disoccupazione (quest’ultimo raggiunge l’8,3% nell'ultimo ciclo), ancora a seguito di shock d’offerta; (iii) una terza fase (fino al ciclo 1986-1987) di marcata decelerazione inflazionistica e rilevante aumento del tasso di disoccupazione (rispettivamente 5,3% e 11,7% nell’ultimo ciclo): in questa fase politiche macroeconomiche restrittive fanno assumere alla curva di Phillips il tradizionale andamento decrescente; (iv) una ulteriore fase (fino al ciclo 1996-1998) in cui la prevalente ulteriore riduzione inflazionistica si accompagna ad andamenti altalenanti del tasso di disoccupazione che, comunque, persiste su livelli elevati; (v) la fase successiva include quattro cicli in circa un decennio (il ciclo finale si conclude nel 2009, anno della Grande Recessione) e si caratterizza per un’inflazione stabilmente bassa con una significativa riduzione del tasso di disoccupazione (rispettivamente, 2,0% e 7,2% nel ciclo finale 2004-09): in questo caso gli shock d’offerta sono stati positivi, prevalentemente istituzionali (riforma del mercato del lavoro); (vi) infine, l’ultima fase – che inizia nell’anno della Grande Recessione e si compone di due cicli di cui il secondo non ancora concluso – si caratterizza per un ulteriore calo del tasso di inflazione ed una forte risalita del tasso di disoccupazione (rispettivamente, 1,3% e 10% nel primo ciclo e 0,6% e 11,6% nel secondo ciclo); per questa ultima fase si segnala che shock di domanda negativi (recessioni ed austerità) hanno fatto aumentare la disoccupazione, con una ulteriore riduzione della già bassa inflazione ed effetti persistenti. Figura 8.2. – Tasso di inflazione e tasso di disoccupazione in Italia (1965-2018) 1975-77

1977-81

1981-82

Tasso di inflazione

15

1971-75

1982-86

10

1989-91 1987-89

1991-92 5

1992-96 2003-04

1965-71

2001-03

1996-98 1998-01

2004-09

1986-87

2009-14

2014-18

0 5

7

9 Tasso di disoccupazione

11

31 La periodizzazione è basata su “cicli economici completi” (da minimo a minimo) – di fonte Ecri (Economic Cycle Research Institute; “growth rate cycles”) – e i dati di ciascun punto esplicitato nel grafico sono “medie annue nel ciclo” delle due variabili inflazione e disoccupazione.

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8.4. Le politiche disinflazionistiche: il ruolo della moneta Le politiche disinflazionistiche sono in sostanza le politiche di rientro dall’inflazione (da non confondere con le politiche deflazionistiche che sono politiche restrittive, di controllo della domanda aggregata e quindi indirettamente dell’inflazione) 32. Diverse scuole propongono soluzioni diverse per il rientro da un’inflazione elevata. Per esempio, per i monetaristi, secondo cui l’unica vera causa dell'inflazione, soprattutto nel lungo periodo, è la quantità di moneta (cfr. cap. 7), l’azione suggerita è quella di ridurre la crescita monetaria. In termini grafici, si scivolerebbe verso il basso lungo una data curva di Phillips (cfr. Fig. 8.3). Se ad esempio l'inflazione di partenza (π0) è considerata indesiderabile e se l’obiettivo del policymaker è di abbassarla al livello π1, il problema è quello di condurre il sistema, mediante una politica monetaria restrittiva 33, dal punto A al punto E della curva di Phillips di medio periodo (Ph*): nel medio periodo, la disoccupazione rimane fissata al livello naturale (un). Figura 8.3. – Modalità alternative di rientro dall’inflazione 

Ph*

0

A

2

C

B

1

E

D

F

Ph(e = 0) Ph(e = 2)

un

u2

u1

u

Tuttavia, gli stessi monetaristi si sono trovati in disaccordo circa le modalità della riduzione monetaria. Se alcuni monetaristi, seguendo il suggerimento di F. von Hayek, hanno proposto una contrazione breve e forte, tale da consentire un rientro rapido (seppur costoso); lo stesso Friedman ha invece prospettato una riduzione pubblicizzata e costante, ma graduale dell’offerta di moneta. Il motivo è che con uno shock breve e forte, a volta chiamato “doccia fredda”, la disoccupazione aumenta significativamente nel breve periodo: infatti, il sistema può prima portarsi dal punto A al punto F, lungo la curva di Phillips di breve periodo Ph(πe = π0), ed in seguito dal punto F al punto E, via via che le aspettative si aggiustano ai nuovi più bassi tassi d’inflazione. Nel frattempo, però, la disoccupazione cresce sino a u1. 32 Inoltre, mentre la deflazione è un’inflazione negativa (cfr. par. 8.1), la disinflazione è la riduzione del tasso d’inflazione. 33 Supponendo che la crescita “normale” del reddito sia g * = 2%, se π = 8% è causato da una crescita moy 0 netaria pari a gm = 10% (ricordando che gm = gy* + π), allora per giungere all’obiettivo di π1 = 2%, gm deve abbassarsi a 4%.

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Patologie e ruolo delle politiche economiche

In letteratura, viene chiamato rapporto di sacrificio il rapporto tra la maggiore disoccupazione (più precisamente i punti cumulati di disoccupazione in eccesso rispetto a quella naturale) e la minore inflazione conseguita (dove il parametro b è quello della curva di Phillips): Ru, = ut/−t = 1/b In termini della Fig. 8.3 sarebbe dato dal rapporto tra (u1 − un) e −(1 − 0), ovvero tra il segmento EF ed il segmento AE 34. Tuttavia un tasso di disoccupazione così elevato come u1 potrebbe essere considerato socialmente indesiderabile od economicamente insopportabile. Esso corrisponderebbe infatti ad un crollo della produzione 35, in presenza di diffusi fallimenti di imprese, distruzioni (o mancati investimenti) di beni capitali e quindi effetti permanenti sul sistema economico. Inoltre, un tasso di disoccupazione elevato (socialmente insostenibile) può accentuare la conflittualità politico-sindacale e, quindi, rendere più difficile la stessa disinflazione. Allora una politica di rientro graduale dall'inflazione può essere preferibile 36. Per esempio, se il tasso massimo (socialmente sopportabile) di disoccupazione è posto pari a u2, allora è possibile ricorrere ad una contrazione monetaria meno forte, tale da condurre il sistema dapprima dal punto A al punto B e, al modificarsi delle aspettative (con i corrispondenti aggiustamenti, come il rinnovo dei contratti salariali), al punto C; poi, con una successiva restrizione monetaria, portare il sistema dal punto C al punto D, lungo una più bassa curva di Phillips Ph(πe = π2) e finalmente, grazie all’ulteriore aggiustamento delle aspettative, verso il punto di equilibrio finale E (eventualmente ripetendo l’intervento restrittivo più volte se necessario). Con questo secondo approccio, il rientro dall’inflazione risulta più lento ma meno costoso per la società, poiché riesce a sfruttare in modo positivo la gradualità con cui si aggiusta il settore privato dell’economia. Può quindi essere opportuno ricordare, in chiusura, quali sono le condizioni che devono essere soddisfatte per avere una disinflazione senza costi: 1. decisioni degli agenti basate sulle aspettative razionali (invece che adattive) 37; 2. assenza di rigidità nominali (prezzi temporaneamente fissi, contratti salariali, etc.); 3. credibilità della politica disinflazionistica. Solo se sono soddisfatte queste tre condizioni, una ferma politica disinflazionistica, attuata anche attraverso uno shock breve e forte, potrebbe ridurre l’inflazione istantaneamente da π0 a π1 (ossia dal punto A al punto E, lungo la retta verticale Ph* soprastante un), senza alcun costo in termini di disoccupazione; l’aggiustamento istantaneo potrebbe essere conseguito non appena la politica disinflazionistica è annunciata, se essa è ritenuta credibile dagli agenti pri34 In altre formulazioni il rapporto di sacrificio è espresso con la variazione del prodotto reale al numeratore e la riduzione dell’inflazione al denominatore. In tal caso, valori numerici ricavati in stime empiriche ottenute in passato variano tra 3 e 5: ciò significa che per ogni punto percentuale di minor inflazione, vi sono 3 punti percentuali in meno di prodotto reale annuo (cfr. MANKIW, 1992). 35 Per passare da Δu a g si utilizzi la legge di Okun (cfr. cap. 6). Così, volendo ad esempio ridurre l’inflaziot yt ne dall’8% al 2% in un singolo anno (t = –6) se ad es.  = 0,4 e Ru, = 1, la produzione ed il Pil devono ridursi del 15% rispetto alla crescita normale. 36 Storicamente, negli anni ’80 ci fu una lenta disinflazione in Italia (come risulta in Fig. 8.2), contrapposta alla doccia fredda attuata nel Regno Unito durante i governi Thatcher. 37 In effetti, l’esistenza di un trade-off tra inflazione e disoccupazione è collegata all’ipotesi di una velocità di aggiustamento dei salari (a sua volta connessa al meccanismo di formazione delle aspettative) inferiore rispetto a quella dei prezzi; ipotizzando invece uguali velocità di aggiustamento (come nel caso delle aspettative razionali) ed in assenza di altri tipi di rigidità, il salario reale risulta istantaneamente e continuamente fissato al livello di equilibrio walrasiano, ed il trade-off scompare anche nel breve periodo.

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vati 38. Le aspettative razionali e la credibilità delle politiche economiche 39 saranno trattate nel cap. 9, mentre cenni agli effetti delle rigidità nominali saranno fatti nel par. 8.6.

8.5. La politica dei redditi e la contrattazione salariale Secondo la visione keynesiana tradizionale (in particolare post-keynesiana), l’obiettivo della “stabilità monetaria” può essere conseguito – senza ricorrere a politiche restrittive sulla domanda aggregata, le quali curano l’inflazione causando recessione e disoccupazione (che è il “costo” della disinflazione) – attraverso la politica dei redditi 40. In termini grafici, la politica dei redditi – invece che far spostare dal punto B al punto A della Fig. 8.1 (grafico di sinistra), come avverrebbe con una politica monetaria restrittiva – farebbe spostare l’intera curva Ph verso l’interno, migliorando il trade-off tra inflazione e disoccupazione. Infatti, tra le diverse misure di politica economica aventi finalità anti-inflazionistiche o disinflazionistiche (ossia miranti a salvaguardare la stabilità monetaria oppure a ridurre la crescita dei prezzi nel caso di un’inflazione in corso), una misura importante è quella del controllo dell’espansione dei redditi monetari dei fattori produttivi. Questa politica è originata dalla visione secondo cui l’inflazione è causata da un conflitto distributivo, tale per cui i detentori dei fattori produttivi – lavoro e capitale – vogliono ciascuno accaparrarsi di una quota crescente del reddito nazionale (a scapito dell’altro fattore). In pratica, tuttavia, il controllo delle due categorie principali di reddito – salari e profitti – non è agevole. Inoltre, si ritiene che il controllo dei profitti possa essere attuato per via indiretta (dati i salari), tramite il controllo dei prezzi; ma pure il controllo dei prezzi è difficile ed inopportuno in un’economia di mercato. Un tale controllo non è nemmeno privo di effetti negativi, ad esempio un irrigidimento artificiale dei prezzi relativi, con conseguenti distorsioni nell’allocazione delle risorse (un’affermazione analoga potrebbe essere avanzata per i salari relativi) 41. In ogni caso, si ritiene preferibile che il controllo di prezzi e salari sia accompagnato anche da una politica di gestione della domanda aggregata oppure da politiche strutturali volte all’innalzamento della produttività del lavoro 42. Per quanto riguarda i salari, la ricetta per il controllo della loro dinamica (basata su una regola approssimativa) è apparentemente semplice: i salari dovrebbero crescere, per garantire un impatto nullo sull’inflazione, ad un tasso non superiore a quello della produttività del lavoro. Regole di questo tipo – che evitano conseguenze spiacevoli sulla competitività (si veda la discussione sul 38 Invece, una combinazione di rigidità nominali e di problemi di credibilità rende costosa la disinflazione, anche in presenza di aspettative razionali (BALL, 1991). 39 Qui anticipiamo solo che la credibilità è maggiore se la restrizione monetaria è accompagnata da un mutamento di regime, che ad esempio assegni maggiore autonomia alla banca centrale. 40 Cfr. LIPSEY, PARKIN (1970). 41 A livello macroeconomico, come risulta in base all’esperienza di quei paesi che l’hanno introdotto seppur in via temporanea (come Italia e Stati Uniti nei primi anni ’70), si è riscontrata una scarsa efficacia dei suddetti controlli, sia per la difficoltà di predisporre un’adeguata struttura di sorveglianza in un’economia di mercato, sia per il probabile verificarsi di un aumento dei prezzi al termine del periodo di disciplina (ove questo sia temporaneo). Nei paesi ad economia pianificata, come nei paesi dell’Europa dell’Est, si è presentato il fenomeno dell’inflazione repressa (collegato al fenomeno delle code per l’acquisto di taluni prodotti aventi “eccessi di domanda”) ed inoltre situazioni di inflazione molto elevata sono intervenute con l’avvio della transizione (fatta coincidere, appunto, con la liberalizzazione dei prezzi). In proposito, si veda MARELLI, SIGNORELLI (2010a). 42 L’impiego congiunto delle due politiche (controllo di prezzi e salari e regolazione della domanda aggregata) nella stessa direzione potrebbe facilitare il raggiungimento dell’obiettivo di lotta all’inflazione. Tuttavia, la manovra potrebbe essere realizzata anche in direzioni opposte: ad esempio, la politica dei redditi potrebbe contenere le conseguenze inflazionistiche di una politica espansiva volta al sostegno dell’occupazione.

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clup nel par. 6.7) – furono ad esempio inserite nelle “guidelines” predisposte negli Stati Uniti all’epoca della “New Economics” (ed accettate volontariamente dai sindacati dei lavoratori). Anche la ricetta per il controllo dei salari pone, tuttavia, dei problemi nelle applicazioni concrete, in quanto una loro regolamentazione diretta appare possibile solo per i dipendenti pubblici. Quanto al settore privato, se è vero che la produttività del lavoro cresce a tassi difformi tra i vari comparti produttivi o le diverse regioni di un dato paese (anche per il diverso operare del progresso tecnico, dell’intensificazione capitalistica dei processi produttivi, etc.), non è agevole ipotizzare simmetriche differenziazioni per la crescita salariale, a causa dei meccanismi “imitativi” che determinano la dinamica salariale a livello di comparto produttivo o di area territoriale 43. Prima di approfondire la visione keynesiana, osserviamo che i monetaristi sono contrari alla politica dei redditi. In termini analitici, fanno osservare, non ha molto senso cercare di spostare verso il basso una curva di Phillips, che nel medio/lungo periodo è sostanzialmente verticale; inoltre, a parte la constatazione che la politica dei redditi si è raramente dimostrata efficace nei casi reali, essa può distogliere l’attenzione dalle vere cause dell’inflazione, che sono in sostanza cause monetarie. In genere, una stretta monetaria e creditizia impone agli agenti privati un “autocontrollo” nelle richieste di adeguamenti di prezzi e salari; in caso contrario, le forze di mercato (in competizione fra di loro per ripartirsi mezzi monetari sempre più scarsi) conducono prima o poi all’automatica esclusione delle unità produttive “fuori mercato” (ovvero a fallimenti e licenziamenti). Una critica più generale, anche di fonte keynesiana, alla politica dei redditi concerne l’irrigidimento apportato dalla politica dei redditi all’esistente distribuzione del reddito, conseguenza non sempre accettabile 44, proprio perché l’inflazione può essere il sintomo di un disaccordo tra le parti sociali sulla distribuzione del reddito. Forme più deboli di politica dei redditi sono state peraltro suggerite, in alternativa alla soluzione dirigistica tipica delle economie centralmente pianificate, ad esempio attraverso 45: – l’approccio istituzionale, caratteristico dell'opzione “neocorporativa”, od anche degli accordi tra il Governo e le parti sociali caratteristici della concertazione (diffusa nei decenni passati in Germania e nei paesi scandinavi) 46. A fronte dell’impegno dei lavoratori a contenere la dinamica salariale e di una maggiore attenzione da parte dei datori di lavoro per la dinamica dei prezzi di vendita, il governo contribuisce ad una soluzione cooperativa, facendo leva su agevolazioni fiscali (ad esempio riduzione delle imposte dirette che gravano sui lavoratori o introduzione di correttivi per il “drenaggio fiscale”) o previdenziali (riduzione degli oneri sociali a carico delle imprese o loro parziale fiscalizzazione); – forme incentivanti di politica dei redditi, possibilmente introdotte attraverso un impiego appropriato dello strumento fiscale (come nella proposta post-keynesiana della tax-based 43 Una possibile soluzione potrebbe essere il decentramento (almeno parziale) della contrattazione salariale (cfr. cap. 21). D’altro canto, una politica dei redditi ad aggiustamento uniforme, seppur più semplice da applicare, rende più labile il nesso con la produttività (nesso che al contrario sarebbe preferibile mantenere non solo per evitare distorsioni nell’allocazione delle risorse, ma anche per i motivi addotti nell’ambito degli schemi di incentivazione salariale). 44 In effetti, il mantenimento dell’esistente distribuzione del reddito non sempre può essere compatibile con l’obiettivo dei sindacati dei lavoratori di conquistare (specie nei momenti di profondi rivolgimenti economico-sociali, come potevano essere gli ultimi anni ’60 o gli anni ’70) non solo nuovi spazi nei processi decisionali, ma anche una fetta più consistente del reddito prodotto. 45 Per una classificazione dei diversi tipi di politica dei redditi, sia dal punto di vista teorico che in relazione a numerose esperienze storiche, si veda ACOCELLA (1994 e 1999). 46 Od anche delle esperienze di “programmazione concertata”, avviata negli anni ’50 e ’60 in Francia.

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incomes policy); in questo caso, le “linee guida” governative possono essere un sostituto della fissazione centralizzata dei salari. Nei sistemi neocorporativi, in cui in aggiunta al ruolo attivo dello Stato nella mediazione dei conflitti sociali vi è un particolare sistema di rappresentanza sindacale e di contrattazione salariale (quali un sindacato dei lavoratori non frammentato e cooperativo, una contrattazione centralizzata, etc.), il trade-off tra inflazione e disoccupazione era generalmente minore. L’evidenza empirica basata sul cosiddetto indice di malessere 47, dato dalla somma tra tasso d’inflazione e tasso di disoccupazione, confermava la migliore performance di tali sistemi economici. Quanto all’Italia un esempio importante di concertazione fu quello attuato nel 1993 (sotto il governo Ciampi), che ha portato alla definitiva abolizione della “scala mobile” 48, oltre che ad una modifica del sistema di contrattazione (cfr. par. 21.4), ed ha davvero ridotto il nostro tasso d’inflazione avvicinandolo al livello medio europeo (condizione necessaria per poter adottare l’euro: cfr. cap. 16). Riguardo ai sistemi di contrattazione salariale, ricordiamo una nota classificazione 49 che distingue tra tre gruppi di paesi: i. paesi ad elevata centralizzazione nelle contrattazioni salariali, condotte in genere a livello di intero sistema economico, e con pochi (al limite uno solo) sindacati forti e rappresentativi, come i paesi scandinavi e l’Austria; ii. paesi a livello intermedio di centralizzazione, in cui diviene più importante la contrattazione a livello di settore produttivo 50, che includono i maggiori paesi europei; iii. paesi a basso livello di centralizzazione, con un elevato decentramento nelle contrattazioni, per lo più a livello d’impresa, ed in certi casi con una bassa sindacalizzazione, paesi quali gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Svizzera e il Giappone. Ebbene, mentre l’ultimo gruppo di paesi mostra in genere bassi tassi di disoccupazione (oltre che bassa inflazione), lo stesso risultato positivo è conseguito anche dal primo gruppo di paesi, in cui il sindacato è più consapevole dei vincoli e delle compatibilità macroeconomiche a livello di sistema. Al contrario, nel gruppo intermedio, l’elevata frammentazione sindacale rende più difficile un accordo, in merito alle richieste salariali ed alle misure di politica dei redditi, sia tra gli stessi sindacati dei lavoratori, sia con la controparte; ciò evidentemente peggiora il trade-off tra inflazione e disoccupazione 51. Alcuni lavori econometrici sulla curva di Phillips, che includono nelle stime un indice del “grado di corporatismo”, sembrano confermare queste relazioni (BRUNO, SACHS, 1985). Più in generale, riguardo al trade-off tra inflazione e disoccupazione, è rilevante l’assetto istituzionale del paese, con riferimento non solo ai sistemi di contrattazione salariale, ma an47 Talvolta

definito “indice di Okun” (cfr. VALLI, 1993). un sistema di indicizzazione dei salari, tale per cui i salari e le pensioni aumentavano automaticamente in ogni trimestre (negli anni ’70, poi semestralmente negli anni ’80) in funzione dell’aumento dei prezzi del trimestre precedente. 49 Cfr. CALMFORS, DRIFFILL (1988), CARLIN, SOSKICE (1990). 50 In alcuni paesi, il livello intermedio di contrattazione include anche la dimensione territoriale. Si noti inoltre che i tre livelli (aziendale, settoriale e nazionale) possono in certi casi intersecarsi ed essere contemporaneamente presenti nello stesso paese. 51 La spiegazione di TARANTELLI (1986) è che in un sistema a contrattazione decentrata, di tipo intermedio, i lavoratori tendono ad assumere comportamenti da free rider (ossia le rincorse nelle richieste salariali di vari gruppi di lavoratori non troverebbero un freno nella possibilità di abbassare il tasso d’inflazione). In ogni caso, un elevato livello di coesione sociale sembra giocare un ruolo decisivo (MC CALLUM, 1983). 48 Era

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che ad aspetti quali le relazioni industriali, il tipo di rappresentanza sindacale 52 e le altre caratteristiche istituzionali del mercato del lavoro (cfr. par. 6.8).

8.6. Effetti delle rigidità di prezzo: la Nuova Economia Keynesiana Abbiamo già precisato (alla fine del par.8.4) che una disinflazione potrebbe essere attuata senza costi reali (ossia aumento della disoccupazione) in presenza di aspettative razionali, politiche economiche credibili ed assenza di rigidità nominali. Queste ultime caratterizzano però la realtà economica; a livello teorico sono state studiate da filoni recenti, che pur accettano l’ipotesi di aspettative razionali (utilizzata nei modelli macroeconomici della Nuova Macroeconomia Classica, NMC, a partire dagli anni ’70: cfr. cap. 9), ma che rigettano la piena flessibilità dei prezzi e dei salari. In particolare, si tratta dei filoni della Nuova Economia Keynesiana (NEK), sviluppatasi dagli anni ’80 del secolo scorso 53. La NEK accetta non solo l’impiego delle aspettative razionali ma anche l’importanza delle fondamenta microeconomiche dei modelli macro, come proposto dalla NMC; a differenza di questa riconosce però l’esistenza di numerosi fenomeni di rigidità di prezzo o di altre imperfezioni di mercato (rigettando l’ipotesi dell’equilibrio walrasiano continuo ed istantaneo). Le rigidità possono essere spiegate, a livello microeconomico, sulla base di alcuni elementi microeconomici fondamentali 54: concorrenza imperfetta, informazione imperfetta, eterogeneità dei beni e dei fattori produttivi, tecnologia delle transazioni, imperfezioni nei mercati dei capitali. Le analisi sono riferite sia al lato dell’offerta aggregata che a quello della domanda (analisi particolari riguardano le funzioni del consumo e degli investimenti, i vincoli di liquidità, il razionamento del credito). La presenza di rigidità e frizioni rende ancora attuale l’impostazione keynesiana tradizionale, riguardo all’efficacia delle politiche di stabilizzazione, soprattutto nel breve periodo. In particolare, la politica monetaria torna ad essere pienamente efficace 55. Possiamo rappresentare semplicemente così il problema: se le autorità M, con P temporaneamente fissi (a causa delle rigidità di prezzo)  (M/P)  Y e u; in caso contrario, se non vi fossero rigidità nominali, M  P proporzionale  M/P rimarrebbe costante e non vi sarebbero effetti reali. Nella NEK, sono state indagate le imperfezioni nei mercati dei beni e del lavoro (ma anche dei capitali) 56; le rigidità di prezzo esistenti in entrambi i mercati possono essere sia di tipo nominale sia di tipo reale (le prime si riferiscono ai prezzi assoluti, le seconde ai prezzi relativi, oppure al rapporto tra salari monetari e prezzi, ossia ai salari reali). Sono queste frizioni microeconomiche, amplificate a livello macro 57, che causano l'irrigidimento dei prezzi (P e W) e, 52 Per esempio, in numerose stime empiriche della curva di Phillips (incluse quelle rivolte al caso italiano) è risultata spesso significativa l’inclusione tra le variabili esplicative (in aggiunta al tasso di disoccupazione) di una variabile esprimente il grado di pressione sindacale (come le ore di lavoro perse per scioperi), nonché di variabili rappresentative degli esistenti meccanismi di indicizzazione salariale (SYLOS LABINI, 1972). L’introduzione di variabili come la pressione sindacale può non solo causare uno spostamento della curva di Phillips, ma anche accentuarne la pendenza (MODIGLIANI, TARANTELLI, 1976). 53 Si vedano le rassegne di GORDON (1990) e MANKIW (1990); precedenti contributi in questo campo sono dovuti ad autori come O. Blanchard, O. Hart, E.S. Phelps, J. Rotemberg. Si veda anche il volume di MANKIW, ROMER (1991). 54 Cfr. STIGLITZ (1991). 55 Un esempio è fornito dal modello di TAYLOR (1985), in cui, nonostante l’ipotesi di aspettative razionali, la rigidità temporanea dei prezzi riapre degli spazi per la politica monetaria. 56 Su questo punto, cfr. ad esempio GREENWALD, STIGLITZ (1993). Le imperfezioni, le asimmetrie informative, la presenza di rischio ed incertezza, possono riguardare sia il settore del credito sia i mercati finanziari. 57 Le rigidità microeconomiche, esistenti nel mercato dei beni ed in quello del lavoro, si riflettono in modo

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in definitiva, il manifestarsi di effetti reali (ad esempio su reddito ed occupazione). Le rigidità di prezzo sono ipotizzate come temporanee (alcuni autori preferiscono parlare di “lento aggiustamento dei prezzi” ed in macroeconomia occorre spiegare la velocità relativa di aggiustamento delle macrovariabili), diversamente dai vecchi modelli keynesiani a prezzi fissi; pur essendo le rigidità temporanee, le politiche di stabilizzazione sono comunque utili per accelerare l’aggiustamento verso gli equilibri di medio periodo 58. Mentre abbiamo già illustrato alcuni modelli che spiegano le rigidità dei salari (insider-outsider, efficiency wages, isteresi: cfr. cap. 6), concentriamoci qui sul mercato dei beni. Un’impresa in concorrenza imperfetta è grado di scegliere il prezzo ottimale – diversamente dall’impresa perfettamente concorrenziale che è “price-taker” – ed è disposta a vendere, a quel prezzo, quanto richiesto dalla domanda. Agenti razionali possono scegliere volontariamente di attenersi a delle rigidità nominali, in presenza di certi costi di aggiustamento (come i “menu costs”, i mutamenti non sincronizzati di prezzo, ed altri ancora). I costi di mutamento dei prezzi sono confrontati con il costo-opportunità derivante dal mantenimento dei prezzi a livello invariato (quando invece sarebbe ottimale aumentarli, ad esempio se aumenta la domanda) 59. Questi costi d’aggiustamento o la presenza di altri tipi di frizioni possono apparire di entità trascurabile a livello microeconomico, ma vengono appunto amplificati a livello aggregato 60. I “menu costs” 61 sono i costi sostenuti dalle imprese per il mutamento dei prezzi di vendita (stampa di nuovi listini e cataloghi, sostituzione delle etichette, informazione alla clientela, etc.), nonché tutti i costi organizzativi (inclusi quelli per la raccolta di informazioni, il monitoraggio, il processo decisionale) e di negoziazione (riunioni, telefonate, contatti con fornitori e clienti). Altre spiegazioni sono state fornite per l'esistenza di rigidità di prezzo, rispetto a variazioni della domanda aggregata 62, tra cui le più rilevanti sono: (i) l’esistenza di contratti a lungo termine, nei quali il venditore si impegna a fornire la quantità variabile richiesta ad un prezzo temporaneamente fisso (salvo mutamenti nei costi di produzione); (ii) i rapporti di lungo periodo con la clientela, in cui il venditore, al fine di acquisire una buona reputazione e la fedeltà dei clienti, si impegna (anche informalmente, ossia prescindendo dall’esistenza di un contratamplificato a livello macroeconomico, per via delle esternalità (nonché della differenza tra costi privati e costi sociali). 58 Alcuni neokeynesiani sono disposti ad accogliere la validità dell’impostazione classica nel lungo periodo, a cominciare dal concetto di livello naturale del reddito (cfr. GORDON, 1990). Per spiegare la persistenza degli effetti reali anche nel lungo andare, occorre aggiungere qualche altra ipotesi, come nei modelli di “isteresi”, pure appartenenti al filone NEK. 59 Questo costo-opportunità può essere rappresentato dalla deviazione percentuale tra prezzo ottimale, p*, e prezzo corrente, pt: solamente quando quest’ultima deviazione supera, in valore assoluto, una certa soglia, allora conviene mutare il prezzo. 60 O perché piccoli costi privati dovuti alle rigidità corrispondono a rilevanti effetti sociali (BALL, MANKIW, ROMER, 1988) oppure perché vi sono le esternalità della domanda aggregata (BLANCHARD, KIYOTAKI, 1987). Si noti che in un contesto inflazionistico, il problema si riduce alla scelta del momento più opportuno per il rialzo dei prezzi; comunque, l’aggiustamento é più probabile all’insù (durante un’espansione) che all’ingiù (nel corso di una recessione). 61 Indagati inizialmente da BARRO (1972) ed in seguito da MANKIW (1985). Questi costi di aggiustamento fanno riferimento alle regole di determinazione di prezzo dipendenti dallo stato del sistema (state-dependent); cfr. BLANCHARD (1990). 62 Per esempio: differenziazioni del prodotto in concorrenza monopolistica; informazioni limitate (imperfette o asimmetriche), ad esempio in relazione alla transitorietà oppure alla permanenza dello spostamento della curva di domanda per l’impresa (in un contesto d’incertezza gli agenti non sanno valutare la rilevanza di un dato shock sulla domanda e preferiscono mantenere i prezzi fissi, lasciando aggiustare le quantità: scorte, lavoro straordinario, etc.); problemi di interazione strategica, per cui la rigidità di prezzo dipende dal fatto che l’impresa si aspetta che le altre imprese non aggiustino pienamente i loro prezzi.

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to formale) a non variare frequentemente i prezzi (anche in questo caso tranne che per mutamenti significativi nei costi di produzione). Regole approssimative di determinazione dei prezzi, del tipo mark-up pricing sono un’altra spiegazione; ci si è riferiti in proposito al concetto di quasi razionalità (AKERLOF, YELLEN, 1985), che implica una piccola deviazione dalla posizione di ottimalità; la deviazione può essere peraltro così piccola, e similmente la perdita per l’agente privato (in questo caso l’impresa), da non costituire un incentivo sufficiente perché muti il suo atteggiamento. Le decisioni sui prezzi da parte delle imprese dipendono anche dalla già citata interazione strategica: esse modificano i prezzi (e lo stesso può dirsi a proposito dei salari) solo se sono convinte che anche le altre imprese si stanno comportando allo stesso modo. In questo contesto, un equilibrio può essere definito come una situazione di mutua compatibilità in un gioco di interdipendenza strategica, in modo che nessuno abbia l’incentivo a deviare da tale situazione 63. Gli economisti neokeynesiani hanno quindi approfondito lo studio di modelli con aspettative razionali ed equilibri multipli 64. Per esempio, il problema della sottoccupazione keynesiana può essere rappresentato non solo dalla contrapposizione tra una posizione di equilibrio con disoccupazione ed una di equilibrio di piena occupazione, ma anche dal confronto tra un equilibrio con bassa occupazione ed uno (o più) equilibri con alta occupazione 65. Riguardo alle implicazioni di politica economica, la NEK ha fornito contributi sia riguardo alla costruzione della curva di Phillips 66, sia alla scelta delle politiche disinflazionistiche. Circa queste ultime, considerato che torna a valere il trade-off di breve periodo tra inflazione e disoccupazione, sono rigettate politiche del tipo “doccia fredda”, che potrebbe causare rilevanti e costosi effetti reali: è meglio una politica di rientro più graduale dall’inflazione, in modo coerente con lo scaglionamento dei contratti salariali asincroni ed in vista dei loro rinnovi o rinegoziazioni. Più specificamente, Taylor ha dimostrato che, in presenza di scaglionamento degli accordi salariali (contratti salariali di settori diversi o di categorie differenti di lavoratori che scadono in anni diversi), è ottimale una politica disinflazionistica graduale. Con riferimento al trade-off tra inflazione e disoccupazione, gli stessi economisti keynesiani hanno riconosciuto in un secondo tempo che la pendenza della curva di Phillips di medio/lungo periodo – pur non essendo verticale – è maggiore rispetto a quella di breve 67. Tuttavia anche i neokeynesiani rimangono più sensibili al confronto tra i costi sociali derivanti da inflazione e disoccupazione rispettivamente: il trade-off, essendo limitato al periodo di aggiustamento, può ben scomparire dalle analisi teoriche relative agli equilibri di medio/lungo periodo, ma non certo dall’“agenda” dei responsabili di politica economica, proprio perché l’aggiustamento può essere lungo e doloroso. In altre parole, il medio/lungo periodo è in realtà “troppo lungo” per poter giudicare superflui gli interventi stabilizzatori di politica economica. Inoltre, le stesse curve di Phillips di breve periodo sono derivate dai keynesiani con un andamento decrescente, non solo 63 Cfr.

MUSU (1996). ROTEMBERG (1987). 65 Gli equilibri multipli o “fragili” discendono dall’incorporazione, in un sistema dinamico, caratterizzato da date condizioni iniziali e dall’esperienza passata, di vari tipi di shock che perturbano il sistema; gli equilibri possono pure essere instabili, tali per cui in aggiunta alla “soluzione fondamentale” (che può pure essere unica), si possono presentare “bubbles” (ossia soluzioni divergenti). In particolare, le bolle speculative si possono definire come scostamenti auto-giustificantesi di una certa variabile (ad esempio il prezzo di un’attività finanziaria) dalle sue determinanti fondamentali. 66 Gli economisti della NEK fanno rilevare che l’inclinazione della curva di Phillips aumenta al crescere dell’inflazione media, in quanto è probabile che gli agenti siano meno disposti a mantenere invariati i prezzi (pur in presenza di piccole frizioni), per cui i cambiamenti di prezzo divengono più rapidi. 67 MODIGLIANI (1986) si è occupato anche del problema del “sentiero ottimale di rientro” dall’inflazione. 64 Cfr.

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sulla base del meccanismo di formazione delle aspettative (come supposto inizialmente dai monetaristi), ma anche per la presenza di rigidità nei prezzi e/o nei salari. A questo riguardo, si può aggiungere che i keynesiani hanno introdotto nelle loro analisi un concetto per certi versi simile a quello di “tasso naturale di disoccupazione” (come abbiamo anticipato nel par. 8.3): si tratta del Nairu 68, abbreviazione nella terminologia inglese per non-accelerating inflation rate of unemployment (tasso di disoccupazione che non accelera l'inflazione) 69. Al di là di diversi modi specifici secondo cui il Nairu può essere derivato 70, esso non si basa – diversamente dal “tasso naturale” utilizzato dai monetaristi – sullo schema di equilibrio generale walrasiano, ma sulle ipotesi di imperfezioni di mercato e di disequilibrio. Esso tiene pure conto delle eterogeneità dei lavoratori, dei costi di mobilità, degli schemi di contrattazione salariale, degli effetti dei sussidi di disoccupazione, e così via 71.

8.7. Le iperinflazioni ed il fiscal drag Prescindendo dal dibattito sui costi e benefici dell’inflazione (cfr. par. 8.1), è opinione comune che tassi d’inflazione molto elevati siano da contrastare in tutti i modi. Si conoscono due tipi principali di iperinflazione: (i) vampate inflazionistiche, molto intense (con tassi annui del 500% ed oltre) ma di breve durata: si sono verificate in molti paesi europei durante o alla fine delle due guerre mondiali; (ii) inflazioni prolungate, anche per molti anni consecutivi sino a divenire croniche, ma meno intense con tassi fino al 100-200%), episodi questi frequenti in molti paesi dell’America Latina soprattutto negli anni ’80. Una definizione alquanto restrittiva è proposta da CAGAN (1956) secondo cui l’iperinflazione ha inizio “nel mese in cui il tasso di incremento del livello dei prezzi supera la soglia del 50%, e ha termine nel mese precedente a quello in cui il tasso di inflazione scende al di sotto di tale valore, per restarvi poi almeno per un anno” 72. Nella Tab. 8.1 si presentano i dati principali relativi a 15 episodi di iperinflazione. Si noti che essi sono prevalentemente concentrati in tre periodi: (i) nella prima metà degli anni ’20, cioè dopo la fine della prima guerra mondiale (Austria, Russia, Germania, Polonia e Ungheria); (ii) intorno alla metà degli anni ’40, cioè negli ultimi anni della seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra (Grecia, Ungheria e Cina); 73 (iii) nella seconda metà degli anni ’80 e primissimi anni ’90 (Bolivia, Nicaragua, Perù, Argentina, Jugoslavia, Polonia e Brasile). In termini di intensità (sia mensile che cumulata) dell’iperinflazione, subito dopo il secon68 Cfr. MODIGLIANI, PAPADEMOS (1976). Questi autori utilizzarono all’inizio un concetto simile, denominato Niru (non-inflationary rate of unemployment). Un altro concetto analogo è il Nawru, basato sui salari invece che sul livello dei prezzi. 69 Il Nairu corrisponde in realtà a quel tasso di disoccupazione d’equilibrio che non accelera il livello dei prezzi, ossia che mantiene costante il tasso d’inflazione (essendo derivato sulla base di aspettative del tipo: Pet – Pt – 1 = Pt – 1 – Pt – 2); comunque, anche in questo caso una disoccupazione inferiore al livello naturale comporta un'inflazione crescente (NICKELL, 1990). 70 Per esempio, considerando il potere di mercato di imprese e lavoratori in condizioni di concorrenza imperfetta; oppure disequilibri in singoli mercati, con pressioni inflazionistiche in alcuni e deflazionistiche in altri (cfr. CARLIN, SOSKICE, 1990, e TOBIN, 1996). 71 Tuttavia, anche un tale tasso di disoccupazione non costituisce un limite invalicabile, al di sotto del quale non può essere portata la disoccupazione (TOBIN, 1985b) e può aumentare nel tempo, come sostenuto nella “teoria dell'isteresi” (cfr. cap. 6). 72 Si noti che un tasso di inflazione del 50% mensile corrisponde ad un tasso annuo del 13.000%. 73 Particolarmente eclatante risulta il (secondo) caso di iperinflazione ungherese in cui – nei dodici mesi di durata (da agosto 1945 a luglio 1946) – il tasso di inflazione medio mensile risultò di poco inferiore al 20.000%, determinando così un’impressionante variazione cumulata del livello dei prezzi.

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do episodio ungherese viene quello della Germania (dall’agosto 1922 al novembre 1923) con un tasso di inflazione mensile medio e massimo, rispettivamente del 322% e 32.400% (si veda in proposito WEBB, 1989). Tale drammatico evento economico e sociale, che fu una delle cause remote della nascita del movimento nazista, rimase scolpito nella “memoria storica” del popolo tedesco (anche a distanza di molti decenni) determinando in qualche misura quell’atteggiamento fortemente “conservatore” (cioè particolarmente attento alla “stabilità dei prezzi”) che caratterizzò – per decenni – la politica monetaria della banca centrale tedesca (Bundesbank) e ancora oggi influisce sull’atteggiamento dei membri tedeschi del direttivo della Bce. Anche l’Italia (pur non riportata in tabella) soffrí per episodi di iperinflazione verso la fine della Seconda Guerra mondiale 74. In generale, è da sottolineare che la causa prima delle iperinflazioni è un’eccessiva crescita monetaria 75. Questa è a sua volta dovuta quasi sempre ad ampi disavanzi di bilancio ed all’incapacità dei governi di finanziarsi con prestiti, governi che quindi optano per la monetizzazione del debito 76. I disavanzi di bilancio sono causati da un insieme di fattori quali: l’arretratezza economica e strutturale di tali paesi, la debolezza del sistema fiscale, l’instabilità dell’economia mondiale (che ad esempio determina forti oscillazioni dei prezzi delle materie prime, fonte principale delle esportazioni di molti Pvs), talvolta i comportamenti opportunistici e distorti dei governi interessati (si pensi all’incidenza delle spese militari, anche in periodi di pace, nonché alle enormi spese nei periodi di guerra e, talvolta, per pagare le “riparazioni” ai paesi vincitori). Tabella 8.1. – I principali episodi di iperinflazione Inizio

Fine

Austria Russia Germania Polonia Ungheria I Grecia Ungheria II

Ott. 1921 Dic. 1921 Ago. 1922 Gen. 1923 Mar. 1923 Nov. 1943 Ago. 1945

Ago. 1922 Gen. 1924 Nov. 1923 Gen. 1924 Feb. 1924 Nov. 1944 Lug. 1946

Durata (mesi) 11 26 16 13 12 13 12

Cina Bolivia Nicaragua Perù Argentina Jugoslavia Polonia Brasile

Feb. 1947 Apr. 1984 Apr. 1987 Set. 1988 Mag. 1989 Set. 1989 Ott. 1989 Dic. 1989

Mar. 1949 Set. 1985 Mar. 1991 Apr. 1989 Mar. 1990 Dic. 1989 Gen. 1990 Mar. 1990

26 18 48 8 11 4 4 4

PF/PI 69,9 124.000 12.000.000.000 699 44 470.000.000 3.810.000.000.000. 000.000.000.000.000 4.150.000 1.028,5 553.000 23,54 664,5 5,18 3,96 8

Media dei TdI mensili 47,1 57 322 81,4 46 365 19.800 79,7 48,1 46,45 48,4 65,95 50,9 41,2 68,6

Massimo TdI mensile 134 213 32.400 275 98 85.500.000 41.900.000. 000.000.000 919,9 192,8 261,15 114,1 196,6 59,7 77,3 81,3

Legenda: PF/PI = livello dei prezzi nell’ultimo mese dell’iperinflazione diviso per il livello dei prezzi nel primo mese; TdI = Tasso di Inflazione (in %). Fonte: i dati relativi ad Austria, Germania ed Ungheria sono tratti da CAGAN (1956); quelli relativi alla Cina sono tratti da SHUN-HSIN CHOU (1963). Per gli episodi di iperinflazione relativi ai periodi più recenti ed agli altri paesi, i dati sono tratti da IMF – International Financial Statistics (vari numeri) nonché da altre fonti nazionali. 74 Negli anni 2000 un paese colpito da iperinflazione fu lo Zimbabwe. Più recentemente il Venezuela è tornato ad avvicinarsi a situazioni di iperinflazione. 75 Si veda, ad esempio, CAGAN (1956) e DORNBUSCH et al. (1990). 76 Si tratta spesso di debito estero. Inizialmente i governi tentano di allettare i creditori alzando i tassi d’interesse, ma proprio questo fa peggiorare i disavanzi e può far precipitare la crisi del debito.

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L’incapacità del sistema fiscale di coprire con le imposte le spese pubbliche può essere aggravata dalla stessa inflazione, che così è causa oltre che conseguenza dei disavanzi di bilancio. Il cosiddetto effetto Tanzi-Olivera, consiste nel fatto che, tassando i redditi nominali (come avviene in tutti i paesi), con imposte riscosse con ritardo – per cui Tt =  (Pt – 1 Yt – 1), ove l’aliquota  viene applicata ai redditi nominali del periodo precedente – allora il gettito reale delle imposte, Tt/Pt, ed anche l’incidenza sul Pil corrente, Tt/(PtYt), sono molto ridotti quando Pt è molto maggiore di Pt – 1 (nel caso delle iperinflazioni può essere maggiore anche di 100 o 1.000 volte, come si può vedere in Tab. 8.1). Il signoraggio, ossia i proventi reali derivanti dall’emissione di moneta (cfr. cap. 10) è dapprima una funzione crescente dell’aumento dello stock di moneta, poi comincia a diminuire per il calo della domanda di moneta (“la moneta scotta”) 77 al crescere dell’inflazione e dell’inflazione attesa. Le iperinflazioni sono quindi caratterizzate non solo da accelerazioni nella crescita monetaria e dell’inflazione ma anche da un calo della produzione, a causa delle inefficienze nelle transazioni (sempre più frequenti spostamenti in banca per prelevare denaro, “carriole per trasportare il denaro”), dell’incertezza generata dalla volatilità dell’inflazione, delle distorsioni nei prezzi relativi e della perdita di efficienza del sistema dei prezzi (e dei pagamenti). La persistenza di un’elevata inflazione può essere dovuta a diversi fattori, ma un ruolo cruciale è svolto dalle aspettative. L’esistenza di meccanismi d’indicizzazione dei salari (od anche di altri redditi), che consentono di convivere con l’inflazione riducendone i costi per i percettori dei redditi nominali, causano anche maggiore persistenza poiché generano un legame molto stretto tra inflazione presente (nonché futura attraverso le aspettative) e passata. Per combattere le iperinflazioni (cfr. SARGENT, 1982b), sono di solito adottati dei programmi di stabilizzazione 78 (richiesti anche dal Fondo Monetario Internazionale al momento della concessione dei suoi prestiti ai paesi in difficoltà finanziarie), essenzialmente imperniati su: i. una politica monetaria non accomodante, basata su una crescita monetaria contenuta e credibile; la credibilità può essere rafforzata dall’ancoraggio del tasso di cambio ad una valuta forte (il dollaro, in passato il marco tedesco, oggi l’euro), fino ad arrivare a forme estreme come il currency board (adottato ad esempio dall’Argentina negli anni ’90) 79; ii. una politica fiscale poggiante su una riforma fiscale che porti ad una riduzione credibile dei disavanzi pubblici 80, per evitare appunto i rischi di monetizzazione; iii. in certi casi (specie nei programmi di stabilizzazione eterodossi, come quelli seguiti dal Brasile negli anni ’80 e ’90), anche politiche dei redditi, con controlli dei salari e/o dei prezzi, che possono essere utili per coordinare e sospingere le aspettative attorno ad un più basso tasso d’inflazione (cfr. DORNBUSCH, SIMONSEN, 1987).

77 Per cui si fa economia di scorte monetarie, ricorrendo al limite al baratto oppure ricorrendo ad una valuta straniera forte (il fenomeno della “dollarizzazione” dell’economia). 78 L’aspettativa di insuccesso di un programma di stabilizzazione è solitamente condizione sufficiente per il suo fallimento (cioè gli operatori economici sono in grado di determinare l’autorealizzazione di tale aspettativa). BLANCHARD (1998) sottolinea che “anche i programmi ben congegnati funzionano solo se i mercati se lo aspettano. In parole semplici, la fortuna e le pubbliche relazioni hanno la loro importanza”. 79 Tali legami con valute estere possono divenire insostenibili in presenza di significativi differenziali di inflazione che comportano un apprezzamento del tasso di cambio reale e, quindi, un peggioramento della competitività, una contrazione delle esportazioni ed un peggioramento della bilancia commerciale. Per esempio l’Argentina riuscì a sconfiggere negli anni ’90 l’iperinflazione grazie al “currency board” (strumento su cui torneremo nel cap. 12), come consigliato dai “Chicago boys”, ma alla lunga ciò determinò la crisi del 2000-01. 80 Una temporanea e concordata (con i paesi creditori o con il Fmi) sospensione del pagamento degli interessi sul debito estero può essere talvolta d’aiuto.

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I programmi di stabilizzazione possono implicare alti costi economico-sociali nel breve e medio periodo: può comparire recessione (per la non piena credibilità delle politiche di risanamento, pur in assenza di rigidità nominali, per l’effetto delle politiche monetarie e fiscali restrittive, per eccessive rivalutazioni del tasso di cambio reale), con cali di produzione ed occupazione 81, con conseguenti opposizioni o rivolte sociali che rendono più difficoltoso l’aggiustamento 82. Poc’anzi si è fatto cenno alla persistenza dell’inflazione, che può essere causata da meccanismi d’indicizzazione: ciò riguarda non solo le situazioni di iperinflazione ma anche i casi di inflazione medio-alta, con tassi annui attorno al 10-20%. In particolare, sistemi d’indicizzazione salariale (come la “scala mobile” in Italia negli anni ’70-’80) sono normalmente presenti nelle economie con elevata e volatile inflazione. Paradossalmente, l’indicizzazione è vista con favore dai monetaristi, perché limita le fluttuazioni del reddito conseguenti a perturbazioni improvvise e non anticipate, in particolare shock nominali o da domanda (ad esempio monetari) 83. Altri vantaggi dell’indicizzazione salariale consistono, secondo Friedman, nella riduzione dei costi connessi a frequenti rinegoziazioni dei contratti salariali (inclusi quelli derivanti dai conflitti di lavoro) e nella facilitazione dei processi di rientro dall’inflazione (che altrimenti potrebbero causare preoccupanti fenomeni di recessione e disoccupazione). Alcuni keynesiani sono invece contrari ai sistemi di indicizzazione, in quanto essi accentuano le fluttuazioni di reddito se lo shock è d’offerta o di tipo reale; infatti, in presenza di uno shock d’offerta, la stabilizzazione del reddito richiede una certa flessibilità del salario reale, per favorire i processi di aggiustamento macroeconomico 84. È proprio nel caso di un’economia con indicizzazione completa, ossia con offerta aggregata verticale, che la politica economica di stabilizzazione, sia essa monetaria o fiscale, perde efficacia ed ha effetto solamente sul livello dei prezzi (MODIGLIANI, PADOA SCHIOPPA, 1977). L’indicizzazione degli scaglioni di reddito nominale 85 serve invece per eliminare un fenomeno distorsivo delle economie reali: il fiscal drag, fenomeno che si presenta in contesti d’inflazione alta o moderata (ma significativamente maggiore di zero). Questo fenomeno si presenta con un sistema progressivo d’imposte sul reddito, in cui invece di avere: T =  Y, come nei sistemi proporzionali ipotizzati finora (con  costante), possiamo scrivere la seguente funzione: T = (Y) ● Y 81 Inoltre, nelle fasi di iperinflazione e durante le politiche di stabilizzazione si possono determinare forti incentivi alla fuga dall’economia formale verso l’economia sommersa. Si noti anche che una politica di controllo della dinamica dei redditi nominali sarebbe più stringente su alcuni tipi di reddito “più controllabili” (ad esempio i redditi da lavoro dipendente, soprattutto del settore pubblico) determinando effetti redistributivi rilevanti e connesse contestazioni. 82 Il Brasile riuscì a sconfiggere l’iperinflazione a metà anni ’90 dopo oltre dieci tentativi. 83 Con l’indicizzazione la curva di offerta aggregata AS diviene più verticale, minimizzando (al limite annullando) le fluttuazioni di reddito conseguenti ad un dato spostamento della domanda aggregata; pertanto, l’indicizzazione funge da “stabilizzatore automatico”. 84 In alternativa, è stato proposto di escludere dall’indicizzazione (dei salari ai prezzi) le componenti dovute ai disturbi di natura reale, come quelli afferenti all’inflazione importata (depurando ad esempio l’indice dei prezzi al consumo dalle variazioni dei prezzi relativi dei beni intermedi importati); oppure quelle conseguenti alle manovre di politica fiscale (ad esempio sulle tariffe e sulle imposte indirette). Sui problemi dell’indicizzazione, si veda anche FISCHER (1986). 85 Indicizzazione auspicata, tra gli altri, dai monetaristi che sono a favore di tutte le indicizzazioni (non solo dei salari), ad esempio delle diverse categorie di reddito, inclusi i proventi delle attività finanziarie. L’indicizzazione degli scaglioni è da loro vista con favore anche perché, con il ridurre una delle fonti automatiche di entrata dei bilanci pubblici, renderebbe le autorità fiscali più “responsabili” anche sul fronte della spesa pubblica.

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essendo le aliquote d’imposta () una funzione crescente del reddito: a scaglioni progressivamente più elevati di reddito sono applicate aliquote via via crescenti 86. Un tale sistema progressivo non crea problemi, anzi viene ritenuto equo, quando a crescere è il reddito reale. Il problema è che in pratica tutti i sistemi fiscali tassano i redditi nominali, ossia: T€ = (Y€) ● Y€ dove Y€(= PY) è il reddito nominale; ebbene l’inflazione fa slittare i percettori di reddito verso scaglioni d’imposta più elevati (Y€ perché P), facendo così aumentare il prelievo fiscale, anche quando il reddito reale fosse al limite costante. È questa distorsione fiscale 87 che potrebbe essere eliminata attraverso l’indicizzazione degli scaglioni d’imposta.

86 Esempio (del tutto ipotetico):  =0 per redditi fino a 10 mila euro annui;  =10% per redditi da 10 mila a 20 mila;  =20% per redditi da 20 mila a 30 mila;  =30% per redditi da 30 mila a 40 mila e così via. Questo sistema si contrappone a quello detto della flat tax, in cui l’aliquota d’imposta è costante (indipendente dal livello del reddito) e l’eventuale progressività viene introdotta solo attraverso le detrazioni d’imposta. 87 Nel contesto di elevata inflazione dell’Italia degli anni ’70, il fiscal drag ha comportato (soprattutto nella seconda metà del decennio quando era entrata a regime la nuova imposta Irpef) un notevole aumento della pressione fiscale. Correttivi automatici (simili ad un sistema di indicizzazione) furono introdotti negli anni ’80. Nello scorso decennio, pur essendo l’inflazione molto più contenuta, le perdite per i contribuenti causate dal fiscal drag sono state talvolta significative – non esistendo da tempo alcun correttivo automatico – se cumulate nel tempo.

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9.1. La Nuova Macroeconomia Classica La Nuova Macroconomia Classica (nel seguito abbreviata come NMC) 1 è una scuola scaturita, a partire dagli anni ’70, ad opera di economisti come R.E. Lucas, T.J. Sargent, N. Wallace, R.J. Barro, prevalentemente dal ceppo monetarista 2. Anche per questa scuola, l’obiettivo della costruzione teorica era pure quello di fornire una nuova interpretazione delle situazioni di crisi ed inflazione degli anni ’70. Questa scuola è anche denominata, in modo impreciso ma eloquente, scuola delle aspettative razionali 3. Già nel nome è evidente il debito nei confronti della scuola neoclassica (di fine ‘800 ed inizio ‘900) ed il rifiuto del paradigma keynesiano (cfr. cap. 4). È accolta l’ipotesi di un reddito normalmente fissato al livello naturale, anche se è ammessa la possibilità di deviazioni temporanee e sono pure indagate le cause monetarie delle fluttuazioni cicliche. Questi fenomeni non sono tuttavia attribuiti a rigidità di salari e prezzi (come avviene nei modelli keynesiani) e nemmeno alla lentezza nell’aggiustamento delle aspettative (come nei modelli monetaristi). Essi sono piuttosto messi in relazione con un problema particolare: quello informativo. In altre parole, sono gli errori previsivi che possono determinare delle posizioni di “equilibrio temporaneo” diverse dai livelli naturali; infatti, anche le suddette deviazioni sono esaminate all’interno di modelli d’equilibrio. Il primo assioma fondamentale su cui poggia l’apparato teorico della NMC è infatti quello dell’equilibrio walrasiano, sebbene si distinse subito da tutte le altre scuole macroeconomiche per via del secondo assioma: le aspettative razionali. Mentre però quest’ultima ipotesi è stata accettata da altri filoni, come quello della NEK (cfr. par. 8.6) 4, sempre più fondamentale veniva considerata, nel corso del tempo, la prima ipotesi, quella dell’equilibrio di mercato walra1 Il termine “Nuova Macroeconomia Classica” fu inizialmente divulgato da SARGENT (1979); altri autori preferiscono la dizione “Nuova Economia Classica”. 2 Lo stesso Lucas riconosce il debito intellettuale nei confronti di M. Friedman. Non deve perciò sorprendere che TOBIN (1981) definì la NMC come monetarismo del tipo II. Si vedano anche le argomentazioni di Stein (1982) e HOOVER (1984). Tuttavia, economisti come LAIDLER (1990) respingono l’etichetta di monetarismo mark II, per via delle differenze metodologiche comunque presenti. 3 Inizialmente era infatti considerata come maggiormente caratterizzante della nuova scuola l’ipotesi di aspettative razionali, anche perché molti modelli macroeconomici precedenti assumevano l’ipotesi semplicistica di previsione perfetta oppure partivano da meccanismi semplici di formazione delle aspettative (come le aspettative adattive). 4 L’ipotesi di aspettative razionali è esplicitamente considerata compatibile con la visione keynesiana di fondo anche da BEGG (1982).

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siano con prezzi pienamente flessibili. L’equilibrio di mercato walrasiano è caratterizzato dalle due seguenti sotto-ipotesi: i. nelle economie di mercato le decisioni sono prese a livello decentrato, secondo il principio dell’equilibrio concorrenziale individualistico, da agenti razionali, ciascuno dei quali massimizza la propria funzione obiettivo (i consumatori-lavoratori la propria funzione di utilità, le imprese i profitti, etc.); ii. i prezzi dei beni e delle risorse produttive, che rispondono agli eccessi di domanda/offerta sui singoli mercati (in un sistema perfettamente competitivo), costituiscono gli appropriati segnali lanciati agli agenti perché questi modifichino le proprie decisioni; è pertanto evidente che tutti i prezzi, compresi i salari monetari, devono essere pienamente ed istantaneamente flessibili (in entrambe le direzioni). I modelli della NMC sono definiti modelli d’equilibrio proprio perché si ritiene che i prezzi effettivi coincidano continuamente con i prezzi d’equilibrio 5. Quindi la flessibilità dei prezzi garantisce l’equilibrio di mercato (market clearing), che nelle versioni estreme si suppone unico, istantaneo e continuo. In aggiunta all’ipotesi di equilibrio walrasiano ed a quella di aspettative razionali (che sarà illustrata tra breve), in alcune trattazioni della NMC sono talvolta poste due ipotesi supplementari, relative rispettivamente all’esistenza di: un tasso naturale di disoccupazione e di una funzione di offerta aggregata di tipo particolare (come la funzione di offerta à la Lucas); un ambiente stocastico sottoposto a continue perturbazioni. Quest’ultima ipotesi costituisce un’importante differenza rispetto all’originario modello walrasiano di equilibrio economico generale e, più in generale, rispetto ai modelli classici prekeynesiani. In effetti, l’ambiente economico nei modelli della NMC, anziché essere di tipo deterministico, è stocastico, ossia sottoposto a ripetuti shock: così, i segnali di prezzo possono risultare disturbati ed il sistema può temporaneamente divergere dalla posizione di equilibrio 6. Scopo dell’analisi macroeconomica diviene pertanto quello di prevedere il comportamento di un sistema economico sottoposto a vari shock, sia reali che monetari. Un’altra caratteristica della NMC è che sono ancor più importanti le fondamenta microeconomiche dell’analisi macroeconomica. Per la verità, una più completa rifondazione microeconomica della macroeconomia, incluso il lato dell’offerta, si può far risalire agli attacchi portati alla fine degli anni ’60 da Friedman e Phelps alla curva di Phillips (cfr. cap. 8) 7. Rispetto alle analisi precedenti, le fondamenta microeconomiche sono tuttavia indagate nella NMC attraverso un apparato teorico e metodologico più raffinato – un metodo analitico superiore – consistente nella sistematica esplicitazione formale degli assiomi di razionalità ed ottimalità. Sono perciò respinti i ragionamenti intuitivi ed approssimativi, le relazioni comportamentali 5 Invece, secondo la teoria macroeconomica precedente (compresa quella della scuola monetarista) una tale coincidenza si verifica solamente nel medio/lungo periodo, mentre nel breve – tipicamente caratterizzato da una posizione di disequilibrio – si possono soltanto osservare dei prezzi che stanno convergendo verso l’equilibrio. 6 Nei primissimi modelli della NMC si supponeva l’esistenza di un ambiente perfetto, che implica non solo mercati perfettamente concorrenziali, ma anche informazione completa. L’ipotesi di previsione perfetta è molto più forte che non quella di aspettative razionali, per cui è stata in genere abbandonata, specialmente nelle analisi degli effetti degli shock e nelle spiegazioni delle fluttuazioni cicliche. Nei successivi contributi della NMC si riconosce esplicitamente la necessità di considerare i costi d’aggiustamento e l’informazione incompleta. 7 Quasi contemporanea è l’analisi del mercato del lavoro svolta da LUCAS, RAPPING (1969), che peraltro non faceva ancora uso del concetto di aspettative razionali.

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derivate dal “senso comune”, le ipotesi ad hoc (ad esempio quelle relative ai fenomeni non spiegati di rigidità salariali), nonché gli stessi schemi analitici parziali 8. Infatti, una delle principali critiche di Lucas agli schemi macroeconomici di tipo keynesiano (ed indirettamente anche a quelli monetaristi) è che le ipotesi attinenti alla funzione d’offerta aggregata, nonché alle principali funzioni di comportamento (consumi, investimenti, domanda e offerta di lavoro, domanda di moneta, etc.), sono poste in modo sconnesso rispetto alle caratteristiche dell’equilibrio dei singoli agenti (consumatori, lavoratori, imprese, etc.) 9. In effetti, la giustificazione della necessità che la macroeconomia si basi sulle microfondamenta 10 sta nella constatazione che i sistemi economici comprendono numerosi individui (od agenti), e che essi soli prendono le decisioni economiche, in modo ipotizzato razionale. Infatti, si sono diffusi nell’analisi macroeconomica modelli teorici basati sull’agente rappresentativo, attraverso il quale si pretende di rappresentare il comportamento medio dell’intera economia 11: si tratta naturalmente di un agente razionale, sistematicamente massimizzante, etc. Pertanto, mentre i monetaristi tradizionali erano considerati marshalliani piuttosto che walrasiani perché l’approccio di Marshall era ritenuto più gestibile nella comprensione della realtà (giustificando così il ricorso all’analisi di singoli mercati o la stima di singole equazioni) 12, gli esponenti della NMC preferiscono richiamarsi non solo agli insegnamenti di Walras, ma anche alla costruzione teorica della scuola austriaca 13. Tuttavia, a parte non trascurabili difformità teoriche ed analitiche 14, anche le conclusioni di politica economica sono simili: le politiche di stabilizzazione sono non necessarie e talvolta dannose. Proprio per l’estremizzazione delle posizioni circa la valutazione delle politiche di stabilizzazione, considerate inefficaci persino nel breve periodo (a meno che siano non anticipate: cfr. par. 9.4), la NMC è pure stata definita come “monetarismo radicale”.

8 I limiti di questo approccio sono stati criticati fortemente da LUCAS e SARGENT (1978) in un saggio dal titolo significativo (after keynesian macroeconomics). D’altro canto, un monetarista come LAIDLER (1986) ha osservato che, piuttosto che mirare ad irrealizzabili o non operativi obiettivi di perfezione teorica dei modelli, sarebbe meglio definire i criteri per scegliere tra teorie sub-ottimali ma più realistiche. HAHN (1991) ha aggiunto che “lo strumentario analitico sembra oggi più rilevante, di per sé, che non il contenuto nello studio dell’economia politica”. 9 Cfr. LUCAS e SARGENT (1978). 10 Alla tradizionale distinzione, secondo cui la microeconomia studia il comportamento del singolo individuo quando prende le decisioni economiche e la macroeconomia analizza il funzionamento aggregato dei sistemi economici, alcuni autori preferiscono considerare la prima come una teoria allocativa delle risorse e la seconda come una teoria della determinazione della produzione e dell’occupazione; in questo modo, la microeconomia viene a ricomprendere anche la teoria dell’equilibrio economico generale (cfr. JANSSEN, 1991). 11 Tutti gli agenti sono ipotizzati identici ed i problemi di aggregazione sono esclusi. Per alcune critiche all’ipotesi di agente rappresentativo, cfr. KIRMAN (1992). 12 Friedman accetta pure la distinzione marshalliana degli equilibri dal punto di vista dell’orizzonte temporale: equilibrio di mercato, di breve e di lungo periodo. 13 Si veda LAIDLER (1981 e 1986); lo stesso LUCAS (1987) presenta espliciti riferimenti alle teorie, ad esempio in tema di ciclo economico, di von Hayek. Si rammenta inoltre che la scuola austriaca si caratterizza soprattutto per l’analisi microeconomica, in aree come quelle della teoria del valore, della teoria monetaria e della teoria del capitale. 14 A livello analitico, non solo la NMC utilizza avanzate tecniche matematiche e statistiche di analisi, ma la costruzione teorica prende inoltre le mosse da un procedimento assoluto di massimizzazione. La scuola austriaca riconosce invece l’importanza delle eterogenità, dell’incertezza, delle deviazioni dalle posizioni di equilibrio (gli stessi cicli economici non sono considerati fenomeni di equilibrio). Si veda HOOVER (1984, 1988).

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9.2. Le aspettative razionali Una delle innovazioni più rilevanti della NMC, è quella di aver chiaramente mostrato l’importanza dell’informazione nelle moderne economie di mercato. Tra le caratterizzazioni fondamentali della struttura di un dato sistema economico oggi deve essere necessariamente inclusa un’ipotesi sulla natura dell’informazione che gli agenti economici hanno circa quella stessa struttura. Questi temi sono divenuti centrali proprio con la rivoluzione delle aspettative razionali. Già in Keynes troviamo considerazioni sul ruolo centrale delle aspettative, a cominciare dall’idea degli “animal spirit” (cfr. cap. 4), secondo cui ondate di pessimismo degli imprenditori possono causare recessione e disoccupazione; un’idea che costituisce in un certo senso un’anticipazione dei fenomeni di auto-realizzazione delle aspettative. Negli studi keynesiani, le aspettative erano tuttavia trattate come generalmente esogene, inoltre, non si riteneva possibile una loro formalizzazione, in quanto basate su informazione incompleta ed incertezza (nel senso di F. Knight), piuttosto che su un rischio calcolabile 15. I primi modelli, sia keynesiani che monetaristi, utilizzavano il concetto di aspettativa adattiva (cfr. par. 1.5); introdotto negli anni ’50, è stato a lungo utilizzato nei modelli macroeconomici ed econometrici. Pur essendo abbastanza intuitivo ed anche facile da quantificare, il problema maggiore è che esso tiene conto in modo meccanicistico, con un semplice procedimento di estrapolazione, solamente della “storia” passata di una data variabile: ossia è di tipo backward-looking. Il presente ed il futuro non contano, come dovrebbe essere nel caso di aspettative forward-looking, secondo cui i valori futuri di una macrovariabile sono previsti utilizzando tutta l’informazione disponibile nel momento in cui sono formulate le previsioni. Per quanto riguarda, ad esempio, le aspettative di prezzo, questo procedimento genera delle aspettative sistematicamente errate, sebbene l’errore di previsione commesso possa essere più o meno rilevante. Figura 9.1. – L’errore sistematico delle aspettative adattive P P1 Pe

P0

t0

t

15 Una formalizzazione basata sul concetto di rischio calcolabile è invece accolta nella teoria delle aspettative razionali, considerata pure l’esplicita affermazione di Lucas (1977), secondo cui l’analisi economica non può trattare in modo proficuo i problemi posti dall’incertezza.

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La Fig. 9.1 illustra questo punto. Si supponga che i prezzi effettivi siano rimasti al livello P0 sino al tempo t0 (P = P0 se t < t0) e quindi salgano improvvisamente (ad esempio a seguito di uno shock) a P1, per poi rimanere fermi al nuovo livello (P = P1 se t ≥ t0). Le aspettative adattive, calcolate secondo la formula della relazione [1.18], tengono conto del livello dei prezzi degli anni passati, seppure con pesi decrescenti allontanandoci indietro nel tempo; per cui, al trascorrere del tempo (spostandoci a destra di t0), le aspettative di prezzo sono sempre più influenzate dal nuovo livello dei prezzi e tendono a crescere (esse sono rappresentate dalla curva Pe che converge asintoticamente alla retta P1). L’errore di previsione (rappresentato dalla distanza tra la retta P1 e la curva Pe) tende a decrescere, ma permane nel corso del tempo: in questo senso, le aspettative adattive sono sistematicamente errate. L’“irrazionalità” della procedura di formazione delle aspettative sopra indicata, al di là della sistematicità dell’errore previsivo, può essere mostrata con il seguente esempio. Si supponga che si verifichi un improvviso shock sui prezzi, positivo (come quello petrolifero del 19731974) oppure negativo (come la discesa del prezzo del petrolio nel 2014), che subito viene ad essere noto a tutti gli agenti: ciascun individuo, tenendo conto di questa informazione resasi disponibile, dovrebbe prevedere una immediata variazione del livello dei prezzi; variazione decisamente verso l’alto o verso il basso nei due esempi fatti 16. È proprio per questo motivo che sin dagli anni ’60 fu introdotto il concetto di “aspettativa razionale”, risalente al contributo originario di MUTH (1961); ma l’utilizzo sistematico delle aspettative razionali nelle analisi teoriche è dovuto a Lucas e seguaci, nei primi anni ’70. Da allora, la diffusione di questo nuovo concetto è stata rapida, tanto che dagli anni ’80 pure molti economisti keynesiani (almeno del filone NEK: cfr. par. 8.6) hanno iniziato ad impiegarlo nelle proprie analisi teoriche. Vi sono differenti modi per definire le “aspettative razionali”. Il più semplice definisce come aspettative razionali quelle formate nel modo migliore possibile (con un evidente richiamo alla razionalità degli agenti economici, anche nel processo di formazione delle aspettative). Un’ulteriore qualificazione definisce razionali le aspettative che impiegano in modo economicamente efficiente 17 tutte le informazioni disponibili. Queste devono includere anche la conoscenza dei modelli economici teorici, del comportamento effettivo e previsto delle autorità di politica economica, nonché la consapevolezza che tutti gli altri agenti abbiano lo stesso tipo di informazioni (questa è l’ipotesi di conoscenza comune) 18. Sono proprio le informazioni sulle misure di politica economica, attuali e previste, che hanno reso critici gli annunci di queste politiche al fine di influenzare il comportamento degli agenti privati (come vedremo più avanti in questo capitolo). Restando in tema di aspettative di prezzo, una loro possibile formalizzazione è la seguente: [9.1] Pet = E [Pt │Φt – 1] 16 Tuttavia, le aspettative adattive, che si basano esclusivamente sulla storia passata piuttosto che sullo stato corrente e previsto del sistema, mostrerebbero un aggiustamento del livello dei prezzi solo graduale con il trascorrere del tempo, nonostante la consapevolezza del verificarsi di shock improvvisi. 17 L’uso “efficiente” delle informazioni, tuttavia, non può non tener conto del costo implicato dalla ricerca e dall’elaborazione delle suddette informazioni (cfr. FISCHER, 1980). La contro-risposta è che contano solo le informazioni rilevanti per il processo decisionale; inoltre gli agenti privati possono rapportarsi alle informazioni di cui sono dotati alcuni agenti-chiave o che sono diffuse sui “media” oppure da appositi organismi, come i centri di previsioni econometriche. 18 In un certo senso, i modelli con aspettative razionali costituiscono un’estensione dei precedenti modelli con previsione perfetta, nei quali (in relazione ad esempio al concetto di common knowledge) si suppone che gli agenti conoscano non solo la soluzione del modello, ma anche il fatto che gli altri individui conoscano la stessa soluzione.

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in cui Pet sono i valori dei prezzi che gli agenti si attendono per il tempo t, Pt i prezzi effettivi sempre al tempo t, E è il valore atteso della variabile Pt, condizionato 19 all’insiemeinformazione al tempo t – 1 (Φt – 1), il quale include le informazioni disponibili nel momento in cui sono fatte le previsioni (cioè t – 1). Più in dettaglio, l’insieme-informazione Φ include: i. il modello teorico rilevante, ossia l’insieme di equazioni strutturali che descrive, secondo la teoria economica “corretta”, il funzionamento di un dato sistema economico; ii. il valore dei parametri strutturali inclusi nel modello teorico; iii. il valore delle variabili sino al tempo t – 1; iv. le proprietà statistiche degli errori casuali (ad esempio la loro media, varianza e covarianza nel tempo). Quanto al primo punto, non si può negare che la teoria economica rilevante possa essere d’ausilio nella formulazione di appropriate previsioni sul livello dei prezzi (ad esempio al fine di selezionare le principali determinanti ed indagarne gli effetti) 20. Tuttavia, la posizione della NMC si spinge oltre questa constatazione e per teoria economica corretta gli esponenti della NMC intendono proprio la teoria walrasiana dell’equilibrio economico generale. Solamente se gli agenti formano le loro aspettative basandosi su una tale teoria 21, il livello atteso dei prezzi risulta uguale al livello effettivo d’equilibrio previsto dal modello teorico walrasiano; ovvero le aspettative coincidono, in media, con le predizioni dello stesso modello. Questo procedimento implica pure che gli agenti rappresentati nel modello si comportano come se conoscessero il modello stesso 22. Le aspettative razionali sono esatte in media, diversamente dalle aspettative adattative. Esatte in media significa che le aspettative razionali non sono sistematicamente errate, altrimenti gli errori sistematici di previsione compiuti in passato dagli agenti sarebbero inclusi nell’insieme-informazione, così da portare prima o poi alla formazione di aspettative corrette. Ma corrette previsioni non significa che si prevede con certezza il valore da assegnare ad una certa variabile; ad esempio, aspettativa razionale non significa che si possa scrivere: Pet = Pt in quanto questa uguaglianza implicherebbe previsione perfetta. Invece, esatte in media significa che casualmente esse possono risultare errate, a causa di errori di previsione, compiuti da singoli agenti od anche nell’aggregato; quest’ultima eventualità è maggiormente probabile a seguito di improvvisi shock (specie se si tratta di eventi unici 19 Il valore atteso (in senso statistico) di una variabile condizionato ad un insieme-informazione (questo è il significato della barra nella parentesi quadra della formula) significa che tale valore atteso è calcolato supponendo note le informazioni incluse in quell’insieme. Ovvero, considerato dato l’insieme-informazione, possiamo più semplicemente scrivere: Pet = E[Pt]. 20 Per esempio, tutte le variabili sottostanti alla curva AD ed alla curva AS nel modello AD-AS (cfr. cap. 1). 21 Invece in realtà non esiste un unico vero modello rappresentativo del reale funzionamento del sistema economico, ma sono in genere disponibili diversi ed alternativi modelli previsivi, spesso riflettenti le difformi impostazioni teoriche. Pertanto i critici della NMC hanno fatto osservare che convinzioni eterogenee tra gli stessi agenti privati possono generare comportamenti anche opposti fra di loro (cfr. FRYDMAN, PHELPS, 1984). 22 In termini più precisi, si può anche affermare che le distribuzioni soggettive di probabilità degli agenti circa gli eventi futuri coincidono con le distribuzioni oggettive implicate dal modello (ove queste ultime siano utilizzate da tutti gli agenti).

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e non ricorrenti) o di “sorprese” di politica economica (come vedremo tra breve) 23. Essendo l’aspettativa di prezzo essa stessa una variabile stocastica (ovvero la previsione tende ad essere perfetta a meno di errori previsivi dovuti a disturbi stocastici), si deve poter scrivere: [9.2] Pet = Pt + εt 24 dove εt è una variabile casuale . Dalle ipotesi sulle proprietà statistiche degli errori discende 25 immediatamente che le aspettative razionali sono esatte in media (ossia “non distorte”). L’aspetto più problematico del concetto di aspettativa razionale non è tanto di natura concettuale, ma piuttosto di tipo pratico ed empirico 26. È comunque notevole e duraturo il contributo dato dalla “rivoluzione delle aspettative razionali” allo sviluppo dell’economia dell’informazione, la quale studia non solo i metodi di formazione delle aspettative, ma anche altre questioni come i processi di elaborazione e di diffusione delle informazioni. Certamente l’ipotesi di aspettative razionali spiega meglio il comportamento di taluni mercati competitivi e ben organizzati, caratterizzati da bassi costi informativi e transattivi, come i mercati finanziari, che non dell’intera economia e meno ancora del mercato del lavoro (caratterizzato da imperfezioni ed eterogeneità). Si può pure rilevare infine che, mentre nelle teorie economiche precedenti, l’efficacia della politica economica di stabilizzazione derivava per i keynesiani anche dal vantaggio informativo che il governo possiede nei confronti dei privati (oltre che dalla possibilità di poter agire più rapidamente) e l’inutilità di una tale politica era fatta dipendere dai monetaristi dalle lacune, anche informative, che caratterizzano l’azione economica del governo (al pari dei privati); lo stesso risultato di inefficacia è invece derivato nella NMC partendo dall’ipotesi di informazione perfetta che caratterizza tutti gli agenti, sia privati sia pubblici (salvo errori di natura casuale).

9.3. L’offerta à la Lucas ed effetti reali degli errori previsivi Tra le ipotesi di base della NMC, c’è l’accettazione del concetto di tasso naturale di disoccupazione, congiuntamente a quello di livello naturale di reddito: ma ciò avviene all’interno di un particolare funzione di offerta. Infatti, Lucas, in alcuni contributi famosi (1972, 1973), ha proposto l’impiego di una curva d’offerta 27, poi ampiamente utilizzata nelle analisi successive della NMC, del seguente tipo: [9.3] Yst = Yn + β (Pt − Pet) + εst in cui Yst è l’offerta aggregata, Yn è il livello naturale del reddito, β è un parametro che rappre23 Si

tenga inoltre presente che, escludendo processi di apprendimento, le aspettative razionali sono riviste nel corso del tempo soltanto a seguito di nuove informazioni disponibili (le cosiddette news). 24 Questa variabile casuale ha le seguenti proprietà: E(ε ) = 0 e E(ε ε t t t – i) = 0, ovvero, gli errori di previsione εt sono del tipo white noise, ossia devono avere media nulla ed essere serialmente non correlati nel tempo (per ogni i ≠ 0), oltre a possedere una varianza costante. 25 Infatti: E(Pe ) = E(P ) + E(ε ) = P + 0 = P . Il significato è che il valore atteso dell’aspettativa (razionale) sui t t t t t prezzi coincide con i prezzi veri. 26 È ad esempio risultato alquanto difficoltoso (nonostante lo sviluppo di diverse procedure di calcolo a partire dagli anni ’80) incorporare in un modello, economico e soprattutto econometrico, tale concetto, in quanto ciò comporta la soluzione simultanea per le variabili effettive (come Pt) e per quelle attese (come Pet), mutuamente dipendenti fra di loro. 27 Simile ad una funzione già utilizzata in precedenza da Friedman e Phelps.

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senta la sensibilità 28 di tale offerta alle sorprese di prezzo (ossia gli errori Pt − Pet), εst rappresenta i disturbi casuali sull’offerta 29; Pt indica il livello generale dei prezzi 30. Calcolando i valori attesi della [9.3], si dimostra 31 che l’offerta aggregata coincide in media con il reddito naturale. Essa può divergere da tale reddito (ossia il prodotto può oscillare in modo casuale attorno al livello naturale) soltanto se vi sono degli errori di previsione sui prezzi da parte degli agenti (errori colti dal termine Pt − Pet); oppure per deviazioni dovute a shock reali imprevisti (colti dal termine εst), ad esempio nella tecnologia 32. La relazione [9.3] rappresenta una curva d’offerta aggregata per l’intera economia. Essa può essere derivata mediante l’aggregazione di similari curve d’offerta individuali dei singoli produttori 33. Una rappresentazione grafica della curva di offerta di Lucas è fornita dalla Fig. 9.2. La curva di offerta aggregata è rappresentata dalla curva di offerta verticale (S*), in corrispondenza del reddito naturale (Yn). Essa è verticale anche nel breve periodo 34, grazie all’ipotesi di aspettative razionali e di assenza in media di errori previsivi (le aspettative degli agenti sono mediamente realizzate); diversamente dalla curva d’offerta dei modelli tradizionali, che nel breve periodo è inclinata positivamente (cfr. cap. 1). In effetti per i monetaristi, ed a maggior ragione per i keynesiani, la tipica risposta del sistema ad uno shock di domanda è, nel breve periodo, una variazione delle “quantità” (reddito, occupazione, etc.). Al contrario, per la NMC l’unico effetto è la variazione dei prezzi anche nel breve periodo, posto che la variazione della domanda sia stata perfettamente anticipata 35. L’unico modo per ricavare nel contesto della NMC curve di offerta inclinate positivamente è quello di ipotizzare degli errori di previsione da parte degli agenti. Ad esempio, la curva di offerta indicata come S(Pe = P0) è ricavata sulla base di aspettative di prezzo pari a P0: ebbene, se i prezzi effettivi coincidono con P0, il reddito offerto coincide con il reddito naturale; altrimenti, in base alla [9.3] (e con β > 0), se P > P0 allora Ys > Yn, mentre se P < P0, allora Ys < Yn.

28 In seguito si mostrerà che tale sensibilità è funzione del rapporto tra variabilità nel livello generale dei prezzi e variabilità nei prezzi dei singoli prodotti. 29 Anche tali disturbi dovrebbero avere media nulla, varianza finita ed essere serialmente non correlati. 30 Nei modelli, le variabili, come P , sono frequentemente espresse in forma logaritmica, in quanto è facilt mente ricavabile una misura del tasso d’inflazione, essendo approssimativamente uguale alla differenza pt − pt-1, ove p = log(P). 31 Infatti: E(Ys ) = E(Y ) + E(P – Pe ) + E(εs ) = Y + 0 + 0 = Y . t t t n t n n 32 Si noti che gli errori previsivi possono riguardare anche la natura dello shock, addirittura anche quando quest’ultimo si è già verificato. In particolare, gli agenti (a parte la possibile confusione tra shock aggregati e shock idiosincratici, su cui ci soffermeremo tra breve) possono non riconoscere la natura transitoria o permanente della perturbazione. 33 Oltre a rappresentare una relazione di equilibrio (pur potendosi trattare di un equilibrio condizionato dallo stato delle aspettative) la [9.3] mostra che nella curva di offerta di Lucas è invertita la causalità rispetto alle tradizionali curve di Phillips (cfr. cap. 8): in quest’ultima, le variabili di prezzo (inflazione) dipendono da quelle reali (disoccupazione), mentre nella [9.3] è il reddito reale che dipende dai prezzi. 34 È possibile pure reinterpretare l’impostazione della NMC a proposito dell’offerta aggregata partendo da un’impostazione simile a quella rappresentata dalla Fig. 1.4. Ovvero, si può supporre che, a seguito di uno shock che faccia spostare la domanda aggregata (ad esempio verso l’alto da AD a AD usando i simboli di quel grafico), anche l’offerta aggregata (AS) si sposta istantaneamente in modo simmetrico, proprio grazie all’ipotesi di aspettative razionali (anziché adattive), lasciando il livello di output immutato. 35 In ogni caso le variazioni dei prezzi devono temporalmente precedere quelle, eventuali, delle quantità (considerata la causalità implicata dalla relazione [9.3]).

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Figura 9.2. – Errori previsivi ed effetti reali P

S* S(P e = P0)

P0

Yn

Y

In altre parole, la curva di offerta può risultare inclinata positivamente solo se vi sono errori di previsione sui prezzi da parte degli agenti 36. Può così verificarsi che, in presenza di uno shock positivo sulla domanda aggregata e di errori previsivi, l’aumento dei prezzi oltre i valori attesi (Pt > Pet nella [9.3]) faccia crescere il reddito offerto oltre il livello naturale (Yst > Yn): risulta pertanto una correlazione positiva tra prezzi e reddito. Una prima evidente implicazione della curva di offerta à la Lucas è quindi che un qualunque aumento della domanda aggregata può avere degli effetti reali se e solo se vi sono errori previsivi da parte degli agenti, a causa di carenze informative (per cui le variazioni della domanda non sono correttamente anticipate) o, in altre parole, solo se alcuni agenti sono “tratti in inganno”: in questo senso le deviazioni del reddito dal livello naturale non sono comunque desiderabili, anche nel caso in cui risultassero possibili. Si può illustrare questa implicazione con tre esempi, riferiti rispettivamente al mercato del lavoro, a quello dei beni ed alle azioni di politica economica. Il primo esempio 37, qui presentato, si riferisce al modello di asimmetria nel mercato del lavoro, rappresentato nella Fig. 9.3, la quale presenta i salari monetari in ordinata. Pertanto, se la domanda di lavoro dipende dai salari reali (W/P), ogni variazione dei prezzi farà spostare la curva di domanda; quest’ipotesi regge ad esempio nel caso in cui le imprese basino le proprie decisioni sui prezzi attesi, ma esse sono dotate di previsione perfetta (ossia P = Pe per i datori di lavoro). Al contrario della situazione precedente, si suppone che i lavoratori regolino la propria offerta di lavoro in funzione dei prezzi attesi, ma che vi sia un ritardo temporale nel36 Tali errori (e quindi la non verticalità della curva d’offerta) possono peraltro persistere solamente per un breve periodo. Si noti che anche nell’approccio delle aspettative razionali si ammette che la raccolta ed elaborazione delle informazioni può richiedere costi e tempo, per cui implica quasi sempre anche un processo di apprendimento (learning); è stata perfino ipotizzata una forma più debole di aspettative razionali, valida nel medio/lungo periodo piuttosto che nel breve (cfr. B. FRIEDMAN, 1979). In altre parole, può essere razionale per gli agenti seguire regole previsive semplici e poco costose, incluso un meccanismo di formazione delle aspettative di tipo adattivo. 37 Questo esempio risale, per la verità, non a Lucas ed alla NMC, ma a FRIEDMAN (1968) ed al primo monetarismo. Tuttavia, esso consente di introdurre facilmente la discussione sul modello di Lucas e Rapping e di presentare in modo semplice il problema delle conseguenze degli errori previsivi.

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la formazione delle aspettative di prezzo (Pet = Pt – 1): in altre parole, i lavoratori sono soggetti ad errore di previsione che si prolunga temporalmente per almeno un periodo. Figura 9.3. – Errori previsivi nell’offerta di lavoro W N s (P1e  P0 )

W1 W0 N d(P1) N d(P0) N0

N1

N

Partendo ora dalla posizione iniziale di equilibrio della Fig. 9.3, si supponga che si verifichi l’annuncio di un aumento dell’offerta di moneta, con un subitaneo rialzo dei prezzi (da P0 a P1); conseguentemente, la domanda di lavoro si sposterà dalla posizione Nd(P0) alla nuova posizione Nd(P1). Al contrario, i lavoratori, formulando le proprie aspettative in modo errato (Pe1 = P0), manterranno invariata la curva di offerta. Pertanto, nel nuovo punto di equilibrio si determinerà un aumento dei salari monetari ed un aumento dell’occupazione (rispettivamente a W1 ed a N1). L’aumento dell’occupazione è stato possibile perché i salari reali sono in realtà diminuiti (W1/P1 < W0/P0), facendo così aumentare la domanda di lavoro, ma i lavoratori non si sono accorti di questo, poiché sono a conoscenza solamente dell’aumento dei salari monetari ma non di quello dei prezzi: in questo senso, sono stati ingannati. È comunque proprio questa percezione erronea dei prezzi, causata dall’ipotizzata asimmetria informativa, che consente all’aumento dell’offerta di moneta (e quindi del livello dei prezzi) di manifestare effetti reali, pur essendo il mercato del lavoro sempre in equilibrio. L’esplicita inclusione delle aspettative sul livello dei prezzi nella derivazione della funzione di offerta di lavoro risale al modello di scelta intertemporale contenuto nello studio pionieristico di LUCAS, RAPPING (1969), che peraltro non utilizza ancora il concetto di aspettative razionali 38. Nel loro modello di scelta intertemporale, un aumento del salario reale considerato temporaneo induce una sostituzione tra lavoro e tempo libero ovvero, per essere più precisi, tra lavoro futuro e lavoro corrente, provocando un aumento dell’offerta di lavoro; al contrario, un aumento salariale giudicato permanente non comporta effetti rilevanti. Da qui, l’ipo38 Questo tipo di approccio microeconomico, per inciso, può dar origine ad una curva di offerta simile alla [9.3], ma con un procedimento differente rispetto a quello delle “isole” illustrato più avanti nel testo (LUCAS, 1972); il procedimento ideato da Lucas e Rapping passa attraverso gli effetti degli errori previsivi di prezzo sul tasso d’interesse reale, variabile questa che è importante per scontare ad oggi i salari futuri (attesi).

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tesi di un’elevata elasticità (al salario) dell’offerta di lavoro nel breve, ma non nel lungo periodo: l’occupazione fluttua in risposta a deviazioni dei salari dai loro livelli “normali” (o ritenuti tali nel lungo periodo) e la disoccupazione che ne deriva è volontaria 39. Un altro esempio di errori previsivi può essere fatto con riferimento al mercato dei beni; si tratta del modello del ciclo con informazione imperfetta – noto in letteratura come “parabola delle isole” – proposto dallo stesso LUCAS (1972, 1973). Si supponga che nel sistema economico vi siano produttori locali che operano in mercati separati o “isole”. Supponiamo, semplificando qui l’esposizione del modello di Lucas, che tali produttori conoscano perfettamente il prezzo del proprio prodotto (iPet = iPt) ed invece conoscano in modo imperfetto (o non istantaneo) i prezzi vigenti sugli altri mercati (compresi quelli degli input produttivi) e quindi lo stesso livello generale dei prezzi; ad esempio, può darsi che quest’ultima informazione arrivi con un ritardo (ossia Pet = Pt – 1). Ebbene, sino a quando tutti i prezzi rimangono costanti, la produzione offerta da ciascun produttore rimane pure costante. Se però aumentano tutti i prezzi, compreso il livello generale dei prezzi, ad esempio per un’espansione monetaria o comunque per uno shock aggregato, i produttori locali si rendono conto solamente dell’aumento di prezzo nel proprio mercato (iP1 > iP0) e non della variazione nel livello generale dei prezzi (Pe1 = P0) e confondono, almeno in parte, una situazione di aumento generalizzato dei prezzi, che non implicherebbe alcuna risposta di tipo reale, con una variazione dei prezzi relativi. Di conseguenza, essi reagiscono correttamente aumentando la propria produzione, essendo variato il prezzo dell’output rispetto a quello degli input produttivi (che essi deducono semplicemente dal livello generale dei prezzi) 40. In altre parole, i produttori non sanno discernere – essendo il prezzo del singolo mercato l’unico segnale operante – tra uno shock di natura macroeconomica o aggregata (come appunto gli shock monetari) ed uno shock di tipo microeconomico o settoriale od idiosincratico, come potrebbero essere le perturbazioni che colpiscono i singoli mercati di volta in volta (ad esempio a seguito del mutamento dei gusti dei consumatori, del progresso tecnico, etc.). Sono queste ultime perturbazioni che evidentemente richiederebbero un’adeguata risposta di tipo reale. Ancora una volta si verifica che un errore previsivo sui prezzi comporta degli effetti reali 41. Le fluttuazioni reali, del reddito e dell’occupazione, sono pertanto attribuite dai nuovi economisti classici al comportamento volontario degli agenti, che pur cercando di estrarre in mo39 In altre parole, le variazioni dell’occupazione corrispondono a variazioni dell’offerta di lavoro (ossia delle forze di lavoro) e non della domanda di lavoro (e quindi della disoccupazione involontaria), come supposto nelle teorie keynesiane. Meccanismi simili sono impiegati nei modelli sui “cicli economici reali”. 40 In termini formali, possiamo scrivere la funzione di offerta dell’impresa rappresentativa i-ma come segue: iYt = iY* + ß(iPt − Pet) in cui iY* rappresenta il livello normale di produzione e Pet una stima (o valore atteso) del livello generale dei prezzi (proxy quest’ultima per i prezzi degli input produttivi e quindi del costo marginale). Questa funzione rappresenta la controparte microeconomica della funzione di offerta [9.3], ossia della curva di offerta di Lucas. 41 Inoltre, quando la varianza dello shock nominale è elevata (per una data variabilità di tipo microeconomico), ad esempio in presenza di una volatile inflazione o di una politica economica erratica, allora il maggior “disturbo” nei segnali di prezzo riduce la risposta dei produttori e quindi gli effetti reali di un dato shock aggregato risultano più contenuti, implicando una curva d’offerta aggregata maggiormente inclinata (al limite quasi verticale). In altre parole, Lucas aggiunge che l’intensità della risposta dei produttori locali (colta dal parametro β) è tanto maggiore quanto più la varianza (qui indicata con σ2) dei prezzi dei prodotti locali eccede la varianza del livello generale dei prezzi (ossia σ2(iPt) > σ2(Pt); invece, la reazione dei produttori locali può essere minima quando la prima varianza è inferiore alla seconda (σ2(iPt) < σ2(Pt)).

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do ottimale le informazioni dai segnali di prezzo possono essere “tratti in inganno” per la limitatezza di informazioni disponibili o per problemi nell’estrazione dei segnali 42. Secondo i teorici della NMC, sono questi stessi errori previsivi, provocati da disturbi stocastici e dalla presenza di informazioni limitate, che causano l’insorgere non solo di una relazione positiva tra inflazione e reddito reale (ossia di una curva di Phillips non verticale), ma anche degli stessi cicli economici 43. Le fluttuazioni economiche sono così spiegate senza ricorrere ad ipotesi di disequilibrio o di “non-market clearing”. Un terzo esempio di conseguenze reali derivanti da errori previsivi concerne gli effetti di una politica economica non anticipata, prendendo spunto dal modello teorico di Sargent e Wallace (1975). Le ipotesi di base del modello sono essenzialmente tre: i. una curva di offerta à la Lucas, che accoglie il concetto di livello naturale del reddito e di deviazioni da questo livello causate da errori previsivi sui prezzi; ii. un’equazione dei prezzi basata sulla teoria quantitativa della moneta (prezzi dipendenti dall’offerta di moneta); iii. una regola monetaria flessibile, secondo cui l’offerta di moneta varia (secondo parametri ben specificati e noti agli agenti) in funzione delle fluttuazioni del reddito corrente. Partendo da queste ipotesi, la conclusione a cui si perviene è duplice: – il reddito offerto può divergere dal reddito di piena occupazione solo a causa delle componenti stocastiche che generano inflazione inattesa: errori previsivi, shock improvvisi, politiche economiche non anticipate (ad esempio allorché non siano correttamente annunciate); – la componente sistematica della politica economica (colta dai parametri della regola monetaria, supposti noti agli agenti), nel caso in esame della politica monetaria, causando inflazione attesa, non ha alcun effetto reale. In definitiva, mentre le politiche anticipate, causando esclusivamente variazioni dell’inflazione attesa, non hanno alcun effetto reale, solo le politiche monetarie non anticipate, definite anche sorprese monetarie potrebbero influenzare il reddito reale, facendolo deviare dal suo livello naturale: è questa l’unica eccezione alla tesi della neutralità della moneta, tesi che secondo Sargent e Wallace è ancora più forte rispetto all’impostazione monetarista tradizionale (à la Friedman), in quanto vale anche nel breve periodo 44. Tuttavia, i teorici della NMC sconsigliano il policymaker dall’utilizzare sorprese monetarie, in quanto esse farebbero sì modificare il reddito reale, ma le deviazioni di quest’ultimo dal suo livello naturale sarebbero comunque inefficienti e ridurrebbero il benessere dell’economia.

42 Questa situazione non può peraltro essere di tipo sistematico, in quanto gli agenti razionali tendono nel loro interesse ad eliminare gli errori previsivi sistematici (in quanto costosi) acquisendo tutte le informazioni rilevanti (da inserire nel loro insieme-informazione), incluse quelle sugli errori compiuti nel passato. 43 Pur in assenza di un qualsivoglia tipo di rigidità (come proposto nel primo modello del ciclo di equilibrio, di LUCAS, 1975). 44 È questa proposizione di inefficacia assoluta delle politiche anticipate che è respinta dai critici della NMC, in quanto è oggi invece accettata la distinzione tra politiche anticipate e non anticipate, in relazione alla loro efficacia relativa (essendovi consenso generale che le prime sono meno efficaci delle seconde).

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9.4. Implicazioni di politica economica e la “critica di Lucas” I modelli della NMC portano a conclusioni di inefficacia delle politiche economiche di stabilizzazione, già nel breve periodo 45. Sul fonte empirico, alcune loro ricerche hanno mostrato che soltanto le politiche economiche non anticipate (a volte definite sorprese di politica economica) possono avere degli effetti reali, anche se limitati nel tempo; ma, soprattutto, che le politiche economiche anticipate non hanno alcun effetto di tipo reale. Nel caso delle politiche non anticipate è solamente a causa di errori previsivi che si manifestano effetti reali, ma tali effetti sono casuali e temporanei, oltreché indesiderati. Infatti tali politiche, rischiano di destabilizzare l’economia, poiché accrescono la variabilità del reddito; efficaci non significa quindi che siano efficienti dal punto di vista del benessere. Conseguentemente, il suggerimento è anche in questo caso di annunciare sempre le politiche economiche intraprese e di seguire una regola nota a priori agli agenti. Sono in genere preferite le “regole fisse” di politica economica, ad esempio in termini di crescita costante dell’offerta di moneta; in realtà, tali regole semplici sono ritenute più comprensibili da parte degli agenti privati, essendo più facili da dedurre dall’esperienza passata (la quale è pur sempre alla base del processo di formazione delle aspettative). Per quanto precisato in tema di offerta à la Lucas (par. 9.3), è evidente che la stessa curva di Phillips diviene verticale già nel breve periodo. Il trade-off tra inflazione e disoccupazione ricompare solo nell’evenienza di “sorprese” di politica economica, di shock reali imprevisti o comunque di errori previsivi da parte degli agenti. Conseguentemente, l’unica forma di disoccupazione compatibile con le premesse teoriche è la disoccupazione volontaria, spiegata sulla base della “teoria della ricerca” e della sostituzione intertemporale dell’offerta di lavoro 46. Questa visione ha naturalmente provocato aspre critiche sul fronte opposto, in particolare da parte dei keynesiani 47. Inoltre, i modelli della NMC suggeriscono una politica di disinflazione rapida, ossia una doccia fredda, anche perché essa è più credibile; una politica più gradualistica potrebbe essere mutata nel corso del tempo: soprattutto i policymaker dotati di una bassa reputazione dovrebbero lanciare segnali decisi ed inequivocabili. Al solo annuncio della politica restrittiva, il sistema potrebbe istantaneamente raggiungere la nuova posizione di equilibrio, senza costi in termini di prodotto ed occupazione, ammesso però che l’annuncio sia creduto dagli agenti 48. Sono pure state indagate nella NMC le conseguenze del particolare meccanismo di formazione delle aspettative anche sulla domanda aggregata 49. Gli effetti del mutamento delle aspettative sulla domanda si possono esaminare anche attraverso il semplice modello IS-LM. Infatti, considerato che gli investimenti (ed anche i consumi) dipendono essenzialmente dal tasso d’interesse reale (r), mentre la domanda di moneta è connessa al tasso d’interesse no45 È

questa la cosiddetta policy ineffectiveness (o neutrality o invariance) proposition. secondo LUCAS (1978) la distinzione tra disoccupazione volontaria ed involontaria non è empiricamente rilevante, poiché in qualsiasi disoccupazione vi è un elemento involontario (nel senso che nessun individuo sceglie la cattiva sorte rispetto a quella buona) ed uno volontario (nel senso che a tutti è aperta la possibilità di scegliere impieghi alternativi allo stato di disoccupato, comunque miserabili essi possano essere). 47 Significativa è la reazione di MODIGLIANI (1977), che ha ironicamente posto la seguente domanda: come è possibile spiegare allora la disoccupazione conseguente alla Grande Depressione? Forse con un “attacco grave di pigrizia contagiosa” o è comunque da considerare una libera scelta della società? 48 Cfr. SARGENT (1982b). 49 Quanto ai consumi, taluni studi teorici ed empirici hanno ridato importanza al reddito corrente nella determinazione dei consumi (almeno per una parte dei consumatori, in presenza di vincoli di liquidità), rispetto al reddito permanente. 46 Anzi,

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minale (i), e tenuto conto della relazione di Fisher (per cui i = r + e, dove e è l’inflazione attesa), allora i cambiamenti nelle aspettative di prezzo possono inserire un cuneo tra curva IS e curva LM, alterando la domanda aggregata 50. Più complesso è il discorso intorno agli effetti reali della politica fiscale. Da un punto di vista aggregato, la politica fiscale di controllo della domanda è assimilabile alla politica monetaria e quindi “neutrale”, ossia non esercita effetti reali se è perfettamente anticipata: può però essere importante la percezione delle variazioni, ad esempio nelle imposte, come temporanee oppure permanenti 51. Nel caso di politiche fiscali espansive, è stata addirittura indagata la possibilità di un sovra-spiazzamento immediato 52, al semplice annuncio di una politica espansiva, ancor prima che questa possa generare i suoi tradizionali effetti positivi sul reddito. Solamente nel caso in cui la politica fiscale (al pari di tutte le politiche di tipo strutturale e della stessa regolamentazione economica) altera anche il comportamento microeconomico degli agenti, allora si possono manifestare effetti reali. La politica fiscale può esercitare effetti dal lato dell’offerta, non solo perché può alterare la microstruttura esistente ed il comportamento degli agenti (domanda e offerta di lavoro, risparmio ed investimenti, etc.), ma anche tramite l’accumulazione di capitale 53. Naturalmente, l’ammissione che interventi dal lato dell’offerta possano essere efficaci non significa riconoscere necessariamente che essi siano anche efficienti. Riguardo ai rapporti tra politica fiscale e politica monetaria, un interessante modello – conducente a risultati apparentemente paradossali e “spiacevoli” – è stato proposto da SARGENT e WALLACE (1981). Infatti, una politica di finanziamento monetario del disavanzo, che di solito è considerata altamente inflazionistica, può causare alla lunga – dato il vincolo di bilancio e le decisioni già prese sulla politica fiscale – meno inflazione che non una politica di finanziamento con titoli. Infatti, quest’ultima può dimostrarsi insostenibile nel lungo periodo, cosicchè la futura probabile monetizzazione del debito causa una maggiore instabilità ed inflazione (rispetto ad un alternativo finanziamento monetario). Le principali ipotesi del modello di Sargent e Wallace sono le seguenti: i. la politica fiscale domina quella monetaria, ossia il disavanzo primario è fissato prima che l’autorità monetaria scelga il tasso di crescita dello stock di moneta; ii. la domanda di moneta è determinata secondo la teoria quantitativa della moneta; iii. il tasso d’interesse reale è maggiore del tasso di crescita reale del sistema; iv. esiste una soglia massima alla domanda di titoli pubblici da parte del settore privato (al di sopra della quale, espressa come rapporto tra debito pubblico e Pil, il debito deve necessariamente essere monetizzato). 50 Un altro fatto anomalo che potrebbe essere spiegato è l’andamento decrescente della curva dei tassi d’interesse per scadenze (la cosiddetta “curva dei rendimenti”): una politica monetaria restrittiva innalza i tassi nominali a breve, i mercati ritengono una tale politica credibile ed efficace nella lotta all’inflazione, l’inflazione attesa pertanto si riduce e quindi si riducono anche – per la relazione di Fisher (e supposti dati i tassi reali) – i tassi nominali a lungo termine. 51 Gli effetti potrebbero essere maggiori nel caso di variazioni permanenti, se i consumatori sono del tipo forward-looking, come supposto ad esempio nelle teorie del reddito permanente e del ciclo vitale (secondo le precedenti ipotesi di Friedman e Modigliani rispettivamente). Tuttavia, gli effetti di sostituzione intertemporale derivanti da variazioni transitorie e la considerazione degli effetti ricchezza sembrano attribuire più importanza alle variazioni temporanee (BARRO, 1981). 52 Gli effetti restrittivi di una politica fiscale espansiva sono connessi all’aspettativa di più elevati tassi d’interesse futuri, cosicché il tasso d’interesse a lungo termine aumenta subito e quindi riduce gli investimenti. 53 In tutti questi casi, tuttavia, non è l’offerta aggregata corrente che diverge dal reddito naturale (Ys  Y ), n ma è lo stesso reddito naturale che viene a modificarsi a seguito della politica economica, anche se essa è perfettamente anticipata. Cfr. BUITER (1980) e McCALLUM (1980).

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Il finanziamento con titoli ed una politica monetaria temporaneamente restrittiva in presenza di un elevato disavanzo pubblico comportano in effetti, date le ipotesi del modello, meno inflazione oggi ma più inflazione domani. In altre parole, la credibilità di una politica monetaria restrittiva può essere seriamente compromessa dalla contemporanea presenza di persistenti disavanzi pubblici. Se la capacità di controllo delle variabili reali, attraverso la politica monetaria, era già stata rigettata da Friedman e dalle analisi monetariste tradizionali, Sargent e Wallace dimostrano che la stessa politica monetaria può perdere anche il controllo dell’inflazione in determinate situazioni. Il problema deriva dal fatto che la politica fiscale domina quella monetaria 54. Una possibile soluzione, da un punto di vista istituzionale, è quello di invertire l’ordine delle mosse, ad esempio fissando gli obiettivi monetari prima della definizione della politica di bilancio, rendendo così veramente autonoma la politica monetaria 55. Le conclusioni raggiunte da Sargent e Wallace sono peraltro strettamente dipendenti dalle ipotesi di partenza. È stata soprattutto criticata la costanza del tasso di crescita del sistema (sia del reddito che della popolazione) e del tasso d’interesse reale, che crucialmente supera il tasso di crescita del reddito 56, quando invece una politica di rientro può almeno in parte fare affidamento sul controllo di queste due variabili (cfr. cap. 11). L’importante implicazione per la governance dell’economia riguarda la preferibilità di un sistema in cui politica fiscale e politica monetaria siano separate, con una netta autonomia per la banca centrale (la stessa conclusione sarà raggiunta trattando di credibilità delle politiche economiche: cfr. par. 9.7). Al contrario gli economisti keynesiani, preferiscono un approccio di coordinamento tra politica monetaria e politica fiscale, anche per evitare che i tassi d’interesse salgano al di là di ogni limite accettabile, con gravi conseguenze sugli investimenti, la produzione, l’occupazione ed aggravando lo stesso circolo vizioso disavanzo-debito 57. Un altro importante problema che altera la valutazione sull’efficacia delle politiche economiche di stabilizzazione riguarda l’utilizzo dei modelli econometrici. I modelli macroeconometrici vengono abitualmente impiegati per esercizi di: (i) previsione, ossia per prevedere, in base all’evoluzione passata, le tendenze del sistema economico, in assenza di rilevanti shock ed a “politiche invariate”; (ii) simulazione, vale a dire per simulare gli effetti esercitati sul sistema da un improvviso shock oppure da un cambiamento rilevante della politica economica. Ebbene, secondo la famosa critica di Lucas (1976), sono proprio le simulazioni di politica economica le applicazioni econometriche meno affidabili; per Lucas, le previsioni sono anche accettabili (essendo in gran parte basate sulla mera estrapolazione di serie storiche), anche se 54 Nel senso che il sentiero temporale per il disavanzo primario è definito per primo dall’autorità fiscale, quindi se la domanda di titoli da parte del pubblico implica un tasso d’interesse superiore al tasso di crescita dell’economia, allora risulta impossibile per l’autorità monetaria un controllo permanente dell’inflazione. 55 Ribaltando la visione keynesian tradizionale (cfr. cap. 2 e la discussione sugli obiettivi intermedi), le conclusioni del modello di Sargent e Wallace implicano che è la politica fiscale che dovrebbe essere “sussidiaria” della politica monetaria, in quanto l’autonomia della seconda è concepibile solo nella misura in cui si riescano a dettare delle regole rigorose per la stessa politica di bilancio (inclusa la determinazione dei disavanzi primari). 56 Se il tasso d’interesse viene considerato endogeno, crescente all’aumentare del rapporto debito/Pil (per i premi al rischio che devono essere pagati), allora è vero che probabilmente tale tasso verrà a superare il tasso di crescita reale, ma d’altro canto diviene meno probabile l’esistenza di una soglia massima alla domanda di titoli pubblici (oppure tale soglia si sposta continuamente verso l’alto). 57 Se ciascun responsabile della politica economica persegue un proprio obiettivo prioritario (ad esempio l’inflazione da parte dell’autorità monetaria e la disoccupazione da parte di quella fiscale) e se entrambi mantengono un comportamento non cooperativo, allora il risultato a cui perviene il sistema economico sarà probabilmente subottimale.

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a partire dagli anni ’80 vi è stata una crescente disillusione circa le capacità previsive dei modelli macroeconometrici, nonostante la loro crescente complessità 58. Le simulazioni presumono infatti che sia possibile mutare le variabili strumentali di politica economica inserite nel modello e derivare, senza altre conseguenze, l’impatto sulle variabili endogene dall’analisi della forma ridotta del modello (circa la forma ridotta dei modelli cfr. cap. 2). Al contrario, Lucas mediante la sua policy evaluation proposition sostiene che vi sono altre conseguenze, poiché i parametri e le variabili esogene inserite nella forma strutturale del modello, oltre a non essere stabili (essendo influenzati dall’evoluzione dell’ambiente economico), variano al mutare della politica economica. Il motivo è che gli agenti privati, non appena si rendono conto che c’è stato un mutamento nella politica economica, rivedono le proprie aspettative circa gli accadimenti futuri e conseguentemente modificano il proprio comportamento, alterando numerose relazioni strutturali, tra di loro interdipendenti, rendendo inaffidabili i risultati delle simulazioni effettuate. Più precisamente, le reazioni degli agenti alle variazioni del reddito e dei prezzi dipendono anche dal tipo di politica economica perseguito. In via esemplificativa, la relazione che lega il consumo al reddito dipende, tra l’altro, dal giudizio dei consumatori circa la transitorietà o permanenza della variazione del reddito, aspettativa a sua volta connessa al tipo di politica economica perseguita (più o meno transitoria, con o senza equilibrio di bilancio, etc.). Queste reazioni non possono essere colte dall’analisi della forma ridotta, poiché è la stessa struttura del modello 59 che viene a dipendere dal comportamento degli agenti, dalle loro aspettative ed in definitiva (se le aspettative sono razionali) dal regime di politica economica. La critica di Lucas riguarda, più che le previsioni di breve periodo o le modifiche marginali dei valori delle variabili strumentali o dei parametri di politica economica (come il valore dell’offerta di moneta Ms, della spesa pubblica G, l’aliquota delle imposte , etc.), soprattutto i mutamenti significativi di politica economica, ad esempio a seguito di profonde riforme nella gestione della politica economica o nelle sue istituzioni. Si parla in questo caso di mutamento del regime di politica economica (policy regime), caratterizzato: (i) dalle rilevanti norme istituzionali (ad esempio in tema di politica monetaria, le norme relative all’assetto istituzionale, con riferimento soprattutto alla “indipendenza” della banca centrale); (ii) dal comportamento effettivo delle autorità di politica economica 60; in termini operativi, esso è colto dai più rilevanti indicatori comportamentali (crescita monetaria, livello e variabilità dei tassi d’interesse, etc.). Una possibile risposta alla critica di Lucas 61 è quella di costruire modelli invarianti al muta58 In aggiunta ad una descrizione sempre più completa del funzionamento dei sistemi macroeconomici, attraverso forme strutturali più complesse, vi era l’esigenza di incorporare le aspettative razionali, i processi di apprendimento, le reazioni di agenti privati e policymaker, etc., ed anche da un punto di vista statisticoeconometrico sono state introdotte nuove tecniche (come la stima simultanea di equazioni); cfr. Hall (1995). Si noti, per inciso, che le previsioni effettuate anche recentemente per diversi paesi (ad esempio con riferimento al caso italiano) sono state spesso “riviste in peggio”, riguardo per esempio alla crescita del Pil, segnalando una minore capacità previsiva dei modelli (di varia impostazione) utilizzati, soprattutto in contesti di crisi persistente e di incertezza sistemica, piuttosto che di normale alternarsi di fasi cicliche. 59 Volendo semplificare, se C = C0 + c (Y   Y) è la funzione che lega il consumo al reddito disponibile, allora una modifica dell’aliquota d’imposta può fare variare non solo il parametro  (come sostenevano i keynesiani), ma secondo Lucas anche il parametro c della propensione al consumo (ovvero un parametro della forma strutturale). 60 Quest’ultimo può anche essere rappresentato da una “regola” (policy rule) che governa l’evoluzione nel tempo di una variabile di politica economica, in un contesto stocastico. Su questi temi, si veda anche HOOVER (1988). 61 Come proposto, tra gli altri, da E.S. Phelps. Una soluzione alternativa sarebbe quella di utilizzare, ove possibile, variabili di aspettativa osservate direttamente (ad esempio desunte da indagini campionarie).

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re delle politiche: in teoria, come proposto dallo stesso Lucas (nella parte costruttiva della sua “critica”), ciò è possibile partendo dalla microstruttura sottostante (preferenze, tecnologia) e dalle relazioni che descrivono il comportamento ottimizzante degli agenti. Il suggerimento è quello, in sostanza, di risalire ai parametri profondi e di andare “oltre” le curve di domanda e di offerta aggregate 62. È altresì essenziale incorporare nel modello una formazione endogena delle aspettative, che includa anche la funzione di reazione degli agenti privati alle politiche attivate. In pratica, è difficile attuare un tale suggerimento all’interno dei modelli macroeconometrici, nonostante diversi tentativi in tal senso. Si suggerisce comunque, recependo almeno in parte le osservazioni di Lucas, di ridurre al minimo il numero di parametri liberi, ossia non spiegati all’interno del modello e/o non derivati dalle tradizionali ipotesi di massimizzazione sottostanti al comportamento degli agenti 63. Si noti che, mentre la parte “distruttiva” della critica di Lucas ha avuto un rilevante e persistente impatto sulla letteratura macroeconomica inducendo maggiore cautela nell’utilizzo dei modelli economici (soprattutto keynesiani tradizionali) al fine di simulare l’impatto di politiche economiche diverse, gli sviluppi teorici ed applicativi della parte “costruttiva” si sono – invece – rivelati ben più controversi.

9.5. L’equivalenza ricardiana Gli agenti razionali, nel formulare le proprie aspettative (cfr. par. 9.2) e quindi prendere le proprie decisioni, tengono conto anche delle politiche economiche attese. Queste dipendono anche dalla conoscenza, da parte degli agenti privati, dell’esistenza del vincolo di bilancio pubblico. Al riguardo, BARRO (1974), ha riproposto un precedente teorema di D. Ricardo 64; questo teorema, conosciuto come equivalenza ricardiana (in seguito denominata talvolta “Barro-Ricardo equivalence”), afferma in sostanza che un finanziamento della spesa pubblica con titoli può essere assimilato ad un finanziamento con imposte, poiché l’emissione di titoli pubblici oggi equivale all’aumento della tassazione domani. Il problema può essere sintetizzato come segue. Nel settore pubblico, il vincolo intertemporale di bilancio esclude l’emissione perpetua di debito; pertanto esso richiede l’uguaglianza tra valore attuale della spesa pubblica, presente e futura, e valore attuale delle imposte, presenti e future (tenuto pure conto dell’eventuale debito in esistenza). In un semplice modello bi-periodale questo vincolo può essere rappresentato da: [9.4] G1 + G2/(1 + r) = T1 + T2/(1 + r) dove r (tasso d’interesse) è incorporato nel fattore di sconto applicato alle uscite future (G2) ed alle entrate future (T2). Il vincolo del governo non comporta il pareggio del bilancio in ogni singolo anno (ossia non richiede G1 = T1 e G2 = T2), ma è compatibile con diversi profili temporali d’imposizione: essenziale è invece l’uguaglianza tra il valore attuale delle spese ed il valore attuale delle imposte 65. 62 Il problema della critica di Lucas è infatti connesso a quello dell’affidabilità delle relazioni comportamentali aggregate (SARGENT, 1982). 63 Con questa nota cautelativa, si ritiene che, specie in assenza di importanti modificazioni del regime di politica economica, i modelli macroeconometrici possano essere ancora proficuamente utilizzati. Cfr. SIMS (1982). 64 Il teorema fu proposto da Ricardo, che però ne rigettò al tempo stesso la rilevanza empirica, nel 1821; prima che da Barro un secolo e mezzo più tardi, tale teorema fu ripreso in seguito da altri autori (tra cui alcuni studiosi italiani di scienza delle finanze all’inizio del ’900). 65 Una soluzione estrema potrebbe ad esempio essere che tutta la spesa pubblica del primo anno (G ) sia 1 finanziata con titoli (il debito B) da rimborsare l’anno successivo, ossia: T1 = 0, G1 = B, T2 = G2 + B(1 + r).

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In altre parole, data la spesa pubblica da finanziare, il governo può scegliere solamente il profilo temporale delle imposte, ma non la loro entità complessiva. Consumatori razionali sono consapevoli del vincolo intertemporale di bilancio del governo e lo incorporano quindi nel proprio vincolo 66 ricavando: [9.5] C1 + C2/(1 + r) = (Y1 − G1) + (Y2 − G2)/(1 + r) Il consumo totale, presente e futuro, viene perciò a dipendere dal reddito totale al netto della spesa pubblica totale, indipendentemente da come la spesa pubblica corrente viene finanziata (con imposte o con debito da rimborsare nel periodo futuro): il livello del debito pubblico è irrilevante per le decisioni di consumo e di risparmio delle famiglie. Si afferma quindi che la proposizione di equivalenza ricardiana corrisponde a quelle di neutralità del debito 67 e di irrilevanza della politica fiscale. In una formulazione alternativa dell’equivalenza ricardiana, supponiamo che la politica fiscale espansiva consista in un taglio delle imposte presenti (Tt < 0) finanziando il disavanzo che si viene a creare con titoli pubblici (Bt > 0). È evidente che individui razionali terranno conto già nel presente delle maggiori imposte future (Tet + n = B). In effetti, per esempio sulla base di teorie dei consumi come quella del ciclo vitale o del reddito permanente (o comunque di tipo forward-looking), gli individui scontano ad oggi i pagamenti futuri, compresi quelli derivanti da nuove imposte. Quindi una politica di taglio di imposte correnti (o in modo analogo di aumento della spesa pubblica corrente) induce un maggior risparmio corrente invece che maggiori consumi e pertanto non manifesta alcun effetto espansivo. Inoltre, anche ammesso che l’aumento della tassazione sia deciso in un’epoca ancor più lontana (al di là del ciclo vitale dell’individuo), è probabile che siano le generazioni presenti a farsi carico degli oneri futuri, anche se questi dovessero ricadere sulla propria discendenza. Ciò si verifica, al di là del fenomeno empirico dei lasciti e dell’eredità, se gli individui sono mossi da altruismo o da solidarietà intergenerazionale, per cui nella propria funzione di utilità rientra anche l’utilità dei discendenti 68. I critici della tesi di R.J. Barro hanno elencato una serie di motivi per cui l’equivalenza ricardiana può fallire: (i) gli orizzonti di programmazione nelle scelte individuali di consumo sono in genere più brevi del “ciclo vitale” (e, a maggior ragione, di un orizzonte esteso sino a comprendere le generazioni future) e, comunque, è più probabile che siano finiti 69 piuttosto che infiniti; (ii) i mercati dei capitali e quelli assicurativi sono imperfetti 70; (iii) se il tasso di cre66 Per un consumatore rappresentativo, che per semplicità vive per due periodi e deve pagare nei due anni T1 e T2 di imposte, il vincolo di bilancio intertemporale sarebbe il seguente: C1+C2/(1 + r) = (Y1−T1) + (Y2−T2)/(1 + r). Ma se egli conosce il vincolo del governo (sostituendo quindi la [9.4] nell’ultima equazione) esso diventa: C1+C2/(1 + r) = Y1+Y2/(1 + r) – G1 – G2/(1 + r). 67 Neutralità del debito non significa comunque che il problema della sua sostenibilità possa essere aggirato. Barro ipotizza infatti che vi è un limite massimo di tollerabilità della tassazione da parte del settore privato e quindi, scontando ad oggi questo limite alle imposte future, un tetto massimo all’assorbimento di titoli pubblici. 68 Nel modello teorico di Barro, in aggiunta all’ipotesi implicita di un aggiustamento dei conti pubblici dal lato delle imposte (piuttosto che da quello della spesa), si pongono ulteriori ipotesi semplificatrici, tra cui le principali sono le seguenti: imposte a somma fissa (lump sum), mercato perfetto dei capitali, tasso d’interesse (ovvero tasso di sconto intertemporale) unico per il governo e per gli agenti privati, previsione perfetta, popolazione e reddito costanti. 69 Gli orizzonti possono essere finiti se gli individui non si preoccupano dell’utilità delle generazioni future, ad esempio dei propri eredi (ossia se non hanno moventi altruistici); ciò può divenire forse più probabile se non si hanno figli o se non si lasciano eredità (od addirittura nel caso in cui si faccia ricorso a trasferimenti a proprio favore, ossia a lasciti negativi per gli eredi). 70 Per cui il tasso d’interesse a cui gli operatori privati possono prendere a prestito può essere superiore

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scita del reddito è positivo (gy > 0), anziché nullo, allora non si può escludere che gy > r, per cui un problema di sostenibilità non si pone nemmeno (cfr. cap. 11); (iv) le imposte possono essere distorsive 71, tali da modificare gli incentivi al lavoro, per cui l’offerta di lavoro può divenire sensibile al profilo temporale delle imposte; (v) vi può essere incertezza (invece che previsione perfetta) sulle imposte e sui redditi futuri, a parte quella ineliminabile sulla durata della propria vita 72; (vi) gli effetti redistributivi, tra percettori d’interessi sui titoli pubblici e contribuenti (effettivi o potenziali), possono avere conseguenze economiche e perfino politico-sociali. Un’implicazione dell’equivalenza ricardiana consiste nel ritenere che i titoli pubblici non costituiscano nemmeno ricchezza privata (o “ricchezza netta”, citando BARRO, 1974), in quanto la passività finanziaria ad essi corrispondente è costituita dalle imposte future 73. In altre parole, si ritiene che individui “ultrarazionali”, incorporando nelle proprie decisioni il vincolo intertemporale del bilancio pubblico, scontano ad oggi le maggiori imposte che saranno introdotte in futuro per far fronte al servizio del debito e per il suo rimborso. Volendo dare ora una lettura dell’equivalenza ricardiana in base ai modelli macroeconomici standard, come il modello IS-LM (cfr. cap. 1), supponiamo come all’inizio di questo paragrafo che l’emissione di titoli pubblici correnti sia diretto a finanziare un’espansione di spesa pubblica; ebbene, il previsto pagamento di imposte future (Tet + n), per un ammontare uguale alla variazione della spesa pubblica (Gt), riduce i consumi privati correnti (Ct < 0) e conseguentemente provoca un innalzamento dei risparmi privati correnti (St > 0) della stessa entità 74. In altri termini, la curva IS non si sposta nemmeno, ma il motivo è che la spesa pubblica spiazza direttamente i consumi privati (Ct < 0 e Gt > 0 si compensano tra di loro), per cui il tasso d’interesse non si modifica (ed il tradizionale effetto di spiazzamento sugli investimenti privati non si presenta); comunque gli effetti espansivi sono annullati ed il reddito Y non aumenta. In definitiva, è confermata l’irrilevanza per le variabili reali (risparmio, tasso d’interesse, investimenti, reddito, etc.) di un finanziamento con titoli rispetto ad un finanziamento con imposte: il risparmio privato aumenta esattamente di quanto si riduce il risparmio pubblico (a causa della spesa pubblica in disavanzo), lasciando invariato il risparmio aggregato nazionale. Le verifiche empiriche dell’ipotesi di equivalenza ricardiana hanno riguardato prevalente(diversamente da quanto ipotizzato da Barro) rispetto a quello pagato sui titoli pubblici; inoltre, vi possono essere costi di transazione; in presenza di razionamento del credito, i vincoli di liquidità (ossia l’impossibilità di prendere a prestito) fanno sì che il reddito corrente sia più importante del reddito vitale nelle scelte di consumo. 71 Imposte distorsive (anziché a somma fissa, come T e T dell’esempio precedente) sono ad esempio le 1 2 imposte sui redditi (con aliquote τ funzione del reddito); in tal caso, modificandosi le aliquote marginali nel corso del tempo, vi possono essere conseguenze sull’offerta di lavoro (effetti di sostituzione intertemporale), sugli investimenti, sulla produzione, etc.: ossia conseguenze reali. 72 L’incertezza sull’orizzonte del ciclo vitale, ossia la considerazione della probabilità di sopravvivenza, rende più attraente il consumo più prossimo rispetto a quello più lontano (in assenza di un altruismo illimitato). Comunque, i consumatori potrebbero essere miopi o non razionali (perché ad esempio non guardano al futuro quando prendono le loro decisioni oppure non sono consapevoli delle conseguenze dei disavanzi pubblici). 73 A livello aggregato, è chiaro che ad ogni attività finanziaria (in questo caso dei detentori di titoli pubblici) corrisponde una passività (dello Stato che li ha emessi); conseguentemente, se una collettività è considerata come un’unità economica, i rapporti di debito e credito si compensano tra di loro (come rilevato dallo studioso italiano di finanza pubblica A. De Viti De Marco). Diverso è naturalmente il caso di un debito pubblico collocato (almeno in parte) all’estero. 74 In altre parole, le famiglie non modificano i loro piani di consumo di lungo periodo ed aggiustano il proprio risparmio al variare del proprio reddito (al netto delle imposte), compensando esattamente le variazioni del risparmio pubblico (ossia dei disavanzi di bilancio), consentendo così tra l’altro un collocamento automatico del nuovo debito.

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mente il comportamento, a seguito di un finanziamento con titoli della spesa pubblica (oppure di una riduzione delle imposte), di queste due variabili: tasso d’interesse e consumo (o, alternativamente, il risparmio); la prima variabile dovrebbe restare sostanzialmente invariata (it = 0) se vale l’equivalenza ricardiana (proprio perché in tal caso la curva IS non si sposta), mentre i consumi dovrebbero diminuire (Ct < 0) ed i risparmi crescere (St > 0). La tesi dell’equivalenza ricardiana pare per lo più contraddetta dall’evidenza empirica, in particolare quella degli Usa negli anni ’80, in quanto i tassi d’interesse aumentarono ed il risparmio diminuì in presenza di un crescente debito pubblico 75. Anche se il teorema dell’equivalenza ricardiana è stato rifiutato nella sua forma estrema, alcuni studi econometrici sembrano mostrare che esso è valido come risultato approssimativo 76. In definitiva, le risultanze empiriche sembrano prevalentemente indicare che il debito pubblico è considerato, solo in parte, come ricchezza netta da parte degli agenti privati.

9.6. Il ruolo dell’interdipendenza strategica Nelle teorie keynesiane standard si riteneva che i governi avessero il pieno controllo dell’andamento dei sistemi economici e che gli agenti privati si adattassero passivamente alle politiche intraprese (per esempio aumentando i consumi in presenza di una minore tassazione). La teoria spesso utilizzata in politica economica era quella del controllo ottimo: variazione puntuale dei mezzi (strumenti) necessari per controllare i fini (obiettivi). Dopo la rivoluzione delle aspettative razionali, si ritiene invece che le persone, le imprese e gli agenti economici in genere reagiscano attivamente, cercando di individuare le regole di comportamento del policymaker e di “anticiparne le mosse”. Nello schema teorico della NMC, il comportamento dello stesso policymaker è assimilato a quello degli agenti privati, nel senso che anch’esso è ottimizzante: esso tende a massimizzare una certa funzione obiettivo, sotto dati vincoli 77. In ogni caso, al fine di intraprendere politiche ottimali, il policymaker non può non tener conto delle reazioni degli agenti privati. Si parla in questo caso di interdipendenza strategica, poiché ciascun agente – governo e individui privati – regola il proprio comportamento anche sulla base di congetture relative al probabile comportamento tenuto dalla controparte. In effetti, anche in politica economica, è oggi divenuta molto più importante la teoria dei giochi 78. 75 Un’evidenza contraria all’equivalenza ricardiana fu presentata da FELDSTEIN (1982), mentre EVANS (1985) riscontrò effetti deboli della spesa pubblica e dei disavanzi sul tasso d’interesse. Anche per il caso italiano, MODIGLIANI, JAPPELLI (1988) individuarono una correlazione positiva tra tasso d’interesse e disavanzi pubblici, nonché l’assenza di effetti rilevanti sul risparmio (già in uno studio precedente gli autori avevano riscontrato che per un incremento dell’1% del rapporto tra disavanzo e Pil il tasso di risparmio nazionale si riduceva solamente dello 0,5%). I risultati ottenuti in questo tipo di ricerche empiriche sembrano comunque altamente sensibili alla scelta delle variabili, dell’orizzonte temporale, delle procedure di stima, nonché delle specifiche variabili da includere nell’analisi. Per una risposta complessiva alle critiche avanzate nei confronti dell’ipotesi di equivalenza, si veda BARRO (1987). 76 Si veda la rassegna di SEATER (1993). 77 Inoltre, anche il decisore della politica economica non risponde in modo passivo e deterministico a date regole (ove presenti), ma essendo un’entità razionale e massimizzante regola il proprio comportamento in base agli incentivi. Negli schemi “agente-principale”, il policymaker funge da agente rispetto alla cittadinanza (principale) e massimizza la propria funzione-obiettivo sotto vincoli che includono la reazione del settore privato dell’economia: gli incentivi devono essere tali che l’agente sia indotto a massimizzare anche gli interessi della collettività (PERSSON, TABELLINI, 1990). 78 È noto che le prime formulazioni di giochi semplici, come quelli a due persone a somma zero, furono inizialmente indagate da J. von Neumann ed O. Morgestern sin dal 1944; applicazioni alla politica economica, con

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I giochi analizzati in letteratura sono non solo tra policymaker e agenti privati, ma anche tra banca centrale e governo, tra diversi governi (centrali e locali, presenti e futuri, di paesi diversi), tra i diversi partiti politici o coalizioni di partiti, e così via. Si parla anche di “guerre d’attrito” quando i giochi sono tra diversi partiti politici che si succedono al governo e si riferiscono al loro atteggiamento nei confronti della politica fiscale. Ad esempio un “indebitamento strategico” può essere creato dai governi che, tagliando le imposte e creando disavanzi temporanei, fanno pressioni sul parlamento e sui futuri governi per ridurre la spesa pubblica. In tale contesto, l’assenza di appropriati meccanismi istituzionali, ad esempio di regole o di vincoli al comportamento delle autorità di politica economica, può rendere queste ultime dipendenti dalle congetture degli agenti privati. In altre parole, le aspettative degli agenti possono risultare auto-realizzantesi (self-justifying), qualunque esse siano, poiché inducono un’azione del responsabile della politica economica esattamente nella direzione attesa. Un esempio di aspettativa auto-realizzantesi si riferisce al peggioramento delle aspettative sulla tenuta del tasso di cambio, che porta ad un attacco speculativo contro una certa valuta che alla fine è davvero costretta a svalutare (come avvenuto nello “Sme” nel 1992: cfr. cap. 16), o sulla sostenibilità del debito pubblico, che può portare ad un default (per il caso recente della Grecia si veda il cap. 19). Un esempio ancor più immediato (di aspettative autorealizzantesi) può essere riferito alla politica monetaria. Si supponga che le autorità monetarie annuncino una riduzione dello stock di moneta per controllare l’inflazione, che tale annuncio sia noto agli agenti privati – imprese e lavoratori – e che sia creduto dagli stessi: ebbene, tutti gli agenti modificheranno i prezzi (inclusi i salari), di conseguenza la quantità reale di moneta non varierà e quindi non vi saranno effetti reali. Se invece non fosse creduto, gli agenti non modificherebbero prezzi e salari, la stretta monetaria farebbe ridurre i saldi liquidi reali, allora la banca centrale non proseguirebbe con la politica monetaria restrittiva per evitare le conseguenze reali indesiderate (recessione, disoccupazione, etc.), confermando anche in questo caso le aspettative degli agenti privati che non credevano all’annuncio di stretta monetaria. Comunque l’annuncio delle politiche economiche, da parte delle autorità responsabili, può non essere sufficiente per la loro efficacia, se esso non è credibile 79. Il problema della credibilità – ossia l’aspettativa che una politica annunciata venga poi effettivamente realizzata – si pone essenzialmente con riferimento alla capacità e/o volontà del policymaker di attenersi alle politiche annunciate. La rilevanza del problema sta nel fatto che una politica economica non creduta, almeno in parte 80, comporta degli effetti reali, come avviene nel caso delle disinflazioni attuate come “docce fredde”: essa, in altre parole, genera una curva di Phillips non verticale (cfr. cap. 8) 81. intuizioni circa i moventi individualistici dei policymaker, si possono trovare in SCHUMPETER (1954). Ricordiamo anche che carenze informative possono originare situazioni di “market failure”, come è messo in luce dal noto dilemma del prigioniero (una soluzione non cooperativa risulta subottimale, sebbene essa sia chiaramente razionale per il singolo individuo, dato che l’aspettativa è quella di una risposta non cooperativa anche dalla controparte). 79 In generale, l’efficacia delle politiche economiche viene a dipendere dalle convinzioni (beliefs) del settore privato, che possono essere molto varie a seconda del modello teorico di riferimento ed anche a seconda dello stato del sistema; ed una politica economica è più efficace se riesce ad influenzare in qualche modo i beliefs del settore privato. 80 È sufficiente ipotizzare che gli agenti assegnino una probabilità, positiva ma minore di uno, all’eventualità che l’annuncio sia falso, od anche che solo qualche agente non creda all’annuncio. 81 Tali effetti reali possono essere gradualmente eliminati mano a mano che gli agenti si convincono della “verità” dell’annuncio e rivedono di conseguenza le proprie aspettative: in questo senso, la non completa cre-

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9.7. La time inconsistency della politica economica Molte decisioni “politiche” (non necessariamente di politica economica) possono essere considerate ottimali in un’ottica di breve periodo, ma non in una di lungo. Esaminiamo l’esempio della politica nei confronti di rapimenti di persone a scopo di estorsione: 1. i governanti annunciano la volontà di non trattare mai con i sequestratori (deterrente per influenzare le aspettative ed i comportamenti dei potenziali sequestratori, ossia per scoraggiare i tentativi di sequestro); 2. a rapimento avvenuto, si pone il dilemma: trattare o non trattare con i sequestratori?; 3. la politica ottimale nel breve periodo è ovviamente quella di trattare, ma se ciò avviene (anche una volta sola) il governo perde credibilità, rendendo più probabile il verificarsi di situazioni simili in futuro: pertanto, questa politica non è ottimale in un’ottica di lungo periodo. Altri esempi extra-economici: dirottamenti aerei, minacce terroristiche, aiuto alle popolazioni disastrate in zone sismiche o alluvionali. Esempi economici di politiche economiche “temporalmente incoerenti”, perché il governo può avere l’incentivo a modificare ex-post i programmi ottimali stabiliti ex-ante, agendo in modo discrezionale, comprendono: – la politica di lotta all’evasione fiscale: i “condoni” sono un metodo spesso usato dai governi per “fare cassa” nell’immediato, ma costituiscono un incentivo ad evadere e quindi non sono ottimali nel lungo andare; – la politica di sostegno degli investimenti, per cui eventuali detassazioni od agevolazioni fiscali possono essere riviste una volta che gli investimenti sono stati decisi; – la politica di incentivazione delle innovazioni, quando le norme attinenti alla concessione dei brevetti vengono abrogate una volta che l’invenzione è stata realizzata; – la politica del debito pubblico: un eventuale ripudio farebbe perdere credibilità allo stato rendendo impossibile (o molto più costoso) il finanziamento con titoli dei disavanzi per molti anni; – le regole fiscali, inclusa la clausola no-bail out del Trattato di Maastricht (cfr. cap. 18). Anche le politiche di stabilizzazione discrezionali possono condurre a risultati subottimali. In particolare, le politiche annunciate non sono sempre credibili, poiché gli agenti razionali 82 si rendono conto dell’incentivo del policymaker a non rispettarle: è questo il problema della “incoerenza temporale” (o dinamica) della politica economica (time inconsistency of optimal policy) 83, secondo cui una politica ottimale ex-ante può non essere più tale ex-post. Con riferimento alla politica monetaria, le autorità, dopo aver annunciato una politica di abbattimento dell’inflazione e nella speranza di aver così influito sulle aspettative, possono essere tentate in seguito di non rispettare l’annuncio allo scopo di sostenere la produzione e di ridurre la disoccupazione, sfruttando l’“effetto sorpresa” 84. Tuttavia se gli agenti privati conoscono fin dall’inizio questo incentivo, l’annuncio risulta non credibile. La credibilità dell’andibilità dell’annuncio provoca degli effetti simili a quelli derivanti dall’ipotesi di aspettative adattative (pur in presenza di aspettative razionali). 82 Che conoscono le vere preferenze del policymaker ovvero la sua funzione-obiettivo. 83 Il problema fu sollevato inizialmente da KYDLAND, PRESCOTT (1977) e da CALVO (1978). 84 Anche se problemi di credibilità e reputazione si verificano più plausibilmente in presenza di differenti obiettivi del policymaker rispetto agli agenti privati, l’incoerenza temporale può presentarsi anche quando il governo ha la stessa funzione-obiettivo degli agenti privati: ossia quando il governo massimizza la funzione di utilità dell’agente rappresentativo.

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nuncio, sebbene influenzata dall’effettivo comportamento passato del policymaker, è connessa all’incentivo che esso può avere (anche solo potenzialmente) a non rispettare la politica annunciata. Il problema dell’incoerenza temporale della politica economica può essere semplicemente rappresentato mediante la Fig. 9.4. In essa, sono innanzi tutto tracciate le tradizionali curve di Phillips (come la Ph) che mostrano il trade-off di breve periodo tra inflazione () e disoccupazione (u), ovvero il vincolo a cui il policymaker deve soggiacere 85. È inoltre mostrata la curva di Phillips verticale di medio/lungo periodo (Ph*), in corrispondenza del tasso naturale di disoccupazione (un), lungo la quale le aspettative degli agenti privati sono realizzate ( = e), come precedentemente illustrato (nel cap. 8). Nello stesso grafico, sono pure rappresentate delle curve di indifferenza (come la I0, la I1, la I2) del policymaker. L’ipotesi implicita è che quest’ultimo consideri una certa combinazione ottimale tra inflazione e disoccupazione, come nel punto B (il cosiddetto bliss point), in cui l’inflazione è nulla e la disoccupazione ad un tasso u0, inferiore a quello naturale ma diverso da zero (0 < u^ < un) 86. Lo stesso policymaker è disposto a “sopportare” un’inflazione più elevata, purché siano minimizzati gli scostamenti della disoccupazione, e quindi del reddito 87, attorno al livello desiderato; inoltre, la sua soddisfazione diminuisce, mano a mano che ci si sposta su curve di indifferenza più lontane dal punto B. Figura 9.4. – L’incoerenza temporale della politica economica  Ph(e = 0)

Ph(e = 2)

2 1

Ph*

D B

0 I2 I0 I1

u0

C

A

u1

un

u

Supponiamo ora che il sistema si trovi nel punto A, caratterizzato da una disoccupazione coincidente con il tasso naturale (un) e da un’inflazione nulla ( = 0), ottenuta grazie ad una 85 L’andamento è decrescente per tener conto degli effetti di eventuali “sorprese inflazionistiche”, nonché di eventuali rigidità nominali, frizioni o ritardi d’aggiustamento. 86 Per un’ipotesi alternativa (in cui u^ = 0), si veda la discussione sulla “funzione di perdita” nel cap. 2. 87 Nei modelli analitici (a cominciare dal noto contributo di BARRO, GORDON,1983a, 1983b), si suppone generalmente che il policymaker abbia una funzione-obiettivo consistente nella minimizzazione del tasso d’inflazione (possibilmente nel suo azzeramento) e degli scostamenti rispetto al livello desiderato (od al tasso di crescita desiderato) del reddito reale, in cui il livello desiderato coincide con quello “naturale” aumentato di una componente temporanea positiva.

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politica monetaria pubblicamente annunciata (cosicché le aspettative degli agenti privati si conformino, nelle speranze del policymaker, ad un tale obiettivo), ma il policymaker ha un incentivo a spostarsi verso il punto B desiderato: ebbene, anche ammesso che egli possa agire in modo discrezionale, tale spostamento non è fattibile, a causa del trade-off di breve periodo tra inflazione e disoccupazione. Al meglio, il responsabile della politica economica può condurre il sistema, muovendosi lungo il vincolo (ossia la curva di Phillips di breve periodo che passa da A), dal punto A al punto di tangenza C (caratterizzato da un’inflazione pari a 1 ed una disoccupazione uguale a u1), contando sul fatto che le aspettative degli agenti privati siano già state formate (la curva di Phillips passante per il punto C presuppone aspettative di prezzo pari a e = 0) e tentando così di porre in essere una sorpresa inflazionistica 88. Tuttavia, anche il punto C non può essere un punto di equilibrio di medio/lungo periodo, poiché le aspettative degli agenti privati non coincidono con l’azione economica effettiva del policymaker 89. Perciò, gli agenti, che sono stati “ingannati” (1 > e = 0), rivedono le loro aspettative d’inflazione, fino a quando queste giungono ad un livello uguale all’inflazione effettiva (e = 1), modificando di conseguenza il proprio comportamento (inclusi i contratti salariali ed i prezzi di vendita che incorporano le maggiori aspettative inflazionistiche); ciò che fa spostare la curva di Phillips di breve periodo verso l’alto. Gli incentivi del policymaker a deviare dalla posizione naturale un ed i tentativi di sfruttare le sorprese inflazionistiche possono continuare (anche attraverso ripetuti spostamenti della curva di Phillips verso l’alto), fino a quando il sistema non giunge all’equilibrio finale time-consistent, che è rappresentato dal punto D, che presenta due caratteristiche: – è un punto di tangenza tra le curve d’indifferenza e le curve di Phillips di breve periodo: questo assicura che il governo non ha più incentivo a deviare, perché altrimenti perseguendo un tasso di disoccupazione più basso si posizionerebbe su una curva d’indifferenza più alta, cioè peggiore 90; – giace sulla curva di Phillips verticale di lungo periodo (in cui l’inflazione attesa coincide con l’inflazione effettiva:  = e = 2), per cui anche gli agenti privati sono in equilibrio (nel senso che le loro aspettative inflazionistiche risultano realizzate). Il punto D, conseguente a politiche di tipo discrezionale, rappresenta però un livello di soddisfazione (contrassegnato da I2) inferiore non solo a quello del punto C (pari a I1), ma anche a quello del punto iniziale A (pari a I0), ossia rispetto alla situazione di non intervento; infatti nel punto A, a parità di disoccupazione fissata al livello naturale, si ha un tasso d’inflazione nullo, e quindi inferiore a quello 2 del punto D. Una politica opportunistica, mirante a sfruttare le sorprese inflazionistiche, risulta così sub-ottimale nel lungo periodo e, non accontentandosi dell’equilibrio iniziale di second best (punto A), il tentativo di perseguire il first best (punto C) porta addirittura il sistema, per così dire, in una posizione di third best (punto D). Occorre ancora precisare che il punto A non è “time consistent”, poiché vi è incentivo per il responsabile politico a spostarsi verso C, come indicato in precedenza. In effetti, se le aspet88 In effetti, il beneficio marginale di quest’ultima, ossia la minore disoccupazione, supera (date le preferenze del policymaker) il costo marginale della maggiore inflazione. 89 È invece un equilibrio temporaneo dovuto al cheating, ossia all’inganno degli agenti privati da parte del governo. 90 Per questo motivo, la situazione rappresentata dal punto D è definita incentive-compatible; essa è inoltre a volte definita “soluzione della programmazione dinamica”. Nella teoria dei giochi, il punto D è definito come punto dell’equilibrio di Nash (o equilibrio non cooperativo).

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tative sono razionali, non è necessario che il governo attui una politica espansiva (per ridurre la disoccupazione), in quanto basta che esso abbia anche solo la possibilità di agire discrezionalmente per influenzare le attese degli operatori privati, portando questi ultimi a non “credere” all’annuncio di politiche monetarie rigorose, specie se essi conoscono la funzione di preferenza del policymaker e quindi il suo incentivo a rinnegare l’annuncio. È questo il problema della “time inconsistency”. L’unico modo per conseguire un livello di utilità almeno pari a I0 (e quindi superiore a I2), restando fermi nel punto A, è quello di convincere gli agenti privati che non saranno rinnegati gli annunci fatti. Vi sono due modi alternativi per conseguire questo risultato: 1. adottare un impegno vincolante (committment) da parte del policymaker o imporgli delle regole che limitino la sua azione discrezionale (infatti il punto A è talvolta definito punto del “pre-committment”), 2. acquisire una buona reputazione, conseguita nel tempo, da parte del policymaker, di essersi comportato “bene” ossia di aver sempre rispettato gli annunci di  = 0 (o comunque di inflazione bassa). Rinviamo la trattazione della prima soluzione alla prossima sezione. Ebbene, concentrandoci sulla seconda via d’uscita, la reputazione può fungere da sostituto in alternativa all’adozione di vincoli all’azione dei responsabili di politica economica 91. Occorre subito avvertire che questa soluzione non presta il fianco alle usuali critiche nei confronti dei sistemi di regole (cfr. cap. 7), in quanto assicura una maggiore flessibilità rispetto ad eventi futuri imprevisti 92. Attraverso i meccanismi reputazionali, si cerca di mostrare che, sebbene vi sia un incentivo di breve periodo per il governo ad adottare politiche inflazionistiche (data la sua funzioneobiettivo), la considerazione degli effetti di lungo periodo può rendere superiore una politica di inflazione nulla, poiché questa consente di acquisire una “buona” reputazione. In un contesto multiperiodale 93, le aspettative degli agenti dipendono dal comportamento passato del policymaker. Ebbene, la reputazione del decisore pubblico (governo, banca centrale, etc.), di attenersi ad un’inflazione nulla, è acquisita nel tempo; essa può ad esempio essere conseguita tramite ripetuti ed impegnativi annunci pubblici, in seguito effettivamente rispettati 94, tali da accrescere il costo di un eventuale rinnegamento (costo da valutare anche in termini strettamente politici). In questo contesto, il costo di una “sorpresa inflazionistica” può estendersi a molti anni futuri. In effetti, la reputazione può essere persa se il responsabile politico decide di allontanarsi, anche una sola volta, dall’obiettivo di inflazione nulla (in tal caso, si dice che egli agisce in modo discrezionale o opportunistico) 95. Il costo futuro può riguardare le maggiori difficoltà di portare a termine una politica disinflazionistica in presenza di bassa reputazione: più rilevanti effetti reali, maggiore disoccupazione, etc. 91 Cfr.

PERSSON, TABELLINI (1990). particolare, in condizioni d’incertezza circa eventuali shock esogeni, un certo grado di flessibilità nell’azione del policymaker (ad esempio una pronta risposta della banca centrale a variazioni della domanda di moneta) può essere preferibile rispetto alla soluzione del “pre-commitment” (ROGOFF, 1985). 93 Tale contesto è rappresentabile mediante i “giochi ripetuti” (BARRO, GORDON, 1983). 94 Nel caso di una solida reputazione conseguita nel passato, basterebbe l’annuncio di una politica economica restrittiva perché i mercati subito si aggiustino ad un minore tasso d’inflazione (anche prima dell’adozione di misure concrete di politica economica). 95 A fronte del beneficio netto uniperiodale (chiamato “tentazione” o temptation) di una sorpresa inflazionistica, si pone pertanto il costo futuro della perdita di reputazione (definito meccanismo di “imposizione” o enforcement, in quanto fa valere la politica di inflazione nulla): secondo la “enforcement rule” la credibilità può essere mantenuta se tale costo futuro risulta superiore al beneficio immediato. 92 In

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Nei modelli della NMC, la strategia del responsabile di politica economica (quale giocatore) dovrebbe essere nota agli agenti privati 96. L’incertezza sulle preferenze del policymaker è fatta dipendere, in taluni modelli, dall’incertezza di tipo politico sui risultati elettorali, ciò che può condurre ad un altro esempio di ciclo economico-politico 97. In definitiva, se il policymaker, ad esempio la banca centrale, riesce a conseguire un’elevata reputazione, non solo la soluzione non-inflazionistica risulta più facilmente raggiungibile, ma l’efficacia e la rapidità di trasmissione delle manovre, ad esempio monetarie, viene accresciuta, in quanto i segnali lanciati dalle autorità monetarie risultano più chiari e credibili.

9.8. Credibilità, regole ed istituzioni In alternativa ai meccanismi reputazionali, è possibile tentare di risolvere i problemi di credibilità, al fine di conseguire perlomeno la soluzione di “second-best” sopra richiamata (corrispondente al punto A), garantendo quindi un livello di benessere più elevato (rispetto all’alternativa delle politiche discrezionali), mediante un vincolo esterno alle autorità di politica economica. Occorre in un certo senso legare le mani al policymaker, affinché si impegni oppure sia vincolato (è questa l’alternativa del pre-commitment) ad adottare una politica di bassa, possibilmente nulla, inflazione. Lo scopo è quello di obbligare le autorità a fare delle “mosse” assolutamente prevedibili per gli agenti privati e, pur potendo ancora verificarsi un incentivo alle sorprese di politica economica, di creare un’impossibilità tecnica nell’attuarle o, perlomeno, di talmente elevare il costo di un rinnegamento (in termini sia economici che politici) da renderlo altamente implausibile. Questo risultato può essere conseguito mediante un sistema di regole di politica economica; siano esse fisse o flessibili, il punto essenziale è che venga escluso ogni tipo di discrezionalità e devono essere note agli agenti, prima che questi possano prendere le proprie decisioni (ad esempio procedere al rinnovo dei contratti salariali). Una via di mezzo tra l’approccio discrezionale (con bassa credibilità) e quello normativo delle regole (con scarsa flessibilità) è stata individuata nei meccanismi volti ad accrescere la credibilità degli annunci, ad esempio con l’intento di: i. predisporre dei sistemi che elevino direttamente il costo di eventuali deviazioni dalla posizione di inflazione nulla; ii. eliminare gli stessi incentivi a rinnegare (ad esempio l’incentivo a creare sorprese inflazionistiche viene meno se il governo è creditore netto, anziché debitore) 98. Alcune possibilità che sono state considerate in letteratura sono le seguenti 99: – l’ancoraggio del tasso di cambio della valuta nazionale a quello di una valuta “forte” ovvero 96 Nell’ambito della teoria dei giochi, ci sono i modelli ad informazione incompleta in cui gli agenti privati non conoscono completamente la funzione di preferenza delle autorità di politica economica (in questo caso le politiche di stabilizzazione possono ridivenire efficaci). Al loro interno ci sono i modelli con apprendimento completo, per cui le ignote preferenze del policymaker sono dedotte dal suo comportamento passato. 97 In cui vi è l’uso strategico del disavanzo pubblico (ALESINA, 1988a). 98 Cfr. PERSSON, TABELLINI (1993). 99 Il risultato che si può ottenere è intermedio tra quello discrezionale (rappresentato dal punto D nella Fig. 9.4) e quello conseguibile con commitment (ossia il punto A), con un tasso d’inflazione intermedio (0 <  < 2). Un analogo risultato può essere conseguito mediante regole fisse che ammettano clausole di salvaguardia, ossia un’azione discrezionale solamente a seguito di eventi eccezionali o di shock molto ampi: un esempio può essere fornito da un sistema di cambi fissi, ma con possibilità di riallineamenti al verificarsi di squilibri fondamentali (come avveniva nel Sistema Monetario Europeo: cfr. cap. 16).

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alla valuta di un paese notoriamente caratterizzato da un basso tasso d’inflazione 100, “prendendo a prestito” in un certo senso la credibilità del paese di riferimento e “legando le mani” alle autorità nazionali 101; l’effetto è anche in questo caso quello di elevare il costo di un eventuale abbandono della lotta all’inflazione (maggiore inflazione che, con un cambio fisso, implicherebbe perdita di competitività, calo di esportazioni e produzione, altri effetti reali); – l’accordo tra il governo e le parti sociali (del tipo indicato a proposito della politica dei redditi, nel cap. 8: è questa un’azione vista con favore dagli economisti keynesiani), che segni una svolta rispetto al precedente regime di determinazione dei salari; anche l’eliminazione dei sistemi d’indicizzazione salariale può elevare notevolmente il costo di un rinnegamento della politica anti-inflazionistica; – il perseguimento di un’appropriata struttura per scadenze del debito pubblico (da questo punto di vista un debito pubblico con breve vita media oppure indicizzato costituisce un minor incentivo ad utilizzare le sorprese inflazionistiche per ridurre il suo valore reale); – la nomina di responsabili della politica economica con le caratteristiche desiderate, ad esempio di governatori delle banche centrali notoriamente conservatori ed avversi all’inflazione; ovvero la definizione del grado di autonomia della stessa banca centrale (questa potrebbe essere una soluzione alternativa rispetto all’applicazione di rigide regole monetarie, secondo la tradizionale ricetta monetarista). Concentriamo ora l’attenzione sul ruolo delle istituzioni, tanto più che nello schema teorico della NMC, essendo minimizzato il ruolo delle politiche economiche (cfr. par. 9.4) 102, si ritiene che compito dell’economista rimane al più quello di fornire consigli per la riforma dei meccanismi istituzionali. Finalità più specifica è quella di individuare dei regimi istituzionali tali da accrescere la credibilità delle politiche di stabilizzazione. In particolare, la definizione di specifici impegni (commitment technology) al comportamento del policymaker può avvenire attraverso riforme istituzionali, che possono anche includere vincoli legislativi o addirittura costituzionali 103. È evidente che la sequenza che va dai vincoli costituzionali, alle norme legislative, alle norme amministrative, ai semplici interventi discrezionali (del governo, di singoli ministri, della banca centrale, etc.) implica, da un lato, una decrescente credibilità (per rischi crescenti di incoerenza temporale), ma dall’altro lato comporta una crescente flessibilità di risposta agli shock. Suggerimenti più specifici riguardano ad esempio il tema (poc’anzi accennato) dell’autonomia della banca centrale; secondo la NMC una tale autonomia rispetto alle altre autorità di politica economica, ossia rispetto al governo, può risultare socialmente desiderabile se si ritiene che la funzione di utilità della banca centrale sia più simile a quella del settore privato, rispetto alla funzione di utilità del governo (questo tema sarà approfondito nel par. 10.1). Comunque, le isti100 Era questa la logica sottostante all’adesione passata (dal 1979) dell’Italia, paese tradizionalmente più propenso all’inflazione, al Sistema Monetario Europeo, con l’ancorare la lira italiana al molto più stabile marco tedesco (si vedano le conclusioni in fondo al paragrafo). 101 Cfr. GIAVAZZI, PAGANO (1988). In modo simmetrico, anche l’abbandono di un particolare regime di cambi (come nel lontano passato il “gold standard”) può provocare di per sé una maggiore inflazione (è questa una controprova degli effetti che può avere una regola di politica economica, anche quando, come nel caso in esame, essa viene abbandonata). 102 Al punto che viene a cadere la stessa distinzione tra economia positiva ed economia normativa (HOOVER, 1988). 103 Di solito, alle norme costituzionali sono riservati aspetti fondamentali (come la fissazione dei diritti di proprietà); a quelle legislative, numerose decisioni di politica fiscale; agli interventi discrezionali, la gran parte delle misure di politica monetaria.

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tuzioni non sono immutabili, ma dovrebbero anzi essere considerate endogenamente, in quanto esse stesse possono modificarsi reagendo alla performance dei sistemi economici reali. Non è un caso ad esempio che l’autonomia delle banche centrali nel mondo si sia accresciuta anche a seguito delle esperienze negative connesse all’elevata inflazione degli anni ’70. Per la credibilità della politica monetaria conta, secondo gli esponenti della NMC, non solo l’autonomia ma anche il grado di conservatorismo della stessa banca centrale (pure approfondito più avanti, nel par. 10.2) 104. In particolare, se la banca centrale è target-conservative, ossia quali valori desiderati sceglie ^ = 0 e u = un (in termini grafici collocherebbe il “bliss point” nel punto A della Fig. 9.4), allora non ha alcun incentivo a deviare (il punto A sarebbe time-consistent) e l’annuncio d’inflazione nulla è pienamente credibile. Ricordiamo però, ancora una volta, che vi è un trade-off tra credibilità – che richiederebbe regole fisse di politica economica o la nomina di banchieri centrali autonomi e molto conservatori – e flessibilità nella gestione della stessa politica economica. Sono soprattutto gli economisti keynesiani ad auspicare il mantenimento di questa flessibilità, al fine di evitare eccessive fluttuazioni del reddito e dell’occupazione; essi inoltre argomentano che sarà la banca centrale a farsi carico dei problemi di reputazione (anche grazie al prestigio di cui normalmente gode l’istituzione), pur in assenza di regole o di vincoli legislativi ad hoc 105. Vediamo infine come le teorie sulla credibilità sono utili per analizzare il regime monetario prevalente in vari periodi nell’UE: i. Sistema Monetario Europeo (dal 1979): aderendo allo SME, con l’ancoraggio della lira italiana al molto più stabile marco tedesco, diveniva più costosa l’inflazione; inoltre, il cambio (quasi) fisso costituiva anche un segnale lanciato alle parti sociali, ai sindacati dei lavoratori (attenzione a non eccedere nelle richieste salariali altrimenti le conseguenze sulla disoccupazione sarebbero molto più forti) come pure alle imprese (attenzione all’efficienza ed ai livelli di produttività, molto più stringenti senza le svalutazioni competitive del passato); durante lo “SME forte” (1987-1992), con connesse rivalutazioni reali del tasso di cambio della lira rispetto al marco, è aumentata la credibilità del cambio fisso ma è diminuita la flessibilità di risposta (nonché la sostenibilità dinamica del tasso di cambio della lira, portando alla crisi del 1992: cfr. cap. 16); ii. Trattato di Maastricht e convergenza (1992-1998): a causa dei criteri di convergenza (cfr. cap. 16), una politica inflazionistica e di svalutazione avrebbe comportato l’esclusione dall’Unione economica e monetaria, ossia un costo elevatissimo (che superava la “tentazione” di svalutare): quindi credibilità rafforzata in questo periodo; iii. Unione Monetaria Europea (dal 1999): la politica monetaria è comune e per essa non vi sono problemi di credibilità; infatti la Bce ha la massima autonomia ed è considerata conservatrice, perlomeno in relazione al suo assetto istituzionale (cfr. cap. 17); ma rimangono problemi per i singoli paesi, ad esempio derivanti da differenziali inflazionistici (con cambi nominali irrevocabilmente fissi all’interno dell’Eurozona, una maggiore inflazione rispetto ai partner causa un peggioramento del cambio reale e quindi perdita di competitività) o dai problemi di sostenibilità del debito (cfr. cap. 19).

104 I critici della NMC, da questo punto di vista, hanno posto il problema dell’effettiva rilevanza della teoria della “time inconsistency”, rispetto ad esempio alla visione monetarista tradizionale: se la conclusione fondamentale del discorso è quella di ritenere preferibile disporre di responsabili di politica economica far-sighted (ossia previdenti, piuttosto che miopi) e, più specificamente, avversi all’inflazione, dove sta l’innovazione delle nuove teorie? (cfr. BLINDER, 1987). 105 In altre parole, l’autonomia sostanziale sarebbe più importante di quella formale: cfr. NARDOZZI (1988).

Parte Terza

Politica monetaria e politica fiscale

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Politica monetaria e politica fiscale

La politica monetaria: obiettivi, strategie e teorie sul central banking

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La politica monetaria: obiettivi, strategie e teorie sul central banking

10.1. L’indipendenza delle banche centrali Le banche centrali nel mondo hanno acquisito un ruolo cruciale nella formulazione delle politiche economiche, specie negli ultimi due o tre decenni: si è perfino parlato di “central bank dominance”. Una caratteristica comune di molte banche centrali è la conquista di una progressiva indipendenza: indipendenza dal potere politico ovvero dai governi. Sarebbe auspicabile che entrambe le politiche, monetaria e fiscale, possano essere condotte in modo autonomo 1. La richiesta di una netta separazione tra le due politiche, monetaria e fiscale, discende dalla considerazione che i due policymaker – banca centrale e governo – hanno orizzonti differenti: mentre la banca centrale, avendo orizzonti temporali più lunghi, privilegia obiettivi quali la stabilità dei prezzi (anche se in questo capitolo vedremo che non tutte le banche centrali del mondo presentano questa distorsione), il governo predilige obiettivi quali l’espansione del reddito e dell’occupazione. In questa sezione analizziamo meglio il problema dell’autonomia della banca centrale, proponendo tre tipi di spiegazioni: (i) cosa s’intende per indipendenza o autonomia; (ii) quali sono le motivazioni teoriche; (iii) qual è l’evidenza empirica. Riguardo al primo punto, si possono distinguere tre tipi di autonomia 2: 1. indipendenza politica, rispetto al governo 3, ad esempio in tema di procedure per la nomina del governatore o del consiglio d'amministrazione della banca (inclusi la loro durata in carica, la composizione, i loro rapporti con il governo, l’esistenza di norme per l’eventuale soluzione di conflitti); 2. indipendenza nella scelta e nel perseguimento degli obiettivi desiderati, tipicamente la stabilità monetaria, in certi casi posta nello statuto della banca, e – congiuntamente oppure in subordine – il perseguimento di obiettivi reali (quali la piena occupazione, la crescita del reddito, il sostegno di risparmi e investimenti, etc.); 1 Senza che la prima sia considerata “ancella” della politica fiscale, come nella visione keynesiana più estrema (cfr. par. 2.1) o viceversa che sia la politica monetaria a dominare quella fiscale (come nelle conclusioni del modello di Sargent e Wallace del 1981: cfr. par. 9.4). 2 Tra le opere sull’autonomia della banca centrale, cfr. MASCIANDARO (1990, 1991), ARCELLI (1992), S. FISCHER (1995). 3 Da un punto di vista teorico, in alcuni modelli la banca centrale funge da agente rispetto al principale, che rimane il potere politico (in certi casi lo stesso governo); si tratta allora di stabilire dei contratti (non necessariamente istituzionalizzati) attraverso cui si incentiva l’agente a comportarsi in un certo modo (prevedendo anche delle penalità, che possono arrivare alle dimissioni del governatore, nel caso in cui gli obiettivi in tema di stabilità monetaria non siano realizzati).

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3. indipendenza nella scelta degli strumenti più appropriati di politica monetaria, specialmente in tema di poteri d’indirizzo sui tassi d'interesse e sulla liquidità, ma sempre più diversificati (controllo della base monetaria, procedure per il finanziamento dei disavanzi pubblici, operazioni di mercato aperto, disciplina della riserva obbligatoria, manovra del tasso ufficiale di riferimento, operazioni “non convenzionali” 4, controlli amministrativi, responsabilità di supervisione e di vigilanza, etc.). In relazione agli strumenti, vi è un consenso quasi generale che un efficace “commitment” ad una bassa inflazione implica perlomeno l’indipendenza economica della banca centrale, incluse le decisioni circa il finanziamento monetario dei disavanzi pubblici (peraltro il Trattato di Maastricht vieta in modo assoluto i finanziamenti con moneta ai paesi dell’Eurozona). Per quanto riguarda gli obiettivi finali, nella letteratura è stato indagato soprattutto quello dell’inflazione 5, che eventualmente dovrebbe essere esplicitato nello statuto della stessa banca centrale oppure annunciato in modo chiaro (come nel caso del target inflazionistico della Bce: cfr. cap. 17); considerato però che molti autori preferiscono ancorare le decisioni politiche ad obiettivi intermedi (piuttosto che ai sopra citati obiettivi finali), si tratta di individuare l’ancora nominale più adatta: ad esempio, i tassi di crescita della moneta (come nella tradizionale regola monetarista), il tasso di cambio, un target d’inflazione, il Pil nominale 6. Proposte meno estreme auspicano che sia il governo a fissare l’obiettivo in termini d’inflazione, mentre la banca centrale, che gode una piena autonomia nella scelta degli strumenti, diviene responsabile per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Alcuni economisti ritengono infine che la credibilità delle politiche rivolte al raggiungimento di obiettivi di bassa inflazione è rafforzata se essi sono fissati congiuntamente dal governo e dalla banca centrale. Considerando ora la seconda spiegazione dell’elenco precedente, le posizioni teoriche delle diverse scuole sono almeno tre: i. quella di FRIEDMAN (1962), che propone un “costituzionalismo monetario” ed auspica uno stretto controllo sulla banca centrale da parte del Parlamento o attraverso il rispetto delle regole monetarie 7, al fine di minimizzare i comportamenti di tipo discrezionale della stessa banca centrale; ii. quella dei keynesiani, che, pur con notevoli differenziazioni al loro interno, hanno in passato generalmente preferito un orientamento di politica monetaria volto alla minimizzazione del costo del servizio del debito per il Tesoro: ancor una volta, seppure per finalità differenti, la politica monetaria viene a svolgere un ruolo accomodante, ovvero sussidiario (almeno in parte) rispetto a quella fiscale; più recentemente gli economisti keynesiani hanno invece auspicato un coordinamento tra politica monetaria e fiscale; 8 4 A queste si farà cenno nel cap. 17; sono interventi volti a fronteggiare situazioni economiche particolarmente critiche come quelle sorte dopo le recenti crisi (crisi finanziaria, Grande Recessione, crisi dei debiti sovrani: si veda anche il cap. 19). 5 Un appropriato commitment potrebbe riguardare anche il mantenimento del reddito al livello di piena occupazione (PESTON, 1985), prescindendo dalle difficoltà di definizione della situazione di piena occupazione. Se un tale vincolo è creduto e ritenuto efficace dagli agenti privati, allora la varianza del reddito può effettivamente abbassarsi e la sua media innalzarsi (verso il livello di piena occupazione), rendendo al limite superfluo lo stesso intervento di politica economica (a meno che si verifichino shock imprevisti). 6 Quest’ultima è l’ancora preferita da FRANKEL e CHINN (1995), che passano in rassegna le possibili alternative. 7 Oltre alle regole monetarie (à la Friedman), anche le regole e gli accordi sui cambi (come il currency board e lo SME) riducono l’autonomia della politica monetaria nazionale, ma nello stesso tempo “proteggono” in un certo senso la banca centrale dalle interferenze dei governi (miranti a rendere meno rigorosa la politica anti-inflazionistica). 8 Cfr. CARDIM DE CARVALHO (1996), VICARELLI (1988).

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iii. quella, più recente, degli economisti che condividono su questo punto le impostazioni della NMC, secondo cui una chiara autonomia della banca centrale è richiesta non solo al fine di condurre una più efficace e credibile lotta all’inflazione, ma anche per facilitare il riequilibrio della finanza pubblica 9. La più importante giustificazione teorica a favore dell’autonomia della banca centrale è proprio quella basata sulla credibilità di una politica monetaria anti-inflazionistica, come spiegato negli studi della NMC (cfr. cap. 9). Una tale autonomia può risultare socialmente desiderabile se si ritiene che la funzione di utilità della banca centrale sia più simile a quella del settore privato, rispetto alla funzione di utilità del governo 10. Infatti, quest’ultimo potrebbe essere mosso da intenti che hanno poco a che vedere con il benessere sociale, essendo piuttosto connessi agli obiettivi particolari del policymaker 11. Le differenze tra le suddette funzioni di utilità possono concernere il livello desiderato degli obiettivi finali (inflazione, reddito, tasso di crescita reale), il rapporto tra le variabili-obiettivo (ad esempio i loro rispettivi pesi nella funzione di perdita), la loro importanza intertemporale (colta dall’orizzonte temporale e dal fattore di sconto). D’altro canto, un economista keynesiano potrebbe rispondere che, al contrario, la funzione di preferenza del governo rappresenta meglio il benessere sociale, al limite anche in contrapposizione con l’utilità del singolo agente rappresentativo (ad esempio per la presenza di esternalità, problemi di coordinamento, imperfezioni di mercato). Pertanto, la credibilità della politica anti-inflazionistica dovrebbe essere rafforzata attraverso altri strumenti (politica dei redditi, etc.). Inoltre, anche ammesso che una maggiore autonomia della banca centrale possa rafforzare la credibilità anti-inflazionistica, occorre considerare che quando cambia il regime di politica economica, ad esempio nel senso di una crescente indipendenza riservata alla banca centrale, la credibilità non è subito piena e vi è di solito un processo di apprendimento, per cui le aspettative si modificano lentamente. Un altro aspetto discusso riguarda il fatto che, proprio quando la banca centrale è maggiormente autonoma (dal governo), essa deve essere accountable (come si usa dire nella letteratura inglese) nei confronti della pubblica opinione ovvero del potere politico in senso lato. Ciò significa, ad esempio, che deve periodicamente render conto del proprio operato al Parlamento (al Congresso negli Usa). Una capillare diffusione delle informazioni e la maggior trasparenza possibile – anche in relazione alle decisioni di politica monetaria adottate – sono pure ritenuti ingredienti indispensabili dell’accountability (il caso della Bce sarà discusso nel cap. 17). Veniamo ora al terzo punto dell’elenco iniziale, quello dell’evidenza empirica. Ebbene, se da un punto di vista concreto l’indipendenza economica nella scelta degli strumenti da parte delle banche centrali sembra ormai un fatto acquisito, l’indipendenza politica non è ancora omogenea. Le banche centrali tradizionalmente più indipendenti erano di solito considerate 9 In aggiunta ai motivi indicati nel testo, l’autonomia della banca centrale è da ritenersi preferibile anche per un semplice motivo di appropriata soluzione del problema dell’assegnazione degli strumenti agli obiettivi: in altre parole, la banca centrale può divenire un’“agenzia specializzata” nel conseguimento dell’obiettivo della stabilità dei prezzi (BRUNI, MASCIANDARO, 1991). 10 Cfr. CUKIERMAN (1986, 1992). 11 Una distorsione a favore di una crescita reale sostenuta, anche a scapito di una maggiore inflazione (e/o nel tentativo di sfruttare temporaneamente fenomeni di illusione monetaria), nella funzione di utilità governativa, può essere dovuta, ad esempio, allo sfruttamento del “potere di signoraggio” (al fine di trarre vantaggio dall’imposta da inflazione), all’accomodamento di politiche fiscali in disavanzo, od anche agli obiettivi di tipo strettamente politico, elettorale, etc. (MASCIANDARO, 1990).

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la Federal Reserve negli Stati Uniti, la Bundesbank in Germania e la banca centrale svizzera, mentre quella inglese (ed in passato quelle dei paesi europei mediterranei) erano maggiormente subordinate ai governi; le banche centrali dei restanti paesi sviluppati stavano nel mezzo, con gradi variabili di indipendenza: in certi casi (come in Italia) ad un’elevata indipendenza politica si contrapponeva in passato una bassa autonomia economica. Comunque, il grado di autonomia è stato senz’altro crescente a partire dagli anni ’90 in quasi tutti i paesi del mondo 12. In quei casi recenti in cui i governi hanno tentato di interferire con l’autonomia della banca centrale nazionale (Argentina, Venezuela, Turchia) si è determinata una profonda instabilità monetaria (inflazione e svalutazione della moneta nazionale) e finanziaria. Approfondiamo ora brevemente il caso italiano. Negli anni ’70, la Banca d’Italia non era affatto indipendente e c’era la prassi per l’istituto di emissione di acquistare i titoli pubblici rimasti invenduti alle aste, una forma indiretta di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici. Il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro del 1981, con il porre termine a questa prassi, ha dato l’avvio ad una certa autonomia 13. Poi, all’inizio degli anni ’90, dopo la firma del Trattato di Maastricht, l’autonomia è divenuta completa, soprattutto con le riforme (del 1992-1993) della riserva obbligatoria e del conto corrente di Tesoreria e con l’affidamento alla banca centrale della piena responsabilità della manovra del tasso ufficiale di sconto e del tasso sulle anticipazioni 14. Sempre in tema d’evidenza empirica, sorge spontanea una domanda: è vero che una banca centrale indipendente migliora la performance macroeconomica? Gli studi mostrano che l’indipendenza della banca centrale, in genere misurata attraverso appositi indici sintetici, sembra in qualche modo associata a bassa (oltre che poco volatile) inflazione (come mostra la Fig. 10.1); nello stesso tempo la maggiore autonomia pare non incidere significativamente sulle variabili reali (crescita del prodotto, disoccupazione, tassi d’interesse reali, etc.) 15. La relazione inversa tra grado di autonomia e livello d’inflazione sembra inoltre indipendente sia dal livello del disavanzo e del debito, sia dai regimi politico-istituzionali (che sono invece importanti nel determinare gli andamenti delle finanze pubbliche): la disciplina monetaria sembra non essere correlata con quella fiscale, dipendendo esse rispettivamente dalle istituzioni monetarie e da quelle politiche. 12 Il caso inglese è pure interessante, in quanto nel corso degli anni ’90 si è accresciuta l’autonomia della Banca d’Inghilterra, caratterizzata ora da indipendenza politica e responsabilità nella scelta degli strumenti di politica monetaria, sebbene gli obiettivi di politica economica (incluso il tasso d’inflazione desiderato) siano determinati congiuntamente con il governo (si rammenta che il Regno Unito non fa parte dell’Eurozona). 13 Protagonisti furono il governatore della Banca d’Italia, Ciampi, e il Ministro del Tesoro, Andreatta. Si riteneva anche che tale “divorzio”, con il venir meno del finanziamento automatico dei disavanzi non coperti da titoli collocati, potesse indurre i governi a contenere gli squilibri di finanza pubblica (già evidenti nel corso degli anni ’70); tuttavia – negli anni ’80 – così non è stato anche per effetto del rialzo dei tassi di interesse reali internazionali e nazionali (cfr. cap. 11). 14 D’altro canto, con la riforma del 2005, il precedente mandato a vita del governatore della Banca d’Italia (oramai relegata ad un ruolo secondario, nel contesto dell’Eurozona e rispetto alla centralità della Bce) è stato sostituito con un mandato di massimo sei anni rinnovabile una sola volta. Il primo governatore nominato (nel 2005) secondo le nuove norme, Mario Draghi, fu poi chiamato nel 2011 a ricoprire la carica di Presidente della Bce; il secondo governatore, Ignazio Visco, ebbe il mandato rinnovato nel 2017 ed è tuttora in carica. 15 Si veda GRILLI, MASCIANDARO, TABELLINI (1991) e ALESINA, SUMMERS (1993). Da un punto di vista teorico, sembrerebbe possibile rintracciare degli effetti dell’autonomia della banca centrale sulle variabili reali di segno opposto: effetti negativi (per il più basso peso attribuito alla stabilizzazione del reddito da una banca centrale indipendente), ma anche positivi: la stabilità monetaria riduce l’incertezza e favorisce la crescita, fa diminuire i tassi nominali d’interesse, abbassa i “premi al rischio” e l’autonomia minimizza le interferenze politiche e gli effetti del ciclo politico-elettorale. L’effetto netto potrebbe essere quindi positivo o negativo, ma secondo le citate ricerche empiriche esso risulta praticamente nullo.

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Figura 10.1. – Indipendenza delle banche centrali e tasso d’inflazione

Tasso medio annuo di inflazione (%)

18

Portogallo

16 14 12

Grecia

Spagna

10 8

Francia Nuova Zelanda

Italia

Irlanda

Austria Stati Uniti Danimarca Canada Australia Giappone Germania Paesi Bassi Belgio Svizzera

Regno Unito

6 4 2 3

5

7 9 11 13 Indice di indipendenza della banca centrale meno indipendenti più indipendenti

Fonte: V. GRILLI-D. MASCIANDARO-G. TABELLINI, Political and Monetary Institutions and Public Financial Policies in the Industrial Countries, in Economic Policy, ottobre 1991, pp. 341-392.

Non sono tuttavia mancate analisi, da parte sia di keynesiani che di monetaristi (fautori come noto di un sistema di regole), che hanno messo in dubbio anche l’evidenza empirica sopra richiamata, sostenendo che i bassi tassi d’inflazione acquisiti in certi paesi, ed inizialmente attribuiti all’autonomia della banca centrale, sono in realtà dovuti ad altri fattori 16. La posizione keynesiana più recente, tuttavia, più che mettere in dubbio i benefici dell’autonomia della banca centrale, sottolinea ancora una volta l’importanza del coordinamento tra tutte le politiche di stabilizzazione, nonché i costi implicati dal perseguimento di un regime in cui l’autonomia è accompagnata da un obiettivo di inflazione nulla e da una scarsa considerazione degli obiettivi reali.

10.2. Obiettivi finali di politica monetaria Quasi tutte le banche centrali del mondo hanno quale obiettivo preminente la stabilità dei prezzi. Altri obiettivi – posti da alcune banche sullo stesso piano della stabilità monetaria e da altre collocati invece in posizione subordinata – riguardano sia gli obiettivi reali (prodotto, occupazione, crescita, etc.) sia altri obiettivi quali i tassi d’interesse (per esempio col fine ultimo di favorire gli investimenti). Non tutte le banche centrali del mondo hanno, invece, responsa16 Questo è per esempio il risultato dell’analisi di JENKINS (1996). Gli altri fattori in grado di tenere basso il tasso d’inflazione sono individuati nel regime di cambio e nella struttura del mercato del lavoro (incluso il sistema di contrattazione salariale ed il grado di corporativismo: cfr. cap. 8). Inoltre, sembra che l’inflazione sia più elevata nei paesi in cui la banca centrale ha maggiori responsabilità dirette di regolamentazione del sistema bancario.

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bilità diretta di vigilanza sul sistema bancario e creditizio, a cui possono fare fronte agenzie ad hoc oppure gli stessi governi (il caso della Bce e delle nuove autorità di vigilanza sarà trattato alla fine del cap. 17). Ma cosa si intende per stabilità monetaria? Innanzi tutto essa può riferirsi alla stabilità del valore interno della moneta nazionale, che deve rimanere il più possibile inalterato (inteso come capacità d’acquisto) nel tempo: ciò significa tenere sotto controllo il tasso d’inflazione, da mantenere entro valori contenuti (cfr. par. 8.1). La stabilità monetaria può però riferirsi anche al valore esterno della moneta: in questa accezione significa tenere sotto controllo il tasso di cambio (di questo tratteremo in modo specifico nel cap. 12). In aggiunta agli obiettivi monetari (stabilità dei prezzi) ed a quelli reali (reddito e occupazione) recentemente – soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 – si sono aggiunti (spesso solo implicitamente) altri obiettivi, a cominciare dalla stabilità finanziaria. In ogni caso, dopo la crisi si sono riscontrati significativi ampliamente degli ambiti d’intervento, con riferimento ai 17: i. confini funzionali: ora vi sono molteplici obiettivi, inclusa la stabilità finanziaria (che implicano attività di regolamentazione, monitoraggio, supervisione); nuove sfide sono poste alla credibilità delle politiche, all’indipendenza della banca centrale, ai problemi di “time consistency”; una delle domande più frequenti è se le banche centrali devono essere “prestatori di ultima istanza” anche per gli Stati (come lo sono per le banche commerciali: cfr. par. 10.4); ii. confini operativi: molteplici strumenti 18 sono ora impiegati, non solo la fissazione dei tassi d’interesse di riferimento ed il “liquidity management” (ossia il controllo dell’offerta di moneta); iii. confini dimensionali: le operazioni sono nel complesso più ampie, infatti i bilanci delle banche centrali sono parecchio cresciuti, e sono effettuate con numerose controparti; iv. confini geografici: le banche centrali ora agiscono in un contesto globale ed i loro effetti si esercitano anche oltre i confini nazionali; a causa dei “rischi sistemici” ora sono più importanti i meccanismi di trasmissione internazionale della politica monetaria (tuttavia il coordinamento delle politiche monetarie è tuttora difficile). Per la credibilità della politica monetaria conta non solo l’autonomia ma anche il grado di conservatorismo della stessa banca centrale. ROGOFF (1985) distingue tra due tipi di conservatorismo, per cui vi possono essere due tipi di banche centrali: 1) weight conservative, se nella funzione di perdita (cfr. cap. 2) attribuiscono un peso maggiore alla inflazione rispetto al reddito ( > y); in questo caso, si può mostrare che in media c’è un guadagno di benessere ( più bassa), in quanto viene ridotta la “distorsione inflazionistica”; 2) target conservative, allorché nella funzione di perdita la combinazione preferita in assoluto non è ^ = 0 e u^ = 0, ma piuttosto ^ = 0, u^ = uN; allora il bliss point coincide con uN invece che con l’origine degli assi (si veda la Fig. 2.2 nel cap. 2); in questo caso è del tutto eliminata la distorsione inflazionistica perché il punto preferito dal policymaker coincide con l’equilibrio naturale di lungo periodo. 17 Si

veda ANGELONI (2011). le “operazioni non convenzionali”: adottate da molte banche centrali nel mondo (per prima dalla Fed negli Usa ed in seguito anche dalla Bce). Su questo punto e su altri di questo elenco si rinvia, per esempi concreti, al cap. 17. 18 Incluse

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Banche centrali più o meno conservatrici – nel senso weight conservative – danno più o meno importanza all’inflazione rispetto alle variabili reali: si tratta dei pesi relativi  e y nella funzione di perdita (equazione [2.4] del cap. 2). Mentre alcune banche centrali, come la Fed (ossia il Federal Reserve System degli Usa), sembrano porre sullo stesso piano i due tipi di variabili, monetarie e reali, citando tra le variabili reali anche l’occupazione, per la Bce vale sicuramente  > y in quanto la stabilità dei prezzi è considerata l’obiettivo primario (gli altri obiettivi sono presi in considerazione solo se la stabilità dei prezzi è garantita). Secondo Rogoff, la stabilità dei prezzi è meglio garantita se la banca centrale è più conservatrice rispetto alle preferenze della società nel suo complesso. Tuttavia, a fronte del beneficio derivante dalla eliminazione della distorsione inflazionistica, si pone un altro problema: al verificarsi di shock, il costo in termini di maggiore disoccupazione sarebbe più elevato. È questo un esempio del già citato trade-off di politica economica, che si pone tra credibilità e stabilizzazione (cfr. par. 9.8). Una possibile alternativa per eliminare alla radice il problema della distorsione inflazionistica è, come si è anticipato, avere una banca centrale target conservative. Cadrebbe così l’incentivo a deviare, ossia a rinnegare gli annunci di inflazione nulla e, secondo l’approccio della time consistency, il second best verrebbe a coincidere con il first best 19. Dalla “strategia di politica monetaria” della Bce (cfr. cap. 17) pare che essa si considerasse inizialmente target conservative, ritenendosi responsabile della sola stabilità dei prezzi (almeno in via prioritaria) ed attribuendo la responsabilità della lotta alla disoccupazione ad altre politiche, ad esempio fiscali o meglio ancora strutturali. Anche oggi le riforme strutturali (liberalizzazioni, eliminazione delle rigidità nel mercato del lavoro, rafforzamento della produttività e competitività, etc.) sono considerate dal Presidente Bce la via maestra per rafforzare la crescita e ridurre la disoccupazione. C’è però il rischio che, a seguito di uno shock, il tasso di disoccupazione salga (u), ma che esso venga costantemente identificato con il tasso naturale (uN) 20. In questo caso verrebbe meno ogni stabilizzazione della disoccupazione: così ad esempio si comportano i policymaker definiti superconservatori (lo sono quelli che assegnano peso nullo alla disoccupazione o alle altre variabili reali nella funzione di perdita). Sulla base del comportamento effettivo tenuto dalla Bce nel primo ventennio di attività possiamo però concludere che, pur potendola definire una banca centrale molto autonoma ed anche conservatrice (dato l’obiettivo primario della stabilità dei prezzi), non è stata nei fatti “superconservatrice” 21, in quanto alcune decisioni di politica monetaria sono state indirizzate ad affrontare anche problemi dell’economia reale, della recessione, etc. 22.

19 In termini della Fig. 9.4 del precedente capitolo, il punto B verrebbe a sovrapporsi al punto A e, di conseguenza, anche il punto C. In tal caso, la tentazione di creare inflazione scomparirebbe del tutto. 20 In altre parole, la Bce identificherebbe sistematicamente u con il tasso corrente osservato u , per cui se N t dopo uno shock ut + 1 > uN essa riterrebbe che sia aumentato uN e porrebbe uguale ad esso il nuovo tasso desiderato, u^ = ut + 1, escludendo così del tutto ogni azione di stabilizzazione (cfr. DE GRAUWE, 2008). 21 Più che la Bce, la stessa Commissione europea ha adottato un approccio nella stima della disoccupazione strutturale quasi simile a quello indicato nella nota precedente, portando ad una progressiva revisione verso l’alto di uN (come discusso nel par. 6.1). 22 Un maggiore attivismo, pur minore e tardivo se comparato con la Fed, si è poi riscontrato negli ultimi anni, attraverso ad esempio le operazioni non convenzionali adottate dal Presidente Draghi per far fronte alla recente crisi (cfr. cap. 17).

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10.3. Obiettivi intermedi, strategie di politica monetaria e signoraggio Abbiamo precisato (cfr. cap. 2) che l’obiettivo intermedio è quella variabile che si pone a metà strada tra lo strumento e l’obiettivo finale. Abbiamo pure ricordato che all’inizio vi era una preferenza dei keynesiani per la stabilizzazione dei tassi d’interesse quale tipico obiettivo intermedio, mentre i monetaristi contrapponevano il controllo dello stock di moneta. Precisiamo ora che un noto teorema di Poole (1970) offre un altro criterio per la scelta dell’obiettivo intermedio – lo stock di moneta oppure il livello dei tassi d’interesse – e che la scelta ottimale viene fatta dipendere dall’incertezza, che può riferirsi al mercato dei beni oppure a quelli finanziari. Infatti gli shock casuali possono colpire alternativamente: a) la domanda di beni, in tal caso fanno spostare la curva IS, b) la domanda di moneta, che fanno invece spostare la curva LM. Supponiamo inoltre che: (i) la funzione di perdita sia data da: L = (yt – y^t)2, ossia l’unico obiettivo finale è la stabilizzazione del reddito; (ii) lo stato iniziale del sistema ed anche il reddito desiderato coincidano con il reddito di piena occupazione, ossia yt = y^t = y*; (iii) le autorità possano scegliere tra due strategie di politica monetaria, incentrate su due diversi obiettivi intermedi: 1) offerta di moneta costante (e quindi il tasso d’interesse i può oscillare a seguito di shock); 2) tasso d’interesse costante (e quindi l’offerta di moneta si aggiusta al verificarsi di shock). Esaminiamo dapprima il caso di instabilità della curva IS (parte sinistra della Fig. 10.2); ebbene la produzione oscilla: – poco (tra yL e yH) se si tiene fissa l’offerta di moneta (curva LM1), – tanto (tra yC e yJ) se si tiene fisso il tasso d’interesse (i0). Se invece l’instabilità riguarda la curva LM (parte destra del grafico) la produzione oscilla: – tanto (tra yA e yB) se si tiene fissa l’offerta di moneta (la curva LM si sposta solo a causa dello shock sulla domanda di moneta); – per niente (rimane fissa a y*) se si tiene fisso il tasso d’interesse (i0): in questo caso l’offerta di moneta deve ovviamente aggiustarsi per compensare le oscillazioni della domanda di moneta, riportando la curva LM nella posizione iniziale (passando di nuovo per il punto C). Figura 10.2. – Obiettivi intermedi ed instabilità dei mercati i

H

LM2

A

C i0

LM1

i

LM1

J

C

i0

L

B IS2 IS1

IS1 yC

y* yL

yH

yJ

y

yA

y*

yB

y

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In conclusione: a) se l’instabilità riguarda il mercato dei beni (curva IS), è meglio un obiettivo intermedio in termini di offerta di moneta costante; b) se invece l’instabilità è prevalente nei mercati finanziari (curva LM), è preferibile una politica di stabilizzazione dei tassi d’interesse. Rispetto agli obiettivi intermedi iniziali – tasso d’interesse o stock di moneta – nel tempo si sono aggiunti altri obiettivi intermedi, quali il controllo del credito totale interno (ad esempio in Italia negli anni ’70) o del tasso di cambio (in molti paesi europei negli anni ’80). Negli ultimi due decenni, le strategie di politica monetaria perseguite dalle banche centrali dei vari paesi del mondo sono state sostanzialmente le seguenti due: 1. controllo dello stock di moneta (monetary targeting); 2. inflation targeting (in cui il tasso d’inflazione diviene anche obiettivo intermedio oltre a restare obiettivo finale). Il monetary targeting era in sostanza l’approccio tradizionale suggerito dai monetaristi fin dagli anni ’60; ricordiamo che per M. Friedman “l’inflazione è sempre e comunque un fenomeno monetario”. Esso è stato perseguito dalle principali banche centrali del mondo (la Fed negli Usa, la Bundesbank in Germania). Con questa strategia, la banca centrale fissa all’inizio dell’anno il tasso di crescita monetaria (gm), di solito come intervallo di variazione entro valori minimi e massimi. Questi valori a volte sono indicativi, ma altre volte costituiscono veri e propri impegni della banca centrale; in ogni caso, sono annunciati per influenzare le aspettative. Abbiamo già rilevato (par. 9.8) la necessità di realizzare un compromesso tra le esigenze di credibilità, che richiederebbe regole fisse vincolanti, e di flessibilità, necessaria per far fronte a shock improvvisi. La flessibilità può essere assicurata sia da una banda di oscillazione relativamente ampia, sia da eventuali sconfinamenti al di là della banda prefissata: ma tali deviazioni devono essere adeguatamente giustificate sulla base di fattori all’inizio non previsti o del mutato scenario macroeconomico. Inoltre, solo le banche centrali che godevano di un’ottima reputazione anti-inflazionistica (come la Bundesbank) potevano “permettersi il lusso” di non rispettare sempre i tetti stabiliti per la crescita dello stock di moneta. Qual è l’evidenza empirica circa il legame tra crescita monetaria ed inflazione? Al riguardo è opportuno distinguere tra tre tipi di investigazioni empiriche: (i) nelle analisi time-series, ossia considerando l’evoluzione nel tempo delle due variabili per uno stesso paese, la correlazione tra crescita monetaria e inflazione pare abbastanza buona 23; (ii) una correlazione soddisfacente sussiste anche nelle analisi cross-section che includono la quasi totalità dei paesi del mondo, come nel grafico di sinistra della Fig. 10.3 (in cui ciascun punto rappresenta un paese); (iii) quando invece si includono nelle analisi cross-section solo i paesi più sviluppati (ad esempio quelli dell’area Ocse), in genere caratterizzati da “bassa inflazione”, come nel grafico di destra della Fig. 10.3, allora il legame tra crescita monetaria ed inflazione tende a svanire. Il motivo è che la crescita monetaria rappresenta la determinante di fondo dell’inflazione, significativa in un’ottica di lungo periodo; ma nel breve periodo, soprattutto in un contesto di relativamente bassa inflazione, altre determinanti divengono più rilevanti (per esempio quelle sottostanti all’inflazione “demand pull” e “cost push” illustrate nel cap. 8). 23 Il relativo grafico, qui non riportato, assomiglierebbe più a quello di sinistra che non a quello di destra della Fig. 10.3 (ovviamente i punti rappresenterebbero diversi anni invece che diversi paesi).

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Politica monetaria e politica fiscale

Figura 10.3. – Inflazione e crescita monetaria Paesi a bassa inflazione 6 5 Inflazione (%)

Inflazione (%)

Tutti i paesi 200 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 0

4 3 2 1

20 40

60 80 100 120 140 160

Crescita della moneta (M1) (%)

0

0

2

4

6

8

10

12 14

Crescita della moneta (M1) (%)

Fonte: DE GRAUWE (2008).

In molte situazioni concrete la crescita monetaria dipende dalla necessità di finanziamento dei disavanzi pubblici (ciò è particolarmente vero nelle situazioni di iperinflazione: cfr. par. 8.7). Il signoraggio 24 è costituito dai proventi reali derivanti dall’emissione di moneta (∆M/P). Esso determina una specie di prelievo sui saldi monetari reali, al punto che è spesso denominato tassa o imposta da inflazione, secondo una aliquota d’imposta che è data proprio dal tasso d’inflazione. La base imponibile è invece data dai saldi monetari reali (M/P), per cui l’imposta da inflazione sarà pari a: T =  (M/P) = gm (M/P) = ∆M/M (M/P) = ∆M/P che è appunto la definizione di signoraggio (il secondo passaggio sfrutta l’uguaglianza  = gm che vale nel lungo periodo). Per chiarire meglio perché si tratta di imposta, facciamo il seguente esempio (un po’ forzato ma che rende bene l’idea). Supponiamo che lo Stato, per finanziare la spesa pubblica, “stampi” moneta, aumentandone lo stock del 10%, invece che introdurre nuove imposte sui redditi (per un gettito pari al valore della moneta aggiuntiva stampata); ebbene: – dal punto di vista dei privati cittadini, è vero che in tal modo non pagano imposte esplicite; tuttavia, considerando che tale immissione di moneta aggiuntiva determina un aumento dei prezzi, cioè inflazione (per ipotesi semplificatrice, dello stesso ammontare:  = gm = 10%), ne deriva che i redditi reali subiranno una decurtazione del tutto assimilabile a quella di un'imposta esplicita; – si noti che, nell'esempio, anche per lo Stato vi è indifferenza (in termini di copertura) tra finanziare la spesa pubblica (G) con moneta (M) oppure con imposte (T) 25.

24 Così chiamato perché – in un lontano passato – i “signorotti” locali avevano il potere di emettere monete metalliche con un valore facciale superiore al valore intrinseco (anticipazione del potere più rilevante, sfruttato nei secoli successivi, di emettere cartamoneta, sostanzialmente priva di valore intrinseco). 25 Considerando anche l’ipotesi di equivalenza ricardiana (cfr. cap. 9), per cui vi sarebbe indifferenza

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Sempre in termini semplificati, ma passando ad una visione dinamica, si può rilevare che nelle prime fasi delle iperinflazioni, la banca centrale può incamerare un elevato signoraggio aumentando gm (= M/M), in quanto può fare affidamento su saldi monetari reali (M/P) grosso modo costanti. Ciò è dovuto ai ritardi che si manifestano nella sequenza: gm    e  (M/P) In altre parole, l’inflazione comincerà a salire dopo un po’ che è accelerata la crescita monetaria, quando ad esempio aumentano i consumi e le altre componenti della domanda aggregata; l’aggiustamento delle aspettative (specie se adattive) sarà ancor più ritardato; infine, i detentori di ricchezza si accorgeranno della maggior inflazione (effettiva e attesa) e inizieranno a ridurre le scorte monetarie (poiché detenere moneta ha ora un costo più elevato, dovuto alla maggiore perdita di potere di acquisto della stessa). Nel lungo andare, però, man mano che i saldi monetari cominceranno a diminuire, per ottenere un dato signoraggio il governo sarà costretto ad aumentare di continuo gm e quindi . Le iperinflazioni sono quindi caratterizzate all’inizio da un’accelerazione nella crescita monetaria e dell’inflazione; l’andamento del signoraggio rispetto alla crescita monetaria (gm) è prima crescente e, dopo un punto di massimo, comincia a decrescere 26. Infatti, come mostrato in Fig. 10.4, oltre il punto g°m ulteriori aumenti della crescita della moneta determinano una riduzione del signoraggio per effetto della riduzione dei saldi monetari reali 27. Figura 10.4. – Signoraggio e crescita monetaria  M/P

gm0

gm

La strategia dell’inflation targeting si è diffusa a partire dagli anni ’90 del secolo scorso a seguito delle critiche all’approccio del controllo monetario, sia per la citata contrastante evianche finanziando G con titoli (B), si può concludere affermando che le scelte di consumo e di risparmio dei consumatori sono indipendenti dalle modalità di finanziamento di G: con imposte, con titoli oppure con moneta. 26 La curva relativa assomiglia quindi alla curva di Laffer (già illustrata nel cap. 5). 27 L'evidenza empirica relativa agli episodi di iperinflazione (ma anche di elevata inflazione) mostra come si sia generalmente superato (talvolta di molto) il tasso di crescita della moneta che massimizza il signoraggio (cfr. CAGAN, 1956). In taluni episodi di iperinflazione il signoraggio ha superato il 10% del Pil (Austria, Germania, Grecia) e avvicinato al 20% nel caso della prima iperinflazione ungherese.

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denza empirica 28, sia per il fatto che esso è un approccio valido in un contesto di stabilità finanziaria; quando però è la domanda di moneta ad essere instabile – ad esempio per innovazioni finanziarie come quelle introdotte negli ultimi due o tre decenni (che hanno implicato variazioni nella velocità di circolazione della moneta) – non ha molto senso controllare l’offerta di moneta. Il controllo del tasso d’inflazione è il nuovo approccio adottato da paesi come Nuova Zelanda, Canadà, Regno Unito, Svezia, Israele, alcuni paesi latino-americani o est-europei. Con questa strategia, l’inflazione non è più soltanto un obiettivo finale, ma diviene anche una sorta di obiettivo intermedio. Il tasso d’inflazione atteso è la variabile chiave, il target della politica monetaria, e si annuncia un tasso d’inflazione valido per il medio periodo (più precisamente un sentiero per et + 1 futura, con azioni correttive se et + 1 ≠ t + 1). La banca centrale deve render conto delle deviazioni del tasso d’inflazione effettivo da quello annunciato come target. Questa strategia ha il vantaggio della semplicità e della completezza nell’analisi delle cause dell’inflazione 29.

10.4. Strumenti di politica monetaria e la regola di Taylor Dopo aver discusso di obiettivi finali di politica monetaria e di obiettivi intermedi (connessi alle strategie di politica), consideriamo ora gli strumenti della politica monetaria. Essi sono vari e comprendono il controllo della base monetaria, le operazioni di mercato aperto, le variazioni del coefficiente di riserva obbligatoria, i mutamenti del tasso ufficiale di sconto (o tasso “di riferimento”); oltre a numerose “operazioni non convenzionali” introdotte dopo l’ultima crisi (cfr. cap. 17). Per chiarire meglio il funzionamento dei tre strumenti tradizionali d’intervento, ricordiamo il funzionamento del moltiplicatore della moneta (o dei depositi): M = H • 1/[c+(1 − c)] dove: M è l’offerta di moneta, H la base monetaria (somma di circolante e riserve bancarie),  il rapporto riserve/depositi, c la proporzione della domanda di moneta tenuta come circolante. Ebbene, le banche centrali controllano di solito tre strumenti che influenzano lo stock di moneta (M) indirettamente 30: – vincoli sulle riserve: se la banca centrale impone una riserva minima obbligatoria ( > min), può influenzare il valore di  e quindi dell’offerta di moneta (min  M); ma oggi questo strumento è scarsamente utilizzato come manovra di politica monetaria; – prestiti alle banche: questo è il modo classico di fornitura di mezzi liquidi al sistema bancario e per questo la banca centrale è chiamata “prestatore di ultima istanza”; non solo i prestiti concessi alle banche commerciali modificano H, ma il tasso d’interesse ad esse applicato (iD), chiamato di solito tasso ufficiale di riferimento (o di sconto o di policy), influenza  (attraverso le riserve “libere”, ossia in eccesso rispetto a quelle obbligatorie); oggi le variazioni del tasso ufficiale di riferimento sono ritenute importanti più che altro come se28 Un problema pratico del monetary targeting è la scelta dell’aggregato monetario più appropriato (M1, M2, M3, etc.); infatti il legame con l’inflazione non risulta univocamente migliore usando un aggregato piuttosto che quelli alternativi. 29 Come vedremo nel cap. 17, la Bce ha adottato una strategia di politica monetaria detta dei “due pilastri”, basata sia sul monetary targeting sia sull’inflation targeting. 30 Negli anni ’70 vi erano in Italia anche strumenti di controllo diretto, quali massimali sugli impieghi (cioè sul volume dei prestiti bancari) e vincoli di portafoglio (ad esempio investimenti bancari obbligatori in titoli di Stato).

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gnale delle intenzioni della banca centrale sul tipo di politica monetaria – espansiva o restrittiva – influendo in questo modo sulle aspettative degli agenti privati; – operazioni di mercato aperto: consistono in compravendite di titoli di Stato esistenti sul mercato ed influenzano il valore della base monetaria (con l’acquisto di titoli: Bd  H, con la vendita di titoli: Bs  H); esse costituiscono in molti paesi lo strumento principale di conduzione della politica monetaria. Al di là della strategia perseguita, un importante strumento di politica monetaria continua ad essere la manovra dei tassi d’interesse. Non solo le modifiche del tasso di riferimento si riflettono in modo rapido sui tassi del mercato monetario (i), ma la stessa “quantità” di moneta agisce sui tassi di mercato 31. Per cui l’intonazione della politica monetaria si capisce guardando alternativamente ad una delle due variabili: – una politica monetaria espansiva si ha quando Ms oppure i; – una politica monetaria restrittiva è caratterizzata da Ms oppure i. Ma come fissano le banche centrali tali tassi? Tra tutte le possibili determinanti, esse terranno conto soprattutto di due variabili chiave: l’andamento dell’inflazione e lo stato dell’economia reale (per quasi tutte le banche centrali la funzione di perdita implica la stabilizzazione sia dei prezzi che delle variabili reali: cfr. cap. 2). Un modo semplice per stimare il peso di queste variabili è la nota regola di Taylor 32; una possibile specificazione 33 è la seguente: it^ = i0 + a (t – t^) + b (yt – y*) dove: it^ è il tasso d’interesse nominale a breve, fissato dalla banca centrale; i0 è il tasso d’interesse nominale obiettivo 34; (t – t^) sono le deviazioni del tasso d’inflazione (t) dal suo target (t^) 35; (yt – y*) è l’output gap, ossia la differenza tra l’output effettivo (yt) e quello potenziale (y*). Il significato è che si attua una politica monetaria restrittiva, alzando i tassi d’interesse al di sopra del livello normale, quando l’inflazione è alta (superiore al target) e/o l’economia in espansione o boom economico; viceversa, la politica monetaria è espansiva, con tassi d’interesse più bassi (infatti il secondo e/o il terzo addendo dell’espressione assumono un valore negativo), nel caso d’inflazione inferiore al target e/o di recessione. Lo stesso Taylor ammetteva che tale regola non deve sempre essere seguita in modo meccanicistico: la considerazione di altri obiettivi o la comparsa di nuovi eventi (crisi valutarie, necessità di rilanciare gli investimenti privati, etc.) possono giustificare temporanee deviazioni. Comunque, disponendo di serie storiche per le variabili in oggetto, i parametri a, b possono essere stimati econometricamente. Quanto più risulta a > b, tanto più la banca centrale attribuisce importanza al controllo dell’inflazione piuttosto che delle variabili reali (e viceversa). Un’interessante applicazione è proposta da DE GRAUWE (2008) 36. Tenuto conto dei va31 Avendo presente il grafico del mercato monetario, per una data domanda di moneta (Md), se aumenta l’offerta di moneta Ms (la retta nel grafico si sposta verso l’esterno) allora i, mentre se Ms diminuisce allora i. Le corrispondenze tra variazioni di Ms e variazioni di i si possono naturalmente vedere anche nel grafico IS-LM. 32 Proposta da J. Taylor in un noto articolo del 1993. 33 Formulazioni alternative mettono (u – u ) al posto dell’output gap; inseriscono e al posto di  in quant t n t to la manovra dei tassi d’interesse da parte della banca centrale può influenzare solo l’inflazione futura attesa (con un ritardo stimato tra uno e due anni); specificano in modo diverso il tasso d’interesse obiettivo (i0). 34 Quest’ultimo può essere scomposto nella somma del tasso d’interesse reale naturale (r ) più il tasso n d’inflazione (t). 35 Questo è esplicito nel caso dell’inflation targeting (nel caso della Bce è il 2%). 36 Per un’altra applicazione, si veda FAVERO et al. (2000).

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lori stimati per la Bce, a = 1,5 e b = 0, i tassi della regola di Taylor (i^) sono derivati per l’anno 2003: i. sia per l’intera Eurozona, inserendo i dati medi di t, t^, yt, y* per quest’area (medie per tutti i paesi dell’Eurozona), ottenendo i^EZ; ii. sia per i singoli paesi dell’Eurozona, inserendo i dati specifici (per il paese n-esimo) di tn, t^, ytn, yn* ovviamente diversi da paese a paese (solo t^ = 2% in tutti i casi), ottenendo i^n. Si possono così ricavare i valori che sarebbero stati desiderati dai singoli paesi, sulla base delle condizioni economiche nazionali, variabili tra i^n > 6% per due paesi (evidentemente paesi con alta inflazione e/o boom economico) e i^n < 3% per quattro paesi (paesi in recessione e/o bassa inflazione) 37. Nonostante questa distribuzione dei tassi desiderati non fosse molto uniforme, non è forse stato difficile per il board della Bce far accettare le proprie proposte (che hanno condotto ad un tasso adottato del 3%) 38, tenuto conto che il tasso preferito per l’intera Eurozona (i^EZ) 39 era del 3,12%, che i sei membri del board hanno votato in modo compatto e che molti governatori nazionali si sono espressi per un tasso nell’intervallo 2-4%.

37 Il valore massimo era di 7,87% stimato per l’Irlanda e quello minimo di 1,22% calcolato per la Germania. Si ricorda che nel 2003 la Germania era ancora considerata la “malata di Europa” (con alta disoccupazione, modesta crescita e bassa inflazione), mentre l’Irlanda attraversava una lunga fase di forte crescita economica (per tutti gli anni 2000, fino alla crisi, era chiamata la “tigre celtica”); i paesi a più forte crescita erano normalmente quelli caratterizzati anche da più alta inflazione (come vedremo anche nel cap. 17). 38 Come vedremo nel cap. 17, le decisioni sui tassi dell’Eurozona sono prese dal Consiglio direttivo della Bce, di cui fanno parte sia i governatori di tutti i paesi che hanno adottato l’euro sia i sei membri dell’executive board. 39 Naturalmente i valori medi delle macrovariabili che entrano nella regola di Taylor sono medie ponderate, in cui i paesi maggiori (in termini di Pil) pesano di più; per cui la situazione economica della Germania (ma anche di Francia o Italia) ha più peso rispetto a quella di un piccolo paese come l’Irlanda.

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La politica fiscale, la sostenibilità del debito pubblico e le politiche di rientro

11.1. Politica fiscale e disavanzi pubblici Per introdurre il discorso relativo alla politica di bilancio (termine questo più corretto di “politica fiscale” quando ci si riferisce ad entrate, uscite e saldi di finanza pubblica) ed alle alternative modalità di finanziamento dei disavanzi pubblici, scriviamo il vincolo di bilancio dell’operatore pubblico 1 in questo modo: [11.1] D = G  T = ΔM + ΔB in cui la duplice uguaglianza si riferisce rispettivamente alla formazione del disavanzo pubblico (D), che per definizione è uguale alla differenza tra spesa pubblica (G) e tassazione (T), ed al suo finanziamento, con emissioni di nuova moneta (ΔM) o di nuovi titoli (ΔB) 2. È pertanto chiaro che una data spesa pubblica può essere finanziata secondo le seguenti modalità alternative 3 oppure mediante una loro combinazione: 1. mediante i proventi della tassazione 4: in questo caso non si forma nemmeno il disavanzo, poiché il bilancio risulta in pareggio (G = T); 2. con moneta (ΔM) 5, se dovesse formarsi un disavanzo (D > 0, perché G > T, e ΔM = D); 3. con titoli, sempre in caso di disavanzo (ΔB = D) 6. Pur essendo vero che i primi keynesiani avevano ipotizzato la possibilità di una politica di deficit spending, ossia di spesa pubblica in disavanzo, anche i keynesiani concordano sulla necessità di rispettare il pareggio del bilancio pubblico (G = T), almeno nel medio periodo (cfr. par. 4.5). Un altro aspetto da loro considerato è che, anche nel caso di variazioni simultanee di uguale entità delle due poste di bilancio (trascurando naturalmente gli effetti disincentivan1 Nella contabilità nazionale, le amministrazioni pubbliche includono lo Stato, le amministrazioni pubbliche decentrate (Regioni, Province, Comuni), gli enti di previdenza ed assistenza (come l’Inps in Italia). 2 Anche se è evidente, è opportuno ricordare che B e M sono grandezze stock, per cui solo le loro variazioni (B e M) sono conformi alle grandezze flusso G e T. 3 Senza qui considerare per semplicità modalità di finanziamento di minore importanza, come la dismissione di beni patrimoniali o di altre attività del settore pubblico o la privatizzazione di imprese pubbliche. In qualche anno o periodo (ad esempio in Italia nel corso degli anni ’90) tali entrate straordinarie possono raggiungere una rilevante consistenza. 4 Mentre la distinzione tra tasse e imposte è fondamentale nelle analisi di scienza delle finanze, in questo contesto non è rilevante (quindi i due concetti saranno usati come sinonimi). 5 Per semplicità non ci soffermiamo qui sulla distinzione tra base monetaria (che è quella che si accresce per finanziare il disavanzo) e la moneta nelle diverse accezioni (M1, M2, etc.). 6 Dove B è lo stock di debito pubblico.

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ti della tassazione), il noto “moltiplicatore del bilancio in pareggio” (derivato da Haavelmo) assicura che una variazione di spesa pubblica in beni e servizi ed imposte a somma fissa di pari ammontare (ΔG = ΔT) induce comunque una variazione del reddito della stessa entità (ΔY = ΔG) 7. Un’ulteriore considerazione è che un sistema di imposte proporzionale (del tipo: T = τY) riduce l’impatto negativo sul disavanzo pubblico di una data variazione della spesa pubblica 8. Nel caso di formazione di disavanzi (D > 0), un finanziamento con moneta (D = ΔM) nel breve periodo è generalmente considerato più espansivo rispetto ad un alternativo finanziamento con titoli; in questo caso non si può più parlare di una politica fiscale “pura”, ma piuttosto di una politica fiscale e monetaria congiunta (si avrebbe uno spostamento verso destra di entrambe le curve IS e LM, con evidenti effetti amplificati sul reddito domandato. Occorre tuttavia tener conto delle probabili conseguenze sul tasso d’inflazione; in particolare, un deficit pubblico anche temporaneo può avere effetti permanenti sul livello dei prezzi se viene finanziato con moneta. L’inflazione può essere considerata un meccanismo vero e proprio di finanziamento, alla stregua delle imposte, per via del cosiddetto signoraggio (entrate pubbliche derivanti dalla creazione di moneta) o imposta da inflazione (cfr. par. 10.3). Ecco perché questa modalità di finanziamento è ad esempio stata vietata per i paesi che adottano l’euro (cfr. cap. 16). Prima di approfondire la terza modalità di finanziamento, quella con titoli (D = ΔB), consideriamo le alternative definizioni di disavanzo, in funzione delle voci del bilancio pubblico che vengono prese in considerazione: – disavanzo totale: differenza tra uscite totali ed entrati totali; è quello che risulta dalla contabilità nazionale, ad esempio in Italia è l’indebitamento netto 9 delle amministrazioni pubbliche (D = G − T); – disavanzo corrente: uscite ed entrate sono quelle correnti: escluse sono le spese pubbliche in conto capitale, come gli investimenti pubblici, ed i proventi straordinari, ad esempio imposte straordinarie sul patrimonio o entrate una tantum da dismissioni e privatizzazioni (DC = GC – TC); – disavanzo primario: la spesa pubblica è solo quella “primaria” (G0), ossia sono esclusi i pagamenti per interessi sul debito pubblico (G0 = G – i B); il saldo primario è quindi T – G0 (disavanzo se negativo o avanzo se positivo); – disavanzo di pieno impiego: è calcolato in corrispondenza di un ipotetico reddito di piena occupazione (o prodotto potenziale), DS = D(Y*); analogo è il concetto di disavanzo strutturale, in cui entrate ed uscite sono calcolate in funzione del “prodotto potenziale” (ossia sono corrette per tener conto dell’andamento ciclico) 10; – disavanzo reale (o corretto per l’inflazione): include tra le spese solo i pagamenti per inte7 La variazione del reddito di pari entità, rispetto alla variazione della spesa pubblica, è assicurata quando non sono presenti effetti di spiazzamento; ma anche in presenza di uno spiazzamento parziale (con una curva LM inclinata positivamente) è garantito un effetto reale comunque positivo, sebbene di entità inferiore (0 < ΔY < ΔG). 8 Pur in assenza di una manovra attiva sulle imposte, ma tenuto conto dell’aumento indotto di reddito: infatti la variazione del disavanzo risulta uguale a D = ΔG  τΔY. 9 Questa dizione della contabilità nazionale italiana può essere fuorviante, in quanto l’indebitamento netto (D) è un concetto di flusso, da tenere distinto invece dallo stock di debito pubblico (B). 10 Nel cap. 6 abbiamo discusso la sensibilità del (dis)avanzo strutturale rispetto ai metodi di calcolo del prodotto potenziale e dell’output gap. Il “disavanzo strutturale” ha avuto una considerazione crescente, soprattutto nell’Eurozona, anche in merito alle valutazioni relative alle procedure di infrazione per “deficit eccessivo” (nell’ambito del Patto di stabilità e crescita) nonché per la definizione dei relativi tempi e percorsi di rientro (cfr. cap. 18).

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ressi secondo il tasso reale, ovvero esclude la perdita di valore del debito dovuta all’inflazione (D = D −  B). Anche se elevati disavanzi sono sconsigliati, soprattutto se persistenti in quanto possono causare problemi di sostenibilità del debito (come vedremo più avanti in questo capitolo), vi sono almeno due casi in cui una politica fiscale in disavanzo può essere vista positivamente: (i) quando si segue l’approccio del tax-smoothing oppure (ii) quando agiscono gli stabilizzatori automatici. La teoria del tax-smoothing 11 afferma che i disavanzi pubblici possono essere accettabili quando consentono di distribuire nel tempo il costo di eventi eccezionali. Per esempio, le spese conseguenti ad eventi bellici o naturali (terremoti, alluvioni, etc.) 12 comporterebbero, se si volesse rispettare costantemente il vincolo del bilancio pubblico, un drastico innalzamento delle imposte presenti, causando così non solo una caduta (ulteriore) della domanda aggregata, ma distorsioni nello svolgimento delle attività economiche e nell’allocazione delle risorse (ad esempio per l’offerta di lavoro). Pertanto, in tali situazioni la spesa in disavanzo è efficiente. Un temporaneo indebitamento da parte del governo – con un debito da rimborsare gradualmente negli anni futuri – consentirebbe inoltre di ridistribuire l’onere tra tutte le generazioni, presenti e future (anche queste ultime trarranno presumibilmente vantaggio dalle ingenti spese presenti). Quindi, in tal caso, la spesa finanziata con debito risulta anche equa. In definitiva, si ritiene generalmente preferibile tenere grosso modo costanti nel tempo le aliquote d’imposta, anche al costo di generare disavanzi. Gli stabilizzatori automatici sono invece quegli strumenti di politica fiscale che si attivano “automaticamente” al variare del reddito o della produzione, senza alcuna decisione (legislativa od amministrativa) specifica. I due tipi più importanti di stabilizzatori automatici sono un sistema di imposte proporzionale o (meglio ancora) progressivo e trasferimenti a imprese e famiglie, come i sussidi di disoccupazione. Essi agiscono come segue: i. se l’economia entra in recessione: – diminuisce il reddito (Y) e quindi la base imponibile su cui vengono calcolate le imposte, per cui si riduce il gettito fiscale (T), pur in presenza di aliquote d’imposta invariate (l’effetto è più pronunciato con un sistema d’imposte progressivo), compensando in parte la caduta del reddito disponibile; – inoltre, con la recessione aumenta la disoccupazione (u), quindi sussidi di disoccupazione ed altri trasferimenti a favore del sistema, sostenendo anche in questo caso il reddito disponibile. ii. se l’economia è in una fase espansiva, si verificano variazioni di segno opposto. I disavanzi pubblici, in definitiva, variano in modo anticiclico, grazie alle imposte proporzionali (o progressive), ai sussidi di disoccupazione, etc. 13. Proprio per questo stabilizzano il sistema economico: nelle recessioni diminuiscono le entrate ed aumentano le uscite pubbliche, implicando un sostegno del reddito disponibile e quindi della domanda aggregata, controbilanciando la recessione iniziale; viceversa nelle fasi espansive. Concentrando l’attenzione sul sistema impositivo, se le imposte sono proporzionali al red11 Tra

gli altri si veda BARRO (1979b). uno shock macroeconomico particolarmente forte, come la crisi finanziaria e Grande Recessione 2008-2009, può essere assimilato a tali eventi eccezionali. 13 In Italia, la Cassa Integrazione Guadagni (Cig) opera in modo analogo ai sussidi di disoccupazione (cfr. cap. 21). 12 Anche

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dito: T =  Y (dove  è l’aliquota d’imposta), il gettito delle imposte T può variare per due differenti motivi: – perché oscilla ciclicamente il reddito Y, – oppure perché viene modificata l’aliquota  : solo in questo caso si parla di politica fiscale discrezionale attiva. Poiché non solo i proventi della tassazione ma anche molte spese pubbliche dipendono spesso dalla fase ciclica – D(Y) ossia i disavanzi sono una funzione inversa del reddito – per definire una misura della componente “attiva” o “discrezionale” della politica di bilancio, ci si riferisce al concetto di avanzo pubblico di piena occupazione. Il concetto di “full employment budget surplus” fu introdotto ai tempi della New Economics (cfr. cap. 4), proprio al fine di escludere la componente ciclica (o endogena) del bilancio pubblico e di enucleare solamente quella “attiva”. Un concetto simile, introdotto più di recente, è quello di (dis)avanzo strutturale. Per eliminare dal disavanzo corrente D(Y) l’effetto della componente ciclica 14, basta stimare il valore delle voci di bilancio – e quindi del disavanzo totale – in un sistema ipotetico in cui il prodotto coincide con quello di pieno impiego (Y*) oppure con il prodotto normale, ottenendo il disavanzo (teorico) DS 15. I dati dei disavanzi pubblici possono allora essere meglio interpretati; è evidente che: – in recessione D(Y)  D(Y*), a causa dell’agire degli stabilizzatori automatici, mentre nelle fasi espansive dovrebbe essere D(Y)  D(Y*); – una regola che imponesse il rispetto di D(Y) = 0 in ogni singolo anno sarebbe eccessiva poiché non lascia agire nemmeno gli stabilizzatori automatici; – una presenza di D(Y)  0 in singoli anni non ha necessariamente conseguenze negative sul debito pubblico; è invece comprensibile porre una regola del tipo: D(Y*) = 0, e che i disavanzi corrispondenti alle recessioni siano compensati dagli avanzi delle espansioni, soprattutto se la spesa pubblica è una spesa corrente, mentre potrebbe essere auspicabile un disavanzo per le sole spese in conto capitale (ossia per gli investimenti pubblici) 16; – una situazione differente si verifica a volte nelle recessioni 17 quando D(Y*)  0, ossia quando la politica fiscale è molto attiva, che si aggiunge all’azione degli stabilizzatori automatici, ad esempio quando il governo riduce  oppure aggiunge nuove spese pubbliche. L’influenza della scuola monetarista, favorevole in generale alle regole di politica economica (cfr. cap. 7) 18, e la crescita in molti paesi dei debiti pubblici a partire dagli anni ‘80, con seri rischi per la loro sostenibilità, ha portato molti economisti ad auspicare delle regole per i bilanci pubblici. In altre parole è stata sostenuta la necessità di imporre regole per evitare i comportamenti opportunistici dei governi. Le auspicate regole sono di solito espresse nella 14 È stato calcolato che una riduzione dell’1% del prodotto causa un aumento del disavanzo pari allo 0,5% del Pil. L’azione degli stabilizzatori automatici è però più importante in Europa rispetto agli Usa e, nel primo caso, è notevole soprattutto nei paesi scandinavi. 15 Ad esempio, si può calcolare T(Y*) partendo dalla funzione T =  Y*, calcolando le imposte in funzione del prodotto di pieno impiego (Y*) (invece che del reddito corrente Y); allo stesso modo si procede per i trasferimenti e per le spese pubbliche (dipendenti dal reddito). 16 La regola D(Y*) = 0 è quella in sostanza accolta dalla normativa europea (Fiscal Compact), ma molti economisti chiedono il recepimento di una “Golden rule”, ossia l’esclusione degli investimenti pubblici dal calcolo del disavanzo annuo (cfr. cap. 18). 17 Od anche durante le fasi espansive (annullando in quel caso l’effetto positivo sul bilancio degli stabilizzatori automatici). 18 Oppure come proposto sin dagli anni ’70 da BUCHANAN, WAGNER (1977).

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forma di vincoli per il pareggio del bilancio pubblico, preferibilmente costituzionali (vincoli legislativi sarebbero infatti troppo facilmente modificabili) 19. Gli economisti keynesiani hanno ribattuto che una regola che imponesse il rispetto del pareggio di bilancio in ogni singolo anno sarebbe eccessiva, poiché non lascerebbe agire nemmeno gli stabilizzatori automatici. Infatti, regole fisse o troppo rigide eliminano del tutto la flessibilità della politica fiscale e la possibilità stessa di condurre una politica di stabilizzazione a fronte del verificarsi di shock. Un altro filone di studi è partito dalla constatazione che elevati debiti pubblici possono essere la conseguenza di un’elevata instabilità politica, ad esempio misurata dalla frequenza dei cambiamenti governativi e dal livello di polarizzazione politica. Nell’ultimo caso, conflitti possono sorgere anche tra partiti di una stessa coalizione governativa. Nei modelli detti di “guerre d’attrito”, si spiega come mai l’aggiustamento fiscale può essere continuamente ritardato. Variabili rilevanti diventano in questo contesto l’eventuale presenza di governi di coalizione (ed il numero di partiti nella coalizione) o di minoranza, ed i sistemi elettorali (proporzionali o maggioritari), etc. Importante è pure la dispersione geografica degli interessi, con le conseguenti azioni redistributrici da parte del governo centrale. Quindi secondo questo filone le differenze tra paesi nei rapporti disavanzo/Pil e debito/Pil, sono attribuibili, non solo alle diversità nelle strutture delle economie o nei livelli di sviluppo, ma anche a fattori politico-istituzionali 20. Considerato tutto ciò, è stato proposto – invece di introdurre vincoli o regole fisse per il bilancio pubblico – di modificare i regolamenti e le procedure sul bilancio pubblico, che possono includere: la definizione dei rapporti tra Governo e Parlamento, la facilità di presentazione di emendamenti, le procedure di votazione del bilancio complessivo e delle singole voci di spesa, la maggiore o minore flessibilità nell’attuazione, etc. La normativa sulle procedure di bilancio puó essere importante, dal punto di vista di porre dei limiti ai disavanzi pubblici, ammesso che il suo cambiamento sia meno facile e frequente di quello relativo alla stessa legge di bilancio, presentata annualmente dai vari Governi ed approvata dai Parlamenti (si veda il par. 11.7 per il caso italiano). Le regole sui bilanci e sul debito attualmente in vigore nell’UE (Patto di Stabilità e Crescita e Fiscal Compact) saranno discusse nel cap. 18.

11.2. Disavanzo, debito e “premi al rischio” Nel lungo periodo, in un sistema gravato da un debito pubblico consistente, vi sono solamente le seguenti soluzioni alternative, di cui solo l’ultima è perseguibile se si vuole garantire la stabilità macroeconomica (oltre che politica): – ripudio del debito, quando il governo manca di onorare la sua promessa di rimborso dei titoli emessi e/o di pagamento degli interessi (default); – monetizzazione del debito, ossia “stampa di moneta” per finanziare i disavanzi ed eventualmente il pagamento dei titoli pubblici in scadenza; 19 Una nota applicazione di queste regole è la legge Gramm-Rudman-Hollings del 1985, che prevedeva negli Usa tagli automatici proporzionali su tutte le voci di spesa quando i disavanzi eccedevano un certo limite; essa fu in seguito modificata a più riprese, ma con scarso successo nel ridurre gli ingenti disavanzi nei bilanci pubblici; anche a causa di scappatoie ed espedienti di contabilità creativa, quali lo storno di voci di spesa da un esercizio finanziario all’altro, l’imputazione dei proventi di vendite di attività pubbliche, la sovrastima della crescita del Pil. 20 Cfr. ALESINA, PEROTTI (1995b).

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– rimborso del debito, che implica la necessità di conseguire, almeno a partire da una certa epoca futura, degli avanzi di bilancio (perlomeno in relazione agli avanzi primari, come si vedrà tra breve). Il ripudio, pur essendo considerato in teoria alla stregua di un’imposta a somma fissa non distorsiva 21, ha tre principali conseguenze negative: (i) causa una perdita di reputazione e riduce la possibilità (o, quantomeno, aumenta la costosità) di prendere a prestito in futuro; (ii) implica effetti sulla distribuzione del reddito 22 (con conseguenze anche di tipo politicoelettorale); (iii) può portare ad instabilità finanziaria e fallimenti di banche (specie se queste detengono molti titoli pubblici nei loro portafogli). Forme più deboli di ripudio includono il default parziale, che si verifica negli episodi di ristrutturazione del debito, quando il debito pubblico viene rimborsato per un valore minore (ad esempio per il 20% o per il 50%) rispetto al valore d’emissione 23; od anche il consolidamento di titoli a breve termine in titoli a lungo o lunghissimo termine 24. Le stesse conseguenze negative poc’anzi richiamate si verificano anche in questo caso, seppure in forma attenuta. L’effetto più evidente della monetizzazione è invece l’inflazione, che riduce il valore reale dello stesso debito per via della “imposta da inflazione” (cfr. cap. 10); fenomeno particolarmente frequente nei casi di iperinflazione (cfr. cap. 8). Consideriamo ora una relazione simile alla [11.1], scorporando peraltro dalla spesa pubblica i pagamenti per interessi sul debito pubblico, pari al prodotto tra tasso d’interesse i (ipotizzato inizialmente costante) e stock di debito B, per cui con G0 rappresentiamo nel seguito la spesa primaria cioè al netto degli interessi (G0 = G – iB) e quindi con (G0 – T) il disavanzo primario, ossia il disavanzo al netto degli interessi: [11.2] Dt = G0t + i Bt – Tt = ΔBt + ΔMt Per comprendere i legami tra disavanzo e debito, supponiamo per il momento che il finanziamento monetario sia nullo, allora il disavanzo viene finanziato solo attraverso l’emissione di titoli del debito pubblico 25. Quindi il debito (B) è in sostanza lo stock dei titoli emessi (soprattutto negli anni precedenti), per coprire tutti i disavanzi annui (D), e non ancora rimborsati (perché non giunti a scadenza). Si parla di componente endogena di formazione del disavanzo o di processo di auto-alimentazione del debito con riferimento al pagamento di interessi sullo stock di debito accumulato, chiamato anche onere o servizio del debito. Questo circolo 21 Quindi, limitatamente a questo aspetto, preferibile alle imposte distorsive probabilmente necessarie per rimborsare il debito. 22 È evidente che, in caso di ripudio, a subire una perdita secca di ricchezza (e reddito, per la parte di interessi) sono coloro che si ritrovano in mano “titoli spazzatura”; pertanto, l’effetto redistributivo (di ricchezza e reddito) che si determina è strettamente legato alla distribuzione quantitativa di tali titoli tra i diversi investitori nazionali (ad esempio le famiglie distinte per livelli di reddito e ricchezza) ed esteri. È plausibile ritenere che i piccoli risparmiatori (generalmente con redditi medio-bassi) siano i più esposti a tali rischi di rimanere detentori di “titoli spazzatura”, visto che altri investitori (ad esempio banche e società finanziarie) possono avere un set informativo migliore che consente loro, con minori difficoltà, di anticipare la decisione di ripudio e di liberarsi per tempo di tali titoli (vendendoli) prima che il loro valore si azzeri (subendo quindi, al massimo, parziali perdite in conto capitale). 23 Una ristrutturazione “concordata” con i creditori è per esempio stata attuata in Grecia in occasione della crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 19). Anche il caso di mancato pagamento degli interessi è un caso particolare di “ripudio parziale” del debito. 24 Il prolungamento della scadenza rispetto a quanto previsto al momento dell’emissione fu ad esempio attuato in Italia in epoca fascista. 25 In Italia sono ad esempio i titoli emessi dal Tesoro: titoli a breve termine come i Bot, a medio termine come i Cct o a lunga scadenza come i Btp.

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vizioso tra disavanzo (D) e debito (B), per cui il debito si autoalimenta di continuo, si può rappresentare così: Dt  Bt  (i  B)t + 1  Dt + 1 La situazione è di solito ancora più grave poiché il tasso d’interesse (i) non è fisso ma dipende endogenamente dal livello del debito, ossia i = f(B), in quanto viene ad incorporare un premio per il rischio di “fallimento” o di insolvenza. Ovviamente lo Stato non può fallire (nel senso ad esempio usato per le imprese private), ma può ripudiare il debito. Il default risk dipende non solo dal livello di B, ma anche dalle aspettative dei mercati finanziari circa la capacità del governo di tener sotto controllo (o di riuscire ad aggiustare in maniera sufficientemente rapida) i conti pubblici. Per evitare questo rischio, vi sono due strade percorribili: – imporre una disciplina alle autorità di bilancio attraverso sistemi di “regole”, in particolare regole sui bilanci pubblici (cfr. sezione precedente); – affidarsi alla disciplina del mercato, che agisce attraverso l’aumento dei tassi d’interesse ed il conseguente disincentivo per i governi a creare disavanzi eccessivi. In effetti, è probabile che il governo debba pagare elevati e crescenti (al crescere del debito in esistenza) premi di rischio, per il timore di un ripudio 26 dello stesso debito ovvero di un’eventuale inflazione futura. I tassi d’interesse nazionali di un paese altamente indebitato incorporano solitamente almeno due componenti aggiuntive, rispetto ai tassi vigenti sul mercato internazionale, dovute rispettivamente a 27: i. il rischio di svalutazione, nel caso il governo decidesse di monetizzare il suo debito, creando inflazione e svalutazione della moneta nazionale; ii. il rischio di ripudio, che è normalmente più piccolo rispetto al precedente (ma le conseguenze dell’evento temuto sarebbero ben più gravi). Un modo per calcolare, per un paese come l’Italia (come esempio), l’incidenza relativa di questi due rischi sul livello dei tassi d’interesse e sul differenziale (il cosiddetto spread) rispetto ad un paese “benchmark” (ad esempio la Germania) è quello di confrontare il rendimento di titoli pubblici emessi da Italia e Germania in una valuta comune (ad esempio in marchi tedeschi o in ecu negli anni ’90); questa differenza rappresenta il default risk. La residua differenza tra questi ultimi rendimenti e quelli sui titoli denominati in valuta locale (titoli italiani in lire) rappresenta invece una misura del rischio di svalutazione 28. È ovvio che i “premi al rischio”, oltre ad essere positivamente correlati con lo stock di debito in esistenza, aumentano quando le aspettative peggiorano e si riduce la credibilità delle politiche di rientro. È proprio il manifestarsi repentino di una crisi di fiducia che potrebbe ac26 Se, da un lato, un tale rischio causa verosimilmente un accorciamento della vita media del debito in esistenza, dall’altro lato è proprio la crescente frequenza dei rinnovi di titoli che rende meno improbabile il verificarsi di una crisi di fiducia ovvero genera una maggiore vulnerabilità del sistema rispetto a perturbazioni finanziarie. 27 C’è anche il rischio di liquidità: il costo di dover vendere il titolo pubblico quando è difficile trovare compratori. 28 Un esempio numerico di questa scomposizione sarà proposto nel cap. 18. Un modo alternativo è quello di calcolare il differenziale di rendimento tra titoli pubblici e titoli privati per ciascun paese. Questa è per esempio la strada seguita da ALESINA et al. (1992), che trovarono per 12 paesi Ocse un premio per il rischio di ripudio statisticamente significativo e positivamente correlato allo stock di debito in esistenza ed alla crescita di quest’ultimo.

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crescere la probabilità dell’evento temuto, ossia dell’inadempienza dello Stato-debitore (a causa della vendita massiccia di titoli del debito pubblico per cui risulta più difficile trovare compratori sia nel mercato secondario che in quello primario) 29: è questo un altro esempio di aspettative auto-realizzantesi (cfr. cap. 9). In questo contesto, la disciplina del mercato – che può agire pienamente in un contesto di liberi movimenti di capitale – accresce l’incentivo per il governo a pareggiare il bilancio, pur in assenza di un sistema di regole; essa può infatti rendere maggiormente percepibili i costi di un elevato fabbisogno, con il rialzo dei tassi d’interesse (nonché l’aspettativa di maggiori imposte future ed i costi connessi anche di tipo politico). La disciplina del mercato, comunque, è tanto più efficace quanto più si riescono a configurare delle istituzioni tali da escludere in modo credibile la futura monetizzazione del debito 30. Occorre tuttavia che i policymaker agiscano in modo equilibrato e responsabile. Infatti, in assenza di un pronto adeguamento del comportamento delle autorità fiscali (ad esempio in presenza di governi particolarmente “miopi”), una politica monetaria restrittiva, mirante a sfruttare l’effetto della disciplina imposta dal mercato, può al contrario accrescere il costo del rientro ed il rischio di instabilità (attraverso il circolo vizioso: interessi  disavanzo  debito). Ad un certo punto, il mercato potrebbe rifiutare di assorbire ulteriormente titoli pubblici, conducendo al tracollo del debitore oppure ad un’improvvisa monetizzazione del debito, che colpirebbe in modo indiscriminato tutti i detentori di titoli pubblici. In questo senso, molti economisti, soprattutto keynesiani, oltre ad enfatizzare gli svantaggi in tema di perdita di flessibilità derivanti da regole rigide di politica economica ed in particolare da vincoli di carattere costituzionale, hanno altresì privilegiato una politica monetaria, se non accomodante (al fine di minimizzare il costo connesso al servizio del debito, mantenendo relativamente basso il tasso d’interesse), perlomeno da manovrare in modo coordinato e sinergico rispetto alla politica di bilancio ed alle azioni di rientro. Infatti, una volta ricondotto il tasso d’interesse al di sotto di soglie accettabili, sarebbe possibile ribaltare il “circolo vizioso” del debito in “circolo virtuoso” e garantire un processo di rientro automatico 31. È comunque rilevante il vincolo intertemporale di bilancio dell’operatore pubblico, che in sostanza impone l’azzeramento del valore attuale dei disavanzi futuri (incluso il rimborso del debito in esistenza). La sostenibilità economica si concentra sull’esistenza di un valore limite per il rapporto debito/Pil e sulle condizioni che devono essere soddisfatte per abbassare tale rapporto. Tuttavia, il valore di “stato stazionario” del rapporto debito/Pil può anche essere 29 Il mercato secondario si riferisce alle contrattazioni (acquisti e vendite) quotidiane che riguardano i titoli di stato già in circolazione (cioè emessi nei giorni, mesi o anni precedenti), mentre nel mercato primario vengono collocate, solitamente con un meccanismo di asta, le nuove emissioni (di solito ogni due settimane circa) di titoli pubblici. 30 Occorre in altre parole individuare un regime istituzionale, afferente al processo di formazione dei disavanzi ed alle loro modalità di finanziamento; ad esempio, separando le responsabilità della conduzione della politica fiscale rispetto all’autorità monetaria. 31 Si vedano ad esempio i saggi in GRAZIANI (1988). Posto che il rispetto del vincolo intertemporale di bilancio, per una data regola di comportamento delle autorità fiscali, dipende anche dal grado di finanziamento monetario, il problema del coordinamento deriva pure dall’interdipendenza delle politiche (monetarie e fiscali, presenti e future). In particolare, vi è la constatazione che, da un lato, le decisioni delle autorità monetarie (la banca centrale) influenzano l’entità dei pagamenti futuri di imposte (per dati livelli dei disavanzi primari); ed in modo simmetrico, dall’altro lato, le autorità fiscali (il governo) vengono ad incidere sulle future “imposte da inflazione” (SPAVENTA, 1987). Una “reciproca cessione di sovranità”, con una parziale limitazione all’autonomia delle due politiche, è quindi auspicata – soprattutto dagli economisti keynesiani – per prevenire i casi di “esplosione” del debito, come invece si è verificato (anche nell’esperienza storica degli anni ’80) nei casi di politiche divergenti: espansiva quella fiscale e restrittiva quella monetaria.

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finito, ma così elevato da porre comunque seri problemi di solvibilità. Occorre perciò – secondo alcuni contributi – andare oltre rispetto al concetto di vincolo intertemporale di bilancio. Da qui, la rilevanza del concetto complementare di sostenibilità finanziaria, secondo la quale vi è un limite superiore alla domanda di titoli pubblici, che dipende fondamentalmente dalla propensione al risparmio finanziario del sistema privato e dalla preferenza accordata ai titoli pubblici. Quanto alla prima determinante, occorre precisare che la capacità del sistema privato di assorbire nuove emissioni di titoli, o comunque di attività finanziarie, non è una costante immodificabile. Anche prescindendo dalla possibilità di collocare parte del debito all’estero, si può infatti rilevare che non sono tanto i flussi aggiuntivi di nuovo risparmio finanziario ad essere importanti, quanto piuttosto gli aggiustamenti dello stock di ricchezza esistente (mediamente pari in numerosi paesi a 3 o 4 volte il valore monetario dello stesso Pil), come mostra la teoria dello stock adjustment 32. Per quanto riguarda la seconda determinante della sostenibilità finanziaria, è evidente che, mentre il rapporto debito/Pil non ha limiti superiori assoluti, il rapporto debito pubblico/ricchezza finanziaria non può superare l’unità. Inoltre, la possibilità di sostituire, all’interno della ricchezza finanziaria, i titoli privati con quelli pubblici è strettamente connessa al loro rendimento relativo, assumendo che i tassi d’interesse sui titoli pubblici siano positivamente correlati al debito in esistenza. In realtà, se l’offerta complessiva di attività patrimoniali è in equilibrio uguale alla domanda, l’espansione dell’offerta di una particolare attività (come i titoli pubblici) implica un innalzamento del suo rendimento 33. È possibile pertanto argomentare che le analisi che concentrano l’attenzione sul rapporto tra debito pubblico e Pil assumono implicitamente il Pil come proxy per la ricchezza, totale o per la parte finanziaria (entrambe significativamente superiori al Pil) 34. La giustificazione per un rapporto costante tra ricchezza e Pil è fornita dai modelli di crescita equilibrata 35. Tuttavia, le economie reali non si trovano normalmente in posizioni di stato stazionario (posto che queste effettivamente esistano) ed i processi di aggiustamento possono richiedere parecchio tempo, con conseguenti ampie oscillazioni nel rapporto tra ricchezza e reddito.

11.3. La sostenibilità del debito pubblico Nei sistemi economici in cui il debito è stato continuamente crescente, occorre chiedersi quali condizioni devono essere soddisfatte per rendere possibile un suo rimborso futuro. Come primo passo, occorre garantire la stabilizzazione del rapporto debito/Pil che, come mo32 Si può anche osservare che, accogliendo impostazioni à la Barro (cfr. cap. 9), è la stessa emissione di titoli che può far crescere il risparmio privato (in vista dei previsti pagamenti futuri di imposte). 33 Variabili chiave in questo contesto sono non solo l’ammontare del debito privato (o della ricchezza privata) ma anche i debiti impliciti, connessi anche alle tendenze demografiche ed all’invecchiamento della popolazione (spesa sanitaria e pensionistica). 34 La ricchezza totale – ed anche la parte di essa che è la ricchezza finanziaria – differiscono significativamente da paese a paese e possono subire variazioni rilevanti nel medio-lungo termine. 35 In effetti, è possibile mostrare che, nell’equilibrio di stato stazionario, il rapporto tra ricchezza e reddito dipende solamente da alcuni parametri fondamentali: il progresso tecnico, la crescita della popolazione, la propensione al risparmio. Tuttavia, l’uguaglianza Ω/Y = s/gy (in cui le quattro variabili rappresentano nell’ordine: la ricchezza, il reddito, la propensione al risparmio ed il tasso di crescita del reddito) è soddisfatta solamente nello stato stazionario; durante i processi di aggiustamento (ad esempio a seguito di variazioni di s o di gy), il rapporto Ω/Y può manifestare ampie oscillazioni, muovendosi in senso anti-ciclico. Risultati non molto dissimili possono essere ottenuti ipotizzando che i risparmi siano funzione della ricchezza o del tasso di crescita (CASAROSA, 1988).

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strano le analisi sulla sostenibilità economica del debito pubblico, richiede perlomeno l’annullamento del disavanzo primario (G0 – T). Infatti, nella misura in cui vi è disavanzo primario, il debito continua a crescere sia per quest’ultimo, sia per la causa “endogena” del pagamento di interessi sullo stock di debito già accumulato (e crescente nel tempo): è questo il già illustrato circolo vizioso tra disavanzo e debito, per cui il debito si autoalimenta di continuo, con seri rischi di “esplosione” 36. Il requisito di solvibilità, che si esprime attraverso il “vincolo intertemporale di bilancio”, pone l’uguaglianza tra livello corrente del debito e valore attuale scontato degli avanzi primari futuri; perciò tale vincolo non implica necessariamente che il debito debba essere immediatamente rimborsato e nemmeno che debba restare costante, ma richiede piuttosto che non si copra indefinitamente il servizio del debito (ossia i pagamenti di interessi) con nuovo indebitamento. L’avanzo primario che occorre conseguire è tanto più elevato quanto maggiore è lo stock di debito in esistenza (nonché quanto più elevata è la differenza tra tasso d’interesse e tasso di crescita dell’economia, come si vedrà tra breve) 37. Vediamo ora di enucleare le determinanti della dinamica del rapporto debito/Pil. Partiamo dalla precedente equazione [11.2], riaggregando i termini e dividendo per il reddito nominale (PY): [11.3] ΔB/PY + ΔM/PY = (G0 − T)/PY + i (B/PY) Quest’ultima relazione può essere riscritta, al fine di semplificare i successivi passaggi, nel caso continuo (sostituendo a ΔB la derivata di B rispetto al tempo, ossia B’ = dB/dt, e similmente per le altre variabili): [11.4] B/PY + M/PY = − a + i b dove con a indichiamo il saldo primario (T − G0) sul Pil e con b il rapporto debito/Pil; inoltre, tenuto conto che: M/PY = M/M M/PY ed anche che:

d(B / PY ) B(PY )  B(P Y  PY ) B B  P  Y         dt P2Y 2 PY PY  P Y  si può scrivere la [11.4] come: b + b (P/P + Y/Y) + M/M M/PY = − a + i b Indicando ora con gy il tasso di crescita reale del reddito (Y/Y), con π il tasso d’inflazione (P/P), con m la quota di moneta sul reddito (M/PY) ed infine con gm il tasso di crescita della quantità di moneta (M/M), si ricava: bt = −a + i b − b (π + gy) − m gm b 

36 Al tempo stesso, la progressiva espansione degli oneri connessi al servizio del debito (ossia il pagamento delle cedole d’interesse ed il rimborso delle quote di capitale venute a scadenza) rischiano di “spiazzare” tutte le altre componenti della spesa pubblica, in assenza di un incremento contestuale della tassazione (BUITER, 1985). 37 Più precisamente, l’analisi della sostenibilità del debito pubblico è stata volta alla ricerca di un valore di stato stazionario per il rapporto debito/Pil (cfr., ad esempio SPAVENTA, 1987). Le ipotesi dei primi modelli erano piuttosto semplici, implicando un tasso d’interesse dato e costante, una propensione al risparmio pure costante, un fabbisogno costante in termini di Pil ed un finanziamento del servizio del debito attraverso imposte. In quest’ambito si può segnalare l’originalità dell’analisi dell’economista keynesiano DOMAR (1944), sia per l’enfasi posta sin d’allora sul confronto tra tasso d’interesse e tasso di crescita, sia per il concetto di sostenibilità fiscale, ossia della tollerabilità delle aliquote d’imposta endogenamente determinate (sull’analisi di Domar si veda anche ARTONI, 1989).

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Con un’ultima riaggregazione, nonché ricordando la definizione di tasso d’interesse reale (r = i − π, posto che nel lungo andare l’inflazione attesa coincida con quella effettiva) 38, e sostituendo, per semplicità di notazione, bt con Δb, si ottiene finalmente: [11.5] Δb = −a + b (r − gy) − m gm Quest’ultima relazione è stata spesso utilizzata per evidenziare le principali determinanti della variazione del rapporto debito/Pil nel corso del tempo, determinanti individuate nella quota del saldo primario sul Pil (a), nell’eccesso del tasso d’interesse reale 39 rispetto alla crescita reale del sistema (r − gy) ponderato per la quota del debito esistente sul Pil (b) ed infine nell’apporto del finanziamento monetario (l’ultimo addendo della relazione [11.3]). È evidente dalla [11.5] che per stabilizzare il rapporto debito/Pil occorre far sì che Δb = 0 e, per far scendere tale rapporto, occorre Δb < 0. Nella successiva analisi sulle politiche di rientro vedremo come è possibile conseguire questi risultati agendo sui singoli elementi della somma algebrica; procederemo a ritroso (ossia dal fondo dell’equazione), considerando – prendendo come esempio il caso italiano – la fattibilità e/o desiderabilità delle seguenti alternative: 1) 2) 3) 4)

accrescere il finanziamento monetario (m gm), contenere i tassi d’interesse (r), aumentare la crescita reale (gy), migliorare il saldo primario (a).

11.4. Debito pubblico e politiche di rientro: il caso italiano Approfondiamo ora le politiche che possono adottare i governi quando il debito pubblico è eccessivamente elevato, con seri rischi per la sostenibilità 40. In aggiunta ad un’analisi teorica generale, che prende le mosse dall’ultima equazione della sezione precedente, è opportuno fare esempi concreti: il miglior esempio è proprio dato dal caso italiano. Infatti, il debito pubblico è una delle “patologie” che ancora oggi differenzia l’Italia da molti altri paesi avanzati e condiziona tuttora (e purtroppo condizionerà per diversi anni a venire) la nostra politica economica. Storicamente 41 esso è risultato elevato, superando il valore monetario dello stesso Pil (b > 1) in quattro episodi (cfr. Fig. 11.1): (i) alla fine dell’800; (ii e iii) durante le due guerre mondia38 In caso contrario, dovremmo scrivere r = i – πe (in cui πe rappresenta l’inflazione attesa ed il tasso d’interesse reale è definito come r = i – πe), per cui la [11.5] diventa: Δb = – a + b (r – gy) + b (π – πe) – m gm essendo mgm l’imposta da inflazione (attesa) sullo stock di moneta (ossia quella parte della crescita monetaria eccedente il fabbisogno implicato dalla crescita reale del sistema), conseguente al finanziamento monetario del disavanzo; al contrario, b(π – πe) rappresenta l’imposta da inflazione inattesa sul debito pubblico in esistenza, conseguente ad azioni di monetizzazione una tantum del debito che provocano sorprese inflazionistiche. 39 Si noti che il tasso di crescita del reddito ed il tasso d’interesse possono essere definiti o (entrambi) in termini reali, come implicitamente supposto nella [11.5], oppure (entrambi) in termini nominali. 40 Non sempre un debito pubblico molto elevato (in rapporto al Pil) si accompagna necessariamente a forti rischi di insostenibilità, come dimostra il caso del Giappone che ha da alcuni anni ha superato il 200% senza alcuna crisi del suo debito sovrano (e con tassi di interesse molto bassi); grazie anche al fatto che quasi tutto il debito giapponese è collocato all’interno del Paese. 41 Esitono diverse ricostruzioni dei dati storici del debito pubblico e del Pil nominale. Per la Fig. 11.1, i dati del debito pubblico dal 1861 al 1996 sono tratti da FRANCESE e PACE (2008); i dati dal 1997 al 2018 sono tratti dal supplemento al bollettino statistico della Banca d’Italia. Per il Pil i dati dal 1861 al 1994 sono di fonte Banca d’Italia; per gli anni successivi sono di fonte Istat.

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li, specie la prima; (iv) nell’ultimo trentennio. È interessante notare che il “rientro” dopo il primo episodio (fine ‘800) avvenne nell’età giolittiana, grazie all’elevata crescita reale (gy dell’equazione 11.5). Dopo le due guerre mondiali il rientro fu invece attuato attraverso la monetizzazione e l’iperinflazione, che ridusse in fretta il valore reale dello stesso debito. Figura 11.1. – Il rapporto Debito/Pil dall’Unità d’Italia ad oggi 135 120 105 90 75 60 45 30 15 2018

2009

1999

1992

1979

1971

1960

1945

1929

1918

1900

1861

0

Fonte: Elaborazione su dati Banca d’Italia e Istat.

Nell’esperienza italiana, l’aumento recente del debito pubblico (nell’ultimo mezzo secolo) è un fenomeno anomalo, dato che si tratta di una crescita in periodo di pace e in circostanze relativamente normali. La genesi può essere fatta risalire agli anni ’70 (nel 1970 il rapporto debito/Pil era ancora basso, attorno al 40%), quando la spesa pubblica cominciò ad assumere connotati “medi” europei (nella scuola, nella sanità, nelle pensioni, etc.), mentre l’imposizione fiscale era ancora arretrata (anche per gli effetti ritardati della riforma fiscale del 1973-74). L’aumento del rapporto debito/Pil fu peraltro contenuto (fino a circa il 60% nel 1980), nonostante disavanzi già molto ampi, grazie ai finanziamenti monetari (ed a tassi di interesse reali prevalentemente negativi). Negli anni ’80, oltre a disavanzi elevati e persistenti – è questa una grave patologia di cui stiamo ancora sopportando le conseguenze – si aggiunse la causa endogena di auto-alimentazione dovuta al forte rialzo dei tassi d’interesse (soprattutto in termini reali): il debito pubblico raggiunse il 100% del Pil nel 1990, per poi toccare la punta massima del 125% nel 1994. Dai primi anni ’90 si accentuò la pressione esterna al consolidamento dei conti pubblici italiani con le indicazioni europee provenienti dai “parametri” di ammissione all’Unione economica e monetaria, definiti nel Trattato di Maastricht. Nella seconda metà degli anni ’90, la maggior credibilità delle politiche di rientro (con un avanzo primario superiore al 6% nel 1997) e la crescente probabilità di ammissione dell’Italia alla zona euro (con una forte discesa dei tassi d’interesse) 42 favorirono una prima discesa del rapporto. Il rientro nel nuovo secolo fu otte42 Quando nel corso del 1997 divenne crescente l’aspettativa di ingresso immediato (cioè nel primo gruppo di 11 paesi) dell’Italia nell’Eurozona si determinò una rapida discesa dei tassi di interesse interni (anche sui

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nuto attraverso l’ultimo canale, ossia cercando di conseguire elevati avanzi primari, ma con sforzi meno intensi; comunque il rapporto debito/Pil raggiunse valori minimi nel 2003-4 e nel 2007 (attorno al 100%). Gli effetti della Grande Recessione del 2008-09 hanno determinato una prima generalizzata impennata nell’incidenza del debito pubblico sul Pil, sia in Italia (fin quasi al 120%) sia in molti altri paesi (in certi casi più velocemente che in Italia ma partendo da condizioni iniziali migliori). La successiva bassa crescita e soprattutto la nuova lunga recessione del 2011-14 – con una caduta complessiva del Pil vicina al 10% nel periodo 2008-2014 – hanno portato tale rapporto verso il 135% 43. La lenta ripresa dal 2014 in poi (in alcuni anni accompagnata da deflazione o inflazione nulla), a causa anche delle politiche d’austerità, ha mantenuto tale rapporto sopra il 130% fino ad oggi. Vediamo ora quali possono essere le politiche di rientro, esaminando una ad una le alternative offerte dall’analisi teorica (equazione [11.5]).

11.5. Finanziamento monetario, tassi d’interesse e politica di gestione del debito Un primo tipo d’intervento è quello di accrescere il finanziamento monetario (mgm), che quanto più risulta elevato, tanto più riesce a contenere l’emissione di titoli e quindi la crescita del debito. Il signoraggio e l’imposta da inflazione costituiscono una fonte di entrata alternativa, almeno in teoria, ed un modo per ridurre rapidamente il valore reale del debito, specie se agiscono una tantum (cfr. cap. 8). La monetizzazione del debito è comunque perseguibile, prescindendo dalle controindicazioni di altra natura, solamente quando non vi siano disavanzi primari ed il debito pregresso è a lunga scadenza e non indicizzato (altrimenti le conseguenze potrebbero essere opposte e tali da innescare il circolo vizioso “inflazione-debito”, a causa dei crescenti pagamenti per interessi). Il finanziamento monetario consentì all’Italia degli anni ’70, quando raggiungeva il 2-3% del Pil, una crescita contenuta del rapporto debito/Pil nonostante i già elevati disavanzi primari. Esso cominciò progressivamente a diminuire a partire dal “divorzio” del 1981 tra Banca d’Italia e Tesoro e con la crescente autonomia della nostra banca centrale. Dopo il Trattato di Maastricht del 1992 si è infine annullato. È però evidente che, al fine di evitare i negativi riflessi sul tasso d’inflazione, il finanziamento monetario è comunque da mantenere entro limiti il più possibile ristretti: è proprio con questo fine che è stata accordata una crescente autonomia alle banche centrali (cfr. cap. 10). Quanto al tasso d’interesse (r), esso dovrebbe essere abbassato il più possibile, ma purtroppo è scarsamente manovrabile in un’economia aperta, specie se con cambi (quasi) fissi (com’era il caso dell’Italia nello Sme negli anni ’80) e liberi movimenti di capitale. Il tasso d’interesse è inoltre influenzato dal volume crescente di debito, come abbiamo visto trattando di “disciplina del mercato” (cfr. par. 11.2); la dipendenza dei tassi d’interesse dal peso del debito pubblico è stata analizzata in numerose indagini empiriche. Oggi, nell’Unione monetaria europea, i tassi d’interesse sono fondamentalmente fissati dalla Bce, sebbene quelli sui titoli pubblici possano risentire dei diversi default risk (a cui si è aggiunto dopo la crisi dei detitoli di stato, contribuendo a far scendere la spesa per interessi) anche per il venir meno dell’aspettativa di future svalutazioni della moneta nazionale (visto che la debole lira italiana stava per essere sostituita con una moneta più forte come l’euro). 43 Questo valore comprende anche componenti straordinarie (quantificabili in oltre sei punti di Pil) presenti a partire dal 2012, quali i contributi dell’Italia ai fondi salva-Stati dell’UE (cfr. cap. 19) ed i pagamenti dei debiti arretrati della pubblica amministrazione.

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biti sovrani un possibile “rischio di ridenominazione valutaria”: cfr. cap. 19). Un limitato controllo dei tassi d’interesse può comunque essere attuato per due vie: i. rafforzando la credibilità delle politiche di risanamento (cosicché scendano i premi al rischio); ii. attraverso la politica di gestione del debito. Venendo al caso italiano, negli anni ’70 i tassi d’interesse erano molto bassi in Italia, addirittura negativi in termini reali (per via dell’elevata inflazione, almeno in parte inattesa e quindi non anticipata nei rendimenti nominali); potevano essere contenuti anche grazie ai controlli sui movimenti dei capitali che c’erano in quel periodo. Negli anni ’80 i tassi d’interesse aumentarono molto, prima negli Usa (cfr. par. 5.3), poi anche nei paesi europei, in relazione pure alla crescente autonomia delle banche centrali (si veda il più volte menzionato “divorzio” del 1981). Pertanto, in Italia, oltre agli elevati disavanzi primari, si aggiunse in quel decennio una pesante componente endogena di auto-alimentazione, per il crescente servizio del debito, portando i disavanzi complessivi a livelli impensabili (in diversi anni anche superiori al 10% del Pil). I tassi d’interesse arrivarono a valori massimi nel 1992-1993 (fino a punte del 15% per il tasso ufficiale di sconto); si ricorda che nel settembre 1992 la lira italiana fu costretta ad abbandonare gli accordi di cambio dello Sme, subendo una forte svalutazione (cfr. cap. 16). Nella seconda metà degli anni ’90, soprattutto nel 1996-1998, al rafforzarsi della credibilità delle azioni di rientro, la notevole discesa dei tassi d’interesse – legata alla forte riduzione dello spread con i tassi tedeschi grazie al venir meno delle aspettative di svalutazione della lira nel momento in cui diveniva sempre più concreta l’ammissione dell’Italia nel club dell’euro – riuscì ad avviare un “circolo virtuoso”, facendo abbassare sia i disavanzi sia il debito. È quindi indubbio che l’adesione dell’Italia all’Unione monetaria europea ha contribuito, a parità di indebitamento, a ridurre il rischio di default (stabilizzando le aspettative). La crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 19) ha fatto risalire gli spread a livelli senza precedenti da quando c’è l’euro (con una punta massima di 575 punti base nel novembre 2011) 44, spread poi ridiscesi a valori più normali (inferiori a 150 punti base a fine 2014) 45. Inoltre, la discesa generalizzata dei tassi d’interesse a livello mondiale ed europeo – grazie anche alla politica accomodante della Bce – ha portato negli anni 2016-2017 i livelli dei tassi d’interesse sui titoli pubblici italiani sui minimi storici mai toccati prima, riguardo sia ai titoli decennali sia a quelli a breve termine (che hanno registrato valori negativi per i titoli con scadenze più brevi). Solo dalla primavera 2018 e solo in Italia i tassi sui titoli pubblici sono risaliti, anche a causa delle incertezze sulla politica economica del Governo. Analizziamo ora più in dettaglio la politica di gestione del debito, utile per minimizzare il servizio del debito per il Tesoro; essa agisce sulle principali caratteristiche del debito pubblico (assumendo come un dato il suo stock totale sul quale invece incidono le politiche di rientro) ed intervenendo sulla sua composizione. In particolare, con essa si cerca di diversificare i principali strumenti finanziari, al fine di soddisfare i vari segmenti di domanda, con titoli non perfettamente sostituibili fra di loro. Le innovazioni finanziarie introdotte attraverso questa politica possono inoltre rendere più completa la struttura finanziaria del sistema economico. 44 Tale

spread è riferito al differenziale di rendimento fra i titoli di stato decennali italiani e quelli tedeschi. se ancora superiori ai 20-30 punti base in media prevalenti nel periodo 1999-2008. Comunque la spesa per interessi sul Pil è sempre rimasta, anche negli anni di crisi, inferiore al 5%, mentre nei primi anni ’90 era ben superiore al 10%; la durata media abbastanza lunga del debito pubblico italiano e la relativamente breve durata della “crisi dello spread” hanno contribuito ad un ridotto impatto aggiuntivo sulla spesa per interessi sul debito. 45 Anche

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In via esemplificativa, possiamo elencare tra gli altri i seguenti campi d’intervento: la tipologia dei titoli emessi (ricercando ove possibile nuovi strumenti finanziari), la loro scadenza e la vita media del debito; la struttura dei tassi d’interesse per le varie scadenze; le indicizzazioni 46 reali, finanziarie e valutarie dei titoli (nonché le emissioni in valuta); le modalità (inclusi i meccanismi d’asta e l’eventuale fissazione di un prezzo-base), i tempi (evitando un’eccessiva concentrazione nelle scadenze) e le condizioni di emissione (e di rinnovo); i rapporti fra mercato primario e secondario (nonché la loro efficienza e trasparenza); il collocamento all’estero di titoli pubblici. Molti interventi di questo tipo potrebbero essere anche efficienti, diversamente da quanto si verifica con il ricorso a misure o restrizioni di tipo amministrativo afferenti alla politica di vigilanza (come nel caso dei “vincoli di portafoglio” adottati in passato in Italia), che spesso equivalgono a forme di imposizione implicita 47. Un’accorta struttura del debito pubblico potrebbe anche prevenire le crisi di fiducia, di fronte al rischio di un ripudio esplicito del debito o di una sua monetizzazione; la crisi si verifica quando le aspettative degli agenti peggiorano al punto da ritenere il rischio suddetto non compensato (o compensabile) da adeguati premi al rischio, portando, come si è detto, a fenomeni di auto-realizzazione 48. Il suggerimento in questo caso è quello di emettere debito a lunga maturità e distribuito nelle scadenze, cosicché possa essere ripagato gradualmente su un arco temporale sufficientemente lungo (in ogni anno verrebbero accresciute le possibilità di rimborso, qualunque possano essere in futuro le aspettative e gli shock a cui sono sottoposte) 49. Un altro utilizzo della politica di gestione del debito può essere quello di predeterminare la struttura del debito da trasmettere ai governi futuri, riducendo l’incentivo dei governi futuri a deviare dalla configurazione presente, che riflette le preferenze del governo in carica; è un problema simile a quello dell’indebitamento strategico, anche se in questo caso riguarda la composizione piuttosto che il livello del debito pubblico. Ad esempio, l’emissione di titoli pubblici indicizzati riduce l’incentivo per i governi futuri a ricorrere all’imposta da inflazione. In definitiva, mentre la politica di bilancio è direttamente coinvolta al momento della formazione dei disavanzi pubblici, la politica di gestione del debito assume i disavanzi come variabile esogena. La gestione del debito, tuttavia, può divenire cruciale e pienamente efficace solamente quando, partendo da una situazione di profondo dissesto nei conti pubblici, un processo di rientro sia già stato avviato e la crescita dello stock di debito si sia stabilizzata: in tal caso il mercato, ritenendo credibile l’azione del governo, può pure accettare una riduzione dei tassi d’interesse, facilitando in questo modo la stessa azione di rientro. Anche oggi, all’in46 Si noti che le indicizzazioni possono essere applicate sulla cedola d’interesse oppure sul valore del capitale da rimborsare: in tal caso, viene abbassato l’onere corrente per il servizio del debito (poiché il risparmiatore è disposto ad accettare tassi d’interesse reali più contenuti), appesantendo però quello futuro. Inoltre, l’indicizzazione di tipo finanziario (in cui il tasso d’interesse pagato su un tipo di titoli, come i Cct in Italia, è indicizzato ai tassi correnti su altri tipi di titoli, come i Bot) implica una minor diversificazione dei titoli, i quali diventano in una certa misura sostituti fra di loro. La politica di gestione del debito ha iniziato a divenire importante in Italia nel corso degli anni ’80: cfr. PORTA (1987). 47 In aggiunta ai vincoli di portafoglio, possiamo ricordare i massimali sugli impieghi, le restrizioni ai movimenti internazionali di capitali, le discriminazioni di tipo fiscale. L’eliminazione di queste restrizioni e di altri “controlli diretti” del credito, nell’ambito dei processi di liberalizzazione e deregolamentazione finanziaria (come quelli attuati in Italia dopo il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia nel 1981), ha comunque ridotto tali forme di imposizione occulta e le conseguenti inefficienze allocative. 48 In queste situazioni, succede anche che le agenzie di rating (quali Moody’s, Standard and Poor’s, Fitch) “certifichino” il peggioramento dell’affidabilità attraverso un abbassamento del rating assegnato (cfr. cap. 19). 49 D’altra parte, la soluzione alternativa di emettere titoli a breve termine invece minimizza il rischio di monetizzazione.

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terno dell’Unione monetaria europea, la riduzione del differenziale dei tassi d’interesse sui titoli pubblici – che continua a penalizzare paesi “devianti” come l’Italia – dipende fondamentalmente dalla credibilità dei piani di rientro e di risanamento dei conti pubblici, oltre che dalle capacità di crescita (come spiegheremo nel prossimo paragrafo).

11.6. Avanzi primari, crescita reale e gradualità dei consolidamenti fiscali Per quanto riguarda il tasso di crescita del reddito (gy), è evidente che un’elevata crescita dell’economia facilita enormemente l’operazione di rientro dal debito pubblico. L’importanza della crescita reale dell’economia nella riduzione del rapporto debito/Pil si può riscontrare in diverse esperienze storiche (come in quella italiana all’inizio del Novecento), anche partendo da valori superiori all’unità di tale rapporto. Al contrario, la bassa crescita dell’economia italiana nell’ultimo ventennio ha certamente ostacolato le operazioni di rientro. Ancor più la sostanziale stagnazione e le continue recessioni dell’economia italiana dopo la crisi del 20082009 hanno causato la recente impennata in tale rapporto. E negli ultimi cinque anni è rimasto sostanzialmente stazionario a causa della fiacca ripresa. Una bassa crescita, così come un elevato tasso d’interesse, mantengono alto il fattore di auto-alimentazione (r − gy), complicando il rientro dal debito pur in presenza di saldi primari positivi. Inoltre, il fattore di auto-alimentazione può scriversi come (i −  − gy), per cui, a parità di tassi nominali d’interesse (i), un poco d’inflazione faciliterebbe il rientro dal debito (anche perché l’elasticità dei tassi nominali d’interesse al tasso d’inflazione non è unitaria nel breve periodo). Al contrario, un tasso d’inflazione quasi nullo (come in Italia nel 2014-2016) o addirittura una deflazione fanno crescere tale rapporto. Paradossalmente, la crescita reale può essere penalizzata proprio dalle misure restrittive volte a migliorare (con aumenti di tasse e/o tagli di spese) il saldo primario di bilancio; inoltre un eventuale aumento del tasso d’interesse (conseguente alla necessità di poter collocare ammontari crescenti di titoli pubblici) riduce gli investimenti e quindi le possibilità di crescita. Se le soluzioni precedentemente indicate – finanziamento monetario, bassi tassi d’interesse, elevata crescita – sono inutilizzabili, inefficaci o comunque insufficienti per ridurre il rapporto debito/Pil, non resta che concentrare gli sforzi sul saldo primario (a): il suo azzeramento (se si tratta di un disavanzo: a  0) e, se possibile, tramutamento in valori positivi è la “ricetta” standard nei piani di rientro dal debito. In Italia, i disavanzi primari degli anni ’70 e ’80 si trasformarono in avanzi già all’inizio degli anni ’90, ma gli effetti sull’andamento del rapporto debito/Pil non si videro subito a causa dell’elevato fattore di auto-alimentazione (negli anni 1992-1993 i tassi d’interesse toccarono valori massimi a causa della citata crisi dello Sme). Gli avanzi primari 50 furono poi crescenti, in rapporto al Pil, fino ad un valore massimo del 6,6% nel 1997, l’anno di riferimento per il rispetto dei criteri di Maastricht per i paesi candidati all’Unione economica e monetaria (in quell’anno il disavanzo totale si dimezzò e scese al 2,7%); ciò avvenne per effetto sia di misure straordinarie (la cosiddetta “tassa per l’Europa”) sia per il forte calo nella spesa per interessi (già sottolineato in precedenza). Gli avanzi primari si mantennero positivi nel nuovo secolo, anche se più contenuti: diversi osservatori imputano ai governi dell’epoca la responsabilità di aver sprecato il “dividendo dell’euro” (ossia il forte abbassamento dei tassi d’interesse dopo 50 Il conseguimento di avanzi primari positivi e crescenti è stato proprio lo strumento utilizzato nei piani di rientro della finanza pubblica in Italia nel corso degli anni ’90 (come ad esempio presentati annualmente nei Documenti di Programmazione Economico-Finanziaria), con il risultato di riuscire prima a frenare e poi invertire il precedente andamento crescente del rapporto debito/Pil (dopo la punta massima del 125%).

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l’avvio dell’Unione monetaria); se lo sforzo fiscale fosse rimasto inalterato, con gli stessi avanzi di fine anni ‘90, il debito sarebbe sceso più velocemente rispetto al Pil (preservando meglio il sistema da shock come la crisi dei debiti sovrani del 2010-2011). Il miglioramento del saldo primario può essere realizzato agendo sia sul fronte della spesa pubblica (G), sia su quello della tassazione (T). Il suo miglioramento attraverso l’aumento delle imposte è l’ipotesi più frequente, anche all’interno di modelli teorici ben noti 51: da un punto di vista pratico, la fattibilità di un’azione sul fronte delle entrate tributarie è però problematica, soprattutto se mirante all’ulteriore elevazione delle aliquote marginali (perlomeno nella maggior parte dei paesi europei in cui esse sono già elevate). E ciò sia per i problemi di “sostenibilità fiscale”, sia per gli effetti disincentivanti (cfr. cap. 5), ad esempio concernenti l’offerta di lavoro; si aggiunga che i limiti di tollerabilità alla pressione fiscale derivano pure dalla considerazione degli effetti redistributivi, conseguenti sia alla stessa tassazione, sia al pagamento di interessi sul debito pubblico 52. Un aumento del gettito fiscale potrebbe piuttosto derivare dall’ampliamento della base imponibile (anche per mezzo della lotta ai fenomeni di evasione, elusione ed erosione fiscale), al fine di conseguire una struttura impositiva più equa ed efficiente. Sempre sul fronte delle entrate, si potrebbe agire mediante misure una tantum di finanza straordinaria, anche perseguendo cespiti d’entrata extra-tributari, come nel caso della vendita di beni patrimoniali o della privatizzazione di imprese pubbliche, anche parziale tramite l’alienazione di partecipazioni (salvaguardando comunque i compiti pubblici di regolamentazione e controllo). Invece i condoni fiscali (soprattutto se periodicamente ripetuti), pur soddisfacendo le esigenze immediate di cassa del Tesoro, incentivano il persitere e l’aumento dell’evasione fiscale. Alternativamente un’arma importante per accrescere il saldo primario è la contrazione della spesa pubblica. Un tale intervento può rispondere a finalità aggiuntive (rispetto a quella del riequilibrio dei conti pubblici), come quelle della razionalizzazione e riqualificazione, compresa la lotta agli sprechi ed alle inefficienze. Da questo punto di vista, l’azione dovrebbe interessare essenzialmente i consumi pubblici, piuttosto che la spesa “produttiva”; vi è però il rischio che – considerate anche l’inopportunità e le difficoltà di contenere le spese di tipo sociale – siano tagliate proprio quelle componenti di spesa, come gli investimenti pubblici 53, che sono meno difese da specifici gruppi d’interesse o che sono caratterizzate da rendimenti differiti nel tempo; in tal caso, risulterebbe aggravato, anziché risolto, il problema dell’aggiustamento nel lungo periodo. In effetti, gli investimenti pubblici (inclusi quelli in capitale umano e ricerca) sono l’unica componente in grado di auto-finanziarsi nel lungo termine. Per altre modalità d’intervento su imposte e spesa pubblica si rinvia alla precedente trattazione (in particolare del par. 5.5). In ogni caso, si ritiene che il risanamento dei conti pubblici debba essere realizzato con gradualità, proprio al fine di non compromettere il tasso di crescita dell’economia e quindi di allontanare il momento della stabilizzazione del rapporto debi51 Si pensi all’ipotesi di Barro-Ricardo (nel quale il rispetto del vincolo intertemporale di bilancio avviene tramite l’aumento delle imposte future). 52 Sugli effetti redistributivi si era già focalizzata l’attenzione di KEYNES nel suo “A Tract on Monetary Reform” (1923), in cui si considerava la pressione fiscale intollerabile per la classe produttiva, come contrapposta ai rentiers (per cui Keynes prospettava soluzioni estreme come quelle della monetizzazione o addirittura del ripudio del debito). Gli stessi effetti redistributivi erano pure stati indagati dagli studiosi italiani di finanza pubblica del primo Novecento (in particolare da De Viti De Marco). 53 È questo un risultato confermato nella rassegna empirica di ALESINA, PEROTTI (1995a): durante le politiche fiscali restrittive, non solo il peso dell’aggiustamento ricade per lo più sugli incrementi di imposte, ma i tagli di spesa riguardano essenzialmente gli investimenti pubblici (mentre in occasione delle politiche espansive sono di solito i trasferimenti e le retribuzioni dei pubblici dipendenti che aumentano).

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to/Pil. È certamente indispensabile che i “piani di rientro”, seppure graduali, siano effettivamente rispettati, se si vuole assicurare la credibilità dell’azione intrapresa e quindi l’avvio a soluzione del problema del debito; tuttavia, una politica di assoluto rigore nel controllo dei conti pubblici non è sufficiente, anzi può essere controproducente se penalizza la crescita (il denominatore del rapporto debito/Pil). È comunque essenziale che il perseguimento dell’equilibrio di bilancio si accompagni a politiche che favoriscano la crescita. Dopo la crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 19), le misure di austerità imposte a tutti i paesi dell’Eurozona hanno invece esasperato il trade-off tra stabilità macroeconomica e finanziaria ed obiettivi di crescita 54. Pur essendo il consolidamento fiscale inevitabile, al fine di ridurre il rischio di default di alcuni Paesi o addirittura della stessa fine dell’euro, le politiche restrittive sono state troppo intense, troppo prolungate e troppo estese a più paesi contemporaneamente. Gli effetti negativi sui livelli di attività sono stati sottovalutati, anche per un’errata valutazione dei diversi effetti in gioco, effetti keynesiani o non-keynesiani; questi ultimi avrebbero dovuto garantire i benefici effetti della cosiddetta austerità espansiva. Mentre i keynesiani hanno sempre sottolineato l’impatto negativo su domanda, produzione e reddito di politiche fiscali restrittive, i monetaristi e la Nuova Macroeconomia Classica hanno ipotizzato l’esistenza di possibili “effetti non-keynesiani”. Questi riguardano il “crowding-in” degli investimenti privati successivo a riduzioni della spesa pubblica, la diminuzione dei tassi d’interesse derivante dall’accresciuta sostenibilità del debito pubblico (il “confidence factor”), l’aspettativa di tagli fiscali futuri (ossia la “equivalenza ricardiana”) 55. In questo contesto, si è inserito un dibattito recente sul valore dei moltiplicatori fiscali, che se relativamente alti – come la maggior parte degli analisti ritengono essere vero soprattutto nei casi di recessione, con tassi d’interesse molto bassi e con consolidamenti fiscali estesi a molteplici Paesi – allora politiche di aumenti di imposte, ma anche di tagli consistenti di spesa pubblica, possono causare contrazioni del Pil tali da annullare, in tutto o in parte, l’iniziale effetto benefico sui conti pubblici. I sostenitori di dure misure d’austerità ritengono che i moltiplicatori sono piccoli e quindi che politiche restrittive, rapide e violente, non causano forti cadute di reddito e sono in grado di riaggiustare velocemente i conti pubblici. Gli oppositori ritengono invece che le misure d’austerità sono state self-defeating in quanto la perdita di output è così elevata da far aumentare – invece che diminuire – i rapporti debito/Pil 56. Lo stesso IMF (2012) nelle più recenti stime ha ammesso che il valore dei moltiplicatori è cresciuto dopo la Grande Recessione (2008-09), auspicando quindi aggiustamenti fiscali più graduali. In ogni caso, le analisi più ragionevoli distinguono perlomeno tra effetti di breve periodo, che sono prevalentemente negativi, e quelli di lungo periodo, che potrebbero essere positivi. Secondo altri conta anche la composizione della manovra fiscale: ALESINA e GIAVAZZI (2012) affermano che gli aggiustamenti realizzati tramite tagli della spesa pubblica sono meno recessivi di quelli attuati per mezzo di aumenti di imposte. La Commissione europea (EC, 2012a) riporta invece moltiplicatori più alti per la spesa pubblica, in particolare per gli inve54 Per

una trattazione più esaustiva si veda MARELLI, SIGNORELLI (2017b e 2018). contrazioni fiscali anche severe potrebbero essere “espansive” (cfr. ad esempio GIAVAZZI, PAGANO, 1990; ALESINA, PEROTTI, 1997; PEROTTI, 2012). 56 Nel lungo periodo, hanno probabilmente ragione economisti come REIHNART, ROGOFF (2010), secondo cui un troppo alto rapporto debito/Pil (da loro stimato al 90%, soglia peraltro criticata e contraddetta da ulteriore evidenza empirica) abbassa la crescita reale. Nel breve periodo è però la bassa – o peggio ancora negativa – crescita che fa aumentare il rapporto debito/Pil. 55 Quindi

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stimenti pubblici. Inoltre i moltiplicatori risultano essere non lineari ed aumentano durante le recessioni (come trovato anche da AUERBACH, GORODNICHENKO, 2012), ancor più quando molti partner commerciali attuano contemporaneamente severi consolidamenti fiscali. Si può concludere su questo punto, con WYPLOSZ (2012), che “adottare politiche fiscali restrittive nel mezzo di una double-dip recession non ha mai avuto molto senso” 57. L’esito self-defeating dell’aggiustamento fiscale in Italia è evidente dai conti pubblici del 2014. Nonostante gli sforzi fatti per migliorare il saldo di bilancio, con avanzi primari per tutti gli anni dopo il 2010, all’inizio soprattutto attraverso l’innalzamento delle imposte e poi anche mediante tagli alla spesa pubblica, a causa della profonda recessione il rapporto debito/Pil è continuamente aumentato 58. Circa le proiezioni future, alcune simulazioni si possono effettuare partendo dall’equazione [11.5] (ponendo l’ultimo addendo nullo per il divieto di finanziamenti monetari): Δb = − a + b(i −  – gy). Sostituendo i seguenti valori 59: b  1,3, a = 1,8%, gy = 1,0%, i = 2,8% (il tasso medio d’interesse nominale sui titoli pubblici),  = 1,1% (per cui r = 1,7%) 60, si ottiene: Δb = − 0,9%, ossia il rapporto debito/Pil diminuirebbe ma lentamente. Un lungo periodo di comportamenti virtuosi è, in ogni caso, imposto dai pesanti lasciti ereditatati dai decenni passati 61.

11.7. Normativa sul bilancio pubblico in Italia e documenti programmatici La contabilità pubblica è stata impostata in Italia, per oltre 30 anni (dal 1978 al 2009), secondo la legge n. 468/1978. Essa prevedeva la redazione di tre documenti principali: – il Documento di Programmazione Economico-Finanziaria (DPEF) conteneva la programmazione a medio termine, di norma triennale, distinguendo tra “quadro tendenziale” e “quadro programmatico” (presentato dal Governo entro il mese di luglio); – la Relazione previsionale e programmatica conteneva previsioni ed obiettivi per il successivo anno (presentata entro settembre); – la manovra finanziaria era poi contenuta nel disegno di legge finanziaria e nel disegno di legge di bilancio (che il Parlamento doveva approvare entro il 31 dicembre per evitare il ricorso all’“esercizio provvisorio”). Dopo una prima riforma entrata in vigore dal 2010, importanti modifiche sono state introdotte dopo la nuova normativa di governance europea del 2011, in particolare con il “semestre europeo” (cfr. cap. 18). Sono così previsti i seguenti nuovi documenti: – il DPEF è ora assorbito dal Documento di Economia e Finanza (DEF), da presentare alla 57 Egli poi enfatizza il paradosso secondo cui i mercati finanziari vogliono vedere sia un commitment alla disciplina fiscale sia un’immediata crescita, ma come può ristabilirsi la fiducia se le economie sprofondano in una recessione? 58 Dal 119% del 2010 al 133% circa del periodo 2015-18; gli avanzi primari sono stati tra l’1,5% ed il 2,5% in questi anni. 59 Desunti dal Documento del 22 dicembre 2018 dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio (successivo all’accordo con la Commissione Europea). I valori inseriti nell’equazione sono quelli riferiti al 2018. Si aggiunga però che le prospettive immediate sono forse meno favorevoli, non solo per il rallentamento della crescita (si vedano alcune indicazioni nel cap. 21), ma anche il tasso d’interesse medio sui titoli di stato ha raggiunto nel 2018 un minimo assoluto e nel 2019 quasi sicuramente crescerà (anche alla luce degli andamenti della seconda metà del 2018). 60 Il fattore di auto-alimentazione è quindi 0,7 (cioè 2,8-1,1-1,0). 61 D’altro canto anche nell’Inghilterra dell’Ottocento il rapporto debito/Pil si ridusse dal 200%, generato dalle guerre napoleoniche, al 30%, ma ci volle quasi un secolo.

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Commissione europea entro metà aprile 62; esso contiene il Programma di Stabilità, ai fini del Patto di Stabilità e Crescita, e il Programma Nazionale di Riforma (PNR), nell’ambito della strategia “Europa 2020”; – la Legge di bilancio ha preso il posto della Legge finanziaria; il disegno della Legge di stabilità, da approvare entro la metà del mese di ottobre, è ora controllato dalla Commissione europea 63. Il Programma di Stabilità all’interno del DEF contiene alcuni elementi essenziali caratterizzanti la programmazione dei conti pubblici. Innanzi tutto un’analisi dell’evoluzione economico-finanziaria internazionale, per l’anno in corso e per il periodo di riferimento (almeno triennale), nonché le previsioni macroeconomiche tendenziali e programmatiche per l’Italia. Esso esplicita poi gli obiettivi di politica economica e il quadro delle previsioni economiche e di finanza pubblica; a questo riguardo è importante distinguere tra: – le previsioni tendenziali “a legislazione vigente” del conto economico della pubblica amministrazione, del saldo di cassa e del debito; – gli obiettivi programmatici dei saldi e del debito, per il complesso delle amministrazioni pubbliche e per i suoi sottosettori. La cosiddetta manovra finanziaria – ora da approvare con la Legge di bilancio – contiene gli interventi necessari a conseguire per ciascun anno del triennio gli obiettivi prefissati; per esempio, nel caso di un eccessivo disavanzo da ridurre, specifica quali imposte vanno aumentate e quali spese devono essere tagliate. Alla Legge di bilancio si accompagnano eventuali disegni di legge collegati alla manovra. È pure specificato il contenuto del “Patto di stabilità interno” imposto agli enti territoriali (come pure le sanzioni nel caso di mancato rispetto di quanto previsto dal Patto di stabilità medesimo); si prevede quindi un coinvolgimento dei livelli di governo decentrati nel processo di programmazione. Il bilancio annuale è accompagnato dal bilancio pluriennale di previsione, che copre un periodo di tre anni. La Legge di bilancio in via esemplificativa: – specifica le misure necessarie a realizzare per il triennio di riferimento gli obiettivi programmatici del DEF; – delinea il quadro di riferimento finanziario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale triennale; – fissa il livello massimo del saldo netto da finanziarie e del ricorso al mercato; la variazione delle aliquote delle imposte; l’importo complessivo destinato al rinnovo dei contratti pubblici; le misure correttive delle leggi che comportano oneri superiori a quelli previsti; – può disporre, per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, nuove o maggiori spese correnti o riduzioni di entrata solo nei limiti delle nuove o maggiori entrate e delle riduzioni permanenti di autorizzazioni di spesa corrente. Riguardo alle regole di bilancio nazionali, già il precedente art. 81 della Costituzione italiana prevedeva l’equilibrio di bilancio, ma era sostanzialmente non applicato. Inoltre (comma 3) sanciva che la legge di bilancio non può stabilire nuovi tributi e nuove spese; e che (comma 4) 62 Al DEF, presentato in Italia entro la metà di aprile, ora fa seguito una Nota di aggiornamento del DEF, che il Governo presenta entro settembre sulla base di un quadro macroeconomico e finanziario aggiornato. 63 Questa è la nuova normativa prevista dal “two-pack” (cfr. cap. 18); la Commissione formula delle osservazioni entro il mese di novembre, prima che la Legge di stabilità venga approvata dal Parlamento (entro il 31 dicembre).

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ogni legge che comporti nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte. Le regole sono divenute più stringenti a seguito dell’approvazione del Fiscal Compact (cfr. cap. 18) e conseguente modifica costituzionale (approvata il 17 aprile 2012) del nuovo art. 81 della Costituzione, sull’equilibrio strutturale del bilancio dello Stato. Il nuovo articolo prevede che lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo peraltro conto delle diverse fasi, avverse o favorevoli, del ciclo economico ed al netto delle misure temporanee o una tantum. Quindi il ricorso all’indebitamento è ammesso solo per gli effetti del ciclo economico e per il verificarsi di eventi eccezionali, come gravi recessioni economiche o calamità naturali 64. Anche in questi casi, l’indebitamento è ammesso solo con voto conforme a maggioranza assoluta delle due Camere 65.

64 La legge n. 243 (dicembre 2012) ha fissato le norme attuative. È istituito presso le Camere un organismo indipendente (l’Ufficio Parlamentare di Bilancio) al quale sono attribuiti compiti di analisi e verifica degli andamenti di finanza pubblica e di valutazione dell’osservanza delle regole di bilancio (l’organismo è composta da tre membri, in carica per 6 anni, nominati dai presidenti delle Camere). 65 L’obbligo del rispetto del principio del pareggio dei bilancio e della sostenibilità del debito pubblico viene esteso a tutte le amministrazioni pubbliche (nuovo art. 97). L’autonomia finanziaria di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, è comunque assicurata nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci (nuovo art. 119).

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12.1. Bilancia dei pagamenti e regimi di cambio Le transazioni di beni, servizi, attività e passività finanziarie che avvengono in un certo periodo di tempo tra i residenti in un dato paese e i residenti nel resto del mondo vengono registrate nella bilancia dei pagamenti. Questo documento si compone di tre parti 2: 1) il conto corrente, che registra importazioni ed esportazioni di beni e servizi, i trasferimenti di reddito (da lavoro o da capitale) e i trasferimenti unilaterali (aiuti a paesi terzi, rimesse di emigrati, trasferimenti all’UE, etc.); 2) il conto capitale, che riguarda la compravendita di attività intangibili (brevetti, licenze, etc.), le transazioni in attività tangibili ma non prodotte (terreni, risorse del sottosuolo, etc.) e i trasferimenti unilaterali in conto capitale (remissioni di debiti, transazioni connesse all’espatrio/rimpatrio, etc.); 3) il conto finanziario, che registra i movimenti di capitale (investimenti diretti, investimenti di portafoglio, derivati, etc.) e la variazione delle riserve ufficiali. La bilancia dei pagamenti è un documento contabile che registra gli scambi economici secondo le regole della “partita doppia”, ragion per cui il “saldo contabile” complessivo deve essere sempre nullo. Ciò che interessa maggiormente nel nostro caso è il “saldo economico”, ovvero il saldo della bilancia dei pagamenti al netto della variazione delle riserve ufficiali, considerando che ad un “avanzo” (“disavanzo”) della bilancia dei pagamenti corrisponde un aumento (decremento) delle riserve valutarie. Inoltre, per semplificare l’analisi, nel seguito faremo riferimento (seguendo l’esempio di molti testi) ad una bilancia dei pagamenti composta da due sezioni: partite correnti e movimenti di capitale. In sostanza, nello schema proposto, la sezione delle partite correnti comprende sia il conto corrente che il conto capitale 3. Il mercato nel quale si scambiano le diverse valute utilizzate nelle transazioni economiche e finanziarie che vengono registrate nella bilancia dei pagamenti è detto mercato valutario o mercato dei cambi. In questo mercato vengono determinati i prezzi di una o più valute in termini delle altre, ovvero i tassi di cambio 4. Definiamo il tasso di cambio nominale bilaterale 1 Questo capitolo è in gran parte basato sul cap. 12 di un precedente libro (MARELLI, SIGNORELLI, 2010b), capitolo steso da Alberto Russo. 2 Per maggiori dettagli sulla composizione della bilancia dei pagamenti si veda BANCA D’ITALIA (2004). 3 Si consideri, infine, che in molti casi le somme registrate sono delle stime e che c’è un certo margine di errore (“discrepanza statistica”) nella misurazione delle componenti della bilancia commerciale. Questi aspetti possono essere approfonditi in diversi testi, come ad esempio, ACOCELLA (2003), CELLINI (2004), KRUGMAN, OBSTFELD (2007), SALVATORE (2008). 4 Si parla di quotazione “incerto per certo” del tasso di cambio quando ci si riferisce ad una quantità incer-

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(che indichiamo con E) come il prezzo di una valuta (ad esempio, l’euro) in termini di un’altra valuta (ad esempio, il dollaro). Si parlerà di “apprezzamento” del tasso di cambio della valuta nazionale (ad esempio l’euro) quando il valore dell’euro aumenta rispetto a quello del dollaro (ad esempio, il tasso di cambio passa da $ 1,2/1 € a $ 1,4/1 €); nel caso contrario, si parlerà di “deprezzamento”. Calcolando la media ponderata di diversi tassi di cambio bilaterali (ad esempio, dollaro/euro, sterlina/euro, yen/euro, etc.) otteniamo il tasso di cambio nominale effettivo. Gli scambi internazionali sono però influenzati anche dal livello dei prezzi nazionali ed esteri. Per avere una misura complessiva della competitività nazionale rispetto ad un paese estero 5 possiamo calcolare il tasso di cambio reale bilaterale nel seguente modo: [12.1] Er = (P·E)/P* dove P rappresenta il prezzo dei beni nazionali (ad esempio, in euro) e P* è il prezzo dei beni esteri (ad esempio, in dollari statunitensi). Avremo in questo modo un indicatore che tiene conto contemporaneamente del tasso di cambio nominale, dei prezzi interni e di quelli esteri. Se invece calcoliamo lo stesso indicatore riferendoci al rapporto tra un dato paese e un gruppo di paesi esteri otteniamo il tasso di cambio reale effettivo (come media ponderata dei tassi di cambio reali unilaterali). Possiamo inoltre calcolare un indice di competitività come il reciproco del tasso di cambio reale: [12.2] γ = 1/Er = P*/(P·E) Un “apprezzamento” del tasso di cambio reale bilaterale (una diminuzione di γ) indica una perdita di competitività, in quanto aumenta il prezzo delle merci nazionali espresso nella moneta estera rispetto ai prezzi del paese estero. Questo vuol dire che un aumento di Er (che può essere dovuto ad un aumento di E, di P o ad una diminuzione di P*) farà peggiorare il saldo commerciale, ovvero provocherà una variazione delle partite correnti dovuta ad una riduzione delle esportazioni e/o ad un aumento delle importazioni. Al contrario, un “deprezzamento” del tasso di cambio reale (un aumento di γ) di un dato paese è associato ad un aumento della sua competitività sui mercati internazionali 6. Prima di esaminare gli effetti sulla bilancia dei pagamenti della variazione dei cambi tra valute, occupiamoci dei regimi di cambio. Un regime o sistema di cambio è un insieme di regole individuate da due o più paesi che riguardano lo scambio delle rispettive valute nazionali 7. I regimi di cambio principali sono due: i. cambi fissi, quando i paesi individuano una parità di riferimento, ovvero un rapporto di scambio tra valute che non cambia nel tempo; oppure si modifica saltuariamente quando si cambiano le regole fissate dai paesi stessi. Il tasso di cambio fisso tra due o più valute è ta di moneta nazionale per una quantità data di moneta estera. Si parla invece di “certo per incerto” quando ci si riferisce ad un ammontare fisso di moneta nazionale e all’ammontare corrispondente di moneta estera determinato dal tasso di cambio. In ciò che segue faremo riferimento a questo ultimo tipo di quotazione in quanto è quello in uso per l’euro. 5 Limitandoci qui a considerare la competitività di prezzo e tralasciando la non price competition, influenzata da elementi come la qualità dei prodotti esportati, le strategia di vendita e di marketing delle imprese, il tipo di specializzazione produttiva, la complessiva efficienza sistemica dell’economia nazionale. 6 Lo stesso discorso vale per il tasso di cambio reale effettivo considerando che il prezzo delle merci viene espresso in termini di un paniere di valute estere e che il prezzo delle merci estere è una media ponderata rispetto al peso dei paesi considerati (al limite, il resto del mondo). 7 Le valute sono convertibili se possono essere scambiate liberamente sui mercati internazionali, secondo le regole che costituiscono un determinato sistema di cambio. Altrimenti si parla di monete non convertibili (come erano spesso in passato le valute dei paesi ad economia pianificata).

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pari ad un preciso rapporto di cambio – sistema di cambi fissi con parità puntuale – oppure il valore individuato come cambio fisso costituisce una parità di riferimento intorno alla quale il rapporto di cambio tra diverse monete può oscillare (seppur in modo limitato) – sistema di cambi fissi con banda di oscillazione. In ogni caso, per “difendere” il valore prefissato del cambio, occorre un adeguato volume di riserve ufficiali (oro e valute pregiate) 8; ii. cambi flessibili, quando invece il rapporto di cambio tra le valute può oscillare liberamente, essendo stabilito dalle forze di mercato (domanda ed offerta delle diverse valute). Nel mondo reale, tuttavia, non c’è una così netta dicotomia. Per esempio, pur in un contesto di cambi flessibili, è però possibile che le autorità di politica economica dei diversi paesi intervengano per limitare le fluttuazioni del cambio: si parla in questo caso di fluttuazione amministrata o sporca 9. Gli interventi sul mercato dei cambi, ad esempio a sostegno della valuta nazionale, presuppongono anche in questo caso la disponibilità di adeguate riserve, in oro e valute pregiate. Mentre nel caso dei cambi flessibili ci si riferisce ad un aumento o ad una diminuzione del tasso di cambio con i termini “apprezzamento” e “deprezzamento”, nel caso di cambi fissi si parla, rispettivamente, di “rivalutazione” e “svalutazione” 10. Nel caso di deprezzamento/svalutazione, la riduzione del valore della moneta nazionale rispetto a quella/e estera/e comporta una maggiore competitività di prezzo delle merci nazionali sui mercati internazionali. Vedremo meglio in seguito se ciò causa, e fino a che punto, un miglioramento delle partite correnti (o un peggioramento nel caso di apprezzamento/rivalutazione del tasso di cambio). Per quanto riguarda il movimento dei capitali è importante considerare la variazione attesa del tasso di cambio (ad esempio, in caso di un deprezzamento/svalutazione bisogna valutare se gli operatori si attendono una ulteriore riduzione del valore della moneta nazionale): attese di deprezzamento o svalutazione implicano un deflusso netto di capitali, mentre attese di apprezzamento o rivalutazione comportano un afflusso netto di capitali. La bilancia dei pagamenti può trovarsi o meno in una situazione di equilibrio, a seconda dei saldi delle partite correnti e dei movimenti di capitale. Esistono dei meccanismi automatici di aggiustamento che, partendo da una situazione di squilibrio nei conti con l’estero, ristabiliscono l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. L’aggiustamento automatico avviene in modo diverso a seconda del regime di cambio esistente ed opera mediante meccanismi di prezzo e/o di reddito. Consideriamo, in regime di cambi flessibili, un paese che registra un disavanzo della bilancia dei pagamenti. In questo caso, l’aggiustamento basato sui prezzi relativi opera nel seguente modo: ci sarà un eccesso di domanda di valuta estera (poiché il valore degli acquisti di merci estere supera quello delle vendite di beni nazionali) che si riflette in un deprezzamento del8 Così, se le forze di libero mercato determinano un eccesso di offerta della valuta nazionale (ossia eccesso di domanda di valuta estera), le autorità nazionali (di solito la banca centrale) attingono alle riserve ufficiali, vendendo sul mercato la valuta estera ed acquistando la valuta nazionale, che in questo modo evita di perdere valore. Un intervento opposto si attua quando si vuole evitare un apprezzamento della valuta nazionale. 9 Un altro regime intermedio tra cambi fissi e flessibili è quello delle zone obiettivo proposto da WILLIAMSON (1985) che prevede delle parità centrali tra valute (che possono essere riviste periodicamente) con delle bande di oscillazione relativamente ampie entro le quali i rapporti di scambio tra monete possono fluttuare. Un regime di cambio simile è quello dello Sme (cfr. cap. 16); volendo rimanere sulla distinzione “cambi fissi vs cambi flessibili”, possiamo considerare che lo Sme sia stato più vicino al primo regime nel periodo dal 1979 fino alla crisi valutaria del 1992-1993, mentre dopo tale crisi le bande di oscillazione sono divenute così ampie (25% complessivo) da avvicinare il nuovo sistema più a quello dei cambi flessibili. 10 Ciò in conseguenza del fatto che nel caso di parità fisse tra monete la variazione del tasso di cambio dipende dalle decisioni delle autorità di politica economica dei paesi e non dalla libera fluttuazione nei mercati.

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la moneta nazionale; il deprezzamento comporta un aumento di competitività delle merci nazionali che, attraverso un miglioramento delle partite correnti, tende ad annullare lo squilibrio iniziale 11. Possono inoltre operare meccanismi basati sul reddito (invece o in aggiunta a quello sui prezzi relativi): a partire da una diminuzione (esogena) delle esportazioni che provoca un deficit della bilancia dei pagamenti, la riduzione della produzione nazionale conseguente causa una riduzione delle importazioni ed un conseguente aggiustamento della bilancia dei pagamenti verso l’equilibrio 12. In presenza di cambi fissi, l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti è differente. L’eccesso di domanda di valuta estera associato ad un disavanzo iniziale della bilancia dei pagamenti comporta una riduzione della moneta in circolazione (poiché le banche, su richiesta dei clienti che devono pagare le merci estere acquistate, chiedono valuta estera alla banca centrale che la cede in cambio di moneta nazionale), ovvero una diminuzione dell’offerta di moneta (con una simultanea riduzione delle riserve valutarie) 13. Se la banca centrale non attua una politica monetaria di sterilizzazione 14, la situazione di disavanzo nei conti con l’estero avrà lo stesso effetto di una politica monetaria restrittiva, che a sua volta, comportando una contrazione del reddito e un aumento del tasso di interesse, determina un aggiustamento dei conti con l’estero attraverso una riduzione delle importazioni e un afflusso di capitali (inoltre, i prezzi tendono a diminuire facendo migliorare la competitività delle merci nazionali) 15. Da che cosa dipendono, in definitiva, i tassi di cambio? Esistono diverse teorie che si propongono di spiegarne le determinanti; le principali sono: – l’approccio monetario (ai tassi di cambio) sostiene che il livello del cambio viene determinato dall’incontro tra il “flusso” di domanda e quello di offerta di valuta (posto ovviamente che i cambi siano flessibili) e che gli squilibri della bilancia dei pagamenti aggiustano il cambio: un surplus della bilancia dei pagamenti corrisponde ad un eccesso di domanda di valuta nazionale, che ne causa un apprezzamento; al contrario, un deficit corrisponde ad un eccesso di offerta di valuta, con un conseguente deprezzamento; – l’approccio di portafoglio si basa sull’analisi degli “stock” (invece che dei flussi) e considera la detenzione di moneta come una attività finanziaria alla quale corrisponde una determinata relazione rischio-rendimento 16: il differenziale tra i tassi d’interesse (a parità di rischio) e l’aspettativa sul tasso di cambio assumono un ruolo cruciale, come mostra la “condizione di parità scoperta dei tassi d’interesse” (cfr. par. 12.4); – infine, secondo la teoria della parità dei poteri d’acquisto il livello del tasso di cambio dipende, perlomeno nel lungo periodo, dal livello relativo dei prezzi: considerando due paesi e un paniere di beni comune ai due sistemi economici 17, questa teoria sostiene che il tasso 11 Ovviamente se la situazione di partenza consiste in un avanzo della bilancia dei pagamenti, l’aggiustamento automatico avverrà mediante un apprezzamento del tasso di cambio. 12 Partendo da un avanzo dovuto ad un aumento delle esportazioni, l’aggiustamento avverrà attraverso un aumento delle importazioni causato dall’aumento del reddito nazionale. 13 Al contrario, a partire da un avanzo, il meccanismo in questione causerà un aumento dell’offerta di moneta (e delle riserve valutarie). 14 Per esempio attraverso operazioni di mercato aperto (compravendita di titoli pubblici), controbilanciando gli effetti sull’offerta di moneta generati dallo squilibrio iniziale nella bilancia dei pagamenti. 15 Variazioni opposte conseguono nel caso di un avanzo iniziale nella bilancia dei pagamenti. 16 La diversificazione del portafoglio determina la distribuzione ottimale delle diverse attività finanziarie (denominate anche in valute differenti); di conseguenza, risultano determinate le quantità domandate ed offerte sui mercati (di monete, azioni, obbligazioni, etc.) e, quindi, i relativi prezzi (incluso il prezzo della valuta, ovvero il tasso di cambio). 17 Al limite un solo bene venduto in entrambi i paesi, come nel famoso esempio del “Big Mac”.

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di cambio corrisponde al rapporto tra i prezzi del paniere nei due paesi; alternativamente, e con maggiore probabilità che ciò si verifichi, la variazione percentuale del cambio è pari alla variazione percentuale del rapporto tra i prezzi nei due paesi del paniere, cioè approssimativamente al differenziale di inflazione tra i due paesi 18. Soffermiamoci ancora per un attimo sull’approccio monetario alla bilancia dei pagamenti 19, secondo cui la variazione delle riserve valutarie dei diversi paesi sarebbero dovute alle modificazione che intervengono nei mercati monetari. Si ipotizza infatti che il saldo della bilancia dei pagamenti dipende dall’equilibrio tra la domanda e l’offerta di moneta e che, in particolare, la variazione delle attività estere detenute dalla banca centrale in un certo periodo di tempo corrisponde al saldo della bilancia dei pagamenti. Quindi, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti può essere dovuto, invece che a variazioni delle partite correnti o dei movimenti di capitale, al mancato equilibrio del mercato monetario. Di conseguenza, gli interventi suggeriti per riequilibrare la bilancia dei pagamenti riguardano soprattutto la politica monetaria: ad esempio, se il disavanzo della bilancia dei pagamenti è dovuto essenzialmente alla creazione eccessiva di credito interno, per raggiungere il pareggio nei conti con l’estero sarà necessaria una contrazione monetaria. Le varie teorie esposte si basano su fattori diversi e propongono spiegazioni che non sono necessariamente in conflitto tra loro. Il fatto che i livelli del cambio siano spiegati meglio da una teoria piuttosto che da un’altra dipende dalla rilevanza empirica dei fattori coinvolti, oltre che dall’orizzonte dell’analisi. In generale, nel breve periodo, i cambi nominali tendono a fluttuare (anche perché sono sensibili alle aspettative mutevoli dei mercati finanziari) ed implicano anche fluttuazioni dei cambi reali. Nel lungo andare, i tassi di cambio reali tendono invece ad essere più stabili (in quanto l’andamento dei cambi nominali tende a riflettere i differenziali d’inflazione).

12.2. Il Gold standard, il regime di Bretton Woods e le sue istituzioni Storicamente, un sistema monetario diffuso in diversi paesi del mondo è stato il Gold standard (sistema aureo). Si tratta sostanzialmente di un regime di cambi fissi tra diverse valute il cui valore viene determinato dalla quotazione dell’oro. In altri termini, l’oro agisce come un’ancora per il sistema monetario. La motivazione per adottare questo sistema risiede nel fatto che l’ancoraggio delle monete al valore dell’oro dovrebbe garantire una certa stabilità monetaria, senza richiedere interventi discrezionali da parte delle autorità di politica economica 20. 18 Se esprimiamo la [12.1] in termini di variazioni (ed indichiamo con un apice la variazione di una variabile nel tempo, ricordando che P = ), possiamo scrivere: Er = E +  – *; se poniamo Er = 0, come è approssimativamente vero nel lungo periodo, otteniamo: E = * – . Ossia dovrebbe esserci (secondo la teoria della parità dei poteri d’acquisto) un apprezzamento della valuta nazionale (E > 0) se l’inflazione estera è maggiore di quella nazionale; e viceversa. 19 Sulla base delle analisi sviluppate presso il Fondo monetario internazionale negli anni 1950-1960 sulla relazione tra conti con l’estero e politica monetaria (FRENKEL, JOHNSON, 1976; IMF, 1977). 20 Le regole che garantiscono il funzionamento del sistema aureo sono essenzialmente le seguenti: (i) i biglietti che circolano in un paese vengono emessi dalla banca centrale; (ii) viene definito il contenuto in oro dell’unità monetaria nazionale; (iii) la banca centrale mantiene una riserva di oro con la quale si assicura la convertibilità della moneta; (iv) l’importazione e l’esportazione dell’oro tra paesi è libera. Il sistema aureo è sostanzialmente un regime di cambi fissi, anche se erano previste delle oscillazioni limitate attorno alla parità centrale (“punto dell’oro” superiore o inferiore) dovute essenzialmente alle spese di trasporto, assicurazione e perdita di interessi (ACOCELLA, 2005).

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Il Gold standard è stato il sistema in vigore tra fine Ottocento e inizio Novecento (ai tempi della “prima globalizzazione”), un periodo caratterizzato da un notevole aumento degli scambi commerciali e dei movimenti di capitale, in un contesto internazionale dominato dall’impero britannico e dalla sterlina inglese 21. Lo scoppio della Prima guerra mondiale e il peso delle spese belliche finanziate con emissione di moneta rese difficile mantenere la convertibilità in oro e il sistema aureo fu abbandonato nella maggior parte dei paesi. Fu ripreso, solo temporaneamente, da alcuni paesi nel periodo tra le due guerre mondiali 22. La Grande Depressione causò negli anni ’30 non solo l’adozione di numerose pratiche protezionistiche ma anche ricorrenti “svalutazioni competitive”, con conseguente instabilità valutaria (protezionismo e instabilità che furono causa di un forte freno del commercio mondiale). Dagli accordi di Bretton Woods del 1944 emerse un sistema monetario a cambio aureo (Gold exchange standard). In base a questo sistema il valore delle monete dei diversi paesi dipendeva dalla quotazione dell’oro, ma solo una moneta (il dollaro statunitense) era direttamente convertibile in oro e veniva quindi adottata come riserva valutaria da tutti i paesi. L’oro continuava a svolgere una funzione di ancora del sistema monetario, anche se attraverso la convertibilità del dollaro assicurata dalle banche centrali 23. Le principali caratteristiche del sistema di Bretton Woods erano le seguenti: – si trattava di un regime di cambi fissi ma aggiustabili; erano ammesse variazioni delle parità entro una banda del ±0,75% rispetto al $; – fino alla fine degli anni ’50, era garantita la convertibilità del dollaro in oro ad un prezzo fisso (a lungo $35 l’oncia), poi il rapporto dollaro/oro non fu più fisso; – in presenza di squilibri fondamentali (mutamenti strutturali, differenze sostanziali tra i tassi d’inflazione o di crescita, crisi persistenti nelle bilance dei pagamenti), le parità potevano essere variate (previo assenso del Fmi); – per mantenere fissi i cambi, erano previsti interventi sul mercato dei cambi e quindi c’era la necessità di mantenere adeguate riserve (oro e valute pregiate); in alternativa, erano suggeriti controlli sui movimenti di capitali; – linee di credito erano messe a disposizione dallo stesso Fmi, per contrastare gli attacchi speculativi; ma i crediti, inclusi quelli “stand-by”, erano concessi previa verifica dei piani di aggiustamento. Il funzionamento del sistema era basato su “regole del gioco” che dovevano essere rispettate in modo stringente dai diversi paesi e prevedevano una correzione di eventuali squilibri mediante una politica restrittiva in caso di disavanzo delle partite correnti o, al contrario, una politica espansiva in caso di avanzo. C’era comunque una certa riluttanza da parte di molti paesi ad intraprendere le dolorose (in termini economici e sociali) politiche di aggiustamento 21 Data la posizione di preminenza della Gran Bretagna nel commercio mondiale, Londra divenne il centro del sistema finanziario internazionale e la sterlina acquistò un’importanza crescente per il commercio internazionale e il sistema dei prestiti internazionali. Sulle vicende che hanno visto l’impero britannico al centro della scena mondiale tra fine Ottocento ed inizio Novecento si veda DE CECCO (1979). 22 A questo proposito, il tentativo di ritornare al gold standard fatto negli anni ’20 del secolo scorso da Winston Churchill fu duramente criticato da Keynes. Egli considerava infatti questo sistema un “barbaro relitto” in quanto implicava una continua restrizione monetaria in presenza di tensioni inflazionistiche dovute all’aumento dell’attività produttiva, agendo in questo modo come meccanismo recessivo (KEYNES, 1924). 23 Una motivazione per adottare questo sistema, invece che un “Gold standard” puro, risiedeva nella possibilità di minimizzare le spese dovute all’uso di oro (in particolare il trasporto). Un aspetto storicamente rilevante alla base della scelta di questo sistema riguardò la distribuzione ineguale dell’oro, che in seguito alla Seconda guerra mondiale si trovava in gran parte presso la Fed degli Stati Uniti.

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degli squilibri 24. Fino a quando questo problema riguardava i “paesi periferici”, i danni al sistema monetario internazionale erano tollerabili; quando invece lo stesso problema riguardò direttamente gli Stati Uniti (che negli anni ’60 avevano fatto crescere l’offerta di moneta, causando inflazione contemporaneamente ad un crescente disavanzo commerciale), cominciò a diffondersi l’opinione secondo la quale il dollaro fosse sopravvalutato (con l’effetto per gli altri paesi di “importare” inflazione) e che la Fed non sarebbe stata in grado di assicurare la convertibilità del dollaro in oro 25. In altre parole, il sistema era asimmetrico e dipendeva crucialmente dall’affidabilità del paese che emetteva la moneta di riferimento: se la solvibilità del paese principale fosse diventata dubbia, il sistema monetario internazionale sarebbe andato incontro ad instabilità e crisi, come si verificò alla fine degli anni ’60 26. Dopo la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro del 1971 (da parte del presidente Usa, Nixon) il Gold exchange standard – che nei due decenni precedenti (periodo ricordato come “età dell’oro del capitalismo”) aveva portato, assieme alle liberalizzazioni commerciali decise in ambito Gatt (cfr. cap. 14), ad un enorme sviluppo del commercio mondiale – fu abbandonato e si entrò, in particolare dal 1973, in una fase caratterizzata da cambi flessibili tra le maggiori aree economiche. Un’elevata flessibilità di cambi ancor oggi contraddistingue i rapporti tra le grandi aree valutarie (dollaro, euro, sterlina, yen, etc.). Da allora, il sistema monetario internazionale ha continuato, anche in assenza di regole vincolanti, ad essere incentrato sul dollaro come moneta di riserva internazionale (“dollar standard”): infatti, il dollaro è stato ampiamente utilizzato nelle transazioni commerciali e finanziarie, assicurando una posizione di egemonia agli Stati Uniti nelle relazioni internazionali 27. Negli ultimi decenni, i paesi europei hanno proceduto verso l’integrazione economica e finanziaria giungendo, attraverso passaggi intermedi (come il “serpente monetario” e il Sistema Monetario Europeo), alla realizzazione della moneta unica europea (cfr. cap. 16). Può essere opportuno ricordare che, sempre a Bretton Woods nel 1944, nacquero due importanti istituzioni mondiali (all’inizio comprendevano 44 membri, oggi oltre 180): – la Banca mondiale (World Bank, WB) 28: fornisce aiuti allo sviluppo, inclusi prestiti con bassi tassi d’interesse, soprattutto per i paesi più poveri, che devono presentare specifici progetti d’investimento di lungo periodo; – il Fondo monetario internazionale, Fmi (International Monetary Fund, Imf): ha l’obiettivo di promuovere la cooperazione monetaria internazionale, favorire lo sviluppo degli scambi 24 Pertanto, come evidenziato da PITTALUGA (2007), nel periodo del Gold exchange standard si verificarono numerosi scostamenti tra il tasso di cambio ufficiale e quello che assicurava l’equilibrio dei conti con l’estero. 25 Come aveva notato TRIFFIN (1960), il Gold exchange standard era un sistema che si reggeva sulla costanza del contenuto in oro della moneta di riserva e sulla fiducia che questa condizione sia rispettata. Un aspetto caratteristico di questo sistema consiste nel cosiddetto “dilemma di Triffin”: mentre da una parte c’è il rischio di non assicurare la liquidità necessaria a livello internazionale (con effetti monetari restrittivi), dall’altra parte una produzione eccessiva di moneta rischia di non assicurare più la convertibilità della moneta di riserva in oro (ed è questa seconda situazione che si è sostanzialmente verificata tra fine anni ’60 e inizio anni ’70 del secolo scorso). 26 In particolare, le politiche Usa (finanziamento della spesa pubblica, politiche monetarie accomodanti) misero a repentaglio la stabilità dei prezzi, considerata invece prioritaria da altri paesi (Germania). La crescente inflazione americana e i disavanzi nelle bilance dei pagamenti rendevano meno credibile la parità tra dollaro ed oro; infine la Germania alzò in modo autonomo i tassi d’interesse, provocando un deflusso di capitali dal dollaro. 27 Gli Stati Uniti hanno ad esempio beneficiato della possibilità di pagare le merci acquistate dall’estero mediante l’emissione di dollari, approfittando del diritto di signoraggio internazionale. 28 “International Bank for Reconstruction and Development” è il suo nome completo.

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internazionali, sostenere i paesi con difficoltà di bilancia dei pagamenti, svolgere azioni di prevenzione e gestione delle crisi finanziarie internazionali, concedere crediti ai paesi membri, fornire assistenza e sorveglianza (anche verificando l’attuazione dei piani d’aggiustamento macroeconomico, facilitando in certi casi la rinegoziazione del debito estero dei Pvs), etc.; i prestiti sono spesso condizionati a riforme delle politiche e delle istituzioni nazionali. Il numero di voti spettante ad ogni paese membro è commisurato alle quote 29 da esso versate all’Fmi; inoltre sono importanti per definire l’accesso dei paesi membri ai prestiti. I prestiti sono di solito concessi in tranche trimestrali, previa verifica dei programmi d’aggiustamento concordati; essi fungono da catalizzatore per altre fonti di finanziamento pubbliche e private 30. Il Fmi interviene in certi casi a complemento di altri erogatori di prestiti, come i fondi “salvaStati” europei nel caso degli aiuti alla Grecia e ad altri paesi dell’Eurozona (cfr. cap. 19). Queste due istituzioni, entrambe ubicate a Washington, hanno tradizionalmente seguito un approccio che pone l’ideologia del libero mercato in cima alle agende di riforma, richiedendo ai paesi assistiti interventi sui mercati, sui diritti di proprietà, su privatizzazioni e liberalizzazioni commerciali, deregolamentazione finanziaria, e simili; riforme spesso da attuare attraverso “terapie shock” che non tengono conto delle condizioni economiche e sociali nazionali. Queste due istituzioni sono l’emblema del cosiddetto “Washington consensus”, criticato da vari economisti, non solo dei paesi in via di sviluppo (Pvs) 31.

12.3. Politiche macroeconomiche in economia aperta Gli aspetti trattati finora evidenziano che l’apertura internazionale ha delle importanti conseguenze sull’equilibrio macroeconomico dei paesi e che ci sono rilevanti implicazioni rispetto all’efficacia delle politiche economiche nazionali. L’apertura verso gli scambi commerciali e finanziari, oltre ad ampliare gli obiettivi e gli strumenti di politica economica, modifica l’efficacia di alcuni strumenti tradizionali. Allo stesso tempo, le possibilità di finanziamento offerte dai mercati finanziari internazionali possono avere delle importanti conseguenze sulla conduzione e sull’efficacia della politica monetaria. Con riferimento alla politica fiscale, ad esempio, il moltiplicatore della spesa pubblica in economia aperta è minore rispetto al caso di un’economia chiusa, poiché parte dell’aumento della domanda aggregata indotto dalla politica fiscale espansiva si rivolge verso i prodotti esteri e raggiunge solo parzialmente la produzione nazionale. Considerando che le importazioni dipendono positivamente dal reddito secondo la seguente relazione, Q = qY, dove q > 0 è la propensione a importare; che il reddito nazionale (senza settore pubblico) è dato da Y = C + I + X – Q, dove il consumo aggregato è funzione positiva del reddito (C = cY, c > 0 è la propensione al consumo); ipotizzando inoltre che l’investimento I  I e le esportazioni X  X sono costanti rispetto al reddito, otteniamo che:



Y  1 / 1  c  q   I  X



29 Dopo l’aggiornamento del luglio 2016, gli Usa continuavano ad avere la maggiore quota calcolata “current” (14,7%), con la Cina al 12,9%; seguivano Giappone e Germania (circa il 5%); Francia e Regno Unito (oltre il 3%); Italia (2,3%); e a seguire gli altri paesi. Si aggiunga che per prassi il presidente del Fmi è sempre stato un europeo, mentre a capo della Banca mondiale c’era sempre uno statunitense. 30 Cfr. SCHLITZER (2011). 31 Uno dei maggiori critici è stato J. STIGLITZ (2006), in passato egli stesso al vertice della Banca Mondiale. È invece interessante notare che il Fmi ha assunto, dopo la Grande Recessione del 2008-2009, un atteggiamento meno rigido (quando capo economista era O. Blanchard), chiedendo per esempio alla Bce ed alle istituzioni europee di calibrare meglio e graduare nel tempo le politiche d’austerità (cfr. cap. 19).

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Dato che 1  c  q   1  c  , il moltiplicatore di economia aperta risulta minore rispetto al moltiplicatore in economia chiusa. Di conseguenza, una politica fiscale espansiva fa aumentare il reddito aggregato, ma in economia aperta parte di questo aumento andrà a beneficio del resto del mondo, data la presenza di una propensione positiva ad importare (q). In contesti recessivi, può così essere legittimo chiedere ad un Paese di fungere da “locomotiva”, in modo tale da trascinare attraverso il commercio internazionale i restanti vagoni (ossia gli altri Paesi) 32. Le teorie economiche hanno esaminato i vari aspetti della bilancia dei pagamenti, suggerendo diversi interventi di politica economica, a seconda degli obiettivi da raggiungere. Un problema legato alla valutazione degli effetti delle politiche economiche in economia aperta è quello del possibile “conflitto tra obiettivi” ed, in particolare, tra obiettivi interni (ad esempio, il raggiungimento della piena occupazione, il pareggio del bilancio pubblico) ed esterni (ad esempio, il pareggio del saldo commerciale, la stabilità dei movimenti di capitale). Quindi, l’apertura internazionale amplia la gamma degli obiettivi e degli strumenti di politica economica e l’equilibrio dei conti con l’estero si aggiunge agli altri obiettivi, in special modo quando la bilancia dei pagamenti non tende verso l’equilibrio in modo spontaneo o quando i tempi dell’aggiustamento automatico sono troppo lunghi o implicano costi eccessivamente elevati rispetto agli obiettivi, secondo la valutazione delle autorità di politica economica. Un problema che si pone, sia in economia chiusa che in economia aperta, è quello della appropriata assegnazione degli strumenti agli obiettivi, dato che esistono diversi organi decisionali che, manovrando uno o più strumenti di politica economica, possono contribuire al raggiungimento di uno o più obiettivi (si veda anche il par. 2.6). In questo contesto, il decentramento decisionale (ovvero, l’assegnazione dei diversi obiettivi a diversi decisori di politica economica) è razionale se l’efficacia degli strumenti sugli obiettivi è diversa. Consideriamo due obiettivi (ad esempio, reddito di pieno impiego e pareggio della bilancia dei pagamenti) e due strumenti (ad esempio, spesa pubblica e quantità di moneta): se l’efficacia relativa sul reddito nazionale della politica monetaria (rispetto a quella fiscale) è minore dell’efficacia sulla bilancia dei pagamenti della stessa (sempre rispetto alla politica fiscale), allora lo strumento della politica monetaria dovrà essere assegnato all’obiettivo della bilancia dei pagamenti, mentre la politica fiscale verrà assegnata al raggiungimento del reddito di pieno impiego (ACOCELLA, 2005). Le valutazioni sull’efficacia relativa sugli obiettivi degli strumenti dipendono dal modello ipotizzato e quindi dalle ipotesi che vengono fatte sul funzionamento dell’economia. La teoria keynesiana della bilancia dei pagamenti propone un’analisi macroeconomica del volume degli investimenti compatibile con la piena occupazione (obiettivo interno) e con il pareggio della bilancia commerciale (obiettivo esterno) 33. Un aspetto rilevante riguarda la condizione del bilancio pubblico in relazione all’equilibrio dei conti con l’estero e all’andamento del reddito aggregato e delle sue componenti. Il saldo delle partire correnti (PC) dipende dalla differenza tra risparmi ed investimenti (S – I) e dal saldo del bilancio pubblico (T – G). Consideriamo l’identità di contabilità nazionale, Y = C + I + 32 Ciò evidentemente vale in particolare per le aree economicamente integrate, come il mercato unico europeo. Se dopo le recenti crisi (cfr. cap. 19), la Germania avesse svolto il ruolo di locomotiva attraverso politiche fiscali più espansive, ciò avrebbe favorito anche gli altri Paesi europei, considerate pure le sue dimensioni. E la Germania avrebbe potuto farlo senza provocare squilibri interni, dato il costante ed elevato surplus commerciale e l’equilibrio nei conti pubblici. 33 Si tratta allora di individuare il livello di equilibrio degli investimenti che consenta il raggiungimento simultaneo dei due obiettivi (cfr. GRAZIANI, 2001).

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Politica monetaria e politica fiscale

G + X – Q, secondo la quale il reddito nazionale (Y) è dato dalla somma algebrica delle seguenti variabili aggregate: consumi (C), investimenti (I), spesa pubblica (G), esportazioni (X) ed importazioni (Q). Da ciò ricaviamo (sottraendo T + C da entrambi i membri dell’identità) il saldo delle partite correnti: [12.3] PC = (S – I) + (T – G) dove PC = X – Q (il saldo delle partite correnti coincide con le esportazioni nette) e Y – T – C = S (il risparmio è pari alla differenza tra il reddito disponibile ed i consumi). In caso di pareggio del bilancio pubblico (T – G = 0), un surplus delle partite correnti equivale ad un eccesso di risparmi (privati) superiore agli investimenti. È inoltre possibile che il disavanzo delle partite correnti sia dovuto ad un deficit del bilancio pubblico (T – G < 0) e questa situazione è nota come deficit gemelli. Una diversa interpretazione è quella che vede nel deficit commerciale una strada quasi obbligata quando il risparmio interno non è sufficiente per sostenere il livello degli investimenti. I deficit gemelli si sono presentati nell’economia degli Stati Uniti sia negli anni ’80 sotto l’amministrazione Reagan (elevati disavanzi pubblici, che hanno portato quel paese a divenire il maggior debitore sui mercati internazionali, accompagnati da ampi disavanzi commerciali) e di nuovo con il governo Bush negli anni 2000. D’altro canto, la carenza di risparmio interno (essendosi la propensione marginale al risparmio praticamente azzerata) ha portato nel nuovo secolo non solo a crescenti disavanzi commerciali, ma alla necessità di finanziare tali disavanzi con ingenti afflussi di capitali; in particolare la Cina (che si è trovata nella situazione esattamente opposta sul piano degli equilibri macroeconomici) è stata negli ultimi anni il principale finanziatore degli Stati Uniti (sui “global imbalances” torneremo all’inizio del cap. 14). L’equilibrio macroeconomico (interno ed esterno) realizzabile teoricamente è però nella realtà molto difficile sia da raggiungere che da mantenere. Infatti, il sistema economico lasciato a se stesso difficilmente è in grado di raggiungere un equilibrio caratterizzato dalla realizzazione simultanea degli obiettivi interno ed esterno; oppure i tempi necessari per il l’aggiustamento sono troppo lunghi. Allora può essere opportuno intervenire, con adeguati strumenti di politica economica, per accelerare il raggiungimento dell’equilibrio esterno (compatibilmente con l’equilibrio interno). L’individuazione degli strumenti di intervento dipende da diversi fattori 34. Tra questi strumenti, un posto rilevante è occupato dalla manovra del tasso di cambio, frequentemente utilizzata nei regimi di cambi quasi fissi. Generalmente, quando la bilancia dei pagamenti è in avanzo, la manovra consisterà in una rivalutazione (o in interventi volti a far apprezzare il tasso di cambio nel regime di fluttuazione sporca); se il problema è il disavanzo, allora sarà opportuna una svalutazione (ovvero una politica orientata a far deprezzare il cambio). L’efficacia della manovra del tasso di cambio – nel caso specifico una svalutazione – per migliorare la bilancia commerciale NX (e quindi le partite correnti) dipende da diverse condizioni: – la “condizione di Marshall-Lerner”, secondo la quale la manovra del tasso di cambio conduce ad un aggiustamento delle partite correnti se e solo se la somma delle elasticità delle importazioni e delle esportazioni rispetto al tasso di cambio (in valore assoluto) è maggiore di uno; – non devono essere presenti “rigidità” dal lato dell’offerta: se una svalutazione rende più competitive le merci nazionali, il sistema produttivo deve essere in grado di rispondere 34 Ad esempio l’origine dello squilibrio (che può essere attribuito principalmente alle partite correnti o ai movimenti di capitale) e le caratteristiche istituzionali (mobilità dei capitali tra paesi, accordi commerciali o di libero scambio, etc.)

Politiche macroeconomiche in economia aperta

235

prontamente per soddisfare la maggiore domanda estera senza tensioni sui prezzi (altrimenti l’effetto predominante della svalutazione sarà l’inflazione); – le variazioni del tasso di cambio devono raggiungere i consumatori finali e non andare ad esclusivo beneficio dei profitti dei venditori (“effetto pass-through”) 35; – occorrono rapidi aggiustamenti delle quantità, altrimenti se le quantità di esportazioni ed importazioni si modificano lentamente (ad esempio per la presenza di contratti di fornitura non estinguibili in breve tempo), la manovra del tasso di cambio può all’inizio peggiorare il saldo delle partite correnti, causando il cosiddetto “effetto J”: infatti, in seguito ad una svalutazione, se la quantità di prodotti esportati ed importati non varia subito, peggiora il saldo commerciale poiché aumenta il valore nominale delle importazioni fino a quando non ci sarà anche un aggiustamento delle quantità (un aumento delle esportazioni ed una diminuzione delle importazioni) 36; – la manovra del tasso di cambio non deve ingenerare ulteriori attese di variazione del valore della moneta nazionale, assicurando così la stabilità dei capitali: se, invece, una politica di svalutazione dovesse dare luogo ad ulteriori attese di svalutazione, si assisterebbe ad un deflusso di capitali che potrebbe portare ad un peggioramento della bilancia dei pagamenti, nonostante la maggiore competitività delle merci sui mercati esteri. Riguardo all’andamento della bilancia commerciale nel tempo, dopo una svalutazione, l’effetto J – di cui esiste ampia evidenza empirica – mostra che il miglioramento sarebbe limitato al medio periodo (in un arco temporale all’incirca tra sei e dodici mesi dopo la modifica del tasso di cambio). Possiamo ora aggiungere che, in un periodo ancora successivo, la bilancia torna a peggiorare. Infatti, alla lunga l’inflazione importata (i prezzi delle importazioni salgono dopo la svalutazione) innesca il “circolo vizioso” svalutazione-inflazione; prima o poi aumentano i prezzi di tutti i beni, anche quelli di produzione nazionale 37, per cui i benefici della svalutazione sono limitati al medio periodo, mentre nel lungo andare non c’è alcun vantaggio, dato che anche le condizioni di competitività tornano alla situazione di partenza. Con riferimento alla formula [12.1], il tasso di cambio reale (Er), che temporaneamente beneficia per il deprezzamento nominale (E), alla lunga torna a peggiorare per il differenziale inflazionistico (P, supponendo P* costante). Era questa la situazione tipica dell’economia italiana negli anni ’70 (ed in parte nella prima metà degli anni ’80), quando vi era una rincorsa continua tra svalutazioni ed inflazione.

35 Infatti può succedere che la trasmissione (pass-through) della svalutazione del tasso di cambio sui prezzi in valuta estera delle esportazioni e in moneta nazionale delle importazioni non sia completa, per inefficienze dei mercati (allontanamento dalle condizioni di concorrenza perfetta) ed in funzione delle strategie di impresa: per esempio quelle esportatrici potrebbero mirare a profitti di breve periodo, alzando i prezzi di vendita in proporzione alla svalutazione (ma senza effetti benefici sulle quantità esportate). 36 Se scriviamo la bilancia commerciale (per semplicità coincidente con le partite correnti) come: PC = p q X X – pQ qQ dove qX e qQ sono le quantità esportate ed importate, pX e pQ i rispettivi prezzi; allora, subito dopo la svalutazione aumentano i prezzi dei beni importati (espressi in valuta nazionale), pQ, e le quantità non variano, quindi PC peggiora; solo quando qX aumenta e qQ diminuisce, PC comincia a migliorare. 37 Con riferimento ad esempio al prezzo del petrolio (di solito espresso in dollari sui mercati internazionali), una delle più importanti fonti energetiche importate in Italia, un deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro causa non solo un aumento della “bolletta petrolifera” ma prima o poi un aumento dei prezzi di numerosi manufatti industriali. La trasmissione dell’inflazione importata a quella “domestica” è tanta più intensa e rapida quanto più sono diffuse nel sistema clausole di indicizzazione, poiché in tal caso aumentano quasi subito anche i salari.

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Politica monetaria e politica fiscale

12.4. Politica fiscale e politica monetaria in economia aperta (Mundell-Fleming) L’apertura dei sistemi economici nazionali alle relazioni internazionali pone dei problemi alla politica economica. In generale, gli effetti delle politiche economiche dipendono dal grado di apertura internazionale e di mobilità internazionale dei capitali, oltre che dal regime di cambio prevalente. Un modello che consente di analizzare gli effetti delle politiche macroeconomiche in economia aperta – fiscali e monetarie – con diverse condizioni di mobilità internazionale dei capitali e differenti regimi di cambio, è quello sviluppato negli anni ’60 sulla base dei contributi di FLEMING (1962) e MUNDELL (1963). Per poter utilizzare questo modello, procediamo con un’analisi più approfondita degli elementi della bilancia dei pagamenti (BP), che ci condurrà alla costruzione della curva BP, da aggiungere al noto modello IS-LM, ottenendo così uno schema IS-LM-BP (modello Mundell-Fleming). Si tratta quindi di un modello che aggiunge l’analisi dell’equilibrio esterno alla sintesi della macroeconomia keynesiana del modello IS-LM. Le ipotesi del modello in questione, che si aggiungono a quella di prezzi fissi, riguardano la parità scoperta dei tassi di interesse e il rifiuto della condizione della parità dei poteri di acquisto. La somma algebrica di partite correnti (PC) e movimenti di capitale (MK) costituisce il saldo della bilancia dei pagamenti, BP = PC + MK, e corrisponde ad un afflusso o ad un deflusso di valuta estera, a seconda che il saldo risulti positivo o negativo 38: nel caso di afflusso di valuta estera, BP > 0, si parlerà di avanzo della bilancia dei pagamenti; in caso contrario, BP < 0, di disavanzo; la bilancia dei pagamenti sarà in equilibrio nel caso in cui BP = 0. Dato che il saldo complessivo (BP) dipende dalla composizione dei saldi parziali delle partite correnti (PC) e dei movimenti di capitale (MK), si parla anche di avanzo o disavanzo delle partite correnti e/o dei movimenti dei capitale. Di conseguenza, la condizione di equilibrio BP = 0 può essere dovuta ad un equilibrio di entrambi i saldi parziali PC e MK oppure, più frequentemente, alla compensazione di due squilibri. Le determinanti principali delle partite correnti (PC) sono le importazioni (Q) e le esportazioni (X), trascurando qui per semplicità gli elementi delle partite correnti diverse dalla bilancia commerciale (redditi dall’estero, trasferimenti unilaterali, etc.). Considerando la situazione di un dato paese nei confronti del resto del mondo, il livello delle importazioni (Q) dipende positivamente dal reddito nazionale (Y) e negativamente dall’indice di competitività (γ). Le esportazioni dipendono positivamente sia dal reddito del resto del mondo (Yw) che dall’indice di competitività. Di conseguenza, il saldo delle partite correnti dipende negativamente dal reddito nazionale e positivamente dal reddito del resto del mondo e dall’indice di competitività. Riassumendo, in simboli, possiamo scrivere 39:    Q  QY ,  ;  

   X  X  Yw ,   ;  

    PC  X  Q  PC  Y ,Yw ,    

Per quanto riguarda i movimenti di capitale (MK) i fattori da considerare sono il tasso di interesse nazionale (i), il tasso di interesse estero (iw) e le aspettative sul tasso di cambio (Ee): un aumento di i, ceteris paribus, attrae capitali dall’estero, migliorando il saldo finanziario; al 38 Come

detto in precedenza, ci riferiamo al “saldo economico” della bilancia dei pagamenti. parentesi vengono riportate le variabili da cui dipende una determinata sezione, o l’intero saldo, della bilancia dei pagamenti. I simboli + e – posti sopra le variabili indicano il segno delle relazioni. 39 In

Politiche macroeconomiche in economia aperta

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contrario, un aumento di iw (rispetto a i, considerando nulle le attese di variazione del tasso di cambio) fa peggiorare il saldo finanziario; infine, le attese di un apprezzamento del tasso di cambio producono un miglioramento del saldo finanziario 40. Possiamo quindi scrivere:     MK  MK  I , Iw , E e     

Come detto in precedenza, il saldo complessivo della bilancia dei pagamenti, ovvero la variazione delle riserve ufficiali, è pari alla somma dei saldi delle sue sezioni, partite correnti e movimenti di capitale. Possiamo, in definitiva, scrivere:        BP  PC  MK  BP  Y ,Yw ,  , i , i w , E e ,     

Concentriamoci, tra tutte queste determinanti, sugli effetti delle variazioni del reddito e del tasso di interesse nazionale: il saldo della bilancia dei pagamenti, ceteris paribus, dipende negativamente dal reddito nazionale e positivamente dal tasso di interesse interno. Da ciò deriva una relazione lineare positiva tra Y e i, che chiameremo curva BP. Definiamo la curva BP come il luogo geometrico dei punti nello spazio (Y, i) compatibili con l’equilibrio della bilancia dei pagamenti (BP = 0). Il valore delle altre variabili che influiscono sulle partite correnti e sui movimenti di capitale determinano la posizione della curva BP nello spazio (Y, i) 41. Possiamo spiegare l’inclinazione positiva della curva BP nel seguente modo: un aumento del reddito nazionale Y, producendo un aumento delle importazioni, quindi un peggioramento delle partite correnti, richiede un aumento del tasso di interesse interno i, ovvero un miglioramento del saldo finanziario, al fine di mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti (Fig. 12.1). I punti che si trovano al di fuori di tale curva rappresentano condizioni di disequilibrio: si tratta di situazioni di avanzo (sopra la curva BP) o di disavanzo (sotto la BP). Un aspetto rilevante riguarda la mobilità internazionale dei capitali e, quindi, la loro reattività rispetto al differenziale tra tasso di interesse nazionale (i) e tasso di interesse internazionale (iw): maggiore è la reattività dei movimenti dei capitali rispetto al tasso di interesse, più piatta sarà la curva BP. Al limite, la curva BP è “orizzontale” se i capitali sono infinitamente sensibili al tasso di interesse, ovvero nel caso di perfetta mobilità dei capitali (in questo caso avremo che i = iw). Se invece i capitali sono del tutto insensibili al tasso di interesse, la curva BP è “verticale” in corrispondenza del reddito nazionale che assicura l’equilibrio dei conti con l’estero Y  (entrambi i “casi limite” sono descritti nella Fig. 12.1). 40 A questo proposito è opportuno ricordare che, secondo la condizione di parità scoperta per i movimenti di capitale (i = iw – Ee), due attività finanziarie (nazionale ed estera) sono perfettamente sostituibili se hanno lo stesso tasso di rendimento in una unità di misura comune (i e iw), ma tenuto conto delle aspettative di apprezzamento o deprezzamento della valuta nazionale (Ee dove l’apice rappresenta la variazione). 41 In particolare, la curva BP si sposta verso destra se aumenta Y (aumentano le esportazioni, consentenw do un reddito più elevato con conseguenti maggiori importazioni) o si deprezza (viene svalutato) il tasso di cambio (aumenta la competitività delle merci nazionali e ciò consente un maggiore reddito di equilibrio a parità di tasso di interesse); la curva BP si sposta verso sinistra se aumenta iw (ciò richiede un maggiore tasso di interesse interno a parità di reddito nazionale) o ci sono attese di svalutazione del tasso di cambio (il deflusso di capitali che ne consegue richiede un più basso livello di reddito).

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Politica monetaria e politica fiscale

Figura 12.1. – La curva BP BP “verticale”

i

BP

iw

BP “orizzontale”

Y

Y

Possiamo a questo punto analizzare, utilizzando il modello IS-LM-BP, gli effetti delle politiche macroeconomiche in economia aperta 42, in presenza di cambi fissi o flessibili, e per diversi gradi di mobilità dei capitali (Fig. 12.2): è questo il noto “modello Mundell-Fleming”. Iniziamo da un contesto caratterizzato da cambi fissi ed esaminiamo gli effetti di una politica fiscale espansiva (Fig. 12.2, grafici “a” e “b”, rispettivamente per alta e bassa mobilità dei capitali). Partendo dall’equilibrio iniziale (E1 in “a” e “b”), lo spostamento della IS verso destra (da IS a IS, in entrambi i grafici) conduce il sistema verso un equilibrio di breve periodo, ovvero una intersezione tra le curve IS ed LM, che si troverà sopra o sotto la curva BP a seconda che la mobilità dei capitali sia “alta” (E2 nel grafico “a”) o “bassa” (E2 nel grafico “b”). In altri termini, con elevata mobilità dei capitali, la politica fiscale espansiva determina un avanzo della bilancia dei pagamenti che, in cambi fissi, si traduce in un aumento della base monetaria (come conseguenza dei meccanismi automatici di aggiustamento). Quest’ultimo effetto consiste in uno spostamento verso destra della curva LM (da LM a LM, grafico “a”) fino al raggiungimento del nuovo equilibrio interno ed esterno (E3 nel grafico “a”). Quando, invece, i capitali sono poco mobili, l’effetto della politica fiscale espansiva sarà quello di causare un disavanzo e una conseguente distruzione di base monetaria. In questo caso, lo spostamento verso sinistra della LM (da LM a LM, grafico “b”) condurrà il sistema verso il nuovo equilibrio (E3 nel grafico “b”).

42 Ci limiteremo ad esaminare gli effetti di politiche macroeconomiche, sia fiscali che monetarie, di tipo espansivo, considerando che gli effetti di politiche restrittive sono desumibili da un ragionamento analogo.

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Politiche macroeconomiche in economia aperta

Figura 12.2. – Effetti delle politiche macroeconomiche nel modello Mundell-Fleming i

i LM

E2

BP

LM 

E3

LM

LM  BP

E1 E3

E2

IS 

E1

IS 

IS

IS Y

Y

“a” i

“b”

BPb

i

LM

LM

LM 

E2

BP a

BP  BP

E3

E1-E3 E2

E1

IS  IS 

IS

IS Y

Y “d”

“c” i

BP 

BP

LM

i LM

LM 

E3

BP BP 

E1 E2

E1

E3 IS 

E2 IS 

IS  IS

IS

Y

Y “e”

“f”

In sintesi, l’effetto espansivo della politica fiscale viene amplificato, in regime di cambi fissi, quando la mobilità dei capitali è elevata (l’effetto è massimo con perfetta mobilità dei capitali, ovvero quando la curva BP è “orizzontale”). L’effetto espansivo della politica fiscale viene invece ridimensionato nel caso di scarsa mobilità dei capitali (al limite, l’effetto della politica

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Politica monetaria e politica fiscale

fiscale viene completamente annullato nel caso di capitali perfettamente immobili, ovvero in presenza di una curva BP “verticale”). Consideriamo ora gli effetti di una politica monetaria espansiva, sempre in regime di cambi fissi (Fig. 12.2, grafico “c”). Lo spostamento verso destra della curva LM, a partire dall’equilibrio iniziale (E1), conduce il sistema verso un equilibrio di breve periodo (E2) caratterizzato da un disavanzo della bilancia dei pagamenti, indipendentemente dalle condizioni di mobilità dei capitali (rappresentate dalle curve BPa e BPb). La distruzione di base monetaria che ne consegue riporta la curva LM nella posizione di partenza (per cui l’equilibrio finale E3 coincide con quello iniziale E1) facendo così emergere la completa inefficacia (a meno di effetti temporanei) della politica monetaria in questo contesto. Passiamo all’esame degli effetti delle politiche macroeconomiche in regime di cambi flessibili, iniziando da una politica fiscale espansiva (Fig. 12.2, grafici “d” ed “e”). Partendo da una situazione iniziale di equilibrio (E1), una espansione fiscale, causando uno spostamento verso destra della curva IS (da IS a IS in entrambi i grafici) conduce il sistema verso l’equilibrio di breve periodo, che si trova al di sopra della curva BP se i capitali sono molto mobili (E2 nel grafico “d”). L’equilibrio di breve periodo si trova invece al di sotto della curva BP se i capitali sono poco mobili (E2 nel grafico “e”). Quindi, nel caso di elevata mobilità dei capitali, la politica fiscale espansiva provoca un avanzo che a sua volta, in regime di cambi flessibili, causa un apprezzamento della moneta nazionale. Di conseguenza, ci sarà uno spostamento verso sinistra delle curve IS e BP (da IS a IS, da BP a BP, grafico “d”), poiché l’apprezzamento del cambio rende meno competitivi i beni nazionali, fino al nuovo equilibrio (E3 nel grafico “d”) 43. Con scarsa mobilità dei capitali, invece, la politica fiscale espansiva provoca un disavanzo che a sua volta, in regime di cambi flessibili, causa un deprezzamento della moneta nazionale. In seguito al deprezzamento i beni nazionali diventano più competitivi e ciò si riflette in uno spostamento verso destra delle curve IS e BP (da IS a IS e da BP a BP, grafico “e”), fino al raggiungimento del nuovo equilibrio interno ed esterno (E3 nel grafico “e”). In sintesi, gli effetti di una politica fiscale espansiva in regime di cambi flessibili vengono amplificati nel caso di scarsa mobilità dei capitali, mentre vengono attenuati quando la mobilità dei capitali è elevata (al limite, con perfetta mobilità dei capitali – curva BP “orizzontale” – la politica fiscale risulta del tutto inefficace). Esaminiamo, infine, gli effetti di una politica monetaria espansiva con cambi flessibili (grafico “f”: viene riportato esclusivamente il caso con elevata mobilità dei capitali). La politica monetaria espansiva provoca uno spostamento del sistema dall’equilibrio iniziale (E1) all’equilibrio di breve periodo (E2), che si posiziona al di sotto della curva BP, indipendentemente dalla mobilità dei capitali. Il disavanzo della bilancia dei pagamenti provoca un deprezzamento del tasso di cambio che determina uno spostamento verso destra delle curve IS e BP (da IS a IS, da BP a BP) e il raggiungimento del nuovo equilibrio (E3). In generale, quindi, una politica monetaria espansiva è efficace in regime di cambi flessibili (con un aumento del reddito associato ad una minore riduzione del tasso di interesse rispetto al caso di economia chiusa). Possiamo quindi concludere l’analisi di Mundell-Fleming in questo modo: i. la politica monetaria è efficace con cambi flessibili, ma è del tutto inefficace con cambi fissi; ii. la politica fiscale è efficace sia con cambi fissi che con cambi flessibili, ma l’efficacia dipen43 Lo spostamento della BP è dovuto ai meccanismi automatici di aggiustamento. Lo spostamento della IS deriva dalla diminuzione delle esportazioni nette (che, in economia aperta, costituiscono una componente del reddito aggregato), dato che l’aumento del valore esterno della moneta nazionale (apprezzamento) rende più costosi i beni nazionali rispetto a quelli esteri.

Politiche macroeconomiche in economia aperta

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de dal grado di mobilità dei capitali (più efficace con alta mobilità se i cambi sono fissi, più efficace con bassa mobilità se i cambi sono flessibili). Quali sono, per concludere, vantaggi e svantaggi dei due regimi di cambio, fissi e flessibili? Gli economisti hanno mostrato opinioni diverse al riguardo, variabili nel tempo e tra le diverse scuole. In generale, in un regime di cambi fissi: – si garantisce un quadro di stabilità per gli scambi internazionali, favorendo l’interscambio di beni e servizi in un contesto caratterizzato da minore incertezza; – si consente comunque la flessibilità del cambio reale; – si evita l’eccessiva volatilità dei cambi flessibili, che non sempre riflettono i market fundamental (essendo tali cambi spesso generati da ondate speculative); – si limitano i comportamenti opportunistici, soprattutto delle banche centrali (cfr. cap. 9); un paese tendenzialmente propenso all’inflazione può cercare di “importare” credibilità antinflazionistica dall’estero. Allo stesso tempo, questo regime di cambio limita le possibilità di intervento per la politica economica ed, in particolare, la manovra del tasso di cambio: i paesi che aderiscono a questo regime, in special modo se all’interno di un accordo che prevede parità fisse da rispettare in modo stringente, non potranno aumentare la competitività dei loro beni attraverso il ricorso alla svalutazione, dovranno bensì promuovere incrementi della “produttività” del sistema 44. Inoltre, come abbiamo visto con il modello Mundell-Fleming (e come sottolineeremo meglio nel prossimo paragrafo) la politica monetaria diviene inefficace. Un regime di cambi flessibili garantisce maggiori margini di manovra, consentendo ad esempio il deprezzamento della moneta (che nel caso di cambi pienamente flessibili è la risposta automatica allo squilibrio nella BP) per recuperare competitività, anche se ciò può avere effetti perversi nel lungo periodo sulla struttura produttiva del sistema economico. Allo stesso tempo è possibile che con cambi flessibili si importi inflazione da altri paesi 45. Con un certo grado di approssimazione, possiamo sostenere che gli economisti di orientamento “keynesiano” tendono a preferire i cambi flessibili, in quanto questo sistema permette il sostegno della domanda aggregata attraverso il deprezzamento del tasso di cambio, mentre gli economisti di orientamento “monetarista” tendono a preferire i cambi fissi 46.

12.5. Politica monetaria e relazioni finanziarie internazionali Secondo la cosiddetta triade inconciliabile (o “trilemma”) non è possibile che si verifichino simultaneamente le tre condizioni seguenti (MUNDELL, 1968): 1) regime di cambi fissi; 44 Ovviamente queste considerazioni valgono ancora di più nel caso delle unioni monetarie, che possono essere considerate una forma limite di cambi fissi (cfr. cap. 16 per l’Unione monetaria europea). 45 Per quanto riguarda la possibilità di evitare “attacchi speculativi”, non sembra possibile individuare delle preferenze per un sistema rispetto all’altro, poiché in entrambi i regimi sono possibili delle eccezioni rispetto alle regole che li governano: in cambi fissi è possibile modificare la parità tra monete con un intervento discrezionale, mentre in cambi flessibili sono diffusi gli interventi volti a governare il livello del cambio, che impediscono una fluttuazione completamente libera del valore internazionale della moneta. 46 In definitiva, come ha sostenuto Krugman, ogni paese può scegliere liberamente il regime di cambio che ritiene più opportuno per le proprie caratteristiche e rispetto ai propri obiettivi; una volta effettuata la scelta però le autorità di politica economica dovrebbero attenersi strettamente alle regole che assicurano il funzionamento del regime di cambio scelto, senza ricorrere cioè a forme di fluttuazione sporca in cambi flessibili e garantendo sempre la parità in cambi fissi (CELLINI, 2004).

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Politica monetaria e politica fiscale

2) perfetta mobilità dei capitali; 3) autonomia della politica monetaria. Quindi nel mondo, di volta in volta, si è dovuto rinunciare ad una di queste condizioni. La rinuncia ai cambi fissi – ossia alla prima condizione di Mundell – ha caratterizzato i rapporti tra le grandi aree valutarie del mondo dagli anni ’70 ad oggi (come abbiamo spiegato nel par. 12.2). La rinuncia alla perfetta mobilità dei capitali, la seconda condizione, sarà discussa alla fine di questo paragrafo, trattando di liberalizzazione finanziaria. La rinuncia alla terza condizione di Mundell, l’autonomia della politica monetaria 47, è invece stata la soluzione scelta su scala regionale, ossia da gruppi di paesi (come nel caso dello Sme in Europa). La perdita della sovranità monetaria può essere problematica per alcuni paesi mentre può non esserlo per altri, se questi ultimi trovano vantaggioso legare la loro politica monetaria alle decisioni di un altro paese. In alcuni casi, infatti, potrebbe rivelarsi vantaggioso rinunciare alla sovranità monetaria, legando il proprio destino alle politiche monetarie di altri paesi con caratteristiche di maggiore stabilità macroeconomica e rilevanza internazionale. Una scelta che consiste nella esplicita rinuncia all’autonomia della politica monetaria, al fine di acquisire credibilità antinflazionistica (superando il cosiddetto problema dell’“incoerenza temporale” della politica economica: cfr. cap. 9) è quella del pegging del tasso di cambio rispetto ad una valuta di riferimento; ovvero la scelta di ancorare il tasso di cambio della propria valuta a quello di un paese di rilevanza internazionale, come gli Stati Uniti, o caratterizzato da una riconosciuta stabilità monetaria, come la Germania. Alcuni paesi, come in passato diversi paesi dell’America Latina, hanno sperimentato un processo di “dollarizzazione” dei loro sistemi economici, adottando direttamente una valuta estera (il dollaro statunitense). Una scelta diversa, fatta ad esempio dall’Argentina e dall’Estonia (in passato), è quella del currency board: in questo caso un paese decide un livello del tasso di cambio fisso rispetto ad una valuta di riferimento, dichiarando ufficialmente di riuscire ad assicurare al pubblico il cambio tra le due monete in ogni momento (facendo ricorso alle proprie riserve valutarie). La scelta di ancorare il proprio sistema a quello di un altro paese comporta però, oltre all’“importazione” della credibilità monetaria, anche la conseguenza di dover subire l’andamento del ciclo economico del paese di riferimento, così come il rischio di importare inflazione 48. Un aspetto rilevante ai fini della comprensione degli effetti delle politiche economiche in economia aperta riguarda la dimensione dei paesi che, ai fini della nostra analisi, possono essere distinti in paesi con economie di piccole e grandi dimensioni. Generalmente, i paesi “grandi” sono caratterizzati da un grado di apertura internazionale relativamente basso (che può essere misurato come la somma delle importazioni e delle esportazioni in rapporto al reddito nazionale) e per questo motivo le modificazioni del tasso di cambio hanno un impatto relativamente moderato sull’andamento economico complessivo (che dipende invece largamente dall’interazione tra domanda ed offerta interne). Al contrario, per i paesi “piccoli” il tasso di cambio rappresenta una variabile economica cruciale, con importanti conseguenze sugli equilibri macroeconomici. La particolare situazione dei paesi piccoli, specie quelli in via di sviluppo, riguarda inoltre la limitatezza delle risorse disponibili per interventi di politica economica, come ad esempio l’ammontare delle riserve valutarie necessarie per mantenere un dato livello del tasso di cambio. 47 Il regime di Bretton Woods era una via di mezzo, in quanto la piena autonomia monetaria era riservata al paese àncora (gli Stati Uniti); comunque erano ancora ammesse restrizioni ai movimenti di capitale. 48 Inoltre, l’adozione di queste strategie ha comportato diversi problemi di instabilità, in special modo per i paesi in via di sviluppo, come quelli relativi alle recenti crisi valutarie, bancarie e finanziarie (PITTALUGA, 2007).

Politiche macroeconomiche in economia aperta

243

La rilevanza dei problemi di economia aperta può quindi essere alquanto diversa a seconda della dimensione dei Paesi. Per quanto riguarda, in particolare, la politica monetaria in economia aperta, diviene necessario affiancare al livello del tasso di interesse reale l’andamento del tasso di cambio reale, per l’analisi delle condizioni monetarie e la decisione di possibili interventi: infatti, una politica monetaria restrittiva causa sia un aumento del tasso di interesse che un apprezzamento del tasso di cambio (il cui livello è a sua volta influenzato dalle aspettative degli operatori sul tasso di interesse e sulla sua struttura temporale) 49. Una importante differenza tra paesi (grandi o piccoli) riguarda la loro posizione nel sistema finanziario internazionale e cioè il peso delle loro economie e delle politiche adottate sugli equilibri internazionali. Infatti, le decisioni di un paese possono raggiungere altri paesi, attraverso i meccanismi di trasmissione in economia aperta, il che vuol dire che le diverse economie sono interconnesse. Inoltre, non tutti i paesi hanno lo stesso peso nell’influire sull’andamento dell’economia mondiale, anche attraverso le loro politiche economiche: in altre parole, i diversi paesi interagiscono in un contesto asimmetrico. L’analisi degli effetti asimmetrici delle politiche monetarie può essere utilmente condotta sulla base di un “modello centro-periferia” delle relazioni internazionali 50. Secondo questa impostazione, le scelte di politica monetaria del “paese-centro” (gli Stati Uniti, almeno a partire dal secondo dopoguerra in poi, cioè nel periodo del gold exchange standard e, successivamente, del dollar standard) vengono prese essenzialmente in funzione dell’andamento dell’economia interna (coerentemente con quanto affermato precedentemente a proposito del comportamento di un paese “grande” in economia aperta). Queste decisioni influenzano però il ciclo finanziario internazionale, con conseguenze sui paesi della “periferia”. Quando la politica monetaria del paese-centro diventa restrittiva (come avvenne per gli Stati Uniti all’inizio degli anni ’80, dopo anni con inflazione crescente, anche a seguito degli shock petroliferi), gli altri paesi sono costretti a seguire questa scelta, innalzando a loro volta i tassi di interesse per evitare un deflusso di capitali e mantenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti 51. Come evidenziato da DE CECCO (1999), la fuoriuscita dei capitali che si dirigono verso il centro del sistema, ovvero verso investimenti meno rischiosi o percepiti tali in seguito ai cambiamenti intervenuti (flight-to-quality), avviene in maniera rapida e disordinata, causando seri problemi di instabilità finanziaria e facendo così aumentare la probabilità di crisi valutarie e bancarie (come, ad esempio, nel caso della crisi del sud-est asiatico nel 1997 o di quella dei mutui subprime del 2007-2008: cfr. cap. 14 e cap. 19). Tornando alla “triade inconciliabile” di Mundell, se un paese vuole gestire autonomamente la propria politica monetaria allora dovrà rinunciare o al regime di cambi fissi o alla libera circolazione dei capitali (individuando delle forme efficaci nel controllarne il movimento). In passato si era fatta prevalentemente questa scelta, introducendo forme più o meno pervasive di controllo dei movimenti di capitale; oggi invece si preferisce piuttosto, nel mondo, rinunciare ai cambi fissi. Infatti, a partire dagli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, le politiche economiche hanno favorito un processo di deregolamentazione dei mercati nazionali ed internazionali ed 49 Secondo TAYLOR (2000) l’inclusione del tasso di cambio nella “regola di Taylor” non è necessaria in quanto, in una economia “piccola”, le modificazioni del tasso di cambio si riflettono rapidamente sul livello dei prezzi; simili conclusioni vengono raggiunte da SVENSSON (2000) relativamente all’inflation targeting. 50 Per un approfondimento di questo approccio, con un’analisi riferita all’Italia, si veda DE CECCO (1999 e 2002). 51 Un importante effetto del simultaneo aumento dei tassi di interesse internazionali e dell’apprezzamento del dollaro che derivò dalla restrizione monetaria degli anni ’80 fu una grave “crisi del debito” che colpì numerosi paesi in via di sviluppo.

244

Politica monetaria e politica fiscale

il sistema finanziario internazionale è stato caratterizzato da una crescente mobilità dei capitali (dal punto di vista del modello Mundell-Fleming, negli ultimi decenni, la curva BP è diventata sempre più “piatta”). La politica di “deregolamentazione” intrapresa negli ultimi decenni era finalizzata alla rimozione degli ostacoli al funzionamento concorrenziale dei mercati e, in questo modo, all’incremento della loro efficienza (cfr. par. 14.2). Tuttavia, la progressiva liberalizzazione ha prodotto una instabilità crescente dei mercati finanziari e degli equilibri internazionali che ha provocato diverse crisi 52 a livello mondiale. In questo contesto di crescente interdipendenza a livello mondiale è mancato un sufficiente grado di coordinamento delle politiche monetarie ed anche di quelle fiscali 53. Come abbiamo visto (cfr. par. 2.6), sono stati individuati diversi gradi di “coordinamento” internazionale: (i) dalla semplice considerazione da parte delle autorità di politica economica delle “funzioni di reazione” degli altri policymaker; (ii) alla cooperazione internazionale, che implica azioni quali lo scambio di informazioni o la consultazione preventiva rispetto a decisioni rilevanti (come nel Fmi o nel G-20); (iii) sino a comprendere strutture di coordinamento vero e proprio (ad esempio nello Sme o in altri accordi di cambio) 54. Dopo la recente crisi, ci sono stati alcuni tentativi di rivedere e migliorare, attraverso la collaborazione tra governi ed istituzioni internazionali, l’architettura e la regolamentazione del sistema finanziario globale, ma per ora con successi limitati. Questi tentativi sono stati condotti non solo all’interno delle istituzioni di Bretton Woods (cfr. par. 12.2), a cominciare dal Fondo monetario internazionale, o delle istituzioni europee, ma anche in consessi 55 di crescente importanza, come il G-20. Ricordiamo che dal 1975 c’era il G-7, che raggruppava le sette maggiori economie mondiali occidentali (tra cui l’Italia); nel 1998 si trasformò in G-8, con l’adesione della Russia, temporaneamente esclusa (con un ritorno al G-7) a causa delle sanzioni occidentali introdotte dopo l’invasione russa della Crimea (nel 2014). Entrambi prevedevano – e tuttora prevedono – vertici almeno annui ai massimi livelli, ossia dei Capi di Stato o di Governo. Dal 1999 operava anche un altro organismo, più informale e meno rilevante: il G-20 appunto. Il G-20 ha assunto un’importanza molto maggiore dopo la crisi finanziaria del 20072008. Il primo vertice decisivo è stato quello di Pittsburgh (2009). I summit successivi sono stati a Washington, Londra, Pittsburgh (Usa), Toronto (Canada), Seul (Corea), Cannes (Francia), Los Cabos (Messico), San Pietroburgo (Russia), Brisbane (Australia), Antalia (Turchia), Hangzhou (Cina), Hamburg (Germania) e l’ultimo, nel 2018, a Buenos Aires (Argentina). Il G20 raggruppa le maggiori venti potenze economiche di tutto il mondo 56; rappresenta i 2/3 52 Gravi problemi di instabilità possono emergere come conseguenza delle repentine modificazioni dei flussi speculativi di capitale. Infatti, il flusso può arrestarsi improvvisamente e i capitali possono defluire rapidamente da un paese (sudden stops, capital reversal), anche per motivazioni non legate ai fondamentali dell’economia in questione (come un cambiamento della politica monetaria nel paese-centro), quando ciò è permesso dalla regolamentazione vigente (che aveva precedentemente consentito l’ingresso dei capitali esteri). 53 Una nota proposta finalizzata alla riduzione dell’instabilità del sistema finanziario internazionale è la “Tobin tax” che consiste in un prelievo (minimo) sulle transazioni finanziarie, con un effetto di disincentivo sui movimenti di capitale speculativi, cioè di breve e soprattutto di brevissimo termine (mentre il peso del prelievo sugli “investimenti diretti esteri”, di lungo termine, sarebbe trascurabile). 54 Su questi temi, vedi HORNE, MASSON (1988). 55 Da ricordare anche il Financial Stability Board (fino al 2009 chiamato “Financial Stability Forum”, esistente come organismo informale dal 1999 e presieduto fino al 2011 da M. Draghi), che comprende i governatori delle banche centrali dei vari paesi; il Basel Committee on Banking Supervision (responsabile degli standard contabili: Basilea II, III, etc.). 56 Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Indonesia, Italia, Giappone, Repub-

Politiche macroeconomiche in economia aperta

245

della popolazione mondiale, l’85% del Pil, l’80% del commercio globale. Circa i temi in discussione e le conclusioni più significative degli ultimi vertici, rammentiamo che in quello di Toronto (giugno 2010), cominciava ad emergere una contrapposizione tra la posizione del presidente Usa, Obama (favorevole agli stimoli fiscali) e quella della cancelliera tedesca, Merkel (sostenitrice del risanamento e del rigore fiscale). Nel comunicato finale di solito si raggiunge un compromesso formale riconoscendo ad esempio, da un lato, il rischio che “aggiustamenti fiscali adottati in modo sincronizzato dalle più grandi economie influenzino negativamente la ripresa”; accanto però, dall’altro lato, al rischio che “la mancata attuazione del consolidamento fiscale, dove necessario, pregiudichi la fiducia ed ostacoli la crescita”. Quale esemplificazione delle questioni sul tappeto, ricordiamo che nel vertice di San Pietroburgo (settembre 2013), è stato redatto 57 un elenco delle principali realizzazioni del G-20 nel quinquennio precedente: (i) implementazione dei “global capital standards” (Basilea III); (ii) regolamentazione dei derivati “OTC”; (iii) identificazione delle banche e degli assicuratori globali “sistematicamente importanti” (con standard prudenziali rafforzati); (iv) definizione delle procedure per la soluzione delle crisi di grandi istituzioni finanziarie (al fine di minimizzare le perdite per i contribuenti); (v) rafforzamento della capacità di fronteggiare potenziali rischi sistemici. Più recentemente, nel 2017-2018 le contrapposizioni hanno soprattutto riguardato la posizione protezionistica di Trump, da una parte, e l’orientamento più liberista degli altri paesi. È interessante rilevare che a contrastare il protezionismo di Trump, che ha pure fatto uscire gli Usa da alcuni accordi commerciali multilaterali (cfr. cap. 14), siano soprattutto l’Ue e la Cina (peraltro talvolta propensa ad adottare pratiche commerciali non sempre corrette). Al di là dei risultati conseguiti – spesso i vertici del G-20 hanno una lista di buoni propositi ma poi le realizzazioni concrete sono limitate – è un dato di fatto il peso crescente che i paesi emergenti vogliono assumere nella governance dell’economia mondiale (un atteggiamento simile si è riscontrato anche nell’ambito del commercio mondiale e della Wto: cfr. cap. 14). Le critiche nei confronti delle istituzioni consolidate, a cominciare dal Fmi, che sarebbero dominate dai paesi occidentali avanzati (cfr. par. 12.2), ha addirittura portato nel 2011 a formulare prime proposte per un’istituzione alternativa 58.

blica di Corea, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sud Africa, Turchia, Regno Unito, Stati Uniti d’America; oltre all’Unione europea. 57 Oltre al solito elenco (abituale in questi vertici) di obiettivi correnti da realizzare: ripresa globale, contrasto della disoccupazione (specie giovanile), finanziamento degli investimenti a lungo termine, sostegno del commercio multilaterale, politica energetica sostenibile e lotta al cambiamento climatico, contrasto dell’evasione fiscale, riforma del sistema finanziario, contrasto della corruzione, etc. Informazioni sui vari vertici sono sui siti specializzati (www.g20.org). 58 Dopo diversi vertici, le proposte per una “nuova banca dei Brics” sono state meglio precisate nel 2014, con lo scopo di rafforzare la cooperazione tra gli stessi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) ma con un’apertura verso tutti i Pvs.

246

Politica monetaria e politica fiscale

Parte Quarta

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

248

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

Crescita e sviluppo nel mondo

13

249

Crescita e sviluppo nel mondo 1

13.1. Crescita e sviluppo secondo una prospettiva storica Gli ultimi due o tre secoli della storia umana sono stati caratterizzati da una vigorosa crescita economica che, favorita da avanzamenti tecnologici ed accumulazione di capitale e conoscenze, ha consentito il raggiungimento di stadi avanzati di sviluppo in diversi paesi del mondo. Allo stesso tempo, altri paesi hanno raggiunto un livello di minore sviluppo e altri ancora sono intrappolati in situazioni di estrema povertà. La storia dello sviluppo economico presenta percorsi variegati e non lineari, con fenomeni di crescita più o meno rapidi, associati a diversi gradi di diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze. I diversi sistemi economici hanno mostrato periodi di ascesa e di declino, in una evoluzione complessiva che ha visto sia fenomeni di convergenza che di divergenza tra paesi 2. Nonostante le specificità dei diversi percorsi storici di sviluppo, a partire dalla Rivoluzione Industriale, è possibile riscontrare una tendenza di fondo dei processi di crescita nazionali e globali dovuta alla progressiva diffusione dello sviluppo capitalistico. Le teorie della crescita e dello sviluppo si occupano di questi aspetti, cercando di individuarne le cause, anche allo scopo di suggerire opportuni interventi di politica economica. Le diversità tra le due branche riguardano questi aspetti: – gli studi sulla crescita economica si riferiscono generalmente all’analisi del tasso di crescita del Pil totale o del reddito pro-capite (o di altre macrovariabili come la produttività) e delle determinanti della loro evoluzione temporale, come pure in termini comparati tra paesi; – per sviluppo economico si intende solitamente un fenomeno di lungo periodo caratterizzato da processi di crescita quantitativa accompagnati da cambiamenti qualitativi dell’economia, come ad esempio le trasformazioni strutturali che caratterizzano lo sviluppo; queste ultime non sono peraltro limitate agli aspetti strettamente economici ma riguardano fenomeni complessi di evoluzione sociale ed istituzionale, storicamente determinati. Le principali teorie della crescita si sono focalizzate su alcune determinanti chiave, che possono essere così raggruppate 3: (i) accumulazione di capitale, (ii) progresso tecnico, (iii) fat1 Questo capitolo è in parte basato sul cap. 21 del precedente libro (MARELLI, SIGNORELLI, 2010b), capitolo steso da Alberto Russo. 2 Senza citare le dinamiche (regionali) interne ai singoli stati, particolarmente significative per l’Italia (si veda il par. 20.4 relativo al Mezzogiorno). 3 Riguardo ai singoli contributi, possiamo solo elencarli in questa sede: teorie degli economisti classici (Smith, Ricardo, Malthus, Marx), neoclassici (il modello di Solow è forse quello più noto), keynesiani (incluso il

250

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

tori demografici, (iv) capitale umano, (v) commercio internazionale, (vi) distribuzione del reddito, (vii) istituzioni, (viii) determinanti storiche e geografiche. È evidente che nella trattazione di queste ultime determinati, l’originaria divisione netta tra crescita e sviluppo è divenuta più sfumata. Tuttavia, possiamo osservare che lo studio di problemi dello sviluppo di specifici paesi ha riportato l’attenzione sull’importanza delle istituzioni, del cambiamento istituzionale e dell’evoluzione economica come il risultato di percorsi storici, assai diversi tra paesi, temi che non erano stati approfonditi nell’ambito dell’approccio neoclassico, prevalente nelle applicazioni di teoria della crescita 4. Un’ulteriore differenziazione è che, mentre gli studi sullo sviluppo economico si sono concentrati sulla generalità dei paesi del mondo, le teorie della crescita sono state orientate principalmente allo studio delle dinamiche dei paesi più sviluppati. Quindi l’economia dello sviluppo si occupa anche dei problemi del sotto-sviluppo. In questo contesto, l’analisi dei dati relativi ai paesi più poveri mette in risalto la gravità di alcuni problemi che ostacolano lo sviluppo (fame, elevata mortalità, analfabetismo, carenza di infrastrutture, etc.), oltre a creare vere e proprie emergenze umanitarie (dalle carestie ed epidemie, alle guerre e al genocidio). All’opposto, gli elevati consumi connessi alla crescita economica, l’utilizzo di processi di produzione inquinanti, lo sfruttamento di risorse minerarie ed energetiche, fanno emergere le problematiche relative alla sostenibilità ambientale dello sviluppo. Fatta questa premessa, in questo paragrafo intendiamo adottare un’esplicita prospettiva storica delle traiettorie di sviluppo che hanno caratterizzato l’evoluzione economica di lungo periodo dei diversi paesi e, in particolare, dei “primi del mondo” 5. A grandi linee, emerge un aumento progressivo del Pil pro-capite mondiale, con una accelerazione della crescita a partire dall’Ottocento, come conseguenza della Rivoluzione Industriale inglese e dell’espansione nel mondo dell’impero britannico. Dopo le “scoperte geografiche” e le colonizzazioni europee dei “nuovi continenti”, nuove potenze economiche sono emerse, insidiando la leadership economica europea, fino all’ascesa degli Stati Uniti d’America. Negli ultimi decenni, la crescita sostenuta di molti paesi asiatici ha determinato un aumento consistente del Pil pro-capite dell’Asia (che resta, tuttavia, ancora relativamente “basso”). Le traiettorie di sviluppo delle maggiori potenze economiche sono evidenziate nella Tab. 13.1 6. Le “frecce” di diversa tipologia tracciate nella tabella segnano il percorso di ascesa e declino dei paesi che hanno dominato la scena negli ultimi secoli. L’Italia (in particolare centro-settentrionale) costituiva l’area europea più avanzata nel 1500, grazie allo sviluppo commerciale, finanziario, civile e culturale dei Comuni, dell’Umanesimo e del Rinascimento. modello Harrod-Domar), post-keynesiani (Kaldor) o à la Schumpeter; le più recenti teorie di crescita endogena (Lucas, Romer); quelle sui rapporti tra crescita e commercio (Krugman, Grossman, Helpman), tra crescita e distribuzione del reddito (Alesina, Tabellini); sul ruolo delle disuguaglianze distributive (Sen, Stiglitz), delle istituzioni (a partire dai contributi di North) e del capitale sociale (Putnam); sulle determinanti geografiche (Barro, Acemoglu). 4 Secondo HIRSCHMAN (1983), l’economia dello sviluppo ha avuto un periodo di ascesa quando l’indagine si è concentrata sugli aspetti specifici dello sviluppo e del sottosviluppo, con un ruolo rilevante degli aspetti storici ed istituzionali, e una successiva fase di declino dovuta alla prevalenza dell’approccio neoclassico. KRUGMAN (1992) ha sostenuto che gli anni successivi al dopoguerra costituiscono un periodo di alta teoria e che molte analisi rilevanti hanno perso la loro centralità tra gli economisti per la prevalenza di una metodologia di indagine che ha tralasciato i fenomeni non trattabili mediante la forma rigorosa della modellizzazione matematica. 5 Cfr. KINDLEBERGER (1997). Sull’evoluzione pre-industriale dell’economia europea si veda CIPOLLA (2002). 6 Basata sui dati di Maddison: i livelli di reddito pro-capite sono espressi in parità di poteri d’acquisto (secondo il valore dei dollari internazionali).

Crescita e sviluppo nel mondo

251

A partire dal Seicento l’Olanda ha sostituito l’Italia al “centro” del sistema economico europeo 7 e la sua supremazia si è protratta fino ai primi decenni dell’Ottocento, quando la leadership mondiale passò al Regno Unito e al suo impero coloniale. L’evoluzione economica del Novecento è stata dominata dagli Stati Uniti che hanno sostituito i precedenti colonizzatori inglesi come primaria potenza economica mondiale. Gli sviluppi recenti fanno intravedere un declino relativo degli Stati Uniti ed una ascesa della Cina, dell’India e di altri paesi asiatici “emergenti” 8. La Tab. 13.2 mostra l’evoluzione dei tassi di crescita del Pil pro-capite di diversi paesi ed aree economiche dalla metà del Novecento al periodo immediatamente precedente alla crisi finanziaria (esplosa nel 2007: cfr. cap. 19). Il periodo a cavallo della Seconda Guerra Mondiale è stato dominato dalle potenze vincitrici (Usa e Urss, in particolare). Negli anni 1950-1960 si assiste ad una forte crescita dei paesi europei, in particolare Germania ed Italia, e alla contemporanea esplosione dello sviluppo giapponese che dura per tutti gli anni ’60. Dagli anni ’60 agli anni ’80 si assiste ad un vigoroso processo di crescita delle tigri asiatiche e ad un rallentamento della crescita, soprattutto a partire dagli anni ’80, dell’Europa, degli Stati Uniti e del Giappone (questo ultimo paese era stato caratterizzato da tassi superiori al 3% fino alla fine degli anni ’80, prima di entrare in una lunga stagnazione). Dagli anni ’90 in poi la crescita europea, statunitense e giapponese si fa sempre più modesta, mentre, a partire dagli anni ’80, si osserva il decollo della Cina e di altri paesi asiatici. 9 La performance economica dell’Africa è generalmente scarsa, anche se negli ultimi anni sembra emergere una tendenza al rialzo del tasso di crescita (un fenomeno che comunque non riguarda i paesi più poveri ed è associato a forti disuguaglianze nella distribuzione del reddito e delle ricchezze). Da un punto di vista generale, nel periodo post-bellico l’economia mondiale si è ripresa fino a raggiungere un tasso di crescita medio pro-capite superiore al 3% negli anni ’60; negli anni ’70 è iniziato un graduale declino (con risultati particolarmente negativi per i paesi latinoamericani ed africani negli anni ’80, per la “crisi del debito”), che è ancora in corso in diversi paesi: ad esempio, nel periodo 2000-2006 gli Stati Uniti sono andati appena sopra l’1%, mentre i paesi europei come Italia, Francia e Germania non hanno neanche raggiunto questa soglia; e ciò prima del peggioramento dovuto agli effetti recessivi della recente crisi (dati relativi al periodo più recente, successivo alla crisi globale, saranno illustrati nel cap. 19). L’aumento del tasso di crescita mondiale relativo ai primi anni del nuovo secolo (2,8 % tra il 2000 e il 2006) è imputabile soprattutto alle performance della Cina e di altri paesi emergenti, con processi di crescita trainati dalle esportazioni e con un’importanza crescente della disponibilità di risorse naturali e fonti energetiche (come, ad esempio, nel caso della Russia). Sulla performance dei Bric torneremo alla fine di questo capitolo.

7 Sul declino italiano del Seicento e su temi analoghi riferiti anche ad altri paesi ed epoche storiche si veda CIPOLLA (1989). 8 Sul recente “miracolo economico” di Cina ed India, dopo un plurisecolare declino relativo, si veda HOLSCHER et al. (2010). 9 Come evidenziato dall’elevato tasso medio di crescita economica del continente asiatico, superiore al 5% negli ultimi anni, e da un tasso medio intorno al 10% per la Cina.

Olanda (761)

III

771 496 499 400 – 568 414 566

Francia (727) Regno Unito (714) Austria (707) Germania (688)

888 548 552 400 – 574 422 596

Danimarca (875) Spagna (853) Francia (841) Austria (837)

Regno Unito (974)

993 606 610 476 – 572 421 615

Danimarca (1039) Austria (993) Francia (910) Germania (910)

Italia (1100)

Belgio (1144)

Regno Unito (1250)

Italia (1100)

Belgio (976)

Olanda (2130)

1700

Olanda (1381)

1600

1194 683 610 1202 712 581 420 666

Stati Uniti (1257) Austria (1218) Francia (1135) Italia (1117)

Danimarca (1274)

1953 937 943 2419 742 553 500 870

Belgio (2692) Stati Uniti (2445) Uruguay (2181) Svizzera (2102)

Regno Unito (3190) Nuova Zelanda (3100) Olanda (2757)

Regno Unito (1706) Belgio (1319)

1870 Australia (3273)

1820 Olanda (1838)

2885 1438 1237 4015 1206 638 601 1261

Svizzera (3833) Belgio (3731) Olanda (3424) Danimarca (3017)

Australia (4013)

Stati Uniti (4091)

1900 Regno Unito (4492) Nuova Zelanda (4298)

3457 1695 1488 5233 1618 695 637 1524

Nuova Zelanda (5152) Regno Unito (4921) Canada (4447) Svizzera (4266) Danimarca (3912) Argentina (3797)

1913 Stati Uniti (5301) Australia (5157)

4554 1969 2144 6838 2122 894 813 1958

Nuova Zelanda (6300) Australia (6166) Germania (5403) Canada (5368) Svezia (5180)

Svizzera (6397)

Regno Unito (6856)

1940 Stati Uniti (7010)

10169 4315 5575 14560 4309 1525 1335 3726

Stati Uniti (15030) Svezia (13011) Danimarca (12686) Canada (12050)

Svizzera (16904)

Emirati Arabi (24552)

Kuwait (30695)

1970 Qatar (32573)

21048 7689 6829 29956 7002 5172 1662 7215

Singapore (26162) Canada (24951) Danimarca (24898) Australia (24343)

Irlanda (27801)

Norvegia (27867)

Hong Kong (29481)

Stati Uniti (31049)

2006

Legenda: i livelli di reddito pro-capite sono espressi in parità dei poteri di acquisto secondo il valore dei dollari internazionali “Geary-Khamis” nell’anno 1990. I numeri romani da I a VIII indicano la graduatoria dei primi otto paesi al mondo per reddito pro-capite nei diversi secoli, a partire dal 1500 (sotto il nome del paese, in parentesi tonde, è indicato il livello del Pil pro-capite). Per quanto riguarda la Russia, ci si riferisce ai territori della ex URSS. Per “altri paesi occ.” si intendono: Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Fonte: elaborazioni su dati MADDISON (2006).

Europa occ. Europa orientale Russia Altri paesi occ. America Latina Asia Africa Pil mondiale

VIII

VII

VI

V

Danimarca (738)

Belgio (875)

II

IV

1500 Italia (1100)

I

Tabella 13.1. – Ascesa e declino delle nazioni dal 1500 in poi

Crescita e sviluppo nel mondo

253

Tabella 13.2. – Tassi di crescita percentuali del Pil pro-capite delle principali aree economiche, dal secondo dopoguerra agli anni prima della crisi finanziaria 1940-1949

1950-1959

1960-1969

1970-1979

1980-1989

1990-1999

2000-2006

2.23 – 3.92 – 0.69 0.14

3.46 8.49 6.14 1.87

4.71 3.55 6.17 2.20

2.83 2.91 3.09 2.23

1.72 1.73 2.14 2.69

1.19 1.54 1.13 1.88

0.97 0.79 0.78 1.87

Stati Uniti

2.76

1.74

3.40

2.50

2.41

1.95

1.30

Giappone

– 3.74

8.50

12.26

3.55

3.36

0.75

1.19

“NIC” Corea del Sud Hong Kong Singapore Taiwan

– 4.88 – – – 3.20

4.55 3.64 – 0.15 4.51

6.63 7.06 7.16 7.25

9.81 7.20 8.84 9.70

9.51 6.23 4.88 8.13

5.34 2.18 4.69 6.18

3.96 3.77 2.31 2.53

“BRIC” Brasile Russia India Cina

3.28 2.24 – 0.90 – 1.56

3.29 2.91 1.58 5.32

2.25 3.24 1.21 0.77

6.00 1.61 0.31 3.35

0.05 1.06 3.53 7.29

0.93 – 4.05 4.10 6.90

0.78 7.59 5.33 10.97

Asia

Europa: Francia Germania Italia Regno Unito

– 1.83

3.87

3.98

3.08

3.22

3.02

5.21

America Latina

2.71

2.04

2.23

3.19

– 0.56

1.38

1.35

Africa

0.85

1.64

1.99

1.16

– 0.47

0.04

2.12

crescita mondiale

0.77

2.67

3.08

2.06

1.37

1.33

2.81

Legenda. I tassi di crescita pro-capite sono espressi in parità dei poteri di acquisto secondo il valore dei dollari internazionali “Geary-Khamis” nell’anno 1990. Per quanto riguarda la Russia, ci si riferisce ai territori della ex URSS. Nella colonna “1940-1949”, il tasso riferito alla Cina è stato calcolato sul periodo 1938-1950. Sempre in riferimento alla colonna “1940-1949”, i dati relativi all’Asia, all’America Latina, all’Africa e alla crescita mondiale sono calcolati sul periodo 1940-1950. In corrispondenza di ciascuna colonna, i tre tassi di crescita più elevati del decennio sono stati riportati in corsivo. Fonte: Elaborazioni su dati MADDISON (2006).

La Cina, in particolare, ha superato meglio di altri i problemi economici legati alla recente crisi, anche grazie all’impiego delle risorse accumulate per stimolare la – ancora scarsa – domanda interna, ritornando a crescere con tassi elevati (nonostante il rallentamento più recente) e apparendo come una potenza economica di importanza sempre maggiore, nell’ambito di una tendenza del “centro” del sistema economico mondiale a spostarsi verso oriente. La crescente rilevanza del continente asiatico emerge anche dalla Fig. 13.1: Cina e India tornano a rappresentare una quota preponderante della produzione mondiale (come peraltro si era già verificato fino all’inizio dell’Ottocento). I legami dei paesi asiatici “emergenti” (soprattutto della Cina) con alcuni paesi africani (per approvvigionamento di materie prime, acquisto di

254

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

terreni, costruzione di infrastrutture, etc.) forniscono una spiegazione, almeno parziale, della recente crescita di questi ultimi 10. Figura 13.1. – Cina, India ed economie occidentali 60 50 40 30 20 10 0

1

1000

China/World Western Europe/World

1500

1700

1820

1870

1950

India/World US/World

1973

2001

2006

China + India/World Japan/World

Nota: quote percentuali del Pil (dati di Maddison) sul totale mondiale. Fonte: HOLSCHER et al. (2010).

13.2. Problemi e politiche per lo sviluppo Nella prima parte del Ventesimo secolo, l’opera di Schumpeter ha offerto notevoli avanzamenti nell’indagine teorica sulle problematiche dello sviluppo economico, evidenziando la rilevanza degli aspetti storici nell’evoluzione economica e la necessità di un approccio dinamico per l’analisi di lungo periodo. Il lavoro di CLARK (1940) ha aggiunto a questi approfondimenti teorici una ampia base di dati e di indagini quantitative volte ad evidenziare le differenze tra paesi con redditi elevati e paesi che non presentavano le dinamiche dei sistemi capitalistici avanzati. La sua analisi dei tre settori prevalenti nelle diverse fasi dello sviluppo – l’agricoltura (primario) nelle prime fasi, l’industria (secondario) successivamente ed i servizi (terziario) nello stadio finale – è stata ripresa nel successivo approccio “strutturalista” ed ha avuto numerose conferme empiriche, di tipo sia temporale che sezionale. In relazione alle applicazioni di tipo temporale, in cui l’incidenza dei tre settori – ad esempio in termini di occupati – è posta in relazione, per un dato paese, con il tempo (cfr. Fig. 13.2, dove “% occ.” è la percentuale di occupati in ciascuno dei tre settori sul totale), risulta che l’agricoltura è il settore più importante nel 1° stadio (caso dell’Italia subito dopo la seconda guerra mondiale), l’industria nel 2° stadio (l’Italia a partire dal boom economico dei primi anni ’60 per almeno due decenni), i servizi nel 10 Ciò, in prospettiva, può essere anche interpretato come una conseguenza di un’estensione spaziale dello sviluppo capitalistico che, mano man che il “centro” si sposta verso oriente, tende a creare una nuova “semiperiferia”, inglobando nuovi paesi nei processi di accumulazione e ridefinendo la configurazione complessiva della divisione internazionale del lavoro.

Crescita e sviluppo nel mondo

255

3° stadio (l’economia italiana a partire dagli anni ’80). Dell’analisi di Clark sono però più interessanti non le caratteristiche statiche dei tre stadi, quanto piuttosto cause, modalità e conseguenze dei passaggi da uno stadio all’altro: ad esempio, i processi d’industrializzazione 11 in Italia negli anni ’50 e ’60 oppure la progressiva terziarizzazione dagli anni ’80 in poi. Figura 13.2. – La legge dei tre settori % occ. S

I

A 1°



3° t Y/pop

Con riferimento al secondo tipo di investigazioni empiriche (cross-section), approccio per cui il livello di sviluppo (reddito pro-capite, Y/pop) prende il posto del tempo quale variabile indipendente (sull’asse delle ascisse della Fig. 13.2) e le osservazioni afferiscono a vari paesi, possiamo in via esemplificativa analizzare le caratteristiche attuali dei vari paesi del mondo. Pertanto i paesi ancora specializzati in agricoltura e nel settore primario (1° stadio) sono molti paesi africani ed alcuni dell’America latina; i veri paesi industriali (2° stadio) sono ormai i paesi emergenti (i Bric e molti altri), mentre i paesi più avanzati – ad esempio quelli dell’area Ocse 12 – sono chiaramente nel 3° stadio, in quanto hanno incidenze del terziario, sull’occupazione (ma anche sul valore aggiunto), in genere superiori all’80%, anche se paradossalmente continuano ad essere definiti “paesi industriali” 13. Questa indagine ha dato luogo ad una serie di 11 Industrializzazione che negli anni del boom economico (fine anni ’50 e primi anni ’60) aveva coinvolto soprattutto il “Triangolo industriale” (Milano, Torino, Genova), con forti immigrazioni dalle altre regioni d’Italia (mentre altri italiani continuavano ad emigrare in altri paesi, in Europa o in altri continenti). In quel periodo, lo Stato aveva cercato di insediare stabilimenti industriali in altre aree, anche del Mezzogiorno, che però spesso restavano “cattedrali nel deserto”, ossia non riuscivano ad indurre uno sviluppo auto-propulsivo attraverso le attività indotte (sul ruolo delle imprese pubbliche e a partecipazione statale in Italia si rinvia al cap. 3 e sui problemi del Mezzogiorno al cap. 20). Negli anni ’70, l’industrializzazione è invece stata più diffusa sul territorio, coinvolgendo la cosiddetta “Terza Italia” (soprattutto Nord-est e regioni adriatiche), sfruttando uno sviluppo di tipo “endogeno” incentrato non tanto sugli investimenti esterni di grandi imprese industriali (del Nordovest, estere o statali), ma piuttosto sulle piccole e medie imprese industriali locali. 12 Come tutte le leggi, anche quella di C. Clark presenta delle eccezioni. Ci sono paesi, ad esempio, in cui la curva dell’industria non declina così rapidamente dopo aver toccato il massimo. È il caso della Germania, in cui la specializzazione industriale si mantiene robusta (sopra la media dei paesi avanzati, considerato il livello di sviluppo). Una situazione simile è presentata, all’interno dell’Italia, da alcune province della Lombardia e del Veneto (nonostante l’impatto su diversi comparti industriali della lunga crisi degli ultimi anni). 13 Il settore primario (agricoltura, allevamento, pesca, etc.) rappresenta meno del 5% di occupati in questi paesi.

256

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

lavori, di tipo sia empirico che teorico, volti ad approfondire le connessioni tra le trasformazioni strutturali delle economie ed i gradi di sviluppo dei diversi paesi. Un altro filone, già presente nei primi studi sullo sviluppo economico, ha invece indagato i fenomeni del sotto-sviluppo. Il contesto storico era quello del secondo dopoguerra, dal quale molti paesi uscivano con settori produttivi distrutti ed infrastrutture devastate, che fu caratterizzato dagli sforzi economici volti alla ricostruzione post-bellica (ad esempio, il Piano Marshall a sostegno dei paesi europei) e da un processo di “decolonizzazione” che faceva emergere l’arretratezza economica di ampie aree del pianeta, come in Africa, Asia e America del Sud. Alcuni studi hanno allora proposto interpretazioni dello sviluppo e del sottosviluppo, cercando di individuare le cause del mancato avvio dei percorsi di crescita in alcuni contesti (povertà diffusa e miseria, problemi sanitari ed elevata mortalità, analfabetismo, conflitti e guerre, etc.). In generale, la crescente specializzazione produttiva che è alla base delle dinamiche di sviluppo avviene in società che diventano sempre più complesse dal punto di vista dell’organizzazione economica e della stratificazione sociale. Questa crescente complessità economica e sociale, dovuta alla progressiva divisione del lavoro ed all’introduzione di innovazioni tecniche ed organizzative, è generalmente associata a disparità più o meno marcate nella distribuzione del reddito e della ricchezza, all’interno dei paesi e tra paesi diversi 14. Le disuguaglianze sono quindi una caratteristica che accompagna lo sviluppo economico, anche se con gradi diversi e con conseguenze non univoche sulla crescita, sia se consideriamo le dinamiche interne ai diversi Paesi, sia se consideriamo uno scenario mondiale. I contributi che si sono occupati più da vicino dei problemi dello sviluppo e della transizione da una fase di sottosviluppo ad una fase di sviluppo hanno analizzato gli aspetti che riguardano la trasformazione strutturale dei sistemi economici, seguendo orientamenti teorici diversi e, quindi, concentrandosi sul ruolo di diversi fattori. Una delle teorie più rilevanti in questo ambito è quella degli “stadi lineari di crescita” di Rostow (1960) 15. Secondo questa impostazione il processo di sviluppo passa (necessariamente) attraverso cinque stadi: (i) la società “primitiva” o “tradizionale”, prevalentemente agricola, caratterizzata da un sistema economico che produce ciò che viene consumato e da istituzioni e consuetudini piuttosto stabili; (ii) una fase di preparazione al processo di sviluppo, con aumento degli scambi, attività commerciali, aumento del risparmio e degli investimenti rischiosi, etc.; (iii) la fase del decollo (take off), in cui il saggio di investimento continua ad aumentare, generando un aumento del prodotto pro-capite, la diffusione delle infrastrutture di trasporto e comunicazioni, forme di innovazione tecnologica ed organizzativa; (iv) la fase della “maturità” della struttura economica, caratterizzata da istituzioni che consentono l’autoalimentazione dei processi di sviluppo, con la comparsa di nuovi settori e tecniche produttive più avanzate; (v) l’ultima fase è quella della “produzione del consumo di massa”, con un reddito che continua a crescere e che consente anche interventi redistributivi. I fenomeni di trasformazione del sistema economico nei processi di sviluppo sono stati, inoltre, alla base delle teorie “strutturaliste” o dello sviluppo dualistico ed, in particolare, del modello di LEWIS (1954). Si tratta di un modello con due settori economici: un settore “tradizionale”, tipicamente l’agricoltura, caratterizzato da un eccesso di manodopera (in corrispondenza del salario di sussistenza), e un settore “avanzato”, caratterizzato da accumulazione di capitale. L’accumulazione di capitale nel settore avanzato consente aumenti di produttività 14 Una condizione che ha caratterizzato l’evoluzione sociale ed economica nel tempo e che tutt’oggi è palese è quella della “povertà nell’abbondanza” e cioè della coesistenza di enormi ricchezze concentrate nelle mani di pochi individui e di ampie fasce della popolazione mondiale in condizioni di estrema povertà. 15 Un’analisi simile è stata proposta da GERSCHENKRON (1962).

Crescita e sviluppo nel mondo

257

mediante l’impiego di manodopera (retribuita con un salario superiore a quello di sussistenza) proveniente dal settore agricolo (che, per ipotesi, è caratterizzato da una produttività del lavoro nulla) 16. Una caratteristica rilevante del suo modello è che il processo di sviluppo, inteso come fase di industrializzazione, una volta avviato tende ad autoalimentarsi: la crescita del settore avanzato (tipicamente l’industria) può procedere grazie ai bassi salari, che comunque continuano ad attrarre lavoratori dal settore tradizionale (ad esempio dalle campagne), fin quando esiste un ampio serbatoio di manodopera (con salari di sussistenza). Questi processi terminano quando il passaggio di lavoratori dall’agricoltura al settore avanzato esaurisce l’eccesso di manodopera e la produttività marginale nel settore agricolo non è più nulla. Da un punto di vista di politica economica, lo Stato può avere un ruolo positivo nelle fasi iniziali del processo di sviluppo quando il tasso di risparmio non tende ad aumentare automaticamente 17. Nonostante i suoi limiti interpretativi, il modello di Lewis ha avuto un notevole successo e ha contribuito a spiegare i processi di sviluppo caratterizzati dall’accumulazione di capitale nel settore industriale e dal declino relativo del settore agricolo; il modello, originariamente ideato per interpretare lo sviluppo economico italiano degli anni ’50, può fornire una valida interpretazione anche dei processi di crescita dell’economia cinese. In generale, le teorie “strutturaliste” hanno fornito delle interpretazioni teoriche ed empiriche dei cambiamenti della struttura settoriale dell’economia e dei connessi processi di urbanizzazione dovuti all’eccesso di manodopera nelle campagne 18. Una posizione simile rispetto all’opportunità dell’intervento pubblico per avviare un processo di industrializzazione, inteso come innesto dello sviluppo economico, è quella di ROSENSTEIN-RODAN (1943). Secondo questo autore, sono i rendimenti crescenti a permettere lo sviluppo economico e lo Stato, favorendo l’accumulazione di capitale attraverso un aumento del tasso di risparmio, può permettere il superamento del circolo vizioso “risparmio scarso – bassa crescita” e condurre l’economia verso il circolo virtuoso “risparmio elevato – crescita sostenuta” (big push). Una volta superata una soglia critica, il processo di sviluppo si mette in moto e tende ad avviarsi verso un circolo virtuoso di “causazione cumulativa” (MYRDAL, 1957), ovvero un processo di auto-alimentazione per il quale l’accumulazione di capitale favorisce un’accumulazione ulteriore, anche attirando capitali esteri. La possibilità di uscire da una condizione di sotto-sviluppo ed intraprendere un percorso virtuoso di sviluppo non dipende solo dalle condizioni dell’offerta, ma anche da quelle della domanda, come sostenuto nell’ambito della teoria dello “sviluppo equilibrato” (NURSKE, 1965). Il circolo vizioso della povertà ha dunque una doppia faccia: da una parte, lo sviluppo è impedito dalla scarsità di risparmio a causa del basso reddito complessivo, a sua volta dovuto alla scarsa produttività del lavoro, che dipende dai limitati investimenti in beni capitali che de16 È il caso delle imprese industriali italiane del Nord-ovest che, negli anni ’50, si sviluppavano grazie ai salari bassi, garantiti dal “serbatoio” di manodopera proveniente dal Mezzogiorno e dalle altre regioni (lavoratori disposti a spostarsi per un salario solo un poco più alto di quello di sussistenza percepito nelle campagne), ed alla produttività crescente, potendo così competere con le imprese industriali degli altri paesi europei. 17 Secondo LEWIS (1954) il tasso di risparmio passa da circa il 5% a circa il 20% del reddito nelle fasi iniziali dei processi di sviluppo che sono stati osservati storicamente. 18 Un’interpretazione “strutturalista” dei processi di sviluppo è quella di CHENERY, SYRQUIN (1975), i quali presentano un’analisi empirica alla ricerca delle regolarità (pattern) di sviluppo delle strutture economiche ed istituzionali che, a partire da condizioni di arretratezza, permettono ai nuovi settori industriali di sostituire l’agricoltura come motore del processo di sviluppo. Anche il modello di HARRIS-TODARO (1970) descrive un processo di cambiamento strutturale caratterizzato da un fenomeno di migrazione rurale-urbana (sulla base dei differenziali di reddito tra attività agricole ed attività industriali) che può condurre anche a sovraffollamento e disoccupazione nelle città.

258

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

rivano dalla scarsità del risparmio; dall’altra parte, il basso livello degli investimenti è dovuto alle aspettative negative degli imprenditori, che a loro volta dipendono dalla ristrettezza del mercato, causata da una bassa capacità di spesa della popolazione e, quindi, da una bassa produttività del lavoro e così via. L’intervento pubblico deve essere quindi orientato al raggiungimento di un livello “socialmente ottimale” dell’investimento complessivo 19. Una proposta diversa è quella suggerita dalla teoria dello “sviluppo in disequilibrio” (HIRSCHMAN, 1968). Secondo Hirschman, uno dei problemi principali del sottosviluppo riguarda la carenza di imprenditorialità, piuttosto che di capitali; di conseguenza, le politiche per lo sviluppo dovrebbero essere orientate alla promozione delle condizioni che incentivano l’iniziativa imprenditoriale 20. Alcuni contributi hanno approfondito gli aspetti internazionali nell’ambito dei quali i paesi intraprendono o meno dei percorsi di sviluppo, come nel caso della “teoria della dipendenza” (PREBISCH, 1950). Secondo questa teoria, il sistema economico mondiale si divide in un centro, costituito dai paesi avanzati con alto reddito, e una periferia, costituita dai paesi meno sviluppati e sottosviluppati che, nel sistema di divisione internazionale del lavoro, forniscono materie prime e prodotti necessari per le produzioni più avanzate effettuate nei paesi-centro. I paesi periferici si trovano in una situazione di dipendenza rispetto ai paesi-centro, sia perché la periferia funge da mercato di sbocco per le tecnologie obsolete dei paesi avanzati, sia perché la specializzazione produttiva della periferia consiste nell’esportazione di materie prime e prodotti funzionali allo sviluppo dei paesi avanzati; col connesso problema della tendenza al peggioramento delle ragioni di scambio internazionali di questi prodotti 21. Infine, l’economia dello sviluppo si è occupata del problema dell’estrema povertà di alcuni paesi con l’obiettivo di individuarne le cause e suggerire delle possibili misure per uscire dalla trappola del sotto-sviluppo. Secondo SACHS (2005), la “fine della povertà” può diventare un obiettivo raggiungibile se gli sforzi per rimuovere gli ostacoli allo sviluppo sono supportati da un impegno finanziario dei paesi avanzati che, secondo quest’analisi, avrebbero la possibilità concreta di procedere in questa direzione 22. Secondo SYLOS LABINI (2007) è invece preferibile ricorrere ad “aiuti reali” (farmaci ed interventi sanitari, diffusione dell’istruzione, formazione 19 Infatti, le politiche per lo sviluppo dovrebbero essere orientate a superare i vincoli che si presentano sia dal lato dell’offerta che della domanda, con un intervento coordinato dal settore pubblico, in grado di superare il problema del sotto-investimento che scaturisce dalle decisioni decentralizzate di agenti privati; agenti che, considerando nei loro programmi di massimizzazione del profitto il rendimento “privato” e non quello “sociale”, sottovalutano gli effetti positivi delle “economie esterne” per l’economia considerata nel suo complesso (cfr. ROSENSTEIN-RODAN, 1943). 20 Invece di intervenire con un grande programma centralizzato di investimenti pubblici, lo Stato dovrebbe attivare un processo di sviluppo (di disequilibrio) incentivando gli investimenti nei settori con maggiori connessioni (linkages) “a monte” e “a valle”, sfruttando le economie esterne implicite nelle strutture industriali. Al ruolo cruciale del fattore organizzativo-imprenditoriale nei processi di sviluppo sono pure stati dedicati gli studi dell’economista italiano G. Fuà (le cui analisi ben si addicono all’interpretazione dello “sviluppo endogeno” della Terza Italia). 21 Lavori empirici successivi hanno mostrano che una tale tendenza – messa in discussione dai critici di Prebisch – può essere rilevata, soprattutto se si esclude dall’analisi il prezzo del petrolio (DIAKOSAVVAS, SCANDIZZO, 1991). La struttura gerarchica dello sviluppo capitalistico su scala mondiale individuata nell’analisi di Prebisch funge allora da limite allo sviluppo autonomo dei paesi periferici; di conseguenza, le politiche proposte in questo ambito di ricerca sono orientate a superare la dipendenza della periferia dal centro attraverso, ad esempio, la sostituzione delle importazioni, il sostegno dell’industria nazionale e il limite all’ingresso di capitali stranieri. 22 Il superamento di questo grave problema, raggiungendo l’obiettivo di “relegare la povertà nella storia”, sarebbe un passo in avanti in un percorso storico di progresso umano che ha visto in passato l’abolizione della schiavitù e la fine del colonialismo (SACHS, 2005).

Crescita e sviluppo nel mondo

259

di esperti agricoli ed industriali, etc.) più che ad “aiuti finanziari” che tendono a disperdersi, ad esempio, per problemi di corruzione. Oltre che dall’effettiva disponibilità finanziaria degli aiuti nei paesi sviluppati, lo sviluppo dei paesi meno sviluppati dipende dalla struttura della divisione internazionale del lavoro e dalla possibilità di superare relazioni di dipendenza economica, finanziaria e tecnologica, al fine di intraprendere percorsi autonomi di sviluppo in un contesto di cooperazione internazionale. Ricordiamo infine che all’inizio del nuovo secolo, nel 2000, le Nazioni Unite hanno fissato degli obiettivi – i Millenium Development Goals (MDGs) – da raggiungere entro il 2015, inclusi il dimezzamento della povertà (ossia della popolazione mondiale che vive con meno di un dollaro al giorno, la riduzione della popolazione afflitta da fame e denutrizione, l’estensione delle disponibilità di acqua potabile, il miglioramento della salute (specie le condizioni sanitarie di madri e bambini, con una più efficace lotta all’Aids) e dell’istruzione, la promozione dell’eguaglianza di genere e lo sviluppo sostenibile 23. Nel 2016 è partita la nuova strategia delle Nazioni Unite, la “Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”. I Sustainable Development Goals comprendono 17 obiettivi prioritari, inerenti a: Povertà, Fame, Salute e benessere, Istruzione, Eguaglianza di genere, Acqua, Energia pulita, Lavoro decente e crescita economica, Industria e innovazione, Riduzione delle diseguaglianze, Città sostenibili, Consumo responsabile, Azioni per il clima, Vita marina, Vita terrestre, Pace e giustizia, Partnership per gli obiettivi.

13.3. Indicatori dello sviluppo e delle disuguaglianze L’indicatore più utilizzato per misurare il livello di sviluppo di un paese è il Pil, o reddito, pro-capite. Anche ammesso che sia un buon indicatore del grado di sviluppo, occorre precisare due questioni: (i) il concetto di reddito relativo; (ii) qual è l’unità di misura. Quanto alla prima questione, occorre ovviamente tener conto delle dimensioni relative dei vari paesi, ad esempio in termini demografici; per esempio l’Italia era in passato tra le prime sei o sette 24 potenze economiche mondiali per Pil assoluto (e per questo apparteneva al G-7); ma già queste graduatorie si modificano rapidamente nel tempo e purtroppo negli ultimi vent’anni (in particolare nell’ultimo decennio) l’Italia ha progressivamente perso posizioni. In termini relativi è però necessario rapportare il Pil (o reddito) assoluto alla dimensione demografica dei vari paesi, calcolando il reddito pro-capite: in questo caso, l’Italia è ormai superata da una trentina di paesi nel mondo. Riguardo al secondo quesito, oltre all’usuale distinzione tra Pil nominale (ai prezzi correnti) e Pil reale (a prezzi costanti), la cui dinamica è la variabile tipicamente utilizzata per quantificare la crescita economica di un Paese, nei confronti internazionali occorre correggere anche per le distorsioni provocate dall’andamento dei tassi di cambio; per questo motivo si usano spesso grandezze “a parità di poteri d’acquisto” (purchasing power paraties, PPP). Negli ultimi decenni, anche per i paesi più sviluppati alcuni indicatori hanno mostrato una divaricazione tra crescita quantitativa e benessere sociale 25. La misurazione del grado di svi23 Secondo lo “Human Development Report 2018”, circa 1,45 miliardi di persone di 103 paesi si trovano in una situazione di “povertà multidimensionale” (pari al 26,5% degli abitanti di tali paesi); il 48% vive nell’Asia meridionale e il 36% nell’Africa Sub-Sahariana; il 48% dei “poveri multidimensionali” sono bambini da 0 a 17 anni di età. 24 Ora non più, secondo i dati del 2017 di fonte FMI (2018) (a parità di potere d’acquisto), essendo oltre il decimo posto, superata ormai da tutti i Bric (Cina al 1° posto), oltre che da Usa, India e Giappone (2°, 3° e 4°) e dai tre maggiori paesi europei (Germania, Francia, Regno Unito). 25 Ad esempio, secondo il “paradosso di Easterlin”, all’aumentare del reddito la felicità umana aumenta fi-

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L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

luppo può in realtà prendere in considerazione diversi aspetti, aggiuntivi rispetto al semplice reddito pro-capite, quali l’aspettativa di vita, l’alfabetizzazione e la diffusione dell’istruzione; è questo il caso dell’“indice di sviluppo umano” proposto dalle Nazioni Unite. Lo Human Development Index (HDI), che dovrebbe misurare la “human poverty” come contrapposta alla “income poverty”, è un numero compreso tra 0 e 1 (dove 1 è il valore massimo), calcolato come media geometrica di tre indici: aspettativa di vita, un indicatore dell’istruzione (anni medi d’istruzione) e lo stesso reddito nazionale lordo pro-capite (come proxy di uno standard di vita dignitoso) 26. In generale, la correlazione tra il livello del reddito pro-capite e il benessere sociale tende ad essere elevata, anche se utilizzando misure alternative al Pil emerge che alcuni paesi presentano livelli di benessere sociale non direttamente (o pienamente) imputabili alla crescita economica quantitativa 27. Considerando assieme il Pil pro-capite e l’indice di sviluppo umano (Tab. 13.3), emerge – al di là della buona correlazione tra le due variabili 28 – che alcuni paesi mostrano un livello di sviluppo “umano” superiore rispetto a quello “economico” (come nel caso dell’Australia, della Nuova Zelanda, dell’Irlanda e di altri paesi) e viceversa 29. L’Italia figura al 28° posto nella classifica in termini di HDI, si caratterizza per un’aspettativa di vita alla nascita molto elevata (oltre 83 anni), una “scolarizzazione attesa” (calcolata al primo anno di scuola) di oltre 16 anni, un reddito medio pro-capite di circa 35 mila dollari (espressi in PPP) 30. Un altro aspetto importante da considerare sono i profondi squilibri nelle opportunità delle persone, in relazione alle disuguaglianze di reddito, istruzione, salute, accesso alla tecnologia e esposizione agli shock. Dal 2010 viene calcolato lo “inequality-adjusted” HDI, al fine di catturare le diseguaglianze nella distribuzione dello sviluppo umano all’interno dei paesi. Quando si considerano le disuguaglianze nella distribuzione (di reddito, salute, istruzione) il valore dell’indice di sviluppo umano diminuisce: nel 2017 il dato globale di HDI di 0,728 diventa 0,582 (IHDI). Le differenze fra i due indici sono molto ampie e vanno dal 3,6% (Giappone) al 45,3% (Comoros). A livello globale la disuguaglianza di reddito contribuisce maggiormente alla disuguaglianza generale (misurata dall’indice IHDI), seguito da istruzione e aspettativa di vita. I paesi con l’HDI più elevato subiscono, in generale, una perdita minore nel passaggio allo IHDI. Nella Tab. 13.3 (ultima colonna) sono riportate le differenze fra i due indici nei paesi selezionati.

no ad un certo punto, dopodiché inizia a diminuire, secondo una relazione ad “U rovesciata” (EASTERLIN, 1974, 2001). Diverse possono essere le cause di questo fenomeno (dalla presenza di beni di consumo “posizionali”, alla distribuzione del reddito e alla complessiva organizzazione economica della società), così come diversi sono i possibili suggerimenti per orientare la crescita economica verso obiettivi di benessere collettivo. 26 Per maggiori dettagli, si veda UNDP (1990). L’HDI fu introdotto nel 1990 su spinta di A. Sen ed altri economisti. 27 Come sostenuto, ad esempio, nel rapporto della Commissione STIGLITZ-SEN-FITOUSSI (2009). Alcune posizioni ancor più radicali, come quelle propugnate dai teorici della decrescita (Latouche è il più noto esponente), sostengono che una maggiore crescita economica non fa necessariamente aumentare il benessere. 28 Infatti, l’HDI dipende per un terzo dal Pil pro-capite; inoltre, gli investimenti in istruzione, sanità, etc., che influiscono sui rimanenti due terzi dell’HDI sono costosi e richiedono delle risorse finanziarie, di natura pubblica e/o privata; di conseguenza, tendono ad essere più elevati in presenza di un maggiore Pil pro-capite. 29 Secondo il rapporto 2018, nel periodo 1990-2017 la regione con la maggiore crescita di HDI è stata quella Sud Asiatica (+ 45,3%), seguita da quella Est Asiatica e Pacifica (+ 41,8%), mentre molto inferiore è stato l’aumento nella regione Sub-Sahariana (+ 34,9%); naturalmente i paesi OECD, che avevano già raggiunto un elevato livello di sviluppo, hanno avuto l’incremento minore (+ 14,0%). 30 L’Italia in termini di Pil procapite si colloca 3 posizioni indietro rispetto alla graduatoria con HDI.

Crescita e sviluppo nel mondo

261

Tabella 13.3. – Indice di sviluppo umano, sviluppo economico e disuguaglianze (2017)

Paese 1 2 3 4 5 6 7 7 9 10 11 12 13 14 15 16 17 19 20 21 22 22 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 38 39 41 41 44 45 46 47 49 50 51 52 53 60 64 67 68 73 74 77 78

Norvegia Svizzera Australia Irlanda Germania Islanda Hong Kong Svezia Singapore Olanda Danimarca Canada Stati Uniti Regno Unito Finlandia Nuova Zelanda Belgio Giappone Austria Lussemburgo Israele Korea Francia Slovenia Spagna Repubblica Ceca Italia Malta Estonia Grecia Cipro Polonia Emirati Arabi Uniti Slovacchia Arabia Saudita Lettonia Portogallo Cila Ungheria Croazia Argentina Russia Montenegro Bulgaria Romania Bielorussia Iran Turchia Serbia Albania Cuba Messico Bosnia e Herzeg. Venezuela

Indice di ScolarizAspettativa sviluppo zazione di vita umano attesa alla nascita (HDI) (a) 0,953 0,944 0,939 0,938 0,936 0,935 0,933 0,933 0,932 0,931 0,929 0,926 0,924 0,922 0,920 0,917 0,916 0,909 0,908 0,904 0,903 0,903 0,901 0,896 0,891 0,888 0,880 0,878 0,871 0,870 0,869 0,865 0,863 0,855 0,853 0,847 0,847 0,843 0,838 0,831 0,825 0,816 0,814 0,813 0,811 0,808 0,798 0,791 0,787 0,785 0,777 0,774 0,768 0,761

82,3 83,5 83,1 81,6 81,2 82,9 84,1 82,6 83,2 82,0 80,9 82,5 79,5 81,7 81,5 82,0 81,3 83,9 81,8 82,0 82,7 82,4 82,7 81,1 83,3 78,9 83,2 81,0 77,7 81,4 80,7 77,8 77,4 77,0 74,7 74,7 81,4 79,7 76,1 77,8 76,7 71,2 77,3 74,9 75,6 73,1 76,2 76,0 75,3 78,5 79,9 77,3 77,1 74,7

17,9 16,2 22,9 19,6 17,0 19,3 16,3 17,6 16,2 18,0 19,1 16,4 16,5 17,4 17,6 18,9 19,8 15,2 16,1 14,0 15,9 16,5 16,4 17,2 17,9 16,9 16,3 15,9 16,1 17,3 14,6 16,4 13,6 15,0 16,9 15,8 16,3 16,4 15,1 15,0 17,4 15,5 14,9 14,8 14,3 15,5 14,9 15,2 14,6 14,8 14,0 14,1 14,2 14,3

Scolarizzazione media (b)

Reddito pro-capite (c)

12,6 13,4 12,9 12,5 14,1 12,4 12,0 12,4 11,5 12,2 12,6 13,3 13,4 12,9 12,4 12,5 11,8 12,8 12,1 12,1 13,0 12,1 11,5 12,2 9,8 12,7 10,2 11,3 12,7 10,8 12,1 12,3 10,8 12,5 9,5 12,8 9,2 10,3 11,9 11,3 9,9 12,0 11,3 11,8 11,0 12,3 9,8 8,0 11,1 10,0 11,8 8,6 9,7 10,3

68.012 57.625 43.560 53.754 46.136 45.810 58.420 47.766 82.503 47.900 47.918 43.433 54.941 39.116 41.002 33.970 42.156 38.986 45.415 65.016 32.711 35.945 39.254 30.594 34.258 30.588 35.299 34.396 28.993 24.648 31.568 26.150 67.805 29.467 49.680 25.002 27.315 21.910 25.393 22.162 18.461 24.233 16.779 18.740 22.646 16.323 19.130 24.804 13.019 11.886 7.524 16.944 11.716 10.672

Graduatoria in reddito procapite meno graduatoria in HDI (d) 5 8 18 8 13 13 2 9 –6 5 3 10 –2 13 10 18 6 9 0 – 13 13 8 2 12 7 11 3 3 10 20 4 12 – 27 1 – 26 8 2 13 3 10 19 3 19 13 2 18 3 – 14 18 23 43 –6 16 20

Graduatoria in HDI meno graduatoria in IHDI (e) –1 –2 –4 –7 –2 5 – 14 1 – 10 0 2 0 – 11 –3 10 3 1 16 2 0 –6 –8 1 11 – 12 11 –4 5 3 –8 –1 5 .. 10 .. 2 –7 –7 8 4 –6 1 3 –1 1 9 3 –4 –3 7 .. – 13 –2 –4

segue

262

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

79 Brasile 80 Macedonia 85 Algeria 86 Cina 86 Ecuador 88 Ucraina 89 Perù 90 Colombia 95 Tunisia 108 Libia 113 Filippine 113 Sud Africa 115 Egitto 116 Indonesia 116 Vietnam 118 Bolivia 120 Iraq 123 Morocco 130 India 136 Bangladesh 137 Congo 142 Kenia 144 Zambia 146 Cambogia 147 Angola 149 Nepal 150 Pakistan 157 Nigeria 158 Ruanda 159 Mauritania 161 Madagascar 162 Uganda 164 Senegal 165 Togo 167 Sudan 168 Afghanistan 168 Haiti 170 Costa d’Avorio 171 Malawi 173 Etiopia 174 Gambia 175 Guinea 176 Congo 179 Eritrea 180 Mozambico 181 Liberia 182 Mali 183 Burkina Faso 184 Sierra Leone 185 Burundi 186 Ciad 187 Sudan del Sud 188 Rep. Centroafricana 189 Niger

0,759 0,757 0,754 0,752 0,752 0,751 0,750 0,747 0,735 0,706 0,699 0,699 0,696 0,694 0,694 0,693 0,685 0,667 0,640 0,608 0,606 0,590 0,588 0,582 0,581 0,574 0,562 0,532 0,524 0,520 0,519 0,516 0,505 0,503 0,502 0,498 0,498 0,492 0,477 0,463 0,460 0,459 0,457 0,440 0,437 0,435 0,427 0,423 0,419 0,417 0,404 0,388 0,367 0,354

75,7 75,9 76,3 76,4 76,6 72,1 75,2 74,6 75,9 72,1 69,2 63,4 71,7 69,4 76,5 69,5 70,0 76,1 68,8 72,8 65,1 67,3 62,3 69,3 61,8 70,6 66,6 53,9 67,5 63,.4 66,3 60,2 67,5 60,5 64,7 64,0 63,6 54,1 63,7 65,9 61,4 60,6 60,0 65,5 58,9 63,0 58,5 60,8 52,2 57,9 53,2 57,3 52,9 60,4

15,4 13,3 14,4 13,8 14,7 15,0 13,8 14,4 15,1 13,4 12,6 13,3 13,1 12,8 12,7 14,0 11,0 12,4 12,3 11,4 11,4 12,1 12,5 11,7 11,8 12,2 8,6 10,0 11,2 8,6 10,6 11,6 9,7 12,4 7,4 10,4 9,3 9,0 10,8 8,5 9,2 9,1 9,8 5,4 9,7 10,0 7,7 8,5 9,8 11,7 8,0 4,9 7,2 5,4

7,8 9,6 8,0 7,8 8,7 11,3 9,2 8,3 7,2 7,3 9,3 10,1 7,2 8,0 8,2 8,9 6,8 5,5 6,4 5,8 6,3 6,5 7,0 4,8 5,1 4,9 5,2 6,2 4,1 4,5 6,1 6,1 3,0 4,8 3,7 3,8 5,3 5,2 4,5 2,7 3,5 2,6 6,8 4,0 3,5 4,7 2,3 1,5 3,5 3,0 2,3 4,8 4,3 2,0

13.755 12.505 13.802 15.270 10.347 8.130 11.789 12.938 10.275 11.100 9.154 11.923 10.355 10.846 5.859 6.714 17.789 7.340 6.353 3.677 5.694 2.961 3.557 3.413 5.790 2.471 5.311 5.231 1.811 3.592 1.358 1.658 2.384 1.453 4.119 1.824 1.665 3.481 1.064 1.719 1.516 2.067 796 1.750 1.093 667 1.953 1.650 1.240 702 1.750 963 663 906

2 9 –5 –9 15 24 3 –4 7 – 12 –7 – 23 – 15 – 19 14 5 – 53 –5 –5 9 –5 16 3 3 – 16 12 – 14 – 20 11 – 13 20 13 –2 14 – 25 0 6 – 22 14 –1 4 – 11 12 –9 4 9 – 16 –7 –2 4 – 15 –1 3 –2

– 17 3 –9 5 –7 20 –2 – 12 –7 .. 5 – 17 – 10 4 8 –4 3 .. –1 –1 6 –1 –6 14 –2 5 –1 –6 0 –3 5 5 –1 1 –1 7 –7 –1 5 6 –4 2 6 .. 2 4 1 3 –1 3 –1 –1 –1 3

Note: (a) numero di anni di scuola attesi per un bambino del primo anno di scuola; (b) numero medio di anni di istruzione per la popolazione con almeno 25 anni; (c) espresso in dollari internazionali e PPP; (d) un valore negativo significa che il paese è collocato meglio in graduatoria in termini di reddito procapite rispetto alla graduatoria in termini di HDI; (e) la differenza fra HDI e IHDI (inequality-adjusted HDI) è dato dal costo in termini di sviluppo umano dovuto alle disuguaglianze (su salute, istruzione e reddito). Fonte: Human Development Report 2018, UNDP.

Crescita e sviluppo nel mondo

263

Analisi statistiche di Kuznets, risalenti agli anni ’50, hanno individuato una forma ad “U rovesciata” della relazione tra disuguaglianza dei redditi e livello del reddito pro-capite: in altre parole, le disuguaglianze (misurate dal coefficiente di Gini) sembrano aumentare nelle prime fasi di sviluppo, ma da un certo punto in poi – superata una certa soglia di reddito pro-capite – cominciano a decrescere. La spiegazione è che nelle fasi iniziali dello sviluppo, tipiche delle economie pre-industriali, la fascia di popolazione più ricca investe il proprio capitale, favorendo da un lato l’accumulazione e l’industrializzazione, ma dall’altro lato incrementando ulteriormente la propria ricchezza e facendo così aumentare le disuguaglianze; disuguaglianze che rimangono temporaneamente stabili nelle società industriali, ma che nelle fasi finali dello sviluppo, caratteristiche delle società post-industriali, cominciano a decrescere, anche per l’azione redistributiva dello Stato (tassazione e Welfare state). E’ anche vero però che le analisi di Kuznets risalgono ad oltre mezzo secolo fa, quando in molti paesi avanzati, quasi tutti quelli occidentali, si adottavano non solo politiche keynesiane a sostegno della crescita ma anche politiche redistributive, attraverso le spese ed i trasferimenti del Welfare State (cap. 3). La successiva adozione di politiche neoliberiste e la crisi del modello universale di Welfare State hanno implicato, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, un nuovo ed evidente peggioramento nella distribuzione del reddito all’interno dei paesi, con il fattore lavoro penalizzato rispetto al fattore capitale 31. Tra i lavoratori, sono stati soprattutto quelli meno qualificati (gli unskilled) a veder peggiorare la propria posizione lavorativa, non solo a causa delle nuove politiche pubbliche, ma anche per il progresso tecnico e per l’impatto della globalizzazione (cfr. par. 14.3). Ma come si può valutare l’impatto della globalizzazione sulla distribuzione dei redditi a livello globale? Qui il discorso si complica perché, accanto alla riduzione degli squilibri nel mondo tra i Paesi, grazie al rapido sviluppo delle economie emergenti (cfr. cap. 14), si è appunto assistito ad un peggioramento della distribuzione – di reddito e ricchezza – interna ai paesi, specie di quelli occidentali avanzati. Negli ultimi anni ha suscitato interesse l’analisi di MILANOVIC (2016), che, analizzando l’andamento della dinamica mondiale dei redditi reali pro-capite rispetto ai percentili di partenza, ha ottenuto una rappresentazione grafica simile alla silhouette di un elefante (cfr. Fig. 3.3). Il punto A (sulla testa dell’elefante) rappresenta la mediana dei redditi globali nel mondo: metà della popolazione mondiale sta meglio e metà sta peggio. È proprio la metà che sta peggio (escludendo i paesi più poveri), nonché i percettori poco sopra la mediana 32, che hanno visto nel periodo considerato (1988-2008) un netto miglioramento del proprio reddito pro-capite (si guardino le percentuali di crescita sull’asse delle ordinate), grazie ai progressi delle classi medie di Cina, India e altri paesi emergenti (soprattutto asiatici). Il punto B, attorno all’80esimo percentile della distribuzione dei redditi, rappresenta la situazione delle classi sociali medio-basse nei paesi avanzati (Ue, Usa, Giappone): queste in un ventennio non hanno avuto alcun miglioramento e sono state le vere perdenti della globalizzazione. Il punto C (la cima della proboscide) rappresenta invece la situazione delle classi più ricche dei paesi avanzati, un numero di individui relativamente contenuto (l’1% della popolazione mondiale) 33, che hanno decisamente migliorato la propria posizione (relativa e assoluta). 31 I rapporti tra ineguaglianze, concentrazione della ricchezza e prospettive della crescita economica sono al centro dell’analisi recente di PIKETTY (2014), che si basa su un’estesa evidenza empirica relativa a molti paesi e lunghi intervalli temporali. Tra l’altro, Piketty mostra nella sua opera che la riduzione delle disuguaglianze (ipotizzata nella parte decrescente della curva di Kuznets) era cessata già negli anni ’50. 32 Sono proprio i percettori di redditi mediani (attorno al punto A) che hanno beneficiato del maggior incremento del reddito reale pro-capite: attorno all’80% in vent’anni. 33 Ma ben il 12% dei cittadini americani sono in questa fascia (accanto ad un numero significativo di europei, giapponesi ed australiani).

264

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

Figura 13.3. – Guadagno relativo di reddito pro-capite reale per livello di reddito globale, 19882008 (lo “elefante” di Branko Milanovic”) 100

Guadagno cumulato di reddito reale (%)

90 A

80 70

C

60 50 40 30 20 10 0

B 0

10

20

30

40

50

60

70

80

90

100

Ventile/percentile della distribuzione globale del reddito

Fonte: HARVARD UNIVERSITY PRESS BLOG (2016)

Come si possono raggruppare tutti i paesi del mondo per livello di sviluppo? Il Rapporto 2018 “World Economic Situation and Prospects” (WESP) delle Nazioni Unite utilizza diverse classificazioni di paesi. La principale distingue, sulla base delle condizioni economiche di base, tre gruppi: i) i paesi sviluppati, ii) le economie in transizione e iii) le economie in sviluppo. Inoltre, si ricorda che, a parte un sottogruppo di “paesi esportatori di petrolio”, il termine “economie emergenti” è riferito essenzialmente ad alcuni paesi a medio reddito del secondo e terzo gruppo che sono integrati nel sistema finanziario globale. Del primo gruppo fanno parte tutti i 28 paesi dell’Unione Europea (distinguendo i 13 che hanno aderito dopo il 2004), altri paesi europei (Islanda, Norvegia e Svizzera), Stati Uniti e Canada e, infine, Australia, Giappone e Nuova Zelanda. Al gruppo delle economie in transizione 34 appartengono i paesi del sud-est europeo (Albania, Bosnia e Herzegovina, Montenegro, Serbia e Macedonia) nonché i paesi della CIS (la “Comunità di Stati Indipendenti”, ossia paesi gravitanti fino al 1990 sull’economia sovietica: Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Georgia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Moldova, Russia, Tajikistan, Turkmenistan, Ukraina e Uzbekistan). Dei paesi in via di sviluppo – developing countries (DC) – fanno parte tutti i paesi africani, quelli latino-americani e, escludendo il Giappone, tutti quelli asiatici. 34 I paesi in transizione dell’Est Europa hanno subito dopo il 1990 la shock therapy suggerita dal Fmi (invece di seguire riforme più graduali), con conseguente più o meno lunga “transitional recession”; terapia basata su liberalizzazioni e introduzione forzata del mercato (a volte con rialzi dei prezzi e comparsa della disoccupazione), privatizzazioni (delle imprese statali), internazionalizzazione (con attrazione di Ide, joint ventures, etc.). Cfr. MARELLI, SIGNORELLI (2010a).

Crescita e sviluppo nel mondo

265

Una seconda classificazione adottata in tale rapporto considera il reddito pro-capite, adottando le soglie proposte dalla Banca Mondiale che distingue: i) i paesi a basso reddito (meno di 1.005 dollari annui), ii) i paesi a reddito medio-basso (fra 1.006 e 3.955 dollari), iii) i paesi a reddito medio-alto (fra 3.956 e 12,235 dollari) e iv) i paesi a reddito elevato (oltre i 12.235 dollari annui). Inoltre, un gruppo di paesi viene definito come “paesi meno sviluppati” sulla base di una serie di indicatori (incluso il reddito pro-capite e indicatori di vulnerabilità) 35. Infine, il Rapporto WESP definisce un gruppo di 39 paesi poveri altamente indebitati (di cui fanno parte soprattutto paesi africani). Si ricorda che delle economie emergenti fanno parte anche i paesi che già negli anni ’60 erano definiti “newly industrialised countries” (Nic’s), tra cui le famose “tigri asiatiche”. Sono i paesi la cui crescita negli ultimi due o tre decenni è stata molto spinta, a volte un multiplo di quella dei paesi avanzati. Sono stati i driver ed anche i beneficiari principali della globalizzazione (cfr. cap. 14): hanno attratto consistenti flussi di Ide (investimenti diretti esteri) e sono potenze commerciali. I più importanti e noti paesi emergenti sono i “Bric” (a cui dedicheremo il prossimo paragrafo). Altri paesi molto dinamici sono ad esempio gli “Stim” 36 (Sudafrica, Turchia, Indonesia, Messico); nonché gli altri paesi emergenti facenti parte del G-20 (cfr. cap. 12).

13.4. I Bric: crescita, struttura e politiche di quattro economie emergenti I Bric (termine coniato da Goldman Sachs nel 2003) sono il gruppo più importante dei paesi emergenti; solo questi quattro paesi – Brasile, Russia, India e Cina – rappresentano (dati FMI, 2018) oltre il 40% della popolazione mondiale, oltre il 30% del Pil mondiale. Presentano tuttora differenze nei livelli di sviluppo, misurati ad esempio dal reddito pro-capite: considerando i dati della Tab. 13.3, la Russia precede di molto il Brasile (circa 24 e 14 mila dollari rispettivamente), la Cina ha recentemente superato quest’ultimo (circa 15 mila) e, infine, l’India si posiziona su livelli molto inferiori (poco oltre i 6.000 dollari in PPP). La crescita economica dei Bric nell’ultimo ventennio non è però stata omogenea. Cina ed India hanno avuto tassi di crescita (stabilmente) molto elevati, mentre più instabile è risultata la crescita brasiliana e soprattutto quella della Russia; soprattutto i due giganti asiatici hanno mostrato anche una buona resistenza a fronte della crisi globale e della Grande Recessione (2008-2009); difficoltà più diffuse sono state riscontrate nel 2013-2014 ed ancora nel 2018, con cadute delle borse, crisi valutarie, rialzo dei tassi d’interesse 37. Approfondendo ora l’analisi dei singoli paesi, iniziamo con i due “giganti asiatici”. Cina e India 38 mostrano molte somiglianze: – geograficamente sono nello stesso continente ed hanno un lungo confine in comune; – sul piano demografico sono appunto due “giganti” con una popolazione ben superiore ad 1 miliardo ciascuno; – hanno avuto una lunga e ricca storia: sono stati leader mondiali fino all’inizio del 19° secolo; rappresentavano metà del prodotto mondiale dall’anno 1000 per otto secoli; 35 I least developed countries (LDC) comprendono attualmente 47 paesi, in gran parte dell’Africa, ma oltre dieci dell’Asia ed anche Haiti (dell’America centrale). 36 A volte il Sudafrica è però aggregato al gruppo Bric, ridenominato Brics. Peraltro la Turchia negli ultimi anni ha subito un rallentamento economico a causa di varie vicissitudini politiche, economiche e valutarie. 37 Una delle cause di queste difficoltà è stato il tapering annunciato dalla Fed americana a metà 2013 e poi avviato nel 2014; più recentemente per il progressivo rialzo dei tassi, sempre negli Usa (cfr. cap. 17). 38 Su questi due paesi la letteratura è crescente; si vedano in via esemplificativa BALCET, VALLI (2012), MARELLI, SIGNORELLI (2011).

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L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

– il “gradualismo” è un aspetto comune della transizione all’economia di mercato (diversamente dalla “grande trasformazione” e dalla “shock therapy” dell’Est Europa); – entrambi i paesi hanno beneficiato dall’apertura al commercio internazionale e dei flussi di Ide (e le multinazionali sono state importanti fonti di innovazioni), sebbene le liberalizzazioni siano iniziate quando le economie nazionali erano sufficientemente forti per far fronte alla concorrenza estera; – pur importando tecnologia (e know-how), sul fronte delle esportazioni ci sono stati avanzamenti nel modello di specializzazione (solo all’inizio basato su produzioni “labourintensive” a basso costo). Quanto alle differenze tra i due paesi, queste riguardano, oltre alle difformità politiche e nell’assetto istituzionale (l’India è considerata la più grande democrazia del mondo), anche diversità nell’intensità, modalità e tempi dello sviluppo economico. La crescita economica in Cina è stata mediamente del 8% annuo a partire dal 1980 (per quasi quattro decenni), in India del 5% nello stesso periodo. In termini di Pil assoluto, misurato in PPP, la Cina ha ormai superato anche gli Usa. Il “grado di apertura” (misurato dalla somma di import ed export sul Pil) è passato in Cina da poco più del 10% all’inizio degli anni ’80 ad una punta superiore al 60% all’inizio degli anni 2000; in India è aumentato più gradualmente fino a raggiungere il 40% negli anni recenti. I flussi di Ide in entrata sul Pil sono cresciuti in Cina da valori trascurabili all’inizio degli anni ’80, al 4,5% medio annuo a fine anni ’90; in India hanno superato il 2% solo negli ultimi anni 39. In Cina, le liberalizzazioni commerciali e la diffusione dell’iniziativa privata presero avvio nel 1978, con la morte di Mao (fondatore della Cina popolare) e le riforme del nuovo presidente Deng Xiaoping. Nel decennio successivo, si proseguì con la riforma del settore agricolo (1978-84), ma un salto in avanti fu compiuto con la “politica della porta aperta” (che includeva non solo liberalizzazioni ma anche riforme del settore industriale); la politica di apertura si focalizzava sull’attrazione di consistenti flussi di Ide, attraverso la creazione di quattro “zone economiche speciali” (1985-88), localizzate lungo la costa, che fungevano da polo di attrazione anche per le attività manifatturiere domestiche. In due ondate successive, le privatizzazioni e le riforme furono estese a tutti i settori dell’economia (1988-91 e 1992-97); un’ulteriore apertura fu avviata nel 1998 e trovò uno sbocco importante con l’adesione alla Wto nel 2001. “Economia socialista di mercato” è la definizione data per l’attuale sistema cinese, in cui il potere politico è nelle mani di un unico partito, il Partito Comunista, ma l’economia di mercato è ormai diffusa in svariati settori del paese. Elevati risparmi (fino a pochi anni fa il tasso di risparmio superava il 50%) consentivano una forte accumulazione, destinata allo sviluppo industriale, dell’edilizia e delle infrastrutture. I consistenti risparmi hanno consentito anche investimenti finanziari, ad esempio nei titoli del Tesoro Usa (cfr. cap. 12); tali risparmi erano pure funzionali per sopperire alla carenza di servizi pubblici (specie socio-sanitari) e dei sistemi pensionistici. La Cina è oggi la principale potenza commerciale mondiale, per questo sostenitrice del libero scambio (anche a fronte delle tendenze protezioniste del presidente Usa Trump), ed ormai primaria fonte di flussi di Ide destinati a tutti i continenti. Spostare progressivamente la domanda finale dalle esportazioni alla domanda interna è uno degli obiettivi ora riconosciuto dalle stesse autorità cinesi. Altre sfide riguardano il persistente dualismo economico (tra città costiere/zone industriali e campagna); le inefficienze e gli squilibri in taluni comparti (incluso quello bancario); l’impellente fabbisogno energetico; i ricorrenti rischi di inflazione, congestione e inquinamento; i non risolti problemi politici (controllo delle minoranze in regioni quali il Tibet e lo Xinjiang, la richiesta di democrazia a Hong Kong ed in altre città, etc.). 39 Per

un’analisi più approfondita di queste evidenze empiriche, cfr. MARELLI, SIGNORELLI (2011).

Crescita e sviluppo nel mondo

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L’India, fino a non molto tempo fa tra i paesi più poveri al mondo (sono note le campagne “contro la fame” ricorrenti negli anni ’60), è sempre stata, a differenza della Cina, un’economia di mercato, ma fino agli anni ’80 erano diffusi molti controlli sul commercio estero, sugli Ide ed in genere sul settore privato. Le riforme sono iniziate più tardi che in Cina; alcune parziali liberalizzazioni delle importazioni e degli Ide (nella forma di joint ventures), assieme ad alcune prime privatizzazioni, comparvero a metà anni ’80; un rafforzamento delle riforme avvenne nei primi anni ’90, con la riforma fiscale e l’adozione di “zone economiche speciali” sull’esempio cinese; l’apertura al commercio internazionale è però stata più graduale. Rispetto alla specializzazione cinese, essenzialmente manifatturiera (ed all’inizio la Cina si basava soprattutto sull’assemblaggio di componenti anche importate), l’India ha puntato maggiormente sui servizi: per semplificare, la Cina produceva (soprattutto all’inizio) prevalentemente hardware (computer, elettronica, prodotti anche high-tech) e l’India invece software. Ciò deriva dall’attenzione riservata in India alla R&S ed all’istruzione superiore (mentre quella di base è più diffusa in Cina). Tra i problemi più impellenti che l’India deve affrontare ci sono le inefficienze dell’apparato burocratico, le carenze di infrastrutture ed alcuni persistenti dualismi, per esempio nel mercato del lavoro o nella struttura sociale. Cina e India sono oramai appaiate in termini demografici (1,4 miliardi di abitanti) ma quest’ultima – anche grazie al maggior tasso di fertilità – ridurrà probabilmente nei prossimi decenni il gap di peso economico rispetto alla Cina. Volgendo ora l’attenzione alla Russia, sono note le vicende storiche: è un paese nuovamente indipendente dal 1991, dopo il collasso dell’ex Unione Sovietica; è tuttora una delle maggiori potenze militari (con un arsenale nucleare preservato). La transizione da un’economia pianificata dal centro e relativamente chiusa ad un’economia di mercato aperta avvenne in tempi rapidi, ma la “transitional recession” è stata piuttosto lunga. Dalla fine degli anni ’90, furono accelerati i processi di privatizzazione ed i flussi di Ide in entrata, ma in diversi settori c’è ancora un ancora forte accentramento, con poca concorrenza (settori dominati da potenti oligarchie in qualche modo associate al potere politico). La crisi del 1997 fu superata abbastanza rapidamente, poi la crescita nel nuovo secolo trasse giovamento dallo sfruttamento e dall’esportazione delle risorse minerarie ed energetiche (in particolare petrolio e gas naturale); la stessa reazione si è verificata dopo la crisi del 2009. A partire dal 2014, le sanzioni occidentali legate alle vicende ucraine e all’invasione della Crimea hanno danneggiato l’economia russa, sospingendola verso una nuova recessione. Inoltre, l’economia russa è sempre fortemente soggetta a shock esterni, specie alle oscillazioni del prezzo del petrolio e delle risorse minerarie. Molto diversa è la situazione del Brasile, tipico rappresentante di un paese fino a poco tempo fa caratterizzato da squilibri macroeconomici e strutturali, poi in rapida crescita a cavallo tra vecchio e nuovo secolo. Abbiamo già osservato che l’iperinflazione degli anni ’80 fu sconfitta nel decennio successivo grazie a programmi “eterodossi” (cfr. cap. 8). All’inizio degli anni ’90 il Brasile fondò il “Mercosur” assieme ad Argentina, Paraguay, Uruguay. Sotto la presidenza Lula (2002-10), c’era stata una decisa apertura economica e conseguente forte crescita. Lo sviluppo aveva tratto giovamento dall’ampia disponibilità di risorse naturali, dalla crescita demografica, dall’accumulazione di capitale. Tuttavia, il paese dovrebbe aprirsi ulteriormente al commercio mondiale in specifici comparti; investire in infrastrutture e nell’istruzione; far fronte ai rischi ricorrenti d’inflazione, migliorare la qualità della vita. Nell’ultimo decennio, inoltre, alcuni shock esterni ed instabilità e conflitti politici interni (in qualche modo legati ad episodi di corruzione) hanno frenato il percorso di crescita. Anche la lotta alla povertà dovrebbe divenire più efficace.

268

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

14

Globalizzazione e politiche commerciali in economia aperta

14.1. La globalizzazione: fasi storiche e driver L’evoluzione economica degli ultimi decenni, a partire dal secondo dopoguerra, è stata caratterizzata da una crescita sostenuta degli scambi commerciali, dei movimenti di capitale e delle migrazioni tra diversi paesi, che ha dato luogo ad una progressiva integrazione economica e finanziaria del sistema internazionale, ovvero ad un processo di “globalizzazione”. Vi sono differenti definizioni di globalizzazione. Quella più semplice la fa coincidere con il fenomeno di crescente interdipendenza tra le economie mondiali, evidenziato dai sempre più ampi flussi di merci e servizi, capitali, persone, idee (know-how). La globalizzazione coinvolge quindi diversi mercati: (i) dei beni e servizi (ossia il commercio internazionale); (ii) dei fattori produttivi: il lavoro (migrazioni); (iii) del capitale produttivo (investimenti diretti esteri e delocalizzazioni); (iv) del capitale finanziario (investimenti di portafoglio); oltre ad interessare anche ambiti extra-economici, per esempio sociali, politici e culturali. La crescente “apertura” dei sistemi economici nei confronti del resto del mondo è dovuta a molteplici fattori, di cui i due più importanti sono: 1) il progresso tecnico, 2) le riforme politiche ed istituzionali. Questi sono i driver principali della globalizzazione. Il primo “driver” si è riflesso in una riduzione progressiva dei costi di trasporto e comunicazione conseguente soprattutto al progresso tecnico; il secondo è stata una tendenza generalizzata verso la “liberalizzazione” del commercio internazionale (che ha prodotto una graduale riduzione delle barriere protezionistiche, ossia dei dazi e delle barriere non tariffarie). Anche i mercati dei fattori hanno mostrano un marcato dinamismo in seguito alle migrazioni di molti individui in paesi diversi da quello di origine, al fine di trovare un lavoro o di migliorare la loro condizione lavorativa. Inoltre, si è osservato un crescente ricorso delle imprese al decentramento produttivo, con la scelta di localizzare in altri paesi alcune fasi produttive o intere filiali; la delocalizzazione avviene in genere attraverso i cosiddetti “investimenti diretti all’estero” (Ide), in gran parte originati dalle “multinazionali”. La globalizzazione degli ultimi decenni non solo ha sostenuto la crescita economica mondiale, ma ha permesso a diversi paesi “in via di sviluppo” (dai Nic ai Bric, agli altri paesi emergenti: cfr. cap. 13) di intraprendere virtuosi processi di sviluppo e di ridurre la povertà. Gli effetti sui paesi avanzati sono stati di diverso tipo e differente segno (cfr. par. 14.3). Proprio per questo, oltre a molti estimatori, questo fenomeno è stato anche criticato ed attaccato (in modo più o meno violento): il movimento “no global” è la manifestazione più appariscente 1. Più 1 In certi casi, le critiche riguardano non tanto il fenomeno in sé, quanto le modalità secondo cui è stata condotta l’apertura internazionale: si rinvia alle note nel cap. 12 sul “Washington consensus”. Nonostante l’opposizione che la “globalizzazione” può trovare sulla sua strada e i seri problemi associati alla sua sostenibi-

270

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

di recente, specie dopo la crisi globale iniziata nel 2008-2009, le opinioni pubbliche hanno assunto, anche nei paesi europei, un atteggiamento, se non di chiusura, di “protezione”, conducendo al crescente successo di movimenti “sovranisti”. Di certo, anche coloro che apprezzano i numerosi benefici che la globalizzazione ha arrecato a molti paesi, auspicano un coordinamento delle politiche economiche, delle regole di funzionamento dei mercati internazionali (non solo commerciali ma anche finanziari) fino ad arrivare ad una nuova governance dell’economia mondiale: idealmente un “governo dell’economia” da contrapporre al “mercato globale”. In assenza di questo coordinamento e di nuove regole, il sistema sarebbe sempre più vulnerabile alle crisi. Tendenze per molti aspetti simili a quelle degli ultimi settant’anni si erano già verificate tra fine Ottocento ed inizio Novecento; non a caso ci si riferisce a questo periodo come “prima globalizzazione”. Storicamente, i diversi paesi hanno sempre commerciato tra di loro, seguendo tuttavia fasi alterne di maggiore apertura o chiusura delle relazioni internazionali, con ricadute importanti sull’evoluzione degli stessi sistemi economici nazionali. In effetti le prime liberalizzazioni risalgono a fine Ottocento, favorendo il commercio internazionale, anche grazie alla stabilità dei cambi (era il periodo del “gold standard”: cfr. cap. 12). Non solo il commercio, ma anche i flussi migratori e gli Investimenti diretti esteri (Ide) si sviluppano velocemente in questo periodo (si veda la Fig. 14.1 riferita all’economia statunitense). I paesi occidentali realizzano una crescita economica e culturale (è il periodo della “belle époque”). Il periodo tra le due guerre mondiali segna invece una fase di involuzione, con forme di protezionismo (in certi casi con strategie del tutto “autarchiche”), svalutazioni competitive, instabilità dei cambi. Figura 14.1. – Le diverse fasi della globalizzazione 12

40

10

30

8 20

6 4

10

2 0 1870

1914 prima fase

0 1950 1980 2000 seconda fase terza fase

immigrati negli USA, (asse destro, milioni) esportazioni/PIL mondiale (asse sinistro) stock di IDE/PIL PVS (asse sinistro) Fonte: DE BENDECTIS, HELG (2002).

La nuova fase di globalizzazione prende avvio negli anni ’50 e prosegue praticamente fino lità (STIGLITZ, 2002; BORGHESI, VERCELLI, 2008), le nuove tendenze “liberalizzatrici” sono perlopiù considerate importanti ed inevitabili poiché accrescono l’efficienza economica e sono una conseguenza della concorrenza internazionale (SALVATORE, 2008).

Globalizzazione e politiche commerciali in economia aperta

271

ad oggi, con uno sviluppo di tutti i fenomeni in esame: commercio, Ide e migrazioni (in alcune analisi, come nella Fig. 14.1, si distingue una terza fase, dagli anni ’80 in poi, quando si aggiunge la liberalizzazione finanziaria). Quali sono le caratteristiche distintive di questa fase, rispetto alla “prima globalizzazione”? Possiamo riassumerle in questi punti: (i) non solo commercio “Nord-Sud” del mondo (nella prima globalizzazione prevaleva tale commercio, di tipo asimmetrico, per cui i paesi industriali importavano materie prime e prodotti agricoli dalle colonie, esportavano manufatti) ma anche di tipo orizzontale (Nord-Nord e più di recente SudSud); (ii) non solo commercio interindustriale (la specializzazione dei beni esportati era in genere diversa da quella delle importazioni) ma anche “intra-industriale”, per cui prodotti del medesimo settore vengono sia importati che esportati (ovviamente conta la differenziazione del prodotto, la diversa qualità, etc.); (iii) crescente ruolo delle multinazionali ma con frammentazione spaziale delle produzioni; (iv) liberalizzazioni finanziarie (dagli anni ’80-’90). Riguardo alla struttura del commercio, è interessante analizzare tre epoche storiche, seguendo KRUGMAN (2009) 2. Nel periodo precedente la Prima Guerra Mondiale il commercio internazionale era caratterizzato da scambi commerciali tra paesi che differivano ampiamente nelle specializzazioni produttive (inter-industry trade): da una parte i paesi più sviluppati (in primo luogo l’Inghilterra) specializzati nei prodotti più “avanzati” (beni manufatti), dall’altra i paesi meno sviluppati specializzati in prodotti agricoli, semilavorati e materie prime (come le colonie dell’Impero britannico). Questo periodo ha visto la predominanza dei vantaggi comparati nella spiegazione degli scambi commerciali (con una struttura prevalente degli scambi “Nord-Sud”). Il secondo periodo riguarda l’aumento sostenuto del commercio internazionale verificatosi dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale: in questo periodo una parte consistente del commercio internazionale ha riguardato in misura crescente lo scambio commerciale tra paesi “simili”, basato su beni “differenziati” prodotti in condizioni di concorrenza monopolistica, come nel settore automobilistico (intra-industry trade) 3. L’ultimo periodo discusso da Krugman riguarda la fase di liberalizzazione dei commerci degli ultimi decenni che ha visto una “frammentazione” della produzione – per cui accanto al commercio si sono diffuse nuove forme di internazionalizzazione produttiva come gli Ide – e, di nuovo, un ruolo centrale per i vantaggi comparati nella spiegazione dei flussi commerciali tra paesi “diversi”: in particolare, si è trattato della delocalizzazione di fasi produttive dai paesi avanzati verso paesi con minor costo del lavoro (si pensi all’ingente flusso di Ide degli Stati Uniti e al ruolo delle multinazionali in Cina) 4. Si noti che sia nella prima globalizzazione, sia nella seconda (e terza), i diversi fenomeni proseguono parallelamente. Per esempio, il commercio (ma più avanti considereremo anche gli Ide) si è sviluppato di pari passo con i flussi migratori. Questi flussi sono a volte considerati un “sostituto” degli scambi commerciali 5, anche se in altri contributi sono state evidenziate 2 Questa

ed altre singole parti di questo capitolo erano state stese da A. Russo già nel libro MARELLI, SIGNO-

RELLI (2010b). 3 Questa fase è stata quindi caratterizzata da un ruolo crescente delle economie di localizzazione (rendimenti crescenti) e una minore importanza dei vantaggi comparati. Si veda anche il successivo par. 14.5. 4 Allo stesso tempo, la strategia dei paesi sviluppati è stata orientata a conservare al loro interno le fasi produttive (con maggior valore aggiunto) che richiedono lavoratori più “qualificati”, ovvero le produzioni con maggior contenuto tecnologico e di capitale umano. 5 Sulla base del modello Hecksher-Ohlin, che vede il commercio internazionale determinato dalle dotazioni fattoriali dei paesi (come causa dei vantaggi comparati), è possibile interpretare le migrazioni come un “sostituto” degli scambi commerciali (MUNDELL, 1957), in quanto il movimento internazionale di lavoratori (al pari di quello dei capitali) riduce le differenze di dotazioni tra paesi e, al contempo, tende ad annullare le motivazioni alla base dello scambio.

272

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

possibili relazioni di complementarietà 6. Una interessante interpretazione del fenomeno della migrazione è quella sviluppata in HARRIS e TODARO (1970): in un contesto caratterizzato da differenze significative di reddito tra “città” e “campagna” – ovvero tra regioni avanzate e altre meno sviluppate – le migrazioni dipendono dai differenziali “attesi” di reddito tra le due aree (e non dal differenziale “effettivo”) 7. Il modello, inizialmente proposto per spiegare il fenomeno della migrazione rurale-urbana, che può verificarsi anche in presenza di disoccupazione urbana (se, appunto, il reddito urbano atteso è maggiore di quello rurale atteso), è stato in seguito impiegato anche in relazione alle migrazioni internazionali. Le interrelazioni tra migrazioni e commercio riguardano strettamente i rapporti tra economie avanzate e paesi in via di sviluppo (Pvs): le importazioni di beni e servizi dai Pvs non necessariamente sono un sostituto dell’immigrazione dai Pvs. La Fig. 14.2 mostra chiaramente che in un periodo di massima espansione della globalizzazione, dal 1990 al 2005 (un anno di poco precedente lo scoppio della crisi globale), sono aumentate sia le immigrazioni nelle economie avanzate sia le importazioni di beni e servizi (rispettivamente riflesse nelle emigrazioni e nelle esportazioni dei Pvs), anche se il commercio rimane il canale principale di collegamento tra le due aree del mondo. Approfondiamo ora il discorso dei diversi driver della globalizzazione. Il primo, il progresso tecnico, è strettamente dipendente dalla diverse “onde” di innovazioni corrispondenti alle diverse fasi della Rivoluzione Industriale. La Tab. 14.1 riporta le diverse “onde lunghe” (quelle chiamate “onde di Kondratieff” da Scumpeter) dal Settecento ad oggi; oltre alle caratteristiche delle innovazioni fondamentali e delle corrispondenti tipologie produttive, riproduce anche le implicazioni per il lavoro, l’istruzione e la formazione. Figura 14.2. – Globalizzazione: immigrazione e commercio (% della forza lavoro e del Pil rispettivamente) 1990 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0

Advanced Economies

Immigration

Imports of goods and services

2005 Developing Countries

Emigration

45 40 35 30 25 20 15 10 5 0

Exports of goods and services

Fonte: IMF, World Economic Outlook, aprile 2007. 6 Infatti la presenza di lavoratori stranieri può stimolare l’espansione della produzione, contribuendo a ridurre i costi di esportazione verso i paesi di origine (costi di informazione, network) e causando un aumento della domanda di prodotti esteri (MARKUSEN, 1983). 7 Una rilevante conseguenza di questa analisi è che i flussi migratori, a partire da un comportamento massimizzante degli individui, possono causare sovraffollamento e un aumento della disoccupazione urbana; inoltre, molti individui saranno impiegati in settori poco produttivi (o nel settore “informale”).

Globalizzazione e politiche commerciali in economia aperta

273

Le ondate di progresso tecnico hanno avuto un impatto rilevante non solo a livello produttivo, ma anche sui costi dei trasporti e delle comunicazioni. La forte riduzione di questi ultimi realizzata nel corso del Novecento è mostrata nella Fig. 14.3. Già all’inizio del secolo hanno cominciato a ridursi i costi di comunicazione via telefono, poi i costi di trasporto marittimo ed anche aereo; solo dagli anni ’60 e ’70, grazie ai prodigiosi progressi nell’elettronica e nell’informatica, si sono drasticamente ridotti i costi dell’elaborazione dati. Ancora più formidabile è stata la facilitazione delle comunicazioni derivante dalla diffusione nell’ultimo ventennio di internet (non mostrata nel grafico). Tabella 14.1. – Le onde della Rivoluzione Industriale Periodo

Onde lunghe di Schumpeter (Kondratieff)

1780-1840 (1^)

Rivoluzione Industriale: produzione di fabbrica

1840-1890 (2^)

Vapore e ferrovie

1890-1940 (3^)

Elettricità e acciaio

1940-1990 (4^)

Produzione di massa e “fordismo” (automobili); chimica e materiali sintetici

1990– (5^)

Microelettronica, computer, internet (ict)

Lavoro, istruzione e formazione Apprendistato e “learning by doing” Specialisti in meccanica, ingegneria civile; istruzione primaria di massa; istituti professionali e tecnici Laboratori di R&S nell’industria R&S su vasta scala, nell’industria e pubblica; istruzione superiore di massa Reti di R&S globali e data networks; istruzione ed addestramento life-time

Fonte: elaborazione da MORRISON (2011).

Figura 14.3. – Progresso tecnico: costi di trasporto e comunicazione 100

Mainframe IBM

80 Digital VAX 60 40 20 PC IBM 0 1915

1925

1935

1945

1955

Telefonata di 3 minuti New York-S. Francisco Telefonata di 3 minuti New York-Londra Telefonata di 3 minuti via satellite

Fonte: DE BENDECTIS, HELG (2002).

1965

1975

Pentium 1985

1995

Trasporto marittimo Trasporto aereo Elaborazione dell'informazione ($ istruzione al secondo)

274

L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

La forte espansione del commercio internazionale non sarebbe però stata possibile senza l’azione del secondo “driver”: le liberalizzazioni commerciali. Queste sono consistite in graduali riduzioni delle barriere tariffarie (la riduzione del dazio medio sulle importazioni in Usa, mostrata nella Fig. 14.4, è solo un esempio); ma anche di quelle non tariffarie, soprattutto grazie agli interventi degli appositi organismi internazionali (il Gatt e poi la Wto: cfr. par. 14.7). Hanno favorito lo sviluppo del commercio anche gli “accordi d’integrazione regionale” (come l’unione doganale della Comunità economica europea) ed anche le politiche di liberalizzazione, ma anche di “export promotion” (cfr. par. 14.6), dei Nic, poi dei Bric, ed in generale dei “globalizers” (ossia dei paesi emergenti molto dinamici anche grazie all’apertura internazionale). Figura 14.4. – Liberalizzazioni commerciali: riduzione dei dazi

Dazio medio in USA (percentuale)

60 50 sulle merci importate

40 30 20 10 su tutte le merci

0

1870 1891 1908 1914 1923 1931 1935 1944 1968 1978 1988

Fonte: DE BENDECTIS, HELG (2002).

14.2. Liberalizzazioni, finanziarizzazione e “global imbalances” Un altro aspetto importante dell’apertura internazionale riguarda i mercati finanziari: l’evoluzione recente ha visto un incremento dei movimenti di capitale e del ricorso ai mercati valutari, con una crescente importanza ed una integrazione internazionale dei settori finanziari, in seguito alla progressiva “liberalizzazione” dei mercati e alla graduale rimozione dei controlli sui movimenti di capitale, soprattutto a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. La Fig. 14.5 mostra che negli anni ’90 vi erano ancora controlli sui movimenti di capitale in diverse aree del mondo (ad esempio Asia, America Latina e Caraibi). Ma anche nei “paesi industrializzati” c’è stata una quasi completa liberalizzazione solo dal 1992-1993. Ricordiamo che il regime di Bretton Woods ammetteva la possibilità di mantenere controlli sui movimenti di capitale (cfr. cap. 12); in ambito europeo, il Sistema monetario europeo non li aveva completamente eliminati (cfr. cap. 16); solo il “Mercato Unico” prevedeva, nell’ambito delle “quattro liberalizzazioni”, anche quella dei movimenti di capitale, da realizzare entro il 1992 (cfr. cap. 15); controlli eliminati del tutto dal Trattato di Maastricht.

Globalizzazione e politiche commerciali in economia aperta

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Figura 14.5. – Liberalizzazione finanziaria

90 elevata

indice di restrizione

80 70 Asia

60 50

America Latina e Caraibi

40 30 20 limitata

Paesi industrializzati

10 0 1973

1977

1981

1985

1989

1993

1997

Fonte: DE BENDECTIS, HELG (2002).

La liberalizzazione finanziaria è stata una del concause della finanziarizzazione dell’economia. Pur essendo la maggior parte delle decisioni di politica economica (fiscale e monetaria) rivolti ai problemi dell’economia reale (produzione, occupazione, etc.), i mercati finanziari sono divenuti cruciali per l’evoluzione dei sistemi economici; anzi, dell’intero sistema economico a livello mondiale. Ormai ogni giorno gran parte delle transazioni in valuta estera si riferiscono a transazioni finanziarie (piuttosto che a scambi commerciali), spesso di tipo speculativo, e sono comunque per lo più transazioni a breve termine 8. Sono proprio i mercati finanziari quelli meglio integrati a livello internazionale, oltre ad essere sempre più ampi e considerati relativamente efficienti; anche se, va aggiunto, il grado di efficienza di tali mercati è stato messo in discussione a seguito della crisi finanziaria esplosa nel 2008 (cfr. cap. 19) 9. Lo scenario nel ventennio prima della crisi sembrava nel complesso favorevole. Si è parlato di Great moderation, con riferimento alla riduzione della volatilità del ciclo economico, al ruolo ed efficacia delle politiche di stabilizzazione, ai bassi tassi d’interesse (grazie a politiche monetarie accomodanti), agli alti rendimenti e rialzi di borsa (soprattutto ai tempi della “new economy”, alla fine degli anni ’90, basata sulla rivoluzione ict e su internet), e all’impatto positivo della stessa globalizzazione. Infatti, il complessivo processo di globalizzazione, come vedremo meglio in seguito, ha consentito a diverse imprese dei paesi sviluppati di produrre a costi più bassi ed ai consumatori 10 di acquistare a prezzi inferiori i prodotti im8 Secondo il Fmi, già nel 2006 solo il 2,2% delle transazioni finanziarie mondiali riguardavano scambi relativi all’economia reale (acquisto e vendita di beni e servizi), mentre il resto degli scambi (quasi il 98%) rivestivano una natura finanziaria o di carattere speculativo (prodotti derivati, mercato dei cambi, operazioni di borsa). 9 Su questo punto c’è dibattito: alcuni osservatori preferiscono parlare di “fallimento dei regolatori”, considerate ad esempio l’impossibilità o incapacità degli organi di vigilanza ad agire, l’esistenza di comparti dei mercati finanziari sfuggenti ad ogni controllo, la presenza di conflitti d’interesse (come nel caso delle agenzie di rating) o di meccanismi d’incentivazione perversi (bonus ai manager legati nella migliore delle ipotesi alla sola performance di breve periodo). 10 Inoltre, secondo STIGLITZ, FITOUSSI (2009), negli ultimi decenni, la politica monetaria statunitense è diventata “endogena” rispetto alla distribuzione del reddito, tesa cioè a supportare elevati consumi ricorrendo al-

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L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

portati dai Pvs, nonché ha permesso alle stesse imprese di ricorrere all’abbondante manodopera dei paesi in via di sviluppo. Il contenimento dei costi di produzione è un elemento importante della Great moderation, che spiega la bassa inflazione nell’ultimo quarto di secolo (specie nei paesi avanzati) 11. Secondo diverse analisi, la liberalizzazione finanziaria dagli anni ’80 in poi è stata però troppo spinta. Liberalizzazioni e deregolamentazioni sono state avviate all’inizio negli Stati Uniti e nel Regno Unito (si veda il cap. 5 per la più generale deregolamentazione in tali economie). Esse erano appunto finalizzate alla rimozione degli ostacoli al funzionamento concorrenziale dei mercati e, in questo modo, all’incremento della loro efficienza. Riguardo al mercato del credito, la tradizionale separazione tra attività bancaria tradizionale e “investment banking” è venuta a cadere, prima negli Usa 12 e poi in altri paesi. La deregolamentazione ha creato profittevoli opportunità d’investimento sia all’interno dei paesi che attraverso investimenti in altri paesi, con orizzonti temporali spostati dal lungo periodo (investimenti produttivi) al brevissimo (movimenti speculativi) 13. Nel nuovo contesto, i capitali potevano defluire rapidamente da un paese, anche per motivazioni non legate ai fondamentali dell’economia in questione. Perfino la fuoriuscita di capitali in cerca di investimenti meno rischiosi (“flight-to-quality”) poteva avvenire (come già osservato nel cap. 12) in maniera rapida e disordinata, con comportamenti imitativi, causando seri problemi di instabilità finanziaria; instabilità quindi dovuta a repentine modificazioni dei flussi speculativi di capitale, con notevoli rischi anche di crisi valutarie e bancarie. Crisi che in realtà sono state abbastanza frequenti nell’ultimo trentennio. Le crisi si sono verificate all’interno degli stessi Stati Uniti: il crollo di Wall Street del 1987, la crisi delle istituzioni “savings&loans” tra fine anni ’80 ed inizio anni ’90, la bolla della new economy scoppiata nel 2001, etc. Altre crisi si sono manifestate a livello internazionale: crisi del debito estero degli anni ’80, crisi dei paesi asiatici del 1997, crisi della Russia del 1998, fallimento della Ltcm (Long Term Capital Management) del 1998, fino a quella recente (2007-2008), di carattere globale. Tra le diverse analisi sulle crisi, REINHART et al. (2012) elencano otto episodi di crisi finanziarie internazionali gravi dal 1870 al 2007; inoltre secondo loro al passare del tempo si affievolisce il ricordo delle passate crisi, preparando così il terreno per la successiva (al presentarsi della nuova crisi è opinione diffusa che “this time is different”: cfr. REINHART, ROGOFF, 2010) 14. Secondo Eichengreen dal 1945 al 1971 c’erano state 38 crisi finanziarie; dal 1973 al 1997, il periodo di maggior liberalizzazione finanziaria, ben 139, di cui 44 nei paesi avanzati. Stiglitz attribuisce la crisi dei paesi del Sud-Est asiatico (Tailandia, Indonesia, etc.) alla liberalizzazione l’indebitamento, rendendo cioè facile l’accesso al credito (credito al consumo, mutui immobiliari sub-prime, etc.) in una situazione caratterizzata da un crescente numero di famiglie con bassi redditi. 11 Solo in specifiche occasioni (ad esempio nell’estate 2008 ed ancora nel 2011), i rincari di materie prime, prodotti alimentari ed energetici hanno causato brevi vampate inflazionistiche in tutto il mondo. 12 Era stato – dopo la crisi bancaria Usa nei primi anni ’30 – il Glass-Steagall Act del 1933 a prevedere una tale separazione, congiuntamente all’importante istituzione di una “Federal Deposit Insurance”. Ebbene queste disposizioni in tema di separazione sono state abrogate nel 1999 dal Gramm-Leach-Bliley Act (su iniziativa del Congresso Usa a maggioranza repubblicana). 13 La deregolamentazione ha favorito lo sviluppo di svariate innovazioni finanziarie, portando alla nascita di nuovi operatori e nuovi strumenti (derivati, hedge fund, private equity fund), anche grazie ad internet (e-commerce, high-frequency trading, automated trading). 14 Reinhart e Rogoff sono anche noti per un altro articolo divenuto famoso, quello relativo agli effetti negativi di un elevato debito pubblico (da loro identificato in una soglia superiore al 90% del Pil) sulla crescita economica. Nonostante le critiche (derivanti anche da errori nella costruzione del database e quindi nel calcolo della soglia citata), pare fondato che un eccessivo debito pubblico penalizzi nel lungo andare la crescita.

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“troppo rapida” dei mercati finanziari, anche se avevano condizioni macroeconomiche sane (equilibrio del bilancio pubblico, bassa inflazione, etc.) grazie alle riforme suggerite dallo stesso Fmi, riforme che avevano in precedenza attirato notevoli quantità di capitali esteri. Occorre infine osservare che negli anni precedenti la grande crisi finanziaria (2007-2008), si erano accentuati i global imbalances. Questi riguardavano in primo luogo gli squilibri delle bilance dei pagamenti, con crescenti disavanzi commerciali negli Usa (superiori al 5% del Pil nel 2008), accompagnati da ampi disavanzi pubblici (per la teoria dei “deficit gemelli” cfr. par. 12.3); gli Usa importavano grandi quantità di beni a basso costo dai paesi emergenti come la Cina, anche per l’eccesso di consumi (risparmio quasi azzerato e debito privato crescente) 15 ed allo stesso tempo esportavano capitali attraverso gli Ide, partecipando così direttamente alla produzione in Cina e in altri paesi (con un ruolo crescente delle “multinazionali”), ma soprattutto collocavano all’estero i propri titoli pubblici (treasury bonds), in gran parte acquistati proprio dai cinesi (col paradosso che il risparmio dei “poveri” finanziava il consumo dei “ricchi”). Infatti la Cina era proprio nella situazione opposta, caratterizzata da crescenti surplus commerciali (anche grazie al mantenimento di un valore estero piuttosto basso della moneta nazionale), tassi di risparmio molto elevati, riserve valutarie sempre più ingenti. In quest’ultima situazione si trovavano anche i fondi sovrani dei paesi del Medio Oriente. Paradossalmente “imbalances” erano presenti perfino all’interno dell’area euro, con la Germania nel ruolo di paese creditore strutturalmente in avanzo commerciale ed i paesi periferici in disavanzo, accompagnato da elevati debiti pubblici e debiti esteri; squilibri che sono da considerare un’altra causa di lungo periodo della crisi dei debiti sovrani (cap. 19).

14.3. L’internazionalizzazione delle imprese e gli effetti della globalizzazione sui paesi maturi Le forme di internazionalizzazione delle imprese sono varie e mutevoli nel tempo. Pur prescindendo da considerazioni extra-economiche 16, possiamo dire che le strategie di internazionalizzazione sono divenute progressivamente più complesse. Le esportazioni sono la strategia più semplice e a basso rischio, sebbene arrechino numerosi benefici alle stesse imprese, rispetto a quelle che operano solo a livello domestico. Infatti, le imprese esportatrici rappresentano (numericamente) una piccola frazione delle imprese del settore al quale appartengono, ma presentano, rispetto alla media del settore, livelli di produttività più elevati (anche prima di accedere al mercato estero), hanno dimensioni maggiori, sono caratterizzate da una più alta intensità di capitale, occupano lavoratori con specializzazione più elevata e pagano salari più elevati 17. Una strategia più avanzata 18 sono gli investimenti diretti esteri, Ide (ossia “Foreign Direct Investment”, Fdi): sono investimenti mediante cui un’impresa di un paese delocalizza attività – produttive o semplicemente commerciali – all’estero oppure acquisisce il controllo o la pro15 Grazie anche ai bassi tassi d’interesse, al credito al consumo, ai mutui subprime, etc.; fenomeni strettamente connessi alla successiva crisi (cfr. cap. 19). 16 In effetti, oltre alle dimensioni economiche e finanziarie, sono rilevanti quelle legali, tecnologiche, ecologiche, culturali, sociali e politiche; tutto ciò influenza il “global business environment” entro cui operano le imprese su scala internazionale (cfr. MORRISON, 2011). 17 Ciò risulta anche dai modelli del commercio internazionale con “imprese eterogenee” (BERNARD et al., 2007; MELITZ, 2003; MELITZ, OTTAVIANO, 2008); partendo dall’osservazione che i settori produttivi si compongono sia di imprese esportatrici che di imprese non esportatrici, essi si focalizzano sul ruolo delle prime come attori fondamentali del commercio internazionale. 18 Una via di mezzo tra esportazioni ed Ide è la produzione su licenza (franchising).

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prietà di un’impresa estera 19. In effetti, questi investimenti “produttivi”, da tenere distinti dagli investimenti di portafoglio (acquisti di azioni o obbligazioni di società estere oppure di titoli sovrani), possono essere effettuati secondo due modalità principali: (i) investimenti greenfield ossia creazione di nuove unità produttive (che in molti casi prevedono la costruzione di stabilimenti o fabbriche ex novo): possono essere una strategia vincente solo nel lungo periodo, a causa dei ritorni non immediati; (ii) acquisizioni o fusioni di imprese (mergers and acquisitions): queste operazioni nel corso del tempo sono divenute prevalenti, rispetto ai “greenfield”). È evidente il ruolo importante giocato in questi processi dalle imprese multinazionali (multinational enterprises, Mne’s). In queste, che sono spesso conglomerati che operano in settori diversificati (ed è a volte difficile identificare il “core business”), la “casa madre” coordina e/o controlla – per diritti proprietari od altri legami strategici 20 – le filiali all’estero. Secondo le Nazioni Unite, nel mondo vi sono circa 80 mila multinazionali, chiamate anche “transnational corportations” (Tnc’s) 21. In molti paesi emergenti le multinazionali possono avviare attività produttive solo nella forma di joint ventures con società domestiche; all’inizio questo era il caso normale per gli Ide in Cina, India, ed altri paesi. Venendo ora alle motivazioni principali che spiegano i flussi di Ide 22, possiamo distinguere tra: – push factors: fattori che nel paese di origine (home country) spingono ad investire all’estero; ad esempio: saturazione del mercato, costi di produzione, pressione fiscale, apparato burocratico e regolamentazione, contesto macroeconomico; – pull factors: fattori che nel paese di destinazione (host country) attraggono gli Ide, come: vicinanza ai clienti, opportunità offerte da nuovi mercati, efficienza nella produzione o minori costi di produzione, prossimità alle risorse, accesso alla tecnologia od a skill particolari, politiche d’attrazione (inclusi vantaggi fiscali) in contrapposizione ad elevate barriere commerciali (nel caso in cui l’impresa volesse semplicemente esportare). Un’altra distinzione importante riguarda la tipologia di Ide; in letteratura i tipi fondamentali considerati sono due 23: i. Ide orizzontali: consistono in delocalizzazioni di (solitamente intere) produzioni, in genere verso altri paesi industrializzati, per scopi di mercato (market-seeking); oppure nell’ingresso in nuovi mercati e/o per la necessità di essere vicini ai clienti esteri 24; 19 Si tratta quindi di flussi internazionali di capitale attraverso cui un’impresa di un paese crea o espande una propria filiale all’estero; ciò implica non solo un impegno finanziario ma anche l’acquisizione di un controllo sull’attività produttiva (KRUGMAN, OBSTFELD, 2007). 20 In termini economici, si ritiene che possa bastare il controllo di almeno il 10% del capitale sociale dell’impresa estera. 21 L’85% delle prime 100 multinazionali (non finanziarie) sono europee, nord-americane o giapponesi; ma nel nuovo secolo si è riscontrato un crescente ruolo dei paesi emergenti. 22 Le spiegazioni teoriche del perché convenga produrre nella stessa impresa (o gruppo societario), ma in diversi paesi, afferiscono a filoni differenziati: dalle teorie della localizzazione a quelle della “internalizzazione” (contrapposta alla “esternalizzazione” di attività o processi produttivi). È spesso citato il paradigma “Oli” (ownership, location, internalization) di DUNNING (2000). 23 Ci possono essere altre tipologie ancora; ad esempio finalità differenti hanno gli Ide “resource-seeking” oppure “technology-seeking”; od anche quelli che sfruttano incentivi fiscali. 24 Dalle ricerche empiriche risulta che questa motivazione è prevalente nei settori con forti economie di scala (mezzi di trasporto, metallurgia e siderurgia, chimico-gomma-plastica), nei settori specialistici (lavorazione dei minerali non metalliferi, alimentare) e nei settori ad alta intensità tecnologica (macchine e apparecchi meccanici).

Globalizzazione e politiche commerciali in economia aperta

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ii. Ide verticali: delocalizzazioni di parti di produzione, in genere verso i Pvs, per sfruttare i vantaggi comparati (si tratta quindi di Ide prevalentemente cost-saving e labour-seeking); prevalenti nei settori più “labour-intensive” (abbigliamento, tessile, legno e mobilio), dove il differenziale di costo del lavoro e la maggiore flessibilità del mercato del lavoro sono importanti. Quali sono vantaggi e svantaggi degli Ide, per i paesi di destinazione (host) e per quelli di origine (home)? La maggior parte delle ricerche empiriche porta a queste conclusioni: – benefici per l’host country: opportunità occupazionali, dirette ed indirette (acquisti effettuati dalle multinazionali presso i fornitori domestici e le imprese locali di servizi), miglioramento degli skill della manodopera locale, vantaggi per i consumatori (diversificazione dei prodotti) e maggior benessere, trasferimento tecnologico e ricadute (spillover) sulle imprese locali (la superiorità tecnologica delle multinazionali si trasmette per imitazione alle imprese domestiche); – costi per l’host country: dipendenza dalle scelte produttive ed organizzative di una società straniera; (in certi casi) sfruttamento della manodopera locale o utilizzo di processi produttivi inquinanti; – benefici per l’home country: possibilità di produrre a costi inferiori e di concentrare la produzione sulle fasi e sulle componenti a più alto valore aggiunto (su questo punto torneremo tra breve); – costi per l’home country: gli studi empirici mostrano che la delocalizzazione riduce l’intensità di lavoro della produzione domestica soprattutto nel caso di Ide verticali o indirizzati verso i Pvs (od i paesi in via di transizione); ma questo è meno vero nel caso di Ide orizzontali o destinati ad altri paesi avanzati. I timori legati alle possibili perdite occupazionali nei paesi di origine hanno portato in diversi paesi avanzati ad opposizioni e lotte contro le delocalizzazioni. In genere, queste proteste non hanno ostacolato i processi spontanei nelle economie di mercato (come abbiamo visto, sempre più liberalizzate e deregolamentate); tuttavia hanno posto all’attenzione dei governi il problema dei costi d’aggiustamento. A questo punto, può essere interessante esaminare gli effetti complessivi della globalizzazione sui paesi maturi (ossia dei paesi avanzati che sono giunti allo stadio della società postindustriale: cfr. cap. 13), tenuto conto dei singoli fenomeni in atto: – commercio estero: l’importazione di beni a prezzi più bassi dall’estero arreca benefici ai consumatori finali (avvantaggiati anche per la maggior diversificazione dei beni), ma le importazioni possono “spiazzare” alcune produzioni nazionali ed anche in questo modo penalizzare l’occupazione 25; – Ide: come abbiamo appena visto, c’è l’opportunità per le imprese nazionali di produrre a costi più bassi all’estero; in questo caso, gli effetti di spiazzamento della manodopera a causa delle delocalizzazioni potrebbero essere più accentuati; – immigrazione: per questi flussi sono stati introdotti in vari paesi controlli all’entrata (ad esempio attraverso il sistema di quote) 26 al fine di evitare lo spiazzamento dei lavoratori 25 Per esempio, la fine dell’Accordo Multifibre nel 2005 (decisa in ambito Wto: cfr. par. 14.7) ha in qualche modo danneggiato l’industria tessile in molti paesi avanzati (che ha subito perdite occupazionali ben prima della Grande Recessione). 26 Questi ostacoli alla mobilità dei lavoratori sono in evidente contrasto con la mobilità dei flussi di capitale (esaminata nel paragrafo precedente). Discorso a parte è quello dei profughi provenienti da paesi colpiti da

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L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

nazionali; studi empirici mostrano però che i flussi migratori non sempre spiazzano i lavoratori autoctoni 27; comunque, pur riconoscendo che gli immigrati regolari con un lavoro arrecano benefici anche al bilancio pubblico (poiché, essendo in età lavorativa, versano allo Stato imposte e contributi, mentre la spesa pensionistica arriverà in futuro), possono esserci effetti redistributivi a sfavore di lavoratori autoctoni in specifici settori. Non va poi dimenticata la difficoltà di riuscire a gestire flussi regolari di migrazione e a contrastare l’immigrazione irregolare. Concentrando infine l’attenzione sui lavoratori dei paesi maturi, possiamo osservare che nell’ultimo mezzo secolo il lavoro – specie unskilled (ossia i lavoratori poco qualificati) – è stato danneggiato a causa di diversi fenomeni, di cui almeno tre attinenti alla globalizzazione (i tre sopra citati: commercio, Ide ed immigrazione) ed il quarto è il cosiddetto “progresso tecnico distorto” (biased technical change) 28. È inoltre un dato di fatto che la globalizzazione si è accompagnata a liberalizzazioni anche nel mercato del lavoro (cfr. cap. 6). L’evidenza empirica mostra per diversi paesi una relazione significativa tra la crescente “globalizzazione”, la riduzione della labour share (quota del reddito nazionale spettante al lavoro) e l’aumento della disuguaglianza tra lavoratori “più qualificati” e “meno qualificati” (IMF, 2007), a causa soprattutto del progresso tecnico 29 Gli studi in questo campo sono ormai numerosi e vanno dagli effetti sulla cosiddetta “stagnazione secolare” a scenari relativi ad un futuro più o meno prossimo in cui il lavoro umano potrebbe essere – in parte significativa – spiazzato dai robot 30. Il dato certo è che i veri perdenti della globalizzazione sono state finora le classi inferiori nei paesi avanzati (si veda il grafico dell’“elefante” di Milanovic nel cap. 13). In realtà c’è il rischio concreto che le condizioni di lavoro dei diversi paesi (dal numero di ore lavorate alle norme a protezione della sicurezza dei lavoratori, dai diritti sindacali alla legislazione ambientale), che influenzano in modo significativo la competizione internazionale tra paesi, possano peggiorare, a causa dei prezzi particolarmente bassi delle esportazioni dei Pvs, avvantaggiati dalla presenza di standard lavorativi (formali ed informali) molto inferiori a quelli dei paesi sviluppati (social dumping). I paesi maturi dovrebbero quindi convincere (attraverso negoziazioni internazionali) i paesi meno avanzati a non ricorrere a pratiche di concorrenza sleale o di social dumping 31. In realtà, i paesi meno sviluppati si sono storicamente inseriti nell’economia internazionale sfruttando i “vantaggi dell’arretratezza” (GERSCHENKRON, conflitti bellici (dall’Africa, dal Medio Oriente o da altre aree), i cui flussi sono pure aumentati nel nuovo secolo. Qui va purtroppo segnalata la carenza di una vera politica migratoria europea. 27 Anzi potrebbero esserci guadagni di efficienza, grazie alle complementarietà nella produzione, specie se gli immigrati sono una risorsa diversa rispetto ai lavoratori nazionali: questo è l’immigration surplus di BORJAS (1995). Comunque alcuni paesi europei preferiscono selezionare i flussi in entrata richiedendo il rispetto di soglie minime per le qualifiche lavorative. 28 Secondo questa interpretazione, le nuove tecnologie hanno comportato l’impiego di lavoratori più qualificati, mentre gli unskilled sono stati spiazzati, con una contrazione salariale, almeno relativa, negli Usa (è noto che dagli anni ’80 c’è stato un peggioramento dei redditi e del benessere degli unskilled) e maggiore disoccupazione in molti paesi europei. 29 Quest’ultimo aspetto, soprattutto per i paesi anglosassoni, sembra però maggiormente riconducibile – più che alle conseguenze del commercio internazionale o alle migrazioni – agli effetti del progresso tecnico distorto, che tende appunto a sostituire lavoro “poco qualificato”, mentre si configura come un “complemento” dell’attività dei lavoratori “maggiormente qualificati” (FEENSTRA, HANSON, 1996, 1999; ACEMOGLU, 2002). 30 Si veda ad esempio RIFKIN (2005). 31 Va però aggiunto che a volte questa motivazione viene addotta allo scopo di sostenere pratiche protezionistiche da parte dei paesi più sviluppati, specialmente in alcuni settori – ad esempio l’agricoltura, ma non solo – che impediscono un pieno accesso ai vantaggi del libero commercio ai paesi meno sviluppati.

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1962) e, quindi, anche condizioni ambientali e di lavoro caratterizzate da minori protezioni 32. Tutti questi timori, rischi e sviluppi giustificano quindi un neoprotezionismo, ossia un ritorno a politiche di chiusura o minor apertura implicante un’inversione rispetto alla globalizzazione dell’ultimo mezzo secolo? Gli argomenti a favore di introdurre un qualche freno alla globalizzazione (sostenuti in passato dai movimenti “no global”) sono vari: conseguenze negative per i lavoratori dei paesi avanzati (spiazzamento, rischi di una “race-to-the-bottom”); incapacità dei paesi poveri di competere con quelli avanzati; perdita di sovranità nazionale (specie a causa degli Ide e dei movimenti di capitale); minacce alla sostenibilità ambientale; sfruttamento dei lavoratori nei Pvs (bassi salari, cattive condizioni lavorative, lavoro minorile). Ad ogni modo, più recentemente in alcuni paesi i governi, sulla spinta di movimenti sovranisti e populisti 33, hanno già optato per strategie più protezionistiche: il caso più evidente è quello dell’amministrazione Trump (cfr. par. 14.7). La maggior parte degli economisti risponde però ancora negativamente alla precedente domanda 34, sebbene molti di loro auspichino una più efficace regolamentazione a livello mondiale. Peraltro, non è superfluo rilevare che economisti come RODRIK (1997) addirittura vent’anni fa si chiedevano se la globalizzazione non fosse stata (già allora) eccessiva. Inoltre, perfino esperti del Fmi riconoscono ora che i processi di globalizzazione sono stati a volte troppo spinti. Riguardo ai temi trattati in questo paragrafo, la conclusione potrebbe essere quella, sempre nell’ottica di un paese maturo, di: – orientare i modelli di sviluppo verso i settori più avanzati tecnologicamente, ad elevato valore aggiunto (delocalizzando eventualmente le produzioni più semplici), mantenendo nell’home country le funzioni superiori (direttive, di supervisione, marketing, design, R&S, etc.); – fondare la competitività internazionale soprattutto su elementi “non di prezzo” (inclusa la qualità e diversificazione dei prodotti): la flessibilità innovativa, incentrata su costanti incrementi di produttività piuttosto che su meri tagli di salari e costi produttivi 35, dovrebbe essere la “via alta” alla competizione internazionale (cfr. par. 21.1); garantendo, allo stesso tempo, la sostenibilità economica di elevati standard lavorativi, sociali ed ambientali; – potenziare la competitività complessiva del paese, per accrescere il grado di attrazione nei confronti degli Ide stranieri in entrata (così da compensare in qualche modo quelli in uscita); occorre quindi una strategia di lungo periodo, poggiante su un insieme di interventi: politiche industriali (ma anche regionali, energetiche, ambientali, etc.), investimenti pubblici in istruzione a diversi livelli e in ricerca scientifica, supporto alla R&S privata, realizzazione e miglioramento di infrastrutture (dai trasporti alle comunicazioni e all’informatica), e così via; – adottare politiche di aggiustamento e redistributive per compensare i lavoratori danneggiati, incluse politiche attive del lavoro per riqualificarli ed inserirli in altre produzioni. 32 D’altra parte, anche gli standard degli attuali paesi sviluppati erano meno “avanzati” in passato ed i paesi meno sviluppati ripercorrono una fase di sviluppo per molti aspetti simile a quella intrapresa precedentemente dai primi. 33 È interessante osservare che i perdenti della globalizzazione sono di solito concentrati nelle zone interne dei singoli paesi e/o più lontane dalle aree metropolitane più sviluppate (cfr. HAKOBYYAN, MCLAREN, 2016, nel caso dell’impatto nel Nafta). Ciò spiega molto bene i risultati elettorali non solo nelle elezioni americane del 2016 (con la vittoria di Trump), ma anche l’esito del referendum sulla Brexit ed i risultati di altre elezioni europee. 34 Anche perché è un’illusione cercare di recuperare una piena sovranità nazionale in un mondo ormai globalizzato (FELTRI, 2018). 35 Si riveda anche il concetto di clup nel cap. 6.

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14.4. Evoluzione del commercio mondiale In questa sezione, presentiamo alcune evidenze empiriche sulle tendenze, di lungo periodo e più recenti, sul commercio mondiale, il primo – più semplice ma tuttora più importante – fenomeno della globalizzazione. Infatti il grado di apertura internazionale di una economia dipende da tre aspetti principali, riconducibili al mercato dei beni, al mercato finanziario e al mercato dei fattori produttivi. Considerando qui il mercato dei beni, osserviamo che negli ultimi decenni molti paesi hanno visto aumentare sia le importazioni di merci dall’estero che le esportazioni di prodotti nazionali verso altri paesi. Una misura semplice del grado di apertura è il rapporto tra la somma delle importazioni e delle esportazioni, al numeratore, e il Pil al denominatore. Un altro modo per capire se esso aumenta nel tempo è confrontare la crescita nel tempo delle due variabili, commercio (trade) e produzione. La Fig. 14.6 evidenzia che in oltre mezzo secolo (dal 1950 al 2005) la crescita in termini reali del commercio internazionale è stata superiore a quella della produzione (Pil) mondiale; il rapporto tra le due variazioni rappresenta l’elasticità del commercio al reddito. Ciò è riscontrabile in ciascun sotto-periodo esaminato; se nel periodo 1973-1990 la differenza tra i tassi di crescita (medi annui) delle due variabili sembrava essersi ridotta, nel periodo 1990-2005 la crescita del commercio è stata più del doppio rispetto alla produzione. Figura 14.6. – Il crescente grado di apertura nel lungo periodo (variazioni % medie annue) Trade

Production

All merchandise 12 10 8 6 4 2 0

1950-63

1963-73

1973-90

1990-05

Fonte: WTO, International Trade Statistics 2006.

In modo analogo, la Fig. 14.7 evidenzia che la maggior crescita del commercio mondiale, rispetto a quella del Pil, si è mantenuta anche nel periodo più recente (2012-16); gli anni immediatamente precedenti (non riportati in figura) sono anomali, in quanto comprendono l’anno della Grande Recessione: nel 2009 la caduta del commercio mondiale è stata maggiore rispetto al Pil. Peraltro, nel periodo 2012-2016 le variazioni delle due variabili sono state quasi identiche, ossia l’elasticità si è avvicinata al valore storicamente basso (considerando i vari decenni dopo la seconda guerra mondiale) dell’unità. Una possibile spiegazione è il ritorno a forme varie di protezionismo, ma vi sono anche fenomeni più strutturali, in particolare il progressivo esaurimento della tendenza espansiva delle reti produttive internazionali 36. Solo dal 36 Per esempio la Cina si sta spostando verso le fasi più a monte delle filiere produttive, producendo in proprio parte dei beni intermedi prima importati abbandonando il ruolo di semplice assemblatore finale di molti prodotti.

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2017-2018 l’elasticità è tornata, seppure non ai livelli pre-crisi, a valori più nella norma (attorno a 1,5) e si prevede che resteranno tali anche nell’immediato futuro. Figura 14.7. – Produzione e commercio mondiali (var. % in volume) 8

7,1

7

6,2

6

4 3

5,1

4,9

5 2,9

2,9

3,1

3,2

3,4

4,7 3,3

2,6

4,3 3

2 1 0 Media Media Media 1991-2000 2001-2008 2012-2016

2017

Prodotto interno lordo (ai tassi di cambio di mercato)

2018

2019

2020

Scambi di merci e servizi

Fonte: Ice (2018), “L’Italia nell’economia internazionale”, Rapporto ICE 2017-2018, Sintesi.

Naturalmente il grado di apertura è diverso da paese a paese, pur essendo aumentato ovunque (per il caso dei Bric si veda il par. 13.4); numerose sono le variabili che lo influenzano, a cominciare dalle politiche più o meno liberiste oppure orientate al protezionismo: una variabile chiave è la dimensione del paese, in quanto gli indici di apertura sono in genere maggiori nei paesi più piccoli 37. Riguardo alla struttura merceologica del commercio mondiale, i manufatti rappresentano ancora il 70% del commercio mondiale, contro solo il 20% del Pil (ancor meno nei paesi più sviluppati, come abbiamo visto trattando della “legge dei tre settori”: par. 13.2). Il motivo è che molti servizi sono locali (si pensi al piccolo commercio, alla ristorazione, a medici, parrucchieri, lavanderie, etc.) o comunque difficilmente tradable (inclusi trasporti, comunicazioni, servizi professionali, assicurazioni e perfino servizi bancari e finanziari); pur essendoci stata nel tempo un’espansione considerevole anche nel commercio di servizi. All’interno dei prodotti manifatturieri, i primi gruppi per valore degli scambi sono computer e prodotti elettronici, meccanica e macchinari, automotive, metalli, prodotti chimici; nel corso del tempo c’è stata una riduzione per prodotti tessili e metalli, mentre più dinamici sono stati i prodotti dell’elettronica e dell’ict. I prodotti agricoli, pur in espansione in termini assoluti, hanno denunciato un arretramento relativo: il loro peso sul commercio totale è dimi37 Un paese grande trova più facilmente nell’economia domestica gli input produttivi od i beni destinati ai consumatori (quindi senza necessità di importarli); inoltre gode di un ampio mercato interno a cui destinare le proprie produzioni (anche senza ricorrere alle esportazioni).

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L’economia mondiale: crescita e globalizzazione

nuito dal 30% degli anni ’60 a meno del 10% 38. Infine i prodotti minerari ed energetici costituiscono il 15% delle esportazioni mondiali. In aggiunta alla composizione merceologica, è rilevante la struttura geografica degli scambi commerciali. Ebbene, nonostante la crescente interdipendenza tra tutte le regioni del mondo, conseguenza della stessa globalizzazione, sembrano tuttora più importanti gli scambi intra-regionali, come mostra la Fig. 14.8. Per esempio un terzo di tutti gli scambi commerciali nel mondo (in questo caso sono esclusi i servizi) sono generati all’interno dell’Ue 39; il 14% all’interno dell’Asia e circa l’8% nel Nord-America 40; invece i flussi tra Asia e Nord-America sono il 9% del totale mondiale, quelli tra Asia ed Europa poco più dell’8%, quelli tra Europa e NordAmerica poco più del 6%; molto inferiori sono le quote degli scambi in altre regioni del mondo (o tra di loro). L’importanza degli scambi intra-regionali deriva non solo dai vantaggi in termini di costi di trasporto e comunicazione, ma anche dai numerosi “regional trade agreements” (cfr. par. 14.7). Figura 14.8. – Flussi commerciali interregionali ed intra-regionali

Fonte: WTO, International Trade Statistics 2007.

Può infine essere rilevante esaminare la situazione relativa dei singoli paesi. Con riferimento alle statistiche più aggiornate 41, nel caso delle esportazioni di merci i primi dieci esportatori (per valore delle esportazioni) erano nel 2017: Cina, Stati Uniti, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Corea (del Sud), Hong Kong, Francia, Italia, Regno Unito 42. I primi dieci importato38 Supera però ancora il 50% per una trentina di paesi al mondo, soprattutto africani; è tuttora quasi il 30% per i paesi dell’America Latina. 39 Incidenza salita a quasi il 35% nel 2017. La figura si riferisce al 2007, ma forniamo qui i singoli dati più aggiornati ed osserviamo che da allora la struttura geografica degli scambi non ha subito grandi cambiamenti (a parte un progressivo incremento dei flussi da e verso Cina ed altri paesi emergenti). 40 Con un peso del 13,8% sul totale mondiale nel 2017 per il solo Nafta (ancora in vita in quell’anno). 41 Riferite al 2017, ma pubblicate in: WTO, World Trade Statistical Review, 2018. 42 Riguardo ai valori (mld. dollari correnti), mentre Usa e Germania erano molto vicine tra di loro (poco so-

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ri di merci sono invece (sempre nell’ordine per valori): Stati Uniti, Cina, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia, Hong Kong, Paesi Bassi, Corea (del Sud), Italia 43. Significativo lo scambio tra Cina e Usa riguardo al primo posto; inoltre, i valori dell’import (oltre 2400 mld. per Usa e 1800 mld. per Cina) e dell’export (quelli riportati sopra) sono un’ulteriore conferma degli opposti “squilibri commerciali” dei due paesi. Si aggiunga peraltro che se si considerasse l’Ue come un’unica potenza commerciale (invece che i singoli paesi membri), essa sarebbe la seconda potenza esportatrice (con un valore di esportazioni di poco inferiore a quelle della Cina) e la seconda importatrice (con un valore di importazioni di circa il 10% minore di quelle Usa). Riguardo all’esportazione di servizi, i primi dieci esportatori erano nel 2017: Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Cina, Paesi Bassi, Irlanda, India, Giappone, Singapore 44. I maggiori importatori di servizi sono invece: Stati Uniti, Cina, Germania, Francia, Paesi Bassi, Regno Unito, Irlanda, Giappone, Singapore, India. L’Ue considerata come aggregato sarebbe di gran lunga prima sia nell’export che nell’import di servizi.

14.5. Teorie degli scambi internazionali e politiche commerciali Le strategie di politica commerciale sono fondamentalmente due (per quanto la realtà sia più variegata e nel mondo ritroviamo molte strategie intermedie, come vedremo nel prossimo paragrafo): – il liberismo mira ad eliminare tutti gli ostacoli al libero scambio tra il proprio paese ed il resto del mondo, – il protezionismo tende invece a proteggere la produzione nazionale (imprese e lavoratori) dalla concorrenza estera. I vantaggi (e gli svantaggi) derivanti dalla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone sono da secoli al centro del dibattito di politica economica. L’atteggiamento rispetto al commercio internazionale varia tra paesi e si è modificato all’interno degli stessi paesi, dando luogo a varie impostazioni di politica commerciale. Le scelte di politica commerciale hanno prodotto diverse configurazioni del commercio internazionale, con periodi di grande crescita degli scambi economici e finanziari (come il periodo a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento, e poi l’ultimo dopoguerra) e altri caratterizzati da minore interscambio (come gli anni successivi alla Grande Depressione). Secondo la dottrina del mercantilismo, che prevalse in Europa tra il 16° e il 17° secolo, un saldo positivo dei conti con l’estero è il fattore su cui poggia la possibilità per i paesi di arricchirsi (il fine era quello di accumulare la maggiore quantità di oro possibile). L’obiettivo delle nazioni è quindi quello di realizzare un sistema produttivo in grado di esportare durevolmente un ammontare di merci maggiore rispetto a quello importato. Per raggiungere questo scopo, il mercantilismo prevedeva un ruolo centrale della politica economica nel sostenere l’industria esportatrice, anche attraverso misure protezionistiche. pra e poco sotto i 1500 mld. rispettivamente), entrambi i paesi erano ormai nettamente staccati dalla Cina (oltre 2300 mld.); il valore delle esportazioni italiane era un terzo di quello Usa. 43 Per l’Italia il valore delle importazioni era leggermente inferiore a quello delle esportazioni, indicazione di un piccolo avanzo commerciale conseguito in quell’anno. 44 Purtroppo in questa graduatoria l’Italia è solo 14.ma; però è 13.ma anche sul fronte dell’import di servizi, con un saldo per i servizi grosso modo in pareggio. Tra i primi esportatori di servizi, è facile spiegare il secondo posto del Regno Unito, grazie ai servizi finanziari ed assicurativi (però con un punto interrogativo riguardo alle prospettive future a causa della Brexit).

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Uno dei pilastri dell’impostazione liberista, che ha sostituito il mercantilismo come dottrina dominante, è la teoria ricardiana dei vantaggi comparati, secondo cui il commercio internazionale conduce ogni paese a specializzarsi nella produzione del bene per il quale ha un vantaggio comparato (rispetto alla produzione di un bene alternativo) 45. In altri termini, il paese che presenta le produttività maggiori in entrambe le produzioni, non produce entrambi i prodotti (come suggerito dalla precedente teoria dei vantaggi assoluti di Adam Smith) ma si specializza nel bene per il quale il vantaggio produttivo rispetto all’altro paese è maggiore; d’altro canto, anche il paese con i livelli di produttività più bassi riesce – grazie ai più bassi salari 46 – ad esportare il prodotto per cui gode di un vantaggio comparato. In questo modo, il commercio internazionale genera vantaggi per entrambi i paesi poiché ognuno esporta la produzione in eccesso (rispetto alla domanda interna) del bene nel quale presenta un vantaggio comparato, importando le quantità dell’altro bene richieste dai propri consumatori (ad un prezzo più basso rispetto a quello di autarchia). Secondo questa visione, la partecipazione al commercio internazionale è sempre vantaggiosa in quanto il libero scambio genera vantaggi per tutti. David Ricardo fu quindi un propugnatore del liberismo negli scambi commerciali (sostenne, ad esempio, l’abolizione del dazio sul grano, che avrebbe garantito maggior benessere ai cittadini e maggiori profitti, accumulazione e crescita del sistema economico). La teoria dei vantaggi comparati da lui proposta ebbe un notevole successo, sostituendo l’impostazione mercantilista come teoria di riferimento per il commercio internazionale e, seppur dopo alcune estensioni e modifiche, ciò vale ancora nei nostri tempi: in particolare, secondo la formulazione di Hecksher-Ohlin-Samuelson, le cause dei vantaggi comparati, che producono le differenti specializzazioni produttive, sono riconducibili alle diverse dotazioni fattoriali dei paesi 47. Quindi, la teoria dei vantaggi comparati aveva, confutando le posizioni del mercantilismo e le misure protezionistiche associate, fatto spazio alla diffusione teorica e pratica di un atteggiamento liberista in molti paesi. La realtà è però diversificata, in quanto diversi altri paesi hanno mantenuto misure protezionistiche a sostegno della propria industria, in alcuni casi anche contribuendo allo sviluppo economico nazionale 48. Anche teoricamente è possibile individuare delle argomentazioni che 45 E ciò anche se si ipotizza che i livelli di produttività per entrambi i beni siano più alti in uno dei due paesi; infatti l’ipotesi originaria di D. Ricardo era quella di due paesi che producono due prodotti con costi diversi (per esempio a causa di differenze tecnologiche che determinano diverse produttività del lavoro). 46 Quando paesi emergenti come la Cina hanno iniziato ad esportare in modo massiccio, alcuni osservatori dei paesi avanzati temevano che potessero spiazzare del tutto i propri produttori, a causa dei loro salari molto più bassi (pari a 1/10 o meno di quelli dei paesi di vecchia industrializzazione), chiedendo quindi misure protezionistiche a loro difesa. In realtà, il vero problema sta nel confronto tra il differenziale salariale ed il differenziale di produttività: se riescono a preservare – grazie anche alla R&S e ad un più elevato capitale umano – una superiorità tecnologica e produttiva, anche i paesi di vecchia industrializzazione possono mantenere un vantaggio competitivo (in certe produzioni). Occorre peraltro aggiungere che la stessa Cina ed altri paesi emergenti stanno velocemente ri-orientando la propria specializzazione verso produzioni hi-tech e a più alto valore aggiunto (ma al tempo stesso stanno cominciando a crescere anche i livelli salariali). 47 Consideriamo due paesi, A e B, che producono due beni, x e y, utilizzando due fattori produttivi, K ed L; la produzione di x è intensiva in K (ovvero, richiede maggiori quantità di K rispetto ad L), mentre la produzione di y è intensiva in L; inoltre, il paese A è relativamente abbondante del fattore K, mentre B del fattore L. Da ciò deriva che il paese A si specializzerà nella produzione di x e il paese B nella produzione di y. 48 Ciò vale ad esempio per l’Inghilterra, massima sostenitrice del libero scambio solo dopo esser divenuta la maggiore potenza industriale al mondo; anche gli Stati Uniti avevano protetto le loro industrie, in un’epoca ancora dominata dalla potenza economica inglese, prima di diventare propugnatori del libero commercio su scala internazionale. Lo stesso processo di sviluppo economico del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale ha beneficiato, in un primo momento, della protezione dell’industria nazionale.

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possono fornire delle valide giustificazioni del protezionismo. LIST (1841) è stato un importante sostenitore del protezionismo con particolare riferimento alla Germania dell’Ottocento: dato il suo stadio “arretrato” di sviluppo, la Germania non era in condizioni di competere alla pari con paesi più potenti, come l’Inghilterra 49. La strada da seguire era allora quella di realizzare una “modernizzazione dall’alto”, attraverso l’intervento pubblico di protezione dell’industria nazionale, prima di poter competere sulla scena internazionale. In questa analisi hanno un ruolo importante i guadagni associati alla diminuzione dei costi all’aumentare della scala di produzione (economie di scala crescenti) 50. Un argomento simile a favore del protezionismo è quello dell’industria nascente sostenuto da J.S. Mill, secondo il quale la superiorità di un paese rispetto ad un altro in un settore produttivo deriva soltanto dal fatto di aver cominciato prima (MILL, 1848). In altre parole, i paesi possono avere un vantaggio comparato potenziale in alcuni settori, ma questi ultimi non possono inizialmente competere con i settori già ben consolidati di altri paesi. Da un punto di vista della politica economica, se un paese protegge le proprie industrie nello stadio iniziale di sviluppo può riuscire a colmare le differenze (capacità, esperienza) con altri paesi o addirittura a superarli 51. La protezione con dazi e tariffe è stata anche sostenuta da Keynes come intervento alternativo alla svalutazione, in riferimento all’Inghilterra, per non danneggiare il suo ruolo centrale nel sistema finanziario internazionale 52. Le misure protezionistiche hanno però dei costi e possono comportare perdite di benessere non compensate da altri vantaggi. Prima di tutto, c’è la perdita di benessere dovuta alla mancata partecipazione al libero scambio: il minor benessere per i consumatori è solo in parte compensato dall’aumento dei profitti dell’industria nazionale e si verifica così una “perdita netta” di benessere per la collettività. Le barriere protezionistiche possono comportare distorsioni della concorrenza e peggiorare l’efficienza allocativa del sistema economico: ad esempio, alcuni individui o gruppi possono intraprendere delle iniziative volte ad ottenere i vantaggi del protezionismo, mediante pressioni sui decisori pubblici (lobbying), non per fini collettivi ma per aumentare i profitti di industrie o settori specifici (rent seeking). Da un punto di vista macroeconomico, l’introduzione di barriere protezionistiche può essere motivata dall’obiettivo di far aumentare la produzione interna e, di conseguenza, l’occupazione. Questo può però avvenire a spese di altri paesi, configurandosi come un’esplicita decisione politica volta a scaricare su altri paesi le difficoltà interne (beggar-thy-neighbour policy). Ciò può comportare successivamente ritorsioni da parte dei paesi che subiscono queste politiche, generando un circolo vizioso di progressiva chiusura verso gli scambi internazionali. Infine, la presenza di barriere protezionistiche non permette di sfruttare appieno la possibilità per i paesi meno sviluppati di immettersi su un percorso di crescita. 49 Intorno alla metà dell’Ottocento circa un quinto del commercio mondiale aveva origine o transitava dalla Gran Bretagna, mentre i suoi abitanti rappresentavano meno del 2% della popolazione mondiale (FOREMANPECK, 1999). 50 Da ciò deriva che le nazioni devono specializzarsi nei settori con costi decrescenti (con conseguenze rilevanti sulla divisione internazionale del lavoro, in quanto i paesi “avanzati” tenderanno ad importare materie prime, semi-lavorati, etc. da altri paesi che, di conseguenza, si specializzeranno in produzioni “meno avanzate”). In termini di politica economica, List sosteneva l’opportunità di proteggere l’industria nazionale ed orientarla verso i settori più “avanzati”. 51 Mentre Mill si riferiva ad alcuni rami produttivi, MYRDAL (1957) ha sostenuto la scelta del protezionismo in riferimento all’intera economia di una nazione (“economia nascente”), in special modo come strategia da suggerire ai paesi in via di sviluppo. 52 Infatti, una svalutazione tende ad indebolire la moneta, dato che può comportare un peggioramento delle aspettative degli operatori ed un conseguente deflusso di capitali (ACOCELLA, 2005).

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Nel dibattito tra liberismo e protezionismo sono state aggiunte altre considerazioni. La teoria dei vantaggi comparati originaria spiegava i vantaggi statici che emergono dal libero commercio internazionale, ossia nel passaggio da una situazione di autarchia al libero scambio (ovvero mediante un’analisi di “statica comparata”). Questa impostazione tralascia la presenza di importanti effetti dinamici del commercio internazionale 53. Le nuove teorie del commercio internazionale sottolineano l’importanza dei rendimenti crescenti che, ad esempio, spiegano i guadagni di produttività più elevati in alcuni settori (KALDOR, 1971). La teoria della “crescita endogena”, sviluppatasi a partire dagli anni ’80, ha proposto diversi modelli per l’analisi delle economie di scala nei processi produttivi, evidenziando come la specializzazione in alcuni settori (con elevato contenuto tecnologico e/o di capitale umano) possa avere effetti moltiplicativi in termini di sviluppo. Un’interessante interpretazione del ruolo dei vantaggi comparati in un mondo caratterizzato da rendimenti crescenti è quella proposta da KRUGMAN (2009): da una parte, ci sono i vantaggi comparati à la Ricardo che si fondano sulle “differenze” tra paesi, che li conducono a diverse specializzazioni (inter-industry trade); dall’altra, i rendimenti crescenti basati sulle economie di localizzazione (dovute ai vantaggi della produzione su larga scala) che consentono di spiegare il commercio tra paesi “simili” (intra-industry trade). Il problema che emerge dal tentativo di spiegare i flussi commerciali esclusivamente sulla base dei vantaggi comparati risiede nel non considerare la dimensioni spaziale (geografica) dell’economia. La new economic geography (KRUGMAN, 1991a) sottolinea invece l’importanza della localizzazione delle attività produttive, mostrando che in diversi casi questo aspetto è alla base delle economie dinamiche che sostengono il commercio e lo sviluppo 54.

14.6. Politiche commerciali: strumenti ed evidenze La politica economica può influenzare la bilancia commerciale non solo con le manovre del tasso di cambio (cfr. cap. 12), ma anche con le politiche commerciali. In sostanza i dazi possono essere un’alternativa alle svalutazioni della moneta nazionale per guadagnare competitività (naturalmente sugli scambi interni all’Eurozona non sono possibili né gli uni né le altre) 55. Le politiche commerciali agiscono essenzialmente attraverso due strumenti: – barriere tariffarie: dazi, ossia tasse sulle importazioni (o in qualche caso sulle esportazioni); – barriere non tariffarie, che sono un insieme eterogeneo di strumenti comprendenti: (i) quote, ossia restrizioni quantitative alle importazioni o alle esportazioni; (ii) sussidi all’esportazione: pagamenti alle imprese che esportano (o più in generale ai produttori nazionali); (iii) restrizioni volontarie alle esportazioni (per evitare dazi o quote da parte degli altri pae53 Già A. Smith sosteneva che il commercio estero permette un’ulteriore estensione dei mercati e, conseguentemente, della divisione del lavoro. Un effetto dinamico del commercio estero sullo sviluppo economico, già evidenziato da Mill, consiste nella diffusione di nuovi prodotti finali, con la conseguente creazione di nuovi bisogni, e di beni intermedi che “incorporano” progresso tecnico (spillover tecnologici, learing-by-doing). 54 Le teorie più recenti del commercio internazionale suggeriscono di concentrare l’attenzione sul ruolo delle imprese esportatrici, oltre che sulle caratteristiche dei paesi e dei loro settori produttivi. Prendendo in considerazione queste caratteristiche, è possibile spiegare anche la simultanea creazione e distruzione di posti lavoro all’interno dei vari settori produttivi e l’aumento della produttività settoriale che tende a verificarsi in seguito ad una liberalizzazione degli scambi commerciali (in modelli basati su rendimenti crescenti). Cfr. K RUGMAN (1980), HELPMAN, KRUGMAN (1985). 55 I dazi furono aboliti sin dagli anni ’60 grazie all’unione doganale e le svalutazioni non sono più possibili dal 1999, ossia da quando c’è la moneta comune (euro) (si vedano i capp. 15 e 16).

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si); (iv) dazi anti-dumping; (v) product specifications, ovvero standard tecnici sui prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie); (vi) requisiti di “contenuto locale” (per favorire l’impiego di prodotti nazionali in specifici settori produttivi); ed altre ancora. Analizzando ora l’evidenza empirica recente (dopo che nel paragrafo precedente abbiamo esaminato quella più lontana, in connessione allo sviluppo delle prime teorie sul commercio internazionale), possiamo osservare che la strategia adottata da alcuni paesi, specie in momenti di difficoltà economica, è stata una chiusura protezionistica – più o meno decisa – verso le relazioni internazionali, finalizzata a sostenere le imprese e i lavoratori nazionali; fino al caso estremo dell’autarchia, cioè la completa chiusura dell’economia nazionale rispetto al resto del mondo 56. Nelle prime fasi di sviluppo le maggiori potenze – Inghilterra, Germania, Giappone – avevano adottato forme più o meno protezionistiche, ad esempio a protezione dell’industria nascente (come illustrato nel paragrafo precedente). Più recentemente alcuni paesi hanno seguito una strategia esplicita di import substitution, cercando di ostacolare le importazioni e favorire le produzioni nazionali. Sembra che questa politica abbia funzionato relativamente bene come strategia di sostegno dei settori manifatturieri nei paesi dell’America Latina tra gli anni ’50 e ’60; meno bene in India. I paesi che avevano seguito queste politiche avevano protetto all’inizio le fasi finali del ciclo produttivo (beni di consumo o assemblaggio di automobili); in seguito anche le produzioni intermedie (automobili, acciaio, petrolchimico); in rari casi, perfino manufatti sofisticati (computer). Sebbene gli interventi abbiano garantito talvolta la sopravvivenza di settori industriali, ciò è andato a scapito dell’efficienza, a causa del sostegno a settori troppo piccoli e non necessariamente innovativi; quindi, i settori protetti non divennero competitivi, nonostante le (o a causa delle) restrizioni commerciali 57. Verso la metà degli anni ’80, molti paesi avevano perso fiducia nelle strategie di industrializzazione basata sulla sostituzione delle importazioni e iniziarono a liberalizzare gli scambi. Dopo la liberalizzazione, molti Pvs hanno raddoppiato in tempi brevi la loro quota di commercio estero sul Pil, cominciando a specializzarsi in manufatti (esportando non più solo prodotti agricoli o minerali). Il caso dei Bric è già stato illustrato nel capitolo precedente. Sorge ora spontanea una domanda: l’apertura ha davvero stimolato la rapida crescita economica di questi paesi? Il dibattito non ha portato a conclusioni definitive. Secondo alcuni ricercatori, l’apertura agli scambi commerciali (ed agli Ide) è stata semplicemente correlata con la crescita, ma forse non è stata la causa principale; infatti: (i) la vera causa della rapida crescita può essere stato l’elevato tasso di risparmio ed investimento; (ii) inoltre quasi tutte queste economie hanno un elevato capitale umano ed una rapida crescita dei livelli di istruzione; (iii) si tratta infine di paesi con buone infrastrutture, stabilità dei governi, sostegni creditizi e fiscali alle esportazioni. Quindi si tratta di un insieme di fattori positivi per la crescita che hanno accompagnato i sistemi produttivi nella fase di competizione internazionale 58. Comunque, dopo la liberalizzazione commerciale, i tassi di crescita sono aumentati in India, ma diminuiti in Brasile e altri paesi dell’America Latina (forse però a causa dell’iperinflazione e di altri problemi macroeconomici). 56 In certi paesi, ad esempio in Francia, si è cercato di proteggere la cultura e l’identità nazionale (letteratura, film, musica, altri prodotti culturali); in altri paesi meno democratici sono state introdotte censure alla navigazione su internet. 57 Cfr. KRUGMAN, OBSTFELD (2007). 58 Questi paesi sono stati in genere caratterizzati da una “prima fase” di industrializzazione protetta e da una “seconda fase” di riduzione delle barriere protezionistiche (VOLPI, 2007).

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In alternativa al protezionismo o ad un completo liberismo, alcuni paesi utilizzano strategie intermedie, ad esempio politiche atte a promuovere le esportazioni o politiche industriali attive. Politiche di export promotion sono state seguite, in diverse fasi del loro sviluppo, dal Giappone (il cui decollo iniziò negli anni ’50); dalle quattro tigri asiatiche: Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore (qui il decollo data dagli anni ’60-’70); altri paesi del Sud-est asiatico, quali Malesia, Tailandia, Indonesia, Filippine 59 e, in seguito, Cina e India. Queste “High Performance Asian Economies” hanno avuto, per periodi più o meno lunghi, tassi di crescita vicini o superiori al 10% annuo e sono economie molto aperte. Un aiuto indiretto agli esportatori può derivare anche dalle politiche industriali attive. Si tratta ad esempio di politiche di tipo “verticale”, atte a sostenere specifici settori (tramite sussidi fiscali o crediti agevolati), specie nei settori considerati strategici (difesa, elettronica e semiconduttori, aerospaziale, ma anche energetico, alimentare, etc.); oppure interventi di tipo “orizzontale” (sostegno alla ricerca e sviluppo, alle innovazioni, alla formazione, etc.). In ogni caso, l’evidenza ci offre strategie alquanto differenziate, con un’ampia gamma di interventi specifici: dal “laissez-faire” di Hong Kong alla pianificazione economica di Singapore, dalla promozione dei grandi gruppi industriali della Corea al sostegno del vasto sistema di piccole e medie imprese di Taiwan. In definitiva, si può concludere con KRUGMAN (1987) che il libero commercio non è da considerare un ottimo da conseguire sempre, quanto piuttosto una “regola del pollice”. Inoltre occorre aggiungere che oggi la sfida è quella di riuscire a redistribuire i benefici della globalizzazione tra tutti, anche tra i perdenti (cfr. par. 14.3).

14.7. Gli organismi internazionali (Gatt e Wto) e gli accordi su scala regionale A partire dal secondo dopoguerra l’economia internazionale è stata caratterizzata da un processo di progressiva integrazione finanziaria e commerciale, basato sulla volontà dei paesi di far ripartire l’economia mondiale su basi più cooperative, dopo le distruzioni della guerra mondiale. La nuova architettura del sistema monetario e finanziario internazionale è stata impostata nel 1944 con gli Accordi di Bretton Woods (cfr. cap. 12). Dal punto di vista del commercio internazionale, alcuni anni più tardi, nel 1947, è stato siglato un accordo internazionale, il Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade), con l’obiettivo di promuovere il libero scambio internazionale attraverso negoziati multilaterali 60. Il Gatt ha operato per diversi anni e ha regolato (nella sua forma di “trattato” e non di “istituzione”) gli scambi commerciali tra un numero crescente di paesi aderenti 61. I principi fondamentali di questo trattato sono i seguenti: (i) non discriminazione, ovvero accettazione del principio dell’estensione a tutti i partner delle condizioni applicate alla “nazione più favorita” (ad eccezione dei casi di unione doganale o di area di integrazione economica); (ii) riduzione progressiva delle barriere tariffarie e cancellazione delle barriere protettive non tariffarie (come, ad esempio, le quote di importazione, ad eccezione dei prodotti agricoli e per i paesi con problemi di squilibrio della bilancia dei pagamenti); (iii) risoluzione multilaterale, in ambito Gatt, delle controversie commerciali tra paesi. 59 Questi quattro paesi sono considerati i Nic (New Industrializing Countries) di seconda generazione, mentre le quattro “tigri asiatiche” sono quelle di prima generazione. 60 In precedenza gli accordi erano bilaterali; comunque, già negli anni ’30-’40, superata la fase più buia del protezionismo, questi accordi ridussero i dazi medi negli Usa dal 59% del 1932 al 25% del 1944. 61 Nel 1993 includeva 123 paesi (compresi gli Stati Uniti e tutti i maggiori paesi ad eccezione della ex Urss e della Cina) e copriva circa il 90% del commercio mondiale (cfr. SALVATORE, 2008).

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In tutti questi anni le varie clausole che permettevano delle eccezioni rispetto ai principi del Gatt (al fine di proteggere il sistema economico e, in particolare, alcuni settori industriali, di diversi paesi) hanno posto degli ostacoli alla riduzione delle barriere protezionistiche. La tendenza generale verso il libero scambio è comunque avvenuta attraverso vari stadi di negoziazione multilaterale, tra i quali i più importanti 62 sono stati: – il Kennedy Round (1964-1967), con la prima riduzione generalizzata – e non riferita solo a prodotti specifici – delle tariffe (i dazi furono ridotti in media di circa un terzo); – il Tokyo Round (1973-1979), con un’ulteriore riduzione delle tariffe, in particolare sui beni manifatturieri, e la considerazione per la prima volta delle barriere non tariffarie; – l’Uruguay Round (1986-1994), procedendo sulla strada della riduzione dei dazi (con una contrazione media di quasi la metà: dal 6,3% al 3,8%); proponendo inoltre: la sostituzione delle quote sulle importazioni di prodotti agricoli, tessili e di abbigliamento 63 con dazi meno restrittivi; la riduzione dei sussidi alle esportazioni di prodotti agricoli; norme a protezione della proprietà intellettuale; regole per gli appalti pubblici. Quest’ultimo round di negoziazione ha per di più previsto il superamento dello stesso Gatt e la costituzione della Wto (World Trade Organization), ossia della “Organizzazione mondiale del commercio” (Omc), una nuova organizzazione permanente con sede a Ginevra 64. La Wto regolamenta il commercio mondiale ed interviene nel caso di dispute commerciali 65. I tre accordi generali alla base dell’istituzione della Wto sono: il Gatt (Generale Agreement on Tariffs and Trade); il Gats (General Agreement on Trade in Services), attinente ad esempio ai servizi di assicurazione, consulenze, servizi legali, servizi bancari; il Trips (Trade-Related aspects of Intellectual Property Rights) concernente brevetti e marchi 66. Nonostante i notevoli successi raggiunti – in ambito Gatt e Wto – in materia di liberalizzazione del commercio, con conseguente notevole aumento degli scambi commerciali internazionali negli ultimi decenni, molti problemi restano irrisolti, come le difficoltà emerse nel corso del Doha Round, iniziato nel 2001, stanno a segnalare. Fin dal 1999 a Seattle si cercò di avviare un nuovo round di negoziati multilaterali; subito abortito anche per l’opposizione “no global” 67. Due anni dopo venne comunque avviata in Qatar la “Doha Development Agenda”. Tra i suoi obiettivi, la liberalizzazione dei prodotti agricoli, soprattutto da parte di Usa e Ue, come contropartita di quella inerente manufatti e servizi da parte dei Pvs; nonché l’analisi delle problematiche connesse agli investimenti. I 62 I

precedenti cinque round di negoziati, dal 1947 ai primi anni ’60, erano “bilaterali paralleli”. particolare, le restrizioni quantitative sul commercio di prodotti tessili-abbigliamento (il cosiddetto “Accordo Multifibre”) dovevano essere eliminate entro il 1° gennaio 2005. 64 La Conferenza dei Ministri della Wto si riunisce ogni due anni. Diversamente da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale (gli organismi di Bretton Woods, responsabili per le questioni monetarie e gli aiuti allo sviluppo), la Wto non fa formalmente parte del sistema delle Nazioni Unite. 65 È interessante la procedura di risoluzione delle controversie: si consente ai paesi coinvolti in una controversia di appellarsi ad un “panel di esperti” della Wto. Un paese che si rifiuti di rispettare la decisione del panel può essere punito mediante la concessione ai paesi danneggiati di misure di ritorsione; ad esempio di introdurre dazi compensativi nel caso di dumping (che si verifica nel caso di esportazioni a prezzi inferiori a quelli praticati sul mercato interno). 66 Il Trips riguarda non solo l’industria “high-tech”, ma anche altri comparti come l’agro-alimentare. Per esempio l’Italia è molto interessata alla protezione delle indicazioni geografiche dei prodotti, al fine di contrastare le “imitazioni” da parte di altri paesi, che utilizzano denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia (il fenomeno chiamato “Italian sounding”). 67 È proprio a Seattle che si manifesta, in forme anche violente, questo nuovo movimento internazionale. 63 In

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vertici intermedi di Cancun (2003) e Hong Kong (2005) non hanno portato a conclusioni positive. I principali punti di disaccordo concernevano la difficoltà di smantellare il sostegno interno agli agricoltori statunitensi e le barriere di accesso ai mercati agricoli europei, come pure il mantenimento di dazi sulle importazioni di manufatti nei paesi emergenti. Altre questioni più specifiche concernevano i servizi finanziari, i medicinali brevettabili, i labour standards (ed il lavoro minorile), la protezione ambientale, le politiche della concorrenza, i diritti umani. Un accordo parziale fu raggiunto a Bali (Indonesia) nel dicembre 2013 (in chiusura della nona conferenza ministeriale), con il fine di favorire lo sviluppo del commercio mondiale, semplificare gli scambi 68, garantire la sicurezza alimentare dei Pvs e migliorare gli aiuti allo sviluppo 69. La difficoltà di giungere ad un accordo finale dipende anche dai nuovi equilibri politici esistenti nel mondo. In particolare, va segnalata la perdita di potere del cosiddetto Quad (Usa, Ue, Giappone, Canada) – che nei round del Gatt di solito “imponeva” gli accordi raggiunti al suo interno al resto del mondo – ed il peso maggiore dei paesi emergenti, almeno di quelli presenti nel G-20. Qualche anno fa era stato segnalato il rischio derivante dalle tendenze verso un mondo multipolare e, in particolare, dalla divisione del mondo in tre grandi blocchi: Ue, Nafta, blocco asiatico e dei paesi emergenti 70. Infatti, mentre da un lato questi tre blocchi possono essere visti come promotori di un’ulteriore estensione del libero commercio, dall’altra possono ostacolare questo processo, “favorendo il ritorno ad accordi bilaterali, protezionismo e conflitti commerciali tra i diversi blocchi” 71. In effetti, in alternativa o in aggiunta agli accordi multilaterali (come pure a quelli bilaterali), negli ultimi decenni sono parecchio cresciuti anche gli “accordi regionali di commercio” (Regional trade agreements, Rta). Sono oltre 300 e sono chiamati “preferenziali” con effetti ambigui sul commercio mondiale. Infatti, da un lato, favoriscono la libertà di scambio all’interno delle aree coinvolte negli accordi, ma, dall’altro, determinano un rallentamento del processo mondiale di libero scambio, in particolare quando alcuni paesi o intere aree economiche, invece di procedere ad accordi multilaterali, tendono a stipulare accordi bilaterali con singoli paesi o aree (anche in conseguenza della possibilità di ottenere migliori condizioni contrattando con controparti di minore peso economico e politico). Le specifiche tipologie di accordo su scala regionale sono molto varie; infatti comprendono (in ordine crescente di integrazione): i. le zone di libero scambio, in cui sono eliminate le tariffe interne, ma mantenute in modo differenziato quelle esterne; esempi sono l’Efta (nel 1960, quando capofila era il Regno Unito, comprendeva molti paesi, ma ora solo Norvegia, Islanda, Svizzera, Liechtenstein); il Nafta (“North America Free Trade Agreement” costituito nel 1994 tra Usa, Canadà, Messi68 Per esempio tramite la riduzione delle formalità doganali e dei costi, la velocizzazione del commercio, grazie a procedure di sdoganamento anticipato (pre-clearing) prima o all’atto dell’arrivo delle merci nei porti convenuti. Nei calcoli della Wto, l’insieme delle misure di semplificazione dovrebbe portare a una riduzione, a livello globale, dei costi commerciali di almeno il 10%. 69 La proposta è che i paesi ricchi dovrebbero cercare di garantire l’accesso nel proprio mercato, a dazio zero, almeno per il 97% dei prodotti originari dei “least developed countries”. 70 Una suddivisione alquanto differente da quella, tra Est ed Ovest, antecedente la caduta del muro di Berlino. La Russia, non presente nella tripartizione citata, ha recentemente cercato di riottenere lo status di potenza politico-militare, ma è stata penalizzata dalle nuove vicende economiche (in particolare dal crollo del prezzo del petrolio) e dalle sanzioni dei paesi occidentali. 71 Cfr. SALVATORE (2008), p. 375.

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co); l’Asean (“Association of Southeast Asian Nations”, con accordi estesi al Giappone, alla Cina ed altri paesi asiatici); ii. le unioni doganali (customs union), che prevedono, oltre al libero scambio interno all’area, anche una tariffa esterna comune: oltre l’iniziale Comunità europea (cfr. cap. 15), un esempio è l’Ecowas (“Economic Community of West African States”, costituita nel 1975 da 15 paesi); iii. il mercato comune, in cui è garantita la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali: in aggiunta al Single market europeo (realizzato a seguito dell’Atto Unico del 1987: cfr. cap. 15), ricordiamo il Mercosur (fondato nel 1991 da Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay) 72; iv. l’unione economica, che prevede l’unificazione delle politiche economiche (anche in vista di una futura unione politica): è il caso dell’Unione economica e monetaria europea, costituita nel 1999 (cfr. cap. 16), ma che per ora consta di una unione monetaria “incompleta” (cfr. cap. 19). La struttura del mondo multipolare e la geografia degli accordi commerciali è in continua evoluzione. Già nel 1989 fu costituita l’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), comprendente gli stati del Nord e Sud America affacciati sul Pacifico, il Giappone, l’Australia, la Russia, la Cina e molti altri paesi asiatici. Tra gli obiettivi: liberalizzare investimenti e scambi, agevolare le attività d’impresa, migliorare la cooperazione tecnica ed economica. Un altro accordo raggiunto tra Usa e paesi bagnati dall’Oceano Pacifico, sia in America sia in Oceania e Asia orientale (ma senza la Cina) era il Tpp (Trans-Pacific Partnership), firmato nel 2016. Per quanto riguarda l’Ue, il negoziato più avanzato con altri potenziali partner era quello del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo di libero scambio di tipo regionale tra l’Ue e gli Usa (ma con la possibile adesione anche degli altri membri americani del Nafta e di quelli europei dell’Efta). L’obiettivo del negoziato, avviato nel 2013, era quello di aumentare sia gli scambi commerciali sia gli investimenti tra le due sponde dell’Atlantico, eliminando gli ostacoli tuttora esistenti in molteplici settori (inclusa l’eliminazione di tutti i dazi e l’intervento sulle barriere non tariffarie); i principali settori coinvolti sarebbero stati: merci, servizi, appalti pubblici e investimenti. L’importanza del tentato accordo deriva dal fatto che assieme queste aree rappresentano il 45% del Pil mondiale ed oltre 800 milioni di cittadini 73. L’accordo su Tpp ed i negoziati (non conclusi) su Ttip si sono arrestati 74 dopo l’elezione di Trump alla presidenza Usa, anche se va aggiunto che il secondo tentato accordo vedeva molti critici anche nell’Ue. In realtà c’è un altro accordo giunto alla firma finale, il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement) tra Ue e Canadà 75, entrato in vigore in modalità provvisoria nel 2018, anche se mancano ancora le ratifiche parlamentari. L’accordo prevede facilitazioni non solo per gli scambi commerciali (con l’eliminazione della quasi totalità dei dazi e 72 Altri mercati comuni sono il Caricom (dal 1973 include i 15 paesi della “Carabbean Community”); l’Eac (dal 2001: “East African Community” costituita nel 2001 da 5 paesi). 73 L’80% dei vantaggi economici del Ttip deriverebbero dalla riduzione dei costi della burocrazia e delle disposizioni normative, nonché dalla liberalizzazione degli scambi. I benefici potenziali erano stati quantificati in 0,5% di Pil annuo per gli Usa e 0,4% per la Ue (stime Cepr). 74 In sostituzione del Tpp, il Giappone si è fatto promotore nel 2018 di un Tpp-11, firmato appunto da 11 paesi (rispetto ai 12 del Tpp, con l’esclusione degli Usa) ma non ancora in vigore. Per gli aggiornamenti relativi a quest’ultima parte del capito, si veda ICE (2018). 75 Trattative per accordi simili sono in corso (in alcuni casi già concluse) tra l’Ue e altri singoli paesi, quali Giappone, Tunisia, Marocco, Messico, Cile, Corea del Sud, Vietnam, Indonesia, India, Australia, Nuova Zelanda, oltre a quello con tutto il Mercosur.

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semplificazione delle procedure doganali), incluso l’agroalimentare, ma anche per gli Ide, gli appalti pubblici, le tutele relative alle “indicazioni geografiche protette” 76. Tornando alle nuove politiche commerciali degli Usa, Trump ha anche chiesto la revisione di accordi già in vigore da oltre vent’anni, come il Nafta. La sua strategia è quella di denunciare gli accordi multilaterali, anche su scala regionale, per tornare al vecchio approccio degli accordi bilaterali, nei quali conta di far valere il peso economico e politico degli Usa e con l’obiettivo di migliorare il saldo commerciale bilaterale con tutti i paesi. In realtà, nel 2018, per la prima volta dall’istituzione dell’Omc, ci sono stati segnali evidenti di potenziali “guerre commerciali”, in un contesto in cui già da qualche anno era aumentato il ricorso alle barriere non tariffarie. Gli Usa hanno introdotto (o almeno minacciato) dazi su alcuni prodotti, in particolare acciaio ed alluminio (del 25% e 10% rispettivamente), ipotizzando dazi anche su altri beni incluse le automobili, con riferimento alle importazioni dalla Cina, dall’Ue e perfino dai partner del Nafta 77. I paesi colpiti hanno reagito con ovvie ritorsioni 78, creando il rischio di una catena di misure e contro-misure protezionistiche tipiche delle guerre commerciali. Si può concludere che il presidente Usa (che ha emuli anche in Europa) sta dando una risposta sbagliata ad un problema vero, quello di alleviare le perdite per gli “sconfitti” dalla globalizzazione, concentrati nelle classi medio-basse dei paesi avanzati (cfr. par. 14.3). Invece, bisognerebbe introdurre una regolamentazione efficace – meglio su base multilaterale – dei vari fenomeni della globalizzazione (scambi commerciali e di servizi, ma anche i movimenti di capitale e i flussi migratori) e, nello stesso tempo, compensare mediante adeguate politiche nazionali (redistributive e d’aggiustamento) i perdenti della stessa globalizzazione 79.

76 Questo tipo di accordi di “nuova generazione” va quindi ben oltre alla semplice eliminazione (o forte riduzione) dei dazi doganali, al fine di conseguire una integrazione commerciale “profonda”. Gli oppositori a questo accordo, anche in Italia, citano soprattutto il meccanismo speciale di risoluzione delle controversie tra le imprese multinazionali che effettuano gli Ide e gli Stati, nonché il rischio di forti aumenti di importazioni di grano o carni. Quanto alle indicazioni geografiche, è vero che delle 291 denominazioni “made in Italy” registrate nell’Ue solo 41 sarebbero protette in Canadà, ma attualmente nessun prodotto italiano è protetto e quei 41 prodotti rappresentano il 90% dell’export italiano. 77 Nel frattempo anche il vecchio accordo del Nafta è stato denunciato da Trump, che nel corso del 2018 ha tenuto trattative bilaterali prima con il Messico e poi con il Canada. Un nuovo accodo tra i tre paesi, chiamato Usmca, è stato firmato in ottobre, dovrebbe entrare in vigore nel 2020 e prevede comunque maggiori facilità di uscita. 78 Per cui non è affatto sicuro che gli Usa traggano un tornaconto (nemmeno immediato) dalle misure protezionistiche, anche perché nelle odierne “catene globali del valore” potrebbe essere danneggiata proprio l’industria americana. 79 Quelli che fin dall’inizio del nuovo secolo STIGLITZ (2002) chiamava i “discontents”.

Parte Quinta

L’integrazione economica europea

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L’integrazione economica europea

Il processo d’integrazione nell’UE: dall’unione doganale al mercato unico

15

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Il processo d’integrazione nell’UE: dall’unione doganale al mercato unico. Il bilancio dell’UE

15.1. La Cee e gli allargamenti successivi (fino alla Brexit) Al termine del secondo conflitto mondiale il mondo cercò una qualche forma di collaborazione, per avviare la ricostruzione dalle macerie e sostenere la crescita economica 1. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, nacquero le istituzioni di Bretton Woods (Banca mondiale e Fondo monetario internazionale), quindi il Gatt, e dagli anni ’50 il commercio mondiale si sviluppò – anche grazie alla forte rinascita economica europea – a ritmi molto intensi. Già da alcuni anni, alcuni liberi pensatori o politici autorevoli avevano lanciato l’idea di una maggiore integrazione – innanzi tutto politica e poi anche economica – all’interno del continente europeo. Questi sono ancora considerati i “padri fondatori” dell’Europa; comprendono, solo per citare i più rappresentativi, i francesi J. Monnet e R. Schuman, il tedesco K. Adenauer, gli italiani A. Spinelli e A. De Gasperi 2. Queste idee presero forma ed ebbero un primo sbocco concreto a Parigi nel 1951, dove fu firmato il Trattato istitutivo della Ceca (Comunità europea del carbone e dell’acciaio); i paesi aderenti erano Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo. Si trattava di un’integrazione in un settore limitato ma strategico: ma soprattutto consisteva in un primo esempio di un processo che si sarebbe rapidamente esteso ad altri ambiti. Infatti, il 25 marzo 1957 furono firmati a Roma, dagli stessi sei paesi sopra menzionati, i Trattati istitutivi della Comunità economica europea (Cee) e dell’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica), entrati in vigore il 1° gennaio 1958 3. Quali sono gli obiettivi di quest’integrazione economica, in particolare della Cee? Essi sono stati meglio precisati con il Trattato di Maastricht del 1992, chiamato “Trattato sull’UE” 4, art. 2: «Promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione e pervenire a uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio 1 A proposito di ricostruzione, va citato il piano “Marshall” degli Stati Uniti, destinato appunto alla ricostruzione dei paesi europei. La collaborazione transatlantica si sviluppò anche in altre forme, con la costituzione dell’Oecd (in italiano Ocse, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e, sul piano militare, la Nato (la cosiddetta “alleanza atlantica”). 2 In particolare, Altiero Spinelli preparò, assieme ad Ernesto Rossi nel 1941 (mentre erano confinati sull’isola di Ventotene essendo oppositori del regime fascista), il Manifesto “Per un’Europa libera e unita” (cfr. SPINELLI, 1991). Sulla storia dell’integrazione europea si vedano anche, tra gli altri, FAURI (2006), OLIVI, SANTANIELLO (2005), SENIOR NELLO (2009). 3 La fusione degli esecutivi di queste tre Comunità tra di loro avvenne a partire dal luglio 1967 (grazie al “Trattato di fusione” di Bruxelles firmato nel 1965). 4 Unione europea è appunto il nuovo nome che la Cee avrebbe preso a partire dal 1992.

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L’integrazione economica europea

senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale, e l’instaurazione di una unione economica e monetaria, che conduca infine ad una moneta unica». Gli strumenti iniziali, previsti già nel Trattato di Roma, per conseguire lo sviluppo equilibrato e sostenibile, erano: (i) unione doganale, ossia abolire entro un decennio (1958-1968) le tariffe interne (ed altre restrizioni quantitative) sugli scambi di merci ed unificare quella esterna comune; (ii) politica agricola comune (Pac) 5, che all’inizio assorbiva i tre quarti del bilancio comunitario; (iii) altre politiche, comprendenti: una politica di concorrenza (regolamentazione delle intese e degli abusi di posizione dominante, degli aiuti di stato, armonizzazione fiscale); libera circolazione delle persone e dei servizi (libertà di stabilimento, libera prestazione di servizi); una politica sociale; politiche comuni di settore (trasporti ed energia); una politica di “congiuntura” (che riguardava soprattutto la politica monetaria, ma prevedeva allora solo una “concertazione” tra le banche centrali). Fin dall’inizio, ossia dagli anni ’60, abbiamo assistito a due visioni opposte su come procedere nel corso del tempo sulla strada di un’ulteriore integrazione. Da un lato c’erano i fautori di un processo di widening, ossia di un allargamento progressivo della Cee a nuovi paesi; dall’altro lato, agivano i sostenitori di un processo di deepening, ovvero di un’integrazione più spinta tra lo stesso numero di paesi (o comunque all’interno di un gruppo relativamente ristretto). Come vedremo tra poco, i paesi e le istituzioni Cee non hanno mai fatto una vera scelta, privilegiando a volte l’allargamento ed in altre fasi l’approfondimento, posto che si riteneva comunque normale – specie nei primi decenni – procedere con un’integrazione economica (ed in prospettiva politica) “sempre più stretta” 6. Di certo gli allargamenti 7 sono stati graduali nel tempo: – – – – – –

1957: Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo (6 membri fondatori); 1973: Regno Unito, Danimarca, Irlanda (9); 1981: Grecia (10); 1986: Spagna, Portogallo (12); 1995: Austria, Finlandia, Svezia (15); 2004: Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Cipro (25); – 2007: Bulgaria e Romania (27); – 2013: Croazia (28). Per decidere in merito a nuovi allargamenti e richieste di adesione, vi sono i criteri di Co5 Sul piano politico la Pac era vista una concessione che i tedeschi – che avrebbero tratto i maggiori benefici dall’unione doganale (in quanto già allora l’industria tedesca era la più competitiva in Europa) – fecero ai francesi (il cui sistema industriale era ancora relativamente debole). 6 Ciò risultava implicitamente dallo stesso Trattato di Roma, ma fu esplicitato nella “Dichiarazione solenne” dei Capi di Stato e di governo del 1983, appunto sulla “ever closer Union”. 7 Ci sarebbe molto da raccontare sui vari allargamenti. Per esempio, negli anni ’50 gli inglesi volontariamente non vollero aderire alla Cee e per questo fondarono l’Efta (che comprendeva molti più paesi rispetto ad oggi); poi negli anni ’60 essi manifestarono l’intenzione di aderire, ma vi fu il veto francese (in particolare del presidente De Gaulle), veto che cadde solo nel 1969 (con il nuovo presidente Pompidou). Così il Regno Unito entrò finalmente nel 1973, ma da allora ha avuto sempre una posizione critica e spesso prossima alla separazione, che si è in seguito davvero realizzata. Ancora, i tre paesi del sud-Europa entrarono nella Cee solo negli anni ’80, dopo che le dittature precedenti furono abbattute e poterono consolidare le proprie democrazie. L’allargamento degli anni ’90 rispostò il baricentro dell’Ue un poco verso nord. Nel frattempo, la caduta del muro di Berlino (1989) e la transizione ad economia di mercato dei paesi dell’Europa centro-orientale consentì a molti di loro, in precedenza gravitanti sull’Urss, di fare domanda di ammissione; essi entrarono nell’Ue, in più tornate, nel nuovo secolo (assieme a Cipro e Malta).

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penaghen, stabiliti nel 1993: (i) criterio politico: istituzioni democratiche stabili, rispetto delle leggi, dei diritti umani e delle minoranze; (ii) criterio economico: esistenza di economie di mercato funzionanti; (iii) acquis comunitario: necessità di incorporare nelle legislazioni nazionali il corpo normativo dell’UE. Tra i paesi candidati oggi vi sono l’Albania, la Bosnia-Erzegovina, la (ex repubblica jugoslava di) Macedonia, il Montenegro, la Serbia, la Turchia. La Norvegia aveva in corso trattative per l’adesione già nei primi anni ’90, in contemporanea con la Svezia, ma in un referendum i norvegesi rifiutarono l’opportunità loro offerta. Sia in questo paese sia in Svizzera si tengono ogni tanto referendum in merito, ma con esiti finora negativi. Diverso è il caso della Turchia, che presentò la sua candidatura già molti anni fa (realizzando anche un’unione doganale); la candidatura fu formalmente accettata solo nel 2005, ma non si prevede che le trattative possano concludersi positivamente in tempi brevi. Alcuni paesi europei – Islanda 8, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera– non fanno parte dell’UE, ma invece di ciò che è rimasto dell’Efta (cfr. par. 14.7). I primi tre paesi di questo gruppo hanno però creato con la UE, a partire dal 1994, uno “Spazio economico europeo” (European economic area), che prevede libero movimento di merci, servizi, capitali ed anche persone, nonché limitati contributi al bilancio dell’UE. La Svizzera ha invece optato per accordi bilaterali con l’UE estesi a molti settori. E veniamo al caso del Regno Unito. Questo Paese, entrato tra i primi nove in quella che ancora si chiamava Cee (1972), ha sempre avuto una posizione critica nei confronti delle politiche europee e soprattutto del progressivo processo d’integrazione. Per esempio negli anni ’80, il suo premier Thatcher, lamentandosi per il contributo britannico al bilancio comunitario ritenuto eccessivo, ottenne uno sconto (“rebate” 9) poi rimasto nel tempo. Nel 1992 aderì al Trattato di Maastricht solo previa concessione di una clausola speciale (“opting out”), che consentiva la non adozione all’euro. Dopo la crisi dell’ultimo decennio, le difficoltà economiche, lo scontento per la gestione dei flussi migratori e per la (presunta) rigidità della burocrazia di Bruxelles indussero il premier Cameron ad indire, in modo avventato, un referendum sull’uscita dall’UE. Referendum che si tenne nel giugno 2016, con un esito leggermente a favore dell’uscita (51,9%) 10. Iniziarono quindi le trattative con l’UE per l’uscita (come previsto dall’art. 50 del Trattato di Lisbona), che dovrebbe realizzarsi entro il 29 marzo 2019, come promesso dall’attuale premier May, anche se c’è molta incertezza sul tipo di accordo che potrà essere realizzato 11. In ogni caso, è probabile che – dalla data prevista o da una successiva – i paesi dell’UE saranno 27, con una riduzione – per la prima volta nella sua storia – del numero di paesi membri. Altri tipi di accordi con l’UE (che non prevedono la “full membership”) afferiscono alle “as8 L’Islanda

presentò domanda di adesione all’UE nel 2009 ma poi la ritirò nel 2015. se rebates analoghi sono stati in seguito concessi ad altri paesi. 10 La distribuzione dell’esito del voto per classe d’età, per titolo di studio, per area di residenza (con una netta contrapposizione tra la grande area metropolitana di Londra, a favore del “remain”, e comuni piccoli e medi della campagna inglese) mostrano però che hanno inciso anche tematiche inerenti i “perdenti della globalizzazione” (cfr. par. 14.3), piuttosto che la sola avversione nei confronti di Bruxelles. 11 Durante il periodo 2017-2018 le trattative hanno fatto registrare alti e bassi, con scenari che andavano da una soft Brexit ad una hard Brexit (e, con minore probabilità, l’indizione di un nuovo referendum). Una hard Brexit prevedrebbe nessun accordo sulle future relazioni tra Regno Unito ed UE (tranne che per il periodo di transizione), per cui ad esempio in campo doganale varrebbero in futuro solo le norme ed i dazi previsti dalla Wto. Una soft Brexit porterebbe invece ad un accordo simile a quello esistente nello “Spazio economico europeo”, con ovviamente diverse possibilità intermedie. Nel mese di novembre 2018 il premier May aveva raggiunto un accordo con la Commissione europea, poi ratificato dal Consiglio europeo, per una soft Brexit; le successive contrapposizioni all’interno del Parlamento britannico (e nella stessa maggioranza di governo) hanno però accresciuto il rischio di un’uscita senza accordo. 9 Anche

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sociazioni”, al “partenariato di adesione” (con possibili aiuti finanziari), alla “politica di vicinato” (ad esempio con i paesi Est-europei, prima che divenissero membri, e con quelli Mediterranei), a forme varie di partenariato e cooperazione, che in certi casi prevedono pure un certo aiuto finanziario da parte dell’UE. Una possibile domanda, per concludere, è quanto pesa oggi l’UE (o l’Eurozona) nell’economia mondiale. La Tab. 15.1 mostra il peso decrescente dell’Unione Europea: dal 30% circa del 1980 al 16,5% del 2017. Considerando l’Eurozona, il peso nel 2017 è risultato pari all’11,5% del Pil globale. Il motivo del declino europeo sta soprattutto nella formidabile crescita di Cina, India ed altre economie emergenti; per esempio la Cina, che nel 1980 pesava per poco più del 2%, ora pesa oltre il 18% (si veda anche il cap. 13 al riguardo). Va però sottolineato che mentre l’UE (e, in misura minore, l’Eurozona) nel complesso può tuttora competere quasi alla pari con Cina, Usa (e in prospettiva anche l’India), i singoli paesi europei hanno un peso economico ridottissimo nel contesto globale: nel 2017 la Francia pesava il 2,2%, Italia l’1,8% e la “grande” Germania solo il 3,3, peraltro con una persistente tendenza al declino relativo 12. Questo fa capire quali pericoli potrebbe correre – nei futuri assetti economici e politici mondiali – un continente europeo ancor più frammentato. Tabella 15.1. – Il peso dell’UE nell’economia mondiale (%) 1980

1990

1999

2007

2017*

Paesi Emergenti e in Sviluppo Paesi Sviluppati

36,2 63,8

36,0 64,0

44,7 57,6

50,2 49,8

55,5 44,5

Cina Unione Europea Eurozona-19 Stati Uniti India Giappone Germania Russia Brasile Francia Regno Unito Italia

2,3 29,8

4,1 27,2

7,2 23,7

11,3 20,7

22,4 3,0 7,8 6,5 – 4,3 4,5 3,4 4,5

22,5 3,8 8,9 6,0 – 3,7 4,2 3,3 4,1

21,3 4,5 6,8 4,9 3,0 3,2 3,5 3,0 3,3

18,6 5,5 5,5 4,0 3,7 2,9 2,9 2,8 2,6

18,2 16,5 11,5 15,3 7,4 4,3 3,3 3,2 2,5 2,2 2,3 1,8

Nota: quote % sul Pil mondiale (in PPP) Fonte: IMF. *Eurostat.

Un discorso analogo può essere svolto con riferimento al peso dell’UE sul commercio mondiale. Abbiamo già rilevato (par. 14.4) che l’UE nel suo insieme – quindi escludendo gli scambi intracomunitari – è la seconda potenza esportatrice poco dietro la Cina (entrambe pesano per poco più del 15% delle esportazioni mondiali in valore) ed il secondo blocco importatore poco dietro gli Usa (15% e 16% delle importazioni mondiali rispettivamente). Quanto ai 12 Naturalmente in termini di reddito pro-capite (sempre in PPP, dati Conference Board 2017), i paesi europei, seppur staccati dagli Usa (la Germania è all’83,8% del reddito medio Usa, la Francia al 71,5% e l’Italia al 64,3%), distanzierebbero per il momento le economie emergenti che stanno ancora completando il loro “catching-up” (la Cina è al 28,5% del reddito medio Usa e l’India al 12% circa). Per ulteriori confronti, anche riferiti a decenni passati, si veda il cap. 1 in MARELLI, SIGNORELLI (2017a).

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singoli paesi, la Germania, che è la maggiore potenza commerciale dell’UE, è invece distanziata – sia da Cina che da Usa – tanto per l’export (circa 8% del totale mondiale) quanto per l’import (poco più del 6%). Ancora più lontani sono naturalmente Francia, Italia ed i paesi più piccoli dell’UE. In definitiva, mentre un’Europa unita può ancora competere con le maggiori potenze economiche mondiali – Cina, Usa, Giappone (ed in prospettiva India, Brasile, ecc.) – un’Europa maggiormente frammentata avrebbe un peso molto minore e declinante nel tempo.

15.2. Le istituzioni dell’UE ed i successivi Trattati Vediamo ora quali sono le principali istituzioni dell’UE, come risultanti dal Trattato di Lisbona (di cui parleremo tra breve): – il Consiglio europeo: è composto dai capi di Stato o di governo dei paesi membri; di regola il Consiglio decide a maggioranza semplice; per specifiche questioni è però richiesta la maggioranza qualificata (con un sistema di ponderazione dei voti) o l’unanimità (come nel caso dell’adesione di nuovi membri); – nel caso di decisioni su materie specifiche si riunisce il Consiglio (dei ministri) dell’UE, ad esempio per le materie economiche l’Ecofin, ossia il Consiglio dei ministri economici e finanziari; in tutto sono previste una decina di materie (esteri, interni, agricoltura, trasporti, e così via) 13; – la Commissione, i cui membri sono designati dagli Stati membri (ora uno per ogni stato) e sono in carica per un periodo di 5 anni rinnovabile; essa, oltre a fungere da “guardiano” dei Trattati, ha poteri di iniziativa, preparazione, decisione e controllo; – il Parlamento, i cui membri sono eletti ogni 5 anni (elezione diretta dal 1978 da parte di tutti i cittadini europei: in precedenza c’era una Assemblea parlamentare i cui delegati erano designati dai Parlamenti nazionali); – la Corte di Giustizia (è l’organo giurisdizionale), la Corte dei Conti ed altre istituzioni minori; – organi consultivi come il Comitato economico e sociale, il Comitato delle regioni; – organi dotati di ampia autonomia, come la Banca Centrale Europea (Bce), la Banca Europea per gli Investimenti (Bei), il Fondo Europeo per gli Investimenti; oltre a quelle nate dopo l’ultima crisi, come i fondi “salva-Stati” (Efsf, Esm, etc.: cfr. cap. 19). Gli Atti degli organi comunitari comprendono: (i) i Regolamenti, che sono emanati dal Consiglio e sono direttamente applicabili negli Stati membri; (ii) le Direttive, che trovano applicazione attraverso le successive normative nazionali (ossia mediante la “trasposizione” del contenuto in leggi nazionali); (iii) le Decisioni, che sono vincolanti per specifici destinatari (non necessariamente Stati membri); (iv) Pareri e raccomandazioni. Dopo il Trattato di Roma del 1957 per circa un trentennio non furono apportate modifiche sostanziali; da metà anni ’80 sono invece stati approvati, con ratifiche dei Parlamenti nazionali e/o referendum 14, nuovi Trattati: i. l’Atto Unico (firmato nel 1986 ed in vigore dal luglio 1987): è la prima importante modifica 13 L’Eurogruppo è invece il Consiglio dei ministri economici e finanziari dei soli Paesi che hanno adottato l’euro. 14 In certi paesi come l’Irlanda i nuovi Trattati Ue sono obbligatoriamente sottoposti a referendum; in altri Paesi sono facoltativi, ma come vedremo possono avere un esito rilevante o addirittura dirompente sul processo d’integrazione (come in Francia e Danimarca nel 1992, in Francia e Paesi Bassi nel 2005).

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ii. iii. vi. v.

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del Trattato di Roma, per introdurre le “quattro liberalizzazioni” in vista del Mercato Unico (entro il 31 dicembre 1992); il Trattato di Maastricht ossia il “Trattato sull’Unione europea” 15 (firmato nel febbraio 1992 ed in vigore dal novembre 1993) sull’Unione Economica e Monetaria europea; il Trattato di Amsterdam (firmato nel 1997 ed in vigore dal maggio 1999), che promuove esplicitamente le politiche per l’occupazione, oltre a prevedere ulteriori integrazioni nel campo della politica estera e della giustizia; il Trattato di Nizza (firmato nel 2001 ed in vigore dal febbraio 2003), che ha introdotto alcune riforme istituzionali; il Trattato di Lisbona (firmato nel dicembre 2007 ed in vigore dal dicembre 2009).

Alcuni di questi trattati saranno esaminati nei prossimi capitoli (il Trattato di Maastricht nel cap. 16, quello di Amsterdam nel cap. 21). Ricordiamo anche innovazioni istituzionali rilevanti, anche se non sono veri e propri Trattati estesi a tutti i membri; per esempio 16 l’accordo di Schengen, applicato a partire dal 1990 ed a cui hanno aderito un numero crescente di paesi, sulla libera circolazione delle persone. L’accordo fu poi incorporato nel Trattato di Amsterdam, che comprendeva anche norme in materia di visti, asilo, immigrazione 17. Il cosiddetto “spazio Schengen”, con l’eliminazione dei controlli delle persone alle frontiere, da un lato esonera Irlanda e Regno Unito (che si sono auto-esclusi) 18 e, dall’altro lato, comprende invece i paesi dello “Spazio economico europeo” più la Svizzera (anche se per questi permangono i controlli doganali sulle merci). Illustriamo qui più in dettaglio le riforme istituzionali più significative introdotte con il Trattato di Lisbona. Come premessa facciamo osservare che, nel nuovo secolo, le istituzioni ereditate dai precedente Trattati (incluso quello di Nizza) erano farraginose ed inadeguate per far funzionare un’unione di 25 membri (dopo lo storico allargamento del 2004 a dieci nuovi membri). Inoltre, si riteneva opportuno dare all’UE una vera e propria Costituzione. Così nel 2002-2003 fu convocata un’apposita Convenzione europea 19, le cui conclusioni furono recepite in una Conferenza intergovernativa (2003), che adottò una proposta di “Trattato costituzionale”. Tuttavia le mancate ratifiche di Francia e Olanda in due referendum del 2005 fermarono brutalmente questo processo d’integrazione 20. Dopo alcuni mesi d’incertezza 21, si arrivò 15 Il Trattato sull’Unione Europea (TUE), che contiene infatti soprattutto i principi istituzionali, si aggiunge quindi al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), che comprende in sostanza il Trattato di Roma, così come modificato dai trattati successivi fino a quello di Lisbona, e descrive in modo più dettagliato il funzionamento degli organi dell’UE. 16 Altri esempi: le disposizioni sul Sistema Monetario Europeo del 1979; il Patto di Stabilità e Crescita del 1997; la Strategia di Lisbona per l’occupazione e la crescita del 2000, poi aggiornata nel “piano Europa 2020”; i Trattati sul fondo Esm e sul Fiscal Compact. 17 Riguardo ai flussi d’ingresso di persone nell’UE, un trattamento particolare è riservato ai richiedenti asilo o lo status di rifugiato. La “convenzione di Dublino” del 1990, in vigore dal 1997, è sfociata in diversi Regolamenti (l’ultimo è del 2013). Esso prevede che lo Stato membro competente all’esame della domanda d’asilo è lo Stato in cui il richiedente asilo ha fatto il proprio ingresso. 18 Un avvio parziale e graduale era previsto anche per i nuovi paesi membri (entrati nell’UE nel nuovo secolo). 19 Nella Convenzione c’erano rappresentanti non solo di tutti i paesi membri, ma anche dei paesi allora candidati ad entrare nell’UE, nonché delle regioni europee e delle parti sociali. 20 Si noti che Francia e Olanda sono due paesi “fondatori”, per cui l’esito negativo nei referendum (sebbene più per motivazioni interne ai due paesi, che non europee) costituì una pesante battuta d’arresto. 21 Fu soprattutto la cancelliera Merkel decisa a far ripartire il precedente progetto, sebbene in forme meno ambiziose perché fu tolta la qualifica di “Trattato costituzionale”; peraltro, nella sostanza, le più significative innovazioni istituzionali sono rimaste.

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infine nel dicembre 2007 alla firma del Trattato di Lisbona, meno ambizioso, ma ratificato da tutti i paesi 22 nel 2009. È entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Le innovazioni istituzionali più rilevanti sono le seguenti: – Presidente del Consiglio europeo “permanente” eletto per due anni e mezzo (rinnovabile una sola volta); in precedenza, vi era solo una rotazione semestrale dei Presidenti 23; – nel Consiglio europeo, per le decisioni a maggioranza qualificata, sono ora previste solo due soglie (55% dei paesi e 65% della popolazione), contro i tre tipi di pesi del Trattato di Nizza; – c’è ora un Alto rappresentante dell’Unione per la Politica estera e di sicurezza (Pesc) 24, che è anche vice-presidente della Commissione; – la Commissione dovrebbe divenire più snella (solo due terzi degli Stati membri avranno un proprio commissario) 25; – Parlamento europeo con maggiori poteri (di “co-decisione” col Consiglio riguardo al potere legislativo); dal maggio 2019 avrà 705 membri 26; – altre innovazioni significative sono le “cooperazioni rafforzate” (ossia un sotto-gruppo di paesi può procedere in certi ambiti attraverso un’integrazione più stretta) e la previsione di una “clausola di uscita” dall’UE. Si noti che prima del Trattato di Lisbona non era prevista una procedura legale di uscita dall’UE. Ora invece sì, ma non invece dall’euro (cfr. cap. 16). In particolare, l’art. 50 del Trattato di Lisbona, che è stato applicato nel caso della Brexit (con notifica all’UE da parte del premier May nel marzo 2017), stabilisce la procedura applicabile nei confronti dello Stato membro che desidera recedere dall’UE. Prevede negoziati tra le due parti da concludersi entro due anni dalla notifica; in mancanza di accordo, i Trattati cessano di applicarsi al paese che recede. Il Consiglio europeo può decidere all’unanimità di prorogare tale termine.

15.3. L’unione doganale, la politica della concorrenza e la politica di coesione La politica economica e sociale dell’UE si pone tre grandi obiettivi: crescita, stabilità, coesione. La stabilità macroeconomica (stabilità dei prezzi e finanze pubbliche sane), rafforzata con i criteri di Maastricht, è vista come una condizione per la crescita. Per sostenere la crescita è però necessario un ambiente concorrenziale e competitivo, come enfatizzato nell’Agenda di Lisbona e dal piano Europa 2020; la crescita deve salvaguardare l’ambiente ed accompagnarsi ad un buon livello di coesione sociale. Un alto livello di coesione richiede basse disuguaglianze nella distribuzione del reddito, sia tra paesi che all’interno degli stessi, ad esempio tra le regioni. 22 Per la verità in Irlanda ci fu una prima bocciatura nel 2008, ma il sì arrivo l’anno dopo a seguito di alcune concessioni fatte a quel Paese. 23 L’ultima volta che l’Italia ebbe la presidenza semestrale fu nel secondo semestre 2014. Presidente permanente è stato nel quinquennio 2014-2019 il polacco Donald Tusk (subentrato al belga van Rompuy, presidente fino a novembre 2014). Tutte le cariche istituzionali saranno rinnovate nell’autunno 2019, dopo le elezioni del Parlamento europeo di maggio 2019. 24 L’attuale “Mrs. Pesc” (per il quinquennio 2014-2019) è l’italiana Federica Mogherini; succeduta all’inglese Catherine Ashton. 25 Norma per ora inapplicata: ciascuno dei 28 paesi ha un suo rappresentante in Commissione. Il presidente della Commissione per il quinquennio 2014-2019 è stato il lussemburghese Jean-Claude Juncker, subentrato al portoghese Barroso. 26 Ossia 46 in meno rispetto all’attuale Europarlamento, tenuto conto della Brexit. Poiché il Regno Unito aveva 73 membri, i 27 seggi rimanenti saranno ridistribuiti tra 14 paesi, per cui l’Italia passerà da 73 a 76 seggi.

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In questo senso, la concorrenza deve espletarsi in quella che è stata definita “economia sociale di mercato”. È questa una caratteristica distintiva del “modello di sviluppo” europeo (cfr. cap. 5), in cui accanto al libero esplicarsi delle forze di mercato dovrebbe essere riservata un’attenzione particolare alle finalità equitative, espresse appunto nell’obiettivo della coesione economica e sociale. A questo fine sono rivolti i “fondi strutturali” appositamente creati (illustrati alla fine di questo paragrafo). Il libero esplicarsi delle forze di mercato è invece garantito dalla rimozione degli ostacoli agli scambi commerciali e dalla politica della concorrenza. La Cee era fin dalla nascita un’unione doganale, che prevedeva l’eliminazione dei dazi interni ed anche l’unificazione delle tariffe esterne verso i paesi terzi 27; l’eliminazione dei dazi è stata graduale, comunque completata entro il 1968, ed ha portato alla creazione di quello che all’epoca si chiamava “Mercato comune europeo”. La creazione di questo mercato ha comportato innanzi tutto guadagni di tipo statico, grazie agli aumentati scambi commerciali. Gli studiosi 28 hanno infatti dimostrato che, con la creazione dell’unione doganale europea, gli effetti di trade creation – secondo cui aumentano gli scambi commerciali all’interno dell’area – sono stati maggiori di quelli di trade diversion, ossia della diminuzione degli scambi con paesi terzi; anzi la trade diversion è stata assente o poco significativa nel caso specifico 29. Ulteriori guadagni statici comprendono l’aumento di produzione e redditi, il maggior benessere dei consumatori (maggior varietà di produzioni e possibilità di scelta, prezzi più bassi). A questi si aggiungono i guadagni dinamici, che passano attraverso la concorrenza, lo sfruttamento delle economie di scala in mercati più ampi, gli incrementi di produttività, maggiori investimenti e quindi più elevata crescita. Sempre nel Trattato di Roma, c’era un insieme di articoli importanti a favore della concorrenza che vietavano: – gli accordi collusivi tra imprese: perché siano di rilievo comunitario (e, quindi, affinché le decisioni siano prese dalla Commissione anziché dalle Autorità nazionali) le pratiche restrittive della concorrenza devono avere una dimensione comunitaria, ossia alterare il commercio tra paesi); comunque, basta che gli accordi collusivi esistano de facto, attraverso le “pratiche concertate”; nel caso di accordi tra imprese, queste devono ottenere un’esplicita autorizzazione da parte della Commissione (pena l’applicazione di multe); – l’abuso di posizioni dominanti: si verificano quando grandi imprese possono usare il proprio potere discrezionale e di mercato per fissare prezzi, strategie o altre pratiche distorsive della concorrenza 30; – gli aiuti pubblici alle imprese: specie se a favore di talune imprese o certe produzioni (sono previste eccezioni a seguito di circostanze eccezionali, quali disastri naturali oppure per 27 Quest’ultimo requisito non si applica alle “zone di libero scambio” (cfr. par. 14.7): infatti nelle zone di libero scambio ciascun paese mantiene le proprie tariffe nei confronti del resto del mondo; esempi sono l’Efta ed il Nafta. 28 Si veda BALASSA (1974). 29 Per esempio, dopo la creazione del Mercato comune, gli italiani importarono più automobili tedesche, senza che questo andasse a scapito delle importazioni di auto americane. Si tenga presente che in quel periodo anche a livello mondiale si realizzavano le liberalizzazioni stabilite in sede Gatt (cfr. cap. 14); inoltre, non solo l’economia italiana, ma anche quella europea e mondiale, crescevano a ritmi molto intensi (favorendo così gli scambi con tutti i paesi). 30 Sono considerate situazioni a rischio quelle per cui le quote di mercato di un’impresa superano il 70%.

Il processo d’integrazione nell’UE: dall’unione doganale al mercato unico

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promuovere lo sviluppo di aree sottosviluppate); sono invece accettabili interventi di tipo “orizzontale” (a favore della ricerca, delle piccole e medie imprese, dell’occupazione e formazione, della salvaguardia ambientale, etc.); – regolamentazione (attuata in un secondo tempo) delle concentrazioni di imprese, fusioni ed incorporazioni (mergers and acquisitions); in questo caso maggiore attenzione viene riservata alle unioni tra imprese di tipo orizzontale, piuttosto che a quelle verticali (che potrebbero invece migliorare l’efficienza). Mentre la politica a favore della concorrenza interessa soprattutto il settore industriale ed i servizi, sin dal Trattato di Roma la Cee rivolse un’attenzione particolare all’agricoltura. L’importanza attribuita a questo comparto discende dal contesto dell’epoca: crisi alimentare postbellica, povertà del settore agrario (e gran parte della popolazione viveva ancora nelle campagne), arretratezza tecnica (e conseguente bassa produttività). La politica agricola comunitaria (Pac) – a cui faremo solo un breve cenno in questa sezione – prese avvio nel 1962; prevedeva due obiettivi principali: stabilizzare i mercati dei prodotti agricoli, con prezzi congrui per gli agricoltori (1° pilastro) e favorire lo sviluppo rurale (2° pilastro). I sostegni al settore venivano erogati attraverso gli interventi di un apposito fondo, il Fondo europeo di orientamento e garanzia (Feoga); gli interventi comportavano anche il sostegno dei prezzi interni e sussidi alle esportazioni di prodotti agricoli. Fin dall’inizio la Pac è stata criticata per diversi motivi: (i) gli oneri eccessivi a carico del bilancio comunitario (la Pac assorbiva inizialmente i 3/4 delle uscite del bilancio); (ii) i prezzi più alti per i consumatori europei, per molti prodotti più che doppi rispetto a quelli di libero mercato; (iii) i conseguenti trasferimenti di benessere dai consumatori ai produttori, nonché tra gli Stati membri; (iv) l’impostazione protezionistica (in controtendenza rispetto alle liberalizzazioni negli altri settori) e la penalizzazione dei paesi produttori del Terzo Mondo. Anche a seguito di queste critiche, nel corso del tempo sono state approvate varie riforme della Pac, che hanno modificato le modalità d’intervento, anche se relativamente meno il peso di questa politica di settore. Ricordiamo, tra le riforme più recenti 31, la riforma Fischler (2003) che istituiva due nuovi fondi, il Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) ed il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr) 32; lo “Health check” (2008), che mirava a potenziare il 2° pilastro 33; infine, la “nuova Pac” (2014-2020) enfatizza gli obiettivi di convergenza, innovazione, sostenibilità ambientale (le spese destinate al 2° pilastro erano previste salire fino ad un quarto del totale). Nella definizione del nuovo orizzonte di programmazione (2014-2020), alcuni paesi chiedevano un ridimensionamento della Pac, a favore di altri interventi, per esempio dei fondi strutturali. La difesa da parte di altri paesi ha portato ad un compromesso, secondo cui la Pac 31 Le principali riforme del passato comprendono il Piano Mansholt (1968), che mirava ad incentivare la riduzione dell’occupazione agricola e la crescita della dimensione aziendale, ma presentava vari limiti (inclusa l’incapacità di contenere il fenomeno delle eccedenze produttive per svariati prodotti); il Libro Verde (1985), che si proponeva di limitare tali eccedenze seguendo un approccio di sostegno dei redditi invece che dei prezzi; la riforma MacSharry (1992), tendente a ridurre prezzi e superfici e l’introduzione dei pagamenti diretti agli agricoltori; l’Agenda 2000 (1999), orientata invece allo sviluppo rurale ed alla competitività. 32 Già da alcuni anni era inoltre presente un fondo (ora chiamato Feamp “Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca”), destinato specificamente alla pesca. 33 Gli anni del nuovo secolo hanno visto acutizzarsi anche i problemi della zootecnia, specie delle quote latte (che erano state introdotte già nel 1984 e recentemente abolite); infatti gli sforamenti delle quote hanno portato a sanzioni comunitarie applicate ad allevatori di numerose regioni, anche del Nord Italia.

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avrà un’incidenza decrescente ma ancora importante nel bilancio comunitario (circa un terzo delle uscite alla fine del periodo) 34. La politica di coesione è volta invece a ridurre i divari di sviluppo tra paesi e regioni europee ed agisce principalmente attraverso i fondi strutturali. I principali Fondi strutturali sono: i. il Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr): fu introdotto nel 1975 e mira in particolare a ridurre le disparità regionali, co-finanziando 35 alcuni interventi, quali investimenti produttivi, nel campo della ricerca e sviluppo, a favore delle piccole e medie imprese, nel settore delle infrastrutture, a sostegno delle politiche ambientali, etc.; le regioni obiettivo che possono usufruire del Fesr sono le regioni in ritardo di sviluppo (con un Pil pro-capite inferiore al 75% della media dell’UE), oppure regioni con problemi occupazionali o colpite da trasformazioni strutturali; ii. il Fondo sociale europeo (Fse): istituito con il Trattato di Roma, è destinato soprattutto agli interventi di natura sociale ed occupazionale, per migliorare la mobilità dei lavoratori e le opportunità di impiego, politiche per la formazione e riqualificazione professionale, lotta alla povertà (possibili destinatarie sono tutte le regioni dell’UE); iii. il Fondo di coesione: istituito dal Trattato di Maastricht e introdotto nel 1994, beneficia gli Stati con un Pil pro-capite inferiore al 90% della media dell’UE, soprattutto per finanziare interventi in campo ambientale e per le infrastrutture di trasporto (reti transeuropee) o, più recentemente, anche per lo sviluppo sostenibile; iv. oltre ai fondi (sopra citati) per il settore agricolo. Il tipo di interventi da realizzare con i fondi strutturali è stato meglio definito con la riforma del 1988 e poi nel periodo di programmazione 2007-2013. La riforma del 1988 introduceva i quattro principi fondamentali (poi inseriti nell’Atto unico europeo e ripresi nel Trattato di Maastricht) di: concentrazione, addizionalità, programmazione, partnership. Il partenariato (che riveste un ruolo cruciale nelle fasi di preparazione, attuazione, sorveglianza e valutazione dei programmi operativi) prevede il coinvolgimento delle amministrazioni a livello europeo, nazionale e regionale, nonché le parti economiche e sociali, ed anche organismi della società civile (tra cui le Ong) 36. Le prospettive finanziarie 2007-2013 hanno rappresentato una tappa importante nella politica di coesione europea perché definivano, per le spese dei fondi strutturali, tre nuovi obiettivi: i. convergenza: coincideva in sostanza con gli interventi a favore delle regioni in ritardo di sviluppo ed assorbiva i 4/5 della spesa totale; 34 I primi quattro paesi beneficiari della spesa agricola, in termini assoluti, sono Francia (non a caso fino ad oggi il maggior difensore della Pac), Spagna, Germania ed Italia (dati 2012); i paesi dell’Europa centro-orientale sono più presenti nel fondo per lo sviluppo rurale (Feasr). 35 Nella logica del co-finanziamento gli Stati devono partecipare con propri fondi a parte (in genere dal 50% al 80%) delle spese. 36 Poiché la politica di coesione non finanzia singoli progetti, ma programmi nazionali pluriennali, era previsto che la programmazione degli interventi fosse concertata con gli Stati membri attraverso i “Quadri comunitari di sostegno”, mentre la Commissione europea avrebbe potuto agire direttamente mediante i “Programmi di iniziativa comunitaria” (ad esempio per la cooperazione transfrontaliera e le reti energetiche). Inoltre, con gli “accordi di partenariato” si sarebbero stabilite le modalità adottate dai singoli paesi per provvedere all’allineamento con la strategia europea di coesione, specificando gli “approcci integrati” allo sviluppo territoriale, il mandato di ciascun fondo, l’elenco indicativo dei partner ed altri aspetti caratterizzanti.

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ii. competitività regionale e occupazione: per le regioni che non rientravano nell’obiettivo precedente (poco più del 15% dello stanziamento totale), iii. cooperazione territoriale europea: per esempio interventi a favore delle regioni transfrontaliere (con importi relativamente ridotti). Il primo obiettivo riguardava soprattutto gli interventi a favore dei Paesi e delle regioni in ritardo di sviluppo, in prevalenza tramite il Fesr; il secondo riguardava il rafforzamento della crescita, della competitività ed i miglioramenti nel mercato del lavoro. Mentre tradizionalmente le regioni beneficiarie dei fondi Fesr erano quasi tutte localizzate nel Sud Europa (Portogallo, Grecia, Spagna meridionale, Mezzogiorno d’Italia), dopo l’allargamento del nuovo secolo sono quasi tutte le regioni dell’Europa orientale – con un reddito pro-capite quasi ovunque nettamente inferiore a quello delle regioni occidentali – ad assorbire il grosso dei trasferimenti, a cui si aggiungono gli aiuti agli Stati attraverso il Fondo di coesione. Infatti, le conseguenze dell’allargamento dall’UE-15 all’UE-25 (e poi UE-28) furono che la popolazione dell’UE aumentò di circa il 20%, ma il Pil solo del 5%. Le risorse dei fondi strutturali furono quindi spalmate su più paesi e regioni, quasi tutti più poveri rispetto ai precedenti beneficiari 37. Le rimanenti regioni, più sviluppate, potevano (e possono) tuttavia beneficiare degli aiuti per l’obiettivo competitività, inclusi finanziamenti per l’innovazione, lo sviluppo sostenibile, una migliore accessibilità e progetti di formazione. Già nel corso del periodo di programmazione qui in esame (2007-2013) si prevedeva che la politica di coesione non solo dovesse promuovere uno sviluppo armonioso, portando alla riduzione del divario tra le regioni, ma anche che essa avrebbe dovuto indirizzare le proprie risorse verso la Strategia “Europa 2020”, al fine di realizzare una crescita “intelligente, sostenibile e inclusiva” (cfr. cap. 21). La classificazione delle regioni beneficiare nella successiva fase programmatoria (20142020) è rimasta sostanzialmente analoga. La Fig. 15.1 evidenzia la distribuzione delle regioni beneficiare dei due principali fondi strutturali, il Fesr ed il Fondo di coesione. Si noti che, in aggiunta alle regioni “meno sviluppate”, che hanno un Pil pro-capite inferiore al 75% della media UE, figurano quelle “in transizione”, con un Pil pro-capite compreso tra 75% e 90% della media comunitaria. Gli importi stanziati per tutti i fondi strutturali, distinti tra i vari obiettivi, saranno invece presentati trattando di bilancio dell’UE (par. 12.5).

37 Così, per l’Italia, che ancora nel ciclo di programmazione 2000-2006 beneficiava di poco più del 15% di tutti i Fondi strutturali, nel QFP 2007-13 subì una contrazione del 12% in termini nominali. Tra le precedenti regioni italiane beneficiarie, solo Puglia, Sicilia, Campania e Calabria continuarono a rimanere nell’ambito dell’obiettivo convergenza. Le regioni phasing-out sono quelle che gradualmente uscirono dall’assistenza per l’obiettivo convergenza (in quanto il loro reddito pro-capite era salito sopra il 75% della media comunitaria); quelle phasing-in sono quelle che iniziarono a far parte dell’obiettivo competitività (per esempio Basilicata e Sardegna, rispettivamente, nel caso italiano). L’impatto della lunga crisi è stato in generale molto maggiore nelle regioni meridionali e insulari, ma ha colpito molto pesantemente anche alcune regioni del centro Italia come le Marche e l’Umbria, tanto che tali due regioni nel 2018 sono ritornate ad avere un reddito fra il 75% e il 90% della media europea, quindi destinatarie di fondi UE per le regioni cosiddette “in transizione”.

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Figura 15.1. – Regioni europee beneficiarie dei fondi strutturali

Structural Funds (ERDF and ESF) ELIGIBILITY 2014-2020 Category Less developed regions (GDP/head < 75% of EU-27 average) Transition regions (GDP/head between >= 75% and < 90% of EU-27 average) More developed regions (GDP/head >= 90% of EU-27 average)

Fonte: Commissione europea, Direzione generale Politica regionale e urbana

15.4. Il Mercato Unico e le quattro liberalizzazioni Negli anni ’80 ci si rese conto che all’interno dell’UE, nonostante l’abolizione dei dazi doganali (barriere tariffarie) risalente agli anni ’60, vi erano ancora numerose barriere non tariffarie. Il “Libro Bianco”, predisposto dalla Commissione europea nel 1985, proponeva quindi ben 282 misure legislative per eliminare le restrizioni all’entrata nei mercati, nonché le barriere che comportavano un aumento dei costi di produzione o di commercializzazione, inclusi gli ostacoli di tipo: – fisico (i controlli doganali alla frontiera); – tecnico: ad esempio differenze negli standard tecnici (requisiti che i prodotti devono soddisfare per legge), nelle norme sanitarie, di tutela ambientale e dei consumatori, ostacoli alla prestazione di servizi finanziari e di trasporto, negli appalti pubblici, e così via; – fiscale: esistenza di sistemi fiscali molto diversi, con aliquote Iva fortemente differenziate, dissimili imposizioni sui redditi da capitale, etc.

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L’Atto Unico europeo, adottato nel 1986 ed in vigore dal luglio 1987, modificava ed integrava i tre Trattati degli anni ’50. L’obiettivo principale era quello di realizzare un vero Mercato Unico (Single Market) entro il 31 dicembre 1992, attraverso le quatto liberalizzazioni, ossia dei flussi di: (i) merci, (ii) servizi, (iii) persone, (iv) capitali. Le misure di liberalizzazione sono state introdotte gradualmente, con direttive, non con regolamenti (le direttive consentono un minimo di flessibilità nelle trasposizioni negli ordinamenti nazionali, ma implicano tempi più lunghi per l’attuazione finale). Le direttive sono state recepite in modo ancor più graduale; ad esempio a fine 1992 il “deficit di trasposizione” era in media vicino al 20% (maggiore in alcuni paesi). Tuttavia la data del 31 dicembre 1992 era più che altro simbolica ed all’inizio del nuovo secolo il deficit di trasposizione era ancora del 23% 38. È comunque importante considerare il “Single Market” come un processo dinamico, che richiede sempre nuovi interventi 39. I settori che hanno evidenziato una maggiore resistenza nei confronti delle azioni liberalizzatrici sono stati (soprattutto in Italia): energia, utilities, prodotti farmaceutici, assicurazioni, servizi finanziari, libere professioni; una maggiore efficacia, con effetti positivi più immediati, si è riscontrata per la tutela dei consumatori 40 e della salute pubblica. Sulla liberalizzazione di servizi, libere professioni e, più in generale, prestazioni lavorative, c’è tuttavia stato un intenso dibattito. Va infatti rilevato che, dopo gli allargamenti degli anni 2000, la necessità di competere con i Nuovi membri a più basso costo del lavoro ha provocato nei vecchi membri una “competizione al ribasso”, implicando il contenimento dei salari, delle tutele a favore dei lavoratori, nonché dei livelli delle prestazioni sanitarie e previdenziali, e più in generale della “spesa sociale”. I rischi di race-to-the-bottom interni alla UE hanno portato a modificare parzialmente la prima “direttiva Bolkestein” del 2005, sulla libera prestazione dei servizi nei paesi terzi (che prevedeva l’applicazione delle norme e delle condizioni del paese di origine) 41. Si tratta in sostanza delle preoccupazioni già generate nei paesi maturi dai processi di globalizzazione (cfr. par. 14.3), divenute ancor più esasperate nei processi di liberalizzazione spinta interni all’UE. Comunque, quali sono le stime degli ulteriori benefici che il Mercato unico ha arrecato, in aggiunta alla già realizzata unione doganale (cfr. par. 15.2)? Ebbene una risposta ci è fornita dal Rapporto Cecchini (1988) sui “costi della non-Europa”. Tale rapporto stimava i benefici che l’abbattimento delle barriere non tariffarie avrebbe comportato, attraverso diverse metodologie, sia micro che macroeconomiche. A livello macro era stimato un guadagno “una tantum” di Pil pari al 4,5%, incrementabile ad un 6,5-7,5% grazie ad appropriate politiche d’accompagnamento, rese possibili dai minori vincoli a politiche di tipo espansivo (grazie ai migliorati saldi di bilancio pubblico, bilancia commerciale ed alla minore inflazione). Altre ricerche empiriche hanno pure stimato possibili effetti dinamici, derivanti dai maggiori investimenti, quantificati in un incremento “permanente” della crescita annua del Pil compreso tra lo 0,2% e lo 0,9% 42. 38 Cfr.

ALTOMONTE, NAVA (2005). questo senso, le azioni del Single Market vanno considerate in continuità con le misure previste dalla successiva Agenda di Lisbona (del 2000) e dal recente piano “Europa 2020” (cfr. cap. 21). 40 Tuttavia, significativi passi avanti sono ancora necessari, ad esempio, riguardo alla effettiva “tracciabilità” dei prodotti alimentari nonché alle condizioni minime (talvolta troppo limitate) che consentono di etichettare come “made in” (ad esempio “made in Italy”) un determinato prodotto. 41 Veniva spesso preso come esempio un mitico “idraulico polacco” che esercitava una concorrenza, ritenuta sleale, nei confronti dei lavoratori autoctoni in Francia o altri paesi della “vecchia Europa”. 42 Una valutazione ex-post è stata effettuata in uno studio della Commissione del 1996, secondo cui il Mer39 In

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Infine, l’Atto Unico è ricordato per avere introdotto in modo esplicito alcuni principi che caratterizzano la governance europea: (i) il principio di sussidiarietà verticale, per il quale le decisioni di politica economica debbono essere prese al livello più vicino possibile ai cittadini (quindi al limite al livello regionale, a meno che si dimostri che è più efficiente o equo che le decisioni vengano prese ad un livello superiore, nazionale o comunitario); (ii) il principio di “partenariato” (partnership) che implica la collaborazione tra diversi livelli di governo, nonché tra il settore pubblico e quello privato (incluse le parti economiche e sociali) 43; (iii) il principio del mutuo riconoscimento (per cui le norme nazionali debbono essere accettate anche negli altri paesi nella fase transitoria, ossia prima che l’armonizzazione di norme e regolamenti sia completata a livello europeo) 44. Nonostante questi principi, le norme ed i regolamenti introdotti a livello comunitario sono stati molteplici e crescenti nel tempo, raggiungendo dimensioni ritenute eccessive. Sebbene con il fine di rendere effettiva la concorrenza nei diversi settori e comparti, la “burocrazia di Bruxelles” ha prodotto un corpo normativo e regolamentare esorbitante, risultando talvolta troppo intrusivo nella vita di produttori e consumatori. Tali eccessi di regolamentazione “microeconomica” si sono combinati nell’ultimo decennio con una significativa inadeguatezza delle politiche e della governance “macroeconomica” (nonché in tema di gestione dei flussi migratori e politica estera) 45.

15.5. Struttura ed evoluzione del bilancio UE Diversamente da altre unioni, in particolare unioni monetarie (ad esempio quella degli Stati Uniti) 46, il bilancio dell’UE è trascurabile come entità. Il Consiglio europeo ha infatti posto da tempo al bilancio dell’UE un tetto massimo pari all’1,24% del reddito nazionale lordo comunitario; come vedremo tra poco il valore vero è perfino inferiore a questo tetto. L’UE redige sia un bilancio annuale 47, sia un bilancio pluriennale, ora della durata di 7 anni; quest’ultimo definisce le cosiddette “Prospettive Finanziarie” o “Quadro Finanziario Pluriennale” (QFP), in cui sono specificate le voci di spesa, con i loro tetti massimi. Le principali entrate del bilancio sono: i. imposte sulle produzioni agricole; cato Unico ha generato un incremento permanente del prodotto annuo pari all’1%, oltre ad un numero consistente di nuovi posti di lavoro (tra 300 e 900 mila), maggiori investimenti pari al 2,7%, una riduzione dell’inflazione dell’1-1,5%. 43 In tal senso, il principio di sussidiarietà orizzontale si riferisce alla valorizzazione delle iniziative private (in particolare del “privato sociale” o terzo settore) rispetto all’azione – talvolta meno efficiente ed efficace – delle istituzioni pubbliche. 44 Da questo principio comunitario deriva l’obbligo di accettazione, da parte di ogni paese UE, dei prodotti legalmente realizzati e commercializzati in un altro stato membro, senza che questi debbano necessariamente rispettare le prescrizioni normative e gli standard del paese importatore, a meno che la loro produzione e vendita non violi diritti fondamentali nei paesi d’origine (ad esempio diritto alla salute); è evidente che tale principio, se non ben specificato e applicato, può entrare in conflitto con i diritti a tutela del consumatore (incluso il diritto ad un’informazione completa sulle modalità di produzione e sulle caratteristiche qualitative di un prodotto). 45 Anche per questo, il cosiddetto “sovranismo” ha assunto connotati “anti-Ue”, portando al successo dei movimenti e partiti sovente definiti “populisti” (dalla Brexit al nuovo governo italiano M5S-Lega, dai governi di molti paesi dell’Est alle minoranze di destra in Francia, Germania e paesi nordici). 46 Questa limitazione importante sarà enfatizzata nel prossimo capitolo, trattando di “teorie Avo”. 47 Il principio dell’equilibrio stabilisce che il bilancio dell’UE deve essere in pareggio in ogni singolo anno.

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ii. dazi doganali (ossia i proventi della tariffa esterna comune); questa risorsa, assieme alla precedente, è nota come “risorse proprie tradizionali”; iii. la risorsa Iva: l’aliquota Iva è dello 0,3% (ricompresa all’interno delle aliquote definite a livello nazionale) e si applica su una base imponibile calcolata secondo criteri comuni; iv. la “quarta risorsa” o risorsa reddito (in precedenza chiamata “risorsa Pil”): è versata dai governi nazionali ed attualmente ammonta a circa lo 0,7% del reddito nazionale lordo di ciascun Paese; è una risorsa “marginale” (serve per rispettare l’equilibrio del bilancio, una volta definito il totale delle spese). Nel tempo la struttura delle entrate si è modificata, con un declino delle “risorse tradizionali” (dal 100% degli anni ’70 al 10% del totale nel 2013) ed un’espansione della risorsa reddito (che ora rappresenta circa i tre quarti delle entrate totali). Riguardo alle spese, nel corso del tempo si è modificata anche la struttura delle uscite, ridefinita al succedersi delle diverse “Prospettive Finanziarie”, in particolare delle ultime 48: 1989-1993 (Delors I), 1994-1999 (Delors II), Agenda 2000 (2000-2006), quella successiva (2007-2013) e quella in via di conclusione (2014-2020). In particolare, si osserva, un restringimento della spesa destinata all’agricoltura 49, un incremento delle spese strutturali, un impegno crescente verso i Nuovi Membri ed i paesi candidati (la voce: “pre-accession aid”). Relativamente all’attuale QFP 2014-20, il bilancio complessivo – circa uguale all’1% del Pil comunitario – evidenziava per la prima volta nella storia dell’Ue una contrazione in termini reali (di oltre il 3% rispetto al settennato precedente), in quanto la proposta originaria della Commissione di un budget un poco più ampio fu rigettata dal Consiglio europeo, su pressione di alcuni paesi (Regno Unito e Germania in primo luogo), ma richieste simili di contenimento erano state avanzate da altri paesi (tra cui Austria, Olanda, Finlandia, Svezia, Repubblica Ceca) 50. La struttura delle spese (si veda anche la Tab. 15.2, che riporta pure l’incidenza del totale sul reddito) 51 nell’attuale “Multi-annual financial framework” (un altro nome per QFP) prevede tre principali voci di spesa, oltre a quelle per sicurezza e cittadinanza, ed alle spese amministrative (che incidono per un 6% sul bilancio totale). Le tre voci più rilevanti sono: i. Crescita intelligente ed inclusiva, a sua volta distinta in: Competitività per crescita e occupazione (1a): questa voce rappresenta il 12% del budget totale ed i programmi più significativi sono (tra parentesi le incidenze percentuali all’interno di questa categoria di spesa): Horizon 2020 (57%) per la ricerca e l’innovazione, progetti infrastrutturali (15%), Erasmus+ (9%), ed altre minori; Coesione economica, sociale e territoriale (1b), il 33% del budget totale, che comprende: convergenza regionale (49% della categoria), Fondo di coesione (19%), competitività (16%), regioni in transizione (10%), Youth Employment Initiative (3,8%), ed altre 52. 48 Le prime due riportate nel testo avevano preso il nome dal Presidente della Commissione dell’epoca (J. Delors) e la terza dall’importante programma “Agenda 2000”. Si noti che solo dagli anni ’90 il QFP diviene settennale. 49 La spesa agricola negli anni ’60 era pari a circa 2/3 del bilancio totale ed ora è scesa a circa il 40%. 50 La Commissione aveva pure proposto di ristrutturare in modo radicale le entrate, con una riduzione dei contributi versati dagli Stati membri e l’introduzione di nuove “risorse proprie”, ad esempio una vera Iva comunitaria ed una specie di Tobin tax sulle transazioni finanziarie. Proposta non accolta, anche se un accordo per l’introduzione della Tobin tax fu raggiunto da 11 paesi nell’ottobre 2012 (e singoli paesi hanno cominciato ad introdurla in modo autonomo). 51 GNI sta per “gross national income”. 52 Le sotto-categorie “competitività” e “coesione” richiamano gli obiettivi competitività e convergenza del QFP 2007-2013. Riguardo ai fondi strutturali, va segnalato che il loro utilizzo e gestione sono molto vari, per

312

L’integrazione economica europea

ii. Crescita sostenibile e risorse naturali: sono in sostanza le spese per la Pac, 37% del budget totale; le spese principali sono relative ai fondi Feaga (74% di questa categoria) e Feasr (24%); altri interventi minori riguardano la pesca (1,7%), clima e ambiente (0,7%). iii. Global Europe (6% del budget totale), che comprende lo strumento di Cooperazione allo sviluppo (28% di questa categoria), lo strumento “European Neighbourhood” (26%), lo strumento di assistenza pre-accesso (19%), ed altri minori. Tabella 15.2. – Le principali spese dell’UE nel QFP 2014-2020

1 1A 1B

2 3 4 5 5A

Crescita intelligente ed inclusiva – competitività per crescita e occupazione – coesione economica, sociale e territoriale

Crescita sostenibile e risorse naturali Sicurezza e cittadinanza “Global Europe” Spese amministrative – funzionamento delle istituzioni europee

Totale impegni di spesa % del GNP

2014

2015

2016

2017

2018

2019

2020

Totale 2014-20

60283

61725

62771

64238

65528

67214

69004

450763

15605

16321

16726

17693

18490

19700

21079

125614

44678

45404

46045

46545

47038

47514

47925

325149

55883

55060

54261

53448

52466

51503

50558

373179

2053 7854 8218

2075 8083 8385

2154 8281 8589

2232 8375 8807

2312 8553 9007

2391 8764 9206

2469 8794 9417

15686 58704 61629

6649

6791

6955

7110

7278

7425

7590

49798

134318 1,03

135328 1,02

136056 1,00

137100 1,00

137866 0,99

139078 0,98

140242 0,98

959988 1,00

Nota: milioni di euro a prezzi costanti. Fonte: EC, Multi-annual financial framework 2014-20.

Questa struttura delle spese naturalmente avvantaggia in modo diverso i vari paesi, a seconda del loro livello di sviluppo, delle condizioni economiche e strutturali, e così via 53. Sono state svolte anche analisi per individuare quali paesi sono contribuenti netti, ossia versano al bilancio comunitario più di quanto ricevano dai vari fondi, e quali sono invece beneficiari netti 54. Relativamente al Quadro finanziario pluriennale 2021-2027, per ora c’è la proposta di regolamento avanzata dalla Commissione nel maggio 2018. È stato prospettato per il settennato un budget ancora attorno l’1% del reddito nazionale lordo dell’UE-27 (senza il Regno Unito) 55, efficienza ed efficacia, tra i paesi UE. È noto che l’Italia è tradizionalmente agli ultimi posti per capacità di spesa: in media riusciamo a spendere poco più della metà dei fondi inizialmente assegnati. In realtà ci sono problemi strutturali propri dell’amministrazione pubblica italiana, ma i livelli di rendimento differiscono molto tra le regioni e i comuni che utilizzano i fondi strutturali. 53 Ad esempio, relativamente alle spese di coesione i primi cinque beneficiari, in termini assoluti (quindi a causa anche delle diverse dimensioni), sono nell’ordine: Polonia (circa 78 mld. euro), Italia (33 mld.), Spagna (29 mld.), Romania (23 mld.), Repubblica ceca (22 mld.). 54 Secondo uno studio del Censis, nel 2012 erano 12 i contribuenti netti: al primo posto la Germania, al secondo la Francia, al terzo l’Italia, nonostante questo paese fosse al 12° posto in tutta l’UE per Pil pro-capite (25.600 euro per abitante rispetto ai 31.500 euro dei tedeschi); in particolare, in quell’anno l’Italia versò 16,4 mld. di euro e ricevette 10,7 mld., con un saldo negativo di 5,7 mld. Fra i percettori netti si collocavano ai primi posti la Polonia, la Grecia e la Spagna. Nel 2016 i principali contributori sono stati i seguenti: Germania con 23,2 mld., Francia 19,4 e Italia 13,9 (oltre al Regno Unito) (cfr. Camera dei deputati, 2018). 55 Secondo la Commissione europea, l’uscita del Regno Unito determinerà una riduzione annuale delle entrate tra i 10 e i 12 mld. di euro annui, pari a circa il 10% del bilancio attuale.

Il processo d’integrazione nell’UE: dall’unione doganale al mercato unico

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l’1,08% per la precisione, ossia a prezzi costanti 1135 mld. di euro in termini di impegni e 1105 mld. in termini di pagamenti. Circa le spese, si propone di innalzare gli attuali livelli di finanziamento in settori considerati prioritari e ad alto valore aggiunto europeo, quali: ricerca e innovazione; giovani; economia digitale; gestione delle frontiere; clima e ambiente; sicurezza e difesa. In particolare, i finanziamenti per il progetto Erasmus dovrebbero raddoppiare e le spese per la gestione dei flussi migratori quasi triplicare. Invece, i finanziamenti a favore della politica agricola comune (Pac) e della politica di coesione subirebbero una riduzione (del 5% e del 7% rispettivamente) 56; nel secondo caso a carico soprattutto del Fondo di coesione (mentre il Fesr potrebbe addirittura incrementare le dotazioni). Riguardo alle entrate, si propongono nuove risorse proprie, quali: un’imposta comune sulle società (Common Consolidated Corporate Tax Base – Ccctb), un’entrata riferita al sistema degli scambi di emissioni di gas serra (Emissions Trading System) ed una nuova tassazione collegata ai rifiuti in plastica. Queste sono le proposte della Commissione europea, che dovranno essere negoziate e condivise con il Consiglio prima e, quindi, dovranno ottenere l’approvazione dell’Europarlamento. Prospettiva questa irta di difficoltà ed incognite. Comunque il vero problema sta nella limitatezza del bilancio comunitario, problema che costituisce un grosso ostacolo sul cammino di un’ulteriore integrazione economica e soprattutto per lo stesso funzionamento dell’unione monetaria (come vedremo nel prossimo capitolo).

56 Secondo il Parlamento europeo, però, questi tagli sarebbero in realtà superiori, pari al 10% e 15% rispettivamente.

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Il Trattato di Maastricht e la “Unione economica e monetaria” europea

16.1. Il Sistema Monetario Europeo Il crollo del regime di cambi di Bretton Woods condusse ad un periodo di forte instabilità valutaria negli anni ’70, aggravato dagli shock d’offerta che si succedettero in quel decennio. Da allora il mondo nel suo complesso è passato ad un regime di cambi flessibili (come abbiamo spiegato nel cap. 12). Tuttavia, sappiamo che la stabilità dei cambi favorisce la stabilità dei prezzi e lo sviluppo del commercio internazionale. Ciò è importante soprattutto all’interno di un’area economica integrata come quella dell’UE. Infatti, i paesi europei sono economie con elevato grado d’apertura e sempre più integrate (cfr. cap. 15). L’unione doganale difficilmente riuscirebbe a sopravvivere con cambi molto volatili. La stessa politica agricola comune funziona in modo relativamente efficace solo con cambi stabili. In ogni caso, economie così “aperte” – almeno tra di loro – sono connotate da un impatto macroeconomico rilevante a seguito di variazioni dei cambi 1. In quella che ancora si chiamava Cee si cercò quindi di rimediare alla crescente instabilità mondiale dei cambi attraverso il serpente monetario (lo snake), un tentativo attuato nel 1972 al fine di tenere in qualche modo unite tra di loro le valute dei paesi europei; questo tentativo durò nemmeno due anni (anche per il sopraggiungere dello shock petrolifero del 1973). Un tentativo più completo e risolutivo fu realizzato verso la fine del decennio. Infatti nel 1978 fu firmato un accordo per costituire un Sistema Monetario Europeo (Sme), che poi entrò in vigore nel marzo 1979 2. All’inizio era un accordo tra banche centrali; fu poi formalmente inserito nel Trattato di Roma con l’Atto Unico del 1987. I contenuti principali dello Sme erano: i. accordo di cambio (“exchange rate mechanism”, Erm); ii. regolamentazione degli interventi delle banche centrali (ad esempio interventi infra-marginali, al margine, etc., come spiegheremo tra breve); iii. norme relative al finanziamento degli interventi (linee di credito a disposizione dei paesi partecipanti all’accordo). Con lo Sme, nacque l’ecu 3, l’unità monetaria europea, che era un’unità virtuale (non un mezzo di pagamento). In sostanza, era un paniere di valute il cui valore, ad esempio in termini di lire, era dato da una media ponderata di tutti i cambi bilaterali rispetto alla lira italiana. L’accordo di cambio (Erm) prevedeva che fossero fissate delle parità centrali delle valute na1 Si stimava per l’Italia che una svalutazione della lira del 10% causasse un incremento del Pil dello 0,5% (e viceversa). 2 Sullo SME, si veda, ad esempio, GIAVAZZI et al. (1992). 3 L’ecu è l’acronimo inglese di European currency unit; inoltre, letto alla francese, significa “scudo”.

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L’integrazione economica europea

zionali rispetto all’ecu, attorno alle quali potevano oscillare i cambi di mercato. Vi erano due elementi di flessibilità nello Sme, che infatti era chiamato “sistema di cambi quasi fissi”: – i cambi di mercato potevano fluttuare normalmente attorno alla parità centrale in una banda di oscillazione del 2,25% (alla lira italiana fu garantita una banda del 6%, ridotta poi all’ampiezza normale nel 1990) 4; – quando i cambi di mercato tendevano ad oltrepassare la banda di fluttuazione e gli interventi sui cambi risultavano inefficaci, il Consiglio europeo poteva decidere collegialmente un riallineamento, ossia un cambiamento delle parità centrali. Per capire come funzionava il sistema delle bande di oscillazione e dei riallineamenti, presentiamo e commentiamo la Fig. 16.1. Supponiamo che in un certo anno degli anni ’80 la parità centrale 5 tra lira italiana e marco tedesco (Lit./DM) fosse di 500, ossia che occorrevano 500 lire per acquistare un marco tedesco. Per esprimere il cambio nominale secondo la convenzione del cap. 12 – valuta estera al numeratore e valuta nazionale al denominatore – calcoliamo il rapporto inverso e troviamo 0,002 (ossia con una lira si acquistavano 2 millesimi di marco); per comodità nel grafico esprimiamo il cambio, sull’asse delle ordinate, direttamente in millesimi (per cui E = 2). Figura 16.1. – Bande e riallineamenti nello SME E 2,12 2 1,88 1,59 1,5 1,41

A B



t

La banda di oscillazione del 6% determinava una forchetta di valori ammissibili compresa tra 2,12 e 1,88. Il cambio di mercato è rappresentato nel grafico dalla curva (o linea spezzata), che sale e scende nel tempo in funzione degli eccessi di domanda o di offerta di lire (rispetto ai marchi). Quando il cambio tendeva ad indebolirsi, le autorità italiane potevano effettuare 4 Questa banda più larga fu concessa per via della situazione precaria del nostro paese, caratterizzato da una valuta debole (si veda il par. 12.3 riguardo al circolo vizioso “svalutazione-inflazione”), al punto che non solo i rappresentanti delle imprese ma la stessa Banca d’Italia erano dubbiosi circa l’opportunità che l’Italia aderisse allo Sme (questa fu una scelta politica, voluta dall’allora governo Andreotti). 5 La parità centrale era espressa rispetto all’ecu, ma questo determinava un rapporto di cambio univoco con tutte le valute aderenti; qui lo esprimiamo rispetto al marco tedesco, che era la valuta del paese leader (e in qualche modo più responsabile per gli interventi sul mercato dei cambi).

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interventi infra-marginali – ossia acquisti di lire (utilizzando le riserve ufficiali di marchi o altre valute) – che in caso di successo avrebbero consentito di rafforzare la lira (riportando la curva verso l’alto, come dopo il primo punto di minimo della curva nel grafico). Diversa è la situazione rappresentata dal punto A, che si trova sulla soglia inferiore della banda di oscillazione. In questo caso scattavano gli interventi al margine, che se fossero risultati efficaci avrebbero riportato il cambio all’interno della banda (il tratto della curva che sale dopo A). Se invece non avessero avuto successo, ad esempio perché le vendite speculative di lire superavano gli acquisti delle autorità 6, sarebbe stato possibile un esito opposto (come mostrato dalla biforcazione della curva in A). In quest’ultimo caso, è evidente che le autorità non sarebbero riuscite a difendere la precedente parità centrale. Allora al tempo t° esse avrebbero potuto decidere un riallineamento: a prendere questa decisione non sarebbero state le autorità italiane, ma il Consiglio europeo. Per esempio si sarebbe potuto “svalutare” il cambio della lira a E = 1,5 (che significa che il marco sarebbe salito a 667 lire), con una nuova banda di oscillazione compresa tra 1,59 e 1,41 (sempre 6%). Alla riapertura delle borse 7, il cambio di mercato si sarebbe quindi trovato in un punto come B, all’interno della nuova banda. Da lì si sarebbe ripartiti, con nuove oscillazioni del cambio di mercato; e con l’eventuale necessità di un nuovo riallineamento dopo un po’ di tempo. In effetti, al di là del precedente esempio numerico, i dieci riallineamenti verificatisi nello Sme fino al 1986 furono dovuti alla necessità di aggiustare, con modifiche dei rapporti di cambio, i differenziali d’inflazione che penalizzavano le singole valute (la lira italiana in primis) rispetto al marco tedesco; la Germania allora aveva un’inflazione pari alla metà o meno della metà di quella di paesi come l’Italia. Seguì un periodo (1987-1992) detto dello “SME forte” senza alcun riallineamento. È importante sottolineare che nello Sme la politica monetaria (tassi d’interesse) dei paesi partecipanti all’accordo era fortemente influenzata dalla politica del paese leader (la Germania). Quindi già in quel periodo le autorità nazionali – Governo o banca centrale 8 – avevano limitati margini di manovra nel decidere la politica monetaria nazionale. Infatti, in presenza di liberi movimenti di capitale, vale l’equazione della parità scoperta dei tassi d’interesse: it = i*t – (Eet + n/Et – 1) dove: it è il tasso d’interesse interno, i*t quello estero (tedesco), Et è il tasso di cambio corrente, Eet + n è quello atteso; se Eet + n < Et ci si aspetta una svalutazione della moneta nazionale, per cui it > i*t. Poiché nel caso italiano erano ricorrenti le svalutazioni, che influenzavano anche le aspettative sul cambio futuro (Eet + n < Et), l’Italia doveva mantenere sempre i suoi tassi di interesse al di sopra di quelli di riferimento (it > i*t). Inoltre quando il paese leader aumentava i tassi, anche l’Italia doveva adattarsi, per evitare una repentina fuga di capitali. Oltre tutto la liberalizzazione dei movimenti di capitale si cominciava a realizzare, anche in Europa, proprio nel decennio ’80, il periodo dello Sme. L’equazione precedente si presta anche ad altri tipi di analisi. Infatti, partendo dai tassi d’interesse forward, che sono noti perché quotati in borsa (mentre i tassi di cambio a termine 6 Nel caso degli interventi al margine, era previsto che intervenissero entrambe le autorità, quelle del paese con valuta in deprezzamento e quelle del paese in situazione opposta; ma si è visto nel settembre 1992, durante la crisi dello Sme, che la Bundesbank si rifiutò ad un certo punto di procedere con gli acquisti illimitati di lire italiane. 7 Le decisioni sui riallineamenti erano prese dal Consiglio europeo a mercati chiusi, di solito di domenica. 8 Ricordiamo che in Italia la banca centrale stava conseguendo una crescente autonomia proprio negli anni ’80, a partire dal cosiddetto “divorzio” (cfr. par. 10.1).

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non sono quotati), un possibile test di credibilità del tasso di cambio (parità centrale e relativa banda) consiste nel verificare se il cambio atteso per il periodo t + n (n = 1,5,…) Eet + n rientra nella banda di oscillazione (dove EL e EU sono i limiti inferiore e superiore della banda ammessa): EL < Eet + n < EU o, in modo equivalente, data la condizione di parità e dato i*, in termini di tassi d’interesse forward: iU > i > iL e quindi, se ad esempio i > iU significa che i cambi fissi – ed in particolare la banda di oscillazione esistente – non sono ritenuti credibili (nell’orizzonte temporale tra t e t + n) 9. Lo Sme cercò all’inizio di contrastare gli attacchi speculativi grazie ad una gestione “flessibile” dei cambi fissi: bande di oscillazione relativamente ampie e riallineamenti frequenti 10. Inoltre, negli anni ’80 erano ancora in vigore alcuni controlli sui movimenti di capitali, rimossi totalmente solo con la liberalizzazione del Mercato Unico (cfr. cap. 15). Il problema principale dello Sme era però la sua asimmetria 11 ed il ruolo cruciale giocato dal paese leader (la Germania); possibili conflitti sul tipo di politica monetaria (ed economica) tra i paesi partecipanti potevano determinare una crisi del sistema. Crisi che in realtà si verificò davvero nel 1992-1993. Possiamo elencare qui le principali cause di questa crisi dello Sme, sia internazionali sia relative al caso italiano: – istituzionali: nel 1992, fu firmato il Trattato di Maastricht, che prevedeva per la terza fase tassi di cambio irrevocabilmente fissi; una correzione finale dei cambi avrebbe potuto verificarsi subito o mai più, correzione tanto più probabile per i paesi che durante il quinquennio dello “Sme forte” avevano perso competitività per effetto della rivalutazione reale della propria valuta (è questo il caso dell’Italia); – politiche: dopo la firma del Trattato a febbraio, occorrevano le ratifiche nazionali; nel giugno la prevalenza di “no” al referendum in Danimarca e sondaggi d’opinione negativi anche in Francia 12 crearono incertezza, prima politica e poi sui mercati finanziari; – macroeconomiche: la Germania, appena riunificata, stava adottando un particolare policymix, basato su una politica fiscale espansiva (mirante alla ricostruzione delle regioni dell’est) ed una politica monetaria restrittiva (la Bundesbank voleva contrastare i rischi d’inflazione che era un poco salita) 13, policy-mix che fece rialzare i tassi d’interesse; – dilemmi di politica economica per gli altri paesi: seguire la Germania alzando i tassi (i come i* per mantenere E costante, ossia privilegiare l’obiettivo esterno del cambio fisso) oppure aumentarli di meno, preferendo l’obiettivo interno duplice (per contrastare la recessione, prevalente in quell’anno, e per contenere l’onere del debito) ma rinunciando al cambio fisso? La scommessa degli speculatori fu per la seconda scelta e, prima ancora che 9 Nel caso della lira italiana, i tassi di cambio “impliciti” nei tassi d’interesse forward (ad esempio a 5 anni) rispetto al marco erano rimasti quasi sempre al di fuori dei limiti di credibilità (tranne per un breve periodo nel 1991). 10 In letteratura si mostra che bande di oscillazione ampie sono preferibili, perché in questo modo, anche dopo i riallineamenti, il deprezzamento del cambio risulta piccolo (come nella Fig. 16.1 confrontando il punto A con il punto B) o addirittura assente, così pure il profitto per gli speculatori. 11 In sostanza lo stesso problema che aveva incontrato il regime di Bretton Woods (cfr. cap. 12). 12 Nel referendum francese poi vinsero di misura i “sì”. 13 Dopo l’unificazione monetaria “1 a 1” decisamente favorevole per il più debole marco dell’Est. Il rialzo dei tassi derivante dal citato “policy mix” è ben evidente anche in semplici modelli, come quello IS-LM (entrambe le curve si spostano in alto).

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i policymaker optassero per una delle due soluzioni, attaccarono le valute più deboli (esempio di aspettative auto-realizzantesi); – cause specifiche dell’Italia: elevato debito pubblico (risale a quell’anno la famosa manovra finanziaria del governo Amato da 90.000 mld. di lire, pari a circa 45 mld. di euro), perdita di competitività (oltre il 30% rispetto alla Germania, soprattutto accumulata nel periodo dello “Sme forte”); instabilità politica (il 1992 era l’anno di Tangentopoli e di “Mani Pulite”, del crollo dei partiti storici, etc.). Gli attacchi speculativi si intensificarono, soprattutto in Italia, durante l’estate 1992. La Banca d’Italia, per difendere la lira, attinse a tutte le riserve valutarie accumulate negli anni ’80, ma l’aiuto della Bundesbank risultò in pratica limitato 14. Il 12 settembre si decise un riallineamento della lira (– 7%), ma questo fu interpretato dai mercati come un segnale di resa. La Banca d’Italia alzò i tassi d’interesse drasticamente: il tasso ufficiale di sconto risalì al 15% nominale (equivalente al livello, storicamente elevato, di oltre il 10% reale!) 15. Dopo altri quattro giorni, la lira italiana fu costretta ad abbandonare gli accordi di cambio dello Sme (assieme alla sterlina inglese, da poco entrata) ed iniziò quindi una fluttuazione libera. La speculazione si scatenò poi contro diverse altre valute, che furono costrette a svalutare: peseta spagnola, escudo portoghese, sterlina irlandese e, nella primavera 1993, contro lo stesso franco francese. Nell’agosto 1993, il Consiglio europeo decise quindi di passare ad una banda larghissima ( 15%) per tutte le valute dello Sme; mossa apparentemente decisiva, perché poi la speculazione si calmò. Tra il settembre 1992 ed il marzo 1995, la lira italiana si deprezzò di circa il 50% rispetto al marco tedesco, calcolato raffrontando la parità centrale pre-crisi al minimo toccato dalla lira nel 1995 (un altro anno di instabilità sui mercati valutari internazionali). Rientrò nello Sme solo nel novembre 1996, in vista dell’obiettivo di entrare col primo gruppo di paesi nell’euro.

16.2. Il Trattato di Maastricht ed i criteri di convergenza Proprio la crisi dello Sme fece paradossalmente capire l’importanza dell’unione monetaria. Infatti, considerando la “triade inconciliabile” di Mundell (cfr. par. 12.5), le altre soluzioni estreme – cambi totalmente flessibili o controlli sui movimenti di capitale – erano incompatibili con l’unione doganale ed il mercato unico. L’intenzione di costituire un’unione monetaria tra i paesi dell’UE era però precedente alla crisi dello Sme. Le prime idee risalgono addirittura al “piano Werner” del 1969, che si prefiggeva di costruire un’unione monetaria entro il 1980, procedendo per tre fasi, l’ultima delle quali prevedeva anche l’armonizzazione delle politiche economiche; ma il piano Werner fu abbandonato a seguito degli shock degli anni ’70 (fine di Bretton Woods, instabilità valutaria internazionale, shock d’offerta). Un piano più elaborato di unione monetaria fu presentato vent’anni dopo: si tratta del Rapporto Delors del 1989. È questo rapporto il nucleo del successivo Trattato sull’Unione europea, che fu firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992; dopo le ratifiche nazionali entrò in vigore l’1 novembre 1993. L’obiettivo principale del Trattato di Maastricht era la costituzione di un’Unione Economi14 Infatti, la Banca d’Italia realizzò massicce vendite di riserve valutarie nei mesi precedenti il settembre 1992 – per un controvalore in lire di oltre 40.000 mld. di lire – senza tuttavia riuscire a contrastare il flusso di vendite di lire sul mercato dei cambi. La vendita imponente di lire fu attuata da operatori grandi e piccoli, nazionali ed esteri (tra quelli più attivi all’estero si cita il finanziere G. Soros). 15 Al di fuori dello Sme, si assistette a rialzi del tasso d’interesse overnight al 500% in Svezia, al 300% in Irlanda!

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ca e Monetaria (Uem) europea. Come si può intuire dal nome, la portata era più ampia che non una semplice unione monetaria. L’unione economica implicava che nel Trattato fossero enfatizzati obiettivi più generali di politica economica, quali: (i) il completamento delle quattro liberalizzazioni previste dal Mercato Unico; (ii) l’accentuazione della politica della concorrenza; (iii) il rafforzamento delle politiche strutturali e di coesione, da attuarsi anche attraverso l’istituzione del nuovo “Fondo di coesione” 16; (iv) il coordinamento delle politiche macroeconomiche nazionali. Nel Trattato erano poi esplicitate norme extra-economiche, relative ad esempio alla cittadinanza europea e relativi diritti, alla comune sicurezza interna, alla cooperazione in tema di difesa, alla politica estera e di sicurezza. Come vedremo però alla fine di questo capitolo (ed anche nel cap. 19), parte dei problemi attuali dell’area euro sono dovuti al fatto che l’unione monetaria è rimasta “incompleta”, ossia non è stata completata con gli altri elementi essenziali per pervenire anche ad un’unione economica. Riguardo all’Unione monetaria europea in senso stretto (Ume), il Trattato accoglie i principi del gradualismo e della condizionalità, come già suggerito dal “Rapporto Delors” del 1989. Il gradualismo 17 comportava un avvicinamento all’unione monetaria in tre fasi successive: – 1° fase (1990-1993), che implicava 18: divieto alle restrizioni ai movimenti di capitali; valute all’interno della banda stretta dello Sme; eliminazione dei finanziamenti monetari dei disavanzi pubblici; – 2° fase (1994-1998): costituzione dell’Istituto Monetario Europeo (Ime) 19; coordinamento delle politiche economiche e rafforzamento della cooperazione monetaria; adattamento delle legislazioni sulle banche centrali nazionali ai principi dell’Ume (indipendenza); divieto dei finanziamenti monetari dei disavanzi o del sostegno da parte di altri Stati (clausola “no bail-out”); preparazione della normativa comunitaria necessaria per la futura introduzione dell’euro 20; verifica dei criteri di convergenza per il passaggio al terzo stadio. – 3° fase (dal 1999): era lo stadio finale dell’Ume. Riguardo al principio di condizionalità, per l’ammissione alla 3° fase, i paesi dovevano rispettare i seguenti criteri di convergenza: i. tasso d’inflazione annuo (in termini di prezzi al consumo, Iacp) non superiore dell’1,5% a quello dei tre paesi con meno inflazione; ii. tasso d’interesse nominale sui titoli pubblici a lungo termine (decennali) non superiore del 2% a quello dei tre paesi meno inflazionistici; iii. disavanzo pubblico (indebitamento netto della pubblica amministrazione) non superiore al 3% del Pil, a meno di situazioni eccezionali e temporanee; iv. debito pubblico non superiore al 60% del Pil, o comunque in fase di riduzione verso il valore di riferimento; 16 Un tale rafforzamento derivava dalle conclusioni di alcuni studi secondo i quali un’unione monetaria avrebbe potuto peggiorare, almeno all’inizio, le regioni ed i paesi più periferici e vulnerabili. 17 Non era questo l’unico modo per costituire un’unione monetaria. Proprio nel 1991, dopo la riunificazione delle due Germanie, fu realizzata l’unione monetaria tedesca “all’istante” (con l’ulteriore decisione politica di convertire il marco della Germania est allo stesso valore di quello della Germania ovest). 18 Può sembrare strano che la prima fase partisse prima della ratifica del Trattato di Maastricht: ma i divieti o le richieste relativi a questa fase erano già contenuti nell’Atto unico o in norme pre-esistenti. 19 Un istituto che doveva fungere da “battistrada” per la futura Bce; è significativo che già per l’Ime fu scelta come sede Francoforte sul Meno (Germania). 20 Così fu denominata la nuova valuta nel Consiglio europeo del dicembre 1995.

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v. tasso di cambio all’interno della banda di oscillazione normale dello Sme, almeno per un biennio (ossia assenza di svalutazioni o riallineamenti). Le motivazioni sottostanti a questi criteri di convergenza erano varie 21. Per quelli sul disavanzo e sul debito rinviamo alla trattazione sul Patto di stabilità (cap. 18). Il criterio sull’inflazione è stato posto per assicurare che i paesi candidati alla Ume manifestassero preferenze (sull’inflazione) uguali a quelle tedesche già prima dell’ingresso 22. Il criterio sui tassi d’interesse mirava ad evitare guadagni o perdite in conto capitale nel passaggio dalle vecchie valute all’euro. Il criterio sul cambio è stato posto non solo per le ricadute sul tasso d’inflazione, ma anche per evitare svalutazioni competitive realizzate strumentalmente e unilateralmente all’ultimo momento.

16.3. L’avvio dell’Unione monetaria europea La verifica dei criteri di convergenza fu fatta, sull’anno di riferimento 1997, nel Consiglio europeo straordinario del 3 maggio 1998. L’elenco degli ammessi comprendeva 11 paesi (sui 15 allora facenti parte dell’UE). Tra i paesi “out”, la Grecia era l’unico paese escluso 23 per il mancato rispetto dei criteri, anche se fu ammessa due anni dopo 24. Le ammissioni successive al primo gruppo riguardano i seguenti paesi (per un totale di 19): Grecia (2001), Slovenia (2007), Cipro e Malta (2008), Slovacchia (2009), Estonia (2011), Lettonia (2014), Lituania (2015). Lo stadio finale dell’Ume (dall’1 gennaio 1999) si caratterizza per: (i) piena convertibilità delle monete e tassi di cambio fissati irrevocabilmente (la successiva circolazione delle banconote e delle monete metalliche in euro avvenne il 1° gennaio 2002) 25; (ii) nuove istituzioni responsabili per la politica monetaria europea (Bce, Sebc: cfr. cap. 17); (iii) nuove regole sui bilanci pubblici (Patto di Stabilità: cfr. cap. 18). I tassi di cambio tra le monete nazionali e l’euro, validi dal 1° gennaio 1999 per sempre, dovevano essere identificati, secondo il Trattato di Maastricht, con il valore di mercato delle monete nazionali nei confronti dell’ecu, alla data del 31 dicembre 1998. Tuttavia, per evitare il 21 La giustificazione dei criteri di convergenza è stata messa in discussione da diversi economisti (si vedano ad esempio BUITER, 2004; DE GRAUWE, SCHANBL, 2005). Alcuni autori (DE GRAUWE, 2009) hanno letto questi criteri di Maastricht come “criteri di esclusione”: solo i paesi simili alla Germania avrebbero potuto entrare nell’euro; in ogni caso, la forzata convergenza per i paesi periferici sarebbe stata la punizione per i loro “vizi” del passato: indisciplina fiscale, propensione all’inflazione ed alla svalutazione, etc. 22 In termini di curva d’indifferenza del policymaker (cfr. cap. 2) si trattava di rendere un paese “wet” come l’Italia (curve del grafico di destra della Fig. 2.3) più simile ad un paese “hard-nosed” come la Germania (grafico di sinistra della Fig. 2.3). In sostanza, per tenere bassa l’inflazione non bastava rendere la nuova Banca centrale europea molto simile alla vecchia Bundesbank (con le sue caratteristiche di rigore e conservatorismo: cfr. cap. 17), ma occorreva che già prima dell’avvio dell’Ume i paesi manifestassero una bassa propensione all’inflazione. 23 Al Regno Unito fu concessa fin dall’inizio la clausola opting-out, altrimenti non avrebbe firmato il Trattato. Alla Danimarca fu concessa una clausola simile dopo l’esito negativo del referendum del 1992. La Svezia, che entrò nell’UE solo nel 1995, si “autoescluse” non chiedendo mai l’adesione allo Sme (quindi non rispettando il quinto criterio). 24 È noto che sull’ammissione della Grecia gravò il riscontro tardivo (cioè successivo alla circolazione dell’euro), da parte delle istituzioni europee, di aver fornito dati sul disavanzo significativamente errati. Successivamente, nel 2009, furono ancora “dati errati” rivisti in peggio dal nuovo governo a concorrere allo scoppio della crisi del debito sovrano (cfr. cap. 19). 25 Nel triennio di transizione 1999-2002 i contratti potevano essere già denominati in euro, come pure i depositi bancari (anche se banconote e monete metalliche erano ancora nelle valute nazionali, ad esempio in lire); i titoli pubblici erano solo denominati nella nuova valuta.

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rischio di attacchi speculativi dell’ultimo momento, il Consiglio europeo del maggio 1998 decise di adottare le esistenti parità centrali dello Sme quali tassi fissi di conversione; questi tassi di conversione furono creduti e la speculazione divenne così stabilizzante (nei restanti mesi del 1998). Nel caso della lira italiana si definì pertanto il nuovo cambio irrevocabile: 1€ = 1936,27 Lit. Si noti che, per i paesi dell’UE che non adottano ancora l’euro è stato approvato nel 1997 un nuovo meccanismo noto come Sme-2. Prevede un’adesione volontaria ed una banda d’oscillazione normale (del 15% attorno all’euro); ma i singoli paesi possono adottare volontariamente margini più ristretti. Quest’ultimo è il caso della Danimarca. Oltre a questo paese, tutti i nuovi membri che via via hanno adottato l’euro nel nuovo secolo hanno aderito agli accordi di cambio dello Sme-2. Infatti, la permanenza per almeno due anni entro questo sistema è condizione necessaria per poter adottare l’euro. Al di là dei benefici ultimi della moneta comune (su questo tema ci soffermeremo alla fine del capitolo), un possibile quesito riguarda gli effetti immediati che la “strategia di Maastricht” ebbe sulle economie europee. In realtà, i criteri di Maastricht comportarono sia politiche monetarie rigorose (per il rispetto dei criteri sull’inflazione e sul cambio) sia politiche di risanamento fiscale (per il rispetto dei criteri sul disavanzo e sul debito). È vero che in teoria possono sussistere “effetti non keynesiani” dei consolidamenti fiscali – quindi espansivi (cfr. par. 11.6) – ma le politiche restrittive, perseguite simultaneamente in molti paesi, determinarono un rallentamento nella crescita. È quindi opinione di alcuni autori (in particolare, DE GRAUWE, 2009) che la strategia di Maastricht avrebbe causato spinte deflazionistiche, che hanno penalizzato la crescita economica ed aumentato la disoccupazione. Un approccio simile è stato mantenuto ed esteso anche dopo l’adozione della moneta comune, in particolare a causa delle politiche di austerità fiscale adottate dopo la crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 18). Un ultimo aspetto riguarda l’Italia. In particolare, una prima questione concerne la decisione presa negli anni ’90 di entrare nell’euro, decisione che vedeva la maggior parte degli esperti, dei media e degli stessi politici a favore, anche se non mancavano riserve – ad esempio per il fatto che non sembravano soddisfatti i requisiti delle “aree valutarie ottimali” (si veda nel prosieguo del capitolo) – o timori, legati alla debolezza strutturale della nostra economia (anche per il peso del debito pubblico), tale per cui non avrebbe potuto competere in modo adeguato con l’economia tedesca e senza la stampella di possibili ulteriori svalutazioni della moneta nazionale. A fronte di alcuni argomenti che giocavano contro l’ingresso dall’Italia dell’euro, ce n’erano altrettanti che invece giustificavano la razionalità economica di una tale scelta 26. Comunque la scelta di entrare nell’euro era in parte motivata da considerazioni di tipo politico, in particolare dal desiderio di restare agganciati al carro europeo più avanzato, una scelta comprensibile per uno dei “paesi fondatori” della Comunità europea. Una seconda possibile domanda è come sia stato possibile che il nostro paese, pochi anni prima (1992) nel pieno di una crisi valutaria e finanziaria, fosse ammesso sin dall’inizio nell’Eurozona 27. Si pensi che ancora all’inizio del 1996 l’Italia era data certamente per esclusa, per i noti motivi: inflazione decrescente ma ancora elevata, alti disavanzi e debiti pubblici, ancora 26 Dai tradizionali benefici individuati nella letteratura sulle aree valutarie ottimali (vedi oltre nel capitolo), alla maggiore stabilità finanziaria e valutaria, dalla riduzione del tasso d’inflazione e dei tassi d’interesse (con potenziali effetti positivi su investimenti e crescita) alla auspicata accelerazione delle riforme strutturali ed omogeneizzazione rispetto agli assetti economico-istituzionali prevalenti in Europa (contrastando anche alcune note “patologie” come evasione fiscale, economia sommersa, corruzione, inefficienze della pubblica amministrazione, etc.). Su questi temi, cfr. MARELLI, SIGNORELLI (2018), in particolare il cap. 1. 27 Su queste vicende e su come l’Italia fu ammessa (nonostante il non pieno rispetto del criterio del debito), si veda ROSSI (2007), CHIORAZZO, SPAVENTA (2000).

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fuori dallo Sme, etc. Essa cominciò a vincere la scommessa solamente nell’autunno di quell’anno, grazie a: (i) una pesante manovra finanziaria (accompagnata pure da alcune misure di contabilità creativa) 28; (ii) una progressiva riduzione del tasso d’inflazione (all’1,7% nel 1997, il livello più basso dei precedenti 30 anni); (iii) maggiore credibilità – sia nel risanamento fiscale sia e soprattutto nella fermezza mostrata nel voler aderire all’euro – e conseguente discesa dei tassi 29; (iv) riammissione nello Sme nel novembre 1996 30. Possiamo rappresentare così, in sintesi, la sequenza di eventi: politiche di risanamento più decise 31  rispetto tendenziale dei criteri  credibilità ammissione  tassi d’interesse (il cosiddetto bonus di credibilità)  disavanzi pubblici  rispetto effettivo dei criteri di Maastricht 32. Del resto, i dati parlano chiaro: il differenziale tra tassi d’interesse sui titoli italiani e quelli tedeschi (spread), che nel marzo 1996 era ancora pari a 440 punti base, era già sceso a 30-40 punti nella primavera 1997 (per poi quasi scomparire nel maggio 1998). Sta di fatto che anche nel nuovo secolo, subito dopo l’introduzione dell’euro, i tassi d’interesse italiani sono stati bassi come mai da decenni. Questo beneficio, noto come “bonus o dividendo” dell’euro, ha avuto ricadute positive tanto sul sistema economico privato (ad esempio più bassi tassi sui mutui per le famiglie, minori tassi sui prestiti bancari a favore delle imprese, incentivazione degli investimenti, etc.) quanto su quello pubblico (minori oneri per il servizio del debito). Secondo alcuni studiosi (ad esempio ROSSI, 2007), questo bonus è stato sprecato: infatti, i governi dell’epoca, una volta raggiunto l’obiettivo di far parte dell’euro, allentarono gli sforzi di consolidamento fiscale, come evidente dai saldi primari di bilancio, sempre positivi ma più contenuti di quelli di fine anni ’90. Se invece tali governi avessero approfittato delle condizioni favorevoli, non solo attuando le necessarie riforme strutturali, ma mantenendo gli sforzi precedenti riguardo al saldo primario di bilancio (con avanzi simili a quelli del 1997-1998), la discesa del rapporto debito/Pil sarebbe stata più rapida e l’Italia non si sarebbe trovata in condizioni critiche allo scoppio della crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 19)

16.4. Teoria delle aree valutarie ottimali: benefici e costi delle unioni monetarie È stato vantaggioso, per i paesi europei che hanno adottato l’euro, aderire all’Unione monetaria europea? La domanda è legittima, anche perché abbiamo appena visto che la “strategia di Maastricht” ha avuto conseguenze anche negative, che sono divenute più evidenti dopo la crisi del 2008-2009 ed hanno messo in luce i difetti iniziali insiti nella costruzione dell’unione monetaria. Per rispondere alla domanda iniziale, i criteri di risposta sono vari. In questa 28 Inclusa

una “tassa per l’Europa” introdotta ad hoc, in parte restituita l’anno successivo. discesa dei tassi di interesse interni italiani subì una accelerazione con il diffondersi dell’aspettativa di ammissione immediata nell’Eurozona; infatti, il venir meno delle aspettative di future svalutazioni della moneta ridusse fortemente lo spread fra i rendimenti dei titoli italiani e quelli dei titoli di altri paesi candidati (come la Germania). 30 Si racconta che nell’estate 1996 il premier Prodi consultò informalmente il premier spagnolo Aznar per proporre un ingresso ritardato dei due paesi nell’Eurozona; dopo la risposta negativa di Aznar, Prodi – non ammettendo la possibilità che un paese fondatore della Cee rimanesse indietro rispetto ai “cugini iberici” e relegato in una sorta di “serie B” – accelerò l’iter per rispettare i criteri di Maastricht: pesante manovra finanziaria, riammissione nello Sme (di modo che restandovi nel 1997 e 1998 sarebbe stato soddisfatto il quinto criterio). 31 Si raggiunse nel 1997 un avanzo primario senza precedenti (6,8% sul Pil), mai più toccato nemmeno negli anni successivi. 32 L’unico criterio che l’Italia strettamente non rispettava era quello sul debito pubblico, che in rapporto al Pil era ben superiore al parametro di Maastricht (60%); tuttavia era in effetti decrescente “verso” il parametro di riferimento (anche se molto lontano da esso). Inoltre, l’eventuale esclusione dell’Italia basata sul criterio del debito avrebbe comportato problemi politici, poiché un altro paese “fondatore” – il Belgio – aveva un rapporto debito/Pil superiore al 100%. 29 La

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sede, ci riferiremo prevalentemente ad una nota teoria, quella sulle aree valutarie ottimali (AVO); secondo questa teoria la risposta alla nostra domanda è positiva se e solo se i benefici derivanti dall’unione monetaria (UM) 33 superano i costi. La teoria, nota in inglese come optimal currency areas (OCA), prese le mosse negli anni ’50’60 dai contributi di MUNDELL (1961); poi la teoria è stata sviluppata negli anni successivi da altri autori. I costi delle UM, secondo questa teoria, sono prevalentemente macroeconomici: si riferiscono alla perdita dello strumento del cambio e di politiche monetarie indipendenti (ossia decise a livello nazionale). I benefici sono principalmente di tipo microeconomico: essi includono soprattutto l’abbattimento dei costi di transazione e l’eliminazione del rischio di cambio. Prima di proseguire con il filone AVO, facciamo osservare che secondo alternativi approcci le UM possono arrecare anche benefici macroeconomici. Ad esempio quelli esistenti in un regime di cambi fissi – credibilità antinflazionistica “presa a prestito” dal paese àncora del sistema, disciplina monetaria che rafforza l’obiettivo della stabilità dei prezzi, logica del cambio forte usato come una “frusta” (cfr. par. 9.8) – sono rafforzati nelle UM. Inoltre, soprattutto per i paesi “devianti” ossia caratterizzanti da una cattiva performance macroeconomica prima dell’adesione all’UM, vi possono essere benefici nella fase di transizione, grazie alla discesa dei tassi d’inflazione, dei disavanzi, dei tassi d’interesse. In particolare, è stata studiata la discesa dei tassi d’interesse durante la convergenza verso l’Ume e nei primi anni dell’euro: il beneficio consisteva nei minori oneri per il servizio del debito, significativo soprattutto per i paesi con elevato debito pubblico (come argomentato alla fine del paragrafo precedente con riferimento al caso italiano). Tornando ora ad illustrare le teorie AVO, i benefici microeconomici afferiscono a due aree principali: i. abbattimento dei costi di transazione; ii. eliminazione del rischio di cambio. I costi di transazione comprendono le commissioni ed i costi, anche indiretti (si pensi alle perdite di tempo), necessari per il cambio delle valute. Il loro abbattimento corrisponde ad un guadagno netto di benessere per l’intera collettività. I benefici interessano il commercio di beni e servizi (incluso il turismo), i flussi di persone, i movimenti di capitale. In uno studio 34 del 1990, la Commissione aveva stimato tale vantaggio compreso tra lo 0,25% e lo 0,5% annuo del Pil. L’abolizione dei costi di transazione implica anche effetti indiretti positivi: maggior trasparenza e concorrenza nei mercati, riduzione delle segmentazioni tra i mercati nazionali, minori discriminazioni di prezzo; inoltre, maggior concorrenza significa pure minori prezzi per i consumatori, stimolo agli investimenti e alla crescita economica. L’eliminazione del rischio di cambio favorisce anch’essa il commercio internazionale e la crescita economica. Infatti il rischio di cambio causa una perdita di efficienza nel meccanismo dei prezzi, in quanto l’incertezza sui prezzi futuri rende meno attendibili i segnali per le decisioni di produzione, consumo, investimento (inclusi commercio internazionale e Ide) 35; inoltre fa aumentare il tasso d’interesse reale, frenando gli investimenti e deteriorandone la qualità (a causa dei problemi di “moral hazard” e “adverse selection”). 33 Qui usiamo l’acronimo UM per indicare un’unione monetaria (la teoria ha validità generale e non necessariamente riguarda l’Ume). 34 Cfr. EUROPEAN COMMISSION (1990). 35 Per esempio un’impresa che intende programmare degli Ide in un altro paese, nel caso in cui il paese di destinazione ha un’altra valuta deve formulare delle aspettative sul tasso di cambio futuro (che influenza costi, ricavi e profitti). Questo problema non sussiste se gli Ide sono effettuati nella stessa unione monetaria.

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I benefici microeconomici delle UM – abbattimento dei costi di transazione ed eliminazione del rischio di cambio – sono ovviamente più rilevanti per economie molto integrate, innanzi tutto sul piano commerciale. Conta quindi il grado di apertura reciproco dei paesi che intendono costituire un’UM (come enfatizzato da MCKINNON, 1963). Da questo punto di vista, la situazione all’interno dell’UE è molto varia, con i piccoli paesi aventi un grado di apertura (misurato ad esempio dalla quota di export sul Pil) anche superiore al 70% ed i grandi paesi caratterizzati da gradi di apertura intorno al 20% 36. Comunque per tutti i paesi il grado di apertura nell’UE è aumentato nel tempo e gli scambi intra-UE sono più rilevanti rispetto agli scambi con paesi terzi. Volgendo ora l’attenzione ai costi delle UM – sempre per le teorie AVO – il costo principale è costituito dalla rinuncia alla manovra del tasso di cambio ed alla politica monetaria decisa a livello nazionale 37. Come vedremo in seguito, un tale costo (i) sale al crescere della probabilità del verificarsi di shock asimmetrici; (ii) scende invece in presenza di meccanismi di aggiustamento alternativi alla manovra del cambio: flessibilità di prezzi e salari, mobilità del lavoro. Ma la rinuncia alla manovra del cambio è davvero un costo rilevante? Per rispondere dobbiamo riprendere le considerazioni del cap. 12: in un regime di cambi flessibili, non sempre i cambi nominali riflettono i “fondamentali” dell’economia; in un regime di cambi quasi-fissi, le svalutazioni sono efficaci solo a certe condizioni (condizioni di Marshall-Lerner, effetto J, etc.) e possono avere conseguenze negative nel lungo periodo (come il circolo vizioso svalutazioneinflazione). Quindi non è detto che il mancato utilizzo dello strumento del cambio costituisca sempre una grossa perdita 38.

16.5. Shock asimmetrici e possibili risposte di politica economica Per capire perché la rinuncia al tasso di cambio può essere costosa in presenza di shock asimmetrici, seguiamo MUNDELL (1961) secondo la presentazione di DE GRAUWE (2009). Supponiamo vi sia uno spostamento di preferenze dei consumatori dai prodotti di un paese (Francia) a quelli di un altro paese (Germania): è questo un esempio classico di shock asimmetrico. Nella Fig. 16.2 rappresentiamo questo shock attraverso lo spostamento delle curve di domanda aggregata dei due paesi, spostamento in direzione opposta (verso il basso in Francia, verso l’alto in Germania) 39. Allora il primo effetto dello shock sarebbe: – ADF in Francia, che causa YF e PF; – ADG in Germania, che comporta YG e PG. Pur senza manovrare il tasso di cambio – questo è proprio il caso delle UM, nelle quali il cambio non si può modificare per definizione – è possibile rintracciare un aggiustamento automatico di mercato (che prescinde da qualsivoglia politica economica), purché vi sia flessibilità di prezzi e salari. Questo aggiustamento è mostrato nella Fig. 16.3. Si verificano nei due paesi i seguenti cambiamenti: 36 Peraltro anche i paesi con un basso grado di apertura, potrebbero trovare vantaggioso partecipare all’UM, tenuto conto degli altri benefici, per esempio i benefici macroeconomici di una maggiore stabilità monetaria e finanziaria. 37 Sono questi aspetti connessi, in quanto già la “triade inconciliabile” di Mundell (cfr. cap. 12) mostrava che cambi fissi e politiche monetarie autonome non sono compatibili (in presenza di liberi movimenti di capitale). 38 In letteratura, si è mostrato che la manovra del tasso di cambio è efficace solo se lo shock è asimmetrico, ma sulla domanda aggregata (di uno specifico paese); è invece inefficace con i seguenti tipi di shock: permanente, simmetrico (comune a più paesi), specifico di settore, di tipo finanziario invece che reale. 39 Queste curve assomigliano alle curve AD e AS del cap. 1, tenuto però conto che si tratta di curve in economia aperta (per cui AD ora include anche le esportazione nette, NX).

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– in Francia: YF uF WF  la curva di offerta (ASF) si sposta in basso  YF e si torna nel medio periodo verso l’equilibrio iniziale; inoltre, PF rende più competitivi i prodotti francesi e contribuisce a NXF e YF; – in Germania: modifiche opposte e simmetriche. Figura 16.2. – Shock asimmetrico PF

PG ASF

ASG

ADG ADF

ADF

ADG YF

(a) Francia

YG

(b) Germania

Fonte: DE GRAUWE (2009).

Si aggiunga che, in presenza di elevata mobilità del lavoro tra i due paesi, dato che uF e uG, vi sarà un flusso di lavoratori francesi disoccupati dalla Francia alla Germania; ciò eliminerà la disoccupazione in Francia e le pressioni inflazionistiche in Germania. Figura 16.3. – L’aggiustamento di mercato (flessibilità e mobilità) PF

PG

ASG

ASF

ASG ASF

ADG ADF

(a) Francia

ADF

ADG YF

(b) Germania

YG

Fonte: DE GRAUWE (2009).

Un aggiustamento alternativo a quello di mercato è la modifica del tasso di cambio, che è possibile ovviamente se i due paesi non sono in un’UM: nel nostro caso una svalutazione del

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franco francese rispetto al marco tedesco. Nel grafico (Fig. 16.4), le curve di domanda tornerebbero indietro – la svalutazione del franco farebbe aumentare NXF e la domanda aggregata in Francia ed avrebbe l’esito opposto in Germania – riportando il sistema verso l’equilibrio iniziale, anche senza flessibilità salariale e mobilità del lavoro. In conclusione, l’unione monetaria può essere costosa – in presenza di shock asimmetrici – perché non c’è la flessibilità di prezzi e salari (o tale flessibilità è scarsa o non immediata), per cui il paese colpito negativamente dallo shock avverso potrebbe essere nelle condizioni di dover convivere per un certo tempo con recessione e disoccupazione (una svalutazione potrebbe invece evitare questi costi). Figura 16.4. – L’aggiustamento con la manovra del cambio PF

PG ASF

ASG

ADG

ADF ADF

(a) Francia

ADG YF

(b) Germania

YG

Fonte: DE GRAUWE (2009).

La letteratura più recente sulle teorie AVO ha studiato l’esistenza di meccanismi di aggiustamento aggiuntivi (rispetto a flessibilità e mobilità), per esempio sistemi assicurativi che possano attutire gli effetti negativi di shock asimmetrici in un’UM; la principale distinzione è tra sistemi pubblici e sistemi privati. I sistemi assicurativi pubblici consistono nella redistribuzione fiscale operata dai bilanci pubblici. Due possibili versioni sono ipotizzabili: – un bilancio pubblico centralizzato a livello di UM sarebbe la soluzione ideale; in caso di shock, attuerebbe una redistribuzione fiscale a livello sovra-nazionale; nel nostro caso, vi sarebbero trasferimenti dalla Germania (TG sfruttando il fatto che YG) alla Francia, consentendo di sostenere con i trasferimenti la sua domanda aggregata (grazie al maggior reddito disponibile) e contenendo così la caduta del suo reddito; – una soluzione meno soddisfacente ma in parte efficace si potrebbe presentare quando i bilanci pubblici sono decentrati ma flessibili in entrambe le direzioni; infatti, lo shock potrebbe essere ammortizzato grazie agli stabilizzatori automatici che operano a livello nazionale, oltre ad eventuali politiche fiscali espansive pro-attive nel paese colpito negativamente dallo shock (cfr. cap. 11), seppure al costo di un aumento di disavanzo e debito pubblico 40. 40 In questo caso, una redistribuzione intergenerazionale prenderebbe il posto di quella internazionale che opera con un bilancio centralizzato.

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Purtroppo non è questo il caso dell’Unione monetaria europea. Innanzi tutto il bilancio dell’UE è trascurabile, l’1% del Pil solamente (come abbiamo visto nel cap. 15) e manca un bilancio specifico per l’Eurozona, mentre i bilanci nazionali assorbono circa il 40-50% del Pil dei singoli paesi; nelle unioni monetarie funzionanti, come negli Stati Uniti, il bilancio federale rappresenta almeno la metà delle entrate (ed uscite) totali. Inoltre, nell’UE non funziona bene nemmeno il secondo canale, dato che i bilanci pubblici nazionali non sono pienamente flessibili, ma sono vincolati dalle regole fiscali (come il Patto di stabilità e crescita: cfr. cap. 18). Un sistema assicurativo “privato” opera invece, all’interno di un’UM, attraverso mercati finanziari ben integrati. In questo caso, lo shock negativo si distribuisce su tutti i paesi ed i flussi di capitale facilitano l’aggiustamento. Nel nostro esempio, in Francia lo shock causa perdite di produzione e fallimenti di imprese, le cui azioni ed obbligazioni emesse perdono valore, provocando peraltro un danno finanziario a tutti i detentori, non solo francesi ma anche a quelli residenti in altri paesi (Germania inclusa); e viceversa per le attività finanziarie emesse dai tedeschi, che implicano guadagni in conto capitale a tutti i detentori (inclusi molti francesi). Nell’UE, in particolare nell’Eurozona, il grado di integrazione finanziaria è andato crescendo nel tempo, soprattutto dopo il Single Market e dopo l’avvio dell’Unione monetaria. Esso tuttavia non è perfetto ed in seguito a periodi d’instabilità o dopo gravi crisi può tornare a scendere, come successo dopo la recente crisi dei debiti sovrani (che ha comportato tra l’altro un aumento della segmentazione dei mercati finanziari nazionali).

16.6. L’UE è un’AVO? Le teorie AVO hanno mostrato l’importanza del confronto tra benefici e costi per giudicare la convenienza a costituire un’UM. I benefici (microeconomici) sono rilevanti soprattutto per i paesi ben integrati, ossia con elevato grado di apertura. Il costo principale delle UM – la perdita dello strumento del cambio – può essere notevole in presenza di shock asimmetrici. Gli elementi cruciali da considerare sono due: i. la probabilità del verificarsi di shock asimmetrici, che aumenta se i paesi sono “diversi” ovvero se hanno un basso grado di “simmetria”; ci si riferisce innanzitutto alla divergenza nelle strutture produttive (elemento studiato soprattutto da KENEN, 1969), oltre che nei sistemi fiscali ed istituzionali; ii. la precedente determinante può però essere compensata da un’elevata flessibilità (di prezzi e salari) e mobilità (del lavoro): in questo caso, anche al verificarsi di shock asimmetrici, l’aggiustamento di mercato potrebbe agire in modo efficace riportando verso l’equilibrio. Possiamo quindi derivare una relazione tra simmetria e flessibilità: questa relazione è rappresentata graficamente dalla retta AVO (Fig. 16.5). È il luogo dei punti che rappresentano combinazioni di simmetria e flessibilità che generano una convenienza netta nulla a partecipare all’UM 41. I paesi collocati al di sopra di tale retta hanno convenienza a partecipare all’UM, quelli situati al di sotto no.

41 La retta è inclinata negativamente perché se diminuisce la simmetria aumenta la probabilità di shock asimmetrici; ma i paesi possono compensare questa aumentata probabilità con una maggiore facilità di aggiustamento (grazie alla più elevata flessibilità e mobilità), mantenendo inalterata la convenienza netta a partecipare all’UM.

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Figura 16.5. – I criteri di convenienza AVO per alcuni gruppi di paesi

UE-5 Simmetria

Eurozona

zona AVO

zona non AVO Stati Uniti UE-27 AVO

Flessibilità Fonte: Rielaborazione da DE GRAUWE (2009).

A questo punto, vediamo come questa costruzione teorica può essere utilizzata per giudicare sulla convenienza di unioni monetarie – esistenti o possibili – sulla base dell’evidenza empirica afferente alle variabili in gioco (simmetria e flessibilità). Per esempio, la maggior parte degli economisti è convinta che tutta l’UE-27 non abbia i requisiti per essere un’AVO, in quanto la bassa simmetria (i 27 paesi esibiscono diverse strutture produttive, vari sistemi fiscali ed istituzionali, etc.) 42 si accompagna ad una tuttora limitata flessibilità (che c’è in alcuni paesi ma non in altri) e bassa mobilità del lavoro 43. È invece molto probabile che questi requisiti siano posseduti dall’UE-5, ossia dal core dei paesi centro-europei 44, grazie alla maggiore omogeneità interna (elevata simmetria), nonostante una flessibilità contenuta, simile a quella di tutta l’UE. Per un confronto con altre unioni monetarie, si osservi che anche gli Stati Uniti sono certamente un’AVO, ma per il motivo opposto: il grado di simmetria è relativamente basso, paragonabile a quello dell’intera UE (per la diversità tra le strutture produttive dei singoli stati) 45, tuttavia gli Usa compensano questo inconveniente con una molto elevata flessibilità e mobilità del lavoro. C’è stato – e c’è tuttora – molto dibattito su dove collocare l’Eurozona, sia quella iniziale 42 Qui

supponiamo che la Brexit sia giunta a compimento. linguistiche, diversità fiscali ed istituzionali, difficoltà di trasferimento dei diritti pensionistici, disomogeneo accesso alle libere professioni, non pieno riconoscimento dei titoli di studio, atteggiamenti culturali (che frenano gli spostamenti, mentre negli Usa è abbastanza comune cambiare stato di residenza anche più volte nella vita) sono tra gli ostacoli più citati; essi erano stati in riduzione nel corso del tempo (anche grazie al Mercato Unico), ma sono tuttora presenti. È interessante notare che mentre nel primo dopoguerra i flussi migratori, dal Sud Europa ai paesi centro-settentrionali, riguardavano i lavoratori unskilled, recentemente sono aumentati i flussi di lavoratori qualificati o giovani laureati in cerca di lavoro. 44 Nelle analisi degli anni ’90, prima che nascesse l’euro, si pensava che il core fosse costituito da Germania, Francia e dai tre paesi del Benelux. Dopo la recente crisi e gli ultimi eventi, secondo alcuni osservatori la Francia e forse anche il Belgio si sono staccati dalle “virtuose” Germania e Olanda, mentre si sono avvicinate a loro l’Austria e la Finlandia. 45 La specializzazione produttiva della California è molto diversa da quella del Texas, quella del Montana è diversa da quella di New York, etc. Anche i sistemi fiscali e legislativi sono in parte diversi da stato a stato. 43 Barriere

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con 11 stati, sia quella attuale a 19, soprattutto per la posizione dei paesi periferici. Nel grafico è collocata appena sopra la retta, quindi nella zona AVO, ma secondo alcune interpretazioni è più realistico che si collochi sotto. Per la verità, anche molti osservatori che nella fase di convergenza all’euro (anni ’90) ritenevano che si collocasse decisamente al di sotto, hanno convenuto che – dopo l’avvio dell’euro – questo gruppo di paesi si è avvicinato alla zona AVO (fino a superare la retta del grafico); poi però è intervenuta la doppia crisi (2008-2009 e 20112013) e molti ritengono che l’Eurozona abbia seguito il percorso inverso. La questione delicata è giudicare il grado complessivo di simmetria dei 19 paesi dell’area euro. In letteratura è stata discussa l’endogeneità dei criteri AVO 46, per cui la convenienza dell’UM tenderebbe ad auto-realizzarsi nel tempo, anche se inizialmente non verificata. In sostanza, quella di far partire l’euro nel 1999 poteva essere stata anche una decisione prettamente politica – ed in quanto tale prematura sul piano economico – ma tale scelta e l’adozione della moneta comune avrebbero nel tempo creato quella convenienza all’inizio non verificata. Questa è l’ipotesi di una prima visione ottimistica, a cui se ne contrappone una più pessimista; in sintesi: – secondo la visione ottimistica (propugnata dalla Commissione europea e da economisti come EICHENGREEN, 1993), gli scambi di beni intracomunitari sono in gran parte del tipo “commercio intra-industriale”; l’ulteriore crescita del commercio (derivante dal Mercato Unico e dalla stessa unione monetaria) renderebbe nel tempo più simili le strutture produttive e quindi più simmetrici gli shock; – secondo la visione pessimistica (inizialmente sostenuta da P. KRUGMAN, 1993), il crescente commercio internazionale potrebbe invece causare, in presenza di economie di scala statiche e dinamiche, una concentrazione della produzione e una crescente specializzazione dei paesi (in beni e servizi diversi da paese a paese), rendendo più probabili gli shock asimmetrici. La Commissione e gli altri organismi europei – ribaltando la logica delle teorie AVO 47 – vedevano in sostanza l’unione monetaria come uno strumento per realizzare i fini ultimi dell’UE (come stabiliti nell’art. 2 del Trattato: “progresso economico e sociale, alto livello di occupazione, sviluppo bilanciato e sostenibile”: cfr. par. 15.1). Quindi l’Ume ed i suoi criteri di convergenza nominale avrebbero dovuto favorire una convergenza reale, ossia nella performance dei singoli paesi, con un avvicinamento delle differenze strutturali ed un rafforzamento della crescita delle economie meno sviluppate. Più precisamente, la convergenza nominale avrebbe favorito la stabilità macroeconomica (stabilità dei prezzi e disciplina fiscale), l’abolizione del rischio di cambio, la riduzione dell’incertezza (su inflazione e tassi d’interesse), sostenendo così gli investimenti ed il commercio internazionale, quindi la crescita economica 48. L’evidenza empirica sul grado di simmetria nelle UM non è però uniforme. Anche se ammettiamo che c’è stata in alcuni casi una crescente concentrazione produttiva per i manufatti industriali (come Krugman verificò essere vero per gli stessi Stati Uniti), abbiamo visto (cfr. cap. 13) che nei paesi più avanzati i servizi tendono oggi a rappresentare il 70% o 80% del valore aggiunto; ed i servizi sono molto simili nei vari paesi. Forse le ipotesi di Krugman sono più plausibili per paesi molto piccoli (o a livello regionale piuttosto che nazionale). 46 Cfr.

FRANKEL, ROSE (1998), ROSE (2000). questi temi, si veda l’analisi di MARELLI, SIGNORELLI (2010d e 2017a). 48 Cfr. BUTI, SAPIR (1998). 47 Su

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Pertanto, gli studi empirici 49 condotti nel nuovo secolo, ma prima della crisi, portavano a concludere che il numero di paesi che possono trarre vantaggio dall’Ume fosse maggiore rispetto a quello stimato all’inizio (negli anni ’90, prima dell’effettiva introduzione dell’euro). In particolare, essi comprendevano non solo il “core” di paesi dell’Europa centrale, ma anche paesi più periferici (come Italia e Spagna) e addirittura alcuni Nuovi paesi membri dell’Europa dell’est. Infatti, la convergenza nell’Ue nel nuovo secolo si è realizzata soprattutto grazie al catching-up dei paesi dell’Europa centro-orientale, entrati nell’Ue nel 2004 e 2007: essi partivano da livelli di reddito pro-capite molto bassi ma sono risultati in questo periodo molto dinamici; tra il 2007 ed il 2015 alcuni di loro sono pure entrati nell’euro. Dopo la crisi, l’UE e la stessa Eurozona sono però state caratterizzate da altre divaricazioni, con i paesi periferici, soprattutto del Sud Europa, colpiti dalla crisi dei debiti sovrani o dal relativo contagio (cfr. cap. 19). Bisogna anche aggiungere che la convergenza reale tra le economie dell’area euro non è stata adeguatamente sostenuta dalle politiche europee, nonostante la predisposizione di piani come “agenda di Lisbona” e “Europa 2020” (cfr. cap. 21): il limite sta nelle ridotte dimensioni dei fondi strutturali e del bilancio europeo.

16.7. Quale futuro per l’euro? La crisi finanziaria e la Grande Recessione (2008-2009), ma più ancora la crisi dei debiti sovrani (cfr. cap. 19), hanno suscitato alcuni dubbi sull’opportunità di costituire (con il “senno di poi”) o mantenere (oggi) un’unione monetaria tra un gruppo di paesi evidentemente eterogeneo. La crisi dell’Eurozona ha mostrato ovviamente l’importanza di prestare attenzione alle situazioni finanziarie e dei conti pubblici, nonché di adottare una nuova “governance europea”, che è stata certamente rinnovata ed estesa negli ultimi anni (come vedremo nei prossimi tre capitoli), ma è ancora inadeguata sul piano del crisis management. Un problema sta anche nei difetti iniziali nella costruzione dell’Ume. Nonostante il Trattato di Maastricht parlasse, giustamente, di unione economica e monetaria, gli sforzi successivi hanno riguardato essenzialmente la costruzione monetaria, che comunque è ancora “incompleta”, perché manca un’unione fiscale o di bilancio e non sono stati fatti progressi verso un’unione politica. Anzi dopo la crisi, si è notata una divergenza tra gli Stati, basata anche su idealità o valori differenziati, su interessi nazionali, mancanza di fiducia reciproca; ciò che ha portato al successo dei movimenti cosiddetti “sovranisti” (come già accennato nel par. 15.1 a proposito di Brexit). Sul piano economico, si sapeva che sarebbe stato difficile avviare e mantenere una moneta comune tra paesi molto eterogenei, con profonde diversità strutturali, come segnalato anche dalla spesso divergente performance macroeconomica nel primo decennio di funzionamento dell’unione monetaria: ad esempio con riferimento agli indicatori di competitività, ai saldi delle bilance dei pagamenti, ai tassi di crescita dell’economia, alla dinamica della produttività, etc. 50 49 Alcuni studi si sono basati sulle analisi di correlazione (o sincronizzazione) dei cicli economici. In questi studi viene ad esempio indagata la correlazione tra paesi della produzione industriale, del Pil, dell’occupazione o di altre variabili economiche. Nella maggior parte degli studi empirici è risultato che queste correlazioni sono maggiori tra i paesi dell’area dell’euro (tra di loro), piuttosto che tra questi paesi ed il resto del mondo. Si veda la rassegna in MARELLI, SIGNORELLI (2010d) e PARISI et al. (2017). D’altro canto, DE GRAUWE, JI (2016) hanno mostrato che, pur essendo i cicli economici abbastanza sincronizzati nell’area euro, la loro ampiezza varia da paese a paese ovvero gli shock, anche se comuni tra i vari paesi, possono manifestare impatti molto diversi. 50 Dal 1999 il tasso di cambio reale basato sul clup si è deprezzato di circa il 10% in Germania ed invece ap-

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L’integrazione economica europea

Inoltre, i meccanismi di aggiustamento di mercato non sono sempre risultati efficaci. Occorreva invece sostenere e completare questi meccanismi con politiche di accompagnamento, per il sostegno della competitività e della produttività, la ricerca, il capitale umano, etc. 51: ossia per favorire la “convergenza reale”; il tutto anche tramite adeguati trasferimenti fiscali. Invece abbiamo già sottolineato (cap. 15) l’assurdità di un bilancio dell’UE minuscolo ed addirittura in contrazione. Oltre tutto, l’approccio dell’austerità ha portato a vincoli crescenti all’adozione di politiche fiscali espansive anche a livello nazionale (cfr. cap. 18). Considerata questa nuova situazione venutasi a creare dopo la crisi e tenuto conto delle lacune insite nella costruzione monetaria europea, diversi economisti (e politici) hanno evidenziato l’opportunità – anche per l’Italia – di un “euro-exit”, cioè dell’abbandono della moneta comune 52. Alcuni prendono come riferimento i paesi europei che non hanno l’euro, come la Svezia, la Polonia (che peraltro è ancora in fase di “catching-up”) o il Regno Unito (poi uscito dall’intera Ue), sottolineando la loro migliore performance macroeconomica (rispetto ai paesi dell’Eurozona); dimenticando però la maggiore solidità finanziaria e dell’economia reale di tali paesi, specie quelli del Nord Europa (un confronto con l’Italia, un paese strutturalmente debole e appesantito dalla montagna di debito pubblico, è improponibile). Si noti che mentre l’uscita della Grecia, il primo e più colpito paese dalla crisi dei debiti sovrani, potrebbe essere sopportata in modo relativamente indolore (soprattutto dopo le reti di protezione lanciate dalla Bce, come il piano “Omt” ed il “Quantitative easing”: cfr. cap. 17), l’uscita dell’Italia determinerebbe quasi sicuramente il crollo dell’intero edificio. Negli ultimi anni, gli scenari discussi tra gli specialisti sono stati molto vari, dal ritorno alle valute nazionali per molti dei vecchi membri dell’Eurozona, all’adozione di due valute, un “euro-Nord” per la Germania ed i paesi core ed un “euro-Sud” per i paesi periferici. Relativamente ad un eventuale “Italexit”, il punto cruciale riguarda la differenza sostanziale che c’è tra il decidere di non adottare l’euro e la scelta di uscirne una volta che se ne fa parte (sui benefici, costi e rischi di un’eventuale uscita cfr. MARELLI, SIGNORELLI, 2018; MINENNA, 2016). È quest’ultima scelta che potrebbe avere costi insostenibili. Lo scenario più probabile implica un forte deprezzamento della nuova-vecchia valuta (la lira?) rispetto all’euro, una fuga di capitali (a meno di chiudere le frontiere o proibire i movimenti di capitale) 53, il forte rialzo dei tassi d’interesse (con evidenti conseguenze sugli investimenti e sull’economia reale), il rischio di default, l’impossibilità di prendere a prestito per un periodo più o meno lungo, fallimenti bancari e probabile panico. Per evitare una corsa agli sportelli 54 si dovrebbero chiudere anche le banche per più giorni o porre limiti al prelievo di contante (come fece l’Argentina all’inizio del nuovo secolo e più recentemente la Grecia); con ovvie conseguenze sociali, politiche e per la stessa sicurezza naprezzato del 10-15% in Italia e Spagna; ovviamente questo spiega in gran parte i sistematici surplus commerciali tedeschi ed i disavanzi dei paesi periferici. 51 Certo ci sono i fondi strutturali, c’è stata l’Agenda di Lisbona e poi il piano Europa 2020: tutte belle iniziative, ma scarsamente incisive con risorse limitate. 52 Sul piano strettamente giuridico bisognerebbe uscire dall’intera UE, non solo dall’euro: questo è quanto prevede il Trattato di Lisbona. 53 Rinunciando così al Mercato Unico e probabilmente alla stessa unione doganale (coerentemente con la clausola giuridica discussa nella nota precedente). 54 Tuttavia, la classica “corsa agli sportelli”, sebbene più visibile e politicamente dirompente, riguarderebbe importi relativamente minori; grazie ai trasferimenti elettronici, non appena le operazioni di uscita fossero di pubblico dominio, la fuga di capitali potrebbe essere estremamente rapida. Per inciso, potrebbero essere le famiglie più povere quelle più colpite, poiché quelle più agiate detengono conti all’estero o riescono comunque a proteggere meglio i propri risparmi.

Il Trattato di Maastricht e la “Unione economica e monetaria” europea

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zionale. Sempre per evitare fughe di capitali, l’eventuale decisione di uscita dovrebbe essere presa in segretezza (magari durante un fine settimana a mercati chiusi), ma questo contrasta sia con requisiti tecnici (necessità di garantire la liquidità sufficiente nei mercati bancari e finanziari, predisporre gli sportelli automatici, etc.) sia con esigenze di democraticità dei processi decisionali (è infatti il Parlamento l’organo adeguato per una decisione così rilevante). Restrizioni ai liberi movimenti di capitale sarebbero comunque necessari e per un periodo più o meno lungo. Un default sul debito pubblico è prevedibile e sarebbe tanto più probabile se il debito estero dovesse essere rimborsato – come è probabile 55 – secondo il vecchio valore (rivalutato) in euro. Non sono infine da escludere possibili ritorsioni, anche di natura commerciale, da parte degli altri paesi europei e/o, a causa di un contagio dirompente, il collasso dell’intera unione monetaria. Anche i benefici della svalutazione – sostenuti dai fautori dell’euro-exit – sulla bilancia commerciale, grazie alla svalutazione della nuova valuta rispetto all’euro 56, sarebbero limitati nel tempo a causa del “circolo vizioso svalutazione-inflazione” (come nell’Italia degli anni ’70: cfr. cap. 12), che annullerebbe presto i guadagni iniziali di competitività; a meno di imporre un freno ai salari, con ovvie conseguenze sul tenore di vita dei lavoratori, delle famiglie (penalizzate anche per l’aumento dei tassi sui mutui e per l’eventuale ripudio del debito) ed ulteriore crollo dei consumi. Un altro beneficio spesso citato è la riconquista di una politica monetaria nazionale, da calibrare rispetto alle esigenze interne ed agli shock che colpiscono l’economia nazionale; va però tenuto presente che i tassi d’interesse rischiano di salire, sia per la probabile maggiore inflazione sia per le aspettative di ulteriori svalutazioni. Apparentemente più gestibile sarebbe una politica fiscale nazionale, non più soggetta alle regole fiscali del Patto di stabilità e del Fiscal compact (cfr. cap. 18); l’approccio dell’austerità potrebbe, in teoria, essere ribaltato, ma anche in questo caso un paese con un elevato debito pubblico deve comunque prestare estrema attenzione perché resterebbe la “disciplina del mercato” (cfr. par. 11.2). In conclusione, pur ammesso che al momento dell’adesione all’euro la bilancia per l’Italia non pendesse nettamente dal lato dei benefici, una sua uscita oggi dalla moneta comune comporterebbe dei costi e rischi superiori ai benefici, probabilmente insostenibili 57. La vera sfida è correggere quello che non va nell’attuale assetto dell’Ume e nelle recenti politiche intraprese: ma ciò comporta più e non meno integrazione in Europa, anche se si tratta di un’Europa che andrebbe rifondata – anche tramite una nuova governance ed un bilancio specifico dell’Eurozona – su basi economicamente e socialmente sostenibili (si vedano le conclusioni del cap. 19). Una tale evoluzione, che potrebbe avere come meta finale una vera “unione politica”, richiede una grande lungimiranza da parte delle autorità, europee e nazionali, e, al momento, non sembra realizzabile in tempi brevi.

55 Infatti, i tioli del debito pubblico emessi a partire dal 2013 contengono le clausole “cac” (clausole di azione collettiva), che impongono il rimborso nella valuta originaria di emissione del titolo (ossia in euro). Numerosi problemi legali sorgerebbero anche per la ridenominazione dei debiti e crediti privati. 56 Nel caso dell’Italia, si stima una svalutazione di almeno il 25%, per compensare la perdita di cambio reale (e quindi di competitività) rispetto alla Germania da quando c’è l’euro; ma si sono ipotizzate svalutazioni fino al 30 o 40%. 57 Questa è pure la posizione di ben 25 Premi Nobel dell’economia, secondo cui uscire dall’euro sarebbe – nonostante tutti i suoi limiti – fonte di grave instabilità (si veda la lettera invita al giornale Le Monde durante la campagna elettorale francese nella primavera 2017).

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L’integrazione economica europea

Parte Sesta

Le politiche economiche nell’Eurozona

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Le politiche economiche nell’Eurozona

La Bce e la politica monetaria europea

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La Bce e la politica monetaria europea

17.1. La Bce: organi e caratteristiche La politica monetaria è una politica ora centralizzata nell’Eurozona, da quando è iniziata l’Unione monetaria europea, ossia dal 1999 (cfr. cap. 16). Le banche centrali nazionali non sono però scomparse (anche se come vedremo hanno funzioni limitate). Infatti, la Banca centrale europea (Bce) e le banche centrali nazionali (Bcn) costituiscono il Sistema europeo di banche centrali (Sebc), già previsto dal Trattato di Maastricht. Alla Bce competono le decisioni di politica monetaria, mentre alle Bcn sono decentrati i compiti di attuazione 1. La Bce e le banche nazionali dei soli paesi dell’Eurozona (ora 19) compongono il cosiddetto Eurosistema. È operativa dal 1° giugno 1998, con la contemporanea liquidazione dell’Ime; tuttavia è responsabile della politica monetaria europea dal 1° gennaio 1999, ossia da quando è stato introdotto l’euro 2. Gli organi della Bce sono sostanzialmente tre (soprassedendo sugli organi di vigilanza di cui parleremo alla fine del capitolo). L’organo più vasto è il Consiglio generale della Bce, ma è il meno importante. Infatti comprende, oltre al Presidente ed al Vice-presidente della Bce, i governatori delle Bcn di tutti i paesi dell’UE; è previsto fin quando vi saranno Stati membri “in deroga” (ossia facenti parte dell’UE ma non dell’Eurozona). Svolge compiti transitori ed a carattere informativo/consultivo, sorveglia il funzionamento dello Sme-2 (cfr. par. 16.2) e coordina le politiche monetarie e dei cambi di tutti i paesi (anche di quelli in deroga). Il Comitato esecutivo (executive board) è l’organo permanente situato a Francoforte, dove ha sede la Bce. È composto dal Presidente, dal Vice-presidente e da altri quattro membri, scelti tutti e sei di comune accordo dal Consiglio UE (capi di Stato e di governo). I membri durano in carica 8 anni ed il loro mandato non è rinnovabile 3. Il Comitato esecutivo delibera a maggioranza semplice dei votanti, con un voto per ciascun membro (in caso di parità prevale il voto del Presidente). Tra le sue più importanti funzioni vi sono quelle di fare proposte di politica monetaria al Consiglio direttivo, attuarne le decisioni ed impartire le istruzioni alle Bcn. Il Consiglio direttivo è l’organo decisionale più importante. Comprende i membri del Comitato esecutivo ed i governatori delle Bcn dei paesi dall’area euro (quindi consta attualmente di 19 + 6 = 25 membri). Le sue funzioni sono quelle di formulare la politica monetaria dell’Uem, decidere i tassi d’interesse, gestire la liquidità, deliberare in materia di riserve e di quote del capitale della Bce, decidere in merito agli altri compiti affidati al Sebc. Era tradizione 1 Sulla

BCE, si veda PAPADIA, SANTINI (2012) e ANTONIAZZI (2013). già sottolineato in precedenza (cap. 16), l’introduzione dell’euro data con l’avvio dei tassi di cambio irrevocabili e non con la successiva effettiva circolazione della nuova moneta unica. 3 Dal novembre 2011 è Presidente Mario Draghi, che resterà in carica fino all’ottobre 2019 (in precedenza il francese Trichet e prima ancora l’olandese Duisenberg). 2 Come

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che questo Consiglio si riunisse due volte al mese 4; a partire dal 2015 le decisioni di politica monetaria sono prese ogni sei settimane. Delibera a maggioranza semplice dei votanti, con un voto per ciascun membro 5 (in caso di parità prevale il voto del Presidente). Fino al 2014, tutti i governatori avevano diritto di voto. Al fine di rendere più gestibili le decisioni di politica monetaria, difficili da prendere con un numero eccessivo di decisori, nel 2003 fu approvata una riforma secondo cui, a regime, il numero dei governatori con diritto di voto sarebbe stato ristretto a 15; la riforma sarebbe entrata in vigore quando i paesi dell’area euro sarebbero stati più di 18: ciò che si è verificato il 1° gennaio del 2015 (con l’ingresso della Lituania). Ora quindi il diritto di voto dei governatori è esercitato a rotazione; la frequenza di voto nelle sessioni, per i singoli paesi, dipende dalle loro dimensioni in termini economico-finanziari, che si riflette nel contributo dei vari paesi al capitale della Bce (cfr. Tab. 17.1) 6. Tabella 17.1. – Contributo (%) dei paesi dell’Eurozona al capitale della Bce Germania Francia Italia Spagna Olanda Belgio Grecia Austria Portogallo Finlandia

25,6 (26,4) 20,1 (20,4) 17,49 (16,95) 12,6 (12,0) 5,7 (5,8) 3,5 (3,6) 2,9 (2,5) 2,8 (2,9) 2,5 (2,4) 1,8 (1,8)

Irlanda Slovacchia Lituania Slovenia Lettonia Lussemburgo Estonia Cipro Malta

1,6 (1,7) 1,1 (1,1) 0,6 (0,6) 0,5 (0,5) 0,4 (0,4) 0,3 (0,3) 0,3 (0,3) 0,2 (0,2) 0,1 (0,1)

Nota: (i) le quote % sono calcolate sul capitale della Bce relativo ai paesi Eurozona; (ii) alle quote in vigore dal primo gennaio 2015 a fine 2018 (e quindi rilevanti per il QE) sono state aggiunte, in parentesi, quelle in vigore dal 1° gennaio 2019 (i valori sono stati arrotondati alla prima cifra decimale, tranne che per l’Italia). Fonte: BCE (2018).

Secondo alcuni osservatori, l’Eurosistema è comunque troppo decentralizzato. Infatti le decisioni di politica monetaria sono prese da tutti i governatori (15) e dai 6 membri del comitato esecutivo, con una prevalenza della “periferia” rispetto al centro. Per confronto, nel Federal Open Market Committee della Fed i membri di nomina centrale sono 7 e quelli delle Federal Reserve Bank regionali sono solo 5 7. Quando i paesi membri dell’Eurozona erano pochi (11 all’inizio) era 4 Le decisioni relative ai tassi d’interesse erano di norma affrontate nella prima riunione mensile (per tradizione il giovedì). 5 Va sottolineato questo aspetto: ogni paese, piccolo o grande che sia, ha lo stesso peso nelle decisioni di politica monetaria. Sul piano della “codecisione” (o della corresponsabilità delle scelte) questo sistema rappresenta un progresso rispetto al vecchio Sme, che come abbiamo visto (cap. 16) era un sistema asimmetrico in cui la politica monetaria di tutti i membri era determinata – o almeno fortemente influenzata – dalle decisioni del paese leader (la Germania). È vero che sul piano politico le preferenze del rappresentante tedesco nel Consiglio direttivo della Bce “pesano” di più rispetto a quelle di altri governatori; eppure ci sono stati casi recenti in cui il Presidente della Bundesbank è stato messo in minoranza. 6 L’Italia rientra quindi nel gruppo di paesi di maggiori dimensioni (che in media vota 4 volte su 5). Più precisamente, il meccanismo di voto a rotazione mensile prevede che i governatori dei 5 paesi più grandi (Germania, Francia, Italia, Spagna e Olanda) dispongono collettivamente di 4 voti, mentre tutti gli altri 14 paesi condividono 11 voti. 7 Il molto più decentralizzato sistema prevalente nella Fed negli anni ’20 e ’30 fu, secondo M. Friedman e A. e Schwartz, una delle cause degli errori di politica monetaria (e quindi dell’aggravamento della Grande Depressione: cfr. cap. 4).

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facile per i 6 membri dell’Executive board far prevalere le proprie proposte (bastavano solo 3 voti aggiuntivi per arrivare alla maggioranza), anche perché i governatori nazionali hanno probabilmente obiettivi contrapposti in presenza di shock asimmetrici (c’è chi vorrebbe alzare i tassi mentre altri vorrebbero abbassarli) 8, mentre il board ha delle preferenze vicine a quelle del “governatore mediano”. Con un Eurosistema allargato le decisioni sono un po’ più complesse. Per quanto riguarda le caratteristiche della Bce ed il modello teorico sottostante, si afferma di solito che si caratterizza per la massima indipendenza e per il conservatorismo. Questi due requisiti rafforzano la credibilità delle politiche di bassa inflazione (cfr. par. 9.8). Secondo lo schema teorico del monetarismo e, più ancora, della Nuova Macroeconomia Classica: (i) c’è l’assenza di un trade-off di medio-lungo periodo tra inflazione e disoccupazione (un) e quindi una sostanziale inefficacia delle politiche di stabilizzazione (per ↓u), con la conseguente necessità di “riforme strutturali”, al fine di modificare le variabili reali; (ii) in ogni caso, la banca centrale deve occuparsi dell’obiettivo che riesce a controllare meglio, ossia la stabilità dei prezzi. In effetti, la Banca centrale europea è considerata tra le banche centrali più indipendenti al mondo (anche più della stessa Bundesbank che fu presa come modello). L’indipendenza è politica (ossia rispetto agli altri organi comunitari ed ai governi nazionali), funzionale (facoltà di manovrare liberamente gli strumenti a disposizione), personale (garanzie circa la nomina e la durata del mandato degli organi decisionali), finanziaria e contabile. Quindi nessuna interferenza esterna è ammessa (si veda l’art. 107 del Trattato). In letteratura, si mostra però che l’indipendenza dovrebbe essere contemperata dalla “sindacabilità” (accountability) o “responsabilità per il proprio operato”, di fronte ai cittadini o ai loro rappresentanti eletti. Secondo i critici 9, la Bce è meno accountable rispetto alla Fed: è vero che il Rapporto annuale sulla sua attività viene inviato al Parlamento europeo, dove il Presidente Bce è sottoposto ad audizioni periodiche. Tuttavia l’Europarlamento ha meno poteri rispetto al Congresso americano e lo Statuto della Bce può essere modificato solo cambiando il Trattato di Maastricht (ciò richiede l’unanimità) 10. Secondo i difensori, invece, l’accountability è sufficiente, anche perché una “sindacabilità informale” (trasparenza delle decisioni, informazioni periodiche al pubblico, etc.) 11 può sostituire quella formale. Veniamo ora al punto cruciale di quali sono gli obiettivi finali della politica monetaria europea. Secondo il Trattato di Maastricht (art. 105), obiettivo primario è il mantenimento della stabilità dei prezzi; solo “fatto salvo” tale obiettivo, il Sebc sostiene le politiche economiche generali dell’UE (art. 2). Queste comprendono, come abbiamo visto (cfr. cap. 15), uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche, una crescita sostenibile, un elevato grado di convergenza economica, un alto livello di occupazione. Tuttavia questa scala di priorità fa capire che se il raggiungimento di obiettivi connessi all’economia reale (crescita, occupazione, disoccupazione, etc.) dovesse mettere a repentaglio la stabilità dei prezzi, allora si dovrebbe rinunciare agli obiettivi reali. Pochi statuti di banche centrali enfatizzano così tanto la stabilità dei prezzi. Per esempio, 8 Si riveda nel par. 10.4 l’applicazione della regola di Taylor alle scelte di politica monetaria del Consiglio direttivo della Bce. 9 Per esempio DE GRAUWE (2009). 10 Inoltre, mentre il controllo di un’istituzione è più agevole quando il contratto di delega specifica con precisione gli obiettivi, ciò non succede nel caso della Bce (essendo il target d’inflazione fissato dalla Bce stessa). 11 Conferenza stampa del Presidente Bce dopo le riunioni del Consiglio direttivo (ed in particolare dopo le decisioni sui tassi); pubblicazioni periodiche come il Rapporto annuale, il Bollettino mensile, che – assieme a molte altre informazioni – sono sul sito web. Dal 2015 sono pubblicati anche i verbali delle riunioni del Consiglio direttivo (sia pur con un dettaglio minore rispetto ai corrispondenti documenti diffusi da tempo dalla Federal Reserve e dalla Bank of England).

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Le politiche economiche nell’Eurozona

gli obiettivi della Fed statunitense comprendono la stabilità dei prezzi, la massima occupazione ed il contenimento dei tassi d’interesse a lungo termine (senza alcuna scala di priorità esplicita) 12. Ecco perché la Bce è considerata una banca centrale conservatrice, in particolare target-conservative (cfr. par. 10.2), che ha come obiettivo quello di mantenere un tasso d’inflazione molto basso (sebbene non proprio nullo, come vedremo nel prossimo paragrafo) ed un tasso di disoccupazione attorno a quello naturale (un). Ciò è coerente con la visione esposta a più riprese dai presidenti Bce secondo cui la disoccupazione deve essere ridotta soprattutto attraverso le “riforme strutturali”. Vi è quindi il rischio che la Bce manifesti scarsa considerazione per gli altri possibili obiettivi finali della politica monetaria, diversi dalla stabilità dei prezzi, per esempio per il reddito (e l’occupazione). Le conseguenze di questo approccio non sarebbero peraltro gravi nel caso di shock sulla domanda aggregata (per cui P e Y), poiché la stabilizzazione dei prezzi implica automaticamente anche quella del prodotto, mentre lo possono essere in presenza di shock d’offerta (si veda la Fig. 17.1). Nel secondo caso (parte destra del grafico), la Bce – vedendo che sono saliti i prezzi – attua una manovra restrittiva; ma questo (portando verso l’interno anche la curva AD) aggrava ancor più la caduta della produzione. Figura 17.1. – Effetti di shock di domanda e di offerta ASʹ AS

ADʹ

Livello dei prezzi

Livello dei prezzi

AS

AD

AD Prodotto di piena capacità

Prodotto

(a) Shock dal lato della domanda

Prodotto di piena capacità

Prodotto

(b) Shock dal lato dell’offerta

Fonte: DE GRAUWE (2009).

Dopo la crisi finanziaria globale sono aumentati compiti e funzioni delle banche centrali – con un’estensione dei confini funzionali, operativi, dimensionali e geografici (cfr. par. 10.2) – ed anche la Bce si è adeguata, con le operazioni non convenzionali e le nuove responsabilità di 12 Infatti, dal dicembre 2012, la Fed (sotto la presidenza di Bernanke) si era impegnata a mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a quando il tasso di disoccupazione Usa non fosse sceso al di sotto del 6,5%; nel febbraio 2014 la nuova Presidente della Fed, J. Yellen, ha eliminato questo target, sia perché non si riteneva che esso misuri bene lo stato del mercato del lavoro (ad esempio non tiene conto dei lavoratori scoraggiati), sia perché il tasso di disoccupazione effettivo era ormai vicino al target (per cui mantenendolo si rischiava di lanciare ai mercati il messaggio di un imminente cambio di rotta, ossia di un innalzamento dei tassi).

La Bce e la politica monetaria europea

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vigilanza (di cui tratteremo alla fine di questo capitolo). Modifiche più sostanziali dei suoi compiti statutari, pur auspicate da alcuni economisti (cfr. cap. 19), sono però difficili poiché implicherebbero la revisione del Trattato di Maastricht.

17.2. Il target d’inflazione ed i due pilastri della strategia monetaria La Bce ha precisato che per “stabilità dei prezzi” si deve intendere un aumento dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Iapc), per l’intera area dell’euro, inferiore ma prossimo al 2%, obiettivo da mantenere su un orizzonte di medio periodo. Alcune precisazioni sono opportune. Innanzi tutto, uno sconfinamento dell’obiettivo è accettabile nel breve periodo, ossia se temporaneo: la gradualità degli interventi di stabilizzazione dei prezzi può così consentire alla Bce di considerare anche gli obiettivi di tipo reale, che altrimenti sarebbero pregiudicati con interventi più drastici. In secondo luogo, uno sconfinamento è ammissibile se non è imputabile a negligenza della Bce, ma è dovuto a cause esogene, ad esempio uno shock petrolifero. In realtà, alcune banche centrali al mondo hanno adottato come parametro di riferimento un indice di core inflation, che è l’inflazione al netto delle componenti più volatili (per esempio l’inflazione importata causata da shock d’offerta o quella dovuta a manovre fiscali temporanee) 13. La terza precisazione è ancora più importante: conta l’inflazione media per l’intera area dell’euro, non il dato relativo a singoli paesi (le conseguenze di questa scelta saranno esaminate nel par. 17.5). Ultima considerazione: la deflazione (  0) 14 è considerata negativamente al pari di un’inflazione elevata (  2%). Comunque, diverse critiche erano state rivolte al valore numerico scelto dalla Bce: i critici avevano fatto notare fin dall’inizio che l’obiettivo era fissato per difetto, poiché un poco d’inflazione sarebbe da giudicare con favore: per i miglioramenti qualitativi dei beni 15, per l’“effetto lubrificante” di un’inflazione moderata, per i rischi maggiori di deflazione con un tasso vicino allo zero, etc. (oltre a quanto discusso in letteratura circa i benefici di un’inflazione bassa ma positiva: cfr. par. 8.1). In parte la Bce ha risposto a queste critiche: infatti l’attuale specificazione ( < 2%, ma   2%), in vigore dal maggio 2003, è meno stringente rispetto a quella in vigore nei prima quattro anni (0  π  2%) 16. Le banche centrali, oltre a definire in modo chiaro gli obiettivi finali, devono scegliere gli obiettivi intermedi. Nell’ultimo quarto di secolo, due erano le possibili alternative a disposizione: il monetary targenting e l’inflation targeting (cfr. cap. 10). La Bce ha scelto, nella sua “strategia di politica monetaria orientata alla stabilità” un approccio detto dei “due pilastri”: i. il primo pilastro della strategia della Bce è ora l’inflation targeting; questo rientra nella cosiddetta “analisi economica”, che comporta una “valutazione di ampio respiro delle prospettive per i prezzi” nell’area dell’euro. Questa valutazione, in particolare, è volta ad individuare i rischi per la stabilità dei prezzi a breve e medio termine; essa è incentrata sull’analisi 13 La Bce ha fissato il target d’inflazione sulla base dello Iapc, che è un indice dei prezzi al consumo (cfr. par. 8.1); tuttavia utilizza la “core inflation” all’interno di un insieme più vasto di indicatori per la strategia di “inflation targeting”. 14 Quando la Bce divenne operativa (1999), questa era considerata un’eventualità teorica, ma recentemente (2014-2016) l’area euro si è avvicinata davvero a condizioni di deflazione o inflazione nulla: da qui l’adozione di alcune operazioni non convenzionali, come il Quantitative easing (di cui tratteremo più avanti). 15 Se un prodotto viene a costare di più nel tempo perché incorpora innovazioni o comunque è qualitativamente superiore a quelli esistenti sul mercato, il suo maggior prezzo non dovrebbe venire incorporato nel vero tasso d’inflazione, poiché si tratta di un prodotto (si pensi a beni quali smartphone, computer, televisori, elettrodomestici, automobili, etc.) nella sostanza diverso rispetto a prodotti simili già sul mercato. 16 Il valore centrale di questo intervallo era 1%; ora invece la Bce afferma esplicitamente che sarebbe meglio avere π uguale al 2% o poco sotto (si intendono pochi decimi di punto percentuale) al 2%.

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Le politiche economiche nell’Eurozona

degli andamenti macroeconomici, degli shock che colpiscono il sistema e dei rischi per la stabilità dei prezzi; poggia quindi su molteplici indicatori economici e finanziari 17; ii. il secondo pilastro, è il monetary targeting; l’“analisi monetaria” tende a valutare le tendenze dell’inflazione nel medio-lungo periodo; si riferisce, in particolare, alle tendenze della quantità di moneta, per il cui tasso di crescita è annunciato un valore di riferimento. Al fine di mostrare un’applicazione concreta della teoria quantitativa della moneta (cfr. cap. 7), vediamo come la Bce ha fissato il valore numerico della crescita monetaria (per quanto questo sia un esercizio in parte obsoleto, a causa degli sviluppi successivi di cui si parlerà tra breve). In primo luogo, va detto che la Bce ha scelto quale aggregato monetario di riferimento M3, ossia un aggregato ampio (comprendente circolante, depositi, quote di fondi d’investimento monetario, titoli di debito di istituzioni monetarie e finanziarie di breve durata). Il valore della crescita monetaria può essere derivato trasformando l’equazione “quantitativa della moneta” (la [7.2]) da un’equazione in livelli in un’altra equazione in variazioni 18, quindi sostituire alle variabili valori numerici ritenuti realistici (alla fine degli anni ’90 quando la Bce divenne operativa): M V = P Y  gM   + gY – gV  gM  2% + 2% – (– 0,5%) = 4,5% dove (= 2% è l’obiettivo finale, gY è la stima del tasso di crescita del Pil reale (2% o, al più, 2,5%) e gV è quella della variazione della velocità di circolazione (– 0,5% o, al più, – 1%) 19. Comunque, il valore così calcolato di gM era da considerare solo un benchmark, non una “regola fissa” (à la Friedman). In realtà, l’applicazione effettiva del targeting monetario da parte della Bce è stata alquanto flessibile, con notevoli scostamenti rispetto al benchmark indicato (cfr. Fig. 17.2). Figura 17.2. – Crescita di M1 e M3 nell’Eurozona (1999-2018) 14 M1

12

M3 10 8 6 4 2 0 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Nota: variazione % annua. Fonte: Bollettino BCE (1999-2018). 17 Gli esperti dell’Eurosistema valutano costantemente tutte queste variabili e predispongono periodicamente proiezioni sugli andamenti macroeconomici e sulle prospettive inflazionistiche. 18 Basta applicare alla [7.2] i logaritmi, quindi differenziare rispetto al tempo. 19 Questa era la stima dell’andamento della velocità di circolazione fatta poco prima che partisse l’Ume.

La Bce e la politica monetaria europea

343

Si notano incrementi forti di M3 (anche pari al doppio rispetto al benchmark) fino alla crisi finanziaria ed alla Grande Recessione del 2008-2009, quando la sua crescita è crollata ed è stata invece maggiore la dinamica di aggregati più liquidi come M1 (seppure con accentuate oscillazioni di breve periodo). Di fronte ai rischi di perdita di credibilità – per il fatto di annunciare un benchmark poi non rispettato – già dal maggio 2003 il tasso di riferimento per la crescita della moneta non è più sottoposto a revisione annuale; inoltre M3 viene inserita in un più ampio spettro di indicatori monetari (tra cui M1) e, soprattutto, l’analisi economica precede quella monetaria nella valutazione dei rischi per la stabilità dei prezzi. Negli anni più recenti (2015-2018) la crescita di M1, dopo aver nuovamente superato il + 10% nel 2015 avvia un ripiegamento verso il + 7% del 2018; su livelli inferiori (sotto il + 5% annuo) e più stabili è risultata la crescita di M3 nel medesimo periodo.

17.3. Strumenti di politica monetaria ed il grado di attivismo della Bce Come tutte le banche centrali, anche la Bce ha a disposizione una batteria di strumenti per intervenire sul mercato monetario. Qui analizzeremo solo gli strumenti più importanti, cominciando con quelli introdotti sin dalla sua nascita (tratteremo invece delle operazioni non convenzionali adottate dopo la crisi alla fine del capitolo). Le operazioni di rifinanziamento principale (“main refinancing operations”, MRO) sono operazioni di mercato aperto e servono per controllare direttamente la liquidità sul mercato monetario; sono dette “operazioni temporanee” 20 e sono attuate in modo decentrato dalle Bcn con frequenza settimanale (e scadenza pure pari di solito ad una settimana); di norma sono attuate mediante il meccanismo delle aste. Le banche commerciali (e gli altri istituti ammessi alle operazioni di rifinanziamento con la Bce), per ottenere i suoi finanziamenti, debbono cedere a garanzia del “collaterale” 21, ossia titoli di stato od altre obbligazioni caratterizzate da un’affidabilità adeguata (ossia da un rating superiore ad un minimo periodicamente fissato dalla stessa Bce). Poiché quest’analisi ha delle implicazioni per la definizione del tasso di riferimento principale per la stessa Bce – il tasso “repo” è infatti il tasso di policy, strumento cardine della politica monetaria anche per il suo valore segnaletico (cfr. par. 10.4) – possiamo distinguere le procedure seguite da quest’ultima in tre intervalli temporali: – nei primi anni (1999-2000), le aste erano attuate a tasso fisso, ossia la Bce fissava il tasso di riferimento e le assegnazioni di liquidità avvenivano pro-rata 22; – nel periodo successivo, le aste erano invece a tasso variabile: il tasso era fissato dal mercato, ma non poteva scendere al di sotto del tasso minimo di offerta sulle operazioni di rifinanziamento principale: era questo il “tasso ufficiale” della Bce, che segnalava anche la sua politica monetaria; 20 Altri strumenti monetari sono le operazioni definitive, la raccolta di depositi a tempo determinato, l’uso di swap in valuta e l’emissione di certificati di debito. Oltre alle operazioni di rifinanziamento principale troviamo – sempre tra le operazioni di mercato aperto – le operazioni di rifinanziamento a lungo termine, le operazioni di “fine tuning” e le operazioni strutturali. 21 Si tratta quindi, in sostanza, di contratti di acquisto/vendita a pronti con patto di riacquisto/vendita a termine. 22 Per esempio, se la domanda di liquidità da parte delle banche commerciali fosse stata complessivamente il doppio rispetto all’offerta da parte della Bce, il tasso non sarebbe variato, ma ogni banca commerciale avrebbe avuto come finanziamento la metà di quanto richiesto.

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Le politiche economiche nell’Eurozona

– dopo la crisi (fine 2008), il tasso “repo” è di nuovo fisso, ma con piena aggiudicazione dell’importo, ossia la Bce fornisce tutta la liquidità che il sistema chiede (a quel tasso). Un altro strumento importante sono le operazioni per la gestione giornaliera della liquidità, che sono finalizzate ad immettere o assorbire liquidità nel brevissimo termine (overnight); i tassi applicati a queste operazioni vengono a determinare un “corridoio” attorno al tasso minimo (o fisso) di offerta sulle operazioni di rifinanziamento principale. A seconda che le banche commerciali 23 abbiano bisogno di liquidità a brevissimo termine oppure la vogliano depositare presso la Bce, possiamo distinguere: – le operazioni di rifinanziamento marginale, a cui si applica il tasso overnight di rifinanziamento (che viene a costituire un tetto per i tassi interbancari), – le operazioni di deposito, a cui si applica il tasso overnight di deposito (che funge da pavimento per i tassi interbancari), Altri strumenti impiegati dalla Bce includono la riserva obbligatoria, che consta di un deposito su base mensile, ora pari all’1% (era pari al 2% fino al 2011) del totale dei depositi degli istituti di credito (depositi a vista e con scadenza fino a due anni, titoli di debito fino a due anni e titoli del mercato monetario); è versata in un apposito conto delle Bcn ed è remunerata secondo il tasso medio mensile delle operazioni di rifinanziamento principale. Altri strumenti sono: le operazioni sui cambi, la gestione delle riserve ufficiali, la supervisione dei sistemi di pagamento, etc. A questo punto è però meglio discutere più approfonditamente la politica dei tassi della Bce. Due aspetti sono particolarmente rilevanti: (i) il rapporto tra i tre “tassi ufficiali” della Bce; (ii) la relazione tra il tasso di riferimento della Bce ed i tassi del mercato monetario. La Fig. 17.3 si sofferma sul primo aspetto. Essa mostra per l’ultimo decennio l’andamento del tasso fisso sulle operazioni di rifinanziamento principale, del tasso di rifinanziamento marginale e del tasso overnight di deposito: questi ultimi due tassi determinano, come già precisato, un corridoio all’interno del quale si colloca il tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale 24. La Fig. 17.4 evidenzia invece l’andamento del tasso Eonia, che è un tasso del mercato monetario (quindi non fissato dalla Bce ma dalle libere forze del mercato): in particolare, è un tasso interbancario a brevissimo termine (overnight). Si vede dal grafico, confrontato con quello precedente, che questo tasso si avvicina in condizioni normali al tasso applicato dalla Bce sui depositi overnight; tuttavia in presenza di tensioni sui mercati finanziari può salire in modo significativo, anche se rimane sempre all’interno del corridoio sopra citato (le oscillazioni giornaliere del tasso non sono peraltro evidenziate nel grafico). Un altro tasso del mercato monetario è pure rappresentato nella Fig. 17.4: si tratta dell’Euribor a 3 mesi 25. Esso tradizionalmente si collocava su valori decisamente più alti: verso la metà degli anni ’90 era vicino al 7-8%; poi scese dopo l’avvio dell’unione monetaria arrivando quasi a toccare il 2% nel 2005-2006; a seguito della crisi finanziaria, subì un rialzo fino al 5% nel 2008 ed un altro piccolo rialzo (poco sopra 1,5%) per la crisi dei debiti sovrani del 2011, fino ad arrivare a valori addirittura negativi dal 2016 in poi. 23 Sono infatti dette “operazioni su iniziativa delle controparti”. Anche in questo caso le operazioni avvengono per il tramite delle Bcn. 24 Quest’ultimo tasso tradizionalmente si collocava a metà strada tra gli altri due; dopo però che il tasso overnight di deposito aveva raggiunto lo zero (estate 2012), gli ulteriori abbassamenti degli altri tassi avevano fatto venir meno una tale simmetria (estate 2013). Più recentemente la Bce ha preso la decisione drastica (da giugno 2014) di applicare tassi negativi sui depositi overnight. 25 Esistono diversi tassi Euribor a seconda della scadenza (o durata): un mese, 3 mesi, 6 mesi (le più frequenti) e 12 mesi.

345

La Bce e la politica monetaria europea

Figura 17.3. – I tassi ufficiali della BCE (da giugno 2007 a gennaio 2019) 6

BCE (1) BCE (2)

5

BCE (3) 4 3 2 1 0 -1 2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

Note: (1) Tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali; (2) Tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento marginale; (3) Tasso di interesse sui depositi presso la banca centrale. Fonte: Bce.

Figura 17.4. – I tassi Eonia e Euribor (tre mesi) (2007-2018) 5

EONIA EURIBOR

4 3 2 1 0 -1 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

Note: Eonia = tasso sui depositi overnight; Euribor (tre mesi) = "Euro Interbank Offered Rate", tasso (media annua del tasso a tre mesi) a cui avvengono le transazioni finanziarie in Euro tra le grandi banche europee. Fonte: Bce (Bollettino mensile).

Sempre in tema di confronti internazionali sulla politica dei tassi, i critici accusano la Bce di aver tenuto un comportamento meno attivo (oltre che meno tempestivo), rispetto per esempio alla Fed. È vero che c’è stato l’allentamento di lungo periodo (poc’anzi richiamato) nelle condizioni della politica monetaria, ma la Bce sembra rispondere con minore intensità e con un certo ritardo agli shock che si presentano. Una prova sarebbe fornita dalle meno

346

Le politiche economiche nell’Eurozona

frequenti revisioni dei tassi, specie nelle fasi di recessione (cfr. Fig. 17.5). Così, dopo la recessione del 2001-2002, la Fed abbassò i tassi fino al minimo dell’1%, mentre la Bce si limitò al 2% (anche la risalita dei tassi americani negli anni 2004-2006 è stata significativa e progressiva nel tempo). Dopo l’ultima Grande Recessione, le azioni della Fed sono state più tempestive e drastiche, con tassi nominali portati quasi a zero (0-0,25%) già alla fine del 2008; la Bce aspettò mezz’anno a raggiungere il suo minimo (1%), che mantenne quasi invariato per alcuni anni 26, arrivando a tassi quasi nulli solo nel 2014. Figura 17.5. – Tassi di riferimento della Bce e della Fed (gennaio 1999-gennaio 2019) 7

FED BCE

6 5 4 3 2 1

2019

2018

2017

2016

2015

2014

2013

2012

2011

2010

2009

2008

2007

2006

2005

2004

2003

2002

2001

2000

1999

0

Fonte: Bce e Fed.

La Bce ha ribadito che, nel primo decennio di attività, ha tenuto un comportamento rispettoso dell’obiettivo primario della stabilità dei prezzi. Le caute decisioni di politica monetaria erano anche rivolte all’obiettivo della credibilità (necessaria per una banca centrale appena nata e desiderosa di acquisire e consolidare una buona reputazione antinflazionistica). La Bce ha inoltre fatto osservare che il grado di attivismo non si misura soltanto con la frequenza ed ampiezza delle manovre di politica monetaria, anche perché occorre tener conto del diverso contesto macroeconomico (tra Usa ed Eurozona), delle differenti caratteristiche strutturali ed istituzionali (rigidità dei mercati e simili). In ogni caso, pare confermato che, anche a causa del diverso profilo temporale del ciclo economico nelle due aree, le modifiche dei tassi negli Usa anticipano di solito quelle della Bce. Anche nell’attuale fase ciclica i tassi Usa sono in aumento già dal 2016 ed hanno ormai raggiunto il 2,5% (e sono previsti aumenti anche nel 2019) 27, in26 Dal grafico si notano i due temporanei rialzi dei tassi Bce nell’estate 2008 e nell’estate 2011: essi furono decisi (quando era Presidente Trichet) a causa del rialzo temporaneo del tasso d’inflazione in quei due anni (causato dall’aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime). Furono però molto criticati: il primo perché la crisi finanziaria era già in corso e ci si avvicinava al tracollo dell’autunno 2008; il secondo perché la ripresa economica nell’Eurozona era ancora debolissima. Fu Draghi, nuovo Presidente da poco in carica, a decidere nuove riduzioni dei tassi nell’autunno 2011. 27 Ciò che per inciso ha determinato movimenti di capitali in uscita da molti paesi emergenti, determinando in alcuni casi crisi finanziarie o valutarie.

La Bce e la politica monetaria europea

347

vece nell’Eurozona rimarrebbero all’attuale tasso zero almeno per tutta l’estate 2019 (come annunciato da Draghi). Infine, le aspettative di inflazione sono state ancorate saldamente su valori sistematicamente inferiori ma vicini a quelli del target (2%). Data l’importanza delle aspettative nella strategia dell’inflation targenting, si capisce perché i vari Presidenti Bce hanno sempre enfatizzato questo aspetto (ad esempio nel corso delle conferenze stampa successive alle riunioni del Consiglio direttivo dedicate alle decisioni sui tassi): pur essendovi a volte deviazioni temporanee del tasso d’inflazione effettivo dal target (2%), le aspettative tendevano a convergere, al massimo entro un paio d’anni, verso lo stesso target 28.

17.4. Una valutazione basata sulla performance macroeconomica Nel precedente paragrafo abbiamo discusso di grado di attivismo della Bce (confrontata con la Fed) in base alle scelte di politica monetaria, in particolare alla politica dei tassi. Vediamo ora come sono stati conseguiti gli obiettivi finali. Cominciamo con quello della stabilità dei prezzi, che è l’obiettivo primario della Bce. Il tasso d’inflazione (misurato in termini di Iapc) è quasi sempre stato nell’Eurozona vicino al target del 2% (si veda il grafico della Fig. 17.6). I maggiori scostamenti si sono verificati per cause esogene, come i rialzi del prezzo del petrolio, delle materie prime e dei prodotti alimentari, che spiegano l’impennata dell’inflazione del 2007-2008 e poi ancora nel 2011 (con le conseguenti decisioni sui tassi già segnalate); la “core inflation” è stata molto più stabile. In senso opposto, una temporanea deflazione c’era stata nel 2009, l’anno della Grande Recessione, e di nuovo si è ripresentata in diversi mesi del periodo 2014-2016, anni nei quali i tassi medi annui d’inflazione sono comunque stati vicini allo zero. Il fatto nuovo è che lo stesso obiettivo primario della Bce, la stabilità dei prezzi (intesa come un’inflazione vicina al 2%), non era rispettato, per cui la banca centrale europea doveva intervenire a norma del suo stesso Statuto: ecco perché nuove operazioni non convenzionali sono state intraprese (cfr. par. 17.6). Riguardo ai confronti con le altre aree, gli Usa avevano invece avuto, fino alla crisi, un tasso d’inflazione leggermente più alto di quello dell’Eurozona. Quanto alla crescita reale (confronti tra Eurozona ed Usa per l’ultimo decennio si possono dedurre dalle tabelle nel cap. 19), il Pil Usa cresceva a tassi un poco superiori a quelli dell’area euro, sia negli anni ’90, anche a causa della strategia di Maastricht (cfr. par. 16.2), sia nel nuovo secolo; dal 2011 in poi il gap si è ampliato, soprattutto a seguito della crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona e delle misure d’austerità (cfr. cap. 19). Naturalmente sia per l’inflazione sia per la crescita reale, le differenze tra i paesi interni alle due aree sono molto ampie 29. Tornando alla dinamica dei prezzi, un rialzo dell’inflazione molto discusso è stato quello coincidente con circolazione dell’euro (2002), ossia il cosiddetto changeover avrebbe innescato forti aumenti dei prezzi: secondo la vulgata corrente, un’avversione nei confronti dell’euro, antecedente alla crisi, risalirebbe proprio a questo periodo (contestazione più presente in alcuni paesi che in altri). Dalla Fig. 17.6 non si nota questo impatto. Diciamo subito che, secondo le stime ufficiali, le approssimazioni relative ai tassi di conversione hanno fatto crescere il 28 Ecco perché la situazione è divenuta imbarazzante a fine 2014: il contesto deflazionistico (cfr. cap. 19) ha cominciato a volgere al basso anche le aspettative d’inflazione, ciò che ha accelerato l’adozione del “Quantitative easing”. 29 Di dispersione nei tassi d’inflazione si tratterà nella prossima sezione, mentre le differenze nei tassi di crescita nazionali saranno discusse, per il periodo recente, nel cap. 19.

348

Le politiche economiche nell’Eurozona

livello dei prezzi “una tantum” di qualche decimale di punto (tra lo 0,3% e lo 0,9% secondo Eurostat). Alcuni operatori avrebbero inoltre approfittato del cambio della moneta per “anticipare” alcune variazioni di prezzo, che magari sarebbero state più graduali nel tempo 30. Figura 17.6 – Tasso di inflazione nell’Eurozona (e negli Stati Uniti) 8,0

Eurozona-19 6,0

Stati Uniti

4,0

2,0

0,0

-2,0

-4,0

Fonte: Eurostat.

Quindi un impatto del cambio di moneta sull’inflazione c’è stato, ma di piccola entità. Perché allora c’è stata una percezione, in molti consumatori, di un impatto molto maggiore? In realtà una divaricazione tra l’indice d’inflazione percepita (un indice derivato dai sondaggi d’opinione sui consumatori) e l’inflazione effettiva (come misurata dallo Iacp) si riscontra proprio a partire dall’introduzione dell’euro; fino al 2001, invece, i due indicatori d’inflazione erano ben allineati (cfr. Fig. 17.7). Una spiegazione di questa divergenza sta nel fatto che l’inflazione percepita si riferisce per lo più a beni acquistati frequentemente, anche quotidianamente (come benzina, prodotti alimentari freschi, servizi di ristorazione, parrucchieri, etc.); questi acquisti sono spesso effettuati con pagamento in contanti (“out-of-pocket”): è su questi beni che l’aumento dei prezzi può essere stato molto più forte rispetto a quello medio 31, restando impresso nella memoria dei consumatori. Al contrario, lo Iacp si riferisce ad oltre 100 categorie di prodotti, inclusi beni durevoli e spese poco frequenti (come le automobili, i computer o i telefoni cellulari), per i quali i prezzi sono aumentati molto meno o sono addirittura diminuiti. Il rialzo dei prezzi nel 2002 è quindi un fenomeno più immaginario – legato appunto all’inflazione percepita – che reale. Occorre tuttavia fare due considerazioni finali. La prima è che anche le percezioni sull’inflazione sono importanti, poiché influiscono sulle aspettative e sulle 30 Sul piano teorico, la principale spiegazione delle rigidità di prezzo afferisce ai “menu costs” indagati dalla NEK (cfr. par. 8.6). 31 Nel caso italiano, si cita spesso il caso della pizza, che prima dell’euro poteva costare 5 mila lire e dal 2002 anche 5 euro: un raddoppio del suo prezzo!

La Bce e la politica monetaria europea

349

decisioni di consumo. La seconda è che sarebbe utile tener conto dei diversi tassi d’inflazione su differenti categorie di beni e servizi, anche per il diseguale impatto su vari tipi di consumatori e famiglie (gli acquisti quotidiani “out-of-pocket” incidono molto di più sul bilancio di una famiglia povera), con evidenti conseguenze sulla distribuzione del reddito; in altri termini, il gap che si è creato – dal 2002 – tra inflazione percepita ed effettiva è stato minore per persone e famiglie con i redditi più bassi. Figura 17.7. – Inflazione effettiva ed inflazione percepita (variazioni % sul periodo corrispondente e saldi %) percezioni dei consumatori dell’inflazione nel passato inflazione effettiva misurata IACP 70 60

6% gennaio 2002: sostituzione del contante 5%

50 40

4%

30

3%

20

2%

10 1%

0 – 10 1985 1987

0% 1989 1991

1993 1995

1997

1999 2001

2003 2005

Fonte: Bce, Bollettino mensile, novembre 2006.

17.5. La dispersione dell’inflazione ed il tasso di cambio Abbiamo visto in precedenza (par. 17.2) che il target d’inflazione della Bce è riferito all’intera area euro e che nei singoli paesi i tassi d’inflazione possono essere anche molto diversi. In realtà sono diversi anche all’interno di altre unioni monetarie, come negli Stati Uniti, ed erano diversi nella stessa Italia anche quando c’era la lira (l’Istat rileva anche oggi i tassi d’inflazione in varie città). Peraltro sarebbe opportuno che in un’unione monetaria funzionante si riduca nel tempo la dispersione tra i tassi d’inflazione, man mano che si omogeneizzano le condizioni strutturali e si sviluppa una maggiore concorrenza (si vedano i benefici microeconomici delle unioni monetarie, nel cap. 16). È interessante osservare che, secondo un’analisi della stessa Bce, la dispersione dei tassi d’inflazione tra 12 paesi (quelli che avevano adottato l’euro nel 2001) si era ridotta più negli anni ’90, che erano gli anni di convergenza all’euro (ovviamente il criterio di Maastricht sull’inflazione ha avuto una parte) che nel primo decennio dopo la sua introduzione (cfr. Fig. 17.8). Nel nuovo secolo, la dispersione è rimasta stabile (poi leggermente diminuita nella parte finale del periodo considerato). Per capire se questa dispersione è su livelli accettabili, possiamo confrontarla con quella misurata negli Stati Uniti 32: dal grafico, osserviamo che è praticamente dello stesso ordine di grandezza. 32 In questo caso non sono presi in considerazione i 50 Stati degli Usa, ma 14 Aree statistiche metropolitane (ASM), ossia un numero di osservazioni analogo a quello dei 12 Stati (che costituivano l’Eurozona nel 2001).

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Le politiche economiche nell’Eurozona

Se queste erano le tendenze passate, cosa si può prevedere per il futuro? Come si è detto, la stessa unione monetaria potrebbe far scomparire progressivamente alcuni differenziali, grazie alla maggiore trasparenza sui prezzi dei beni, al rafforzamento dell’efficienza dei mercati, nonché al (possibile) aumento del grado di simmetria degli shock economici. Tuttavia, in aggiunta alla possibilità che occorrano shock asimmetrici, esistono teorie che spiegano perché alcuni differenziali d’inflazione potrebbero persistere o addirittura ampliarsi nel tempo. Figura 17.8. – Dispersione dell’inflazione nell’Eurozona e negli Usa Di s persione dei tassi d’inflazione (deviazione standard) nei paesi dell’area del l’euro e nelle aree s tatistiche metropolitane (ASM) degli Usa area dell’euro (12 paesi) Stati Uniti (14 ASM) 7,0

Fase I dell’UEM

Fase II dell’UEM

Fase III dell’UEM

7,0

6,0

6,0

5,0

5,0

4,0

4,0

3,0

3,0

2,0

2,0

1,0

1,0

0,0

0,0

1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008

Fonte: elaborazioni della BCE sulla base di dati Eurostat e US Bureau of Labour Statistics.

Una di queste è il noto effetto Balassa-Samuelson, secondo cui un paese ad elevata crescita della produttività, per esempio un paese nella fase di catching-up, avrà una crescita salariale maggiore, che si estenderà anche ai settori “non tradable” (come i servizi, i quali sono meno vincolati dalla dinamica della produttività perché non devono competere con la concorrenza straniera): tutto ciò causerà quindi un’inflazione più elevata. In realtà, già nei primi anni dell’euro, tassi più elevati di inflazione (ma anche di crescita reale) si riscontravano nei paesi periferici – Irlanda, Grecia, Spagna, Portogallo (ed in seguito anche alcuni Nuovi paesi membri) – mentre all’estremo opposto troviamo il paese più grande, la Germania (cfr. Fig. 17.9, parte sinistra). Naturalmente, la presenza di tassi d’inflazione differenti, più alti in alcuni paesi, implica che con un’unica moneta (e con il cambio irrevocabilmente fisso) tali paesi subiscano una progressiva erosione della propria competitività, con conseguenze sui disavanzi commerciali e della bilancia dei pagamenti (come in effetti si è verificato nei paesi periferici dell’Eurozona).

La Bce e la politica monetaria europea

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Figura 17.9. – Tassi d’inflazione e tassi d’interesse reale Inflazione media annua (1999-2005)

Tassi di interesse reali (1997-2005)

Irlanda

Spagna

Portogallo

Grecia

Paesi Bassi

Italia

Belgio

Francia

Finlandia

Austria

Grecia

Irlanda

0,0

Spagna

0,5

0,0

Portogallo

1,0

0,5 Lussemburgo

1,5

1,0

Italia

2,0

1,5

Paesi Bassi

2,0

Belgio

2,5

Eurozona

2,5

Francia

3,0

Austria

3,0

Finlandia

3,5

Germania

3,5

Germania

4,0

Fonte: De Grauwe.

Un’altra conseguenza dei differenziali d’inflazione è di tipo finanziario: lo stesso tasso d’interesse nominale comune 33, fissato dalla Bce, si traduce in diversi tassi d’interesse reali (uguali ai tassi nominali meno il tasso d’inflazione). La Fig. 17.9 (parte di destra) mostra quanto fossero diversi nei primi anni dell’euro 34. La conseguenza più diretta è sugli investimenti, specie quelli nelle costruzioni, più sensibili ai tassi d’interesse reale; quindi la dinamica dei prezzi delle abitazioni e la “bolla immobiliare” (che si è verificata non solo negli Usa ma anche in paesi europei come Irlanda e Spagna: cfr. cap. 19) sono in parte la conseguenza dei diversi tassi d’inflazione. Un ultimo argomento riguarda il cambio dell’euro: pur non essendo un obiettivo ufficiale della politica monetaria europea, è indirettamente importante anche per la Bce, perché può influenzare il tasso d’inflazione; quindi per esempio mettere a rischio la stabilità dei prezzi nel caso di un eccessivo deprezzamento (a causa dell’inflazione importata). Considerando l’andamento nel tempo (cfr. Fig. 17.10), a parte oscillazioni di medio periodo ed un’accentuata volatilità di breve periodo, si notano tre tendenze di fondo: – un’iniziale deprezzamento di quasi il 30% nel primo biennio (si passò da 1,1 dollari Usa per 1 euro a circa 0,8-0,9 $ per € nel 2000-2001); – un progressivo e costante apprezzamento nei 7 anni successivi, fino all’estate 2008 (con un massimo di circa 1,6 $ per €, il doppio rispetto al minimo precedente); – un’accentuata volatilità dopo la crisi finanziaria, ma con una tendenza al ribasso: nuovi valori minimi (1,1 $ per €) sono stati toccati all’inizio del 2015, anche per effetto del “Quantitative easing” della Bce e da allora il cambio è rimasto nell’intervallo 1,1-1,2 $ per €. 33 Naturalmente i tassi sui mercati monetari e finanziari (inclusi quelli sui prestiti e sui mutui) possono differire da paese a paese nonostante l’unico tasso di riferimento della Bce; in condizioni normali tendono però a convergere su livelli similmente più alti rispetto al tasso Bce. 34 Il periodo considerato nel grafico termina nel 2005; si può peraltro osservare dopo le crisi che hanno colpito l’Eurozona (ossia nell’ultimo decennio) i tassi d’inflazione dei singoli paesi sono stati molto più simili.

352

Le politiche economiche nell’Eurozona

Figura 17.10. – Tassi di cambio bilaterali dollaro/euro, sterlina/euro e yen/euro (1999 Q1=100) 150

USD/EUR JPY/EUR

GBP/EUR 150

140

140

130

130

120

120

110

110

100

100

90

90

80

80

70

70

60

1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017

60

Fonte: Bce 2018 (rapporto annuale); medie mensili.

Le possibili determinanti dei tassi di cambio erano state illustrate nel cap. 12. Qui possiamo ricordare che per spiegare l’iniziale debolezza dell’euro ci si riferiva alla più generale debolezza del “sistema Europa” 35: una moneta comune non accompagnata da un “governo dell’economia” (un limite che si è riproposto con la crisi dei debiti sovrani). Le variabili fondamentali di mercato – saldi della bilancia dei pagamenti, differenziali nei tassi d’interesse – spiegano invece il forte apprezzamento dell’euro fino al 2008 (meno il differenziale d’inflazione, che come abbiamo visto è stato alquanto ridotto fra le due aree). I flussi di capitale di breve termine dipendono soprattutto dall’intonazione della politica monetaria: come abbiamo visto (par. 17.3) questa era stata per molti anni più accomodante negli Usa che nell’Eurozona, favorendo così l’apprezzamento dell’euro; quando questa situazione si è invertita, soprattutto a partire dal 2014, l’euro ha cominciato a deprezzarsi in maniera drastica 36. Intanto, nel contesto economico mondiale, l’euro si mostrava alla fine del primo decennio di vita come una valuta forte, che garantiva stabilità monetaria, e di rango internazionale, adottata anche come unità di conto e come valuta per le transazioni internazionali, al punto da minacciare lo stesso dollaro Usa come valuta di riserva internazionale. Più recentemente, la crisi dell’ultimo decennio (cfr. cap. 19) ha tuttavia alterato questo quadro, fino a mettere in dubbio la stessa capacità di sopravvivenza dell’euro.

35 Anche i differenziali nelle potenzialità di crescita, nella flessibilità e concorrenzialità dei mercati, nell’efficacia complessiva delle istituzioni erano argomenti a favore della forza del dollaro. 36 Più che la politica monetaria corrente contano le aspettative. Infatti la politica della Fed, dopo 7 anni di espansione, ha cominciato ad invertire la rotta, prima con il “tapering” (cfr. par. 17.6) e poi con il rialzo dei tassi; invece quella della Bce ha raggiunto il massimo accomodamento solo nell’ultimo triennio. Ecco perché l’euro ha toccato dal 2015 il minimo da oltre un decennio (1,1 $ per €).

La Bce e la politica monetaria europea

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17.6. La crisi e le operazioni non convenzionali La crisi finanziaria mondiale si è progressivamente sviluppata a partire dal 2007 e raggiunse il suo apice nel settembre 2008 (fallimento della Lehman Brothers: cfr. cap. 19). Alle turbolenze senza precedenti sui mercati finanziari, che cominciavano a deteriorare l’economia reale (la Grande Recessione colpì l’economia mondiale soprattutto nel 2009), le banche centrali risposero abbastanza prontamente, memori degli errori commessi ai tempi della Grande Depressione degli anni ’30 (cfr. cap. 4). Una delle prime misure riguardò il taglio dei tassi di riferimento 37. A metà 2009, la Federal Reserve, la Bank of Japan, la Bank of England, la Bank of Canada, la Sveriges Riksbank e la Banca Nazionale Svizzera avevano abbassato i propri tassi fino a valori prossimi allo zero; la Bce, più cautamente (per i motivi spiegati nel par. 17.3), solo all’1% dalla primavera del 2009 (cfr. Fig. 17.4 per un confronto Fed vs. Bce). La discesa dei tassi nell’Eurozona si è accentuata nel 2012-2014, dopo la crisi dei debiti sovrani e la nuova recessione, toccando un minimo quasi praticamente pari a zero (0,05%) nel novembre 2014 e zero nel marzo 2016 38. Per quanto riguarda la Bce, una prima misura straordinaria fu decisa subito dopo lo scoppio della crisi (autunno 2008): quale tasso di riferimento sulle operazioni di rifinanziamento principale è stato applicato un tasso fisso con piena aggiudicazione dell’importo. Inoltre, la Bce ha cominciato ad adottare operazioni non convenzionali (che non rientravano tra gli strumenti tradizionali di norma utilizzati dalle banche centrali: cfr. cap. 10) 39. Va subito aggiunto che dallo scoppio della crisi sono state più attive, anche con diversi tipi di operazioni non convenzionali – ossia misure ed interventi sistematici volti a contrastare i malfunzionamenti che rendono inefficiente il meccanismo di trasmissione monetaria in contesti di crisi – altre banche centrali (come la Fed, la Bank of England, la Bank of Japan). Infatti, quando i tassi d’interesse sono nulli 40 (il cosiddetto “zero lower bound”), è più importante un intervento sulla quantità di moneta, da attuare anche attraverso strumenti innovativi. Ad esempio la Fed ha attuato ben tre operazioni di Quantitative easing, QE (alleggerimento quantitativo), secondo cui la banca centrale acquista attività finanziarie di vario tipo – titoli pubblici, azioni o titoli privati 41 – dalle banche commerciali per rafforzare i loro bilanci e forni37 L’8 ottobre 2008 ci fu l’annuncio di un taglio simultaneo dei tassi ufficiali, da parte di sei tra le maggiori banche centrali del mondo. 38 Il tasso overnight sui depositi, già negativo dal mese di giugno 2014, è stato abbassato al – 0,40% nel marzo 2016 (e contemporaneamente il tasso di rifinanziamento marginale abbassato allo 0,25%). Si fa osservare che un tasso negativo significa che le banche commerciali “pagano” la Bce per tenersi liquidità a brevissimo termine. Anche questo dovrebbe spingere le banche a fornire eventuali surplus di liquidità ad altre banche o a privati oppure investirli in titoli di stato, la cui eccessiva domanda può renderne negativi i rendimenti. Dal 2016 tassi negativi sui titoli di stato sono divenuti comuni nell’Eurozona, riguardando anche la metà dei titoli sul mercato secondario dell’Eurozona, con punte di tre quarti in Germania (con tassi negativi sui titoli fino a 8 anni di vita residua) e tassi negativi perfino in Italia (sui titoli fino ai 2 anni, sempre con riferimento al 2016). 39 Tra queste l’ampliamento delle attività cedibili come collaterale (inclusi titoli del debito sovrano con basso merito di credito); l’estensione del novero delle controparti idonee nelle operazioni con la Bce, ad esempio la Bei; l’allungamento delle operazioni di rifinanziamento a lungo termine (a sei mesi e poi a dodici mesi e più); diverse operazioni di swap in valuta; acquisti di “cover bond” (effettuate dal 2009). 40 A livello teorico, abbiamo già illustrato il caso della “trappola della liquidità” (cfr. par. 7.2). 41 Soprattutto all’inizio, subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria; i titoli privati comprendevano anche obbligazioni cartolarizzate e perfino titoli “tossici”.

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Le politiche economiche nell’Eurozona

re liquidità al sistema 42; il successo di questa politica, accompagnata da una politica fiscale altrettanto espansiva (cfr. cap. 19), è testimoniato dall’ampio divario di crescita, dopo il 2009, tra Usa ed Eurozona. Il Giappone, durante il governo Abe, ha seguito un mix di politica monetaria ultra-accomodante con la ripresa di operazioni di QE (già sperimentate molti anni prima) e con l’impegno di mantenere nulli i tassi (fin quando l’inflazione non sarebbe risalita al 2%) e di politica fiscale pure espansiva (gli elevati disavanzi hanno condotto il rapporto debito/Pil verso il 240%), unite ad alcune riforme strutturali, per rilanciare l’economia. Anche la Bank of England ed altre banche centrali hanno condotte operazioni di QE. Esaminando i bilanci di quattro banche centrali, le cui dimensioni e composizioni sono indicatori più significativi dell’attivismo delle banche centrali quando si raggiunge lo “zero lower bound”, si nota che mentre il bilancio della Fed si è continuamente ampliato da fine 2008 al 2014 (ed un andamento simile si riscontra per la Bank of England), quello della Bce era aumentato più lentamente fino a metà 2012, per poi ritracciare nel 2013-2014 fino alla forte risalita connessa al QE (dal 2015) 43. Nel decennio 2009-2018 le principali banche centrali del mondo hanno immesso liquidità nel sistema per oltre 20mila miliardi di dollari in tre grandi impulsi di espansione monetaria (cfr. Fig. 17.11). Nella prima fase (2009-2011) furono la Fed e la Bank of Japan a lanciare le prime versioni di QE, ma non va dimenticata l’enorme immissione di moneta della People Bank of China; come è noto la Bce effettuò all’inizio limitati acquisti netti mensili, che iniziarono a salire solo nel corso del 2011, in corrispondenza dei prestiti a lunga scadenza erogati alle banche europee (Ltro). Anche la seconda ondata (2012-2014) vide protagoniste le tre principali banche centrali extraeuropee, mentre la Bce entrava in una fase di acquisti netti negativi (per il rimborso accelerato dei prestiti Litro). L’ultima ondata partì nel 2015 ed è stata la più impetuosa e prolungata, con protagonista la Bce, soprattutto con il QE iniziato a marzo 2015. Con il 2018 si è avviata una nuova fase in cui gli acquisti netti mensili tendono ad azzerarsi (o a diventare negativi come nel caso della Fed); è infatti iniziata una generalizzata (ed eterogenea) exit strategy di ridimensionamento dei bilanci delle banche centrali 44. È presumibile, oltreché auspicabile, che la Bce avendo per ultima reso sistematici gli acquisti netti mensili faccia passare un tempo più lungo prima di entrare in territorio negativo di forte riduzione del proprio bilancio. Vediamo ora quali nuove operazioni non convenzionali ha adottato la Bce dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani (ossia dal 2010-2011); le più importanti sono le seguenti: i. il Securities Market Program (Smp), ossia la decisione di acquistare titoli di stato emessi in euro sul mercato secondario, con contemporanea sterilizzazione; misura adottata inizialmente a favore della Grecia (maggio 2010) e quindi di altri paesi periferici (“Piigs”: cfr. cap. 19), in particolare di Italia e Spagna (da agosto 2011 a gennaio 2012), per un ammontare complessivo pari a circa 220 mld. di euro (quasi la metà di questo importo destinata ai titoli italiani); 42 Il QE degli Usa è stato implementato in tre tranche (da novembre 2008 a marzo 2010, da marzo 2010 a giugno 2011 e da settembre 2012 a gennaio 2014), per un totale di 3500 mld. dollari. Poi è iniziato il “tapering”, ossia la riduzione graduale degli acquisti (pari inizialmente a 85 mld. di dollari mensili), fino ad annullarsi nell’ottobre 2014. Si stima che da fine 2008 al 2014 gli Usa abbiano “stampato” moneta per un ammontare pari al 25% del loro Pil (ed il Giappone in soli due anni ha creato moneta pari al 44% del suo Pil). 43 Per un approfondimento si veda MARELLI, SIGNORELLI (2017b). 44 In particolare, ci si attende che la Fed riduca le attività in bilancio di 1.000 miliardi entro il 2020, la Bank of Japan persegue oramai obiettivi di controllo dei tassi a lungo termine piuttosto che proseguire con gli acquisti netti di titoli di stato, e infine la People Bank of China sembra voler proseguire con la riduzione degli stimoli monetari.

La Bce e la politica monetaria europea

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Figura 17.11. – Flussi netti di acquisti mensili nei bilanci delle banche centrali BCE

FEDERAL RESERVE

PEOPLE BANK OF CHINA

BANK OF JAPAN

250

200

150

100

50

0

– 50

– 100 SET 2009

SET 2010

SET 2011

SET 2012

SET 2013

SET 2014

SET 2015

SET 2016

SET 2017

SET 2018

Nota: i dati si riferiscono ai flussi netti mensili (come media mobile di 12 mesi). Fonte: Minenna M. IlSole24Ore, 5 novembre 2018, elaborazioni su dati delle 4 banche centrali considerate.

ii. le Long term refinancing operations (Ltro), che sono rifinanziamenti a lungo termine (ben più lungo di quelle precedenti), a 36 mesi ed al tasso fisso dell’1%; nelle due tranche di dicembre 2011 e febbraio 2012 sono stati assegnati circa 1.000 mld. di euro (a favore di 520 e 800 banche rispettivamente) 45; iii. le Outright monetary transactions (Omt), decise a settembre 2012: si tratta di acquisti di titoli pubblici fino a 3 anni, ossia con vita residua fino a 36 mesi, sempre sul mercato secondario (con contemporanea sterilizzazione), in funzione “anti-spread”; da un lato sono “condizionali” (è prevista una richiesta al fondo Esm 46, la firma di un “memorandum d’intesa” e controlli sulle misure di aggiustamento adottate dal paese assistito) mentre dall’altro non hanno importi predeterminati (operazioni potenzialmente illimitate hanno un maggiore effetto sulle aspettative e sul contrasto degli attacchi speculativi); 45 L’obiettivo delle Ltro era quello di contrastare il “credit crunch”, sostenere gli investimenti privati e la crescita; tuttavia gran parte della nuova liquidità è stata utilizzata dalle banche per riacquistare le proprie obbligazioni e ristrutturare il proprio capitale oppure per acquistare titoli pubblici (ciò che è stato sicuramente utile per ridurre gli spread ma non efficace per far ripartire la concessione di credito ad imprese e famiglie e quindi risollevare l’economia reale). 46 Di cui tratteremo nel cap. 19.

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Le politiche economiche nell’Eurozona

iv. la Forward guidance, adottata dal luglio 2013 (sull’esempio della Fed americana): è una strategia di comunicazione esplicita circa le intenzioni della banca centrale, volta ad influenzare le aspettative e migliorare la fiducia del mercato (è il meccanismo del “signaling channel”); ad esempio in quel mese il Presidente Draghi affermò: “la Bce si attende che i tassi di interesse rimangano agli attuali livelli, o a livelli ancor più bassi, per un prolungato periodo di tempo” (dichiarazioni simili sono state rese periodicamente nelle conferenze stampa dei mesi successivi); v. le Targeted longer-term refinancing operations (Tltro): introdotte nel 2014 e rafforzate nel 2016, sono anch’essi rifinanziamenti a lungo termine (2 o 4 anni) 47, ma diversamente dalle precedenti Ltro sono finalizzate alla concessione di prestiti a famiglie e imprese 48; come per le Ltro era prevista la possibilità di una restituzione anticipata; vi. acquisti di “asset backet securities”, Abs (titoli derivati che inglobano attraverso cartolarizzazioni diversi prestiti fatti dalle banche) e di “covered bonds” (obbligazioni bancarie garantite da mutui), pure avviati o ripresi nel corso del 2014, ma dal 2015 confluiti nelle acquisizioni mensili del QE; vii. il Quantitative easing (QE) deciso nel gennaio 2015: che sarà approfondito tra breve (“Programma ampliato di acquisto” è il nome ufficiale in italiano di questo QE). Di tutte queste misure – mettendo a parte il QE delineato nel gennaio 2015 – quella più decisiva è stata il piano “Omt”; pur non essendo stato ancora utilizzato da nessun paese, è bastato l’annuncio del piano per modificare le aspettative ed il sentiment dei mercati. Questo piano fu deciso poche settimane dopo la dichiarazione di Draghi di fine luglio 2012: “we shall save euro whatever it takes” 49. La crisi dei debiti sovrani, che si era avviluppata fino a quel momento per via della percezione del rischio di “ridenominazione valutaria” (ossia che un paese potesse abbandonare l’euro) ed anche a causa dell’incertezza mostrata dagli organismi europei (cfr. cap. 19), segnava una svolta da quel momento, come si nota in modo chiaro dagli andamenti in progressiva discesa degli spread tra i tassi sui titoli pubblici dei paesi periferici e quelli tedeschi (cfr. anche VISCO, 2015). Da questo punto di vista, possiamo giudicare positivamente la recente azione della Bce (sotto la presidenza Draghi), che ha in qualche modo arginato i possibili “effetti catastrofici” della crisi finanziaria, anche in termini di possibile implosione dell’euro. Minor successo ha avuto la politica monetaria sulla ripresa dell’economia reale, sia a causa della sua titubanza iniziale (cfr. par. 17.3) sia per le contemporanee misure d’austerità implementate sul fronte fiscale (come vedremo nei prossimi due capitoli). Il rischio era (ed è) che, a causa della bassa domanda di credito (la situazione economica non giustifica investimenti da parte delle imprese o l’indebitamento delle famiglie), la liquidità – creata ad esempio con le Tltro – potrebbe 47 Il finanziamento iniziale alle banche commerciali era di 2 anni, ma poteva essere prorogato per altri due se la Bce avesse verificato che la liquidità era stata davvero utilizzata per concedere prestiti a famiglie e imprese. Il tasso d’interesse applicato, già molto basso nella versione iniziale (attorno al tasso “repo”), dal marzo 2016 (con le cosiddette Tltro II) poteva raggiungere un minimo coincidente col tasso sui depositi overnight presso la Bce, quindi negativo e pari a – 0,40% (tasso fissato in funzione dei prestiti effettivi allocati a famiglie e imprese). 48 Va segnalata la ridotta richiesta iniziale da parte delle banche commerciali per tale strumento. Ciò costituiva un segnale preoccupante circa la reale intenzione delle banche di aumentare i prestiti concessi, forse perché in diversi paesi periferici continuavano a percepire un rischio elevato, connesso anche alla considerevole dimensione delle “sofferenze” esistenti (assieme al ruolo svolto dai criteri di patrimonializzazione richiesti dalle nuove norme introdotte con la “unione bancaria”: cfr. par. 17.7). 49 La formulazione precisa era: “Within our mandate, the ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro; and believe me, it will be enough”.

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non arrivare ai destinatari finali. Ecco perché molti osservatori chiedono misure ancora più incisive (cfr. cap. 19), però difficili da implementare per le complesse procedure (revisione dello Statuto della Bce e modifica del Trattato di Maastricht). Le misure non convenzionali hanno sospinto nel 2018 il bilancio della BCE a superare i 4 mila mld, ben oltre i massimi livelli del 2012 (ossia 2 mila mld. circa) 50, soprattutto grazie al QE. È stata soprattutto l’evidenza di deflazione nell’Eurozona a fine 2014 (o comunque di un tasso d’inflazione ben inferiore al target del 2%), assieme alla recessione o lenta ripresa in diversi paesi periferici dell’Eurozona, a convincere la Bce a intraprendere un QE che, per certi versi, è avvicinabile a quello intrapreso ben prima dalla Fed (e da altre banche centrali) 51. Vediamo in dettaglio le principali caratteristiche del QE (noto anche come “Expanded Asset Purchase Programme”, APP): – il piano di acquisti iniziale, avviato nel marzo 2015, prevedeva acquisti mensili pari a 60 mld. di euro da marzo 2015 almeno fino a settembre 2016; il piano è stato in seguito prolungato e gli acquisti mensili aumentati a 80 mld. da aprile 2016 a marzo 2017; nei mesi restanti del 2017 sono ridiscesi a 60 mld., ulteriormente ridotti a 30 da gennaio 2018, a 15 da settembre 2018, fino ad annullarsi nel gennaio 2019 52; – molto importante era l’impegno preso dalla Bce nel proseguire con gli acquisti fino a quando il tasso di inflazione nell’Eurozona non fosse tornato vicino al 2%, obiettivo in parte raggiunto nel corso del 2018; – il piano di acquisti, sul mercato secondario, ha riguardato prevalentemente titoli di stato 53 (con una scadenza residua compresa tra 2 e 30 anni) ma è stato anche esteso ad attività finanziarie emesse da istituzioni europee sovranazionali (Bei ed Esm), titoli emessi da enti locali e regionali, nonché a covered bonds bancari e asset backed securities (Abs); da giugno 2016 gli acquisti hanno incluso 54 anche titoli (obbligazioni) di qualità elevata emessi da società, private o pubbliche, non bancarie; – gli acquisti di attività non venivano sterilizzati, quindi contribuivano ad accrescere la base monetaria del sistema ed all’aumento del bilancio della Bce; gli acquisti complessivi sono ammontati a oltre 2500 mld. di euro (fra marzo 2015 e dicembre 2018); – gli acquisti erano ripartiti in base alla capital key cioè alle quote di ciascun paese nel capitale della Bce (ad esempio per l’Italia il 17,5%); inoltre, per ogni emittente, per esempio lo Stato italiano, era previsto un limite del 33% del valore di ogni singola emissione ed un tetto del 50% del debito emesso da ciascun paese (inizialmente era il 25%); – un aspetto rilevante riguarda la ripartizione del rischio, ad esempio in caso di perdite in conto capitale connesse a default o ristrutturazione del debito pubblico di uno o più paesi: 50 Il bilancio Bce si era ridotto, soprattutto nel 2013-2014, perché alcune precedenti operazioni non convenzionali erano giunte a termine (ad esempio molti finanziamenti Ltro erano stati rimborsati). 51 Si noti che, mentre l’obiettivo dell’Omt era quello di contrastare l’esplosione degli spread fra paesi periferici e paesi virtuosi (Germania) dell’Eurozona, col QE vi è un obiettivo di tipo anti-deflazionistico, nonché l’obiettivo implicito di far ripartire la domanda aggregata effettiva, il reddito reale e l’occupazione. Si veda, tra gli altri, MINENNA et al. (2016), oltre al sito della Bce. 52 È però previsto che anche nel 2019, come in precedenza, vengano reinvestite dalla Bce le somme corrispondenti ai titoli che man mano giungono a scadenza. 53 La sezione pubblica del QE era chiamata “Public sector purchase programme” (PSPP); i titoli di Stato potevano essere acquistati solo in presenza di un rating almeno pari a “investment grade”. Solo l’8% di questi acquisti era effettuato direttamente dalla Bce, mentre il 92% dalle banche centrali nazionali. Fu anche deciso di non acquistare titoli il cui rendimento fosse inferiore al tasso di deposito overnight. 54 Con il cosiddetto “Corporate sector purchase programme” (CSPP).

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la Bce si sarebbe accollata solo il 20% del rischio 55 mentre il restante 80% sarebbe stato sopportato dalle banche centrali nazionali 56. In generale, le operazioni di QE possono avere effetti nominali e reali più o meno rilevanti, a seconda delle caratteristiche complessive dell’economia, del funzionamento dei canali di trasmissione e del ruolo delle altre politiche. L’aumento di quantità di moneta, derivante dalle operazioni di QE, può innanzitutto ridurre il fenomeno del razionamento del credito e favorire l’effettuazione di investimenti da parte di imprese e famiglie; inoltre, rilevanti effetti possibili riguardano livelli e aspettative relative ai tassi di interesse reali e al tasso di inflazione: il primo effetto dovrebbe ulteriormente favorire gli investimenti (attraverso una minore costosità dei prestiti bancari) mentre il secondo dovrebbe favorire anche una maggiore crescita del reddito nominale. Tuttavia, esistono diversi possibili ostacoli agli effetti su accennati e alla loro rilevanza quantitativa. In primis, in presenza di una bassa domanda di credito bancario (e di una elevata rischiosità degli stessi prestiti bancari) l’immissione di liquidità potrebbe avere effetti reali trascurabili o addirittura determinare un aumento del rischio sistemico connesso alla concessione di prestiti più rischiosi. Occorre anche rilevare che sulla quantità di liquidità che dalle banche commerciali può affluire all’economia reale incidono anche le regole relative ai requisiti minimi di patrimonializzazione richiesti dalla banca centrale. Nel caso della Bce, fra i diversi canali di trasmissione del QE all’economia reale quello legato al deprezzamento del cambio è forse stato il più immediato, evidente già al momento dell’annuncio (cfr. par. 17.5) per gli effetti positivi sulla competitività di prezzo sulle esportazioni dall’Eurozona; altri effetti positivi hanno riguardato i mercati finanziari (in particolare i rendimenti dei titoli di Stato sono ulteriormente scesi) 57 ed inoltre le aspettative d’inflazione sono salite tornando a valori vicini alla norma. Gli oppositori o i dubbiosi sull’efficacia delle operazioni di QE nel contesto dell’Eurozona sottolineavano l’effetto che un minor ruolo della disciplina di mercato avrebbe potuto avere nelle scelte dei governi dei paesi che più necessitavano di riforme strutturali e di misure di contenimento della spesa pubblica. Inoltre, sul fronte opposto, la critica era che la regola del capital key poteva implicare che i maggiori acquisti connessi al QE riguardassero le economie più grandi, come la Germania, riducendo con ciò i benefici per alcuni paesi periferici dell’Eurozona (si veda la Tab. 17.1 all’inizio del capitolo). Studi econometrici recenti mostrano comunque che sia la crescita del Pil sia l’inflazione sarebbero stati più basse se la Bce non avesse attuato il QE, sebbene l’inflazione effettiva si sia riavvicinata al target del 2% solo tre anni dopo il suo avvio (ciò che spiega le successive proroghe di questa misura non convenzionale). È però opportuno rammentare, per concludere, che nel caso di alcuni paesi, in primis proprio l’Italia, l’offerta di credito effettiva a imprese e famiglie è stata in parte ostacolata dalla situazione patrimoniale delle banche, a causa soprattutto dall’entità delle sofferenze, ossia crediti deteriorati (Non-performing loans) 58. 55 Tale 20% complessivo di condivisione del rischio deriva dalla condivisione dei rischi di acquisto sui titoli emessi da agenzie europee sovranazionali (il 12% del totale) e su una quota (corrispondente all’8% acquistato direttamente dalla Bce) dei titoli di stato. 56 In un certo senso, questo è stato il prezzo che Draghi ha dovuto pagare per far approvare il QE nel Consiglio direttivo della Bce. 57 Il corrispondente aumento dei prezzi dei titoli di stato nei portafogli delle banche ha indirettamente rafforzato il loro patrimonio, facendone così aumentare i profitti ed i valori azionari (come già verificatosi all’annuncio del piano Omt). In parte tutto ciò ha favorito l’accesso al credito per i privati. 58 L’incidenza media di tali crediti è in diminuzione dal 2016, ma ancora significativamente superiore a

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17.7. I nuovi organismi di vigilanza e l’unione bancaria europea In tutti i paesi, vi sono diverse linee di difesa per prevenire le crisi finanziarie, che possono essere raggruppate in: (i) regolamentazione prudenziale a cui devono ottemperare le istituzioni finanziarie per un’efficace gestione del rischio e per la sicurezza dei depositi raccolti (nonché per la divulgazione delle informazioni necessarie a promuovere la disciplina di mercato); (ii) vigilanza prudenziale, tesa ad assicurare il rispetto di tali regole da parte delle istituzioni finanziarie; (iii) monitoraggio e valutazione della stabilità finanziaria, per l’individuazione dei rischi nell’insieme del sistema finanziario. Nei singoli paesi, anche europei, le operazioni di vigilanza erano svolte in certi casi dalle banche centrali, in altri dai governi, in altri ancora da “authorities” indipendenti. Nell’Ume, dopo la nascita dell’euro, mentre la politica monetaria era stata centralizzata presso la Bce, la vigilanza continuava a restare decentrata presso le autorità nazionali, secondo le specifiche – e diverse – normative esistenti nei vari paesi. Se questo sistema (peraltro criticato fin dall’inizio) poteva funzionare in condizioni normali, durante le crisi finanziarie non poteva reggere. In effetti, già dopo la prima fase della crisi finanziaria, furono istituiti presso la Commissione europea dei gruppi di studio; il “gruppo de Larosière” formulò una proposta, poi approvata da Commissione e Consiglio nell’autunno 2010. Pertanto ora è in vigore una nuova normativa di vigilanza bancaria per l’intera UE e dal 1° gennaio 2011 sono operative tre nuove Authorities europee (le European Supervisory Authorities, Esas), che coordinano e vigilano sulle autorità europee e nazionali; come pure un Consiglio europeo per i rischi sistemici (European systemic risk board, Esrb). Le Esas, l’Esrb e le autorità di vigilanza nazionali costituiscono lo “European System of Financial Supervision” (Esfs). L’obiettivo è di migliorare la stabilità finanziaria nell’UE, garantire che la stessa normativa tecnica di base sia applicata e fatta rispettare in modo uniforme in tutti i paesi, individuare precocemente i rischi presenti nel sistema e consentire interventi congiunti più efficaci nelle situazioni di emergenza e per la composizione delle controversie tra le autorità di vigilanza. Più in particolare, il Consiglio europeo per i rischi sistemici (European systemic risk board) è responsabile per la vigilanza macroprudenziale. Deve controllare e valutare i rischi per la stabilità del sistema finanziario nel suo insieme; deve vegliare sulla stabilità dell’economia e dei mercati e lanciare, in caso di necessità, allarmi preventivi. Siedono nell’Esrb i vertici della Bce, delle banche centrali nazionali, delle autorità europee e nazionali di vigilanza 59. Le altre tre nuove Authorities europee sono responsabili per la vigilanza microprudenziale: i. una per le banche (European Banking Authority, Eba) con sede a Londra 60; essa deve garantire la stabilità del sistema finanziario, la trasparenza dei mercati e dei prodotti finanziari, la tutela di depositanti ed investitori; ii. una per assicurazioni e pensioni aziendali o professionali (European Insurance and Occupational Pensions Authority, Eiopa) con sede a Francoforte; iii. una per i mercati regolamentati e i valori mobiliari (European Securities and Markets Authority, Esma) con sede a Parigi 61. quella degli altri paesi europei. Inoltre, la forte esposizione delle banche italiane verso il debito sovrano italiano le rende molto vulnerabili alle oscillazioni dei prezzi dei titoli di stato, specie nei periodi di forti rialzi dei tassi d’interesse (come nella seconda metà del 2018). 59 Ha sede a Francoforte ed è guidato dal presidente della Bce. 60 In trasferimento a Parigi a causa della Brexit. 61 Questa Autorità ha, tra gli altri, anche poteri diretti di vigilanza sulle agenzie di rating.

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Le politiche economiche nell’Eurozona

Le nuove agenzie europee hanno quindi il potere di verificare la compatibilità delle decisioni nazionali con la normativa europea; mediare nelle vertenze tra i supervisori europei e nazionali ed emettere decisioni vincolanti in caso di persistenti disaccordi tra loro; controllare l’operato di istituti e prodotti finanziari, valutandone l’impatto sui mercati (con possibilità di vietarli in casi estremi). Anche questo nuovo sistema di vigilanza è stato però criticato perché non solo ha istituito troppe authorities, ma, in alcuni casi, ha mantenuto ancora in vita la supervisione nazionale. Il quadro normativo in tema di banche e finanza è tuttavia stato in ulteriore evoluzione (anche a seguito della crisi dei debiti sovrani). Ecco perché già nel 2012 si è cominciato a parlare di un progetto di unione bancaria 62, poi effettivamente partita a fine 2014. I suoi obiettivi principali sono: controllare e rendere sostenibile (anche in situazioni di stress elevato) il legame tra banche e debito sovrano; ridurre i rischi di contagio derivanti dall’interconnessione dei mercati finanziari; rendere più efficace la trasmissione della politica monetaria (superando la frammentazione dei mercati e la differenziazione dei tassi). L’unione bancaria europea poggia su tre pilastri. Il primo pilastro è il meccanismo di supervisione (o di vigilanza) unico, Mvu (Single Supervisory Mechanism), entrato in vigore appunto a novembre 2014. L’Mvu – che comprende la Bce e le autorità nazionali competenti degli Stati membri partecipanti – è responsabile della vigilanza prudenziale di tutti gli enti creditizi negli Stati membri partecipanti e assicura che la politica dell’UE in materia di vigilanza prudenziale degli enti creditizi venga attuata in modo coerente ed efficace e che gli enti creditizi siano sottoposti ad una vigilanza della massima qualità. I tre obiettivi principali dell’Mvu sono: assicurare la sicurezza e la solidità del sistema bancario europeo; accrescere l’integrazione e la stabilità finanziarie; garantire una vigilanza coerente. In particolare, la vigilanza è attribuita alla Bce, al cui interno opera un apposito “Supervisory Board”, almeno per quanto riguarda i key supervisory tasks. La Bce ha potere ispettivo e sanzionatorio, fino ad arrivare alla chiusura delle banche non in regola. Le autorità nazionali avranno un ruolo preparatorio ed esecutivo oppure di supervisione minore. Questo è stato un punto cruciale nelle discussioni tra paesi e istituzioni UE. Il problema dell’individuazione dei “key supervisory task” si traduceva nell’individuazione delle banche più grandi, ossia di rilevanza sistemica. Alla fine si è arrivati ad un compromesso 63, per cui la Bce ha la supervisione diretta di circa 120 gruppi bancari di dimensione maggiore 64; le altre banche saranno ancora sotto la supervisione delle autorità nazionali, ma la Bce può effettuare ispezioni ed adottare provvedimenti in caso di problemi 65. 62 L’unione bancaria rappresenta il primo di quattro pilastri – gli altri tre sono l’unione di bilancio, il completamento dell’unione economica, e l’unione politica (peraltro intesa come rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni europee) – caratterizzanti la costruzione di un’autentica Unione economica e monetaria, come risulta dal documento dei “4 Presidenti” (si veda anche il cap. 19). 63 Mentre alcuni paesi erano orientati ad estendere la supervisione della Bce a tutte le banche dell’Eurozona, la posizione tedesca ha portato ad escludere le banche medio-piccole (in Germania vi sono molte banche e casse di risparmio regionali, che evidentemente si volevano sottrarre alla supervisione diretta della Bce). 64 Si tratta di gruppi bancari con oltre 30 mld. euro di attivo o un fatturato superiore al 20% del Pil del paese o molte attività “cross-border”. Si noti che tutte le banche dell’Eurozona sono quasi 5.000. 65 Poco prima dell’entrata in vigore dell’unione bancaria, nell’ottobre 2014 la Bce ha reso noti i risultati di una “valutazione complessiva” del sistema bancario, comprendente una “asset quality review” sulla solidità patrimoniale delle banche (con riferimento ai bilanci a fine 2013, ma tenuto pure conto delle operazioni di rafforzamento intraprese dalle stesse banche nel 2014) e degli “stress test” basati su ipotetici scenari macroeconomici (riferiti al possibile andamento del Pil, dei tassi d’interesse, etc.).

La Bce e la politica monetaria europea

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Il secondo pilastro dell’unione bancaria è costituito da un sistema di gestione delle crisi bancarie. L’accordo raggiunto nel 2014 (con la Bank Recovery and Resolution Directive) prevede un “Single resolution mechanism”, composto da Bce, Commissione europea ed autorità nazionali, nonché la costituzione di un Fondo europeo di risoluzione delle crisi (ma ora si prevede che questo fondo prenderà avvio non prima del 2024) 66. Per il momento, la risoluzione delle crisi prevede innanzi tutto il “bail-in”, ossia la partecipazione ai salvataggi dei privati (non solo azionisti ma anche obbligazionisti subordinati) e dei singoli Stati 67. Il terzo pilastro dell’unione bancaria prevedeva un meccanismo comune di garanzia dei depositi. Al momento c’è una normativa che garantisce i depositanti per importi fino a 100 mila euro, ma su fondi esclusivamente nazionali. Per il futuro, la proposta era di costituire un Fondo comune europeo, finanziato dalle stesse banche. Questo terzo pilastro dell’unione bancaria non è però ancora stato attivato, soprattutto per l’opposizione della Germania, che in generale accetta il principio di una “condivisione dei rischi” tra paesi solo dopo aver conseguito una “riduzione dei rischi” (si veda anche il cap. 19). Nello specifico, la richiesta è quella innanzi tutto di rafforzare lo stato patrimoniale della banche 68, che nel caso ad esempio delle banche italiane non è molto florido, non solo a causa dei già citati “non performing loans” (peraltro in miglioramento dal 2017), ma anche per l’eccessiva esposizione nei confronti dei titoli di stato italiani. La richiesta è quindi quella di allentare questo circolo vizioso: un elevato debito pubblico può mettere a rischio la solidità patrimoniale delle banche, le quali in caso di crisi debbono a loro volta essere “salvate” dallo Stato facendo peggiorare il debito pubblico 69.

66 Gli schemi di risoluzione sono proposti dalla Bce ed approvati dalla sola Commissione, al fine di garantire la rapidità delle decisioni (ad esempio quando è necessario chiudere le banche). 67 La proposta della Commissione prevedeva questa sequenza: (i) prima intervengono i privati (nell’ordine azionisti, obbligazionisti, grandi depositanti) che parteciperanno alla ristrutturazione di una banca in default fino all’8% dei suoi debiti; (ii) quindi gli Stati sovrani (attraverso un Fondo di risoluzione nazionale) con interventi fino al 5% dei debiti (ma previa autorizzazione della Commissione); (iii) infine interverrà il fondo Esm. 68 O ponendo un tetto alla detenzione del debito pubblico del proprio paese (in percentuale del patrimonio o dei depositi) oppure ponderando il valore delle diverse obbligazioni, anche pubbliche, in portafoglio per il rischio corrispondente. L’accettazione di questo vincolo metterebbe in seria difficoltà le banche italiane; banche che (per inciso) hanno sofferto, anche in borsa, nei periodi di aumentato rischio sul debito pubblico (per esempio misurato dagli spread crescenti), come verificatosi ancora nel 2018. 69 L’ultimo esempio in Italia di salvataggio di una banca privata risale al dicembre 2016, quando il Tesoro è entrato nel capitale del Monte dei Paschi di Siena, al fine di evitarne il fallimento. Diversi fondi pubblici sono inoltre stati stanziati per risarcire gli obbligazionisti, in molti casi truffati (perché ad esempio acquirenti inconsapevoli di obbligazioni subordinate), di alcune banche private di minore dimensione (Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti).

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Le politiche economiche nell’Eurozona

18

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

18.1. Rischio di default e regole sui bilanci pubblici in un’unione monetaria In precedenza (cap. 16), illustrando le teorie Avo, avevamo precisato che in un’unione monetaria, al fine di contrastare in modo efficace gli shock asimmetrici, sarebbe opportuno disporre di un bilancio pubblico – almeno in parte – centralizzato. In mancanza di questo, la politica fiscale nazionale dovrebbe poter essere gestita in maniera flessibile da ciascun paese, senza vincoli di sorta al suo bilancio. Allora perché nell’Unione economica e monetaria europea, che non dispone di un bilancio centralizzato (e comunque il bilancio di tutta l’Ue è minimo), sono stati posti sin dall’inizio i vincoli del Patto di Stabilità e Crescita (che sarà presentato nel par. 18.2)? In generale, prescindendo dal caso delle unioni monetarie, abbiamo visto che diverse scuole ritengono opportuno introdurre delle regole di comportamento ai governi, per evitare loro azioni opportunistiche che conducano al formarsi di eccessivi disavanzi, con il rischio di insostenibilità del debito pubblico (cfr. cap. 11). Regole che di solito consistono in vincoli, legislativi o costituzionali, per il pareggio del bilancio pubblico. Ebbene, per quanto riguarda le unioni monetarie (UM), esiste un filone di letteratura secondo cui tali regole sono ancor più necessarie proprio in tali unioni. I principali motivi sono i seguenti: – esternalità negative: un paese indebitato, specie se di grandi dimensioni, può far salire – attraverso un drenaggio sui risparmi a livello di unione – il tasso d’interesse medio dell’UM, con “spillover” ovvero esternalità negative sugli altri paesi (essi dovranno ad esempio aumentare le imposte o ridurre altri tipi di spesa per far fronte agli accresciuti oneri sul debito); un’altra esternalità può presentarsi quando si diffondono rischi di contagio nel caso ci si avvicini a situazioni di default; – incentivi a disavanzi e debiti: in un’UM continua a pesare, sul debito dei singoli paesi, solo il premio per il rischio di inadempienza (default), non il rischio di cambio; la riduzione dei tassi d’interesse all’avvio dell’UM potrebbe costituire un incentivo per i governi a creare debito; un altro incentivo è connesso alla possibilità che un paese faccia affidamento, in caso di difficoltà, su un salvataggio da parte degli altri paesi (se per esempio la clausola di no bail-out che c’è nel Trattato di Maastricht non fosse credibile); – interferenze con la politica monetaria: ci potrebbero essere pressioni sulla Bce, da parte dei paesi molto indebitati, per una politica meno restrittiva, intaccando anche la credibilità anti-inflazionistica della stessa Bce. C’è stato pure dibattito circa l’eventualità che un default sia più o meno probabile in un’UM. Secondo MC KINNON (1966) lo è di più, per il venir meno della possibilità di creare sor-

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Le politiche economiche nell’Eurozona

prese inflazionistiche per ridurre il valore reale del debito 1. Secondo altri economisti lo è di meno, ad esempio se le aspettative dei mercati finanziari migliorano all’avvio dell’UM o se la clausola di “no bail out” non è creduta. Ora che l’Unione monetaria europea (Ume) è partita, non è difficile verificare sulla base di dati empirici quale delle due tesi fosse giusta, almeno in situazioni normali ed in assenza di crisi o tensioni sui mercati finanziari. Infatti pare inequivocabile che sin dal suo avvio (1999) il rischio di default fosse ritenuto molto basso, così come percepito dai mercati ed incorporato negli spread (rispetto ai titoli pubblici tedeschi, i “bund”). Per esempio, soltanto 29 punti base per l’Italia 2; quindi l’evidenza dei primi anni di vita dell’euro sembrava disconfermare l’ipotesi di Mc Kinnon. Anzi i dati empirici consentono di valutare l’importanza dei diversi premi al rischio (cfr. par. 11.2). Per questo tipo di scomposizione, è utile ricordare che prima dell’introduzione dell’euro i singoli paesi potevano emettere titoli in valuta nazionale oppure in valuta straniera (per esempio l’Italia in ecu o marchi tedeschi, DM). La Tab. 18.1 mostra ad esempio, nelle prime due colonne, qual era nel marzo 1996 lo spread tra titoli italiani in valuta nazionale (lire) e titoli tedeschi, come pure tra titoli italiani in valuta comune (DM) e titoli tedeschi: 444 e 81 punti base rispettivamente. Questo significa che la gran parte del premio al rischio era rappresenta dal rischio svalutazione (la differenza tra 444 e 81); lo spread sui titoli in valuta comune (81 punti) è invece una misura del default risk. Già nell’agosto 1999, appena partita l’Ume (quindi tutti i titoli, italiani e tedeschi, erano denominati in euro), lo spread complessivo era sceso a 29 punti (poi ulteriormente ridottosi a 17 nel 2004). Questo significa che non solo era scomparso il rischio svalutazione, ma si era molto ridotto anche il rischio default. Tabella 18.1. – Spread con la Germania (titoli decennali) in punti base (1996, 1999 e 2004) Marzo 1996 In valuta comune In valuta nazionale (DM) Austria Belgio Finlandia Francia Irlanda Italia Paesi Bassi Spagna Danimarca Svezia Regno Unito

50

27

37

21

444 4 347

81 5 30

Agosto 1999

Settembre 2004

In euro

In euro

23 30 26 11 28 29 15 26 46 58 38

5 8 10 2 – 10 17 5 2 34 32 87

Fonte: De Grauwe (2009).

1 Una via seguita anche dall’Italia per ridurre il valore del debito dopo le due guerre mondiali; inoltre, un finanziamento parziale dei disavanzi con moneta c’era anche negli anni ’70 (cfr. cap. 11). 2 Gli spread si misurano di solito in punti base, ossia in centesimi, e normalmente si riferiscono ai titoli decennali (se non altrimenti specificato). Uno spread di 29 significa che il Tesoro italiano pagava sui propri titoli decennali lo 0,29% in più del (quindi da sommarsi al) tasso applicato ai titoli tedeschi.

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

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Il basso e decrescente livello dei differenziali di interesse sui titoli di stato era quindi una caratteristica dei primi anni di vita dell’Ume, malgrado il persistere di posizioni di bilancio molto diverse. L’impressionante convergenza dei tassi d’interesse dei paesi dell’Eurozona verso quelli tedeschi è mostrata nella Fig. 18.1; nella parte di sinistra, risalta il differente ordine di grandezza rispetto alla situazione dei primi anni ’90: ad esempio per l’Italia si è passati da spread superiori a 600 a spread quasi azzerati. Nella parte di destra del grafico 3, si nota che a partire dal 2003 gli spread per tutti i paesi (sono rappresentati i paesi del Sud Europa più la Francia) erano inferiori o attorno i 20 punti base 4. Figura 18.1. – Spread di vari paesi rispetto alla Germania Grecia Spagna Francia Italia Portogallo

Grecia Spagna Francia Italia Portogallo

700

700

70

70

600

600

60

60

500

500

50

50

400

400

40

40

300

300

30

30

200

200

20

20

100

100

10

10

0

0

0 – 100

0 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004

– 100

– 10

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

– 10

Fonte: Bce, Bollettino mensile, n. 2, 2006.

Quindi la situazione dei mercati finanziari nei primi anni di vita dell’euro era tale da determinare non solo l’assenza di effetti di “spillover”, ma perfino ricadute fortemente positive della stessa unione monetaria su tutti i paesi, anche quelli con elevati debiti pubblici. Qualche osservatore era arrivato ad ipotizzare che i mercati dei capitali fossero inefficienti, non essendo in grado di valutare bene il rischio afferente ai singoli paesi. È quindi opportuno riesaminare la spiegazione degli spread così bassi che ha dato la stessa Bce (ad esempio nei suoi Bollettini periodici). Una prima spiegazioni è che i paesi che avevano fatto più sforzi per migliorare il rapporto debito/Pil (rispetto alla stessa Germania) sono stati premiati con una maggiore riduzione degli spread. Questa interpretazione pone l’enfasi sulla dinamica piuttosto che sui livelli dei debiti pubblici, dinamica che fino al 2007, poco prima della crisi, evidenziava un rapporto debito/Pil decrescente anche in Italia (come pure negli altri paesi periferici dell’area euro). Altre spiegazioni – per la scarsa o poco tempestiva reazione dei mercati finanziari alla sostenibilità dei conti pubblici – erano queste: (i) la ricerca di rendimento da parte degli operatori finanziari in un contesto di tassi d’interesse molto bassi (e di calma generale sui mercati finanziari); (ii) le modifiche nella regolamentazione contabile e di vigilanza, incluse le politiche dell’Eurosistema in materia di garanzie (la Bce nel corso del tem3 Che

rappresenta uno “zoom” per gli ultimi anni (si noti la differente scala sull’asse delle ordinate). era vero perfino per la Grecia, che partiva da condizioni più deboli in quanto era entrata nell’Ume soltanto nel 2001 (a causa del “rispetto” ritardato dei criteri di Maastricht: cfr. cap. 16). 4 Questo

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Le politiche economiche nell’Eurozona

po è divenuta meno esigente nell’accettare collaterale con rating medio-basso). Cionondimeno, si ammetteva già allora (ben prima della crisi finanziaria) che la reazione dei mercati avrebbe potuto presentarsi “con salti” ed all’improvviso, ad esempio a seguito di eventi scatenanti quali le valutazioni negative da parte delle agenzie di rating. Inoltre, questa tranquillità non faceva venir meno l’opportunità delle regole sui bilanci, in quanto il miglioramento relativo della posizione finanziaria dei paesi più indebitati (poi premiato dai mercati) era stato reso possibile proprio dalla presenza di vincoli come il Patto di Stabilità.

18.2. Il “Patto di Stabilità e Crescita” prima della crisi Il “Patto di Stabilità e Crescita” (PSC) fu firmato nel 1997 su pressioni tedesche. Era visto come lo strumento per mantenere i criteri di Maastricht sui bilanci anche dopo l’avvio dell’Ume. Già il nome dell’accordo è il risultato di un compromesso, tra la posizione tedesca, che enfatizzava l’obiettivo della stabilità finanziaria, e quella francese, più attenta alle problematiche della crescita. Le norme del Patto sono peraltro esclusivamente mirate all’ obiettivo della stabilità. La posizione tedesca era semplice da spiegare: un paese, con elevati disavanzi e debiti, che forse si era comportato “bene” durante la fase di convergenza (per rispettare i parametri di Maastricht ed evitare il rischio di non ammissione all’euro), una volta ammesso nell’Eurozona avrebbe potuto tenere comportamenti opportunistici in tema di finanza pubblica. Il PSC fissa due numeri importanti (in aggiunta al 60% per il rapporto debito/Pil, per quanto l’attenzione degli stessi policymaker per questo parametro fosse scarsa): i. il pareggio del bilancio pubblico (D = 0) come situazione tendenziale nel medio termine (il cosiddetto “obiettivo di medio termine”, Omt); ii. un tetto al rapporto deficit/Pil pari al 3% (d < 3%), da rispettare sempre, al di sopra del quale un paese sarebbe incorso in una situazione di “deficit eccessivo”. La sanzione per i paesi con deficit eccessivo – che avrebbe potuto comminare il Consiglio UE su proposta della Commissione – era inizialmente costituita da un deposito infruttifero, rapportato al Pil ed all’entità dello “sforamento” 5; il deposito sarebbe stato trasformato in ammenda se il deficit eccessivo fosse rimasto nonostante gli ammonimenti della Commissione. Un superamento eccezionale, transitorio e comunque entro valori prossimi al parametro di riferimento (3%), non doveva essere necessariamente considerato un deficit eccessivo (ad esempio se causato da una grave recessione o da circostanze eccezionali); la decisione finale spettava sempre al Consiglio e bisognava concordare una procedura di rientro con la Commissione europea. Il PSC conteneva anche una parte preventiva (la procedura dell’early warning) che prevedeva la presentazione di Programmi annui di stabilità, per i paesi della zona euro, e di convergenza, per gli altri paesi dell’UE. La Commissione poteva quindi rivolgere raccomandazioni ai singoli paesi, anche in assenza di situazioni di deficit eccessivo. Si noti che la differenza tra il 3% e lo 0 (l’Omt) era stata pensata per lasciare un margine di manovra ai singoli paesi (ad esempio attraverso l’impiego degli stabilizzatori automatici), che in caso di recessione non grave avrebbero potuto “spingersi” fino al 3% di disavanzo in rapporto al Pil; disavanzo da eliminare non appena l’economia sarebbe tornata a condizioni cicliche normali. Il PSC sembra quindi richiamarsi al principio del “bilancio in pareggio lungo il ciclo” (cfr. cap. 11). 5 Ossia calcolato secondo la formula [0,2% + 0,1(d t – 1 – 3%)]  Y; dove dt – 1 è il rapporto debito/Pil del periodo precedente; era previsto un massimo dello 0,5% del Pil.

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

367

Questo PSC, nella formulazione originaria, era stato criticato per diversi motivi. Innanzi tutto c’è stato dibattito sul margine del 3% di disavanzo rispetto al Pil per consentire l’agire degli stabilizzatori automatici, margine ritenuto insufficiente, specie per i paesi (come quelli scandinavi) in cui il bilancio pubblico è una grande componente del Pil nazionale 6. Quindi il PSC fu definito “stupido” perfino dall’allora Presidente della Commissione europea, Romano Prodi. Una seconda critica è che i valori numerici erano stati fissati in modo arbitrario. Secondo talune interpretazioni, il 3% del rapporto deficit/Pil (d) ed il 60% del rapporto debito/Pil (b) erano i valori medi riscontrati nell’UE all’inizio degli anni ’90. Sta di fatto che secondo i modelli teorici (modelli di stato stazionario) il 3% per d è compatibile con 60% per b solo con una crescita nominale del Pil del 5% annuo; situazione questa in parte realistica nell’UE di vent’anni fa, non certamente in quella di oggi (con crescita reale ed inflazione poco più che nulle). Inoltre, secondo altri critici sarebbe meglio individuare e correggere per tempo eventuali squilibri piuttosto che punire con (eventuali) sanzioni chi ha già i conti fuori controllo. Infine, non solo l’aggiunta dell’obiettivo di crescita nel titolo del Patto è stata senza conseguenze, ma è stata esclusa la stessa “golden rule”, ossia la possibilità di effettuare in disavanzo almeno gli investimenti pubblici, ciò che sarebbe giustificato da noti precetti di finanza pubblica 7. A seguito di queste critiche fu attuata nel marzo 2005 una prima riforma del PSC. Esso venne reso più flessibile, in diversi modi: (i) prevedendo tempi più lunghi per il rientro sotto il 3% e per il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine del bilancio pubblico vicino al pareggio; (ii) l’Omt venne leggermente differenziato tra i paesi e furono richiesti miglioramenti annui dello 0,5% di Pil (per convergere a tale obiettivo); (iii) fu considerata una più vasta casistica sia per la non applicazione delle sanzioni, tenendo ad esempio conto dell’ammontare di investimenti pubblici, dell’avvio di riforme strutturali (anche in connessione con la strategia di Lisbona) e di altre circostanze. In conclusione, anche prima della crisi erano emerse diverse criticità del PSC, nonostante questa riforma 8. I disavanzi pubblici non si sono ridotti nemmeno nelle fasi cicliche positive ed i debiti pubblici non erano diminuiti in maniera adeguata. Nel decennio 1999-2009, su 97 casi complessivi di deficit eccessivo (solo un terzo dei quali in presenza di recessioni gravi), nessun paese è stato sanzionato. Tra questi numerosi casi, ha suscitato molte polemiche la decisione del Consiglio europeo, presa nel 2004 a maggioranza, di non applicare sanzioni a paesi grandi e politicamente forti come Germania e Francia (in situazioni di deficit eccessivo nell’anno precedente). Questa decisione ha poi posto seri problemi di credibilità delle regole europee sui bilanci (come evidenziato subito dalla Bce). La calma regnava però sui mercati finanziari (cfr. par. 18.1) ed i policymaker erano indotti a trascurare questi problemi di credibilità. Il sopraggiungere della crisi finanziaria, della Grande Recessione e della crisi dei debiti sovrani nell’Eurozona ha cambiato completamente lo scenario, richiedendo nuove misure anche sul fronte fiscale. 6 Cfr. BUTI, SAPIR (1999); in particolare i due autori dimostrarono tramite un’indagine empirica per i paesi UE nel periodo 1960-1997 che la dimensione e la volatilità delle componenti cicliche, e quindi degli stabilizzatori automatici, è maggiore nei paesi meno industrializzati (come Spagna, Grecia e Portogallo) ed in quelli più piccoli (come Finlandia e Lussemburgo). Sul PSC e sui primi anni dell’Ume si vedano, rispettivamente, BRUNILA et al. (2001) e BUTI, SAPIR (2002). 7 Il motivo è che gli investimenti pubblici, se produttivi, creano nel tempo il loro finanziamento (aumenta il Pil futuro, quindi i proventi da tassazione degli anni a venire). La questione più che teorica è pratica: quali sono le vere spese per investimento? Solo quelle per infrastrutture o, ad esempio, anche gli investimenti in capitale umano? 8 Secondo alcuni studiosi, anche a causa di questa riforma, che ha accresciuto la discrezionalità, riducendo ulteriormente la probabilità di applicazione di sanzioni.

368

Le politiche economiche nell’Eurozona

18.3. La crisi e le nuove regole per l’Eurozona (Fiscal Compact) I problemi dei bilanci pubblici – e di un’efficace regolamentazione a livello europeo – si sono aggravati dopo la crisi finanziaria (2007-2008) e la Grande Recessione (2009). La crisi ha mostrato, da un lato, la forte interdipendenza delle economie europee e, dall’altro lato, le debolezze del sistema esistente di regolamentazione e governance (soprattutto nell’Eurozona), quando invece risultavano necessari un forte e rapido coordinamento, maggiore prevenzione, appropriati meccanismi correttivi e “anti-crisi”. I disavanzi pubblici sono fortemente peggiorati in quasi tutti i paesi, per: (i) i salvataggi bancari; (ii) la recessione (il calo del Pil fa automaticamente salire i rapporti deficit/Pil) e l’agire degli stabilizzatori automatici; (iii) i pacchetti di stimolo fiscale discrezionali adottati in vari paesi. Questi effetti si sono verificati anche al di fuori dell’UE, a cominciare dagli Stati Uniti (cfr. cap. 19). Gli stimoli fiscali sono stati di entità diversa a seconda della gravità dei problemi e delle possibilità di indebitamento 9. Nell’arco di soli due anni, i rapporti tra disavanzo e Pil sono fortemente peggiorati in diversi paesi dell’Eurozona; nel 2009 si sono toccate punte di oltre il –10% in Grecia, Irlanda, Portogallo (ed anche nel Regno Unito all’esterno dell’area euro) 10. L’evoluzione complessiva dei disavanzi dal 2007 (l’anno pre-crisi) è presentata nella Tab. 18.2. Nella tabella sono rappresentati gli Usa, i quattro maggiori paesi europei ed i “Pigs” (ossia i paesi più colpiti dalla crisi dei debiti sovrani esplosa nell’Eurozona nel 2010-2011: cfr. cap. 19). In genere dopo il 2009 c’è stato un progressivo miglioramento dei saldi di bilancio 11. Un tale miglioramento era richiesto sia per assicurare la sostenibilità del debito, minacciata dalla crisi dei debiti sovrani, sia dalle regole europee imposte con fermezza e rafforzate in questi ultimi anni, come vedremo tra breve. Tabella 18.2. – Saldi di bilancio in rapporto al Pil 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018*

Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Portogallo Eurozona

0,3 0,2 –6,7 2,0 –2,5 –1,5 –3,0 -

0,0 –7,0 –9,0 –4,4 –3,2 –2,7 –3,8 -

–3,0 –13,9 –15,2 –11,0 –7,2 –5,3 –9,8 –

–4,1 –30,4 –11,1 –9,4 –6,8 –4,2 –11,2 –

–0,9 –12,6 –10,1 –9,4 –5,1 –3,5 –7,4 –4,1

0,1 –8,0 –8,6 –10,3 –4,9 –3,0 –5,5 –3,6

0,1 –5,7 –12,2 –6,8 –4,1 –2,8 –4,9 –2,9

0,6 –3,6 –3,6 –6,0 –3,9 –3,0 –7,2 –2,5

0,8 –1,9 –5,6 –5,3 –3,6 –2,6 –4,4 –2,0

0,9 –0,5 0,5 –4,5 –3,5 –2,5 –2,0 –1,6

1,0 –0,2 0,8 –3,1 –2,7 –2,4 –3,0 –1,0

1,6 –0,1 0,6 –2,7 –2,6 –1,9 –0,7 –0,6

Regno Unito

–3,0

–5,1

–10,8

–9,6

–8,3

–5,8

–5,4

–4,2

–2,9

–1,8

–1,3







–6,4

– 7,6 –4,5

–4,2

–3,2

–2,9

–2,3

–1,7

–1,0

–0,7

–3,5 –2,1

–7,0 –1,9

–12,7 –8,8

–12,0 –8,3

–10,6 –8,8

–8,9 –8,7

–5,6 –8,5

–4,8 –5,4

–4,2 –3,6

–4,9 –3,4

–4,0 –3,7

–5,8 –3,3

UE Stati Uniti Giappone

Nota: * i dati 2018 sono previsioni.

9 Per esempio, a causa dell’elevato livello di partenza del debito pubblico, gli stimoli sono stati molto ridotti in Italia (nell’anno peggiore, il 2009, il disavanzo aveva di poco superato il 5% in rapporto al Pil). 10 Per confronto, negli Usa il disavanzo è passato dal –3,5% al –12,7% dal 2007 al 2009. 11 Solo in Irlanda l’anno peggiore è stato il 2010, quando il disavanzo ha toccato il 30% del Pil (a seguito dei salvataggi bancari).

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

369

Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018).

L’andamento dei debiti pubblici in rapporto al Pil è presentato nella Tab. 18.3, da cui si evince che essi sono peggiorati in quasi tutti i paesi almeno fino al 2013-2014 12. Infatti, non basta un miglioramento del disavanzo per ridurre il rapporto debito su Pil, soprattutto se quest’ultimo si riduce; in tal caso occorrerebbe che il saldo di bilancio si trasformi in avanzo (in termini più precisi entrano in gioco le determinanti illustrate nel par. 11.3, tra cui i saldi primari, i tassi d’interesse ed i tassi di crescita del Pil). Tabella 18.3. – Debiti pubblici in rapporto al Pil

Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Portogallo Eurozona Regno Unito UE Stati Uniti Giappone

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018*

63,5 24,0 103,1 35,5 64,2 99,7 68,4 64,9

64,0 42,8 109,8 39,4 67,8 102,3 71,7 68,5

72,4 62,2 126,8 52,7 78,8 112,5 83,6 78,3

80,3 87,4 146,0 60,1 81,5 115,3 96,7 89,8

77,6 111,1 171,3 60,2 85,0 116,4 111,1 86,4

79,0 121,7 158,9 84,4 89,2 122,2 124,8 90,8

76,9 123,3 174,9 92,1 92,2 127,9 128,0 93,1

74,5 104,1 178,9 100,4 94,9 131,8 130,6 94,2

70,8 76,8 175,9 99,3 95,6 131,6 128,8 92,1

67,9 73,4 178,5 99,0 98,2 131,4 129,2 91,2

63,9 68,4 176,1 98,1 98,5 131,2 124,8 88,9

60,1 63,9 182,5 96,9 98,7 131,1 121,5 86,9

43,6

51,6

65,9

76,4

81,9

85,8

87,2

87,0

87,9

87,9

87,4

86,0

57,8

60,9

72,9

78,4

81,3

84,9

87,1

88,1

86,0

84,9

83,2

81,4

64,0 176,6

72,8 184,6

86,0 202,4

94,7 208,2

99,0 222,3

102,5 228,6

104,6 232,8

104,4 236,1

104,7 231,3

106,7 235,6

105,2 235,9

105,8 236,2

Nota: * i dati 2018 sono previsioni. Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018).

Quanto alle regole europee, già nel 2009-2010 la Commissione avviò la procedura contro i disavanzi eccessivi, concordando i tempi per il rientro sotto il 3% del Pil, obiettivo in genere da rispettare entro il 2012-2013 13. Le vecchie regole si mostravano però obsolete, soprattutto a seguito della crisi dei debiti sovrani. Questa situazione portò a sviluppare diverse idee per la predisposizione di nuove regole per i bilanci e per le politiche macroeconomiche. Già nel maggio 2010, la Commissione propose delle “linee guida” per un più stretto coordinamento delle politiche economiche, inclusa una sorveglianza macroeconomica, il “semestre europeo”, un meccanismo di gestione delle crisi. L’insieme delle misure legislative introdotte per (i) riformare il PSC e (ii) attuare una nuova sorveglianza macroeconomica, è noto come Six-Pack ed è stato definitivamente approvato nel dicembre 2011. Il successivo Two-Pack (in vigore da maggio 2013) consta invece di altri due regolamenti riguardanti i paesi della zona euro. Più in dettaglio, la riforma del Patto di stabilità e crescita è stata approvata dal Consiglio 12 Dalla tabella si nota che in pochi anni i rapporti debito/Pil sono quadruplicati in Irlanda, triplicati in Spagna, raddoppiati nel Regno Unito. Già nel 2012 diversi paesi – nell’ordine Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Belgio – venivano a superare il 100%. La stessa Germania ha superato l’80% nel 2010, anche se poi il rapporto ha iniziato a diminuire; fuori dall’Ue, a parte il già commentato caso giapponese, si nota il superamento del 100%, persistente negli ultimi anni, anche da parte degli Usa. 13 Per alcuni paesi, come Francia e Spagna, sono state concesse dilazioni nei rientri sotto il 3%.

370

Le politiche economiche nell’Eurozona

europeo nel giugno 2011. I punti essenziali del PSC riformato sono i seguenti: i. restano inalterati i parametri di Maastricht: limiti del 3% per il rapporto deficit/Pil e del 60% per il debito/Pil (ma una maggiore attenzione è rivolta al rientro dal debito, come vedremo tra breve); ii. nella parte preventiva, è richiesta la correzione di almeno lo 0,5% annuo dei disavanzi, verso il pareggio di bilancio strutturale (l’Omt), da intendersi come disavanzo massimo dello 0,5% del Pil (l’1% di disavanzo strutturale è concesso solo ai paesi con rapporto debito/Pil non superiore al 60%) 14; iii. è stata introdotta una nuova governance europea per gli squilibri macroeconomici: la Commissione europea può rivolgere raccomandazioni ai singoli paesi basate sull’analisi di una decina di indicatori macroeconomici; può quindi essere avviata una “procedura per squilibri eccessivi” (con possibilità di sanzioni) 15. Molto discusse sono state le nuove regole relative al rientro dal debito elevato. Si è infatti deciso di voler forzare la convergenza del rapporto debito/Pil verso la soglia del 60%, riducendo di almeno 1/20 l’anno l’eccesso rispetto a tale soglia 16. Alcuni studiosi hanno mostrato che, in presenza di pareggio di bilancio (la seconda condizione dell’elenco precedente), questo vincolo sul debito non sarebbe stringente, posto che vi sia una crescita positiva. Il problema cruciale è però proprio questo: per un paese come l’Italia, con crescita negativa (la perdita di Pil è stata di circa il 10% dallo scoppio della crisi a fine 2014) o piuttosto bassa (quella riscontrata negli anni 2015-2018) e con un tasso d’inflazione vicino allo zero o poco sopra, è praticamente impossibile riuscire a ridurre questo rapporto. Questa nuova regola sul debito non ha però trovato, per fortuna, per il momento applicazione. Un’altra novità del PSC riformato riguarda i processi decisionali. In caso di mancato rispetto delle regole, la procedura per deficit eccessivo sarà semi-automatica: il “reverse qualified majority voting” richiede una maggioranza qualificata nel Consiglio per ribaltare una proposta della Commissione. La sanzione, inizialmente consistente in un deposito infruttifero, pari a 0,2% del Pil, potrà essere applicata non appena avviata la procedura (quindi con un anticipo temporale rispetto a quanto previsto dal vecchio PSC) 17. Il Consiglio, prima di decidere le sanzioni, può però tener conto di altri fattori rilevanti quali: l’indebitamento del settore privato, i debiti impliciti del sistema pensionistico, la specifica struttura del debito pubblico, l’esposizione del sistema bancario, la bassa crescita nominale 18. Un ulteriore passo verso il rafforzamento delle regole di bilancio è stato compiuto nel 2012 con la firma di un trattato intergovernativo 19: il “Trattato sulla stabilità, coordinamento 14 Era stato introdotto anche un vincolo sulla crescita della spesa pubblica: la spesa in termini reali non può crescere più del Pil potenziale di medio periodo (con vincoli più stringenti per i paesi che non hanno conseguito l’Omt). 15 Ad esempio nel 2013-2015 sono state messe sotto osservazione – in varia forma – l’Italia, la Croazia e la Slovenia soprattutto per l’alto debito pubblico e la bassa competitività. Lo squilibrio delle partite correnti (uno dei dieci indicatori considerati) può riguardare un deficit eccessivo ma anche un surplus eccessivo (come quello superiore al 6% riscontrato per la Germania, per la quale è stata fatta solo una segnalazione). 16 Per l’Italia, con un rapporto debito/Pil del 133% nell’anno peggiore, significava una riduzione uguale a: (133 – 60)/20 = 3,65 per cento il primo anno, 3,5% il secondo, e così via. 17 Le eventuali multe saranno devolute a finanziare i nuovi Fondi di stabilità finanziaria, come l’Esm (cfr. cap. 19). 18 Su questo punto c’è tuttora scarsa trasparenza e quindi il rischio di “contrattazioni” all’interno del Consiglio europeo. 19 Così chiamato perché non obbligatoriamente esteso (come era il Trattato di Lisbona e quelli precedenti: cfr. cap. 15) a tutti i paesi UE. Infatti, il Trattato, proposto dalla Germania, è stato firmato il 2 marzo 2012 da

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

371

e governance nell’Unione economica e monetaria”, più semplicemente noto come Fiscal Compact) ed in vigore dal 2013. Circa il contenuto, le parti più rilevanti sono contenute nel Titolo III (il “Fiscal Pact” appunto). Nella sostanza sono confermati i parametri del PSC riformato. Si aggiunge però la richiesta di introdurre il vincolo del pareggio di bilancio in norme di tipo costituzionale o comunque nelle legislazioni nazionali 20. Si precisa inoltre che il pareggio è da intendersi come segue: conta il saldo strutturale al netto delle misure una tantum ed inoltre è ammesso un disavanzo entro lo 0,5% del Pil (l’1% per i paesi con debito inferiore al 60% del Pil). Un’altra riforma, concernente le procedure e la governance europea, era precedente al Fiscal Compact. Si tratta del “semestre europeo”, in vigore dall’inizio del 2011. L’obiettivo era quello di migliorare il coordinamento delle politiche economiche degli stati membri, attraverso il monitoraggio reciproco e l’individuazione per tempo degli squilibri. Il “semestre europeo” si articola in queste tappe: – nel mese di marzo il Consiglio europeo 21 (sulla base di un rapporto della Commissione) individua le principali sfide economiche e le linee strategiche per le politiche economiche; tra i compiti: valutare non solo la convergenza delle politiche economiche, ma anche gli squilibri in termini di competitività; – nel mese di aprile, i singoli stati rivedono le strategie di bilancio a medio termine e presentano alla Commissione i Programmi di Stabilità o Convergenza (già previsti dal PSC) come pure i Programmi nazionali di riforma (PNR); questi ultimi riguardano la strategia “Europa 2020” (cfr. cap. 21); – in giugno e luglio il Consiglio predispone osservazioni su questi documenti e sulle politiche proposte, prima che gli stati mettano a punto i bilanci per l’anno seguente. Questa scansione temporale è stata poi allungata – per i paesi dell’Eurozona – anche ai mesi autunnali, attraverso il Two-Pack successivamente approvato. I regolamenti del Two-Pack prevedono che gli stati dell’area euro debbono predisporre i progetti di legge di bilancio entro il 15 ottobre e presentarli alla Commissione europea. Quest’ultima formula pareri al più tardi entro il 30 novembre (ma può interagire con i governi degli stati anche nelle settimane precedenti) e può richiedere modifiche, prima dell’approvazione delle leggi di bilancio da parte dei Parlamenti nazionali (entro il 31 dicembre, come avviene per la Legge di bilancio in Italia). Le riforme del PSC attuate nel periodo 2010-2013, con le nuove norme di rango perfino costituzionale (come il Fiscal Compact), erano tutte state nella direzione di un progressivo inasprimento e di più stretti controlli, con il fine di costituire un argine non solo contro possibili comportamenti opportunistici dei governi, ma soprattutto nei confronti della speculazione internazionale, che si era irrobustita dopo la crisi dei debiti sovrani 22. Le conseguenze del rigore fiscale sull’economia reale sono però state deleterie (come spiegheremo nel prossimo paragrafo), per cui si sono intensificati gli attacchi alle politiche d’austerità imposte (soprattutto su pressione della Germania) dalle istituzioni europee. Sulla scia di un crescendo di critiche all’intensità delle politiche di austerità adottate negli anni di crisi, a gennaio 2015 la Commissione europea ha adottato una comunicazione 25 stati (autoesclusi Regno Unito e Repubblica Ceca). 20 I paesi firmatari dovevano adeguarsi entro il 1° gennaio 2014. L’Italia lo fece il 17 aprile 2012, con l’approvazione definitiva da parte del Parlamento del nuovo art. 81 (sull’equilibrio strutturale del bilancio dello Stato) e pochi altri della Costituzione (cfr. par. 11.7). 21 Il Consiglio può essere preceduto da un summit ristretto ai paesi dell’Eurozona. 22 Per quanto vada ribadito che il “sentiment” dei mercati è mutato soprattutto dopo le operazioni non convenzionali (come il piano Omt) decise dalla Bce (cfr. cap. 17).

372

Le politiche economiche nell’Eurozona

che contiene delle “novità interpretative” sull'applicazione del Patto di stabilità e di crescita. Obiettivo delle proposte è sfruttare la flessibilità già contenuta nel PSC e incoraggiare le riforme strutturali (che sarebbero prese in considerazione nelle valutazioni relative all’applicazione del PSC) e gli investimenti; su questo ultimo punto, si confermava che i contributi nazionali ai nuovi fondi europei 23 non sarebbero stati calcolati nella misurazione dell’aggiustamento di bilancio, mentre la cosiddetta “clausola sugli investimenti” 24 sarebbe stata applicata sulla base della posizione nel ciclo economico di ogni singolo Paese e non più dell’intera zona euro; infine, veniva fatto esplicito riferimento agli investimenti effettuati in cofinanziamento con i fondi europei strutturali e di coesione (cfr. cap. 15). In definitiva, le nuove linee guida della Commissione europea perseguivano tre finalità principali: (i) incoraggiare ulteriormente l’attuazione effettiva delle riforme strutturali; (ii) promuovere gli investimenti, soprattutto quelli realizzati con i nuovi fondi europei; (iii) tenere maggiormente conto del ciclo economico nei singoli Stati membri. In altri termini, senza intervenire in modifiche formali del PSC, si è cercato di renderne più flessibile l’interpretazione tramite delle linee guida volte a “sviluppare una politica di bilancio più favorevole alla crescita nella zona euro” 25.

18.4. Politiche d’austerità e stagnazione: come uscirne? L’inasprimento delle regole di bilancio ha caratterizzato le riforme nella governance europea, specie dopo la crisi dei debiti sovrani ed almeno fino al 2014. Le regole ed i controlli sono stati molto più stringenti per i paesi “assistiti”, ossia quei paesi – come Grecia, Irlanda e Portogallo – che hanno ricevuto aiuti finanziari attraverso i fondi “salva-Stati” (cfr. cap. 19). Pur essendo il consolidamento fiscale inevitabile, al fine di ridurre il rischio di default di alcuni paesi o addirittura della stessa fine dell’euro, le politiche restrittive sono state troppo intense, troppo prolungate e troppo estese a più paesi contemporaneamente 26. Gli effetti negativi sui livelli di attività sono stati sottovalutati. Le generalizzate politiche d’austerità hanno comportato che, mentre gli Stati Uniti si ripresero presto ripresi dopo la Grande Recessione del 2009, l’Eurozona subì due recessioni in un quinquennio (la seconda nel 2012-2013) e la successiva ripresa è stata piuttosto debole e diversificata tra i paesi. Diversi autori 27 avevano evocato il rischio di una nuova depressione (forse anche peggiore di quella degli anni ’30), a causa di politiche restrittive adottate congiuntamente da molti paesi; altri preferivano parlare di stagnazione, che si abbinava alla deflazione (che colpì l’Eurozona tra il 2014 ed il 2016) e ad una disoccupazione elevata (in diversi paesi) e persistente. Una ripetuta (o lunga) recessione complica lo stesso aggiustamento dei conti pubblici in un 23 In particolare, il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), connesso al piano Juncker (di cui si tratterà nel prossimo paragrafo). 24 Che consente maggiori margini di manovra per i Paesi che comunque rispettano la soglia del 3% del disavanzo sul Pil. 25 L’Italia usufruì negli anni 2015-2017, al momento della presentazione delle leggi di bilancio per gli anni successivi, dei nuovi margini di flessibilità, adducendo diverse motivazioni: maggiori investimenti (poi in realtà non realizzati come promesso), spese connesse all’evento sismico in Umbria e Marche, oneri derivanti dai flussi d’immigrazione. 26 Come ha ben argomentato WYPLOSZ (2012), “adottare politiche fiscali restrittive nel mezzo di una doubledip recession non ha mai avuto molto senso”; egli poi ha enfatizzato il paradosso secondo cui i mercati finanziari vogliono vedere sia un commitment alla disciplina fiscale sia un’immediata crescita, ma come può ristabilirsi la fiducia se le economie sprofondano in una recessione? Oltretutto, le modalità di consolidamento fiscale potrebbero essere impostate in modo da non essere troppo penalizzanti per la crescita (cfr. COTTARELLI, JARAMILLO, 2012). 27 Cfr. ad esempio KRUGMAN (2012).

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

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circolo vizioso perverso; come abbiamo visto in precedenza, i disavanzi sono migliorati per via delle strette fiscali, ma i debiti sono per molti anni aumentati in rapporto al Pil, soprattutto per la dinamica negativa di quest’ultimo. Il problema è che i consolidamenti fiscali non sono risultati espansivi come ritenevano alcuni fautori del rigore assoluto (infatti gli effetti tipici keynesiani hanno prevalso su quelli non-keynesiani), e quindi le politiche d’austerità si sono rivelate self-defeating (cfr. par. 11.6) 28. Perfino le istituzioni europee si sono rese conto, a un certo punto (ma solo dal 2014 in maniera più evidente), che un qualche aggiustamento nella direzione della crescita sarebbe stato opportuno. Lo stesso “semestre europeo” cominciava in parte a spostare l’enfasi dai criteri nominali del PSC alla convergenza reale (con gli obiettivi nazionali da inserire nei Programmi nazionali di riforma). Nel 2011 fu anche approvato l’Euro Plus Pact, con l’obiettivo non solo di rafforzare la sostenibilità delle finanze pubbliche e la stabilità finanziaria, ma anche di stimolare la competitività e promuovere l’occupazione 29. Nel giugno 2012 fu discusso un “Patto per la crescita e l’occupazione”, poi approvato dal Consiglio europeo nell’ottobre dello stesso anno, con una serie di buoni propositi ma senza un vero impegno sul piano finanziario 30. Molte speranze aveva suscitato il piano d’investimenti proposto da Juncker, per un totale inizialmente previsto a poco più di 300 mld. di euro da realizzare in 3 anni. La gran parte dei capitali era però da reperire sui mercati 31, così da costituire un Fondo europeo per gli investimenti strategici. Grazie alle garanzie fornite e con il coinvolgimento degli investitori privati, si contava di arrivare ad un effetto leva complessivo di 15, per un valore finale di 315 mld. di investimenti attesi a fine triennio 32. Le prime critiche si riferivano non solo all’ipotizzato effetto leva (troppo grande), ma anche ai tempi di realizzazione (troppo lunghi per contrastare la bassa crescita) 33. Questi ultimi interventi sembrano quindi utili, ma ancora largamente insufficienti. La Bce e le altre istituzioni europee hanno troppo a lungo sostenuto la tesi che il problema della scarsa crescita in Europa, specie in alcuni paesi, fosse un problema di mancate o lente riforme strutturali 34. È certamente vero che le liberalizzazioni ed altre riforme strutturali favoriscono la 28 Sulle

politiche d’austerità torneremo anche nel cap. 19; si veda comunque il “dibattito” sull’austerità (come pure altri argomenti correlati, quali la Grande Recessione, i rapporti tra Stato e mercato, le politiche industriali) nell’interessante libro di MORRONI (2018). 29 Per quest’ultima, si era posto l’obiettivo di ridurre i tassi di disoccupazione giovanile e di lungo periodo, attraverso la riduzione del carico fiscale sul lavoro e le politiche attive (incluso l’apprendimento permanente). Per rafforzare la competitività era elencata una lunga serie di misure: migliorare la coerenza tra la dinamica salariale e quella della produttività (tenendo sotto controllo il clup); rivedere la contrattazione centralizzata ed i meccanismi di indicizzazione salariale; controllare i costi nel settore pubblico; incrementare la produttività attraverso l’apertura dei settori protetti (come commercio e professioni); migliorare i sistemi d’istruzione; promuovere la R&S e le innovazioni; sviluppare le infrastrutture; completare il Mercato Unico. 30 Nella proposta di giugno c’era l’idea d’incentivare progetti d’investimento per la crescita (tramite la ricomposizione del bilancio comunitario, il potenziamento della Bei, i “project bond”), le infrastrutture (mercato interno dell’energia e mercato unico digitale), la ricerca (programma Horizon 2020), etc. 31 Infatti, le risorse messe a disposizione dall’UE erano solo 21 mld. di euro, di cui 16 mld. dal bilancio UE e 5 mld. provenienti dalla Banca europea per gli investimenti (Bei). 32 I singoli Stati avrebbero avuto un incentivo a contribuire al nuovo Fondo in quanto i loro contributi sarebbero stati esclusi dal calcolo dei disavanzi ai fini del Patto di stabilità. 33 A dicembre 2014 l’Italia, similmente agli altri paesi, aveva presentato alla “task force” Commissione-Bei un elenco di un centinaio di progetti nei settori d’intervento (economia digitale, piccole e medie imprese, energia, trasporti, istruzione, salute e ambiente). 34 Il presidente DRAGHI (2014) ha peraltro ammesso che la crescita dipende non solo dalle riforme strutturali ma anche dal rilancio della domanda aggregata; ed anche che la politica monetaria da sola non è in grado

374

Le politiche economiche nell’Eurozona

crescita, ma in un orizzonte di medio e lungo periodo; tuttavia, per combattere l’acuta recessione europea e la successiva fiacca ripresa, che è soprattutto dovuta alla carenza di domanda aggregata, occorrevano (e occorrono) politiche macroeconomiche espansive 35. Nell’UE è perfino mancato quel coordinamento delle politiche macroeconomiche pur previsto dai Trattati. La crisi si è infatti prolungata ed aggravata anche per la perversa connotazione dell’aggiustamento macroeconomico: misure d’austerità imposte ai paesi debitori periferici e politiche miranti al pareggio di bilancio nei paesi creditori (Germania ed altri paesi del Nord Europa). I primi paesi, hanno anche ridotto salari e prezzi per ottenere una “svalutazione interna” (surrogato per un’impossibile svalutazione del cambio) 36. Nessun paese ha voluto giocare il ruolo di locomotiva, anche quando era nelle condizioni di farlo come la Germania, con surplus commerciale ed equilibrio di bilancio (DE GRAUWE, 2012). Invece, un forte rilancio della domanda interna di quel paese – non solo consumi ma anche investimenti – avrebbe favorito la crescita, con spillover benefici sul resto d’Europa (cfr. BLANCHARD et al. 2015, STIGLITZ, 2012). Considerate le limitazioni del Piano Juncker, un recupero della spesa pubblica per investimenti – a livello sia europeo sia di singoli paesi – consentirebbe un immediato sollievo per l’economia: per esempio investimenti in infrastrutture, di trasporto ma meglio ancora di comunicazione, per il capitale umano, l’alta formazione, la ricerca (cfr., tra gli altri, CAMPIGLIO, 2016; DELLA POSTA et al., 2018; GAROFOLI, HOLLAND, 2017). Non necessariamente deve trattarsi di investimenti in grandi opere (che soprattutto in Italia soffrono per i noti problemi dei lunghi tempi di esecuzione, dei budget continuamente rivisti al rialzo, spesso più vulnerabili ai fenomeni di corruzione); possono invece essere tanti micro-interventi (per l’edilizia popolare e scolastica, per la salvaguardia ambientale ed il risparmio energetico, in campo sanitario, contro il dissesto idrogeologico, etc.). E’ quasi superfluo rilevare che un rilancio degli investimenti è doppiamente utile: non solo sostiene la domanda aggregata nel breve periodo, ma consente un innalzamento del trend di crescita di lungo periodo 37. Sono certamente essenziali, per una vera ripresa, anche gli investimenti delle imprese private, che pure sono crollati dallo scoppio della crisi 38. A questo fine, in aggiunta al ribaltamento delle aspettative e del clima di fiducia, conseguente all’auspicato rilancio degli investimenti pubblici, un ruolo importante deve essere giocato dal settore del credito. Occorre individuare gli strumenti più idonei affinché la liquidità, che pur la Bce ha fatto fluire alle banche, pervendi sostenere l’economia (facendo quindi riferimento al ruolo giocato dalle politiche fiscali, pur continuando a ritenere necessari gli aggiustamenti di bilancio). 35 Lo stesso IMF (2012), nel mezzo della crisi, aveva auspicato il mantenimento di politiche monetarie accomodanti, incluse le misure non convenzionali, ed un maggior gradualismo nei programmi di aggiustamento fiscale. 36 Invece, una maggiore competitività dei Paesi periferici – ovviamente necessaria per ovviare ad una delle asimmetrie di fondo nel funzionamento dell’Ume (cfr. cap. 16) – e quindi il contenimento del Clup non possono passare attraverso il taglio dei salari (in diversi casi già troppo repressi con le note conseguenze negative sui consumi) ma solo per mezzo del recupero della produttività. 37 È questa una politica dell’offerta forse più efficace di quella auspicata dalla “supply-side economics” (ossia un semplice taglio delle tasse, specie se indifferenziato). Si noti, inoltre, che – paradossalmente visto che tutte le scuole macroeconomiche sostengono il contrario – nelle fasi recessive anche gli investimenti pubblici (oltre a quelli privati) solitamente si contraggono: ciò può derivare dalle minori resistenze a rinvii di opere (nuove o da completare) rispetto alle agguerrite opposizioni sul fronte dei tagli (non solo lineari ma anche selettivi) alla spesa corrente. 38 Gli investimenti fissi lordi erano nel 2013 nell’UE (a 28) di circa 400 mld. di euro inferiori al precedente picco del 2007 (con una contrazione reale del 13%). Solo parte di questo gap è stata colmata negli anni successivi.

Regole sui bilanci pubblici: dal Patto di Stabilità e Crescita al Fiscal Compact

375

ga davvero al sistema produttivo (si veda la discussione sulle operazioni Tltro e sul QE nel cap. 17). Gli investimenti privati potrebbero trarre giovamento non solo dal superamento del “credit crunch” e dal piano di investimenti pubblici, che fungerebbero da stimolo e migliorerebbero anche le aspettative degli operatori, ma anche dalla formulazione di innovative politiche industriali, regionali e del lavoro 39. In conclusione, riteniamo che la crescita non si ottiene in modo automatico né con le sole riforme strutturali né con l’aggiustamento forzato dei conti pubblici imposto dall’alto. Le politiche dell’UE dovrebbero essere prontamente riorientate verso l’obiettivo della crescita, in un contesto di stabilità macroeconomica e finanziaria. Questa svolta auspicabile probabilmente richiederà “più integrazione” in Europa (come vedremo alla fine del prossimo capitolo).

39 Ad esempio, piuttosto che sostenere in modo indiscriminato tutte le imprese di specifici settori, sarebbero opportuni aiuti mirati: vuoi alle imprese che effettivamente espandono la “buona” occupazione vuoi a quelle che fungono da traino nei processi innovativi (in modo che a cascata ne benefici l’intero sistema industriale ed economico); cfr. MARELLI (2014).

376

Le politiche economiche nell’Eurozona

19

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

19.1. La crisi negli Usa: i mutui subprime e lo scoppio della bolla Il contesto in cui si è sviluppata la recente crisi finanziaria è quello dei primi anni del nuovo secolo. Sembrava allora che il mondo – superato lo shock dovuto allo scoppio della bolla della “new economy” e la temporanea recessione del 2002-2003 1 – continuasse a percepire i benefici della “Great moderation”. La globalizzazione sembrava favorire sia i paesi emergenti sia quelli avanzati e l’opinione prevalente era che le liberalizzazioni finanziarie avessero contribuito positivamente a questo risultato. Tuttavia, alcuni nodi si stavano già aggrovigliando (come abbiamo discusso nel par. 14.2) 2. I global imbalances tra diversi paesi erano sempre più manifesti; la speculazione finanziaria, trovava alimento nella spasmodica ricerca di profitti a breve termine (che condizionava le azioni delle stesse imprese industriali) 3; le crisi finanziarie non erano eventi sporadici ma si erano già manifestate diverse volte nei due decenni precedenti. È evidente che l’interdipendenza internazionale derivante dalla globalizzazione aveva accentuato l’instabilità dei singoli sistemi nazionali, sia per l’accresciuta vulnerabilità rispetto ad eventi esogeni (shock d’offerta, evoluzione delle ragioni di scambio, bolle finanziarie, crisi di fiducia, etc.), sia per la perdita di autonomia delle politiche economiche nazionali, sempre più attente a variabili “esogene” 4. Gli squilibri dell’economia americana sfuggivano agli osservatori perché in quel periodo cresceva a ritmi più che soddisfacenti. Oltre al disavanzo pubblico ed al deficit commerciale (i “deficit gemelli”: cfr. par. 12.3), va segnalata la continua diminuzione della propensione al risparmio. I consumi crescevano velocemente grazie anche alla diffusione del credito al consumo 5. Facilitazioni venivano date anche per l’acquisto di abitazioni, attraverso l’elargizione di 1 L’attacco alle Torri gemelle è stato molto enfatizzato in letteratura, soprattutto per le sue conseguenze riguardo agli equilibri politico-militari a livello mondiale, causando anche le successive guerre in Afghanistan e in Iraq, il clima d’incertezza a livello globale. In ogni caso l’inversione degli andamenti di borsa e la stessa recessione del 2001 precedevano l’11 settembre. La bolla azionaria formatasi all’epoca della cosiddetta “new economy” (connessa alla rivoluzione delle nuove tecnologie informatiche, di comunicazione e ad internet), aveva portato i valori azionari di numerose società, in particolare nel comparto tecnologico, a crescere in modo esponenziale (dalla seconda metà degli anni ’90), per poi sgonfiarsi dalla primavera del 2001. 2 Secondo talune interpretazioni, ora ampiamente condivise, la Grande Moderazione conteneva già i semi della successiva crisi del 2007-2008, crisi che mise pure in discussione teorie economiche apparentemente consolidate (si veda ad esempio SARACENO, 2018). 3 In molte imprese gli operatori erano mossi da incentivi perversi, come i bonus a manager e banchieri legati ai profitti di breve periodo. 4 Quali il tasso di cambio, il tasso d'interesse sui mercati internazionali, il differenziale nei tassi d'inflazione, la fase ciclica nei principali partner commerciali, etc. 5 Secondo alcuni osservatori questo era un modo per compensare le classi meno agiate per il peggiora-

378

Le politiche economiche nell’Eurozona

mutui consistenti nell’ammontare e poco costosi per i debitori (grazie ai bassi tassi d’interesse); in particolare, i debitori subprime – ossia i mutuatari con un merito di credito assai contenuto a causa dell’elevato rischio di insolvenza 6 – furono indotti all’acquisto di case. Gli acquisti di immobili furono quindi incentivati, i prezzi delle case aumentarono fortemente, causando una “bolla immobiliare” (per la verità non solo negli Usa, ma anche in paesi europei come Regno Unito, Irlanda, Spagna). Queste tendenze furono favorite dalla politica monetaria molto accomodante (infatti la politica della Fed era sempre stata in questi anni più espansiva di quella della Bce: cfr. par. 17.4). Dal 2002 a metà 2004 i tassi sui Fed funds erano al minimo storico (di allora) dell’1% 7. Le banche non avevano difficoltà a concedere prestiti alle famiglie, in quanto il prezzo delle case continuava a salire ed anche in caso di insolvenza del debitore esse potevano entrare in possesso di immobili di valore più elevato (rispetto a qualche tempo prima ed al valore del mutuo concesso), realizzando così dei guadagni. I mutui venivano poi cartolarizzati, ossia “impacchettati” in strumenti finanziari come le “mortgage-backed securities” (sottospecie delle “asset backed securities”, Abs) 8; in altre parole i mutui erano concessi dalle banche con capitali presi a prestito e con una leva finanziaria in genere eccessiva. I titoli cartolarizzati si propagavano poi per l’intero sistema bancario e finanziario, non solo statunitense ma mondiale. Questo scenario cominciò a mutare con il cambiamento dell’intonazione della politica monetaria ed il rialzo dei tassi d’interesse attuato dalla Fed nel 2005-2006. Come è noto, l’edilizia è un settore molto sensibile all’andamento dei tassi d’interesse. I prezzi delle case cominciarono a rallentare, poi a diminuire: le insolvenze nel mercato dei mutui sub-prime iniziarono a creare difficoltà ingestibili a numerose banche (che entrando in possesso delle case in caso d’insolvenza dei debitori non riuscivano più a recuperare l’intero valore del mutuo concesso). Quindi la bolla immobiliare scoppiò ed il problema si riversò sui bilanci delle banche. A causa delle cartolarizzazione, in breve tempo le difficoltà nel settore del credito contagiarono l’intero sistema finanziario statunitense prima e internazionale poi. I sintomi dell’incombente crisi finanziaria erano evidenti sin dal 2007. Nell’agosto di quell’anno ci fu un forte aumento dei tassi d’interesse nei mercati interbancari, anche in Europa: chiaro segnale di sfiducia tra gli operatori per l’aumento del rischio di controparte. Alcune banche rischiavano di fallire o evitarono il fallimento grazie a primi salvataggi dei governi 9. In generale, nel biennio 2007-2008 fu fatto valere il principio “too big to fail”, ossia evitare di lasciar fallire istituzioni finanziarie così grandi che avrebbero comportato il rischio di crisi sistemiche. Ancora agli inizi di settembre 2008, negli Usa, fu “nazionalizzato” Aig (un gigantesco istitumento delle quote distributive (che avevano causato il deterioramento del benessere, relativo ed in certi casi assoluto, dei lavoratori meno qualificati: cfr. par. 14.3). L’ipotesi di una politica monetaria “endogena” rispetto alla distribuzione del reddito era stata avanzata da STIGLITZ, FITOUSSI (2009). 6 Si stima che rappresentassero almeno il 20% dei mutui concessi negli Usa negli anni 2004-2007. 7 Va inoltre segnalato lo sbilanciamento della struttura per scadenza delle posizioni debitorie sul breve periodo, che si aggiungeva all’aumentato rapporto tra debiti ed asset tipico delle fasi espansive (la “fragilità finanziaria” di MINSKY, 2009). Anche l’“acceleratore finanziario” studiato da BERNANKE et al. (1998) fungeva da meccanismo di amplificazione degli shock (dai fattori finanziari a quelli reali). 8 I prodotti finanziari “strutturati” contengono diverse quote di rischio proveniente da titoli differenti, messi insieme attraverso operazioni di “cartolarizzazione”. Alcuni “derivati” erano trattati “over-the-counter” (otc), ossia su mercati non regolamentati; un altro problema rilevante era l'incompletezza informativa circa l’effettiva rischiosità degli strumenti finanziari più innovativi. 9 Tra i grandi gruppi creditizi mondiali la banca d’affari Bear Stearns ed il gruppo bancario Bnp Paribas evidenziarono situazioni di crisi già nell’estate 2007; nello stesso anno si segnalarono le perdite annunciate da grandi gruppi come UBS, Citygroup e Merryl Lynch. Nel febbraio 2008 ci fu il salvataggio della Northern Rock da parte del governo inglese, a seguito di una iniziale “corsa agli sportelli”.

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

379

to assicurativo) e furono “commissariate” Fannie Mae e Freddie Mac (due grandi istituzioni del credito ipotecario). Invece, pochi giorni dopo le autorità americane decisero (forse per evitare di continuare ad inviare messaggi distorti ai mercati) di lasciar fallire la Lehman Brothers, una storica società specializzata nello “investment banking”, la cui fondazione risaliva a metà ’800. La fiducia tra gli operatori subito crollò a tutti i livelli, con preoccupanti effetti di contagio anche all’economia internazionale. Gli scambi sui mercati interbancari si arrestarono 10. Si registrarono rovinose cadute sulle borse mondiali, le cui perdite arrivarono fino a 2/3 dai massimi precedenti (estate 2007) e furono ancora maggiori nel settore bancario; dopo il minimo della primavera 2009 ci fu sulle borse mondiali, nonostante un’accentuata volatilità, una prevalente tendenza al rialzo (cfr. Fig. 19.1) 11. Il crollo della fiducia, innanzi tutto tra le banche e gli operatori finanziari, causò non solo un aumento dei tassi d’interesse (interbancari) ma anche un ristagno della liquidità, ossia fenomeni di restrizione del credito da parte delle banche (credit crunch). Le banche tendevano a restare liquide e non prestare più a nessuno: ben presto ne avrebbero patito le conseguenze anche le imprese produttive e l’economia reale. Figura 19.1. – Andamenti degli indici azionari banche

intero mercato 160

160

USA

Giappone

140

140

Regno Unito

Area euro

120

120

100

100

80

80

60

60

40

40

20

20

0

0 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013 ‘14

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013 ‘14

Fonte: Thomson Reuters. Gli indici considerati per l’intero mercato sono il Dax30 (Germania), il Cac40 (Francia), l’Ibex35 (Spagna) e il Ftse Mib (Italia), mentre per il settore bancario sono gli indici Ftse Banks dei rispettivi paesi.

19.2. La propagazione della crisi e la Grande Recessione I canali attraverso cui la crisi finanziaria divenne presto crisi dell’economia reale sono diversi 12: (i) il già citato credit crunch, per cui le imprese riscontravano crescenti difficoltà a farsi 10 In un momento di forte instabilità gli agenti tendono a perdere la fiducia nelle controparti, poiché aumenta la percezione del rischio associato alle operazioni finanziarie; ad esempio, aumenta la probabilità che il creditore associa alla possibilità di un mancato rimborso del prestito da parte del debitore; ciò si verificò anche nel caso dei rapporti di credito e debito tra le stesse banche, ossia nel mercato interbancario (IMPENNA, 2009). 11 Dalla Fig. 19.1 emerge l’anomalia italiana: non solo il crollo iniziale (fino a marzo 2009) fu più profondo alla Borsa di Milano che in altre borse, ma la successiva ripresa è stata molto più contenuta. Infatti a fine 2012 molte borse mondiali avevano recuperato il picco pre-crisi (superandolo nel caso degli Usa, restando un poco al di sotto in alcuni paesi europei); invece in Italia l’indice azionario era ancora inferiore di oltre il 50% ai livelli pre-crisi. Dati più aggiornati mostrano che nel periodo tra inizio 2008 e inizio 2017 la borsa americana ha raddoppiato il suo valore (nonostante la caduta iniziale), quelle europee sono tornate sopra i livelli di partenza (di circa il 30%, il 20% e il 15% quelle tedesca, inglese e francese rispettivamente), solo quella italiana era ancora sotto (di oltre un quarto). 12 Seguiamo qui l’interpretazione prevalente secondo cui la crisi era almeno all’inizio un fenomeno ciclico

380

Le politiche economiche nell’Eurozona

concedere (o confermare) prestiti dalle banche (causando il blocco degli investimenti ed in molti casi anche carenza di liquidità per la gestione corrente); (ii) effetti ricchezza negativi, dovuti alla perdita di valore di azioni ed obbligazioni (con conseguente freno ai consumi); (iii) effetti aspettative perversi, per cui in un clima d’incertezza famiglie ed imprese rinviavano gli acquisti; (iv) la generalizzata preferenza per la liquidità, in un contesto di avversione al rischio; (v) non appena la produzione cominciò a restringersi, la contrazione della domanda si propagò tra tutti i paesi attraverso il commercio mondiale. Iniziò così quella che è stata chiamata Grande Recessione, subito confrontata 13 con la Grande Depressione degli anni ’30 (cfr. par. 4.3). In effetti una caduta così intensa e generalizzata dell’attività produttiva non si riscontrava nel mondo da circa otto decenni. Le analisi comparate evidenziano che per intensità e rapidità della caduta – non solo degli indici azionari ma anche di attività reali come il commercio – la crisi recente è stata più grave rispetto a quella degli anni ’30; come si nota dalla Tab. 19.1, il Pil reale subì nel 2009 una contrazione nei principali paesi compresa tra il 3% ed il 6%: è una entità di contrazione mai riscontata nella maggior parte dei paesi in tutto il dopoguerra. Tabella 19.1. – Tassi di crescita del Pil reale 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018*

Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Portogallo Eurozona

3,3 5,2 3,5 3,8 2,4 1,5 2,5 3,1

1,1 –3,0 –0,4 1,1 0,2 –1,0 0,2 0,5

–5,6 –6,4 –4,4 –3,6 –2,9 –5,5 –3,0 –4,5

4,1 –0,3 –5,4 0,0 2,0 1,7 1,9 2,0

3,6 2,8 –8,9 –0,6 2,1 0,6 –1,8 1,6

0,4 –0,3 –6,6 –2,1 0,3 –2,3 –3,3 –0,7

0,1 0,2 –3,9 –1,2 0,3 –1,9 –1,4 –0,5

2,2 8,8 0,7 1,4 1,0 0,1 0,9 1,4

1,7 25,1 –0,4 3,6 1,1 0,9 1,8 2,1

2,2 5,0 –0,2 3,2 1,2 1,1 1,9 1,9

2,2 7,2 1,5 3,0 2,2 1,6 2,8 2,4

1,7 7,8 2,0 2,6 1,7 1,1 2,2 2,1

Regno Unito UE

2,6

–0,3

–4,3

1,9

1,6

0,7

1,7

2,9

2,3

1,8

1,7

1,3

3,1

0,5

–4,4

2,1

1,7

–0,4

0,0

1,8

2,3

2,0

2,4

2,1

Stati Uniti Giappone

1,8 2,2

–0,3 –1,0

–2,8 –5,5

2,5 4,7

1,6 –0,5

2,3 1,8

2,2 1,6

2,5 0,4

2,9 1,4

1,6 1,0

2,2 1,7

2,9 1,1

Nota: * i dati 2018 sono previsioni. Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018).

Tuttavia anche la ripresa è stata più rapida (sempre rispetto agli anni ’30), ripresa riscontrabile già nella seconda metà del 2009 in alcuni paesi. Questo risultato fu conseguito grazie alle pronte risposte di politica economica (come vedremo nel prossimo paragrafo); solo nell’Eurozona, a causa della successiva crisi dei debiti sovrani, la crisi economico-finanziaria si è trascinata determinato da cause finanziarie (propensione al rischio, speculazione eccessiva, comportamento degli operatori e regolamentazione dei mercati finanziari, etc.) ed effetti reali (recessione economica, crollo degli scambi commerciali, etc.). Ci sono interpretazioni alternative che attribuiscono la portata sistemica della crisi a cause reali (globalizzazione produttiva e finanziaria, salari reali e domanda aggregata, innovazione tecnologica e dinamica settoriale, etc.) e ne considerano gli effetti finanziari come la manifestazione più apparente. Per esempio, la diminuzione della quota del reddito nazionale che va ai salari (cfr. cap. 13) può aver causato una riduzione dei consumi e, conseguentemente, una carenza di “domanda effettiva”. 13 Un primo confronto fu svolto – sulla base di svariati indicatori macroeconomici – da EICHENGREEN, O’ROURKE (2010); si veda anche EICHENGREEN (2015).

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

381

fino al 2014, con ripetute o continue recessioni, in uno scenario di sostanziale stagnazione. È significativo osservare che, pur essendo la crisi partita dagli Usa, i paesi con la più profonda recessione nel 2009 furono Giappone, Germania ed Italia (oltre a Regno Unito, Irlanda e, al di fuori dell’UE, Russia): si tratta delle maggiori economie esportatrici, una conferma questa di quanto abbia inciso la propagazione attraverso il commercio mondiale 14. I paesi emergenti, in primis Cina e India, tuttavia subirono solo una lieve decelerazione nella loro impetuosa crescita. Oltre al Pil, la Grande Recessione interessò diverse altre macrovariabili quali la produzione industriale, le componenti della spesa aggregata (consumi ed ancor più investimenti), l’occupazione ed il livello dei prezzi. Riguardo ai prezzi, una deflazione vera e propria si presentò in alcuni paesi europei nei mesi centrali del 2009. Per quanto riguarda gli effetti sul mercato del lavoro, la disoccupazione 15 aumentò quasi ovunque, ma gli effetti furono più o meno intensi e rapidi in funzione delle diverse istituzioni del mercato del lavoro (cfr. Tab. 19.2 e par. 6.8): (i) nei paesi più flessibili (Usa, Regno Unito, Irlanda, Spagna) ci furono forti aumenti immediati; (ii) nei paesi più rigidi l’aumento fu inizialmente meno forte, grazie anche a meccanismi di flessibilità “interna” alle imprese (come l’aggiustamento dell’orario di lavoro e le pratiche di “labour-hoarding”) e/o la presenza di sistemi di ammortizzatori sociali 16; in questo tipo di paesi erano però maggiori i rischi di persistenza e di una crescente disoccupazione strutturale. Tabella 19.2. – Tassi di disoccupazione 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018*

Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Portogallo Eurozona

8,5 4,7 8,4 8,2 8,0 6,1 8,9 7,5

8,5 6,4 7,8 11,3 7,4 6,7 8,5 7,5

7,8 12,0 9,6 17,9 9,1 7,8 10,6 9,6

7,1 13,9 12,7 19,9 9,3 8,4 12,0 10,2

5,8 14,7 17,9 21,4 9,2 8,4 12,9 10,1

5,4 14,7 24,5 24,8 9,8 10,7 15,8 11,3

5,2 13,1 27,5 26,1 10,3 12,2 16,4 12,0

5,0 11,9 26,5 24,5 10,3 12,7 14,1 11,6

4,6 10,0 24,9 22,1 10,4 11,9 12,6 10,9

4,1 8,4 23,6 19,6 10,1 11,7 11,2 10,0

3,8 6,7 21,5 17,2 9,4 11,2 9,0 9,1

3,5 5,6 19,6 15,6 9,0 10,7 7,1 8,4

Regno Unito UE

5,3

5,6

7,6

7,8

8,0

7,9

7,6

6,1

5,3

4,8

4,4

4,3

7,2

7,0

8,9

9,6

9,6

10,4

10,8

10,2

9,4

8,6

7,6

6,9

Stati Uniti Giappone

4,6 3,9

5,8 4,0

9,3 5,1

9,6 5,1

8,9 4,6

8,1 4,3

7,4 4,0

6,2 3,6

5,3 3,4

4,9 3,1

4,4 2,8

3,9 2,7

Nota: * i dati 2018 sono previsioni. Fonte: European Commission (European Economic Forecast, Autunm 2018). 14 Commercio che subì una contrazione media nel 2009 attorno al 10% (ma del 16% nei 12 mesi fino all’estate 2009); si sottolinea che dalla seconda guerra mondiale il commercio mondiale non si era mai ridotto. 15 Ovviamente l’occupazione diminuì, ma anche questa volta la correlazione tra le due variabili – occupazione e disoccupazione – non era perfetta. In paesi come l’Italia la disoccupazione non aumentò fortemente all’inizio della crisi per la contrazione dell’offerta di lavoro (fenomeno dei “lavoratori scoraggiati”) nonché per la riduzione dell’orario di lavoro volta a difendere i livelli occupazionali (in presenza di forti cali delle vendite e della produzione); col passare del tempo, quando magari a perdere il lavoro era lo stesso capofamiglia, tornò ad aumentare l’offerta (ad esempio da parte di moglie, figli, etc.) e quindi aumentò la disoccupazione. 16 Come la Cig in Italia; in questo paese la disoccupazione aumentò gradualmente negli anni, raggiungendo tuttavia il 13% nel 2014 e manifestando fenomeni di persistenza. Per confronto, anche negli Usa il tasso di disoccupazione raddoppiò, venendo a superare il 10%, ma poi ritornò sui valori iniziali. L’unico paese che vide la disoccupazione diminuire anche negli anni di crisi è la Germania.

382

Le politiche economiche nell’Eurozona

19.3. Le risposte di politica economica nei vari paesi del mondo Diversamente dalla Grande Depressione degli anni ’30, la risposta iniziale di politica economica alla crisi finanziaria fu piuttosto efficace sul piano monetario e fiscale. Inoltre non furono commessi errori quali il ritorno a pratiche protezionistiche che dopo la crisi del 1929 contribuirono a deprimere l’economia mondiale. Già a partire dagli ultimi mesi del 2008 e poi soprattutto nel 2009, l’intervento pubblico – in particolare di banche centrali e governi – riuscì a tamponare gli effetti recessivi, anche se a costo di un enorme aumento della liquidità da parte delle banche centrali e di forti incrementi dei deficit e debiti pubblici. Possiamo riassumere i principali tipi di risposta nei seguenti punti: i. ii. iii. iv.

salvataggi bancari; politiche monetarie accomodanti ed operazioni non convenzionali; stimoli fiscali; tentativi di riforma del sistema finanziario internazionale.

Naturalmente non consideriamo qui le risposte delle istituzioni europee alla crisi dei debiti sovrani, che meritano una trattazione separata (cfr. par. 19.5). Anche per le politiche al punto (iv) facciamo un rinvio: abbiamo già esposto i tentativi di riforma del sistema finanziario a livello mondiale trattando di G-20 (nel par. 12.5), ribadendo peraltro che i risultati sono stati – nonostante i numerosi vertici convocati – alquanto inferiori rispetto alle aspettative (si veda anche EICHENGREEN, BOKYEONG, 2015) 17. I sostegni alle banche riguardarono immissioni dirette di denaro pubblico nei bilanci delle banche, garanzie concesse a loro (o più spesso ai depositanti), acquisti di titoli da loro posseduti (inclusi quelli “tossici”). In alcuni casi, si fece ricorso alla nazionalizzazione (ad esempio nel Regno Unito con la Northern Rock). Negli Stati Uniti, Paulson (segretario al Tesoro dell’amministrazione Bush) presentò già nell’ottobre 2008 un piano (che prese il suo nome), che prevedeva un esborso iniziale quantificabile attorno ai 700 mld. di dollari incentrato sull’acquisto da parte del Tesoro di “titoli spazzatura” dalle banche e dalle società finanziarie. In aggiunta, prevedeva già 150 mld. di tagli fiscali per sostenere l’economica. Anche nell’UE vi sono stati numerosi salvataggi bancari. Si stima che gli interventi complessivi ammontassero ad oltre 1200 mld. di euro (circa 10% del Pil), però solo in parte consistenti in ricapitalizzazioni vere e proprie, più spesso garanzie o linee di credito. Nel Regno Unito, dopo la Northern Rock, si intervenne a sostegno della Royal Bank of Scotland e di altri istituti di credito. Salvataggi furono fatti anche in Francia e nel Benelux, soprattutto a favore dei gruppi bancari Dexia e Fortis. In Germania, fu nazionalizzata l’Hypo Real Estate (colosso dei mutui ipotecari) ed altre tre banche. Gli interventi successivi riguardarono l’Irlanda (con ingenti aiuti pari al 15% del Pil), la Spagna e Cipro. Salvataggi espliciti non furono fatti in Italia in questo periodo 18; la mancanza di interventi 17 Non si è nemmeno riusciti ad introdurre efficaci regolamentazioni dei movimenti di capitale più speculativi o meno trasparenti o strumenti fiscali disincentivanti delle transazioni a brevissimo termine, come la Tobin tax. Perfino la lotta ai paradisi fiscali ha portato limitati successi. 18 I “Tremonti Bond” furono introdotti nel febbraio 2009: si trattava di obbligazioni bancarie speciali, emesse dagli istituti di credito quotati e sottoscritte dal Ministero dell’Economia, con l’obiettivo di rafforzare il capitale di vigilanza (Core Tier 1, che indica la solidità patrimoniale). Questa specie di finanziamento alle banche avrebbe dovuto favorire la concessione di prestiti a famiglie ed imprese. Lo stanziamento previsto era di 10-12 mld. di euro, ma pochissime banche aderirono (forse per i tassi d’interesse applicati, pari al 7,5-8,5%).

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iniziali e la seconda recessione (2012-2014), che provocò un forte aumento delle sofferenze bancarie, rese il nostro sistema bancario e creditizio molto fragile, con conseguenze che si sono estese nel tempo fino ad oggi 19. Un altro handicap delle nostre banche è la forte esposizione nei confronti del debito sovrano italiano, per cui tensioni sui mercati finanziari (ad esempio quando aumenta lo spread) si riflettono in rovinose cadute dei valori azionari dei nostri principali istituti di credito (come avvenuto di nuovo nel 2018). Il caso irlandese è pure emblematico dell’intreccio perverso tra debito privato e debito pubblico. Il debito pubblico era bassissimo, ma il paese fu colpito dallo scoppio della bolla immobiliare ed in seguito dal rischio di fallimento di molte banche private. Alle banche fu quindi accordata piena garanzia pubblica e tre istituti di maggiori dimensioni (Anglo Irish, Irish Nationwide, Ebs) furono nazionalizzati, facendo esplodere il disavanzo e il debito pubblico 20. Gli interventi di politica monetaria furono almeno altrettanto tempestivi: molte misure sono già state illustrate nel cap. 17. I tassi di interesse di riferimento furono quasi azzerati dalle principali banche centrali del mondo ed i tassi d’interesse reali divennero negativi. In aggiunta alla politica dei tassi, ci fu un aumento generalizzato della quantità di moneta messa a disposizione dei mercati (Quantitative easing), in particolare dalla Fed. In seguito misure non convenzionali furono adottate anche dalla Bce (incluso il QE). Consapevoli che in situazioni di grande recessione e di tassi d’interesse quasi nulli (trappola della liquidità) la politica monetaria perde efficacia, un altro strumento di politica economica è stato l’ampio utilizzo della politica fiscale da parte dei vari governi. Non solo essi lasciarono pienamente operare gli stabilizzatori automatici, ma via via che la crisi si propagava all’economia reale (nel corso del 2009) i governi intervennero con pacchetti di stimolo fiscale 21. Negli Usa, il nuovo presidente Obama fece approvare già nel 2009 un pacchetto di stimolo biennale da quasi 800 mld. di dollari, incentrato su progetti di carattere infrastrutturale, a favore dello stato sociale (istruzione e sanità), a sostegno delle energie rinnovabili nonché per la riduzione della pressione fiscale (circa un terzo della manovra complessiva). Manovre fiscali espansive furono adottate in Giappone, Germania, Spagna, Francia e Regno Unito (nell’ordine secondo l’entità della manovra). In Italia gli interventi furono trascurabili, anche a causa dell’elevato debito pubblico accumulato già prima della crisi; consistevano in modesti alleggerimenti fiscali o spese di tipo sociale. L’effetto di queste misure fiscali discrezionali, che si aggiungevano all’azione degli stabilizzatori automatici ed all’effetto puramente aritmetico della recessione (che riduce i denominatori dei rapporti), fu l’aumento immediato dei rapporti deficit/Pil e l’incremento più graduale ma persistente dei rapporti debito/Pil (come abbiamo illustrato nel par. 18.3). 19 Oltre tutto dal 2015, con l’avvio della normativa sul “bail-in”, gli aiuti di Stato a sostegno delle banche sono molto più difficili (cfr. par. 17.7). Comunque nel 2016 c’è stato un problematico salvataggio di una grande banca come Mps, mentre poco prima alcune banche di minori dimensioni erano fallite, con perdite addossate anche a numerosi piccoli risparmiatori (per la vicenda delle “obbligazioni subordinate”). 20 Il disavanzo salì all’incredibile cifra del 30% del Pil nel 2010; il debito pubblico esplose dal 25% del Pil nel 2007 al 117% nel 2012. 21 Gli interventi furono di entità diversa a seconda della gravità dei problemi e anche delle situazioni iniziali dei conti pubblici. Stimoli fiscali pari a quasi il 2% del Pil furono adottati negli Usa, l’1,5% nel Regno Unito e in Germania, 0,5% in Francia, quasi trascurabili in Italia. Quasi tutte le manovre erano incentrate su tagli fiscali, in alcuni casi aumenti di spese o dei sostegni a specifici settori (quello immobiliare in Spagna, le imprese manifatturiere in Germania).

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Grazie alle politiche appena ricordate, l’economia mondiale riuscì ad uscire abbastanza in fretta, tra la fine del 2009 ed il 2010, dalla crisi e la ripresa si intensificò nel biennio successivo. Smentendo le ipotesi di una double-dip recession (ROUBINI, 2009), la ripresa economica acquisì vigore soprattutto negli Usa. Tra i paesi europei, la Germania era quello che pareva essersi ripreso meglio dalla recessione con un ritmo di crescita apprezzabile fino al 2013 e una riduzione progressiva del tasso di disoccupazione; nell’Eurozona, però, un nuovo tipo di crisi si palesò con l’esplosione del “caso Grecia” a fine 2009 (come vedremo nel prossimo paragrafo). Dopo la Grande Recessione, i precedenti “global imbalances” hanno cominciato a diminuire (cfr. LANE, MILESI-FERRETTI, 2014). Negli Usa sono diminuiti i consumi, è aumentato un poco il risparmio, sono riprese le esportazioni. In Cina il forte surplus commerciale si è in parte ridotto e le stesse autorità hanno cominciato ad attribuire più importanza ai consumi ed alla domanda interna. I paesi periferici dell’UE hanno in parte recuperato competitività – grazie alla cosiddetta “svalutazione interna” (contrazione di prezzi e salari) – e sono arrivati a situazioni di equilibrio nella bilancia dei pagamenti (o disavanzi molto minori), pur permanendo in una situazione complessiva di crisi (per i motivi che ora illustreremo).

19.4. L’inizio della crisi dell’Eurozona e le caratteristiche dei “Piigs” In Europa, in un contesto di ripresa debole, le finanze pubbliche erano già peggiorate, a causa degli effetti della Grande Recessione, con aumenti di disavanzi e debiti (come mostrato attraverso le tabelle del cap. 18), ma i debiti sembravano ancora sostenibili. A far precipitare la situazione fu la rivelazione, ad ottobre 2009, da parte del nuovo premier greco (Papandreou) che il vero disavanzo di quel paese era oltre il 12% sul Pil, il doppio di quello prima annunciato (poi ulteriormente rivisto al rialzo da Eurostat). Accanto all’evidenza di finanze pubbliche deteriorate, la notizia della precedente falsificazione dei conti determinò un crollo di fiducia sui mercati finanziari 22. Lo spread (in particolare sui titoli decennali, che è quello più spesso considerato) rispetto ai bund tedeschi iniziò subito a salire. Anche gli indici dei credit default swap, che misurano le probabilità di default dei paesi sovrani, cominciarono ad aumentare, prima per la Grecia poi per altri paesi periferici; le probabilità di default apparivano correlate tra i diversi paesi, a causa del nervosismo sui mercati e del rischio di contagio. D’altro canto, le agenzie di rating (le più importanti sono le americane Moody’s e Standard and Poor’s, la francese Fitch e la canadese Dbrs) in certi casi anticipavano le tendenze dei mercati – attraverso il declassamento dei titoli dei vari paesi – ma in altri casi ratificavano dinamiche già in corso. La Fig. 19.2 evidenzia l’andamento dei tassi d’interesse sui titoli di stato a lungo termine nei paesi periferici dell’Eurozona e in Germania per il periodo da gennaio 2008 a novembre 2018. Si noti come, dopo oltre un decennio di tassi molto simili (si veda la spiegazione nel par. 18.1), nel corso del 2010 i tassi di interesse di Grecia, Irlanda e Portogallo (che, come vedremo, uno dopo l’altro entrarono in crisi del debito sovrano) aumentarono considerevolmente, con un effetto contagio che interessò Spagna e Italia, mentre il tasso tedesco diminuì (anche per i forti acquisti connessi al “fly to quality”). Successivamente, dalla fine del 2012, i tassi si ridussero, soprattutto in seguito agli interventi e annunci della Bce di Draghi (cfr. cap. 17); so22 Sullo sviluppo della nuova crisi, si vedano anche REINHART, ROGOFF (2011), COENEN et al. (2012), MARELLI, SIGNORELLI (2016a, 2017a, 2017b).

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lo i tassi della Grecia risalirono significativamente nel corso del 2015. In una prospettiva storica, è bene peraltro ricordare che se dovessimo fare un confronto con la situazione di inizio anni ’90, precedente alla convergenza verso l’euro, si osserverebbero tassi e spread nettamente più alti quando c’erano le valute nazionali, inclusa la lira italiana (Cfr. MARELLI, SIGNORELLI, 2018) 23. Figura 19.2. – Tassi d’interesse sui titoli di stato decennali (gennaio 2008-novembre 2018) 30 Grecia Italia

25

Irlanda Spagna

20

Portogallo Germania

15 10 5 0 2008 g

2009 g

2010 g

2011 g

2012 g

2013 g

2014 g

2015 g

2016 g

2017 g

2018 g

2018 n

Fonte: Eurostat (tassi di interesse – mensili su base annua – sui titoli di stato a lungo termine, criterio di Maastricht).

In generale, si può tuttavia affermare che dopo la crisi è mutata la percezione del rischio rispetto al decennio precedente e c’è stata una “iper-reazione” nei mercati; il problema è che i risparmiatori non sono sempre in grado di valutare il rischio del debitore. A lungo i mercati avevano sottovalutato il rischio di default, con una forte convergenza dei tassi d’interesse, anche a lungo termine (cfr. par. 18.1). A seguito della crisi finanziaria del 2008-2009, gli spread cominciarono ad ampliarsi; iniziava a mutare la percezione del rischio relativa a differenti tipi di attività finanziarie (ad esempio dei debiti sovrani rispetto alle obbligazioni societarie) ed a diversi paesi. Il contagio quindi si propagò dalla Grecia ad altri paesi periferici dell’Eurozona, i cosiddetti “Pigs” 24. Questi Piigs (così ridenominati perché oltre a Portogallo, Grecia e Spagna sono venu23 Infatti, durante la crisi del 1992, quella dello Sme (cfr. cap. 16), quando c’erano titoli denominati in lire italiane ed in marchi tedeschi (invece che in euro), lo spread rispetto ai titoli tedeschi raggiunse i 769 punti base (includendo anche le aspettative di svalutazione della lira). Nei primi anni di vita dell’euro, il differenziale rispetto ai bund tedeschi era stato in media di 24 punti base (cioè 0,24%), poi risalì a 160 punti base già nel gennaio 2009, nel pieno della tempesta finanziaria globale, e raggiunse punte di quasi 600 a fine 2011. La Fig. 19.2 evidenzia che, dopo la progressiva riduzione negli anni 2013-2017 il tasso di interesse sui titoli di stato italiani ha subito una brusca risalita nel corso del 2018, salvo poi assestarsi dal mese di dicembre. 24 Il termine aveva cominciato a circolare tra media ed osservatori inglesi, con intento evidentemente denigratorio (dato il significato della parola inglese), dove la “i” stava per Italia, ricomprendendo così tutti i paesi del sud Europa. Quando la crisi colpì a fine 2010 il paese celtico, l’Irlanda prese il posto dell’Italia; poi l’anno dopo si cominciò ad usare la doppia “i” quando il contagio arrivò anche in Italia.

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ti a ricomprendere sia l’Irlanda che l’Italia) avevano particolarità comuni ma anche caratteristiche differenti. In tutti erano peggiorate le finanze pubbliche ma in alcuni più a causa dei disavanzi in altri per l’alto livello del debito. Similitudini riguardavano i problemi dell’economia reale: inefficienze, bassa produttività, scarsa competitività, disavanzi delle partite correnti, economia sommersa, evasione fiscale, corruzione (problemi diffusi specie nel Sud Europa). Possiamo sintetizzare nei seguenti punti le specificità dei singoli paesi: – il problema dei conti truccati e della finanza creativa era presente solo in Grecia (poi si scoprì che la faccenda riguardava anche il momento dell’ingresso di quel paese nell’euro nel 2001); – solo in Italia e Grecia c’era un elevato debito pubblico di partenza (precedente alla crisi); anzi in Irlanda e Spagna era bassissimo; in Italia, era però bassa l’incidenza di debito pubblico collocato all’estero (meno della metà) 25; – c’erano differenti potenzialità di crescita (prima della crisi): l’Irlanda era detta la “tigre celtica” per la sua notevole dinamica ed anche la Spagna cresceva a ritmi intensi (in entrambi i paesi trainata anche dal settore edile) 26; invece il Portogallo e soprattutto l’Italia erano agli ultimi posti nell’UE; – la crisi nei settori bancario ed immobiliare riguardò più alcuni paesi – come l’Irlanda e la Spagna 27 – dove la crescita precedente alla crisi era in un certo senso “drogata”; – il debito del settore privato (famiglie e imprese) era molto elevato in alcuni paesi (superiore al 200% del Pil in Irlanda, Portogallo, Spagna), basso in altri (inferiore al 100% in Italia e Grecia). A questo riguardo, va sottolineato che quella inizialmente definita in letteratura come “crisi dei debiti sovrani” è forse più opportuno definirla “crisi dell’Eurozona” 28, perché trovava in realtà alimento in squilibri iniziali molto più profondi nel settore privato, ossia nella forte crescita dei debiti privati, nonché nell’esposizione delle banche – anche di Germania, Francia ed altri paesi core – nei confronti dei paesi periferici e più vulnerabili; l’aumento dei debiti pubblici sovrani fu in molti paesi più la conseguenza che la causa della crisi. Anzi, i paesi che presentavano i più alti debiti pubblici sul Pil erano anche gli stessi in cui i tassi di risparmio delle famiglie erano i più alti e l’indebitamento privato più basso. In tale contesto, durante le crisi subitanee uscite di capitali si potevano verificare, determinando ampi squilibri nel sistema europeo dei pagamenti (cfr. ACOCELLA, 2016, BEKER, MORO, 2016). Molti studiosi considerano gli squilibri pre-esistenti nelle partite correnti e nelle posizioni debitorie/creditorie verso l’estero come la causa principale della crisi dell’euro (cfr. BALDWIN, GIAVAZZI, 2015). Naturalmente, la Grande Recessione ha poi fatto aumentare anche i debiti pubblici di tutti i paesi. Il contagio tra i vari Piigs si verificò anche a causa dell’elevata integrazione finanziaria nel25 Tuttavia, tale quota era salita gradualmente da circa il 23% del 1997 fino al 44% di fine 2010, per poi scendere al 39% a fine 2011 ed al 37% a febbraio 2012. Quest’incidenza non ha subito grosse variazioni nei sei anni successivi. 26 Alcuni paesi periferici crescevano intensamente anche grazie ai bassi tassi d’interesse reali (cfr. par. 17.5). La considerevole crescita della Spagna portò questo paese a superare nel 2007 l’Italia anche per reddito pro-capite. 27 In certi paesi come la Spagna le banche nazionali erano anche molto esposte verso gli istituti di credito di altri Piigs (come il Portogallo, similmente con riferimento alla Grecia rispetto a Cipro, altro paese soggetto in seguito ad attacchi speculativi). 28 Oppure “crisi dell’euro” (cfr. DELLA POSTA, 2018).

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l’Eurozona, della forte esposizione delle banche verso gli istituti di credito di altri paesi, della diffusione della sfiducia. Esso fu inoltre accentuato dalle mancate od errate risposte di politica economica da parte dell’UE (come illustreremo nel prossimo paragrafo).

19.5. L’evolvere della crisi e le incerte risposte dell’UE Il contagio ebbe luogo anche a causa di inadeguate, incerte o tardive risposte di politica economica da parte delle istituzioni dell’Ue. Una prima reazione fu quella inerente il “private sector involvement” 29, ossia di fare comunque partecipare i privati alle perdite nel caso di default o di ristrutturazioni del debito; in altre parole si ammetteva (per la prima volta in modo esplicito) la possibilità che un paese dell’Eurozona potesse fare default. Si trattava di una scelta comprensibile da certi punti di vista (ad esempio per evitare problemi di azzardo morale), ma presa nel pieno della crisi accelerò il contagio. Livelli elevati e crescenti di spread erano dovuti alla percezione che sui titoli dell’Eurozona stavano tornando due rischi 30: i. non solo il rischio di default, inerente alla presunta incapacità per un dato paese di rimborsare il proprio debito a scadenza; ii. ma anche quello connesso ad un cambiamento della valuta (analogo al rischio di svalutazione dello scenario pre-euro): per la prima volta dalla sua nascita, i mercati cominciavano a mettere in dubbio l’irreversibilità della moneta comune, paventando o la possibilità di un’uscita di singoli paesi dalla zona euro o addirittura di disintegrazione della stessa unione monetaria; questo rischio è stato chiamato rischio di ridenominazione valutaria. Grandi incertezze e spesso errori di comunicazione – con segnali contraddittori lanciati non solo dagli organismi Ue ma anche da alcuni governi, in primis quello tedesco – hanno fatto peggiorare le aspettative dei mercati. Nella primavera 2010, quando si capiva che la Grecia non riusciva a salvarsi da sola 31, gli interventi furono rinviati non solo per problemi giuridici (clausola di “no bail out” o divieto di salvataggi incluso nel Trattato di Maastricht) 32 od economici (rischio di favorire l’azzardo morale dei paesi aiutati, ossia incentivo a tenere comportamenti fiscalmente irresponsabili), ma anche per motivi politici (gli equilibri politici in Germania consigliarono di rinviare ogni decisione fino all’espletamento delle elezioni in alcuni lander tedeschi). Alla fine, l’aiuto concesso attraverso prestiti bilaterali alla Grecia, nei primi giorni di maggio, non calmò le acque ma anzi rese più accanita la speculazione internazionale 33. 29 Con la dichiarazione fatta a Deauville, nell’ottobre 2010, dalla cancelliera tedesca Merkel e dal presidente francese Sarkozy. 30 Si rivedano le trattazioni nel par. 11.2 e nel par. 18.1. 31 Escludendo la possibilità di monetizzazione del debito (impossibile nella Ume), si ricordi che un paese con elevato debito pubblico (soprattutto se con prevalenti scadenze brevi), in mancanza di avanzi di bilancio rilevanti, deve procedere frequentemente e per importi consistenti a nuove emissioni di titoli di debito soprattutto per poter rimborsare quelli che man mano giungono a scadenza (oltreché per coprire l’eventuale disavanzo corrente): ad esempio in una certa data giungono a scadenza i titoli semestrali emessi sei mesi prima, quelli annuali emessi un anno prima, quelli decennali emessi dieci anni prima e così via (ne deriva anche una rilevante importanza della strategia di gestione del debito per scadenze). La Grecia si trovò quasi improvvisamente nella sostanziale impossibilità di avere “accesso ai mercati” (primari) con nuove emissioni di debito pubblico che trovassero i necessari acquirenti (a tassi di rendimento sostenibili). 32 Secondo le interpretazioni prevalenti, ciò significa che uno stato membro non è tenuto ad aiutare un paese in difficoltà, anche se non è un esplicito divieto di intervento (ad esempio attraverso un accordo tra paesi). 33 Sembrava di rivivere l’esperienza del settembre 1992, all’apice della crisi dello Sme. Il piano di salvatag-

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Conseguentemente, il 9 maggio 2010 il Consiglio europeo decise l’istituzione di un Fondo per la stabilità finanziaria (Efsf) destinato ad intervenire in soccorso, tramite prestiti a tassi agevolati, ai paesi dell’Eurozona in difficoltà. Contemporaneamente la Bce decise, attraverso il Securities market program (Smp), l’acquisto di titoli sovrani sul mercato secondario, con operazioni congiunte di sterilizzazione al fine di evitare indesiderati aumenti dell’offerta di moneta (cfr. cap. 17). Le operazioni del Smp della Bce, ripresero nella seconda metà del 2011 a favore di Italia e Spagna, determinando un temporaneo raffreddamento degli spread (poi le operazioni cessarono alla fine dell’anno). Nei mesi successivi si cercò di definire meglio le caratteristiche e le modalità operative dell’Efsf, non senza ritardi a causa delle contrapposizioni tra i paesi membri dell’Eurozona sull’ammontare delle risorse impiegabili. Questo fondo 34 di durata triennale – quindi temporaneo – e per un importo di 750 mld. di euro era destinato a tutti i membri dell’Eurozona in difficoltà, previo uno stretto controllo del risanamento dei conti, attuato dalla cosiddetta “troika”, composta da Commissione europea, Bce e Fmi 35. Dopo la crisi della Grecia, per la quale si dovette comunque decidere una ristrutturazione del debito 36, furono quindi contagiati l’Irlanda a fine 2010 (questo paese aveva visto la crisi bancaria sistemica trasformarsi in una crisi del debito sovrano) ed il Portogallo all’inizio del 2011: entrambi i paesi accettarono, dopo alcune ritrosie e quando videro che i tassi sui loro titoli erano saliti a livelli insostenibili, il sostegno europeo (per importi pari a 85 mld. e 78 mld. di euro rispettivamente). In seguito, nell’estate del 2011 la speculazione si accanì contro la Spagna e soprattutto l’Italia. Questi due sono paesi (soprattutto il secondo) “too big to save” ma anche “too big to bail out”: ossia troppo grandi per essere salvati (per la limitatezza dei fondi salva-Stati) ed anche troppo grandi per essere lasciati fallire (per il contagio e l’effetto sistemico derivante). Lo spread italiano raddoppiò in poche settimane 37, toccando una punta massima di 575 punti base ai primi di novembre 2011, quando si verificò il fenomeno della inversione della curva dei rendimenti 38. La manovra di bilancio decisa a seguito della lettera congiunta di gio della Grecia consisteva in un prestito triennale da 110 mld. di euro (di cui 30 mld. del Fmi); il tasso del 5% era inferiore a quello di mercato sui titoli greci e gli aiuti erano condizionati ad una politica di effettivo risanamento dei conti. 34 Il fondo “European Financial Stability Facility” poteva concedere prestiti agli Stati che ne facevano richiesta (a tassi d’interesse agevolati, attorno al 5%) per un importo complessivo pari a 440 mld. di euro; più 60 mld. messi a disposizione dalla Commissione UE (attraverso lo “European Financial Stabilization Mechanism”) e 250 mld. del Fmi (al tasso di circa il 3%). La raccolta di fondi avveniva tramite il collocamento sui mercati internazionali degli Efsf-bond. 35 Nel frattempo, al di fuori dell’Eurozona, il Fmi era intervenuto in aiuto di altri paesi europei (Ungheria, Romania, Ucraina e, in misura minore, Lettonia, Islanda, Bielorussia, Georgia). 36 Una prima ristrutturazione del debito greco fu infatti realizzata nel febbraio 2012, previo accordo con il settore privato (che, tenuto pure conto dell’allungamento delle scadenze, sopportò un “haircut” complessivo di circa il 70% del valore nominale dei titoli). Contemporaneamente vi furono ulteriori richieste rivolte dall’UE al governo greco per il risanamento dei conti (condizione per nuovi prestiti). Il “caso Grecia” tornò d’attualità nel 2015, dopo la vittoria di Tsipras (lista Syriza) alle elezioni politiche e l’esito di un referendum, che respinse il piano dei creditori internazionali. Negli anni successivi, tuttavia, accomodamenti con la “troika” furono raggiunti e, nonostante il tracollo economico-sociale, la situazione cominciò a migliorare a partire dal 2016-2017. 37 Da valori attorno 200 punti base in primavera a circa 400 in agosto. Lo spread italiano venne a superare quello spagnolo per un periodo di circa mezz’anno (da agosto 2011 a febbraio 2012); poi ancora da fine 2013 fino ad oggi. 38 Non solo uno spread di 575 equivaleva a tassi nominali superiori al 7% sui titoli decennali, ma in quei

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Bce e Banca d’Italia al governo italiano (del mese di agosto) non era stata sufficiente a invertire le aspettative sulla sostenibilità del debito pubblico 39. Queste vicende causarono anche il cambio di governo (dall’ultimo governo Berlusconi al governo “tecnico” guidato da Monti). Intanto nel 2011 si decise l’istituzione di un meccanismo permanente, l’European Stability Mechanism (Esm). L’avvio era previsto per il 2013, ma poi si decise di anticipare l’inizio al luglio 2012 e di far convivere i due fondi (Efsf e Esm) per un anno. Per la sua introduzione fu predisposto un apposito Trattato internazionale (per integrare l’art. 136 del Trattato UE), Trattato poi ratificato dai Parlamenti nazionali. Tra i suoi obiettivi: (i) concedere prestiti condizionali ai paesi in difficoltà, (ii) acquistare titoli sovrani sul mercato primario o secondario, (iii) ricapitalizzare direttamente le banche 40. Anche in questo caso è prevista la cooperazione finanziaria del Fmi, con il conseguente importante ruolo svolto dalla “troika” per sorvegliare il risanamento dei conti dei paesi assistiti. Spesso venivano imposte ricette di “lacrime e sangue”, come appunto nel caso della Grecia: tagli drastici di spese pubbliche (incluse quelle per l’istruzione, la sanità, l’assistenza sociale), riduzioni di salari e pensioni, privatizzazioni, etc. L’aiuto finanziario era infatti condizionato all’adozione di un programma di aggiustamento macroeconomico e subordinato a preventivi test di sostenibilità; se l’esame si fosse concluso con una valutazione di insolvenza del paese, sarebbe stata necessaria la rinegoziazione del debito sul mercato con il coinvolgimento del settore privato (in linea con le prassi del Fmi). A questo fine, “clausole d’azione collettiva” sono previste a partire dal 2013 sui nuovi titoli di Stato emessi nella zona euro (con scadenza superiore ad un anno), per agevolare gli accordi tra debitori sovrani e loro creditori; clausole che impongono il rimborso del valore nominale del titolo di debito nella valuta originaria in cui era stato emesso. Il fondo 41 è gestito da un “board of governors”, ossia i ministri delle finanze dei paesi partecipanti. Per la concessione degli aiuti, come pure per le modalità dell’assistenza finanziaria, è necessaria l’unanimità 42. Tra gli interventi dell’Esm, c’è stata un’operazione nel 2012 a favore delle banche della Spagna (40 mld. di euro utilizzati, anche se ne erano stati messi a dispogiorni lo spread era addirittura più alto sulle scadenze più brevi (650 per quelle quinquennali e 700 per quelle biennali). Questo fenomeno della inversione della curva dei rendimenti è molto raro e si verifica ad esempio quando i mercati ritengono più probabile un default in tempi ravvicinati. 39 La manovra impostata a luglio (governo Berlusconi) rimandava il pareggio di bilancio al 2014; anche la manovra di settembre (successiva alla lettera Banca d’Italia-Bce) non era considerata una vera svolta. La situazione ai primi di novembre era così compromessa che al vertice del G-20 di Cannes Berlusconi accettò che il Fmi inviasse degli ispettori in Italia (pur non avendo mai chiesto aiuti finanziari). Il primo provvedimento del governo Monti, in carica da metà novembre, fu la legge “salva Italia”, incentrata su un’incisiva riforma delle pensioni, la cosiddetta “legge Fornero”, che, oltre ad aver prodotto effetti immediati sui mercati e consistenti risparmi di spesa per gli anni a venire, è stata criticata per aver creato i cosiddetti “esodati” (ossia lavoratori dimessisi o licenziati, sovente nell’ambito di “piani di ristrutturazione”, senza poter più usufruire della transizione diretta alla pensione a causa dei mutati requisiti di età e anzianità contributiva). 40 Decisione questa presa nel 2014. Per il futuro, la ricapitalizzazione diretta delle banche (di tipo sistemico) è prevista congiuntamente al nuovo sistema di risoluzione delle crisi bancarie (cfr. cap. 17). 41 La capacità finanziaria dell’Esm era di circa 500 mld. euro (che sale a 700 comprendendo i fondi residui dello Efsf). Parte di questi importi era da versare in contanti dai paesi partecipanti. Per il resto il fondo è finanziato da garanzie attivabili in caso di necessità. Anch’esso può emettere strumenti finanziari e titoli (come faceva l’Efsf). 42 Sebbene sia stata presentata una proposta che prevede che tali decisioni siano prese a maggioranza qualificata (85%).

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sizione 100 mld.); un’altra a marzo 2013 per salvare le banche di Cipro (ca. 10 mld.), con una equivalente perdita addossata ai depositanti (anche se nella configurazione finale dell’intervento sono stati esclusi i piccoli depositi). In conclusione, può essere opportuno rilevare che l’unico tra i paesi Piigs a non ricevere alcuna assistenza finanziaria dai fondi salva-Stati è stato proprio l’Italia, che anzi ha contribuito ai versamenti a tali fondi facendo così salire il debito pubblico lordo (per importi pari a oltre il 3% del Pil) 43.

19.6. L’impatto economico-sociale della doppia crisi L’approccio di politica economica seguito dalle istituzioni europee, dopo la crisi finanziaria globale e quella più specifica dell’Eurozona, è stato quello di procedere ad un rapido risanamento dei conti pubblici, non solo dei paesi assistiti ma di tutti i paesi dell’area euro, attraverso norme più strette a livello europeo come il Fiscal Compact (cfr. cap. 18). Non sono però stati questi vincoli più rigidi e nemmeno i fondi “salva stati” introdotti nel 20102012 a risolvere la crisi finanziaria. Anche dopo l’introduzione del fondo Esm, in Europa continuarono le critiche sull’inidoneità degli interventi dell’UE e, in particolare, sull’inadeguatezza di questi fondi, nel caso si fosse dovuto procedere al salvataggio di Spagna e soprattutto Italia. L’accusa spesso rivolta alle istituzioni UE è che le azioni sono state prese “too little too late”, ossia si sono adottati provvedimenti troppo limitati e troppo in ritardo rispetto alle necessità. D’altro canto, i paesi virtuosi, capeggiati dalla Germania, ritenevano di aver già assunto troppi rischi e di aver “pagato” un costo troppo elevato per aiutare i paesi in difficoltà 44. Certamente più decisivo per la discesa degli spread è stato il piano “Outright monetary transaction” della Bce avviato a settembre 2012, dopo l’impegno del suo Presidente a salvare l’euro ad ogni costo (cfr. par. 17.6). Come si nota dalla precedente Fig. 19.2, gli spread hanno avuto un andamento costantemente discendente da metà 2012, anche per paesi come Italia e Spagna che avevano toccato nuovi picchi nell’estate di quell’anno 45. Come abbiamo già rilevato nel cap. 17, se questi interventi della Bce sono stati efficaci per “salvare l’euro” non sono stati in grado di far ripartire l’economia europea in modo deciso ed omogeneo. Sta di fatto che la doppia crisi – finanziaria con la conseguente Grande Recessione (2008-2009) e dei debiti sovrani con una nuova recessione (2012-2013) – ha avuto un profondo impatto economico-sociale. Le politiche d’austerità hanno giocato un ruolo particolarmente restrittivo nel periodo di maggior crisi (anni 2010-2014), non consentendo un’efficace stabilizzazione anti-ciclica (come invece attuata negli Usa e diversi altri paesi fuori dall’Eurozona). 43 Nella Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NADEF) del 27 settembre 2018 si indica per il 2017 un debito al lordo dei sostegni pari al 131,2% del Pil mentre quello al netto dei sostegni era del 127,8%. 44 C’è stato anche un ricorso alla Corte costituzionale tedesca (di Karlsrhue), la cui sentenza, presa a settembre 2012, non ha rigettato il fondo, ma è stata accompagnata da condizioni piuttosto stringenti (quali un limite massimo di risorse finanziarie che la Germania avrebbe potuto sopportare). Un altro ricorso alla stessa Corte fu fatto riguardo al piano “Omt” della Bce (con successivo rinvio alla Corte di giustizia europea, con sentenza finale positiva arrivata a gennaio 2015). 45 Solo nel 2018 in Italia gli spread sono tornati fortemente a salire, per incertezze sulle politiche economiche avviate dal governo Conte, le divergenze tra i due principali partiti della coalizione (M5S e Lega) sugli obiettivi da conseguire, la scelta di lasciare aumentare il rapporto deficit/Pil (rispetto agli impegni precedentemente presi con la Commissione europea) e l’eventualità (comunque bassa stando alle dichiarazioni ufficiali dei membri del Governo) che l’Italia possa abbandonare l’euro.

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

391

I tassi di disoccupazione, aumentati velocemente in alcuni paesi UE già nel 2009-2010 (si veda la precedente Tab. 19.2), sono rimasti persistenti in alcuni paesi dell’area euro, specie in Grecia, Spagna, Italia. Molto preoccupante è stata la crescita e persistenza dei tassi di disoccupazione giovanile (cfr. Tab. 19.3) 46. Tabella 19.3. – Tassi di disoccupazione giovanile (15-24 anni) 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Portogallo Eurozona

11,8 9,2 22,7 18,1 19,5 20,4 21,4 15,6

10,4 13,5 21,9 24,5 19,0 21,2 21,6 16,1

11,1 24,5 25,7 37,7 23,6 25,3 25,3 20,7

9,8 28,1 33,0 41,5 23,3 27,9 28,2 21,4

8,5 29,6 44,7 46,2 22,7 29,2 30,2 21,3

8,0 30,8 55,3 52,9 24,4 35,3 38,0 23,6

7,8 26,7 58,3 55,5 24,9 40,0 38,1 24,4

7,7 23,4 52,4 53,2 24,2 42,7 34,7 23,8

7,2 20,2 49,8 48,3 24,7 40,3 32,0 22,4

7,1 16,8 47,3 44,4 24,6 37,8 28,2 20,9

6,8 14,4 43,6 38,6 22,3 34,7 23,8 18,8

Regno Unito UE

14,3 15,9

15,0 15,9

19,1 20,3

19,9 21,4

21,3 21,7

21,2 23,3

20,7 23,7

17,0 22,2

14,6 20,3

13,0 18,7

12,1 16,8

Stati Uniti Giappone

10,5 7,7

12,8 7,3

17,6 9,3

18,4 9,5

17,3 8,3

16,2 8,2

15,5 6,8

13,4 6,2

11,6 5,5

10,4 5,1

9,2 4,7

Fonte: Eurostat.

Quando molti giovani, inclusi quelli con le maggiori competenze e abilità, sono disoccupati o inattivi, oppure occupati ma con lavori precari e mal retribuiti, od ancora in fuga verso migliori opportunità occupazionali in altri paesi, si generano inevitabilmente frustrazioni, scontento e comunque malessere sociale. Inoltre, i tagli della spesa pubblica su alcune rilevanti categorie – quali la spesa per protezione sociale, salute, malattia e disabilità, per la stessa istruzione – hanno causato un peggioramento degli indici di disuguaglianza e di mobilità sociale, con conseguenze perfino sui tassi di natalità (cfr. C AMPIGLIO, 2016). Gli indici di povertà sono molto cresciuti dopo le crisi ed anche in questo caso hanno fatto registrare preoccupanti tendenze alla persistenza. Va sottolineato che tra tutti gli indicatori selezionati per il piano “Europa 2020”, quello che fa riscontrare il maggior fallimento – ossia mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati – è proprio quello inerente la lotta alla povertà. In un contesto in cui le grandi tendenze economiche – dall’impatto della globalizzazione alle conseguenze del progresso tecnico – determinavano già da tempo crescenti divaricazioni nella distribuzione dei redditi (cfr. cap. 14), la lunga crisi ha accentuato queste tendenze, causando non solo un’estensione della fascia di popolazione a rischio povertà ma anche un peggioramento del livello di benessere e delle condizioni di vita della classe media (si veda anche FADDA, TRIDICO, 2017). Perfino nella fase di ripresa economica (2014-2018), non solo l’Eurozona è cresciuta a ritmi più blandi rispetto agli Usa, ma è stata confermata la divaricazione tra le economie più di46 Anche l’indicatore “Neet”, ossia i giovani che non hanno occupazione e non sono inseriti in percorsi scolastici o di formazione, è fortemente peggiorato e quello italiano è il peggiore in tutta l’UE, con circa 1/4 dei giovani fra i 15 e i 29 anni in tale condizione. Si vedano anche MARELLI, SIGNORELLI (2016b, 2017c), BRUNO et al. (2017) e CAROLEO et al. (2018).

392

Le politiche economiche nell’Eurozona

namiche (come la Germania) e quelle periferiche dell’area euro. Si ricorda peraltro (come già osservato alla fine del cap. 18) che la Germania non ha svolto il ruolo di “locomotiva” dell’economia europea, attraverso un sostegno più spinto alla domanda interna, ciò che avrebbe potuto realizzare senza problemi 47. Nell’ultimo quinquennio divergenze si sono notate addirittura tra i “Piigs”. Irlanda e Spagna sono stati i primi paesi a riprendersi in modo deciso (recuperando il terreno perso dalla doppia crisi) 48; più recentemente il Portogallo ha evidenziato un apprezzabile vivacità (cfr. la precedente Tab. 19.1). Invece la Grecia, nonostante la ripresa dell’ultimo biennio, è ancora largamente (circa 28%) al di sotto dei livelli pre-crisi in termini di Pil reale; e purtroppo anche l’Italia, che ha un livello di prodotto ancora inferiore (oltre il 4% a fine 2018) a quello pre-crisi, può essere considerata il “grande malato” d’Europa 49. Italia e Grecia hanno avuto per tutto l’ultimo decennio output gap negativi; gli altri Piigs (e la stessa Francia) fino a poco fa. È una chiara indicazione di carenza di domanda aggregata. Oltretutto le procedure seguite dalla Commissione europea sottostimano il prodotto potenziale (cfr. MARELLI, SIGNORELLI, 2017, cap. 5) e contemporaneamente sovrastimano la disoccupazione strutturale, riducendo l’entità degli output gap stimati rispetto a quelli effettivi. Una prima conseguenza è che i disavanzi strutturali risultano sovrastimati richiedendo aggiustamenti fiscali oltre il necessario (stanti le regole fiscali europee: cfr. cap. 18). Una seconda conseguenza è che viene posta un’eccessiva enfasi sulle riforme strutturali e sulle politiche dal lato dell’offerta per rafforzare la crescita, rispetto alle altrettanto necessarie politiche dal lato della domanda. Pur essendo alcune riforme strutturali importanti per la crescita, esse agiscono solo nel lungo andare. Inoltre di quali riforme si tratta? Ulteriori liberalizzazioni potrebbero essere opportune in taluni mercati, sebbene non bisogna credere sempre alle proprietà taumaturgiche e assolute dei mercati; molti studiosi ritengono ancora fondamentale l’apporto di una politica industriale pro-attiva, incentrata su incentivi diretti e selettivi per le innovazioni, la spesa in R&S, la modernizzazione degli apparati industriali (cfr. CAPPELLIN et al. 2017, MAZZUCCATO, 2014). Quanto alle privatizzazioni, il caso dell’Italia (dove negli anni ’90 si fecero molte privatizzazioni con il sostanziale smantellamento del precedente sistema di partecipazioni statali: cfr. cap. 3), mostra risultati non sempre esaltanti, sia per il modo (spesso affrettato e volto a far cassa) che per i benefici per consumatori o utenti finali (in termini di migliori servizi e/o minori prezzi). La pressione fiscale, che pur andrebbe ridotta, nel breve termine risulta elevata e difficilmente comprimibile anche a causa del rispetto dei vincoli di bilancio. In realtà, se si tratta di carenza di domanda aggregata, è soprattutto la domanda interna che si è contratta a seguito della doppia crisi, mentre quella estera è cresciuta in quasi tutti i paesi. La spesa pubblica si è ridotta – o al più è rimasta stazionaria – in quasi tutti i paesi, inclusi gli investimenti pubblici (i quali, se veramente produttivi, sono in grado di autofinanziarsi nel tempo). In diversi paesi l’incidenza degli investimenti pubblici sul Pil si è ridotta di un terzo, passando ad esempio nel caso italiano dal 3% del 2008 all’1,9% del 2018 (cfr. Tab. 19.4). Uno dei motivi principali è connesso alla maggior difficoltà – sul piano politico – di tagliare le spese correnti. È tuttavia imperdonabile che la spesa per investimenti pubblici sia scesa anche 47 Grazie al pareggio (o avanzo) nei conti pubblici ed al forte avanzo delle partite correnti (spesso superiori al 6% del Pil e quindi in infrazione rispetto alle stesse regole europee). 48 Comunque anche in questi casi dopo anni di sofferenze e conseguenze economico-sociali (si pensi al tasso di disoccupazione) persistenti. 49 Peraltro, vale la pena ricordare che tale epiteto era riservato alla Germania nei primi anni 2000.

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

393

negli anni in cui era più necessaria, ossia nel mezzo della recessione, risultando così pro-ciclica. Anche i consumi si sono contratti, mostrando un contenuto risveglio solo negli ultimi due o tre anni. La componente che più è diminuita sono però gli investimenti fissi lordi, che fino al 2015 erano crollati del 30% in termini reali in Italia, Spagna, Portogallo (molto di più in Grecia) ed ancora oggi sono ben al di sotto dei livelli pre-crisi (MARELLI, 2015). Investimenti che, se opportunamente rilanciati, nel breve periodo sosterrebbero la domanda aggregata e nel lungo rafforzerebbero la crescita, attraverso le capacità produttive, la produttività e gli stessi livelli occupazionali. Investimenti non solo in infrastrutture, ma anche in R&S, innovazioni, capitale umano (come già spiegato nel par. 18.4); inoltre essi sarebbero sicuramente redditizi, se ben selezionati, considerato il basso livello attuale dei tassi d’interesse. Tabella 19.4. – Investimenti pubblici (% Pil)

Germania Irlanda Grecia Spagna Francia Italia Portogallo Eurozona Regno Unito UE Stati Uniti Giappone

2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018*

1,9 4,6 4,9 4,7 3,9 2,9 3,2 3,2

2,1 5,2 5,6 4,6 3,9 3,0 3,7 3,3

2,4 3,7 5,7 5,1 4,3 3,4 4,1 3,6

2,3 3,3 3,7 4,7 4,1 2,9 5,3 3,4

2,3 2,4 2,5 3,7 4,0 2,8 3,5 3,1

2,2 2,0 2,5 2,5 4,1 2,6 2,5 2,9

2,1 2,0 3,4 2,2 4,0 2,4 2,2 2,8

2,1 2,2 3,7 2,1 3,7 2,3 2,0 2,7

2,1 1,8 3,8 2,5 3,4 2,2 2,2 2,7

2,1 1,9 3,5 1,9 3,4 2,1 1,5 2,6

2,2 1,8 4,4 2,0 3,4 2,0 1,8 2,6

2,4 2,1 3,5 2,2 3,4 1,9 2,0 2,7

2,5

3,0

3,3

3,2

3,0

2,8

2,6

2,8

2,7

2,7

2,6

2,7

3,2

3,4

3,7

3,5

3,3

3,1

2,9

2,9

2,9

2,7

2,7

2,8

3,8 3,6

4,0 3,5

4,2 3,9

4,1 3,7

3,9 3,6

3,6 3,6

3,2 3,9

3,1 3,9

3,1 3,7

3,1 3,6

3,3 3,7

3,3 3,4

Nota: * i dati 2018 sono previsioni (European Economic Forecast, Autunm 2018). Fonte: Eurostat (government gross fixed capital formation).

La domanda estera si è invece ripresa in quasi tutti i paesi dell’area euro, traendo beneficio anche dalla buona crescita dell’economia mondiale 50; al punto che i disavanzi commerciali (e delle partite correnti) sono stati azzerati o in alcuni casi (come in Italia) tramutati in avanzi. Il miglioramento dei saldi con l’estero, pur in presenza di tassi di cambio reali troppo alti (dall’introduzione dell’euro questi paesi avevano perso competitività perché la loro inflazione era maggiore di quella della Germania), è stato ottenuto grazie a “svalutazioni interne” durante e dopo la lunga crisi: ossia compressione di salari (con veri e propri tagli nel caso dei dipendenti pubblici in Grecia e altri paesi). Comprimendo il reddito disponibile, ciò ha frenato la crescita dei consumi, prolungando la crisi. Anche per questi paesi sarebbe opportuno riguadagnare competitività rafforzando la dinamica della produttività 50 Solo nella seconda metà del 2018 si sono manifestati segni di rallentamento, causati in gran parte dagli effetti delle politiche protezionistiche di Trump, dal rialzo dei tassi d’interesse negli Usa (con la successiva caduta delle borse mondiali), dalla crisi di alcune economie emergenti (Argentina, Venezuela, Turchia) e dal rallentamento della stessa Cina.

394

Le politiche economiche nell’Eurozona

(agendo cioè sul denominatore del “clup”: cfr. cap. 6); ciò che, di nuovo, richiede più investimenti. Gli investimenti privati sono stati incentivati negli ultimi anni dalla politica monetaria accomodante della Bce. Con tassi d’interesse vicini allo zero, era conveniente per molte imprese prendere a prestito per realizzare investimenti, in nuove fabbriche, mezzi di trasporto, macchinari, automazione, robotica, ecc. Tuttavia, le prospettive di domanda erano in molte situazioni ancora depresse e le aspettative negative, quindi spesso le imprese ritenevano che l’investimento non fosse conveniente (tornano ad essere qui rilevanti gli “animal spirits” di Keynes e l’ipotesi di investimenti insensibili al tasso d’interesse: cfr. capp. 4 e 7). Infine, anche a causa dell’incidenza delle sofferenze (cfr. cap. 17), molte banche erano restie a concedere nuovi prestiti alle imprese. Comunque, la politica monetaria accomodante da sola non risolve i problemi di crescita, se non accompagnata da adeguate politiche fiscali; inoltre essa sta diventando meno espansiva (con la fine del QE ed il probabile rialzo dei tassi d’interesse: cfr. cap. 17). Per quanto riguarda la politica fiscale, sull’esito “self-defeating” (espressione coniata per la prima volta da KRUGMAN, 2010) delle politiche d’austerità ci siamo già soffermati (cfr. par. 18.4). Le politiche di consolidamento fiscale sono state condotte in modo severo anche a causa di stime errate dei “moltiplicatori fiscali”. Fino ad un decennio fa, si pensava che essi fossero relativamente bassi, attorno a 0,5, per cui un aumento delle imposte o una riduzione della spesa pubblica 51 avrebbero avuto un effetto tutto sommato contenuto sulla variazione del Pil. Invece dopo la doppia crisi si è riconosciuto – anche da parte dello stesso Fondo monetario internazionale (cfr. FMI, 2014, BLANCHARD, LEIGH, 2013) – che i moltiplicatori possono essere relativamente alti, anche superiori all’unità, specie in presenza di recessione, di tassi di interesse nulli (“zero lower bound”) e di aggiustamenti fiscali contemporanei in molti paesi. Ad ogni modo, l’evidenza mostra che le politiche fiscali restrittive hanno causato i tipici effetti keynesiani 52, su reddito e occupazione, piuttosto che presunti effetti non-keynesiani, propugnati dai sostenitori della cosiddetta “austerità espansiva”. Invece, una crescita più forte sarebbe non solo opportuna ma necessaria, almeno pari a quella riscontrabile in altri paesi avanzati, come negli Stati Uniti. Un ribaltamento degli anemici trend di crescita è indispensabile soprattutto nei paesi, come l’Italia, dove produzione e reddito sono ancora ben al di sotto dei livelli di dieci anni fa. Oltre a favorire redditi, consumi e occupazione, anche il contesto finanziario migliorerebbe, grazie alla maggior sostenibilità del debito pubblico. Infatti, gli stessi mercati finanziari sembrano penalizzare i Paesi più per le mancate prospettive di crescita piuttosto che per temporanei sconfinamenti da posizioni di equilibrio di bilancio.

51 Alcuni economisti (cfr. ALESINA et al., 2015) hanno pure differenziato tra i due strumenti: secondo loro, i moltiplicatori tendono ad essere maggiori nel caso di aumenti di imposte piuttosto che di contrazioni della spesa pubblica. 52 Come in parte si era già verificato negli anni ’90, all’inizio della “strategia di Maastricht” (cfr. cap. 17), ma allora in modo più tenue. A coloro che sostengono che in questi anni non c’è stata una vera austerità perché negli ultimi anni i saldi pubblici di bilancio sono sempre stati negativi (e spesso anche i saldi strutturali), si può replicare che per rispondere ad una crisi così grave sarebbe stato necessario uno stimolo fiscale ben più forte (come fecero gli Usa, con risultati ben evidenti). Si veda in proposito anche SARACENO (2018) che evidenzia la correlazione positiva che ha caratterizzato – in alcuni periodi recenti – l’andamento della spesa pubblica e quello della spesa privata nell’Eurozona (mentre negli Usa la correlazione è sempre stata negativa confermando l’azione anticiclica).

La crisi finanziaria, la crisi dell’Eurozona e le risposte dell’UE

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19.7. Riforme istituzionali e nuove politiche necessarie per superare la crisi e rendere sostenibile l’euro La crisi dei debiti sovrani ha fatto capire che alla lunga solo due opposte soluzioni sono possibili: (i) la rinuncia alla moneta comune oppure (ii) una maggiore integrazione; ciò considerando anche i difetti iniziali nella costruzione dell’Ume, il basso grado di simmetria tra paesi, gli imperfetti meccanismi di aggiustamento di mercato, la quasi totale assenza di un vero bilancio centralizzato (si riveda la discussione sulle teorie Avo nel cap. 16). Tutto ciò che ha caratterizzato l’Ume come “unione monetaria incompleta” 53; invece sarebbe essenziale introdurre al più presto anche un “asse economico” (DELORS, 2013). Inoltre, per evitare nuove crisi dei debiti sovrani, dovrebbe passare il principio secondo cui una maggiore solidarietà all’interno dell’Eurozona (che prima o poi dovrà includere anche forme di mutualizzazione del debito come gli Eurobond) deve accompagnarsi alla responsabilizzazione di tutti i paesi membri; questa richiederà adeguati “controlli” sovranazionali ed inevitabili condivisioni delle sovranità nazionali. Riferendoci alle categorie impiegate nella letteratura corrente, la condivisione dei rischi (risk sharing) dovrebbe procedere di pari passo con la loro riduzione (risk reduction). È un percorso realistico e fattibile? A prima vista non pare, per quanto anche l’alternativa – l’abbandono dell’euro – abbia dei costi probabilmente ingenti (cfr. par. 16.6). Per un verso, è vero che le stesse istituzioni europee hanno presentato dei progetti apparentemente ambiziosi. Al Consiglio europeo di fine giugno 2012 è stato presentato un Rapporto, detto dei “4 Presidenti” (Van Rompuy allora Presidente UE, congiuntamente al Presidente della Commissione, quello dell’Eurogruppo e quello della Bce): “Verso un’autentica Unione economica e monetaria” 54; che prospettava una maggiore integrazione fondata su quattro pilastri: i. unione bancaria (illustrata nel par. 17.7); ii. unione di bilancio: le regole del “Fiscal Compact”, utili nel breve termine, dovrebbero essere la premessa per una “capacità fiscale autonoma” dell’Eurozona nel medio termine, con possibile emissione di titoli di debito europeo; a lungo termine, si può prevedere un bilancio specifico per l’area euro e l’istituzione di un responsabile per la politica di bilancio europea; iii. unione economica: dovrebbe portare ad un’integrazione maggiore delle politiche economiche, misure per la crescita e la coesione sociale; iv. unione politica: tramite il rafforzamento della responsabilità e legittimità democratica dei processi decisionali (coinvolgendo Parlamento europeo e Parlamenti nazionali), con un ulteriore trasferimento di sovranità dagli stati all’Unione. Come si vede, si tratta di un obiettivo limitato rispetto all’ipotesi di una vera “unione politica”, diversamente dagli auspici che da anni portano avanti associazioni come il movimento federalista europeo e che inizialmente animarono l’azione dei “padri fondatori” (cfr. par. 15.1). Anzi, diversi Stati europei escludono una maggiore integrazione economica proprio per evitare il rischio che possa sfociare in un’unione politica. Anche perché nella fase attuale c’è una scarsa fiducia che percorre tutte le popolazioni europee, accentuando le divisioni tra i paesi 53 Si

vedano, tra gli altri, EICHENGREEN (2010), DE GRAUWE, JI (2016), MINENNA et al. (2016). da un documento più dettagliato della Commissione europea del novembre 2012 (“Piano per un’Unione economica e monetaria autentica e approfondita”). 54 Seguito

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Le politiche economiche nell’Eurozona

del Nord Europa e quelli del Sud 55, tra i paesi dell’Est ed i Vecchi Membri, ed altre ancora; divisioni che si riflettono nell’estrema difficoltà di raggiungere posizioni comuni (o almeno compromessi) anche su questioni extra-economiche (si pensi al problema irrisolto della redistribuzione dei flussi d’immigrazione). Il successivo Rapporto “dei 5 Presidenti” 56 (2015), “Completing Europe’s Economic and Monetary Union”, è stato pure deludente, pur specificando i passi da compiere entro determinate date, per: una “genuina” unione economica, un’unione finanziaria (comprendente unione bancaria e unione dei mercati dei capitali), un’unione fiscale ed infine un’unione politica. Infatti, è piuttosto vago, pur adombrando “meccanismi concreti per un rafforzato coordinamento delle politiche economiche, convergenza e solidarietà” e citando, per la prima volta in modo esplicito, una futura funzione di stabilizzazione macroeconomica del bilancio europeo ed una nuova figura di Ministro delle Finanze europeo. Nel marzo 2017, a 60 anni esatti dalla firma del Trattato di Roma, la COMMISSIONE EUROPEA (2017) ha pubblicato un Libro Bianco sul “Futuro dell’Europa”. In esso vengono delineati cinque scenari per la futura possibile integrazione, in parte sovrapposti tra di loro: (i) Avanti così; (ii) Solo il mercato unico; (iii) Chi vuole di più fa di più; (iv) Fare meno in modo più efficiente; (v) Fare molto di più insieme. Mentre il terzo scenario è da taluni ritenuto più realistico perché sembra accogliere la strada dell’integrazione a velocità differenziate (a volte richiamate come “cooperazioni rafforzate” o “Europa a cerchi concentrici”), l’unico scenario che dà indicazioni su come migliorare il funzionamento dell’unione monetaria e la sua resilienza alle crisi è il quinto. È però alquanto vago e dettagli più espliciti sono invece contenuti in un successivo Reflection Paper (2017) della Commissione europea. Questo documento, ad esempio, al fine di introdurre una funzione di stabilizzazione dell’Eurozona, fa cenno alla possibile istituzione di uno “Schema europeo di protezione degli investimenti” e di una “Riassicurazione europea per la disoccupazione”. Di nuovo, però, tempi e modalità non sono ben specificati. Andando ora al di là dei documenti ufficiali, quali sono le proposte avanzate da studiosi ed esperti per migliorare il funzionamento dell’UE? Bisogna innanzitutto distinguere tra riforme istituzionali abbastanza profonde, che richiederanno tempi inevitabilmente dilatati, e modifiche delle politiche economiche correnti (cfr. anche MARELLI, SIGNORELLI, 2017a, in particolare il cap. 7). Quanto a queste ultime, è opinione abbastanza diffusa che per uscire definitivamente dalla lunga crisi che attanaglia tuttora alcune economie europee, le politiche dell’UE dovrebbero essere decisamente rivolte all’obiettivo della crescita, seppur in un contesto di stabilità macroeconomica e finanziaria, come già sottolineato (alla fine del capitolo precedente). Di queste tratteremo più avanti; vediamo ora le riforme istituzionali più importanti che sono state proposte. Una prima riforma riguarda il bilancio dell’UE, che dovrebbe essere ampliato e possibilmente accompagnato da un bilancio specifico per l’Eurozona. Una “capacità fiscale” dell’Eurozona potrebbe servire per diversi scopi: (i) fornire strumenti adeguati di crisis-management nell’eventualità di nuove crisi finanziarie (in congiunzione con gli interventi della Bce); (ii) predisporre strumenti di stabilizzazione anti-ciclica a livello comunitario (incluso un sistema europeo di sussidi di disoccupazione) 57; (iii) favorire nel lungo periodo la convergenza reale tra 55 I paesi del Sud Europa accusano la Germania ed i paesi “core” di aver imposto un’austerità eccessiva e di trarre vantaggio dai persistenti surplus commerciali, viceversa i secondi accusano i paesi periferici di avere spesso comportamenti lassisti (oltre a noti vizi, in alcuni di essi, quali inefficienze nei servizi pubblici, evasione fiscale, corruzione, etc.). 56 Oltre alle 4 figure sopra citate (naturalmente ricoperte da altre persone dopo le elezioni dell’Europarlamento del 2014) si è aggiunto appunto il Presidente del Parlamento europeo. 57 Per esempio, BECK (2017) propone un bilancio specifico per l’Eurozona pari al 2% del Pil dell’area, finan-

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le economie, facendo convergere la produttività e gli indicatori del mercato del lavoro (rendendo così efficaci piani come “Europa 2020” o altri simili che potrebbero essere introdotti in futuro) 58. Si potrebbe allo stesso tempo garantire alla Germania ed ai paesi del core europeo che l’Eurozona non diverrà comunque una transfer union, ossia un’unione caratterizzata da trasferimenti fiscali permanenti tra Stati (in teoria utili per ripianare le differenze strutturali tra Paesi) 59. Un bilancio per l’Eurozona sarebbe il primo passo verso un’unione fiscale (cfr. BÉNASSYQUÉRÉ, GIAVAZZI, 2017). È stata pure proposta una nuova figura di Ministro delle finanze dell’eurozona e/o la creazione di un Istituto fiscale europeo, complementare alla Bce e responsabile per la politica fiscale (cfr. TABELLINI, 2016); ma a nostro avviso questi nuovi organi dovrebbero avere non solo ampi poteri ma anche adeguate risorse da utilizzare per gli scopi sopra specificati (inclusa la stabilizzazione macroeconomica). I maggiori controlli sui paesi membri (inclusa la fissazione di obiettivi vincolanti per i saldi di bilancio dei singoli paesi) sarebbero compensati da benefici in termini di riduzione e condivisione dei rischi. Per ovviare al problema della limitatezza dell’attuale bilancio comunitario, è stata fatta la proposta degli “Eurobond”, ossia titoli sovrani emessi a livello europeo (UE o Eurozona). Una proposta di “Project Eurobond” era stata fatta già nei primi anni ’90 da J. Delors, al fine di raccogliere risorse nel mercato e destinarle a finanziare specifiche politiche per la crescita, l'occupazione e la coesione sociale 60. Dopo la crisi dei debiti sovrani, la proposta di Eurobond è stata invece ripresentata con altre finalità, soprattutto per aiutare quei paesi il cui debito rischiava di divenire insostenibile. Tra i possibili obiettivi degli Eurobond ci sono quelli di migliorare l’efficienza dei mercati (grazie alla maggiore liquidità e “spessore” nel mercato del debito); aiutare la gestione della crisi del debito sovrano e prevenire crisi future; rafforzare la stabilità finanziaria nell’area euro; migliorare la trasmissione della politica monetaria. Sono state proposte diverse versioni di Eurobond: (i) una prima versione distingue tra titoli con differente “seniority”: solo quelli emessi congiuntamente avrebbero priorità nei rimborsi 61; (ii) garanzie sovranazionali sui titoli emessi dai singoli paesi 62; (iii) titoli con ulteriori garanzie reali per ridurre ulteriormente i tassi sul debito comune (quindi non penalizzare i paesi più virtuosi che attualmente pagano tassi inferiori alla media) 63. La stessa Commissione euroziato attraverso una tassazione specifica e finalizzato a progetti infrastrutturali trans-europei come pure per contrastare la disoccupazione giovanile (per mezzo di sussidi alle assunzioni, programmi per l’addestramento ed incentivi alla mobilità). Si sottovaluta tuttavia il fatto che una tassazione europea (presumibilmente aggiuntiva a quella nazionale) avrebbe l’effetto di peggiorare ulteriormente il giudizio delle popolazioni (soprattutto dei paesi con la più elevata pressione fiscale) sulle istituzioni europee. 58 Si pensi che attualmente l’insieme dei fondi strutturali e di coesione dell’UE rappresentano solo lo 0,4% del Pil comunitario. 59 Tuttavia PISSARIDES (2016) sostiene che trasferimenti fiscali tra Stati possono funzionare efficacemente se accompagnati da disciplina fiscale ed una supervisione sovranazionale. 60 I Project bond lanciati nel 2012 dalla Commissione europea hanno finalità simili: ad esempio finanziare progetti (transnazionali) nei settore dell'energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni; anche se per ora hanno avuto applicazioni limitate, se non attraverso gli interventi della Bei (Banca europea degli investimenti). 61 Il Bruegel think tank ha proposto due tipi di titoli: i “blue bond”, per importi nazionali fino al 60% del Pil sarebbero emessi a livello centrale e sarebbero senior (solo i crediti del Fmi sarebbero “supersenior”), quindi godendo di un rating elevato (tripla A) potrebbero pagare bassi tassi; i “red bond”, oltre tale soglia, sarebbero junior (con minori garanzie) e quindi pagherebbero tassi d’interesse più alti. 62 Come nella proposta di Juncker e Tremonti (novembre 2010), secondo cui ci potrebbe essere una “garanzia UE” sui titoli emessi dai singoli paesi fino all’importo del 60% del Pil nazionale. 63 Era questa la proposta di Prodi e Quadrio Curzio (agosto 2011), secondo cui al fine di poter emettere un debito comune a livello centrale i paesi dovrebbero fornire garanzie reali (riserve auree o titoli rappresentativi di società pubbliche).

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pea presentò nel novembre 2011 un Libro Verde sugli “stability bond” 64. Le diverse proposte di Eurobond sono state finora respinte (soprattutto per l’opposizione di Germania ed altri paesi), con l’argomentazione che al “risk-sharing” si può eventualmente pensare solo dopo aver attuato una significativa “risk-reduction”. Riguardo alla riduzione dei rischi, sono state fatte varie proposte per accrescere la resilienza dell’unione monetaria europea nei confronti di nuove crisi, superandone la “fragilità”. Ad esempio strumenti per fronteggiare i “sudden stop” ai flussi di capitale all’emergere di crisi finanziarie (quando crisi di liquidità temporanee possono trasformarsi in problemi di solvibilità), ridurre il circolo vizioso tra debiti sovrani e banche, anche attraverso il rafforzamento degli strumenti esistenti (come il fondo Esm) (cfr. BÉNASSY-QUÉRÉ, GIAVAZZI, 2017; RESILIENCE AUTHORS 2016). Le proposte specifiche in questo campo sono numerose e comprendono ad esempio gli European safe assets (chiamati “sovereign bond-backed securities” dal Reflection paper, 2017, della Commissione europea), titoli pubblici europei con la garanzia degli Stati membri (che peraltro non implicano responsabilità solidali tra gli stati). Sta di fatto che se l’Eurozona dovesse affrontare una nuova crisi con le attuali istituzioni, la moneta comune potrebbe non sopravvivere (come riconosciuto anche da BÉNASSY-QUÉRÉ, GIAVAZZI, 2017). Per quanto riguarda la politica monetaria, è stata proposta una modifica degli obiettivi statutari della Bce, al fine di considerare esplicitamente non solo la stabilità dei prezzi ma – ponendoli sullo stesso piano – anche obiettivi reali, quali la crescita economica, l’occupazione, etc. Si richiede pure che la Bce divenga in modo esplicito “prestatore di ultima istanza” anche per gli Stati, ovviando così ad una delle incompletezze della politica monetaria europea (cfr. DE GRAUWE, 2011), al di là di quanto escogitato implicitamente da Draghi con il QE ed il piano OMT (cfr. cap. 17). Anche se una tale funzione non può ovviamente risolvere i problemi di sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico, potrebbe “calmare i mercati” durante crisi di liquidità o crisi finanziarie acute (come ammesso anche da COTTARELLI, 2016). Nell’immediato, occorre completare l’unione bancaria, con il terzo pilastro ancora mancante ed anche in vista di una successiva “unione finanziaria” (cfr. BAGLIONI, 2016), ed evitare una netta inversione della politica monetaria alla fine del mandato di Draghi (si vedano le conclusioni del cap. 17). Alcune riforme istituzionali sono complesse, anche sul piano giuridico, richiedendo ad esempio la modifica dei Trattati in essere. Intanto però – e veniamo qui a trattare del secondo tipo di riforme proposte, attuabili nel breve periodo – occorre rafforzare la crescita economica e renderla più omogenea nell’Eurozona. Molti economisti condividono la necessità di evitare un altro “decennio perso” (cfr. BECK, 2017), cioè una lunga stagnazione, o – peggio ancora – una terza recessione i cui rischi si intravedono a fine 2018 65. Una politica macroeconomica più espansiva potrebbe essere ad esempio realizzata, anche alla luce degli scarsi risultati del piano Juncker (cfr. par. 18.4), attraverso un grande piano europeo d’investimenti 66, da finanziare auspicabilmente con Eurobond oppure anche subito tramite un maggior coinvolgimento della 64 Esso prevedeva tre alternative: sostituzione completa delle emissioni sovrane con questi bond; sostituzione parziale dei bond nazionali con varie garanzie in comune; sostituzione parziale e senza garanzie in comune (la prima opzione è quella più ambiziosa ma con maggiori rischi di moral hazard e richiederebbe modifiche dei Trattati UE). 65 Mentre scriviamo sono usciti i dati del Pil reale del terzo trimestre 2018 che segnalano una variazione congiunturale (cioè sul trimestre precedente) del –0,1% in Italia e –0,2% in Germania. In fase di correzione seconde bozze (31 gennaio 2019), è uscito il dato (provvisorio) sul quarto trimestre 2018, che significa che l’Italia era entrata in “recessione in senso tecnico”, con una variazione sul trimestre precedente del –0,2% (in un contesto di rallentamento internazionale e, in particolare, nell’Eurozona). 66 Il piano potrebbe ammontare al 5% del Pil dell’Eurozona; per ulteriori dettagli, cfr. MARELLI, SIGNORELLI (2017a), DELLA POSTA et al. (2018). Politiche più espansive sono chieste, tra gli altri, da BLYTH (2017), BOITANI (2016), HOLLAND (2016).

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Banca europea degli investimenti (Bei) e della Bce. Considerato il crollo degli investimenti pubblici in molti paesi, anche gli investimenti programmati a livello nazionale dovrebbero essere facilitati, ad esempio con l’adozione di una “golden rule”, modificando cioè le attuali regole fiscali (Patto di Stabilità e Fiscal Compact: cfr. cap. 18). Stimolando la crescita, anche nei paesi dove è tuttora troppo debole (e con rischi di una nuova recessione), migliorando il quadro economico-sociale, attraverso una significativa e duratura diminuzione dei tassi di disoccupazione e degli indici di povertà, si riuscirebbe ad intaccare il sentimento 67 anti-Ue ed anti-euro, che negli ultimi anni si è diffuso in molti paesi europei, in cui forze cosiddette “sovraniste” o “nazionaliste” si sono affermate (in alcuni casi arrivando al governo) 68. Così, poco alla volta 69 potrebbe divenire più realistico introdurre le riforme più radicali nella governance e nelle politiche europee (in parte discusse sopra). Il processo di ulteriore integrazione (“più Europa”) non deve però essere visto come imposto o trainato dall’alto 70, ma deve piuttosto trattarsi di un processo che veda partecipi il maggior numero possibile di cittadini, i vari gruppi sociali ed i rappresentanti del mondo civile. In questo modo, si può forse contrastare l’attuale disaffezione dei cittadini europei, conquistando un crescente supporto, sociale e politico, per un progetto di genuina e sostenibile integrazione europea. Lo scenario alternativo sarebbe un sostanziale “status quo” o il “tirare a campare” (STIGLITZ, 2017), con il rischio dell’implosione dell’euro 71 e di passi indietro lungo il cammino dell’integrazione economica, dopo che per oltre mezzo secolo l’UE ha garantito pace, prosperità e progresso economico 72. Le conseguenze di una tale involuzione sarebbero drammatiche, sul piano economico, sociale e politico. Invece, in un mondo globalizzato – dove le pressioni competitive provenienti dalle economie emergenti, congiuntamente alla rivendicazione di un loro crescente peso politico, si fanno più intense – un’Europa disunita tenderebbe a svanire economicamente ed anche in relazione al suo “peso” nella politica internazionale. Schiacciati da Usa, Cina, Russia, e in futuro dall’India, Indonesia e da altri paesi emergenti, il destino dei singoli paesi europei (inclusi Germania e Francia e, a maggior ragione, il nostro paese con i suoi atavici problemi) sarebbe di progressivo declino e non solo sul piano economico.

67 Le popolazioni in Europa sono sempre più convinte che i sacrifici fatti non stanno producendo i risultati sperati (WYPLOSZ, 2012). Invece occorre ribaltare la visione sempre più diffusa che associa il progetto europeo alla crisi ed all’austerità, piuttosto che alle opportunità e alla crescita (BECK, 2017). 68 L’euroscetticismo si era in parte già riflesso nell’esito delle votazioni dell’Europarlamento nel 2014, ma potrebbe trovare ulteriore vigore nelle prossime elezioni del maggio 2019. 69 Si può anche seguire un approccio di “piccoli passi” (cfr. DE GRAUWE, JI, 2016), ma in cui sia chiara la meta finale e gli avanzamenti siano graduali ma costanti. E la meta finale potrebbe anche essere un’unione politica di tipo federale, come sognavano i padri fondatori delle Comunità europee. 70 Un trasferimento di poteri al livello europeo dovrà quindi accompagnarsi ad un maggior controllo democratico, ridisegnando ruoli e funzioni delle istituzioni europee, partendo dal principio di sussidiarietà (dando ad esempio più poteri all’Europarlamento). 71 In un tale scenario, per la prima volta nella storia dell’integrazione europea si compirebbe un salto all’indietro, contraddicendo il principio della “ever closer Union” scritto nei Trattati europei; la fine dell’euro o addirittura la disintegrazione dell’UE comporterebbero non solo dei costi economici e finanziari, ma anche e soprattutto politici. Relativamente ad altri possibili scenari, specie in relazione al futuro dell’euro, si veda il cap. 9 in MARELLI, SIGNORELLI (2018). 72 Le eminenti realizzazioni conseguite nel primo mezzo secolo fruttarono all’UE nel 2012 l’attribuzione del premio Nobel per la pace.

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Parte Settima

I problemi dell’economia italiana

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I problemi dell’economia italiana

La lenta crescita e i problemi strutturali dell’economia italiana

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20.1. La crescita economica italiana: dal “miracolo economico” al progressivo declino L’Italia è ancora una grande economia, innanzi tutto per le sue dimensioni demografiche e produttive. È vero che, pur appartenendo al G-7, sta arretrando anno dopo anno: ora, con un peso inferiore al 2% sul Pil mondiale, è all’incirca decima tra tutti i paesi in termini di Pil assoluto (a parità di potere di acquisto, PPP) 1; ma riguardo al reddito pro-capite, un indicatore elementare di benessere, è circa al trentesimo posto nel mondo (cfr. par. 13.3). Peraltro è la terza economia dell’Eurozona e possiede tuttora la seconda industria manifatturiera del continente: ma ancora per quanto? I segni della de-industrializzazione sono del tutto evidenti; non solo a causa dei normali processi di terziarizzazione (si veda la “legge dei tre settori” nel par. 13.2), ma soprattutto per il tremendo colpo subito dalla doppia crisi dell’Eurozona (cfr. cap. 19). A fronte di una contrazione del Pil di circa il 10% dal 2007 al 2014, la produzione industriale si era ridotta di circa un quarto; ancora a fine 2018 era del 20% inferiore ai livelli pre-crisi. Interi comparti produttivi sono scomparsi o sono stati drasticamente ridimensionati; i media riportano anche oggi – ad oltre dieci anni dalla prima crisi – notizie di imprese che chiudono. Le imprese che nascono – incluse le “start up” di giovani volenterosi – riescono a compensare in parte le contrazioni occupazionali, ma la disoccupazione ha raggiunto livelli molto elevati e mostra una preoccupante persistenza. Inoltre, i media riportano di continuo casi di imprese italiane – spesso rappresentative del “made in Italy” e talvolta “gioielli” industriali emblematici del nostro sviluppo economico – acquisiti da multinazionali o società estere. A questo punto, è però opportuno distinguere tra due problematiche di fondo afferenti al nostro sviluppo economico 2: (i) la maggiore vulnerabilità a shock esterni, con conseguenze quali la recente lunga recessione (più grave che in altri paesi europei) e successiva debole ripresa; (ii) il declino economico di lungo periodo, che precede le recenti crisi ed è sintomo di problemi strutturali più persistenti. Può essere interessante capire fino a che punto il declino economico sia un fatto specifico dell’economia italiana e di questa fase storica oppure se sia comune ad altre situazioni. Cominciando dal secondo quesito, abbiamo già illustrato che, in una prospettiva storica di lungo periodo, le nazioni sono passate quasi tutte per fasi di ascesa interrotte da fasi più o meno 1 Dati al 2017 del FMI. Riguardo al reddito pro-capite, sempre riferito al 2017, si collocava al posto 33° per il FMI e al 29° per la Banca mondiale. 2 In aggiunta a problemi finanziari, quali l’elevato debito pubblico – su livelli eccessivamente elevati da almeno un quarto di secolo (cfr. cap. 11) – che graverà anche sulle prossime generazioni ed è esso stesso causa del declino economico.

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I problemi dell’economia italiana

lunghe di declino 3. L’Italia, al primo posto per sviluppo economico nel Cinquecento, aveva subito un declino progressivo fino all’Unità, per poi risollevarsi nei primi tre decenni dell’ultimo dopoguerra. Relativamente alla prima domanda, è vero che nell’ultimo quarto di secolo l’Europa in generale ha rallentato la sua crescita, superata – in relazione ai tassi di crescita – da molti paesi emergenti ed anche da economie “mature” come quella degli Stati Uniti; oltre tutto c’è un recente dibattito tra gli economisti, secondo cui i paesi avanzati devono fronteggiare in questa fase storica, una stagnazione secolare, che ha diverse spiegazioni (cfr. SUMMERS, 2014). Tuttavia, non si può non rilevare che, all’interno dell’Europa, l’Italia figura proprio agli ultimissimi posti quanto a crescita economica (sicuramente in tutti gli anni del nuovo secolo). Per valutare la gravità di questo secondo problema, basti esaminare la Fig. 20.1. È ben evidente un trend decrescente che, dagli anni ’60, prosegue decennio dopo decennio 4. Figura 20.1 – Tassi di crescita del Pil italiano (1961-2018, medie annue) 6,0 6 3,8 4 2,4 2

1,7

0

0,3

0,1

Fonte: Eurostat. Per l’ultimo periodo il solo dato 2018 è di previsione.

Il declino dell’economia italiana è solo in parte spiegato dal naturale passaggio da un’economia nella fase del catching-up a quella di un’economia matura. Il periodo del boom economico – chiamato anche “miracolo economico” italiano – era quello a cavallo degli anni ’50 e ’60, quando tutto il mondo occidentale viveva il “quarto di secolo d’oro” (cfr. CIOCCA e TONIOLO, 2004). In un contesto di stabilità monetaria (i cambi fissi del regime di Bretton Woods) e di liberalizzazioni commerciali (grazie al Gatt), diversi paesi occidentali crescevano a ritmi sostenuti (si veda la trattazione nei capp. 12, 13, 14). Anche in Italia, che cresceva a ritmi “cinesi” (della Cina di oggi), con tassi annui vicini al 6%, la performance era addirittura migliore di quella dei nostri vicini; ricordiamo che proprio negli anni del “boom” l’Italia era entrata nella Comunità economica europea e nell’unione 3 Si rinvia alla trattazione del cap. 13. Perfino Cina e India, le due maggiori potenze demografiche (e la prima, ormai, anche economica) del mondo, che erano già potenze mondiali fino al Settecento, poi hanno subito un declino economico dalla metà dell’Ottocento, che si è protratto per poco più di un secolo. 4 Tra le numerose opere sull’economia italiana e sul suo declino economico, si vedano BATTILANI, FAURI (2014), CIASCHINI, ROMAGNOLI (2011), CORICELLI et al. (2012), VALLI (1982).

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doganale (cfr. cap. 15). L’industrializzazione accelerata, specie nelle province del Nord, andava di pari passo con la diffusione di nuovi modelli di consumo, anche di beni durevoli (elettrodomestici, televisori, le prime automobili utilitarie, etc.). Certo, il reddito pro-capite ed anche i salari erano ancora inferiori rispetto alla media europea 5, grazie anche al serbatoio di manodopera proveniente dalle campagne (è la tesi del “modello di Lewis”: cfr. par. 13.2); ciò che peraltro garantiva competitività all’industria italiana. Sarebbe poi stato il rapido recupero dei salari nel decennio successivo (dopo l’autunno caldo del 1969) una delle concause dell’alta inflazione, congiuntamente agli shock d’offerta (forte aumento del prezzo del petrolio e di altre materie prime). Ancora negli anni ’70, tuttavia, l’Italia cresceva a tassi medi annui vicini al 4%. Poi la crescita continuò a decelerare perdendo grosso modo un punto percentuale per ogni decennio che passava, sebbene negli anni ’80 fosse ancora sostenuta da una finanza pubblica “allegra” (è in quel decennio che si verificò una grande impennata del debito pubblico). Il declino economico italiano si accentuò nel periodo successivo; già nel ventennio 1988-2007 l’Italia risultava per intensità della crescita all’ultimo posto in tutta l’area Ocse, ossia in un gruppo di 30 paesi circa. Negli anni ‘90 la crescita si indebolì anche a causa della “strategia di Maastricht” (cfr. par. 16.2). La crescita economica italiana praticamente si azzerò nel primo decennio del nuovo secolo: era infatti di circa l’1,5% medio annuo prima della crisi (anni 2000-2007), già inferiore alla media europea, ma poi negli anni di crisi (20082014) il Pil crollò di oltre il 9% in sette anni (pur tenendo conto della “ripresina” del 20102011). Gli anni 2015-2017 sono poi stati anni di ripresa economica, ma la crescita è stata bassa, tra le più deboli di tutta l’UE, tale da appena compensare la caduta della recessione del 2012-2013: questo spiega la crescita sostanzialmente “zero” indicata nella Fig. 20.1 per il periodo 2011-2018. Inoltre, la ripresa ha già iniziato ad indebolirsi nel corso del 2018 e le prospettive immediate sono deludenti 6. Il trend di crescita dell’economia italiana è rappresentato, congiuntamente alle fluttuazioni cicliche, nella Fig. 20.2: l’inclinazione negativa della curva è chiara indicazione del rallentamento progressivo della crescita economica. Il grafico evidenzia anche i principali eventi (o “shock”) connessi ai diversi cicli economici. Le recessioni più marcate sono state quelle del 1975, del 1993, del 2003, oltre a quelle recenti del 2009 e del 2012-2014 7. La precedente discussione ci porta a considerare il tema della convergenza (o divergenza) rispetto ad altre economie avanzate. Possiamo quindi confrontare gli indicatori di sviluppo dell’Italia con quelli di altre due aree di riferimento:

5 È opportuno rammentare che negli anni ’50 e ’60, nonostante la forte crescita, le condizioni di vita degli italiani erano piuttosto povere, c’erano diversi tipi di squilibri ed iniquità. Negli anni ’70, non solo i lavoratori cominciarono a conseguire un maggiore potere contrattuale, forzando la distribuzione del reddito a loro favore, ma soprattutto per la prima volta nel nostro Paese alcuni elementi tipici del Welfare state – sistema sanitario nazionale, sistema pensionistico pubblico, istruzione pubblica gratuita anche ai livelli più elevati – cominciarono a diffondersi (cfr. par. 5.5). 6 La Fig. 20.1 contiene per il 2018 un dato previsivo di crescita (desunto dalle Autumn Forecast 2018 della Commissione europea), pari a 1,1%, che fa seguito ad una crescita effettiva del 1,6% nel 2017. L’ultimo dato Istat disponibile, relativo al terzo trimestre 2018, è pari a – 0,1% quale variazione congiunturale. Pertanto per l’Italia c’è un reale rischio di entrare in una nuova recessione o comunque di un peggioramento della stagnazione, considerate anche le tendenze dell’economia mondiale. 7 Sui rapporti tra ciclo e crescita, si veda anche il cap. 6. Diversamente dal trend lineare di crescita presentato nel par. 6.1, la Fig. 20.2 propone un trend non lineare (ricavabile grazie alle nuove tecniche econometriche, che usano frequentemente il filtro “Hodrick-Prescott”).

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I problemi dell’economia italiana

Figura 20.2. – Ciclo e trend di crescita nell’economia italiana (1948-2014)

8 6 4

Declino

2 0 –2 Miracolo –4

Ricostruzione

Crisi petrolifere Lotte operarie e cambi flessibili

SME e disinflazione Convergenza all’UME

–6

50

55

60

65

70

75

80

85

90

95

00

05

10

Fonte: BIANCHI (2014).

– rispetto agli Usa, il reddito pro-capite italiano era aumentato da circa il 35% nel 1950 al 70% all’inizio degli anni ’90 (fase di convergenza), poi il gap ha cominciato ad allargarsi; – rispetto alla media UE: dal 75% degli anni ’50 al 100% degli anni ’90 (convergenza); alla fine degli anni ’90, il reddito pro-capite italiano era ancora un poco superiore (se misurato in PPP) a quello dell’UE-15 (ma ben superiore, di circa il 20%, a quello dell’UE-28, cioè inclusi i nuovi membri dell’Europa centro-orientale); poi già nel 2008, prima della crisi, si era avvicinato alla media UE-28 per scendere al di sotto dopo la lunga crisi (divergenza). La fase di divergenza dell’economia italiana, rispetto sia agli Usa sia alla media europea, dall’inizio degli anni ’90 in poi, è ben evidente dalla Fig. 20.3. Il grafico termina nel 2004 (in caso contrario le tendenze sarebbero state ancor più sfavorevoli per la nostra economia), in quanto ripreso da un contributo di FAINI, SAPIR (2005) pubblicato in un volume dal significativo titolo: “Oltre il declino”. Stiamo parlando di un’analisi svolta a metà del primo decennio del nuovo secolo, due anni prima dello scoppio della crisi finanziaria, e già allora si parlava di declino! È interessante osservare che Faini e Sapir individuavano, tra le molte cause del declino, il modello di specializzazione “obsoleto”, con una prevalenza di settori tradizionali a bassa intensità di manodopera qualificata: quindi specializzazione produttiva e ruolo del capitale umano (elementi che approfondiremo nei prossimi paragrafi) sono tra le cause principali del declino economico. Per capire meglio in quale contesto globale si manifestava il declino economico italiano, occorre analizzare le più generali trasformazioni nella divisione mondiale del lavoro e nella specializzazione dei paesi, a partire dall’ingresso nel mercato mondiale dei paesi emergenti, in particolare asiatici (Cina, India, etc.), dotati di specializzazioni produttive parzialmente simili a quelle italiane (tessili, legno, pelli, calzature, abbigliamento, prodotti in metallo) ed aventi costi del lavoro molto più bassi; la competizione commerciale fu ben presto accompagnata da quella produttiva tramite gli investimenti diretti esteri e le delocalizzazioni. Tendenze per certi versi simili si riscontrarono nel continente europeo, dove già negli anni ’80 cominciò a manifestarsi la concorrenza dei paesi dell’Europa meridionale (Spagna, Portogallo, Grecia) e, dopo il

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crollo del Muro di Berlino, anche quella dei paesi dell’est Europa; quindi il mercato comune europeo venne ad inglobare economie meno sviluppate ma dinamiche, attraendo i produttori italiani per il basso costo del lavoro (cfr. GRAZIANI, 1998). Figura 20.3. – La divergenza dell’economia italiana dagli anni ’90 (indice dei redditi pro-capite in PPP) 72

104 103

Italia/UE (scala di destra) 102

70

101 68

Italia/USA (scala di sinistra)

100 99

66

98 64 97 62

1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

96

Fonte: FAINI, SAPIR (2005).

La perdita di competitività italiana si accentuò dal 1999, ossia dall’introduzione dell’euro. Si stima che l’Italia abbia perso tra il 20% ed il 25% in competitività rispetto alla Germania: con un’inflazione un poco più alta di quella tedesca (almeno fino alla crisi) e, non potendo più svalutare, il tasso di cambio reale si apprezzava, penalizzando le nostre esportazioni 8. Infatti, il “clup” italiano (cfr. par. 6.7) cresceva più di quello tedesco, determinando maggiore inflazione, non a causa di una crescita salariale maggiore (anzi è stato vero il contrario) ma piuttosto di una produttività stagnante. Questo è il vero problema dell’economia italiana: la produttività del lavoro ed anche la produttività totale dei fattori non sono cresciute nell’ultimo ventennio, caso unico tra tutti i paesi avanzati (come esamineremo meglio nel par. 20.3). Ad ogni modo, l’adozione dell’euro, se da un lato può aver penalizzato la crescita a causa dell’iniziale perdita di competitività, dall’altro lato l’ha favorita grazie alla riduzione dei tassi d’interesse e l’incentivazione degli investimenti (ossia il “bonus dell’euro”: cfr. par. 16.2). Comunque, il declino relativo dell’Italia era cominciato ben prima, dalla fine degli anni ’80; ed infine si può osservare che nessun altro paese dell’Eurozona, pur avendo adottato la stessa moneta comune, ha riscontrato simili problemi di crescita debole e declinante. Le cause del declino economico italiano sono quindi da rintracciare soprattutto in limiti e debolezze intrinseche al nostro Paese e c’entrano poco con l’euro. Piuttosto, la speranza di 8 Occorre peraltro aggiungere che anche nel periodo precedente, quando la crescita era in un certo senso “drogata” da successive svalutazioni (che si verificarono anche negli anni iniziali dello SME), c’era un’evidente perdita sul piano macroeconomico: l’elevata inflazione dovuta al circolo vizioso svalutazione/inflazione. Per di più, non è vero che nel nuovo secolo la dinamica delle nostre esportazioni fosse sempre negativa; anzi in diversi anni – inclusi quelli più recenti – i saldi commerciali con l’estero sono stati positivi.

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I problemi dell’economia italiana

molti italiani, a partire dalla classe politica al governo, era che l’adozione dell’euro – con l’aggiunta di nuovi vincoli esterni più stringenti – obbligasse il nostro Paese ad adottare comportamenti, istituzioni e pratiche migliori e più conformi a quelli di un’area economica sempre più integrata. In altre parole, si sperava in una “convergenza” non solo economica, ma anche istituzionale e civile, che potesse eliminare alcune nostre “patologie” (cfr. par. 20.3): ciò che purtroppo si è realizzato solo in minima parte.

20.2. L’impatto della lunga crisi nell’ultimo decennio In un sistema già debilitato e vulnerabile, è sopraggiunta la “doppia crisi” – quella finanziaria mondiale e quella dell’Eurozona (cfr. cap. 19) – che ha peggiorato le tendenze precedenti e fatto retrocedere ancor più il nostro Paese (cfr. Fig. 20.4), in termini non solo relativi ma anche assoluti. In un confronto internazionale, l’economia italiana, pur non essendo tra i paesi all’inizio più colpiti dalla crisi finanziaria (quali Usa, Regno Unito, Irlanda, Spagna), subì una delle più forti contrazioni già nel 2008-2009, paragonabile a quella che colpì altri grandi paesi industriali ed esportatori (come Germania e Giappone). Diversamente da questi ultimi paesi, tuttavia, fu colpita duramente dalla doppia crisi: l’andamento a W del ciclo economico – con una debole ripresa nel 2010-2011 ed una lunga nuova recessione dal 2012 al 2014 – causò una perdita di prodotto intorno al 10%. Anche nella successiva fase di ripresa economica, i tassi di crescita dell’Italia sono rimasti i più bassi nell’Eurozona, mentre perfino gli altri PIIGS – prima l’Irlanda, poi la Spagna, quindi anche il Portogallo – manifestavano una dinamica molto maggiore (e superiore alle stesse medie europee). Così, ancora nel 2018 il Pil reale era 5 punti percentuali sotto i livelli pre-crisi. Figura. 20.4. – Il Pil dell’Italia e dei principali paesi dell’Eurozona 115 109,4

110

105,2

105 103,2

100

99,5

95

93,0

90 2007

2008

2009

2010

2011

2012

2013

2014

2015

2016

2017

2018

Area dell’euro Germania Spagna Francia Italia

Fonte: Fondazione G. DI VITTORIO (2017)

Tenuto conto che già nel decennio antecedente la crisi la crescita era molto fiacca, come abbiamo visto, il reddito pro-capite è ora tornato ai livelli degli anni ’90, caso più unico che raro di decrescita. Mentre nel 1999 esso era analogo a quello inglese e ben superiore a quello medio eu-

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ropeo, ora è sceso al di sotto di quello dell’UE-28 ed è fortemente arretrato rispetto al dato medio dell’Eurozona (cfr. Fig. 20.5); è tornato ad essere pari solo ai 2/3 del reddito pro-capite Usa. Figura 20.5. – Il redito pro-capite dell’Italia e di altri paesi avanzati

Evoluzione del reddito procapite (Media per abitante in euro) 31000 30000 29000 28000 27000 26000 25000 24000 23000 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 UE (28 paesi)

Zona euro (19 paesi)

Italia

Nota: dati di Pil pro capite annuo espressi a prezzi correnti ma in funzione dei volumi concatenati. Fonte: Elaborazione DIPE (Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, Presidenza del Consiglio dei Ministri) su dati Eurostat.

Inoltre, anche a causa delle misure d’austerità intraprese negli ultimi anni e della crescente pressione fiscale, il reddito disponibile pro-capite è ridisceso in termini reali fino ai livelli degli anni ’80. Le famiglie italiane, pur avendo necessariamente dovuto intaccare i propri risparmi, hanno visto drasticamente compromesso il proprio tenore di vita, come testimoniato dal crollo dei consumi 9. Consumi in lieve ripresa dal 2015, ma che risentono del clima di generale maggiore incertezza dallo scoppio della crisi 10. Le imprese italiane sono state danneggiate non solo dalla contrazione della domanda aggregata ma anche da altre dinamiche negative del contesto macroeconomico. Il credit crunch, conseguente dapprima alla doppia crisi e poi alla debolezza patrimoniale delle banche dovuta soprattutto all’incidenza delle “sofferenze” (evidente a partire dal 2014-2015) aveva fortemente ridotto la capacità delle imprese di prendere a prestito. In alcune fasi successive allo scoppio della crisi, era inoltre aumentato il costo del denaro, nonostante i tassi delle banche centrali avessero raggiunto livelli storicamente bassi. Un beneficio rilevante è stato infatti arrecato dalle politiche monetarie accomodanti, che anche nell’area euro hanno determinato tassi decrescenti (con i tassi della Bce azzerati, cfr. cap. 17) a partire dal 2015-2016. L’Italia, tuttavia, non ha sempre potuto trovare pieno beneficio da 9 Questa trattazione è ripresa in parte da MARELLI (2014). Si aggiunga che la propensione al risparmio delle famiglie italiane (tradizionalmente parche) sul reddito lordo disponibile è pure diminuita, scendendo per la prima volta al di sotto della propensione media dell’area euro. 10 Specie durante i picchi di incertezza: si pensi al massimo assoluto dell’autunno 2011, ma anche all’autunno 2018 (con la fase più intensa dello scontro tra Governo italiano e Commissione europea).

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queste tendenze, specie nei momenti di tensioni sui mercati finanziari. In particolare, l’aumentato spread sui tassi d’interesse nazionali – con rialzi molto forti negli anni 2011-2012 e significativi di nuovo nel 2018 – ha non solo riguardato i titoli del debito pubblico ed i connessi oneri per il servizio del debito, ma si è poi riflesso (con un certo ritardo e parzialmente) anche sui tassi applicati sui prestiti alle imprese. Infatti le banche italiane sono tra i maggiori detentori di titoli di Stato e quando questi perdono valore – come succede durante i periodi di rialzo dei tassi – subiscono perdite patrimoniali (come rispecchiato anche nella caduta dei loro valori azionari) e quindi sono obbligate a rivalersi sui margini d’intermediazione. Questo è vero pure nel caso dei nuovi prestiti alle famiglie, pur essendo il tasso, ad esempio applicato sui mutui, formalmente ancorato all’Euribor (quindi indipendente da tassi e spread italiani). Comunque, il problema maggiore non è il costo dei prestiti, quanto la loro disponibilità; le banche italiane hanno spesso selezionato la clientela, tagliando i fidi alle aziende con peggiori requisiti di patrimonializzazione. Inoltre, anche la domanda di credito è rimasta a lungo bassa per la l’insufficiente richiesta di prestiti, legata alla caduta (e successiva lenta ripresa) di investimenti e consumi, a sua volta connessa all’incertezza ed alle aspettative non troppo ottimistiche sulla crescita del Paese. In Italia, è stato oltremodo amplificato il problema del crollo degli investimenti (già discusso con riferimento all’intera Eurozona: cfr. par. 19.6). Gli stessi investimenti pubblici – scesi dal 3% del Pil (prima della crisi) al 2% del 2018 – si sono contratti di più proprio negli anni di crisi, facendo venir meno ogni funzione di stabilizzazione macroeconomica. A seguito di queste tendenze, l’impatto sul mercato del lavoro è stato pesante. Molti posti di lavoro sono stati distrutti, a seguito dei licenziamenti attuati dalle imprese, in molti casi esse stesse fallite; i posti vacanti e le occasioni di lavoro si sono rarefatti. L’impatto iniziale sulla disoccupazione era stato più contenuto rispetto alla maggior parte dei paesi europei (o rispetto agli Usa); il tasso di disoccupazione era salito nel periodo 2007-2011 “soltanto” dal 6% al 8,5% 11; La disoccupazione non era aumentata molto, subito dopo la crisi, anche perché si era ridotta l’offerta di lavoro, a causa di fenomeni del tipo “lavoratori scoraggiati” (cfr. par. 6.2). Il tasso di disoccupazione è cresciuto più velocemente dal 2012 in poi ed ha raggiunto la punta massima del 13,4% a novembre 2014; la successiva discesa è stata piuttosto lenta ed a fine 2018 il tasso era ancora superiore al 10%. Il tasso di disoccupazione giovanile aveva toccato a fine 2014 il 43,9% e rimane oltre il 30% a fine 2018 12; tutto ciò pone in evidenza la tragedia di una “generazione persa” 13 e dovrebbe allarmare tutti circa gli effetti dolorosi della crisi sul tessuto sociale. Il problema più grave riguarda la persistenza di questi tassi e l’elevata probabilità che ci vorranno anni per tornare ai livelli pre-crisi, non solo per i tassi di disoccupazione ma anche per quelli di occupazione. Oltre tutto, l’economia italiana è, come già rile11 Ciò grazie ai fenomeni di labour hoarding, ma soprattutto alla Cassa Integrazione Guadagni (Cig) ordinaria e straordinaria, inclusa quella “in deroga”. Il tasso complessivo di disoccupazione, tenuto conto dei lavoratori scoraggiati e di quelli in Cig, era superiore di 2-3 punti a quello “ufficiale” (secondo ricerche della Banca d’Italia). 12 Si ricorda comunque che anche il tasso di disoccupazione giovanile (come quello generale) è calcolato sulla forza lavoro (somma di occupati e disoccupati); infatti, rapportando il numero di giovani disoccupati sulla popolazione giovane si otterrebbe, ad es. nel caso italiano, una percentuale intorno al 10%. Per gli evidenti limiti di tale indicatore se ne usano insieme altri come il tasso NEET, particolarmente elevato nel caso italiano (Cfr. BRUNO et al., 2014). 13 Cfr. SCARPETTA et al. (2010), CAROLEO et al. (2018).

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vato (in una nota della sezione precedente), di nuovo in rallentamento, ancora una volta amplificando le tendenze dell’intera economia europea e mondiale.

20.3. Le principali determinanti: produttività, capitale umano ed innovazioni I problemi che affliggono l’economia italiana sono non solo di tipo ciclico, ossia connessi alla recente “doppia crisi”, ma anche precedenti e di natura più strutturale. Come abbiamo spiegato, già a metà degli anni ’90 era terminato il processo di convergenza verso i livelli di sviluppo (e di reddito pro-capite) medi europei. La stentata crescita anche negli anni precedenti la crisi era dovuta a numerose cause, ma che si possono riassumere in un fattore chiave: la dinamica del tutto insoddisfacente della produttività, sia del lavoro sia totale dei fattori 14. È stato calcolato che la produttività media per persona occupata è in Italia rimasta stazionaria (a prezzi costanti) dal 1999 al 2017, mentre è aumentata del 23% in Germania, poco meno in Francia e Spagna, ancor più negli Usa. Sottostanti alla pessima performance della produttività ci sono molteplici cause 15, a cui possiamo fare solo dei cenni (salvo gli approfondimenti specifici dei prossimi paragrafi). Tra esse, gli scarsi investimenti in capitale fisico, la minor diffusione delle nuove tecnologie e le contenute spese in ricerca e sviluppo; la struttura industriale troppo sbilanciata (con un peso eccessivo di piccole e micro imprese); la persistentemente scarsa concorrenza in certi mercati (specie nei servizi e nelle libere professioni); il modello di specializzazione “obsoleto” (con una bassa specializzazione nei settori dinamici a medio-alto valore aggiunto); il basso livello di capitale umano (vedi oltre), oltre che le insufficienze nella capacità innovativa e imprenditoriale, la complessiva qualità ed organizzazione delle forze di lavoro. Si aggiunga che, fino alla crisi, era parecchio cresciuta l’occupazione, grazie alle riforme del mercato del lavoro ed in particolare all’accresciuta “flessibilità in entrata” 16 ma, con riferimento ai “nuovi entranti”, in gran parte attraverso rapporti di lavoro instabili o precari: giovani con un livello d’istruzione anche elevato ma non adeguatamente formati (se il rapporto di lavoro è a termine le imprese hanno un incentivo minore a svolgere attività formative) o immigrati adibiti a lavori poco qualificati. Inoltre i salari stagnanti e l’affermarsi del lavoro flessibile ed atipico, dalla metà degli anni ’90 avevano reso maggiormente conveniente per le imprese l’utilizzo del fattore lavoro, favorendo una significativa riduzione della disoccupazione (fino alla crisi), ma anche disincentivato gli investimenti in capitale fisso, così contribuendo alla insoddisfacente dinamica della produttività 17. In aggiunta alla qualità delle forze di lavoro, uno dei fattori sottostanti al declino della produttività è proprio la decrescente propensione all’investimento: come già osservato, gli investimenti sono crollati nel periodo di crisi; a questo si aggiunge la scarsa capacità attrattiva degli Ide dall’estero. 14 Si veda MARELLI e PASTORE (2010). Sulla distinzione tra produttività del lavoro e produttività totale dei fattori, cfr. par. 6.1. 15 Per una trattazione di alcuni di questi fattori, cfr. anche SALTARI, TRAVAGLINI (2006). 16 Conseguente al Pacchetto Treu del 1997 ed alla Legge Biagi del 2003 (cfr. cap. 21). 17 Il tasso di occupazione era però ridisceso dopo la crisi sotto il 60% (con riferimento al 2013-2014 ed al tasso sulla popolazione in età 20-64 anni) e vede l’Italia tuttora al penultimo posto nell’UE, superando solo la Grecia: 62,3% contro il 72,3% medio per l’UE-27 nel 2017. Inoltre ci sono forti differenze regionali (come vedremo alla fine del capitolo), di genere (quello femminile è molto più basso, specie al Sud) e per classi di età (giovani, anziani).

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Altre determinanti più generali che spiegano l’insoddisfacente dinamica della produttività italiana comprendono fattori demografici, quali il progressivo invecchiamento della popolazione; il contesto macroeconomico, con il persistentemente alto debito pubblico e la pressione fiscale, il cui carico è elevato e non è distribuito in modo equo (anche per i diffusi fenomeni di evasione ed elusione fiscale); il “business environment”, il grado di efficienza in diversi servizi pubblici e l’apparato burocratico (che spesso disincentiva le nuove iniziative imprenditoriali); la lentezza della giustizia assieme all’incertezza applicativa delle norme (che tra le altre conseguenze frenano gli investimenti dall’estero). Tutto ciò, in aggiunta ad alcuni “mali atavici” della nostra società: l’evasione fiscale, l’economia sommersa, la corruzione diffusa, la criminalità organizzata 18. Volendo ora approfondire qui qualcuno di questi elementi, si può osservare che un handicap spesso citato dalle imprese italiane è l’elevato livello della pressione fiscale e contributiva. Le pesanti manovre finanziarie dell’ultimo decennio hanno comportato che la pressione fiscale – sulla media dell’economia – salisse anche oltre il 43% e rimanesse su livelli molto elevati (cfr. cap. 5, Tab. 5.4); inoltre, il nostro paese ha un rapporto tra entrate pubbliche e Pil pari ad oltre il 46% nel 2018, anche se in lieve calo rispetto ai massimi del 2012-2014 (cfr. cap. 5, Tab. 5.1). Il problema è aggravato dal fatto che le imprese che evadono od eludono esercitano una concorrenza sleale, mentre quelle “oneste” sopportano un carico talvolta insostenibile 19. Sarebbe invece importante, per rilanciare la crescita, cominciare a ridurre almeno le imposte sulla produzione e sul lavoro 20. La competitività può essere non solo misurata in termini aggregati e riferita al contesto internazionale (si veda il par. 20.4), ma anche correlata ad un insieme composito di fattori più microeconomici, che possono ad esempio essere sintetizzati in indicatori, come il Global Competitiveness Index 21. Esso è basato sui seguenti 12 pilastri di competitività: (i) istituzioni, (ii) infrastrutture, (iii) adozione di tecnologie ict, (iv) stabilità macroeconomica, (v) salute, (vi) abilità (skills), (vii) mercato dei prodotti, (viii) mercato del lavoro, (ix) mercati finanziari, (x) ampiezza del mercato, (xi) business “dinamico”, (xii) capacità innovativa. Ebbene nel 2017 l’Italia figurava al 31° posto (su 140), preceduta non solo da molti paesi Ocse, ma anche da alcuni paesi non Ocse (tra cui diversi paesi dell’Estremo Oriente ed un paio di paesi arabi). Considerando i singoli pilastri, l’Italia risultava nelle posizioni più arretrate per il mercato del lavoro (79° era la posizione nel ranking), la stabilità macroeconomica (58), le istituzioni (56), l’adozione di ict (52). Il nostro paese risultava più avanti per la sanità (6), l’ampiezza del mercato (12), le infrastrutture (21). 18 Per inciso, l’incidenza di quest’ultima (peraltro ormai diffusa anche in molte regioni del Centro-Nord) contribuisce a spiegare come mai, all’interno di un’economia stagnante anche per carenze infrastrutturali e scarsi investimenti, le regioni meridionali sono quelle ancor più ritardatarie. 19 Infatti poiché il Pil include anche una stima dell’economia sommersa, l’effettiva incidenza media della pressione fiscale e contributiva nell’economia regolare è ben superiore ai dati ufficiale qui riportati. 20 In qualche misura, questa è stata la direzione di marcia di diversi governi negli ultimi anni: meno imposte su imprese e lavoro, più imposte sui consumi (ma l’aumento delle aliquote Iva, previsto nelle ultime manovre di bilancio quale “clausola di salvaguardia” è stato opportunamente sterilizzato), casa e rendite finanziarie. Il governo Conte ha invece progettato l’introduzione dal 2019 di un cosiddetto “reddito di cittadinanza” a favore degli individui poveri e senza lavoro, obiettivo condivisibile (al di là della configurazione tecnica adottata, i cui dettagli al momento non sono del tutto noti) considerata l’inaccettabile estensione della povertà (che ormai riguarda oltre 5 milioni di italiani). Purtroppo però, quasi tutti i governi italiani degli ultimi anni hanno proseguito con l’antico vizio di attuare “condoni fiscali” in forma più o meno mascherata. 21 Calcolato ogni anno dal World Economic Forum. Nel 2018 è stata pubblicata una versione aggiornata, basata su nuovi indicatori.

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Un’altra principale determinante della produttività del lavoro è, anche nei modelli teorici di crescita, l’accumulazione di capitale, inteso come capitale fisico: da qui la più volte ribadita importanza degli investimenti in stabilimenti, macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto. Le nuove teorie della crescita, come i modelli di crescita endogena, enfatizzano invece il ruolo del capitale umano. Per semplificare, un elevato capitale umano favorisce lo sviluppo di nuove idee, l’utilizzo di tecnologie più avanzate che – applicate in settori con rendimenti crescenti di scala – innalzano la dinamica della produttività (cfr. VISCO, 2014). Nei lavori empirici di solito si utilizzano gli anni d’istruzione o la quota di popolazione in possesso di un dato titolo come proxy del capitale umano. Naturalmente, il capitale umano è una variabile complessa, che dipende non solo dall’istruzione scolastica od universitaria, ma anche dalla formazione generica e specifica, dalle attività formative “on-the-job” e dalla formazione continua, dall’esperienza, dai percorsi educativi extra-scolastici, dal “background” sociale e familiare, etc. Comunque dagli studi empirici emerge in generale una buona correlazione tra gli indici d’istruzione e formazione 22, da un lato, e la crescita economica, dall’altro lato. L’Italia risulta molto distaccata dagli altri paesi anche in relazione alla quota di popolazione in possesso dei titoli di studio più elevati, secondari (diploma di scuola superiore) o terziari (titoli universitari). Per esempio, considerando l’istruzione terziaria, è noto quanto essa sia poco diffusa sia tra i lavoratori che tra tutta la popolazione italiana. Meno noto è che il gap italiano concerne non solo i lavoratori in età avanzata ma anche le coorti più giovani (cfr. Fig. 20.6): solo il 27% della popolazione in età 25-34 anni possiede una laurea o titoli equivalenti (contro il 40% circa per la media UE-28) 23, ciò che ci relega in ultima posizione tra i paesi UE; mentre la corrispondente incidenza per l’istruzione secondaria sale al 70% (ponendoci al quartultimo posto nell’UE). Si aggiunga che numerosi rapporti (dell’UE, dell’Ocse o di altri organismi) evidenziano che un’elevata istruzione non solo favorisce la crescita economica del Paese, ma generalmente aumenta anche la probabilità di trovare un’occupazione per i singoli individui 24. L’ultimo aspetto che consideriamo, inerente il capitale umano, riguarda la spesa per l’istruzione, per la quale il distacco italiano è pure elevato e crescente, con una spesa attorno al 4% del Pil (nel 2015) contro una media UE-28 attorno al 5% (solo la Repubblica Ceca e la Romania spendono meno dell’Italia ed invece i paesi scandinavi spendono circa l’8% del Pil). Un’altra determinante cruciale della dinamica della produttività è la spesa in R&S: in Italia essa rappresenta solo l’1,38% del Pil (cfr. Fig. 20.7) contro un po’ più del 2% medio UE; si noti 22 Misurati sia in termini di quote di popolazione in possesso di istruzione secondaria (diploma di scuola secondaria superiore) o terziaria (diploma di laurea o titoli più elevati), sia di numero medio di anni d’istruzione (per i vari paesi), sia infine di “qualità” dell’istruzione ossia di performance dei processi educativi. Riguardo all’ultimo punto, l’Ocse ha promosso dall’anno 2000 un programma (“Programme for International Student Assessment”, noto come test PISA), con lo scopo di valutare il livello d’istruzione degli adolescenti (attorno ai 15 anni). La valutazione, distinta per ambiti principali (matematica, scienze, lettura), evidenzia ogni anno dei risultati anche in questo caso insoddisfacenti per l’Italia in confronto con gli altri paesi (pur con notevoli differenziazioni tra le regioni italiane). 23 Incidenza che coincide con il target per il 2020 del piano “Europa 2020” (cfr. cap. 21). 24 Nel caso italiano risulta tuttavia elevato il mismatch con riferimento alla condizione occupazionale dei laureati; quindi, i pochi laureati italiani sono in parte occupati in attività per le quali non è richiesta la laurea; ciò deriva soprattutto dalla bassa domanda di laureati da parte delle (piccole e medie) imprese italiane.

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che il 3% è l’obiettivo del programma “Europa 2020” dell’UE (ma 1,53% è il target nazionale dell’Italia: cfr. cap. 21). È significativo ricordare che l’handicap italiano su questo fronte riguarda tanto la spesa pubblica (università ed altre istituzioni pubbliche) quanto quella privata. Il motivo per cui le imprese italiane investono poco in R&S è principalmente connesso alla questione dimensionale (cfr. par. 20.4). Secondo alcune interpretazioni, la deludente crescita italiana è dovuta soprattutto all’inadeguato sfruttamento dei vantaggi derivanti dalla rivoluzione tecnologica dell’Ict. Figura 20.6. – Diffusione dell’istruzione secondaria e terziaria Adulti con almeno un titolo di studio secondario superiore nei paesi Ue per classe di età – Anni 2016 e 2007 (%) 25-64 Terziario

% 100

25-64 Sec. sup.

25-34 Almeno sec. sup.

25-64 Terziario

2007 Almeno sec. sup.

90 80

Ue28 Romania Belgio Grecia Italia Spagna Portogallo Malta

Paesi Bassi

Irlanda Cipro Regno Unito Lussemburgo Francia

Ungheria Croazia Bulgaria Danimarca

Germania Svezia Austria

Estonia Finlandia Slovenia

115

Slovacchia Polonia Lettonia

Lituania Cechia

70 60 50 40 30 20 10 0

Nota: incidenza % di popolazione con istruzione terziaria o secondaria (barre scure e chiare rispettivamente) sulla popolazione 25-64 anni e sui giovani 25-34 anni (triangoli scuri e chiari rispettivamente). Fonte: Eurostat.

È quindi sorprendente che, nonostante questa bassa spesa in R&S, la capacità innovativa risulti moderata ma non modesta. Infatti, l’Italia è, nell’UE, nel gruppo di “innovatori moderati”, certamente indietro rispetto agli “innovator leader” (i paesi scandinavi e il Regno Unito), agli “strong innovator” (quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale) e sotto la media dell’UE; comunque, non nell’ultimo gruppo (quello dei “modest innovator”). Il motivo della performance, negativa ma non grave, è da ricercare nel fatto che le imprese italiane sono, da un lato, brave “imitatrici” e, dall’altro lato, realizzano innovazioni incrementali, ad esempio per “personalizzare” le produzioni o migliorarne la qualità. Vi sono inoltre differenziazioni regionali (cfr. Fig. 20.7). Per esempio quasi tutte le regioni centro-settentrionali rientrano nel terzo gruppo, quello dei “moderate innovator”, anche se solo pochi anni prima figuravano nel secondo gruppo; in posizione ancor più arretrata le regioni meridionali.

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Figura 20.7. – Spesa e addetti in R&S per settore istituzionale %

Imprese

Ist.pubbliche

Università

2007 (totale)

Personale R&S

3,5 3,0 2,5 2,0 1,5 1,0 0,5 0,0

Nota: incidenza % della spesa per R&S sul Pil per settore istituzionale (imprese, istituzioni pubbliche, università) ed incidenza % del personale R&S. Fonte: Eurostat.

La moderata capacità innovativa e le contenute spese in R&S pongono seri limiti alla capacità di competere delle nostre imprese nell’economia globale (come vedremo anche nella prossima sezione), soprattutto in un contesto in cui la “Quarta Rivoluzione industriale” sta dispiegando i suoi effetti. La cosiddetta Industria 4.0 è un programma di politica industriale finalizzato ad accrescere la competitività delle imprese, alla luce del radicale cambiamento verso il digitale che sta investendo l’intero contesto produttivo globale. Essa sfrutta le tecnologie di produzione intelligenti e le più recenti infrastrutture di informazione e comunicazione (per esempio le reti “5G”), è basata sulla interconnessione (all’interno della fabbrica ma soprattutto con l’esterno) e per questo la “fabbrica 4.0” sarà più intelligente, dinamica e flessibile. L’idea iniziale è nata in Germania, ma ormai diversi paesi europei hanno delineato programmi e strategie per favorire la transizione verso Industria 4.0, sostenendo in certi casi anche l’eco-sostenibilità. È opportuno che l’Italia non resti del tutto staccata anche su questo fronte 25.

25 Gli ultimi governi hanno avviato un insieme di iniziative, tra cui soprattutto un sistema di finanziamenti ed incentivi fiscali, finalizzati ad agevolare gli investimenti in beni strumentali, nella ricerca e nell’innovazione. In particolare, sono stati previsti (all’interno del bilancio 2018) “iper-ammortamenti” (fino al 250% degli importi investiti) nel caso dell’adozione delle nuove tecnologie e “super-ammortamenti” (130-140%) per gli investimenti in strutture produttive più tradizionali.

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Figura 20.8. – La mappa dell’innovazione in Europa Innovation Leaders Strong Innovators Moderate Innovators Modest Innovators –

+

Fonte: EU Commission, European Innovation Scoreboard, 2017.

20.4. Modello di specializzazione, competitività e questione dimensionale Un altro motivo della lenta crescita dell’economia italiana è costituito dal modello di specializzazione produttiva, ritenuto “obsoleto”, essendo la nostra economia specializzata in settori tradizionali, a basso valore aggiunto ed a limitato contenuto tecnologico. Mantenersi competitivi con questa specializzazione produttiva ed in un contesto di globalizzazione, in cui nuovi competitor si sono affacciati sulla scena mondiale, dai “Bric” a tutti gli altri paesi emergenti (cfr. cap. 14), era una scommessa difficile da vincere. Tanto più che, dopo la nascita dell’euro, non era più possibile ricorrere alla facile ed effimera scappatoia delle svalutazioni competitive. Molte imprese hanno cercato di superare le sfide competitive puntando sulla qualità delle produzioni – si pensi al made in Italy 26 – ed elevando in questo modo il valore aggiunto. Alla 26 I tipici settori di specializzazione sono spesso identificati con le “4 A”: abbigliamento-moda, alimentari, arredo-casa, automazione (inclusa meccanica, gomma e plastica). I loro punti di forza comprendono non solo qualità delle produzioni e design, ma anche flessibilità organizzativa ed un mix tra innovazione e creatività.

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lunga, tuttavia, questi sforzi non sono sufficienti per riuscire a preservare le proprie posizioni in un ambiente di competizione globale sempre più spinta. Nonostante questo, molte imprese italiane sono riuscite a presidiare i mercati esteri anche negli ultimi difficili anni; le imprese che esportano sono quelle che tutto sommato sono riuscite a reggere meglio l’impatto della crisi (a parte il 2009, anno di calo del commercio mondiale); invece le imprese più colpite sono prevalentemente quelle che producono solo per il mercato nazionale: sia beni intermedi e strumentali, che beni di consumo. Più in particolare, la specializzazione dell’industria italiana risulta: – alta nei settori tradizionali, a basso valore aggiunto (anche se alcuni presentano una crescita medio-alta a livello mondiale): ad esempio abbigliamento, pelli-calzature, mobili, oltre a prodotti in metallo, materiale elettrico, gomma-plastica; – pure alta nei settori a medio valore aggiunto, ma con dinamica inferiore a livello mondiale; si tratta dei settori “ad offerta specializzata”: macchine industriali marmi, piastrelle, vetro, alimentari; – bassa, con una de-specializzazione crescente nel tempo, nei settori a medio-alto valore aggiunto e molto dinamici: informatica, elettronica di consumo, chimica, mezzi di trasporto. Questo modello di specializzazione è attaccabile sia dall’alto, dai paesi industrialmente avanzati, specializzati in settori intensivi di R&S (ict, elettronica, farmaceutico) o con alte economie di scala (metallurgia, chimica, aeronautica, etc.); sia dal basso, dai paesi emergenti, con vantaggi comparati dovuti ai bassi costi di produzione (cfr. par. 14.3). Il modello di specializzazione obsoleto e la perdita di competitività delle produzioni italiane hanno comportato una diminuzione nel tempo delle quote di mercato delle esportazioni italiane, per esempio scese dal 3,6% del 2007 al 2,8% del 2017 (a prezzi correnti), dopo aver toccato un minimo nel 2012 (cfr. Fig. 20.9). È vero che anche altri paesi avanzati hanno perso quote di mercato nel nuovo secolo, a causa della maggiore dinamicità della Cina e degli altri paesi emergenti (si vedano i capp. 13 e 14), ma questa contrazione è comunque preoccupante. La Fig. 20.9 mostra, tuttavia, che durante la crisi (in particolare dal 2008 al 2012) l’indicatore di competitività è migliorato; un andamento questo comune ad altri paesi periferici d’Europa (si veda la discussione sui Piigs nel par. 19.4), che proprio dopo la crisi hanno subito una “svalutazione interna” con riduzioni dell’inflazione e della crescita salariale. Comunque, sia per l’andamento meno sfavorevole del tasso di cambio reale sia per fattori di natura strutturale (infatti di recente la domanda mondiale si è maggiormente orientata verso prodotti di specializzazione italiana), i tradizionali disavanzi commerciali e della bilancia dei pagamenti italiana si sono tramutati in avanzi 27. È comunque interessante segnalare che il saldo commerciale è divenuto positivo a partire dal 2012-2013; la causa principale di questi miglioramenti sta non solo nella contrazione delle importazioni conseguente alla lunga crisi o stagnazione, ma anche nella migliore dinamica delle stesse esportazioni. Conseguentemente, anche le partite correnti 28 hanno evidenziato dal 2013 in poi saldi positivi (cfr, Fig. 20.10), ciò che a sua volta ha determinato un netto miglioramento della posizione debitoria sull’estero dell’economia italiana. 27 Già in passato, il saldo commerciale dell’Italia, tradizionalmente negativo, si tramutava in un saldo importexport positivo escludendo il comparto energetico; infatti, come è noto, la “bolletta energetica” pesa molto sulla bilancia dell’Italia, paese industriale trasformatore, ma povero di petrolio, gas e altre fonti energetiche. 28 Il profilo temporale delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è analogo a quello della bilancia commerciale, tuttavia il valore assoluto del saldo corrente è strutturalmente peggiore per l’Italia in quanto include voci con saldi quasi sempre negativi (redditi da fattori, trasferimenti unilaterali, etc.).

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I problemi dell’economia italiana

Figura 20.9. – Competitività e quote di mercato dell’Italia Quote in percentuale e indici in base 1999 = 100 3,6 3,4 3,2 3,0 2,8 2,6 2,4 2,2 2,0 1,8 1,6 1,4 1,2 1,0 0,8 0,6 0,4 0,2 0,0 2007 2008 2009 2010 2011

104,0 102,0 100,0 98,0 96,0 94,0 92,0 90,0 2012

2013

2014

2015

2016

2017

Quota a prezzi costanti (base 2010, scala sinistra) Quota a prezzi correnti (scala sinistra) Competitività (reciproco dell’indicatore di competitività basato sui prezzi della produzione dei manufatti 1999 = 100, scala destra)

Fonte: Ice (2018), “L’Italia nell’economia internazionale”, Rapporto ICE 2017-2018, Sintesi.

È comunque interessante segnalare che il saldo commerciale è divenuto positivo a partire dal 2012-2013; la causa principale di questi miglioramenti sta non solo nella contrazione delle importazioni conseguente alla lunga crisi o stagnazione, ma anche nella migliore dinamica delle stesse esportazioni. Conseguentemente, anche le partite correnti 29 hanno evidenziato dal 2013 in poi saldi positivi (cfr, Fig. 20.10), ciò che a sua volta ha determinato un netto miglioramento della posizione debitoria sull’estero dell’economia italiana. Un’altra importante caratteristica strutturale dell’economia italiana, in aggiunta alla specializzazione produttiva, è la struttura dimensionale. Come è noto, in Italia sono molto più presenti le “piccole e medie imprese” (Pmi), che non quelle grandi, rispetto alla struttura prevalente nell’Europa centro-settentrionale. Si è giunti perfino a parlare di nanismo del sistema industriale italiano, a causa della diffusione delle “micro-imprese” (con meno di 10 addetti); anche se queste ultime sono prevalenti in certi servizi come il commercio, sono abbastanza diffuse anche in diversi comparti manifatturieri 30. 29 Il profilo temporale delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è analogo a quello della bilancia commerciale, tuttavia il valore assoluto del saldo corrente è strutturalmente peggiore per l’Italia in quanto include voci con saldi quasi sempre negativi (redditi da fattori, trasferimenti unilaterali, etc.). 30 Oltre alle micro-imprese (meno di 10 addetti), le piccole imprese hanno tra 10 e 49 addetti, quelle medie tra 50 e 249 e quelle grandi sopra i 249. Nel 2015 (dati Istat) le micro-imprese erano in Italia il 95,4% delle imprese totali (e occupavano il 46% del totale degli addetti), mentre le imprese piccole erano il 4,1% del totale (occupando il 19,3% degli addetti), le imprese medie lo 0,5% del totale (occupando il 12,7% degli addetti) ed infine, le imprese di grandi dimensioni erano solo lo 0,1% del totale delle imprese, ma occupavano il 22% degli addetti totali. Ne risultava, per tutte le imprese italiane, una dimensione media di 3,8 addetti; questo dato è naturalmente molto influenzato dell’incidenza delle imprese nel settore dei servizi, in quanto le sole imprese

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Figura 20.10. – Il saldo di conto corrente della bilancia dei pagamenti dell’Italia In percentuale del prodotto interno lordo 4

24

3

18

2

12

1

6

0

0

–1

–6

–2

– 12

–3

– 18

–4 2007

2008

2009

2010

2011

Saldo di conto corrente (scala sinistra)

2012

2013

2014

2015

2016

2017

– 24

Posizione patrimoniale sull’estero (scala destra)

Fonte: Ice (2018), “L’Italia nell’economia internazionale”, Rapporto ICE 2017-2018, Sintesi.

Questa caratteristica ha assunto connotazioni negative nell’ambito di un vasto filone di letteratura afferente alla “questione dimensionale” 31. Diciamo subito che vi sono anche vantaggi nella piccola dimensione, sottolineati sin dagli anni ’70 in quella nota corrente di pensiero secondo cui “piccolo è bello”. Le Pmi consentivano di superare il modello di produzione “fordista” incentrato sui vantaggi comparati derivanti dalle economie di scala; potevano adottare nuove tecniche produttive più “flessibili” (flessibilità poi accresciuta dalla diffusione dell’ict e di internet); erano caratterizzate non solo da flessibilità produttiva ma anche commerciale (potendo facilmente cambiare i mercati di sbocco in funzione dei mutevoli scenari nazionali ed internazionali). In effetti negli ultime tre decenni si sono diffuse (non solo in Italia) ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali, con i connessi fenomeni di outsourcing e downsizing. Le esternalizzazioni hanno riguardato dapprima molte attività di servizio svolte all’interno delle imprese industriali, poi anche attività manifatturiere relativamente autonome, favorendo ad esempio nelle imprese automobilistiche l’assemblaggio di componenti prodotte in aree e talvolta paesi diversi 32. Nell’economia globalizzata si sono così sviluppate le cd. “catene globali del valore” (Global value chains). In Italia questi processi sono andati di pari passo con il declino della grande impresa, sia privata che pubblica; quest’ultima si è molto ristretta anche a seguito dello smantellamento del sistema di partecipazioni statali (dagli anni ’90). Al di là della polverizzazione dell’apparato industriale, c’è però una specificità della nostra industria che costituisce un punto di forza manifatturiere hanno una dimensione media maggiore (ma comunque significativamente inferiore rispetto alle corrispondenti imprese europee). 31 Cfr., fra gli altri, FAINI, SAPIR (2005) e TONIOLO, VISCO (2004). 32 Quando l’outsourcing viene effettuato in paesi esteri, di solito è chiamato offshoring (coincidendo in pratica con gli Ide e le delocalizzazioni produttive: cfr. cap. 14).

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I problemi dell’economia italiana

(quindi studiato anche all’estero): si tratta dei distretti industriali 33. Questi sono concentrazioni spaziali di Pmi che producono beni simili o sono verticalmente integrate: i loro vantaggi sono che sfruttano le economie “esterne” (statiche e dinamiche), si avvalgono dell’elevato capitale umano (forza lavoro qualificata mobile all’interno del distretto) e capitale sociale esistente nell’area, di reti di servizi di buon livello. La recente crisi ha però mostrato che i distretti italiani sono in grado di resistere anche nel caso di condizioni avverse soprattutto se esiste una (o più) imprese leader, di medie dimensioni, che faccia da traino sul piano tecnologico, organizzativo o commerciale. Premesso tutto questo, non si può sottacere che vi sono numerosi studi, teorici ed empirici, che evidenziano i limiti delle Pmi, che sono in media (rispetto a quelle grandi): meno produttive, meno profittevoli (il loro vantaggio in termini di minor costo del lavoro non compensa il notevole gap di produttività); meno propense ad investire; meno orientate alla R&S ed alle innovazioni (organizzative, di processo, di disegno, o incrementali); meno utilizzatrici di un alto capitale umano; meno capaci di reperire finanziamenti e credito bancario. Spesso inoltre il loro problema non è la dimensione iniziale, quanto piuttosto la difficoltà a crescere, determinata da cause legislative ed istituzionali, dal comportamento del sistema bancario (che spesso discrimina le Pmi, anche a causa della scarsa diffusione delle banche d’investimento), dalle scelte delle stesse Pmi spesso influenzate dal rischio di perdere il controllo proprietario (molte Pmi italiane sono imprese familiari amministrate dallo stesso proprietario). Tutto ciò si sovrappone a più generali limitazioni del sistema manageriale italiano 34. Tutto questo può spiegare come mai il sistema delle Pmi ha riscontrato maggiori difficoltà dopo le recenti crisi, sebbene debba essere precisato che alcune piccole imprese dinamiche, incluse start-up innovative, si osservano in diversi settori (biomedicale, farmaceutico, ingegneristico, informatica, servizi specializzati, abbigliamento di lusso, etc.). D’altro canto, molte imprese di maggiori dimensioni sono pure entrate in crisi e, se non sono fallite, hanno attuato drastiche operazioni di downsizing, hanno delocalizzato le attività o sono state esse stesse acquisite dalle multinazionali (l’elenco delle società passate in mano straniera è particolarmente lungo) 35. Il problema non sta nel flusso di Ide incoming, che anzi dovrebbe aumentare – a causa della scarsa attrattività del nostro paese (rispetto a diversi altri paesi europei) – ma piuttosto nelle modalità secondo cui avviene il passaggio di proprietà 36. Inoltre occorre superare l’inadeguatezza delle acquisizioni all’estero effettuate dalle nostre imprese.

33 Si

veda, ad esempio, BECATTINI (1998 e 2000) e BECATTINI, DEI OTTANI (2006). PELLEGRINO, ZINGALES (2014), questo sistema è affetto da familismo, favoritismo, clientelismo, mancanza di meritocrazia (anche nella selezione e promozione dei manager); spesso gli imprenditori preferiscono manager fedeli ma scarsi, piuttosto che competenti e capaci di migliorare la performance aziendale. 35 Solo qualche esempio di imprese il cui controllo è passato (almeno in parte) in mani straniere negli ultimi anni: Versace e Indesit (nel 2014), Alitalia (al 49%) e Pirelli (nel 2015), Italcementi, Riello e Zucchi (nel 2016), Fintyre, Limoni (nel 2017), Telecom (2018) e molte altre in svariati settori che spaziano dall’alimentare, al credito, alle utilities. Solo per citarne alcune: Barilla, Plasmon, Parmalat, Algida, Edison, Gucci, BNL, Enel (per il 49%), Pernigotti, Perugina e Buitoni (dal 1988), Gancia, Carapelli, Star, Salumi Fiorucci, San Pellegrino, Peroni, Orzo Bimbo, Bertolli, Galbani, Invernizzi, Locatelli, Benelli. 36 Le società straniere vengono in Italia per investire e mantenere/allargare le capacità produttive oppure solo per realizzare profitti di breve periodo o addirittura per eliminare potenziali competitor? Comunque un atteggiamento favorevole agli Ide in entrata è espresso da MUTINELLI (2014), che discute anche delle politiche per aumentare l’attrattività dell’Italia. 34 Secondo

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20.5. Gli squilibri regionali ed i ritardi economici del Mezzogiorno Un’ultima caratteristica strutturale dell’economia italiana riguarda le disparità territoriali interne al paese. Storicamente il problema si è posto con riferimento al ritardo di sviluppo delle regioni del Mezzogiorno (Sud e Isole). Il distacco risale all’Ottocento (ed ai secoli precedenti) e secondo alcuni storici si era accentuato dopo l’Unità d’Italia. Si era parzialmente ridotto durante il periodo della convergenza (ossia dagli anni ’50 agli anni ’70 dell’ultimo secolo), grazie anche all’intervento pubblico. Questo si era esplicato sia con trasferimenti di reddito (a sostegno delle famiglie e delle imprese meridionali) sia con grossi investimenti pubblici, di tipo infrastrutturale o direttamente produttivo. Ad esempio le imprese a partecipazione statale avevano aperto grandi impianti (nei settori petrolchimico, siderurgico, cantieristico, etc.) nelle regioni meridionali, a cui hanno fatto poi seguito le imprese private (come le fabbriche della Fiat). Si tratta di un intervento anche criticato, perché ha portato soprattutto alla costruzione di quelle in seguito chiamate “cattedrali nel deserto” (grandi impianti industriali non in grado di sviluppare un sufficiente “indotto” nell’area circostante), ma che ha consentito in quell’epoca l’uscita del Mezzogiorno da una realtà puramente agraria. Certamente il tema degli squilibri regionali in Italia è più ampio e va al di là dei problemi del Mezzogiorno. Negli stessi anni ‘50 le aree più sviluppate del paese erano quelle del “Triangolo industriale” (Milano-Torino-Genova), caratterizzate da un reddito pro-capite decisamente maggiore rispetto alle restanti regioni e polo d’attrazione di investimenti, ma anche di forza lavoro (gli imponenti flussi migratori dal Mezzogiorno ma anche dal resto d’Italia). Poi, soprattutto dagli anni ’70 lo sviluppo economico si è propagato ad altre aree del paese, innanzi tutto il Nord-Est e poi scendendo verso Sud soprattutto lungo la costa adriatica. Si tratta di un’area – chiamata “Terza Italia” – che si è sviluppata secondo schemi differenti da quelli del Mezzogiorno, in quanto incentrati sulle Pmi, su attività labour-intensive (piuttosto che capital-intensive), sulle produzioni tipiche del “made in Italy”, sui vantaggi di un elevato capitale sociale: quello che è stato definito “modello di sviluppo endogeno” 37. Tornando al Mezzogiorno, va osservato che esso è stato penalizzato anche dallo sfavorevole contesto sociale e politico, a causa della maggior diffusione di fenomeni (pur presenti ormai in tutte le regioni italiane), quali la criminalità organizzata, l’economia sommersa, la corruzione, i rapporti clientelari con la politica, l’evasione fiscale 38; dagli anni ’70 ha subito dapprima un arresto della precedente convergenza e poi, soprattutto negli anni di crisi, un nuovo crescente distacco 39. Anche nel nuovo secolo il Pil per abitante del Mezzogiorno è rimasto molto inferiore a quello medio nazionale, per l’esattezza poco sopra il 55% rispetto a quello del Centro-Nord. In altre parole, il livello medio di sviluppo nel Mezzogiorno (nonostante significative differenze anche al suo interno) è poco più della metà di quello del resto del paese. Per capire quanto l’economia meridionale sia stata penalizzata dalle recenti crisi, si osservi la Tab. 20.1. Negli anni 2008-2014 il Pil italiano è diminuito complessivamente dell’8,5%, mentre l’UE nel suo complesso è cresciuta in media dell’1,4% 40; ebbene, il crollo nel Mezzogiorno è stato ancora più forte: – 13,2% (solo la Grecia, tra le aree di confronto, ha fatto peggio). 37 Cfr.

BECATTINI et al. (2003), FUÀ (1983), GAROFOLI (2001). fenomeni si sono poi diffusi anche alle altre regioni del paese, inclusa la stessa criminalità organizzata (basti considerare le infiltrazioni mafiose o della ‘ndrangheta nelle regioni del Nord). Anche la corruzione è purtroppo un male comune a tutte le aree del paese. 39 Cfr. PANICCIA et al. (2010). 40 E la Spagna, pur in contrazione, ha subito una caduta molto minore. 38 Questi

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Considerando tutto il periodo fino al 2017, comprensivo anche dei tre anni di ripresa economica, troviamo – 5,5% per l’Italia e – 10% esatto per il Mezzogiorno. Tabella 20.1. – Tassi di crescita del Pil nel Mezzogiorno ed in aree di confronto 2008-2014 Mezzogiorno Centro-Nord Italia Unione Europea Germania Francia Spagna Grecia

– 13,2 – 7,1 – 8,5 1,4 5,9 3,3 – 6,6 – 26,0

2015 1,5 0,8 1,0 2,3 1,7 1,1 3,4 – 0,3

2016 0,8 0,9 0,9 2,0 1,9 1,2 3,3 – 0,2

2017 1,4 1,5 1,5 2,5 2,2 2,2 3,1 1,4

2008-2017 – 10,0 – 4,1 – 5,5 8,4 12,3 8,0 2,8 – 25,4

Fonte: Rapporto Svimez 2018.

A questo punto viene spontanea la domanda: a cosa è dovuto un distacco così notevole tra la performance del Mezzogiorno, ad esempio in termini di prodotto pro-capite, e quella delle altre regioni italiane? Se seguiamo un approccio dal lato dell’offerta (come quello suggerito nel par. 6.1) possiamo presentare la seguente scomposizione (simile ma più completa di quella dell’equazione [6.1]): [20.1] Y/Pop = Y/N • N/L • L/Pop ossia il prodotto pro-capite (Y/Pop) può essere scomposto nel tasso di attività della popolazione (L/Pop) moltiplicato per il tasso di occupazione sulle forze di lavoro (N/L) moltiplicato per la produttività media del lavoro (Y/N). Ebbene gli studi empirici mostrano che tutti e tre i fattori sono più bassi nel Mezzogiorno (rispetto alle altre regioni) e quindi sono con-cause del più basso prodotto pro-capite. Innanzi tutto la minor produttività media dell’economia meridionale, a sua volta connessa al tipo di specializzazione produttiva, alla minor intensità capitalistica e di capitale umano dei processi produttivi, ai più limitati rendimenti di scala, al più basso progresso tecnico ed organizzativo, allo sfavorevole “business environment” ed a molte altre cause. Il più basso tasso di occupazione (N/L) è dovuto alla maggiore disoccupazione, che in molte regioni meridionali – oltre ad essere aumentata durante la crisi – è un rilevante fenomeno strutturale. Infine l’inferiore tasso di attività (L/Pop) è pure essenzialmente strutturale, connesso a cause economiche (i lavoratori scoraggiati sono costantemente di più a causa della persistente difficoltà a trovare lavoro), sociali e culturali (gli estremamente bassi tassi di attività femminili ne sono una manifestazione). Quindi si può parlare di “sotto-utilizzo” del fattore lavoro nel Mezzogiorno, accompagnato dalla maggior diffusione di lavori saltuari, occasionali, informali (o nei casi limite lavoro nero vero e proprio). Stando alle statistiche ufficiali (cfr. Fig. 20.11) ed avendo come riferimento il tasso di occupazione 41 nella fascia d’età 20-64 anni, per cui l’UE ha posto il target del 75% e l’Italia del 68% quale obiettivo nazionale 42, l’Italia nel suo complesso raggiungeva nel 2017 il 62,3%, contro il 72,2% dell’UE (e quasi l’80% di paesi come Germania e Regno Unito). Quanto 41 In questo caso, diversamente che dalla [20.1], si tratta del rapporto N/Pop, anche se la popolazione è solo quella in età fra 20 e 64 anni. 42 Sono gli obiettivi posti nel piano “Europa 2020” e nel corrispondente PNR italiano (cfr. cap. 21).

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alle macroregioni italiane, il Nord-Est e Nord-Ovest erano ben oltre l’obiettivo nazionale e le regioni del Centro erano quasi su tale livello, invece il Sud era solo al 48,2% e addirittura le Isole al 46,5% (quasi trenta punti sotto il target europeo ed oltre venti sotto quello nazionale). Il distacco è più drammatico per le sole femmine: 63,9% nel Nord-Est, 62,8% nel Nord-Ovest, 59,1% al Centro, fino ad arrivare al 34,8% al Sud e nelle Isole; la situazione appare molto critica anche rispetto ad altri paesi del Sud Europa (i tassi più bassi per il genere femminile si registrano in Spagna con circa il 60% e Grecia con il 48%) 43. Figura 20.11. – Tassi di occupazione (totale e femminile) nelle macroregioni italiane ed in aree di confronto (2017) 80 70 60 50 40 30 20 10 0

Nota: gli istogrammi in grigio chiaro si riferiscono al tasso di occupazione femminile. Fonte: Eurostat.

Al di là dei problemi strutturali del Mezzogiorno, che richiedono interventi specifici di politica regionale ed industriale 44, le questioni dell’occupazione devono essere affrontate a livello nazionale per mezzo di più efficaci politiche del lavoro (questo è l’argomento del prossimo capitolo).

43 Per confronti, anche se non recentissimi, tra la situazione del mercato del lavoro del Mezzogiorno e di altre regioni europee, cfr. BASILE, KOSTORIS-PADOA SCHIOPPA (2002) e DE SANCTIS (2008). 44 Cfr. CAPPELLIN et al. (2014a) e, per quanto riguarda le politiche specifiche suggerite per il Mezzogiorno nel contesto di oggi, DEL MONTE (2014) e VIESTI, PROTA (2014).

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I problemi dell’economia italiana

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Politiche per l’occupazione e la crescita in Europa ed in Italia

21.1. Riforme istituzionali e politiche per l’occupazione Nei precedenti capitoli, avevamo visto che, per combattere la disoccupazione, due tipi fondamentali di politiche debbono essere intraprese: le politiche macroeconomiche espansive per contrastare la disoccupazione “ciclica”, le politiche strutturali per ridurre quella “frizionale” e “strutturale” (cfr. cap. 6). Illustrando poi l’approccio neoclassico (cfr. par. 6.6), avevamo aggiunto che al fine di ridurre la disoccupazione “naturale” è opportuno limitare le rigidità nel mercato del lavoro e diminuire il costo del lavoro. Queste azioni avrebbero inoltre consentito, nel caso europeo, di contrastare il fenomeno della “eurosclerosi”, che comportava una maggiore persistenza del tasso di disoccupazione (rispetto ad esempio agli Stati Uniti) dopo ogni crisi, come si è verificato in alcuni paesi europei anche dopo la Grande Recessione e la crisi dell’Eurozona 1. La globalizzazione sempre più spinta, con una competizione agguerrita tra le economie mondiali (cfr. cap. 14), richiedeva anche una riforma delle pre-esistenti istituzioni del mercato del lavoro. L’approccio convenzionale alla regolamentazione del mercato del lavoro ed alle sue riforme, fu proposto inizialmente dall’OCSE (1994) e poi ripreso parzialmente dalla stessa UE. Esso può essere sintetizzato nei seguenti punti: i. riformare le istituzioni 2 del mercato del lavoro, introducendo una maggiore flessibilità per innalzare i livelli occupazionali (regolari) 3 nonché accrescere la produttività e contenere il costo del lavoro; ii. riformare le politiche passive, ossia il sistema di ammortizzatori sociali (vedi oltre); iii. rafforzare le politiche attive del lavoro (dette anche politiche per l’occupazione), rivolte rispettivamente a: – la domanda di lavoro: sono ad esempio le politiche di incentivazione delle assunzioni (job creation), promozione d'impresa e sviluppo locale; – l’offerta di lavoro: per esempio interventi a favore degli investimenti in capitale umano 1 Inoltre nel cap. 16 avevamo spiegato perché secondo le teorie Avo la flessibilità di prezzi e salari e la mobilità del lavoro sono importanti per favorire gli aggiustamenti dopo la comparsa di shock asimmetrici (e quindi rendere sostenibile l’unione monetaria). La flessibilità dovrebbe riguardare sia il mercato del lavoro sia quello dei beni e servizi (anche quest’ultimo è in parte affetto da rigidità e scarsa concorrenzialità, nonostante il “Mercato unico” europeo: cfr. cap. 15). 2 Si noti che le istituzioni – pur potendo essere riformate – mutano meno frequentemente rispetto alle singole politiche; cfr. BLAU, KAHN (1999), ESPING-ANDERSEN (1999). 3 Il mercato del lavoro “irregolare” fa riferimento al lavoro “nero” cioè svolto in assenza di contratto (se di tipo dipendente) o, comunque, senza il rispetto della normativa esistente (se di lavoro autonomo).

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(istruzione, formazione, apprendistato, riqualificazione dei lavoratori disoccupati, etc.); – l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro (job matching), agendo sulla mobilità dei lavoratori e sulle azioni di ricerca di lavoro (migliorando anche i servizi per l’impiego, l’efficienza delle agenzie del lavoro, la circolazione delle informazioni sui posti vacanti e sui lavoratori disponibili), l’orientamento professionale, la mobilità dei lavoratori. Le politiche passive sono quelle che intervengono più sui sintomi che sulle cause della disoccupazione (che potrebbe addirittura aumentare o divenire persistente nel caso di un utilizzo pervasivo ed incondizionato di queste misure) 4. Si tratta delle politiche di sostegno dei redditi, ad esempio per mezzo dei sussidi di disoccupazione; più in generale sono tutte le politiche assistenziali e redistributive (o di welfare). In Italia, gli ammortizzatori sociali includevano in passato, oltre ai sussidi di disoccupazione veri e propri, anche strumenti (oggi in parte riformati) come le indennità di mobilità, la “Cassa integrazione guadagni” (Cig), ordinaria e straordinaria, i prepensionamenti, i contratti di solidarietà ed i lavori socialmente utili. I sussidi di disoccupazione erano tradizionalmente trascurabili come ammontare 5, diversamente dalla “Cassa integrazione guadagni” (Cig), riservata però ai lavoratori della grande industria e di pochi altri settori; con la Cig, il contratto di lavoro rimaneva in essere ed anche il “cassintegrato a zero ore” continuava ad essere formalmente occupato (e non disoccupato) pur non lavorando per un periodo più o meno lungo (la durata massima della Cig era normalmente di uno o due anni) 6. I sussidi salariali, sia all’occupazione in generale sia di tipo marginale (ossia a favore dei soli neoassunti), sono invece più attinenti alle politiche attive, in particolare quelle di “job creation”. Forme di incentivazione alle assunzioni nelle imprese private comprendono lo sgravio di oneri fiscali e sociali (la cosiddetta “decontribuzione”), i crediti d’imposta, sussidi in denaro; inoltre, la job creation può prevedere l’assunzione diretta nelle amministrazioni pubbliche o nelle aziende pubbliche 7. L’Ocse aveva suggerito di introdurre politiche passive incentivanti la ricerca del lavoro, riformando i sistemi di sussidi di disoccupazione, attraverso la riduzione, quantitativa 8 o temporale, degli stessi sussidi di disoccupazione, ma soprattutto per mezzo della elargizione condizionata all’effettuazione di effettive azioni di ricerca di lavoro 9. Vediamo ora cosa si intende più precisamente per flessibilità del lavoro. Sono state propo4 È stato infatti osservato (SESTITO, 2001) che le politiche del lavoro e, più in generale, la regolamentazione del mercato del lavoro possono essere considerate sia come possibile rimedio che come eventuale causa della elevata disoccupazione, che ha caratterizzato l'economia europea (ed italiana in particolare). Sulla interazione complessa fra tipologie di politiche del lavoro (attive e passive) e crisi (con riferimento alla Grande Recessione), si veda DAL BIANCO et al. (2015). 5 Un vero sistema di ammortizzatori sociali era previsto dal “Libro Bianco” di Biagi (cfr. par. 21.4), quale contropartita per l’introduzione di numerose nuove forme di lavoro “flessibili”; tuttavia una parziale riforma del sistema di ammortizzatori sociali è stata attuata solo negli ultimi anni (si veda alla fine del capitolo). 6 Dopo la recente crisi era stata introdotta anche quella “in deroga” (applicata a lavoratori, settori ed imprese inizialmente non coperti), estesa quindi ad alcune figure di lavoratori “atipici”. 7 Nei decenni passati era ampio il ricorso in Italia a queste modalità, sovente con reclutamenti clientelari o quantomeno poco trasparenti (negli ultimi anni, il problema è stato semmai quello di limitare gli inevitabili alleggerimenti di occupazione nel settore pubblico). 8 L’entità del sussidio in rapporto al livello salariale è nota come “replacement ratio”. Tuttavia, la rilevanza empirica degli effetti causati dai sussidi di disoccupazione è ambigua (si veda BEAN, 1994) e può essere diversa in tempi normali rispetto alle situazioni di crisi (cfr. DAL BIANCO et al., 2015). 9 L’approccio del “welfare-to-work” (o “workfare”) fu adottato dal governo di Tony Blair nel Regno Unito, poi si è diffuso in molti paesi nord-europei (si veda anche il par. 6.8).

Politiche per l’occupazione e la crescita in Europa ed in Italia

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ste diverse classificazioni e qui proponiamo quelle relativamente più semplici. Una prima distinzione è tra flessibilità occupazionale e flessibilità salariale; iniziando a trattare della prima, la flessibilità occupazionale ricomprende quattro tipologie principali: i. la flessibilità esterna numerica fa riferimento ai costi (espliciti ed impliciti) derivanti dalle scelte di assunzione (la flessibilità in entrata) e di licenziamento (flessibilità in uscita); essa richiede l’allentamento delle restrizioni alle assunzioni ed ai licenziamenti, incluse le limitazioni legislative, contrattuali, sindacali e professionali; ii. la flessibilità esterna funzionale riguarda la mobilità dei lavoratori tra imprese (quindi anche tra comparti produttivi, tra regioni, tra mansioni) ed è influenzata dalle politiche attive del lavoro; iii. la flessibilità interna numerica concerne l’eliminazione dei vincoli circa le modalità di utilizzo del fattore lavoro riguardo soprattutto ai tempi di lavoro, inclusa la possibilità di aggiustare l’orario di lavoro (ricorso al lavoro part-time, ai turni di lavoro, al lavoro notturno o festivo, etc.); iv. la flessibilità interna funzionale (od organizzativa) afferisce all’eliminazione dei vincoli circa le modalità di utilizzo del fattore lavoro, riguardo ad esempio agli spostamenti dei lavoratori tra mansioni differenti; la produttività del lavoro all’interno delle imprese dipende infatti non solo dal progresso tecnico, ma anche dai sistemi organizzativi e dalle pratiche di gestione delle risorse umane. Si noti che la flessibilità occupazionale interna ha maggiore rilevanza nei sistemi economici con prevalenza di imprese di medie e grandi dimensioni in cui gli aspetti organizzativi relativi alla gestione delle risorse umane (turnover, progressioni di carriera interne all'impresa, etc.) hanno maggiore rilevanza e complessità 10. Riguardo alla flessibilità funzionale interna, i nuovi modelli organizzativi presuppongono un coinvolgimento degli stessi lavoratori e dei loro rappresentanti sindacali nel perseguimento di questa flessibilità; riguardano molteplici aspetti quali: la riorganizzazione dei luoghi di lavoro e l’adozione di nuove pratiche di gestione delle risorse umane, il perseguimento della soddisfazione dei lavoratori nei luoghi di lavoro, l’introduzione di high performance work practices, l’adozione di incentivi per favorire l’apprendimento degli addetti e il miglioramento delle loro prestazioni 11. La flessibilità occupazionale esterna può essere, come già precisato, “in entrata” oppure “in uscita”. Quella in entrata è legata a diversi fattori quali: (i) le istituzioni, inclusi i servizi per l’impiego, che favoriscono la transizione dalla scuola o università al lavoro (ad esempio un sistema “duale” di maggiore integrazione tra scuola e lavoro sembra garantire una maggiore flessibilità in entrata, agevolando l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro); (ii) la presenza di tipologie contrattuali (solitamente a termine) in grado di svolgere una funzione “ponte” per i giovani (generalmente con minore esperienza e produttività iniziale) entranti nel mercato del lavoro. Quest’ultima è anche detta flessibilità contrattuale e svolge propriamente la sua funzione “ponte” se favorisce un più rapido passaggio verso forme contrattuali maggiormente stabili (riducendo i periodi di disoccupazione), evitando i rischi possibili di intrappolamento su ripetute forme contrattuali temporanee 12. 10 In

proposito, si veda BRUNELLO (2001). FREEMAN, KLEINER (2000), ZWICK (2004). 12 La maggiore o minore diffusione dei contratti a termine dipende, fra l’altro, dai costi (salariali e non) rispetto ai contratti a tempo indeterminato. Ad esempio, costi salariali molto inferiori dei contratti a termine ed una protezione molto forte contro i licenziamenti per i contratti a tempo indeterminato possono concorrere ad un uso eccessivo ed improprio delle forme di lavoro temporaneo. 11 Cfr.

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Dagli anni ’90 in molti paesi dell’Europa continentale, inclusa l’Italia, è aumentata la cosiddetta “flessibilità al margine”, cioè relativamente alle forme contrattuali atipiche (contratti temporanei, part-time, lavori interinali, contratti di formazione-lavoro e di apprendistato, collaborazioni coordinate e continuative, lavori a progetto, job sharing, etc.), mentre il grado di protezione dell'occupazione standard era rimasto relativamente stabile 13. Ciò aveva favorito lo svilupparsi di un iniquo mercato del lavoro regolare “duale” in cui era relativamente più facile ottenere un contratto di lavoro “temporaneo” ma risultava mediamente non breve il tempo di passaggio verso un contratto di lavoro “permanente”. In particolare, i giovani risultavano penalizzati da occupazioni estremamente instabili e precarie (spesso anche mal retribuite), che durante le recessioni portavano a tassi di disoccupazione giovanile elevatissimi 14. Da qui diverse proposte, anche nel caso italiano, di nuove forme contrattuali, tendenti a coniugare i vantaggi della flessibilità per le imprese con l’attenuazione dei rischi di precarietà, soprattutto per i lavoratori più giovani, come ad esempio un contratto unico con tutele crescenti nel tempo 15. La flessibilità occupazionale in uscita è invece strettamente collegata ai diversi regimi di protezione dell’impiego (“employment protection legislation” nella letteratura inglese). In quasi tutti i paesi sviluppati i regimi di protezione dell’impiego stabiliscono alcune regole, più o meno rigide, nonchè il pagamento di un compenso monetario in caso di licenziamento (individuale e collettivo) 16. È stato rilevato 17 che in genere i regimi di protezione dell’impiego sembrano avere effetti ambigui sull’occupazione aggregata, pur determinando una maggiore instabilità ciclica nei sistemi più flessibili rispetto a quelli più rigidi; essi tendono a proteggere principalmente i lavoratori adulti, in quanto esiste una relazione negativa tra disoccupazione giovanile e rigidità di protezione. Infatti, i paesi più rigidi hanno flussi di entrata verso la disoccupazione e flussi di uscita dalla disoccupazione più bassi di quelli dei paesi più flessibili; pertanto, la durata nella disoccupazione è maggiore nei paesi più rigidi (anche se la probabilità di divenire disoccupato risulta inferiore) ed il turnover maggiore in quelli flessibili. Infine, va segnalato che nei paesi con sistemi di protezione dell'impiego più flessibili sono in genere molto sviluppati strumenti di sostegno temporaneo del reddito per chi viene licenziato (indennità di disoccupazione) assieme a politiche attive del lavoro che riducono la durata dei periodi di di13 Le innovazioni rilevanti sono state introdotte dalla legge TREU (1997) e dalla “legge Biagi” (2003) (cfr. par. 21.4). 14 Soprattutto in Italia, dove nel corso dell’ultima crisi avevano superato il 40%, congiuntamente all’esplosione dei Neet (giovani senza lavoro ed esclusi anche dai processi di istruzione e formazione), come già precisato in precedenza (nel cap. 19). Infatti, con la crisi e le diffuse riduzioni occupazionali i contratti a termine (ricoperti soprattutto da giovani) erano normalmente i primi a non essere “rinnovati” e tantomeno trasformati in contratti a tempo indeterminato. Sulla condizione dei giovani nel mercato del lavoro, specie dopo la crisi, cfr. BRADA et al. (2014), MARELLI, SIGNORELLI (2016b), BRUNO et al. (2017), CAROLEO et al. (2018). Sulle determinanti strutturali ed istituzionali della disoccupazione giovanile (incluso il cosiddetto experience gap), come pure sui processi di transizione scuola-lavoro, cfr. CHOUDHRY et al. (2013), PASTORE (2011 e 2015). 15 Si veda BOERI, GARIBALDI (2008). È una proposta accolta, in linea di principio, dal “Jobs act” del governo Renzi (come illustreremo alla fine del capitolo). 16 In Italia, limitatamente alla imprese con oltre 15 dipendenti, era prevista dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970 la possibilità di reintegro sul posto di lavoro (nel caso in cui un tribunale avesse giudicato illegittimo un licenziamento). 17 Si veda GARIBALDI (2001). I trasferimenti monetari imposti (in caso di licenziamento) dai regimi di protezione non hanno alcun effetto sull’occupazione totale e non modificano il valore medio delle retribuzioni (che sarebbero aggiustate internalizzando tale compenso differito); tuttavia, i regimi di protezione dell'impiego presentano caratteri di multidimensionalità che rendono non semplice la definizione di “graduatorie” tra paesi del grado di flessibilità/rigidità.

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soccupazione: è il già citato approccio di flexicurity, con una protezione del lavoro (e del lavoratore) “nel mercato” piuttosto che “sul posto di lavoro” (cfr. par. 6.8). Volgendo ora l’attenzione alla flessibilità salariale, essa richiede salari flessibili tali da garantire una buona corrispondenza tra dinamica salariale e stato del mercato del lavoro (ad esempio una crescita salariale inferiore in presenza di alti tassi di disoccupazione), ma soprattutto con la crescita della produttività (in modo da non causare conseguenze negative sulla dinamica del clup e della competitività: cfr. par. 6.7). Il tema della flessibilità salariale è stato tradizionalmente collegato alla pratica dell’incentivazione salariale, che nelle sue versioni più estreme consisteva essenzialmente negli schemi di “cottimo” individuale. In passato erano stati proposti schemi di incentivazione che legano la retribuzione ad indicatori di produttività di gruppi di lavoratori od alla performance dell'intera impresa. Lo schema più generale è quello proposto da WEITZMAN (1984), di compartecipazione ai profitti d’impresa, secondo cui si potrebbe, anche attraverso opportuni incentivi fiscali, ridurre la quota fissa del salario (ad esempio sino al livello compatibile con la piena occupazione) ed accrescere invece la componente variabile, così da rendere il salario complessivo più flessibile. Con tale schema viene garantita ai lavoratori una maggiore stabilità occupazionale, al costo di rinunciare in parte alla stabilità del reddito percepito (caratteristica questa degli schemi retributivi tradizionali). Il fine di accrescere il peso della componente variabile del salario va ben al di là della proposta di compartecipazione ai profitti 18. Infatti è stato suggerito, per tutti i paesi, un maggior decentramento della contrattazione salariale, ossia un sistema che permetta differenziazioni salariali non solo per qualifica o di tipo settoriale, ma anche a livello aziendale o territoriale 19. Anche in Italia, a partire dal 2009 la contrattazione è stata riformata attribuendo un maggior peso al livello di contrattazione decentrato (aziendale o, in subordine, territoriale) 20 nel determinare la dinamica salariale (tendenzialmente legata a quella della produttività), lasciando al livello nazionale il compito di definire i livelli salariali minimi. Erano inoltre previsti incentivi fiscali per la parte di retribuzione di secondo livello. In letteratura, è stato ultimamente utilizzato il concetto di “svalutazione fiscale” con riferimento alle politiche tendenti a ridurre il costo del lavoro, non tanto nella componente salariale, quanto piuttosto in quella delle imposte e contributi (il cuneo fiscale e contributivo, appunto) 21. È questa un’alternativa alla svalutazione vera e propria della moneta nazionale, che non è più possibile nei paesi che hanno perso la sovranità monetaria (come l’Italia nell’area euro). Per riguadagnare competitività i paesi possono naturalmente comprimere i salari, o almeno la crescita salariale, come hanno fatto diversi paesi dell’Eurozona durante la recente crisi (è questa la “svalutazione interna” discussa nel cap. 19). C’è tuttavia un modo più indiret18 Le più vaste applicazioni sono rintracciabili in Germania, dove si è diffusa la “co-determinazione” nelle imprese, per cui i sindacati dei lavoratori sono spesso rappresentati ai massimi livelli nella governance aziendale (fino ad arrivare a situazioni di “cogestione”). 19 Diversamente dalla definizione normativa di rigide “gabbie salariali”, che ad esempio (nell’Italia degli anni ’50) stabilivano in modo dirigistico le differenze territoriali dei salari e la relativa dinamica, la differenziazione regionale dei salari, derivante dalla contrattazione collettiva territoriale fra le parti sociali, si è attuata in modo decentrato basandosi sulle condizioni dei mercati locali del lavoro. 20 In realtà, una tendenza verso il decentramento contrattuale (o meglio di una contrattazione di “secondo livello”) si era riscontrata già a partire dagli accordi fra le parti sociali del 1992-1993. Il livello decentrato territoriale può rappresentare una soluzione per le piccole imprese (che in Italia costituiscono gran parte del tessuto produttivo) per le quali non è possibile la contrattazione (formale) a livello aziendale. 21 Si aggiunga che in tutta Europa, non solo in Italia, il costo del lavoro è tassato più pesantemente rispetto al capitale, per cui una correzione è auspicabile (ed in diversi paesi già realizzata).

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to per restare competitivi, ciò che richiede comunque un contenimento del clup (cfr. cap. 6), o almeno della sua dinamica: invece che ridurre il numeratore (il salario al lordo di imposte e contributi), si accresce il denominatore (ossia la produttività). Infatti, al fine di restare competitivi in un’economia globale e di “reggere” la concorrenza dei paesi emergenti, un paese maturo – invece che mirare alla “flessibilità salariale” intesa come restringimento dei salari (e forse anche delle tutele fondamentali dei lavoratori) 22 – dovrebbe valorizzare quella che è stata chiamata flessibilità innovativa. Mentre nella visione tradizionale (neoliberista) l’efficienza dei mercati e la minimizzazione dei costi (in particolare del lavoro) sono considerate condizione necessaria e sufficiente ai fini di una buona performance economica, per cui la flessibilità salariale è intesa in modo passivo (o di breve periodo), se ci mettiamo nell’ottica (di lungo periodo) di creare un ambiente favorevole alla crescita e quindi alle innovazioni occorre invece valorizzare la “flessibilità innovativa” 23. Essa trova alimento non solo in mercati efficienti ed in imprese competitive, ma anche in forme avanzate di partecipazione, coordinamento e partnership pubblico/privato, in un ambiente favorevole alla ricerca ed alla continua elevazione del capitale umano; inoltre pone attenzione al tipo di specializzazione produttiva ed alla qualità delle produzioni. È questa la “via alta alla competizione” nel mondo globale, per cui conta sempre di più non solo la creazione di molti posti di lavoro, ma anche l’innalzamento della loro qualità: more and better jobs, come suggerito anche dalla “strategia di Lisbona” (come vedremo nel prossimo paragrafo).

21.2. L’Agenda di Lisbona e la strategia Europa 2020 Il Trattato di Amsterdam, firmato nel 1997 ed entrato in vigore nel maggio 1999 (cfr. cap. 15), in aggiunta alle finalità generali rivolte ad una maggiore integrazione nell’UE, introduceva delle competenze europee specifiche in materia di occupazione e recepiva il protocollo sociale che era allegato al Trattato di Maastricht (poi rinviato) 24, mirante a garantire standard minimi di protezione sociale; inoltre introduceva delle competenze europee specifiche in materia di occupazione. Fino ad allora l’UE era stata piuttosto assente sul fronte dei problemi dell’occupazione (a parte la “libertà di stabilimento” sancita nel Trattato di Roma e l’azione dei fondi strutturali, in particolare del Fondo sociale europeo). L’unico documento rilevante era stato il “Libro Bianco” di Delors del 1994, che evidenziava la necessità di un maggior ruolo del livello europeo, anche tramite un coordinamento delle politiche nazionali per contrastare la crescente disoccupazione, mediante azioni integrate, incentrate su interventi tanto dal lato della domanda (sostegno della crescita economica attraverso investimenti ed opere pubbliche), quanto da quello dell’offerta (maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, interventi a favore della formazione e del capitale umano). È inoltre significativo che il Libro Bianco aveva (già allora) avvertito che la competizione tra sistemi economici avanzati si gioca non tanto attraverso il continuo abbattimento dei salari ed il “dumping sociale”, quanto puntando piuttosto sulla qualità, sul capitale umano e sull’innovazione. Dopo il Trattato di Amsterdam, prese avvio nel 1997 con il “processo di Lussemburgo” la 22 Si

veda anche la discussione sui rischi di “race-to-the-bottom” nel par. 14.3. distinzione tra i due tipi di flessibilità, che risale a Killick, è spiegata in ANTONELLI (1998) e ripresa in MARELLI, PORRO (2000). 24 Il governo conservatore inglese, al momento della firma del Trattato di Maastricht nel 1992, si rifiutò di accogliere questo protocollo sociale; nel 1997, il nuovo governo laburista diede invece via libera al suo recepimento da parte del Trattato di Amsterdam. 23 La

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Strategia europea per l’occupazione (Seo), incentrata su quattro pilastri: (i) accrescere l’occupabilità dei lavoratori (specie attraverso adeguati investimenti in istruzione e formazione); (ii) favorire la reciproca adattabilità tra imprese e lavoratori (accrescendo l’occupabilità di questi ultimi); (iii) sostenere l’imprenditorialità; (iv) promuovere le pari opportunità (specie di genere) 25. In seguito, nell’anno 2000, dopo che era stata già avviata l’Unione monetaria europea, emerse con maggiore chiarezza che l’UE soffriva per rilevanti problemi dell’economia reale (almeno se confrontata con la situazione degli Usa): in particolare, la limitata crescita e la bassa occupazione. Il Consiglio europeo di Lisbona decise quindi quella che fu chiamata Agenda (o Strategia) di Lisbona; questa, grazie anche alle integrazioni decise nei Consigli successivi, venne a specificare tre pilastri: i. il pilastro economico, che implicava riforme per favorire la produttività, l’innovazione e la competitività; ii. il pilastro sociale, per promuovere l’occupazione e la lotta all’esclusione sociale; in particolare il Consiglio europeo di Nizza (dicembre 2000) aveva definito un’Agenda sociale, per rafforzare ed ammodernare il modello sociale europeo, “caratterizzato dal legame indissolubile tra performance economica e progresso sociale”; iii. il pilastro ambientale: il Consiglio di Göteborg (2001), attraverso questo pilastro mirava a recepire gli obiettivi energetici ed ambientali fissati nel “protocollo di Kyoto” (l’UE fu tra le prime aree al mondo a recepire questi obiettivi). Con la Strategia di Lisbona, l'UE pose l'ambizioso obiettivo di “diventare la più competitiva e dinamica economia basata sulla conoscenza, capace di crescita economica sostenibile con creazione di maggiori e migliori posti di lavoro e con maggiore coesione sociale” 26. In particolare, per conseguire l'obiettivo di elevata crescita economica, erano state individuate delle linee guida fondate sul completamento del Mercato Unico, l'aumento della concorrenza e dell’innovazione, l’investimento in capitale fisico ed umano nonché in R&S, etc. Lo strumento principale era cogliere la sfida posta dalle nuove tecnologie (ict) e dall’economia della conoscenza. Inoltre, con riferimento al pilastro sociale, si fissarono due obiettivi quantitativi fondamentali – da raggiungere entro il 2010 – in termini di tassi di occupazione (calcolati sulla popolazione da 15 a 64 anni): tasso di occupazione totale del 70% e tasso di occupazione femminile di almeno il 60% 27. Nel Consiglio europeo di Stoccolma (2001) fu aggiunto un ulteriore obiettivo relativo alla classe di età 55-64 anni: tasso di occupazione di almeno il 50%. Tra gli obiettivi afferenti agli altri pilastri, citiamo quello sulla spesa in R&S sul Pil da elevare al 3% (dal 2% iniziale) e quello relativo al capitale umano, in particolare portare la quota di giovani (20-24 anni) con almeno il diploma di scuola secondaria superiore almeno all’85%. Per conseguire questi obiettivi, era stato proposto un approccio secondo cui gli strumenti specifici d’implementazione erano una combinazione del tradizionale metodo comunitario 25 In sintesi la Seo prevedeva la predisposizione di linee guida generali e specifiche per indirizzare (anche sulla base delle “best practices”) l’attuazione di politiche nazionali e regionali per l’occupazione, utilizzando anche le risorse del Fondo sociale europeo e richiedendo a ciascun paese la realizzazione di rapporti annuali sulle politiche effettivamente intraprese e sui miglioramenti di performance conseguiti. 26 A titolo indicativo si citava un tasso medio annuo di crescita del 3% per l’intero decennio, ambizioso ma non del tutto irrealistico: il 2000 era l’anno della new economy, era da poco nato l’euro, con una buona stabilità macroeconomica e finanziaria, etc. 27 L’intento era di avvicinare tali tassi ai livelli degli Usa e del Giappone, alzandoli dal 61% di inizio decennio per quello totale e dal 51% per quello femminile.

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(proposte della Commissione adottate dal Consiglio e dal Parlamento) e del metodo aperto di coordinamento, secondo cui i singoli paesi dovevano operare in modo decentrato, stimolati dalla “peer pressure”, dal confronto delle “best practices” e da valutazioni ex-post. La Commissione avrebbe svolto un ruolo importante nel proporre gli orientamenti, sviluppare indicatori per la valutazione e monitorare i risultati, mediante azioni di “sorveglianza multilaterale” 28. Nella valutazione intermedia (2005) della Strategia di Lisbona fu sottolineata la necessità di: (i) aumentare i tassi di occupazione (totale, femminile, 55-64 anni), (ii) facilitare l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro regolare, (iii) incrementare l'investimento in capitale umano, come condizione per avere una crescita maggiore e migliori posti di lavoro 29. In sintesi, possiamo affermare che nel periodo dal 1997 (anno di avvio della Seo) fino al 2007-2008 (cioè fino allo scoppio della crisi) si riscontrò una considerevole creazione netta di occupazione (regolare) in diversi paesi europei, con anche un significativo grado di convergenza sui tassi di occupazione 30, mentre molto più deludenti furono le dinamiche in termini di crescita della produttività e riguardo, più in generale, agli obiettivi dell’Agenda di Lisbona 31. Comunque le successive crisi che colpirono i paesi europei, in particolare quelli dell’Eurozona, non solo riportarono i tassi di occupazione ai livelli di oltre dieci anni prima, ma ovviamente influirono sia sui tassi di crescita occupazionale sia sui tassi di disoccupazione. Pur essendo vero che l’individuazione di obiettivi quantitativi in termini di tassi di occupazione (anziché di tassi di disoccupazione), effettuata dall’Agenda di Lisbona, consentì di meglio focalizzare gli interventi di policy sulla occupazione effettiva delle forze di lavoro potenziali (piuttosto che sulla mera riduzione della disoccupazione), anche un esame dell’andamento recente degli altri due indicatori può essere significativo per valutare l’impatto della crisi. Riguardo al tasso di disoccupazione (si veda anche la Tab. 19.2), esso risultò progressivamente decrescente nei primi anni del nuovo secolo. La dispersione tra paesi era però elevata e la Spagna ha a lungo evidenziato il più alto tasso tra i paesi UE. La Germania, che esibiva una cattiva performance fino al 2005 (anno di attuazione delle riforme Hartz), ha al contrario mostrato un tasso di disoccupazione progressivamente decrescente perfino negli anni di crisi, fino a toccare minimi vicini al 3% (analogamente a quelli inglese e degli Usa). In Italia si era ritornati con la crisi a tassi superiori al 12%, tassi che non si riscontravano dalla metà degli anni ’90, e che tuttora superano il 10%. Nell’UE, dopo la Grande Recessione, si cercò quindi di riorientare gradualmente le politiche economiche dalle necessità contingenti di gestione della crisi ed indirizzarle verso l’introduzione di riforme di lungo periodo che promuovessero la crescita e l’occupazione. Così il Consiglio europeo del giugno 2010 approvò una nuova strategia, che potesse rappresentare il proseguimento della precedente Agenda di Lisbona, ormai giunta al termine. La nuova strategia, chiamata Europa 2020, si poneva l’obiettivo di favorire non solo l’occupazione ma anche una crescita “intelligente, sostenibile e solidale”: 28 Come si capisce, è comunque un metodo (di “soft law”) alquanto diverso da quello “sanzionatorio” basato su regole rigide, come quelle del Patto di stabilità e crescita (cfr. cap. 18). 29 Dal 2005 le “broad economic policy guidelines” (Bepg) e le “employment guidelines” (Eg), ossia le linee guida generali e quelle specifiche per l’occupazione (proposte dalla Commissione), furono incorporate in un pacchetto di “orientamenti integrati”. Inoltre, la programmazione finanziaria 2007-2013 dell’UE cominciò ad includere un nuovo obiettivo “competitività per la crescita e l’occupazione” ad integrazione dei tradizionali obiettivi di convergenza; infine, il nuovo regolamento del Fondo sociale europeo dedicò particolare attenzione alla creazione di una “occupazione aggiuntiva e di qualità”. 30 Si veda in proposito, PERUGINI, SIGNORELLI (2007). 31 Infatti, molti paesi europei adottarono un modello di crescita “estensiva” caratterizzato da significativi incrementi occupazionali ma con inadeguata dinamica della produttività (cfr. MARELLI, SIGNORELLI, 2010c).

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– intelligente, per cui comprende azioni per la conoscenza, l’innovazione, l’istruzione, la società digitale; – sostenibile, che implica un uso più efficiente delle risorse; – solidale, al fine di incentivare la partecipazione al mercato del lavoro, l’acquisizione delle competenze, la lotta alla povertà. Europa 2020 individuava cinque obiettivi principali: occupazione, ricerca e innovazione, cambiamento climatico ed energia, educazione, lotta alla povertà 32. Riguardo all’obiettivo occupazionale, si intendeva facilitare la diffusione delle politiche di flexicurity, favorire l’acquisizione di competenze, riqualificare l’impiego e migliorare le condizioni di lavoro, stimolare la creazione di posti di lavoro. L’iniziativa “Youth on the move” comprendeva i programmi di “Garanzia giovani” (Youth Guaranteee), volti a contrastare la disoccupazione giovanile (ed i troppo alti tassi “Neet”), ed articolati a livello nazionale e regionale, incluse azioni quali: il sostengo dell’apprendimento e dell’acquisizione di competenze, l’attrazione dei giovani verso l’istruzione superiore, la promozione dell’apprendimento permanente e della mobilità del lavoro, il sostegno dell’occupazione giovanile. Anche Europa 2020, come già l’Agenda di Lisbona, prevedeva delle linee guida fissate dagli organi comunitari, che poi sarebbero state specificate e calate nelle singole realtà nazionali dai Programmi Nazionali di Riforma (Pnr). I Pnr sono elaborati annualmente dai singoli paesi nel mese di aprile ed inviati alla Commissione assieme ai Programmi di Stabilità (o di Convergenza), secondo lo schema del “semestre europeo” (cfr. cap. 18). Anche l’Italia nel 2011 presentò il primo Pnr fissando, all’interno degli obiettivi quantitativi di riferimento per tutta l’UE, dei target specifici nazionali, per ciascun ambito (e macrovariabile) di riferimento. Questi gli obiettivi europei e (tra parentesi) quelli specifici del Pnr dell’Italia da realizzare entro il 2020: – – – – – – – –

tasso di occupazione (20-64 anni) 33: istruzione terziaria o equivalente 34: abbandoni scolastici (18-24 anni): povertà ed esclusione sociale: spesa in R&S su Pil: efficienza energetica 35: energie rinnovabili 36: emissioni di gas serra 37:

75% 40% 10% –20 mil. 3% 20% 20% –20%

(67-69%); (26-27%); (15-16%); (–2,2 mil.); (1,53%); (13,4%); (17%); (–20%);

32 Inoltre specificava sette iniziative prioritarie (le iniziative “faro”): tre per la crescita intelligente (l’Unione dell’innovazione; Youth on the move; un’agenda europea del digitale); due per la crescita sostenibile (un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse; una politica industriale per l’era della globalizzazione); due per la crescita inclusiva (un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro; una piattaforma europea contro la povertà). 33 Avendo ridefinito la popolazione di riferimento (20-64 anni) questo target non è direttamente confrontabile con quello dell’Agenda di Lisbona (riferito alla popolazione con 15-64 anni). 34 Quota di giovani con 30-34 anni che hanno completato l’istruzione terziaria (ossia hanno completato un percorso di studi a livello universitario). 35 Riduzioni nel consumo di energia primaria (nel periodo 2005-2020). 36 Quota sul consumo finale di energia. 37 Riduzione dei gas ad effetto serra rispetto ai livelli del 1990.

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21.3. Verso il 2020: i risultati conseguiti nell’UE ed i ritardi dell’Italia L’Agenda di Lisbona e la Strategia Europa 2020 hanno avuto il merito di indicare obiettivi economico-sociali rilevanti per tutti i paesi dell’UE, inclusi i paesi dell’Eurozona, fissando anche target quantitativi di possibile realizzazione. Per i paesi dell’Eurozona, in particolare, questi obiettivi integravano quello dell’unione economica e monetaria, ormai avviata da un ventennio, ma tuttora incompleta. Come già rilevato (par. 19.7), la lunga crisi ha manifestato l’esigenza di predisporre strumenti efficaci non solo per affrontare eventuali nuove crisi, ma anche per favorire sia la stabilizzazione a seguito di shock, sia la convergenza economica reale di lungo periodo tra i paesi membri. Ciò che richiederebbe un bilancio dell’Eurozona dalle adeguate dimensioni, una condizione che al momento non ha il necessario consenso politico. Nel frattempo, i paesi membri hanno cercato di avvicinarsi agli obiettivi delle strategie sopra indicate contando sulle proprie risorse nazionali, al più rafforzate dall’azione dei fondi strutturali, comunque all’interno di un bilancio UE contenuto. In questo contesto, i target quantitativi fissati dai singoli paesi, che già all’inizio erano alquanto differenziati (da sottolineare sono ad esempio le limitate ambizioni dell’Italia per diversi indicatori sopra specificati), sono spesso stati di difficile realizzazione. Ora che anche il secondo decennio del secolo ventunesimo sta per terminare, possiamo cominciare a tirare le somme delle realizzazioni effettive. Faremo riferimento prima di tutto alla situazione media per tutta l’UE, per poi concentrare l’attenzione sul nostro paese; gli ultimi dati disponibili afferiscono al 2016 o 2017 38. La Tab. 21.1 mostra gli obiettivi fissati per l’UE nel suo complesso, i valori iniziali di riferimento (coincidenti con il 2008, l’anno pre-crisi) e le realizzazioni per l’ultimo quinquennio. Riguardo al tasso di occupazione, la tabella mostra un andamento crescente dal 2013 ed il dato al 2017 (72,2%) non solo è superiore a quello del 2008, ma non è molto distante dal target europeo (75%); tuttavia il tasso di occupazione maschile continua ad essere superiore (di quasi 12 punti percentuali) a quello femminile. Considerando ora un secondo indicatore, l’incidenza di giovani adulti con istruzione terziaria è pure in costante crescita ed ha praticamente raggiunto nel 2017 il target (essendo pari a 39,9%); in questo caso, la quota relativa alle giovani donne (circa il 45% è in possesso di laurea) distacca nettamente (di dieci punti) quella dei giovani maschi. Il tasso di abbandoni scolastici ha praticamente raggiunto il valore obiettivo, anche in questo caso con una performance significativamente superiore per le femmine. Gli obiettivi di sostenibilità ambientale sono stati parzialmente realizzati, con l’indice di emissioni di gas serra già sceso nel 2016 (a 77,6) sotto il valore obiettivo; la quota di energie rinnovabili sta salendo (17% nel 2016), ma è ancora al di sotto del target; stessa conclusione anche riguardo al miglioramento dell’efficienza energetica. Ancor meno soddisfacente l’evoluzione delle spese in ricerca e sviluppo, la cui incidenza sul Pil è da anni attorno al 2%; l’obiettivo del 3%, che c’era già nell’Agenda di Lisbona, continua ad essere un miraggio (stiamo sempre parlando della media dell’UE: alcuni paesi, per esempio quelli scandinavi, rappresentano significative eccezioni). Il maggior fallimento – a livello di intera UE – riguarda la riduzione della povertà. Infatti le 38 Si veda la pubblicazione EUROSTAT (2018), una pubblicazione aggiornata ogni anno, che contiene non solo gli indicatori principali commentati nel testo, ma anche molti altri indicatori di maggior dettaglio. Sono ad esempio molto interessanti i grafici in cui, per i vari indicatori, è confrontata la situazione di tutti i paesi UE; infatti emerge in generale un’elevata dispersione tra i singoli paesi.

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persone a rischio di povertà o di esclusione sociale, che erano 116 milioni nel 2008, continuano ad essere tuttora in numero un po’ maggiore, nonostante i miglioramenti degli ultimi anni, mentre l’obiettivo era di ridurle di almeno 20 milioni di unità. Questo fallimento confligge con lo spirito originario delle Comunità europee e con il ruolo da tempo assegnato alla coesione economica e sociale; inoltre ha profonde e pericolose implicazioni non solo sociali ma anche politiche (come già osservato alla fine del cap. 19). Tabella 21.1. – Europa 2020: Obiettivi e realizzazioni per l’UE nel suo complesso

Occupazione

R&S

Cambiamento climatico e energia

Istruzione

Povertà

Tasso di Occupazione 20-64 (% popolazione) Tasso di Occupazione femminile 20-64 (%) Tasso di Occupazione maschile 20-64 (%) Spesa totale in R&S (% Pil) Emissione di gas serra (1990 = 100) Energie rinnovabili (% sui consumi energetici finali) Consumo energetico primario (milioni di tonnellate di petrolio equivalenti) Consumi energetici finali (milioni di tonnellate di petrolio equivalenti) Abbandoni da istruzione e formazione (% 18-24) Abbandoni da istruzione e formazione, femmine (% 18-24) Abbandoni da istruzione e formazione, maschi (% 18-24) Laureati (% 30-34) Laureati, femmine (% 30-34) Laureati, maschi (% 30-34) Persone a rischio povertà o esclusione sociale (in milioni)

2008

2013

2014

2015

2016

2017

Obiettivo

70,3

68,4

69,2

70,1

71,1

72,2

75,0

62,8

62,6

63,5

64,3

65,3

66,5

77,9

74,3

75,0

75,9

76,9

78,0

1,84

2,02

2,03

2,04

2,03

3,00

90,6

80,4

77,4

78,0

77,6

80,0

11,1

15,2

16,1

16,7

17,0

20,0

1693

1571

1509

1532

1543

1483

1180

1108

1063

1086

1108

1086

14,7

11,9

11,2

11,0

10,7

10,6

12,7

10,2

9,6

9,5

9,2

8,9

16,7

13,6

12,8

12,4

12,2

12,1

31,2 34,3 28,0

37,1 41,4 32,8

37,9 42,3 33,6

38,7 43,4 34,0

39,1 43,9 34,4

39,9 44,9 34,9

116,1

121,6

120,8

117,8

116,9

< 10,0

> 40,0

96,2

Fonte: Eurostat, 2018.

I corrispondenti valori per l’Italia sono mostrati nella Tab. 21.2 e, in modo visivamente più evidente, nella Fig. 21.1. Il tasso di occupazione era nel 2017 pari al 62,3%, quasi identico a quello dell’anno iniziale, essendo pari al 62,9% nel 2006 (ma dopo essere sceso a 59,7% nel 2013); ma è comunque inferiore di quasi 5 punti al target nazionale e di 10 punti esatti al tasso di occupazione medio europeo (già commentato poco sopra); tra i paesi UE solo la Grecia fa registrare un tasso di occupazione inferiore. Si aggiunga che in Italia il gap tra i generi assume i massimi valori, essendo tuttora 72,3% il tasso di occupazione maschile e 52,5% quello femminile.

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I problemi dell’economia italiana

Tabella 21.2. – Europa 2020: Obiettivi e realizzazioni per l’Italia Risultato (anno)

Obiettivo (2020)

62.3 (2017) 1.29* (2016)

67-69% 1.53

–17.0* (2016)

–13

17.4 (2016)

17

148.4 (2016)

158

14.0 (2017)

16

26.9 (2017)

26-27%

18.137 (2016)

12.882

Tasso di Occupazione (% popolazione 20-64) Spesa in R&S (% Pil) Emissione di gas serra nei settori non ETS** (var. % dall’anno base) Energie rinnovabili (% sui consumi energetici finali) Consumo energetico primario (milioni di tonnellate di petrolio equivalenti) Abbandoni da istruzione e formazione (% popolazione 18-24) Laureati (% popolazione 30-34) Persone a rischio povertà o esclusione sociale (in migliaia)

Fonte: Eurostat, 2018. Note: * dato provvisorio; **settori non coperti dallo Emission Trading Scheme dell’UE.

Figura 21.1. – Europa 2020: Obiettivi e realizzazioni per l’Italia (una visione sintetica) Tasso di occupazione Persone a rischio di povertà o esclusione sociale

Livello di istruzione terziaria

Abbandono prematuro di istruzione e formazione

R&D spese

Emissioni di gas serra

Dati più recenti Obiettivo nazionale 2008

Quota di energia rinnovabile nel consumo finale lordo di energia Consumo di energia primaria

Fonte: Eurostat (2018).

Quanto alla istruzione terziaria, la sua incidenza è in crescita (era il 19,2% nel 2008) ed ha ormai raggiunto (con il 26,9% nel 2017) e di poco superato il target nazionale; ma quest’ultimo era stato fissato in modo poco ambizioso, molto al di sotto dell’obiettivo europeo. Come abbiamo visto sopra, l’UE ha già raggiunto in media un’incidenza di laureati pari al 40% della popolazione di riferimento; in diversi paesi del Nord Europa l’incidenza oscilla tra il 50% e 60%; invece l’Italia occupa da anni l’ultima posizione (assieme alla Romania). Interessante osservare che il gap di genere favosisce ancor più le donne nel nostro paese: infatti 34,1% e 19,8% sono i tassi femminile e maschile, rispettivamente. L’obiettivo nazionale è stato raggiunto e superato anche riguardo al tasso di abbandoni scolastici (scesi al 14% nel 2017); anche se superiore al tasso medio UE 39, i progressi compiuti sono stati comunque apprezzabili (il 39 E

solo tre paesi UE hanno un tasso di abbandono superiore al nostro: Romania, Spagna e Malta.

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tasso era quasi il 20% nel 2008). Anche per questo indicatore la performance femminile è migliore (11,2% contro 16,6% per i maschi). Gli obiettivi nazionali di sostenibilità ambientale sono stati tutti raggiunti: riduzione di gas serra, aumento delle energie rinnovabili, miglioramento dell’efficienza energetica. Per il raggiungimento di questi obiettivi ha paradossalmente giocato a favore la crisi economica, che ha implicato un minor fabbisogno energetico, diretto (con la produzione industriale che è crollata fino a punte del 25%) ed indiretto (grazie ai minori flussi di traffico, etc.). In ogni modo, i valori attuali (dei tre indicatori) sono abbastanza in linea con quelli medi europei; anzi, l’Italia aveva anticipato diversi altri paesi nell’utilizzo delle energie rinnovabili. Insoddisfacente per l’Italia è invece il dato della ricerca e sviluppo: l’incidenza sul Pil, ora attorno all’1,3%, è solo di poco superiore a quella del 2008 (1,16%), ma inferiore al nostro target (1,53%) e di un buon terzo inferiore a quella media dell’UE; comunque tra i paesi UE l’Italia si colloca in una posizione mediana (gli ultimi posti sono occupati in genere dai paesi dell’Est). Le implicazioni per le capacità innovative e competitive del nostro sistema industriale sono evidenti (cfr. par. 20.3). Anche in Italia, tuttavia, il maggior fallimento concerne gli obiettivi di tipo sociale, in particolare riguardo alla popolazione a rischio povertà ed esclusione sociale, esasperando le tendenze riscontrate in tutta l’UE (come ben evidente anche dalla Fig. 21.1). Infatti, tale popolazione, invece di ridursi (di 2,2 milioni di unità) è addirittura aumentata ben sopra i livelli iniziali (di oltre 2,3 milioni); in termini relativi, è passata dal 25,5% della popolazione totale nel 2008 al 28,9% nel 2017 40 (dopo aver toccato una punta del 30% nel 2016). Per concludere, l’Italia ha confermato anche nell’ultimo decennio alcuni “gap” rispetto alla media dell’UE, con particolare riferimento ai tassi di occupazione ed agli indicatori di capitale umano. Nonostante i progressi degli ultimi anni, abbiamo troppo pochi laureati e gli abbandoni scolastici continuano ad essere sopra la media. Mentre si sono addirittura ribaltati i divari di genere nell’istruzione, con una nettamente migliore performance femminile, le donne continuano ad avere maggiori difficoltà a trovare (o cercare) lavoro. I ritardi nella ricerca e sviluppo sono noti e persistenti, connessi in parte alla questione dimensionale delle imprese nel caso della spesa privata (cfr. cap. 20) ed in parte ai vincoli di bilancio nel caso della spesa pubblica. Il nostro Paese è invece meno lontano dalle medie europee riguardo agli indicatori di sostenibilità ambientale. Infine la lotta alla povertà non ha finora prodotto risultati significativi, accentuando così le già deludenti performance riscontrate a livello medio europeo.

21.4. Evoluzione della normativa sul lavoro in Italia Prima di illustrare l’evoluzione recente della normativa sul lavoro in Italia, pare opportuno partire dalla Costituzione italiana, che era (ed è) una delle più avanzate al mondo riguardo alla tutela del lavoro e dei lavoratori. La nostra Costituzione cita il lavoro addirittura nel primo articolo: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1). Altri articoli rilevanti sono i seguenti: “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” (art. 35), la tutela del lavoro femminile e minorile (art. 37), le norme sulla libertà sindacale (art. 39) e quelle sul diritto di sciopero (art. 40) 41. Dopo l’adozione della Costituzione, per almeno due decenni non furono introdotte leggi fondamentali in materia di lavoro. Le relazioni industriali stavano però mutando, soprattutto 40 Nello stesso anno era il 22,5% nell’UE. Incidenze superiori a quella italiana si riscontravano solo in quattro paesi (in ordine crescente): Lituania, Grecia, Romania, Bulgaria. 41 Per un’analisi delle istituzioni di diritto del lavoro si veda BIAGI, TIRABOSCHI (2012) e DEL PUNTA (2014).

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dagli anni ’60, grazie alla maggior forza contrattuale che via via assumevano i sindacati dei lavoratori, che a fine decennio vedevano unite le principali sigle sindacali (Cgil, Cisl e Uil: i “sindacati unitari”). La riduzione progressiva della disoccupazione e l’avvicinamento – dopo il forte sviluppo degli anni ’50 e il boom economico dei primi anni ’60 – a situazioni di quasi piena occupazione accresceva la loro forza sia nella contrattazione salariale che nel richiedere migliori condizioni e tutele di lavoro. L’apice di queste rivendicazioni, che comportavano ondate di scioperi mai visti prima in Italia, fu toccato nell’ “autunno caldo” del 1969 (successivo ai movimenti studenteschi del 1968 che si erano diffusi in molti paesi europei e prima negli Stati Uniti). Questi cenni sono importanti per capire il contesto economico-sociale dell’epoca: per la prima volta la “classe operaia” riusciva a portare avanti con determinazione richieste non solo di aumenti salariali e di maggiori tutele sul lavoro (accompagnati da una distribuzione del reddito più favorevole) 42 ma anche di un cambiamento nel “modello di sviluppo” 43. Il legislatore recepisce questo mutato clima economico-sociale con lo Statuto dei Lavoratori (la legge n. 300/1970). Il titolo della legge è molto lungo (a testimonianza della varietà dei temi trattati), ma inizia con “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale”. La legge include infatti norme sulla libertà di opinione, sulla sicurezza del lavoro, sul divieto dei demansionamenti, sulle libertà sindacali e sul divieto di discriminazioni, sulle rappresentanze sindacali in azienda. È però indubbio che lo Statuto dei Lavoratori è divenuto famoso per il suo “Articolo 18”, che prevedeva l’obbligo del reintegro del lavoratore 44 licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. Con questo obbligo di reintegro, che doveva essere deciso da un giudice, la normativa italiana sui licenziamenti risultava più restrittiva di quella presente in altri paesi europei (si veda la discussione sull’EPL nel par. 21.1), anche se va precisato che sin dall’inizio questa norma non si applicava alle imprese con meno di 15 dipendenti; pur essendo queste aziende la stragrande maggioranza delle imprese italiane, in termini di occupazione l’art. 18 interessava circa i due terzi degli operai ed impiegati italiani (erano infatti esclusi i dirigenti) 45. Nei due successivi decenni dopo l’introduzione dello Statuto dei lavoratori il quadro economico mondiale e nazionale era di nuovo mutato. Gli anni ’70 erano gli anni dell’instabilità valutaria (con frequenti svalutazioni della lira italiana), degli shock petroliferi (1973-1974 e 1978-1979), dell’elevata inflazione (anche a due cifre, fino a valori vicini al 20% in singoli anni). L’inflazione trovava alimento non solo nel circolo vizioso svalutazione-inflazione ma anche nella scala mobile, un sistema d’indicizzazione dei salari (e delle pensioni) che raggiunse la massima incisività con l’accordo sindacale del 1975 46. Negli anni ’80 alcune prime riforme cominciarono a depotenziare la scala mobile, riducendo il valore del punto di contingenza (il coefficiente di ragguaglio dei salari ai prezzi) e cambiando l’indicizzazione da trimestrale a seme42 Lo sviluppo economico italiano degli anni ’50 ed il boom economico dei primi anni ’60 erano stati favoriti anche dai bassi salari di partenza, più bassi di quelli prevalenti nei nostri partner europei (come abbiamo già discusso trattando del modello di Lewis: cfr. cap. 13). 43 Per qualche approfondimento si vedano VALLI (1979), BARCA (1997) e GAROFOLI (2014). 44 Si è usato il singolare in quanto la norma si applica ai licenziamenti individuali; per quelli collettivi il licenziamento per motivi economici (ad esempio quando un’impresa deve ristrutturarsi o ridurre la propria attività) era più agevole anche prima delle recenti riforme. 45 In alternativa al reintegro, poteva essere elargita un’indennità (pari a 15 mensilità), ma solo se scelta dal lavoratore. A partire dal 1990, un’indennità analoga era prevista anche per i licenziamenti effettuati dalle piccole imprese (sotto i 15 dipendenti). Una possibile estensione dell’art. 18 a tutte le imprese, anche quelle piccole, non fu approvata in un referendum del 2003 (per assenza di quorum). 46 Il cosiddetto “punto unico di contingenza” implicava che l’aumento percentuale dei salari era pressoché uguale a quello dei prezzi al consumo (o costo della vita) del trimestre precedente.

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strale. In effetti il tasso d’inflazione cominciò a ridursi in quel decennio (fino a valori attorno al 5% dal 1986). All’inizio degli anni ’90 questi progressi non sembravano sufficienti, soprattutto dopo la firma del Trattato di Maastricht. Ecco perché nel 1993 fu raggiunto uno storico accordo tra il governo (Ciampi) e le parti sociali, noto come “Protocollo Ciampi”. Esso, oltre a prevedere una riforma del sistema di contrattazione (introducendo quella biennale per la parte economica e quella quadriennale per le questioni normative, nonché aprendo alla contrattazione di secondo livello), abolì del tutto la scala mobile 47. Il protocollo introdusse pure norme sulle rappresentanze sindacali unitarie. Questo accordo è ricordato come l’esempio più alto di “concertazione”, che consentì di sconfiggere l’inflazione (portandola sotto il 2% a fine decennio) e di rispettare i criteri di Maastricht (cfr. par. 16.2 e la discussione sulla “politica dei redditi” nel par. 8.5). Gli anni ’90, in aggiunta alla convergenza verso l’Unione monetaria europea, segnarono anche il passaggio su vasta scala ad un’economia globale (cfr. cap. 14), in cui per restare competitivi – ed elevare i tassi occupazionali europei ai maggiori livelli di Usa e Giappone – occorreva rendere il mercato del lavoro un poco più flessibile. Del resto prima l’Ocse e poi l’UE (con la Seo) avevano suggerito di andare in questa direzione, come già discusso all’inizio di questo capitolo. Pertanto anche l’Italia si adeguò, puntando inizialmente ad accrescere la flessibilità in entrata nel mercato del lavoro. Nel 1997, con la legge 196, venne approvato il “Pacchetto Treu” 48, che seguendo appunto le indicazioni della Seo, mirava ad innalzare i tassi di occupazione, la produttività e la qualità del lavoro, a ridurre le inefficienze nel mercato del lavoro. Intervenne soprattutto introducendo o riformando nuove figure contrattuali (diverse dal contratto di lavoro a tempo pieno e durata indeterminata), i cosiddetti contratti atipici. In particolare, introdusse il lavoro interinale (attività di interposizione nelle prestazioni di lavoro), seppure in settori ed ambiti ben definiti; riformò i contratti di formazione e lavoro (anche per evitarne gli abusi ed accentuarne la componente formativa) ed estese l’applicabilità dei contratti di apprendistato 49. Nello stesso tempo attuò un’importante riforma dei servizi per l’impiego, consentendo anche ai privati (attraverso apposite agenzie di lavoro) di fornire alcuni di questi servizi 50. Pochi anni dopo, nel 2003, venne approvata la legge n. 30, detta “riforma Biagi” 51. Essa estendeva ancor più i modelli contrattuali di lavoro, anche al fine di favorire una emersione del lavoro irregolare. Un elenco non esaustivo di tipologie contrattuali (secondo alcune interpretazioni, in totale se ne contavano quasi 50) è il seguente: il contratto di somministrazione 47 La “scala mobile” era già stata sospesa l’anno precedente. Inoltre, con l’accordo del 1993 fu pure introdotto il concetto di “tasso d’inflazione programmato” (che il governo avrebbe dovuto fissare ed indicare nei documenti di programmazione economica), tasso che era rilevante per fissare gli aumenti salariali in occasione dei rinnovi contrattuali. 48 Treu era il ministro del lavoro nel primo governo Prodi. 49 In seguito, nel 2001, fu anche ampliato il possibile utilizzo del lavoro a tempo determinato (in attuazione di una direttiva comunitaria). 50 Anche a causa delle resistenze sindacali e nonostante l’elevata inefficienza degli “uffici di collocamento”, l’Italia è stato uno degli ultimi paesi europei ad aprire ai privati la realizzazione di servizi per l’incontro tra domanda e l’offerta di lavoro. 51 Sarebbe più appropriato chiamarla legge Maroni (che era ministro del lavoro nel governo Berlusconi quando la legge fu approvata). Biagi era un giuslavorista (poi ucciso dalle Brigate rosse) che nel 2002 predispose per il governo un “Libro bianco”, che prevedeva di accrescere la flessibilità in entrata, ma accompagnata da maggiori ammortizzatori sociali (questo secondo pilastro del Libro bianco non vide invece la luce né con la legge del 2003 né negli anni successivi).

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(che venne a sostituire il contratto di lavoro interinale); diverse tipologie di lavoro ad orario ridotto (part-time, job sharing, job on call); un nuovo tipo di apprendistato (destinato anche all’alta formazione e rivolto a giovani 18-29enni); il contratto d’inserimento (al posto del contratto di formazione-lavoro); il lavoro a progetto 52, in sostituzione delle precedenti “collaborazioni coordinate e continuative” (co.co.co.) che restavano in vita solo per il settore pubblico e pochi altri casi; il lavoro accessorio. Riformò ancora il sistema di collocamento, assegnando un ruolo importante alle attività private di intermediazione, di ricerca-selezione e ricollocazione del personale. Queste numerose forme contrattuali avevano garantito una notevole espansione occupazionale fino al 2008, ossia prima della crisi, causando però anche un crescente dualismo nel mercato del lavoro italiano, in cui accanto ai lavoratori garantiti (con il contratto di lavoro “standard”, ossia a tempo indeterminato, e le tutele previste dall’art. 18) si andava espandendo un corpo di lavoratori “precari”, per lo più giovani, meno tutelati (e quasi sempre anche peggio retribuiti), che risultavano sovente intrappolati in questa condizione (solo una parte riusciva a passare al lavoro a tempo indeterminato) e che, come già osservato, erano i primi a rischiare il posto in caso di crisi e conseguente riduzione della domanda di lavoro. Nel 2012 venne quindi approvata la riforma Fornero 53, con l’intento di realizzare un mercato del lavoro “inclusivo e dinamico” in cui il contratto a tempo indeterminato potesse divenire la forma dominante. Essa perciò prevedeva qualche disincentivo per la flessibilità in entrata, al fine appunto di contenere gli eccessi di precarietà, accompagnato da una modifica della flessibilità in uscita. Riguardo alle forme contrattuali atipiche, contemplava che l’apprendistato divenisse la via ordinaria di ingresso al lavoro; introduceva limitazioni all’utilizzo del contratto a tempo determinato (che avrebbe potuto essere stipulato per un massimo di 12 mesi la prima volta e di 36 mesi in totale); con riferimento ai lavori a progetto, venivano ridotte le possibilità di utilizzo ed era anche previsto l’aumento progressivo dell’aliquota contributiva (in aumento fino al 33%, a regime, come quella per i lavoratori dipendenti); disincentivi erano infine previsti per l’utilizzo delle “partite Iva” (infatti queste ultime mascherano spesso una forma di lavoro che nella sostanza è “dipendente” invece che autonomo, soprattutto nei casi di “monocommittenza”). In relazione alla maggiore flessibilità in uscita, la riforma Fornero già prevedeva una prima modifica dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori contemplando – sempre per le imprese con più di 15 dipendenti – tre tipologie di licenziamenti: discriminatori, disciplinari, economici (con il reintegro sostanzialmente previsto solo per le prime due tipologie). Infine la riforma Fornero prevedeva anche importanti cambiamenti nel sistema di ammortizzatori sociali, introducendo la cosiddetta Aspi (Assicurazione sociale per l’impiego), una misura sostitutiva dei sussidi di disoccupazione, delle indennità di mobilità, di alcune sotto-specie della Cig. Nel 2014, il governo Renzi fece approvare il Jobs Act, con il fine di superare il dualismo del mercato del lavoro italiano, recependo molti elementi della proposta del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (cfr. par. 21.1): in sostanza, nei primi tre anni del nuovo contratto a tempo indeterminato non si applicano tutte le tutele dello Statuto dei Lavoratori (riformato), mentre a conclusione del terzo anno le tutele aumentano; il contratto è a tutele 52 Visti i diffusi abusi e usi impropri delle collaborazioni (sovente per aggirare i maggiori costi del lavoro subordinato) nel lavoro a progetto fu anche prevista l’espressa sanzione della conversione a tempo indeterminato se il giudice avesse accertato la mancanza del progetto e dei requisiti di autonomia lavorativa. 53 Fornero era il ministro del lavoro nel governo Monti. Prima di questa legge del 2012, già nel dicembre 2011 fece approvare, all’interno della legge “salva Italia”, una vigorosa riforma delle pensioni, che tra le altre modifiche prevedeva l’innalzamento a 67 dell’età normale di pensionamento.

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crescenti anche nel senso che l’indennità che l’impresa deve pagare per porre termine al rapporto di lavoro aumenta al crescere dell’anzianità sul posto di lavoro. Inoltre l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori fu ulteriormente riformato, prevedendo che il reintegro sarebbe rimasto solo per i licenziamenti discriminatori e per alcuni di natura disciplinare particolarmente gravi; non per quelli economici, per cui era prevista solo un’indennità crescente con l’anzianità. Il “Jobs Act” conteneva anche un’ulteriore riforma degli ammortizzatori sociali, prevedendo una progressiva estensione dei sussidi di disoccupazione 54 e la contemporanea eliminazione della Cig straordinaria (Cigs). Altri punti qualificanti del Jobs Act includevano la riorganizzazione delle politiche attive e dei servizi per l’impiego (con l’istituzione di una nuova Agenzia nazionale per l’occupazione); una maggiore facilità per le imprese di riorganizzare le mansioni; la possibile sperimentazione di forme di “salario minimo”; nuove tutele per la maternità (anche per le lavoratrici precarie). C’è stato ampio dibattito, tra esperti e policymaker, circa gli effetti del Jobs Act. Nel triennio successivo al 2015, gli occupati in Italia aumentarono di quasi un milione di unità, recuperando le contrazioni riscontrate durante la crisi 55. Tuttavia l’occupazione a tempo indeterminato aumentò in modo significativo solo nell’anno iniziale, oltretutto specialmente grazie alla decontribuzione attuata in quell’anno 56; quando in seguito la decontribuzione fu gradualmente rimossa, le assunzioni a tempo determinato tornarono a prevalere. Più recentemente, nel 2018, il governo Conte ha cercato di porre un freno, con il “decreto dignità”, alle assunzioni a termine 57. I critici hanno fatto osservare che questa riforma, invece che favorire le assunzioni standard, potrebbe frenare la domanda di lavoro nel suo complesso. È comunque evidente che i policymaker devono operare entro un sentiero stretto, se vogliono contrastare l’eccessiva precarietà e non scoraggiare la domanda di lavoro. In ogni caso, le riforme istituzionali sono in grado di favorire davvero l’occupazione solo se le imprese hanno aspettative positive, ossia se vedono che sta aumentando la loro domanda di beni e servizi. Si torna quindi all’urgenza di politiche macroeconomiche espansive, già discussa negli ultimi capitoli. Infine occorre rammentare che un sistema di flexicurity è costoso, come l’esperienza danese e di altri paesi nordici mostra (cfr. par. 6.8), per cui i governi devono convincersi che l’accresciuta flessibilità nel mercato del lavoro diverrà sostenibile, anche socialmente, se la riforma degli ammortizzatori sociali sarà davvero completata, prevedendo risorse adeguate e stabili nel tempo. 54 La nuova “Naspi” avrebbe integrato l’Aspi e la “mini-Aspi” (quest’ultima riservata ai lavoratori assunti con alcune forme di contratti atipici) previste dalla riforma Fornero. 55 Anche se il numero di occupati è ritornato al livello pre-crisi lo stesso non può dirsi per le ore complessivamente lavorate: infatti, l’orario medio di lavoro nel 2018 era significativamente inferiore al livello pre-crisi. Inoltre, sono soprattutto le regioni meridionali (e qualcuna dell’Italia centrale come l’Umbria) a mostrare una performance occupazionale complessiva ancora inferiore al livello pre-crisi. 56 Una forte decontribuzione per i neo-assunti era infatti prevista dalla legge di Stabilità 2015 (per un periodo di 3 anni, a favore dei neo-assunti nel 2015). Tra le altre misure in tema di lavoro, era anche prevista l’eliminazione della componente “costo del lavoro” dal calcolo Irap (a partire dal 2015), ossia una riduzione delle imposte sul lavoro pagate dalle imprese. In precedenza il “bonus” di 80 euro mensili, già introdotto dal maggio 2014, equivaleva in sostanza ad una riduzione delle imposte a carico dei lavoratori (limitatamente a quelli con reddito imponibile medio-basso). 57 La durata massima dei contratti a termine è stata ridotta da 36 a 24 mesi, con un massimo di 4 rinnovi e l’obbligo della causale per i contratti di durata superiore ad un anno. Lo stesso decreto ha anche aumentato del 50% l’indennità prevista per i licenziamenti illegittimi, con un massimo di 36 mensilità; ha reintrodotto i “voucher” ma con un ambito di utilizzo più ristretto; ha previsto penalizzazioni per le imprese che delocalizzano dopo aver ricevuto aiuti di stato per investimenti e occupazione.

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In conclusione è opportuno osservare che le riforme del mercato del lavoro in Italia dovrebbero favorire non solo l’espansione dell’occupazione ma anche la riduzione del “lavoro irregolare” (o del “lavoro nero”), particolarmente diffuso nelle regioni meridionali e in alcuni comparti produttivi 58. Inoltre, se i posti di lavoro creati fossero anche di elevata qualità (i “better jobs” della strategia europea), a beneficiarne sarebbero anche la dinamica della produttività e le potenzialità di crescita dell’intero paese (come discusso nel precedente capitolo).

58 È tuttavia evidente che, prescindendo dalla efficacia dei controlli e del regime sanzionatorio, il “lavoro irregolare” è reso conveniente per l’impresa (e, talvolta, pure per il lavoratore) dall’elevato “cuneo fiscale e contributivo”. Da qui la maggiore efficacia (rispetto anche a misure alternative) dei provvedimenti di decontribuzione, specie se rivolti a giovani neo-assunti con contratti stabili.

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