La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale 9788895366098

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La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale
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La condizione postcoloniale

Negli ultimi anni gli “studi postcoloniali” hanno arricchito la nostra comprensione della storia della modernità e del presente globale, portando alla luce il ruolo costitutivo che ha giocato nella definizione di entrambi il progetto coloniale dell’Europa e dell’Occidente. Introdotti anche nel nostro paese attraverso un congruo numero di traduzioni di testi, autori come Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee, Achille Mbembe, Gayatri Chakravorty Spivak e Robert J.C. Young sono divenuti riferimenti obbligati nei dibattiti storiografici e teorico-politici, oltre che antropologici e sociologici. Questo volume presenta il lavoro di uno degli studiosi che hanno maggiormente contribuito alla ricezione italiana dei temi e degli autori “postcoloniali”. In una serie di saggi, l’autore indaga i caratteri salienti della “condizione postcoloniale”, si interroga sul ruolo che l’esperienza coloniale ha avuto nella definizione della storia e dei concetti politici fondamentali della modernità, rintraccia l’eredità del colonialismo nelle politiche europee di controllo delle migrazioni e si interroga sull’apporto che dagli studi postcoloniali può venire per una teoria critica della politica all’altezza delle sfide del mondo globale contemporaneo. Quel che ne risulta è un quadro di estrema attualità sia di un settore di studi in espansione, come quello appunto postcoloniale, sia di alcuni tratti salienti del nostro presente.

Sandro Mezzadra

Sandro Mezzadra La condizione postcoloniale

SANDRO MEZZADRA insegna “Studi coloniali e postcoloniali” e “Le frontiere della cittadinanza” nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. Attualmente è “visiting fellow” presso il Centre for Cultural Research della University of Western Sydney. Tra i suoi lavori: La costituzione del sociale. Il pensiero giuridico e politico di Hugo Preuss, Il Mulino, 1999 e, come curatore, I confini della libertà. Per una analisi politica delle migrazioni contemporanee, DeriveApprodi, 2004. Per i nostri tipi ha pubblicato Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione (nuova edizione accresciuta, 2006).

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Prima edizione: febbraio 2008 © ombre corte via Alessandro Poerio 9 - 37124 Verona Tel./fax: 045 8301735; e-mail: [email protected] www.ombrecorte.it Progetto grafico copertina e impaginazione: ombre corte ISBN: 978-88-95366-09-8

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Indice

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Introduzione Nota ai testi

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CAPITOLO PRIMO. La condizione postcoloniale 1. Uno stile globale?; 2. Decentrare il globale; 3. Sulla transizione; 4. Differenze postcoloniali; 5. Afferrare il presente

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CAPITOLO SECONDO. Immagine della cittadinanza nella crisi dell'antropologia politica moderna 1. Gli studi postcoloniali e la problematica della legittimazione; 2. L’antropologia politica implicita nel moderno discorso della cittadinanza; 3. Progetto coloniale e pensiero politico moderno; 4. One World. Globalizzazione e postcolonialismo

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CAPITOLO TERZO. Tempo storico e semantica politica nella critica postcoloniale 1. Tra world history e Weltgeschichte; 2. Il tempo della piantagione e il silenzio dell’archivio; 3. Oltre lo “storicismo”; 4. Contro-geografie della modernità; 5. Figure della soggettività; 6. Contrappunti

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CAPITOLO QUARTO. Il cittadino e il suddito. Una costituzione postcoloniale per l’Unione Europea? 1. Una lezione di alterità?; 2. Diritto e terrore; 3. Un nuovo mostro?; 4. Confini; 5. Europa a venire

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CAPITOLO QUINTO. Il nuovo regime migratorio europeo e la metamorfosi contemporanea del razzismo 1. Un nuovo nazionalismo?; 2. Razzismi; 3. Nella crisi del mercato del lavoro; 4. Cittadini europei, nuovo razzismo e nuovo antirazzismo

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CAPITOLO SESTO. Vivere in transizione. Verso una teoria eterolinguale della moltitudine 1. Capitale come traduzione; 2. Il capitale e l’Occidente; 3. Tempo e spazio del capitalismo globale; 4. Lavoro vivo in transizione; 5. Verso una teoria eterolinguale della moltitudine

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APPENDICE Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, “La cosiddetta accumulazione originaria” 1. L’accumulazione originaria, oggi; 2. Questioni di metodo; 3. Per la critica dell’economia classica (e “volgare”); 4. Una merce diversa dalle altre; 5. Nella transizione; 6. Alla ricerca del comune. Del comunismo

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Bibliografia

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Introduzione

Le carte venivano tirate fuori quasi ogni notte, e quasi ogni notte alcuni tratti di matita venivano cancellati e sostituiti con altri. Perché con le carte di tutti e quattro gli oceani davanti a sé, Ahab tracciava un dedalo di correnti e di vortici, con l’intento di portare a compimento il pensiero monomaniaco della sua anima H. MELVILLE, Moby Dick (1851), XLIV

1. In questione, nelle pagine che seguono, è il capitalismo contemporaneo. Non è scontato, in un libro intitolato La condizione postcoloniale. Altri temi – dal multiculturalismo all’islamofobia, dagli scontri attorno al velo in Francia o a Kabul ai diritti degli indigeni in Australia o in America latina – sono di solito al centro delle analisi che si richiamano alla critica postcoloniale. Non si tratta certo di problemi ignorati nei capitoli che compongono questo libro, scritti per diverse occasioni nel corso degli ultimi anni. Ma il baricentro attorno a cui essi trovano una loro coerenza, almeno nelle intenzioni dell’autore, è appunto un tentativo di complicare e arricchire l’analisi critica del capitalismo globale contemporaneo, dei rapporti sociali di produzione su cui si fonda e della loro persistente determinazione antagonistica. Ho incominciato a occuparmi degli studi postcoloniali incalzato dai problemi nuovi posti in Italia dalla crescente presenza e dalle lotte dei migranti negli anni Novanta. Non erano solo i confini del paese a essere forzati e spiazzati da quella presenza e da quelle lotte, che qualcuno si ostina a ritenere marginali, buone al più per rimescolare un “micidiale cocktail di pauperismo lamentoso e di pietismo cristiano” (Bologna 2007). Era la nostra immaginazione teorica e politica, era il canone del pensiero critico al cui interno si era svolta la mia formazione a essere sfidato dall’irruzione di un mondo che ci era in parte sconosciuto. Un insieme di percorsi collettivi, decisamente poco inclini al lamento e all’esercizio pur nobile virtù della pietas, si è dipanato a partire da questa consapevolezza. Confrontandoci con i dibattiti sulla “globalizzazione”, tentando di riconoscere un nocciolo di verità nelle retoriche spesso stucchevoli attraverso cui si pre-

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sentavano, abbiamo proposto prime approssimazioni sul profilo di quel mondo che sembrava essersi fatto definitivamente uno, a dispetto delle plateali disuguaglianze e delle linee conflittuali che lo attraversavano (Mezzadra, Petrillo, a cura di, 2000). Tra Seattle e Genova abbiamo colto e vissuto l’insorgere di un movimento che si collocava pienamente nella dimensione globale e ne interpretava in termini antagonistici i processi di costituzione materiale (Mezzadra, Raimondi 2001; “DeriveApprodi”, n.s., 1, 2, 3, 2002-2003). Negli anni successivi abbiamo tentato di attraversare, teoricamente e politicamente, lo spazio europeo per declinarlo nei termini di uno spazio globale, ancora una volta seguendo in modo privilegiato i movimenti e le lotte dei migranti (“DeriveApprodi”, n.s., 1, 2002; Mezzadra, Rigo 2003; Frassanito Network 2004 e 2006). Il mio confronto con gli studi postcoloniali è, come dicevo, parte integrante di questi percorsi di ricerca e di queste pratiche politiche. È al tempo stesso un capitolo di quel tentativo di provincializzare l’“effetto italiano” di cui ha scritto, in un saggio importante, Brett Neilson (2005). La pubblicazione del libro di Michael Hardt e Toni Negri, Impero (2000), ha in effetti determinato un processo di vera e propria globalizzazione dell’operaismo italiano, la specifica “tradizione” di pensiero critico al cui interno si è svolta la mia formazione e continua a collocarsi il mio lavoro. Per dirla con Edward Said, quella tradizione ha cominciato a “viaggiare”, travolgendo i confini geografici e politici che ne avevano perimetrato e limitato la pur significativa circolazione a partire dagli anni Sessanta del Novecento (e assumendo spesso tratti di “compattezza” irrispettosi della molteplicità di alternative teoriche che al suo interno si sono di volta in volta determinate). Gli studi culturali e postcoloniali, non solo nell’accademia anglosassone ma anche in Asia, in America latina e in Africa, sono stati in particolare investiti dall’“effetto italiano”, che con il passare degli anni ha finito per estendersi alla ricezione di diverse correnti teoriche, dagli scritti di Giorgio Agamben al pensiero della differenza sessuale. È noto che Said scrisse due volte il suo saggio dedicato alla traveling theory (Said 1982 e 1994), dando così piena espressione all’ambivalenza del processo descritto: viaggiando, la teoria critica può certo “addomesticarsi”, perdere la propria originaria carica di provocazione, ma può anche felicemente “ibridarsi” in altre costellazioni storiche, geografiche e culturali, dando luogo a concatenazioni e a esiti tanto imprevisti quanto interessanti. Il processo di globalizzazione dell’eredità teorica dell’operaismo italiano seguito alla pubblicazio-

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ne di Impero ha verificato pienamente la correttezza di questa tesi di Said. Cogliere ed esaltare le opportunità e le potenzialità dell’ibridazione, individuando in esse un antidoto contro ogni neutralizzazione della radicalità teorica e politica dell’operaismo è stato l’obiettivo che mi sono posto negli ultimi anni: in particolare attraverso quel confronto con gli studi postcoloniali che ha assunto una posizione via via più importante nella mia attività di ricerca, traducendosi tra l’altro nell’insegnamento di un corso universitario intitolato “Studi coloniali e postcoloniali”, nell’edizione italiana di testi rilevanti nell’ambito degli studi postcoloniali (Guha 1982, Spivak 1984 e Chatterjee 2003) e in un lavoro di scavo storico sulle diverse tradizioni del pensiero politico anticoloniale, concentratosi in particolare su W.E.B. Du Bois (Mezzadra 2004b e 2006b) e C.L.R. James (Mezzadra, a cura di, 2007). 2. Gli studi postcoloniali sono ormai ampiamente noti anche in Italia. Il lavoro pionieristico condotto per anni in sostanziale solitudine da studiosi come Iain Chambers e Lidia Curti all’Università orientale di Napoli (cfr. in particolare Chambers, Curti, a cura di, 1997) ha in qualche modo dissodato il terreno, che appare oggi fertile per una ricezione più meditata dei temi e delle acquisizioni di questa eterogenea corrente di studi. Grazie soprattutto all’impegno della casa editrice Meltemi, i lavori di Homi Bhabha, Dipesh Chakrabarty, Robert Young, Achille Mbembe, Gayatri Spivak (per limitarci ai nomi più noti) sono oggi disponibili in traduzione italiana e stanno diventando riferimenti obbligati nel dibattito che attraversa una pluralità di discipline, dalla filosofia politica alla sociologia, dall’antropologia agli studi di letteratura comparata. Studi storici (cfr. ad es. Stefani 2007) e letterari (cfr. ad es. Schiavulli, a cura di, 2007 e Benvenuti 2008) cominciano a sondare la produttività dell’approccio postcoloniale in riferimento alle specifiche vicende italiane, mentre l’appropriazione della lingua italiana da parte di una nuova generazione di scrittori e scrittrici migranti (cfr. Gambari 2005) consente anche da noi di misurare gli effetti di spiazzamento del canone linguistico e letterario che si determinano quando, per citare il titolo di un libro importante nella storia della critica postcoloniale, the Empire writes back (Aschcroft, Griffiths, Tiffin 1989). Non è qui necessario ricostruire la genealogia degli studi postcoloniali, l’intreccio di discipline e di pratiche teoriche nate all’interno dei movimenti anticoloniali, antirazzisti e femministi che ne ha determinato il costituirsi in un campo accademico relativamente co-

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erente nel mondo anglosassone a partire dalla metà degli anni Ottanta. Miguel Mellino (2005, in specie capp. I e II) lo ha fatto in modo egregio ed esaustivo, mostrando come, a partire dalla pubblicazione di Orientalismo di Edward Said (1978), un insieme di testi abbia da una parte registrato la radicale innovazione teorica determinata dalla centralità che assumeva in quel libro l’analisi critica del discorso coloniale; e come, dall’altra parte, la critica postcoloniale abbia messo in discussione i caratteri monolitici che il discorso coloniale tendeva ad assumere nel lavoro di Said, concentrandosi sui processi di ibridazione, negoziazione e resistenza che l’intervento dei soggetti colonizzati ha iscritto fin dalle origini della modernità nella trama di quel discorso. Quel che è importante sottolineare in questa sede è piuttosto il rischio implicito nella tardiva ricezione italiana degli studi postcoloniali. Non è d’altronde un fenomeno soltanto italiano: in Francia è stata necessaria la rivolta delle banlieues nell’autunno del 2005 per aprire le porte dell’accademia agli studi postcoloniali e per introdurli nel mercato editoriale (cfr. Mbembe 2005; Ivekovic 2006 e 2007; Smouts, a cura di, 2007). L’Europa continentale nel suo complesso sembra essere stata a lungo riluttante ad accogliere il contributo di questi studi, ed è questa una delle ragioni per cui, come appare chiaro da alcuni capitoli di questo libro (il quarto e il quinto in particolare), ho collocato proprio nella dimensione europea il mio confronto con essi. Il punto è, tuttavia, che la ricezione tardiva pare spesso accompagnarsi all’idea che il postcolonialismo sia una sorta di paradigma unitario, da accogliere o respingere in toto, tra l’altro proprio mentre nel mondo anglosassone il campo degli studi postcoloniali sta letteralmente implodendo, frantumandosi in una serie di ricerche specialistiche, dopo che la sua agenda ha contribuito a riorientare complessivamente il dibattito all’interno delle scienze umane e sociali (Loomba et alii, a cura di, 2005). La distinzione tra condizione postcoloniale e postcolonialismo, presentata nel primo capitolo, tenta precisamente di cogliere le opportunità implicite in questa situazione, ponendo le basi per un uso più libero delle categorie e delle acquisizioni della critica postcoloniale nella definizione di un nuovo paradigma del pensiero critico. 3. Gli studi postcoloniali offrono un contributo indubbiamente molto importante al rinnovamento del nostro modo di guardare alla modernità nel suo complesso: il secondo e il terzo capitolo del libro sviluppano quel contributo dal punto di vista della storia del pensie-

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ro politico e della storiografia. La storia globale della modernità fin dalle sue origini (che dai libri delle elementari abbiamo del resto imparato a situare nel 1492, con la scoperta e l’avvio della conquista europea del “nuovo mondo”) deve ormai essere letta a partire da una pluralità di luoghi e di esperienze, all’incrocio tra una molteplicità di sguardi che destabilizza e decentra ogni narrativa “eurocentrica” (Ghosh, Gillen 2007). A differenza di altre correnti che sono confluite in quella che oggi si definisce world history, gli studi postcoloniali ci insegnano poi a essere diffidenti verso ogni lettura troppo rigida del rapporto tra centro e periferia, che consegnerebbe la storia dell’espansione coloniale a episodio appunto “periferico”, occultandone la funzione costitutiva nell’esperienza globale della modernità (Capuzzo 2006). Ma è pur vero che, nel loro insieme, gli studi postcoloniali hanno teso ad accentuare i tratti meramente “culturali” della pluralità di “incontri” di cui è intessuta la storia della modernità. Lo stesso paradigma delle “modernità alternative” (Gaonkar, a cura di, 2001), che ben descrive gli esiti di una parte consistente della critica postcoloniale, presenta certo notevoli motivi di interesse; ma nel suo complesso finisce per esaurirsi nell’indicazione delle molteplici modalità di “significazione culturale” che è possibile attribuire all’esperienza della modernità, riproducendo su scala globale la geografia immaginata dai teorici del multiculturalismo liberale e rischiando di occultare gli scontri, i rapporti di dominio e di sfruttamento di cui la “significazione culturale” è pur sempre espressione (cfr. Sakai, Solomon 2006). Accogliere il decentramento dello sguardo storico reso possibile dagli studi postcoloniali mantenendo una distanza critica rispetto ad alcuni dei loro esiti è quel che tento di fare in questo libro. In questo senso, dicevo all’inizio, in questione è il capitalismo contemporaneo. Non perché mia intenzione sia opporre il piano materiale (per non dire “strutturale”) dell’analisi alle derive culturalistiche e testualistiche che molti critici hanno rimproverato agli studi postcoloniali (cfr. ad es. Ahmad 1995, Lazarus 1999 e Perry 2004). Mi interessa piuttosto riportare alla luce il rilievo materiale che la dimensione epistemica delle culture, dei discorsi, dei testi ha assunto all’interno della costituzione di un modo di produzione, il capitalismo moderno appunto, che rimane comunque organizzato attorno all’imperativo dell’accumulazione e alla logica dello sfruttamento. E una delle tesi che fanno da sfondo alle analisi presentate nei capitoli successivi è che il capitalismo contemporaneo sia strutturalmente definito dal confondersi dei confini “infrasistemici” che avevano consentito di articola-

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re nell’unità di un modo di produzione dimensioni materiali e simboliche, politiche, giuridiche ed economiche, sociali e culturali. Il punto di vista privilegiato da cui cerco di guardare al capitalismo contemporaneo, come appare soprattutto nell’ultimo capitolo del libro, è quello della produzione di soggettività (intesa nel duplice senso di assoggettamento e soggettivazione) che si determina lungo l’intero arco dei circuiti globali dell’accumulazione. Memore in particolare delle lezioni che vengono dal femminismo postcoloniale (De Petris 2005), cerco del resto di problematizzare continuamente la categoria di soggettività, di resistere a ogni tentazione di offrirne un’immagine unitaria e omogenea, di porre in evidenza le fratture che la costituiscono pur senza rinunciare a indicare nel terreno della soggettivazione il terreno cruciale su cui deve esercitarsi oggi un pensiero critico della politica: è il modo in cui personalmente intendo il concetto di moltitudine, su cui mi soffermo in particolare nel sesto capitolo. 4. Sono così ritornato, attraverso il riferimento al concetto di moltitudine, agli sviluppi dell’operaismo italiano. Il confronto con gli studi postcoloniali è stato per me di fondamentale importanza, in questi anni, per saggiare e ridefinire una serie di categorie (composizione tecnica e politica di classe, tendenza, sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale, per nominarne alcune) che hanno avuto un’importanza cruciale nel metodo e nel paradigma teorico dell’operaismo. La critica di ogni immagine lineare e della teoria degli “stadi” dello sviluppo capitalistico, elaborata da autori come Dispesh Chakrabarty (2000), mi ha condotto a individuarne le tracce anche all’interno dei concetti fondamentali dell’operaismo, nella continua ricerca del “punto più alto” dello sviluppo e di un soggetto “centrale” attorno a cui definire l’analisi della composizione di classe e il progetto della sua ricomposizione politica. Al tempo stesso, tuttavia, ho cercato di far vivere anche nella mia analisi delle lotte anticoloniali un’indicazione di metodo che già Michael Hardt e Toni Negri avevano proiettato su scala globale in Impero: il punto di vista, cioè, secondo cui per comprendere lo sviluppo bisogna guardare prima di tutto alle lotte. Sotto questo profilo, d’altro canto, gli studi postcoloniali mi hanno offerto un insieme di chiavi d’accesso al mondo non occidentale completamente diverse da quelle del vecchio “terzomondismo”. Un insieme di categorie maturate all’interno della critica postcoloniale (da quella di ibridazione a quella di spiazzamento e decentramento) costituiscono piuttosto utensili teorici di grande efficacia per descri-

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vere l’insieme dei processi che hanno condotto alla fine del Terzo mondo e alla crisi contemporanea della divisione internazionale del lavoro. Uno dei centri attorno a cui si è organizzato il mio confronto con gli studi postcoloniali è stato precisamente il tentativo di descrivere il vero e proprio terremoto che i processi di globalizzazione determinano nelle mappe e nella geografia politica, economica, culturale che abbiamo ereditato dalla modernità. E un’importanza crescente, sia sotto il profilo analitico sia sotto il profilo medotologico, è andata assumendo nel mio lavoro degli ultimi anni il concetto di confine, di cui indago le metamorfosi nel contesto europeo nei capitoli quarto e quinto del libro. È il caso di ripetere che parlare di fine del Terzo mondo e di crisi della divisione internazionale del lavoro non significa affermare che lo spazio globale sia uno spazio “liscio”, che abbiano cessato di essere operativi criteri di organizzazione gerarchica articolati su scala territoriale. Al contrario, la centralità attribuita all’analisi dei processi globali di moltiplicazione dei confini riporta continuamente l’attenzione sulle “striature” dello spazio globale, individuando in esse dispositivi essenziali alla ridefinizione dei rapporti di sfruttamento e dominio (nonché siti privilegiati per l’analisi dei persistenti attriti tra il comando capitalistico e le logiche della sovranità). Il punto fondamentale che si vuole tuttavia sottolineare è che queste “striature” hanno cessato di organizzare in modo coerente la geografia politica ed economica planetaria distinguendo tra loro spazi internamente omogenei e chiaramente differenziati. È in questo contesto che, come scrivono nella prefazione a un libro recente Jean Comaroff e John L. Comaroff, le postcolonie sono divenute luoghi cruciali per la produzione di teoria sociale: di teoria sociale sui generis, non semplicemente di una teoria antropologica riferita alle vite e ai tempi di quei mondi un tempo conosciuti come secondo e terzo mondo. [...] La ragione per cui esse sono luoghi indispensabili di produzione teorica sta nel fatto che molti dei grandi tsunami del XXI secolo sembrano destinati a scatenarsi prima sulle loro coste – o, se non prima, comunque nella loro forma più percepibile ed estesa – per poi riverberarsi nelle cosmopoli dell’emisfero settentrionale (Comaroff, Comaroff, a cura di, 2006, p. IX).

In questione non è soltanto il fatto che studiando gli slum di Calcutta si possa imparare qualcosa di essenziale per comprendere quel che accade nelle banlies di Parigi, ma anche che i piqueteros argentini possono avere molto da insegnare ai collettivi di “precari” che agiscono nelle metropoli europee. Non nel senso, sia chiaro, che i primi

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abbiano delle “soluzioni” da offrire ai “problemi” dei secondi: ma piuttosto perché offrono un punto di vista a partire dal quale quei problemi acquisiscono nuove e impreviste dimensioni. Più in generale, lo sguardo postcoloniale sulla fine del Terzo mondo e sulla crisi della divisione internazionale del lavoro, senza smarrire il senso delle radicali differenze tra luoghi, regioni e continenti, permette di cogliere l’eterogeneo intreccio di regimi produttivi, di temporalità e di esperienze soggettive del lavoro che costituisce il capitalismo cinese contemporaneo (Rocca 2002 e 2006) e che sfugge ad esempio a una categoria come quella di “fordismo periferico”. Nel momento stesso in cui obbliga a “provincializzare” e a calibrare su scale temporali eterogenee un metodo come quello operaista della tendenza, la prospettiva postcoloniale consente anche di individuare una serie di categorie analitiche che, opportunamente tarate sulla specificità delle diverse situazioni, possono rivendicare un’utilità generale nella critica del capitalismo contemporaneo. È il caso ad esempio di quella di “inclusione differenziale”, che proprio attorno all’analisi delle trasformazioni che investono oggi i confini ha trovato negli ultimi anni una definizione rigorosa, ripresa in riferimento alla condizione dei migranti in Europa nei capitoli quarto e quinto del libro. L’inclusione differenziale, che ha del resto una lunga storia nella modernità coloniale, ben si presta a definire alcuni dei tratti salienti della globalizzazione capitalistica contemporanea, che opera attraverso una logica di connessione così come attraverso una logica di sconnessione, che unifica e frammenta al tempo stesso (Ferguson 2006), che imprime il proprio segno sulla vita di donne e uomini in ogni angolo del pianeta anche quando produce catastrofici processi di “esclusione”. La guerra stessa, nelle nuove forme che ha assunto negli ultimi anni in Africa come in Iraq, è pienamente interna a questi processi, determina indubbiamente il ritorno sulla scena di logiche, forme di combattimento, dispositivi e retoriche coloniali, ma non trova in coerenti progetti di dominio neocoloniale il proprio criterio di razionalità (Mbembe 2003, pp. 30-35). 5. Nel primo e soprattutto nel sesto capitolo avanzo l’ipotesi che una rinnovata attenzione alla categoria di transizione consenta di cogliere alcuni dei tratti salienti del capitalismo contemporaneo. Nell’appendice, in cui alcuni dei temi affrontati nel libro sono rivisitati dal punto di vista di un confronto diretto con Marx, propongo una lettura dell’analisi marxiana della “cosiddetta accumulazione originaria” come contributo alla precisazione di alcuni aspetti di questa ipo-

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tesi. In un libro importante, da poco uscito, l’economista indiano Kalyan Sanyal propone a sua volta un’analisi del “capitalismo postcoloniale” alla luce della categoria di accumulazione originaria, insistendo tuttavia al tempo stesso sulla necessità di liberare il dibattito sullo “sviluppo” dall’ipoteca della transizione (Sanyal 2007, p. 40). Sanyal si riferisce in realtà alla “grande narrazione” della transizione, al suo orientamento teleologico verso la realizzazione delle condizioni di un pieno sviluppo capitalistico all’interno del sottosviluppo e della dipendenza, e in particolare al modo in cui i teorici dello sviluppo, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, hanno impostato il problema del rapporto tra settore “moderno” e settore “tradizionale” dell’economia. È questa l’“ipoteca” da cui ritiene debba essere liberato il dibattito sullo sviluppo, e mi pare una provocazione che vale la pena accogliere positivamente. Più interessante risulta in questo senso considerare brevemente il modo in cui nel suo libro viene utilizzato il riferimento all’analisi marxiana dell’accumulazione originaria. Nella prospettiva di Sanyal, l’accumulazione originaria costituisce un tratto essenziale e una caratteristica strutturale dello sviluppo capitalistico nel mondo postcoloniale: “visto in questi termini, il capitale postcoloniale non diviene mai nel senso hegeliano. [...] Come il proverbiale Sisifo, il capitale è impegnato in un lavoro che non è mai compiuto: il suo sorgere non è mai completo, la sua universalità non è mai pienamente stabilita, il suo essere è sempre rinviato al futuro” (ivi, p. 61). Lo sviluppo capitalistico postcoloniale procede attraverso una logica analoga a quella delle recinzioni descritte da Marx a proposito dell’Inghilterra proto-moderna, e produce continuamente, come risultato del suo stesso incedere, una “terra desolata di spossessati” che eccede strutturalmente il fabbisogno di forza lavoro del settore capitalistico dell’economia e ne resta dunque all’esterno, esclusa dalla possibilità stessa di entrare nei circuiti dello sfruttamento su base di classe (cfr. ivi, p. 58). Il punto maggiormente originale dell’analisi di Sanyal consiste tuttavia nella tesi secondo cui il capitale postcoloniale, per affermare la propria legittimità, è costretto in qualche modo a farsi carico dell’esistenza di questa “terra desolata”. È costretto cioè ad accettare quello che l’economista indiano definisce il “rovescio dell’accumulazione originaria” (ivi, p. 59), acconsentendo a finanziare un flusso di risorse verso l’“esterno del capitale”: canalizzato attraverso l’azione dello Stato, di organizzazioni internazionali e non governative, questo flusso di risorse crea le condizioni per la nascita e la riproduzione di una “economia del bisogno” che rimane esterna allo spazio eco-

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nomico del capitale ma che gioca un ruolo essenziale nel processo complessivo di legittimazione del capitalismo. È su queste basi che andrebbero secondo Sanyal comprese la “politica dei governati” e la nascita della “società politica” descritte da Partha Chatterjee in un libro su cui si tornerà nei capitoli successivi (Chatterjee 2004). Il lavoro di Sanyal tenta di ripensare una politica radicale attraverso la coniugazione della “politica di classe” che ha il suo luogo all’interno del capitale e la “politica della povertà” che si sviluppa al suo esterno (cfr. Sanyal 2007, pp. 260-262). Costituisce in questo senso un contributo prezioso, su cui sarà necessario tornare con maggiore ampiezza in futuro. La disarticolazione del nesso tra lavoro salariato e cittadinanza come asse attorno a cui pensare lo sviluppo apre prospettive di grande interesse, che meriterebbero di essere sondate ad esempio in un contesto come quello latino-americano, dove l’“ipoteca della transizione”, nelle forme assunte dal desarrollismo, è ancora molto forte e condiziona pesantemente l’azione dei nuovi governi “progressisti”. Sotto il profilo teorico, tuttavia, Sanyal mi sembra da una parte enfatizzare in modo eccessivo la specificità del “capitalismo postcoloniale”, identificandolo con il capitalismo delle aree che un tempo componevano il “Terzo mondo”, mentre dall’altra postula una distinzione troppo rigida tra i due ambiti che chiama “capitale” e “non capitale”. Analogamente a quanto osservato da Ranabir Samaddar (2007, II, pp. 107-137) a proposito della distinzione tra “società civile” e “società politica” elaborata da P. Chatterjee, non si tratta soltanto di portare l’attenzione sui transiti che si determinano tra i due ambiti – al di là del trasferimento di risorse dal “capitale” al “non capitale”; il punto consiste piuttosto nella necessità di individuare nei processi di legittimazione del dominio (o dell’egemonia, come Sanyal preferisce) del capitale sulla società un momento chiave dello stesso concetto di capitale, che non può semplicemente esserne separato e ascritto al più generale concetto di “capitalismo”. Gli antagonismi e le lotte che si determinano all’interno di quei processi sono antagonismi e lotte interni al rapporto di capitale; e in particolare registrano la generalizzazione della condizione soggettiva associata ai processi di produzione della forza lavoro come merce, indipendentemente dalle differenze enormi determinate dal fatto che quella forza lavoro sia direttamente sfruttata dal capitale o sia confinata nell’“economia del bisogno”, dove la sua stessa riproduzione è affidata a fragili e aleatori equilibri politici nonché alla straordinaria creatività e inventiva degli “spossessati”.

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6. L’uso che propongo di fare della categoria di transizione per definire alcuni tratti caratteristici del capitalismo contemporaneo si pone oltre ogni narrazione teleologica, e al contempo non si riferisce alla realtà di singole aree del mondo. È parte di un tentativo di cogliere i problemi di articolazione e traduzione inerenti al concetto stesso di “capitale globale”. L’enfasi posta su articolazione e traduzione, in particolare attraverso il confronto con il lavoro dell’intellettuale giapponese Naoki Sakai, costituisce nelle mie intenzioni un antidoto contro ogni tentazione di proporre un’immagine monolitica del concetto di capitale globale, puntando al contrario a evidenziare la radicale eterogeneità dei processi di produzione e valorizzazione, delle forme di circolazione, degli attori, delle contraddizioni che confluiscono nel concetto. Al tempo stesso, tuttavia, cerco di portare l’attenzione sul formidabile problema della mediazione di questa eterogeneità nell’unità del capitale globale, ovvero della continua riproduzione del comando capitalistico sul mondo in cui viviamo. Politica e diritto oggi si ridefiniscono a fronte della radicalità di questo problema, articolandosi a loro volta su una molteplicità di livelli e dando luogo a nuove costellazioni di autorità, diritto e territorio. Gli Stati nazionali, pur continuando a esercitare funzioni cruciali, vengono radicalmente trasformati attraverso il loro inserimento in queste costellazioni che strutturalmente li trascendono (Sassen 2006). Il concetto di transizione, applicato a questa situazione, sottolinea non soltanto l’instabilità e l’aleatorietà dell’unità del capitale globale, ma anche la radicalità degli antagonismi che costituiscono il rapporto di capitale nel momento in cui le condizioni stesse della sua possibilità devono essere continuamente riaffermate. Leggere la transizione attraverso le pagine dedicate da Marx alla “cosiddetta accumulazione originaria” consente così da una parte di evidenziare i processi di violenta appropriazione che, in una linea di continuità con le “recinzioni” nell’Inghilterra delle origini della modernità, non riguardano oggi solo la terra, ma investono – per limitarci a un paio di esempi – il terreno della produzione di conoscenza nelle reti di cooperazione e produzione sociale (Benkler 2006) e il terreno stesso della vita nei circuiti del “biocapitale”, ovvero del capitale investito nello sviluppo delle biotecnologie e dei farmaci “postgenomici” (Rajan 2006; Devenney 2007). E dall’altra parte indica nella produzione di soggettività, in una linea di continuità con l’analisi marxiana della produzione della forza lavoro come merce in quanto condizione di possibilità del “mercato del lavoro”, la dimensione cruciale su cui si distendono oggi gli antagonismi.

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È un’immagine in qualche modo paradossale quella che così emerge: proprio nel momento in cui il capitalismo sembra avere travolto ogni limite territoriale alla sua espansione, lo spazio del “fuori” si allarga sulla dimensione che potremmo definire temporale; l’“altrove” cede il passo all’“altroquando”. Il carattere strategico che torna ad acquisire l’appropriazione, il processo che precede l’istituzione giuridica della proprietà privata, e l’intensità dei conflitti che si determinano sul terreno della produzione di soggettività, dove in questione è l’imposizione del tempo di lavoro come misura astratta del valore a fronte dell’eterogeneità costitutiva delle temporalità che esprimono la ricchezza del lavoro vivo contemporaneo, offrono prime approssimazioni sulla densità materiale di questo “fuori”. Una politica della moltitudine non può che essere immaginata a partire dalla necessità di tradurre nella costruzione di un nuovo comune la molteplicità dei linguaggi parlati dalle lotte che quotidianamente insorgono sui fragili confini che separano il capitale dal suo paradossale “fuori”. È questo il punto su cui, provvisoriamente, si conclude il mio confronto con la critica postcoloniale. *** Come ho ricordato all’inizio di questa introduzione, i materiali raccolti in questo libro sono nati all’interno di percorsi di ricerca collettivi. Tre ambiti di discussione sono stati in particolare fondamentali per la definizione e lo sviluppo del mio interesse per gli studi postcoloniali. Vorrei qui ricordarli, ringraziando tutte e tutti coloro che vi hanno partecipato e continuano a parteciparvi: il collettivo redazionale della nuova serie di “DeriveApprodi” (2001-03), la rete di Uninomade e la redazione della rivista “Studi culturali”. Un debito particolare l’ho contratto con Federico Rahola, coautore del primo capitolo del libro. È stato Federico a introdurmi ai temi e agli autori della critica postcoloniale, entro un rapporto di amicizia e di scambio intellettuale che continua a essere uno dei più importanti per me. Maurizio Ricciardi e Gigi Roggero hanno riletto i capitoli del libro nella versione che qui presento, offrendomi indicazioni e suggerimenti decisivi per migliorarli e discutendo con la passione di sempre i problemi che restano aperti. Altrettanto ha fatto Gianfranco Morosato, il cui ruolo è andato ben al di là di quello dell’editore. Mi è difficile ricordare i nomi di tutti coloro che hanno discusso con me precedenti versioni di questi testi. Particolarmente impor-

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tanti, in questi anni, sono state per me le continue conversazioni sui temi trattati nel volume con Rutvica Andrija&evic´, Étienne Balibar, Raffaella Baritono, Marco Bascetta, Giuliana Benvenuti, Pietro Bianchi, Manuela Bojad=ijev, Maura Brighenti, Fulvio Cammarano, Paolo Capuzzo, Dipesh Chakrabarty, Federico Chicchi, Sandro Chignola, il Colectivo situaciones di Buenos Aires, Anna Curcio, Stefania De Petris, Emanuela Fornari, Andrea Fumagalli, Carlo Galli, Raffaella Gherardi, Gaia Giuliani, Giorgio Grappi, Michael Hardt, Augusto Illuminati, Laura Lanzillo, Domenico Letterio, Christian Marazzi, Costanza Margiotta, Miguel Mellino, Cristina Morini, Toni Negri, Brett Neilson, Maia Pedullà, Agostino Petrillo, Mario Piccinini, Enrica Rigo, Ranabir Samaddar, Marco Santoro, Roberta Sassatelli, Pierangelo Schiera, Federica Sossi, Vassilis Tsianos, Mauro Turrini, Ilaria Vanni, Benedetto Vecchi, Paolo Virno, Adelino Zanini. A tutti loro, e ai molti che non ho qui nominato, va il mio ringraziamento. A Maia, infine, questo libro è dedicato.

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I capitoli che compongono questo libro sono stati scritti nel corso degli ultimi cinque anni, indipendentemente l’uno dall’altro. Li ripropongo qui con qualche variazione, qualche aggiornamento bibliografico e l’inserimento di una serie di rimandi interni. Il libro rimane una raccolta di saggi, ma l’auspicio dell’autore è che nel complesso emerga una riflessione sistematica e coerente su alcuni dei temi fondamentali della critica postcoloniale. Indico di seguito le sedi in cui i singoli capitoli sono stati originariamente pubblicati, cogliendo l’occasione per ringraziare direttori di riviste e curatori di volumi collettanei per avermi consentito di raccoglierli in volume. Il primo capitolo, scritto insieme a Federico Rahola, è stato pubblicato in una prima versione come editoriale della sezione monografica dedicata al postcolonialismo in “DeriveApprodi”, 23, 2003 (nuova serie, numero 2). Rielaborato e ampliato, è uscito in inglese nella versione che qui si propone, in “Postcolonial Text”, II (2006), 1. Una traduzione tedesca è apparsa in in “iz3w”, 278-279, 2004. Il secondo capitolo è stato pubblicato in Raffaella Gherardi, Politica, consenso, legittimazione. Trasformazioni e prospettive, Carocci, Roma 2002. Il terzo capitolo è uscito in “Storica”, XI (2005), 31, e, in traduzione francese, in “Multitudes”, 26, Automne 2006. Il quarto capitolo nasce da una relazione che ho tenuto al convegno internazionale “Conflicts, Law, and Constitutionalism”, svoltosi a Parigi, presso la Maison des Sciences de l’Homme, dal 16 al 18 febbraio 2005. Vorrei ringraziare tutti i partecipanti al seminario, e in particolare Paula Banerjee, Rada Ivekovic e Ranabir Samaddar, per

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il loro contributo alla discussione. La versione originale inglese è uscita in “Situations”, I (2005-06), 2, e, con qualche variazione, nel volume curato da Ranabir Samaddar e Gilles Tarabout, Conflict, Power, and the Landscape of Constitutionalism, Routledge, LondonNew Dehli 2008. Una traduzione italiana è stata pubblicata in Olivia Guaraldo, Leonida Tedoldi (a cura di), Lo stato dello Stato. Riflessioni sul potere politico nell’era globale, ombre corte, Verona 2005. Il quinto capitolo nasce da una relazione presentata al convegno internazionale “New Racisms: New Anti-Racisms”, svoltosi presso la University of Sydney il 3 e 4 novembre 2006. Ringrazio Ghassan Hage per avermi invitato a partecipare e per le sue osservazioni sulla mia relazione. Il testo è stato pubblicato in “Studi sulla questione criminale”, II (2007), 1. Il sesto capitolo è stato scritto originariamente in inglese per un volume dedicato a Naoki Sakai, in uscita nel 2008 per la casa editrice Routledge, ed è stato anticipato dalla rivista “Transversal” (numero 11-07), http://translate.eipcp.net/transversal/1107. La traduzione italiana che qui si presenta è inedita. L’appendice, anch’essa inedita, è il testo di una relazione che ho tenuto a Roma, il 16 febbraio 2007, all’atelier occupato Esc, nell’ambito del ciclo di seminari “Lessico marxiano. Dodici concetti per ripensare il presente”.

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[...] è la storia segreta la storia parallela là dove il nostro inverno diventa primavera. G. MANFREDI, Zombie di tutto il mondo unitevi (1977)

1. Uno stile globale?

Il nostro tempo pare essere incapace di dare di sé una definizione positiva. È un tempo del “post”, postmoderno, poststorico, postfordista e, recita ora un ritornello divenuto perfino stucchevole oltre Atlantico, postcoloniale. Una transizione mai conclusa pare porsi come l’unico modello possibile per comprendere i caratteri salienti del presente. A un primo sguardo, il discorso postcoloniale sembra soltanto limitarsi a riflettere questa situazione. Se si guarda alla sua variante maggiormente diffusa nel dibattito teorico e nel discorso pubblico “globale”, mettendo per un attimo tra parentesi la discussione che ha coinvolto molte voci attorno alla domanda su “quale sia il significato di ‘post’ in postcoloniale”, non v’è molto a cui appassionarsi: ai codici binari che, descritti magistralmente da Fanon, organizzavano lo spazio, il tempo e l’esperienza delle colonie, sembrerebbe succeduta un’epoca in cui tutto s’incrocia, si “ibrida”. Pare qui che si determini un movimento inverso rispetto a quello di cui parlava Max Weber nelle ultime, memorabili pagine dell’Etica protestante: la “gabbia d’acciaio” del dispotismo coloniale, ripetono in molti, ha finito per tramutarsi in un “mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via” 1. Un insieme di dislocazioni avrebbe fatto del mondo un piano di assoluta immanenza, percorso da soggetti nomadi impegnati a comporre sul filo dell’ironia identità cangianti, attingendo 1

La citazione di Richard Baxter è in Weber 1904-1905, p. 305. Il recente libro di Rey Chow, The Protestant Ethnic and the Spirit of Capitalism (2002) offre un punto di vista originale da cui rileggere il classico lavoro di Weber nel contesto postcoloniale, in specie per quel che concerne l’ubiquità delle retoriche “etniche” nel presente.

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frammenti ora ai magazzini dei vecchi empori coloniali dismessi, ora alla memoria delle lotte anticoloniali. Il meticciato si avvia così a divenire uno stile globale, promosso dalle grandi corporation così come dalle culture giovanili, buono tanto per i sarti quanto per gli architetti e per i menu dei ristoranti. Ancora un “pensiero molle”, dunque? Un’ennesima variante dell’apologia del presente è quella che ci viene consegnata da quegli studi postcoloniali che, dopo aver conosciuto una diffusione impressionante nel mondo anglosassone nel corso degli anni Novanta, stanno cominciando a filtrare anche in Italia? È il sospetto avanzato dalle tre principali critiche, forti e circostanziate, che alla categoria di postcolonialismo sono state mosse negli ultimi anni (per una sintesi cfr. Chrisman, Perry, a cura di, 2000). In primo luogo, ha sostenuto in particolare Arif Dirlik (1997 e 2000), gli studi postcoloniali promuovono una vera e propria dissoluzione della storia, con le sue stratificazioni e le sue opacità, in una sorta di eterno presente postmoderno, banalizzando le cesure rivoluzionarie del passato e decretando l’impossibilità della rivoluzione nel futuro. In secondo luogo, e in modo più raffinato, Michael Hardt e Toni Negri (2000) hanno insistito sul fatto che ciò che molti teorici postcoloniali esaltano come esperienza di liberazione, l’ibridismo e il meticciato appunto, indica in realtà il terreno su cui operano i dispositivi contemporanei di dominio e di sfruttamento. In terzo luogo Slavoj -i=ek, confortato più di recente da un’ampia analisi di Peter Hallward (2001), ha individuato in molti suoi interventi nel postcolonialismo, considerato una mera proiezione globale del multiculturalismo, l’operare di una logica che potremmo definire dell’indifferenza: il diritto a narrarsi in prima persona verrebbe concesso all’“altro”, negli studi postcoloniali, dopo averlo deprivato della sua identità, di quella ferita costitutiva che non può essere suturata dal riconoscimento ma piuttosto dalla riconquista “leniniana” di una dimensione partigiana della verità (cfr. -i=ek 2002). Certo, i singoli studi postcoloniali vanno valutati nel merito, e non si mancherà di trovare più di un autore o di una corrente teorica che confermi, oltre che la validità di queste critiche, lo stesso profilo stilizzato che dello “stile” postcoloniale abbiamo tracciato in apertura. Ma le cose cambiano, crediamo, se si prende sul serio la condizione postcoloniale, distinguendola, almeno in prima battuta, dal postcolonialismo, e guardando a quest’ultimo come a un foucaultiano archivio, in cui continuamente si depositano immagini, concetti, parole che consentono di ricostruire criticamente un profilo del nostro presente. È allora possibile recuperare, almeno in parte, la sostanza del-

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le critiche richiamate e ciò nondimeno insistere sull’opportunità di inserire nel vocabolario del pensiero critico il termine postcoloniale in una posizione di tutto rilievo. Decisivo, da questo punto di vista, diviene proprio “il significato del ‘post’ in postcoloniale”. È bene enunciare subito, in modo secco, la nostra tesi: il tempo postcoloniale è quello in cui, contemporaneamente, l’esperienza coloniale appare consegnata al passato e, proprio per le modalità con cui il suo “superamento” si è realizzato, si installa al centro dell’esperienza sociale contemporanea, con il portato di dominazione, ma anche di insubordinazione, che la contraddistingue. Il confinamento, la vera cifra “epistemica” del progetto di sfruttamento coloniale dell’Occidente 2, e la resistenza contro di esso cessano di organizzare una cartografia capace di distinguere in modo univoco la metropoli dalle colonie, frantumandosi e ricomponendosi di continuo su scala globale. Quello che questa categoria di postcoloniale suggerisce è che l’unità del mondo, l’obiettivo di tanti progetti cosmopolitici, si è infine realizzata in forme ambivalenti, che ne fanno da una parte l’orizzonte materiale al cui interno tende a iscriversi la stessa identità individuale 3, ma dall’altra non danno alcuna garanzia sul fatto che essa non sia la scena in cui si consuma definitivamente la portata emancipativa di un discorso politico declinato nel linguaggio dell’universale, fagocitato dalla spettrale oggettività della merce e del denaro.

2. Decentrare il globale

Cominciamo dunque proprio da quel rapporto con la storia che, secondo molti critici, costituisce uno dei punti dolenti del postcolonialismo 4. Dal nostro punto di vista, all’interno del grande laboratorio degli studi postcoloniali, la storiografia ha in realtà giocato un ruolo essenziale (si pensi al lavoro collettivo portato avanti dai cosiddetti subaltern studies per quel che concerne l’India), e ha in particolare posto in evidenza il nesso indissolubile che stringe anticoloniali2 3

4

Sia Said (1991) sia Thomas (1994) sottolineano questo punto. Étienne Balibar ha sostenuto che oggi stiamo facendo esperienza dell’emergere di un nuovo concetto di mondo, in cui per la prima volta nella storia l’”umanità”, piuttosto che un ideale astratto, costituisce la “condizione di esistenza degli individui stessi” (Balibar 1997, p. 430). Non è soltanto Arif Dirlik ad aver mosso questa critica. Per una discussione di questo punto, si vedano i lavori McClintock (1992) e Shohat (1992). In modo più radicale, sviluppando le tesi di Ahmad, San Juan Jr. (1998) vede nella sospensione del tempo a cui punta la critica postcoloniale una vera e propria negazione della storia.

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smo e postcolonialismo. Robert Young ha di recente dedicato a questo nesso un libro molto importante (Young 2001), che ci permette in primo luogo di rileggere alcuni classici del pensiero anticoloniale al di fuori delle retoriche consunte del terzomondismo, ravvisando piuttosto in essi le tracce embrionali di una consapevolezza di quanto la dialettica tra colonialismo e anticolonialismo abbia debordato, nel corso del Novecento, dai confini tradizionali in cui si era andata svolgendo nei quattro secoli precedenti. Un libro come The Black Atlantic, di Paul Gilroy (1993), costituisce un altro brillante esempio di questo decentramento dello sguardo storico, insistendo sulla dimensione diasporica e già globale della “doppia coscienza” nera, sviluppatasi nei laboratori coloniali della modernità. Non è forse una chiara indicazione in questo senso la sicurezza con cui, nel 1955, Aimé Césaire invitava a cogliere nel fascismo una forma di colonialismo abbattutasi sull’Europa nel momento in cui sembravano esauriti i territori oltremare da conquistare? Ma, come ha recentemente sottolineato Robin Kelley (2002, p. 175), Césaire si spinse oltre, sostenendo che il vero tabù infranto dal nazifascismo consistette nel fatto di applicare direttamente a soggetti bianchi ed europei ciò che era concepibile solamente nel mondo coloniale 5. È una valenza sinistra di postcolonialismo quella che si presenta ai nostri occhi seguendo questo filo di ragionamento, che del resto era stato anticipato subito dopo la fine della guerra dal grande intellettuale e attivista afroamericano W.E.B Du Bois 6: nel momento in cui dispositivi di dominio originariamente forgiati nel contesto dell’esperienza coloniale si infiltrano nello spazio metropolitano, siamo già in un tempo in qualche modo postcoloniale. È certo vero che questo transito – questo movimento di ibridazione per nulla emancipativo, si potrebbe dire – è in realtà connaturato 5

6

Vale la pena citare per esteso il passo di Césaire: “Oui, il vaudrait la peine d’étudier, cliniquement, dans le détail, les démarches d’Hitler et de l’hitlerisme et de révéler au très distingué, très humaniste, très chrétien bourgeois du XXe siècle qu’il porte en lui un Hitler qui s’ignore qu’Hitler l’habite, qu’Hitler est son démon, que s’il le vitupère, c’est par manque de logique, et qu’au fond, ce qu’il pardonne pas à Hitler, [...] c’est ne pas l’humiliation de l’homme en soi, c’est le crime contre l’homme blanc, c’est l’humiliation de l’homme blanc, et d’avoir appliqué à l’Europe des procédés colonialistes dont ne revelaient jusqu’ici que les Arabes d’Algerie, les coolies de l’Inde, et les nègres d’Afrique” (Césaire 1955, p. 12). “Si può dire che non vi sia nessuna atrocità nazista – campi di concentramento, mutilazioni ed eccidi di massa, profanazione di donne e orrendi oltraggi all’infanzia – che la civiltà cristiana dell’Europa non abbia praticato contro i popoli di colore in ogni parte del mondo nel nome di una Razza superiore nata per dominare il mondo” (Du Bois 1946, p. 23).

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al colonialismo moderno: in un bel saggio del 1979, Carlo Ginzburg lo aveva efficacemente mostrato a proposito delle origini bengalesi delle impronte digitali 7. Ma in questo caso il confine tra metropoli e colonie veniva oltrepassato per meglio gestire un fondamentale confine interno, quello tra “classi laboriose” e “classi pericolose” magistralmente indagato nel caso di Parigi nella seconda metà dell’Ottocento da Louis Chevalier (1958). Un po’ come la mitragliatrice, che, dopo aver dato una micidiale prova delle sue potenzialità distruttrici nel corso della guerra civile americana, venne bandita dalle guerre che si svolsero in “Occidente” per giocare tuttavia un ruolo decisivo nello scramble for Africa: il che non le impedì di essere impiegata senza risparmio negli Stati uniti, oltre che nelle ultime campagne contro gli “indiani”, per reprimere gli scioperi operai di fine Ottocento. Quando quella stessa arma fu infine utilizzata nei campi di battaglia della Grande guerra, un decisivo salto di qualità era intervenuto: la “guerra totale” a lungo praticata dagli europei nelle imprese coloniali cominciava a dilagare nello stesso continente europeo (cfr. Diner, 1999, cap. 1). Di lì a poco, un altro dispositivo di dominio tipicamente coloniale, il campo di concentramento, avrebbe impresso il sigillo della catastrofe a questo movimento di displacement (Rahola 2003a). Le parole di Césaire ci hanno dunque permesso di precisare un aspetto decisivo del tempo storico postcoloniale: quello per cui esso è caratterizzato dal tracimare di logiche di dominio tipicamente coloniali al di fuori degli spazi in cui hanno avuto origine, fino a investire la “metropoli”. Si tratta di un movimento tutt’altro che esaurito, che continua a produrre i suoi effetti più o meno “catastrofici” nelle modalità di governo e di messa a valore della forza lavoro migrante così come nella riorganizzazione delle funzioni di controllo delle cittadinanze autoctone in “Occidente”. Ma questo è soltanto un contributo, e forse neppure il più importante, che il postcolonialismo, una volta sottolineato il nesso che lo stringe all’anticolonialismo, può apportare alla definizione di una genealogia del nostro presente: l’altro consiste precisamente nel porre in evidenza il carattere di cesura irreversibile che le lotte anticoloniali, con la loro dimensione immediatamente globale, rivestono nella storia contemporanea. Sono quelle lotte, nonostante lo scacco clamoroso subito praticamente da tutti i regimi politici a cui hanno dato vita, a qualificare come piena7

Ha scritto recentemente a questo proposito Christian Parenti: “le impronte digitali letteralmente migrarono dalla periferia coloniale al centro del sistema mondiale. Negli Stati uniti le prime popolazioni a cui si presero in massa le impronte digitali furono detenuti, piccoli criminali, soldati e nativi americani” (Parenti 2003, p. 49).

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mente postcoloniale il tempo in cui viviamo, nella misura in cui hanno disarticolato una volta per tutte l’idea che il tempo e lo spazio delle colonie fossero qualitativamente altri da quelli della metropoli. La scoperta dell’uguaglianza, di cui Fanon parlava nel 1961 in una pagina memorabile dei Dannati della terra (cfr. infra, cap. II) come del motore dell’insurrezione anticoloniale, è una splendida metafora per indicare il lato soggettivo di un insieme di processi che hanno materialmente immaginato e costruito, scardinando il “mondo a scomparti” della situazione coloniale, l’unità del mondo prima che la “globalizzazione neoliberista” distendesse su di essa la propria egemonia. Si può parlare di una condizione postcoloniale, dal nostro punto di vista, soltanto se si scommette sulla persistenza, sul lavorio carsico di questa scoperta nella filigrana della globalizzazione contemporanea. Abbiamo altrove argomentato la tesi secondo cui i movimenti migratori recano oggi i segni, ambivalenti, di questa scoperta (Mezzadra 2006, in specie parte I, cap. 4). E siamo convinti che essa stia continuando a nutrire movimenti sociali di tipo nuovo in quello che un tempo veniva definito “terzo mondo”, capaci di porsi consapevolmente oltre l’orizzonte della sconfitta storica subita dai movimenti che proprio dalle lotte anticoloniali erano nati. Il tipo di studi postcoloniali che ci interessa, coerentemente con questa impostazione, è quello che permette di riprendere in mano Fanon e Lumumba, C.L.R. James e la tradizione del black marxism, nel tempo della globalizzazione. Non certo per trovare in essi compiuti modelli di azione e teoria politica: ma piuttosto per individuare nel fallimento dei progetti a cui hanno legato il loro nome il senso di una storia nascosta, cancellata dalla “storia dei vincitori”. Nel suo interminabile confronto con Walter Benjamin, Theodor Adorno ebbe una volta a notare che la conoscenza della storia deve andare oltre “la logica infausta della successione di vittoria e disfatta”, e deve piuttosto rivolgersi a “ciò che non è entrato in questa dinamica, a ciò che è rimasto per via”. È proprio questo, i “punti ciechi che sono sfuggiti alla dialettica” (Adorno 1951, p. 178), ciò che compone l’eredità postcoloniale che dobbiamo riscattare nei progetti anticoloniali.

3. Sulla transizione

Eppure la domanda persiste: perché il tempo delle colonie continua a ossessionarci? Perché il suo superamento allude contemporaneamente a un fait accomplie e a una transizione nei fatti impossibi-

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le? Gli elementi di continuità tra il presente e il colonialismo appaiono indiscutibili. “Sanguinosa battaglia in Affghanistan”: la bizzarra ortografia suggerisce che non si tratta di un titolo tratto dai giornali di oggi; è una citazione dalla prima pagina di Moby Dick, di Herman Melville... L’immediatezza di questa continuità rischia tuttavia di risultare fuorviante. È ovvia, ad esempio, la perentorietà con cui il colonialismo ha materialmente disegnato la geografia moderna e i suoi confini: una geografia che si inaugura nel XVI secolo, proiettando il profilo dell’Europa prima e dell’Occidente poi sul mondo, e che trova forse la sua espressione più compiuta (hegelianamente, realizza il suo concetto) nei confini africani tirati con “la riga e la squadra” nel 1885 a Berlino. L’azione prolungata di quei confini risulta imprescindibile per comprendere le radici di molte tensioni e fallimenti che pesano sul presente. Da una parte essa contribuisce a spiegare lo stesso scacco subito dai movimenti anticoloniali, nella misura in cui la loro immaginazione politica ha finito per svolgersi all’interno dell’ordine del discorso coloniale, derivandone tra l’altro, per riprendere un tema su cui ha scritto pagine molto importanti Partha Chatterjee (1986), la forma nazionale e interiorizzandone le frontiere. Dall’altra parte, se si guarda ai più significativi e drammatici conflitti degli ultimi anni, da quello israelo-palestinese alle guerre “locali”, tutte definite in termini rigorosamente “etnici” (il Ruanda e Timor est, lo Sri Lanka e la Sierra Leone), la matrice generativa coloniale appare evidente, in un certo senso inconfutabile. E tuttavia non può sfuggire la circostanza per cui questa lettura dei conflitti attuali finisce per mostrarsi speculare a quella che, appunto insistendo sulla loro natura “etnica”, ristabilisce i diritti della vecchia formula hic sunt leones, che nelle carte geografiche della prima età moderna contrassegnava i territori della barbarie. Ancora una volta, in altri termini, attribuendo in modo esclusivo al colonialismo belga o francese, o all’imperialismo britannico, la responsabilità dei massacri e dei genocidi del presente, si installa al centro della scena, come unico protagonista, la soggettività imperiale, destituendo di ogni possibilità di azione i “subalterni”. Assai più produttiva politicamente, ci pare un’immagine dei conflitti contemporanei che, pur ponendo nel giusto rilievo il persistere in assoluto di trame “verticali” di dominazione e di sfruttamento, sottolinei il ruolo ambivalente che in essi svolge il fallimento di un insieme di progetti reali, storicamente messi in gioco, di liberazione da quella dominazione e da quello sfruttamento. La sensazione è infatti che la riproposizione di una logica di con-

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tinuità assoluta finisca per avallare e perpetuare all’infinito un meccanismo “redentivo”, autoassolutorio (nel caso dei soggetti “subalterni”) o liquidatorio (nel caso del soggetto “occidentale”). Liquidatorio, nella misura in cui si sbarazza delle lotte anticoloniali come semplice inconveniente (di segno ovviamente positivo, ma nei fatti inconsistente) nella trama lineare di una storia di dominio e di sfruttamento ininterrotti, privando così il soggetto colonizzato che insorge, il subalterno che si ribella, di ogni possibile forma di agency, di intervento diretto sulla storia. Autoassolutorio, nella misura in cui elimina dalla storia stessa ogni “responsabilità diretta” che non sia identificabile nell’Occidente colonialista, e cioè ogni atto rivoluzionario che non appartenga all’Occidente, e così facendo trasferisce oltre alle responsabilità soprattutto l’azione dal soggetto colonizzato all’eterno Soggetto (neo)colonialista. In questa prospettiva, dunque, il presente risulta come inesorabilmente risucchiato nel vortice del passato coloniale: come sua riproposizione tout court (neocolonialismo) o come sua variante polarizzata geograficamente lungo i confini che dividono il primo, il secondo, il terzo e il quarto mondo. La potenzialità del “post” cede necessariamente il passo alla logica ferrea dell’“ancora”, iterandosi nel “neocolonialismo”, come affermava Kwame Nkrumah già all’indomani dell’indipendenza del Ghana 8, o sciogliendosi come neve al sole di fronte al persistere del “sottosviluppo” e della “dipendenza” che lega ogni sud del mondo al suo rispettivo nord. Per essere assolutamente chiari, categorie quali neocolonialismo, sottosviluppo e dipendenza, indipendentemente dall’utilità descrittiva che possono di volta in volta rivestire in riferimento a casi specifici, finiscono paradossalmente per rivelarsi funzionali a retoriche politiche quali quelle adottate dall’African National Congress dopo la fine dell’apartheid: cancellano gli effetti sociali devastanti delle politiche “neoliberiste”, promosse dai governi sudafricani degli ultimi anni in nome dell’ineluttabilità e della positività dello “sviluppo”, e ben si prestano a stigmatizzare come “reazionarie” le straordinarie lotte 8

Discutendo il libro di Nkrumah, Neocolonialism. The Last Stage of Imperialism (la cui prima edizione risale al 1965), Robert Young ha giustamente scritto: “la sua enfasi sulla continuità del dominio neocoloniale presenta lo svantaggio di suggerire l’idea di un’impotenza e di una passività che finisce per sottovalutare quel che è stato conquistato a partire dall’indipendenza, nonché gli stessi movimenti di lotta per l’indipendenza, riproducendo – sia pure in modo simpatetico – stereotipi di disperazione e rafforzando l’assunto dell’egemonia occidentale con il Terzo mondo ritratto come sua vittima eterna e omogenea. Come concetto, il neocolonialismo è paralizzante tanto quanto lo sono le condizioni che descrive” (Young 2001, pp. 48 s.).

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contro quelle politiche narrate ad esempio da Ashwin Desai in We Are the Poors (2002), che in qualche modo possono essere considerate esempi paradigmatici di quella che P. Chatterjee (2004) chiama “politica dei governati”, di cui mostrano anzi intera l’irriducibilità ai processi di governamentalità. Più in generale, alle obiezioni peraltro circostanziate sull’impossibilità di un “post”colonialismo, si può ribattere che procedendo in questo modo si finisce per smarrire in toto l’eredità e la continuità dell’anticolonialismo, e quindi anche il senso profondo del suo fallimento, la sua “lacuna”: quello che potremmo chiamare, nei termini introdotti da E. Santner nella sua lettura delle Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, il suo carattere di “sintomo che insiste” sul presente 9. Si “ricuce” (sutura) la potente, radicale e sovversiva discontinuità che le lotte anticoloniali hanno introdotto, infrangendo quel tempo lineare “omogeneo e vuoto” che Benjamin individuava come dimensione costitutiva del discorso storico occidentale (e coloniale). Per questo, parlare di una condizione postcoloniale vuol dire indicare il tempo che viene problematicamente “dopo” le colonie, la geografia irrisolta che succede a Berlino 1885, portando alla luce l’impossibilità di quelle linee tracciate sulla carta, il sopravvento del territorio su quella mappa, senza negare una sola goccia del sangue che si è versato e che si continua a versare a causa di quella mappa. Contemporaneamente, lo ripetiamo, invita a pensare la complessità di un mondo che, grazie anche e soprattutto alle lotte anticoloniali, si è fatto davvero uno, e la cui unità continua a essere attraversata dallo spazio sovversivo delle differenze così come da profondissime disuguaglianze, da plateali squilibri, da un incessante sfruttamento.

4. Differenze postcoloniali

Proprio l’insistenza sul senso rinnovato che assume oggi la parola differenza costituisce d’altro canto uno dei leitmotiv del postcolonialismo: la dimensione direttamente politica delle “differenze”, che è 9

“I sintomi registrano non solo tutti i falliti tentativi rivoluzionari del passato, ma, più modestamente, ogni mancata risposta a una chiamata all’azione o anche solo all’empatia per coloro la cui sofferenza appartiene alla forma di vita di cui si è parte. Occupano il posto di qualcosa che è là, che insiste sulle nostre vite pur non avendo mai raggiunto una piena consistenza ontologica. I sintomi, quindi, sono in un certo senso archivi virtuali di lacune, o meglio, difese contro le lacune che persistono nell’esperienza storica” (E. Santner, Miracles Happen, citato in -i=ek 2002, p. 76).

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possibile portare alla luce seguendo le traiettorie della critica postcoloniale, conduce a riconsiderare molte delle questioni che sono state discusse negli ultimi anni sotto il titolo di “politica dell’identità”. Per farla breve, è ovvio che le traiettorie della differenza (materiale, politica, culturale) abbiano subito con il colonialismo una deviazione irrecuperabile, siano state cioè costrette a recitare se stesse su uno spartito reso violentemente comune. Rovesciando i termini, si può affermare che è semplicemente impossibile pensare la modernità, il suo discorso sulla differenza e tutti gli strumenti concettuali di cui essa si è dotata per definirne, inquadrarne e “misurarne” la portata, senza riferirsi alla violenza costitutiva, originaria, delle colonie. È esattamente questo, niente di più e niente di meno, il senso di ciò che l’antropologo francese Georges Balandier (1969) – echeggiato, dall’altra parte della Manica, da Leach, Gluckman e da tutti gli antropologi sociali della Scuola di Manchester – definiva alla fine degli anni Sessanta come situazione coloniale 10: la datità assoluta del colonialismo come contesto tout court dello stesso ordine discorsivo etno-antropologico. Ed è sempre a tale origine assoluta che riconducono tutti i tentativi di tracciare una genealogia delle categorie con cui il discorso sulla differenza si è fissato nella scienza: razza, etnia, cultura... Proprio su questo esercizio genealogico, che ricalca il lavoro di Foucault sull’episteme moderno e al tempo stesso ne colma una lacuna meno innocente di quanto possa apparire 11, il contributo degli “studi postcoloniali” appare semplicemente decisivo. Se già Fanon e Malcom X, e prima di loro Du Bois, affermavano l’impossibilità di pensare la “razza” senza lo sfondo storico concreto dell’esperienza di dominazione coloniale (indagando poi gli effetti devastanti, di vera e propria schizofrenia, indotti dal semplice fatto di essere rappresentati come un “problema”, costretti a guardarsi attraverso gli “occhi” di qualcun altro: how do you feel to be a problem?), Edward Said (1978) e Valentin Mudimbe (1988) di quel discorso hanno portato alla luce i regimi di verità cristallizzati in con10 In una prefazione scritta di recente per un volume francese sugli studi postcoloniali, Balandier – nonostante molte cautele e rilievi critici – mostra di cogliere perfettamente il contributo apportato da questi studi alla comprensione del presente: “il postcoloniale”, scrive, “designa una situazione che è di fatto quella di tutti i contemporanei. Siamo tutti, in forme differenti, in situazione postcoloniale” (Balandier 2007, p. 24). 11 Si può ben dire che in Foucault sia all’opera una sorta di rimozione dell’esperienza coloniale, il lato oscuro del processo di costruzione del soggetto moderno da lui così brillantemente ricostruito. Si vedano in questo senso Chatterjee 1983, Said 1986, Spivak 1988, Stoler 1995.

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cetti come “Oriente” e “Africa”. Laddove i lavori di Jean-Loup Amselle e Elikia M’Bokolo (1985) sulla categoria (a dir poco centrale nel discorso antropologico) di “etnia” rintracciavano nell’esperienza coloniale origini politiche e “di governo” oggi mascherate dalla naturalità del suo continuo ricorrere per spiegare caratteri, ragioni e “necessità” di molte tensioni postcoloniali, Arjun Appadurai (1996) ha portato alla luce il nesso diretto tra procedure di classificazione e dispositivi di sfruttamento, riconducendolo alle strategie enumerative del partage coloniale, da cui neppure il calendario, e quindi l’organizzazione sociale del tempo, può considerarsi immune. Ma gli studi postcoloniali non si limitano a ribadire l’evidente implicazione di “differenze” e colonialismo. Anche se molti critici postcoloniali si sono dedicati a rileggere le transazioni culturali costitutive dello stesso colonialismo e a decostruire la narrazione mainstream della transizione postcoloniale, il loro oggetto di analisi li sposta inesorabilmente sul “dopo”, sullo sconfinamento “globale” di quella matrice coloniale. Per questo, con gli occhi puntati sul presente, lo sforzo teorico maggiore si consuma nel tentativo più complesso di cogliere l’immediato carattere politico che le differenze assumono nello scenario globale contemporaneo: molte analisi sono state così dedicate a decifrare le specifiche “strategie” – spesso non intenzionali – sottese alle manifestazioni di differenza, approfondendo le aporie e le pieghe che agivano tra le righe dei discorsi ufficiali coloniali in base a una logica di sutura e di supplemento – per riprendere alcune categorie derridiane su cui ha lavorato in particolare Gayatri Spivak. L’idea, cioè, è quella di forme e pratiche identitarie che continuano a definirsi processualmente, attraverso una serie di slittamenti progressivi che seguono la logica descritta dalla figura retorica della catacresi (letteralmente, una metafora di uso talmente comune da non essere più avvertita come tale, che interviene a colmare una lacuna della lingua non esaurendo il processo di significazione ma estendendolo e spiazzandolo: ad esempio le “gambe” del tavolo) e si insinuano negli interstizi della polarizzazione coloniale senza approdare a una possibile sintesi, contrapponendosi a ogni immagine semplice e innocente sia di essenzialismo sia di sincretismo. Non è un caso che la consapevolezza della dimensione essenzialmente politica e processuale della differenza, nelle sue declinazioni tanto materiali quanto di costruzione discorsiva, incontri gli sviluppi probabilmente più significativi nella riflessione sul pensiero di genere e nella critica all’universalità astratta di alcuni canoni del femminismo occidentali: qui, la capacità di “decentrare globalmente” ogni

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logica binaria e ogni discorso potenzialmente assoluto o assolutizzante, conferisce al pensiero femminista postcoloniale una piega politica trasversale che problematizza e arricchisce il discorso sulla differenza sia del femminismo che del postcolonialismo. In particolare, contro il mito della “donna del terzo mondo”, paradigma “statico” di oppressione che ha occupato un ruolo decisivo sia nel nazionalismo anticoloniale sia in molto femminismo occidentale, i lavori di Chandra Talpade Mohanty (2003), di Ania Loomba (1998) e di altre femministe postcoloniali invitano a interpretare le differenze “razziali”, culturali e di genere come fattori che non si limitano ad affiancarsi o a sommarsi uno sull’altro, ma interagiscono producendo forme nuove e incomparabili di segregazione e di assoggettamento, così come nuove pratiche di differenza e di resistenza al patriarcato, al razzismo e allo sfruttamento. Da questa interazione l’esperienza di genere assume una dimensione e una “voce” irriproducibili, e in quanto tali sistematicamente cancellate o rappresentate come inesorabilmente assenti (questa, in fondo, la risposta implicita alla domanda cui Spivak dedicava il proprio intervento critico del 1988 contro una certa ingenuità degli studi subalterni – “Can the Subaltern Speak?”). Una tale rimozione appare costante e caratterizza i dibattiti sul sati (il sacrificio rituale delle vedove indiane), sullo chador (cfr. Rivera 2005), sull’infibulazione (cfr. Pasquinelli 2007): pratiche di potere “tradizionali” che hanno aperto “dialoghi interculturali” interminabili – e non necessariamente circoscritti all’interno degli spazi “metropolitani” – in cui però, lo sottolinea in modo incisivo Lata Mani (1998), le donne sono state per lo più semplice “luogo” quando non pretesto: mai, in ogni caso, soggetto, se non per la loro capacità di sottrarsi all’ordine del discorso dominante e di sovertirlo. È quindi a partire da questi presupposti dinamici, marchiati alla radice dalla dominazione coloniale e dai suoi effetti a catena (da ciò che Gregory Bateson [1972, pp. 101 ss.] definiva come schismogenesi, come differenza prodotta dalla differenza), che l’idea di differenza suggerita dalla critica postcoloniale si impone come prospettiva teorica estremamente ricca, segnando un superamento a nostro avviso sostanziale del discorso relativista moderno e delle sue declinazioni politiche più recenti, su tutte di quella multiculturalista. È evidente infatti come essa indichi la possibilità di evitare la deriva dell’omologazione, non soltanto e non tanto in termini “normativi”, ma anche sotto il profilo analitico: contro ogni lamentosa retorica sull’”occidentalizzazione” e sulla “cocacolonizzazione” del mondo, la critica postcoloniale afferma il presente globale come incessante incubato-

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re di differenze. Contemporaneamente, proprio per via dell’insistenza costante sulla irriducibile matrice coloniale di tali differenze, essa nega recisamente ogni possibile “autenticità” culturale, contestando ogni messa in scena di origini in base a una logica che Edward Said e James Clifford definiscono di “simmetria della redenzione”. Di fronte all’essenzialismo dilagante nella discussione, almeno italiana, sul multiculturalismo, l’insistenza postcoloniale su categorie come meticciato, sincretismo e ibridità costituisce dunque una salutare boccata d’aria fresca. E tuttavia il campo semantico costituito da tali concetti si rivela, come si è anticipato, tanto suggestivo quanto potenzialmente rischioso. Qui le critiche di Hardt e Negri da una parte, di -i=ek dall’altra, colgono effettivamente nel segno. L’ibridità, la tendenza a rappresentare con toni spesso apologetici una differenza fluttuante, libera da vincoli oppressivi e dall’ipoteca di un’appartenenza univoca, non è forse l’implicito, il non detto della nuova soggettività tardocapitalistica? E, d’altra parte, l’enfasi sulla differenza, sul diritto a narrarsi in prima persona, non si traduce forse nella rivendicazione di un “diritto alla differenza” che in realtà nessuno vuole negare e a cui anzi si è continuamente ricondotti a forza? Il rischio allora è essenzialmente quello di una rimozione che proietta un immaginifico livello discorsivo, di memoria, su tensioni e lotte reali, e così facendo riproduce una duplice distanza: temporale, nella misura in cui afferma il trionfo della contingenza, e spaziale nella misura in cui separa differenze ipostatizzate. L’apologia postcoloniale della differenza, insomma, “tiene a distanza”, coprendo il REALE ordine del presente costruito dal dominio dell’astrazione reale capitalistica: è questa, in buona sostanza, la critica di -i=ek. Ed è un’accusa diretta, anche e soprattutto se si pensa all’insistenza sulle storie locali, sulla “verità” delle “trame decentrate” a cui molti studi postcoloniali alludono e riconducono. Il problema però, aspetto che -i=ek sembra ignorare (tanto è vero che la critica del postcolonialismo di Peter Hallward, svolta attraverso un’ampia ripresa delle sue argomentazioni, finisce per riproporre lo Stato-nazione come unico orizzonte al cui interno è possibile inscrivere pratiche di emancipazione), è che, sia in generale nelle lotte anticoloniali sia in particolare nella critica postcoloniale, la posta in palio non può più essere locale, ed è per forza, non importa se per necessità o per scelta, “da subito globale”, necessariamente e contraddittoriamente “universale”. E non si tratta di un’universalità a priori (astratta), ma dell’universalità concreta che la violenza coloniale come discorso comune di dominio e di sfruttamento ha imposto.

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Dietro l’insistenza sulle storie locali, allora, si profila il tema più generale della differenza storica, della pluralità di tempi su cui l’astrazione reale del capitale ha imposto il proprio dominio, disponendoli dapprima, con il colonialismo, in una successione “stadiale”, e poi, nel presente postcoloniale, sincronizzandoli violentemente. È proprio ragionando sulla qualità del tempo storico nel nostro presente, infatti, che un’ulteriore e decisiva valenza del concetto di postcolonialismo viene alla luce.

5. Afferrare il presente

Si può forse avanzare, da questo punto di vista, un’ipotesi non peregrina sulle ragioni sostanziali per cui il nostro presente pare incline a definirsi attraverso un uso inflazionato del “post”. Si tratta di riprendere e sviluppare la tesi formulata da Paolo Virno (1999) a proposito della situazione “post-storica” come quella in cui “viene in vista la stessa condizione di possibilità della Storia”: ovvero come situazione in cui la tensione tra potenza e atto che fonda la possibilità del decorso cronologico e dell’ordine temporale, del divenire, cessa di agire dietro ai fenomeni e ne costituisce piuttosto l’ordito evidente. Proviamo a tradurre la riflessione di Virno ricorrendo alle categorie proposte da Reinhart Koselleck (1979 e 2000). Sono noti i termini generali della sua analisi della modernità: quest’ultima è definita da un’esperienza di accelerazione del tempo di cui si rende filosoficamente ragione attraverso un gesto originario di riduzione del plurale delle storie tradizionali al “singolare collettivo” della Storia; il vettore temporale che ne risulta assume conseguentemente caratteri di unidirezionalità e linearità, su cui si innesta la tensione tra “orizzonte d’aspettativa” e “spazio d’esperienza”. Tensione che, sotto il profilo formale, tiene il medesimo luogo che nel discorso di Virno è occupato da quella tra potenza e atto. Siamo qui all’origine, secondo Koselleck, di un movimento di temporalizzazione delle categorie della politica che trova nel concetto di progresso la propria cifra d’insieme. È precisamente su questo punto che interviene la critica postcoloniale. Da una parte con un gesto, se si vuole tradizionale nella forma, rivolto al passato: o meglio a un passato, quello della schiavitù e della violenza muta, non dialettica, del dominio coloniale, che, nella misura in cui si nega a ogni compensazione nell’ordine delle aspettative, resiste ostinatamente a essere consegnato al passato, popolando di spettri il presente. Ma dall’altra parte investendo direttamente que-

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sto stesso presente, con una critica dello “storicismo”, quale ad esempio quella proposta da Dipesh Chakrabarty in Provincializzare l’Europa (2000), che si appunta proprio sulla possibilità di ordinare cronologicamente gli strati di cui si compone il tempo globale. Detta in altri termini: è la stessa modalità con cui oggi il capitale costruisce (è costretto a costruire) la sua Storia, la temporalità “omogenea e vuota” di cui parlava Benjamin, a far sì che vengano continuamente in superficie le storie plurali che esso ha incontrato, incorporato e travolto nel processo del suo farsi mondo. Il tempo del “post”, in questa chiave, è un tempo in cui non sono certamente venuti meno dominio e sfruttamento, ma in cui piuttosto appare sospesa la possibilità di individuare luoghi privilegiati per agire la trasformazione (è questo il senso ultimo, ci pare, dell’insistenza postcoloniale sul decentramento): un tempo in cui, d’altra parte, ogni giudizio sull’“arretratezza” o sull’“avanzamento” di una determinata situazione si provincializza, nel senso che può trovare soltanto nel presente – e non in un modello di “sviluppo” assunto come normativo – il proprio criterio operativo. Agisce qui un lungo lavorio teorico, a cui hanno dato il proprio apporto tradizioni eterogenee di pensiero, che si è appuntato al di fuori dell’“Occidente” sulla categoria di transizione (cfr. infra, cap. VI e appendice): lo scacco subito non solo dai modelli analitici che hanno interpretato il colonialismo attraverso un’immagine lineare della transizione al capitalismo, ma anche e soprattutto dei progetti politici che, partendo da categorie come “sviluppo ineguale” e “dipendenza”, hanno fatto perno sulle pretese virtù progressive dello “sviluppo”, della “cittadinanza” e del “lavoro salariato”, conduce a individuare nella contemporanea presenza di una pluralità di tempi storici, e dunque di forme di dominio e di pratiche di liberazione, una caratteristica strutturale del capitalismo fuori dall’Occidente, che oggi si afferma su scala globale penetrando nello stesso spazio che un tempo si definiva “metropolitano”. La “provincializzazione dell’Europa” di cui parla Chakrabarty agisce dunque in un duplice senso: da una parte mostra quanto particolare e non generalizzabile sia stata l’esperienza del capitalismo europeo (o “occidentale”), quanto rilevante sia stata, per riprendere i termini usati da Yann Moulier Boutang (1998), la presenza di “forme difformi” di dominazione del lavoro nella costituzione del capitalismo storico come sistema mondo; dall’altra fa definitivamente dell’Europa (dell’“Occidente”) una provincia nel momento stesso in cui pare realizzarsi l’“occidentalizzazione del mondo”, nella misura in cui

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i suoi confini si fanno “porosi” e attraverso di essi i codici “coloniali” filtrano all’interno di quello che continua a pensarsi come “centro”. È questa, ci sembra, l’immagine del presente che si può estrapolare dalla critica postcoloniale: un tempo in cui l’insieme dei passati che il moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada riemerge disordinatamente in una sorta di “esposizione universale”, in cui “sussunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”, lungi dal poter definire una tendenza lineare, si “ibridano” e coesistono fianco a fianco. Una volta che il confine coloniale ha cessato di organizzare in modo coerente la geografia globale, esso si diffonde virtualmente ovunque, riproducendosi sulla superficie apparentemente “liscia” del presente globale: accompagna la nuova logica delocalizzata della produzione, segna in modo brutale intere società che furono un tempo capaci di liberarsi del giogo coloniale e sono oggi costrette a confrontarsi con i fallimenti delle lotte anticoloniali, introduce nuove radicali differenze di status e nuove forme di apartheid nell’Occidente postcoloniale, si fortifica fisicamente, condannando potenzialmente a morte chiunque tenti di attraversarlo, passando tra le recinzioni tra Tijuana e San Diego o facendo naufragio nel Mediterraneo. È esattamente una simile logica di differenza che è imposta e tradotta dal capitale occidentale. Una logica capace di parlare il linguaggio del sincretismo (come sia -i=ek sia Hardt e Negri hanno sottolineato), ben disposta a concedere una determinata forma di sincronicità (quella del mercato) alle diverse forme di vita che si diffondono nel pianeta. Ecco perché l’uguaglianza continua a essere la parola più provocatoria e scandalosa nel lessico tardo-capitalistico. Una volta ammesso che nuovi confini e nuovi dispositivi di dominio e sfruttamento sono all’opera per implementare differenze, dobbiamo riconoscere che essi sono anche quotidianamente sfidati (e non di rado messi fuori uso) dalle pratiche di donne e uomini che lottano contro di essi, o che semplicemente costruiscono le proprie vite sottraendosi al campo in cui si dispiega la loro azione. Oggi, la possibilità della liberazione ha cessato definitivamente di essere affidata al segreto operare di leggi storiche necessarie, per essere consegnata interamente alla prassi delle donne e degli uomini che abitano nella loro irriducibile molteplicità il pianeta. A presentarsi come ibrido e meticcio, allora, è anche quel linguaggio dell’universale (dell’uguaglianza) che si tratta quotidianamente di reinventare come spartito comune attorno a cui soltanto può essere articolata, oltre ogni retorica, una politica della moltitudine.

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Immagini della cittadinanza nella crisi dell’antropologia politica moderna

Io, che sono avvelenato del sangue di entrambi, Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene? Io che ho maledetto L’ufficiale ubriaco del governo britannico, come sceglierò Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo? Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno? Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo? Come voltare le spalle all’Africa e vivere? D. WALCOTT, Un lontano grido dall’Africa (1957)

“Il guaio con gli inglesi è che la loro storia si è svolta oltreoceano, e loro non sanno che cosa significa”. Queste parole, tratte da un famoso romanzo di Salman Rushdie (1988, p. 367) e spesso citate negli studi postcoloniali anglosassoni (cfr. ad es. Bhabha 1994, p. 231), circoscrivono in modo molto preciso, una volta che il riferimento all’Inghilterra sia allargato a comprendere in sé la vicenda storica dell’“Occidente” nel suo complesso, il tema a cui questo capitolo è dedicato. Riprendendo alcune sollecitazioni che vengono dal filone di studi indicato, ci si propone infatti di esporre le linee fondamentali di una ricerca sulle ripercussioni che il rapporto con l’altro da sé – storicamente mediato dal progetto e dall’esperienza coloniale – ha avuto per la definizione dei concetti di “Europa” e “Occidente” in età moderna 1. E al tempo stesso si intendono indagare le modalità con cui quel progetto e quell’esperienza hanno contribuito a definire la genealogia del mondo “globale” contemporaneo, segnandone il profilo e tuttavia non potendo in alcun modo esaurire quella che può essere definita la sua costituzione materiale. È intanto il caso di notare che, sotto il profilo storico, non mancano esempi di consapevolezza europea del processo a cui fanno riferimento le parole di Rushdie. Vediamone uno, particolarmente significativo: proprio negli anni dell’apogeo dell’imperialismo – quando quest’ultimo si avviava a divenire in Inghilterra, nei termini impiegati nel 1898 da Lord Curzon, viceré e governatore generale del1

Particolarmente stimolanti, in questo senso, sono le considerazioni di É. Balibar (2001a).

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l’India, “sempre meno la dottrina di un partito, e sempre più la professione di fede dell’intera nazione” –, il grande storico britannico J.R. Seeley polemizzava nelle sue lezioni su The Expansion of England con l’immagine della storia inglese settecentesca che si era imposta come canonica nei decenni precedenti. Quest’immagine, a suo giudizio, concedeva uno spazio eccessivo “alle dispute parlamentari e alle agitazioni attorno alla libertà, tutte questioni in cui il XVIII secolo altro non fu che un pallido riflesso del precedente. Quel che i nostri storici non colgono è che in quel secolo la storia dell’Inghilterra non si svolge in Inghilterra, ma in America e in Asia”. E poco più avanti Seeley così proseguiva: “positivo o negativo che sia, è con ogni evidenza questo il grande fatto della storia inglese moderna. E sarebbe un errore madornale ritenere che si tratti di un fatto meramente materiale, o che non comporti conseguenze morali e intellettuali” 2.

1. Gli studi postcoloniali e la problematica della legittimazione

Affatto diversi, come è evidente, sono i presupposti delle affermazioni di Rushdie e di Seeley. Ciò che l’uno coglie nella prospettiva di quelle genti d’oltreoceano il cui “silenzio, spontaneo o meno”, rappresentava una delle condizioni fondamentali del progetto coloniale europeo (Said 1993, p. 75), l’altro rivendica dal punto di vista esclusivo della storia d’Inghilterra. E tuttavia, nei brani citati di Seeley, colpisce la lucidità con cui quella che potremmo definire l’estrinsecazione dell’Inghilterra, il nesso che stringe quest’ultima (nonché, aggiungiamo noi, l’Europa e l’Occidente nel loro complesso) ad altri continenti, è indicata come caratteristica costitutiva della sua stessa identità storica, ben lungi dal limitare i suoi effetti al piano “meramente materiale” e anzi da indagare nelle sue “conseguenze morali o intellettuali”. È un’intenzione analoga in fondo, per quanto espressa con diverso lessico e con diversi concetti, quella che si ritrova all’origine degli “studi postcoloniali” contemporanei. A partire dalla pubblicazione, nel 1978, di Orientalismo di Edward Said, questi studi hanno dato 2

Seeley 1883, pp. 9 e 13 s. La citazione di Lord Curzon è tratta da Metha 1999, p. 5: profondamente influenzato dagli sviluppi più recenti degli studi postcoloniali, il libro di Metha, a dispetto di un’impostazione teorica non sempre convincente, rappresenta comunque una prima esemplificazione delle sollecitazioni che da quel filone di studi possono derivare alla storiografia del pensiero politico.

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infatti espressione a un tentativo di rileggere criticamente il progetto coloniale dell’Occidente indagandone non soltanto i risvolti storicoconcreti, ma anche gli effetti per così dire epistemici, ovvero sulla struttura dei saperi e dei concetti attraverso cui l’“universalismo” occidentale si è confrontato con il tema della “differenza storico-culturale”. Una categoria fondamentale, di esplicita derivazione foucaultiana, è stata in questo contesto, da Orientalismo in avanti, quella di discorso coloniale: per quanto l’opera di Said sia stata da molti punti di vista criticata, l’attenzione all’intreccio di sapere e potere nelle pratiche della “governamentalità coloniale” è rimasta costante negli studi postcoloniali degli anni successivi. E a più riprese questi studi si sono confrontati con problematiche riconducibili al tema della legittimazione: non solo leggendo in controluce, nella filigrana teorica di concetti come “civiltà” e “progresso”, i segni di quell’“idea” che, come afferma Marlow all’inizio di Cuore di tenebra di Joseph Conrad, sola può “riscattare” e “giustificare” la “violenza bruta” del colonialismo, quella “conquista della terra la quale significa essenzialmente il portarla via a quelli che hanno un diverso colore di pelle, o un naso un po’ più schiacciato del nostro”; ma anche lavorando su concetti come “autorità etnografica” e “canone”, sottoponendo cioè ad analisi critica gli effetti potestativi connessi all’operare di sistemi di pensiero e di paradigmi disciplinari che proprio al contesto coloniale devono la propria origine 3. Emblematica, in questo senso, è proprio la disamina, svolta da Said, delle modalità con cui l’orientalismo occidentale ha costruito e forgiato l’oggetto “Oriente”, anticipandone e accompagnandone in qualche modo con l’appropriazione epistemica la conquista coloniale. Ma l’effetto complessivo delle tesi di Said, come ha notato uno dei suoi più acuti critici, James Clifford, “non è tanto quello di scardinare la nozione di un Oriente sostanziale, ma piuttosto di rendere problematico l’‘Occidente’”. Esse finiscono cioè per mostrare, e negli anni successivi i più interessanti studi postcoloniali avrebbero sviluppato proprio questa linea di ricerca, come un movimento di ibridazione culturale, al fondo del quale si ritrova il carico di muta violenza che contraddistingue sotto il profilo storico il progetto coloniale, sia 3

Per prime introduzioni agli studi postcoloniali, si vedano Gandhi 1998, Loomba 1998, Hardt 2000 e Albertazzi, Vecchi (a cura di) 2004, nonché le seguenti antologie di scritti: Aschcroft, Griffiths, Tiffin (a cura di) 1995, Chambers, Curti (a cura di) 1997, e Castle (a cura di) 2001. Ma imprescindibile è ora il rimando a Young 2001 (pp. 383 ss. per una discussione di Orientalismo di Said) e 2003, nonché a Mellino 2005. Sul concetto di “autorità etnografica”, cfr. Clifford 1988, pp. 35 ss.

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costitutivo fin dalle loro origini dei moderni concetti di Europa e di Occidente. Quelle che Clifford chiama le “costruzioni ideologiche dell’esotico”, ovvero le immagini della “barbarie” e della “licenziosità”, ma anche della “libertà”, dei popoli “selvaggi”, costituiscono in altre parole il necessario specchio in cui si staglia, per contrasto, l’immagine del “sé” europeo occidentale e della sua “civiltà”, che proprio da questo confronto deriva un essenziale criterio di legittimazione: “visto in questo modo”, scrive ancora Clifford, “l’‘Occidente’ stesso diventa un gioco di proiezioni, doppi, idealizzazioni e ripulse di un’alterità complessa e mutevole” 4. Di questa indicazione si sonderanno in primo luogo, nelle pagine seguenti, alcune implicazioni nella prospettiva disciplinare della storia delle dottrine politiche 5. E in questo senso si valorizzerà un primo significato del suffisso “post” nel termine postcolonialismo: quello cioè che indica il punto di vista dello storico che, in epoca successiva all’“età degli imperi”, volge il proprio sguardo alle vicende e ai “discorsi” che ne hanno intessuto la trama. Ma nel corso degli anni Novanta gli studi postcoloniali, grazie al contributo di critici letterari, filosofi, antropologi e sociologi, hanno rivolto in modo via via più deciso la propria attenzione al presente, applicandosi in particolare allo studio dei regimi “transnazionali” di relazioni sociali che hanno preso forma nel contesto dei nuovi movimenti migratori (cfr. Mezzadra 2006, in specie parte I, cap. 4). Emerge qui un secondo significato del suffisso “post”, che intende denotare alcuni tratti salienti del presente: su di esso si soffermerà l’ultimo paragrafo di questo capitolo.

2. L’antropologia politica implicita nel moderno discorso della cittadinanza

Per sviluppare la prima linea di ricerca indicata, è necessario esplicitare preliminarmente quale sia il significato attribuito all’espressione “antropologia politica moderna”, che compare nel titolo stesso di questo capitolo. Lungi dal riferirsi a presunte costanti antropologi4 5

Clifford 1988, p. 312. Sul concetto di “ibridazione”, si veda ancora Bhabha 1994. Per un esempio significativo, nella storiografia italiana delle dottrine politiche, di ricerca sulle problematiche del colonialismo, si vedano i lavori di Barié 1953 e 1972, nonché Abbattista 1979. Utili tracce per la ricerca sull’argomento si possono inoltre rinvenire in due recenti volumi collettanei, sollecitati dal crescente interesse per la tematica del “multiculturalismo”: cfr. Savard, Vigezzi (a cura di) 1999 e Cavazzoli (a cura di) 2001.

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che, che determinerebbero la politica in età moderna, essa intende indicare i modi, complessi e articolati, corrispondenti a un movimento di continua inclusione ed esclusione, con cui l’individuo è stato immaginato e costruito, sia sotto il profilo concettuale sia sotto il profilo “istituzionale”, come cittadino a partire dal XVII secolo 6. È bene aggiungere immediatamente che tale antropologia politica, straordinariamente mutevole e flessibile, non è qui considerata, nel senso “semplice” del termine, come una mera “ideologia”, ma piuttosto come una figura materiale di mediazione della complessità dei processi storici. Attraverso di essa, in altri termini, viene progressivamente colmato il vuoto aperto nella compagine sociale dal dispiegarsi della rivoluzione capitalistica, viene perimetrato lo spazio che consente alla borghesia di costituirsi come soggetto storico, di organizzare la propria egemonia all’interno della società e di ipotecare i processi di trasformazione dei criteri di legittimazione dell’ordine politico che l’insorgenza di nuovi soggetti storici di volta in volta determina 7. Il vuoto aperto nella compagine sociale dal dispiegarsi della rivoluzione capitalistica, si è detto. Non ve n’è una migliore rappresentazione, a mio giudizio, del fulminante capitolo XIII del Leviatano di Thomas Hobbes, Of the Naturall Condition of Mankind, as concerning their Felicity, and Misery. Qui, in un testo in cui intensissimo è per altro l’“effetto specchio” nel rapporto tra l’Europa e il “nuovo mondo” scoperto al di là dell’Atlantico 8, l’individuo si presenta al tempo stesso come l’indiscusso protagonista soggettivo della scena politica moderna e come figura di un problema radicale. Ponendosi come matrice della critica di ogni rapporto di dominazione che pretenda di valere in ragione della propria naturalità, l’uguaglianza tra gli individui costituisce una sfida alla possibilità stessa dell’ordine politico. L’individuo moderno, considerato attraverso le pagine del Leviatano, nasce in altri termini nudo, e la soluzione hobbesiana consiste notoriamente nel salto dallo stato di natura al Commonwealth, le6 7

8

Il riferimento fondamentale, a questo riguardo, è a Santoro 1999 e a Costa 19992001. Di notevole interesse è anche Castel, Haroche 2001. Per un ulteriore sviluppo del ragionamento, cfr. Mezzadra 2004. Riprendo e sintetizzo qui molti spunti derivanti dal dibattito svoltosi all’interno della Scuola di Francoforte negli anni Trenta tra F. Borkenau e H. Grossmann, documentato in Schiera (a cura di) 1978. Sotto il profilo storico tali spunti hanno trovato un proficuo sviluppo, in Italia, in particolare nei lavori di A. Negri su Descartes (1970), e dello stesso Schiera su scienza e politica nell’Ottocento tedesco (1987). Cfr. Landucci 1972, pp. 114 ss. e Galli 2001, in specie p. 41. Ma su Hobbes si tenga presente, in generale, Piccinini 1999.

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gittimato dal riconoscersi una volta per tutte dell’individuo nell’immagine specchiata della sua soggettività politica che il sovrano produce attraverso la propria azione rappresentativa. Ricostruire l’antropologia politica implicita nel moderno discorso della cittadinanza significa indagare le spesse vesti di cui questo individuo, nato “nudo”, si è andato successivamente ricoprendo. È attraverso questi passaggi che vengono introdotte le mediazioni che consentono, restando all’interno delle logiche del contrattualismo, di “ammorbidire” gradualmente la secchezza del salto tra stato di natura e stato civile, nonché, più in generale, di rendere maggiormente dinamico quello spazio politico che in Hobbes appariva bloccato nel suo dipanarsi tra i due poli della libertà privata dell’individuo e del potere assoluto del sovrano. Ma al tempo stesso la costruzione di una nuova immagine dell’individuo come cittadino corrisponde all’istituzione di precisi confini della cittadinanza. Decisiva, da questo punto di vista, risulta l’opera di Locke. Qui, con modalità che avrebbero esercitato durevoli influenze sull’intero pensiero politico successivo, è la proprietà a porsi come baricentro della nuova antropologia politica. Ma la proprietà, in Locke, è in primo luogo proprietà della propria persona (Secondo trattato sul governo, § 27), cifra complessiva di quell’auto-conservazione che per il filosofo inglese costituisce al tempo stesso un diritto e un dovere di ciascun individuo, ponendosi come matrice che regola lo stesso discorso complessivo sui diritti 9. La proprietà, in quanto property in his own person, si specifica conseguentemente in capacità di sottoporre a disciplinamento i propri impulsi, condizione fondamentale di quella disposizione dell’individuo al lavoro che rappresenta a sua volta il presupposto dell’appropriazione di beni materiali. Si legga a questo proposito un brano tratto dal Saggio sull’intelletto umano: “lo spirito ha il potere di tenere in sospeso l’esecuzione di un atto e la soddisfazione di un suo qualunque desiderio. [...] Esso può tenerli in sospeso tutti, uno dopo l’altro; è libero di considerare gli oggetti, di esaminarli da ogni lato e di pensarli in rapporto ad altri” (Locke 1690, vol. II, p. 231). È questa specifica capacità di auto-disciplinamento a costituire il contrassegno antropologico fondamentale dell’individuo che Locke immagina e costruisce come cittadino. Solo la sua è vera libertà, segnata da precisi confini che la distinguono da quella illusoria del fol9

Cfr. a questo proposito Costa 1999-2001, vol. I, pp. 285 ss. Ma si tenga presente anche Costa 1974 (su Locke in particolare pp. 111 ss. e 182 ss.).

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le: “se è libertà, vera libertà”, si legge poco più avanti nel Saggio, “spezzare i vincoli che ci legano a una condotta ragionevole, e mancare di quel freno dell’esame e del giudizio che ci impedisce di scegliere e di fare il peggio, allora solo i pazzi e gli incoscienti sono liberi” (ivi, p. 234) 10. La figura del folle, a cui corrisponde, negli scritti sulla tolleranza, quella dell’ateo, diviene, nel rapporto sulla questione della povertà presentato da Locke nel 1698 al “Board of Trade and Plantation”, quella del povero indisciplinato, colpevolmente incapace, per via della “corruzione dei costumi”, del “vizio” e della “pigrizia” (idleness), di provvedere al proprio sostentamento attraverso il lavoro (Locke 1697, p. 447) 11. Sono gli anni di quello che Foucault ha definito il “grande internamento”, che appare a questo punto come il rovescio speculare dei processi attraverso cui il moderno spazio della cittadinanza, nonché l’antropologia politica in esso implicita, si è andato costituendo fin sotto il profilo concettuale: folli e poveri indisciplinati sono i soggetti destinati a essere reclusi in manicomi e workhouses, a essere messi ai lavori forzati sulle grandi navi della marineria atlantica dove trovano la propria definizione archetipica alcuni dei tratti costitutivi della disciplina di fabbrica (cfr. Linebaugh, Rediker 2000). Il duplice significato assunto in Locke dalla proprietà (proprietà di sé e proprietà di beni materiali) agisce in profondità, lo si è già detto, come confine della cittadinanza nei decenni successivi: i due principali argini che i liberali difenderanno lungo tutto l’arco dell’Ottocento di fronte alla progressiva estensione del suffragio, appunto “proprietà e cultura”, possono essere considerati una rielaborazione di quel duplice significato. Qui interessa tuttavia porre in evidenza come un ulteriore confine della cittadinanza, quello di genere, trovi la propria originaria formulazione all’interno del medesimo paradigma “antropologico”. Questo vale innanzitutto per lo stesso Locke: di contro alla radicalità e alla coerenza con cui Hobbes aveva negato caratteri di naturalità al rapporto di subordinazione della donna all’uomo, Locke deduce “che nella natura ci sia un fondamento” per quel rapporto dal semplice fatto della “soggezione in cui le donne normalmente si trovano nei confronti del marito” (Primo trattato sul governo, § 47, c.n.); e considerato che il marito e la moglie hanno “intelligenze differenti”, ritiene ancora una volta “naturale” che la “de10 Particolarmente rilevante, nella prospettiva qui seguita, appare il discorso sul rapporto tra melancolia e disciplina svolto nella terza parte di Schiera 1999. 11 Su questo punto si veda Bohlender 2000, in specie pp. 103 ss. Sulla figura dell’ateo negli scritti lockeani sulla tolleranza, si veda Lanzillo 2002, pp. 88 s.

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cisione ultima” nella famiglia, “cioè a dire il governo, [...] sia dalla parte dell’uomo in quanto più capace e più forte” 12. È evidente come la donna, e anche sotto questo profilo ci troviamo di fronte a una questione ben lungi dal riguardare il solo Locke, sia considerata naturalmente predisposta alla soggezione proprio in quanto non condivide (o condivide in misura minore dell’uomo) quella capacità di auto-disciplinamento che abbiamo visto rappresentare la qualità fondamentale dell’individuo come cittadino. A distanza di oltre un secolo, in un contesto filosofico totalmente diverso, uno schema non molto distante sarebbe stato proposto da Hegel: incapace di scindersi dall’ethos della famiglia (la sua “destinazione sostanziale”, come si legge nel § 166 dei Lineamenti di filosofia del diritto) e dunque di attingere quell’universalità per la quale l’uomo diventa cittadino, la donna di cui parla Hegel finisce per essere consegnata a un “principio femminile”, che rende eterna – e ancora una volta naturale – la condizione di passività storicamente prodotta dalla dominazione patriarcale 13. Così stando le cose, avrebbe chiosato ironicamente John Stuart Mill qualche decennio più tardi, gli uomini potevano continuare a ritenere che la soggezione femminile non si fondasse, come nel caso degli schiavi, sulla paura, ma sui sentimenti (cfr. Mill 1869, pp. 89 s.). 3. Progetto coloniale e pensiero politico moderno

Assai più che nella prospettiva suggerita dalle problematiche della “politica di potenza”, il moderno progetto coloniale europeo merita di essere indagato, nella scia delle sollecitazioni che vengono dagli studi postcoloniali, proprio come luogo strategico di applicazione, e di definizione, dell’antropologia politica sinteticamente ricostruita. Resta inteso, d’altro canto, che parlando di un “progetto coloniale europeo” non si intende ridimensionare il rilievo delle differenze tra le diverse esperienze coloniali, sia di quelle relative ai modelli di amministrazione adottati dalla “metropoli” e alle tipologie di “insediamento”, sia di quelle determinate dalle concrete esigenze di far fronte alla resistenza (o alle strategie di adattamento) delle popolazioni sottoposte a dominio coloniale. L’insistenza sui caratteri ambivalenti e complessi del colonialismo moderno, sull’impossibilità di 12 Fondamentale sull’insieme di queste problematiche è il libro di C. Pateman sul “contrato sessuale” (1988). 13 Si leggano (o si rileggano) a questo proposito le pagine di Carla Lonzi (1974).

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definirlo se non come insieme flessibile di pratiche e di discorsi in riferimento a esperienze situate con precisione nel tempo e nello spazio, contraddistingue anzi alcuni degli studi più rilevanti pubblicati di recente sull’argomento (cfr. ad es. Thomas 1994, pp. 11 ss. e Young 2001, pp. 15 ss.). Di un progetto coloniale si potrà dunque parlare soltanto a proposito di quei tratti che, su un piano certo molto astratto, individuano complessivamente le potenze europee (e poi, a partire dall’occupazione statunitense delle Filippine, “occidentali”) come le uniche titolate a intraprendere una politica coloniale in grande stile, legittimando al tempo stesso quest’ultima nella prospettiva di una storia della “civiltà” che, fuoriuscendo dalla propria originaria perimetrazione continentale, si avvia a farsi storia del mondo. È evidente come, da questo punto di vista, la storia del progetto coloniale europeo debba essere indagata quantomeno a partire dall’età delle “scoperte geografiche”, e come in particolare essa non possa essere disgiunta dalla storia di quel modo di produzione capitalistico che, proprio per la sua proiezione fin dalle origini globale, costituisce il vero elemento distintivo della “civiltà” occidentale 14. Non mancano d’altronde studi di ampio respiro, ad esempio, sulla nascita dell’antropologia come ideologia coloniale nei due secoli successivi alla scoperta del “nuovo mondo” 15. Qui, tuttavia, si intende dare qualche esempio di come il problema che ci occupa possa essere sviluppato in riferimento a un’età successiva, ovvero all’età dell’apogeo dell’imperialismo europeo. Sotto il profilo delle retoriche coloniali, quest’età è caratterizzata, come ha mostrato in un libro molto importante Nicholas Thomas, dall’esaurimento della tematica religiosa della “conversione”, e dalla sua sostituzione con un modello centrato sull’“essenzializzazione” delle differenze tra “popoli” e “nazioni”, di derivazione naturalistica e orientato a culminare nella costruzione di precise gerarchie razziali (Thomas 1994, pp. 71 ss.). Nella misura in cui l’Europa si avviava a comprendere nella propria sfera di influenza la totalità delle terre emerse, il riferimento alla razza costituiva l’apice di un discorso che puntava a restringere al vecchio continente il campo d’applicazione di alcuni standard caratteristici della modernità, senza per questo escludere la possibilità che all’interno di questo stesso campo si aprissero conflitti laceranti, e a configurare le società e i popoli “altri” come meri oggetti di dominio. 14 È un punto su cui ha insistito in modo particolarmente convincente A. Dirlik (1997 e 2000). 15 A partire dal classico lavoro di Gliozzi (1977).

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Si tratta di un discorso che avrebbe segnato in profondità gli stessi sviluppi dell’antropologia novecentesca: in particolare, il presupposto dell’“incommensurabilità” tra le diverse “culture”, per quanto molto spesso formulato con intenzioni “progressiste”, avrebbe iterato quel gesto dell’“allontanamento” dal tempo dell’osservatore delle società “altre” che aveva governato l’”episteme” delle scienze coloniali ottocentesche, tra cui l’antropologia aveva del resto svolto un ruolo di primissimo piano (cfr. Fabian 1983). Ancorché i testi di queste “scienze” non figurino tra i classici del pensiero politico, una prima direzione di ricerca che gli studi postcoloniali sollecitano a sviluppare è proprio quella che si riferisce ai concetti e ai metodi da esse impiegati. È il caso di aggiungere, d’altra parte, che tali studi impongono allo storico del pensiero politico una continua problematizzazione del concetto di “fonte” del suo lavoro, nella misura in cui essi pongono in evidenza la complessità della “governamentalità coloniale” (Thomas 1994, pp. 105 ss.), l’intreccio di sapere e potere e l’incrocio di sguardi di cui quest’ultima è espressione: la produzione di oscuri uffici periferici delle amministrazioni coloniali e i diari di viaggio di funzionari ed etnografi possono avere valore di “fonte”, per la definizione dei concetti fondamentali su cui si articola il progetto coloniale europeo, al pari di un romanzo di Flaubert o della scultura di Picasso 16. Assai più che una limitazione a priori dei testi che possono legittimamente essere assunti come “fonti” dallo storico del pensiero politico, converrà allora assumere come criterio disciplinare proprio la centralità dei concetti politici, che si tratterà di indagare nella loro “costituzione materiale” attingendo a testi anche radicalmente eterogenei. Si prenda ad esempio il diritto coloniale. Uno dei più importanti corsi tenuti all’inizio del Novecento in Italia in questa branca della giurisprudenza, quello di Santi Romano, mostra bene, nella costruzione del sistema rigidamente dualistico dei rapporti giuridici che hanno come proprio centro rispettivamente i “cittadini” e gli “indigeni”, alcuni presupposti comuni al “progetto coloniale europeo” negli anni considerati. In primo luogo, laddove riconduce il fatto che, per i sudditi coloniali, le condizioni della “naturalizzazione” sono “più gravi” di quelle normalmente richieste per gli stranieri alla circostanza che i primi “sono spesso di razza non europea, mentre per 16 Ricco di spunti a questo riguardo, pur all’interno di una polemica con la storiografia “postmoderna” che coinvolge anche alcuni esiti del postcolonialismo, è il lavoro di C. Ginzburg (2000).

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gli stranieri della medesima razza la loro incorporazione nello Stato è più facile” (Romano 1918, p. 126). Ma altrettanto rilevante è l’insistenza di Santi Romano sulla “diversità della civiltà” prevalente nella metropoli e nelle colonie, che rende inapplicabile a queste ultime la “speciale figura di governo, detta ‘governo costituzionale’”, e impone piuttosto di costruire il rapporto tra metropoli e colonia secondo il principio dello “Stato patrimoniale, che vigeva prima dello Stato costituzionale” e che aveva il suo tratto saliente nel configurare lo Stato, “almeno secondo un’opinione molto diffusa, come oggetto di dominio della potestà del monarca” (ivi, p. 104) 17. Seguendo le stesse controversie giuridiche sulle questioni più tecniche del diritto internazionale a proposito delle colonie, si è d’altra parte naturalmente ricondotti ai problemi che si sono in precedenza discussi a proposito della moderna “antropologia politica”. La Conferenza di Berlino del 1885 determinò ad esempio la riapertura del dibattito, tra i teorici del diritto internazionale, su quale fosse il titolo che rendeva legittima l’acquisizione di un possedimento coloniale da parte di una potenza europea 18. Nella sostanza venne riproposta quella che era stata la tesi canonica del giusnaturalismo, che a partire da Grozio, in riferimento a un territorio che appariva come res nullius, aveva indicato tale titolo nell’occupazione. Nel determinare in quali condizioni territori abitati da “tribù selvagge” potessero essere definiti res nullius, la dottrina prevalente di fine Ottocento riprese l’argomentazione che oltre un secolo prima, alle origini del moderno “diritto delle genti”, era stata sviluppata dal giurista svizzero Emerich de Vattel. Secondo la prospettiva adottata da quest’ultimo, i contrassegni della “civiltà” erano la coltivazione delle terre e la sedentarietà della popolazione, che costituivano al tempo stesso precisi “obblighi imposti all’uomo dalla natura”. Coloro che si sottraevano a tali obblighi, nella misura in cui mettevano a rischio la sopravvivenza di un genere umano che si era troppo moltiplicato per poter vivere in condizioni di nomadismo, meritavano a giudizio di Vattel “di essere sterminati come bestie feroci e nocive” 19. E in ogni caso non po17 Sul diritto coloniale italiano, cfr. Sagù 1988. Ma molto stimolante è anche l’analisi svolta da B. Sòrgoni (1998). Più in generale, su diritto coloniale europeo, si tengano presenti i saggi raccolti nel vol. 33/34 (2004/2005) dei “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno” nonché in Mazzacane (a cura di) 2006. 18 Cfr. Mannoni 1999, pp. 103 ss. e Costa 1999-2001, vol. III, pp. 476 ss. (ma tutto il cap. X del volume, “Lo Stato-potenza e la missione civilizzatrice dell’Europa”, è di grande interesse per i temi qui trattati). 19 De Vattel 1758, vol. I, p. 78 (I, VII, § 81). Sulla funzione di “mito politico” nella legittimazione della conquista coloniale di un’immagine delle popolazioni “indigene”

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tevano porsi come proprietari esclusivi del territorio su cui vivevano, che si presentava dunque aperto alla conquista da parte degli europei: questi ultimi, richiudendo i “selvaggi” in “limiti più ristretti”, non solo non contravvenivano infatti ad alcuna legge di natura, ma ne confermavano piuttosto la più intima essenza (De Vattel 1758, p. 195 [I, XVIII, § 208]). Si tratta di un argomento di cui non può sfuggire la derivazione da Locke, che nel quinto capitolo del Secondo trattato aveva insistito a più riprese sia sul fatto che il lavoro costituisce per l’uomo un obbligo imposto da Dio sia sul fatto che solo l’agricoltura sedentaria e l’improvement delle condizioni naturali danno luogo a diritti di proprietà. Non è un caso che Locke stesso avesse impiegato questo argomento per legittimare la conquista del “nuovo mondo” 20. Ma più rilevante è porre in evidenza come il riferimento all’“esterno” si mostri qui costitutivo dell’origine di un modello di antropologia politica destinato, come si è detto, a condizionare a lungo il pensiero politico europeo: quel modello nasce in altri termini segnato da un rapporto con l’“altro da sé” connotato in termini di dominio, secondo una modalità concettuale per cui l’“esterno” è già compreso all’interno del modello stesso come suo essenziale momento di definizione. Vale qui un discorso analogo a quello fatto da G.Ch. Spivak a proposito della Critica del giudizio di Kant, e dunque di un altro fondamentale (nonché assai insidioso) terreno di precisazione della moderna antropologia politica: quello della teoria estetica. Mostrando la funzione costitutiva di un riferimento agli aborigeni australiani e agli abitanti della Terra del Fuoco nell’analitica di quel sublime che è “per l’uomo rozzo (dem rohen Menschen) semplicemente terribile” (Kant 1790, § 29, p. 116), Spivak ha insistito sul fatto che il soggetto in quanto tale appare in Kant “geopoliticamente differenziato”, sporgendosi tuttavia necessariamente sul bordo di un mondo che non può in alcun modo limitarsi all’Europa, abitato da donne e uomini che “non possono essere soggetti di discorso e di giudizio nell’universo della Critica” e che sono però in esso strutturalmente implicati (Spivak 1999, pp. 50 s.). che ne riduce sistematicamente “l’importanza demografica e morale”, cfr. Stannard 1992, pp. 37 ss. Stannard ricorda in particolare, in riferimento al “nuovo mondo”, che i popoli che lo abitavano “non diventarono nomadi fino a quando non furono spinti dagli eserciti invasori dei colonizzatori europei” (ivi, pp. 45 s.). Un luogo essenziale di applicazione coloniale della figura giuridica della terra nullius è stata l’Australia: cfr. Neilson 2003 e Moreton-Robinson 2005. 20 Cfr. Tully 1993 (in specie pp. 167 s. per l’influenza esercitata da Locke su Vattel).

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Rileggendo dunque nella prospettiva indicata dagli studi postcoloniali testi classici del pensiero politico e della filosofia europei, ed è questa la seconda direzione di ricerca che si vuole qui suggerire, il confine di “razza” – o di “civiltà” – appare altrettanto costitutivo della moderna antropologia politica di quelli segnati dalla proprietà e dal genere. Ma al tempo stesso, e analogamente a quanto accade con gli altri due confini indicati, i soggetti costruiti come “esterni” allo spazio europeo della cittadinanza (della “civiltà”) appaiono fin da principio del tutto “interni” al lavorio teorico e pratico che produce quello stesso spazio. Si è già osservato come il concetto di razza, nel corso dell’Ottocento, funzioni precisamente, per i problemi che qui interessano, nella prospettiva di perimetrare l’ambito della “civiltà” e di legittimare la sua proiezione al di fuori dei confini dell’Europa. Ma anche in autori estranei alla storia del razzismo, il progetto coloniale mostra una cifra segregazionista, ricapitolata nella posizione di un duplice e intransitabile confine – segnato lungo le due dimensioni dello spazio e del tempo – tra la metropoli e le colonie. Ed è questo duplice confine a consentire quella dialettica tra interno ed esterno che costituisce il tratto saliente, nonché il limite, del processo di distensione su scala globale dei circuiti della produzione e della valorizzazione capitalistica determinato dal colonialismo nell’“età degli imperi”. Vediamo un esempio di confine spaziale. In piena coerenza con la storia dello jus publicum europaeum narrata da Carl Schmitt nel Nomos della terra, il raffinato Alexis de Tocqueville, di fronte alla rivolta anti-francese dell’emiro Abd el-Kader in Algeria, trovava perfettamente normale nel 1841 l’impiego contro gli arabi di strumenti di guerra, come bruciare i raccolti, vuotare i silos, “devastare il paese”, impadronirsi come prigionieri “degli uomini inermi, delle donne, dei bambini”, inconcepibili in Europa, dove “in generale si fa la guerra ai governi e non ai popoli” 21. È qui appunto lo spazio coloniale ad apparire connotato in termini qualitativamente diversi rispetto allo spazio metropolitano, tanto da rendere necessario il riferimento a norme giuridiche ed “etiche” diverse da quelle usuali all’interno di quest’ultimo. Ma ancora più significativo è quello che si è definito il confine temporale, che si è già in qualche modo incontrato nel corso di diritto coloniale di Santi Romano e che può essere utilmente esemplificato a proposito di John Stuart Mill. Nel capitolo XVIII delle Con21 Tocqueville 1839-1852, p. 364 (la citazione è tratta dal Travail sur l’Algérie, scritto da Tocqueville nel 1841). Su Tocqueville e l’Algeria rimando al bel saggio di Letterio 2005 (e ora soprattutto 2008).

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siderazioni sul governo rappresentativo del 1861, intitolato “Lo Stato libero e il governo delle colonie”, egli concedeva di buon grado la necessità di applicare i principi del governo rappresentativo nei possedimenti coloniali inglesi in America e in Australia, la cui civiltà (pur costruita sul genocidio delle popolazioni indigene, che egli evitava di menzionare) è “analoga a quella del paese conquistatore”; ma sottolineava come ciò non potesse valere per altre colonie (prima fra tutte l’India), “che ancora non sono pervenute a questo livello e che richiedono di essere governate dal paese dominante o da qualche suo delegato” (Mill 1861, pp. 235 e 241). È evidente come sia qui all’opera un presupposto “storicistico”, che attraverso la formula not yet (non ancora) confina i territori non europei in una sorta di “immaginaria sala d’attesa della storia”, in un perenne ritardo rispetto a quegli standard europei a cui essi non possono che ambire ad adeguarsi (cfr. Chakrabarty 2000). In un tempo altro da quello della “civiltà”. Si tratta d’altronde di un problema esplicitamente menzionato dal grande giurista britannico Henry Maine che, nominato nel 1862 consigliere giuridico per l’India, rimase per sette anni in quel paese 22. In una prolusione tenuta a Cambridge nel 1875, quasi ricapitolando le sue esperienze di uomo direttamente coinvolto nello “straordinario esperimento del governo britannico dell’India, il governo virtualmente dispotico un popolo libero su di una sua colonia”, l’autore di Ancient Law affermava che “i governanti britannici dell’India sono come uomini costretti a far funzionare i propri orologi su due fusi orari contemporaneamente” (Maine 1875, pp. 33 e 37). Ciò nondimeno, proseguiva Maine, “questa posizione paradossale deve essere accettata”, per poter governare un progresso che coinvolge l’Inghilterra e l’India in un’unica storia pur mantenendo tra di esse un confine invalicabile, temporale non meno che spaziale, amministrato nel segno del puro dominio.

4. One world. Globalizzazione e postcolonialismo

Si è già detto del rilievo che assumono, quantomeno in alcune correnti degli studi postcoloniali, la resistenza e le strategie di adattamento dei soggetti colonizzati per la definizione stessa della governamentalità coloniale. Gli storici indiani che hanno contribuito allo 22 Su Maine si veda in generale Piccinini 2003 (nonché, più in generale sulle tematiche del governo delle colonie nell’Ottocento britannico, 2005).

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sviluppo del progetto dei subaltern studies hanno in particolare sottolineato, ad esempio, come la storia dell’India britannica non si limiti ai rapporti tra le autorità coloniali e le elite dominanti all’interno della società “indigena”, ma sia piuttosto incomprensibile senza tenere nel debito conto i movimenti autonomi delle masse “subalterne” dentro e contro il sistema di dominio coloniale (cfr. in particolare Guha 1982). Si apre qui un campo di studi estremamente vasto, relativo alle forme di espressione politica assunte dai movimenti anti-coloniali: e a proposito dell’India molto lavoro è stato già fatto, nel campo di tensione che si determina tra la tendenza del nazionalismo, in particolare a partire dagli anni Venti del Novecento, a riarticolare in forma “derivata” l’essenzialismo e i criteri di autorità propri del discorso coloniale e il tentativo, messo in atto sia dalle elite sia dai soggetti “subalterni”, di “ibridare” la modernità importata attraverso il dominio coloniale recuperando al suo interno frammenti di culture “tradizionali” (cfr. in particolare Chatterjee 1986 1993 e Chakrabarty 2000). Il punto su cui vale la pena di richiamare conclusivamente l’attenzione è tuttavia di carattere più generale, e attiene al rapporto complessivo che stringe il postcolonialismo, inteso come concetto capace di definire alcuni tratti salienti del presente, con la storia del pensiero e dei movimenti anti-coloniali. Già lo si è detto nel primo capitolo: questo rapporto, laddove sia assunto come elemento costitutivo della stessa “politica del discorso” su cui si articolano gli studi postcoloniali, consente di neutralizzare la validità delle critiche che, non sempre senza fondamento, sono state rivolte ad alcune correnti di questi ultimi, accusati di indugiare in una mera apologia estetizzante dei caratteri nomadi e “ibridi” delle identità prevalenti nel nostro tempo, del tutto inconsapevole della perdurante asprezza dei rapporti di dominio e di sfruttamento. Una volta che il colonialismo sia stato concettualizzato nei termini “epistemici” che si sono indicati, in altri termini, il semplice conseguimento formale dell’indipendenza da parte delle colonie non autorizza in alcun modo a considerare esaurite le coazioni da esso esercitate sotto il profilo politico, culturale e finanche “psicologico” (cfr. ad es. Nandy 1983): ma è proprio la rottura determinata dalle lotte anti-coloniali nel corso del XX secolo a far sì che si possa parlare di “postcolonialismo”, nella misura in cui esse hanno sfidato vittoriosamente i presupposti impliciti su cui il progetto coloniale dell’Occidente si fondava – primi fra tutti il silenzio delle popolazioni colonizzate e la duplice cifra segregazionista, articolata sulle dimensioni del tempo e dello spazio.

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Conviene riprendere, a questo proposito, una delle descrizioni più efficaci della “situazione coloniale” che siano state proposte negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, quella di Frantz Fanon. Quello coloniale, scriveva Fanon, è “un mondo a scomparti, [...] un mondo scisso in due”, che si fonda su una strutturale “asimmetria” e su un costitutivo “manicheismo” (Fanon 1961, p. 5) 23. Quale migliore rappresentazione di quella che si è definita “cifra segregazionista” del moderno progetto coloniale? Il punto è, tuttavia, che Fanon, in una pagina dal respiro quasi hobbesiano, mostra anche il punto definitivo di crisi di tale progetto. È infatti la scoperta del mero fatto dell’uguaglianza, si legge nei Dannati della terra, ciò che fa saltare il sistema coloniale: quando il colonizzato si avvede che “la sua vita, il suo respiro, i battiti del suo cuore sono gli stessi di quelli del colono”, ciò introduce “una scossa essenziale nel mondo” (ivi, p. 11). La tesi che qui si intende adombrare è che, complessivamente considerato, il XX secolo sia caratterizzato dalla scoperta di questa uguaglianza fondamentale, che ha determinato una soglia irreversibile nel processo di unificazione del pianeta proprio in quanto ha posto sotto l’ipoteca di una radicale crisi di legittimità quel principio del confinamento spazio-temporale che costituiva al tempo stesso il codice fondamentale e il limite interno del progetto coloniale. È bene chiarire un punto fondamentale, approfondendo un discorso già fatto nel primo capitolo: il tempo che definiamo della globalizzazione espone in piena luce le sue diverse genealogie, tra cui rientra certamente il colonialismo moderno, cosicché il principio di confinamento, lungi dall’essere messo definitivamente fuori gioco, si scompone in una pluralità di processi di segregazione, che investono le stesse metropoli occidentali. Ma ciò che è entrato in crisi, appunto sotto la spinta delle lotte anti-coloniali, è la possibilità di assumere come scontato il confinamento, e di organizzare attorno ad esso un modello univoco di governo dei processi politici e produttivi, nonché uno stabile assetto dei confini, siano questi intesi in senso geopolitico o in senso “identitario”. Per dirla con una battuta: il fondamentalismo del mercato di matrice “occidentale” e il fondamentalismo “islamico” esprimono entrambi, per quanto in modi molto diversi, una nostalgia per un assetto appunto stabile di confini che risulta quotidianamente sfidato dai processi di ibridazione e di decen23 L’introduzione di L. Ellena alla nuova edizione italiana dei Dannati della terra (Comunità, 2000) dà conto della ripresa di interesse per l’opera di Fanon determinata dallo sviluppo degli studi postcoloniali.

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tramento su cui si fonda in buona misura la stessa produzione della ricchezza nel mondo “globale” (cfr. Hardt, Negri 2000). Non è detto che l’uno o l’altro non possano riportare più o meno effimere vittorie; ma se ciò accadrà, enormi saranno i prezzi da pagare in termini di violenza e di secca riduzione delle potenzialità inscritte nel nostro presente. Considerata sotto l’angolo visuale offerto dal postcolonialismo, la globalizzazione risulta dunque un formidabile campo di tensione, in cui gli stessi concetti di Occidente e di modernità sono posti in discussione dal progressivo emergere di un nuovo concetto di mondo, che per la prima volta nella storia, come ha scritto Étienne Balibar, fa dell’“umanità” non un semplice ideale, o un’idea regolativa della ragione, ma “la condizione di esistenza degli individui umani stessi” (Balibar 1997, p. 238) 24. La sfida che ne deriva per il pensiero politico attiene fondamentalmente, secondo la prospettiva qui seguita, alla ridefinizione dello statuto dell’universale. L’“umanità” contemporanea, infatti, assume la propria figura complessiva nella cornice del definitivo farsi mondo delle “astrazioni reali” – il denaro e la merce – che costituiscono la filigrana dell’universalismo occidentale. Sono queste astrazioni reali a sussumere sotto di sé, e a mettere a valore, i processi di “ibridazione” e di decentramento che si sono richiamati. È a questa altezza che si ridefiniscono i rapporti di sfruttamento e di dominio: nuove figure della cittadinanza e della democrazia possono essere materialmente costruite soltanto a partire dalla critica di tali rapporti – riscoprendo la natura strutturalmente ambigua della stessa nozione di “universale”, che proprio in quanto “forma vuota” si presta a essere diversamente qualificata in termini politici, e incardinandone il portato critico nelle istanze di libertà e di uguaglianza che emergono dal mondo globale 25.

24 Per un’analisi delle ricadute che la condizione postcoloniale ha sui concetti di Occidcente e di modernità, cfr. Appadurai 1996 e Chakrabarty 2000. 25 Per un ripensamento in questo senso del concetto di “universale”, cfr. ancora Balibar 1997, pp. 231 ss. nonché -i=ek 2000, pp. 171 ss.

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...while memory holds a seat/ In this distracted globe. [...finché avrà un seggio la memoria/ in questo globo impazzito]. W. SHAKESPEARE, Hamlet, I, 5.

1. Tra world history e Weltgeschichte

L’omogeneità dello spazio, del tempo e del valore, ha scritto di recente il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, ha a lungo rappresentato lo “stile logico” della Weltgeschichte, la grande narrazione che a partire dal Settecento ha accompagnato e scandito il processo materiale di unificazione del pianeta (Sloterdjik 2005, p. 28). Considerata da questo punto di vista, la condizione contemporanea è decisamente spaesante. Da una parte quella omogeneità pare trionfare, farsi mondo appunto, nel contesto dei processi di “globalizzazione”. Dall’altra, proprio per la forma che quei processi hanno assunto, il nostro sguardo tende piuttosto a fissarsi, per citare ancora Sloterdijk, sulle “crepe, le turbolenze, le irregolarità” che recalcitrano a ogni “semplificazione geometrica” (Sloterdjik 2001, p. 15) 1. È precisamente nella tensione tra queste due polarità della nostra esperienza contemporanea che si situa il contributo che gli studi postcoloniali possono offrire alla stessa storiografia. Nel contesto del fruttuoso lavoro di ridefinizione delle mappe disciplinari che negli ultimi anni, a partire dalla consapevolezza della crisi delle storiografie “nazionali”, si è in particolare prodotto attorno alla categoria di world history 2, la critica postcoloniale consente di operare una mos1 2

Al lavoro di Sloterdjik si può utilmente accostare la “critica della ragione cartografica” proposta da F. Farinelli (2003 e 2005), nonché la riflessione su temi cartografici in Accarino (a cura di) 2007. Cfr. Gozzini 2004. Per un confronto tra world history e studi postcoloniali, cfr. l’introduzione dei curatori (Europa in einer postkolonialen Welt) in Conrad, Randeria, a cura di, 2002, pp. 9-49.

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sa che potremmo definire “kantiana”, investendo direttamente – e rinnovando in profondità – le modalità di rappresentazione del tempo e dello spazio che articolano la narrazione storica. In questo capitolo mi limito a presentare, in forma di esemplificazione stilizzata, alcune considerazioni preliminari al riguardo. Quel che è in gioco, in fondo, è la nostra stessa comprensione della modernità, mentre la problematizzazione della dimensione soggettiva dell’esperienza storica, che costituisce uno dei centri di gravitazione degli studi postcoloniali, chiama in causa questioni di rilievo a mio giudizio cruciale per un pensiero critico del presente. Dalla world history torniamo alla Weltgeschichte, da cui abbiamo preso le mosse. Ranajit Guha, il fondatore della scuola storiografica indiana dei “subaltern studies” 3, ha mostrato in un impegnato confronto critico con la filosofia della storia di Hegel come la rappresentazione del processo di mondializzazione dello spirito che costituisce per il filosofo tedesco il criterio di razionalità della storia stessa si fondasse nella sua opera sull’istituzione di un confine assoluto, parimenti temporale e spaziale. La linea di separazione tra storia e preistoria era in altri termini al tempo stesso la linea di separazione tra lo spazio della civiltà (l’Europa) e lo spazio della barbarie (i continenti già colonizzati o in procinto di esserlo – cfr. Guha 2002, in specie p. 43). Questo confine assoluto costituiva tuttavia per Hegel il motore della Weltgeschichte, ne assicurava la dinamicità nelle forme di una lotta titanica della storia contro la preistoria, ovvero dell’Europa, attraverso i suoi Stati, contro i “popoli senza storia” (cfr. Wolf 1982): il confine era cioè costruito come assoluto precisamente per essere oltrepassato. L’espansione coloniale risulta così inscritta negli stessi presupposti epistemici della modernità europea. Non v’è, evidentemente, molto di nuovo fin qui. Ma quello che la critica postcoloniale mette in discussione è la possibilità di articolare 3

Definito da Amrtya Sen “il più creativo storico indiano del XX secolo”, Guha ha insegnato in diverse università in India, Gran Bretagna, Australia e Stati uniti. Già il suo primo lavoro, un’accurata ricostruzione delle origini intellettuali della riforma attuata nel 1793 dal Governatore generale del Bengala Lord Cornwallis che, istituendo il cosiddetto sistema del permanent settlement, si era proposta di creare in India una classe indigena di proprietari terrieri sul modello degli squires inglesi e di mettere ordine nel sistema delle imposte, aveva anticipato quel ruolo decisivo del “sapere coloniale” che sarebbe divenuto successivamente uno dei temi centrali degli studi postcoloniali (cfr. Guha 1963). È stato il curatore dei primi sei degli undici volumi della collana “Subaltern Studies” usciti tra il 1982 e il 2000 (gli indici di tutti i volumi si possono consultare alla pagina web http://www.lib.virginia.edu/ area-studies/subaltern/ssmap.htm). Per un’introduzione ai “subaltern studies”, si veda Chakrabarty 2004.

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attorno a questo vettore spazio-temporale della Weltgeschichte un’immagine lineare e progressiva del tempo storico. Centrale, da questo punto di vista, è il concetto di “stadio di sviluppo” (cfr. Guha 2002, p. 26 e soprattutto Chakrabarty 2000), secondo cui, una volta “catturati” nel movimento della storia universale, gli spazi non europei sarebbero stati destinati a ripetere il percorso evolutivo affermatosi in Europa. “Prima in Europa e poi nel resto del mondo”, insomma, per riprendere la formulazione offerta da Dipesh Chakrabarty nella sua fondamentale critica dello “storicismo” moderno (Chakrabarty 2000, p. 22): mettendo in discussione questa formula, la critica postcoloniale determina uno spiazzamento della storia moderna che appare assai più radicale e interessante di ogni semplice critica “culturalista” all’“eurocentrismo”. Nel momento stesso in cui si riconosce nell’assoluto confine temporale e spaziale di cui si è detto a proposito di Hegel un presupposto affatto reale del moderno progetto coloniale europeo, su cui si sono retti concrete imprese di conquista e concreti sistemi di dominazione, si rintraccia anche, alla sua stessa origine, un movimento di ibridazione (termine chiave nel lessico postcoloniale, che si vorrebbe qui sottrarre a ogni uso ingenuamente “apologetico”) che ne mostra in fondo l’impossibilità (cfr. Bhabha 1994). Se la modernità è il tempo della Weltgeschichte, lo scontro tra “storia” e “preistoria” – la tensione tra “omogeneità” ed “eterogeneità” da cui siamo partiti parlando del presente – ne costituisce fin dal principio il tema dominante, entro coordinate spaziali che non possono essere pensate altrimenti che come “globali”. Quel che la critica postcoloniale mette in discussione è precisamente la possibilità di risolvere questa tensione e questo scontro entro una narrazione lineare, all’insegna del progressivo distendersi di un insieme di norme di sviluppo dal centro del “sistema mondo” in formazione verso le “periferie” (cfr. Capuzzo 2006). Si badi: questa narrazione lineare, secondo cui la costituzione del sistema mondo viene appunto svolgendosi unilateralmente dal centro verso le periferie, è sostanzialmente condivisa sia dalle ricostruzioni apologetiche del colonialismo, che ne sottolineano il portato di “civilizzazione”, sia da molte ricostruzioni critiche, che ne enfatizzano al contrario il carico di violenza e sopraffazione. Gli studi postcoloniali, o almeno alcuni studi postcoloniali, invitano a complicare lo stesso quadro analitico, considerando le colonie veri e propri laboratori della modernità (cfr. Stoler, Cooper 1997), e dunque affinando il nostro sguardo sul movimento inverso, che “retroagisce” dalle colo-

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nie stesse sul centro del sistema (sull’Europa prima, sull’“Occidente” poi), mostrandone appunto il carattere costitutivamente ibrido. Si tratta di una lezione che ha precise conseguenze sia in termini storiografici sia in termini teorici. Valutare nel suo giusto peso quello che si è definito il movimento di retroazione dalle colonie sulla metropoli significa lavorare sulla base dell’ipotesi che, contro ogni teoria degli “stadi” di sviluppo, si possano rintracciare vere e proprie “anticipazioni coloniali” nella storia di dispositivi economici, sociali, politici che hanno giocato un ruolo essenziale nella definizione della modernità. Significa, per limitarci a un solo esempio, prendere sul serio l’origine coloniale del moderno sistema di fabbrica, sviluppando le fondamentali analisi di Sidney W. Mintz (1985) sulla piantagione di canna da zucchero nelle Indie occidentali tra Cinque e Seicento, e al tempo stesso riconsiderare la funzione essenziale che la schiavitù e le varie forme di lavoro coatto nelle colonie hanno svolto nel processo di costituzione del lavoratore salariato “libero” in Europa 4. 2. Il tempo della piantagione e il silenzio dell’archivio

Restiamo alle Indie occidentali. Robert Young (2001) ha sottolineato il nesso strettissimo tra postcolonialismo e anticolonialismo, insistendo da una parte sull’importanza fondamentale che le lotte anticoloniali, indipendentemente dalle vicissitudini dei regimi a cui hanno dato origine, hanno avuto nella genealogia del nostro presente “globale”, dall’altra, come si accennava nel primo capitolo, sull’opportunità di tornare a leggere, al di fuori di ogni mitologia “terzomondista”, alcuni testi classici nati all’interno di quella esperienza storica. Si è fatto precedentemente cenno alla critica di Dipesh Chakrabarty allo “storicismo” moderno: si tratta di una critica assai raffinata, costruita attraverso un confronto serrato con motivi marxiani e heideggeriani, su cui torneremo in seguito. Ma la fondamentale fonte di ispirazione del lavoro di Chakrabarty, molto presente in generale negli studi postcoloniali, è la critica corrosiva rivolta da Walter Benjamin sul finire degli anni Trenta del Novecento al concetto di progresso e al suo necessario correlato, all’idea cioè che “la storia proce4

Si veda in questo senso l’importante lavoro di Y. Moulier Boutang (1998). Nella prospettiva di una rilettura di alcuni testi classici prodotti all’interno dei movimenti anti-coloniali, conviene segnalare il vivace dibattito attorno alle tesi avanzate da Eric Williams negli anni della seconda guerra mondiale: cfr. Cateau, Carrington (a cura di) 2000.

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da percorrendo un tempo omogeneo e vuoto” 5. Lo “stato di eccezione” stava effettivamente avviandosi a divenire la regola in Europa, e lo sguardo di Benjamin, ebreo e marxista tedesco in fuga dal nazismo, non poteva che essere particolarmente sensibile a quella compresenza di progresso e catastrofe nella storia che era stata del resto uno dei temi fondamentali della sua riflessione negli anni precedenti. Più o meno negli stessi anni, il marxista nero C.L.R. James, trasferitosi da Trinidad in Inghilterra, avviava un formidabile percorso di militanza politica e di ricerca storica che lo avrebbe condotto a divenire una delle voci più autorevoli del movimento panafricanista e un punto di riferimento fondamentale nel dibattito che attraversò i movimenti anticoloniali negli anni successivi 6. È interessante leggere quanto James scriveva nel 1962, tracciando un provvisorio bilancio dei suoi lavori sulle Indie occidentali: il processo storico si configura in quest’area, fin dalle origini della modernità, “in un concatenamento di periodi non preordinati di lenta deriva, alternati a sprazzi di rivolta, a balzi in avanti e a catastrofi”. James riconduceva questo ritmo sincopato della storia, così diverso dal lineare progresso immaginato dal mainstream della filosofia moderna, proprio al prevalere in quell’area del mondo del sistema della piantagione di canna da zucchero, che “ha avuto sullo sviluppo delle Indie occidentali l’influenza più civilizzatrice e più corruttrice che si possa immaginare” 7. Più civilizzatrice e al tempo stesso più corruttrice, scriveva James: una compiuta modernità coloniale aveva già nel Settecento reso possibile la contemporaneità di modernità e catastrofe, in cui aveva fatto irruzione sul finire del secolo la novità storica assoluta di una vittoriosa rivoluzione di schiavi. A quella rivoluzione e al suo principale protagonista, Toussaint Louverture, James aveva dedicato nel 1938 un fondamentale volume, The Black Jacobins, divenuto rapidamente un classico all’interno del movimento panafricanista ma a lungo sostanzialmente ignorato dalla storiografia europea. Nel 1790, pochi mesi prima dell’inizio dell’insurrezione a Santo Domingo, un colono francese scriveva alla moglie a Parigi, per rassi5 6 7

Benjamin 1997, p. 45. Nella ormai sconfinata letteratura sulle Tesi di Benjamin, si segnala il prezioso volumetto di Löwy 2001. Sull’opera storiografica di James, cfr. Robinson 1983, pp. 241-286. Più in generale, si vedano i saggi raccolti in Farred (a cura di) 1996, nonché la sezione monografica a lui dedicata, a cura di chi scrive, in “Studi culturali”, IV (2007), 2. C.L.R. James, Da Toussaint Louverture a Fidel Castro (1962), pubblicato in appendice a James 1938, pp. 321 s.

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curarla a proposito delle condizioni di tranquillità in cui si viveva ai tropici: “non v’è alcun movimento tra i nostri Negri. [...] Non ci pensano neppure, sono assolutamente tranquilli e obbedienti. Una rivolta tra loro è impossibile”. Sono parole che si potrebbero commentare ironicamente, immaginando lo sbalordimento del colono di lì a poco, di fronte al fatto dell’insurrezione degli schiavi. A me pare, tuttavia, più fruttuoso seguire l’argomentazione di Michel-Rolph Trouillot, uno dei maggiori storici haitiani, da tempo residente negli Stati uniti, che invita alla cautela: “quando la realtà non coincide con convinzioni profondamente radicate”, scrive Trouillot in un libro molto importante, Silencing the Past, “gli esseri umani tendono a produrre schemi interpretativi che riconducono a forza la realtà all’interno di queste convinzioni. Escogitano formule che consentono loro di reprimere l’impensabile e di ricondurlo all’interno del discorso accettato” (Trouillot 1995, p. 72). Trouillot aggiunge che affermazioni come quella citata del colono francese “non si basavano tanto sull’osservazione empirica, quanto su una vera e propria ontologia, un’organizzazione implicita del mondo e dei suoi abitanti” (ivi, p. 73): la convinzione che gli schiavi africani non fossero neppure in grado di immaginare la libertà, potremmo aggiungere, era una perfetta espressione di quel duplice confine – spaziale e temporale – attorno a cui di lì a poco Hegel avrebbe articolato la propria filosofia della storia universale. Non prima, del resto, di avere attinto ai fatti di Haiti per coniare una delle figure emblematiche della filosofia occidentale: la dialettica tra servo e signore (cfr. Buck-Morss 2000). Trouillot non è uno studioso “postcoloniale” in senso stretto, ma le domande che pone sono perfettamente coerenti con alcuni dei temi più importanti che lo sviluppo della critica postcoloniale ha sollevato negli ultimi anni, e in particolare con l’insistenza di quest’ultima sulla dimensione “epistemica” del moderno progetto coloniale europeo, sulla vera e propria conoscenza coloniale che ne costituisce un elemento di strategica importanza 8. Quel che era impensabile per i coloni francesi all’inizio del 1790, afferma Trouillot, è stato efficacemente silenziato dagli storici, attraverso molteplici strategie di rimozione o “trivializzazione” della rivoluzione di Haiti: l’analisi di opere così diverse come il Penguin Dictionary of Modern History e l’Età del8

Decisivo, da questo punto di vista, è stato, come già si è detto, il libro di E.W. Said, Orientalismo (1978). Ma si tengano presenti almeno i saggi raccolti in N.B Dirks (a cura di) 1992 e, specificamente sulla storiografia dell’“India britannica”, il lavoro di Guha 1997.

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le rivoluzioni di E.J. Hobsbawm consente in altri termini allo storico haitiano di mostrare come la storiografia abbia continuato a interiorizzare e a riprodurre il confine coloniale su cui si basava l’“ontologia” spontanea dei coloni francesi a Santo Domingo. E dunque lo conduce a offrire un perfetto esempio di quelle persistenze coloniali ben oltre l’età delle indipendenze nella cui analisi consiste il punto d’onore della migliore critica postcoloniale (cfr. Shohat 1992, nonché supra, cap. I). Il riferimento alla dimensione “epistemica” del moderno colonialismo, l’enfasi posta fin dal principio di questo capitolo sulle categorie “formali” di spazio e tempo, perdono qui ogni astrattezza e investono direttamente la pratica storiografica, dialogando con una pluralità di approcci che, dall’interno dei dibattiti disciplinari, hanno quantomeno problematizzato il preteso carattere “oggettivo” delle “fonti”: a venire in primo piano è l’ordine del discorso e dei silenzi che, espressione di precisi rapporti di forza e di potere, organizza l’“archivio” storico. Non si tratta necessariamente di derivarne il carattere meramente “retorico” della storiografia e di interrompere una volta per tutte il rapporto di quest’ultima con la “realtà storica” 9. Si tratta tuttavia, ancora con Trouillot, di essere consapevoli del fatto che, nelle stesse modalità di produzione di un evento in quanto evento storico, sono in gioco strategie di occultamento e di silenziamento: “qualcosa è sempre tralasciato mentre qualcosa viene registrato. Non c’è una perfetta chiusura dell’evento, comunque i confini di quell’evento vengano definiti. Dunque, ogni cosa che diviene un fatto lo diviene con le sue costitutive assenze, che sono proprie del suo stesso processo di produzione. In altri termini, i meccanismi stessi che rendono possibile la registrazione storica assicurano al tempo stesso che i fatti non vengano creati uguali. Essi riflettono un diverso controllo sui mezzi di produzione storica al momento stesso della prima iscrizione che trasforma un evento in un fatto” (Trouillot 1995, p. 49). Il contributo che la critica postcoloniale può apportare alla storiografia attraverso la ridefinizione delle sue coordinate spazio temporali si colloca proprio su questo terreno, che è anche il “campo di battaglia per il potere storico” (ibidem).

9

Per una critica di questo esito, certo non estraneo ad alcuni esponenti degli studi postcoloniali, cfr. Ginzburg 2000. Considerazioni analoghe si trovano del resto in Trouillot 1995, pp. XVIII s. e 12 ss.

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3. Oltre lo “storicismo”

Questo campo di battaglia si determina precisamente, per riprendere un tema classico, nel punto in cui le res gesta, la storia intesa nella sua materialità processuale, si incontrano con la historia rerum gestarum, con la storiografia. Tra questi due piani esistono contemporaneamente una distinzione e una sovrapposizione irriducibili, in ultima istanza perché lo scarto tra quanto è accaduto e quanto viene raccontato è esso stesso storicamente determinato (ivi, pp. 3 s.): ha cioè a che fare con quei rapporti di forza e di potere che regolano l’iscrizione degli eventi nell’archivio – e dunque la possibilità di raccontarli. Gli studi postcoloniali hanno contribuito in modo assai significativo, negli ultimi anni, a riaprire produttivamente questo problema classico della teoria storiografica. Il punto non consiste tanto (o soltanto) nella rivendicazione di nuovi spazi per una serie di “storie minori”, in un tentativo di democratizzare in chiave “multiculturale” il canone storiografico, o magari di giocare le “storie” contro la “Storia”. Non mancano certamente, all’interno degli studi postcoloniali, posizioni di questo genere (cfr. ancora le critiche di Dirlik 1997 e 2000). Decisamente più interessante, a mio parere, è tuttavia la riflessione di quanti hanno rinvenuto proprio nella tensione tra la Storia e le “storie” un carattere strutturale della storia moderna, che nella condizione coloniale si staglia con particolare precisione e che non può comunque essere risolto giocando un termine contro l’altro. È questa la via seguita da Dipesh Chakrabarty, in particolare nell’impegnato capitolo di Provincializzare l’Europa dedicato a un confronto con la categoria marxiana di “lavoro astratto”, che costituisce anche un bilancio del suo lavoro di storico della classe operaia in Bengala (Chakrabarty 1989). Qui il problema del rapporto tra astrazione e “differenza storica” viene presentato come un problema generale della transizione al capitalismo (ma si potrebbe aggiungere: della “modernizzazione” in generale), in una prospettiva che tuttavia, e qui sta il punto decisivo, considera quella transizione mai conclusa, destinata per così dire a ripetersi ogni giorno. Per dirla nei termini più semplici possibili: capitalismo e modernità, nell’economia come nella politica, sono contraddistinti dal primato dell’astrazione. Gli individui, scriveva Marx, “sono ora dominati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l’uno dall’altro” (Marx 1857-1858, vol. I, p. 107). Questo primato tuttavia, nella cui istituzione consiste il momento genetico di capitalismo e modernità,

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deve essere sempre riaffermato. La critica dello stesso “storicismo” marxiano, in particolare per quel che concerne il rapporto tra “sussunzione formale” e “sussunzione reale” del lavoro sotto il capitale (cfr. Chakrabarty 2000, pp. 74 s.), trova in fondo qui il suo punto di condensazione concettuale: lungi dal poter essere narrata linearmente, ad esempio nei termini di un passaggio dato una volta per tutte dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” del lavoro, la storia del capitale è continuamente interrotta dal violento riproporsi del problema della sua origine (cfr. infra, cap. VI e appendice). La categoria di lavoro astratto (l’“astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza”, considerata nella sua “indifferenza verso il lavoro determinato” – Marx 1857-1858, vol. I, pp. 31 s.), da questo punto di vista, deve essere interpretata come una categoria pratica, performativa: “organizzare la vita sotto il segno del capitale significa agire come se si potesse astrarre il lavoro da tutti i tessuti sociali in cui esso si trova sempre incastonato e che rendono concreta ogni forma particolare di lavoro – compreso anche il lavoro di astrazione” (Chakrabarty 2000, p. 80). Il processo attraverso cui il lavoro astratto viene prodotto come “norma” del modo di produzione capitalistico, che è essenzialmente un processo di disciplinamento, non può mai concludersi una volta per tutte, e questo fa sì che la resistenza opposta all’astrazione dalla concreta molteplicità del “lavoro vivo” si installi al cuore del concetto e della logica del capitale, come “l’Altro del dispotismo” in essi implicito (ivi, p. 87). Questa rilettura del concetto marxiano di lavoro astratto ha in realtà implicazioni che vanno oltre le categorie di capitale e lavoro. Essa offre piuttosto a Chakrabarty un vertice prospettico a partire dal quale rileggere la struttura del tempo storico nella modernità nel suo complesso. E questa struttura si presenta costitutivamente scissa: quella che Chakrabarty stesso chiama “storia 1”, il tempo omogeneo e vuoto posto dal capitale, è necessariamente, in ognuno dei presenti la cui concatenazione costituisce il passato, interrotta nella sua linearità dal movimento di appropriazione della “storia 2”, delle temporalità plurali che sono proprie non solo del “lavoro vivo” ma anche della merce e del denaro (ivi, pp. 93 s.). Le conseguenze che ne derivano sono a mio giudizio di grande importanza per spiazzare la stessa alternativa tra relativismo e universalismo: “nessun capitale globale (o locale) potrà mai rappresentare la logica universale del capitale, poiché ogni forma storicamente disponibile di capitale è un compromesso provvisorio costituito da una modificazione della storia 1 per mano delle storie 2 di qualcuno. In quel caso l’universale

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può esistere solo come casella vuota (place holder), che viene continuamente usurpata da un particolare storico che tenta di proporsi come universale” (ivi, p. 101). Si tratta, come si accennava, di una posizione di grande rilievo dal punto di vista teorico, da cui possono venire spunti di notevole interesse per una riqualificazione del concetto e del lessico dell’universale (si veda in questo senso Fornari 2005). Ma contemporaneamente l’analisi di Chakrabarty ha precise implicazioni per la pratica storiografica. Invita a fare del movimento di riduzione del plurale delle storie al singolare della storia, in cui Reinhart Koselleck ha classicamente indicato il tratto peculiare del moderno concetto di storia (cfr. Koselleck 1979, pp. 110-122), un fatto esso stesso storico. Non solo un concetto come quello di classe operaia, ma anche concetti come cittadinanza e nazione, sono attraversati nel loro stesso statuto logico dagli scontri, dalle contraddizioni e dagli squilibri che quel movimento produce. La violenza della conquista e della dominazione coloniale non fa che intensificare un problema inerente, per citare ancora Koselleck, a ognuno dei “singolari collettivi” che formano tanta parte delle parole della storia, portandone alla luce – e imponendo come specifico oggetto di ricerca storica – il movimento di costituzione. Se questo ordine di riflessioni invita a problematizzare, come si è detto, il lessico dell’universalismo (e dunque i canoni storiografici che su di esso si sono materialmente costruiti), mi sembra che d’altra parte costituisca un sano antidoto alla proliferazione di una mera apologia delle “differenze”. Mai definitivamente compiuta, la transizione che ha inaugurato nel segno della conquista la storia moderna come storia globale, ha tuttavia caratteri di irreversibilità: proprio la violenza dell’origine ha imposto “un ‘linguaggio comune’ che annulla per sempre ogni esperienza di differenza che non sia stata mediata dalle relazioni di potere coloniali e dalla logica globale del capitale” (Rahola 2003b, p. 163). Non si tratta, da questo punto di vista, di riscoprire ancestrali “tradizioni” da contrapporre – storiograficamente così come politicamente – alla modernità occidentale. Si tratta piuttosto di lavorare alla costruzione di un quadro più complesso della stessa modernità, di aprirsi certamente al riconoscimento di una pluralità di modernità determinata dalle diverse forme assunte in diversi contesti storici e geografici dall’incontro/scontro tra storia 1 e storie 2, per riprendere i termini di Chakrabarty, ma al contempo di valorizzare la cornice globale e unitaria al cui interno questa stessa pluralità si è fin da principio fattualmente collocata.

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4. Contro-geografie della modernità

La critica allo “storicismo” proposta da Chakrabarty non ha dunque come suo esito una liquidazione semplice del problema del “progresso” e della sua specifica temporalità. Il tempo “omogeneo e vuoto” di cui parlava Benjamin è piuttosto riconosciuto come uno dei vettori fondamentali attorno a cui si articola la storia della modernità, materialmente incardinato nell’azione di precise potenze storiche (il capitale, gli Stati, gli Imperi). Ma la sua stessa affermazione non è possibile se non in un movimento di continua “ibridazione” con altre temporalità, strutturalmente eterogenee e “piene”. Un discorso analogo può essere fatto per le coordinate spaziali della storia moderna: se lo spazio globale costituisce il necessario ambito di svolgimento della “storia 1”, la produzione di questo spazio non può essere pensata in termini lineari, ponendosi piuttosto come una cornice al cui interno è continuamente rideterminato il senso dei “luoghi” che sono coinvolti in quel processo di produzione. Gli studi postcoloniali, da questo punto di vista, ci invitano a problematizzare i confini che organizzano le stesse mappe mentali degli storici. Portano alla luce movimenti diasporici e fitte trame di intrecci – a un tempo locali e globali – che collegano in modo imprevisto spazi apparentemente distanti tra loro, disegnando una vera e propria “contro-geografia” della modernità (cfr. Clifford 1997, in specie cap. 10, “Diaspore”). Dove la stessa storiografia radicale vede processi chiaramente perimetrati da stabili confini nazionali (la “formazione della classe operaia inglese”, per riprendere il titolo della classica opera di E.P. Thompson), la critica postcoloniale intravede le tracce di un “placido nazionalismo culturale”, che ha condotto ad esempio, nel caso della history from below britannica, a rimuovere la dimensione atlantica in cui quegli stessi processi si sono dipanati 10. Proprio il lavoro di Paul Gilroy sull’“Atlantico nero” come “controcultura della modernità” è in questo senso esemplare. Segnato in modo indelebile dalla catastrofe del middle passage, lo spazio atlantico non è stato tuttavia per i neri soltanto spazio di sofferenza e di morte. Con tipica mossa postcoloniale, Gilroy ricostruisce piuttosto le modalità complesse con cui quello spazio è stato percorso a ritroso – e letteralmente reinventato – dai neri stessi, come marinai e co10 Cfr. Gilroy 1993, p. 51 nonché Mellino 2004. Ma si tenga presente anche Linebaugh, Rediker 2000.

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me viaggiatori. Le culture nate all’interno dell’Atlantico nero portano lo stigma della violenza e della schiavitù, ma esprimono anche – sia pure in modo frammentario – un anelito di liberazione irriducibile ai “codici chiusi di qualsiasi visione assolutista o comunque costrittiva dell’etnicità” (Gilroy 1993, p. 244). Nello spazio di circolazione dell’Atlantico, insomma, la modernità ha precocemente mostrato il suo volto più catastrofico e ha contemporaneamente registrato il sorgere di radicali pratiche cosmopolite. Ancora una volta forzando gli archivi, queste ultime cominciano a essere fatte oggetto di ricerca storiografica, ad esempio in lavori come quello di Peter Linebaugh e Marcus Rediker (2000) sull’“Atlantico rivoluzionario”, modificando le stesse coordinate geografiche al cui interno viene letta una vicenda come la stessa rivoluzione di Haiti, ricostruita ora nei termini di uno scontro sul significato della modernità in cui hanno avuto un peso fondamentale le pratiche dell’anti-schiavismo radicale maturate proprio nello spazio atlantico (si veda il fondamentale lavoro di Fischer 2004). 5. Figure della soggettività

Al centro del rinnovamento delle coordinate spazio-temporali della storia moderna che gli studi postcoloniali determinano sta evidentemente una questione ulteriore, ovvero la questione della concettualizzazione e della rappresentazione delle figure soggettive che hanno fatto esperienza della modernità in posizione subordinata e antagonista. Si è ricordata la critica di Gilroy nei confronti della ricostruzione della storia della classe operaia inglese proposta da E.P. Thompson. Ma lo stesso lavoro di Chakrabarty sul tempo storico affonda le proprie radici nella polemica – “fondativa” per l’intera esperienza dei subaltern studies – di Ranajit Guha contro la caratterizzazione del banditismo e delle rivolte rurali come “fenomeni pre-politici” proposta da E.J. Hobsbawm sul finire degli anni Cinquanta (cfr. Guha 1983a, in specie pp. 5-13): era una concezione lineare della transizione al capitalismo quella che consentiva allo storico marxista inglese di ascrivere il monopolio della politica alle figure del cittadino e del proletario rivoluzionario, condannando all’irrilevanza rivolte e figure sociali, “non ancora” pervenute a quel grado di maturità storica. Il contesto coloniale costituiva evidentemente un severo banco di prova per questa concettualizzazione della politica e dei suoi soggetti, e gli storici dei subaltern studies ne derivarono alcune con-

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seguenze di grande rilievo. La “contemporaneità del non contemporaneo” (gli elementi “arcaici” messi in gioco dalle rivolte contadine nello sfidare il dominio esercitato dal più “moderno” impero che la storia avesse conosciuto) diventava un problema teorico fondamentale. E lavorare attorno a questo problema consentiva di articolare una critica corrosiva delle stesse modalità con cui tempo storico e politica si erano saldate attorno a una specifica idea di progresso nel “marxismo occidentale”. La rivendicazione da parte di Guha della radicale politicità delle insurrezioni contadine nell’India coloniale poneva l’accento da una parte sul fatto che quelle insurrezioni costituivano risposte puntuali agli specifici rapporti di potere su cui si fondava il Raj britannico, dall’altra sul fatto che la stessa trasformazione delle strategie e delle tecniche di governo adottate dalle forze dominanti (l’amministrazione coloniale, ma anche i proprietari terrieri e le altre componenti delle “elite” indigene) non poteva essere intesa se non considerandola anche come specifica reazione alla persistenza di un movimento insurrezionale nelle campagne. La scoperta di un autonomo campo della politica “subalterna” nell’India coloniale ha dato un contributo fondamentale al rinnovamento della storiografia in materia, modificando profondamente, per fare un solo esempio, il modo di considerare il “nazionalismo” indiano 11. Quel che mi interessa qui discutere brevemente è tuttavia il significato stesso dei termini “subalterni” e “subalternità”, di diretta ascendenza gramsciana 12. Conviene sottolineare che, fin dal primo volume della collana subaltern studies, i termini in questione hanno svolto una funzione essenzialmente polemica, denotando l’insieme dei soggetti la cui azione è stata a lungo disconosciuta da una storiografia che, nelle sue varianti coloniali, nazionaliste e marxiste, ha mantenuto secondo Guha una caratterizzazione marcatamente elitista (cfr. in specie Guha 1982). Utilizzati in riferimento al contadino protagonista delle rivolte anti-coloniali nelle campagne indiane dell’Ottocento, i termini in questione vedono confermata la loro radice negativa, privativa per così dire: “la sua identità”, scrive Guha del contadino indiano, “consisteva nella somma della sua subalternità. In altri termini egli imparava a riconoscersi non per via delle proprietà e degli attributi della sua propria esistenza sociale, ma per via di una 11 Si veda ad esempio – oltre ai fondamentali e già richiamati lavori di P. Chatterjee (1986 e 1993) – il libro di S. Amin (1995). 12 Per una discussione del significato di questi concetti in Gramsci, in aperta polemica con l’uso fattone dai protagonisti dei subalter studies, cfr. Green 2002.

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diminuzione, se non di una negazione, di quelli dei suoi superiori” (Guha 1983a, p. 18). La ricostruzione dei movimenti di soggettivazione, di conquista di soggettività, messi in atto da figure sociali definite in questi termini assolutamente negativi, non poteva che porre un gran numero di problemi sotto il profilo metodologico e teorico. D’altro canto, facendo della fine della subalternità il motivo dominante delle lotte anticoloniali, Guha ci offre un punto di vista particolarmente efficace per focalizzare uno dei caratteri politicamente salienti della condizione postcoloniale: il “fallimento storico della nazione nel creare se stessa”, che i subaltern studies si proponevano originariamente di studiare nel subcontinente indiano (Guha 1982, p. 39), trova nella riproduzione di condizioni di subalternità – di negazione radicale di parola e agency politica – ben oltre la fine formale del colonialismo il proprio terreno privilegiato di verifica. È un problema ben lungi dal riguardare soltanto i territori che sono stati storicamente sottoposti a dominio coloniale. A me pare anzi che il problema della subalternità si stia riaprendo anche all’interno di quelle che furono le “metropoli”, come mostrano ad esempio i dibattiti degli ultimi anni sull’underclass o sulla “biopolitica” (tema di cui sarebbe interessante ricostruire la genealogia coloniale, sorprendentemente rimossa – come si è notato nel primo capitolo – dallo stesso Foucault). È in fondo un altro dei molteplici modi attraverso cui, per riprendere il titolo di un testo che ha avuto un grande impatto sullo sviluppo degli studi postcoloniali, the empire strikes back (Center for Contemporary Cultural Studies 1982). Quelle che sono state a lungo le norme attorno a cui è stata pensata e praticata la stessa politica emancipativa – per semplificare: la cittadinanza e la classe operaia – sono investite da potenti movimenti di decentramento e di ibridazione che paiono metterne in scacco la portata progressiva. Una genealogia del presente che, come quella a cui alludono gli studi postcoloniali, mostri l’intensità delle battaglie che si sono combattute attorno alla condizione di subalternità, può allora rivelarsi un’impresa di valore tutt’altro che meramente antiquario. 6. Contrappunti

“Ciò che è mio”, scriveva nel 1939 il grande poeta martinicano Aimé Césaire nel Cahier d’un retour au pays natal, “è un uomo solo imprigionato di bianco/è un uomo solo che sfida le urla bianche del-

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la morte bianca/(TOUSSAINT, TOUSSAINT LOUVERTURE)” (Césaire 1939, p. 61). A distanza di un solo anno dalla pubblicazione del libro di C.L.R. James sulla rivoluzione haitiana, il nome di Toussaint Louverture irrompeva (letteralmente) in un altro testo destinato a esercitare una grande influenza nei movimenti panafricanisti e anticoloniali degli anni successivi. Vale la pena soffermarsi brevemente a considerare gli aspetti formali del brano citato. La parentesi e le lettere maiuscole indicano chiaramente come soltanto un brusco cambiamento di ordine discorsivo possa interrompere la linearità di una narrazione che fa di Toussaint “un uomo solo imprigionato di bianco”. Il riferimento di Césaire è alla cella del Castello di Joux, nelle montagne del Giura francese, in cui il “console nero”, imprigionato per ordine di Napoleone, trovò la morte nell’aprile del 1803, pochi mesi prima della capitolazione dei francesi di fronte al generale Dessalines e della proclamazione dell’indipendenza di Haiti 13. Ma la prigione bianca è anche, più in generale, la prigione di una storia in cui la voce dell’insorto anti-coloniale, pur potente (letteralmente maiuscola), è anche sempre elisa, posta tra parentesi appunto. I versi di Césaire diventano così una straordinaria anticipazione poetica di quel metodo “contrappuntistico” con cui nel 1993 Edward Said invitava a rileggere il canone letterario e storiografico dominante (l’“archivio della cultura”), per portare alla luce “narrazioni alternative o nuove”. Si trattava per Said di accostarsi alle fonti “occidentali” “con la percezione simultanea sia della storia metropolitana che viene narrata sia di quelle altre storie contro cui (e con cui) il discorso dominante agisce” (Said 1993, p. 76). Valorizzare questa indicazione metodologica significa da una parte assumere come punto di partenza la convinzione che gli archivi e le fonti coloniali, nonostante la logica imperiale che ne governa la costituzione, rechino comunque inscritta la parola dei “subalterni”; dall’altra parte significa rinunciare alla possibilità di ascoltare direttamente quella parola, di restituire limpida la “voce” dei subalterni stessi. Quando quest’ultima non è infatti “silenziata”, essa è comunque disconosciuta, rintracciabile attraverso i sintomi che la logica del disconoscimento residua nell’ordine del discorso dominante (si veda ancora Fischer 2004). In un saggio ormai celebre del 1984, Gayatry Chakravorti Spivak rimproverò a Guha, e in generale ai primi studi prodotti dal colletti13 Su Toussaint Louverture si veda la ricca e accurata introduzione di Sandro Chignola alla raccolta di scritti politici di Toussaint da lui curata nel 1997 (pp. IX-LIII).

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vo dei subaltern studies, precisamente un’ingenua fiducia nella possibilità di recuperare la “voce” dei “subalterni” dall’interno degli archivi coloniali, facendo giocare le provocazioni della decostruzione contro quello che le appariva un residuo di “umanesimo” (cfr. Spivak 1984). Sviluppando ulteriormente questa critica attraverso un’analisi del sati (il sacrificio rituale delle vedove, dichiarato illegale dal governatore generale Lord Bentinck nel 1829, con il plauso di intellettuali indiani “illuminati” come Ram Mohan Roy), Spivak giunse anzi – almeno in un primo momento – a dare una risposta negativa alla domanda se il subalterno – o meglio la subalterna – possa parlare (cfr. Spivak 1988). La violenza epistemica su cui si fonda la dominazione coloniale, contaminandosi – nel momento stesso in cui le sottopone a critica – con le “tradizioni” locali, finisce per cancellare efficacemente “lo spazio della libera volontà, della agency del soggetto sessuato come femminile” (Spivak 1999, p. 248). Il tentativo di Guha, condotto attraverso strumenti metodologici derivati dalla linguistica strutturalistica (e in particolare dai primi lavori di Roland Barthes), era stato in realtà precisamente di leggere in modo “contrappuntistico” quella che lui definiva la “prosa della controinsurrezione” (ovvero gli archivi e le fonti coloniali) per rintracciarvi gli indizi di una presenza altra e perturbante rispetto a quella inevitabilmente “imperiale” dell’io narrante (si veda in particolare Guha 1983b). Il suo lavoro resta a mio giudizio un contributo fondamentale, di cui andrebbe anzi rivendicata la classicità, sia sotto il profilo metodologico sia sotto il profilo della pratica storiografica. Le considerazioni critiche di Spivak, tuttavia, ci aiutano a individuarne un limite effettivo: proprio mentre Guha poneva in discussione le modalità canoniche di rappresentazione storiografica delle soggettività “subalterne”, finiva per recuperare dalla stessa storia dei movimenti anticoloniali indiani un presupposto “romantico-populistico” che lo conduceva a sovrapporre un soggetto (e una coscienza) sempre già formati al campo di battaglia sulle forme stesse della soggettività che la sua stessa analisi portava alla luce. Dipesh Chakrabarty, che ha individuato recentemente in questa radice romantica e populistica uno degli “errori” fondamentali dei subaltern studies, ha altresì sostenuto che esso contiene la possibilità di un “nuovo inizio” per chi voglia dedicarsi a “scrivere una storia del soggetto di massa della politica oggi” (Chakrabarty 2004, pp. 243 s.). A meno di non voler concedere al discorso coloniale, come ha scritto Lata Mani (1992, p. 403), “ciò che in realtà non ha mai ottenuto, ovvero la cancellazione delle donne”, questo “nuovo inizio” non può

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tuttavia collocarsi nello spazio che sembrerebbe aperto da una lettura unilaterale dei saggi di Spivak precedentemente richiamati. Lo stesso dibattito femminista postcoloniale, al cui interno il contributo di Spivak ha svolto un ruolo fondamentale, ha avuto del resto negli ultimi anni come proprio tema fondamentale, ricco di implicazioni tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista storiografico, proprio la critica di una rappresentazione stereotipata delle donne subalterne del “terzo mondo” come mere vittime di di-spositivi di assoggettamento e riduzione al silenzio: la scoperta della “complicità” dello stesso femminismo emancipazionista occidentale nel definire questa rappresentazione – ancora una volta letta come indice di un ritardo storico rispetto all’Occidente – ha costituito la condizione a partire dalla quale altre esperienze, altre voci e altre parole hanno guadagnato spazio nel dibattito femminista internazionale. È l’implicazione della soggettività dei subalterni in un campo di tensione in cui gli stessi dispositivi di assoggettamento e riduzione al silenzio sono sempre costretti a fare i conti con una molteplicità di pratiche che possiamo provvisoriamente definire di soggettivazione (pratiche di rivolta certo, ma anche di sottrazione, di fuga, di “mimetismo”, di negoziazione) il problema fondamentale che gli studi postcoloniali consegnano sia alla teoria politica sia alla storiografia. Il punto di vista che ne risulta non è necessariamente in contraddizione con l’accento posto da altre correnti di studi sui caratteri “sistemici” che la storia moderna assume fin dagli inizi in quanto storia globale: ci consente piuttosto, per riprendere una suggestione benjaminiana, di spazzolare quella stessa storia “contropelo” (Benjamin 1997, p. 31), di sovvertirne il canone, o meglio ancora di indagare i laboratori al cui interno quel canone è stato (e continua a essere) materialmente prodotto.

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Il cittadino e il suddito Una costituzione postcoloniale per l’Unione Europea?

Ma ripartire per dove? Per l’Algeria? Perché l’Algeria? A. DJOUDER, Désintégration (2006)

1. Una lezione di alterità?

In molti suoi interventi recenti, Étienne Balibar ha sottolineato il rilievo strategico di un confronto con la storia dell’espansione coloniale (o meglio, con quello che il compianto Edward Said ha definito il progetto coloniale) per ogni riflessione critica sulla questione della cittadinanza e della costituzione europea. Il confronto di cui parla Balibar non ha come suo luogo esclusivo di svolgimento le aule universitarie: è in primo luogo “la presenza sempre più massiccia, e sempre più legittima malgrado le discriminazioni che subiscono, di popolazioni di origine coloniale all’interno delle vecchie metropoli” a farne uno dei temi di fondo della stessa vita quotidiana in Europa. È dunque un confronto incalzato da “nuove tensioni e nuove violenze”, e che tuttavia iscrive potenzialmente nella filigrana della cittadinanza europea quella che Balibar stesso definisce una lezione di alterità: ovvero il riconoscimento da parte dell’Europa “dell’alterità come componente indispensabile della sua stessa identità, della sua virtualità, in pratica della sua ‘potenza’” (Balibar 2003, pp. 38 s.). Al centro di questo capitolo è precisamente questa ambivalenza dell’eredità coloniale. Il punto di vista scelto per riflettere su alcune delle sfide politiche fondamentali che caratterizzano il presente europeo è quello offerto dal concetto di cittadinanza, inteso come spazio contraddittorio e conflittuale al cui interno le figure soggettive dell’appartenenza e dell’esperienza politica si incrociano con le dimensioni “oggettive” a cui fanno riferimento concetti – tutti evidentemente essenziali per la definizione dello Stato moderno – quali sovranità e costituzione (cfr. Mezzadra 2004). Il percorso seguito sarà

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in prima battuta, sia pure necessariamente solo per accenni, storico: riprendendo e sviluppando alcuni aspetti dell’analisi svolta nel secondo capitolo, si cercherà di mostrare come il discorso europeo della cittadinanza intrattenga fin dalle sue origini un rapporto strettissimo con il “progetto coloniale”. Successivamente ci si concentrerà su quel processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea che rappresenta oggi uno dei laboratori fondamentali al cui interno la crisi e la trasformazione dello Stato devono essere indagate. Il tentativo sarà quello di far emergere alcuni caratteri fondamentali della situazione costituzionale europea contemporanea, sottolineando al tempo stesso la rilevanza della peculiare condizione dei migranti per comprendere lo sviluppo complessivo della nuova cittadinanza europea in formazione. È bene del resto anticipare una delle tesi fondamentali di questo capitolo: le caratteristiche della situazione costituzionale europea qui evidenziate sono destinate a condizionare strutturalmente gli sviluppi politici in Europa, indipendentemente dalle vicissitudini del “Trattato costituzionale”, respinto nella primavera del 2005 nei referendum che si sono tenuti in Francia e in Olanda e ampiamente modificato – fino a perdere il già controverso carattere “costituzionale” (Ziller 2007, cap. II) – dal Trattato di Lisbona del 2007. Questo non significa, naturalmente, che tali referendum non siano a loro volta destinati ad avere conseguenze profonde, per quanto ambivalenti e del tutto aperte, dal punto di vista politico e costituzionale: sia una reazione nazionalistica al progredire dell’integrazione, sia quello che Slavoj -i=ek ha chiamato il ritorno della “politica vera e propria” (ovvero una radicale reinvenzione del progetto e dello spazio politico europeo) sono possibili nell’immediato futuro. Ma gli elementi costituzionali su cui si porta l’attenzione in questo capitolo sono parte integrante di ciò che, seguendo una sezione assai influente della dottrina giuridica europea del Novecento (cfr. Mezzadra, Ricciardi 1997), si può definire la costituzione materiale che ha preso forma nella cornice del processo di integrazione europea. Ogni opzione politica, nei prossimi anni, sarà costretta a fare i conti con questi elementi. Ed è mia convinzione che anche il dibattito sullo stato – e sul futuro – dello Stato debba trovare nel confronto con i processi di costituzionalizzazione in atto in Europa uno dei suoi luoghi privilegiati di esercizio.

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2. Diritto e terrore

Torniamo dunque alle questioni poste da Balibar, da cui siamo partiti. È evidente come esse pongano immediatamente una serie di domande ulteriori. Prima di tutto: che cosa c’è di nuovo nella “lezione di alterità” di cui parla il filosofo francese? Negli studi postcoloniali, l’“alterità” è comunemente riconosciuta come un elemento essenziale dell’“identità” europea sin dalle origini della modernità. Nella stessa esperienza coloniale, ci hanno insegnato autori come Homi Bhabha e Gayatri Spivak, vive contraddittoriamente un movimento di contaminazione, di transiti e di “traduzione” (di métissage) che in qualche modo anticipa il presente “postcoloniale”. Ed è importante sottolineare che, dal punto di vista degli studi postcoloniali, il rapporto tra l’Europa e i suoi “altri” non è riducibile a una semplice opposizione (che potrebbe essere descritta in termini di “esclusione”). Quella relazione deve semmai essere ricostruita, per riprendere il termine lacaniano utilizzato da Gayatri Spivak (ad es. 1999), riconducendola a un movimento di forclusione. Cerchiamo di semplificare il lessico spesso un po’ esoterico di molti critici postcoloniali, distillandone gli elementi teoricamente fondamentali: dal momento che l’immagine dell’Europa e della sua “civiltà”, fin dal XVI secolo, prende forma entro un movimento di costante comparazione con le immagini della “barbarie” (ma anche della “libertà”) delle genti “selvagge” che abitano gli spazi aperti alla conquista europea, quelle genti non sono confinate a marcare il limite esterno dell’Europa. Esse sono piuttosto da principio implicate nel lavorio teorico e pratico che produce l’unità dello spazio europeo nonché i concetti attraverso cui quell’unità trova articolazione. Il concetto e il discorso della cittadinanza, nel nesso strettissimo che li stringe alla vicenda storica dello Stato moderno e al suo concetto, non fanno eccezione a questa regola. Negli scorsi anni abbiamo imparato ad esempio da Immanuel Wallerstein che non è possibile comprendere la storia del modo di produzione capitalistico senza considerarlo fin dalle origini un sistema-mondo. Sviluppando alcune indicazioni di Carl Schmitt, abbiamo compreso che lo sviluppo dello jus publicum europaeum (ovvero, al tempo stesso, del moderno sistema europeo degli Stati) non può essere a pieno ricostruito senza assumere la dimensione globale che fu inerente a esso dal punto di vista concettuale e istituzionale fin dalla scoperta e dalla conquista del “nuovo mondo”. È mia convinzione che un simile approccio possa e debba essere applicato anche allo studio del concetto e delle isti-

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tuzioni della moderna cittadinanza europea, sottolineandone appunto la dimensione costitutivamente globale fin dal principio della loro storia. A partire da John Locke, nel tardo diciassettesimo secolo, un insieme di confini ha definito non soltanto l’esperienza giuridica e politica del cittadino, ma anche quella che nel secondo capitolo ho proposto di definire l’antropologia politica implicita nel moderno discorso della cittadinanza, ovvero le modalità con cui l’individuo è stato immaginato e costruito come cittadino. Conosciamo l’importanza del rapporto tra cittadinanza e proprietà introdotto da Locke, a partire da un concetto “antropologico” di proprietà, radicato cioè in una determinata concezione della “natura umana”. Esso indica in primo luogo, come si è visto, la proprietà della propria persona, la capacità di un individuo di controllare razionalmente le proprie passioni e di disciplinarsi in vista di quel lavoro che costituisce a sua volta il fondamento di ogni proprietà “materiale”. Solo questo individuo “proprietario di sé” è in grado di divenire un cittadino, e immediatamente questa figura dell’individuo istituisce i suoi propri confini, produce cioè una serie di figure destinate a essere “altre” da quella del cittadino: la donna (che per Locke, contrariamente a quanto avviene in Hobbes, è naturalmente destinata a subordinarsi all’autorità maschile all’interno della famiglia), l’ateo, il folle, il povero “pigro” e “vizioso”, e l’indigeno americano (cfr. supra, cap. II). È opportuno insistere sulla violenza “epistemica” (Spivak 1988, pp. 281 s.) e materiale implicita in questa originaria demarcazione dei confini della cittadinanza europea, che appare in modo particolarmente evidente in riferimento al progetto coloniale. Se ne è dato qualche esempio in precedenza, discutendo ad esempio il modo in cui Emerich de Vattel riprese argomenti lockeani, a metà del XVIII secolo, per legittimare l’espansione coloniale europea – fino a contemplare la necessità dello “sterminio” dei nativi se si opponevano al superiore diritto europeo di conquista (Vattel 1758, I, VII, § 81, p. 78). Si tratta, evidentemente, di una caratteristica cruciale del colonialismo europeo, del punto in cui la violenza epistemica in esso implicita si rovescia in origine di una assoluta violenza materiale. Ranabir Samaddar (2007, I, cap. 2), tra gli altri, ha mostrato che terrore e violenza non si limitarono ad accompagnare il momento della conquista, ma improntarono piuttosto di sé l’intera storia costituzionale del colonialismo moderno, definendola come la storia di uno stato d’eccezione permanente. Al tempo stesso, tuttavia, terrore e violenza sono soltanto un lato

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della storia e del progetto coloniali europei. Come ha sottolineato Ranajit Guha, lavorando sullo stesso caso indiano descritto da Samaddar, la prospettiva del “conquistatore” lasciò spazio molto presto, nella conoscenza così come nella “governamentalità” coloniale nell’“India britannica”, alla prospettiva del “legislatore” (Guha 1997, p. 77). È questo cambiamento di prospettiva ciò che crea lo spazio al cui interno la distinzione tra il cittadino metropolitano e il suddito coloniale, che ho utilizzato per il titolo di questo capitolo, può operare. Una volta di più, non siamo qui di fronte a una semplice relazione di esclusione. Se il suddito coloniale è l’“altro” del cittadino metropolitano, il loro rapporto, per dirla brevemente, non può essere concettualizzato nello stesso modo in cui possiamo ad esempio comprendere il rapporto tra i “barbari” e i cittadini dell’antica polis greca. La netta demarcazione tra cittadini e sudditi nello spazio imperiale, come ha recentemente sottolineato per il caso francese E. Saada, non ci parla solo delle contraddizioni del colonialismo, ma rivela piuttosto un insieme di tensioni che ineriscono alla stessa definizione della cittadinanza metropolitana, e dunque a caratteri essenziali della vicenda dello Stato moderno in Europa (Saada 2004, p. 194). E d’altro canto il carattere “pedagogico” del colonialismo europeo moderno (cfr. ad es. Metha 1999, e ora soprattutto Seth 2007), che emerge nel modo più chiaro ad esempio dagli scritti di Macaulay, finisce per implicare la stessa definizione ed esperienza del “suddito” coloniale nello spazio e nella logica del discorso della cittadinanza. È questa implicazione che vive al cuore del progetto coloniale europeo, e che contribuisce a spiegare la dimensione peculiarmente contraddittoria del diritto coloniale, del costituzionalismo coloniale e della “governamentalità” coloniale (cfr. ad es. Plamenatz 1960, Thomas 1994 e Mezzadra, Rigo 2006): di dimensioni costitutive della storia dello Stato moderno, come ha mostrato in modo particolarmente efficace Partha Chatterjee (1993, p. 18), che tuttavia solo raramente vengono indagate nei dibattiti “teorici” su di esso. Restiamo al caso dell’“India britannica”. Certo, in prima battuta quel che emerge guardando alla storia dell’Ottocento in India è l’ubiquità del terrore nella sua dimensione “fisica”: guerre, conquiste, esecuzioni, massacri, devastazioni, siccità, epidemie, rivolte e ammutinamenti. E non è certo inutile enfatizzare questo aspetto, individuando in esso l’altra faccia di quella che in Europa si è soliti definire la “pace dei cent’anni”. Ma non è questo il punto decisivo: piuttosto, si tratta di comprendere il nesso tra l’eccezione permanente e il diritto, ovvero di sottolineare come l’ubiquità del terrore si legasse a

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doppio filo, nell’esercizio della governamentalità coloniale, a quella che lo stesso Ranabir Samaddar definisce una specifica volontà di legiferare: appunto all’esigenza stringente di combinare il terrore con il diritto e con la legge, che mise capo alla definizione di un vero e proprio “costituzionalismo coloniale”, il cui primo outlaw, come una sorta di nemesi del terrore, si costituisce nella figura del terrorista, alla cui definizione l’amministrazione e la legislazione coloniale inglese dedicarono non a caso una attenzione quasi ossessiva (cfr. Samaddar 2007, I, capp. 1 e 2). Fin da principio in ogni caso, anche per la grande influenza che ebbero in India autori come Jeremy Bentham e James Mill (cfr. Stokes 1982, Guha 1997, Metha 1999; ma ora in particolare Giuliani 2007 e 2008), diritto e legge pretesero di esercitare una specifica funzione di educazione e di riforma, obliterando l’eccezione nella produzione di una specifica normalità coloniale. È un punto esemplificato nel modo più preciso dalla pubblicazione della History of British India (1817) di James Mill, che consente di cogliere precisamente il passaggio dall’approccio “mercantilistico” alla storia dell’India, prevalente nei decenni precedenti in Inghilterra e incentrato sulla conquista, a quello propriamente coloniale, appunto incentrato sulla legislazione. Nella prospettiva inaugurata da Mill, che resterà a lungo dominante anche e soprattutto nel campo della storiografia giuridica, si tratta di criticare la storia indiana precedente la conquista inglese proprio per creare il vuoto in cui possano operare le leggi e i codici. Ed è assai significativo che Mill, secondo una logica che pare anticipare le teorie della “modernizzazione” in voga negli anni Sessanta del Novecento (con l’insistenza che le caratterizzava, e che condusse a legittimare i peggiori regimi dittatoriali nel “terzo mondo”, sui “prerequisiti per il decollo”, ovvero sulla necessaria rottura della staticità della “società tradizionale” per avviare lo sviluppo) valuti positivamente l’invasione islamica, individuando in essa una salutare rottura della “stasi” hindú e appunto una precondizione della “mobilitazione” determinata dai britannici (cfr. in particolare Guha 1997, pp. 73-79). Come la teoria di Walt W. Rostow (1960) indicava quale ultimo stadio della modernizzazione l’accesso dei paesi “sotto-sviluppati” ai consumi di massa, il liberalismo inglese dell’Ottocento non mancava del resto di immaginare un percorso di sviluppo politico e costituzionale che avrebbe potuto condurre gli indiani alla maturità e infine all’indipendenza. “È possibile”, affermò ad esempio Macaulay in un famoso discorso tenuto il 10 luglio del 1833 di fronte ai Comuni, “che lo spirito pubblico indiano (the public mind of India) possa cre-

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scere sotto il nostro sistema fino a fuoriuscire da esso; che con il nostro buon governo educhiamo i nostri sudditi facendo loro acquisire la capacità di meglio governarsi; che essendo stati istruiti nella cultura europea possano rivendicare in una qualche età futura istituzioni europee. Non so se un tal giorno mai verrà. Ma non farò mai alcunché per scongiurarlo o per ritardarlo: se verrà, sarà il giorno di cui essere più orgogliosi nell’intera storia inglese” (Macaulay 1898, vol. XI, pp. 585 s.). Permanentemente abitata dai “fantasmi” del terrore e di una sovranità esercitata per via sostanzialmente amministrativa, la governamentalità coloniale – al pari del discorso coloniale, in tutte le sue varianti, non ultima evidentemente quella giuridica (sul cui ruolo costitutivo per il “discorso coloniale”, cfr. Dirks 1992) – si mostra dunque altresì, alla luce dell’esempio indiano, strutturalmente squilibrata dall’operare in essa di imperativi contraddittori: stabilire confini intransitabili per delimitare gli spazi in cui si muovono, nella colonia, i cittadini e i sudditi, gerarchizzare il corpo collettivo apparentemente amorfo composto da questi ultimi, delineare strategie di “incorporazione” degli stessi sudditi coloniali (cfr. Thomas 1994, p. 142). Altri esempi, in particolare tratti dall’esperienza africana, andrebbero discussi per arricchire e complicare la genealogia della distinzione coloniale tra citizen e subject (cfr. Mamdani 1996 e Mbembe 2001, cap. 1). In ogni caso, se da una parte la distinzione – e la contemporanea esistenza – del cittadino metropolitano e del suddito coloniale corrispondevano ad altre distinzioni che rendevano possibile una gerarchizzazione dello spazio della cittadinanza all’interno della stessa metropoli (in particolare, alla distinzione tra cittadini “attivi” e “passivi”), esse ponevano dall’altra peculiari problemi al pensiero politico e giuridico europeo. Sotto il profilo della dottrina, si trattava cioè di render conto in modo coerente della contemporanea esistenza del “governo rappresentativo” nella metropoli e del “dispotismo” nelle colonie. Si è visto in precedenza (supra, cap. 2), attraverso alcuni esempi tratti dai lavori di John Stuart Mill e di Santi Romano, che tali problemi sono stati in buona parte risolti attraverso lo sviluppo di una logica del “non ancora” (cfr. Chakrabarty 2000): i popoli di origine non europea sottoposti a dominio coloniale erano cioè considerati – ad esempio da Mill – “non ancora” maturi per il governo rappresentativo. E si è anche visto come questa logica corrispondesse all’istituzione di uno specifico confine temporale, definito nei termini di una fondamentale distinzione nella qualità del tempo storico in cui le colonie vivevano.

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Torniamo per un attimo alla lecture tenuta nel 1875 da Henry Sumner Maine, su cui pure ci siamo soffermati nel secondo capitolo, alla sua insistenza sul fatto che “i governanti britannici dell’India sono come uomini costretti a far funzionare i propri orologi su due fusi orari contemporaneamente”. A me pare che questa sia una buona definizione, seppure su un livello di elevata astrazione, della peculiarità e delle contraddizioni del moderno progetto coloniale europeo e dell’esperienza a cui esso ha dato luogo, una definizione cioè che ben si presta a essere applicata al di là del caso britannico e indiano. L’istituzione di un confine assoluto (una sorta di “metaconfine”), temporale e spaziale, ovvero il presupposto logico della distinzione fra suddito coloniale e cittadino metropolitano, era al tempo stesso concettualmente e storicamente implicita nell’istituzione dei confini tra gli Stati-nazione europei, e dunque nella produzione degli spazi al cui interno la moderna storia della cittadinanza si è iscritta ed è venuta svolgendosi. Concetti come quelli di “ibridazione” e “mimetismo”, proposti ad esempio da Homi Bhabha, fanno riferimento alle contraddizioni implicite in questa esperienza nella misura in cui – nel momento stesso in cui il confine spazio-temporale veniva affermato come assoluto e intransitabile – gli spazi e i tempi da esso divisi dovevano essere articolati in una medesima storia progressiva. Ma se le cose stanno così, sempre muovendoci su un piano di elevata astrazione, possiamo vedere nella sfida posta dalle lotte e dai movimenti anticoloniali all’esistenza stessa di quel “metaconfine”, una delle più importanti radici del nostro presente – e delle stesse trasformazioni che hanno investito negli ultimi decenni la forma Stato. Indipendentemente dalle molteplici delusioni e sconfitte che hanno contraddistinto la storia della decolonizzazione, questa sfida è risultata in ultima istanza vittoriosa, ed è per questo che soltanto sottolineando il nesso con l’anti-colonialismo ha senso definire la nostra condizione attuale una condizione postcoloniale (Young 2001). Al tempo stesso, tuttavia, e precisamente per le modalità con cui la fine formale del colonialismo si è prodotta, il termine “postcoloniale” denota una situazione in cui certamente il “metaconfine” tra metropoli e colonie ha cessato di organizzare una stabile cartografia del pianeta, ma in cui è data la possibilità che esso si riproduca, in modo frammentato, all’interno del territorio stesso di quelle che furono le metropoli (cfr. supra, cap. I). È sullo sfondo di questa definizione di postcolonialismo che vorrei ora passare ad analizzare alcuni aspetti della “costituzione europea”.

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3. Un nuovo mostro?

È in primo luogo necessario illuminare alcune caratteristiche generalissime della costituzione europea, nella prospettiva di comprendere qual è la relazione che essa intrattiene con i concetti e con la prassi del costituzionalismo moderno. Vi sono evidentemente importanti elementi di continuità, ma la mia ipotesi è che questi elementi siano collocati all’interno di una cornice generale per molti aspetti nuova nella sua essenza, tanto da dare espressione a una relativa cesura con l’esperienza dello Stato moderno. Se cerchiamo di analizzare la costituzione europea nei termini dei concetti fondamentali che sono stati forgiati all’interno di questa esperienza storica, in altri termini, rischiamo di ricavarne la medesima impressione che Samuel Pufedorf, nel tardo diciassettesimo secolo, ebbe di fronte al Sacro Romano Impero di Nazione Germanica: la costituzione europea potrebbe cioè assumere ai nostri occhi la forma di una creatura mostruosa. Con la differenza tutt’altro che irrilevante che Pufendorf aveva un obiettivo ben preciso: stabilire come unica norma di organizzazione politica, dopo la pace di Vestfalia, lo Stato territoriale sovrano, e condannare definitivamente al tramonto le forme politiche del passato che, come l’Impero, risultavano difformi da quella norma. Mentre la costituzione europea, lungi dal rappresentare una reliquia del passato, è a tutti gli effetti parte della nuova costellazione politica che viene contraddittoriamente formandosi nel contesto dei processi di globalizzazione. La prima anomalia della costituzione europea, dal punto di vista della comprensione tradizionale del costituzionalismo, risiede nel fatto che qui abbiamo a che fare non tanto con una costituzione intesa come documento formale che fissa la cornice dello sviluppo politico e giuridico all’interno degli stabili confini di una determinata unità politica, ma piuttosto con un processo costituzionale. A me pare che questa non sia una situazione provvisoria, destinata a essere stabilizzata con l’approvazione finale di un documento “costituzionale” (ammesso e non concesso che a tale approvazione si giunga), ma rappresenti piuttosto una caratteristica strutturale della costituzione europea. Per dirla in sintesi: la costituzione europea è per definizione una costituzione in divenire per una forma politica essa stessa in divenire. L’unico termine di comparazione possibile nella storia moderna è da questo punto di vista l’esperienza della costituzione americana (ovvero, sia detto di passaggio, con una costituzione profondamente influenzata dall’esperienza coloniale): e non è un caso che essa venga

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spesso richiamata nei dibattiti sulla costituzione europea (cfr. ad es. Moulier Boutang 2003). Ma nel caso europeo, la flessibilità non riguarda soltanto i confini dell’unità politica, rappresentando piuttosto un carattere fondante della stessa costituzione in senso “formale”. Parlare della costituzione europea come di un processo costituzionale significa registrare una radicale ridefinizione del rapporto tra alcuni dei concetti fondamentali sviluppati all’interno della tradizione del costituzionalismo moderno. Prendiamo ad esempio i concetti di potere costituito e di potere costituente (su cui cfr. Negri 1992). Nel pensiero giuridico europeo moderno, il rapporto tra questi due concetti è sempre stato costruito come rapporto temporale: prima c’era l’espressione del potere costituente, destinato poi a essere ridotto al silenzio all’interno della cornice costituzionale istituita attraverso la sua azione. Ora, come è stato ampiamente sottolineato, questo modello non funziona se applicato al caso europeo, che appare piuttosto caratterizzato da una logica “incrementale ed evolutiva” (Fioravanti 2002, p. 292). Per dirla in breve: nel processo costituzionale europeo il potere di innovazione implicito nel concetto di potere costituente sembra essere esso stesso frammentato e “disperso” su una pluralità di livelli, in permanente tensione con l’assetto dei poteri costituiti. Questo significa, da una parte, che la costituzione europea è effettivamente aperta alla sua continua trasformazione, consentendo potenzialmente di immaginare in modo nuovo lo stesso rapporto tra movimenti sociali e istituzioni. Ma d’altra parte, il carattere “aperto” del processo costituzionale determina una situazione in cui la stessa azione dei poteri guadagna nuovi margini di libertà e arbitrarietà, in cui la transizione dal paradigma del governo al paradigma della governance (cfr. Borrelli, a cura di, 2004) apre lo spazio per nuove forme e nuove tecniche di governamentalità, non necessariamente più “miti” di quelle che abbiamo fin qui conosciuto. È un insieme di questioni che possiamo analizzare anche assumendo un’altra prospettiva analitica, quella suggerita dai concetti di “costituzione formale” e “costituzione materiale”, elaborati come già si è ricordato da un’importante sezione della dottrina costituzionalistica europea nel ventesimo secolo. Il rapporto tra questi due concetti sembra ancora una volta porsi, nel contesto del processo costituzionale europeo, nei termini di una tensione non destinata a iscriversi in una cornice fissa. E ancora una volta ci troviamo qui di fronte all’ambivalenza del carattere “aperto” del processo costituzionale europeo: il concetto di costituzione materiale porta da una parte infatti in primo piano la rilevanza costituzionale del conflitto sociale e

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politico; ma dall’altra illumina l’importanza strategica di un insieme di processi e di attori (amministrativi, dal punto di vista della dottrina giuridica classica) relativamente liberi di operare indipendentemente dalla regolazione “formale” della Costituzione. L’impressione è che, tra gli interpreti e i commentatori del processo costituzionale europeo, questo punto sia stato colto in particolare da quanti hanno sottolineato l’importanza della costituzione europea che esiste già, ovvero – secondo una prospettiva a cui si è fatto riferimento all’inizio di questo capitolo – indipendentemente dalla ratifica attraverso un atto formale. Nelle analisi di autori come Dieter Grimm, Joseph H.H. Weiler, Ingolf Pernice e Franz Meyer, a essere sottolineata è precisamente la sovrapposizione di cerchie e livelli costituzionali di diversa portata che concretamente informa di sé lo spazio costituzionale europeo, registrando e spingendo innanzi la disarticolazione (ovvero, la crisi e la trasformazione) della nozione classica di ordine costituzionale (cfr. ad es. Meyer, Pernice 2003). Ma come possiamo definire in termini più precisi il tipo di “spazio politico” che emerge nella cornice del processo costituzionale europeo? Tra la letteratura recente sull’argomento, particolarmente stimolante appare il lavoro di Ulrich Beck ed Edgar Grande, Das kosmopolitische Europa (2004), per quanto non necessariamente condivida lo specifico entusiasmo europeistico che contraddistingue la loro prospettiva. In un capitolo chiave del loro libro, Beck e Grande tentano di applicare alla struttura politica dell’Unione europea il concetto di impero cosmopolitico. Muovendo dalla constatazione che l’Unione europea non è né un “superstato”, né uno “Stato federale”, né una “Confederazione di Stati” (ivi, p. 83), essi propongono di utilizzare per definirne le peculiarità il concetto di “impero”, e pongono subito l’accento su ciò che a loro giudizio costituisce la principale differenza tra quest’ultimo e lo Stato: “lo Stato tenta di risolvere i problemi che attengono alla sicurezza e al benessere stabilendo confini fissi, mentre l’Impero li affronta precisamente attraverso la variabilità e la mobilità dei suoi confini, attraverso l’espansione verso l’esterno” (ivi, p. 91). Da una parte, l’enfasi posta sull’“espansione” (certo, attraverso il “consenso” nell’analisi di Beck e Grande) come carattere costitutivo dell’Unione europea fa emergere la rilevanza strategica del processo di allargamento verso est, nel senso che esso diviene lo specchio in cui è possibile vedere lo spazio europeo riflesso in alcune delle sue più rilevanti determinazioni (cfr. in questo senso Rigo 2005). Dall’altra parte, è importante sottolineare che alla variabilità dei confini del-

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l’Unione europea corrisponde l’interna eterogeneità del suo spazio. Il persistere degli Stati-nazione stessi all’interno dell’Unione europea, che non sono destinati a essere superati con il procedere del processo costituzionale, ma piuttosto ad ampliare alcuni dei loro poteri (vedendone al contempo drasticamente ridotti altri) e a divenire comunque articolazioni fondamentali dell’“impero cosmopolitico” (Beck, Grande 2004, pp. 114-119), è parte integrante di questa eterogeneità. Inoltre, come gli stessi Beck e Grande sottolineano nel loro lavoro, a livello sia di analisi costituzionale sia di analisi territoriale, è possibile distinguere un’area di “piena integrazione”, un’area di “cooperazione approfondita”, un’area di “cooperazione limitata” e un’area di “influenza estesa” (ivi, pp. 101 s.). È precisamente nel contesto di questa eterogeneità dello spazio politico e della costituzione dell’Unione europea che va a mio parere sviluppata l’affermazione di Beck e Grande secondo cui “l’Unione europea è anche [...] l’Europa postcoloniale” (ivi, p. 58). 4. Confini

Partiamo dalla questione del confine, ovvero da un altro degli istituti fondamentali nella storia dello Stato moderno. Sembra esserci un ampio consenso, nella letteratura sul tema, sul fatto che le funzioni e l’istituto stesso del confine stanno esperendo profonde trasformazioni nel contesto dei processi di globalizzazione. Particolarmente rilevanti, dal nostro punto di vista, sono le trasformazioni che attengono alle questioni della cittadinanza e delle migrazioni. Coerentemente con la tesi avanzata da Beck e Grande, sembra che ci troviamo di fronte a un superamento, sia pure in termini niente affatto lineari, del modello che sotto questo profilo ha preso forma nell’esperienza dello Stato moderno. Mentre in esso l’esistenza di confini stabili, e dunque la chiara distinzione fra interno ed esterno, erano le condizioni dello sviluppo della cittadinanza, oggi assistiamo a un processo che è stato descritto nei termini di una “deterritorializzazione” del confine (si vedano la letteratura discussa in Mezzadra 2006, parte II, cap. 4 e i saggi raccolti nella prima parte di Mezzadra, a cura di, 2004). Ed è importante precisare che il termine “deterritorializzazione” non si riferisce a una situazione in cui spazio e territorio non giocano più alcun ruolo nell’operare dei confini, ma piuttosto a una situazione in cui quest’ultimo non può essere ridotto a un luogo dato, ovvero al limite territoriale di un’unità politica.

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Il nuovo regime di controllo dei confini che ha preso forma in Europa nella cornice dell’accordo di Schengen sembra rappresentare un perfetto caso di studio per questo processo (cfr. ad es. Walters 2002). Per dirla ancora una volta in breve: ciò che Beck e Grande descrivono come variabilità dei confini sembra corrispondere a un processo simultaneo di scomposizione e ricomposizione dei confini stessi. Da una parte le “frontiere esterne” dell’Unione europea proiettano la loro ombra ben al di là del “limite” territoriale della stessa Unione, coinvolgendo ad esempio nel loro controllo paesi come il Marocco, la Tunisia, la Libia o l’Ucraina. Dall’altra parte, esse tendono a reinscriversi all’interno della “polis” europea, come diviene particolarmente chiaro (per quanto non sia in alcun modo a ciò limitato) nell’esistenza di centri di detenzione amministrativa per migranti (ovvero di un istituto peculiare del nuovo regime di controllo dei confini) nella maggior parte degli Stati europei. Questo processo di scomposizione e di ricomposizione dei confini si è andato dispiegando contemporaneamente alla formazione e allo sviluppo della nuova cittadinanza europea, e credo che sia necessario interrogarsi sulle conseguenze di questa coincidenza. La mia ipotesi è che la stessa cittadinanza europea venga costruendosi come spazio eterogeneo, ed è precisamente questa eterogeneità della cittadinanza europea che crea le condizioni per il riemergere postcoloniale della distinzione tra cittadino e suddito all’interno della costituzione europea. Lo stesso trattato costituzionale, del resto, aveva sancito anche formalmente l’eterogeneità della cittadinanza europea costruendola come una “cittadinanza di secondo grado”, che dipende dalla cittadinanza nazionale regolata dai singoli Stati membri (art. I-10). Possiamo ora ritornare al nostro punto di partenza, riprendendo l’analisi di Étienne Balibar. Muovendo precisamente da questa specifica regolazione della cittadinanza europea, Balibar ha infatti sottolineato come la regolazione nazionale dei meccanismi di inclusione della cittadinanza finisca ora per essere “totalizzata a livello europeo”, trasformando lo “straniero non comunitario”, ovvero il migrante proveniente dall’esterno dell’Unione europea, in un “escluso dall’interno”, in un cittadino di seconda classe (Balibar 2001a, p. 191). Vorrei aggiungere che questo processo, in cui Balibar individua la radice di una “ri-colonizzazione” delle migrazioni (ivi, p. 78), si determina in una situazione in cui le politiche migratorie nazionali sono definite sempre più sotto la pressione delle direttive europee, e in particolare del nuovo regime di controllo dei confini che ho breve-

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mente descritto in precedenza. L’effetto di quest’ultimo finisce per essere un movimento di inclusione selettiva e differenziale dei migranti, che corrisponde alla produzione permanente di una pluralità di status (il cui limite è la condizione del migrante “clandestino”, destinato a divenire un abitante stabile dello spazio politico europeo) e dunque alla disarticolazione della figura universale e unitaria della cittadinanza moderna. Questo processo si pone al centro delle trasformazioni complessive che stanno investendo la cittadinanza: lungi dal riguardare soltanto i migranti, in altre parole, tende a investire l’esistenza di quote crescenti di popolazione “autoctona” in Europa, attraverso la frammentazione e la precarizzazione dei diritti determinate dalle politiche “neoliberali”. Inoltre, esso pare costituire una delle caratteristiche fondamentali della trasformazione del mercato del lavoro in Europa, sempre più determinata da ciò che un’agenzia autorevole e “ufficiale” come lo European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia di Vienna ha definito nel suo rapporto annuale del 2001 la “divisione etnico-razziale” del lavoro in Europa. In queste condizioni, l’eterogeneità della cittadinanza europea corrisponde all’eterogeneità dei regimi di governamentalità che regolano le popolazioni e gli spazi europei. Sempre più soggetti, in cui possiamo vedere riaffiorare le figure definite da Locke come “altre” da quella del cittadino moderno, non sembrano abitare lo spazio sociale che corrisponde all’espansione dei diritti di cittadinanza, ovvero la “società civile”. Le loro vite sono piuttosto in misura crescente i bersagli di quelle tecniche di governamentalità che definiscono quello che Partha Chatterjee ha recentemente definito lo spazio eterogeneo della società politica, e che spesso “precedono lo Stato-nazione, in particolare dove l’esperienza del dominio coloniale europeo è durata a lungo” (Chatterjee 2004, p. 52). Una nuova forma di politica, definita domopolitica da William Walters, interseca la razionalità dell’economia politica liberale nel governo della mobilità. Il termine “domopolitica” fa contemporaneamente riferimento al sostantivo latino domus e al verbo latino domare, usato anche metaforicamente per indicare l’atto di conquistare e “sottomettere uomini e comunità” (Walters 2004, p. 241). È precisamente questo atto di conquista, con la sua impronta coloniale e ammantato della retorica della sicurezza nella “casa” europea, che si ritrova inscritto nel divenire della cittadinanza europea se la analizziamo dal punto di vista delle politiche migratorie. E come Walters, che ha coniato il termine “domopolitica” nel contesto di un’analisi del documento Secure Borders. Secure Havens, un testo programmatico

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sulla gestione dei flussi migratori pubblicato dal governo britannico nel 2002, ritengo che il governo della mobilità prefigurato dalla peculiare sintesi di domopolitica ed economia politica liberale, che sembra improntare le politiche migratorie europee, non punta “ad arrestare la mobilità, ma piuttosto a ‘domarla’”. Non punta cioè a “produrre condizione di immobilità generalizzata, ma a un uso strategico dell’immobilità in casi specifici unito alla promozione di (determinati tipi di) mobilità” (ivi, p. 248). Punta in altri termini a promuovere quello che ho precedentemente chiamato un processo di inclusione selettiva e differenziale dei migranti e del lavoro migrante all’interno dello spazio della cittadinanza europea. 5. Europa a venire

Una postilla per concludere. I concetti di “società politica” e di “domopolitica” si riferiscono a specifiche tecniche coloniali di governamentalità e potere che intersecano la costituzione multilivello europea, rivelando alcune conseguenze poco piacevoli della sua natura postcoloniale. Ma d’altra parte, questa stessa natura presenta anche altri aspetti, riconducibili in buona sostanza a quella “presenza sempre più massiccia, e sempre più legittima” dei migranti (di “popolazioni di origine coloniale”) in Europa sottolineata da Balibar nel passo da cui siamo partiti. L’accento deve essere qui posto sull’aggettivo legittima. A me pare che la legittimità della presenza dei migranti in Europa, indipendentemente dal loro status giuridico, possa e debba essere compresa nei termini di una radicale re-interpretazione del concetto di cittadinanza. Secondo questa re-interpretazione, attenta a sottolineare il nesso storico strettissimo che lega il concetto di cittadinanza alla vicenda della stuatualità ma al tempo stesso a cogliere le tensioni che ospita al suo interno, la cittadinanza non può mai essere ridotta alla sua definizione formale, istituzionale. C’è un secondo lato della cittadinanza, che ha precisamente a che fare con le pratiche sociali e politiche che sfidano la definizione formale della cittadinanza, forzandone precisamente i confini (cfr. Mezzadra 2004, Sassen 2006, Rigo 2007). Ragionando dal punto di vista offerto da questa concezione della cittadinanza, possiamo vedere gli stessi movimenti migratori come attraversati e costituiti da un insieme di comportamenti e pratiche sociali che esercitano una pressione crescente sulla definizione formale della cittadinanza. In questo senso, i movimenti migratori stanno

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dando forma sul piano della quotidianità a uno spazio europeo e a una cittadinanza europea assai diversi da quelli che siamo venuti analizzando. Stanno indicando perlomeno la possibilità, si potrebbe dire, di un’Europa globale, capace di farsi realmente carico della “lezione di alterità” iscritta nella costituzione europea dall’eredità coloniale. Abbiamo visto come questa lezione possa nutrire pratiche eterogenee di dominazione. E tuttavia, in quanto spazio politico, l’Europa è inscritta nel nostro futuro: non è data a mio giudizio, né è auspicabile, la possibilità di un ritorno al tempo degli Stati nazionali. Sta allora all’azione politica trasformare il processo aperto della costituzione europea in uno spazio di pratiche eterogenee di libertà e uguaglianza. I movimenti migratori postcoloniali del nostro tempo portano in questo senso una sfida non solo ai confini della cittadinanza europea, ma anche ai confini della nostra immaginazione politica.

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Il nuovo regime migratorio europeo e le metamorfosi contemporanee del razzismo

Cela [la race] n’existe pas. Cela produit pourtant des morts. Produit des morts et continue à assurer l’armature de systèmes de discrimination féroces [...]. Non la race n’existe pas. Si la race existe. Non certes, elle n’est pas ce qu’on dit qu’elle est, mais elle est néanmoins la plus tangible, réelle, brutale des réalités. C. GUILLAUMIN, “Je sais bien mais quand même”, ou les avatars de la notion de race (1981)

1. Un nuovo nazionalismo?

“Eravamo in pochi a chiamare patria l’Italia. Oggi siamo la maggioranza”. Ricordate lo slogan di Alleanza nazionale durante la campagna elettorale della primavera 2006? Non è una provocazione affermare che questo slogan – come ogni pronunciamento ideologico efficace – contiene un nucleo di verità. Negli ultimi anni, in Italia, l’appartenenza nazionale è stata in effetti riscoperta non soltanto a destra come valore pubblico fondamentale. La presidenza Ciampi, da questo punto di vista, ha dato impulso e autorevole legittimazione a un processo che era già ampiamente in atto. Come non ricordare, in questo senso, il crescendo di retoriche patriottiche che ha accompagnato il coinvolgimento delle forze armate italiane in missioni di guerra nel corso degli anni Novanta? L’enfasi sull’“interesse nazionale” come criterio di orientamento nella politica estera, le raccomandazioni di “realismo” nelle relazioni internazionali e la preoccupazione per la posizione dell’Italia nel mondo non sono certo appannaggio della chiassosa pattuglia di neocons nostrani. Si può anzi dire che attorno a questi elementi si sia andato costituendo – soprattutto a partire dalla dimostrazione di “fedeltà atlantica” offerta dal governo D’Alema in occasione della guerra del Kosovo – un vero e proprio consenso bipartisan sul piano delle retoriche politiche e del discorso pubblico, indipendentemente dal diverso giudizio sull’unilateralismo statunitense dopo l’11 settembre. A me pare che sia a partire da questo “nuovo nazionalismo”, di cui mi sono limitato a indicare schematicamente alcuni tratti, che deve essere impostato il ragionamento critico sulle metamorfosi del raz-

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zismo contemporaneo, a cui è dedicato questo capitolo. Non è un fenomeno limitato all’Italia, del resto: è un fenomeno a tutti gli effetti europeo, che deve essere a sua volta collocato nel contesto delle forme assunte dal processo di integrazione a partire dall’inizio dello scorso decennio. La mia tesi è che il nuovo nazionalismo ci parli – non sembri un paradosso – della crisi e delle trasformazioni dello Stato nazione. È importante in questo senso sottolineare che il dibattito in proposito ha ormai preso congedo dalle ipotesi e dalle retoriche che lo hanno a lungo caratterizzato, dall’idea cioè che alla “globalizzazione” corrispondesse un lineare superamento – una sorta di “estinzione” – dello Stato nazione (cfr., per fare un unico esempio, Ohmae 1995). Appare sempre più chiaro, in altri termini, che gli Stati nazionali (alcuni più di altri, ovviamente) sono stati attori fondamentali nell’avviare i processi di globalizzazione (di “de-nazionalizzazione”), e continuano oggi a giocare un ruolo di decisiva importanza nel suo contraddittorio governo. Al tempo stesso, tuttavia, essi vengono articolando la propria azione con altri livelli di potere, fino a configurare un “assemblaggio” di autorità, territorio e diritti radicalmente diverso da quello che ha contraddistinto la secolare storia della forma-Stato moderna (Sassen 2006). Questa acquisizione del dibattito recente sulla globalizzazione disegna un perfetto parallelo con l’immagine della costituzione materiale europea che emerge dagli studi più autorevoli in argomento e che ho discusso nel precedente capitolo. Anche in questo caso a correggere gli entusiasmi che all’inizio degli anni Novanta circolavano a proposito dell’esito linearmente “post-nazionale” del processo di integrazione si è andata cioè imponendo, in particolare nel dibattito giuridico, la tesi che il processo di scambio e dislocazione di competenze tra Stati e Unione europea non è un gioco a somma zero, in cui cioè alla crescita e al consolidamento di livelli “post-nazionali” di esercizio del potere corrisponda un proporzionale ridimensionamento dei livelli nazionali (cfr. Weiler 2003, in specie p. 74 e Beck, Grande 2004). Parafrasando Marx, si potrebbe certamente dire che la costituzione europea, al pari del resto dell’antica “costituzione mista” a cui viene di tanto in tanto accostata (cfr. MacCormick 1999, p. 288), è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici: nel senso che, come ha messo in evidenza tra gli altri Weiler, l’Unione europea “è, in un certo senso, i suoi Stati membri e, allo stesso tempo, ne è completamente separata”. E, “come testimoniano duemila anni di teologia cristiana, ciò risulta a volte di difficile comprensione” (ivi, p. 202).

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Da questi processi, in atto con specificità che non vanno dimenticate tanto a livello globale quanto a livello europeo, discendono trasformazioni profondissime degli spazi politici e giuridici (cfr. ad es. Galli 2001, Balibar 2005, Ferrarese 2006), che sembrano prendere congedo da quel presupposto dell’omogeneità territoriale che corrispondeva alla logica moderna della sovranità. I confini si fanno mobili e porosi, nuovi “spazi laterali” interrompono la continuità giuridica e politica dello stesso territorio statuale, ad esempio nelle zone di produzione per l’esportazione che sorgono un po’ ovunque nel “Sud globale” o attraverso le zoning technologies che rappresentano una delle grandi leve dello sviluppo cinese; l’esercizio della sovranità si fa articolato e “graduato”, confondendo continuamente la linea che separa la norma e l’eccezione (cfr. in particolare Ong 2006). Lo stesso “nuovo nazionalismo” di fronte a cui ci troviamo in Italia e in Europa deve essere compreso all’interno di queste trasformazioni, guardando cioè alla sua articolazione con i nuovi “assemblaggi” che stanno emergendo al di là dell’ordine “nazionale”. E in particolare mi pare opportuno considerarlo da una parte come un sintomo dei limiti (delle patologie) dello stesso processo di integrazione europea – e in particolare della cittadinanza europea in formazione (cfr. Melossi 2005 nonché supra, cap. IV); dall’altra parte come uno degli elementi fondamentali del contesto in cui una nuova forma di razzismo, compiutamente postanzionale, postcoloniale e “postmoderna”, sta emergendo.

2. Razzismi

Naturalmente esistono molti punti di vista a partire dai quali il razzismo può e deve essere analizzato, ed esistono del resto molte forme di razzismo. Il dibattito sul tema è stato molto ricco negli ultimi anni, ha posto al proprio centro la dimensione processuale del razzismo, la sua “mobilità”, la sua duttilità nell’adattarsi a mutevoli congiunture storiche. E ne ha indagato le metamorfosi sotto il profilo “cognitivo” oltre che sociale e politico, soffermandosi in particolare sui temi dell’“identità” e della “rappresentazione” 1. Si tratta di un dibattito da cui sono derivate importanti acquisizioni, di cui terrò con1

Cfr., per una sintesi efficace, Siebert 2003; ma si tengano presenti anche, nella sconfinata letteratura sul tema, i saggi raccolti in Bojad=ijev, Demirovic (a cura di) 2002. Sulla questione, assai importante, delle tonalità culturaliste ed “etniciste” del razzismo contemporaneo, molto efficace è il lavoro di Gallissot, Kilani, Rivera 2001.

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to anche in quanto segue. Ai fini dell’analisi qui proposta, tuttavia, conviene muovere da una definizione politica del razzismo, che si può riprendere dai lavori di Michel Foucault e soprattutto di Étienne Balibar. Foucault, nella sua analisi della transizione dalla “guerra delle razze” al “razzismo di Stato”, insisteva sulla necessità di concentrare l’attenzione sul momento in cui “il razzismo si è inserito come meccanismo fondamentale del potere, esattamente così come viene esercitato negli Stati moderni. E ciò ha fatto sì che non vi sia stato alcun modo di funzionamento moderno dello Stato che, a un certo punto, a un certo limite e in certe condizioni, non sia passato attraverso il razzismo” (Foucault 1975, p. 220). E aggiungeva: “ciò che costituisce la specificità del razzismo moderno non è infatti collegato a delle mentalità, a delle ideologie, alle menzogne del potere, ma è legato piuttosto alla tecnica del potere, alla tecnologia del potere” (ivi, p. 223). Mi sembrano affermazioni molto importanti, sia per il nesso strettissimo che istituiscono tra storia del razzismo e storia della statualità, sia per l’enfasi posta sul fatto che non dobbiamo analizzare (e criticare) il razzismo contrapponendolo, magari come sua “verità”, alle “menzogne del potere”. Attualizziamo immediatamente questo secondo punto: assumendo la prospettiva indicata da Foucault, possiamo senza alcuna contraddizione affermare che le politiche migratorie europee hanno una matrice profondamente razzista senza per questo ritenere mera retorica i programmi contro la discriminazione, l’“anti-razzismo” e l’insistenza sulla coesione sociale che contraddistinguono il discorso delle istituzioni europee. Consideriamo dunque il razzismo in relazione con le mutevoli configurazioni del rapporto tra Stato, sovranità e cittadinanza nella storia moderna, e teniamo presente il ruolo essenziale giocato in queste configurazioni dal nazionalismo, a partire dal momento in cui – tra il XVIII e il XIX secolo – la nazione si è appunto imposta come giuntura fondamentale di quell’articolazione. È in questo senso che risulta particolarmente importante un’indicazione di Étienne Balibar, secondo cui il razzismo costituisce un “supplemento interno al nazionalismo, sempre in eccesso rispetto a esso, ma sempre indispensabile alla sua costituzione e tuttavia ancora insufficiente per portare a termine la formazione di una nazione, o il progetto di ‘nazionalizzazione’ della società” (in Balibar, Wallerstein 1991, p. 66). È subito il caso di aggiungere, del resto, che neppure la nazione, evidentemente, è una forma fissa e statica: e sono proprio le sue trasformazioni – tra l’altro indistricabili dalle vicende dell’espansione coloniale e impe-

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rialista europea – a offrirci una chiave interpretativa estremamente efficace per comprendere le trasformazioni del razzismo. Una volta di più, vi sono molteplici punti di vista a partire dai quali le metamorfosi della forma nazione possono essere analizzate. Quello che a me pare particolarmente utile in questa sede è il tipo di rapporto di dominio che la nazione istituisce e intrattiene con il proprio spazio, facendone il proprio territorio. Di questi termini è bene sottolineare la complessità semantica, utilizzandoli almeno in una duplice chiave. Da una parte, occorre tenere presente il modo in cui il concetto di territorio è stato elaborato e formalizzato dalla grande scienza giuridica europea tra Otto e Novecento, fino a trovare una provvisoria sistemazione nella definizione kelseniana, secondo cui il territorio è “l’ambito di validità” del singolo ordinamento statuale (Kelsen 1932, p. 29). Dall’altra parte, questa accezione del territorio può e deve a mio giudizio essere fatta produttivamente interagire con la definizione dello “spazio” (colto nella sua distinzione dal “luogo”) offerta da Michel de Certeau: “si ha uno spazio”, scrive quest’ultimo, “dal momento in cui si prendono in considerazione vettori di direzione, quantità di velocità e la variabile del tempo. Lo spazio è un incrocio di entità mobili. È in qualche modo animato dall’insieme dei movimenti che si verificano al suo interno” (De Certeau 1980, pp. 175 s.). Tornerò più avanti sulla definizione di de Certeau. Per intanto, sovrapporre le due accezioni di territorio e spazio richiamate mi conduce a sottolineare che l’istituzione di un territorio nazionale (e il tracciato dei suoi confini), come vengono definiti giuridicamente dalla “costituzione materiale” di uno Stato, ha sempre avuto a che fare con l’intersezione nello spazio di corpi in movimento, con il governo della mobilità. E a sua volta il governo della mobilità, come è stato posto in evidenza da una serie di studi recenti sul “capitalismo storico”, gioca un ruolo essenziale nella produzione della forza lavoro come merce, ovvero nella costituzione storica del mercato del lavoro (cfr. Moulier Boutang 1998 e Mezzadra 2006, parte I, cap. 2). Che questo processo sia tutt’altro che “idilliaco” appare chiaramente laddove si consideri il lungo e contraddittorio processo che ha condotto il lavoro salariato “libero” a porsi (provvisoriamente, dovremmo forse aggiungere oggi) come norma contrattuale attorno a cui si organizza il rapporto di impiego nell’Occidente capitalistico tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso. Una nuova corrente di storia del diritto del lavoro in Inghilterra e negli Stati uniti, ben rappresentata dai lavori di Robert J. Steinfeld (1991, 2001), ha in questo senso sottolineato come lungo tutto l’Ottocento il lavoro salariato fosse tutt’altro

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che “libero” da coazioni “extra-economiche” e in particolare da limiti alla mobilità del lavoro (secondo l’immagine ancor oggi prevalente della “libertà contrattuale”), e come l’“invenzione del lavoro libero” sia stata l’esito di intensissime lotte operaie, a cui corrisposero primi esperimenti di legislazione economica e sociale che imposero precisamente, a cavallo tra i due secoli, dei limiti alla libertà contrattuale. Nel complesso si può affermare che il mercato del lavoro è reso possibile da un insieme di dispositivi politici e giuridici che puntano tra l’altro a determinare una peculiare miscela di mobilità e immobilità del lavoro (dei corpi), e che anche questa miscela è storicamente mutevole: da questo punto di vista, il territorio nazionale si è affermato, nel diciannovesimo e ventesimo secolo in Europa e negli Stati uniti, come lo spazio all’interno del quale la forza lavoro come merce veniva prodotta e il mercato del lavoro poteva funzionare “ordinatamente”, all’interno della “divisione internazionale del lavoro”. Il razzismo è stato anche (sia chiaro: non certo soltanto, nel senso che il razzismo è stato anche molte altre cose, e alcune forme di razzismo, in primo luogo l’antisemitismo, non sono certo spiegabili in questo modo) il “supplemento interno” a questo processo di costituzione del mercato del lavoro, particolarmente virulento nei momenti della sua crisi e della sua trasformazione. Si tratta di un’affermazione che potrebbe essere agevolmente esemplificata in riferimento alle vicende statunitensi (molte indicazioni in questo senso si possono rinvenire nell’importante lavoro di David Roediger 2005). Ma credo che anche per quel che riguarda il caso italiano abbia la sua validità ai fini di una ricostruzione della storia del razzismo. Si potrebbe ad esempio leggere in questo senso la vicenda del razzismo anti-meridionale che accompagnò i primi decenni dello Stato unitario, quando la stessa esistenza di un mercato nazionale del lavoro in Italia era in discussione (cfr. Teti 1993). Ed è interessante notare che, in questo contesto, si diffuse una preoccupazione per la qualità specifica dello “stock razziale” italiano che mobilitò antropologi e criminologi di gran nome e che, in un singolare transito al di là dell’Atlantico, finì per avere ripercussioni sulla condizione degli italiani meridionali negli Stati uniti di inizio Novecento. Basti ricordare la tesi presentata da Alfredo Niceforo in Italiani del nord e del sud (1901), secondo cui in Italia esistevano due “razze”, una “ariana” e “caucasica” nel Nord e una “negroide” nel Sud, che fu ripresa e utilizzata dai funzionari del censimento statunitense per negare (o quanto meno per mettere in dubbio) la “bianchezza” degli italiani del Sud, ed entrò così a far parte dei dispositivi di raz-

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zializzazione ed etnicizzazione della cittadinanza e del mercato del lavoro oltre Oceano (cfr. Guglielmo, Salerno, a cura di, 2003). Il razzismo coloniale che culminò nella guerra di sterminio condotta dal regime fascista in Etiopia (1935-1936) e il violento anti-semitismo che si espresse nelle leggi anti-ebraiche del 1938, che una nuova generazione di studiosi ha cominciato a studiare congiuntamente 2, possono a loro volta essere interpretati come l’estremizzazione di trend già ben presenti nell’Italia liberale: di trend che tuttavia divennero particolarmente virulenti proprio nel momento in cui la divisione internazionale del lavoro, in seguito alla crisi del ’29, era stata terremotata. Ora, è evidente che anti-semitismo e razzismo coloniale, per quel che riguarda l’Italia (ma naturalmente l’Italia rappresenta da questo punto di vista una variante di una vicenda più generalmente europea), restano ancora oggi ricchi “archivi” i cui frammenti retorici si ritrovano nel discorso pubblico contemporaneo nelle più diverse strategie di stigmatizzazione dei migranti (cfr. ad es. Dal Lago 1999, in specie cap. 5; Dal Lago, Quadrelli 2003, cap. 6). Ma l’articolazione complessiva di Stato-nazione, sovranità e cittadinanza di cui essi rappresentarono il “supplemento” (in forme evidentemente diverse nel periodo liberale e durante il regime fascista) fu nei fatti spezzata dalla resistenza e dalla nascita della Repubblica. La forma di “Stato sociale (e) nazionale”, per utilizzare ancora una volta una definizione di Étienne Balibar (2003, p. 128), che la Costituzione del ’48 contraddittoriamente istituì, ospitò tuttavia ben presto – nel processo materiale del suo svolgimento – una nuova costellazione del razzismo, direttamente legata a una trasformazione profonda e tutt’altro che pacifica del mercato del lavoro. Nel contesto degli spettacolari processi di industrializzazione e modernizzazione degli anni Sessanta, il razzismo anti-meridionale, ancora una volta recuperando in un diverso contesto “frammenti” retorici da precedenti epoche storiche, non aveva più la funzione di “segnare” la differenza tra Nord e Sud del Paese, bensì quella di contribuire a governare l’ingresso del Sud dentro il Nord. Esso si pose cioè come “supplemento” funzionale al governo – all’“addomesticamento”, si potrebbe dire – delle migrazioni interne, di una traumatica esperienza di mobilità che cambiò in 2

Vale qui la pena di ricordare la mostra “La menzogna della razza”, realizzata a Bologna nel 1994, di cui si può vedere la presentazione del compianto Riccardo Bonavita (2006). Se la vicenda del razziosmo coloniale italiano ha oggi cessato di essere un tabù, lo si deve del resto in buona misura all’impegno encomiabile di Angelo Del Bocca, di cui va ricordato almeno uno degli ultimi lavori, Italiani brava gente? (2005).

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modo radicale non solo la composizione della classe operaia nel nostro Paese, ma più in generale il suo paesaggio sociale e culturale. Si tratta di un fenomeno che ha precisi riscontri in altre realtà europee 3. E in Italia come in Europa questa nuova “costellazione” del razzismo fu sfidata e sconfitta dalle formidabili lotte operaie della fine degli anni Sessanta, che posero in discussione l’assemblaggio generale di Stato nazionale, sovranità e cittadinanza sociale – al pari del complesso intreccio di relazioni economiche e sociali – che siamo ormai abituati a definire “fordista”.

3. Nella crisi del mercato del lavoro

Di qui dobbiamo ripartire. In primo luogo sottolineando che la presenza crescente dei migranti in Italia è stata, dai primi anni Ottanta, uno degli elementi fondamentali dell’insieme di trasformazioni sociali ed economiche collegate alla crisi del “fordismo”. Del resto, fin dalla crisi dei primi anni Settanta, le migrazioni cominciarono a esibire tratti decisamente innovativi rispetto al passato sul livello globale, mentre in Europa la fine del reclutamento dei “lavoratori ospiti” in molti Paesi avviò una nuova epoca nella storia delle migrazioni e dei tentativi del loro governo nel vecchio continente. I caratteri di turbolenza che le migrazioni transnazionali assumono in modo sempre più marcato – unitamente a significativi cambiamenti nella loro composizione, e in particolare a processi di intensa “femminilizzazione” – esprimono da una parte, con un segno profondamente contraddittorio in cui occorre tuttavia sottolineare la dimensione soggettiva delle nuove pratiche di mobilità, una tendenziale disarticolazione della divisone internazionale del lavoro; mentre dall’altra pongono sfide radicali ai modelli classici di governo delle migrazioni, in qualche modo anticipando i dibattiti contemporanei sulla necessità di individuare schemi più flessibili di management e governance della mobilità (cfr. Papastergiadis 2000; Castles, Miller 2003; Castles 2004; Mezzadra 2006, Parte II, cap. 5). Il caso italiano registra l’insieme di questi elementi, innestandoli all’interno di una situazione in cui – come in molti altri Paesi europei – le pratiche di mobilità e di rifiuto del lavoro che si erano determinate sull’onda lunga delle lotte operaie e dei movimenti sociali degli anni Sessanta e Settanta, avevano minato in profondità l’ordine 3

Cfr. ad esempio, per la Germania, l’accurato studio di Bojad=ijev 2005.

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“nazionale” del mercato del lavoro. La pressione crescente esercitata dai movimenti migratori da Est e dal “Sud globale” si incrociò così con i processi di ristrutturazione economica e sociale che rappresentarono una risposta alle pratiche sociali a cui si è fatto cenno: il nuovo regime di accumulazione flessibile che cominciò a delinearsi a partire dai distretti industriali della “terza Italia” nella seconda metà degli anni Settanta pose le condizioni per un inserimento crescente del lavoro migrante in settori economici di rilievo cruciale 4. È all’interno di questa situazione che anche in Italia, come notava per la Francia Étienne Balibar verso la fine degli anni Ottanta, “il termine ‘immigrazione’ è diventato per eccellenza il nome della razza” (in Balibar, Wallerstein 1991, p. 230). È un punto che possiamo approfondire e precisare seguendo l’indicazione di un altro filosofo francese, Jacques Rancière: in un libro molto importante, La Mésentante (1995, pp. 161 s.), egli poneva in evidenza il fatto che a essere “razzializzati” e stigmatizzati “razzialmente” erano gli “immigrati” in quanto tali. Non che, come si è del resto già detto, all’interno del “fordismo” i lavoratori immigrati non subissero pratiche di discriminazione anche particolarmente dura sotto il profilo giuridico, sociale e culturale. Ma la stessa definizione di “lavoratori immigrati” indicava almeno un riconoscimento subordinato della loro presenza, nei termini di Rancière il fatto che occupassero un “luogo”, che avessero una “parte” nell’ordine legittimo delle cose: in quella che vorrei chiamare la struttura complessiva, affatto materiale, della “cittadinanza sociale” che del “fordismo” disegnava, come si è accennato, la contraddittoria cornice costituzionale (Mezzadra, Ricciardi 1997). La circostanza che le retoriche e le pratiche razziste assumessero come proprio oggetto un “significante vuoto e fluttuante” (per riprendere i termini proposti da Stuart Hall, 1997), ovvero gli “immigrati”, segnalava il fatto che lo stesso ordine legittimo delle cose, la stessa struttura complessiva della cittadinanza, stava diventando “vuota e fluttuante”. Già ho accennato che questa vera e propria crisi di cittadinanza (che siamo ben lungi dall’esserci lasciata alle spalle) non può essere ricondotta esclusivamente e linearmente ai processi di ristrutturazione capitalistica e all’avvio in Europa di politiche “neoliberali”. Deve essere cioè sottolineato, ancora una volta, il segno soggettivo impresso su di essa dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta, dalle rivendicazioni di una flessibilità agite come richiesta 4

Si veda in questo senso l’accurata analisi di Gambino 2003; ma ricchi di indicazioni sono anche i lavori di Ricciardi, Raimondi (a cura di) 2004 e di Sacchetto 2004.

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di libertà e non come tecnica di comando sul lavoro 5, nonché dalle nuove pratiche di mobilità in cui quelle rivendicazioni si sono tradotte. Considerare questa crisi di cittadinanza secondo il punto di vista offerto dalle migrazioni conduce a coglierne un lato spesso sottaciuto: ovvero il fatto che, come esito delle grandi trasformazioni che cominciano a manifestarsi sia all’interno dell’Europa e dell’Occidente sia sul livello globale a partire dai primi anni Settanta, è l’ordine “nazionale” del mercato del lavoro (come cellula costitutiva della “divisione internazionale del lavoro”) a essere posto vieppiù in discussione. Già lo si è detto, ma vale la pena indicarne tutte le conseguenze: è la produzione della forza lavoro come merce, il presupposto del funzionamento del mercato del lavoro, a non avvenire più in modo soddisfacente nella cornice del “territorio nazionale”. Una nuova miscela di mobilità e immobilità del lavoro doveva essere a questo punto prodotta, e le politiche migratorie hanno cercato precisamente di affrontare questo problema, in Italia come in altri Paesi europei. Attraverso il protagonismo crescente di diverse istanze e “agenzie” europee si è contemporaneamente andato definendo, quanto meno nei suoi tratti più generali, un vero e proprio nuovo “regime migratorio” europeo 6. È su questo nuovo regime migratorio che occorre portare l’attenzione per comprendere le metamorfosi del razzismo contemporaneo. Ed è il caso di aggiungere che esso costituisce in generale un punto di vista privilegiato per studiare il divenire e le trasformazioni dell’istituzionalità europea: suo elemento costitutivo è infatti l’emergere di nuove tecnologie di controllo dei “confini esterni” europei, che segnalano mutamenti profondi intervenuti nello stesso istituto del confine, ancora una volta in sintonia con processi che si verificano in altre aree del globo (cfr. la letteratura discussa in Mezzadra 2006, parte II, cap. 4). Ho insistito nei capitoli precedenti sul nesso che, tanto sotto il profilo storico quanto sotto il profilo teorico, stringe il concetto di cittadinanza con l’istituto del confine. Questo nesso diviene evidentemente di particolare importanza nel momento in cui, come accade oggi in Europa, una nuova cittadinanza è in formazione, e si pone dunque il problema di tracciare confini che circoscrivano il suo spazio, al tempo stesso regolando l’azione dei dispositivi di inclusione ed esclusione che ogni figura della cittadinanza assume tra i propri pre5 6

È molto importante, in questo senso, l’analisi di Boltanski, Chiapello 1999. Cfr. Karakayali, Tsianos 2005 e la rappresentazione “cartografica” delle politiche migratorie europee elaborata all’interno del progetto “Transit Migration”: http:// www.transitmigration.org/migmap/.

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supposti. Sotto questo profilo il nuovo regime di controllo dei confini che sta emergendo in Europa attorno a quelle nuove frontiere (appunto le “frontiere esterne” dell’Unione europea) istituite dall’Accordo di Schengen e poi dalle successive Convenzioni applicative, fino all’incorporamento dell’acquis di Schengen nel Trattato di Amsterdam del 1997, segnala alcuni tratti specifici del rapporto che l’Unione europea intrattiene con il proprio spazio. Enrica Rigo, in un libro importante (Europa di confine, 2007), ha studiato questo rapporto, discutendo i risultati a cui è pervenuta una gran mole di letteratura e ponendo in evidenza come esso si configuri in un modo molto diverso rispetto a quello che aveva nel suo complesso caratterizzato la relazione dei moderni Stati nazionali con i propri “territori”. Basandomi essenzialmente sul lavoro di Rigo, vorrei proporre di seguito tre punti fondamentali in cui questa differenza si esprime. In primo luogo, nel controllo delle nuove “frontiere esterne” dell’Unione europea stanno emergendo modelli di interazione, che possono a tutti gli effetti essere definiti “post-nazionali”, tra diverse istanze, agenzie e soggetti. Sono modelli ibridi, nel senso attribuito a questo termine da Toni Negri e da Michael Hardt in Impero (2000, parte III, cap. V), nella misura in cui gli Stati membri cooperano al loro interno con agenzie come i Comitati Schengen e Frontex (la nuova “Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne”), con la Commissione europea, con l’Acnur e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nonché con alcune organizzazioni non governative. E così facendo gli Stati membri dell’Unione condividono una delle competenze chiave nella definizione della sovranità moderna, confermando che, se la logica della sovranità è ben lungi dall’essere in procinto di scomparire nel nostro presente globale, i soggetti, i modi e gli spazi del suo esercizio stanno subendo radicali trasformazioni (Sassen 2006, p. 415). In secondo luogo, i confini europei, resi porosi dalla spinta dei movimenti migratori, sono costretti a spostarsi continuamente verso sud e verso est, facendosi mobili e coinvolgendo Stati vicini e lontani nel loro controllo. Come è stato notato recentemente, ad esempio, mentre le rotte attraverso il Sahara stanno diventando rotte migratorie globali (seguite cioè non soltanto da migranti subsahariani, ma anche asiatici e perfino latino-americani), “l’Europa punta a ‘esportare’ o ‘delocalizzare’ le proprie contraddizioni: tentando di trasformare l’intero Maghreb in un limes [...], recluta i Paesi del Maghreb come proprie ‘avanguardie’, trasferendo su di essi l’onere di fungere da dighe

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per arginare la marea della migrazione africana” (Bensaâd 2006, pp. 13 e 16). Più in generale, come si può vedere studiando il processo dell’allargamento verso est, le “frontiere esterne” europee non segnano più in alcun modo il margine esterno dell’“ambito di validità” dell’ordinamento giuridico europeo, ma articolano piuttosto la sua proiezione verso l’esterno, stabilendo anche in questo senso diversi gradi di internità ed esternità allo spazio europeo. Nel complesso, si può dunque a giusto titolo parlare di un processo di progressiva deterritorializzazione del confine. In terzo luogo, le “frontiere esterne” europee sono oggi giunture essenziali nell’articolazione (e ancora una volta nella proiezione verso l’esterno e verso l’interno) di tecniche di governamentalità specificamente indirizzate ai migranti, molto diverse da quelle che siamo abituati a collegare allo Stato di diritto e alla cittadinanza: tecniche di governamentalità che assegnano i migranti a uno spazio altro da quello della “società civile”, analogo piuttosto a quello che un teorico postcoloniale come Partha Chatterjee (2004) ha definito “società politica”. Già lo si è visto nel precedente capitolo, a proposito del concetto di “domopolitica” proposto da William Walters. In una recente ricerca sul controllo delle “frontiere esterne” europee nello spazio dell’Egeo, Efthimia Panagiotidis e Vassilis Tsianos approfondiscono il punto. Lungi dal funzionare come il muro di un’ipotetica “fortezza”, il confine mostra intera nell’Egeo la sua natura di dispositivo di governo, freno e canalizzazione della mobilità. Gli stessi campi di detenzione di cui l’Egeo è disseminato appaiono “stazioni di transito”: essi costituiscono “il tentativo spazializzato, di dominare temporaneamente determinati movimenti, ovvero di amministrare vie e rotte per rendere produttiva una mobilità regolata” (Panagiotidis, Tsianos 2007, p. 79). Sempre più spesso, nell’Egeo il soggiorno in un “campo” costituisce – anziché l’antedente dell’espulsione – il “biglietto di ingresso” nello spazio europeo (ivi, p. 71). Il confine non si limita così a “striare” lo spazio: incide nei corpi dei migranti una specifica temporalità, quella del transito e dell’attesa, destinata a segnarne il movimento e le condizioni lungo l’intero arco della permanenza in Europa; a produrre, per riprendere l’efficace espressione di Federica Sossi (2007, p. 34), vere e proprie “biografieconfine o biografie al confine”. Anche il confine temporale costitutivo dell’esperienza coloniale (cfr. supra, capp. II e IV) finisce così per essere nuovamente tracciato all’interno dello spazio europeo, contribuendo a definirne la cifra di eterogeneità postcoloniale.

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4. Cittadini europei, nuovo razzismo e nuovo antirazzismo

Possiamo ora tornare alla definizione di “spazio” proposta da Michel de Certeau, su cui ci siamo in precedenza soffermati, per notare che i processi schematicamente descritti sembrano mettere in discussione la possibilità di distinguere in modo netto, secondo le modalità proposte dallo storico e antropologo francese, lo “spazio” stesso dal “luogo”. Vediamo la definizione di quest’ultimo offerta da de Certeau (2001, p. 175): “è un luogo l’ordine (qualsiasi) secondo il quale degli elementi vengono distribuiti entro rapporti di coesistenza. [...] Vale qui la legge del ‘luogo proprio’: gli elementi considerati sono gli uni a fianco degli altri, ciascuno situato in un luogo ‘autonomo’ e distinto che esso definisce. Un luogo è dunque una configurazione istantanea di posizioni. Implica una indicazione di stabilità”. Ora, questa definizione di de Certeau ben si presta a essere messa in relazione con il concetto di “polizia” elaborato da Rancière (1995, pp. 51 ss.), inteso cioè come distribuzione e “conto” delle “parti” su cui poggia uno specifico regime di organizzazione di una collettività: come qualcosa di molto simile a quella che definirei la cornice istituzionale e giuridica della cittadinanza. Ma quel che accade in Europa oggi è precisamente il fatto che la mobilità dei confini finisce per disarticolare la “stabilità” della “legge del ‘luogo proprio’”, riaprendo continuamente, nell’agire stesso delle istituzioni e nel dispiegarsi dei processi di governance, il movimento della sua produzione. Anche la definizione del sistema di posizioni che definisce la cittadinanza europea dipende in altri termini, per riprendere una delle tesi fondamentali del citato lavoro di Enrica Rigo, dal modo in cui lo “spazio di circolazione” europeo viene governato. Saskia Sassen (2006, p. 293) ha scritto recentemente che, così come la cittadinanza costituisce un punto di vista privilegiato attraverso cui guardare alla trasformazione della struttura e alla qualità dei diritti, la migrazione “è una lente che ci permette di comprendere le tensioni e le contraddizioni che si scaricano sull’appartenenza nazionale”. L’esperienza europea consente di dare un significato affatto peculiare a queste affermazioni: essa mostra cioè come i movimenti dei migranti, espressione di complesse trasformazioni che investono appunto il piano dell’“appartenenza” e determinano il sorgere e il moltiplicarsi di nuovi “spazi sociali transnazionali” (cfr. ad es. Pries, a cura di, 2001), entrino direttamente a determinare l’insieme dei processi attraverso cui viene quotidianamente prodotta la filigrana della nuova cittadinanza europea in formazione. Da una parte, essi ne sfi-

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dano continuamente i confini, costringendo la governance e il management delle migrazioni a mimarne l’imprevedibilità, la flessibilità e la “turbolenza”; dall’altra parte, come si è mostrato nel precedente capitolo, il nuovo regime migratorio europeo finisce per re-inscrivere il confine all’interno dello stesso spazio della cittadinanza, promuovendo un processo di inclusione selettiva e differenziale dei migranti (e del lavoro migrante) in quello stesso spazio. Quel che ne risulta è la produzione di una molteplicità di posizioni giuridiche e di una nuova stratificazione gerarchica, attorno a cui si riorganizzano contemporaneamente, in Europa, la cittadinanza e il mercato del lavoro e che trova il proprio “limite” nella presenza strutturale di migranti “illegali”: di soggetti che, ancora con Saskia Sassen (2006, pp. 294-296), possiamo definire “non autorizzati, ma riconosciuti”. Si potrebbe proseguire a lungo nell’analisi del nuovo regime migratorio europeo, che ha come propri cardini – oltre alle tecniche di controllo dei confini di cui si è parlato – da una parte il sistema della detenzione amministrativa, che dall’interno dell’Europa si sta “delocalizzando” ben oltre i suoi confini 7, dall’altra il nesso tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro, che limita strutturalmente la mobilità sociale e spaziale dei migranti assegnandoli nei fatti a una posizione subordinata all’interno del mercato del lavoro. Si potrebbe ad esempio menzionare la circostanza che, negli ultimi anni, sembra profilarsi in modo abbastanza netto la tendenza a gestire in modo diverso la “frontiera esterna” orientale e quella meridionale dell’Unione europea, favorendo processi di apertura selettiva della prima e di chiusura della seconda (cfr. Gambino, Sacchetto 2007, pp. 35 s.). E a questa tendenza, le cui motivazioni sono certo molto complesse ma che produce come proprio effetto il privilegio di migrazioni “bianche” rispetto a migrazioni “di colore”, corrisponde evidentemente una diversa posizione in Europa (all’interno dello spazio della cittadinanza europea) dei migranti provenienti dalle due frontiere. Ma proprio questa osservazione consente di tornare, in conclusione, al tema delle metamorfosi del razzismo. A me pare evidente che questo tema debba essere affrontato sullo sfondo dei processi che si sono sommariamente descritti. Come portato di questi processi, la linea del colore sta inscrivendosi, in fondo per la prima volta nella storia almeno per quel che riguarda il nostro Paese (mentre diverso è ov7

Si veda, per una provvisoria mappa dei campi che a tutti gli effetti possono definirsi “europei” http://www.migreurop.org/rubrique45.html. Per un inquadramento teorico della problematica dei campi, cfr. Rahola 2006.

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viamente il discorso per Paesi come la Gran Bretagna e la Francia), all’interno della società italiana ed europea, dando luogo al riemergere, in condizioni pienamente “postcoloniali”, di forme di vero e proprio apartheid e della distinzione, ben nota ai manuali di diritto coloniale, tra “cittadino” e “suddito” (Balibar 2001; Balibar, Mezzadra 2006; supra, cap. IV). Lo stesso nuovo nazionalismo di cui si è parlato in apertura, colto nella sua articolazione con i livelli transnazionali emergenti di potere, finisce per legittimare e per assecondare nelle sue ricadute quotidiane, indipendentemente dalle “intenzioni” dei suoi proponenti, questi processi. E per aprire lo spazio in cui opera il suo “supplemento interno”, il razzismo. Le nuove “fantasie di bianchezza”, per citare uno splendido libro di Ghassan Hage (1998) sulla realtà australiana, che circolano in Italia e in Europa, l’enfasi sulle radici storiche esclusive della “civiltà europea”, rilanciata nello scenario del post 11 settembre e della “guerra al terrorismo”, non si limitano a produrre un’immagine mistificata della stessa storia europea, la cui spazialità è stata per secoli determinata da una complessa rete di transiti e scambi con altre terre e “civiltà”, fino a divenire nella modernità inseparabile dalla violenza che ha contraddistinto il progetto e le pratiche coloniali: mentre legittimano imprese militari al di fuori (o ai “margini”) del territorio europeo, segnano anche lo spazio al cui interno nuove retoriche e nuove pratiche razziste si diffondono (cfr. Amin 2004). Limitiamoci a un unico esempio, sottolineando tuttavia che esso sintetizza tendenze e retoriche molto diffuse: ovvero al discorso di Marcello Pera, tenuto al meeting di Comunione e Liberazione del 2005, contro i rischi del “meticciato” e dell’“ibridismo”, che minaccerebbero appunto di contaminare, per via della presenza crescente di migranti di religione non cristiana, le radici italiche ed europee della civiltà. Si sarebbe tentati di rispondere a Pera con l’ironia di Antonio Gramsci, che in una lettera scritta a un amico dal carcere di San Vittore nel 1927, così commentava il “tanto strombazzato” libro di Henri Massis, Défense de l’Occident (1927), uno dei molti lamenti sul declino dell’Europa pubblicati negli anni tra le due guerre, sulla scia del successo dei lavori di Oswald Spengler: “ciò che mi fa ridere è il fatto che questo egregio Massis, il quale ha una benedetta paura che l’ideologia asiatica di Tagore e di Gandhi non distrugga il razionalismo cattolico francese, non s’accorge che Parigi è diventata una mezza colonia dell’intellettualismo senegalese e che in Francia si moltiplica il numero dei meticci. Si potrebbe, per ridere, sostenere, che se la Germania è l’estrema propaggine dell’asiatismo ideologico,

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la Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e che il jazz-band è la prima molecola di una nuova civiltà eurafricana!” (Gramsci 1988, vol. I, pp. 95 s.). Una straordinaria anticipazione gramsciana dei toni e dei temi della critica postcoloniale degli ultimi anni, non c’è che dire. Il punto consiste tuttavia, a mio giudizio, nel fatto che uomini come Pera sono perfettamente consapevoli che nessuna metropoli europea potrebbe esistere, produrre, perfino essere “competitiva” sul mercato mondiale, al di fuori della composizione “ibrida” e “meticcia” della sua popolazione, della sua cultura, dei suoi stili di vita – e naturalmente del suo mercato del lavoro. Sta qui il punto cruciale, a mio giudizio: le nuove configurazioni del razzismo con cui siamo costretti a confrontarci oggi in Italia e in Europa non puntano ad assegnare popolazioni diverse a diversi spazi; sono piuttosto funzionali a sostenere (come loro “supplemento interno”) politiche migratorie che si propongono di regolare la convivenza gerarchicamente ordinata di corpi diversi all’interno di un medesimo territorio, fino a legittimare vere e proprie forme di segregazione. Non è certo questo l’unico angolo visuale a partire dal quale analizzare il razzismo contemporaneo in Europa: ma ricondurlo ai processi di crisi e trasformazione dell’ordine “nazionale” del mercato del lavoro e della divisione internazionale del lavoro, assumerlo come esito (e ancora una volta come “supplemento”) di un regime migratorio europeo che determina processi di inclusione selettiva e differenziale dei migranti, da una parte illumina alcuni luoghi e alcune condizioni della sua produzione; mentre dall’altra consente di ancorare materialmente la stessa analisi dei dispositivi di stigmatizzazione e di rappresentazione in cui si esprime e delle forme non certo esclusivamente istituzionali (“popolari”) in cui si articola. E fornisce a mio avviso indicazioni fondamentali sui modi in cui combatterlo. Proprio in quanto riguarda le condizioni complessive della cittadinanza europea in formazione (e dunque nulla ha di marginale e di “settoriale”), la lotta anti-razzista non può prescindere oggi dal protagonismo e dalle lotte dei migranti e delle migranti, dalle concrete pratiche di cittadinanza che essi promuovono (preziose indicazioni in proposito possono rinvenirsi ancora nei lavori di Sassen 2006, cap. 6, e di Rigo 2007). Sono queste lotte e queste pratiche che stanno quotidianamente decentrando e provincializzando l’Europa, aprendola alla scoperta delle potenzialità della condizione postcoloniale; e che pongono le basi perché la crisi di cittadinanza sul cui sfondo agisce il nuovo razzismo sia occasione di un profondo ripensamento delle

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forme e delle norme della vita associata, a partire da una radicale reinvenzione della sintesi di libertà e uguaglianza. Lungi dal poter essere presentata come l’obiettivo da raggiungere, che consentirebbe la “soluzione” dei problemi dei migranti e delle migranti, la cittadinanza europea appare così assai più un terreno di lotta, su cui una politica anti-razzista all’altezza dei tempi non può evitare di porsi, articolandosi su una molteplicità di livelli. Dentro e contro lo spazio disegnato dalle politiche migratorie europee, una nuova politica antirazzista può essere elemento decisivo nell’invenzione di un nuovo spazio europeo, attraversato da pratiche di lotta e di cooperazione capaci di tenere strutturalmente aperta la critica permanente dei confini istituzionali della sua cittadinanza.

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SESTO

Vivere in transizione Verso una teoria eterolinguale della moltitudine The capitalist and the capitalist system have the aim of limitless capital accumulation. In the realization of this aim, capitalism stamps its products and its means of production with the seal of market approval – price. Only by “translating” all the varied qualities that constitute its products and means for creating them into one common “language”, that of currency, can the generator of capitalism’s vitality, the market, operate. M.T. TAUSSIG, The Devil and Commodity Fetishism in South America (1980)

1. Capitale come traduzione

“È impossibile cancellare le conseguenze della storia dell’imperialismo, per quanto intensamente si possa desiderare che essa non abbia mai avuto luogo”. Prendiamo le mosse da questa affermazione piuttosto generica dell’intellettuale giapponese Naoki Sakai (1997, p. 18) per procedere a una ricognizione delle condizione specifiche in cui la sua teoria della traduzione – punto di riferimento tra l’altro di un progetto editoriale innovativo e importante come quello della collana “Traces” 1 – può offrire strumenti utili al tentativo di stabilire nuove basi per una teoria critica della politica. Analizzerò queste condizioni in primo luogo dal punto di vista del significato che assume la dimensione globale in formazione di fronte ai nostri occhi – entro un processo di transizione che non sembra prossimo a concludersi. Lungi dall’essere caratterizzata da omogeneità, la dimensione globale è profondamente eterogenea sia per quel che concerne la sua costituzione spaziale sia per quel che concerne la sua costituzione temporale. Al cuore stesso dei processi attraverso cui i rapporti di potere sono ridefiniti nel presente e attraverso cui il capitale globale af1

Attualmente pubblicati dalla Hong Kong University Press, i volumi della collana – fino a oggi ne sono stati pubblicati quattro – escono contemporaneamente in inglese, cinese, giapponese e coreano. “Traces” è intesa come una radicale sfida alla “differenza coloniale” che secondo Naoki Sakai continua a organizzare la produzione e la circolazione del sapere e si presenta come spazio transnazionale e translinguistico di elaborazione critica consapevole della propria collocazione geografica nell’Asia orientale ma aperto a contributi provenienti da altre realtà. Per una presentazione del progetto, si veda http://www.arts.cornell.edu/traces/index.htm

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ferma il proprio dominio si pongono essenziali problemi di articolazione della molteplicità di spazi e tempi che compongono la dimensione globale. Nei dibattiti degli ultimi anni, il concetto di articolazione è stato ampiamente utilizzato in particolare nella influente variante proposta a metà degli anni Ottanta da Ernesto Laclau e Chantal Mouffe sulla base della loro specifica lettura di Gramsci. A loro giudizio, “la pratica dell’articolazione [...] consiste nella costruzione di punti nodali che fissano parzialmente il significato; e il carattere parziale di questa fissazione del significato deriva dalla strutturale apertura del sociale, a sua volta da considerare un esito del fatto che ogni discorso è ecceduto dall’infinitezza del campo della discorsività” (Laclau, Mouffe 20012, p. 113). Nonostante i rilievi critici di Stuart Hall a questo proposito (Hall 1986), la definizione di articolazione proposta da Laclau e Mouffe è sostanzialmente coerente con l’uso che lui stesso ha fatto del concetto. Hall si riferisce attraverso di esso all’emergere di una nuova forza storica o, per essere più precisi, all’emergere di una nuova serie di soggetti politici e sociali attraverso una “connessione non-necessaria” tra questa forza storica e nuove costellazioni ideologiche. È sulla base di simili autorevoli posizioni che il concetto di articolazione è divenuto un punto di riferimento essenziale in numerose proposte di ripensamento della politica dei movimenti sociali, spesso orientate nel senso di una politica delle identità. Dal mio punto di vista, il problema essenziale a proposito di queste posizioni teoriche consiste nel fatto che esse non sembrano fare i conti fino in fondo con il fatto che l’articolazione è un momento strategico nello stesso concetto di capitale. Se questo è vero in generale al livello della categoria logica di capitale – basti ricordare il classico problema della mediazione delle singole “frazioni di capitale” nell’unità di quello che Marx definisce “capitale complessivo” (Kapital im allgemeinen) – la questione dell’articolazione diviene tanto più cruciale nel nostro presente globale. Articolare livelli geografici, politici, giuridici, sociali e culturali radicalmente eterogenei nella dimensione globale dei circuiti contemporanei dell’accumulazione è uno dei problemi cruciali di fronte a cui si trova il capitalismo contemporaneo. E anche dal punto di vista del capitale, l’articolazione “consiste nella costruzione di punti nodali” che si distendono sull’intera dimensione globale. Ma il significato di questi punti nodali capitalistici (per fare qualche esempio: le grandi borse globali, agenzie di rating e di servizi per gli investimenti come Moody’s, studi legali transnazionali, attori internazionali e statuali impegnati nella promozione

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della globalizzazione neoliberale, e così via – è lungi dall’essere solo “parzialmente fissato”. È piuttosto fissato in modo assoluto, e costituisce un limite radicale a quel che Laclau e Mouffe definiscono l’“apertura” del sociale. E nondimeno, come sostiene Stuart Hall (1986), l’articolazione funziona effettivamente come un linguaggio. Più precisamente: funziona come un linguaggio quando si trova di fronte a una pluralità di altri linguaggi che devono essere ridotti al suo codice. Articolazione significa dunque traduzione, e una delle tesi di fondo di questo capitolo è che la traduzione costituisca oggi uno dei modi essenziali di funzionamento del capitale globale. Il capitale come traduzione sta costruendo la sua propria dimensione globale: il linguaggio del valore (valore di scambio nella sua pura forma logica) è la struttura semantica, e soprattutto la grammatica, di questa dimensione, che si riproduce attraverso una variante intensificata di quel che Naoki Sakai ha definito homolingual address, “indirizzo omolinguale” (Sakai 1997, pp. 3 ss.). In questa modalità di comunicazione, il soggetto dell’enunciazione si rivolge ai destinatari del proprio discorso assumendo la stabilità e l’omogeneità tanto della propria lingua quanto di quella di chi lo ascolta; anche quando le due lingue differiscono, il “locutore” parla come se gli interlocutori appartenessero alla sua stessa comunità linguistica, assegnando alla traduzione il compito di rendere trasparente la comunicazione e riproducendo così il primato – la vera e propria sovranità – della sua lingua. Si può aggiungere che questo “indirizzo” è al tempo stesso un’interpellazione, per riprendere i termini proposti da Louis Althusser: la molteplicità dei linguaggi (ovvero di forme di vita, di relazioni sociali, di “culture”) che il capitale incontra nel distendere e nel codificare le sue eterogenee “catene di valore” (Spivak 1999, pp. 117-128) vengono investite da un “indirizzo” e da un’interpellazione che veicolano l’imperativo di conformarsi al linguaggio del valore. Un alto grado di “ibridismo” e una molteplicità di differenze possono essere tollerati e perfino promossi dal capitale, come è stato efficacemente mostrato da Michael Hardt e Toni Negri (2000, parte II, cap. 4): ma la sua struttura semantica rimane “omolinguale” nella misura in cui è dominata dal linguaggio del valore. E nondimeno, anche considerando questa struttura secondo la prospettiva suggerita dal concetto di traduzione, essa si conferma profondamente antagonistica. La traduzione stessa può essere uno strumento analitico estremamente utile per sviluppare un’analisi degli antagonismi che contraddistinguono il capitalismo globale. Questi antagonismi devono

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essere colti al livello stesso di quella che, riprendendo l’interpretazione di Marx proposta da Jason Read, possiamo chiamare produzione di soggettività (Read 2003, p. 153). Il capitale come traduzione si rivolge ai suoi soggetti (li interpella), a un livello evidentemente molto astratto, prescrivendo forme di soggettività le cui pratiche e i cui linguaggi possano essere tradotte nel linguaggio del valore. La produzione di valore, nel tempo globale, tende sempre più a identificarsi con questo genere di traduzione. Come ha mostrato in modo particolarmente convincente Christian Marazzi, nell’economia capitalistica contemporanea il linguaggio e la comunicazione “attraversano strutturalmente e contemporaneamente sia la sfera della produzione e distribuzione di beni e servizi, sia la sfera finanziaria” (Marazzi 2002, p. 10). La mediazione (l’articolazione) tra i differenti livelli di produzione di valore nell’unità del capitale può essere essa stessa considerata una mediazione linguistica, in buona sostanza una traduzione. Da questo punto di vista, appare particolarmente importante ricordare che, come affermano Naoki Sakai e Jon Solomon, “la traduzione indica in primo luogo una relazione sociale, le cui forme permeano l’attività linguistica complessivamente intesa, piuttosto che designare una situazione secondaria o eccezionale” (Sakai, Solomon 2006, p. 9). Il concetto stesso di sfruttamento deve essere ridefinito e approfondito in queste condizioni. E sono convinto che in ciò consista uno dei compiti essenziali di fronte a cui il pensiero critico si trova oggi. Gli studi culturali e postcoloniali, come esplicitamente affermato da Stuart Hall (1992), si sono trovati molto più a proprio agio nel concentrarsi sul potere piuttosto che sullo sfruttamento. E conseguentemente hanno teso ad articolare la propria dimensione politica nei termini di una critica dei rapporti di potere piuttosto nei termini di una critica dello sfruttamento, che implicherebbe una ricognizione della sua mutata geografia nonché della sua “intensificazione”. Per quanto l’enfasi foucaultiana sulla natura produttiva del potere abbia giocato un ruolo essenziale negli studi culturali e postcoloniali degli ultimi anni, questa enfasi unilaterale sul potere ha finito per riprodurre una sorta di primato logico (e di “esteriorità”) del potere rispetto ai movimenti e alle pratiche dei soggetti. Tornando alla tesi di Jason Read, è il caso di ricordare che “alla base del modo di produzione capitalistico c’è produzione di soggettività nel doppio senso del genitivo: la costituzione della soggettività, di un particolare comportamento soggettivo, e d’altra parte la potenza produttiva della soggettività, la sua capacità di produrre ric-

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chezza” (Read 2003, p. 153). Per dirla in un modo schematico (e non senza correre il rischio di una eccessiva semplificazione), possiamo affermare che il concetto di potere rende conto delle modalità con cui si produce la “costituzione della soggettività”, mentre il concetto di sfruttamento si riferisce agli scontri e alle lotte che si producono sul terreno della riduzione della “capacità soggettiva di produrre ricchezza” alla norma del lavoro astratto, presupposto della sua traduzione nel linguaggio del valore. Questi scontri e queste lotte non si determinano soltanto nella produzione di ricchezza “materiale”, ma anche nella produzione di beni “immateriali” come cultura, strutture linguistiche e simboliche, conoscenza e immaginari. Segnano, come ha mostrato ad esempio in modo particolarmente brillante Brett Neilson (2004), la stessa produzione delle “astrazioni reali” che rendono possibile l’“indirizzo omolinguale” e il regime di traduzione del capitale. Dobbiamo guardare allo sfruttamento dal punto di vista del lavoro vivo che viene investito e “catturato” dal capitale attraverso modalità molteplici ed eterogenee, che convergono tutte verso la produzione della sua dimensione globale. La composizione del lavoro vivo contemporaneo è attraversata e segnata da questa molteplicità delle modalità della sua “cattura” da parte del capitale. E se quest’ultimo articola la propria dimensione globale attraverso la traduzione nel linguaggio del valore, il nostro compito consiste nel pensare la costituzione di un soggetto collettivo capace di porsi come soggetto di trasformazione radicale a partire dagli antagonismi e dai conflitti che contraddistinguono ogni singolo momento di “cattura”. È quasi superfluo aggiungere che nessuno di questi momenti può essere inteso come meramente individuale, considerato che tutti investono reti di cooperazione sociale che a loro volta producono forme di soggettività. Nell’ultimo paragrafo del capitolo si tenterà di applicare il concetto di “indirizzo eterolinguale” proposto da Naoki Sakai ai problemi della costituzione di un nuovo soggetto politico come processo attraverso cui la politica della liberazione deve essere ripensata oggi. Ma prima è necessario render conto della citazione da cui abbiamo preso le mosse. Perché la storia del colonialismo e dell’imperialismo moderni è così importante per comprendere la situazione contemporanea? Nel prossimo paragrafo cercherò di mostrare che il capitale come traduzione riproduce – in condizione pienamente postcoloniali – una delle caratteristiche di fondo del progetto coloniale dell’Occidente.

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2. Il capitale e l’Occidente

Fin dal suo inizio, la storia del capitale è storia mondiale. Come Marx afferma in modo perentorio nei Grundrisse, “la tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto di capitale. Ogni limite (Grenze) si presenta qui come ostacolo da superare” (Marx 1857-58, vol. II, p. 9). La storia del capitale non può essere compresa se non la si intende anche nei termini della costruzione di questa scala geografica senza precedenti (Guha 2002, pp. 35 e 43). Il tempo e lo spazio del capitale sono strutturalmente intrecciati l’uno con l’altro nel progetto della modernità. Come Walter Mignolo e Anibal Quijano hanno sottolineato dal punto di vista latino-americano, ciò di cui abbiamo bisogno è una ricostruzione di questo nesso strutturale tra tempo e spazio all’interno della storia del capitale che sia in grado di spiazzare l’immaginario stesso prodotto dal capitale come sistema mondo nel corso del suo sviluppo. La “sconnessione tra due diverse forme di modernità – la modernità imperiale e la modernità coloniale – vive al cuore della definizione della modernità in generale, nella costituzione del mondo gerarchico e non democratico del capitale”. Una volta di più, siamo di fronte a un problema di articolazione. La storia del capitale non può essere disgiunta dal fatto che entrambe le forme di modernità “sono legate a un indice comune, il valore normativo dell’Occidente” (Sakai, Solomon 2006, p. 21). Questo indice comune articola sia al livello materiale sia al livello epistemico la storia del capitale come storia mondiale. Nel momento stesso in cui dobbiamo riconoscere l’efficacia di questa articolazione, dobbiamo anche ricordare che essa ha operato attraverso il dominio e la violenza, e che fin dalle origini della modernità dominio e violenza hanno dovuto fare i conti con molteplici forme di resistenza. La storia mondiale del capitale è essa stessa fratturata da una sorta di doppio movimento, e dobbiamo rendere conto di questo doppio movimento in ogni tentativo di ricostruirla. Da una parte abbiamo un processo di espansione del capitale che produce la sua specifica geografia, dando luogo in particolare a peculiari relazioni tra centro e periferia; dall’altra parte abbiamo forme e pratiche di resistenza che spiazzano questa stessa geografia. Da una parte abbiamo un immaginario costruito attorno alla centralità dell’Europa e dell’Occidente; dall’altra parte abbiamo “l’immaginario conflittuale che emerge da e con la differenza coloniale” (Mignolo 2001, p. 57). Questa scissione si inscrive all’interno del concetto stesso di Occidente, e deve essere posta in evidenza quando si analizzano le varie

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serie di opposizioni che l’Occidente ha prodotto per rendere conto degli incontri coloniali che costituiscono la storia moderna in storia mondiale: l’Asia e l’Occidente, the West and the Rest, e così via. È da questo punto di vista che, come ha scritto Naoki Sakai, la modernità “non può essere compresa se non in riferimento alla traduzione” (Sakai 2000a, p. 797). L’unità del tempo storico moderno (che echeggia nella sua struttura “omogenea e vuota” quella che Marx ha definito l’“oggettività spettrale del capitale”) è sempre stata necessariamente prodotta attraverso una sorta di violenta sincronizzazione di una pluralità di tempi eterogenei. E questa violenta sincronizzazione è essa stessa un atto di traduzione. Vale la pena di sottolineare che questo problema è particolarmente acuto nel momento della transizione al capitalismo, in quel processo di “accumulazione originaria” in cui si tratta di produrre le condizioni di esistenza del capitalismo (cfr. infra, appendice). Come scrive Dipesh Chakrabarty, “il problema della modernità capitalistica non è più interpretabile come semplice fenomeno sociologico di transizione storica [...] poiché esso si presenta anche come problema di traduzione” (Chakrabarty 2000, pp. 34 s.). Il punto è che, considerata in questi termini, la transizione – al pari del resto dell’“accumulazione originaria” (Perelman 2000; De Angelis 2007, pp. 136-141) – non è soltanto una categoria storica; è al tempo stesso una categoria logica che opera al cuore stesso del concetto di capitale. Possiamo anche porre la questione in questi termini: la transizione equivale alla produzione delle condizioni di possibilità della traduzione, attraverso il regime di “indirizzo omolinguale” che rende a sua volta possibile il capitale. E mi pare evidente che, se guardiamo da questo punto di vista al concetto di transizione, è proprio la transizione nei contesti coloniali a rivelare nel modo più nitido il problema di fondo che contraddistingue la transizione al capitalismo. Marx ha tentato di cogliere questo problema attraverso il concetto di “modo di produzione asiatico”, che proprio per questa ragione continua a meritare un’attenta analisi indipendentemente dai suoi limiti e dalle distorsioni da esso prodotte nell’analisi di situazioni storiche e culturali particolari (Spivak 1999, pp. 98 e 115): lo specifico tipo di eterogeneità che il capitalismo ha incontrato nei contesti non europei rese la difficoltà generale di stabilire le condizioni della sua traduzione nel linguaggio del valore ancor più acuta di quanto non fosse nell’Europa occidentale (dove comunque, come sappiamo dall’analisi marxiana della “cosiddetta accumulazione originaria”, richiese un formidabile impiego di violenza). Quel che va aggiunto è che il problema del-

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la transizione riemerge in ogni momento storico in cui le condizioni della traduzione devono essere ristabilite su nuove basi. La mia tesi è precisamente che il capitalismo globale è contraddistinto dal fatto che il capitale come traduzione è costretto ad affrontare il problema della produzione delle condizioni di possibilità della traduzione al livello stesso del suo operare quotidiano. Accumulazione primitiva e transizione (ciò che Marx definiva la “preistoria del capitale”) sono gli spettri che ritornano a ossessionare il capitale al livello più alto del suo sviluppo storico. Naoki Sakai ha posto brillantemente in evidenza che il concetto di modernità “non può mai essere compreso senza riferirsi alla coppia moderno/premoderno” E ha sottolineato il fatto che questa coppia è strutturalmente legata a una comprensione geopolitica dell’Occidente come spazio della modernità e del non-Occidente come spazio della premodernità. La relazione tra questi due spazi è stata articolata dalla grande narrazione della modernizzazione, che ha assunto la forma di diverse teorie degli “stadi” dello sviluppo storico (cfr. supra, cap. III). Il concetto di Occidente è esso stesso emerso storicamente “nel pieno dell’interazione con l’Altro da sé”, ponendosi come il terreno comune su cui le “differenze” storiche e culturali dovevano essere rese commensurabili. L’universalismo moderno è in effetti impensabile al di fuori di questa continua opera di traduzione: come scrive Sakai, “l’Occidente è in se stesso particolare, ma costituisce anche il punto di riferimento in relazione al quale gli ‘altri’ si riconoscono come particolarità. In questo senso, l’Occidente si pensa nella forma dell’ubiquità” (Sakai 1997, pp. 154 s.). L’impronta coloniale dell’universalismo moderno consiste precisamente in questo movimento di traduzione (cfr. Adamo 2007, pp. 197 s.), e c’è da questo punto di vista una strutturale affinità elettiva tra l’universalismo moderno e il capitale. È importante sottolineare, riprendendo gli sviluppi della critica postcoloniale, che questo movimento di traduzione non ha mai funzionato in modo “liscio”, dato che è stato interrotto, sfidato e continuamente “ibridato” dai molteplici interventi dei soggetti non occidentali. Ma è egualmente necessario non dimenticare l’efficacia dell’“indirizzo omolinguale” dell’Occidente nel suo tentativo di improntare contemporaneamente una topografia del sapere e una geopolitica del potere. L’enfasi posta da Naoki Sakai sulle “rivendicazioni di simmetria ed eguaglianza”, sul “rapporto imitativo con ‘l’Occidente’” che ha caratterizzato attraverso una logica di “co-figurazione” la nascita e la storia del pensiero giapponese moderno (Sakai

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1997, pp. 48 e 68; cfr. anche Sakai 2000b), è una buona esemplificazione di questa efficacia. Al tempo stesso, la sua critica della retorica dei “valori asiatici”, in cui non vede altro che “un semplice rovesciamento del culturalismo eurocentrico” (Sakai 2000a, p. 800), ci ricorda che “l’Occidente” continua a esercitare una grande influenza nel presente globale. Ciò nondimeno, vale la pena di considerare l’ipotesi che il nostro tempo sia caratterizzato dal venire a maturazione della lunga crisi delle strutture di potere che hanno storicamente articolato e incanalato l’“indirizzo omolinguale” occidentale all’interno di uno specifico regime di traduzione. L’instabilità del capitale globale trova qui una delle sue radici più importanti: per metterla ancora una volta in termini molto astratti, ogni atto di traduzione capitalistica è almeno potenzialmente costretto a confrontarsi con il problema di riaffermare le condizioni che rendono quella traduzione possibile. I movimenti e le lotte anticoloniali hanno vittoriosamente sfidato e disarticolato il “metaconfine” che separava il tempo e lo spazio metropolitani da quelli coloniali, costringendo il capitale e l’Occidente stesso a misurarsi con una geografia del potere assai più complessa, postcoloniale (cfr. supra, cap. I). È una geografia attraversata e fratturata da linee di conflitto e da rapporti di potere, da una molteplicità di confini a cui corrispondono grandi squilibri nella distribuzione della ricchezza. Ma la sua crescente complessità rende sempre più difficile interpretarla utilizzando categorie rigide, fisse, di centro e periferia, Nord e Sud del mondo. Modernità non è più sinonimo di Occidente, e la sconfitta dell’unilateralismo statunitense in Iraq dovrebbe pur suggerire qualcosa a proposito della crisi del tradizionale “imperialismo”. Il capitale globale stesso non è più necessariamente occidentale nella sua composizione. Ma quel che rimane potente, e ancora richiede di essere provincializzato e disarticolato, è sicuramente l’Occidente (non solo l’Europa) come “figura immaginaria” (Chakrabarty 2000, p. 16) che continua a indirizzare la propria interpellazione ai soggetti che abitano il presente globale. A me pare che questa persistente influenza dell’Occidente come “figura immaginaria” sia elemento costitutivo del durevole dominio del capitale su scala mondiale. È precisamente la profonda affinità tra l’“indirizzo omolinguale” dell’Occidente e il regime di traduzione attraverso cui opera il capitale ciò che garantisce la riproduzione di quella “figura immaginaria” ben al di là della retorica dello “scontro di civiltà” e della “guerra al terrore”. Concordo con Naoki Sakai e Jon Solomon sul fatto che, in queste condizioni, “la critica dell’euro-

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centrismo tende a divenire una buona retorica per le elite, la cui soggettività si forma in parte in una competizione con ‘l’Occidente’ resa possibile dall’accumulazione (di classe) di valore prodotto dal lavoro di coloro che sono socialmente sottoposti a quelle stese elite” (Sakai, Solomon 2006, p. 21). Non è questa la via che mi interessa seguire. In qualche modo penso che si debba accettare il pieno dispiegamento della logica del capitale, che si debba perfino accettare – per metterla in termini provocatori – il divenire mondo dell’Occidente sotto il dominio del capitale, che si debbano cartografare con scrupolosa attenzione i nuovi antagonismi che segnano questo processo. E che si debba muovere in direzione della ricerca di un nuovo regime di traduzione, capace di interrompere e disarticolare l’“indirizzo omolinguale” del capitale e di aprire nuovi spazi di libertà e uguaglianza. Spazi in cui un nuovo mondo possa essere inventato: un mondo al di là di the West e al di là di the Rest.

3. Tempo e spazio del capitalismo globale

Tempo e spazio sono stati al centro del dibattito sulla globalizzazione fin dal suo inizio. L’immagine della “compressione spazio-temporale”, originariamente proposta da David Harvey (1989), è diventata una sorta di luogo comune nella letteratura contemporanea sull’argomento. Ritengo che sia necessario andare oltre questo luogo comune e assumere come oggetto di ricerca trasformazioni molto più profonde nell’articolazione di spazio e tempo, che sembrano prefigurare modalità di esperienza politica, economica, sociale e culturale assai diverse da quella associata al “cronotopo”, per riprendere un’espressione di Michail Bachtin, che ha caratterizzato la modernità. Per dirla nei termini più semplici possibili: la figura retorica della “compressione spazio-temporale” sembra assumere come scontata l’unità di tempo e spazio, e tende quindi a produrre un’immagine della dimensione globale contemporanea che paradossalmente finisce per risultare una sorta di specchio del modo in cui spazio e tempo sono immaginati dal capitale: ovvero, come dimensioni “lisce”, “omogenee e vuote”, mere coordinate dei processi di accumulazione. E soprattutto non affronta il problema cruciale della produzione di queste dimensioni e di queste coordinate. Qualcosa di simile può essere detto anche a proposito dell’uso dell’immagine dei “flussi” per descrivere il paesaggio dell’età globale: come Anna Tsing ha efficacemente posto in evidenza, anche que-

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sta immagine conduce troppo spesso a ignorare “la cesellatura dei canali e la continua ridefinizione delle mappe e delle possibilità della geografia” che rendono questi flussi possibili (Tsing 2000, p. 327; ma si veda anche Ferguson 2006, p. 47), limitando, bloccando e “addomesticando” altri flussi (in modo particolare i movimenti dei e delle migranti). Mentre l’immagine dei flussi tende a circoscrivere l’analisi della condizione globale al livello della circolazione, ciò di cui vi è urgente necessità è una volta di più una critica dei rapporti di produzione che sono celati al disotto della “superficie” della circolazione, per usare la metafora suggerita da Marx: ma dobbiamo al tempo stesso essere consapevoli del fatto che questi rapporti di produzione non hanno a che fare soltanto con i rapporti di lavoro intesi in senso tradizionale, riferendosi piuttosto più in generale al “processo di ‘fabbricazione’ degli oggetti e dei soggetti che circolano, dei canali della circolazione e degli elementi di contorno, ‘paesaggistici’, che delimitano e danno forma a questi canali” (Tsing 2000, p. 337). Guardiamo alle trasformazioni dello spazio da un punto di vista politico, riprendendo e sviluppando alcuni elementi analitici proposti nel precedente capitolo. Sovranità e diritto, si è visto, sono stati in età moderna i due criteri fondamentali di definizione di uno spazio politico nell’esperienza europea (Galli 2001): un territorio era definito nella sua unità come ambito geografico di validità di una particolare sovranità statale e di un particolare ordinamento giuridico (nazionale). Oggi, mentre assistiamo all’emergere di un diritto globale “centrato su una molteplicità di regimi globali ma parziali che rispondono ai bisogni di settori specializzati”, la sovranità “rimane una proprietà sistemica, ma la sua localizzazione istituzionale e la sua capacità di legittimare e assorbire tutto il potere, di essere la fonte del diritto, sono divenute instabili” (Sassen 2006, pp. 242 e 415). A me pare che l’immagine di una “costituzione mista” dell’Impero, proposta da Hardt e Negri (2000, parte III, cap. 5), sia particolarmente efficace nel rendere conto della situazione che emerge da queste complesse trasformazioni. Ma dobbiamo sempre ricordare che questa immagine – al pari del resto dello stesso concetto di Impero – va utilizzata a partire da un’accentuata consapevolezza della sua natura tendenziale, e non come un’immagine capace di riflettere un modello fisso, già pienamente dispiegato. Questo significa prendere seriamente in considerazione, come elemento che definisce il concetto stesso e non come occasionale “perturbazione”, la possibilità che su ogni livello di articolazione della “costituzione mista” si producano scontri e conflitti. E al tempo stesso conduce a considerare la stessa

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produzione dello spazio che corrisponde alla “costituzione mista” come un processo dinamico e costantemente in evoluzione. Da questo punto di vista, un concetto che trovo particolarmente rilevante e produttivo è quello di “spazi laterali”, o “latitudini”, proposto da Aihwa Ong proprio nel contesto di una discussione critica di alcune tesi di Impero. Anche se, a mio parere, Ong tende a semplificare eccessivamente l’argomentazione di Hardt e Negri, il concetto di “latitudini” può essere di grande utilità per approfondire l’analisi delle trasformazioni che stanno ridefinendo la geografia politica ed economica sotto il segno del capitale globale. In buona sostanza, Ong sottolinea il fatto che l’espansione su scala planetaria dei mercati non corrisponde a una omogeneizzazione delle modalità di controllo sul lavoro e delle forme di organizzazione del lavoro stesso. Piuttosto, siamo di fronte all’emergere di “spazi striati di produzione, che combinano differenti tipi di regime lavorativo” e, contrariamente all’idea di una transizione lineare da forme disciplinari a modalità regolative di controllo, “le reti contemporanee di produzione si distendono su modi carcerari di disciplina lavorativa” (Ong 2006, pp. 121 e 124). Mentre l’unità stessa degli spazi nazionali nel Sudest asiatico e in Cina è disarticolata dall’operare del “neoliberalismo come eccezione” e da vere e proprie zoning technologies che aprono e delimitano gli spazi in cui “la norma del calcolo mercantile viene introdotta nella gestione delle popolazioni” (ivi, p. 3), spazi laterali ed enclave riproducono su una scala transnazionale condizioni di segregazione del lavoro che tendono a essere etnicizzate. Questo concetto di “latitudini”, che sarebbe opportuno accostare all’analisi delle “enclave minerarie” in Africa recentemente proposta da James Ferguson (2006, pp. 13 s., 34-38 e 194-210), consente di precisare l’immagine dell’eterogeneità dello spazio globale del capitalismo. Ma al tempo stesso dà un’idea della struttura complessa del tempo globale: ricostruendo l’architettura delle reti di produzione di sistemi elettronici gestite da manager asiatici, che “esibisce una peculiare compenetrazione di alta tecnologia e di tecniche etnicizzate di vera e propria incarcerazione del lavoro”, Ong osserva che “la distensione geografica delle economie di rete è spesso accompagnata a una sorta di distensione temporale, da quel che appare una regressione a ‘più antiche’ forme di disciplinamento del lavoro, la cui epitome è costituita dallo sweatshop ad alta tecnologia” (Ong 2006, p. 125). È un problema che possiamo tentare di affrontare utilizzando la distinzione marxiana, più volte richiamata nei capitoli precedenti, tra

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“sussunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”, a cui corrisponde quella tra “plusvalore assoluto” e “plusvalore relativo”. Cruciale, in questa distinzione, è precisamente un problema di diversi tempi storici: non nel senso, come spesso si tende a mio giudizio erroneamente a pensare, che le due modalità di “sussunzione” si limiterebbero a definire due diversi “stadi” nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, ma piuttosto nel senso che esse si riferiscono a due diverse modalità di rapporto del capitale con il tempo. Mentre la sussunzione reale indica una situazione in cui il capitale stesso organizza direttamente le modalità di lavoro e di cooperazione, producendo una sorta di sincronia tra il tempo dell’accumulazione capitalistica e il tempo della produzione, la sussunzione formale si riferisce a una diversa situazione: a una situazione cioè in cui il capitale incontra (Marx usa il verbo vorfinden) forme di organizzazione e disciplinamento del lavoro “già esistenti” (Marx 1857-58, vol. II, p. 136, c.n.); e si limita a incorporarle (e a sfruttarle) nel suo processo di sviluppo. La sussunzione formale indica dunque una situazione in cui una specifica sconnessione temporale si inscrive nella struttura stessa del capitale. Lungi dall’essere un residuo del passato, la sussunzione formale si riproduce e interseca la sussunzione reale nel tempo del capitale globale. Inoltre, come mostra l’esempio della produzione di sistemi elettronici proposto da Ong, la distinzione tra sussunzione formale e sussunzione reale non può essere assunta come criterio attorno a cui organizzare un tentativo di cartografare la geografia del capitale globale, come se fosse possibile porre il “Nord globale” come spazio della sussunzione reale e il “Sud globale” come spazio della sussunzione formale. Una volta di più, il problema che si presenta è quello di rendere conto dell’articolazione tra le due diverse forme di sussunzione, della loro traduzione nel linguaggio unitario del valore. Più in generale, è proprio la radicale eterogeneità del tempo e dello spazio globali che rende articolazione e traduzione momenti strategici nel concetto stesso di capitale globale, una volta che si interpreti questo concetto come epitome della determinazione capitalistica del mondo in cui viviamo. A me pare che uno degli operatori logici fondamentali di articolazione e traduzione possa essere identificato nel confine. In vari scritti, Étienne Balibar ha sostenuto che il confine, lungi dall’essere un elemento marginale, tende oggi a inscriversi al centro della nostra esperienza politica, sociale e culturale. L’Europa stessa, secondo Balibar, si sta trasformando in un borderland, in una “terra di frontiera” (Balibar 2005; cfr. Balibar, Mezzadra

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2006). Ma quel che occorre aggiungere è che oggi i confini sono investiti da profondissime trasformazioni, da trasformazioni che ridefiniscono il concetto stesso di confine. Riprendendo un’ampia letteratura sul tema (cfr. Mezzadra 2006, parte II, cap. 4; Rigo 2007; Cuttitta 2007), si può affermare che i confini stanno diventando mobili senza cessare di produrre meccanismi di chiusura anche estremamente rigidi, tendono a “deterritorializzarsi” senza cessare di investire luoghi determinati. Come già si è visto nei due precedenti capitoli, l’esperienza europea è particolarmente significativa da questo punto di vista. Se si considerano congiuntamente il cosiddetto processo di allargamento e il nuovo regime di controllo delle migrazioni che sta emergendo a livello di Unione europea, la mobilità dei confini può essere analizzata sia considerandoli dispositivi strategici nel determinare l’articolazione dello spazio europeo con gli spazi adiacenti (nonché la traduzione del diritto europeo all’interno di altri ordinamenti), sia considerandoli vere e proprie tecniche biopolitiche (nel senso che si è visto in Walters 2002): tecniche che, possiamo aggiungere ora, iscrivono all’interno della cittadinanza europea “spazi laterali” attorno a cui possono essere riorganizzati i mercati del lavoro. Enrica Rigo ha mostrato efficacemente come in Europa stiano emergendo nuove gerarchie al livello stesso della regolazione giuridica, e come esse stiano disarticolando la tradizionale omogeneità formale della cittadinanza moderna. E mentre queste nuove gerarchie stanno penetrando nella struttura dei mercati del lavoro, tracciando veri e propri “confini di produzione” (Rigo 2007, pp. 191-197), si vanno definendo anche una serie di “confini temporali”, come risultato della varie “sale d’attesa” apprestate per i migranti sia sulle rotte da essi seguite nel viaggio verso l’Europa sia all’interno dello spazio europeo: la condizione giuridica dei migranti finisce per essere regolata “secondo una transitorietà destinata, però, a protrarsi indefinitamente” (ivi, p. 214). A me pare che valga la pena di collegare questo concetto di “confini temporali”, di cui si è vista in precedenza la rilevanza all’interno del moderno progetto coloniale europeo e occidentale (cfr. supra, in specie cap. II), con i problemi determinati dall’articolazione tra “sussunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”, e di assumere i “confini temporali” come dispositivi cruciali nel produrre le necessarie giunture tra diversi tipi di regimi e di disciplinamento del lavoro, che sembrano in effetti appartenere a diversi tempi storici. Se torniamo alla categoria di “latitudini” da questo punto di vista, possiamo affermare che esse sono costituite e delimitate da

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una complessa serie di confini: confini “geopolitici” che articolano il loro carattere transnazionale, confini giuridici che limitano la mobilità e i diritti dei migranti, confini di produzione, confini temporali che separano diversi tempi storici rendendo al tempo stesso possibile la loro traduzione nel linguaggio unitario del valore. E se questi confini giocano un ruolo essenziale in quello che Achille Mbembe (2000, p. 260) ha definito l’“addomesticamento del tempo mondiale” dal punto di vista del capitale, dobbiamo tuttavia considerarli come costantemente in via di ridefinizione, dato che sono costretti a fare i conti con una serie di pratiche, comportamenti e immaginari soggettivi che pongono sfide radicali alla loro tenuta. Sono queste sfide a rendere i confini stessi rapporti sociali, attraversati e fratturati dalle molteplici tensioni tra processi di “rafforzamento” e di “attraversamento ” (Vila 2000): i movimenti e le lotte che si sviluppano attorno a essi, in particolare movimenti e lotte che coinvolgono le questioni della migrazione e della mobilità, rivestono in questo senso un’importanza fondamentale per ogni tentativo di pensare diverse modalità di “addomesticamento del tempo mondiale”, diversi tipi di articolazione e traduzione capaci di porre radicalmente in discussione il dominio del capitale (cfr. Mezzadra 2006).

4. Lavoro vivo in transizione

Movimenti migratori e pratiche di mobilità sono del resto elementi decisivi nell’insieme delle trasformazioni che stanno ridefinendo la composizione del lavoro vivo. Uso evidentemente il concetto di “composizione” ricollegandomi agli sviluppi dell’operaismo italiano a partire dagli anni Sessanta del Novecento. Ma al tempo stesso il riferimento al “lavoro vivo” tiene conto delle considerazioni su questo concetto marxiano svolte da Dipesh Chakrabarty in un capitolo di Provincializzare l’Europa, su cui mi sono già soffermato in precedenza (cfr. supra, cap. III). Chakrabarty propone in realtà un punto di vista molto originale sul problema classico del rapporto tra “lavoro astratto” e “lavoro concreto”, in qualche modo sostituendo quest’ultimo concetto con quello di “lavoro vivo”, utilizzato da Marx in particolare nei Grundrisse. Il punto cruciale, scrive infatti Chakrabarty, “è che il lavoro che viene reso astratto nel processo di ricerca, da parte del capitale, di una misura comune per l’attività umana è lavoro vivo” (Chakrabarty 2000, p. 88). Il processo stesso di astrazione del lavoro vivo dalla molteplicità di differenze che costituiscono la “vita”

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è inteso da Chakrabarty come un processo di traduzione (ivi, p. 102): un processo di traduzione che è al tempo stesso un rapporto sociale profondamente antagonistico. Disciplina, violenza e “dispotismo” sono le modalità essenziali attraverso cui il capitale si indirizza al lavoro vivo nel suo tentativo di tradurlo nel codice del lavoro astratto. Per essere più precisi: sono queste le modalità essenziali che definiscono il rapporto del capitale con il lavoro vivo in particolare nei processi di transizione, quando la norma del lavoro astratto – ovvero, “la chiave interpretativa della griglia con cui il capitale ci chiede di osservare il mondo” (ivi, p. 82) – deve essere imposta a fronte della radicale eterogeneità della “vita”. Uno dei problemi più rilevanti posti dalla transizione al capitalismo è la costituzione politica e giuridica del mercato del lavoro. Per rendere possibile l’esistenza stessa del mercato del lavoro, deve essere prodotta una merce assolutamente particolare, ovvero la “forza lavoro”, un concetto pienamente sviluppato da Marx soltanto nel Capitale. È a mio giudizio necessario introdurre questo concetto per sviluppare ulteriormente l’analisi proposta da Chakrabarty del rapporto tra lavoro astratto e lavoro vivo. Come è stato sottolineato da Paolo Virno (1999, pp. 121-130), il concetto di forza lavoro si riferisce esso stesso direttamente alla vita, considerato il fatto che esso è definito da Marx come “l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente di un uomo” (Marx 1867, pp. 201 s.). Ciò che rende particolarmente importante nel contesto del nostro discorso questa definizione è che essa fa emergere il processo necessario di separazione (di astrazione) di queste “attitudini” dal loro “contenitore” (la “corporeità”, la “personalità vivente di un uomo”) che logicamente precede il rapporto capitalistico di produzione, costituendone la condizione di possibilità. Questo processo di separazione è la produzione della forza lavoro come merce – ovvero la produzione di specifici soggetti costretti a vendere la loro forza lavoro per riprodursi. È questo il problema fondamentale che Marx analizza nello scenario della “cosiddetta accumulazione originaria” (cfr. infra, Appendice). Da una serie di ricerche storiche recenti, che si sono richiamate nel precedente capitolo, sappiamo che la soluzione non poteva consistere – contrariamente a molte affermazioni dello stesso Marx – nell’affermazione lineare del lavoro salariato “libero” come modalità “normale” di sussunzione del lavoro sotto il capitale: altre forme di “cattura” del lavoro, al contrario, erano (e sono) strutturalmente necessarie per rendere disponibile la forza lavoro come merce. Un alto grado di violenza (una serie di

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pressioni “non pecuniarie” per costringere al lavoro, che vanno dalla schiavitù alla servitù a contratto a specifici status giuridicamente differenziati per i lavoratori e le lavoratrici migranti) è stato e continua a essere necessario per assicurare la continuità dell’accumulazione capitalistica – e la continuità di quel che Marx chiamava l’“incontro” tra capitale e forza lavoro (Marx 1867, p. 202; cfr. Althusser 1982). È questa la ragione fondamentale per cui l’accumulazione originaria non può essere considerata meramente un momento storico: deve piuttosto essere assunta come una sorta di riserva di potenziali “eccezioni” (a quella che Marx chiamava la “silenziosa coazione dei rapporti economici”, 1867, p. 907) che possono essere attivate in ogni fase dello sviluppo capitalistico quando il funzionamento ordinario del mercato del lavoro viene messo in discussione e bloccato. Penso che valga la pena considerare la situazione globale contemporanea da questo punto di vista. La radicale eterogeneità dei regimi di controllo e di organizzazione del lavoro non solo a livello “globale” ma anche su ogni livello “locale”, rapporti di lavoro mobili e flessibili, lo stesso problema di articolare quelli che Ong definisce spazi laterali di produzione con i circuiti globali dell’accumulazione compongono uno scenario in cui il capitale si trova continuamente di fronte alla possibilità del rifiuto da parte del lavoro vivo di sottomettersi alla norma del lavoro astratto. Ed è il caso di aggiungere che questo problema si pone anche quando in gioco è l’esigenza di assicurare quelle condizioni di stabilità di cui necessita il funzionamento dei mercati finanziari globali: anche la vita degli abitanti del “pianeta degli slum” così efficacemente descritto da Mike Davis (2006) è soggetta alla norma del lavoro astratto, indipendentemente dal fatto che la loro forza lavoro resti al di fuori del mercato del lavoro. È proprio la produzione di questa subordinazione del lavoro vivo al lavoro astratto a costituire uno dei problemi cruciali della transizione, non solo nel mondo della produzione ma anche più generalmente come problema di assetto societario complessivo. È per questo che dovremmo prendere seriamente l’idea di un lavoro vivo in transizione. Il fatto stesso che la norma del lavoro astratto non possa essere assunta come scontata e debba essere piuttosto continuamente riaffermata dal capitale lungo l’intero arco delle sue eterogenee catene di valore rende obsoleta l’immagine tradizionale della classe operaia, intesa come soggetto collettivo disciplinato (e reso politico) dal capitale attraverso la sua organizzazione della cooperazione lavorativa. Non si tratta di un’affermazione “sociologica”, e non ne costituisce dunque una smentita il fatto che continuino a esi-

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stere enormi masse operai di fabbrica. Il punto fondamentale risiede piuttosto nel fatto che la costituzione e la composizione del lavoro vivo sono oggi processi aperti, sia dal punto di vista del capitale sia dal punto di vista delle soggettività che costituiscono lo stesso lavoro vivo. Dato che il capitale è costretto a imporre il lavoro astratto come comune misura dell’attività umana, esso ha bisogno di una figura unitaria del lavoro in generale: ma la radicale eterogeneità delle modalità contemporanee di “cattura” del lavoro rende questa rappresentazione capitalistica dell’unità del lavoro problematica, un processo continuo di traduzione assai più che uno stabile presupposto dello sviluppo – un processo di traduzione che si muove senza sosta dalla produzione alla circolazione alla finanza, dove, come si è detto, l’apparenza dello scambio di capitale con capitale non può liberarsi del bisogno di assicurare la continua riproduzione su scala globale di rapporti sociali organizzati attorno alla norma del lavoro astratto. D’altra parte, dal punto di vista di quella che Jason Read chiama la “potenza produttiva della soggettività”, l’eterogeneità del lavoro non corrisponde soltanto a una pluralità di gerarchie che attraversano e fratturano la sua composizione. Esprime anche la molteplicità di facoltà umane, di pratiche di cooperazione che spesso si sviluppano al di fuori del comando diretto del capitale, di “forme di vita” che compongono quella potenza produttiva.

5. Verso una teoria eterolinguale della moltitudine

In questa molteplicità dobbiamo saper riconoscere l’impronta di una storia complessa di lotte e di movimenti del lavoro che hanno disarticolato l’immagine tradizionale della classe operaia e le sue rappresentazioni politiche. È il caso di ribadire che il concetto di moltitudine, introdotto negli ultimi anni all’interno della tradizione dell’operaismo italiano (Hardt, Negri 2000 e 2004; Virno 2004), si propone in primo luogo di cogliere questa “genealogia” complessa del lavoro vivo contemporaneo. Ci sono almeno due fraintendimenti molto diffusi nel dibattito internazionale e italiano che vanno preliminarmente affrontati. In primo luogo, il concetto di moltitudine non punta a opporre il lavoro come molteplicità al capitale come Uno: tenta piuttosto di far emergere la specifica modalità di articolazione tra unità e molteplicità che vive al cuore del concetto di capitale e di aprire uno spazio teorico in cui approfondire la ricerca di un diverso modo di ar-

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ticolazione tra i due elementi, a partire dalla costruzione di un nuovo comune (di un nuovo “Uno”) che possa essere la base di un nuovo regime di cooperazione e di produzione. In secondo luogo, anche se il concetto di moltitudine si pone in modo critico rispetto alle rappresentazioni tradizionali della classe operaia, esso non è una sorta di icona mistica o estetizzante. È – ed è ben possibile che questo aspetto non sia stato sufficientemente sottolineato nella discussione – un concetto di classe. Ciò significa che è un concetto determinato, costruito attorno le variegate ed eterogenee forme di sfruttamento che contraddistinguono il capitalismo contemporaneo ed è, al pari di quello di classe, un concetto parziale e di parte (Mezzadra 2007). Il concetto di moltitudine evidenzia la circostanza che l’eterogeneità della composizione del lavoro vivo corrisponde a una molteplicità di lotte, di pratiche di resistenza e rifiuto che non può essere linearmente unificata e rappresentata da organizzazioni tradizionali come partiti e sindacati. Il problema della comunicabilità e della traducibilità di queste lotte e di queste pratiche necessariamente parziali diventa così il problema politico fondamentale di una teoria della moltitudine. In modo necessariamente schematico, possiamo dire che mentre il capitale pone il suo elemento di unità (il linguaggio del valore) come presupposto del suo “indirizzo omolinguale”, immaginare un processo di soggettivazione politica della moltitudine significa pensare la produzione del comune come una sorta di work in progress, come risultato – in termini di istituzioni, risorse e spazi condivisi – di un movimento capace di reinventare continuamente quella che Étienne Balibar (1992) ha definito égaliberté, l’unità indissolubile di uguaglianza e libertà. Non si tratta di un progetto utopico: mentre sottolinea la necessità di inventare e costruire nuove istituzioni, nuove “reti organizzate” (Rossiter 2006), il concetto di moltitudine fornisce anche un criterio generale che consente di valutare l’azione delle istituzioni tradizionali, che possono essere rese interne al processo di soggettivazione della moltitudine nella misura in cui sono in grado di aprire e di consolidare elementi comuni: “punti nodali che fissano parzialmente il significato”, per tornare a Mouffe e Laclau. Siamo in effetti vicini, da questo punto di vista, all’orizzonte della “democrazia radicale”; ma all’interno di questo orizzonte tentiamo di interpretare (e dunque di mantenere viva) l’eredità fondamentale della critica comunista della democrazia nella misura in cui poniamo al centro del nostro lavoro critico la potenza materiale della moltitudine, la sua capacità, in quanto soggetto parziale e di parte, di produrre il comune.

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Al tempo stesso, se da una parte l’importanza strategica che riconosciamo alle migrazioni e alle pratiche di mobilità nella composizione del lavoro vivo contemporaneo ci conduce a sottolineare di quest’ultima la dimensione globale, il concetto di moltitudine non sfocia in qualche astratta teorizzazione di una nuova democrazia globale. Indica piuttosto la possibilità di “radicare” progetti politici di trasformazione radicale all’interno di spazi determinati, dal livello locale a quello continentale, sviluppando in modo creativo le “possibilità della geografia” a cui allude Anna Tsing e rendendo concreto un nuovo cosmopolitismo. Lungo queste linee di ragionamento, libertà e uguaglianza diventano esse stesse “caselle vuote”, place holders (Chakrabarty 2000, p. 101), luoghi di comunicazione e traduzione il cui contenuto è aperto a una continua trasformazione. E mentre questa importanza essenziale riconosciuta ai concetti di libertà e uguaglianza distingue il progetto della moltitudine da una semplice critica dell’“eurocentrismo”, essi stessi devono essere pensati come “in transizione” – e dunque in traduzione. Libertà ed eguaglianza non sono condizioni trascendentali della politica, non preesistono come “universali”, per riprendere i termini di Judith Butler, a movimenti sociali “particolari”: occorre assumere la possibilità stessa dell’esistenza di nozioni conflittuali di universalità, che richiedono una pratica di traduzione piuttosto diversa da quella implicita nel concetto tradizionale di egemonia (Butler 2000, pp. 162-169; ma si veda anche Balibar 2006). Libertà e uguaglianza finiscono così per porsi, nel senso attribuito al termine da Jacques Derrida, come tracce, come negazione potenziale del dominio e dello sfruttamento: sono i movimenti e le lotte contro di essi, i processi di costituzione soggettiva a cui danno luogo, a rendere attuale questa negazione potenziale. Il concetto di moltitudine tenta di cogliere l’eterogeneità di queste lotte e di questi movimenti radicando la loro convergenza in pratiche di cooperazione sociale capaci di produrre un nuovo comune. Dato che il comune non preesiste a questi movimenti e a queste lotte, a queste pratiche di cooperazione, la moltitudine è una “comunità non aggregata di stranieri”: ovvero, come ha scritto Naoki Sakai, “una comunità al cui interno ci rivolgiamo l’uno all’altro attraverso l’attitudine dell’indirizzo eterolinguale” (Sakai 1997, p. 9). Lungi dal preesisterle, anche la lingua di una “comunità non aggregata di stranieri” – il suo comune – emerge soltanto da una comunicazione che assume l’essere straniero di tutte le parti coinvolte come punto di partenza indipendentemente dalla loro “lingua natia”. La

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traduzione è qui la lingua di un soggetto in transito. Radicalmente critico a fronte dell’idea di “una normalità della comunicazione reciproca e trasparente”, ma assumendo piuttosto “che ogni enunciato può fallire sotto il profilo comunicativo perché l’eterogeneità è propria di ogni medium, linguistico o meno”, l’indirizzo eterolinguale chiaramente implica che “la traduzione deve essere infinita”. Esso pone dunque radicalmente in discussione i confini che, attraverso “l’affiliazione nazionale, etnica o linguistica” (ivi, p. 8), definiscono comunità commensurabili come condizioni dell’”indirizzo omolinguale” e del suo ideale trasparente di comunicazione. È l’idea stessa di comunità che abbiamo ereditato dalla storia e dal pensiero moderni, che continua a funzionare come luogo strategico “di accumulazione originaria per la costruzione dei soggetti maggioritari del dominio”, di “corpi dotati di autorità” e di “forme di rapporto regolate secondo i confini apparentemente naturali tra ‘l’individuo’ e il suo corollario, il collettivo”, a risultare così disarticolata e spiazzata (Sakai, Solomon 2006, pp. 20 s.). Lungi dall’essere limitata al compito, comunque fondamentale, di immaginare nuove forme di pratica teorica transnazionale negli studi culturali e postcoloniali, questa critica dell’idea di comunità che sostiene il regime omolinguale di traduzione ci aiuta a problematizzare ogni concetto semplice del “Noi” a cui ci riferiamo nelle nostre pratiche politiche. Ma al tempo stesso conduce a intensificare la ricerca di un nuovo terreno comune capace di rendere la vita sociale più ricca, più libera e uguale. Come scrive Meaghan Morris, l’impostazione di Naoki Sakai “muove dalla domanda su che cosa effettivamente accada in ogni sforzo di traduzione, piuttosto che cominciare con un ideale presupposto o un racconto già accettato di come sarebbe o dovrebbe essere un mondo senza il bisogno della traduzione – senza la ‘polvere’ creata dalla differenza linguistica e dalla materialità testuale, senza faglie di incommensurabilità e senza il deposito dell’incomprensione, in breve un mondo senza linguaggio” (Morris 1997, pp. XIII s.). Possiamo rispondere in modo piuttosto semplice: quel che accade in uno sforzo di traduzione “eterolinguale” è che una nuova condizione comune viene prodotta precisamente nello stesso momento in cui dall’incommensurabilità emerge la differenza. Mi pare un buon modo di descrivere il tipo di comune che abbiamo in mente quando parliamo delle eterogenee lotte e pratiche sociali che costituiscono la moltitudine.

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Attualità della preistoria Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, “La cosiddetta accumulazione originaria”

For why should he that is at libertie make himself bond? Sith then we are free borne, Let us all servile base subjection scorne. E. SPENSER, Complaints: Mother Hubbard’s Tale (1591) I primi capitalisti sono come degli uccelli da preda che aspettano. Aspettano di incontrare il lavoratore, che arriva attraverso le fughe del sistema precedente. Questo è anche il senso preciso di ciò che chiamiamo accumulazione primitiva. G. DELEUZE, Sul capitalismo e il desiderio (1973)

1. L’accumulazione originaria, oggi

Il capitolo sull’accumulazione originaria del primo libro del Capitale, il testo fondamentale su cui qui ci concentreremo, ci conduce a ritroso nel tempo, verso l’Inghilterra dei primi secoli moderni. L’oggetto del capitolo è, secondo l’espressione usata dallo stesso Marx, la “preistoria” del modo capitalistico di produzione (K, I, p. 881) *. Siamo dunque di fronte a un testo (e a un tema) di interesse puramente storico, “antiquario”? Così non è, e le pagine marxiane sull’accumulazione originaria sono state negli ultimi anni lette a più riprese, e in diversi contesti, co*

Abbreviazioni dei testi marxiani citati: Furti di legna = K. MARX, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna (1842), in ID., Scritti politici giovanili, Einaudi, Torino 1975. Miseria della filosofia = K. MARX, Miseria della filosofia. Risposta alla “Filosofia della miseria” del signor Proudhon (1847), Editori Riuniti, Roma 1993. G = K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (18571858), 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1978. TüM = K. MARX, Storia delle teorie economiche (1861-1863), 3 voll., Einaudi, Torino 1954. Salario, prezzo, profitto = K. MARX, Salario, prezzo, profitto (1865), Editori Riuniti, Roma 1977. K, I = K. MARX, Il capitale, libro primo (1867), Einaudi, Torino 1975. MEW = K. MARX, F. ENGELS, Werke, 39 Bde. und 2 Erg.Bde., Dietz, Berlin 1958-71.

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me un contributo decisivo alla critica del presente. Nell’autunno del 1990, in particolare, usciva un numero della rivista statunitense “Midnight Notes” (il 10) significativamente intitolato New Enclosures. Mentre imperversavano le retoriche “idilliache” (nel senso utilizzato da Marx nel capitolo 24) del “nuovo ordine mondiale”, i compagni di “Midnight Notes” proponevano l’attualità di alcuni concetti e di alcuni temi tratti dal capitolo del Capitale sull’accumulazione originaria (in particolare quello delle “recinzioni”) per interpretare criticamente la grande trasformazione del modo di produzione capitalistico in atto dalla metà degli anni Settanta. Leggiamo qualche passo dall’editoriale del numero: oggi, ancora una volta, le recinzioni sono il denominatore comune dell’esperienza proletaria a livello globale. Nella più grande diaspora del secolo, in ogni continente milioni di donne e uomini vengono sradicati dalle loro terre, dai loro lavori, dalle loro case da guerre, carestie, epidemie e svalutazioni disposte dal Fondo Monetario Internazionale (i quattro cavalieri dell’Apocalisse moderna) e vengono dispersi ai quattro angoli del pianeta. [...] Le Nuove Recinzioni sono il nome della riorganizzazione su larga scala dell’accumulazione avviata a partire dalla metà degli anni Settanta. L’obiettivo fondamentale di questo processo è consistito nello sradicare i lavoratori e le lavoratrici dal terreno su cui erano stati costruiti il loro potere e la loro organizzazione, in modo che, come gli schiavi africani trapiantati in America, essi fossero costretti a lavorare e lottare in un ambiente estraneo, dove le forme di resistenza possibili a casa non sono più disponibili. Ancora una volta dunque, come all’alba del capitalismo, la fisionomia del proletariato mondiale è quella dell’indigente, del vagabondo, del criminale, del mendicante, del venditore ambulante, del rifugiato che lavora in uno sweatshop, del mercenario, del povero (ivi, pp. 1 e 3).

Due punti in particolare vanno valorizzati nell’analisi proposta dal collettivo editoriale di “Midnight Notes”. Il primo consiste nel fatto che il processo descritto (recinzioni, espropriazione, etc.) non riguarda soltanto il “Sud del mondo”, ma investe lo spazio globale del capitalismo contemporaneo, ridisegnandone continuamente la geografia (le diverse forme da esso assunte sono definite “aspetti di un singolo processo unitario: le Nuove Recinzioni, che devono operare in modi diversi, discreti, anche se sono totalmente interdipendenti”): secondo la logica dell’accumulazione capitalistica in questa fase, per ogni fabbrica che viene privatizzata in una zona di libero commercio in Cina e venduta a una banca commerciale di New York, o per ogni acro di terra recintato da un progetto di sviluppo della Banca mondiale in Africa o in Africa come parte di un piano di aggiustamento strutturale presentato con

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lo slogan “un debito per l’equità”, una recinzione corrispondente deve determinarsi negli Stati uniti e in Europa occidentale (p. 2).

Il secondo punto riguarda il rilievo strategico che oggi, così come nelle condizioni dell’accumulazione originaria descritte da Marx, assume la questione della mobilità, da leggere sullo sfondo del grande problema della produzione della merce forza lavoro – e dunque della costituzione politica (in cui è sempre implicata la violenza) del mercato del lavoro. Leggiamo un ultimo passo dell’editoriale del numero 10 di “Midnight Notes”: “le Nuove Recinzioni fanno del lavoro mobile e migrante la forma dominante di lavoro. Siamo oggi la forza lavoro più mobile dall’avvento del capitalismo” (p. 4). Gli esempi dell’attualità delle condizioni dell’accumulazione originaria potrebbero essere moltiplicati a piacere, guardando a quanto avviene nelle campagne del “Sud” del mondo, allo scontro tra nuove recinzioni e continua riappropriazione di spazi “comuni” all’interno delle reti informatiche, al tentativo di governo delle migrazioni globali e ai molteplici dispositivi predisposti dalle grandi corporation per costringere i lavoratori e le lavoratrici “cognitivi” a vendere la propria forza lavoro. Voglio ricordare un unico esempio ulteriore, per introdurre un testo di cui tornerò a parlare in conclusione. Anna Lowenhaupt Tsing, un’antropologa che insegna alla University of California di Santa Cruz, ha recentemente pubblicato un volume estremamente suggestivo sull’insieme dei conflitti determinati dal tentativo effettuato nel corso degli anni Novanta del Novecento da grandi corporation giapponesi di aprire (sia posto in corsivo questo verbo, ricordando le parole di Rosa Luxemburg: “il capitalismo nasce e si sviluppa storicamente in un ambiente sociale non-capitalistico. [...] All’interno di quest’ambiente, il processo di accumulazione del capitale si apre una strada”, Luxemburg 1913, p. 363) al mercato capitalistico del legname le grandi foreste pluviali indonesiane (Tsing 2005). Ritroviamo molti dei processi di attacco ai diritti “comuni” sulla terra in nome del diritto privato di proprietà descritte da Marx nel capitolo 24 del primo libro del Capitale – in primo luogo le enclosures. Ma dall’analisi di Tsing deriviamo intanto un’ulteriore indicazione concettuale: l’accumulazione originaria istituisce negli spazi che investe condizioni di frontiera – di una frontiera che si pone al tempo stesso come frontiera selvaggia (savage) nella misura in cui la sua prima legge è quella della violenza, e come frontiera “di salvataggio” (salvage frontier) nella misura in cui la distruzione delle condizioni sociali “tradizionali” finisce per presentare il capitalismo (specifici

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capitalisti) come gli unici agenti possibili di uno sviluppo dai caratteri di emergenza (ivi, pp. 27 ss.). 2. Questioni di metodo

Ragioniamo dunque, attraverso la problematica dell’accumulazione originaria, sui primi secoli dell’età moderna e sul presente. Dobbiamo valorizzare questo cortocircuito temporale, che dice molto sulla concezione marxiana della storia – o comunque su una concezione della storia che possiamo costruire oggi a partire dalle pagine marxiane. È d’altro canto un cortocircuito connaturato al “metodo” marxiano della Darstellung, ben illustrato a rovescio (rispetto al problema che qui ci occupa) da una nota boutade tratta dalla cosiddetta Introduzione del ’57: “l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia” (G, I, p. 33). Come è noto, il problema metodologico fondamentale della critica marxiana dell’economia politica è quello della dialettica di astratto e concreto (cfr. Il’enkov 1960), che conduce a formulazioni tra le più impegnative “filosoficamente” di Marx (“il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, cioè unità del molteplice”, G, I, p. 27) e in generale – è il punto che qui maggiormente ci interessa – a tenere continuamente aperto, ad assumere come intrinsecamente problematico il rapporto tra ordine logico e ordine storico dell’esposizione (cfr. Janoska et alii 1994). Si tratta – proprio l’Introduzione del ’57 lo afferma con forza – di un problema metodologico storicamente determinato, imposto cioè dalle caratteristiche fondamentali (uniche) del modo di produzione capitalistico. Al fondo, nell’Introduzione del ’57 (e in particolare nel suo § 3, “Il metodo dell’economia politica”), Marx lavora alla ricerca di un metodo capace di venire a capo della natura di “totalità storicamente determinata” dell’economia politica, di illuminare criticamente le “condizioni del sorgere delle astrazioni concettuali” su cui si costruisce il discorso degli economisti non semplicemente riconducendole a “concreti” processi storici, ma assumendo piuttosto come principio regolatore il riconoscimento della potenza sociale delle “astrazioni reali” (capitale, valore, denaro, etc.) nella trama dei rapporti che costituiscono il modo di produzione capitalistico. Il capitolo 24 del Capitale, concentrandosi sull’origine (Ursprung) del modo di produzione capitalistico, si propone dunque di studiare le condizioni in cui, “per la prima volta”, un insieme di “astrazioni

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reali” si “incarnano” nella storia, divengono potenze reali e finiscono, mi si consenta di giocare con il lessico kantiano, per determinare le condizioni a priori della stessa esperienza sociale. Ma è precisamente questo cortocircuito tra astratto e concreto che deve ripetersi ogni giorno, lo ha mostrato in modo particolarmente chiaro Dipesh Chakrabarty nella sua analisi del rapporto tra “lavoro astratto” e “lavoro vivo” in Marx (Chakrabarty 2000, cap. 2), perché il modo di produzione capitalistico continui a esistere e a riprodursi: “l’accumulazione”, scrive del resto Marx, “rappresenta semplicemente come processo continuo ciò che nell’accumulazione primitiva appare come un processo storico particolare” (TüM, III, p. 295; si veda sul punto Rosdolsky 1968, pp. 327-329). Ogni giorno, dunque, deve logicamente ripetersi quanto accadde “per la prima volta” all’origine della storia del capitalismo: è questo apparente paradosso che impedisce di considerare come meramente lineare e progressivo (“omogeneo e vuoto”, secondo i termini utilizzati da Benjamin nella sua critica dello storicismo) il tempo storico caratteristico del modo di produzione capitalistico. E che propone piuttosto – accanto all’attualità dell’origine – il grande tema chiaramente formulato per la prima volta da Balibar nel suo contributo a Leggere il Capitale (1965) e poi ripreso negli ultimi quindici – vent’anni da una parte consistente della critica postcoloniale (cfr. l’introduzione alla nuova edizione in Young 1990): la sconnessione, particolarmente evidente proprio studiando la transizione al capitalismo nelle condizioni coloniali, nella struttura della temporalità propria delle società capitalistiche tra quelle che egli definiva la loro diacronia e la loro dinamica (Balibar 1965, p. 324), ovvero il grande problema teorico dell’“inserzione dei diversi tempi gli uni negli altri” (ivi, p. 317). La “contemporaneità del non contemporaneo”, nei termini di Ernst Bloch. Lo stesso Balibar, nella sua analisi delle pagine marxiane sull’accumulazione originaria, parlava di “una genealogia degli elementi che costituiscono la struttura del modo di produzione capitalistico” (ivi, p. 300). Mi pare sia possibile riprendere questo riferimento alla “genealogia” per complicare ulteriormente il discorso sul metodo di Marx, e per determinarlo ulteriormente a proposito della specifica analisi che ci occupa. Ursprüngliche Akkumulation, a volte tradotto con “accumulazione primitiva” (e in inglese, ad esempio, sempre reso con primitive accumulation), vale propriamente “accumulazione originaria”. L’aggettivo deriva dal sostantivo tedesco Ursprung – appunto “origine” – e possiamo ben dire che nell’uso marxiano ricom-

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prende in sé le valenze, su cui ha scritto pagine fondamentali Michel Foucault, che nella genealogia nietzscheana saranno attribuite a termini come Entstehung ed Herkunft. Dicevamo precedentemente, nei termini della seconda delle nietzscheane Considerazioni inattuali, che l’interesse marxiano per la storia (per la “preistoria”) del modo di produzione capitalistico nulla ha di “antiquario”. Marx, come Nietzsche, guarda con disprezzo a “una storia che avrebbe la funzione di raccogliere, in una totalità rinchiusa in sé, la diversità infine ridotta dal tempo; una storia che ci permetterebbe di riconoscerci dovunque e di dare a tutte le trasformazioni del passato la forma della riconciliazione: una storia che getterebbe dietro di sé uno sguardo da fine del mondo” (Foucault 1971, p. 42). Ferma restando la specificità del metodo marxiano, non sarà dunque fuori luogo dire della funzione dell’origine nel capitolo 24 quanto Foucault dice della funzione dell’emergenza (Entstehung) in Nietzsche: essa consente di rappresentare “l’entrata in scena delle forze, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul teatro, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è propria” (ivi, p. 39). E d’altronde per definire queste “forze”, i protagonisti del dramma che costituisce la trama storica del modo di produzione capitalistico, ovvero il compratore e il venditore di forza lavoro, Marx utilizza notoriamente un concetto di derivazione teatrale, che già Hobbes (nel cap. XVI del Leviatano) aveva caricato di valenze politiche: quello di Charaktermaske, originariamente la maschera indossata dall’attore sulla scena per impersonare il proprio ruolo (cfr. Haug 1995). 3. Per la critica dell’economia classica (e “volgare”)

Abbiamo fin qui visto, sia pure in modo un po’ obliquo, tre grandi questioni che possiamo leggere in una luce particolare attraverso il capitolo 24 del Capitale: questioni kantiane, potremmo dire ancora celiando, nella misura in cui investono le dimensioni dello spazio e del tempo del capitalismo. Ma ogni formalismo è qui escluso dalla rilevanza strategica che assume su entrambe le dimensioni, nell’analisi svolta da Marx, il problema della produzione della merce forza lavoro: una produzione che incide i corpi e modifica le anime, una produzione che investe e stravolge – in modo assolutamente concreto e determinato – il terreno stesso della vita. Mi si consenta tuttavia un’altra considerazione per dir così preliminare. Quello di accumulazione originaria, in Marx, non è un con-

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cetto. Fin dal titolo (“La cosiddetta accumulazione originaria”), il capitolo si muove sul filo di una tagliente ironia (un “registro” stilistico molto caro a Marx), rafforzata dal riferimento “teologico” al peccato originale: nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come un aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una elite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare (K, I, p. 879).

Naturalmente il riferimento “teologico” va al di là dell’ironia. Che cos’altro c’è al centro del Genesi se non il problema della spiegazione e della legittimazione della maledizione del lavoro? Ma l’ironia è forte, e segnala l’intento polemico del ragionamento svolto da Marx nel capitolo 24, la critica radicale dell’economia politica classica (e in questo caso, prima di tutto, di Adam Smith e della sua analisi della “previous accumulation of stock”): quest’ultima, come risolve la trama delle relazioni economiche sul piano giuridico-formale (“di superficie”) dell’equivalenza, racconta con toni “idilliaci” le origini del modo di produzione capitalistico (fondamentali, sulla critica marxiana dell’economia classica e dell’economia “volgare”, sono ora le considerazioni di Zanini 2006, in specie pp. 139-148; specificamente sul tema dell’accumulazione originaria nell’economia classica, cfr. Perelman 2000). La realtà dello sfruttamento (della sua origine storica e del suo statuto concettuale) è l’“arcano” velato dall’economia classica: in queste pagine, secondo il metodo della Darstellung e, lo ripetiamo, con un’anticipazione potente del metodo genealogico, l’indagine della sua origine svela qualcosa di essenziale sul suo stesso statuto concettuale. Al centro dell’analisi marxiana dell’“accumulazione originaria” non è dunque, contrariamente a quel che accade nell’economia classica, “una precedente concentrazione di una provvista di merci come capitale nelle mani del compratore di lavoro” (TüM, III, p. 292), ma la violenta produzione (nonché l’“originaria” accumulazione) delle condizioni di possibilità del rapporto capitalistico di produzione, dell’“incontro” (K, I, p. 202) tra compratore e venditore di forza la-

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voro: ovvero, come si legge nei Grundrisse, in quella sezione sulle “Forme che precedono la produzione capitalistica” che deve sempre essere tenuta presente leggendo il capitolo 24, “la produzione di capitalisti e di operai salariati, [...] un prodotto fondamentale del processo di valorizzazione del capitale. L’economia volgare, che vede soltanto le cose prodotte, dimentica completamente questo fatto” (G, II, p. 145). La stessa accumulazione di denaro (di un “patrimonio monetario, che considerato in sé e per sé è assolutamente improduttivo, in quanto scaturisce soltanto dalla circolazione e a essa soltanto appartiene”, ibidem) nulla dice della “formazione originaria” del capitale: quest’ultima “avviene invece semplicemente per il fatto che il valore esistente come patrimonio monetario, attraverso il processo storico della dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene messo in grado, da un lato di comprare le condizioni oggettive del lavoro, dall’altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai divenuti liberi” (ivi, p. 137). Nessun “idillio”, dunque, ma un processo che dovrebbe essere chiamato – come leggiamo in Salario, prezzo, profitto (1865) – “espropriazione primitiva”, seguendo il quale si scopre “che la cosiddetta accumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi storici i quali si conclusero con la dissociazione dell’unità primitiva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro”. Continua Marx: “la separazione del lavoratore e degli strumenti di lavoro, una volta compiutasi, si conserva e si rinnova costantemente a un grado sempre più elevato, finché una nuova e radicale rivoluzione del sistema di produzione la distrugge e ristabilisce l’unità primitiva in una forma nuova” (Salario, prezzo, profitto, p. 75). Esplicitiamo a questo punto qual è la prospettiva in cui il capitolo 24 del Capitale deve essere a mio giudizio letto, coerentemente con quanto affermato in precedenza a proposito del “metodo” marxiano: l’Ursprung – come uno specchio concavo – restituisce l’immagine del modo di produzione capitalistico nel suo complesso, ne illumina, come l’eccezione benjaminiana (assai più di quella schmittiana), alcuni caratteri fondamentali, e tuttavia celati, del funzionamento “normale”. Collocato alla fine del primo libro (e prima dell’ultimo, quello su “La teoria moderna della colonizzazione”, che del capitolo sull’accumulazione originaria costituisce una sorta di appendice), il capitolo 24 impone di rileggere a ritroso l’intero tracciato analitico proposto nel libro, interrompendo e riaprendo continuamente – in particolare – l’analisi presentata nel capitolo 23, “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”. Per dirla nei termini proposti da An-

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tonio Negri quasi trent’anni fa: il capitolo 24 è un esempio di quella “ricerca” (Forschung) che interviene a rinnovare il terreno dell’“esposizione” (Darstellung) imponendo – o comunque rendendo possibile – una “nuova esposizione”, una neue Darstellung (Negri 1979, pp. 23-26). “Norma” ed “eccezione” sono concetti che vanno utilizzati e valorizzati in senso determinato leggendo il testo marxiano. Questo significa che non vanno soltanto applicati al rapporto tra l’origine, la storia e il presente del modo di produzione capitalistico, ma devono essere fatti “lavorare” – se necessario “oltre Marx” – per decostruire criticamente la stessa immagine di un capitalismo “normale”. Non che non vi siano “norme” di funzionamento del modo di produzione capitalistico: ma ogni “norma” include al proprio interno – tanto logicamente quanto storicamente – una costellazione di “eccezioni”, che rientrano tra le sue condizioni di possibilità ma al tempo stesso costituiscono una sorta di riserva di opzioni che possono essere sempre attualizzate. È su questo terreno che possiamo, dobbiamo a mio giudizio, incrociare ricerche e proposte teoriche tra le più interessanti presentate negli ultimi anni, quali il lavoro di Yann Moulier Boutang (1998) sulle “forme difformi” di sottomissione del lavoro al capitale (“difformi” dalla norma del rapporto salariale) e il progetto di “provincializzazione dell’Europa” di Dipesh Chakrabarty. Cospicue tracce di riflessione in questo senso si ritrovano per altro anche in Marx. Significativi, in questo senso, non sono soltanto il rilievo strategico assegnato alla colonizzazione e la ricchezza di riferimenti al tema della schiavitù, che legittimano una ricostruzione della storia del capitalismo quale quella proposta da molti protagonisti del Black Marxism (Robinson 1983), che ne rintraccia le origini in Africa, nelle Indie occidentali e nello spazio atlantico assai più che in Inghilterra. Si tratta anche di valorizzare una serie di spunti presenti negli scritti tardi sulla Russia (cfr., nella letteratura recente, Burgio 2000, cap. IV), in cui l’“eccezionalità” del caso inglese su cui si basa in buona sostanza l’analisi proposta nel capitolo 24 è esplicitamente affermata – mentre viene con forza respinto ogni tentativo di dedurre da tale analisi un modello di “filosofia della storia” (cfr. K. Marx, Brief an die Redaktion der “Otetschestwennyje Sapiski” [1877], MEW, 19, in specie p. 111). “L’‘ineluttabilità storica’” del movimento descritto nel capitolo sull’accumulazione originaria, scrive ad esempio Marx in una lettera a Vera Iwanowa Sassulitsch dell’8 marzo del 1881, “è espressamente limitata ai Paesi dell’Europa occidentale” (MEW, 35, p. 166).

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La transizione al capitalismo, è un punto su cui ha ancora una volta molto insistito negli ultimi anni la critica postcoloniale, non segue dunque norme prestabilite, può determinarsi secondo modalità storicamente differenti. E se guardiamo al capitalismo valorizzandone il carattere di sistema-mondo fin dalle origini, queste modalità differenti non costituiscono eccezioni “periferiche”, entrando piuttosto a determinare (nel duplice senso sopra indicato: come condizioni di possibilità e come “riserva” di opzioni sempre attualizzabili) la struttura del modo di produzione capitalistico nel suo complesso. Torneremo in conclusione sul concetto di transizione e su alcune delle problematiche a esso connesse. Ma origine (transizione) è termine che rimanda comunque sempre alla violenza, definita da Marx con celebre espressione “messianica”, ripresa poi da Engels nell’Anti-Dühring, “levatrice della storia, [...] essa stessa potenza (Potenz) economica” proprio nel capitolo 24 del primo libro del Capitale (K, I, p. 923). Ecco un altro grande tema propostoci dal testo su cui stiamo soffermandoci, quello – per dirla in termini molto generali – del ruolo della violenza nella storia. Étienne Balibar, redigendo la voce “Gewalt” per lo Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, ha proposto recentemente considerazioni molto stimolanti su questo punto (Balibar 2001c). Vale la pena di segnalare, in ogni caso, che il problema della violenza si pone su almeno due diversi piani nell’analisi dell’accumulazione originaria: da una parte esso rinvia al ruolo cruciale della “violenza concentrata e organizzata dalla società” – ovvero del potere dello Stato, che proprio nella transizione assume la forma di macchina – nel determinare la transizione al capitalismo. Marx ricorda il ruolo del sistema coloniale, del sistema del debito pubblico e del sistema tributario e protezionistico moderno (K, I, p. 923): è un punto su cui ha molto insistito nei suoi scritti degli anni Settanta Mario Tronti (cfr. in particolare Tronti 1977, pp. 212 ss.). Le tesi trontiane vanno comprese e discusse tenendo conto del loro “contesto”, ovvero dell’elaborazione sull’autonomia del politico: ma la complicazione (sotto il profilo storico non meno che sotto il profilo logico) del rapporto tra politica, diritto ed economia (a partire da quella che Marx chiama “la genesi extraeconomica della proprietà”, G, II, pp. 113 s.) che Tronti derivava dalla lettura del capitolo 24 resta in ogni caso un’acquisizione preziosa. Dall’altra parte, l’agire della violenza viene analizzato da Marx non guardando alla macchina statuale, alla “concentrazione” appunto della violenza, ma ai suoi effetti diffusi, sociali, dove in particolare

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si tratta di portare alla luce il ruolo cruciale giocato dallo Stato, dalla legislazione e dal diritto dapprima nel determinare le condizioni di esistenza della forza lavoro come merce, poi nel regolare il salario e la giornata lavorativa (K, I, p. 907). È da questo secondo punto di vista che Marx scrive pagine magistrali, quali quelle sulle enclosures e sulla “legislazione sanguinaria” contro il vagabondaggio “quasi universale” che, Marx lo aveva affermato già nel 1847, nella Miseria della filosofia (pp. 90 s.), precedette la creazione della fabbrica (e la nascita della classe operaia) nei primi secoli moderni: veri e propri modelli di “storia sociale” riscoperti come tali nel corso degli anni Sessanta del Novecento, a partire dai grandi lavori di E.P. Thompson (tra cui non si può non ricordare, ovviamente, Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, 1963). 4. Una merce diversa dalle altre

Una considerazione a questo proposito. Sotto il profilo storiografico, un compito importante consiste nell’evidenziare maggiormente di quanto Marx non faccia nel capitolo 24 il carattere duramente conflittuale dei processi sociali e delle condizioni complessive in cui l’accumulazione originaria si articola. Si tratta cioè, da una parte, di porre in risalto che la crisi dell’autorità feudale nelle campagne non viene prodotta da questi processi, che si inseriscono piuttosto in una condizione segnata da rivolte – e da vere e proprie guerre – contadine che disarticolano il tessuto feudale dal suo interno (cfr. Dockès 1980; ma si tenga anche presente, sulla lunga durata dell’insubordinazione contadina, Blickle 2003). Come ha scritto ad esempio in un libro molto importante Theodore W. Allen, è stata la continuità di questo movimento di insubordinazione, che si distende tra la cosiddetta “Wat Tyler’s Rebellion” del 1381 in Inghilterra e le guerre contadine degli anni Venti del Cinquecento in Germania, e non la borghesia a far saltare il sistema feudale (Allen 1997, pp. 14 s.). E lo stesso Allen ha richiamato l’attenzione sul ruolo delle proteste popolari contro le recinzioni nel determinare, tre anni dopo la sua promulgazione, l’abolizione della legge inglese del 1547 che introduceva la schiavitù come pena per il vagabondaggio (1 Edw. VI 3), e che avrebbe posto le basi per l’istituzione di un sistema schiavistico nella stessa Inghilterra (ivi, pp. 20-22). Dall’altra parte si tratta di enfatizzare, lo hanno fatto tra gli altri in modo particolarmente convincente Peter Linebaugh e Marcus Re-

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diker (2000; ma si tenga presente anche Linebaugh 1993), la pluralità delle forme in cui si è espressa, molto spesso traducendosi in pratiche e concrete rivendicazioni di mobilità, la resistenza dei “subalterni” alla proletarizzazione (alla loro trasformazione in “portatori” di forza lavoro). Da questo punto di vista, del resto, non mancano precise indicazioni marxiane. Basti pensare a un noto passo dei Grundrisse: la massa dei soggetti espulsi dalle campagne si trovò, scrive Marx, “ridotta a trovare l’unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza-lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio, nella rapina. È constatato storicamente che essi hanno tentato in un primo momento questa seconda via, e che da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro” (G, II, p. 138). Ancora una volta si tratta di una questione di rilievo tutt’altro che meramente “antiquario”: basta pensare all’impatto dei programmi di aggiustamento strutturale sull’organizzazione sociale ed economica delle campagne di molti Paesi africani negli anni Ottanta dello scorso secolo (alle New Enclosures da essi determinati) e alle migrazioni transnazionali contemporanee per comprenderlo. La mobilità del lavoro è del resto, già lo si è sottolineato, uno dei temi centrali nella scena dell’accumulazione originaria costruita da Marx. E davvero vale la pena di ribadire che “non c’è capitalismo senza migrazioni” (cfr. Mezzadra 2006, in specie parte II, cap. 5). I movimenti dei “subalterni” (utilizzando questa categoria in termini rigorosi, per riferirsi a soggetti dominati che non sono ancora stati “catturati” nel processo di proletarizzazione) sono dunque elemento fondamentale del processo attraverso cui si determina la produzione della forza lavoro come merce (ovvero del processo di proletarizzazione): ne definiscono il carattere antagonistico. Ed è importante sottolineare che questo antagonismo va distinto concettualmente dall’antagonismo tra lavoro e capitale (che presuppone l’avvenuta produzione della forza lavoro come merce). Ciò detto, a me pare che non sia del tutto convincente la proposta di Beverly Silver, in un libro del resto molto bello (Silver 2003), di distinguere due tipi di insubordinazione nella storia dei movimenti del lavoro, denominando il primo – quello che si determina a fronte dei processi di “espropriazione” e di proletarizzazione – il “tipo Polanyi” e il secondo – quello che si determina a fronte dei processi di “sfruttamento” – il “tipo Marx”. Si tratta di formule, riconducibili ai lavori di David Harvey (cfr. ad es. Harvey 2003, su cui si vedano il “simposio” in “Historical Materialism”, XIV, 2006, 4, e le pertinen-

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ti osservazioni critiche di Robinson 2007), che sono circolate ampiamente nel marxismo radicale statunitense degli ultimi anni, non di rado conducendo a contrapposizioni analitiche che non mi paiono particolarmente produttive: al contrario, l’attenzione dovrebbe oggi concentrarsi sulle condizioni in cui i due “tipi” di conflitto tendono a sovrapporsi, riproponendo violentemente l’originaria articolazione, logica e storica, appunto di espropriazione e sfruttamento. E questo accade in particolare proprio quando il “mercato del lavoro” (l’insieme delle condizioni sociali, istituzionali, giuridiche, “antropologiche” e spaziali che regolano lo scambio di forza lavoro contro salario) viene messo in tensione fino a saltare, attraverso processi che ripropongono in tutta la sua problematicità ciò che il mercato del lavoro stesso assume come presupposto: ovvero, la continuità e la “normalità” della produzione della forza lavoro come merce. Fissiamone le conseguenze in termini a noi familiari: la riapertura – sempre duramente conflittuale – del problema della produzione della forza lavoro come merce non ha ricadute esclusivamente sulle condizioni della classe operaia (cfr. Perelman 2000, p. 33), ma entra piuttosto a determinarne la composizione. È, per molti aspetti, la situazione in cui ci troviamo oggi. Uno dei temi fondamentali del capitolo 24 è in effetti proprio l’analisi critica del processo di costituzione politica e giuridica del “mercato del lavoro”. Il ruolo strategico giocato dalla violenza in questo processo svolge ancora una volta una funzione polemica nei confronti dell’economia classica, che aveva costruito le relazioni di mercato proprio come relazioni non solo libere dalla violenza ma a essa concettualmente contrapposte, e finisce per disarticolare la stessa categoria di mercato del lavoro. Nulla v’è di “naturale”, ci dice Marx, nel fatto che una classe di individui sia costretta, per riprodurre la propria esistenza, a vendere la propria forza lavoro, la “merce” appunto scambiata sul mercato del lavoro. È un punto da evidenziare in particolare sullo sfondo dei dibattiti contemporanei su salario e reddito: non per svolgere una critica “volgare” delle ipotesi di lotta sul reddito, evidentemente, ma per mostrare intera la complessità di queste ipotesi, che insistono su un terreno strategico per la stessa esistenza del modo di produzione capitalistico. Quest’ultimo non può esistere, concettualmente, senza l’elemento di coazione al lavoro di cui Marx traccia la genealogia nel capitolo sull’accumulazione originaria. La storia del capitalismo, sotto la spinta incessante delle lotte operaie e proletarie, ha registrato l’attivazione di molteplici dispositivi di “mitigazione” di questo elemen-

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to di coazione, di cui lo stesso Marx ci dà un saggio nell’analisi, ancora una volta metodologicamente magistrale, della giornata lavorativa proposta nel capitolo 8 del primo libro del Capitale (si veda in proposito Balibar 1993, pp. 101-103). Ma di “mitigazione” occorre parlare, e non di annullamento (come avverrebbe in alcune ipotesi di “reddito di esistenza”), poiché l’annullamento della coazione al lavoro comporterebbe, molto semplicemente, la fine del modo di produzione capitalistico. Volgiamoci ora, brevemente, a un altro testo recente che ha insistito sul fatto che l’analisi marxiana dell’accumulazione originaria “consente di leggere il passato come qualcosa che sopravvive nel presente”: mi riferisco al libro di Silvia Federici, Caliban and the Witch. Women, the Body and Primitive Accumulation (2004, p. 12 per la citazione). Il libro di Federici è parte di uno sviluppo interno al marxismo contemporaneo che, muovendo dalle posizioni dell’operaismo rivoluzionario, è venuto concentrandosi sulla tematica dei commons (si vedano ad esempio la rivista “The Commoner”, http://www.commoner.org.uk e i lavori di Massimo de Angelis e di Gorge Caffentzis). Tematica di grande rilievo, evidentemente, che tuttavia è spesso declinata in termini non del tutto soddisfacenti, come lo stesso libro di Federici a mio giudizio mostra. Tornerò brevemente in conclusione sul punto. Ma intanto il riferimento a Caliban and the Witch ci consente di introdurre un’altra questione decisiva per l’analisi del processo di produzione della forza lavoro come merce: il problema – su cui è prevista una relazione all’interno di questo stesso ciclo seminariale (cfr. supra, “Nota ai testi”) e su cui vale la pena di rileggere alcuni testi classici del femminismo radicale degli anni Settanta (basti qui ricordare i nomi di Selma James, Mariarosa Della Costa, Leopoldina Fortunati e Alisa del Re) – del rapporto tra produzione e riproduzione della forza lavoro. Sotto il profilo storiografico, Silvia Federici insiste sull’importanza delle molteplici forme di criminalizzazione, culminate nella caccia alle streghe (ivi, pp. 163 ss.), dei tentativi da parte delle donne “subalterne” di porre sotto controllo la propria funzione riproduttiva nella crisi demografica che seguì la grande epidemia di peste del XIV secolo (ivi, pp. 40 ss.). Siamo qui di fronte a un’altra dimensione essenziale (e duramente conflittuale) dell’accumulazione originaria, in effetti trascurata da Marx: al processo (occorre aggiungerlo? Decisamente non “idilliaco”...) di razionalizzazione capitalistica della sessualità attraverso cui prende forma una divisione sessuale del lavoro che assegna alle donne la funzione prioritaria di riproduttrici della

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forza lavoro. La condanna dei maleficia, dell’aborto e della contraccezione segna come un basso continuo questo processo (ivi, p. 144), al culmine del quale il corpo femminile è costruito letteralmente come macchina per la riproduzione: “non è stata la macchina a vapore”, scrive Federici, “e neppure l’orologio, la prima macchina, bensì il corpo umano” (ivi, p. 146). Il libro di Silvia Federici è importante anche per un’altra ragione: analogamente al lavoro di Yann Moulier Boutang, anche Caliban and the Witch contesta – ancora una volta: storicamente e concettualmente – l’identificazione marxiana tra modo di produzione capitalistico e lavoro salariato “libero” (ovvero, per citare un passo celebre, presenza di “venditori della propria forza lavoro”, di “operai liberi nel duplice senso che essi non fanno parte direttamente dei mezzi di produzione come gli schiavi, i servi della gleba ecc., né ad essi appartengono i mezzi di produzione, come al contadino coltivatore diretto ecc., anzi ne sono liberi, privi, senza”, K, I, p. 880). Il punto è ancora una volta decisivo, in particolare laddove si intenda davvero prendere seriamente l’invito a “provincializzare l’Europa” e a considerare la dimensione globale in cui si sviluppa fin dalle sue origini il modo di produzione capitalistico: facendo questo, come già si è accennato, la “transizione” al capitalismo presenta una pluralità di forme di lavoro coatto che appunto “provincializzano” e dislocano la “norma” del rapporto salariale. La proposta di Yann Moulier Boutang di sostituire il concetto di “lavoro dipendente” a quello di “lavoro salariato” come condizione effettivamente necessaria allo sviluppo del modo di produzione capitalistico (e di ricomprendere il secondo come variante del primo, di cui si tratta di studiare le peculiari condizioni storiche, sociali e giuridiche) pare a me da accettare: essa salva infatti un aspetto essenziale dell’enfasi di Marx sul lavoro salariato “libero” (ovvero l’insistenza, proprio nel capitolo 24, sul fatto che il capitale va inteso e criticato come un rapporto sociale e non come una “cosa”, cfr. K, I, p. 941), e consente al tempo stesso un’analisi maggiormente accurata e flessibile sia delle diverse forme assunte dalla transizione sia delle diverse forme di sottomissione del lavoro al capitale che contraddistinguono il nostro presente “globale”. Non casualmente, in questo senso, accennavo in precedenza all’immagine marxiana dell’“incontro” tra il proprietario di denaro e il proletario sprovvisto di tutto, salvo che della propria forza lavoro. A partire da questa immagine ha scritto come noto, in un testo del 1982, pagine molto suggestive (ma anche piuttosto enigmatiche)

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Louis Althusser (1982, in specie pp. 106 ss.). In queste pagine è ben presente, d’altronde, il riferimento all’analisi marxiana dell’accumulazione originaria, che Althusser arriva a definire l’“autentico nucleo” del Capitale (ivi, p. 109). La semantica di questo “incontro” andrebbe studiata con cura, a partire da un’analisi scrupolosa delle implicazioni del verbo utilizzato da Marx nel passo citato sopra, ovvero vorfinden (cfr. MEW, 23, p. 181, mentre in un passo del capitolo 24, concettualmente equivalente, Marx scrive gegenüber und in Kontakt treten, cfr. ivi, p. 742) – un “incontrare” che presuppone la presenza previa di ciò che si incontra, una “storia precedente” dunque, appunto una Vorgeschichte. A me pare, in ogni caso, che lavorando sull’immagine dell’“incontro” si possa recuperare la sostanza di obiezioni e integrazioni dell’analisi marxiana quali quelle proposte da Silvia Federici e Yann Moulier Boutang. La preistoria dell’”incontro”, per dirla con una battuta, può svolgersi in molte forme, e tra queste la tratta atlantica non è necessariamente un’“eccezione” rispetto alle enclosures. Come già si è detto, del resto, che tra i due processi esistessero cospicue analogie era ben chiaro a Marx: già in un articolo del 1853, pubblicato nella “New York Daily Tribune” e, per la parte che qui ci interessa, nel giornale cartista scozzese “The People’s Paper”, aveva irriso le simpatie abolizioniste della duchessa di Sutherland. Costei, secondo i metodi consueti dell’accumulazione originaria, aveva trasformato in pastura per le pecore l’intera sua contea, determinando tra il 1814 e il 1820 l’espulsione e lo “sterminio” sociale di oltre 15000 abitanti (la sostanza dell’analisi presentata nel 1853 è incorporata nel capitolo 24 del primo libro del Capitale: cfr. K, I, pp. 898 s.): “i nemici della schiavitù salariale inglese”, concludeva Marx, “hanno il diritto di condannare e maledire la schiavitù dei negri; ma una duchessa di Sutherland, un duca di Atholl, un signore del cotone di Manchester mai!” (K. Marx, Die Herzogin von Sutherland und die Sklaverei, MEW, 8, p. 505). L’“incontro”, dunque, può ben avvenire in una battuta di caccia, o magari di pesca per riprendere il riferimento di Marx al destino di una parte degli “aborigeni” (e si potrebbero proporre molte considerazioni su questa scelta terminologica) espulsi dalle loro terre dalla duchessa di Sutherland “gettata sulla riva del mare” e che “cercò di vivere di pesca”: “divennero anfibi e vissero, come dice uno scrittore inglese, metà sul mare e metà sulla terra, e con tutto ciò trassero dall’uno e dall’altro solo di che vivere a metà” (K, I, p. 899; cfr. K. Marx, Die Herzogin von Sutherland und die Sklaverei, MEW 8, p.

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503). Quel che rimane costante tuttavia, e di cui il capitolo sull’accumulazione originaria studia la genealogia, è la radicale differenza dei due soggetti che “si incontrano” – e il cui rapporto costituisce il capitale. In un altro libro recente in cui è centrale la tematica della “accumulazione originaria”, molto influenzato sia da Althusser sia dall’operaismo italiano, Jason Read ha molto insistito sulla produzione di soggettività (ricordiamo quanto abbiamo letto nei Grundrisse: “produzione di capitalisti e di operai salariati”) come elemento chiave per il modo di produzione capitalistico: “produzione di soggettività nei due sensi del genitivo; da una parte la costituzione della soggettività, di un particolare comportamento soggettivo, e dall’altra la potenza produttiva della soggettività stessa, la sua capacità di produrre ricchezza” (Read 2003, p. 153). È un punto sviluppato in modo particolare da Read nell’analisi del capitolo 24 del primo libro del Capitale, che gli serve tra l’altro per riprendere e approfondire la distinzione (althusseriana) tra “economia” e “modo di produzione” capitalistici. Leggiamo un altro brano del libro di Read: “vi è una produzione di soggettività necessaria alla costituzione del modo di produzione capitalistico. Perché un nuovo modo di produzione, quale quello del capitale, sia istituito, non è sufficiente che esso formi semplicemente una nuova economia, deve istituirsi nelle dimensioni quotidiane dell’esistenza – deve divenire abitudine” (ivi, p. 36). La polemica di Marx contro la rappresentazione “idilliaca” della accumulazione originaria proposta dall’economia classica si presenta così nella sua piena luce, specificandosi come un capitolo della più generale polemica da lui ingaggiata contro l’immagine “astorica” della natura umana assunta dai classici dell’economia politica a fondamento delle loro analisi. E a ragione Read sottolinea che in questione non è solo un problema di antropologia filosofica (e politica), ma anche “il problema più pratico del luogo occupato nella storia dai desideri, dalle motivazioni e dalle credenze umane (o dalla soggettività): il problema delle loro condizioni, dei loro limiti e dei loro effetti” (ivi, p. 20). Desideri, motivazioni, credenze si presentano radicalmente scissi nel modo di produzione capitalistico, secondo una linea che taglia la soggettività distribuendo gli individui nelle due “classi” (sia qui intanto concesso di utilizzare questo termine così impegnativo nel suo semplice significato logico) dei possessori di denaro e dei possessori di forza lavoro: il capitolo sull’accumulazione originaria traccia la genealogia di questa scissione, che conoscerà molteplici metamorfosi nella storia del capitalismo ma che sarà destinata a riprodursi conti-

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nuamente, rendendo vano ogni discorso sulla “natura umana” che pretenda appunto di richiamarsi a un astratto e disincarnato universalismo. Fino a oggi. 5. Nella transizione

Oggi, ieri, l’altro ieri; il presente, la storia, la “preistoria”. Veniamo così all’ultima grande questione che abbiamo annunciato di voler trattare muovendo dall’analisi marxiana dell’accumulazione originaria: la transizione. È un tema di formidabile rilievo e complessità, che da molti segni sembra stia tornando di attualità: l’ultimo libro di Saskia Sassen (2006), ad esempio, è fondamentalmente uno studio della transizione dagli assetti politici e giuridici “nazionali” agli assetti politici e giuridici “globali”, che ricostruisce la transizione dall’ordine medievale all’ordine moderno per guadagnare una prospettiva comparativa sul presente. Varrebbe la pena da questo punto di vista, e lo si dovrà fare per meglio inquadrare e per sviluppare il nostro ragionamento, di ricostruire almeno tre grandi dibattiti novecenteschi sul tema della transizione: quello che vide contrapposti all’inizio degli anni Trenta, all’interno della Scuola di Francoforte, Franz Borkenau e Henryk Grossmann (cfr. Schiera, a cura di, 1978), la polemica tra Paul Sweezy e Maurice Dobb che prese avvio sulle pagine della rivista statunitense “Science and Society” negli anni Cinquanta (si veda per una, sintesi, Tronti 1977, pp. 207-227) e il dibattito avviato dalla pubblicazione nel 1976, nella rivista “Past and Present”, di un articolo di Robert Brenner (Agrarian Class Structure and Economic Development in Pre-Industrial Europe), dibattito che riformulò molti dei temi centrali nella controversia tra Dobb e Sweezy coinvolgendo anche storici non marxisti (i testi fondamentali del dibattito sono raccolti in Ashton, Philpin, a cura di, 1985). Riattraversare questi dibattiti sarebbe utile in particolare per precisare l’insieme delle questioni al centro dell’analisi della transizione al capitalismo: dal rapporto tra “struttura” e “sovrastruttura” a quello tra agricoltura, commercio, manifattura e industria. Qui ci concentreremo preliminarmente soltanto su un paio di punti, l’ultimo dei quali decisamente eccentrico rispetto ai dibattiti “classici”. Non prima tuttavia di avere sottolineato una questione ulteriore: ovvero il fatto che il problema della transizione, da un punto di vista marxista, riconduce sì continuamente alla “preistoria” del Capitale. Ma una volta di più ci strappa allo studio meramente storiografico per proiet-

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tarci nel presente. E nel futuro: l’analisi della transizione al capitalismo è cioè sempre, contemporaneamente, un ragionamento sulle forme della transizione al comunismo, a partire dall’esigenza di comprendere se il rapporto tra le due transizioni è un rapporto di omologia o se piuttosto occorre assumere l’ipotesi di una radicale discontinuità tra di esse. Lavoriamo qui sul tema della transizione a partire dal capitolo 24 del primo libro del Capitale. Segnaliamo di sfuggita che, anche soltanto per meglio inquadrare le questioni di seguito indicate, sarebbe necessario convocare una serie di altre fonti marxiane: sarebbe almeno necessario, in particolare, fare un uso meno rapsodico di quello qui fatto della sezione sulle “Forme che precedono la produzione capitalistica” dei Grundrisse (cfr. Negri 1979, pp. 116-122, Carandini 1979 e Dussel 1998, pp. 240-243) e soprattutto, considerato il rilievo che nella nostra analisi assume la questione del rapporto tra colonialismo e transizione al capitalismo, l’insieme dei testi dedicati da Marx al cosiddetto modo di produzione asiatico (il riferimento fondamentale continua a essere su questo problema il vecchio libro di Sofri 1973; ma varrà la pena di riprendere criticamente anche alcune osservazioni di Spivak 1999, pp. 91-126). Riservando a un successivo approfondimento l’analisi di questi testi, limitiamoci dunque, qui, a vedere tre grandi questioni collegate alla transizione che il capitolo 24 del primo libro del Capitale ci consente di impostare in modo particolarmente originale. Cominciamo intanto da una conferma, relativa al tema del rapporto tra transizione, borghesia e “rivoluzione borghese”. L’ultima categoria è stata al centro di un ampio dibattito negli ultimi anni, che ne ha mostrato intera, molto spesso con un’intenzione polemica proprio contro la storiografia marxista, la problematicità. Non dobbiamo temere di recepire alcune delle acquisizioni fondamentali di questo dibattito. Proprio le pagine dedicate da Marx all’accumulazione originaria mostrano intera la correttezza di un’affermazione di Antonio Negri, in un saggio del 1978 dedicato a una rilettura del dibattito tra Borkenau e Grossmann a cui si è in precedenza fatto cenno: “la mia convinzione di fondo era e resta”, scriveva Negri ricordando il suo Descartes politico, o della ragionevole ideologia (1970: il volume è da poco uscito in traduzione inglese con una nuova introduzione, che si può leggere in italiano in “Scienza & Politica”, 2004, 31), “quella che in generale non si possa parlare di ‘rivoluzione borghese’ ma si debba parlare di rivoluzione capitalistica (nella accumulazione originaria, manifatturiera, industriale e poi socialista), che la categoria della ‘borghesia

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come classe’ sia estremamente ambigua” (Negri in Schiera, a cura di, 1978, p. 139). A me pare estremamente importante questo riferimento all’ambiguità della categoria di “borghesia come classe”. Non solo perché in qualche modo anticipa gli sviluppi successivi della storiografia sulla borghesia, che hanno da una parte mostrato la complessità delle mediazioni (politiche, giuridiche, “ideologiche”, culturali e scientifiche) necessarie perché la borghesia possa costituirsi in soggetto unitario (cfr. ad es. J. Kocka, a cura di, 1987 e soprattutto Schiera 1987) mentre dall’altra hanno insistito sulla “lunga durata” – quantomeno fino alla Grande guerra – del rapporto simbiotico tra borghesia e nobiltà che costituisce uno dei temi di fondo dell’analisi marxiana dell’accumulazione originaria (cfr. Mayer 1981). Ma anche perché, mi sembra, ci restituisce il concetto di classe libero da una serie di incrostazioni “sociologiche” che su di esso si sono depositate nel tempo. E ci consente di riappropriarcene nel suo originario significato marxiano, un significato tutto politico (cfr. Mezzadra, Ricciardi 2002). Veniamo a una seconda questione: il rapporto tra “sussunzione formale” e “sussunzione reale” del lavoro al capitale. L’accumulazione originaria, scrive Marx, non può che essere caratterizzata dalla “sottomissione (Unterordnung) formale” del lavoro al capitale, e dunque dall’estrazione di “plusvalore assoluto” (di un plusvalore ottenuto con la continua estensione della giornata lavorativa): “il modo di produzione capitalistico non aveva ancora carattere specificamente capitalistico” (K, I, p. 907), viveva appunto della “sussunzione formale” (del dominio e dello sfruttamento) di modi di lavoro e forme di produzione non direttamente organizzati e rivoluzionati dal capitale. È ben nota l’importanza che il rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale ha avuto all’interno della nostra discussione e della nostra “tradizione” teorica. Per ragioni in primo luogo politiche, si è a lungo trattato di insistere sulla qualità specifica della “sussunzione reale” (nonché dell’estrazione di “plusvalore relativo”). In tal modo, tuttavia, un residuo di “storicismo” e di “progressismo” si è insinuato nei nostri discorsi (uso i due concetti nel senso di D. Chakrabarty, che in Provincializzare l’Europa si è soffermato sul problema di cui stiamo discutendo), finendo spesso per rendere troppo lineare quel metodo della lettura della tendenza che rimane comunque tra le acquisizioni più preziose dell’operaismo italiano. Per quel che concerne specificamente il rapporto tra sussunzione formale e sussunzione reale, ciò ha finito per esprimersi in un common sense secondo

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cui i due concetti indicherebbero semplicemente due diverse “epoche” del modo di produzione capitalistico, destinate a succedere (appunto linearmente) l’una all’altra. Certo, Marx fa uso dei due concetti anche per descrivere trasformazioni (“transizioni”) interne al modo di produzione capitalistico: e si possono ben leggere in questo senso testi giustamente famosi, come il capitolo 13 del primo libro del Capitale (“Macchine e grande industria”), il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, e lo stesso capitolo VI inedito del primo libro del Capitale (“Risultati del processo di produzione immediato”), dove le categorie di “sussunzione formale” e di “sussunzione reale” sono discusse con grande ampiezza e originalità. Ma proprio in quest’ultimo testo leggiamo che la sussunzione formale costituisce al tempo stesso la “forma generale di qualunque processo di produzione capitalistico” (K, I, p. 1237). Mi pare un punto di grande importanza, che proprio l’analisi dell’accumulazione originaria consente di valorizzare pienamente. Cerchiamo di proporre una sintesi di alcune delle cose fin qui dette, di “portarle al concetto” come dicono i tedeschi. E facciamolo tenendo presenti le questioni dello “storicismo” e del “progressismo”. In che senso abbiamo intitolato questo testo “Attualità della preistoria”? La “preistoria del capitale”, la sua “storia precedente” (Vorgeschichte) è e al tempo stesso non è storia del capitale. Marx lo afferma con assoluta chiarezza in un passo della sezione dei Grundrisse sulle “Forme che precedono la produzione capitalistica”: una serie di condizioni fondamentali del rapporto di produzione capitalistico (“una certa abilità di mestiere, lo strumento come mezzo di lavoro, ecc.”), “in questo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso la trova già esistente. [...] Il processo storico [della sua produzione] non è il risultato, ma un presupposto del capitale” (G, II, pp. 135 s.). D’altro canto, questa peculiare struttura temporale (per cui il tempo del capitale vive in un rapporto di dipendenza con altri tempi storici, che non sono suoi propri) contraddistingue nel suo complesso la “sussunzione formale”, nella misura in cui i modi di lavoro e le forme di produzione che la contraddistinguono non sono direttamente organizzati dal capitale (e dunque sono anch’essi trovati “già esistenti” dal capitale stesso). Lo aveva del resto perfettamente colto già Rosa Luxemburg, all’inizio dello scorso secolo, sottolineando che il capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e per il suo sviluppo, “di un ambiente costituito da forme di produzione non-capitalistiche” (Luxemburg 1913, p. 363). Ma se prendiamo sul serio l’affermazione precedentemente citata, secondo cui la “sussunzione for-

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male” è anche la “forma generale di qualunque processo di produzione capitalistico”, la sconnessione temporale di cui stiamo parlando si inscrive al cuore stesso del concetto di capitale, determinandone logicamente la struttura. Questa sconnessione è in fondo riconducibile proprio al rapporto tra storia e “preistoria” del capitale. Già lo abbiamo detto: questo rapporto si riapre continuamente nello sviluppo capitalistico, nel suo quotidiano funzionamento. Ora possiamo aggiungere: progressismo e storicismo sono sì inscritti nel codice temporale del capitale (e la critica deve renderne conto), ma ne costituiscono soltanto un vettore (in fondo letteralmente e profondamente utopico), continuamente interrotto dalla violenta (catastrofica, se vogliamo giocare con i termini benjaminiani) riapertura del problema dell’origine. Ovvero dal continuo ripetersi della transizione, termine che oltre a designare il momento storico appunto dell’origine del capitalismo ben si presta a indicare alcuni tratti fondamentali del suo quotidiano funzionamento, che balzano in superficie in modo particolare nei grandi momenti di trasformazione del capitalismo stesso. Considerato nella sua lunga durata storica e nella sua dimensione di sistema mondo, il capitalismo è del resto strutturalmente caratterizzato dalla compresenza di sussunzione formale e di sussunzione reale, di plusvalore assoluto e di plusvalore relativo. A me pare che il capitalismo contemporaneo porti alle estreme conseguenze questa compresenza, proprio nella misura in cui, come ha scritto in modo efficacissimo alcuni anni fa Paolo Virno, uno dei suoi tratti costitutivi consiste nel determinare una sorta di “esposizione universale” dei modi di lavoro e delle forme di produzione che hanno segnato la sua storia. E si badi: tanto più intenso è il riemergere di sussunzione formale e di plusvalore assoluto (con il carico di violenza che è a essi connaturato) laddove si riapre la questione della produzione della forza lavoro come merce, laddove cioè quest’ultima non può più essere assunta come presupposto scontato e “regolato” del “mercato del lavoro”. Non a caso, il concetto di “sussunzione formale” è stato riproposto, nella nostra discussione degli ultimi anni, da quanti hanno ragionato sui dispositivi di “cattura” e sfruttamento del “lavoro cognitivo” (cfr. Vercellone 2006, in specie pp. 55 s.) e da quanti hanno assunto come tema di ricerca il lavoro migrante e le forme del suo dominio (cfr. Ricciardi, Raimondi, a cura di, 2004, Mezzadra 2006 e Rigo 2007). Non si derivi d’altro canto da questo accostamento (né dall’accostamento ampiamente circolante tra lavoro precario e lavoro mi-

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grante) l’idea che le condizioni di una “ricomposizione” tra le figure soggettive del lavoro a cui questi concetti fanno riferimento sia qualcosa di automatico e “spontaneo”. Il ragionamento svolto sulla compresenza di sussunzione formale e sussunzione reale conduce piuttosto a evidenziare la radicale eterogeneità delle figure e delle posizioni soggettive che compongono oggi il lavoro vivo, eterogeneità che costituisce al tempo stesso un elemento di ricchezza e un problema politico. Da qui deve a mio giudizio ripartire il dibattito sulla categoria di moltitudine. D’altro canto, è opportuno sottolineare che la compresenza di sussunzione formale e sussunzione reale, fin qui analizzata nei termini delle strutture della temporalità, ha importanti implicazioni anche per un ragionamento su quelle che possiamo definire le coordinate spaziali del capitalismo contemporaneo. Per dirla in breve: mentre in altre fasi dello sviluppo capitalistico sussunzione formale e sussunzione reale si distribuivano tendenzialmente all’interno di diversi spazi (seguendo la distinzione tra “centro” e “periferia”, “primo” e “terzo mondo”), oggi insiste all’interno di ogni area capitalistica. Di nuovo: non ne consegue certo l’irrilevanza delle differenze tra i diversi “spazi”, ma i confini tra essi – come hanno messo in evidenza Michael Hardt e Antonio Negri in Impero (2000) – si fanno mobili e porosi. E ne conseguono decisive implicazioni. Mi limito a un unico esempio: mentre precedenti fasi dello sviluppo capitalistico sono state caratterizzate dal predominio di una particolare branca della produzione, di un particolare “ciclo di prodotto” (prima il tessile, poi l’automobile), attorno a cui si definivano gli equilibri interni al “capitale complessivo” e i rapporti gerarchici tra le diverse aree del sistema mondo capitalistico, oggi risulta estremamente difficile applicare questo modello, centrale nell’intera teoria del sistema mondo e in particolare nella variante dei cicli delle egemonie proposta da Giovanni Arrighi (ad es. 1994). È esemplare a questo riguardo la conclusione a cui perviene Beverly Silver, pienamente interna a questa “scuola”, nel libro citato in precedenza. Nel tentare di individuare il “ciclo di prodotto” che imprime il proprio segno al capitalismo contemporaneo, Silver ne rintraccia almeno tre: l’“industria dei semiconduttori” (a cui si collega nel suo complesso il “lavoro cognitivo”), i “servizi ai produttori” e i “servizi alla persona” (Silver 2003, pp. 103-123). È facile far notare che la semplice circostanza che i “cicli di prodotto” individuati siano ben tre segnala una trasformazione piuttosto radicale rispetto a precedenti “cicli”. Ma il punto fondamentale è a mio giudizio che questi tre “cicli di prodot-

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to” attraversano il capitalismo contemporaneo nell’interezza della sua articolazione spaziale: e a variare sono piuttosto le interne proporzioni dell’articolazione tra di essi, nonché della loro articolazione con altri settori dell’economia. Ma torniamo alla questione della temporalità, per affrontare un terzo e ultimo problema collegato al tema della “transizione”. Il discorso precedentemente sviluppato sulla sconnessione temporale inscritta all’interno del concetto stesso di capitale si è svolto sul filo del confronto – oltre che con alcune intuizioni di Étienne Balibar ricordate nel secondo paragrafo – con l’analisi del rapporto tra “lavoro astratto” e “lavoro vivo” proposta da Dipesh Chakrabarty nel secondo capitolo di Provincializzare l’Europa. Non si tratta di assumerla in toto, d’altro canto. A me pare, in particolare, che il ragionamento di Chakrabarty non faccia sufficientemente i conti con l’insieme dei problemi di cui qui si è trattato a proposito della produzione di quella merce assolutamente peculiare che è la forza lavoro, limitandosi a svolgere la questione (del resto assolutamente fondamentale) del necessario processo di disciplinamento del “lavoro vivo” – ovvero della sua riconduzione alla “norma” del “lavoro astratto”. Il contributo di Chakrabarty resta tuttavia di grande importanza: le “due storie del capitale” da lui distinte – l’una (la “Storia 1”) interamente dominata dalla temporalità “omogenea e vuota” del “lavoro astratto”, l’altra (la “Storia 2”) costretta a registrare l’eterogeneità costitutiva del “lavoro vivo” – consentono di approfondire e precisare molte delle tesi qui presentate. In un saggio scritto con Federico Rahola (supra, cap. I), ho in particolare cercato di porre in relazione il discorso di Chakrabarty da una parte con l’analisi del rapporto tra il “singolare collettivo” Storia e il plurale delle storie sviluppata da Reinhart Koselleck nella sua storia concettuale della modernità, dall’altra con l’analisi della struttura del tempo storico proposta da Paolo Virno nel suo Il ricordo del presente (1999). Quel che ci stava a cuore affermare era in buona sostanza che anche la tensione tra la Storia e le storie (“risolta” nella transizione alla modernità) sembra oggi riaprirsi nella quotidianità del funzionamento del capitalismo globale, nella misura in cui esso è costretto a fare dell’eterogeneità costitutiva dei tempi storici che incontra il terreno strategico su cui si ridefinisce la valorizzazione del capitale. E in questo modo, finisce per venire in superficie quella tensione tra potenza e atto che, appunto secondo l’analisi di Virno, sta al fondo della stessa possibilità dell’esperienza storica. Non torno qui su questo punto, per quanto sia ben consapevole

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della necessità di una sua maggiore articolazione. Vorrei soltanto fare due ulteriori considerazioni muovendo dal testo di Chakrabarty. La prima riguarda il carattere cruciale, per una ricerca sulla “transizione” al capitalismo e sull’accumulazione originaria, del confronto con il colonialismo. Nel capitolo 24 del primo libro del Capitale il riferimento al colonialismo è ben presente, ma in buona misura resta interno a una rappresentazione del colonialismo stesso come impresa “di rapina” e non guarda alla specificità dei rapporti sociali da esso prodotti al di fuori dell’Europa (mentre il capitolo successivo, dedicato come si è detto alla “Teoria moderna della colonizzazione”, si concentra essenzialmente sul colonialismo settler). Assumere pienamente il punto di vista coloniale sul tema della transizione, al contrario, conduce da una parte a ridisegnare la sua stessa “geografia”, ponendo in discussione ogni rapporto lineare tra centro e periferia del sistema mondo capitalistico fin dalla sua “aurora” (ho cominciato a sviluppare questo problema supra, cap. III); mentre dall’altra – lo ha rilevato ad esempio Partha Chatterjee, un altro protagonista, come Chakrabarty, dello sviluppo dei “Subaltern Studies”, intervenendo nel “dibattito Brenner” (Chatterjee 1983) – pone di fronte a situazioni in cui l’“eterogeneità” storica e “culturale” delle condizioni in cui si determina il violento avvio dello sviluppo capitalistico a fronte della “storia 1” del capitale è ancora maggiore rispetto all’Europa occidentale, imponendo “soluzioni” anch’esse radicalmente eterogenee (ovvero una combinazione di dispositivi di dominio e di sfruttamento di diversa natura e di diversa “origine”). La seconda considerazione consiste nel segnalare il fatto, seguendo ancora l’analisi di Chakrabarty, che proprio per quest’ultima ragione nelle condizioni del dominio coloniale emerge in modo particolarmente chiaro il nesso che stringe transizione e traduzione (Chakrabarty 2000, pp. 34 s. e 102; ma si veda anche supra, cap. VI). Poniamo questo nesso nei termini più semplici possibili: perché si determini la transizione al capitalismo è necessario che le condizioni storicamente e “culturalmente” eterogenee che il capitale incontra e sussume sotto di sé siano tradotte nei codici che governano la “Storia 1” del capitale, e in particolare nel codice del “lavoro astratto”, inteso come “la chiave interpretativa della griglia con cui il capitale ci chiede di osservare il mondo” (ivi, p. 82). Ma se quanto si è affermato precedentemente a proposito della peculiare “qualità” del tempo storico nel capitalismo globale ha una qualche plausibilità, è legittimo fare un passo ulteriore: e affermare che questo nesso tra transizione e traduzione, ancora una volta particolarmente evidente

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all’origine del modo di produzione capitalistico, designa uno dei fondamentali modi di operare del capitalismo contemporaneo. Mi pare un’acquisizione di una certa importanza, nella misura in cui ci consente di guadagnare una prospettiva particolarmente efficace a partire dalla quale guardare alla centralità assunta oggi dal tema della traduzione nei dibattiti di teoria culturale e di teoria politica. Così ridefinita, la traduzione si mostra intera da una parte nella sua natura affatto materiale, perdendo ogni aura “culturalista”, dall’altra nella sua ambivalenza (cfr. Adamo 2007, p. 205): terreno fondamentale di lavoro per la costruzione di pratiche politiche e di progettualità “alternative” (come ben sa, banalmente, chiunque abbia partecipato a un’assemblea di migranti), essa è altresì cruciale nella continua ricomposizione e trasformazione dei dispositivi di dominio e di sfruttamento. Lungi dall’appartenere all’empireo di una ideale comunità habermasiana della comunicazione, essa intrattiene cospicue relazioni proprio con la “levatrice della storia” – con la violenza. Per tornare a un libro che abbiamo menzionato all’inizio del testo, quello di Anna Lowenhaupt Tsing che pure insiste sul nesso tra transizione al capitalismo e traduzione (cfr. Tsing 2005, p. 31) e che mostra come lo scontro tra i partigiani e gli oppositori dei progetti delle grandi corporation giapponesi nelle foreste pluviali indonesiane si sia giocato tra l’altro proprio sul terreno della traduzione (cfr. ivi, pp. 211 s.), sarà bene prestare particolare attenzione all’ambivalenza delle “frizioni” (o meglio ancora degli attriti) che il nesso indicato determina. 6. Alla ricerca del comune. Del comunismo

Una postilla per concludere. Una postilla davvero stenografica per indicare – ancora una volta – un grande tema che l’analisi marxiana dell’accumulazione originaria ci consegna. È il tema, che già abbiamo del resto annunciato, dei commons, di quelle terre e di quei diritti comuni su cui, all’origine del modo di produzione capitalistico, operano le “recinzioni”, ritagliando – istituendo violentemente – lo spazio della proprietà privata. Marx se n’era occupato già giovanissimo, in una serie di articoli sulla “legge contro i furti di legna” scritti nell’autunno del 1842 per la “Gazzetta renana”. Anche questi testi sono stati riscoperti negli anni Sessanta, nella grande stagione della “history from below” (cfr. in particolare Thompson 1975, p. 258, nota 61): per quel che ci riguarda, ci limitiamo a segnalare l’estremo in-

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teresse delle riflessioni qui svolte da un Marx impegnato nel confronto critico con la Scuola storica del diritto a difesa dei “diritti consuetudinari della plebe” che, a differenza di quelli della nobiltà (definiti, con lessico hegeliano, “consuetudini contro il concetto del diritto razionale”), “sono diritti contro la consuetudine del diritto positivo” (Furti di legna, p. 187). Di un diritto positivo che – sanzionando appunto in nome della proprietà privata la “consuetudine” popolare di raccogliere legna nei boschi – attacca una delle basi fondamentali della riproduzione dei poveri nelle campagne: “trionfino gli idoli di legno”, scrive Marx anticipando i toni del capitolo 24 del primo libro del Capitale, “e cadano le vittime umane!” (ivi, p. 180). Non si può dire dunque che Marx sia insensibile di fronte all’attacco portato ai diritti e alle terre comuni nel contesto dell’accumulazione originaria. E gli scritti tardi sulla Russia, che già abbiamo ricordato, lasciano ampio spazio all’ipotesi politica che le lotte a difesa dei commons tradizionali (in questo caso il riferimento è alla obscina, la comunità rurale russa) possano aprire imprevisti scenari di transizione diretta al comunismo. Ma nell’insieme il giudizio di Marx, sprezzante nei confronti della ricostruzione apologetica dell’origine del capitalismo offerta dall’economia classica e volgare, si tiene a distanza di sicurezza dai toni nostalgici ad esempio di un Sismondi che, nella sua “filantropia ipocondriaca”, è preoccupato soltanto di conservare il passato e distoglie lo sguardo dall’antagonismo che segna il presente (traggo la citazione da K. Marx, Flüchtingsfrage – Wahlbestechung in England – Mr. Cobden, MEW, 8, p. 544). Negazione della negazione: la figura dialettica, per quanto consunta, ben si presta a indicare il punto di vista marxiano. Ecco, ho l’impressione che nel dibattito contemporaneo sul tema dei commons, precedentemente richiamato, i toni nostalgici (la “filantropia ipocondriaca”) tendano al contrario troppo spesso a prevalere, come se appunto i “beni comuni” – rigorosamente declinati al plurale – fossero esclusivamente qualcosa di dato – e appunto da conservare. È sintomatico, in questo senso, il libro di Silvia Federici, Caliban and the Witch, che pure ho per altri versi valorizzato: muovendo dalla sacrosanta enfasi posta sui comportamenti autonomi e sulla resistenza delle donne nelle campagne tra medioevo e prima età moderna ai tentativi di porre sotto controllo la loro sessualità, Federici finisce infatti per proporre una rappresentazione a tratti “idilliaca”, e decisamente insostenibile, del feudalesimo europeo! Quello dei commons, su cui concludiamo la nostra analisi del capitolo sull’accumulazione originaria del primo libro del Capitale, è in

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ogni caso – lo ripetiamo – un tema al tempo stesso cruciale e complesso. Coinvolge evidentemente questioni del tutto pratiche (si pensi, per fare un paio di esempi tra loro eterogenei, all’acqua, ai servizi pubblici, ai diritti di proprietà intellettuale) e si collega d’altra parte, in termini filosofici e politici, alla stessa semantica della comunità, su cui circolano nel dibattito degli stessi movimenti semplificazioni speculari a quelle indicate a proposito dei commons. Non solo non lo esaurirò, ma non lo svolgerò neppure in questa sede. Basti un cenno, che è al tempo stesso un’indicazione per una ricerca necessariamente collettiva: occorre prendere congedo da un’immagine dei commons come qualcosa di esclusivamente già dato ed esistente, e lavorare all’ipotesi che il comune sia qualcosa che deve essere prodotto, costruito da un soggetto collettivo capace, nel processo della sua stessa costituzione, di distruggere le basi dello sfruttamento e di reinventare le condizioni comuni di una produzione strutturata sulla sintesi di libertà e uguaglianza. Che cos’altro è il comunismo, il “sogno di una cosa” che dobbiamo tornare finalmente a sognare?

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WEBER, M. 1904-05 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. Sansoni, Firenze 1965. WEILER, J.H.H. 2003 La costituzione dell’Europa, trad. it. Il Mulino, Bologna. WOLF, E.R. 1982 L’Europa e i popoli senza storia, trad. it. Il Mulino, Bologna 1990. YOUNG, R.J.C. 1990 Mitologie bianche. La scrittura della storia e l’Occidente, trad. it. Meltemi, Roma 2007. 2001 Postcolonialism. An Historical Introduction, Blackwell, Oxford-Malden, MA. 2003 Introduzione al postcolonialismo, trad. it. Meltemi, Roma 2005. ZANINI, A. 2006 Filosofia economica. Fondamenti economici e categorie politiche, Bollati Boringhieri, Torino. -I=EK, S. 1997 Multiculturalism, or the Cultural Logic of Multinational Capitalism, in “New Left Review”, 225. 2000 The Ticklish Subject. The Absent Centre of Political Ontology, Verso, London. 2002 Tredici volte Lenin, trad. it. Feltrinelli, Milano. 2005 The Constitution is Dead. Long Live Proper Politics, in “The Guardian”, June 4.

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CULTURE ABDELMALEK SAYAD, L’immigrazione o i paradossi dell’alterità. L’illusione del provvisorio, Prefazione di Pierre Bourdieu PAOLO REBUGHINI, ROBERTA SASSATELLI (a cura di), Le nuove frontiere dei consumi MASSIMO CANNARELLA, FRANCESCA LAGOMARSINO, LUCA QUEIROLO PALMAS (a cura di), Hermanitos, Vita e politica della strada tra i giovani latinos in Italia MARCO SANTORO, La voce del padrino. Mafia, cultura, politica LUCIANO FERRARI BRAVO, ALESSANDRO SERAFINI, Stato e sottosviluppo. Il caso del mezzogiorno italiano, Prefazione di Adelino zanini ANTONIO NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tomassini SANDRO MEZZADRA, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione (nuova edizione accresciuta) ERNESTO DE CRISTOFARO, Sovranità in frammenti. La semantica del potere in Michel Foucault e Niklas Luhmann GOEFFREY HARTMAN, Cicatrici dello spirito. La lotta contro l’inautenticità. MARCELA IACUB, L’Impero del ventre. Per un’altra storia della maternità. OLIVIA GUARALDO, LEONIDA TEDOLDI (a cura di). Lo stato dello Stato. Riflessioni sul potere politico nell’era globale. LAURA GRAZIANO (a cura di), Mancarsi. Assenza e rappresentazione del sé nella letteratura del Novecento ANTONELLA CUTRO (a cura di), Biopolitica. Storia e attualità di un concetto RAFFAELE D’ANDRIA, Un teatro di terra. Il parco archeologico da Velia a Bramsche-Kalkrise LOIC WACQUANT (a cura di), Le astuzie del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica YAKOV M. RABKIN, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo GABRIELLA PETTI, Il male minore. La tutela dei minori stranieri come esclusione GIANLUCA TRIVERO, La camera verde. Il giardino nell’immaginario cinematografico DEVI SACCHETTO, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie NANCY SCHEPER-HUGHES, LOIC WACQUANT (a cura di), Corpi in vendita. Interi e a pezzi CARLO SALETTI (a cura di), Testimoni della catastrofe. Deposizioni di prigionieri del Sonderkommando ebraico di Auschwitz-Birkenau (1945) PINA LALLI (a cura di), Guerra e media. Kosovo: il destino dell’informazione FERRUCCIO GAMBINO, Migranti nella tempesta. Avvistamenti per l’inizio del nuovo millennio FEDERICO RAHOLA, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso SANDRINE LEMAIRE, PASCAL BLANCHARD, NICOLAS BANCEL, GILLES BOETSCH, ERIC DROO (a cura di), Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show ANTONIO SCURATI, Televisioni di guerra. Il conflitto del Golfo come evento mediatico e il paradosso dello spettatore totale PIERRE CLASTRES, La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica YANN MOULIER BOUTANG (a cura di), L’età del capitalismo cognitivo. Innovazione, proprietà e cooperazione della moltitudine CIRCOLO PINK (a cura di), Le ragioni di un silenzio. La persecuzione degli omosessuali durante il nazismo e il fascismo (ristampa) ALESSANDRO DAL LAGO, AUGUSTA MOLINARI (a cura di), Giovani senza tempo. Il mito della giovinezza nella società globale ANTONIO CARONIA, Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi ARNOLD GEHLEN, Morale e ipermorale. Un’etica pluralistica, a cura di Ubaldo Fadini LORENZO CHIESA, Antonin Artaud. Verso un corpo senza organi

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PIERRRE LÉVY, Le tecnologie dell'intelligenza. Il futuro del pensiero nell’era dell’informatica PIERANGELO DI VITTORIO, Foucault e Basaglia. L’incontro tra genealogie e movimenti di base, Prefazione di Pier Aldo Rovatti CARTOGRAFIE MARIAPAOLA FIMIANI, Erotica e retorica. Foucault e la totta per il riconoscimento ALAIN BADIOU, Oltre l’uno e il molteplice. Pensare (con) Gilles Deleuze, introduzione e cura di Tommaso Ariemma e Luca Cremonesi MARIA TASINATO, Passeggiando con la mimesis. L’illusione teatrale tra antico e moderno ENZO TRAVERSO, Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica MASSIMILIANO MELILLI, Scritture civili. Conversazioni sul nostro tempo SANDRO CHIGNOLA (a cura di), Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979) GABRIELLA ROMANO, I sapori della seduzione. Il ricettario dell’amore tra donne nell’Italia degli anni ’50, Postfazione di Rosanna Fiocchetto MARGHERITA PASCUCCI, La potenza della povertà. Marx legge Spinoza, Prefazione di Antonio Negri GILLES MÉNAGE, Storia delle donne filosofe, a cura di Alessia Parolotto, Prefazione di Chiara Zamboni SLAVOJ -I=EK, America oggi. Abu Ghraib e altre oscenità ESTHER COHEN, Con il diavolo in corpo. Filosofi e streghe nel Rinascimento PIPPO RUSSO, L’invasione dell’Ultracalcio. Anatomia di uno sport mutante AGOSTINO PETRILLO, Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova ENZO TRAVERSO, Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco GILLES DELEUZE, FÉLIX GUATTARI, Macchine desideranti. Su capitalismo e schizofrenia PHILIPPE MESNARD, Attualità della vittima. La rappresentazione umanitaria della sofferenza UBALDO FADINI, Figure del tempo. A partire da Deleuze/Bacon ERVIN GOFFMAN, Stigma. L’identità negata ALESSANDRO DAL LAGO, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre BRUNO ACCARINO (a cura di), La bilancia e la crisi. Il linguaggio filosofico dell’equilibrio GILLES DELEUZE, Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, Introduzione e cura di Ubaldo Fadini (nuova edizione accresciuta) RANAJIT GUHA, GAYATRI CHAKRAVORTY SPIVAK, Subaltern Studies. Modernità e (post) colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra PAOLO VIRNO, Esercizi di esodo. Analisi linguistica e critica del presente LOÏC WACQUANT, Simbiosi mortale. Neoliberalismo e politica penale ALESSANDRO DE GIORGI, Il governo dell’eccedenza. Postfordismo e controllo della moltitudine (ristampa) MICHEL FOUCAULT, Raymond Roussel, Introduzione e cura di Massimiliano Guareschi ALESSANDRO DAL LAGO, La produzione della devianza. Teoria sociale e meccanismi di controllo (terza ristampa) ANDREA FUMAGALLI, CHRISTIAN MARAZZI, ADELINO ZANINI, La moneta nell’Impero, Prefazione di Antonio Negri MAURIZIO LAZZARATO, Lavoro immateriale. Forme di vita e produzione di soggettività FÉLIX GUATTARI, Piano sul pianeta. Capitale mondiale integrato e globalizzazione, Introduzione di Franco Berardi “Bifo” FRANCO BERARDI “BIFO”, Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione PHILIPPE ZARIFIAN, L’emergere di un popolo mondo. Appartenenza, singolarità e divenire collettivo

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FRANÇOIS ZOURABICHVILI, Deleuze. Una filosofia dell’evento MARIO PERNIOLA, Philosophia sexualis. Scritti su Georges Bataille JACQUES DERRIDA, Posizioni. Scene, atti, figure della disseminazione, a cura di Giuseppe Sertoli HANNAH ARENDT, Lavoro, opera, azione. Le forme della vita attiva, Introduzione e cura di Guido D. Neri (quarta ristampa) GILLES DELEUZE, CLAIRE PARNET, Conversazioni, Postfazione di Antonio Negri PAUL VEYNE, Michel Foucault. La storia, il nichilismo e la morale, a cura di Massimiliano Guareschi ADELINO ZANINI, Macchine di pensiero. Schumpeter, Keynes, Marx, Introduzione di Giorgio Lunghini AMERICANE MARIO CORONA, Un Rinascimento impossibile. Letteratura, politica e sessualità nell’opera di Francis Otto Matthiessen STEFANO ROSSO (a cura di), Un fascino osceno. Guerra e violenza nella letteratura e nel cinema JOHN COLLINS, ROSS GLOVER (a cura di), Linguaggio collaterale. Retoriche della guerra al terrorismo ROBERO CAGLIERO (a cura di), Fantastico Poe CYRIL LIONEL ROBERT JAMES, Marinai, rinnegati e reietti. La storia di Herman Melville e il mondo in cui viviamo, Postfazioni di Bruno Cartosio e Giorgio Mariani, Nota biobibliografica di Enzo Traverso GIORGIO MARIANI, La penna e il tamburo. Gli Indiani d’America e la letteratura degli Stati Uniti ROBERTO CAGLIERO, FRANCESCO RONZON (a cura di), Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese all’imperialismo americano OLIVIERO BERGAMINI, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati Uniti MARCO SIOLI, Esplorando la nazione. Alle origini dell’espansionismo americano TRACCE GLORIA BIANCHETTI, Voci del Mare. Melville, Conrad, Pratt JEAN-LUC NANCY, La città lontana, con una conversazione con l’autore a cura di Pierangelo Di Vittorio NANCY SCHEPER-HUGHES, Il traffico di organi nel mercato globale (ristampa) JEAN-BAPTISTE BOTUL, La vita sessuale di Immanuel Kant, Presentazione di Frédèric Pagès, Postfazione di Luca Toni OLIVIER RAZAC, Storia politica del filo spinato. La prateria, la trincea e il campo di concentramento (ristampa) DOCUMENTA LORENZO BERTUCELLI, MILA ORLIC´ (a cura di), Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento COSTANTINO DI SANTE, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952)

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GIULIETTA STEFANI, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere MICHAEL TREGENZA, Purificare e distruggere. I. Il programma “eutanasia” Le prime camere a gas naziste e lo sterminio dei disabili (1939-1941) JAVIER RODRIGO, Vencidos. Violenza e persecuzione politica nella Spagna di Franco RÉGINE ROBIN, I fantasmi della storia. Il passato europeo e le trappole della memoria COSTANTINO DI SANTE (a cura di), Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951)

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2008 per conto di ombre corte da Global Service - S. Giustino (PG)